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La sostenibilità e le imprese
Perché decidere di cambiare abitudini? Secondo Unioncamere, le aziende eco-investitrici superano le concorrenti in termini di fatturato, occupazione ed export.
di GIANLUIGI SALVAGNO, Economia d'impresa, Confindustria Trento
L'AGENDA 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, elaborata dall’Onu nel 2015, ha definito “un piano d’azione universale”, da esplicarsi entro il 2030, pensato “per le persone, il pianeta e la prosperità”. Il piano si articola in 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs), che fondano le proprie radici nelle tematiche sviluppate nelle ultime Conferenze Onu. Troviamo, quindi, azioni che insistono sulla sfera ambientale, sociale ed economica. È indubbio che siamo dinanzi ad una nuova chiave di lettura attribuita al concetto di sostenibilità, che si discosta dal passato. Nonostante l’Agenda sia stata sottoscritta da tutti i Paesi che siedono al tavolo Onu (193 contro i 208 Stati del globo terracqueo), solo l’Ue – 27 Stati – sembrerebbe seriamente intenzionata ad approcciarsi in maniera lungimirante e sistemica alla sostenibilità. Tra le strategie europee più apprezzabili messe in campo, fino ad oggi, è necessario analizzare la Direttiva UE 2014/95 (c.d. Nfrd). La Direttiva Nfrd, recepita in Italia con il D.Lgs. 254/2016, impone ad aziende, banche ed assicurazioni di grandi dimensioni di includere nei propri bilanci annuali alcune informazioni di carattere non finanziario, secondo gli SDGs.
Figura 1: Diagramma di Venn della sostenibilità. L’Ue ha stimato che quest’obbligo riguarderebbe approssimativamente 11mila imprese, di cui poco più di 200 in Italia. Il 21 aprile 2021, la Commissione europea ha approvato una proposta di aggiornamento della Direttiva Nfrd (c.d. Direttiva Csrd) che andrà ad ampliare la platea delle imprese obbligate alla dichiarazione non finanziaria, a partire dal 2024, via via fino al 2026, portando il numero complessivo di imprese coinvolte a 49mila, di cui poco più di 1.000 in Italia. Dati Eurostat del 2019 individuano circa 25.900.000 di imprese attive su tutto il territorio europeo (4.400.000 in Italia), che ci restituisce un’informazione importante congiuntamente ai dati precedenti: il 99,8% di imprese europee (il 99,98% di quelle italiane) non è investita dagli obblighi di rendicontazione, secondo la nuova Direttiva Csrd. Questo, però, non le esclude dal redigere un bilancio non finanziario volontariamente, soprattutto se queste stanno intraprendendo un percorso di crescita sostenibile. Restringendo la valutazione solo all’Italia, ConsumerLab, in uno studio dello scorso anno, ha stimato che solo lo 0,63% delle imprese con più di 10 addetti redige un bilancio di sostenibilità. La situazione non migliora se guardassimo le imprese con più di 20 addetti, raggiungendo l’1,76%. Anche cambiando direzione e guardando le più grandi, tra le 1.915 principali imprese italiane, Mediobanca riferisce che solo il 28,2% ha presentato un bilancio. I numeri sono decisamente bassi. Ma perché un’impresa dovrebbe decidere di cambiare le sue abitudini? Dovrebbe farlo solo come scelta etica? L’aspetto morale ha sicuramente il suo peso ma, facendo un ragionamento asettico, è la politica che sta andando in quella direzione. Anche le imprese che lavorano con la pubblica amministrazione si trovano - e si troveranno sempre più - ad aumentare le chances di aggiudicazione di una gara
Figura 2: L’Agenda 2030 si esplica in 17 SDGs, suddivisi in 169 “target” o traguardi.
quantunque siano più sostenibili delle concorrenti. Se un’impresa, poi, ha l’obbligo di redigere un bilancio di sostenibilità, sicuramente coinvolgerà gran parte degli attori della propria filiera per seguire il suo stesso percorso. A rafforzare la tesi del cambiamento, ci sono perfino alcuni studi che confermano la convenienza nell’intraprendere la strada della sostenibilità. Uno studio tra tutti, quello di Unioncamere, fotografa le performance aziendali tra il 2020 e il 2021 ed osserva migliori prestazioni delle imprese eco-investitrici rispetto alle concorrenti, in termini sia di fatturato, sia di occupazione che di export. Un’azienda, dunque, è posta dinanzi ad un bivio: può essere leader, imboccando nell’immediato una strada nuova o quasi, colma di rischi e di opportunità, o può essere follower, seguendo una strada già battuta da chi l’ha preceduta, a rischio basso e senza benefici, ma che le permetterà di pensarci ed investirci solo quando il mercato o la politica sceglieranno che i tempi saranno maturi.
LAVORO DIGNITOSO E CRESCITA ECONOMICA INDUSTRIA, INNOVAZIONE E INFRASTRUTTURE
Da dove ha origine l’idea di sostenibilità?
La sua origine è universalmente ricondotta al Rapporto Brundtland, uno studio dell’ottobre 1987 della Commissione Mondiale sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite (UNWCED) intitolato “Our common future”, con cui si pongono le basi dell’attuale significato. Il Rapporto evidenzia come le “sfide globali”, che il mondo si trova davanti - lotta alla povertà, sicurezza alimentare, tutela delle specie e degli ecosistemi… -, possono essere affrontate attraverso uno “sviluppo sostenibile”, un’espressione utilizzata per esprimere un concetto sempreverde: “assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”. Il Rapporto Brundtland, però, è stato il raggiungimento di una consapevolezza complessiva, costruito negli anni precedenti. La più significativa pietra miliare è indubbiamente la Conferenza Onu sull’ambiente umano, tenutasi a Stoccolma nel giugno 1972, che per prima ha spostato il baricentro delle “sfide globali” anche sulla sicurezza ambientale. Merita una menzione anche la “Carta Mondiale della Natura”, dell’ottobre 1982, un documento non vincolante, a cui va dato il merito di aver superato la riluttanza sulla salvaguardia ambientale, generatasi tra i Paesi Onu durante la Conferenza di Stoccolma.