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Massimo Fusillo
Massimo Fusillo
“Passioni commoventi, non feroci”: Mercadante e lʼestetica del melodramma
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Declinazioni del melodramma
Apparso per la prima volta nel 1972, il saggio epocale di Peter Brooks, The Melodramatic Imagination, ha individuato nel romanzo ottocentesco (Balzac, James) un immaginario di lunga durata, che scaturisce dal teatro e si irradia poi capillarmente nel cinema.1 In questa prospettiva il melodramma non è piú (o non è solo) un genere, ma è soprattutto un modo: un insieme di costanti formali e tematiche che, benché chiaramente storicizzate, attraversano diverse epoche e diversi generi. Questa nozione di modo è stata teorizzata da Gérard Genette, che la affianca al concetto piú ampio e astratto di tipo, e a quello piú storico e concreto di genere, dando vita a una triade tipicamente strutturalista.2 Da una prospettiva diversa, meno formalistica, Remo Ceserani e la sua scuola hanno a lungo lavorato sui modi piú significativi dellʼimmaginario occidentale: realistico, fantastico, patetico (questʼultimo molto vicino al nostro).3 Mi sembra però che il melodramma sia un caso particolarmente significativo di un modo che si trasforma ben presto anche in unʼestetica: i suoi temi caratterizzanti e le sue tecniche espressive molto peculiari vengono valorizzati come strategie tese a suscitare specifiche reazioni emotive (stupore, commozione). È unʼestetica dunque che privilegia
1 peTer BrookS, The Melodramatic Imagination. Balzac, Henry James, the Melodrama, and the
Mode of Excess (1976), with a new Preface, New York and Haven, Yale University Press, 1995; trad. it. di Daniela Fink, Lʼimmaginazione melodrammatica, Parma, Pratiche, 1992. 2 GérArd GeNeTTe, Genres, “types”, modes, «Poétique» 32, 1977, pp. 389-421; poi rielaborato in
Introduction à lʼarchitexte, Paris, Seuil, 1979; trad. it. di Armando Marchi, Introduzione allʼarchitesto, Parma, Pratiche, 1981. 3 remo CeSerANI, Guida alla studio della letteratura, Bari, Laterza, 1999, pp. 130-136; cfr. anche alcuni contributi nella collana Alfabeto letterario: pAolo ZANoTTI, Il modo romanzesco, Bari,
Laterza, 1998; SerGIo ZATTI, Il modo epico, Bari, Laterza, 2000 (il modo melodrammatico è rimasto purtroppo un titolo annunciato).
lʼeccesso, le passioni smodate, lʼemotività estrema: nuclei fondativi che alimentano la spettacolarità, i colpi di scena, i classici riconoscimenti; e animano storie che ruotano attorno ad opposizioni primarie, a polarità quasi manichee, come quella fra privato e pubblico, fra amore e figure del potere (in particolare padri reali e simbolici)
Benché si possano rintracciare antecedenti già nel teatro antico, in particolare nelle ultime tragedie sperimentali di Euripide, e in altre epoche come il barocco, il melodramma è comunque fortemente radicato nella piena modernità. Le sue origini sono legate alla grande frattura storica della Rivoluzione francese e alla sua desacralizzazioine del potere; in questo clima di «democrazia cognitiva» (Vittorini)4 si sviluppa un genere popolare e antirealistico, il mélodrame, che attinge pienamente dalla sensibilità romantica, e sperimenta registri stilistici ibridi, che vanno al di là della dicotomia classica fra tragico e comico. A partire da questo genere di grande successo sulle scene parigine, calato nel suo contesto storico e sociale, il modo melodrammatico si irradia ben presto verso altri generi: il romanzo realistico, pur essendo il realismo un approccio fondamentalmente antitetico; il romanzo gotico, che ha invece per statuto una propensione agli effetti truci e sensazionalistici; il teatro musicale, che usa spesso il melodramma come fonte diretta dei libretti, oltre a ripercorrere le sue costellazioni tematiche e formali; il cinema, in cui il mélo torna ad essere un genere allʼinizio ben riconoscibile, soprattutto nelle due fasi auree, gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, e diventa poi un modo pervasivo e sfuggente;5 e infine, per giungere ai giorni nostri, le serie TV, in cui appare come un filone pervasivo anche se poco riconoscibile (This is Us). In generale si può sostenere che il melodramma piú viene negato e rifiutato, piú riemerge in modo imprevedibile.
Lʼautocoscienza di Mercadante
Saverio Mercadante è sicuramente una delle figure che piú hanno contribuito a formare lʼestetica del melodramma in ambito musicale, anche se il suo ruolo resta ancora abbastanza misconosciuto. In particolare, è significativa la sua transizione da un neoclassicismo ricco di espressività (basta pensare alla Didone abbandonata, 1823) a un romanticismo pieno e maturo, per quanto sempre mediato da un ideale di compostezza classica, che trova il suo culmine in unʼopera della maturità, La Vestale (1840), a riprova che le due componenti non si sono mai escluse a vicenda. È un percorso che si può sintetizzare, come spesso è stato fatto, attraverso la formula del passaggio da Rossini a Verdi, a patto di evitare ogni stereotipo teleologico, e ogni visione lineare della storia. Non si tratta insomma di un progresso evolutivo, ma di un intreccio di modelli espressivi che subiscono metamorfosi complesse.
4 FABIo VITTorINI, Melodramma. Un percorso intermediale fra teatro, romanzo, cinema e serie tv,
Bologna, Patron, 2020, p. 11. 5 Sui problemi teorici e sul cinema italiano cfr. emIlIANo morreAle, Cosí piangevano. Il cinema mélo nellʼItalia degli anni Cinquanta, Roma, Donzelli, 2011.
Il decennio dal 1835 al 1845 è il periodo in cui la riforma di Mercadante si concretizza gradualmente: il compositore mostra una notevole autocoscienza del proprio percorso creativo, evidente soprattutto nella lettera inviata a Francesco Florimo il 1 Gennaio 1838, in cui rievoca la «rivoluzione principiata nel Giuramento», che consiste in una maggiore cura della «parte drammatica», dellʼazione complessiva, e dellʼinterpretazione.6 Sul piano strutturale Mercadante tende sempre di piú verso lʼunitarietà della composizione, e mostra uno spiccato senso del dramma; mentre sul piano musicale raggiunge una notevole opulenza espressiva, che non diventa però estrema, non compromette mai lʼequilibrio e la regolarità: è una forma classica che assume tinte espressioniste.
Mercadante giunge cosí ad elaborare una propria estetica del melodramma, che si concretizza soprattutto in un uso massiccio del concertato, luogo privilegiato di espressione dei conflitti drammatici e della ricchezza vocale e strumentale. È unʼestetica che troviamo sintetizzata in modo efficace in una lettera a Salvatore Cammarano dellʼagosto del 1839:
Passioni commoventi, non feroci, colpi di scena, varietà di genere, di forme, di mezzi da fare canti soavi e robusti, tinte dʼorchestra, cori originali, stravaganti, gran pezzi concertati, non arrabbiati tutti, anco cantabili.7
È una dichiarazione di poetica che parte dal nucleo fondamentale di ogni forma di melodramma, voler suscitare «passioni commoventi», per ribadire subito il limite classicheggiante entro cui vuole rimanere («non feroci»), e passare poi alle tecniche drammatiche ed espressive: spettacolarità, varietà di registri stilistici, persino stravaganza; ed infine al ruolo primario che spetta al concertato, che deve comunque restare nei limiti di una piacevole cantabilità. Per usare unʼefficace categoria freudiana, potremmo dire che lʼestetica di Mercadante è una formazione di compromesso fra eccesso melodrammatico e controllo classico della forma, fra passionalità smodata e dicibilità delle emozioni, fra slancio romantico e piacere del bel canto.
I turbamenti della rivalità amorosa: Il Giuramento
Dopo la Lucrezia Borgia di Felice Romani e Gaetano Donizetti (1833), Il Giuramento (1837) è la seconda opera italiana tratta da un dramma di Victor Hugo, quindi dallo scrittore che piú ha incarnato, anche a livello teorico (basta pensare alla prefazione al Cromwell), la rivoluzione romantica, e che ha contribuito non poco allʼestetica del
6 La Raccolta Florimo consta di ben 34 volumi divisi fra la Biblioteca del Conservatorio di San
Pietro a Majella e lʼArchivio storico; cfr. ANToNIo CAroCCIA, La corrispondenza salvata. Lettere di maestri e compositori a Francesco Florimo, Palermo, Mnemes, 2004. Per la lettera citata vedi SAN-
To pAlermo, Saverio Mercadante: biografia-epistolario, Fasano, Schena editore, 1985, pp. 178-179. 7 pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 203.
melodramma. Andato in scena per la prima volta nel 1835 alla Comédie Française, Angelo tyran de Padoue è un dramma in tre giornate che ha ispirato ben cinque adattamenti di teatro musicale, fra cui il piú famoso è La Gioconda di Amilcare Ponchielli: segno di una particolare consonanza fra questo testo e il melodramma musicale (come è noto, Mercadante ha avuto piú di una volta la sorte di firmare adattamenti che poi avranno realizzazioni famosissime, come Il reggente, tratto dalla stessa fonte de Il ballo in maschera: altro segnale di poetica condivisa).
Lʼedizione critica complanare della varie versioni di Angelo, curata da Elena Randi per Le Lettere, è uno strumento prezioso che mira a ricostruire la prima messinscena, soprattutto grazie al copione del suggeritore e alle varie testimonianze di schizzi, bozzetti, e recensioni.8 Hugo aveva pensato il testo direttamente per la messinscena, che curò fin nei minimi dettagli, svolgendo a tutti gli effetti il ruolo di regista: tutto il suo testo si orienta verso la visualità, come ha dimostrato una grande semiologa del teatro, Anne Ubersfeld.9 Per il nostro tema è importante sottolineare la specularità sociale e caratteriale che il dramma sviluppa fra le due protagoniste, la nobile Caterina Bragadini, moglie del tiranno di Padova, e lʼattrice Tisbe: due donne legate al protagonista Angelo, e accomunate dallʼamore per Rodolfo, dietro cui si nasconde il proscritto Ezzelino romano. I due ruoli furono affidati alle due attrici piú famose del tempo, Mademoiselle Mars e Madame Dorval, per la prima e unica volta assieme sulla scena in un confronto che fece storia. La duplicità è un tema che ossessiona lʼimmaginario romantico, soprattutto nellʼambito della letteratura fantastica; ma è anche un dispositivo che produce i conflitti dilaceranti cosí tipici del melodramma. Lo spettacolo di Hugo era tutto improntato a questa categoria, come sintetizza Elena Randi nella sua Introduzione storico-critica:
La specularità delle scenografie e della situazione luttuosa in esse rappresentata è solo uno dei molti elementi di binarietà o di duplicità presenti nel lavoro. Due anzitutto sono i personaggi femminili principali e due quelli maschili e sdoppiata è la loro personalità. Come provano le recensioni, la Tisbe di Mlle Mars conserva la voce melodiosa, mai urlata, tipica della grande attrice della Comédie, si muove poco in scena, pronuncia parole emotivamente forti, ma con un tono e movimenti contenuti, piuttosto composti. La Catarina di Mme Dorval è molto piú mobile, offre variazione di toni e di volume notevoli, sicché si realizza la paradossale situazione per cui il personaggio nobile è reso in modo piú infuocato, dinamico e acceso, quello plebeo in maniera piú trattenuta visivamente e “sonoramente”.10
8 VICTor HuGo, Angelo, tyran de Padoue, Edizione complanare e fonti per lo studio della prima messinscena, a cura di Elena Randi, con la collaborazione di Simona Brunetti, Franco Benucci, Barbara Volponi, Gessica Scapin, Firenze, Le Lettere, 2012. 9 ANNe uBerSFeld, Le Roi et le Bouffon. Etdue sur le théâtre de Victor Hugo de 1830 à 1839 (1974),
Paris, Corti, 2001 (edizione rivista). 10 eleNA rANdI, Introduzione storico-critica a Hugo, Angelo, tyran de Padoue cit., p. 26.
Il Giuramento di Mercadante riadatta in modo abbastanza drastico questo testo di partenza: cambia innanzitutto lʼambientazione, che dalla Venezia tanto amata dai romantici si sposta in Sicilia; ridimensiona poi in modo consistente la figura demoniaca di Homodei, e in generale lo sfondo politico in cui è calata lʼazione. Come accade spesso nella storia dello spettacolo, il melodramma musicale è piú atemporale di quello teatrale: una scelta dovuta in parte a problemi di censura e di pubblico, in parte alle differenze dei linguaggi. La critica ha sempre sottolineato il ʼtradimentoʼ del dramma di Victor Hugo, e ha cercato di motivarlo in vario modo: Philip Gossett attribuisce la responsabilità al neoclassicismo del librettista Gaetano Rossi, mentre Geoffrey Edwards sottolinea la scarsa adattabilità dellʼAngelo di Hugo.11 Credo che si debba superare del tutto il vecchio dogma della fedeltà: il teatro musicale ha dinamiche espressive del tutto diverse che non si possono tralasciare. Lʼessenzializzazione a cui giunge il librettista (che da un punto di vista estetico può anche risultare piú efficace rispetto alla prolissità di Hugo) mette a nudo il nucleo melodrammatico, i suoi conflitti violenti.
Lʼestetica del melodramma spicca particolarmente nel finale del primo atto, che si configura come «un blocco unitario ardito»12 per il suo imbastire i conflitti in forme poco prevedibili. È il momento cruciale del riconoscimento della rivalità amorosa: «Chi son? Chi son io? Tremate! | Rival vostra» (I.10), canta Elaìsa – la figura corrispondente alla Tisbe di Hugo, che qui però è dello stesso rango sociale elevato – rivolta a Bianca (nel libretto di Arrigo Boito lʼeffetto sarà ancora piú plateale: «il mio nome è la vendetta | ami lʼuomo che io amo»). Questo snodo drammaturgico catalizza in Elaìsa il conflitto tipicamente melodrammatico fra il desiderio di vendetta e la fedeltà alla memoria del padre: un conflitto che esplode al momento in cui, nel terzetto successivo alla presenza di Viscardo, Bianca le mostra lʼeffigie che prova che è stata lei a salvarle il padre. Tutto il lungo blocco drammaturgico si svolge nella stanza di Bianca allʼinterno del palazzo di Manfredo, che ha una grossa porta centrale e porte laterali, adatte a suscitare suspense: si avverte il piacere claustrofobico che caratterizza lʼimmaginario romantico in generale e lʼopera di Hugo in particolare (lo ha mostrato un saggio di Victor Brombert).13 Nel maestoso concertato finale tutti i personaggi si accumulano sulla scena (a differenza che nel dramma di Hugo): dopo il topico momento di sospensione e silenzio, si confrontano in un insieme complesso di a parte, dialoghi e monologhi, che trascende ogni verosimiglianza in nome dellʼeffetto melodrammatico, come faceva anche il quartetto iniziale, raggelato in un tableau vivant, tipica tecnica del mélodrame.
11 Cfr. erNeSTo pulIGNANo, Il “Giuramento” di Mercadante e Rossi, Torino, edT, 2007, pp. 28-29 per una sintesi del dibattito critico; il saggio offre anche unʼapprofondita analisi morfologica dellʼopera in confronto con il dramma di Hugo. 12 mATTeo SummA, Bravo Mercadante. Le ragioni di un genio, Fasano, Schena, 1995. 13 VICTor BromBerT, La prison romantique. Essai sur lʼimaginaire, Paris, Corti, 1975; trad. it. di
Aldo Pasquali, La prigione romantica. Saggio sullʼimmaginario, Bologna, il Mulino, 1991: il capitolo IX è interamente dedicato a Hugo.
Se il monumentale primo atto intesse i vari conflitti in un sistema complesso, gli altri due si focalizzano sul triangolo amoroso e sulla sofferta rinuncia di Elaìsa a favore della rivale: nel secondo atto è notevole lʼambientazione, a partire dalla quarta scena, in un recinto remoto circondato da cipressi e salici, che ospita le tombe di famiglia di Manfredo. In questo contesto gotico si svolge la scena cruciale fra le due donne, che sviluppa una paradossale sintonia e solidarietà fra le due rivali, secondo le dinamiche del desiderio triangolare messo a fuoco da Girard,14 potenziate da una musica di intensità estrema. Elaìsa salva Bianca dandole un narcotico al posto del veleno che si era impegnata a somministrare: questo secondo snodo drammaturgico provoca una morte apparente, un motivo di grande effetto spettacolare, che dalle tragedie romanzesche di Euripide e dai romanzi ellenistici e barocchi si irradia in tutta la narrativa avventurosa, e poi nellʼimmaginazione melodrammatica. È un motivo ambivalente: da un lato può avere una funziona antitragica, come nei romanzi dʼavventura, in cui lʼinganno e la frustrazione prodotta dal caso sono destinati a sciogliersi nel lieto fine; o una funzione ipertragica, quando lʼequivoco conoscitivo provoca morti reali, sentite come particolarmente tragiche perché frutto di un asincronismo, come nellʼarchetipo del Romeo e Giulietta, in cui lo svelamento della morte apparente arriva con pochi fatali minuti di ritardo, e come sarà anche nel Giuramento.
Il secondo atto termina con una scena di grande effetto spettacolare: Bianca che sviene fra le braccia di Elaìsa dopo aver ricevuto da lei il narcotico, e Manfredo che esce esultante, convinto di aver ucciso la moglie adultera. Il terzo si concentra invece, con notevole essenzialità. sul triangolo amoroso fra le due rivali e sul loro oggetto dʼamore comune, Viscardo. È dunque il punto culminante di quella scarnificazione del testo lussureggiante e polifonico di Hugo di cui abbiamo parlato allʼinizio: Rossi e Mercadante ne mettono a nudo il nucleo melodrammatico forte, a cui è dedicato interamente questo breve ultimo atto, uno dei primi nella storia dellʼopera a mostrare una rapidità e una densità di grande efficacia (diventerà una prassi sempre piú diffusa a fine Ottocento: basta pensare allʼultimo atto di Manon Lescaut di Puccini). La prima scena è dedicata a una piena focalizzazione emotiva con il personaggio di Elaìsa: il recitativo è composto da frasi paratattiche e spezzate da vari punti di sospensione, che dipingono, grazie a un intreccio forte fra testo e musica, la disperazione assoluta del personaggio, mentre lʼaria si rivolge piú topicamente alla madre morta, vero motore dellʼintreccio. Nella scena successiva ritroviamo uno dei nuclei portanti dellʼestetica del melodramma: il topos della donna abbandonata (che dalla poesia antica giunge fino a Madama Butterfly), estremizzato fino a un chiaro masochismo femminile, evidente già nel sacrificio per la rivale, e
14 reNè GIrArd, Mensonge romantique et vérité romanesque (1961), Paris, Hachette, 1999; trad. it. di Leonardo Verdi-Vighetti, Menzogna romantica e verità romanzesca. La mediazione del desiderio nellʼarte e nella vita, introduzione di Marco Dotti, postfazione di Luca Doninelli, Milano,
Bompiani, 2021.
ora spinto fino alla richiesta di essere uccisa:
VISCArdo (quasi fuori di sé) La sua spoglia!... Che ne feste?... E dovʼè?... Chi a me lʼinvola?... Non sapete chʼè la sola... sí... la sola pe ʼl mio core!...
elAÌSA È la sola!... dio!... la sola!...
VISCArdo Che anche morta, adorerà.
elAÌSA (disperata) Vedi... io moro... il mio dolore!... Ah! tu sei senza pietà. Sí... lo sappi... ne fremi... delira... Io lʼodiai... tʼinvolai la diletta, esultai nel compir la vendetta... Questa mano il veleno le dié. Or la vendica... sfoga quellʼira... chiede Bianca il mio sangue da te.
VISCArdo Mia ragione sʼoffusca... delira... dove sei!... Ti perdei... mia diletta... triste vittima dʼempia vendetta... e ancor vive chi morte le dié! Freno in sen non ha piú la giustʼira: abbi morte, spietata, da me. (alza il pugnale e la ferisce)
elAÌSA (cade ferita) Ah!... Qui... al core. Cosí bramai... (in questo sʼode la voce di Bianca dallʼalcova)
BIANCA Viscardo! ove son io?...
VISCArdo (si volge) Ah! qual voce!
BIANCA (aprendo il cortinaggio) Viscardo!...
VISCArdo (accorrendo) Ella! gran dio! Bianca! è vero?... Tu vivi?... Come? Da chi salvata?
elAÌSA Da me... per te.
La foga autodistruttiva si accende al momento in cui Viscardo dichiara che Bianca è il suo unico oggetto dʼamore: Elaìsa allora gli ricorda lʼatto che ha compiuto e lo sprona esplicitamente alla vendetta («Or la vendica... sfoga quellʼira... | chiede Bianca il mio sangue da te»). Viscardo cade subito nel delirio omicida, compie lʼatto fatale, che viene accolto con chiara soddisfazione da Elaìsa: «Cosí bramai», con autentica pulsione di morte. Lʼasincronismo tragico scatta immediatamente dopo, con il colpo di scena di Bianca che si risveglia, e con lʼefficace poliptoto con cui già nel testo di Victor Hugo viene sintetizzato lʼintreccio e la scelta melodrammatica e autodistruttiva della protagonista: «da me… per te…», verso molto amato da tutte le grandi attrici che hanno affrontato lʼAngelo di Hugo. Segue la breve benedizione di Elaìsa in punto di morte alla coppia primaria che sopravvive, e che commenta allʼunisono «Per me tu mori, oh Dio | vittima dellʼamor». Una concentrazione densissima, in poche battute, di desiderio triangolare, rinuncia eroica e masochistica, e ironia tragica dellʼasincronismo.
Agnizioni e ambivalenze: Il Bravo (Milano, Teatro alla Scala, 1839)
Se nel Giuramento lʼambientazione di Hugo nella città-mito del romanticismo era stata cancellata da Rossi e Mercadante, nel Bravo (1839) essa ritorna con tutta la sua forza simbolica: Venezia incarna cosí il dispotismo aristocratico, e una politica perversa e demonica. Questa volta la fonte è direttamente un mélodrame: La Vénitienne di Auguste Anicete-Bourgeois (1834), scrittore della cerchia di Dumas: un testo vagamente ispirato da James Fenimore Cooper e dal suo romanzo The Bravo. A Venetian Story (pubblicato a Parigi nel 1831), scaturito dal viaggio in Italia e focalizzato sul tema politico. La bibliografia critica su Mercadante e su questʼopera non mostra in genere una conoscenza diretta del Bravo di Cooper, che in effetti si distingue nettamente dai suoi adattamenti per la piena positività del protagonista, vittima totale del potere in ogni sua forma.
Il protagonista dellʼopera di Mercadante è invece una figura ambivalente, ai limiti dello sdoppiamento: è un sicario che lavora per il governo di Venezia, e quindi è lo strumento con cui il potere attua la sua violenza intrinseca; ma ha accettato questo
lavoro solo per salvare la vita a suo padre. È insomma una figura negativa, legata al male nei suoi atti e nel suo mestiere, ma che ha motivazioni positive e affettive dietro questa sua condizione. Il passato tenebroso, il fondo oscuro che si cela dietro la maschera del ruolo politico affiorano pian piano lungo tutto il complicato intreccio, che sfrutta anche un motivo tipico dellʼuniverso tematico del doppio, lo scambio di identità. Lo svelamento progressivo della verità ruota attorno ad alcuni colpi di scena, nella forma di un antico procedimento amato dal teatro antico ed esaltato da Aristotele: il riconoscimento, su cui Piero Boitani ha scritto un saggio appassionato, che ne insegue le declinazioni da Omero a Joyce.15 È un procedimento sicuramente spettacolare, che mira a stupire il pubblico e a risolvere brillantemente gli intrecci piú complicati; ma ha anche un forte valore simbolico e metateatrale: segna lʼesplodere della conoscenza nella carne e nella passione dei personaggi, e rimanda nello stesso tempo al meccanismo primario della ricezione, con cui il pubblico riconosce il proprio mondo cognitivo ed emotivo.
Una prima agnizione inconscia ha luogo nel primo Atto: tornato da una solita giornata «tenebrosa», il protagonista evoca un passato felice nella sua aria di sortita, di grande effusione melodica, e riceve poi la visita di un proscritto, Pisani, che gli chiede di assumere la sua maschera di Bravo per due giorni: richiesta che si articola in un duetto tripartito, in cui lo svelamento si intreccia con unʼattrazione perturbante. Nel complesso concertato che chiude lʼatto, il Bravo, che ora prova il piacere dellʼanonimato, si slancia a proteggere Violetta, la giovane orfana genovese il cui canto fuoriscena aveva intervallato lʼaria di sortita di Foscari, lʼantagonista, e che ora compare come vittima in cerca di sostegno. Il rapporto fra la ragazza e il Bravo assume subito le caratteristiche di un rapporto fra padre e figlia, il che prelude al riconoscimento effettivo; e si svilupperà ulteriormente il giorno seguente, nel secondo atto, quando al risveglio il Bravo racconterà nel dettaglio a Violetta il suo passato, il suo dilemma impossibile, tipicamente tragico e tipicamente melodrammatico, che è alla base della sua vita infernale; una scena a due che avrà un influsso sul Rigoletto, soprattutto per il senso di oppressione che grava sulla vita dei due personaggi:
BrAVo Tranquillo, beato, dʼunʼalma, dʼun core un figlio viveva col suo genitore: entrambi accusati quel padre ed il figlio son tratti dinanzi deʼ Dieci al consiglio. Le prove fur vane di loro innocenza; quei giudici infami segnar la sentenza. Per sempre quel figlio proscritto allʼesilio, il padre al patibolo da lor si dannò.
15 pIero BoITANI, Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento in letteratura, Torino,
Einaudi, 2014.
VIoleTTA Né speme restava di vita?
BrAVo Una sola.
VIoleTTA E quale?
BrAVo Tremenda. Egli un patto ascoltò. Quel tetro consiglio chiedeva un mortale di volto mentito, di servo pugnale: a lui si propose di sangue il mercato, fossʼei lʼassassino, lo schiavo giurato... Un bivio ferale gli poser dinanzi, qui un padre che vive, là infamia ed orror.
VIoleTTA Ed egli?
BrAVo Del padre udí lʼultima ora. Il palco egli vide... salvò il genitor... Divenne colpevole dinanzi allʼeterno, la vita chʼei vive, sʼè resa un inferno... Ma il vecchio suo padre ei può riveder! A lui non avanza che questo piacer. Ma lʼora… lʼora è questa. Figlia, per poco resta. Non déi temer.
Dopo questo momento di introspezione, empatia e legame solidale, è il finale del secondo atto il momento culminante dellʼestetica del melodramma: abbondano infatti riconoscimenti, colpi di scena, spettacolarità, passioni smodate, nonostante le intenzioni dʼautore. Si tratta di una festa tragica, un interessante topos operistico messo a fuoco da Francesco Orlando:16 è un ballo mascherato a casa di Teodora,
16 FrANCeSCo orlANdo, Festa corale e pene personali: una costante operistica, con una risposta di Pierluigi Pietrobelli, in La letteratura e le altre arti, a cura di Massimo Fusillo e Marina Polacco, «Contemporanea» 3, 2005, pp. 33-39; ora in Id., Su Wagner e altri scritti musicali, a cura di Francesco Fiorentino e Luca Zoppelli, postfazione di Luciano Pellegrini, Pisa, Pacini,
donna misteriosa di cui si è innamorato a suo tempo Manfredi, ora invaghito di Violetta. Durante la festa il Bravo svela che Violetta è la figlia di Teodora, suscitando un riconoscimento pubblico e plateale, che sfocia in un concertato di grande bellezza teatrale e musicale: Carli Ballola vi riscontra infatti un «superbo slancio melodico», una «tumultuosa stretta», una «vocalità ʼespressionisticamenteʼ irrigidita in note ribattute, aggressivi scarti di registro e violenti impennate».17 Turbata dal ritrovamento inaspettato della figlia, Teodora vorrebbe interrompere la festa, ma i suoi ospiti irridono il suo dolore: la donna allora inveisce con violenza contro il mondo degli aristocratici e si vendica appiccando il fuoco al palazzo; e lʼincendio costituisce lʼimprevedibile finale di un atto particolarmente ricco di colpi di scena. Teodora è dunque un personaggio femminile anomalo (madre viva, e non morta e rievocata con rimpianto, come succede il piú delle volte nellʼopera): sfida ʼvirilmenteʼ la società, mentre Violetta appare la topica vittima angelicata del melodramma.
Durante il concertato, che, come dʼobbligo, dà spazio ai turbamenti di tutti i personaggi coinvolti, secondo quella poetica dello stupore di cui parla Brooks, il Bravo si mostra turbato di fronte alle sofferenze di Teodora: è la seconda agnizione inconscia che prelude al riconoscimento reale, una tecnica che sembra la cifra di questo melodramma iperbolico. Dopo un duetto fra madre e figlia, simmetrico a quello con il padre (in entrambi i casi si rievoca un passato oscuro), con il terzo atto si raggiunge il vertice delle strategie di riconoscimento: Teodora si rivela essere la moglie che il Bravo credeva di aver ucciso perché adultera, e che invece era innocente (cʼera stato un accenno a questo evento a inizio dellʼopera); il ricongiungimento fra i due sposi avviene fra le braccia della loro figlia ritrovata, in unʼeffusione melodrammatica particolarmente accesa. Violetta parte con Pisani, il proscritto che aveva scambiato lʼidentità con il Bravo nel primo atto: la coppia di amanti giovani viene benedetta dai due genitori di lei appena ricongiunti, ma il lieto fine temporaneo, segnato comunque da auspici funesti (il cielo che si oscura) è turbato dallʼultima agnizione ambivalente: il Bravo è costretto a svelare la sua funzione di sicario, e riceve dal Consiglio un ultimo terribile incarico per salvare la vita di suo padre: uccidere entro unʼora Teodora, invisa al potere aristocratico dopo lʼincendio e lʼinvettiva alla festa. Carlo (il nome del Bravo) si trova cosí nel piú tipico conflitto tragico insolubile: scegliere fra lʼamore paterno e lʼamore per la donna amata appena ritrovata, conflitto risolto con un altro colpo di scena imprevisto, il suicidio di Teodora. Con il ritmo incalzante e accelerato dei finali melodrammatici piú inverosimili (penso al Trovatore), arriva subito dopo la notizia che il padre del Bravo è morto, per cui il protagonista è libero dal patto con il Consiglio. Ancora dunque un caso eclatante di asincronismo tragico, che visualizza lʼinsensatezza di un mondo dominato dal caso e da forze oscure incontrollabili.
2020 (I libri dellʼAssociazione Sigismondo Malatesta. Studi di teatro e spettacolo), pp. 241-254. 17 GIoVANNI CArlI BAllolA, Mercadante e “Il Bravo”, in Il melodramma italiano dellʼOttocento.
Studi e ricerche per Massimo Mila, Torino, Einaudi, 1977, p. 393.
Fra le opere piú note della ricca produzione di Mercadante, Il Giuramento e Il Bravo ci mostrano quanto sia potentemente sviluppata lʼestetica del melodramma nella fase matura della sua creatività, e in svariati nuclei tematici ed espressivi, fra cui spiccano il desiderio triangolare, il masochismo femminile, il riconoscimento spettacolare, lʼasincronismo tragico. Nuclei che mirano a produrre reazioni di forte coinvolgimento emotivo, che si infiltrano e un poʼ trasformano, anche contro i progetti del compositore, la compostezza e la compattezza della forma.