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Saverio Lamacchia
Saverio Lamacchia
«Un ghiribizzo stranissimo è quello modernamente creato di adoprare in unʼopera due primi soprani». Primedonne e regine ne Le due illustri rivali
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Preambolo: unʼopera importante e di successo
Le due illustri rivali di Saverio Mercadante andarono in scena per la prima volta il 10 marzo 1838 al teatro La Fenice di Venezia, su libretto del veterano Gaetano Rossi. Il successo fu notevole, come rivelano recensioni e cronache dei giorni seguenti:
finisce lʼopera, seguita da un furore di acclamazioni e di molte e molte evocazioni sul palco scenico. In pieno si contano almeno venti evocazioni che vollero sul proscenio il maestro o solo o coʼ suoi cantanti: insomma tutto fu un fanatismo dal principio al fine […] Dopo la terza rappresentazione Mercadante fu accompagnato dal teatro alla sua abitazione fra il chiaror delle faci e gli evviva della moltitudine.1
Piú compiuto trionfo non si ottenne mai da maestro, e il Mercadante, fin allʼultima rappresentazione, dovette mostrarsi piú volte, fino a quattordici in una sera, sul palco.2
Della musica […] attestano concordi voci essere questa un nuovo e prezioso dono, un capolavoro da gire al paro del Giuramento; notansi in essa magniloquenza dʼarmonie, soavi melodie, intreccio artistico di parti, andanti e larghi pieni di
1 «Il corriere dei teatri» 25, 28 marzo 1838, pp. 98 e 99. 2 «Gazzetta privilegiata di Venezia», 22 marzo 1838: cfr. <http://www.artmus.it/public/om/ indice/articoli/idgiornali/1/anno/1838> (ultima consultazione 23 luglio 2021). Cit. anche in
ClemeNS rISI, Auf dem Weg zu einem italienischen Musikdrama: Konzeption, Inszenierung und
Rezeption des “melodramma” vor 1850 bei Saverio Mercadante und Giovanni Pacini, Tutzing,
Schneider, 2004, pp. 8-9 (pure questa recensione attesta che il compositore «fu accompagnato a casa con torcie accese, al suono di musicali strumenti e da un immenso corteggio dʼammiratori e dʼamici»).
sentimento e dʼeffetto, istrumentale vigoroso ed eguale, novità negli accordi, finalmente drammatica verità nellʼespressione del concetto poetico. Forse il minore fra tanti pregi è lʼispirazione nelle cabalette e nelle strette; ma lʼarte compensa in pieno il difetto.3
La vide e lʼapprezzò il giovane e già celebre Franz Liszt: «Cʼest une partition écrite avec habileté et conscience; plusieurs morceaux dʼensemble en sont vraiment remarquables: aussi le succès a-t-il été complet. Les derniers ouvrages de Mercadante sont sans contredit les mieux écrits pensées et les mieux pensés du répertoire actuel».4 Lʼopera circolò per almeno dieci anni, come attestano i numerosi libretti a stampa a noi noti. Fu un melodramma di rilievo in una fase importante della carriera di Mercadante: esattamente un anno prima (11 marzo 1837) era andato in scena per la prima volta alla Scala Il giuramento, il piú grande successo della sua carriera; esattamente un anno dopo (9 marzo 1839), di nuovo alla Scala, nacque Il bravo. Le due illustri rivali sono una delle non molte opere di Mercadante riprese a teatro ai nostri tempi: nel dicembre 1970, in occasione del centenario della morte e nello stesso teatro La Fenice dove nacque; il duetto finale de Le due rivali fu inciso in un disco antologico nel 1978 da due star come Renata Scotto e Mirella Freni.5
Questo contributo sʼincentrerà sulla drammaturgia de Le due illustri rivali, determinata in buona parte dal cast a disposizione di Mercadante: come sempre, del resto, ma con alcune particolarità che si metteranno in rilievo.
Un soggetto comune, una drammaturgia singolare
Il soggetto de Le due illustri rivali è comunissimo, basandosi sulla rivalità in amore di due donne («La loro rivalità, come ben sʼimmagina, trattandosi di libretto dʼopera, non è altra cosa che rivalità dʼamore»),6 come tante altre opere coeve. Piú nello specifico, ne Le due illustri rivali una primadonna/regina ama il primo tenore, il quale “osa” amare unʼaltra, con lʼeffetto di scatenare la gelosia furente della regina: un
3 «Il Figaro. Giornale di Letteratura, Belle Arti, Critica, Varietà e Teatri» 6/22, 17 marzo 1838, p. 88.
4 Lettre dʼun bachelier ès-musique à M. le directeur de la “Gazette Musicale”. De lʼétat de la musique en Italie, in FrANZ lISZT, Sämtliche Schriften, I (Frühe Schriften), a cura di Rainer Kleinertz e
Serge Gut, Wiesbaden, Breitkopf & Härtel, 2000, p. 280 (scritto pubblicato originariamente nella «Revue musicale. Journal des artistes, des amateurs et des théâtres» 6/13, 28 marzo 1839, pp. 101-105). 5 Registrazione effettuata a Londra presso la Walthamstow Assembly Hall, luglio 1978 (Decca).
Per quanto riguarda la bibliografia specifica sullʼopera, cfr. pIero mIolI, Tradizione melodrammatica e crisi di forme nelle “Due illustri rivali” di Saverio Mercadante, «Studi musicali» 9/2, 1980, pp. 317-328 e rISI Auf dem Weg zu einem italienischen Musikdrama cit., ad ind. 6 «Teatri, Arti e Letteratura» 16/735, t. 29, 29 marzo 1838, p. 36.
carattere veemente questʼultimo, contrapposto a quello dʼuna rivale in stato di soggezione, debole e indifesa (almeno in apparenza). Bianca regina di Navarra (interpretata da Carolina Ungher) ama il figlio dʼun profugo francese, Armando di Foix (Napoleone Moriani) che ama, riamato, Elvira (Eugenia Tadolini), figlia di Gusmano, principe di Pardos (Ignazio Marini). Ungher e Tadolini (soprani), Moriani (tenore) e Marini (basso) furono, comʼè noto, tutti interpreti al massimo livello, in quegli anni.7 È una fabula frequente, con minimi aggiustamenti, almeno dallʼElisabetta, regina dʼInghilterra di Rossini (1815), fino a buona parte delle “opere delle regine inglesi” di Donizetti: Il castello di Kenilworth (1829),8 Anna Bolena (1830),9 Maria Stuarda (1834),10 Rosmonda dʼInghilterra (1834),11 Roberto Devereux (1837);12 e Il conte di Essex13 di Mercadante (1833), tratto dalla medesima fonte di Roberto Devereux, Élisabeth dʼAngleterre di Jacques-François Ancelot (1829). In queste opere le rivali possono essere due soprani (come nelle Due illustri rivali), o anche un soprano e un mezzosoprano/contralto: negli anni 1830 non si era ancora standardizzata la differenziazione vocale tra le due, come sarà negli anni verdiani (soprano, amorosa vs mezzosoprano, rivale). Lo attesta, ad esempio, Il giuramento: Bianca, contralto (prima interprete, Marietta Brambilla), è la consorte dolce e timorosa del tenore Viscardo (Francesco Pedrazzi); Elaìsa, soprano, è la rivale (ovvero la consorte mancata: Sofia Schoberlechner), con un carattere opposto, forte, risoluto, vendicativo. Tantʼè vero che alla fine Elaìsa avvelena Bianca.
Quasi sempre la regina è combattuta, e deve scegliere, tra amore e dovere (tra Amore e maestà, volendo richiamare il fortunatissimo libretto di Antonio Salvi del secolo precedente),14 cioè tra le ragioni del cuore, spesso in contrasto con la ragion
7 Si vedano le recenti o recentissime voci nel «Dizionario biografico degli Italiani», anche online (<https://www.treccani.it/biografico/elenco_voci/a> – ultima consultazione 23 luglio 2021):
Marini (2008) e Savorani Tadolini (2018) a cura dello scrivente, Moriani e Ungher a cura rispettivamente di Francesco Lora (2012) e Ruben Vernazza (2020). Come sempre i nomi degli interpreti compaiono nel libretto a stampa: le due | IlluSTrI rIVAlI | melodrAmmA IN Tre
ATTI | dA rAppreSeNTArSI | Nel NuoVo | GrAN TeATro lA FeNICe | Nel CArNoVAle e QuAdrAGeSImA 1837-38 | [fregio] | Venezia | TIpoGrAFIA molINArI edITrICe | 1838. 8 Elisabetta (interpretata da Adelaide Tosi, soprano) vs Amelia (Luigia Boccabadati, soprano). 9 In questo caso però le due donne, Anna (Giuditta Pasta, soprano) e Giovanna Seymour (Elisa
Orlandi, mezzosoprano) amano il basso (Enrico VIII, Filippo Galli) e non il tenore. 10 Maria Stuarda (Giuseppina Ronzi De Begnis, soprano) vs Elisabetta I (Anna Del Sere, mezzosoprano). 11 Rosmonda (Fanny Tacchinardi Persiani, soprano) vs Leonora (Anna Del Sere); la primadonna in questo caso è la “rivale” (lʼamante del re) vs la regina. 12 Elisabetta I (Ronzi De Begnis) vs la duchessa Sara (Almerilda Granchi, mezzosoprano). 13 Altro caso in cui la primadonna è la rivale della regina: Adelaide Tosi, la duchessa, vs Elisabetta I (Matilde Palazzesi, soprano) 14 A dimostrazione appunto di quanto fosse antico tale soggetto, che rinverdí negli anni della
di stato. E può capitare, in questi anni di accesa e focosa temperie romantica, che la regina trascuri i doveri del trono a causa degli affetti privati: il che può essere un problema, anche dal punto di vista della occhiuta censura coeva (lo vedremo alla fine).
Se ne Le due illustri rivali il soggetto non è affatto singolare, la drammaturgia lo è senzʼaltro. Lo è perché non cʼè una sola protagonista femminile (la regina), ma ce ne sono due, di pari importanza e di pari spessore drammatico (anzi, come vedremo, se cʼè una che primeggia è la rivale della regina). Anche il titolo è singolare ed eloquente, proprio perché le due nobildonne vi sono affiancate. La rivalità è immediatamente tematizzata, a differenza delle ʼopere delle regine inglesiʼ, e piú in generale delle opere con due rivali in amore; in queste ultime normalmente cʼè una protagonista indiscussa: quella che sta nel titolo. Ancor piú rilevante, quanto alla drammaturgia: la tipica conclusione di tali opere è il rondò della primadonna eponima, mentre Le due illustri rivali, coerentemente, si concludono con un ampio duetto delle due primedonne.
Le peculiarità de Le due illustri rivali furono rilevate, in buona parte, dalla stampa coeva; particolarmente interessante la cronaca apparsa nel «Corriere dei teatri» del 28 marzo 1838. Il recensore sottolinea esattamente quanto ho evidenziato, come anche il problema concreto che deve affrontare il compositore con due primedonne di eguale importanza nel cast.
Un ghiribizzo stranissimo, che osta precisamente alle risorse dellʼarte, e che spesso diventa causa dʼimbarazzi e discrepanze assai dispiacevoli, è quello modernamente creato di adoprare in unʼopera due primi soprani: due primi soprani ebbe per la sua anche Mercadante. Una premura non condannabile pel proprio credito è ben naturale che desti in due primedonne, poste cosí lʼuna dirimpetto allʼaltra, un fervido senso di gelosia sulla maggiore o minore importanza delle rispettive parti, sulla sospettata predilezione o dal poeta sentita, o dal maestro, o da entrambi, sullʼinteresse infine di non far lʼinferiore delle due figure; ed una tal gelosia deve con effervescenza straordinaria svilupparsi in una virtuosa che sorgere si veda in faccia la gigantesca, la potenza magica della Ungher. Se condotta ad un tale conflitto nessun mezzo trascurasse per difendervisi la Tadolini, chi sarà che le faccia carico? […] Il titolo dellʼopera era Bianca di Navarra; Bianca è dunque la protagonista, la vera prima donna, e lʼaltra? Lʼaltra sarà un personaggio subalterno per certo, e se tale anche non fosse, il solo titolo qualifica da sé stesso la preminenza; dove sono due prime donne questo titolo non è tollerabile. Il titolo tollerabile sarà perciò le
Restaurazione. Amore e maestà fu messo in musica per la prima volta nel 1715 da Giuseppe Maria Orlandini, si segnala come uno dei pochi drammi per musica settecenteschi con finale tragico ed ebbe poi unʼenorme fortuna per tutto il secolo XVIII. Cfr. reINHArd STroHm, Dramma per musica. Italian Opera Seria of the Eighteenth Century Music, New Haven, Yale University Press, 1997, pp. 164-198 (“Amore e maestà” and the “Funesto Fine”).
Due rivali, perché Bianca in concorso con Elvira dedica i suoi affetti allo stesso Armando. Il mutamento si accetta, ma non cosí semplice: Due Rivali! Qui ci vuole qualche epiteto dignitoso, perché due rivali possono essere anche due serve, due villanelle, due cittadine. [...] Bianca è una... regina. Ed Elvira? Una... Principessa. – Bella rivalità! La regina è tutto, senza dubbio, la regina fa tutto, e la principessa è la vittima. Già pur troppo cosí deve essere, ma la vittima sia almeno una regina ancor essa. – Cosí non è, anzi è tutto il contrario, perché quanto è Bianca in condizione superiore ad Elvira, questa è alla rivale tanto superiore in amore. Bianca è regina disprezzata, Elvira è principessa amata, e cosí una prerogativa compensa lʼaltra. [...] [Ne discende che] Il maestro ha la bilancia sul cembalo; le sue note sono come le palline da schioppo, tante in un piatto, tante nellʼaltro. Ma che razza di note, dove, come collocate? Chi canta il gran duetto col tenore? – Tutte e due. – Come tutte e due? Dunque vi è soltanto un terzetto, dunque non vi è duetto fra soprano e tenore? - Nessuno di questi dunque; Bianca ed Elvira hanno ciascuna un gran duetto con Armando. E lʼultimo pezzo qual è dei soprani che lo canta? Tutti e due [...] né lʼuna né lʼaltra canta il solito rondò, lʼopera finisce con un duetto delle due donne. E quale delle due ha il maggior numero di pezzi? Di entrambe i pezzi sono eguali in numero, in lunghezza, in quantità di note pesate sulla bilancia, comprese quelle degli strumenti; non vi è da questa o da quella parte né una botta di tamburlano, né unʼoscillazione di piatti, né uno scroscio di trombetta di piú, tutto è misurato ed equilibrato allo scrupolo: il poeta ha preso la stessa misura per le parole, se non isbaglio perfin per le sillabe.15
Ci sono qui tanti spunti che meritano di essere approfonditi; partendo dal fondo, il numero dei pezzi affidato ai due soprani in realtà non è lo stesso, cosí come non è proprio vero che lʼopera finisce col loro duetto. Lo vedremo; ma prima di tutto è utile indagare sul come si arrivò – e per opera di chi – al singolare affiancamento di due prime donne del calibro di Ungher e Tadolini.
La genesi della stagione, la scelta del cast, la rivalità con Donizetti
Comʼè ben noto, e come confermano le vicende di cui qui si parla, alcune scelte di fondo riguardanti la drammaturgia operistica non erano di esclusiva pertinenza del compositore e del librettista, ma coinvolgevano altre parti in causa, come i cantanti e chi li sceglieva, ovvero lʼimpresario e i responsabili del teatro committente. Mercadante a Venezia si trovò a lavorare col cast ingaggiato da Alessandro Lanari, lʼimpresario che ebbe lʼappalto della stagione da parte della Presidenza del Gran Teatro La Fenice.
Invero, tanto lʼappalto a Lanari quanto la definizione del cast si realizzarono in seguito a vicende altalenanti, che conviene qui riassumere; ci si basa sulle lettere
15 «Corriere dei teatri» cit., pp. 97-98.
dellʼimpresario scambiate con Mercadante (relativamente poche in nostro possesso) e con Donizetti (molte di piú, e piú utili per comprendere anche lʼopera nuova di Mercadante).16 Donizetti era presente anchʼegli alla Fenice: compose per lʼoccasione Maria de Rudenz, che andò in scena il 30 gennaio 1838. Proprio la compresenza di Mercadante e Donizetti costituí uno dei punti di maggiore interesse: erano “due illustri rivali”, nel senso che in quel periodo si contendevano la palma del primo compositore dʼItalia, in particolare dopo il 1835 (anno della morte di Bellini e, secondariamente, della momentanea battuta dʼarresto della carriera di Giovanni Pacini).17 Se il piú giovane Donizetti vinse la guerra per il primato assoluto, questa battaglia veneziana la vinse Mercadante: esattamente allʼopposto de Le due illustri rivali, Maria de Rudenz fu un insuccesso cocente e segnò una svolta nella biografia artistica del bergamasco; fu infatti lʼultima sua opera scritta per La Fenice, lʼultima per Lanari, lʼultima per la Ungher.18
Mercadante si mise in viaggio per Venezia il 2 gennaio 1838, come sappiamo da una lettera a Salvadore Cammarano del giorno prima.19 Ma le trattative con Lanari risalivano allʼestate del 1836, ben prima che questʼultimo avesse la certezza di essere lʼimpresario di quella stagione;20 tantʼè vero che Mercadante, piú dʼun anno dopo (9 ottobre 1837) scrisse al conte Giuseppe Boldú, podestà di Venezia e presidente della Fenice, per avere conferma della nomina di Lanari e, di conseguenza, dellʼobbligo di comporre lʼopera nuova per i cantanti ingaggiati dallʼimpresario: Ungher, Tadolini, Moriani, Marini e Giorgio Ronconi (baritono, che poi fu impiegato nella Maria de Rudenz ma non ne Le due illustri rivali; tutti furono messi a contratto per lʼintera stagione). Ebbe immediata risposta positiva da Boldú.21 Dunque – va sottolineato
16 Cfr. Jeremy CommoNS, Una corrispondenza tra Alessandro Lanari e Donizetti, «Studi donizettiani» 3, 1978. Altre lettere di rilievo sono contenute nellʼ“Archivio dellʼimpresa teatrale Lanari” della Biblioteca nazionale centrale di Firenze: cfr. mArCello de ANGelIS, Le carte dellʼimpresario. Melodramma e costume teatrale nellʼOttocento, Firenze, Sansoni, 1982, in particolare le pp. 199-206 (Vertenza Mercadante). 17 Cfr. la ʼvoceʼ dello scrivente nel «Dizionario biografico degli Italiani» online (<https://www. treccani.it/enciclopedia/giovanni-pacini_%28Dizionario-Biografico%29/> – ultima consultazione 23 luglio 2021). 18 Sulla rivalità tra Mercadante e Donizetti rimando al contributo di Paolo Fabbri in questo volume. Subito dopo la caduta di Maria de Rudenz Mercadante si lasciò andare anche a considerazioni ben poco amichevoli nei confronti di Donizetti: cfr. la lettera a Francesco Florimo, non datata, in SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario, Fasano, Schena, 1985, pp. 181-184. 19 È la ben nota missiva nella quale afferma, a proposito dellʼElena da Feltre, che vedrà la luce il 1° gennaio 1839 al San Carlo, «ho continuato la rivoluzione principiata nel Giuramento: variate le forme, – bando alle Gabalette triviali, esilio aʼ crescendo» (pAlermo, Saverio Mercadante, cit., p. 179). 20 de ANGelIS, Le carte dellʼimpresario cit., pp. 199-206: 200-201. 21 Ivi, pp. 205-206, dove Boldú diventa erroneamente “Bolchi”: si veda online, <http://archivio-
– Mercadante seppe con congruo anticipo di dover comporre lʼopera nuova per Ungher e Tadolini insieme.
Le opere di Mercadante nella stagione avrebbero potuto essere due: fu Mercadante stesso a proporre una ripresa del Giuramento come inaugurazione per la serata di gala del 26 dicembre 1837, un giorno importante e agognato, piú del solito, perché sancí la riapertura del teatro dopo lʼincendio che lʼaveva distrutto un anno prima (la notte tra il 12 e il 13 dicembre 1836). Ma il progetto non andò in porto.22 La vicenda del Giuramento sʼintrecciò con la rivalità tra lui e Donizetti e con il possibile ingaggio di Giuditta Pasta. Il 25 marzo 1837 Mercadante precisò a Lanari di volere «le stesse condizioni di Donizzetti per comporre la sua Opera nuova».23 Il 10 aprile scrisse al marito della diva, Giuseppe Pasta: «tutto è accordato a Donizzetti piú di me fortunato».24 Negli stessi giorni a Florimo: «Grandi difficultà per la conclusione per lʼapertura del gran Teatro La Fenice di Venezia, atteso che S.E. il Podestà protegge Donizetti – La mia domanda è stata di 10 mila fr. per comporre la 2/da Opera nuova [di fatto sarà la terza], ma sinʼora nulla di deciso, anzi ci spero poco essendoci dellʼintrico fra la Pasta, Donizetti, Lanari, e queʼ Signori».25
Il 10 maggio Mercadante comunicò al conte Boldú la rinuncia al Giuramento per lʼinaugurazione, forsʼanche perché la Pasta sembrò non apprezzare la parte di Elaìsa.26 Saltò la ripresa del Giuramento e saltò anche lʼingaggio della Pasta. Le
storico.teatrolafenice.it/scheda_documento.php?ID=470> (ultima consultazione 23 luglio 2021). Nel medesimo archivio della Fenice online si legge il contratto del 14 marzo 1837 (di fatto, un precontratto, in attesa della conferma di Lanari come impresario) «per comporre una grandʼopera seria». (<http://archiviostorico.teatrolafenice.it/scheda_documento.php?ID=467> – ultima consultazione 23 luglio 2021). 22 «Questo Teatro è riescito il piú elegante dʼItalia, armonico, magnifico», scrive Mercadante a
Florimo lʼ8 gennaio 1838 (pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 181). Lʼoccasione era cosí importante che Lanari aveva vagheggiato di poter scritturare addirittura Rossini: essendo impossibile avere da lui unʼopera nuova, gli chiese la disponibilità a mettere in scena di persona il
Guglielmo Tell; ma Rossini rifiutò. Cfr. le lettere di Lanari a Rossini del 26 febbraio 1837 e la risposta del 5 marzo, in Gioachino Rossini. Lettere e documenti, V, Pesaro, Fondazione Rossini, in corso di pubblicazione (ringrazio Reto Müller per avermene consentito la lettura in anteprima; dette lettere sono riassunte in de ANGelIS, Le carte dellʼimpresario cit., pp. 60-61). Ma
Lanari aveva interpellato anche Donizetti, sollevando nel contempo una questione sul cast e sulla drammaturgia di grande interesse nel presente studio: «Tu dovresti scrivere al Sr Conte Boldú Potestà che se avesti il piacere di scrivere in occasione dellʼapertura, preferiresti sempre di avere una compagnia alla moderna, cioè 1a Donna, 1o Tenore, 1o Baritono, ed una buona Donna di spalla soprano, invece di due prime Donne, essendovi di queste troppa scarsità» (lettera del 25 febbraio 1837, in CommoNS, Una corrispondenza cit., p. 42). 23 de ANGelIS, Le carte dellʼimpresario cit., p. 201. 24 Ivi, pp. 202-203. È la lettera nella quale propone Il giuramento per «principiare la stagione». 25 pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 173. 26 de ANGelIS, Le carte dellʼimpresario, cit., p. 205.
lettere di Lanari attestano che ci fu un confronto acceso tra di lui, che preferiva la Ungher (beniamina del pubblico veneziano dopo il trionfo del Belisario nel febbraio 1836) e la Presidenza della Fenice, che avrebbe voluto appunto la Pasta, ormai a fine carriera ma pur sempre con una fama ineguagliabile («Egli [Boldú] ha esternato di voler la Pasta, ed io invece che voglio la Ungher, che ho fatto tanto per averla perché ritengo che possa fare il mio interesse al di sopra dʼogni altra»).27 Il 30 agosto Lanari raccontò a Donizetti di un tentativo di mediazione: «ho proposto di contentare i due partiti, cioè gli Ungheresi, che è tutto il pubblico, e i Pastisti che sono pochi Nobili, ma potenti».28 In questa mediazione erano contemplate nella stagione tanto la Ungher (per 30 recite) quanto la Pasta (per 20): la Pasta avrebbe dovuto cantare le due di Mercadante (evidentemente Lanari non sapeva che il 10 maggio Mercadante aveva rinunciato al Giuramento; oppure lʼannunciata rinuncia non era definitiva), la Ungher le opere nuove di Lillo e Donizetti.
In ogni caso mai era stato previsto che Pasta e Ungher avessero potuto cantare insieme nella stessa opera. Oltretutto erano due soprani drammatici (diremmo oggi), versati allʼincirca nelle stesse tipologie di parti, i “caratteri forti”. Al contrario, la Tadolini – la cui presenza era prevista solo in caso di rifiuto della Pasta: come poi fu – prediligeva un «diverso genere di canto»; era un tipo di soprano dal “carattere dolce”, compatibile ad affiancare la Ungher, come sottolineò Lanari nella lettera del 25 febbraio 1837 a Donizetti («Le Donne dunque ove la scelta potrebbe cadere anche per un diverso genere di canto della Ungher, sarebbero sulla Tadolini, Taccani, e Palazzesi»).29 Dunque, se Ungher e Tadolini erano difficilmente compatibili
27 Lanari a Donizetti, 12 luglio 1837, in CommoNS, Una corrispondenza cit., p. 54. Il trionfo di
Belisario del 1836 aveva consolidato il rapporto tra Lanari e Ungher. La ventenne Ungher era stata scelta da Beethoven per le prime esecuzioni della Nona sinfonia e della Missa solemnis come contralto (Vienna, 7 maggio 1824). In realtà era una voce anfibia: per alcuni «mezzosoprano» («Lʼeco», 14 aprile 1828, p. 180), per altri «partecipa del soprano e del contralto» («I teatri. Giornale drammatico, musicale e coreografico», I/1, 1827, p. 212). In ogni caso era eccellente attrice: tra le numerose attestazioni coeve significative, la seguente si riferisce a una ripresa de Le due illustri rivali alla Fenice (Elvira fu Giuseppina Strepponi): «La Ungher e nel canto e nellʼazione fu quale doveva essere unʼattrice che non ha forse or rivali in Italia. La perfezione con cui e per espressione e per arte cantò la sua romanza, non si potrebbe significare; il Pubblico lʼinterruppe ogni volta alla cadenza, dʼun effetto soavissimo, per non so quale delicatezza con cui filava la voce smorzando. La sua parte è bellissima, piena di passione» («Il Figaro. Giornale di Letteratura, Belle Arti, Critica, Varietà e Teatri» 7/23, 20 marzo 1839, che riprende un articolo della «Gazzetta di Venezia»). 28 CommoNS, Una corrispondenza cit., p. 57. 29 È la lettera già citata alla nota 22. Quanto allʼopposizione tra “carattere forte” e “carattere dolce”, e al loro affiancamento quasi dʼobbligo se la scelta del cast prevedeva due donne, cfr. anche la lettera a Donizetti del Presidente agli spettacoli della Fenice, Giuseppe Berti, in GIor-
GIo pAGANNoNe, La “Pia deʼ Tolomei di Salvadore Cammarano. Edizione genetico-evolutiva,
Firenze, Leo S. Olschki, 2006, p. 35 («il carattere dolce della Persiani avrebbe bisogno del contrasto di un carattere forte col quale si potrebbe vestire lʼaltra Donna», 21 giugno 1836).
nella stessa opera a causa dellʼalto rango di entrambe, non lo erano per le attitudini drammatiche.
Primedonne assolute e primedonne di spalla: Maria de Rudenz vs Le due illustri rivali
Un confronto con la drammaturgia di Maria de Rudenz è istruttiva per comprendere quella, diversa, delle Due illustri rivali, sebbene anche lʼopera di Donizetti si basi su un modello analogo: due donne, Maria (Ungher) e Matilde (Isabella Casali) si contendono lʼamore dello stesso uomo, Corrado (Giorgio Ronconi); Enrico (Napoleone Moriani) è lʼinnamorato non corrisposto di Maria. Ma in Maria de Rudenz manca la regina; e soprattutto la rivale in amore della protagonista eponima, Matilde, è una seconda donna, un personaggio drammaticamente insignificante: dunque unʼopera “a tre” con «compagnia alla moderna».30
E lo fu per scelta di Donizetti (e Cammarano), come apprendiamo dallo scambio epistolare con Lanari, che il 31 maggio 1837 scrisse al Bergamasco, prospettandogli la compresenza Ungher/Tadolini: «Spero che avrai scelto un buon soggetto che Cammarano tratterà da suo pari. Sembra che Mercadante voglia servirsi del Poeta Rossi, nulladimeno digli che mi tenga in pronto un altro buon soggetto, prevenendolo però che tanto il tuo che questo deve essere a quattro parti reali, dovendo essere eseguiti dalla Ungher, Tadolini, Moriani e Ronconi».31 Il 25 agosto Lanari lo ribadì, specificando che la scelta di affiancare o meno la Ungher e la Tadolini dipendeva dalla Presidenza della Fenice: «Spero intanto che tu avrai pensato al soggetto p[er] lʼopera da scrivere, e che Camerano ne avrà preparati due cioè uno a tre soggetti p[er] la Ungher, Moriani, e Ronconi, e lʼaltro a quattro vale a dire p[er] la Ungher, Tadolini, Moriani e Marini a seconda di come vorrà essere servita quella Nob[ile] Presidenza».32 Donizetti e Cammarano scelsero La nonne sanglante di Auguste Ani-
Chiaro in ogni caso che i responsabili della Fenice auspicavano due donne di rilievo nel cast, forse prima di tutto per ragioni di prestigio, comʼè chiaro che la Tadolini, soprano sfogato (ma pure dotata di bassi sonori), prediligeva le parti sentimentali (secondo Felice Romani aveva voce «soave, fiorita, è fatta per la gioia, per lʼamore che si può consolare, per afflizioni rasserenate dalla speranza, non per gli strazii dʼun cuore in tempesta, non pei delirii di unʼanima angosciata, non per le grida della disperazione»: Miscellanee del Cavaliere Felice Romani tratte dalla Gazzetta Piemontese, Torino, Favale, 1837, p. 407), mentre la Ungher era «inarrivabile» nella manifestazione di «passioni esagerate», cosí frequenti nei soggetti seri coevi (lettera di
Girolamo Viezzoli a Vaccaj, 24 ottobre 1838, in Il carteggio personale di Nicola Vaccaj, I, a cura di Jeremy Commons, Torino, Zedde, 2008, p. 957). Cfr. le ʼvociʼ di Vernazza sulla Ungher e dello scrivente sulla Savorani Tadolini nel «Dizionario biografico degli italiani» cit. 30 Cfr. la nota 22. Una singolarità della Maria de Rudenz è che la prima donna ama il baritono e non il tenore.
31 CommoNS, Una corrispondenza cit., p. 49. 32 Ivi, pp. 56-63.
cet Bourgeois e Julien de Mallian (1835), fonte della Maria de Rudenz; inviarono il «programma» (cioè una sceneggiatura preliminare) a Lanari, che allora chiese al compositore quale rilievo avesse immaginato per il personaggio di Matilde:
Fra i diversi Personaggi che vi ho trovato, veggo una Matilde, che parmi debba sul genere dellʼAdalgisa:33 non saperò se tu avesti mai immaginato di dare questa parte alla Tadolini: in questo caso devo rammentarti, che la Tadolini è scritturata 1a Donna assoluta ancor Lei come la Ungher, e che tanto la quantità della parte, quanto lʼinteresse dovrebbe essere uguale. Se io, come credo, mʼingannassi in questo mio supposto, è indispensabile mi dica subito se p[er] la Matilde è sufficiente una seconda donna, o sia vero vi voglia una cosí detta P[ri]ma Donna di Spalla, che in questo caso dovrei provvedere.34
Donizetti si orientò su Matilde come seconda donna. Non abbiamo la sua lettera ma la risposta di Lanari del 12 novembre: «Siamo intesi p[er] la seconda donna, e lʼavrai quale ci vuole». Ovviamente non poteva essere la Tadolini, alla quale sarebbe stato stretto persino il ruolo di «prima donna di spalla». Dunque, la semplice scelta di un soggetto come La nonne sanglante, che non poteva annoverare due primedonne assolute, escluse ipso facto la compresenza di Ungher e Tadolini.
Lanari in effetti si preoccupò piú e piú volte di specificare a Donizetti che la Tadolini era scritturata come prima donna assoluta al pari della Ungher. Il 30 agosto 1837: «osservandoti che la Tadolini è scritturata come prima donna assoluta anche Lei, e in conseguenza la sua parte deve essere eguale a quella della Ungher». Il 4 settembre: «Tu potrai giovarti della Tadolini, e Marini, se ti accomoda, rammentandoti sempre che la Tadolini è anche P[ri]ma Donna assoluta». Dopo la lettera del 13 ottobre citata, il 20 ottobre Lanari spiegò a cosa fu dovuta la compresenza della Ungher e della Tadolini a Venezia: a uno «sbaglio» involontario.
Sul proposito rendere interessante la parte di Matilde si vede che è nellʼopinione che questa parte sia assegnata alla Tadolini, e qui mi giova confermarti che la Tadolini, se te ne vuoi servire[,] deve avere una parte eguale allʼUngher, essendo anchʼEssa scritturata come prima Donna assoluta. Non creder già che abbia fatto un tale sbaglio, e che abbia fatta questa scrittura dopo che sapevo di avere lʼImpresa di Venezia. La Tadolini fu scritturata due anni sono p[er] Teatri di competenza e ritenevo metterla a Firenze ove non avrebbe avuto competitrici, ma quando sono stato p[er] stringere il Contratto del Teatro la Fenice ho dovuto
33 Il riferimento ovviamente è a Norma.
34 CommoNS, Una corrispondenza cit., pp. 61-62 (13 ottobre 1837): con «prima donna di spalla» intende unʼinterprete in grado di cantare bene i numeri dʼassieme (vedi anche la lettera del 30 agosto 1837, pp. 57-58).
obbligarla, né ho potuto toglierle lʼassoluzione.35
Le lettere di Lanari a Donizetti, dunque, ci fanno capire indirettamente perché Mercadante dovette preoccuparsi di bilanciare le parti della Ungher e della Tadolini. Le lettere di Mercadante in nostro possesso, invece, nulla ci dicono sui suoi desideri o sulle sue scelte, riguardo al soggetto (di cui ignoriamo la fonte) e riguardo al cast della sua opera nuova. Se ignoriamo i dettagli (ad esempio: Mercadante accettò di buon grado lo «sbaglio» di Lanari, oppure per lui fu un ripiego?), è nei fatti che nelle Due illustri rivali Mercadante accettò ciò che Donizetti rifiutò (o evitò scientemente): scrivere lʼopera per due primedonne assolute.
Per quanto riguarda Donizetti, non sappiamo se abbia prevalso in lui il desiderio di mettere in musica proprio il soggetto sanguinario di Maria de Rudenz, che per sua natura non poteva contemplare due primedonne assolute o, viceversa, se abbia scelto Maria de Rudenz proprio per non trovarsi nella scomoda situazione di dover mettere in competizione due primedonne assolute. Del resto lʼesperienza di Maria Stuarda Donizetti doveva ricordarsela ancora bene. Comʼè noto, al di là dei problemi della censura, Donizetti dovette sopportare pure lʼaccesa rivalità tra Giuseppina Ronzi De Begnis (Maria Stuarda) e Anna Del Sere (Elisabetta I), le quali si accapigliarono durante le prove della mancata rappresentazione napoletana del 1834: nel punto culminante del Finale dellʼatto I, la lite tra le due regine (con la Stuarda che dà della «vil bastarda» ad Elisabetta) si trasformò in una zuffa tra le due primedonne.36
Ma non si trattava di due prime donne assolute, come Ungher e Tadolini: sta qui la differenza tra Le due illustri rivali e le altre opere con due primedonne rivali in amore, regine o non regine che siano, come sʼè accennato. Normalmente costoro non sono dello stesso rango, in quanto la “rivale”, che magari sul palcoscenico sta spesso al fianco della protagonista eponima, le sta al di sotto come importanza drammatica, e quindi nelle “convenienze teatrali”: è questa la “regola” cui Le due illustri rivali fanno eccezione. Riproponendo la terminologia di Lanari, la contrapposizione consueta è tra una «primadonna assoluta» (Norma) e una «primadonna di spalla» (Adalgisa); nella Maria Stuarda tra la star Ronzi de Begnis e la piú modesta Del Sere, un rapporto sbilanciato che permane nella rappresentazione dellʼopera alla Scala nel 1835, dove Maria Malibran/Stuarda sovrasta Giacinta Puzzi-Toso/Elisabetta.37 Ma analogamente sbilanciato è il rapporto tra lʼeponima Anna Bolena (Giuditta
35 Ivi, pp. 57-63: 63. 36 Cfr. ANNAlISA BINI – Jeremy CommoNS, Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, Roma, Accademia nazionale di S. Cecilia, 1997, pp. 407-417: 413. 37 Tantʼè vero che a Milano il soprano designato per Elisabetta era Sofia dellʼOca-Schoberlechner, che però rifiutò proprio perché riteneva la parte troppo misera, come scrisse in una lettera alla Malibran, lasciando la parte alla meno quotata Puzzi-Toso; a proposito di questʼultima il
«Cosmorama teatrale» del 2 gennaio 1836 scrisse esplicitamente: «questa parte [Elisabetta] non le procurerà certamente allori» (in ivi, pp. 534, 547, 549).
Pasta) e Giovanna Seymour (sua “spalla”, Elisa Orlandi), nel Roberto Devereux tra Elisabetta (pur non eponima: Ronzi de Begnis) e Sara (Almerinda Granchi)38 e, risalendo allʼElisabetta regina dʼInghilterra di Rossini, tra Elisabetta (Isabella Colbran) e Matilde (Girolama Dardanelli).
La ʼrivaleʼ in amore della prima donna assoluta dunque è improbabile tanto come altra primadonna assoluta, tanto come seconda donna (che sarà invece unʼancella o damigella, al servizio ora dellʼuna ora dellʼaltra; Maria de Rudenz in questo senso fa eccezione); tra le due donne rivali in amore deve “esserci partita”: il che vuol dire che la rivale devʼessere primadonna di spalla, in grado di cantare non solo (eventualmente) nei concertati o nei pertichini di numeri altrui (come la seconda donna), ma anche in importanti numeri musicali, che nel complesso comunque devono essere in misura inferiore rispetto alla primadonna assoluta.
Che non fosse facile far coesistere due primedonne assolute come Ungher e Tadolini lo dimostra anche la circostanza che Le due illustri rivali sono lʼunica opera della stagione di carnevale e quaresima 1837-38 nella quale le due dive cantarono affiancate; una stagione particolarmente densa, con ben sei opere andate in scena tra il dicembre 1837 e il marzo 1838, tre nuove (Rosmunda in Ravenna, Maria de Rudenz, Le due illustri rivali) e tre di repertorio (I puritani, Parisina, Beatrice di Tenda). Lʼimpegno della Ungher e della Tadolini nella stagione fu molto diverso: la Ungher cantò in cinque opere su sei (saltò i soli Puritani), a conferma che era lei la prima scelta di Lanari; la Tadolini solo in due, nei Puritani e ne Le due illustri rivali.
Unʼulteriore conferma indiretta del “problema dei due soprani”, e dei vari tentativi di soluzione, è data dalla vicenda della mancata ripresa della Rosmonda dʼInghilterra di Donizetti, che era andata in scena per la prima volta a Firenze nella quaresima del 1834, con Fanny Tacchinardi Persiani protagonista eponima “a danno”, ancora una volta, di Anna del Sere come Leonora (rispettivamente 6 pezzi contro 4). Donizetti in seguito bilanciò le parti delle due primedonne, rafforzando quella di Leonora con una cavatina e una cabaletta come finale del dramma: col nuovo titolo di Eleonora di Guienna sarebbe dovuta andare in scena già a Napoli nel 1837; nelle intenzioni di Lanari la partitura cosí revisionata poteva tornar utile anche per le recite veneziane di qualche mese dopo con Ungher e Tadolini, tantʼè vero che il 25 settembre 1837 suggerí a Donizetti di portarla con sé a Venezia («avrai la compiacenza di portarmela a Venezia, avendo intenzione di darla colla Ungher, la Tadolini, Moriani e Marini»). 39
Tutto ciò detto, e a maggior ragione, nellʼopera nuova scritta appositamente da Mercadante la parte della Tadolini doveva essere, per forza di cose, non inferiore
38 Nella lettera di Donizetti al conte Ottavio Tasca del 29 gennaio 1838 si fa cenno alla grande differenza dei compensi delle due: Ronzi 800/1000 ducati al mese, Granchi 200 (cfr. GuIdo
ZAVAdINI, Donizetti. Vita - musiche - epistolario, Bergamo, Istituto italiano dʼarti grafiche, 1948, p. 465). 39 CommoNS, Una corrispondenza cit., p. 61; alle pp. 48-49 si legge la lettera del 31 maggio 1837 che attesta come la medesima rinnovata versione dellʼopera era in progetto per Napoli.
a quella della Ungher, altrimenti la prima sarebbe stata alquanto sfavorita e di fatto sottoimpiegata. Al contrario, ne Le due illustri rivali la Tadolini ebbe la sua rivincita, come ora andiamo a vedere, osservando piú da vicino lʼopera quanto alla drammaturgia e alle convenienze teatrali.
Lettura de Le due illustri rivali: la rivincita della Tadolini40
Il confronto-scontro tra le due rivali inizia presto, già nellʼIntroduzione, che rappresenta la fastosa cerimonia di omaggio per lʼascesa al trono della neo-regina Bianca («il pezzo migliore di tutta lʼopera, quindi applausi infiniti»):41 si tratta di un quintetto statico (ciascuno canta tra sé) con coro e banda sul palco, innescato da un gioco di sguardi furtivi che Rossi prescrive in una didascalia: «Ella [Bianca] scorge gli sguardi dʼElvira ed Armando, che poi la mira con affetto e si turba». Il tenore Armando dunque fissa il suo sguardo fatale su entrambe, dʼamore per Elvira e dʼaffetto per Bianca. Sembra fatto apposta per suscitare equivoci: e infatti ciascuna delle due donne sospetta che Armando ami lʼaltra (i primi due versi della doppia quartina di Bianca: «Quali sguardi... fier sospetto!... | Fur dʼamor... temer dovrei»; i primi due versi della doppia quartina di Elvira: «Quali sguardi... quale ardore!... | Ei potria!... rivale in lei!»). Ma gli ultimi due versi di Armando sono «Dolce spiro di mia vita | mʼè dʼElvira il fido amor»: se equivoci sono i suoi sguardi, non lo sono le sue parole e i suoi sentimenti. In ogni caso anche Gusmano e Alvaro (secondo tenore, Achille Ballestracci) notano lʼinsidioso incrocio di sguardi, e persino il coro. Mercadante è attento a tenere sullo stesso piano le due rivali, in modo che nessuna prevalga sullʼaltra dal punto di vista musicale e vocale. Lo attesta la scrittura complessiva del pezzo non meno che la distribuzione degli acuti, un indicatore rilevante, a maggior ragione, in unʼopera con due soprani: tanto il largo concertato quanto la stretta si concludono con un Do5 allʼunisono di Bianca ed Elvira. Successivamente Gusmano intende imporre alla figlia di sposare Alvaro (Terzetto Elvira/ Alvaro/Gusmano «A quel sangue un dí giurai»), Bianca ha la conferma di avere Elvira come rivale proprio dallʼingenuo Armando, che glielo confessa (Duetto «Dal ciel disceso un angelo», preceduto dalla romanza di Bianca «Sorte avversa, in suo rigor»). Nel Finale primo «Nel tuo core io già discesi» Bianca avalla il matrimonio tra Elvira e Alvaro; si vuole sbarazzare di Elvira, ovviamente, che tenta di ribellarsi
40 Ho consultato le seguenti fonti musicali (lʼautografo è disperso): la copia manoscritta della partitura in I-VT; altra in I-NC, 29.6.4-5, digitalizzata (<http://www.internetculturale.it/jmms/ iccuviewer/iccu.jsp?teca=MagTeca+-+ICCU&id=oai:www.internetculturale.sbn.it/
Teca:20:NT0000:IT\\ICCU\\MSM\\0150910> – ultima consultazione 21 luglio 2021), che riflette la versione dellʼopera data a Napoli nel 1840 (sulla quale cfr. rISI cit., p. 13); lo spartito
Scena e Duetto «Leggo già nel vostro cor», Novara, F. Artaria & C., s.d., nn. edit. 457 e 266; lo spartito Scena e Duettino «Là dal cielo in cui volasti», Napoli, B. Girard & C., s.d., n. edit. 5363. 41 «Corriere dei teatri» cit., p. 98.
ma senza successo, tanto che, sopraffatta dal dolore e dallʼangoscia, sviene. Queste le eloquenti didascalie di Rossi, tipiche delle opere romantiche coeve (degne di Cammarano, si direbbe): Elvira «vacilla pallida, fuor di sé, convulsa, singhiozza, soffocata grida e cadendo sviene fra le braccia delle Dame». Ma tutti credono sia morta, e cosí si chiude il sipario.
Nel secondo atto, tutti, uno alla volta, vengono a sapere che non lo è. Armando, «in abito di lutto», si reca a darle lʼultimo saluto nelle tombe sotterranee, dovʼè ambientato lʼintero atto: per prima cosa canta unʼaria elegiaca “alla Moriani” («Quel celeste tuo sembiante»). Scoperto che Elvira è viva, sʼunisce con lei in un duetto dʼamore («Ah sí tua cara voce», preceduto e direttamente connesso alla romanza di Elvira «Io là sognai lʼimmagine»). Va via Armando, e arriva nel sotterraneo Bianca, in preda ai rimorsi per aver indirettamente causato – ella crede – la morte di Elvira, rimorso tanto piú lacerante perché le due donne sono state amiche dʼinfanzia (ed è da sottolineare, perché frequente, il rapporto affetto vs odio tra le due rivali).
Segue un duettino, «Là dal cielo a cui volasti», tra Bianca ed Elvira, piuttosto originale se non bizzarro: a differenza di Armando, Bianca, per lʼintera durata del pezzo, non sʼaccorge che Elvira è viva.42 Ciò perché Bianca resta in una stanza attigua a quella dellʼamica/rivale: quindi Elvira ascolta (e vede) Bianca, ma non il contrario; per cosí dire, si tratta dʼuna sorta di monologo/romanza di Bianca, “origliato” da Elvira, che commenta tra sé, intessendo con lei il canonico a 2 di un duettino. E ciò che ascolta Elvira è compromettente per la regina: per prima cosa Bianca prova vergogna di sé stessa per aver gioito della morte di lei, a causa del suo «fatale amore | Per Armando!...»; amore che lʼha indotta a sentimenti e disposizioni dʼanimo ben poco regali: «Questʼamor che mi strascina... | che mi perde... che spietata43 | già mi rese... falsa... ingrata... | e capace di ogni eccesso | nel geloso mio furor». (Detto tra parentesi, Rossi non spiega mai nel libretto perché la regina non può amare Armando, perché il suo è un amore fatale e colpevole; sappiamo solo che Armando
42 «Una specie di duettino» («Corriere dei teatri» cit., p. 98); «un duetto singolare perché mentre
Elvira sente tutto quel che dice Bianca, questa non si accorge nemmeno della presenza dʼElvira, che però canta abbastanza forte per farsi udire da tutta la platea» («Glissons, nʼappuyons pas.
Giornale di Scienze, Lettere, Arti, Varietà, Mode e Teatri» 6/104, 28 dicembre 1839, p. 415, che si riferisce a una ripresa dellʼopera alla Scala); «lʼeffetto [del duettino] è maraviglioso» («Il
Figaro» 6/22 del 17 marzo 1838); «e vogliamo notare unʼaltra novità che fu bellamente introdotta dal M. Mercadante nel nostro teatro; e questa è dʼuna scena che i Francesi chiamano musicale, in cui due voci, senza che lʼuna sappia dellʼaltra, con non so quale inusitato artifizio, si maritano insieme nel canto» («Il vaglio» 3/12, 24 marzo 1838, p. 99); una recensione invero interessante questʼultima, non tanto per la lode sperticata alle Due illustri rivali (addirittura
«tra le piú celebrate produzioni musicali del secolo»: p. 98), quanto per una precoce descrizione della cosiddetta «solita forma»: «il procedimento musicale dei pezzi prescritto cosí, che al primo tempo debba senza remissione succeder lʼadagio e a questo imperiosamente sʼappicchi la stretta; in una parola accordar tutto alle cosí dette convenienze e poco alla ragione, e quasi nulla alla poesia». 43 «Con passione e fremito di se stessa crescente», la didascalia corrispondente di Rossi.
è figlio di un esule, ma nulla viene spiegato dellʼantefatto, ed è una del non poche incongruenze del libretto, rilevate dalla stampa coeva).44
Le parole di Bianca colpiscono Elvira, la quale ignora che la regina sia sua rivale in amore: ella pensa bene che non è proprio il momento di “farsi viva” («Ah! Si taccia... Il cor è oppresso | dallʼangoscia e dal terror»). Dal punto di vista musicale e della scrittura vocale si ha la conferma di quanto Mercadante abbia davvero lavorato con la «bilancia sul cembalo»:45 frasi musicali corrispondenti, una scrittura vocale analoga, e se ha un acuto una, lo ha pure lʼaltra (nellʼa 2 conclusivo, sfoggiano entrambe, di nuovo, uno smagliante Do5, pur a distanza di una battuta una dallʼaltra: prima tocca alla Tadolini, poi alla Ungher; il che può essere significativo: prima spetta al soprano sfogato, poi al soprano nato contralto, beniamina della Fenice, la quale non doveva essere da meno).
Nel Finale II (un altro grande finale con sezioni concertate: a dimostrazione che si tratta di una sontuosa “grandʼopera”) vengono a sapere che Elvira è viva prima il padre Gusmano e poi la regina Bianca, la cui reazione emotiva è significativa della sua doppiezza e dei suoi sentimenti contrastanti (lʼamore per Armando, che rende impossibile lʼaffetto per lʼamica Elvira, ora rivale). Rossi illustra i moti dellʼanimo della regina attraverso le didascalie. Appena Bianca ha la sorpresa di vedere Elvira viva, «con trasporto si slancia verso di lei aprendo le braccia [...] restano abbracciate. Bianca, nel girar lo sguardo vede Armando, nʼè colpita, lascia cader le braccia, e si stacca lentamente da Elvira». Bianca esclama «O con lui [Armando] morir felice... | o morire nel dolor», stesse parole ripetute da Elvira nel medesimo concertato. Resta da stabilire se il contratto di nozze tra Elvira e Alvaro è valido; Bianca demanda la decisione a unʼalta corte di giudici. Giudizio che avviene nellʼatto III (cosí, dopo la scena dello svenimento, indi del sotterraneo, cʼè pure la scena del giudizio a completare i topoi drammatici dellʼepoca): i giudici decidono che il contratto è valido, e dunque di fatto rimandano la decisione alla regina.
Nel Duetto finale cʼè la resa dei conti tra le due illustri rivali. Elvira chiede a Bianca di scioglierla dal legame con Alvaro. Dapprima con le buone: «dopo averla fissata con dolcezza», dice «Sciogliete | questo nodo fatale | che mi trasse alla tomba». Ma dato che Bianca rifiuta, Elvira passa alle maniere cattive, cioè alle minacce e al ricatto. Quel che accade è sorprendente: la “debole” Elvira – che durante lʼopera ha piú volte implorato padre e regina, è svenuta ed è quasi morta, sembrava insomma avere
44 Esso si meritò la seguente stroncatura: «Il libretto, parole del signor Gaetano Rossi, è uno dei soliti pasticci che la prolifica penna di questo antico poeta sa impastare ad ogni richiesta di un compositore di musica. Qualche situazione drammatica e cattivi versi costituiscono la fisionomia particolare di tutti i suoi lavori [...] Come al solito le innumerevoli reticenze rendono inintelligibili moltissime idee del poeta, ed è sí grande il numero dei puntini che formano parte integrante del melodramma, ed il signor Gaetano Rossi potrebbe sottosegnare i suoi libretti scrivendo parole e puntini di G.R.» («Il Figaro. Giornale di Letteratura, Belle Arti, Critica, Varietà e Teatri» 7/104, 28 dicembre 1839, p. 416). 45 Cfr. la recensione sul «Corriere dei teatri» citata supra.
tutte le caratteristiche della vittima designata – ora si trasforma in una leonessa e mette alle strette la regina, tornando su quanto aveva “origliato” nel duettino del secondo atto. Nel tempo dʼattacco Elvira accusa apertamente la regina di amare segretamente Armando («Leggo già nel vostro petto46 | verità crudel, fatale». E poi: «Dʼardente affetto | lʼinteresse vi prevale | [...] Invan piú simulate. | Per Armando [...] Voi lʼamate».); la regina prima nega («E tu ardisci! qual calunnia»), poi cede e ammette il suo amore colpevole: «Ah! nascoso al mondo intero | ti volea, fatal mistero. | Da tantʼanni che già peno | a celar mie fiamme in seno! | Questo cor che mʼha tradito | dal mio sen vorrei strappar». Nel cantabile («Dolce e primo mio sospiro») le due donne ribadiscono il loro amore assoluto per Armando, e il proposito, comune a entrambe, di non volervi rinunciare.
Nel tempo di mezzo Elvira arriva a sfidare la regina («Vendicarmi io saprei... | Vostro arcano sta in mia mano», marcata), che nella cabaletta risponde a tono, fremente: il duetto si conclude con minacce reciproche. Ma sono quelle di Elvira a colpire nel segno: rientrata tutta la corte (coro e personaggi principali), nella scena ultima, in recitativo, la regina capitola: «ella va al tavolino, è già pallida, quasi convulsa, e si conosce il vivissimo interno contrasto che prova, e che cerca nascondere e superare». Indi esclama: «Elvira!... Il nodo... è... sciolto», parole declamate largamente e accompagnate nel libretto da questa significativa didascalia: «nel pronunziar queste parole le va mancando la voce, vacilla, e si gitta sulla sedia»; la musica asseconda il libretto e crea un effetto di suspense, con armonie dissonanti e incerte, fin quando Bianca decide, suo malgrado e a suo danno: scioglie il nodo di Elvira, e pure quello del dramma. Alla fine è la regina che vacilla e cade, non la sua antagonista Elvira: a dimostrazione del rovesciamento dei rapporti di forza.
Che Elvira alla fine sia la vincitrice lo sottolinea anche la musica di Mercadante, specie la scrittura vocale: se nei numeri precedenti le due rivali erano state assolutamente alla pari, nel duetto conclusivo è Elvira/Tadolini a prevalere. Già nel tempo dʼattacco, dopo una sezione declamata, segue una melodia chiusa, uguale per entrambe, ma in Re maggiore per Elvira, in Re♭ maggiore per Bianca. Elvira tocca il Si4, Bianca il Si♭♭4. Il cantabile si conclude con un a 2 in terze parallele: anche qui Elvira ha la parte piú acuta, arriva al Do♭5, mentre a Bianca tocca un La♭4. Nello scambio di minacce della cabaletta Elvira tocca il Re♭5, Bianca il Do5. Il dato che a me pare significativo – lo ripeto – è che solo nel decisivo duetto finale Mercadante differenzia la scrittura vocale delle due, piú acuta quella di Elvira/Tadolini, vincitrice, piú grave quella di Bianca/Ungher, sconfitta. Anche le “convenienze teatrali” provano la supremazia di Elvira: Bianca/Ungher canta in tutto 7 pezzi (1 aria, 3 duetti, 1 quintetto, il finale I e II), Elvira/Tadolini 8 (1 aria, 3 duetti, 1 terzetto, 1 quintetto, finale I e II), 8 anche Armando/Moriani (Gusmano 6, Alvaro 5).
Una regina sconfitta, dunque, Bianca di Navarra? sí e no. Si può rispondere: no, perché lʼopera un lieto fine “formale” pure ce lʼha: dopo essersi accasciata
46 «Nel vostro cor», nelle fonti musicali consultate.
sulla sedia (dove lʼavevamo lasciata), Bianca «si volge al cielo e sospira»: «Io! – Io regnerò».47 Lʼopera si conclude con un coro encomiastico, che tuttavia in partitura viene alquanto scorciato rispetto al libretto: vengono messi in musica solo gli ultimi due («Bianca gloria ognor del soglio | qual delizia è dʼogni cor») dei sei versi previsti. Dʼaltro canto si può rispondere: sì, la regina esce sconfitta, perché, in fondo, regnerà suo malgrado. È evidente che sceglie di regnare perché non può piú amare (come avrebbe di gran lunga preferito).
Può essere utile, per contrasto, un confronto con il finale dellʼElisabetta regina dʼInghilterra di Rossini, dove la scelta del regno è lucida e razionale, e sancita chiaramente dalla drammaturgia musicale: avviene nel lungo rondò finale con coro, dove nel tempo dʼattacco («Fellon, la pena avrai») Elisabetta punisce il traditore Norfolc, nel cantabile («Bellʼalme generose») abbraccia e augura piena felicità alla rivale in amore, nel tempo di mezzo perdona i ribelli valorosi, nella cabaletta («Fuggi amor da questo seno») dichiara di preferire la gloria pubblica del regno alle gioie private dellʼamore. Tutto ruota attorno a lei, che decide tutto, in una grande aria in quattro tempi dove gli altri sono sullo sfondo: la convenzione del finale con un gran rondò della primadonna trova una sua “regale” applicazione. Invece, per Bianca di Navarra la scelta, e la peripezia, decisive si hanno nel recitativo dopo il duetto. Inutile stare a sottolineare quanto è sensibilmente piú importante una risoluzione affettiva che avviene dentro un pezzo chiuso rispetto a una che avviene in recitativo. Intendo dire che per Bianca di Navarra il regno è un ripiego anche quanto alla drammaturgia musicale, e il breve coro celebrativo conclusivo può essere percepito come qualcosa di posticcio.
La regina e la censura da Roberto Devereux a Le due illustri rivali
Che una regina preferisca lʼamore al regno, la felicità privata al dovere pubblico, non è un messaggio propriamente edificante (quasi inutile ricordare che siamo negli anni della Restaurazione); ma neanche una novità. Con riferimento al Mercadante degli anni ʼ30, si può (ri)citare Il conte di Essex; nel quale però la regina Elisabetta non è la protagonista, come detto (prima interprete, Matilde Palazzesi); Lanari lʼavrebbe definita primadonna di spalla, mentre la sua rivale, la duchessa di Nottingham (Adelaide Tosi), è primadonna assoluta (per dire, la Tosi tocca il Do5 nel Terzetto finale, la Palazzesi no).48 Lʼopera inoltre non ebbe fortuna, al contrario di Roberto Devereux, nato al San Carlo di Napoli pochi mesi prima rispetto a Le due illustri rivali (ottobre 1837). È impossibile non far riferimento al capolavoro di Donizetti se si parla di regine sconfitte e della sensibilità romantica che arriva a sovvertire il
47 Nella partitura veneziana si legge «Io regno» (pp. 785-786); nella partitura napoletana si legge la sola prima sillaba del verbo (c. 177r), ma in corrispondenza cʼè una sola nota, non due come sarebbe stato con “regnerò”. 48 Ho consultato lʼautografo in I-mr.
canone di un soggetto piú che collaudato. Mi riferisco alle opere celebrative della regalità, soggetto ben conosciuto sin dal secolo precedente, largamente in voga anche nel primo Ottocento, anzi favorito nelle rappresentazioni in date festive di genetliaci o onomastici regali. Un soggetto che per sua natura prevede il lieto fine, che poi tendenzialmente è sempre lo stesso: il sovrano (o la sovrana) mette da parte gli affetti privati e sceglie il bene pubblico, cioè sceglie di amare tutti i suoi sudditi e non uno solo. Come nella fortunatissima e già citata Elisabetta rossiniana, capostipite ottocentesco del genere.49 Al contrario, nel Roberto Devereux la regina Elisabetta, dopo lo shock dovuto alla morte del suo innamorato Roberto (indirettamente ucciso da lei), arriva addirittura a rinunciare al trono, ad abdicare, non prima di aver cantato un rondò finale assimilabile per molti aspetti a unʼ“aria di follia” (cosí di moda in quegli anni: ma certo non in bocca a una regina).50 Lʼesatto contrario di quanto fa Bianca di Navarra.
Roberto Devereux mostra come la felicità individuale sia incompatibile con i meccanismi della politica e del potere. Problemi con la censura, attestati da alcune fonti, possono aggiungere qualcosa in proposito. La censura allʼepoca è un compromesso tra la repressione politico/morale (certe parole non si possono tollerare) e lʼesigenza spettacolare (lʼopera comunque va fatta e deve piacere ed emozionare), secondo regole che vengono di volta in volta adattate da librettisti e compositori alla realtà in evoluzione: e non cʼè dubbio che negli anni 1830 si era ormai affermata una sensibilità diversa, e piú audace, rispetto a qualche decennio prima. Intendo dire che la censura evidentemente poco poteva fare contro la marea crescente della emotività romantica sopra le righe e la sua naturale tendenza al finale tragico e sanguinoso, che arrivò a rappresentare le esistenze sconvolte dei monarchi (specie delle donne, ritenute deboli per natura). Un gusto al quale erano sensibili sia Mercadante, sia Donizetti. Ma qualcosa i censori tentavano di fare, emendando singole parole ritenute sconvenienti. Proprio alcune fonti napoletane del Roberto Devereux e de Le due illustri rivali lo possono provare.
Nella biblioteca di San Pietro a Majella si conservano il «Progetto dʼuna Tragedia lirica in 2. atti» (cioè una prima sceneggiatura in prosa dellʼopera, numero per numero) e il libretto autografo di Cammarano del Roberto Devereux, 51 che presenta
49 Cfr. mAry ANN SmArT, Waiting for Verdi. Opera and Political Opinion in Nineteenth-Century
Italy, 1815-1848, Oakland, University of California Press, 2018, in particolare il capitolo 3 (Elizabeth I, Mary Stuart, and the Limits of Allegory), pp. 60-101. Sul lieto fine delle opere e delle cantate napoletane negli anni di Rossini cfr. anche la mia introduzione a Zelmira, Pesaro,
Fondazione Rossini, 2006, in particolare il paragrafo Lʼomaggio al monarca e il monito allʼusurpatore, pp. lVII-lXXX. 50 Cfr. mArTIN deASy, Bare Interiors, «Cambridge Opera Journal» 18, 2006/2, pp. 125-149. 51 I-NC, 18.1.11; ho consultato il facsimile contenuto nel programma di sala del Roberto Devereux,
Teatro dellʼopera di Roma, stagione 1987-88 (si veda anche lʼintroduzione che lo precede:
GIoVANNI pATerNollI, Gli autografi di Salvatore Cammarano, che emenda qualche errore di trascrizione di JoHN BlACk, Librettist, Composer and Censor: the Text of “Roberto Devereux”,
alcune cancellature, dovute alla censura borbonica, e dunque alcune divergenze significative col libretto a stampa. Nel cantabile della cavatina di Elisabetta (I.2), tanto nellʼautografo di Cammarano quanto nellʼautografo di Donizetti, si legge: «Per questʼalma innamorata | era un ben maggior del trono» (si riferisce a Devereux, naturalmente); non ci sono cancellature ma comunque nel libretto a stampa diventa «e a questʼalma innamorata | ei rendea piú caro il trono». Meglio non esplicitare a parole che per la regina un innamorato (ritenuto traditore dello stato, tra lʼaltro, come Devereux) possa essere piú importante del trono, deve aver pensato il censore.
Altro esempio significativo nel recitativo che precede la grande aria finale di Elisabetta, denominata da Donizetti semplicemente «Ultima scena». Elisabetta, che in precedenza ha scatenato il suo furore, ha un momento di sconforto, quasi rassegnata al fatto che Devereux non la ami. Si abbandona allora a un pensiero sulla sua debolezza femminile. Già nel «Progetto» (ʼAria finale di Elisabettaʼ) si legge: «Credei esser regina, e non sono che una donna! – Si estinse il foco della mia collera». Nel libretto manoscritto diventa (III.6): «Son donne le regine – il foco è spento | del mio furor…».
Ma è unʼammissione che crea problemi alla censura: una mano cancellò le regine (tra lʼaltro al plurale, non sta parlando solo di sé stessa). Tanto lʼautografo di Donizetti quanto il libretto a stampa tengono conto dellʼintervento della censura, sebbene con qualche differenza: lʼautografo di Donizetti legge «Io sono donna alfine – il foco è spento | del mio furor»; il libretto a stampa: «Son donna! Il foco è spento | del mio furor». Meglio non accostare la parola regina alla parola donna, se si sta parlando della debolezza muliebre.
Ma non dissimile devʼessere stata la considerazione del censore che esaminò il libretto per la rappresentazione de Le due illustri rivali al San Carlo nel carnevale 1840 (a dimostrazione di come la censura napoletana fosse particolarmente attenta a tali questioni, piú di altre in Italia). Alla fine del tempo dʼattacco del duetto finale, nel libretto di Venezia 1838, Bianca si lascia andare ad uno sconsolato «Ma vʼè un core | infelice piú del mio!». Al che Elvira ribatte: «Voi... Regina!». Bianca allora sbotta con grandʼimpeto: «E che mi parli | tu di regno! Armando!». Cioè: mʼimporta di Armando, poco o nulla del regno. Come si evince dalla partitura riconducibile a quella rappresentazione, questʼultima battuta cosí enfatica della regina viene
«Bergomum. Bollettino della Civica biblioteca Angelo Mai di Bergamo» 92/1, 1997, pp. 65-74). Sulla censura napoletana negli anni di Donizetti (e Mercadante) è ancora indispensabile Jeremy CommoNS, Un contributo ad uno studio su Donizetti e la censura napoletana, (1975), Bergamo, Azienda autonoma di turismo, 1983, pp. 65-106.
espunta nella versione napoletana del 1840: «E che mi parli | tu di regno! Armando!» diventa «Ah cosí il fossi | del mio core! Armando!».52
Nella versione censurata la regina ammette di non essere arbitra/regina del suo cuore, ma almeno omette di dire che nulla le importa del regno: dichiarazione ben piú grave, specie se detta con grandʼimpeto. Che sia una regina inglese (protestante) o una regina di Navarra (cattolica), non è il caso di enfatizzarne le debolezze, deve aver pensato il censore napoletano.
In conclusione, unʼopera come Le due illustri rivali è interessante dal punto di vista musicale e drammatico, e anche per il significato storico, perché si pone in una posizione singolare rispetto al lieto fine delle opere celebrative delle regine. Credo che Mercadante abbia scelto un modo sottile per rappresentare la sconfitta della regina, con solo una parvenza di lieto fine. Se Roberto Devereux arriva a rovesciare, in modo traumatico, il solito lieto fine delle opere monarchiche, Le due illustri rivali lo mette abilmente e sottilmente in discussione.
52 Cosí nella partitura in I-NC, 29.6.5, c. 157v. Nel libretto a stampa (le due | IlluSTrI rIVAlI, | melodrAmmA IN Tre ATTI, | dA rAppreSeNTArSI | Nel / reAl TeATro S. CArlo | Nel CAr-
NeVAle del 1840. | [fregio] | NApolI | Dalla Tipografia Flautina | 1840.) salta «del mio core!», forse per un mero errore tipografico: «Ah cosí il fossi! Armando» non ha molto senso, né dal punto di vista drammatico né metrico, rompendo la regolarità degli ottonari.