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Alessandro Avallone
Alessandro Avallone
La Virginia e il Mercadante ʼpoliticoʼ
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La Virginia, tragedia lirica in tre atti di Salvatore Cammarano, è il settimo libretto scritto dal poeta napoletano per lʼoperista altamurano.1 Lʼopera doveva andare in scena al teatro San Carlo nella stagione di Carnevale del 1850, ma la censura ne bloccò la rappresentazione sino al 7 aprile 1866, quando finalmente fu messa in scena nel medesimo teatro, pochi anni prima della morte di Mercadante.2 In questo contributo intendo delineare la genesi storico-letteraria dellʼopera, lʼindiscussa ascendenza alfieriana nella scelta del soggetto da parte di Cammarano, e provare a indagare, a livello drammatico e musicale, e poi in una piú ampia prospettiva storico-culturale, le ragioni e le cause del provvedimento censorio che impedí alla Virginia per ben sedici anni di solcare le scene di un teatro lirico.
Il libretto di Cammarano trae ispirazione dallʼomonima tragedia di Vittorio Alfieri, composta tra il 1777 e il 1778. Il poeta astigiano aveva allʼepoca ventottʼanni,
1 Gli altri libretti approntati da Cammarano per Mercadante sono, in ordine cronologico: Elena da Feltre (1838), La Vestale (1840), Il Proscritto (1841), Il Reggente (1843), Il vascello da Gama (1845),
Orazi e Curiazi (1846), cui va aggiunta Medea, scritta a quattro mani con Felice Romani e andata in scena nel 1851. È interessante notare come tutte le opere composte su testo di Cammarano appartengano al periodo successivo alla cosiddetta riforma di Mercadante, il cui piú celebre enunciato fu affidato ad una lettera inviata a Francesco Florimo, il cui oggetto era proprio Elena da Feltre. Tutte le opere hanno avuto la loro prima rappresentazione al Teatro
San Carlo di Napoli. 2 Nella biblioteca del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli sono conservate le partiture autografe delle due versioni dellʼopera. La stesura piú antica è racchiusa in due tomi, e non presenta un vero e proprio frontespizio. Nel primo tomo, che contiene due atti su tre, si legge soltanto: Virginia | Introduzione | e cavatina di Appio | Carnevale del 1850 | Napoli. Nella riscrittura (molto parziale) del 1866 – in cui Mercadante, già privo della vista, si limitò ad un semplice lavoro di supervisione – il frontespizio recita: Atto Primo | Tragedia Lirica in tre atti
Poesia di | Salvatore Cammarano | Virginia | Musica del M° C° S° Mercadante | scritta sin dallʼanno 1851 [sic] | Rappresentata in Napoli nel Real Teatro S. Carlo | nella Primavera del 1866. Per la stesura di questo contributo ho fatto riferimento allʼautografo della prima versione.
e dopo un lungo peregrinare in Europa, era tornato in Italia con lʼanimo acceso da un forte amor di patria e da un desiderio di libertà, contro ogni forma di tirannia. Sono gli stessi anni del trattato in due volumi Della tirannide, e della nuova ideologia tragica di Alfieri, secondo cui, a muovere lʼazione drammatica doveva essere lo scontro tra due passioni politiche contrapposte e inconciliabili, come il dispotismo assoluto da un lato e lʼamore per la libertà dallʼaltro.3 È lo stesso Alfieri, nella sua celebre autobiografia, a raccontare il suo primo incontro con lʼepisodio storicoleggendario della cittadina romana Virginia, giovane fanciulla plebea oggetto delle bramose attenzioni del decemviro Appio Claudio. Egli era in viaggio da Genova verso la Toscana, e rimase bloccato a Sarzana a causa del mare grosso che ritardava lʼarrivo di una piccola imbarcazione con tutti i suoi bagagli ed effetti personali; per trascorrere al meglio questa attesa logorante, il poeta si rivolse ad un prete del posto, e alla sua biblioteca personale:
[…] mi feci prestare un Tito Livio, autore che (dalle scuole in poi, dove non lʼavea né inteso né gustato) non mʼera piú capitato alle mani. Ancorché io smoderatamente mi fossi appassionato della brevità sallustiana, pure la sublimità dei soggetti, e la maestà delle concioni di Livio mi colpirono assai. Lettovi il fatto di Virginia, e gli infiammati discorsi dʼIcilio, mi trasportai talmente per essi, che tosto ne ideai la tragedia; e lʼavrei stesa dʼun fiato, se non fossi stato sturbato dalla continua espettativa di quella maledetta filucca, il di cui arrivo mi avrebbe interrotto la composizione.4
Quando la tanto attesa feluca giunse a Sarzana, il poeta poté riprendere il suo viaggio verso la Toscana. Giunto a Siena, stese rapidamente il canovaccio di alcune delle sue piú importanti tragedie, Agamennone, Oreste, e la stessa Virginia (cfr. Vita, IV/5); ciò avveniva nellʼautunno del 1777, mentre negli ultimi mesi dellʼanno si dedicò a verseggiare lʼopera dedicata alla fanciulla romana, che vide la luce nellʼaprile del 1778 (cfr. Vita, IV/7). Lʼautore non era però soddisfatto della versificazione effettuata in quegli anni, e rimaneggiò il dramma giungendo alla versione definitiva soltanto nel 1781. Lʼanno seguente, a Roma, ne diede una prima lettura nella casa della nobildonna romana Maria Pizzelli, una dama intellettuale dalle forti convinzioni illuministiche, il cui salotto era frequentato da importanti scrittori e artisti del tempo quali Monti, Baretti, Canova, Alessandro Verri. Di questa lettura lʼAlfieri fa un rapido accenno nella sua autobiografia (cfr. Vita, IV/9), ma un racconto piú
3 Cfr. VITTorIo AlFIerI, Della tirannide, Milano, Rizzoli, 19502. Sono anche gli stessi anni in cui il poeta astigiano aveva iniziato la stesura dellʼEtruria vendicata, in cui esaltò lʼomicidio del duca Alessandro deʼMedici ad opera del cugino Lorenzino, nonché dei tre libri Del Principe e delle Lettere e delle prime Satire. 4 VITTorIo AlFIerI, Vita, introduzione e note di Marco Cerruti, Milano, Bur, 2007, Epoca Quarta, Virilità, Cap. 4, p. 202.
dettagliato della serata è tramandato in un vecchio libro dello storico e prefetto David Silvagni:
In casa della Pizzelli lesse una sera lʼAlfieri la sua Virginia, la quale fece tanta impressione sopra Vincenzo Monti, presente alla riunione, che si pose a scrivere lʼAristodemo, che è invero uno dei suoi migliori lavori ed una delle piú belle tragedie del teatro italiano. […] È difficile descrivere lʼimpressione che fece sullʼuditorio […] la lettura della Virginia. I metastasiani, abituati ai placidi melodrammi, alle idee pacifiche, alla cadenza melodica di quei versi, rimasero sorpresi alle severe espressioni, al robusto verseggiare e alle massime di libertà della nuova tragedia, nella quale ad ogni punto traspare lʼindole indomita e generosa e la natura fierissima dello scrittore.5
Questa affermazione, seppur priva di testimoni diretti, ci aiuterà a comprendere meglio le motivazioni che indussero Mercadante alla scelta di questo soggetto, e, in parte, a immaginare le reali motivazioni censorie della monarchia borbonica, che bloccarono la messinscena nel 1850.
Lʼepisodio storico di Virginia, come riportato dallo stesso Alfieri, è raccontato in Tito Livio, nella sua opera storiografica giuntaci mutila, e che originariamente comprendeva 142 libri.6 Lo storico racconta come nellʼanno 302 dopo la fondazione di Roma venne creato lʼistituto decemvirale, composto da dieci magistrati con poteri di consoli che ebbero il compito di promulgare un nuovo codice legislativo. Lʼattività di ogni altra magistratura, come ad esempio quella dei tribuni del popolo, concepita ai primordi della Repubblica, venne pertanto sospesa. Secondo la testimonianza di Livio, lʼambigua figura di Appio Claudio, uno dei decemviri con maggiore seguito nel patriziato romano, riuscí a farsi rieleggere nel secondo Decemvirato, insieme a molti suoi fedelissimi, con il pretesto di completare le tavole delle leggi. Ma le sue intenzioni erano le piú turpi: Appio Claudio si trasformò ben presto in un tiranno senza scrupoli, accentrando ogni potere nelle sue mani e depredando la classe plebea di ogni diritto, comprandosi il silenzio dei patrizi con favori e corruzione.
Inoltre, approfittando del disordine e del degrado che regnava a Roma, i popoli confinanti con lʼUrbe dichiararono guerra alla Repubblica, costringendo i plebei a prendere le armi, permettendo cosí al Decemviro di portare avanti tranquillamente i propri disegni dispotici. Nella tragedia di Alfieri, come nel libretto di Cammarano, la guerra è la motivazione per cui Virginio, il padre di Virginia, è lontano da Roma, impegnato nel campo di battaglia, ed offre lo spunto per lʼallontanamento
5 dAVId SIlVAGNI, La Corte e la Società romana nei secoli XVIII e XIX, Roma, Forzani e C., Tipografi del Senato, 1884, I, pp. 391-392. Lʼintera opera è disponibile in versione digitale al seguente link: «https://archive.org/details/lacorteesocietar01silv/page/n8/mode/1up» (ultima consultazione 30 giugno 2021). 6 Nello specifico cfr. TITo lIVIo, Ab urbe condita, III, 44-48.
di Icilio, promesso sposo di Virginia, già tribuno della plebe e fiero oppositore di Appio. Inoltre, un valoroso soldato di nome Lucio Siccio Dentato, sostenitore delle magistrature plebee, venne ucciso a tradimento su ordine dei Dieci, a suggellare le modalità sanguinarie e tiranniche dei nuovi despoti di Roma. Le ceneri di questo soldato sono portate in scena allʼinizio dellʼopera di Mercadante, accompagnate da una marcia funebre scura e solenne che interrompe il banchetto dei patrizi e che pare fu suonata nellʼaccompagnare il feretro del compositore.
Di seguito riporto lo schema riassuntivo dellʼopera di Cammarano/Mercadante:
ATTo I: Nella sala del Palazzo Decemvirale è in corso un sontuoso banchetto. Il coro di uomini e donne appartenenti al patriziato romano è festoso e inneggiante a Bacco, e si interrompe soltanto per un istante al passaggio di un corteo funebre, per poi riprendere. Segue scena e cavatina di Appio, il capo dei decemviri, che definisce il patriziato un branco di servi utili solo per raggiungere il potere. Appio attende lʼamico fidato Marco, e non si capacita di come una donna plebea possa averlo sedotto. Marco riferisce del fallimento della propria missione, che consisteva nel corrompere la nutrice di Virginia. Ma esorta il capo dei magistrati a non perdersi dʼanimo, e a procedere con il piano concordato. Il coro dei patrizi richiama Appio al banchetto; segue dunque la cabaletta finale con la promessa che Virginia si piegherà al suo volere. Virginia rientra nelle mura della casa paterna circondata da un coro di donne plebee e dalla fida Tullia; sono appena state a rendere omaggio alla madre morta. Le fanciulle consolano Virginia ricordandole la profondità del sentimento amoroso che lega lei e Icilio, ex tribuno della plebe. Virginia invia Tullia al campo di battaglia dove si trova il padre perché teme le insidie di Appio, e che possa scaricare la sua rabbia proprio su Icilio. Appena lʼancella è uscita, Appio in persona entra nellʼumile dimora e dichiara appassionatamente il proprio amore a Virginia. La fanciulla gli ricorda come un patrizio non possa sposare una plebea, e il decemviro le ricorda che lui ha il potere di cambiare le leggi in ogni momento, a proprio piacimento. Quando Virginia palesa il fatto che non cederà mai al suo amore, Appio inizia ad infervorarsi, e le chiede se ci sia un rivale, un altro uomo cui lei ha giurato amore. Di fronte alla sua esitazione Appio la incalza e ne chiede lʼidentità, quando ad un tratto entra Icilio presentandosi come lʼodiato rivale. Segue terzetto finale che chiude lʼatto, in cui le passate ruggini di Appio e Icilio si rinnovano in un bruciante confronto dialettico sul destino dellʼinfelice Virginia, la quale giura al Cielo e al decemviro che se mai sarà tra le sue braccia, sarà solo un corpo inerte senza vita.
ATTo II: Virginio rientra a Roma dal campo di battaglia, e riabbraccia sua figlia Virginia che gli racconta dellʼinsidioso corteggiamento e della volontà di Appio di sposarla a tutti i costi. Segue un duetto padre-figlia, che si conclude con un ignoto presagio di sventura ad offuscare le menti di entrambi. Entra Icilio, cui Virginio rivela di avere un solo giorno di licenza accordatogli dal suo generale,
esortandolo a non temere il futuro e dando agli amanti la benedizione come sposi, ordinando di predisporre il prima possibile la cerimonia nuziale. Tullia e un coro di donzelle accompagnano Virginia e Icilio, in estasi, alle sacre are. Davanti al Tempio dʼImene i sacerdoti invocano la benedizione sui novelli sposi, ma Marco, che si trova a passare di lì, osserva ogni dettaglio nascosto. Mentre il corteo nuziale sale le gradinate del tempio, arriva Marco con un gruppo di schiavi e ordina che Virginia venga portata nei suoi appartamenti, in quanto sua schiava, dichiarando di essere pronto a chiarire tutto in tribunale. Mentre la situazione sta per degenerare in seguito alla reazione di Icilio, sopraggiunge Appio. Marco, seguendo il piano, rivela che Virginia era figlia di una sua schiava, e che fu sottratta con lʼinganno dalla consorte di Virginio. Appio chiede che Marco porti delle prove di questa frode, ma ecco che fa il suo ingresso Virginio, furente. Segue un ampio concertato, tra Appio che reprime a stento la sua rabbia per il ritorno di Virginio, Icilio che medita vendetta, Virginio che invoca la rabbia dei padri contro chi mette in dubbio i propri figli, Virginia che teme per la sorte dei suoi cari, Marco che cerca di non cedere al rimorso per lʼinganno ordito, e il coro che commenta sgomento. Icilio svela il piano dei due rapitori, accusando Marco di essere complice di Appio, per portare Virginia nella casa del decemviro. Lo scontro sembra imminente, ma Appio, fingendosi magnanimo, concede a Virginia un altro giorno, e la convoca la mattina dopo in tribunale per dirimere la questione in sede processuale. Ma Marco pretende che la sua schiava lo segua in casa. Icilio e Virginio non credono allʼesistenza di una legge che permetta ciò, e sono pronti comunque ad infrangerla in nome della giustizia e della dignità. Marco fa cenno agli schiavi di trascinare via Virginia ma Icilio si oppone, pronto a morire per la sua sposa. Segue un esplosivo finale dʼatto in cui alla giustizia decemvirale, al diritto romano in materia di schiavitú, si oppone il diritto paterno, la pietà filiale, una sorta di diritto morale, che, come in Antigone, si oppone alla giurisprudenza umana.
ATTo III: Nellʼappartamento di Appio, il decemviro e Marco attendono Icilio per congedarlo con un obbligo di leva militare. Se Icilio si rifiutasse, allora Marco dovrà ucciderlo. Giunge Icilio, e Appio gli comunica che lo attendono come pretore sul campo: un diritto, spiega il decemviro, che non spetterebbe a un plebeo, ma talvolta la legge può essere infranta da chi lʼamministra per seguire la virtú. Icilio, con orgoglio plebeo e in qualità di tribuno, getta a terra il papiro di convocazione, denunciando la frode di Appio. Segue duetto con velate promesse di morte e la certezza da parte di entrambi di riuscire ad avere Virginia. Nella casa di famiglia, Tullia e Virginia attendono lʼalba. Arriva Virginio ed insieme si dirigono mestamente al tribunale. Durante il cammino, giunge la notizia del ritrovamento del cadavere di Icilio, trucidato sulla pubblica via. La sentenza che pronuncerà Appio è già chiara per tutti, ed è stata vergata con il sangue del giovane tribuno. La scena al Foro si apre con due cori contrapposti, quello dei plebei che piange la misera sorte di padre e figlia, e quello dei Littori che ricorda come la giustizia regni
in quel luogo e non vi è pianto o dolore che possa mutarne lʼesito. Appio pronuncia la sentenza: Virginia è figlia di schiavi, sottratta in casa di Marco dalla sposa di Virginio, per accudirla come figlia al posto di quella perduta da piccola. Virginio protesta e viene circondato dai Littori, mentre Marco e i suoi seguaci, chiamati come testimoni, giurano che si tratta della verità. Appio non ha dubbi, dichiara Virginia schiava di Marco: dovrà abbandonare la famiglia. La sentenza lascia tutti nello sgomento piú totale, mentre Virginio comincia ad accarezzare un tragico piano. Dichiara di non sapere con certezza se sua moglie gli abbia mentito, e chiede di poter abbracciare unʼultima volta la figlia. Appio, fregiandosi di magnanimità, permette al padre di salutare la figlia. Segue un duetto dʼaddio tra Virginio e Virginia, mentre Appio pregusta il suo trionfo. Quando i Littori intervengono per separare padre e figlia, Virginio affonda la sua lama nel petto di Virginia, la quale muore con la certezza di essere davvero sua figlia, e che non sarà mai schiava. Virginio maledice Appio con la lama insanguinata, ed immediatamente scoppia la rivolta popolare che segnerà il tramonto definitivo dellʼistituto decemvirale.
Il nodo dirimente di questo episodio storico-politico – che esercitò un ascendente cosí forte sul poeta astigiano – è chiaramente la rivolta popolare che chiude sia la tragedia che lʼopera. Tale sommossa non chiedeva infatti soltanto giustizia per la plebea Virginia, ma lʼintero sovvertimento di un ordine politico-istituzionale marcio e corrotto, che era prosperato a seguito della scellerata abolizione del tribunato.
Lʼopera di Cammarano-Mercadante segue pressoché fedelmente la tragedia alfieriana, eliminando il personaggio della madre Numitoria e concentrando lo scontro in due opposte polarità: il tiranno Appio Claudio con le sue brame oligarchiche e i suoi appetiti sessuali, e il valore libertario incarnato dai due campioni della Repubblica, rispettivamente il padre e lo sposo di Virginia. La fanciulla, che non svolge alcun ruolo attivo nella vicenda, riveste dunque la funzione di vittima espiatoria, epicentro di uno scontro politico che la riguarda solo indirettamente. Senza dubbio, la scelta di questo soggetto negli anni piú caldi del Risorgimento non poteva incontrare lʼassenso della censura borbonica.
Eppure, lʼopera, non presentava alcun elemento sovversivo nel suo impianto drammaturgico tale da differenziarsi rispetto a lavori coevi o già presentati sulle scene dal medesimo sodalizio artistico. Cammarano stese infatti i tre atti con pedissequa attenzione nella distribuzione dei pezzi chiusi: due cavatine rispettivamente per i personaggi di Appio e Virginia, un duetto padre-figlia e quello canonico, dʼamore, tra la fanciulla e Icilio, e un ampio concertato alla fine del secondo atto, quando durante la cerimonia nuziale viene riportata da Marco la falsa notizia che Virginia non sia una donna libera, bensí figlia di schiavi. Il coro è presente in tutti gli atti, seguendo in questo lʼimpianto classicistico della tragedia alfieriana, ma non sempre dà voce al popolo romano tradito dai decemviri: il coro dei patrizi apre infatti lʼopera, mentre nella scena in tribunale che chiude lʼopera troviamo il coro dei plebei che oppone al diritto romano in materia di schiavitú il diritto
paterno, la pietà filiale, mentre il coro dei Littori ricorda come solo la giustizia abbia diritto allʼultima parola. A livello musicale Mercadante curò tutti i personaggi allo stesso modo, non differenziando a livello espressivo – con colorature, virtuosismi, ampiezza melodica – i membri del popolo da quelli dellʼoligarchia patrizia.
Per ragioni di spazio, ho deciso di limitare la mia analisi al personaggio di Appio, il crudele ed ambizioso capo dei magistrati romani: questo perché la sua figura dispotica si prestava ad una maggiore esposizione allʼocchio del censore, il cui principale obiettivo era limitare ogni possibile identificazione tra la monarchia borbonica regnante a Napoli e lʼuso spregiudicato e tirannico del potere da parte dellʼautorità – anche in remoti precedenti storici – per perseguire trame ed obiettivi personali. Lʼopera, inoltre, si conclude con la supposta uccisione di Appio da parte dei plebei in rivolta, la quale, anche se non viene mostrata esplicitamente in scena, è facilmente presumibile: è dunque molto probabile che uno spettacolo culminante con un tirannicidio da parte del popolo, e con lʼesplicita richiesta di un cambiamento nellʼordine politico-istituzionale – e il ritorno, si badi bene, alle glorie della Repubblica contro ogni forma oligarchica di potere – venisse percepito come un pericolo troppo grande per gli equilibri dinastici del Regno di Napoli, a soli due anni di distanza dai moti del 1848 e dalla conseguente concessione degli Statuti. Per comprendere meglio come lʼantagonista della tragedia fosse stato tratteggiato dalla penna di Cammarano e dalla musica di Mercadante, può essere utile soffermarsi sulla cavatina di Appio, «Ah! tantʼoltre non credea», tratta dal monologo del decemviro che apre il secondo atto della Virginia di Alfieri. Riporto qui sia il testo del libretto che quello della tragedia:
VIrGINIA-CAmmArANo-merCAdANTe VIrGINIA-AlFIerI (I/2) (II/1) Ah! tantʼoltre non credea Appio, che fai? Dʼamor tu insano?... Allʼalto Che il mio foco ormai giungesse! Desio di regno ignobil voglia accoppi Che unʼoscura e vil plebea Di donzella plebea?... Sì; Poi chʼellʼosa Trionfar di me potesse! Non sʼarrendere ai preghi, a forza trarla Oh! Che fia se ancor colei Ai voler miei, parte or mi fia di regno. Osa opporsi ai voti miei!... […] A me stesso tento invano Lʼonta mia dissimular… Questo amor mi rende insano!... Appio in me non so trovar.
Nella versione censurata – lʼopera composta per il Carnevale del 1850 – lʼaria presenta una scorrevole linearità melodica nella linea vocale, e una compiutezza formale sia a livello espressivo che fraseologico. La voce tenorile di Appio si estende in tutta la sua ampiezza, sia nel cantabile – in cui medita sullʼinsana passione nei
confronti della plebea che lo divora e consuma – che nella cabaletta.7
Lʼorchestrazione segue i principi esposti nella già citata lettera allʼamico Florimo: una piccola progressione armonica affidata ai legni introduce il Cantabile, in cui Appio espone tutto il suo agitato stupore per un amore insano che lo avvinghia ad una plebea. Egli è pur sempre il capo dei Decemviri, e pertanto il monologo è strutturato in frasi regolari di quattro misure: il clarinetto e il flauto rinforzano la linea vocale, mentre il tumulto interiore che scuote il tiranno è simboleggiato dallʼincalzante formula dʼaccompagnamento degli archi, con i ribattuti delle quartine di biscrome (vedi esempio musicale n. 1).
7 Nella cavatina di Appio sono davvero minime le modifiche apportate da Mercadante nel 1866.
Egli mantenne immutata anche la conclusione ʼteatraleʼ della cabaletta – rigorosamente col
«da capo», nonostante i proclami riformatori relativi allʼeliminazione di ogni elemento ʼtrivialeʼ in queste sezioni delle arie – con una cadenza evitata nelle battute finali [si tratta di una cadenza evitata su una dominante secondaria della dominante, vale a dire una settima diminuita sul quarto grado alterato (Re♯-Fa♯-La-Do) che spezza la cadenza perfetta V-I (Mi maggiore-La maggiore)]. È interessante notare, quindi, come questo numero non fu eliminato o stravolto nella riproposizione del titolo sulle scene napoletane.
Esempio musicale 1: «Ah! Tantʼoltre non credea», Virginia, I.2
Il dissidio di Appio raggiunge lʼapice nei versi del distico finale, in cui egli stenta a riconoscere sé stesso a causa di questo amore malsano. Il tormento di un uomo che alla sua prima apparizione in scena non presenta gli attributi musicali di un tiranno, quanto piuttosto quelli di un amante in ambasce, è espresso anche qui dalla progressione ascendente su ritmo puntato, rinforzata dai legni, che ha come contraltare il rapido disegno discendente degli archi scuri (vedi esempio musicale n. 2).
Esempio musicale 2: «Ah! Tantʼoltre non credea», Virginia, I.2
Alla luce di questi esempi mi sembra di poter affermare che nellʼaria di presentazione di Appio né il contenuto dei versi, né tantomeno la musica composta per esaltare la figura negativa dellʼantagonista, presentavano un cosí alto ed evidente grado di infrazione stilistica da rendere inevitabile il ricorso alla censura. Né la scena si prestava a qualsivoglia lettura politico-propagandistica. Si tratta, invero, soltanto della prima apparizione del tiranno, e al centro della scena non vi sono – o meglio,
non vi sono soltanto – le sue ambiziose trame di potere sullʼUrbe, ma lʼossessione nei confronti di Virginia, e la rabbia per le sue sdegnose e continue resistenze.
Per comprendere altre possibili motivazioni alla base del provvedimento censorio, spostiamo lo sguardo al terzo atto dellʼopera: qui troviamo il serrato confronto tra Appio e Icilio, e di conseguenza la contrapposizione tra due opposte visioni di Roma, una tirannica e una libertaria. Tale duetto esponeva dunque lʼoperista altamurano ad un rischio elevato, poiché gli elementi scenico-musicali in gioco – linee vocali dei cantanti, sovrapposizioni, formule ritmiche, il ruolo timbrico dellʼorchestra, ma anche gestualità, mimica, movimento corporeo – avrebbero inevitabilmente stabilito una differenza tra i due interlocutori, pur senza voler dichiarare la propensione degli autori stessi verso il tribuno o il Decemviro. La censura borbonica non era di certo indulgente quando si trattava di spettacoli e rappresentazioni a cosí ampio impatto popolare e di rapida diffusione, pertanto la macchina censoria poteva intervenire anche per una sola scena, o per una frase eccessivamente ʼschierataʼ e pericolosa.
Allʼinizio del terzo atto, Appio ha convocato a sé il giovane Icilio – promesso sposo di Virginia – per eliminarlo dalla circolazione, con il pretesto di spedirlo in guerra. Icilio disvela immediatamente lʼinganno, opponendo il suo valore alle meschine macchinazioni di Appio. Un accompagnamento scarno ed essenziale, quasi funereo, sostiene la medesima linea vocale, articolata in brevi semifrasi. Quando Icilio risponde ad Appio, la simbiosi tra i due personaggi appare completa sia dal punto di vista drammatico che sotto lʼaspetto musicale. Il duetto si presenta fraseologicamente identico nel botta e risposta dei due antagonisti, non producendo alcuna frattura armonica o ritmica – Appio non scardina né la pulsazione fondamentale, né il movimento armonico del canto di Icilio – neanche nei rari momenti di sovrapposizione (vedi esempi musicali 3-4).
Esempio musicale 3: Duetto Appio-Icilio, Virginia, III.2
Esempio musicale 4: Duetto Appio-Icilio, Virginia, III.2
Mi sembra dunque lecito affermare, nel caso di Virginia, che la censura borbonica non sia legata in alcun modo ad elementi di autorialità. Non era intenzione né del librettista né del compositore creare un ʼdoppioʼ teatrale dei moti risorgimentali del 1848 nella loro tragedia lirica. Tuttavia, un Mercadante ʼpoliticoʼ esiste eccome, ma va appunto inserito nel piú ampio quadro storico-istituzionale di questi anni. Se di fatto neanche il censore piú intransigente poteva cogliere nella figura di Appio Claudio un riferimento allʼautoritarismo di Ferdinando II di Borbone, la figura
di Icilio, magistrato democratico, poteva invece alludere ad un personaggio cruciale nella storia risorgimentale napoletana, quella del riformatore e poi rivoluzionario Aurelio Saliceti (1804-1862).8 Figlio di un magistrato con note simpatie mazziniane, Aurelio seguí le orme del padre, divenendo avvocato e occupando la cattedra di diritto allʼuniversità di Napoli dal 1836 al 1848. Come già evidenziato da Giuseppe Foscari, la professione di studioso e docente di diritto portò inevitabilmente Saliceti ad occuparsi della possibile evoluzione costituzionale della monarchia borbonica. Il 29 gennaio 1848, poche settimane dopo lo scoppio della rivolta palermitana capeggiata da Rosolino Pilo – iniziata il 12 gennaio 1848, la prima scintilla di un incendio che sarebbe divampato in quellʼanno cruciale – lʼatto sovrano di Ferdinando II concesse la Costituzione, stabilendone le basi e promulgandola concretamente il 10 di febbraio.
Riporto qui soltanto alcuni stralci, che possono essere utili alla nostra riflessione, tratti dalle «Disposizioni Generali» e dalla sezione relativa alla nuova Camera dei Pari, una delle due nuove assemblee legislative del Regno, insieme alla Camera dei Deputati:
Disposizioni generali: Art. 1 – Il reame delle Due Sicilie verrà dʼoggi innanzi retto da temperata monarchia ereditaria costituzionale sotto forme rappresentative. Art. 2 – La circoscrizione territoriale del reame rimane qual trovasi attualmente stabilita; e non potrà in seguito apportarvisi alcun cangiamento se non in forza di una legge. Art. 3 – Lʼunica religione dello stato sarà sempre la cristiana cattolica apostolica romana, senza che possa mai essere permesso lʼesercizio di alcunʼaltra religione. Art. 4 – Il potere legislativo risiede complessivamente nel re, ed in un parlamento nazionale, composto di due camere, lʼuna di pari, lʼaltra di deputati. Art. 5 – Il potere esecutivo appartiene esclusivamente al re. Art. 6 – Lʼiniziativa per la proposizione delle leggi si appartiene indistintamente al re, ed a ciascuna delle due camere legislative. […]
8 Giurista, magistrato, costituente, politico, ma anche letterato e scrittore, la figura di Aurelio
Saliceti attraversa come un filo rosso il dibattito politico-istituzionale attorno alle forme e alle sorti della monarchia borbonica nel biennio caldo 1848-1850. Riformatore radicale, sostenitore delle piú avanzate istanze liberali, Saliceti fu funzionario e ministro inizialmente molto vicino alla figura del Re; fuggito da Napoli anche per timori legati alla propria incolumità, incrociò le sorti del Triumvirato mazziniano che stava dando vita allʼesperimento repubblicano nella capitale pontificia. Sulla figura di Saliceti si vedano: AurelIo SAlICeTI, Scritti editi e inediti. Il costituente, il politico, a cura di Primo Di Attilio, Roma, Edizioni Spes, 2004;
AlFoNSo SCIroCCo, Aurelio Saliceti da Teramo a Napoli, da avvocato a ministro, «Clio» XXV/1, 1989, pp. 123-146; GIuSeppe FoSCArI, Aurelio Saliceti: funzionario e ʼrivoluzionarioʼ?, in Stato e
Società nel Regno delle due Sicilie alla vigilia del 1848: personaggi e problemi, a cura di Renata
De Lorenzo, Napoli, Arte Tipografica, 2001, pp. 193-233.
Capo II Camera deʼ Pari Art. 43 – I pari sono eletti a vita dal re, il quale nomina fra i pari medesimi il presidente ed il vice-presidente della camera, per quel tempo che giudica opportuno. Art. 44 – Il numero deʼ pari è illimitato. Art. 45 – Per esser pari si richiede aver la qualità di cittadino e lʼetà compiuta di trentʼanni. Art. 46 – I principi del sangue sono pari di diritto, e prendono posto immediatamente appresso il presidente. Essi possono entrare nella camera alla età di anni venticinque, ma non dare voto che allʼetà compiuta di trentʼanni. […] Art. 48 – La camera deʼ pari si costituisce in alta corte di giustizia per conoscere dei reati di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello stato, di cui possano essere imputati i componenti di ambedue le camere legislative. […].9
Saliceti venne nominato Intendente della provincia di Salerno quasi contestualmente alla concessione dello Statuto, e tale scelta fu avallata da Ferdinando in persona, per inviare in provincia autorevoli sostenitori del progetto costituzionale. A questʼaltezza cronologica, Saliceti era un convinto realista e sostenitore del principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; egli non avrebbe potuto immaginare che di lí a pochi mesi, con il pretesto dei gravi tumulti e della rivolta cittadina del 15 maggio 1848 – data in cui si sarebbe dovuto inaugurare il nuovo Parlamento – con uno squallido voltafaccia il monarca avrebbe sciolto la Camera dei Deputati e indetto nuove elezioni. Si trattò di fatto di una manovra dispotica per bloccare lʼesperimento costituzionale e ripristinare il governo assoluto: alla vigilia dellʼinsediamento del Parlamento, il sovrano aveva anche provveduto alla nomina di cinquanta membri della Camera dei Pari, la quale, assieme alla formula di giuramento imposta ai deputati, fu causa del malcontento popolare e delle agitazioni di piazza.10 Nei pochi mesi intercorsi tra la promulgazione della Costituzione e la rivolta di maggio, Saliceti fece in tempo a diventare ministro della Giustizia nel secondo governo del duca di Serracapriola, venendo però subito allontanato per le sue posizioni radicali.
I liberali piú avanzati – nelle cui fila egli si ascriveva – intendevano infatti provare a limitare i poteri del sovrano, battendosi per lʼabolizione della Camera dei Pari. Come riportato sopra, la Costituzione prevedeva che i membri di questa assemblea fossero eletti dal Re, e scelti tra i segmenti sociali, professionali e militari, tradizionalmente piú fedeli al sovrano. Saliceti fu tra i piú attivi a proporre lʼabolizione di questa istituzione. Il suo programma politico, proposto al governo presieduto da Carlo Troya – che sarebbe caduto il 15 maggio – frutto di un compromesso tra le posizioni repubblicane piú radicali e le tendenze piú moderate che non intendevano
9 Costituzione del Regno delle due Sicilie, Napoli, 10 febbraio 1848. 10 Su questo vedi FoSCArI, Aurelio Saliceti: funzionario e ʼrivoluzionarioʼ? cit., pp. 223-227.
rinunciare in toto allʼistituto monarchico, prevedeva misure quali il suffragio universale e i pieni poteri alla Camera dei Deputati, abolendo unʼistituzione considerata antidemocratica, conservatrice e lontana dalle esigenze popolari.
La fine di questo ambizioso programma politico è purtroppo nota: il magistrato democratico, lʼacuto riformatore che riteneva possibile la trasformazione dellʼordinamento istituzionale senza dover per forza ricorrere alle violenze di piazza, in seguito ai fatti del 15 maggio prese la via dellʼesilio; quel giorno, inoltre, scampò a ben tre attentati, poiché si diffuse la voce che la sua testa sarebbe stata un gradito omaggio per il Re borbonico. Temendo quindi anche per la propria vita, Saliceti giunse a Roma, appena in tempo per coadiuvare lʼesperimento della Repubblica Romana grazie alle competenze giuridiche e allʼesperienza politica accumulata a Napoli.
Il tentativo di abolizione della Camera dei Pari da parte di un magistrato vicino al popolo credo si inserisca perfettamente in un orizzonte analogico, o quantomeno pertinente con le vicende del crollo del Decemvirato allʼepoca di Appio Claudio. La corrispondenza tra i rivoluzionari coevi, come Saliceti, e quelli di ieri, come il tribuno Icilio, era assai piú pericolosa di ogni adesione stilistica o drammaturgica allʼideologia alfieriana. È possibile che i fatti del maggio 1848 – e la battaglia riformatrice di un ex ministro della Giustizia del Regno di Napoli – fossero ancora cosí freschi nella memoria collettiva da far scattare il provvedimento censorio nei confronti dellʼopera di Mercadante? Non possiamo avere una risposta certa, questo è ovvio, tuttavia il quadro storico-politico in cui ambedue gli episodi si inseriscono presenta notevoli continuità e somiglianze.
Lʼesperienza della Repubblica Romana ci porta inoltre ad unʼultima riflessione, con la quale vorrei concludere il mio ragionamento. Comʼè noto, lʼopera che battezzò lʼesperienza mazziniana nella città capitolina fu La Battaglia di Legnano, andata in scena il 27 gennaio del 1849 al Teatro Argentina su versi di Cammarano e musica di Giuseppe Verdi. Sin dalla rivoluzione di primavera, Verdi aveva meditato su un soggetto operistico che presentasse la figura di un ʼtribuno dʼItaliaʼ, interessandosi alla vicenda di Cola di Rienzo; la scelta ricadde poi sulla Lega Lombarda e la sconfitta di Federico Barbarossa nel 1175.
Cosa sarebbe accaduto se il librettista napoletano avesse proposto a Verdi – e non a Mercadante – la storia della plebea Virginia, da rappresentarsi per di piú nella città romana, festeggiando la nascita di una nuova Repubblica? Uno studioso francese di fantasaggistica, Pierre Bayard, qualche anno fa ha pubblicato un libro dal titolo Et si le œuvres changeaient dʼauteur?.11 La tesi alla base del libro è indagare cosa accadrebbe attribuendo unʼopera – e il suo intero portato storico-artistico – ad un autore diverso, esplorando nuovi itinerari di ricerca. Egli propone diversi esempi,
11 Cfr. pIerre BAyArd, Et si le œuvres changeaient dʼauteur?, Paris, Les Éditions de Minuit, 2010.
Devo il suggerimento di questa lettura al collega Tommaso Sabbatini, che ne ha parlato in un suo recente contributo relativo al Mefistofele di Arrigo Boito letto come opera francese.
come Via col vento di Lev Tolstoj, o la Corazzata Potëmkin di Alfred Hitchcock. Cosa sarebbe dunque accaduto se Cammarano avesse invertito le collaborazioni, scambiando i libretti approntati per i due compositori?
Mercadante non avrebbe incontrato grandi difficoltà nellʼadattare la tragedia del poeta francese Joseph Méry, fonte della Battaglia di Legnano, ponendo in evidenza il triangolo amoroso che lega i due amici combattenti per la medesima causa alla donna che entrambi hanno amato. Lʼimpianto formale dellʼopera, denso di duetti, terzetti, concertati in finale dʼatto, avrebbe garantito allʼoperista altamurano un largo impiego delle masse corali, della tavolozza timbrica dellʼorchestra, e ovviamente di raffinate linee vocali, piú coincise, aderenti alla verità drammatica, secondo i dettàmi dellʼormai celebre ʼriformaʼ. Le vicende storiche della vittoriosa Lega Lombarda avrebbero probabilmente messo in allarme la censura borbonica, eppure anche nelle aree piú moderate del governo di Ferdinando II si parlava da tempo della necessità di allearsi al Piemonte contro lʼinvasore straniero. Il sovrano non avrebbe potuto leggere la sconfitta di Federico Barbarossa – ad opera di un popolo unito contro un invasore, e non contro un monarca – come un pericoloso riferimento al necessario cambio di passo politico-istituzionale.
Il libretto di Virginia nelle mani di Verdi, dʼaltro canto, sarebbe divenuto un gioiello di rara bellezza; del resto, lo è anche La Battaglia di Legnano, pur cosí raramente eseguita nei teatri italiani e non solo. Il mito della fanciulla sacrificata dal padre, come ultimo tributo da pagare alla libertà repubblicana, sarebbe stato accolto da un vero e proprio trionfo, in una città che stava diventando il laboratorio politico di una delle Costituzioni piú avanzate dʼEuropa. Mercadante si sarebbe dunque cimentato in una diversa prova operistica, costretto ugualmente – in virtú del soggetto rappresentato – alla misurazione della sua temperatura ʼpoliticaʼ; avrebbe forse evitato la censura, e la messinscena napoletana della Battaglia di Legnano avrebbe molto probabilmente innescato una riedizione dei moti del 15 maggio 1848.
A Roma, dʼaltro canto, il futuro collaboratore del Triumvirato, il giurista e rivoluzionario Aurelio Saliceti, in esilio da Napoli, si sarebbe accomodato in un palchetto del Teatro Argentina, per godersi uno dei piú emblematici – seppur dimenticati – melodrammi italiani del Risorgimento.