I Quaderni del San Pietro a Majella I-2020

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I Quaderni del San Pietro a Majella I - 2020

a cura di Antonio Caroccia e Paologiovanni Maione

Edizioni San Pietro a Majella



I QUADERNI DEL SAN PIETRO A MAJELLA I-2020



Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella� di Napoli

I Quaderni del San Pietro a Majella

I - 2020

a cura di Antonio Caroccia e Paologiovanni Maione


I Quaderni del San Pietro a Majella I/2020

Progetto e direzione scientifica Antonio Caroccia Paologiovanni Maione

Comitato di redazione de I Quaderni del San Pietro a Majella

Conservatorio di musica “San Pietro a Majella”

Carmine Santaniello Direttore del Conservatorio

Via San Pietro a Majella, 35 I - 80138 Napoli (NA)

Antonio Caroccia docente di Storia della musica

Tel. +39 081-544.92.55 Fax +39 081-297.778

Marta Columbro docente di Storia della musica

direttore@sanpietroamajella.it www.sanpietroamajella.it

Cesare Corsi docente di Bibliografia e biblioteconomia musicale

ISBN 978-88-98528-05-9

Paologiovanni Maione docente di Storia della musica

Edizioni San Pietro a Majella © Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” di Napoli Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere tradotta, ristampata o riprodotta, in tutto o in parte, con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, fotocopie, film, diapositive o altro senza autorizzazione degli aventi diritto. Printed in Italy

Domenico Sapio docente di Poesia per musica e drammaturgia musicale Daniela Tortora docente di Musicologia sistematica Giulia Veneziano docente di Storia della musica per didattica della musica In copertina Antonio Stradivari (Cremona 16441737), Arpa diatonica. (Museo degli strumenti musicali del Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella”). OA 555279 - Repertorio 2010, 5.34. La rivista scientifica «I Quaderni del San Pietro a Majella» è una pubblicazione periodica senza fini di lucro a cura del Conservatorio San Pietro a Majella. La redazione di questo numero è stata chiusa il 30 aprile 2020.


SOMMARIO

Presentazione del Presidente Presentazione del Direttore

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Introduzione a cura di Antonio Caroccia e Paologiovanni Maione

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Saggi PAOLO EMILIO CARAPEZZA La musica in Calabria nell’era di Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella

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AGOSTINO ZIINO “Se la doglia e ’l martire”: un’inedita intonazione a voce sola e basso continuo di Giovanni Brunetti

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SILVIA URBANI Il Venceslao di Apostolo Zeno: fonti dichiarate, remote e sottaciute

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SAVERIO FRANCHI Patroni, politica, impresari: le vicende storico-artistiche dei teatri romani e quelle della giovinezza di Metastasio fino alla partenza per Vienna

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STEFANIA ONESTI Muzzarelli coreografo dall’Italia a Vienna. Continuità o rottura?

119

Tesi MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO La monodia accompagnata e l’introduzione del genere rappresentativo a Napoli tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento

129

NICOLA DE ROSA Su una voce del poeta nella Fantasie op. 17 di Schumann

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WALTER AVETA – OSCAR CORPO – PAOLA NASTASI Ten to Survive: la settima arte dà voce ai bambini

165


Note d’archivio TOMMASINA BOCCIA L’Archivio Storico del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli esiste! 187

Recensioni Serenata and festa teatrale in 18th century europe (Renata Maione)

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Diplomacy and the aristocracy as patrons of music and theatre in the europer of the ancient régime (Francesca Seller)

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Musica, Arte e Grande Guerra (Chiara Macor)

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La danza 2.0. Paesaggi coreografici del nuovo millennio (Maria Venuso)

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PRESENTAZIONE

Il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, che ho il grande onore di presiedere, è stata nei secoli, è attualmente, lo sarà in futuro, una magnifica comunità educante, edificata con il contributo di molti e di grandi, per fare musica, trasmettere ai posteri un patrimonio insigne, in primo luogo umano, e poi anche culturale e documentale, infine per contribuire a disegnare un modello umanistico intessuto di accoglienza e tolleranza, costitutivamente a proiezione internazionale e cosmopolitica. Per un non musicista come chi scrive, ma di certo musicofilo, l’approccio alla presidenza di questa grande Istituzione è stato sempre nel tempo caratterizzato da sommesso rispetto e da permanente senso di inadeguatezza dinanzi all’aura di storia che si respira nei suoi corridoi, nelle magnifiche sale della biblioteca ed al cospetto di una collezione di strumenti antichi che conversano con chi li osserva, li interrogano su un passato che non trascorre e che circonfonde il presente vissuto dall’osservatore. La collezione di scritti nel volume dei «Quaderni del Conservatorio» che con gioia presento sono di intonazione tecnica, scritti da musicisti e Maestri per musicisti in primo luogo, ma solleticano la curiositas di studiosi di diversa formazione, rappresentano una finestra su un mondo che raggiunge l’ascoltatore solo a valle di un processo complesso, fatto di tecnica ma anche di cultura ma anche di sentimento. Di particolare interesse, la sezione dedicata alla pubblicazione delle tesi particolarmente meritevoli dei nuovi giovani Maestri formatisi nel Conservatorio e destinati auspicabilmente ad esserne ambasciatori nel mondo, a segnalare una continuità di impegno e formazione musicale nel tempo, che è stata l’eredità maggiore del nostro Istituto. Infine, non può non esprimersi il più vivo compiacimento per il riprendersi di una tradizione di cultura alta, ampiamente rappresentata in questi bellissimi Quaderni, interrottasi da qualche tempo e poi luminosamente oggi rinata, una tradizione che dal passato si fa presente per il futuro e che è dovere ed identità di una Istituzione di alta formazione musicale nota nel mondo.

prof. avv. Antonio Palma Presidente del Conservatorio

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PRESENTAZIONE

Con i «Quaderni del San Pietro a Majella» si inaugura un percorso editoriale teso a valorizzare la forte vocazione dell’istituzione al settore della ricerca sul quale, negli anni, si è scommesso per valorizzare la centralità del conservatorio napoletano nel tessuto nazionale e internazionale. Questo primo volume assume un significato particolare e si inserisce nel quadro di quelle iniziative destinate a consolidare qualitativamente il nostro istituto e soprattutto ad avviare un progetto sistematico degli studi musicologici. La ricerca storica trova in questa laboriosa “bottega”, luogo dove convergono i saperi di una tradizione musicale antica e luminosa, una sede autorevole e blasonata. La biblioteca e l’archivio sono i custodi di una “storia” avventurosa che ci parla di un fenomeno europeo senza eguali che ancora persiste nell’immaginario, vivificando il mito di una città che si fonda sull’Arte della musica e su tutte quelle manifestazioni performative in cui trova una “naturale” vocazione. Indissolubile è il legame partenopeo con le sorti della “scena” e con la sua storia, mai asfittica o provinciale, guardava con lungimiranza imponendosi come interlocutrice privilegiata nelle “cose” dello spettacolo in tutte le sue declinazioni senza autoreferenzialità sterili o implosive. Attraverso questo “strumento” della condivisione dei “saperi” si spera di promuovere una nuova generazione di studiosi all’ombra di alcune figure significative nel panorama scientifico internazionale. Alle penne autorevoli si affiancano i primi risultati di entusiasti giovani che intraprendono, in un percorso virtuoso di formazione musicale e umanistica, la perigliosa strada della ricerca indagando, con volontà e acribia, sentieri disparati alla ricerca di una propria identità intellettuale. Il primo volume dei «Quaderni», pur nell’inevitabile eterogeneità degli argomenti trattati, presenta una fisionomia ben determinata; vuol essere un po’ il biglietto da visita della scuola, o almeno aspira ad esserlo. Nell’esprimere la più profonda gratitudine agli autori, ai curatori e ai membri del comitato di redazione, formulo l’augurio che questa nuova iniziativa periodica possa diventare un ulteriore mezzo per incentivare lo studio e continuare il percorso virtuoso intrapreso dalla nostra casa d’elezione.

m° Carmine Santaniello Direttore del Conservatorio

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INTRODUZIONE

I «Quaderni» del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli sono una nuova realtà periodica, a cadenza annuale, che nasce per valorizzare le attività di ricerca dell’istituto attraverso i contributi di studiosi, docenti e studenti. Fortemente voluti da una direzione attenta a seguire, con acume, le tante anime che affollano l’antico convento e le più disparate strade prese dalla didattica dei conservatori nel nuovo millennio dove le discipline musicologiche trovano un armonioso tessuto in cui inserirsi adeguatamente. La ricerca e l’indagine storico-musicale è un ambito da coltivare con tenacia e volitività affinché i giovani che si formano all’interno delle nostre scuole, nell’accezione più nobile, abbiano coscienza del loro compito e possano con autorevolezza affrontare repertori e, perché no, volgere i propri interessi anche all’affascinante mondo musicologico. Questa pubblicazione testimonia, dunque, l’impegno del San Pietro a Majella nel voler affrontare le nuove sfide a cui vanno incontro gli istituti dell’Alta Formazione Artistica Musicale, non visti più soltanto come luoghi di formazione ma anche di ricerca e produzione. Per questo primo numero si è creduto opportuno ospitare, a rassicurante viatico, alcune firme autorevoli che hanno segnato la disciplina nel secolo breve, quel secolo che vide la fondazione del settore e il lento riconoscimento accademico di una materia, insieme con quelle sorelle afferenti allo spettacolo, guardata con sufficienza e talvolta non riconosciuta. La prima sezione della pubblicazione offre così i contributi di prestigiosi studiosi quali Paolo Emilio Carapezza (La musica in Calabria nell’era di Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella) che ricostruisce il contesto musicale in Calabria al tempo di Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella esaminando l’attività del madrigalista Achille Falcone; Agostino Ziino (Se la doglia e ’l martire: un’inedita intonazione a voce sola e Basso continuo di Giovanni Brunetti) analizza il madrigale Se la doglia e ’l martire di Giovanni Brunetti, su testo di Giovan Battista Marino, con l’analisi testuale e musicale, e il confronto con le fonti di Francesco Dognazzi, Claudio Saracini e Costantijn Huygens; Saverio Franchi (Patroni, politica, impresari: le vicende storico-artistiche dei teatri romani e quelle della giovinezza di Metastasio fino alla partenza per Vienna) delinea invece, con quella adamantina perizia che lo ha reso un modello per gli studi dediti al recupero delle fonti documentarie, la Roma che vide il giovane Metastasio assurgere alla suprema gloria con l’incarico di poeta cesareo alla corte degli Asburgo. Il saggio del compianto Maestro Franchi è stato un prezioso dono che dobbiamo alla generosità di Orietta Sartori custode di una memoria ineguagliabile. A questi tre contributi si affiancano quelli di Stefania Onesti (Muzzarelli coreografo dall’Italia a Vienna. Continuità o rottura?) che traccia l’itinerario artistico di Antonio Muzzarelli nel corso del suo soggiorno viennese dove propone un modello teatrale ancorato al passato con soggetti storico-mitologici, e di Silvia Urbani (Il Venceslao di Aposto Zeno: fonti dichiarate, remote e sottaciute) in cui si esamina il Venceslao di Apostolo Zeno sondando le fonti testuali tra quelle esplicite e sottaciute. 11


La seconda sezione del volume è riservata alla pubblicazione di giovani allievi del nostro conservatorio che a conclusione dei propri percorsi accademici o durante laboratori promossi dalle cattedre di storia hanno prodotto interessanti lavori di ricerca. Maria Cristina D’Alessandro (La monodia accompagnata e l’introduzione del genere rappresentativo a Napoli tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento) per il suo diploma di primo livello in canto ha intrapreso un’indagine puntuale e bibliograficamente aggiornata sull’avvento della monodia nella Napoli cinqueseicentesca rettificando in tal modo quei luoghi comuni che ancora sopravvivono nella storiografia corrente, a tal proposito analizza e mostra alcuni casi eccellenti di tale fenomeno. Nicola De Rosa (Su una voce del poeta nella Fantasie op. 17 di Schumann), a coronamento della sua formazione pianistica avvenuta con il diploma magistrale, con abile acume indaga la scrittura schumanniana contestualizzandola in un ambito teso a restituire la complessità creativa del musicista, con dimestichezza e disinvoltura fa interloquire il grande autore con l’esclusivo milieu culturale del tempo e, per iperbole, con i grandi intellettuali del ventesimo secolo che a lui si sono ispirati per disamine profonde e disparate. Il gruppo composto da Walter Aveta, Oscar Corpo e Paola Nastasi (Ten to Survive: la settima arte dà voce ai bambini) presenta i risultati di un laboratorio sulla musica del Novecento soffermandosi sull’inedita pagina che vede compositori di varia estrazione partecipare a un progetto ardito dagli esiti quanto mai avvincenti. La terza sezione del volume, intitolata Note d’archivio, è dedicata alla valorizzazione dei molteplici “tesori” del conservatorio e in questa occasione si è puntato su un patrimonio meno noto custodito all’interno dello storico edificio, si tratta dell’Archivio Storico depositario della memoria di tre dei quattro antichi conservatori nonché del Collegio di Musica di San Sebastiano e dell’attuale istituto. Tommasina Boccia, referente dell’archivio, nel suo contributo – L’Archivio Storico del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli esiste! – tratteggia il profilo storico dell’organismo descrivendone i preziosi fondi e la loro importanza per la conoscenza di una delle pagine più importanti della storia cittadina. Chiude il primo numero dei «Quaderni del San Pietro a Majella» una rubrica di recensioni librarie incentrata su alcune novità editoriali. Non resta che ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile e creduto in quest’impresa con slancio e generosità: studenti, amici e colleghi hanno, con il loro contributo e la loro disponibilità, impreziosito questo volume che ci auguriamo possa essere accolto favorevolmente dalla comunità scientifica. La nostra gratitudine va altresì al presidente prof. avv. Antonio Palma e al direttore m.° Carmine Santaniello che hanno creduto da subito a questo nostro cimento che ha coinvolto tutti i colleghi dell’area musicologica a cui va il nostro grazie per aver plaudito alla bella impresa con dimostrazioni di raro affetto. Napoli, 30 aprile 2020 Antonio Caroccia e Paologiovanni Maione

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SAGGI ____________________________________________________________________

Paolo Emilio Carapezza LA MUSICA IN CALABRIA NELL’ERA DI BERNARDINO TELESIO, GIORDANO BRUNO E TOMMASO CAMPANELLA Prologo Trentacinque anni fa, il 26 novembre del 1981, ebbe luogo a Reggio Calabria una giornata di studi su La polifonia sacra e profana in Calabria nei secoli XVI e XVII, organizzata da don Vincenzo Barbieri, maestro del coro della cattedrale. Ne furono poi stampati gli atti: 1 contengono relazioni di cinque studiosi, tre siciliani e due calabresi. Uno dei due calabresi era Annunziato “Tino” Pugliese, che recentemente ha organizzato un convegno dal titolo Dal madrigale al teatro d’opera: musicisti calabresi del Cinque e Seicento (Vibo Valentia, 9-11 dicembre 2016). 2 Tre apici Nella storia della cultura e della civiltà in Calabria vi sono tre apici: nell’antichità ellenica tra il VI e il IV secolo a.C., nell’età normanna tra l’XI e il XIII d.C., e nel tardo rinascimento tra XVI e XVII. Rigogliosa vi fioriva allora la musica in senso lato (l’arte delle Muse): poesia e musica, e filosofia. Nelle città della Magna Grecia nascono, o operano, musici eccellenti: Pitagora fonda la sua scuola musico-filosofica a Crotone, dove – con i suoi discepoli – governa la città, prefigurando la repubblica aristocratica di Platone; scacciati dai democratici, i pitagorici sciamano a Locri, a Reggio, a Metaponto, a Taranto. Tra i musici poeti spiccano Stesicoro, nato a Metauro (oggi Gioia Tauro) e poi attivo in Sicilia, specialmente a Imera, e il suo discepolo Ibico di Reggio; elencati entrambi, nel canone alessandrino: tra i nove eccellenti poeti lirici, e come inventori, il primo della classica struttura coreutica triadica (strofe, antistrofe, epodo), il secondo del bárbiton (strumento musicale dionisiaco e muliebre). In età normanna Mileto fu capitale della Contea di Calabria, e poi prima capitale del Regnum Siciliae, esteso dall’Aquila a Malta. Quando i normanni giungono 1

Polifonisti calabresi dei secoli XVI e XVII. Giornata di studi su La polifonia sacra e profana in Calabria nei secoli XVI e XVII (Reggio Calabria, 26 novembre 1981), a cura Giuseppe Donato, Roma, Torre d’Orfeo, 1985 2 Fu questa la mia prolusione al convegno Dal madrigale al teatro d’opera: musicisti calabresi del Cinque e Seicento (Vibo Valentia, 9-11 dicembre 2016), ideato e organizzato da Annunziato Pugliese.

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PAOLO EMILIO CARAPEZZA

nell’Italia Meridionale, trovano in Calabria e in Sicilia cenobi basiliani: i basiliani ci tramandarono la letteratura ellenica e coltivarono la liturgia musicale bizantina, come fecero i benedettini con la letteratura latina e la liturgia musicale romana-gregoriana. Nel 1004 San Nilo, calabrese di Rossano, ormai novantenne, fonda l’abbazia basiliana di Grottaferrata, oggi la più importante; durante il regno normanno, archimandrita era l’abbazia del Santissimo Salvatore di Messina, dove nel XV secolo si trasferiscono i basiliani transfughi da Costantinopoli, recandovi i preziosi manoscritti che riuscivano a salvare dalla furia dell’Islam e istituendovi la più importante scuola di lingua e letteratura greca: lì studiò per due anni, 3 sotto la guida di Costantinos Láscaris, Pietro Bembo, l’ideologo del madrigale polifonico rinascimentale. (Ancor oggi Messina e Napoli sono le capitali, esterne, della Calabria). E siamo così giunti al terzo apice. A Cosenza la vita di Bernardino Telesio nel 1509 inizia e nel 1588 finisce. Durante la sua vita sorgono la filosofia, l’astronomia e la musica moderne. Con lui inizia la nuova filosofia ilozoica, fondata sulla natura vivente, sull’osservazione e l’interpretazione della natura e sulla comunione con essa: Il bene – egli afferma, precetto oggi quanto mai opportuno! – è la natura stessa; e il principio etico supremo comanda di fare ciò che giova alla conservazione ed all’evoluzione della natura. La natura si rivela ai sensi. (Telesio 1565: I). 4

Con lui nell’Italia meridionale inizia una dinastia filosofica, che proseguirà col nolano Giordano Bruno (1548-1600) e con Tommaso Campanella (1568-1639), calabrese di Stilo; e culminerà poi in Gian Battista Vico napoletano (1668-1744). Nel 1515, durante l’infanzia di Telesio, Nicola Copernico comincia a delineare il sistema eliocentrico: i sei libri del suo trattato De revolutione orbium caelestium escono postumi nel 1543. Se ne entusiasma Giordano Bruno, che nel 1584 pubblica De l’infinito universo e mondi. Campanella poi coniuga l’ammirazione per Telesio con quella per Galilei, che aveva definitivamente dimostrato l’eliocentrismo: dopo aver progettato una meravigliosa democrazia utopica secondo natura e secondo ragione ne La città del Sole (1602), scrive un’Apologia pro Galileo (1616). Il madrigale Il Rinascimento in musica aveva preceduto quello astronomico e filosofico: Josquin des Prez (1452 c.-1521), coetaneo di Leonardo da Vinci, aveva infatti sviluppato al massimo la costruzione polifonica, ma per porla al servizio del discorso verbale, 3

Dal 1492 al 1494. Lì trovò il trattato Perì synthéseos onomáton (La composizione delle parole) di Dionigi d’Alicarnasso: ne promosse l’editio princeps stampata da Aldo Manuzio nel 1507 a Venezia e ne ricavò, adattandolo alla fonetica della lingua italiana, il secondo libro delle sue Prose della volgar lingua, stampate nel 1525 a Venezia da Giovanni Tacuino. 4 BERNARDINO TELESIO, De natura iuxta propria principia liber primus et secundus, Romae, apud Antonium Blandum, 1565. (L’edizione definitiva, in 9 libri, sarà stampata a Napoli nel 1586: De rerum natura iuxta propria principia Libri IX, Neapoli, apud Horatium Salvianum, 1586).

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LA MUSICA IN CALABRIA

secondo le esigenze degli umanisti italiani: aveva così ricostituito l’unità tra poesia e musica dell’antichità ellenica, ma per sintesi polifonica, invece che per analisi monodica. Josquin attinge il culmine della sua maestria già nel 1492, anno della scoperta del nuovo mondo; e le sue opere dominano nei primi libri di musica stampati, a partire dal 1501, da Ottaviano Petrucci a Venezia. La poetica di Pietro Bembo, fondata sulla sintesi che Dionigi d’Alicarnasso fa della dottrina di Aristosseno,5 si coniuga con il complesso equilibrio costituzionale logicocostruttivo della musica di Josquin; nasce da tal unione il genere d’arte specifico del rinascimento: il madrigale polifonico italiano, 6 il cui scopo consiste nel rendere in immagini sonore il senso delle parole intonate. La parabola storica del madrigale inizia nel 1520 con la Musica a quattro voce di messer Bernardo Pisano sopra le canzone del Petrarcha (Petrucci, Fossombrone) e finisce nel 1638 con i Madrigali guerrieri e amorosi di Claudio Monteverdi (Vincenzi, Venezia): dal concento vocale centripeto al concerto vocale-strumentale centrifugo su basso continuo. Tale parabola coincide con quella della suddetta dinastia filosofica: sorge nell’età di Telesio, culmina in quella di Bruno, tramonta in quella di Campanella. Il madrigale in Calabria Il madrigale fiorisce rigoglioso in Calabria: Gian Gero, madrigalista di prima generazione, è alla corte del principe di Bisignano tra il 1540 e il 1558. 7 Annunziato Pugliese ha pubblicato nel 2007 un’antologia discografica di Madrigali Calabresi: 8 comincia con Gian Domenico Martoretta di Mileto (discepolo di Gero e di Arcadelt) che introduce il madrigale in Sicilia, soggiornando a lungo intorno al 1550 nel castel5

Quasi certamente già a Messina Bembo potè leggerne gli Harmonikà Stoichéia. Li lesse poi comunque a Roma, prendendone più volte in prestito il manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. 6 Composizione vocale non strofica su poesie in lingua italiana; il termine deriva appunto dall’omonima breve forma poetica, in cui endecasillabi e settenari sono liberamente rimati. Le voci (in genere da tre ad otto; ma più spesso quattro dapprima, cinque e sei dopo) hanno ciascuna autonomia melica e ritmica, ma sono interdipendenti: il complesso intreccio scorre in unico flusso trasparente omogeneo. 7 CESARE CORSI, Le carte Sanseverino. Nuovi documenti sul mecenatismo musicale a Napoli e nell’Italia Meridionale nella prima metà del Cinquecento, in Fonti d’archivio per la storia della musica e dello spettacolo a Napoli tra XVI e XVIII secolo. Atti del Convegno (Napoli, Centro di Musica Antica, 13-14 maggio 2000), a cura di Paologiovanni Maione, Napoli, Editoriale Scientifica 2001, pp. 1-40; MARIA PAOLA BORSETTA, La cappella musicale della cattedrale di Cosenza. Canto liturgico, libri, strumenti musicali e musicisti tra Cinque e Seicento, in Tra Scilla e Cariddi. Le rotte mediterranee della musica sacra tra Cinque e Seicento. Atti del Convegno internazionale di studi (Reggio Calabria-Messina, 28-30 maggio 2001), I, a cura di Nicolò Maccavino e Gaetano Pitarresi, Reggio Calabria, Edizioni del Conservatorio di Musica “F. Cilea” 2003, pp. 85-184 (in particolare la nota 177, pp. 143-144). 8 Madrigalisti calabresi, a cura di Annunziato Pugliese, eseguiti dall’Hesperimenta vocal ensemble CD Ibimus-Cal/003, 2007.

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PAOLO EMILIO CARAPEZZA

lo del conte di Caltanissetta; prosegue tal antologia con Gian Battista Melfio di Bisignano (fl. 1556), Manilio Caputi nobile cosentino (fl. 1564-1593), Alessandro Scialla “gentiluomo et academico di Tropea” (fl: 1610), Giacomo Tropea di Squillace (fl. 1621-22) e Francesco Pasquali “nobile cosentino” (fl. 1615-1633). Achille Falcone, “musico et academico cusentino”; m’affascina per la bellezza della sua musica e per il tragico fulgore della sua breve vita: quando il 9 novembre 1600 morì a Cosenza, sua patria, dove s’era fermato lungo il suo viaggio da Palermo a Roma, non aveva ancora 25 anni. Achille Falcone Bernardino Telesio, dopo aver a lungo vissuto a Milano (1518-1523), Roma (15231527) e Padova (1527-1535), si ritirò a meditare e scrivere in Calabria, nel monastero benedettino di Seminara (1535-1552). Nel 1552 tornò a Cosenza, dove – con frequenti viaggi a Napoli – risiedette fino alla morte, nel 1588, dopo esservi divenuto capo della celebre Accademia, fondata all’inizio del XVI secolo da Aulo Giano Parrasio: ne fecero parte sia Antonio Falcone (1550 c. – post 1603) che suo figlio Achille (1575 c. – 1600). L’Accademia cosentina, detta poi telesiana, «si proponeva […] di raccogliere e descrivere il maggior numero di fenomeni fisici naturali». 9 Questi Antonio li sperimenta con la sua musica nelle latomìe di Siracusa, come ci racconta don Vincenzo Mirabella cavaliere siracusano, 10 «in far quella non mai più (cred’io) veduta inventione di far un cànone, nel quale – cantando due voci, e rispondendo l’Eco – si vien formando una perfetta harmonia di quattro voci». E Achille, in un madrigale dedicato a «don Berlinghieri Ventimiglia cavalier palermitano», traduce in intrico sonoro la natura minerale, vegetale, animale, umana e divina:

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All’hor che prima vidi / Questi odorati ameni / Boschi d’ambrosia pieni, / Ornamento maggior de’ nostri lidi, // “Ben sai – dissi – che far, / se qui t’annidi, / Quasi augelletto, Amore: // E se tornar pastore /

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LUDOVICO GEYMONAT Storia del pensiero filosofico e scientifico, 5 volumi. II: Il Cinquecento, il Seicento, Milano, Garzanti, 1970, p. 144. 10 VINCENZO MIRABELLA, Dichiaratione della pianta delle antiche Siracuse e d’alcune scelte medaglie d’esse , e de’ principi che quelle possedettero descritte da don Vincenzo Mirabella e Alagona caualier siracusano, In Napoli, nella stampa di Lazzaro Scoriggio, 1613: cit. ACHILLE FALCONE, Madrigali, mottetti e ricercari (1603), a cura di Massimo Privitera, Firenze, Leo S. Olschki, 2000 (Musiche rinascimentali italiane, XXI), p. XI, che si basa su L’immagine dell’artifico, dattiloscritto inedito di Nicolò Maccavino e Silvana Norci (allora suoi colleghi docenti nel Conservatorio di Cosenza), che riportano il passo letto in ALVISE SPADARO, Caravaggio a Siracusa e l’Orecchio di Dionisio, «Geoarcheologia» 1-2, 1985, pp. 81-100: 86-87. Il passaggio riportato da Spadaro è tratto da MIRABELLA, Dichiarazione cit., p. 89.1-2.

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LA MUSICA IN CALABRIA

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Ei brami, o Febo, / e di novelle fronde / Cinger le chiome bionde, / Che non pur Pafo o Cnido, / Ma possi anco lasciar / pe’ boschi il lido”.// 11

Grande affresco d’un meraviglioso paesaggio naturale: con un crescendo dal vegetale (i boschi) all’animale (l’augelletto) all’umano (il pastore) al divino (Febo). Amore è il demiurgo, l’artefice di quest’ascesa, che parte dal minerale (il lido). La prima quartina rende l’intrico lussureggiante del bosco: l’intreccio dei rami delle foglie e dei fiori, dei colori e dei profumi, di zefiro e ruscello, è reso dall’abbraccio tra i quattro soggetti melodici. Nel distico seguente sentiamo saltellare e cinguettare l’augelletto Amore. Gli ultimi cinque versi si posson dividere in tre più due: l’ascesa della natura giunge all’umano (pastore) e al divino (Febo); ma Febo Apollo, coronato d’alloro, mescolando cioè le chiome dell’in-lignata Dafne alle sue, ai suoi raggi solari, preferisce lasciare le isole d’Afrodite (Pafo, Cnido) per immergersi – attraversati i mari, oltrepassato il lido – in questi boschi amati, e in-lignarsi come Dafne in essi. Il 9 maggio 1597 Achille Falcone era già in Sicilia, “maestro di cappella della città di Caltagirone”. Il prologo della sua celebre contesa con Sebastian Raval, “maestro della cappella reale di Sicilia”, si svolse qualche mese dopo a Siracusa, nel palazzo del cavalier Vincenzo Mirabella, che non tollerandone la boria – come racconta Antonio Falcone, padre di Achille12 –, in presenza del viceré e del suo seguito, tra cui lo stesso Raval, «fe’ venire delle opere sue [di Mirabella] e nostre [dei Falcone] e le fe’ cantare in presenza di tutti quei signori, non senza scorno dell’opere di Raval». Da quel momento la breve vita di Achille brucia veloce, come fulgida cometa. Pochi mesi dopo, all’inizio di aprile dell’anno 1600, la contesa si svolge a Palermo: lì Achille, nella strada del Càssaro, «si venne a caso a incontrare con Ravalle». Questi lo provoca a pubblica disfida in «ogni sorte di compositione». I due scelgono concordi come giudice Nicolò Toscano, sacerdote «dell’ordine di san Domenico, musico principale e cantore» celeberrimo, «venerando per virtù e santità di vita». La sentenza, data il 18 aprile, fu quanto mai netta: «l’opera del signor Raval è composta senza artificio niuno, e non vi si scorge cosa d’arte né d’ingegno […] Al contrario in quella del signor Achille vi si scorge artificio grande […]». 13

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Le barre oblique / separano i 12 soggetti melodici; le doppie barre // indicano le 3 cadenze perfette. Questo madrigale Achille lo dedicò «a don Berlinghieri Ventimiglia cavalier palermitano»: forse a lui si riferisce il pronome “Ei” all’inizio dell’ottavo verso; avrà certo goduto d’esser assimilato ad Apollo, che fu costretto da suo padre Zeus a far il pastore per Admeto, re di Fere in Tessaglia (cfr. CARLO KERÉNYI, Gli dei e gli eroi della Grecia, trad. it. di Vanda Tedeschi, Milano, il Saggiatore,1963, pp. 119-120). 12 ANTONIO FALCONE, Relatione del successo, seguito in Palermo tra Achille Falcone musico cosentino e Sebastian Ravelle musico spagnolo, 1603, p. 3, riproduzione fotografica in FALCONE, Madrigali, mottetti e ricercari cit., p. 129. 13 Ivi, p. 6, riproduzione fotografica in FALCONE, Madrigali, mottetti e ricercari cit., p. 132.

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PAOLO EMILIO CARAPEZZA

Raval, furioso, chiede la rivincita a palazzo reale, alla presenza del viceré e con giudici da questo scelti. Achille, imprudente, accetta. Il secondo atto si svolse quindi in giugno a palazzo reale. E l’esito, come prevedibile, fu catastrofico. Achille, resosi conto di non poter contrastare a Palermo con «la forza, i rispetti e i favori del mondo», risolse di «terminar il negotio in Roma», e invitò Raval a recarvisi anch’egli «per conferire in presenza dei più eminenti musici romani […] Ma, arrivato in Cosenza, sua casa, nel primo d'agosto […] si ammalò fortemente di febre […] per il che nel principio di novembre piacque al Signore Dio di chiamarlo di questa a miglior vita». 14 Il terzo atto della contesa non si svolse dunque a Roma nell’ottobre del 1600; ma quattro secoli dopo tra Palermo, Firenze e Cosenza. Achille – pur difeso da alcuni gentiluomini e da padre Nicolò Toscano, decano dei compositori siciliani – subì gravi torti a Palermo; ma la storia li ha riparati: sono stati i musicologi palermitani a celebrarlo modernamente (Ottavio Tiby, Lorenzo Bianconi ticinese durante i suoi studi palermitani e io stesso); l’Università di Palermo ne ha pubblicato – nel corpus di Musiche rinascimentali siciliane – l’edizione critica di tutte le sue opere rimasteci,15 per le amorevoli cure e con un meraviglioso saggio introduttivo ed esegetico di Massimo Privitera, siciliano, professore allora nell’Università della Calabria e ora in quella di Palermo. Il volume è uscito nel 2000, e proprio il 9 novembre, nel quarto centenario della morte immatura di Achille, Massimo Privitera, Maria Antonella Balsano ed io – allora direttore dell’Istituto di storia della musica dell’Università di Palermo – ne abbiamo recato a Cosenza la prima copia, affinché giungesse in quel preciso giorno nelle mani di Giacomo Mancini, sindaco di Cosenza, accompagnato da una lettera di Leuluca Orlando Sindaci di Palermo.

14

Ivi, p. 12. ACHILLE FALCONE, Alli signori musici di Roma Madrigali a cinque voci di Achille Falcone musico cusentino maestro di cappella di Caltagirone, con alcune opere fatte all’improviso a competenza con Sebastian Ravalle fra’ capellano di Malta, con una narratione come veramente il fatto seguisse. Novamente dati in luce, Venezia, Giacomo Vincenzi, 1603; edizione moderna FALCONE, Madrigali, mottetti e ricercari cit., pp. IX-XXXVIII. 15

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Agostino Ziino

“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”: UN’INEDITA INTONAZIONE A VOCE SOLA E BASSO CONTINUO DI GIOVANNI BRUNETTI

1

A Fred Hammond

Tra le carte di Malatesta Albani conservate nell’Archivio Albani presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro 2 si conserva una versione finora sconosciuta per voce e Basso continuo del madrigale di Giovan Battista Marino Se la doglia e ‘l martire attribuita, nell’intitolazione, a Giovanni Brunetti. Questa nuova fonte viene ad aggiungersi alle trentaquattro già note e messe in musica da altrettanti compositori tra il 1603 e il 1652, 3 tutte polifoniche tranne tre a voce sola e Basso continuo, composte rispettivamente da Francesco Dognazzi (1614),4 da Claudio Saracini detto Il Palusi (1620)5 e 1

Ringrazio per l’aiuto ed i consigli che mi hanno amichevolmente dato in questo momento drammatico causato dal coronavirus Claudia Aristotele, Luca Aversano, Francesco Badaloni, Paola Besutti, Luciana Battagin, Stefano Campagnolo, Antonio Caroccia, Luigi Collarile, Giuliana Gialdroni, Teresa M. Gialdroni, Frederick Hammond, Peter G. Laki, John Nádas, Cecilia Nanni, Cristina Paciello, Diego Papaldo, Massimo Privitera, Annunziato Pugliese, Francesco Saggio, Giorgio Sanguinetti, Patrizia Schioppa, Lorenzo Tozzi, Lucio Tufano e mio figlio Ottavio. La redazione informatica dei quattro madrigali, testo e musica, si deve a Francesco Badaloni. 2 L’Archivio Albani conservato presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro mi è stato segnalato dal prof. Luca Della Libera che ringrazio sentitamente. Ringrazio anche la dott.ssa Maria Grazia Alberini, Direttore della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, per avermi concesso di studiare e di pubblicare questa importante nuova fonte; ringrazio inoltre la dott.ssa Brunella Paolini, curatore dell’Archivio Albani, per aver facilitato le mie ricerche. Sul riordino dell’Archivio Albani si veda BRUNELLA PAOLINI, Il progetto Archivio Albani, «RiMARCANDO», Bollettino della Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici delle Marche 5, 2010, pp. 125-136. La composizione di Brunetti consta di due carte sciolte (ve ne veda la riproduzione nel presente articolo) ed è catalogata tra le carte di Malatesta Albani con il numero 1-09-001/2 (vecchia segnatura: P.XVII.191). Le trascrizioni musicali sono state realizzate da Agostino Ziino (Brunetti e Huygens), Peter Laki (Saracini) e Lorenzo Tozzi (Dognazzi). 3 L’elenco completo, in ordine cronologico, di tutte le versioni poste in musica del madrigale Se la doglia e ‘l martire è nell’Appendice in fondo al presente articolo. Ogni versione è corredata del numero che porta in EMIL VOGEL – ALFRED EINSTEIN – FRANÇOIS LESURE – CLAUDIO SARTORI, Bibliografia della musica italiana vocale profana, Pomezia (Roma), Staderini Editore, 1977 (d’ora in poi NV). 4 Il madrigale è inserito ne Il Primo Libro de varij Concenti a una et a due voci. Per cantar nel Chitarone o altri simili istrumenti, Venezia, Gardano, 1614 (NV, 843). Su Francesco Dognazzi si vedano: Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, a cura di Alberto Basso, Le Biografie (d’ora in poi: DEUMM), Torino, UTET, 1985, vol. II, sub voce, p. 511; JEROME ROCHE, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, ed. Stanley Sadie, London, Macmillan, 1980 (d’ora in poi: New Grove/1), vol. 5, sub voce, pp. 521-522 (scrive che «the solo madrigals are more convincing, and are in an up-to-date manner», p. 522); GÜNTHER MORCHE, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart – online, hrg. von Laurenz Lütteken, Kassel, 2016 (d’ora in poi: MGG-online), sub voce; SUSAN PARISI, Ducal Patronage of Music in Mantua, 1587-1621: An archival Study, Part 1, Ph. D. diss., University of Illinois at Urbana-Champaign, 1989, pp. 434-437; SUSAN PARISI, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, ed. Stanley Sadie, London, Macmillan, 2001 (d’ora in poi: New Grove/2), vol. 7, pp. 423-424. 19


AGOSTINO ZIINO

da Constantijn Huygens (1647).6 Si tratterebbe, per quanto ne sappiamo, della sua unica composizione profana pervenuta, dato che finora Brunetti era conosciuto solo come autore di musica sacra e liturgica. Giovanni Brunetti nasce probabilmente a Sabbioneta, vicino Casalmaggiore7 e muore a Urbino dopo il 1631. Purtroppo non si conosce l’anno di nascita. Dopo aver operato per alcuni anni nell’Italia del Nord – fu maestro di cappella alla cattedrale di Novara dal 1613 al 1617 e all’Accademia della Morte di Ferrara dal 1621 al 1625 –, ottiene il posto di maestro di cappella presso il duomo di Urbino dal 1625 al 1631.8 Una delle sue prime composizioni è stato probabilmente il mottetto Gloriosum diem sacra veneratur Ecclesia a due voci inserito nella raccolta miscellanea intitolata Sacrae et Divinae Cantiones Binis, ac Ternis Vocibus Organum decantandae, scelte da Zaccaria Zanetto, edita a Venezia da Alessandro Vincenti nel 1619. 9 Durante i suoi soggiorni nell’Italia del Nord – nell’avviso “ai Lettori” premesso ai Salmi intieri concertati del 1625 scriverà di aver «praticato tutte le parti d’Italia, sì per haver havuto occasione di governare Capelle, come anco per curiosità» – potrebbe aver conosciuto Alfonso d’Este, Principe di Modena al quale dedica i suoi Mottetti concertati a due, tre, quattro, cinque, et sei voci con le letanie della Madonna a cinque editi a Venezia da Alessandro Vincenti nel 1625. Infatti, nella dedica, datata Venezia, 10 giugno, scrive tra l’altro:

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Il madrigale è inserito ne Le Seconde Musiche di Claudio Saracini detto il Palusi nobile senese per cantar, et sonar nel Chitarrone Arpicordo et altri stromenti, Venezia, Alessandro Vincenti, 1620 (NV, 2555). Su Claudio Saracini si vedano: CRISTINA SANTARELLI, in DEUMM, vol. VI, sub voce, p. 577; NIGEL FORTUNE-PETER LAKI, in New Grove/2, pp. 277-279; ANTONIO MAZZEO, Claudio Saracini compositore senese del ‘600, Siena, Barbablù, 1986; PETER LAKI, The Madrigals of Giambattista Marino and their Setting for Solo Voice (1602-1640), Ph. D. diss., University of Pennsylvania, 1989, p. 153; ID., Musical References in the Poetic Works of Giambattista Marino, «International Journal of Musicology» 2, 1993, pp. 85-100: 94; ID., Claudio Saracini: Innovative or Incompetent ?, Atti del XIV Congresso della Società Internazionale di Musicologia. Trasmissione e recezione delle forme di cultura musicale (Bologna, 27 agosto – 1° settembre 1987, Ferrara – Parma, 30 agosto 1987), vol. III, Free Papers, a cura di Angelo Pompilio, Donatella Restani, Lorenzo Bianconi, F. Alberto Gallo, Torino EDT/Edizioni di Torino, 1990, pp. 905-913: 905-906; ÉVA PINTÉR, Claudio Saracini. Leben und Werk, Frankfurt am Main, Peter Lang, 1992, “Europäische Hochschulschriften: Musikwissenschaft”, vol. 87; JOACHIM STEINHAUER, in MGG-online, sub voce. 6 Il madrigale è inserito in Pathodia sacra et profana occupati constanter, Parigi, Robert Ballard, 1647 (NV. 1327). Su Constantijn Huygens si vedano: FRITS NOSKE, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart, hrg. Friedrich Blume, Kassel, Bärenreiter, Bd. 6, 1957, coll. 982-984, sub voce; RANDALL H. TOLLEFSEN, in New Grove/1, vol. 8, sub voce, pp. 831-832; RUDOLF RASCH, in New Grove/2, vol. 12, pp. 6-7, sub voce; RUDOLF RASCH, in MGG-online, sub voce. 7 Cfr. JEROME ROCHE, in New Grove/2, sub voce, vol. 4, pp. 510-511. Nel DEUMM, vol. I, p. 736 come città di nascita è indicata, ma con un punto interrogativo, Sabbioneta, Mantova; RAOUL MELONCELLI, in Dizionario Biografico degli Italiani - online (d’ora in poi: DBI), sub voce. 8 Giuseppe Ottavio Pitoni lo qualifica «Maestro di cappella dell’arcivescovato d’Urbino», cfr. GIUSEPPE OTTAVIO PITONI, Notitia de’ Contrapuntisti e Compositori di Musica, a cura di Cesarino Ruini, Firenze, Leo S. Olschki, 1988, p. 263. 9 Cfr. Répertoire International des Sources Musicales (d’ora in poi: RISM), B/I, 1619/5. 20


“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE” Poiche essendosi ella medesima prima, che hora compiaciuta di haver qualche mio Componimento, & in particolare alcuni di questi, posso credere, che V. A. si sia degnata di sentirli non senza qualche sodisfattione. Onde, come suo devotissimo servo, sperando di poter incontrar il suo gusto, vengo à fargliele un humil dono […].

La dedica ad Alfonso d’Este, però, mi fa sorgere il sospetto che Brunetti tra il 1617 e il 1621 possa aver avuto un qualche incarico forse proprio nel Duomo di Modena, città dove si erano trasferiti i duchi d’Este dopo l’annessione del ducato estense allo Stato Pontificio. Come ho detto, Brunetti lavorò per un certo tempo anche all’Accademia della Morte di Ferrara, alla quale dedicherà («A Gl’illustrissimi Signori il Signor Prencipe et Accademici Dell’Archiconfraternità della Morte di Ferrara») in data: Venezia, 12 giugno 1625 – due giorni dopo i Mottetti concertati citati prima – i suoi Salmi intieri concertati a cinque, e sei voci […] Con il Basso Continuo per sonar nell’Organo, stampati a Venezia da Alessandro Vincenti. Egli auspica inoltre che il «Sig. Marchese Filippo Forni Cavalliero di così eminenti virtù, & mio riverito Signor sia benemerito Principe della vostra nobilissima, & virtuosissima Accademia». Dopo queste due raccolte dedicate a istituzioni e a personaggi con i quali ha avuto rapporti prima del suo trasferimento a Urbino Brunetti dà alle stampe la raccolta intitolata Motecta binis, ternis, quaternisque vocibus una cum Basso ad Organum. Liber Primus, pubblicata sempre a Venezia da Alessandro Vincenti nel 1625 e dedicata in data 30 agosto a D. Paolo Emilio Santorio Arcivescovo di Urbino. Evidentemente aveva un debito di gratitudine nei confronti dell’arcivescovo, suo diretto superiore. Interessante è il seguente passo della dedica: nam & ipse Deus Opt. Max. rerum omnium conditor, & architectus ita delectatus est musica, ut ea ipsa in mundi creatione una cum Arithmetica, & Geometria sit usus. Arithmetica enim ratione compacta creduntur elementa, Geometria figures affinxit. Musica vero adnexuit proportiones: Atque hinc dicuntur omnia à Deo create in numero pondere & mensura.

Nell’ottobre dello stesso anno, il 1625, pubblica a Venezia, anche questa volta con Alessandro Vincenti, la raccolta intitolata Motecta quinque vocum […] Liber Primus e dedicata in data 1° ottobre «Ad Sanctissimum Urbanum VIII Pont. Max.». 10 Ecco il testo completo della dedica: Musicae ars, Pater Beatissime, non immeritò divinior coeteris à Sapientioribus Philosophis, sanctioribusque Patribus est habita, Eius enim rhitmus uti coelestis harmoniae imitatio hominum mentes à curis mortalium rerum ad immortalium contemplationem rapit 10

Una copia di questa raccolta si trovava perfino anche nella biblioteca del Palazzo Barberini di Monterotondo, figurando in un inventario del 17 novembre 1636, f. 8r («Motecta quinque vocum Johannis Brunetti Urbinatis») e in uno dell’11 aprile 1648 («Partitio motecta quinque vocum auctore Joanne Brunetto Urbinatensi liber primus (V. f. 974v) ad sanctissimum Urbanum 8 pontificem maximum in coperte di pergamena», cfr. MARIA TEMIDE BERGAMASCHI – RICCARDO DI GIOVANNANDREA, Il Palazzo di Monterotondo. Una residenza baronale della nobiltà romana in Sabina tra XVI e XIX secolo, Roma, Campisano Editore, 2014, pp. 59, n. 254 e 170. In questi inventari sono menzionati anche numerosi cembali. 21


AGOSTINO ZIINO

eosque ad expiationem animi, affectuum scilicet moderationem, impellit. Sed illius praeceptis humana saepius abusa malitia, ea ad mollem delectationem, lasciviamque traxit, atque in labem ingenij usum sacrosanctae facultatis convertit. Quamobrem nonnulli tam ex veteribus, veluti stoici, quam ex recentioribus, ut nostrae aetatis Haeretici nimis asperis, sordidisque legibus à templis, imò à Civitatibus Musicen poenitus arcendam existimarunt, quippe quae hominum sensus ad voluptatum illecebras excitaret, ac si Davidi Regi invictissimo gladium gestare non liquisset, eo quod Saulus itidem Rex gladio se ipsum interemit. Ego equidem cum à pueritia sedulò huic arti operam navaverim, ac per multos annos in aliquibus ex nobilioribus Italiae Ecclesijs, & meae praesertim patriae eiusdem moderator extiterim, non nisi ad divinam laudem, vel saltem ad honestam oblectationem modos facere consuevi. Instituti huius mei primi fructus sunt hae Sacrae modulationes, quas Sanctitati Tuae iure optimo dicandas duxi; Nam si Priscorum vana pietas novas fruges nemini gustandas tradebat, priusquam Sacerdotibus primitias obtulisset, quanto magis Beatitudini Tuae vero, summoque Sacerdoti has meorum laborum primitias, sacrasque res Sacrorum Principi Consecravero? Nec mihi verendum est, Pater Beatissime Sanctitatem Tuam, cui concors Concentus omnium laudum, omnisque gloriae contigit, hosce meos concentus, veluti domum tantae impar Maiestati aspernaturam; Scio enim, cum ipsa fato quodam bonis artibus, ac virtutibus iuvandis sit coelitus data, quodcunque studiosi ingenij, hac devoti animi munus quamvis exile, eidem fore iucundum. Sospitet, fortunetque foeliciter Deus Beatitudinem Tuam, & Christianae Reipublice diutissimè servet incolumen. Venetijs die Kal. October. Anno MDCXXV. Sanctitatis Tuae Humillimus Servus Ioannes Brunetus Urbinas.

È probabile che una volta stampato il volume – presumibilmente verso la fine di ottobre 1625 – Brunetti sia venuto a Roma per consegnarlo personalmente al papa forse tramite qualche membro della famiglia Albani, originaria di Urbino, in quanto il manoscritto con il madrigale Se la doglia e ‘l martire si trova proprio tra le ‘Carte’ di Malatesta Albani’. 11 Brunetti rimase certamente a Roma fino al dicembre di quello stesso anno dato che, forse su segnalazione di Urbano VIII, portò «a cantar in capella», cioè nella Cappella Pontificia, una sua Messa che fu subito eseguita e che dai cantori papali – ovvero dal Collegio dei cantori – fu giudicata «bell’e vagha». 12 A 11

Il padre di Malatesta, Orazio Albani, era stato inviato a Roma – da Urbino – da Francesco II Della Rovere, duca di Urbino, come ambasciatore presso la Santa Sede. Da Urbano VIII fu nominato senatore di Roma. Per le benemerenze acquisite presso i Barberini riuscì ad assicurare ai suoi tre figli posizioni di rilievo: Annibale divenne primo custode della Biblioteca Vaticana, Malatesta non solo fu un ‘uomo di fiducia’ del cardinale Francesco Barberini ma entrò anche nell’esercito pontificio, infine Carlo, padre di Giovanni Francesco – il futuro papa Clemente XI –, divenne maestro del cardinale Carlo Barberini. Nel 1625 Malatesta, nato a Urbino il 4 dicembre 1617, aveva solo otto anni, ma è verosimile che Brunetti sia rimasto in rapporto con tutti i membri della famiglia Albani anche negli anni successivi al 1625. 12 Cfr. Diario Sistino 44, c. 57r, 8 dicembre 1625; cito da CLAUDIO ANNIBALDI, La Cappella Musicale Pontificia nel Seicento – Da Urbano VII a Urbano VIII (1590-1644), tomo I, Palestrina, Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina, 2011, pp. 107 e 171; GIANCARLO ROSTIROLLA, Celebrazioni ed eventi musicali nella Cappella Pontificia durante l’Anno santo 1625 redatto dal cantore e compositore Francesco Severi. Con l’edizione integrale del manoscritto, in Vanitatis Fuga, Aeternitatis amor. Wolfgang Witzenmann zum 75 Geburtstag, edd. Sabine Ehrmann-Herfort e Markus Engelhardt, Laaber, Laaber Verlag, 2005, pp. 151-226: 221 (= Analecta Musicologica, XXXVI); si veda anche JEAN LIONNET, Performance Practice in the Papal Chapel during the 17th Century, «Early Music» XV/1, 1987, pp. 3-15, rist. in JEAN LIONNET, «Parve che Sirio…rimembrasse una 22


“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

questo proposito Claudio Annibaldi scrive che «Il caso è eccezionale non solo per la positività del giudizio, ma anche perché l’esecuzione ebbe luogo senza che il Collegio, che da una decina d’anni era arroccato sulle posizioni rigidamente protezionistiche […], avanzasse le obiezioni con cui usava respingere i compositori esterni che gli proponevano, o gli facevano proporre, loro musiche sacre».13 Annibaldi sostiene, inoltre, che si tratta della Messa che Brunetti incluse nella raccolta pubblicata nel 1626 da Alessandro Vincenti, dal titolo Salmi spezzati concertati a due, tre, et quattro voci con una messa a quattro et il Basso Continuo per l’Organo […] Libro Secondo. Opera quinta, dedicata, in data Venezia, 8 gennaio, al Conte Girolamo Abbate di Monte Vecchio, che peraltro il compositore neanche conosceva. 14 È molto singolare che Brunetti si sia deciso solo nel 1625 a pubblicare tutte le sue composizioni (ma l’ultima, i Salmi spezzati concertati, andrà in stampa solo dopo l’8 gennaio del 1626), anno nel quale, trasferitosi ad Urbino, assume, come sappiamo, la carica di maestro di Cappella del Duomo: forse, solo ora potrebbe aver trovato uno sponsor disposto a pagare le spese di stampa, per giunta con uno dei più importanti editori musicali italiani, Alessandro Vincenti. Ma non escludo neanche l’ipotesi che sia stato proprio lo stesso Brunetti ad autopromuoversi pubblicando a sue spese un numero di composizioni sufficiente ad ottenere la carica di maestro di Cappella del Duomo di Urbino oppure a dimostrare che possedeva tutti i requisiti artistici e professionali per ricoprire degnamente questo importante e prestigioso incarico. Queste due ipotesi potrebbero trovare una conferma indiretta nel fatto che Alessandro Vincenti non sembra essere stato interessato a vendere nessuna delle composizioni di Brunetti, tranne l’ultima, cioè i Salmi spezzati concertati, Opera quinta, del 1626, che figura nei suoi cataloghi del 1649, 1658 e del 1662. 15 Le prime due raccolte, date alle stampe rispettivamente dopo il 10 e il 12 giugno 1625 – i Mottetti concertati a due, tre, quattro, cinque, et sei voci […] Libro secondo e i Salmi intieri concertati a cinque, e sei voci –, potrebbero essere state composte alcuni anni prima, presumibilmente quando egli era maestro di Cappella nella Cattedrale di Novara e nell’Arciconfraternita della Morte a Ferrara. Nel caso dei mottetti concertati, però, il fatto che sia indicato come «Libro secondo» lascia pensare che debba essere esistito prima anche un ‘Libro primo’ ora perduto, da non identificare comunflorida primavera». Scritti sulla musica a Roma nel Seicento con un inedito, a cura di Galliano Ciliberti, Bari, Florestano Edizioni, 2018, p.77; ne esiste un’altra testimonianza nel Diario Sistino 43, c. 37r: «è riuscita molto bella», cfr. ANNIBALDI, La Cappella Musicale cit., p. 107; LIONNET, Palestrina e la Cappella Pontificia, in Palestrina e la sua presenza nella musica e nella cultura europea dal suo tempo ad oggi, Atti del II Convegno Internazionale di Studi Palestriniani (Palestrina 3-5 maggio 1986), a cura di Lino Bianchi e Giancarlo Rostirolla, Palestrina, Fondazione Giovanni Pierluigi da Palestrina, 1991, pp.123-137, rist. in «Parve che Sirio…rimembrasse una florida primavera» cit., p.112; LIONNET, Una svolta nella storia del Collegio dei Cantori Pontifici: Il decreto del 22 giugno 1665 contro Orazio Benevolo, «Nuova Rivista Musicale Italiana» XVII/1,1983, pp. 72-103, rist. in «Parve che Sirio…rimembrasse una florida primavera» cit., pp.123-150:126. 13 Cfr. ANNIBALDI, La Cappella Musicale Pontificia nel Seicento cit., p.107. 14 Nella dedica, difatti, si leggono frasi di questo tenore: «se ben non mi conosce» oppure «E perche il non havere di me conoscenza non occulti la devotione ch’io le debbo». 15 Cfr. OSCAR MISCHIATI, Indici, cataloghi e avvisi degli editori e librai musicali italiani dal 1591 al 1798, Firenze, Leo S. Olschki, 1984, pp. 178, n. 478; 203, n. 528; 232, n. 628. 23


AGOSTINO ZIINO

que con i Motecta […] Liber primus dedicati il 30 agosto dello stesso anno all’Arcivescovo di Urbino, D. Paolo Emilio Sanctorio in quanto si tratta di una tipologia liturgico-musicale alquanto diversa: l’intitolazione è in latino, non si tratta di mottetti concertati, le voci vanno da due fino a quattro (mentre nell’altra raccolta arrivano fino a sei), infine la data della dedica (30 giugno) è successiva a quella dell’altra raccolta (10 giugno). I Motecta […] Liber primus dedicati a Don Paolo Emilio Sanctorio, arcivescovo di Urbino, potrebbero essere stati composti o qualche tempo prima della nomina a maestro di Cappella al duomo di Urbino – a tale proposito sarebbe molto importante trovare la data esatta della nomina – o subito dopo l’assegnazione di questo prestigioso incarico. Ciò non toglie che potrebbe trattarsi anche di mottetti sciolti composti separatamente in momenti diversi e riuniti in un volume unico in occasione della nomina a maestro di cappella al duomo. Similmente, è difficile stabilire se anche i Motecta quinque vocum erano stati composti in precedenza e poi riuniti in una raccolta organica per l’Anno Santo del 1625, ma successivamente, il primo ottobre, dedicati a Urbano VIII eletto al soglio pontificio il 6 agosto di quello stesso anno. Sulla base delle stampe pervenute la raccolta intitolata Salmi spezzati concertati a due, tre, et quattro voci con una messa a quattro et il Basso Continuo per l’Organo, Opera quinta edita nel 1626 dovrebbe essere l’ultima sua raccolta importante, anche se al termine dell’Avviso ai lettori si legge un’affermazione abbastanza ambigua dalla quale sembrerebbe che Brunetti avesse in programma di pubblicarne altre: «Et non si meraviglieranno se l’altre mie Opere che di presente usciranno dalla stampa, tutte saranno di differenti stili». Comunque sia, è certamente l’ultima tra quelle giunte fino a noi. Vorrei osservare, infine, che nella ‘voce’ del New Grove scritta da Jerome Roche e in quella del DEUMM è citata anche una raccolta dal titolo Salmi spezzati concertati a 2-4 voci, con il Basso continuo all’Organo […] Libro Primo che sarebbe stata pubblicata sempre nel 1625 da Alessandro Vincenti che però non trova nessun riscontro nel RISM. D’altra parte l’opera, prima citata, contenente i Salmi spezzati e concertati pubblicata a Venezia nel gennaio del 1626 porta chiaramente l’indicazione «Libro Secondo», il che presuppone necessariamente che ci sia stato in precedenza un ‘Libro Primo’. In ogni caso, ci troviamo ugualmente di fronte a uno strano imbroglio in quanto la stampa del 1626 presenta sul frontespizio, per la prima volta, anche il numero d’opera: «Opera quinta», il che sarebbe giusto se non considerassimo quel «Libro Primo» di Salmi spezzati concertati segnalato nel New Grove e nel DEUMM ma ignorato dal RISM e comunque, purtroppo, fino a questo momento ancora introvabile. In realtà, però, le sue ultime composizioni pervenute sono le Letanie a quattro voci raccolte da Lorenzo Calvo in un volume intitolato Prima Pars Rosarum Litaniarum Beatae Virginis Mariae, pubblicato a Venezia da Alessandro Vincenti con dedica alla Congregazione del Rosario di Pavia in data 1° luglio 1626, nel quale figurano tra gli altri anche composizioni di Claudio Monteverdi, Orazio Vecchi, Adriano Banchieri e Alessandro Grandi. 16 Ricordo a questo proposito che la dedica della raccolta precedente, i Salmi spezzati concertati, indirizzata al Conte Girolamo Abbate di Monte Vecchio, porta la data 8 gennaio, sempre del 1626. 16

Cfr. RISM B/I, 1626/3. 24


“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

Nell’Avviso «Ai Lettori» premesso alla raccolta del 1626 ora citata (Salmi spezzati concertati […] con una messa a quattro) Brunetti dà alcune interessanti informazioni di carattere prettamente musicale: Ai Lettori. Perche nel rappresentare ch’ho fatto questi miei Salmi mentre erano scritti à penna, vi hò trovato una differenza grande nel governarli da me, & sentirli rappresentare ad altri. Per questo non hò voluto mancare per sodisfare à me stesso di fare quattro parole, con accennare brevemente la mia intentione, se bene sò che in parte havranno inteso da altri. Prima dove sarà scritto la lettera p. significherà piano, & che le parti concertano frà di loro, & dove sarà la lettera f. dinoterà forte, cantando tutte le parti insieme, & in quel caso vi sogliono essere anco li ripieni, quali non hò voluto stampare per molti rispetti, ma se alcuno gli volesse, potrà farli da se stesso, principiando sempre dove è segnato forte, e terminare alla lettera piano. Circa il presto e tardi con la battuta è necessario ancora questo, ricercando così lo stile; tutta via mi rimetterò sempre al Moderatore, havendo riguardo à gli affetti[,] esclamationi e qualità de sogetti nel sospenderla, & stringerla, come ben spesso potrà accadere in detti Salmi, e quando cantano tutti, si potrà sempre affrettare un poco. I tre Salmi, cioè In exitu, Domine probasti me, & Memento Domine David, questi più si affretterà la battuta, più riusciranno & havranno il loro essere, ricercando così quel stile. Non hò voluto mettervi abachi per gli accompagnamenti, prosuponendo che l’Organista havendo riguardo alle note antecedenti e susseguenti, con dare anco orecchia alle parti che cantano, possi facilmente venire in cognizione dalle loro relationi gli accompagnamenti che se li devono. Nel resto procureranno rappresentare l’Opera come è scritta, & con quel maggior affetto possibile, acciò habbia l’intento necessario. Et non si meraviglieranno se l’altre mie Opere che di presente usciranno dalla stampa, tutte saranno di differenti stili, perche havend’io pratticato tutte le parti d’Italia, si per haver havuto occasione di governare Capelle, come anco per curiosità, per ciò ho trovato ogni paese havere il suo stile particolare, & quello che piace in un luogo, non piace nell’altro, che per questo mi sono andato ingegnando d’accomodarmi secondo la qualità del luogo. Quello poi sia il meglio, ne lascierò il giuditio à voi altri, che è quanto m’occorre. Vivete felici.

Jerome Roche – basandosi ancora sulla nozione, forse troppo schematica, che ‘stile concertante’ significa progresso e che ‘stile a cappella’ equivale a conservatorismo – così concludeva, commentando la lista delle composizioni di Brunetti pervenute fino a noi: He is known only as a composer of such music [la musica sacra]. Much of it is in the modern concertato idiom, as the titles of three of his collections indicate, but the five-part motets in the first collection listed below [i Motecta quinque vocum […] Liber Primus] are in the more impersonal stile antico beloved of some composers of the Roman school (appropriately enough he dedicated them to Pope Urban VIII). 17

Fino ad ora, come abbiamo visto, si sapeva che Giovanni Brunetti aveva composto solo musica sacra polifonica per lo più in stile concertato, ma il ritrovamento tra le carte di Malatesta Albani di un brano – un madrigale – per voce di basso e Basso continuo su testo di Giovanbattista Marino apre nuove e interessanti prospettive di ricerca. La prima cosa da osservare è che, trattandosi di un brano singolo e per di più copiato a mano, è molto probabile che sia stato l’autore stesso a donarlo a Malatesta Albani (o a qualche altro membro della famiglia). Ma, come potrebbero essersi cono17

Cfr. ROCHE, sub voce “Brunetti, Giovanni”, in New Grove/1, vol. 3, pp. 388 e New Grove/2, vol. 4, pp. 510-511. 25


AGOSTINO ZIINO

sciuti? Brunetti, come abbiamo accennato in precedenza, era certamente a Roma nel 1625 per l’esecuzione, in via del tutto eccezionale, (l’8 dicembre) di una sua Messa nella Cappella Sistina forse in occasione dell’Anno Santo e presumibilmente su proposta dello stesso pontefice; 18 è quindi verosimile che durante il suo soggiorno romano sia entrato in contatto con varie persone originarie di Urbino, tra cui anche qualche membro della famiglia Albani,19 compreso anche Malatesta, e che abbia continuato a frequentarlo anche negli anni successivi. Difatti, anche se nel 1625 Malatesta – nato a Urbino il 4 dicembre 1617 e morto a Desize a soli 28 anni il 7 ottobre 1645 –, aveva solo otto anni e se, pur essendo precocissimo, era forse ancora troppo giovane per avere rapporti intellettuali con persone molto più grandi di lui, è molto probabile, però, che già qualche anno dopo, verso i 13-14 anni, avesse raggiunto una totale maturità ed un livello culturale e artistico molto alto. Comunque sia, non escludo che possa trattarsi di un cadeau al giovane rampollo di una famiglia importante, gli Albani, alla quale per qualche motivo Brunetti doveva riconoscenza, tanto più apprezzato proprio per essere Malatesta molto interessato anche alla musica. Malatesta Albani era ricordato finora solo per aver compiuto nel 1644 una missione diplomatica presso Luigi XIV, re di Francia, per conto del papa Urbano VIII,20 il che dimostra che dovette essere una persona di assoluta fiducia dei Barberini tanto da affidargli anche numerosi incarichi militari. Egli era altresì menzionato nei dizionari storico-artistici per aver disegnato la figura della Giustizia incisa da Cornelis Bloemaert II, il Giovane,21 nell’edizione dei Documenti d’Amore di Francesco da Barberino edita nel 1640 da Federico Ubaldini e dedicata a Urbano VIII. 22 Malatesta, però,

18

Durante il pontificato di Urbano VIII, difatti, furono cantate in Cappella tre messe nuove: questa di Brunetti l’8 dicembre 1625, una di Kapsberger per la Pentecoste del 1627, ed una di Giovanni Carlo Rossi, fratello del più celebre Luigi, il 6 gennaio 1637; cfr. LIONNET, Palestrina e la Cappella Pontificia cit., rist. in «Parve che Sirio…rimembrasse una florida primavera» cit., p. 112. 19 Come ho detto in precedenza, non escludo che qualche membro della famiglia Albani possa aver presentato Brunetti al papa Urbano VIII al quale aveva dedicato il Motecta quinque vocum […] Liber Primus. 20 Si tratta della missione compiuta a Parigi nei mesi maggio-agosto 1644 al fine di ottenere l’appoggio della Francia a Urbano VIII nella controversia con i Farnese relativamente al territorio di Castro; sulla questione si vedano VITTORIO SIRI, Del Mercurio Overo Historia de’ correnti tempi […], Casale, Giorgio Del Monte, 1655, tomo IV, Parte II, pp. 552-560 e CLAUDIO COSTANTINI, Fazione urbana. Sbandamento e ricomposizione di una grande clientela a metà Seicento, «Quaderni di Storia e Letteratura», maggio 1998; 2.a ed. corretta e ampliata, Genova, quaderni.net - editoria online, novembre 2004. 21 Si vedano, tra i tanti: Allgemeines Künstler-Lexikon, hrg. Julius Meyer, Leipzig, Wilhelm Engelmann, 1872, vol. I, p. 181 (è qualificato correttamente come «Dilettant im Zeichen»); EMMANUEL BÉNÉZIT, Dictionnaire critique et documentaire des Peintres, Sculpteurs, Dessinateurs et Graveurs […], Nouvelle édition, ed. Jacques Busse, Tome 1, Paris, Éditions Gründ, 1999, p. 143; ULRICH THIEME-FELIX BECKER, Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, Erster Band, Leipzig, E. A. Seemann, 1908, p. 178; si veda anche GIULIA FUSCONI, La fortuna delle “Nozze Aldobrandini”. Dall’Esquilino alla Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1994, pp. 219, 375, 393. 22 Su questa famosa edizione si veda I Documenti d’Amore di Francesco da Barberino, a cura di Luana Salvarani, Lavis, La Finestra Editrice, 2009 (Archivio Barocco). 26


“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

come ora sappiamo, non fu solo un uomo di fiducia dei Barberini, 23 un abile diplomatico e un ottimo disegnatore; egli dovette essere un personaggio straordinario: precocissimo, 24 pieno di interessi, colto e versato in tutte le arti, non ultime anche quelle marziali, cavalleresche e militari; traduce testi dal greco e dal latino, scrive componimenti poetici e drammi teatrali, tra i quali un Teodosio; versato nella musica, suona certamente il liuto, forse anche la viola da gamba e possiede un’interessante raccolta di musica vocale polifonica profana e di musica strumentale. 25 Giovanni Battista Doni, nel dedicargli il “Discorso Quarto” della Lyra Barberina intitolato “Della disposizione, e facilità delle Viole diarmoniche” scrive tra l’altro: chi è quello, che non ammiri, come in sì fresca età ella abbia potuto far così nobile acquisto di cose tanto diverse, e pregiate, non solo nelle lingue, e nelle lettere umane, ma negli esercizj Cavallereschi ancora, e sino nella Musica, e nella Pittura? E chi non raccoglie da ciò la sottigliezza dell’ingegno, la saldezza del giudizio, la tenacità dell’imaginativa, ed in somma l’ottima disposizione e temperamento dell’animo suo?

Nel 1639, a soli 22 anni, forse d’intesa con Gian Lorenzo Bernini che ne fu l’ideatore, organizzò il “Combattimento” con cui si chiude l’intermedio intitolato La Fiera di Farfa posto al termine della ‘commedia’, Chi soffre speri, su testo di monsignor Giulio Rospigliosi, musica di Marco Marazzoli, rappresentata nel Carnevale di quell’anno nel teatro “alle Quattro Fontane” fatto costruire dai Barberini.26 Nella con-

23

Il cardinale Francesco Barberini nella lettera di accreditamento inviata al re di Francia e conservata in copia nell’Archivio Albani così scrive: «invio il Sig.re Malatesta Albani mio Gentilhuomo, quale per la particolare confidenza, che ho lungamente usata seco, potrà tanto più al vivo rappresentarle i miei ossequiosi sentimenti». 24 Nel Catalogo della copiosa biblioteca già appartenuta all’Eccellentissima Famiglia de’ Principi Albani pubblicato nel 1858 figurano a p. 52 alcuni «Saggi de’ Studii nell’Arte del Disegno dati da Malatesta Albani negli anni di sua età quindici, e sedici 1632-33 con l’aggiunta di alcune Piante di Fortezze, Città, ed altri luoghi fatte dal med. fol. grande Originale». 25 Sull’argomento si veda AGOSTINO ZIINO, “Libri di musica” appartenuti a Malatesta Albani (Roma, c. 1640): un tassello in più nella ricezione di Carlo Gesualdo, «Fonti Musicali Italiane» 25, 2020 (in corso di stampa). 26 Su questo avvenimento si vedano in particolare: FREDERICK HAMMOND, Girolamo Frescobaldi and a Decade of Music in Casa Barberini, «Analecta Musicologica» 19, 1979, pp. 94-124; ID., Bernini and the “Fiera di Farfa”, in Gianlorenzo Bernini: New Aspects of His Art and Thought, ed. Irving Laving, University Park, Pennsylvania State University, 1985, pp. 115-178; ID., More on Music in Casa Barberini, «Studi Musicali» 14, 1985, pp. 235-261; ID., Girolamo Frescobaldi, A Guide to Research, New York & London, Garland Publishing, 1988; ID., Music and Spectacle in Baroque Rome. Barberini Patronage under Urban VIII, New Haven – London, Yale University Press, 1994; ID., Girolamo Frescobaldi, Palermo, L’Epos, 2002, 2.a ed., traduzione di Roberto Pagano, 1.a ed. in inglese 1983; ID., The Ruined Bridge. Studies in Barberini Patronage of Music and Spectacle 1631-1679, Sterling Heights, Michigan, Harmonie Park Press, 2010; NINO PIRROTTA, Un intermedio campestre, in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia, Modena, Mucchi, 1989, pp. 1057-1073, rist. in ID., Poesia e Musica e altri saggi, Discanto, Firenze, 1994, pp. 65-88; DAVIDE DAOLMI, “Marazzoliana”, in «L’armi e gli amori». Un’opera di cappa e spada nella Roma di mezzo Seicento, Tesi di Dottorato in Storia e analisi delle culture musicali, Roma, Università La Sapienza, a.a. 2000-2001 (redazione rivista e aggiornata @ 2006); ID., La drammaturgia al servizio 27


AGOSTINO ZIINO

tabilità dei Barberini sono indicate le spese fatte per le rappresentazioni teatrali in occasione del carnevale e per altre necessità, studiate e commentate accuratamente in più riprese da Frederick Hammond; ai ff. 135r-136r del col. 76 sono registrati tutti i pagamenti fatti per il “Combattimento” «per ordine del Sig.re Malatesta».27 Leila Zammar sostiene con buoni argomenti che Malatesta fu effettivamente coinvolto nella rappresentazione dato che un suo disegno potrebbe riferirsi alla scenografia di Gian Lorenzo Bernini ed alla sua macchina del sole.28 Passando ora a Brunetti e al madrigale di Giambattista Marino penso che non sia da escludere l’ipotesi che possa essere stato proprio Malatesta Albani a suggerirgli di metterlo in musica, conoscendo egli questo madrigale o per averlo letto nell’edizione del 1602 o in altre successive,29 o perché già intonato da molti musicisti,30 tra i quali Crescenzio Salzilli nel Primo Libro de madrigali a cinque voci del 1607, Pomponio Nenna, nel Primo Libro di madrigali a quattro voci del 1613, e Agostino Agresta nei Madrigali a sei voci…Libro Primo del 1617, raccolte madrigalistiche che figurano proprio nella lista di libri musicali da lui posseduti. 31 Comunque sia, è anche vero che le opere di Marino erano molto apprezzate da tutti i membri della famiglia Barberini – anche se Urbano VIII l’11 giugno 1624 mette L’Adone tra i libri all’Indice – e da tutto il loro entourage. 32 Ricordo infine che il madrigale Se la doglia e ‘l martire fu messo in musica anche da vari musicisti operanti a Roma – città dove Marino risiedette dal 1600 al 1606 e successivamente dal 1623 al ’25 –, alcuni dei quali molto vicini alla cerchia dei Barberini: si tratta di Girolamo Frescobaldi, Vincenzo Liberti, 33 J. Hieronymus Kapsperger, Vincenzo Ugolini, Pietro Pace e Carlo Cecchelli. 34 Non escludo, comunque, che Brunetti e Huygens abbiano potuto conoscere della scenotecnica. Le «volubili scene» dell’opera barberiniana, «Il Saggiatore musicale» XIII/1, 2006, on-line. 27 Cfr. ZIINO, “Libri di musica” appartenuti a Malatesta Albani (Roma, c. 1640) cit. 28 LEILA ZAMMAR, Gian Lorenzo Bernini: a Hypothesis about his Machine of the Rising Sun, in La dimensione del tragico nella cultura moderna e contemporanea, a cura di Erica Faccioli, Roma, UniversItalia, 2014, pp. 233-252. Per maggiori dettagli e nuove integrazioni si veda ZIINO, “Libri di musica” appartenuti a Malatesta Albani (Roma, c. 1640) cit. 29 Le Rime sono state pubblicare per la prima volta nel 1602 a Venezia da Gio. Battista Ciotti; le edizioni successive sono: Venezia, Ciotti, 1604-1605; Parma, Erasmo Ciotti, 1605; Venezia, G. B. Ciotti, 1606; Venezia, presso Bernardo Giunti, G. B. Ciotti et compagni, 1608. Le edizioni successive appaiono tutte con il titolo La lira. Rime: Venezia, G. B. Ciotti, 1614; Venezia, G. B. Ciotti, 1615-1616; Milano, Gio. Battista Bidelli, 1617-1618; Venezia, G. B. Ciotti, 1618; Venezia, G, B. Ciotti, 1620; Venezia, G. B. Ciotti, 1621-1625; Venezia, appresso il Ciotti, 1629; Venezia, nella stamperia de gl’heredi di Gio. Salis, 1638. 30 Se ne veda la lista nell’Appendice in fondo al presente articolo. 31 Cfr. ZIINO, “Libri di musica” appartenuti a Malatesta Albani (Roma, c. 1640) cit. 32 Cfr. HAMMOND, Music and Spectacle in Baroque Rome cit., pp. 18, 34, 64, 103, 107, 110, 184. 33 Nel 1609 Liberti dedica il Secondo Libro di Madrigali a cinque voci al cardinale Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII, in quel momento arcivescovo di Spoleto (NV, 1512), contenente due madrigali di Marino; l’anno precedente, il 1608, aveva dedicato al cardinale Scipione Borghese il Primo Libro di Madrigali a cinque voci, contenente ben nove testi del Marino tra i quali Se la doglia e ‘l martire (NV, 1511). 34 Su Carlo Cecchelli si veda JEROME ROCHE sub voce in New Grove/2, vol. 5, p. 327. Giuseppe Ottavio Pitoni così scriveva: «fu compositore di buona stima e valoroso contrappuntista, come ce ne 28


“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

(e forse anche acquistare) queste due versioni per voce e Basso continuo composte precedentemente da Francesco Dognazzi nel 1618 (Venezia, Bartolomeo Magni) e da Claudio Saracini nel 1620 (Venezia, Alessandro Vincenti): esse figurano difatti in due cataloghi di Vincenti – l’editore di Brunetti – rispettivamente del 1621 e del 1649. 35 Eccone il testo:36 Se la doglia, e ‘l martire Non può farmi morire, Mostrami almeno Amore, dimostrano molte opere scritte a mano e stampate»: in base a questa testimonianza dovremmo ipotizzare che molte opere, presumibilmente quelle non pubblicate o rimaste manoscritte, rispetto all’elenco compilato da Roche sono andate perdute; cfr. GIUSEPPE OTTAVIO PITONI, Notitia de’ contrapuntisti cit., p. 290. Sarà interessante sottolineare che il testo di Marino fu messo in musica anche da dieci musicisti napoletani o comunque ‘regnicoli’: Alessandro Roccia, Crescenzio Salzilli, Pietro Maria Marsolo, Alessandro Scialla, Pomponio Nenna, Francesco Genvino, Sigismondo D’India, Agostino Agresta, Lelio Basile e Giacomo Tropea. Lelio Basile, poeta e musicista, nato a Napoli, nel 1611, insieme ad fratello Giovambattista, raggiunse la sorella Adriana alla corte di Vincenzo Gonzaga duca di Mantova rimanendovi fino al ducato di Francesco. Nel 1619 pubblica il Primo Libro de Madrigali a cinque voci nel quale figura anche il madrigale di Marino, ma non escludo che possa essere stato proprio lui a consigliare a Don Francesco Gonzaga di inserire questo madrigale nel suo Primo Libro delle Canzonette a tre voci edito sempre nel 1619 (questa raccolta, comunque, contiene ben quattro testi di Marino). Potrebbe esserne una conferma il fatto che la dedica di Basile è precedente a quella di Gonzaga (quella di Basile è datata 25 aprile, mentre quella di Gonzaga 1° ottobre). D’altra parte, però, sarà anche interessante notare che questo madrigale – come tanti altri testi di Marino – era molto noto nell’ambiente mantovano già prima dell’arrivo della ‘famiglia’ Basile a Mantova: difatti lo avevano messo in musica già Salomone Rossi nel 1603 e Francesco Dognazzi, quest’ultimo in forma monodica, nel 1614, musicisti che lavoravano in quegli anni alla Corte di Francesco Gonzaga contemporaneamente a Lelio Basile e a Don Francesco Gonzaga (15901628), appartenente ad un ramo cadetto, operante nella Cappella di Santa Barbara e autore di molta musica sacra. Vorrei far presente che Michelangelo Grancino dedica a D. Vincenzo Gonzaga – presso il quale aveva lavorato prima di passare a Milano («le primizie d’una antica servitù») – il suo Primo Libro de’ Madrigali in concerto a 2.3.4 voci edito a Milano nel 1646 e che in questa raccolta figurano tre madrigali di Marino tra cui anche Se la doglia e ‘l martire. Su don Francesco Gonzaga si vedano: FRANCESCA CAMPOGALLIANI, Guglielmo e Francesco Gonzaga: un prencipe e un sacerdote nella storia musicale della chiesa di Santa Barbara in Mantova, Tesi di laurea, Università di di Padova, 1970; EAD., Francesco Gonzaga: un sacerdote nella storia musicale della chiesa palatina di Santa Barbara, «Civiltà mantovana» VIII, 1974, pp. 277-292; SUSAN HELEN PARISI, Ducal Patronage of Music in Mantua, 1587-1627: An archival Study, Part 1, Ph. D. diss., University of Illinois at Urbana-Champaign, 1989, pp. 448-449; EAD., ‘Licenza alla mantovana’: Frescobaldi and the Recruitment of Musicians for Mantua, 1612-1625, «Frescobaldi Studies», ed. by A. Silbiger, Durham, NC, 1987, pp. 55-91: 86-87, nota 62; NIGEL FORTUNE (with SUSAN PARISI), “Francesco, Gonzaga”, sub voce, in New Grove/2, vol. 10, p. 140. 35 Cfr. MISCHIATI, Indici cit., rispettivamente pp. 153, n. 631, 185, n. 702, 152, n. 568, 184, n. 668. Ambedue i madrigali figurano anche nelle edizioni successive del 1658 e del 1662. Mi interessa sottolineare il fatto che questi due compositori, ma più in generale anche il repertorio musicale da essi rappresentato, erano conosciuti e forse anche eseguiti ancora agli inizi degli Anni ’60 del Seicento. 36 Riporto la versione edita nella prima edizione: La Lira, Rime del Cavalier Marino, Parte Seconda, Madrigali & Canzoni, Venezia, Gio. Battista Ciotti, 1602, p. 97, n. LXXXXV. Nella trascrizione ho tolto le “h” etimologiche (“haver”; “hore”) e ho regolarizzato la “u” con “v”, secondo l’uso moderno. 29


AGOSTINO ZIINO

Come di gioia, e di piacer si more. Voi, che la morte mia negl’occhi avete, E la mia vita siete, Dite, dite ch’io mora a tutte l’ore, Ch’io son contento poi Mille volte morir, ma in braccio a voi. 37

Come ci indica anche il titolo – Morte dolce – si tratta a mio parere di un testo con una connotazione fortemente erotica e sensuale, tutto giocato, com’è, sul contrasto – in questo caso puramente retorico – tra la doglia e la gioia, tra il martire e il piacere, ma principalmente tra la vita e la morte, laddove quest’ultima, oltre al suo significato proprio assume metaforicamente anche quello del suo contrario, vita (= piacere), nel momento in cui si identifica con il culmine dell’atto amoroso/sessuale, cioè con il «morir ma in braccio a voi». Sul piano formale è bipartito essendo composto di nove versi suddivisi in 4+5, cioè quattro nella prima sezione e cinque nella seconda: si tratta di una struttura molto frequente nelle Rime di Marino subito dopo quella in ottonari (su 205 madrigali 54 sono di otto versi, 48 di nove, 45 di dieci, 20 di undici, 13 di sei e sette, 5 di tredici, dodici e tre).38 Faccio osservare che la seconda sezione inizia e termina con la parola «voi», che è poi la donna amata (nel testo). Questa suddivisione in 4+5 ha indotto cinque autori a realizzare addirittura due distinti madrigali qualificati come ‘Prima parte’ e ‘Seconda parte’: 39 si tratta di Vincenzo Ugolini, Sigismondo D’India, Agostino Agresta, Andrea Anglesio e Lelio Basile, tutti concentrati in soli quattro anni, tra il 1615 e il 1619. Tutti gli altri, tranne alcuni, presentano una struttura abbastanza unitaria, pur rispettando quasi sempre la suddivisione bipartita in 4+5 tramite una cadenza alla fine del quarto verso oppure utilizzando note lunghe al fine di creare uno stacco, anche se minimo, con la sezione musicale successiva. Fanno eccezione la versione di Francesco Gonzaga del 1619, monostrofica, nella quale viene messa in musica solo la prima quartina con il segno di ripetizione per il secondo distico; quella di Tommaso Pecci del 1603 in tre strofe cantate tutte sulla musica della prima quartina e sempre con il segno di ripetizione per il secondo distico, tutte con la stessa struttura rimica (yyxX) e costituita dalla prima quartina della versione originale – cioè quella di Marino –, da una seconda con versi ripresi in parte da quella originale 37

Varianti presenti in Brunetti: v. 3: almen; v. 4: muore; v. 5: Voi, voi (variante presente in molte altre versioni); v. 8: e poi. 38 Mi riferisco a ALESSANDRO MARTINI, Marino e il madrigale attorno al 1602, in The Sense of Marino. Literature, Fine Arts and Music of the Italian Baroque, ed. by F. Guardiani, Legas, New York, 1994, pp. 361-393: 389-393. La struttura metrica è la seguente: aabBCcBdD. 39 Purtroppo non è possibile comparare in ogni dettaglio tutte le versioni polifoniche dato che solo sedici ci sono pervenute complete di tutte le parti – Salomone Rossi, Girolamo Frescobaldi, Tiburzio Massaino, Vincenzo Liberti, Hieronymus Kapsperger, Alessandro Scialla, Bernardino Borlasca, Francesco Rognoni Taeggio, Pomponio Nenna, Francesco Genvino, Vincenzo Ugolini, Sigismondo D’India, Pietro Pace, Agostino Agresta, Giacomo Tropea, Alessandro Costantini –, mentre le altre sono incomplete. Le versioni polifoniche incomplete saranno prese in considerazione solo in relazione a quegli elementi che esulano dal numero delle parti. Avverto comunque il lettore che ho potuto visionare direttamente solo quindici versioni, tra complete e incomplete, come risulta dalla lista delle fonti riportata in Appendice. 30


“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE”

ed infine da una terza completamente nuova;40 da ultimo quella di Bernardino Borlasca del 1611, costituita da anch’essa da tre strofe cantate tutte sulla stessa musica, ma nella quale le due ultime presentano un testo completamente nuovo, sia pure con lo stesso ordine di rime della prima. 41 Nella versione di Taroni, almeno nella parte del Quinto, l’unica pervenutaci, sembra mancare il quarto verso. Tropea e Genvino, infine, riducono il settimo verso, «Dite dite ch’io mora a tutte l’hore», da endecasillabo a novenario eliminando uno dei due «Dite». La variante testuale più consistente si osserva, però, in Genvino ai vv. 5-6, variante che comporta anche un’inversione metrica (il v. 5 diventa un settenario e il v. 6 un endecasillabo): «Voi che la morte sete / e che la vita ne’ begli occhi avete». 42 Mi meraviglia molto che Tommaso Pecci abbia alterato il testo originale in modo così banale,43 proprio lui che Marino aveva tanto lodato nel 1601 durante il suo soggiorno a Siena nel sonetto a lui dedicato – Quelle de’ miei piacer dolci e lascivi – per aver «leggiadrissimamente messo in canto la Canzon de’ Baci», O baci aventurosi, nel quale così si esprime, molto retoricamente, nelle due terzine conclusive: «Malgrado homai del Tempo, e del’Oblio, / Spero vivrà, seben morrà lo stile, / Immortal nel tuo canto il canto mio. // Tal suole in licor dolce amaro e vile / Frutto addolcirsi: e tal roza vid’io / Pianta innestarsi, e divenir gentile». 44 Peter G. Laki afferma che questo sonetto contiene «what is probably Marino’s most substantial statement on music», mentre tutti gli altri riferimenti alla musica presenti nelle sue opere «may appear somewhat superficial, revealing little if anything about the poet’s views on music as an art and its relation to literature». 45 Laki conclude che Even if this [cioè il contenuto generale del sonetto] is merely conventional flattery on the part of the poet, it is interesting to see that Marino ascribed an important function to musical settings of his works. He was aware and appreciative, of his poems being set to music and he regarded musical settings as enhancing the values of the lyrical poetry he 40

Tommaso Pecci: «Voi che mia vita sete / Morte darmi potete, / Ch’io son contento poi / Mille volte morir; ma in braccio à voi. // Morte felice à pieno / Haverei nel vostro seno, / Che del mio corpo essangue / Raccorreste pur voi lo spirto, e ‘l sangue». Non escludo che i versi che ho indicati come ‘nuovi’ possano essere stati estratti da altre poesie sempre del Marino. 41 Eccone i testi; Seconda strofe: «Se l’angoscia, ch’io sento / Mi tiene vivo spento, / Mostrami almeno Amore / Come spento ravviva un cor che more.» Terza strofe: «Poi che ‘l grave mio affanno / Mi somministra il danno, / Non perir non morire, / Non campar, non gioir, né duol sentire.» 42 Sempre in tema di varianti testuali bisogna dire che nella versione di Dognazzi nel quarto verso la parola «gioia» è sostituita da «doglia», ma è evidente che si tratta di un refuso di stampa. Difatti ci troviamo di fronte ad una stampa alquanto scorretta, pur essendo Bartolomeo Magni un editoretipografo di un certo prestigio; si vedano anche: nel v. 5: «Voi che alla morte mia nelli occhi…», e nel v. 7: «ch’io morra». 43 Ma la cosa ancora più strana è che Se la doglia e ‘l martire apre tutta la raccolta, è il primo, cioè, di una serie di ventun madrigali dei quali dodici del Marino e nove adespoti. 44 Questo sonetto è in GIAMBATTISTA MARINO, Rime, sezione Rime varie, Parte I, Venezia, Gio. Battista Ciotti, 1602, p. 211. Si veda anche JOACHIM SCHULZE, Formale Themen in Giovanni Battista Marino’s “Lira”, Amsterdam, B. R. Gruner, 1978, pp. 134-135. La «canzone dei baci» risulta essere stata messa in musica da otto compositori – in tre casi completa e in cinque solo parzialmente –, tra i quali però non figura Tommaso Pecci, la cui versione evidentemente o non è stata mai pubblicata oppure è andata perduta. 45 Cfr. LAKI, Musical References cit., p. 94. 31


AGOSTINO ZIINO

produced. […] Nevertheless, he was quite conscious of the new dimension music could add to the words through its capacity to enhance the qualities of the poems, a capacity he recognized and praised in many of his works. 46

Tornando ora alle quattro versioni monodiche – Dognazzi (1614), Saracini (1620), Brunetti (presumibilmente intorno agli Anni ’40) e Constantijn Huygens (1647) – c’è da osservare per prima cosa che quella di Brunetti sul piano musicale è molto più lunga rispetto alle altre due. Dognazzi comprende 27 battute di cui 12 per la prima sezione e 15 per la seconda; Saracini, che ripete sia la prima che la seconda sezione, 46 di cui 8 (+ 8) per la prima e 15 (+ 15) per la seconda; Huygens 48 di cui 11 (+ 11) per la prima e 13 (+ 13) per la seconda, con la replica di ambedue; Brunetti 77 di cui 27 per la prima sezione e 23 (+ 27) per la seconda, compresa la replica (scritta). Nel caso di Saracini e di Huygens la replica è indicata dal doppio segno di ripetizione posto alla fine della prima sezione, mentre in Brunetti non solo è riscritta per intero ma presenta anche notevoli varianti rispetto alla prima esposizione. D’altra parte, come sappiamo, nel ripetere una parte i cantanti erano soliti improvvisare sempre varianti ed abbellimenti. La replica di un’intera parte, quindi, ha sempre e comunque un significato solo musicale. Tuttavia il problema, in questo caso, riguarda il modo con il quale la ripetizione è realizzata: Brunetti, difatti, nel ripetere la seconda parte non solo ne modifica tutti gli abbellimenti, rispetto alla prima esposizione, ma interviene perfino sui campi sonori (si osservi, tra l’altro, che la cadenza mediana, a b. 50, è nella sonorità di Re minore mentre quella finale è nella dominante, La minore). Come si vede, quindi, sul piano musicale la replica della seconda sezione non è soltanto una semplice ripetizione con qualche modificazione negli abbellimenti ma ha anche un valore strutturale. A mio parere, una spia molto interessante per comprendere i diversi modi di accostarsi ad un testo poetico da parte di un musicista è quella di provare a valutare la tipologia e il significato delle ripetizioni testuali non solo in sé stesse, cioè per il loro contenuto poetico e per ciò che esprimono, ma anche in relazione alle soluzioni musicali adottate dai vari compositori. Questa prospettiva, infatti, potrebbe addirittura rovesciare il problema nel senso che è la struttura musicale a richiedere la ripetizione di un verso o di una sua parte, e non viceversa. Ecco tre delle quattro versioni a voce sola in ordine cronologico:47

46

Ivi, p. 95. Con il corsivo indico le parole e i versi ripetuti. Nella versione di Dognazzi ho corretto «doglia» (v. 4) in «gioia» e «nelli» (v. 5) in «negli». 47

32


“SE LA DOGLIA E ‘L MARTIRE” DOGNAZZI

SARACINI

BRUNETTI

Se la doglia e’l martire non può farmi morire

Se la doglia e’l martire non può farmi morire

Se la doglia e’l martire non può farmi morire

Non può farmi morire Mostrami almen’

Non può farmi morire Mostrami almen’ Amore

Mostrami mostrami almen’Amore Come di gioia e di piacer si muore

Mostrami almen’ Amore come di doglia e di piacer si more.

Come di gioia e di piacer

mostrami

Voi che la morte mia negli occhi avete

come di gioia e di piacer si more.

mostrami almen’ Amore Come di gioia e di piacer

E la mia vita sete

Voi, voi che la morte mia negli occhi avete

come di gioia e di piacer

Dite dite ch’io mora a tutte l’ore Dite dite ch’io mora a tutte l’ore

E la mia vita siete e la mia vita

come di gioia e di piacer si more. Voi, voi che la morte mia negl’occhi avete

Ch’io son contento poi

e la mia vita siete

E la mia vita siete

Mille volte morir ma in braccio a voi

Dite dite ch’io mora

Dite dite ch’io mora a tutte l’ore

Ch’io son contento poi

dite dite ch’io mora a tutte l’ore

Ch’io son contento poi

Mille volte morir ma in braccio a voi.

Ch’io son contento poi

mille volte morir

Mille volte morir

mille volte morir ma in braccio a voi

Mille volte morir ma in braccio a voi.

Chi’io son contento poi Mille volte morir Mille volte morir ma in braccio a voi. Voi che la morte mia ne gl’occhi avete e la mia vita siete dite dite chi’io mora a tutte l’ore ch’io son contento poi mille volte morir mille volte morir ma in braccio a voi ch’io son contento poi mille volte morir mille volte morir ma in braccio a voi.

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AGOSTINO ZIINO

Come si può osservare, tra le tre versioni 48 cambia in modo significativo il modo di ripetere parole singole, versi singoli, parti di essi più o meno estese o più versi insieme. Questo dipende non solo dall’approccio che i quattro musicisti potrebbero aver avuto nei confronti del testo poetico in quanto tale, del suo significato e della sua struttura metrica ma anche dalle caratteristiche melodiche, ritmiche e fraseologiche della musica sulla quale hanno immaginato di intonarlo. Ne consegue che uno studio sul modo di ripetere le parole, versi interi o solo parti di essi ha un senso solo se rapportato alla loro intonazione musicale. Partiamo dalla prima quartina che contiene un discorso assolutamente compiuto e definito. Dognazzi e Saracini – per iniziare con i due compositori più antichi –49 ripetono per intero un solo verso, il secondo (ambedue sullo stesso modulo ritmico – e in parte anche melodico – del primo, rispettivamente una quarta e una terza sopra), al termine del quale figura una cadenza su una parola-chiave, «morire». Il terzo verso, «mostrami almen, Amore», dà l’avvio ad un concetto che in un certo senso è in antitesi rispetto a quello dichiarato nei due versi precedenti in quanto la morte può essere provocata non solo dalla «doglia» e dal «martire» ma anche dalla «gioia» e dal «piacer». Forse proprio per questo Dognazzi ne enfatizza lo stacco intonando il primo emistichio, «mostrami almen», su un veloce modulo ritmico e melodico e ripetendolo immediatamente dopo un tono sotto insieme alla parola seguente, «Amore», fino a completare il verso. Saracini invece preferisce abbandonare il principio dell’unità motivica attraverso un «jump from A to F […] and new melodic material» che ha un forte effetto di sorpresa. 50 Ambedue i musicisti, però, si soffermano su «Amore» utilizzando una semiminima e due semibrevi. Sarà interessante notare, inoltre, che in ambedue le versioni il verbo «mostrami» è cantato con la medesima scansione ritmica: minima puntata, due crome, minima (minima puntata o semiminima), semiminima, semibreve, semibreve (Dognazzi, bb. 7-9; Saracini, b. 5). Saracini prosegue intonando la prima parte del quarto verso, «come di gioia e di piacer», su un vivace modulo di crome che sarà ripetuto simmetricamente prima dal Basso continuo un tono sotto (partendo dal Re) e poi dalla voce, ma una quarta sotto (partendo dal Si). Se Saracini ripete due volte l’espressione «come di gioia e di piacer», Dognazzi invece, dopo aver espresso il senso della «gioia» – ma in realtà il compositore usa il termine «doglia» – attraverso un lungo, vivace e articolato vocalizzo sulla prima sillaba, prosegue con un breve inciso di tre crome, ripetute simmetricamente dal Basso continuo una quinta sotto, che esprimono ovviamente il «piacer» (bb. 10-11), fino a concludere la prima sezione, su «[si] more», con una breve cadenza che termina con nota coronata sulla dominante (Re). Anche Saracini chiude con due semibrevi, cadenzando però sulla tonica (Sol). La seconda parte si apre in ambedue le versioni con una sorta di declamato che si estende lungo tutto il verso; stesso trattamento si osserva anche in molte delle versioni polifoniche.51 Saracini, in più, ripete il «Voi» iniziale attraverso un passaggio cromatico (Si-Do-Do die48

Non ho considerato la versione di Constantijn Huygens del 1647 in quanto replica solo il secondo emistichio dell’ultimo verso: «ma in braccio a voi». 49 Escludo Huygens in quanto ripete solo l’ultimo emistichio, «in braccio a voi». 50 Cfr. LAKI, The Madrigals of Giambattista Marino cit., p. 153. 51 Sarà interessante notare che Salzilli passa invece al tempo ternario. 34


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sis, b. 10) che rende ancora più forte e incisivo il riferimento alla persona amata, già annunciato nel terzo verso («Amore»). 52 Se Dognazzi non sfrutta tutte le potenzialità che offre il verso successivo, il sesto («e la mia vita siete») – che si oppone al precedente «Voi che la morte mia negli occhi avete» –,53 facendone quasi una prosecuzione di questo con un movimento ascendente (come Saracini) di semiminime fino a terminare con una cadenza di due semibrevi (bb. 15-16), Saracini, invece, dopo aver iniziato con un veloce moto di tre crome ascendenti che si allarga subito sulla cadenza con una minima e tre semibrevi (bb. 12-13), ripresenta questo verso altre due volte utilizzando il veloce modulo ascendente su diversi gradi della scala (rispettivamente una quarta e una sesta minore sotto), fino a concludersi, come Dognazzi, con una cadenza spalmata su due semibrevi (b. 15). In conclusione, mentre Dognazzi intona il sesto verso una sola volta e tutto di seguito, Saracini preferisce metterlo in maggiore evidenza e dopo averlo cantato la prima volta lo ripropone, dividendolo però in due segmenti, di cui il primo intonato due volte. Passando ora agli ultimi tre versi (7-9) c’è da osservare per prima cosa che Dognazzi ripete per intero il settimo verso («dite, dite ch’io mora a tutte l’ore») – caratterizzato da un ritmo veloce e molto scandito – una quinta sotto (dalla b. 16) e con un segmento melodico solo in parte simile, e lo unisce senza soluzione di continuità al verso successivo, l’ottavo, sul quale cadenza. Saracini, invece, lo divide – intonandolo sempre su un ritmo vivace e scandito – in due emistichi ripetendone il primo due volte a distanza di un tono sotto, e chiude con una cadenza sulla dominante (Re) posta alla fine del verso, su «l’ore». A questo punto Saracini, dopo un brevissimo stacco di una croma, passa immediatamente al penultimo verso e quasi senza soluzione di continuità prosegue sull’ultimo che tratta esattamente come quelli precedenti, vale a dire anticipando il primo emistichio, che ripete una quarta sotto, dopo una replica affidata al Basso continuo, e legandolo al secondo («in braccio a voi»), con il quale termina il pezzo su un segmento musicale a note lunghe. In questo modo sembra che Saracini evidenzi nell’ordine i verbi «mora» nel 52

Sull’impiego del cromatismo in Saracini si veda in generale LAKI, The Madrigals of Giambattista Marino cit., pp. 150-151: «The Sienese nobleman and amateur composer wrote contrapuntally derived chromaticism in the manner of Gesualdo and d’India, major-minor shifts over unchanging bass as seen in Romano [Giulio], chromaticism in the bass line and many other varieties that are peculiar to him and that are hard to classify. Furthermore, there is a recurring feature in Saracini’s style, virtually nonexistent in the music of other monodists, that can perhaps be best explained in the context of chromaticism, although it does not always involve the linear succession of ascending or descending semitones. This is Saracini’s habit of abruptly moving from one tonal center to another, witsìh basses that use steps quite unheard of in either musical theory or practice of the time, such as augmented seconds, fourths, and fifths. Often such progressions result in cross-relations that are really another form of chromaticism. Occurring within the same voice or not, however, chromaticism is more pervasive in Saracini’s songs than those of other monodists. He did not restrict the use of chromatic progressions to structurally important points or words that called for such progressions according to the madrigalistic usage of the day. Many of his madrigals meander rather unpredictably from one tonal center to another, sometimes even failing to return to the initial cadential sonority at the end. Others, while making ample use of chromaticism and other innovative devices, do not contain anything more extraordinary than the usage of Saracini’s more venturesome professional colleagues». 53 In ambedue i casi il corsivo è mio. 35


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settimo verso e «morir» nell’ultimo, verbi che in questo contesto sono una chiara metafora dell’atto sessuale e della sua felice conclusione. Dognazzi, invece, rimane coerente con il principio di non spezzare i versi – in questo caso gli ultimi due – ma di intonarli per esteso, separandoli tramite una pausa di semiminima e ripetendoli alla quarta sopra. A ben vedere, però, l’ultimo verso è pur sempre suddiviso in due emistichi dal momento che il primo è ripetuto alla quarta sotto, non dal canto ma dal Basso continuo. Si osservi inoltre che sia Dognazzi che Saracini nei versi «dite, dite ch’io mora» e «mille volte morir» adoperano lo stesso modulo ritmico: due crome e una semiminima (o minima). A questo si aggiunga anche la circostanza che sia Dognazzi che Saracini alternano in imitazione la voce e il Basso continuo proprio nello stesso punto (dopo «mille volte morir»): forse anche questo potrebbe contribuire ad imparentare, forse non casualmente, le due versioni. Diversamente da Dognazzi e Saracini che lavorano più sul dettaglio, Brunetti preferisce le grandi campate, anche se poi è uno dei pochi a ripetere parole singole con valore rafforzativo: «Voi» con cui inizia il quinto verso (come d’altra parte fa, come abbiamo visto, anche Saracini54) e «Mostrami» all’inizio del terzo, ma replicato un tono sopra (bb. 7-9 e 15-17). Come si è visto, anche Saracini e Dognazzi mettono in evidenza, sia pure in modi diversi, questo terzo verso, differenziandolo dai due precedenti ma Brunetti va ancora più avanti e non si limita a ripetere la prima parola, come fa anche Dognazzi, ma rafforza la ripetizione anche attraverso un brevissimo canone; la trovata più stupefacente, però, è quel lungo vocalizzo sulla prima sillaba della parola «Amore», che insieme a «morte» è l’altra parola-chiave di questo madrigale (bb. 9-11 e 17-19). I primi due versi sono intonati l’uno di seguito all’altro senza soluzione di continuità, come d’altra parte fanno anche Dognazzi e Saracini, mentre il terzo e il quarto sono ripetuti a coppie; nella replica, il terzo è cantato di seguito (come nella prima esposizione) mentre il quarto è suddiviso in due parti, forse per sottolinearne il significato apparentemente contrastante («come di gioia e di piacer / si more»), la prima delle quali a sua volta è ripetuta tre volte su tre diversi gradi della scala con un modulo composto di crome discendenti e ascendenti. Un trattamento particolare è riservato, ovviamente, al secondo segmento, «Si more» (come in Huygens). Nella seconda sezione, i primi tre versi – il quinto, il sesto e il settimo – sono cantati l’uno di seguito all’altro, anche se l’ultimo è intervallato tramite una pausa di semiminima; gli altri due (l’ottavo e il nono), invece, sono ripetuti a coppie con la stessa tecnica impiegata nella sezione precedente, vale a dire che l’ottavo è cantato per intero e tutto di seguito mentre il nono è suddiviso in due emistichi («mille volte morir / ma in braccio a voi»), il primo dei quali è ripetuto due volte senza soluzione di continuità ma su gradi diversi della scala, mentre il secondo, che si riferisce alla persona amata – vedi «Amore» del terzo verso – con la quale si attua l’atto sessuale, è enfatizzato attraverso un vocalizzo, molto elaborato specialmente nella replica. Tutta la seconda sezione viene a sua volta ripetuta per intero ma su diversi gradi della scala e con un numero maggiore di passaggi vocalizzati, com’era d’uso allora (su «Voi», «vita», «mora», «ma in braccio a voi», il quale ultimo nella replica finale abbraccia ben cinque battute). Precedentemente avevo osservato che Dognazzi e Saracini – a lo54

Tra i polifonisti ricordo, tra i tanti, Vincenzo Liberti (1608) e Vincenzo Ugolini (1615). 36


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ro si aggiungerà, come vedremo, anche Huygens – impiegano lo stesso modulo ritmico per intonare le parole «dite, dite ch’io moro» e «mille volte morir»: Brunetti concorda con loro per quanto concerne il primo, ma per il secondo sceglie un modulo ritmico forse più vicino alla scansione verbale e comunque certamente più vivace: croma, croma, semiminima, croma puntata, semiminima. In conclusione, dal confronto tra queste tre versioni risulta, a mio parere, che quella di Brunetti si basa su principi strutturali, formali e costruttivi molto precisi e definiti che mirano ad ottenere architetture musicali ampie, dilatate e chiaramente articolate al loro interno secondo una logica musicale ben determinata. Al contrario, Dognazzi e, specialmente, Saracini (e Huygens) sembrano fortemente incardinati nei principî del “recitar cantando” basati sullo stretto legame tra poesia e musica sia sul piano ritmico che su quello espressivo e contenutistico. Prima di passare ad un’analisi musicale dettagliata dei quattro madrigali vorrei presentare una ‘tavola’ molto sintetica delle ‘sonorità’ principali impiegate dai quattro compositori. Nell’approntare la ‘tavola’ ho preso come punto di riferimento i singoli versi e le ‘sonorità’ con cui iniziano e terminano. Purtroppo non ho indicato tutti i vari passaggi che sono serviti per ‘modulare’ da una ‘sonorità’ all’altra all’interno delle singole unità versali, di conseguenza i dati che la ‘tavola’ potrà fornire saranno per forza di cose molto generali e riguarderanno solo le macrostrutture.55 Dognazzi 1: Solm>Re / 2: Re>Sib / 3: Sib>Re / 4: Re>Re // 5: Re>La / 6: La>Re/ 7: Sib>La / 8: La>Do / 9: Do>Re / 8: Re>Fa / 9: Fa>Solm Saracini 1: Sol>Mi / 2: Sol>La / 3: Fa>Do / 4: Do>Sol // 5: Sol>Re / 6: Re>Re / 7: Sol-Re / 8: Sol>Do / 9: La>Sol Brunetti 1: Re>Re / 2: Re>Solm / 3: Solm>Do / 4: Do>Do / 3: Do>Fa / 4: Fa>Re // 5: Re>Re / 6: Re>Solm / 7. Solm>Fa / 8: Fa>Sib / 9: Sib>Solm / 8: Sol>Do / 9: Do>Re – A partire dal verso 8 si ripete tutto uguale, ma con varianti negli abbellimenti; inoltre, dalla b. 74 fino all’ultima (b. 77) cambia anche la linea del Basso continuo passando subito alla sonorità di La (quinto grado di Re, sonorità di partenza) con la quale il pezzo si conclude. Huygens 1: Sol>Sib / 2: Sib>Re / 3: Solm>Fa / 4: Fa>Re // 5-6: Sib>Solm / 7: Solm>La / 8: La>Re / 9: Solm>Solm

Peter Laki ha affermato che nella monodia del primo ‘600 «Much of the harmonic activity takes place around the circle of fifths: […]. The use of the circle of fifths gives the piece a clear sense of tonal direction.» 56 Nell’approntare le osservazioni che seguono ho preso anch’io come punto di riferimento il circolo delle quinte, ben consapevole, però, che le musiche che stiamo analizzando appartengono ad un momento storico-musicale nel quale il concetto di ‘armonia’ – le sue ‘leggi’, la sua pratica e la sua relativa terminologia – è ancora molto fluttuante tra modalità e tonalità, tra ‘oriz55

Ovviamente “Solm” significa Sol minore. La ‘sonorità’ maggiore non è indicata. I numeri in bold indicano i singoli versi in ordine crescente. 56 LAKI, The Madrigals cit., p. 151. 37


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zontalità’ legata ancora al contrappunto ed alla pratica polifonica e ‘verticalità’ connessa alla nascente monodia accompagnata. La prima cosa da chiarire è quella della divisione in versi, ovvero, fine a qual punto è giusto far coincidere le varie frasi musicali con le singole unità versali, cioè con i singoli versi. Difatti alcune volte un’unica frase musicale può comprendere due o più versi; in tal caso ho preferito collegare i numeri dei versi interessati con un trattino. Sul piano musicale le singole unità versali si possono distinguere l‘una dall’altra attraverso le cadenze, una o più pause, un cambio improvviso di campo sonoro oppure ancora attraverso un diverso modo di interpretare musicalmente il significato o il contenuto di un verso. I singoli versi iniziano per lo più nello stesso ambito armonico di quello precedente, tranne che in alcuni casi: una volta in Dognazzi e Brunetti, tre in Huygens e cinque in Saracini. Questo significa che Dognazzi e Brunetti mantengono una certa stabilità ‘armonica’ (Dognazzi si muove prevalentemente tra il Solm e il Re, il La; Brunetti tra il Re, il Solm e il Do), mentre Saracini e Huygens si caratterizzano per una continua mobilità ‘modulante’ che interessa tutti, o quasi, i gradi della scala. Queste differenze mi sembrano quindi molto significative per varie ragioni, come, ad esempio, nel caso di Dognazzi il quale, per evidenziare probabilmente l’inizio della parte finale del madrigale («dite, dite», b. 16) cambia improvvisamente sonorità da Re maggiore a Sib maggiore. Dal quadro che ho approntato sopra si notano anche più facilmente le modulazioni a sonorità estranee a quella(e) di base. Nella versione di Dognazzi, che si apre e si chiude in Sol minore, compare in due occorrenze una sonorità di “Fa”, anch’essa ‘lontana’. La prima volta appare all’inizio del secondo verso, come indica il 6 posto sopra il La («non può farmi morire», b. 3) dopo una sonorità di Re maggiore, quindi con un significato estraniante, sonorità che rimane fino alla fine del verso su una cadenza mediana sospesa Do-Fa (b. 4). Difatti, dopo una pausa di semiminima il verso viene ripetuto su un’altra sonorità per chiudersi con una cadenza sul Sib – anche questa una sonorità ‘lontana’ – nella quale il Fa che lo precede ha assunto la sua vera funzione, vale a dire quella di dominante (b. 6). Poco significativo è invece il passaggio alla sonorità di Fa nella b. 25. Del “Fa” acuto con il quale Saracini apre il terzo verso –innestato sempre in una sonorità di Sol minore – ha parlato già Peter Lake ed io non ho altro da aggiungere. In Brunetti a b. 20 sul verbo «more» si può osservare una cadenza nella sonorità di Fa che proviene da una di Do tramite un movimento V6-I. Un’altra cadenza nella sonorità di Fa è presente alle bb. 35-36 su «mora a tutte l’ore»; la stessa sonorità prosegue nelle due battute successive sul v. 8 che cadenza su un Sib. Nella versione di Huydens già nel primo verso si passa dalla sonorità Solm a quella di Sib («[marty]-re»), mentre il terzo chiude con una cadenza sul Fa proveniente da un Do (su «[a]-more»). Ma il caso più interessante, a mio parere, si può osservare all’inizio della seconda parte nel quale si passa direttamente dalla sonorità di Sib a quella di Mib, una perfetta quarta giusta ascendente (bb. 12-13). Passiamo ora ad illustrare, anche se solo in linea generale, gli aspetti musicali delle quattro composizioni, partendo sempre dalla versione di Francesco Dognazzi. Si tratta di un brano molto suggestivo, 57 costruito in modo chiaro e lineare, ma sofisticato 57

Si può ascoltare in internet interpretata da Van der Meel con l’ensemble La Sfera armoniosa. Dal punto di vista musicale tutte e quattro le versioni sono, a mio avviso, molto belle e suggestive. 38


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nel contempo, prevalentemente sulla sonorità di Sol minore, con frequenti modulazioni alla dominante, ma toccando di sfuggita anche altri gradi. Inoltre, i vari passaggi V6-I contribuiscono a confermarne la coerenza e la compattezza ‘tonale’. Pur nella sua brevità, il brano è abbastanza variato nelle soluzioni tecniche e stilistiche, semplici ma raffinate. Dognazzi, difatti, ha enfatizzato la sostanziale unitarietà dei due versi iniziali non solo per averli concatenati l’uno all’altro ma anche per aver realizzato un certo parallelismo nella linea musicale. Ma c’è anche qualche passaggio particolare interessante e significativo: ad esempio il salto discendente di quinta diminuita all’inizio di b. 8 su «mostrami almen amo-[re]» che risale con un passaggio di quarta diminuita fino a Sib, sempre che il secondo Fa sia ancora diesis; quella preziosa cadenza IV6-V-I che passa dal minore al maggiore (anche a b. 15); similmente, a bb. 13-14 quel cromatismo dal Fa a Fa diesis che provoca un improvviso passaggio da una sonorità in maggiore (Re) ad una in minore (Sol); la complessa cadenza in Re maggiore a b. 12; ed infine la modulazione da La maggiore a Re minore che a sua volta si tramuta in Si-Re-Fa (Re con la sesta alterata, cioè non bemolle – quasi una quinta di un immaginario Mi, a sua volta quinta del La iniziale), per cadenzare sul Do maggiore. Per non parlare poi del vocalizzo su «gioia» e di quello meno esteso su «[brac-]cio» a bb. 22 e 26. Anche l’uso delle imitazioni su gradi diversi è abbastanza contenuto: si vedano le bb. 16-18 («dite dite ch’io mora»), all’interno della stessa voce, e le bb. 11, 20-21 e 24-25 tra voce e Basso continuo. Per quanto concerne la versione di Claudio Saracini vorrei segnalare per prima cosa che, come Dognazzi, non solo ha concatenato i primi due versi l’uno dopo l’altro senza soluzione di continuità ma ha realizzato anche un certo parallelismo musicale all’interno del distico specialmente sul piano ritmico. Inoltre, sempre similmente a Dognazzi, ha ripetuto il secondo verso. Peter Laki ha indicato con grande chiarezza attraverso quali tecniche e soluzioni musicali Saracini – nonostante la sua «enigmatic musical personality» 58 – ha potuto raggiungere livelli musicali così interessanti proprio in questo madrigale che «shows the composer at his innovative best»: In ”Se la doglia” chromaticism appears at several structural levels. On the local level it is found in the form of the typical ascending semitone/descending minor third pattern (“Voi che la morte,” “Dite, dite ch’io mora”). It also operates on a higher level, as seen from the sequence of downbeats in the bass of mm. 1-3 (G- G sharp- A). Finally, chromaticism is audibly manifest as C and C sharp, G and G sharp, or F and F sharp are heard in close succession, whether in the same part or as cross-relations (“a tutte l’hore, / ch’io son contento poi”; “mille volte morir, ma in braccio a voi”; “come di gioia e di piacer”). All these uses of chromaticism are, however, controlled by a harmonic plan that is very clearly defined, though it includes more frequent and more distant key changes than is usually the case in monodies. Much of the harmonic activity takes place around the circle of fifths: the second line, “non può farmi morire,” goes from G to D, and is repeated in transposition from D to A. Also, in the next two lines (“Mostrami almen Amore, / come di gioia e di piacer si more”) the bass proceeds from F to C to G to D, returning to G for the central cadence. The use of the circle of fifths gives the piece a clear sense of tonal direction. The two chromatic gestures already mentioned on the one 58

LAKI, The Madrigals cit., p. 151. 39


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hand and the recurrent cadential patterns V6-I (“negli occhi havete”; “a tutte l’hore”; “mille volte morir”) on the other reinforce that sense of direction with a considerable degree of motivic unity. In this context breaks in that logic, as at the words “Mostrami almen”, where a jump from A to F occurs and new melodic material appears, have an effect of surprise. In a word, “Se la doglia” possesses a strong internal order against the background of which musical conceits can be appreciated. Some of these conceits are less melodic or harmonic than rhythmic or textural (sometimes involving voice/bass im59 itation), […].

Questi elementi, indubbiamente molto innovativi, riscontrati anche da Laki nella musica di Saracini non devono essere presi, però, come unico punto di riferimento e come unico parametro di valutazione. Lo stesso Laki afferma a questo proposito che There are many kinds of deviations from the ordinary in Saracini’s monodies, and it is impossibile to describe them all at the present time. […] Saracini’s melodies use intervals hardly ever encountered in the period; his rhythmic language involves sincopations very much at variance with common practice; and his metre abounds in strikingly asymmetrical phrase structures. Some of these peculiarities do indeed betray the hand of the amateur. It is certain that Saracini, who may have lacked a rigorous training as a composer, did some of these things out of technical inadequacy rather than artistic radicalism. But it is possible to draw a rigid line between a conscious challenge to the norms and a failure to live up to them as a consequence o compositional shortcomings? Certainly, the norms of monody, a young and relatively short-lived genre, have to be defined before departures from those norms can be recognized as such. After all, stylistic freedom is one of the main characteristics associated with monody, a freedom made possible by the disappearance of strictures of counterpoint and the primacy of textual expression. Still, Saracini’s excesses call of for a special justification, and his amateur status strengthens our suspicion that there may in fact be downright errors in his music. 60

Constantijn Huygens – uomo di grande cultura in molti campi, nelle scienze, nella letteratura, nelle lingue, nell’arte e nella musica – conosceva molto bene anche la musica italiana: nel 1620 durante un suo viaggio a Venezia ascoltò alcune musiche di Monteverdi (e forse lo incontrò anche di persona); conobbe certamente anche qualche 59

Cfr. LAKI, The Madrigals cit., p. 151. Si legga anche a proposito del cromatismo: «chromaticism is much more pervasive in Saracini’s songs than in those of the other monodists», tra i quali in particolare Sigismondo D’India e Pietro Benedetti, cfr. p. 150. 60 Cfr. LAKI, Claudio Saracini: Innovative or Imcompetent? cit., pp. 905-913: 905-906. Sulla posizione storica di Saracini Laki così scrive: «In the existing, none-too-vast, literature Saracini is placed in a group of radical monodists along with Sigismondo d’India, Domenico Belli, and Pietro Benedetti, all of whom used daring chromaticism and unconventional harmonies and carried textual expression to the estreme. But lumping Saracini together with other composers in a group of radicals obscures the fact that his case is quite unique and besides, there is no evidence that he had any links with any of the other “radicals”. Unlike d’India and Belli, Saracini was an amateur whose efforts were virtually limited to the monadic genre. Unlike Benedetti, he employed musical gestures can be qualified as radical to a much greater extent. With him, they are the rule rather than the exception, the majoritiy of his works containing something unusual. Many passages by far surpass in boldness anything that appeared in print in the Italian secular songs of the time.», cfr. LAKI, Claudio Saracini cit., p. 905. 40


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madrigale di Carlo Gesualdo da Venosa e di Pomponio Nenna; 61 nella sua biblioteca figuravano anche opere di musicisti italiani tra i quali Gastoldi, Marenzio, Merula e Artusi;62 infine, Luigi Rossi, pur non conoscendolo direttamente, ha avuto modo di lodarlo molto.63 Vorrei osservare, innanzitutto, che il madrigale di Giambattista Marino, Se la doglia e ‘l martire, inaugura la serie delle composizioni – chiamate «Airs» – su testi profani, italiani (12) e francesi, 64 dopo quelle a carattere religioso e su testo latino. Come ho già accennato in precedenza, c’è un elemento che accosta la sua versione a quella di Dognazzi, vale a dire il fatto che nel quarto verso ambedue sostituiscono la parola «gioia», com’è nella versione originale di Marino, con «doglia», per la quale non avrebbe senso, almeno in Dognazzi, quel lungo vocalizzo sul quale è intonata. Un altro aspetto in comune è rappresentato dallo stile quasi declamatorio con il quale ambedue – ma in parte anche Brunetti – realizzano il quinto verso. Ma ci sono anche altre somiglianze sia con Dognazzi e Brunetti, sia anche con Saracini: innanzitutto il fatto di interpretare il distico iniziale come se fosse un blocco unico nonostante la ripetizione del secondo verso (Dognazzi e Saracini); si veda inoltre il modo, identico, di trattare ritmicamente le sequenze di tipo anapestico «dite, dite» oppure «mille volte». Infine, non sarà forse un caso se Huygens intona il passaggio «e la mia vi-[ta]» (b. 14) con un arco melodico ascendente che abbraccia una sesta (FaRe): difatti anche Dognazzi, Saracini e Brunetti, prima di lui, avevano scelto questa soluzione, Dognazzi con un arco di quinta e Saracini e Brunetti con uno di quarta. Ma la cosa più interessante è costituita a mio parere da alcune convergenze che si osservano solo tra Saracini e Huygens. Difatti Huygens, come Saracini, ripete sia la prima che la seconda parte. Un altro elemento che lo avvicina a Saracini è il modo di trattare i primi due versi, specialmente dal punto di vista ritmico (sono ambedue a base anapestica).65 La versione di Huygens, inoltre, similmente a quella di Saracini, si distingue per il suo esteso cromatismo: si vedano le bb. 2 su «marty-[re]» (molto efficace ed espressivo), 4 su «farmi-[morire]», 8 su «doglia», 17-18 su «contento poi», 19-20 su «volte morir». Come gli altri, anche Huygens mette in maggiore evidenza l’immagine verbale «mostrami» (b. 6) passando alla ‘sonorità’ di Sol maggiore. Anche il Basso continuo è trattato in modo molto interessante e intrigante; si veda, ad 61 Cito da ANGELO POMPILIO, I madrigali a quattro voci di Pomponio Nenna, Firenze, Olschki, 1983, p. 28. 62 Cfr. RANDALL H. TOLLEFSEN, sub voce in New Grove/1, vol. 8, pp. 831-832. 63 Cfr. FRITS NOSKE, sub voce in MGG, 1957 cit., Bd. 6, coll. 982-984: 983. 64 Dei dodici testi italiani i primi cinque sono tutti di Marino mentre gli altri sette sono adesposti. Tra quelli di Marino, uno (Temer, donna, non dei) è stato messo in musica solo da Tommaso Cecchino nella raccolta Amorosi concetti Madrigali a voce sola facili da cantare et sonare nel Clavicembalo Chitarone o Liuto […] Libro Primo, Venezia, Ricciardo Amadino, 1612(NV, 539) e da Giovanni Ghizzolo ne Il Terzo Libro delli Madrigali, Scherzi et Arie. A una, et a due voci. Per suonare, et cantare nel Chitarrone, Liuto, o Clavicembalo, Milano, Filippo Lomazzo, 1613 (a una voce) (NV, 1188). Non è da escludere che Huygens abbia potuto acquistare una copia della raccolta di Cecchino dato che questo volume figura nel catalogo di Vincenti del 1621, cfr. MISCHIATI, Indici cit., p. 152, n. 582. 65 Se ne può ascoltare in internet una versione molto interessante con la realizzazione della parte del cembalo curata da Willem Verkaik all’indirizzo <http://www1.cpdl.org/wiki/index.php/Se_ la_doglia_e%27l_martire_(Constantijn_Huygens)> (ultima consultazione 23 aprile 2020).

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esempio, quel passaggio cromatico ascendente su «Voi che la morte mia negl’occhi avete, e la mia vita siete» (bb. 12-15) così carico di tensione attraverso questa serie di continue modulazioni e di giri armonici. Altri passaggi interessanti, sempre nel Basso continuo, sono il Sib e il Mib con cui si apre la seconda parte. La struttura generale, al contrario, è assolutamente lineare: nella prima sezione si parte dalla tonica (Sol minore) per chiudere la prima sezione sulla dominante (Re maggiore) e terminare di nuovo sulla tonica. Tra le varie soluzioni armoniche vorrei segnalare due passaggi di 4/6 a bb. 4 e 8 e, come ho già accennato prima, il passaggio V6-I a bb. 5-6, ma con due raffinatezze: la prima consiste nel fatto che il segmento V6 (Fa diesis)-I (Sol maggiore) non ha la funzione di chiudere un periodo musicale (in questo caso coincidente con la fine del verso: «[mo]-rire»), insomma non è una cadenza, ma il I grado sul quale inizia il verso successivo (si trova su «mo-[strami]») ed ha quindi un valore propulsivo e non conclusivo; la seconda enfatizza la circostanza che dal Sol minore con cui il pezzo si è aperto improvvisamente sulla parola «mostrami» si passa a Sol maggiore. Un altro passaggio interessante dovuto certamente alla presenza della parola «doglia» al posto di «gioia» è rappresentato a mio parere da quel salto improvviso di sesta discendente, Re-Fa (b. 9, su «di piacer»), che, come anche in Brunetti, porta a «si more» (bb. 9-10), con cui si conclude la prima parte. Huygens dalla sonorità di Re maggiore passa a quella sul quarto grado (Sol) con un accordo di settima minore (e con la terza minore) che a sua volta transita sul quinto (La) per concludere sulla tonica Re (la classica formula I-IV-V-I). Nell’insieme, però, il cromatismo di Saracini, rispetto a quello di Hyugens, pur ricorrendo un numero minore di volte è però, in compenso, forse più sofisticato. Se la versione di Saracini, come si è visto, si caratterizza per un tessuto armonico abbastanza ricercato quella di Brunetti, invece, sotto questo aspetto si presenta senza dubbio molto più semplice, chiara e lineare: mancano ad esempio i cromatismi e i giri armonici sono meno articolati. La struttura ‘armonica’ si basa tutta sul Re maggiore: così inizia, così terminano la prima e la seconda sezione (bb. 27 e 50), mentre tutto il componimento si chiude sulla dominante (La maggiore). Confermano la sonorità di base (Re magg.) anche alcuni passaggi V6-I alle bb. 3-4, 29-30, 47, 55-56, 73 e 4344/69-70 (Do). Mi sembra abbastanza intrigante la seconda battuta che contemplerebbe, stando alla numerica, un Fa naturale che viene a creare una sorta di falsa relazione con il Fa diesis della battuta precedente (sonorità di Re maggiore); il Re al Basso continuo, difatti, non è altro che una sorta di 3/6 dell’accordo di Sib-Re-Fa cui fa seguito una 4/6 dell’accordo di Sol-Sib-Re. La linea del Basso continuo dalla prima alla quarta battuta, con la quale termina il primo verso, viene ad essere quindi: ReSib-Sol-La-Re, una linea ‘armonica’ semplice e coerente. Mi sembra pure interessante la b. 6 con il ritardo della sesta. Sono anche molto efficaci, sulle parole «mostrami, mostrami almen», le due entrate in canone tra voce e basso a distanza di una semiminima (bb. 7-9 e replicate rispettivamente una quinta e una terza sotto nel Canto e di una terza sotto nel Basso alle bb. 15-17) e in progressione ascendente di un tono in ambedue le parti (tranne il Canto che nella replica è di una sesta) che danno al discorso musicale un avvio improvviso, serrato e slanciato nel contempo – specialmente nella quarta ripetizione (b. 16) con quel salto ascendente di sesta (La-Fa) –, fino a congiungersi con i due lunghi vocalizzi su «A[more]». Un altro inciso melodico pie42


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no di slancio (con un salto di quarta iniziale, Do-Fa), ampio e sostanzialmente unitario (comunque separato da una pausa di semiminima), anche se su due versi, ricorre nella seconda sezione alle bb. 37-40 e replicato un tono sopra alle bb. 43-46 sulle parole «ch’io son contento poi mille volte morir, mille volte morir». Anche Dognazzi inizia la frase con un salto di quarta (Mi-La, b. 20) ma, mentre Brunetti prosegue con una linea melodica discendente molto incisiva sul piano ritmico, Dognazzi procede invece con una successione di semiminime, certamente più banale e senza consistenza. Su «mille volte morir» Dognazzi e Saracini scelgono la stessa scansione ritmica sul modello dell’anapesto: croma-croma-semiminima-croma-croma-semibreve, mentre Brunetti preferisce una soluzione più mossa: croma-croma-semiminima-croma puntata-semicroma-minima. Sarà anche interessante osservare che in Brunetti il Basso continuo non dialoga mai con il canto –tranne il breve canone iniziale e le bb. 5053 che servono di raccordo tra la fine della seconda parte e la sua ripetizione – mentre in Dognazzi interviene tre volte (bb. 11, 21 e 25) e in Saracini due (bb. 6 e 21). In Brunetti, quindi, il Basso continuo ha principalmente solo una funzione di sostegno armonico al canto, ovvero, come scrive Agostino Agazzari, «serve per fondamento». 66 La versione di Brunetti, inoltre, si distingue dalle altre tre versioni anche per l’uso frequente di lunghi passaggi vocalizzati,67 ma la cosa più interessante è che nelle ripetizioni alcuni di questi subiscono modifiche, talvolta anche sostanziali, specialmente per quanto concerne l’estensione e l’articolazione interna. Il primo si osserva sulla prima sillaba della parola «Amore» alla fine del terzo verso (bb. 9-11 e nella replica, ma diverso, a bb.17-19). Mi sembra anche molto interessante il caso del melisma connesso alle parole con le quali termina il madrigale, «ma in braccio a voi», che compare quattro volte, ma con musica sempre diversa: la prima volta su due battute (41-42); la seconda, con la quale si conclude il pezzo prima della replica su quattro (bb. 47-50), la terza – cioè la prima volta nella replica – su due battute (6768) e infine quella con la quale si chiude definitivamente il brano, su cinque battute (73-77). Ma ci sono molti altri passaggi vocalizzati meno lunghi ed estesi collegati, però, solo con parole significative e quindi da evidenziare musicalmente: a b. 26 su «si more» (come farà anche Huygens); a bb. 31-32 e 58 su «vita»; e infine a b. 35 su «mora a tutte», replicato molto più lungo e variato alle bb. 61-62. Ma ciò che sul piano musicale distingue maggiormente la versione di Brunetti dalle altre è, a mio parere, la perfezione della costruzione formale e dell’impianto strutturale nonché 66

Cfr. AGOSTINO AGAZZARI, Del sonare sopra ‘l Basso con tutti li stromenti e dell’uso loro nel Conserto, Siena, Domenico Falcini, 1607, p. 6. In Brunetti il Basso continuo ha un ruolo più scoperto alle bb. 50-53 dove interviene da solo con la funzione di collegare la fine della seconda sezione del madrigale con la ripetizione della stessa. Ma si vedano anche le bb. 8-9 nelle quali si muove in canone con il canto. La numerica relativa al Basso continuo figura solo in Dognazzi, Brunetti e Huygens (ma in un solo caso, a b. 17). 67 Ma anche Dognazzi colloca un lungo melisma abbastanza articolato sulla parola «doglia» (b. 10). Si osservi comunque anche un breve abbellimento a b. 22 e ripetuto una quarta sopra a b. 26. Anche Saracini, ma in altre composizioni, inserisce spesso lunghi vocalizzi sulla scorta di Caccini; si vedano ad esempio i madrigali Io moro; O quante volte e Amorose dolcezze; se ne vedano le trascrizioni in LAKI, The Madrigals cit. pp. 405-406, 183 e 184; ma nel caso di Saracini Laki parla più giustamente di «passaggi». 43


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l’assoluto equilibrio tra le varie parti nel loro simmetrico alternarsi. In conclusione, mentre Dognazzi e Saracini, sia pure in modi diversi, sono interessati più che altro al rapporto testo-musica visto anche nei suoi dettagli verbali, Brunetti sembra avere come scopo principale quello di realizzare un ampio quadro architettonico e una chiara struttura formale entro cui inserire il testo cantato, scandito per lo più sulla base delle sue entità versali. Finora ho preso in considerazione – ma potrebbero essere approfonditi ulteriormente – solo alcuni aspetti; altri, comunque, se ne potrebbero aggiungere; ritengo, però, che essi siano sufficienti a tentare già qualche conclusione, anche se provvisoria, e ad aprire nuove strade di ricerca. Ho l’impressione, difatti, che, almeno sulla base di queste quattro versioni a voce sola e Basso continuo, si possa individuare già una linea comune di lettura, una sorta di tradizione interpretativa diffusa nel tempo e nello spazio. Molti sono, infatti, i passaggi verbali e le immagini poetiche che i quattro compositori mettono in musica secondo modalità abbastanza simili tra loro, ad iniziare dalle strutture metriche, come ad esempio quelle di tipo dattilico («mostrami») oppure quelle basate sul ritmo dell’anapesto («se la doglia e ‘l martire / non mi fanno morire», «dite dite o «mille volte morir»). Provo ad elencarli. Innanzitutto non dobbiamo meravigliarci se il primo distico, di senso assolutamente compiuto, è stato trattato, musicalmente, nella sua globalità, cioè senza separare i due versi tra loro, e dato il suo contenuto ‘drammatico’ con note lunghe, un tempo più lento e dilatato, cromatismi e dissonanze varie; Dognazzi e Saracini replicano perfino il secondo verso che termina con il verbo «morire». Il terzo verso si distingue per la sua accelerazione su «mostrami almen» – realizzata attraverso un chiaro e improvviso andamento dattilico, la sua ripetizione (Dognazzi), l’uso del canone (Brunetti), un effetto di sorpresa ottenuto attraverso un salto di sesta ascendente (Saracini) – e per l’enfatizzazione della parola «Amore» che chiude il verso. Al quarto verso, con il quale termina la prima parte, è riservato un trattamento vivace e scandito sulle parole «come di gioia e di piacer», che Saracini, Brunetti e Huygens realizzano attraverso una serie di crome ripetute più volte e che Dognazzi evidenzia con un lungo vocalizzo seguito da un brevissimo intervento di crome. Al contrario, il segmento «si more» in Brunetti e Huygens è intonato su un breve melisma nel registro basso. La seconda parte inizia con un verso che tutti e quattro i compositori realizzano musicalmente con uno stile quasi recitato, parlato e declamato, con note brevi (crome) e spesso ripetute recto tono (fa eccezione Saracini che si basa più sul cromatismo, mentre su «morte» adopera una quinta diminuita; in Huygens invece solo il Basso continuo è trattato cromaticamente); per sottolineare il «Voi» iniziale alcuni lo ripetono mentre altri lo intonano partendo da una nota molto più alta. Similmente per il sesto verso, «e la mia vita sete»: Dognazzi e Huygens lo risolvono con un segmento ascendente di sesta, Brunetti di quinta, con un vocalizzo alla fine e Saracini di quarta, che però ripete tre volte su gradi diversi. Infine, a partire dal terz’ultimo verso tutte e quattro le versioni sono trattate in modo abbastanza simile con movimenti vivaci, ritmi incisivi, ripetizioni e ampie vocalizzazioni. All’interno di questo, si possono osservare anche modi simili di trattare alcuni segmenti testuali, specialmente sul piano ritmico. Ad esempio, su «dite, dite» (Dognazzi, Saracini, Brunetti, Huygens) o su «mille volte mo[rir]» (Dognazzi, Saracini, Huygens); fa eccezione Brunetti il quale nella seconda metà del 44


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segmento ritmico invece di ripetere due crome più una semiminima (o una nota più lunga) sceglie, come ho già detto, una versione ritmica forse più aderente al parlato, alla pronunzia reale (croma puntata, semicroma, semiminima). Ma la cosa che più mi ha colpito è l’uso frequente dell’intervallo di quarta giusta ascendente, specialmente in coincidenza degli stessi segmenti testuali. Forse vale la pena di farne un quadro sintetico. Do-Fa: Re-Sol: Sol-Do: Fa-Sib: La-Re: Mi-La: Si-Mi: Sol-Do:

Brunetti, bb. 37, 63 («ch’io son»), 44-45 e 70-71 («mille vol-[te]») Brunetti, bb. 5, 38-39, 45-46 («mille vol-[te]») e 64-65 («mille vol-[te]»); Huygens, bb. 15-16 («dite, di[te]») Brunetti, bb. 34 e 60 («dite, di-[te]») Dognazzi, b. 15 («la mia vita se-[te]»); Brunetti, bb. 31 e 57 («e la mia vi-[ta]») Saracini, b. 12 («e la mia vi-[ta]»); Dognazzi, bb. 9-10 («come di gio-[ia]»); b. 23 («ch’io son»); Huygens, b. 14 («e la mia vi-[ta]») Saracini, bb. 22-23 («a voi»); Dognazzi, b. 20 («ch’io son»); Brunetti, bb. 8, 39-40 («mille vol-[te]»; Huygens, bb. 18-19 («[conten]-to poi mille vol-[te]») Saracini, b. 17 («dite, di-[te]») Brunetti, b. 60 («dite, di-[te]»)

Tutto questo vale, ovviamente, solo su un piano generale, ma se andiamo a considerare situazioni ancora più specifiche e particolari o ancora più nel dettaglio troveremo certamente un numero ancora maggiore di corrispondenze. Come si può vedere quindi, si tratta di una tradizione interpretativa che è durata molti anni, dal 1614 almeno fino al 1647, con Huygens. La prima versione monodica, quella di Dognazzi, risale, come sappiamo, al 1614; prima di questa ce ne sono ben sedici polifoniche precedenti, messe in musica da compositori di un certo valore, se non addirittura di primo rango, come Frescobaldi, Salomone Rossi, Pietro Maria Marsolo, Crescenzio Salzilli, Pomponio Nenna, Tommaso Pecci, Tiburzio Massaino e Alessandro Scialla. Ora, quanto questi compositori potrebbero aver influenzato Francesco Dognazzi o gli altri dopo di lui? Posto in questi termini il problema potrebbe sembrare certamente banale e semplicistico, ma non lo diventa se estendiamo il discorso a tutto l’arco di tempo nel quale questo testo ha avuto fortuna presso i musicisti. Insomma, esiste una tradizione interpretativa, un modo comune di leggere musicalmente alcune immagini verbali presenti nel madrigale? Alcuni studiosi hanno sostenuto che i primi monodisti hanno preso alcune modalità musicali dalla tradizione polifonica di fine ‘500. Da ultimo anche Peter Laki, che così afferma: «The monodists in most cases took their cues in textual interpretation from the polyphonic madrigal». 68 Da un primo approccio non sistematico che ho potuto fare ho l’impressione che nel caso del madrigale di Marino ora preso in considerazione il discorso possa valere, ma per ottenere conclusioni valide e scientificamente accertate la ricerca dovrebbe essere estesa a tutte le fonti conosciute, anche se molte incomplete. Forse ne varrebbe la pena, dato l’impatto straordinario che Marino ha avuto nei confronti della musica e dei musicisti, anzi sarebbe interessante estende68

Cfr. LAKI, The Madrigals cit., p. 51. 45


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re questa ricerca sistematica a tutti i madrigali di Marino che sono stati messi in musica. Il discorso di Peter Laki, però, va ben oltre e ci fa capire che uno studio come questo in realtà si dovrebbe estendere se non a tutta la tradizione polifonica precedente (ma anche successiva) alla ‘nascita’ della monodia, almeno ai poeti più rappresentativi del tardo ‘500 ai quali i compositori, nella maggior parte, si sono accostati.

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1603 – TOMMASO PECCI e MARIANO TANTUCCI, Canzonette a tre voci […]. Libro secondo, Venezia, Giacomo Vincenti – NV, 2167 (solo le parti del Canto II e del Basso); visionato. 1603 – FRANCESCO ROCCIA, in DATTILO ROCCIA, Il Secondo Libro de Madrigali a cinque voci, Napoli, Costantino Vitale – NV, 2356 (solo la parte del Quinto); non visionato. 1603 – SALOMONE ROSSI, Il Terzo Libro de madrigali a cinque voci […], Venezia, Ricciardo Amadino – NV, 2453 (completo); visionato. 1604 – ORAZIO SCALETTA, Affettuosi affetti. Madrigali a sei voci. […], Venezia, Ricciardo Amadino – NV, 2576 (solo la parte del Basso); non visionato. 1604 – TIBURZIO MASSAINO, Madrigali a sei voci […]. Libro Primo. […], Venezia, Angelo Gardano – NV, 1751 (completo); non visionato. 1607 – CRESCENZIO SALZILLI, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci […], Napoli, Gio. Giacomo Carlino – NV, 2537 (solo le parti del Canto, del Tenore e del Basso); visionato. 1607 – PIETRO MARIA MARSOLO, Il Terzo Libro de Madrigali a cinque voci. […], Venezia, Giacomo Vincenti – NV, 1729 (solo le parti dell’Alto, del Tenore, del Basso e del Quinto); non visionato. 1608 – GIROLAMO FRESCOBALDI, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci […], Anversa, Pietro Phalesio – NV, 1023 (solo le parti del Canto, del Tenore, del Basso e del Quinto); visionato. Edizioni: Frescobaldi’s Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci, ed. Charles Jacob, University Park and London, The Pennylvania State University Press, 1983; GIROLAMO FRESCOBALDI, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci, a cura di Lorenzo Bianconi e Massimo Privitera, Milano, Edizioni Suvini Zerboni, 1996 (“Monumenti Musicali Italiani” a cura della Società Italiana di Musicologia: GIROLAMO FRESCOBALDI, Opere Complete, vol. V). 1608 – VINCENZO LIBERTI, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci […], Venezia, Ricciardo Amadino – NV, 1511 (completo); visionato. 1609 – J. HIERONYMUS KAPSPERGER, Libro Primo de Madrigali a cinque voci, col Basso continuo, et suoi numeri. Roma, Pietro Manelfi – NV, 1360 (completo); non visionato. 1610 – ALESSANDRO SCIALLA, Primo Libro de’ Madrigali a cinque voci […], Napoli, Gio. Giacomo Carlino e Costantino Vitale – NV, 2592 (completo); visionato. Edizioni: CLAUDIA ARISTOTELE, Il Primo Libro dei Madrigali di Alessandro Scialla, Tesi di Laurea (dattiloscritta), Università degli Studi della Calabria, anno accademico 2002-2003, Relatore: Prof. Annunziato Pugliese 1611 - BERNARDINO BORLASCA, Canzonette a tre voci di Bernardino Borlasca nobil di Gavio genovese appropriate per cantar nel Chitarrone, Lira doppia, Cembalo, Arpone, Chitariglia alla spagnuola, o altro simile strumento da concerto; com’hoggi di si costuma nella Corte di Roma. Libro Secondo, Venezia, Giacomo Vincenti – NV, 405 (completo); visionato. 1612 – VINCENZO DAL POZZO, Il Quarto Libro di Madrigali a cinque voci, Venezia, Ricciardo Amadino – NV, 688 (solo la parte del Tenore); visionato. 1612 – ANTONIO TARONI, Secondo Libro di Madrigali a cinque voci, Venezia, Ricciardo Amadino – NV, 2710 (solo le parti del Canto e del Quinto); non visionato. 1613 – FRANCESCO ROGNONI TAEGGIO, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci con il Basso per sonar con il Clavicembolo, o Chitarrone, Venezia, Giacomo Vincenti – NV, 2359 (completo); non visionato. 1613 – POMPONIO NENNA, Il Primo Libro de Madrigali a quattro voci, Napoli, Gio. Battista Gargano – NV, 2016 (completo); visionato. Edizione: ANGELO POMPILIO, I Madrigali a quattro voci di Pomponio Nenna, Firenze, Leo S. Olschki, 1983. 1614 – FRANCESCO DOGNAZZI, Il Primo Libro de varii Concenti a una et a due voci. Per cantar nel Chitarone o altri simili istrumenti. […], Venezia, Bartolomeo Magni – NV, 843 ( a una voce); visionato. Edizioni: in internet è possibile ascoltarne l’incisione di Van der Meel con l’Ensemble “La Sfera armoniosa”. 1614 – FRANCESCO GENVINO, Madrigali a cinque voci. Libro Quinto, Napoli, Gio: Giacomo Carlino – NV, 1122 (completo); visionato. 1615 – SIMONE MOLINARO, Madrigali a cinque voci con partitura, Loano, Francesco Castello – NV, 1875 (perduto). 47


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1615 – NICOLÒ RUBINI, Madrigali a cinque voci. […] Con il Basso seguito per servire alla Thiorba, Arpicordo, et simili stromenti a beneplacito. Ma necessariamente per li sei ultimi, Venezia, Gardano Appresso Bartholomeo Magni – NV, 2470 (solo le parti dell’Alto, del Tenore e del Basso); non visionato. 1615 – VINCENZO UGOLINI, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci, Venezia, Giacomo Vincenti – NV, 2776 (completo); visionato. 1616 – SIGISMONDO D’INDIA, Il Quarto Libro de Madrigali a cinque voci, Venezia, Ricciardo Amadino – NV, 828 (completo); non visionato. 1617 – PIETRO PACE, Madrigali a quattro et a cinque voci parte con sinfonia se piace, e parte senza […]. Venezia, Giacomo Vincenti – NV, 2078 (completo); visionato. 1617 – AGOSTINO AGRESTA, Madrigali a sei voci di Agostino Agresta napolitano Libro Primo, Napoli, Costantino Vitale – NV, 32 (completo); visionato. Edizioni: in internet è possibile visionarne la trascrizione e ascoltarne l’incisione a cura di Willem Verkaik. 1617 – ANDREA ANGLESIO, Il Primo Libro de Madrigali concertati a quattro, et a cinque voci. […]. Con il suo Basso continuo, per sonare col Chittarone Clavicembalo, overo Spinetta, et simili altri strumenti. Venezia, Ricciardo Amadino – NV, 82 (solo la parte del Tenore); non visionato. 1619 – LELIO BASILE, Il Primo Libro de Madrigali a cinque voci. […], Venezia, Gardano «appresso Bartolomeo Magni» – NV, 262 (solo la parte dell’Alto); non visionato. 1619 – FRANCESCO GONZAGA, Il Primo Libro delle Canzonette a tre voci. Con alcune Arie poste nel fine del Basso continuo. […], Venezia, Bartolomeo Magni – NV, 1260 (solo le parti del Canto II, del Basso e del Basso continuo); visionato. 1620 – CLAUDIO SARACINI, Le Seconde Musiche di Claudio Saracini detto il Palusi nobile senese per cantar, et sonar nel Chitarrone Arpicordo et altri stromenti […], Venezia, Alessandro Vincenti – NV, 2555 (a una voce e Basso continuo: completo); visionato. 1621 – ALESSANDRO COSTANTINI, in Ghirlandetta amorosa, Arie, Madrigali, e Sonetti, di diversi Eccellentissimi Autori a Uno, à Due, à Tre, & à Quattro, Poste in luce da Fabio Costantini romano Maestro di Cappella dell’Illustrissima Città d’Orvieto. Opera settima. Libro primo, Orvieto, M. A. Fei et R. Ruuli (a due tenori); non visionato. 1622 – GIACOMO TROPEA, Madrigali a quattro voci […]. Libro Primo, Napoli, Constantino Vitale – NV, 2764 (completo): visionato. Edizione: PATRIZIA SCHIOPPA, Il Primo Libro dei Madrigali a quattro voci di Giacomo Tropea, Tesi di Laurea (dattiloscritta), Università degli Studi della Calabria, anno accademico 2005-2006, Relatore: Prof. Annunziato Pugliese. 1643 – GERONIMO BETTINO, Concerti Accademici […], Venezia, Bartolomeo Magni – NV, 355 (a quattro voci; solo la parte del Quinto); non visionato. 1646 – MICHELANGELO GRANCINO, Il Primo Libro de’ Madrigali in concerto a 2.3.4 voci […], Milano, Carlo Camagno – NV, 1266 (a tre voci; solo le parti del Canto I, del Basso e del Basso continuo); non visionato. 1647 – CONSTANTIJN HUYGENS, Pathodia sacra et profata occupati, constanter, Parisiis, Robertus Ballard – NV, 1327 (a 1 voce e Basso continuo); visionato. Edizioni: in internet è possibile visionarne la trascrizione (con la realizzazione del Basso continuo) e ascoltarne l’incisione a cura di Willem Verkaik. 1652 – CARLO CECCHELLI, in Florido Contento di Madrigali in Musica à trè voci con la Parte da sonare di Eccellentissimi Auttori. Mandato in luce da D. Florido Canonico De Silvestris da Barbarano, Parte Prima, Roma, Vitale Mascardi (a tre voci); non visionato.

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Figura 1: GIOVANNI BRUNETTI, Se la doglia e ’l martire (I-PESo, Archivio Albani, 1-09-001/2 olim P.XVII.191) Si ringrazia la Biblioteca Oliveriana di Pesaro per la riproduzione e la gentile concessione alla pubblicazione

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Figura 2a: FRANCESCO DOGNAZZI, Il Primo Libro de varii Concenti a Una, et Due voci, Venezia, Gardano-Bartolomeo Magni, 1614. Frontespizio. Si ringrazia la Biblioteca Reale del Belgio per la gentile concessione alla pubblicazione

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Figura 2b: FRANCESCO DOGNAZZI, Il Primo Libro de varii Concenti a Una, et Due voci, Venezia, Gardano-Bartolomeo Magni, 1614. Dedica. Si ringrazia la Biblioteca Reale del Belgio per la gentile concessione alla pubblicazione

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Figura 2c: FRANCESCO DOGNAZZI, Il Primo Libro de varii Concenti a Una, et Due voci, Venezia, Gardano-Bartolomeo Magni, 1614, p. 5: Se la doglia e ’l martire, madrigale. Si ringrazia la Biblioteca Reale del Belgio per la gentile concessione alla pubblicazione

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Figura 3a: CLAUDIO SARACINI detto IL PALUSI, Le Seconde Musiche… per cantar, et sonar nel Chitarrone Arpicordo et altri stromenti, Venezia, Alessandro Vincenti, 1620. Frontespizio. Si ringrazia il Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna per la gentile concessione alla pubblicazione

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Figura 3b: CLAUDIO SARACINI detto IL PALUSI, Le Seconde Musiche‌ per cantar, et sonar nel Chitarrone Arpicordo et altri stromenti, Venezia, Alessandro Vincenti, 1620. Dedica. Si ringrazia il Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna per la gentile concessione alla pubblicazione

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Figura 3c: CLAUDIO SARACINI detto IL PALUSI, Le Seconde Musiche… per cantar, et sonar nel Chitarrone Arpicordo et altri stromenti, Venezia, Alessandro Vincenti, 1620, p. 3: Se la doglia e’l martire, madrigale. Si ringrazia il Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna per la gentile concessione alla pubblicazione

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Figura 4a: CONSTANTIN HUYGENS, Pathodia sacra et profana, Paris, Robert Ballard, 1647. Frontespizio. (fonte di pubblico dominio: https://archive.org/details/VM119RES/page/n6/mode/2up)

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Figura 4b: CONSTANTIN HUYGENS, Pathodia sacra et profana, Paris, Robert Ballard, 1647. Dedica. (fonte di pubblico dominio: https://archive.org/details/VM119RES/page/n6/mode/2up)

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Figura 4c: CONSTANTIN HUYGENS, Pathodia sacra et profana, Paris, Robert Ballard, 1647. Dedica. (fonte di pubblico dominio: https://archive.org/details/VM119RES/page/n6/mode/2up)

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Figura 4d: CONSTANTIN HUYGENS, Pathodia sacra et profana, Paris, Robert Ballard, 1647, pp. 24-25: Se la doglia e’l martire, madrigale. (fonte di pubblico dominio: https://archive.org/details/VM119RES/page/n6/mode/2up)

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Silvia Urbani IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO: FONTI DICHIARATE, REMOTE E SOTTACIUTE In cartellone al San Giovanni Grisostomo di Venezia nella stagione di carnevale del 1703, more veneto 1702, inaugurata da L’odio e l’amor, dramma a lieto fine dell’«incomparabile» Noris, 1 compare, come seconda opera, il Venceslao di Apostolo Zeno, rivestito di musica da Carlo Francesco Pollarolo, in questi anni una sorta di compositore ufficiale del teatro della famiglia Grimani. Si apprende infatti dalle prefazioni del libretto che il Venceslao è per il compositore bresciano la «ventesima sua fatica in questo solo teatro». 2 Venceslao, l’eroe eponimo, è l’anziano e inflessibile sovrano di Polonia, straziato dalla necessità di dover decidere la sorte del figlio maggiore macchiatosi di un fratricidio: la ragion di stato ne esige la condanna a morte, la natura ne invoca il perdono. Ad onta dell’efferato delitto, l’intreccio, ricorrendo ai classici artifici dell’equivoco, dello scambio di persona, del travestimento, dell’oscurità e della istantanea elaborazione del lutto, avrà il suo bravo happy end completo di ben due matrimoni: uno celebrato ufficialmente, l’altro per il momento solo concordato. A Vienna nel 1725, poco più di vent’anni dopo la prima veneziana, per la consueta rappresentazione da allestire ai primi di novembre per l’onomastico dell’imperatore Carlo VI, Zeno risfodera, con qualche ritocco, il Venceslao. L’intonazione per l’allestimento nel teatro asburgico è affidata ad Antonio Caldara, vicemaestro di cappella di corte. Le fonti sfruttate dal drammaturgo veneziano per la stesura dell’opera si possono classificare in tre tipologie: a. b. c.

fonti dichiarate; fonte remota; fonte sottaciuta.

a. Fonti dichiarate Come d’abitudine, Zeno stuzzica la curiosità del lettore dichiarando distesamente le proprie fonti negli ampi paratesti iniziali del libretto stampato per la prima veneziana e in modo più stringato anche in quelli dell’edizione viennese del 1725:

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LORENZO BIANCONI, Il Seicento, Letture 7: BARTHOLD FEIND, Gedanken von der Opera, Torino, EdT, 1991, p. 334; NICOLA BADOLATO, voce Noris Matteo, in Dizionario biografico degli Italiani <http://www.treccani.it/enciclopedia/matteo-noris_(Dizionario-Biografico)> (ultima consultazione 20 marzo 2020). 2 APOSTOLO ZENO, Venceslao, Venezia, Girolamo Albrizzi, 1703, A chi legge, p. 11 n.n. 73


SILVIA URBANI

Lo stesso argomento ch’io tratto verso la metà del secolo scorso fu trattato da monsieur Rotrou, i cui dramatici componimenti gli acquistarono su’ teatri francesi non poca riputazione, prima che Pier Cornelio, il gran tragico della Francia, innalzasse questa spezie 3 di poema a quel più alto punto di perfezione e di gloria a cui potesse arrivare.

Il riferimento è dunque al Venceslas di Jean Rotrou (1609-1650), tragicomédie rappresentata alla fine del 1647 e pubblicata a Parigi nel 1648.4 Nel catalogo manoscritto autografo dei libri posseduti da Zeno in sei volumi ordinati alfabeticamente, conservato presso la biblioteca Marciana di Venezia,5 alla lettera R compare la voce Rotrou monsieur seguita da una lista di cinque opere del drammaturgo francese: La Doristée, Les deux pucelles, Cosroès, Venceslas e Bellisaire. 6 Non si può escludere che una copia del Venceslas, ora mancante dalla biblioteca a differenza di altre, si trovasse sul tavolo di lavoro del poeta. Gli autori italiani impegnati in questo periodo nella riforma teatrale guardano con molta attenzione alle opere dei colleghi d’oltralpe che dominano ormai incontrastati in tutta Europa. Le opere di Corneille e Racine, in primis, diventano la fonte di ispirazione e il patrimonio letterario dove attingere i nuovi soggetti drammatici. Si saccheggiano soprattutto le tragédies di argomento storico perché concepite, secondo i canoni tradizionali della drammaturgia classica fran-

3

ZENO, Venceslao cit., A chi legge, p. 8 n.n.; cfr. ZENO, Venceslao, Vienna, Gio. Pietro van Ghelen, 1725, Argomento, p. 4: «Se poi il soggetto dell’opera sia storia o favola, ognuno a suo piacimento ne creda. So che il medesimo verso la metà del secolo andato fu esposto in una tragedia sopra le scene francesi dal signor Rotrou, che al suo tempo fu in riputazione di insigne scrittore»; cfr. MARCO BIZZARINI, Griselda e Atalia: exempla femminili di vizi e virtù nel teatro musicale di Apostolo Zeno, dissertazione dottorale, Università degli Studi di Padova, 2008, Appendice B, Lettere inedite di Apostolo Zeno (I-Fl ms. Ashburnham 1788, c. 53r), p. 182: «Al Sig. Antonfrancesco Marmi a Firenze, Venezia 3 gennaio 1702 m.v. Sono stato più d’un mese alle delizie di Conegliano, dove ho cominciato e finito il dramma che quest’anno dee recitarsi in S. Gio. Grisostomo, sarà intitolato il Venceslao: soggetto tratto da una tragicomedia francese di M. Rotrou, ma da me in più motivi accomodato alla scena italiana, con isperanza che non abbia interamente a spiacere», (Lettera originale in I-Fn, Magliab. Cl. VIII, Cod. 983, c. 4r-4v). 4 JEAN ROTROU, Venceslas, Paris, Antoine de Sommaville, 1648. 5 Cfr. I-Vnm Cod. It., cl. XI 288-293 (7273-7278); per la storia della biblioteca Zeno, cfr. MARINO ZORZI, La libreria di San Marco: libri, lettori, società nella Venezia dei dogi, Milano, Mondadori, 1987; MARINELLA LAINI, La raccolta zeniana di drammi per musica veneziani della Biblioteca Nazionale Marciana (1637-1700), Lucca, Libreria Musicale Italiana, 1995; CHIARA CRISTIANI, Per una prima schedatura della raccolta zeniana dei drammi per musica dal 1701 al 1750 (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana), «Quaderni Veneti» I/2, 2012, pp. 79-120; GIOVANNI POLIN, Nell’officina del librettista: autografi zeniani alla Biblioteca Marciana di Venezia, in Apologhi morali: i drammi per musica di Apostolo Zeno, Atti del Convegno internazionale di Studi (Reggio Calabria, 4-5 ottobre 2013), a cura di Gaetano Pitarresi, Reggio Calabria, Edizioni del Conservatorio di Musica “Francesco Cilea”, 2018, pp. 267-327, consultabile on line all’indirizzo <https://www.conservatoriocilea.it/index.php/produzione-e-ricerca/1289-pubblicazioni-online> (ultima consultazione 20 marzo 2020). 6 I-Vnm Cod. It., cl. XI 292 (=7277), voce Rotrou monsieur. 74


IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO

cese, senza elementi irrazionali o indecorosi.7 Anche Zeno si lascia sedurre dal fascino della sirena francese e sfrutta ampiamente gli autori transalpini, sicuro così di rendere meno imperfetta la sua poesia. Se poi sia vero che nelle cose mie io spesso mi sia valuto degli autori tragici francesi, lo confesso che è verissimo, e nella prefazione di ciascuno di que’ componimenti, ove ho 8 preso ad imitare gli altrui, ne ho fatta un’aperta e sincera confessione.

Ed è dunque spesso consegnata alle prefazioni dei libretti, in particolare nell’Argomento, l’ammissione del furto.9 Faramondo

Venezia, Nicolini, «Del suggetto principale di questo drama, per 1699, Argomento, p. 9 tacere monsieur di Mezeray, de la Serre, Verdier ed altri storici francesi, confesso d’esser singolarmente tenuto a monsieur de la Calprenède, che non solo me ne ha dato il motivo, ma ancora mi ha somministrata una parte del viluppo nella seconda parte del suo Faramondo o sia della sua Storia di Francia».

Venceslao

Venezia, 1703

Ifigenia in Aulide

Vienna, van Ghelen, «Nelle prime maniere l’argomento è stato ma1718, Argomento, p. neggiato dall’incomparabile Euripide e nella ter4 n.n. za dal famoso Racine. Confesso di aver tolto assai dall’uno e dall’altro, ad oggetto di render meno imperfetto, che per me fosse possibile, il mio componimento».

Andromaca

Vienna, van Ghelen, «Chiunque ha letta l’Andromaca di Euripide e di 1724, Argomento, p. Racine e le Troadi di Euripide e di Seneca, cono3 n.n. scerà che io in questo dramma mi sono ingegnato di imitarli in più luoghi e di approfittarmi di così

Albrizzi, v. supra

7

Cfr. PIERO WEISS, Teorie drammatiche e «infranciosamento»: motivi della riforma melodrammatica nel primo Settecento, in Antonio Vivaldi. Teatro musicale cultura e società, a cura di Lorenzo Bianconi e Giovanni Morelli, Firenze, Olschki, 1982, pp. 273-296. 8 Lettere di Apostolo Zeno cittadino veneziano istorico e poeta cesareo nelle quali si contengono molte notizie attenenti all’istoria letteraria de’ suoi tempi e si ragiona di libri, d’iscrizioni, di medaglie e d’ogni genere d’erudita antichità, seconda edizione, in cui lettere già stampate si emendano e molte inedite se ne pubblicano, vol. V, Venezia, Francesco Sansoni, 1785, lettera 894, a Giuseppe Gravisi, Venezia, 27 settembre 1735, p. 153. 9 Per una disamina sulle fonti francesi non dichiarate delle opere di Zeno, cfr. WEISS, Teorie drammatiche e «infranciosamento» cit., pp. 293-295; ANNA LAURA BELLINA – BRUNO BRIZI, Il melodramma, in Storia della cultura veneta, Il Settecento, 5/I, a cura di Girolamo Arnaldi e Manlio Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1985, pp. 392-400; BIZZARINI, Griselda e Atalia cit., pp. 109113. 75


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eccellenti esemplari: ma con tutto questo conoscerà parimente che la tessitura di esso è molto diversa da quella delle loro tragedie».

Mitridate

Vienna, van Ghelen, «Il rimanente s’intende dalla tessitura del dram1728, Argomento, p. ma, ad alcune scene del quale ha molto contribui5 n.n. to una moderna tragedia francese del signor de La Motte».

Ludovico Muratori, in una lettera del maggio 1699 nella quale ringrazia Zeno per avergli spedito una copia del Faramondo, esprime la sua sincera ammirazione per il lavoro del giovane poeta veneziano che aveva saputo ben armonizzare la sua poesia, ispirata a un modello francese, con le vincolanti esigenze di un dramma per musica: Il Faramondo è un dramma esquisito e benché sia difficile servire a’ musici, alla brevità e a mill’altri intoppi che non hanno i Francesi, ell’ha saputo soddisfare alla poesia e al teatro. Me ne rallegro sommamente con lei, con la sua età e col mondo. Ella coltivi que10 sto suo raro talento e spero che farà meglio ancora.

Oltre all’originale francese, Zeno dichiara di conoscere bene anche una traduzione italiana in prosa: «elegantemente trasportata nella nostra favella da nobilissimo e dottissimo cavaliere, la cui modestia avrà di certo compiacimento ch’io non ne pubblichi il nome, al più alto segno di ammirazione e di osequio [sic] da me riverito». 11 Alla fine del Seicento era uscita per i torchi di Longhi a Bologna una traduzione anonima del Venceslas di Rotrou con un bizzarro, ma non inusuale, refuso nel frontespizio dove l’opera tragicomica veniva ascritta a Pierre Corneille (1606-1684).12 Simonetta Ingegno Guidi ha attribuito questa redazione a Giovan Gioseffo Orsi (16521733), amico carissimo di Zeno, il cui interesse per il teatro francese era noto e del quale circolavano all’epoca apprezzate traduzioni, sfruttate per allestire rappresentazioni private come passatempo dei nobili durante la villeggiatura o le feste di carnevale. 13 Nel fondo Muratori-Orsi della biblioteca Estense di Modena è custodito un manoscritto che contiene due stesure della tragicommedia disposte l’una a fianco 10

I-Fl ms. Ashburnham 1788, Appendice, lettera di Ludovico Muratori ad Apostolo Zeno, Milano 20 maggio 1699, c. 539r-v. 11 ZENO, Venceslao [1703] cit., p. 8 n.n. 12 Il | Vincislao | opera tragicomica | di | Pietro Cornelio | tradotta dal francese e | accomodata all’uso | delle scene | d’Italia. | In Bologna; 1699 | Per il Longhi | Con licenza de’ Superiori; esemplare consultato I-Mb Raccolta Drammatica Corniani Algarotti, Racc. Dramm. 2615; cfr. anche il volume Opere varie trasportate dal franzese e recitate in Bologna, tomo IV, Bologna, Lelio dalla Volpe, 1725, pp. 133-247; per la fortuna delle traduzioni italiane del Venceslas di Rotrou, cfr. LUIGI FERRARI, Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII° e XVIII°, Paris, Édouard Champion, 1925, pp. 259-261. 13 Per l’attribuzione della traduzione a Giovan Gioseffo Orsi e la sua attività di traduttore, cfr. SIMONETTA INGEGNO GUIDI, Per la storia del teatro francese in Italia: L. A. Muratori, G. G. Orsi e P. J. Martello, «La Rassegna della letteratura italiana» 78, 1974, pp. 64-94. 76


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all’altra.14 Una corrisponde, sia pure con qualche lacuna, alla pubblicazione anonima bolognese del 1699, l’altra, apparentemente una traduzione più letterale della fonte francese, rivela alcune varianti molto interessanti, con l’inserimento di personaggi ancillari nuovi ed elementi musicali.15 Potrebbe trattarsi o di una prima stesura provvisoria o forse di un copione per una recita privata. Ma un altro manoscritto del Vincislao italiano, che coincide con quello stampato da Longhi nel 1699, è conservato nel fondo Ranuzzi, acquisito nel 1968 dal Harry Ransom Humanities Research Center dell’università del Texas. Anche qui viene curiosamente tradita la paternità del testo originale, che una nota nel manoscritto attribuisce a Quinault, mentre la traduzione è conferita esplicitamente a Orsi: «Il Vincislao tragedia tradotta dal franzese di monsieur Chinò [Quinault], dal s.r march.e Giuseppe Orsi». 16 Inoltre si dà notizia di una recita eseguita «nel 1693 in casa Volti da cittadini». 17 14

I-MOe Fondo Muratori Orsi, Filza 10, fascicolo 10, cc. 1-39; Filza 10, fascicolo 9, cc. 1-31; Filza 11, fascicolo 20, cc. 1-44. 15 Nel codice sono introdotti al posto di «Léonor suivante» e «Octave confident» di Rotrou, Zaccagnino e Ficchetto, due personaggi della commedia dell’arte, e sono riportate parecchie didascalie sceniche; l’indicazione in apertura dell’atto primo della pièce, ad esempio, recita: «Trombe e tamburi, s’apre il camerone. Fichetto e Zaccagnino preparano da sedere ed accennano alla sfugita [sic] i disgusti del re per le dissolutezze di Ladislao» (I.1). 16 HUUB VAN DER LINDEN, The performance of French theatre in Bologna around 1700, in D’une scène à l’autre. L’opéra italien en Europe, vol. 2 La musique à l’épreuve du théâtre, a cura di Damien Colas e Alessandro Di Profio, Wavre, Mardaga, 2009, p. 72. 17 US-AUS collezione Ranuzzi Ms. Ph. 12983, c. 1r. n.n.; Roberta Carpani nella monografia dedicata ai libretti per musica di Carlo Maria Maggi segnala due probabili rappresentazioni della tragicommedia francese in versione italiana nel teatro dell’Isola Bella: la prima nell’agosto del 1695 riscritta da Carlo Maria Maggi, come si evince da una lettera di Giovan Gioseffo Orsi a Muratori «Ancorché per mille parti abbia intese descrivere le delizie della casa Borromea sul lago Maggiore, non mi son però mai sì vivamente invogliato di vederle come ne avrei voglia nel tempo che V. S. vi ritornerà e che vi si reciteranno gli intramezzi composti dal signor segretario Maggi. Scherzando egli in lingua milanese muoverà maggiore ammirazione e diletto di quel che certamente sia riuscito all’autor francese del Ladislao che nel medesimo tempo mi dic’ella doversi qui recitare» (LUDOVICO ANTONIO MURATORI, Carteggio con Giovan Gioseffo Orsi, a cura di Alfredo Cottignoli, Firenze, Leo S. Olschki, 1984, pp. 20-21, n. 14, Bologna, 17 agosto 1695); e la seconda, quattro anni più tardi, nell’agosto del 1699 allestita nel teatro dell’Isola da Muratori, come si desume dalla lettera inviata a Carlo Borromeo Arese nella quale «il dottore dell’Ambrosiana» esprime la sua preoccupazione per gli imprevisti sopraggiunti durante l’allestimento: «Se vostra eccellenza desidera di vedere in scena il Ladislao, bisogna ch’ella beva questo sorbetto. Abbiamo bisogno di chi faccia la parte di Cassandra. Il signor Cavalier Stampa o non vuole, o non può, o è l’uno e l’altro. Si è indarno pregato, e non bisogna promettersi punto di lui. Ho dunque disposto il figlio minore del signor Protofisico a prendersi tale impaccio, e quando vostra eccellenza ne dia la permissione, verrà a suo tempo all’Isola. Tolta la voce che potrebb’essere più feminile, ha egli il rimanente acconcio per ben rappresentare il personaggio; spirito, statura e, con licenza de’ Platonici, ancora volto. Oltre a ciò spero ch’egli potrà recitare all’improvviso, cosa che non vorrebbe in guisa veruna fare il signor Cavaliere. Un poco di risposta sopra questo particolare mi sarebbe più cara che l’amicizia di cento madamigelle» (Epistolario di L. A. Muratori - 1699-1705, vol. II, n. 350, Milano metà agosto 1699, a cura di Matteo Campori, Modena, Società Tipografica Modenese, 1901, pp. 400-401), citati in ROBERTA 77


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Il numero cospicuo di traduzioni di opere francesi, edite ed inedite, è un’ulteriore testimonianza dell’ampia diffusione del teatro transalpino in Italia nel corso del Settecento. La fortuna di questo genere ebbe inizio verso la fine del Seicento quando cominciarono a circolare versioni piuttosto libere e zoppicanti,18 di traduttori noti o anonimi, in cui il testo veniva arbitrariamente manipolato con l’aggiunta o la soppressione di personaggi e di episodi, con la riduzione degli atti da cinque a tre, realizzando una sorta di «travestimento» del testo francese giustificato dalla necessità, dichiarata ufficialmente nel frontespizio, di accomodarlo «all’uso delle scene d’Italia». I centri di maggiore diffusione furono Bologna, con le stampe pubblicate dal Monti e dal Longhi, Roma con quelle del Chracas e Venezia, con le numerosissime raccolte uscite nel corso del Settecento dalle officine tipografiche veneziane.19 Destinate soprattutto alla recitazione, vuoi agli spettacoli privati per il divertimento dei nobili in villeggiatura, vuoi a quelli con finalità didascalico-moralistiche degli allievi aristocratici dei collegi romani, bolognesi e modenesi, diventarono in seguito per molti letterati illustri «un banco di prova inevitabile per saggiare o propagandare le proprie capacità poetiche».20 Il successo di queste traduzioni ebbe come conseguenza la nascita di importanti iniziative editoriali, con la pubblicazione di un numero elevato di opere singole o di raccolte e collezioni di «opere varie trasportate dal franzese».21 Mette conte da ultimo ricordare qui la raccolta, in due volumi, pubblicata anonima a Venezia nel 1776 intitolata Teatro tragico francese ad uso de’ teatri d’Italia ovvero Raccolta di versioni libere di alcune tragedie francesi,22 nella quale è ospitata anche una traduzione del Venceslas di Rotrou. L’anonimo traduttore è il giovane barnaboto Francesco Gritti che nella Prefazione alla sua traduzione dichiara: Dalla lettura del Venceslao con regolar progressione commosso e dalla propria commozione sedotto, consultando e l’original di Rotrou e la copia di monsieur Marmontel e adattandovi qualche cambiamento tratto dall’indole del soggetto medesimo e corrispondente a quella del teatro italiano [il corsivo è mio], ne condusse a fine una libera sì ma non pregiudicata versione, se basta per così definirla l’aver essa costantemente destato nell’animo di chi ne udì la lettura quell’amaro e non meno grato fremito interno, ma facile a manifestarsi, che riscosso aveva la lettura dell’originale in quello, certamente non prevenuto, del traduttore medesimo.23 CARPANI, Drammaturgia del comico. I libretti per musica di Carlo Maria Maggi nei «theatri di Lombardia», Milano, Vita e Pensiero, 1998, pp. 118-128: 123-124. 18 La questione è affrontata nel dettaglio in ANTONIO DE CARLI, Autour de quelques traductions et imitations du théâtre français publiées à Bologne de 1690 à 1750, «L’Archiginnasio» XIV/4-6, luglio-dicembre 1919, pp. 105-126 e «L’Archiginnasio» XV/1-3, gennaio-giugno 1920, pp. 24-45. 19 Cfr. NICOLA MANGINI, Considerazioni sulla diffusione del teatro tragico francese in Italia nel Settecento, in Problemi di lingua e letteratura italiana del Settecento, Atti del quarto Congresso dell’Associazione Internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana (Magonza e Colonia, 28 aprile – 1 maggio 1962), Wiesbaden, Steiner, 1965, p. 141-156; NICOLA MANGINI, Drammaturgia e spettacolo tra Settecento e Ottocento, Padova, Liviana, 1979, pp. 1-20. 20 MANGINI, Considerazioni sulla diffusione del teatro tragico francese cit., p. 144. 21 Per un catalogo delle traduzioni delle opere francesi, cfr. FERRARI, Le traduzioni italiane cit. 22 Teatro tragico francese ad uso de’ teatri d’Italia ovvero Raccolta di versioni libere di alcune tragedie francesi, Venezia, Modesto Fenzo, 1776. 23 Ivi, p. 6. 78


IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO

Il Venceslao di Gritti era andato in scena a Venezia nell’autunno 1773, riportando un clamoroso fiasco, confessato dallo stesso traduttore nella Prefazione all’edizione letteraria del 1776. Nonostante l’insuccesso però, la traduzione di Gritti continua a circolare e quindici anni dopo la première, torna sulle scene nel teatro degli Accademici Risoluti dove viene accolta con grande approvazione. 24 Oltre alle fonti letterarie, Zeno, per legittimare le proprie scelte poetiche, offre anche anche una serie di riferimenti bibliografici eruditi estremamente precisi alla storia della Lituania e all’ordinamento della Polonia: Di alcune cose che ho poste nel drama non istimo superfluo il render ragione, non tanto per altrui soddisfazione che per propria discolpa. Mi è convenuto il far Lucinda regina 24

Cfr. «Gazzetta urbana veneta», num. 29, 9 aprile 1788, pp. 227-228: «Lunedì 7 corrente da questi magnifici Signori Accademici Rinnovati si rappresentò a tenore del nostro annunzio [«Gazzetta urbana veneta», 5 aprile 1788] la tragedia il Venceslao, che non è del celebre signor Conte Alfieri, come per isbaglio s’è detto, ma del famoso monsieur Jean Rotrou di cui l’immortale Pier Cornelio, per affetto ed istima, chiamavasi figlio. Questo autore, che fiorì nello scorso secolo, compose 35 drammi tutti sul gusto spagnuolo, il migliore de’ quali, uno degli ultimi, fu il Venceslao. Voltaire lo chiama il fondatore del teatro, nel suo Secolo di Luigi XIV e sommamente loda la prima scena e quasi tutto il quart’atto del Venceslao. Il signor Marmontel ripulì questa composizione per sollevarla alla tragica dignità, a cui non giungeva, particolarmente nell’espressioni. Il suo traduttore italiano è l’eccellentissimo signor Francesco Gritti P. V. dalla cui dotta penna ebbimo delle graziose operette originali e delle felici traduzioni dal francese. [...] Fu essa posta in iscena in questa città nell’anno 1773 ed ebbe una sola replica a teatro presso che vuoto, segno manifesto della pubblica disapprovazione. Ma da che dipendeva la sua caduta? O da una compagnia mal atta a rappresentarla o da un’udienza mal disposta, confusa e raccolta dal caso a formare de’ giudizi appellabili al discernimento de’ dotti. Fu ben diverso il suo destino l’altr’ieri, ma ci voleva per farlo tale niente meno che la N. D. Venier nella parte d’Argenide, il nobile Querini in quella di Venceslao, e l’eccellentissimo Pepoli in quella di Ladislao suo figliuolo. Ci voleva una Teodora dell’abilità della bravissima giovine che ne sostenne il carattere; e poi una scelta d’uditori, nobili in gran parte, colti ed intelligenti, che conoscer potesse le sue bellezze e non rimanesse insensibile alle situazioni più appassionate, a’ colpi di scena più forti. Tale fu quella di lunedì, che prestò alla recita una perfetta attenzione e penetrata rimase vicendevolmente ora dal terrore, ora dalla compassione a misura che l’azione rinforzavasi e che i principali attori sentir facevano maestrevolmente gli affetti da cui erano dominati. Essi, particolarmente nell’atto quarto, che si trovò in vero grande, sorprendente e degno di quell’elogio, che gli fece Voltaire, diffonder seppero la commozione e rapir delle lagrime. In quello s’aprì un libero campo al sommo valore d’Argenide; il re genitore diviso tra le virtù del trono e la tenerezza paterna dipinse con gli atti e col più convenevole cangiamento de’ tuoni lo strazio delle sue viscere; ed il figlio colpevole lacerato da crudi rimorsi e grondante del proprio sangue impietosì gli spettatori in pria disposti contro di lui. Piacque il vederlo sottratto ad una ignominiosa morte, ma si trovò inverosimile e troppo generoso l’atto di Venceslao che si priva della corona per porla sul di lui capo condannato da lui ad esser reciso. Si lodò in Argenide la fermezza di carattere sostenuta sino alla fine dell’azione, ma non si trovò necessario, né convenevole il farla uscire nell’ultima scena [...]»; il giudizio di Voltaire è espresso alla voce «Rotrou» del catalogo degli scrittori illustri allegato a Le siècle de Louis XIV: VOLTAIRE, Ecrivains, dont plusieurs ont illustré le siècle, in Le siècle de Louis XIV, tomo II, Berlin, C. F. Henning, 1751, p. 410: «Rotrou (Jean) né en 1609. Le fondateur du théâtre. La première scène et une partie du quatrième acte de Venceslas sont des chefs d’œuvre. Corneille l’appelait son père. On sait combien le père fut surpassé par le fils. Venceslas ne fut composé qu’après le Cid. Mort vers 1650». 79


SILVIA URBANI

di Lituania. Tutti i geografi sanno che questa provincia ha ’l titolo di granducato. Chi leggerà tuttavolta i Frammenti storici di Micalone Lituano troverà ch’ella anticamente fu regno e che Minduvago suo dominante vi ottenne il titolo regio. Jacopo Augusto Tuano asserisce che come la Moscovia per la unione di molti stati fu detta granducato, così la Lituania per la sovranità che i suoi principi, da ogni altro già indipendenti, avevano su molte provincie ottenne lo stesso titolo. Ora se l’una del carattere di czar onora i suoi sovrani, non è sconveniente l’apropriare [sic] la dignità di re a quelli della seconda. So veramente che la Polonia è regno elettivo, non successivo; onde a taluno la coronazione di Casimiro parerà inverisimile in un regno dove il regnante non ha il potere di nominare alla successione il figliuolo. Quest’ordine però non si mantenne come al presente nell’antico governo della Polonia. L’esser figliuolo del re difonto [sic] era un gran titolo per salire sul trono. Vi voleva un gran demerito o nell’una parte o nell’altra per esserne escluso. L’autorità regia si avvicinava alla monarchia; anzi racconta Gioacchino Pastorio nel suo Floro Polonico che il re Piasto vivendo chiamò a parte dell’assoluto 25 comando il figliuol Zemovito che dipoi gli successe.

Zeno ha dunque sicuramente consultato: 1. i Fragmina de moribus Tartarorum, Lituanorum et Moschorum di Mykolas Lietuvis, un umanista vissuto fra il 1490 e il 1560; in quest’opera sostiene l’origine romana dei Lituani e riferisce che Minduvago, ovvero Mindaugas primo re del paese, al momento dell’unione di diverse province, ricevette la corona cum nomine regio e fu insignito sacri baptismatis charactere;26 non c’è quindi nessuna appropriazione indebita del titolo di regina da parte di Lucinda; 2. gli Historiarum sui temporis libri di Jacques-Auguste de Thou (1553-1617), ecclesiastico mancato, magistrato, storico francese, consigliere di Enrico III e poi di Enrico IV, nei quali si afferma che la Lituania sull’esempio della Moscovia si può chiamare con il titolo di granducato;27 3. il Florus polonicus, un compendio sulle vicende polacche di Joachim Pastorius (1611-1681), medico e storico di Hirtenberg; nel capitolo XII del primo libro, l’autore dichiara che Zemovito, dopo la morte del padre Piasto, il mitico fondatore della dinastia dei Piast, venne nominato re,28 confermando che un tempo l’ordinamento statale polacco prevedeva la successione dinastica. 25

ZENO, Venceslao, [1703] cit., pp. 8-9 n.n. Cfr. MYKOLAS LIETUVIS, De moribus Tartarorum, Lituanorum et Moschorum, fragmina X multiplici historia referta, Basileae, apud Conradum Waldkirchium, MDCXV, pp. 24-25. 27 Cfr. JACQUES-AUGUSTE DE THOU, Historiarum sui temporis libri LXXX de CXXXXIII, editio quarta, auctior et castigatior, Lutetiae, ex officina Roberti Stephani, MDCXVIII, pp. 367c, 368d e Histoire universelle de Jacques-Auguste de Thou depuis 1543 jusqu’en 1607, traduite sur l’edition latine de Londres. tomo sixième, 1570-1573, Londres, 1734, p. 672: «Les princes de Lithuanie ont pris le titre de grands ducs: ce ne sont point les empereurs, qui leur en ont donné le droit; mais comme les souverains de Moscovie ont formé un corps d’état de plusieurs duchés réünis et qu’ils se sont donnés à eux-mêmes le titre de grands ducs, il y a grande apparence que les princes de Lithuanie en ont fait autant». 28 Cfr. JOACHIM PASTORIUS, Florus polonicus, Gedani et Francofurti, Simonis Beckensteinii, 1679, pp. 17-21. 26

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Fin qui, l’acribia del poeta sembra non ammettere repliche, tanto più se si tiene conto che dopo aver dichiarato ufficialmente il ‘prestito’ francese, Zeno afferma: «Ciò che del mio vi abbia aggiunto e ciò che del suo ne abbia tratto ne sarà facile agli studiosi il rincontro [sic], con sicurezza che all’esemplare daranno la lode, se all’imitazione ricuseranno il compatimento». 29 b. Fonte remota Come è noto però il tema della tragedia di Rotrou è tratto dalla comedia spagnola No hay ser padre siendo rey di Francisco de Rojas Zorilla (1607-1648), stampata a Madrid nel 1640.30 Sebbene Rotrou, a differenza di Zeno, nella princeps del Venceslas non dichiari ufficialmente la sua fonte di ispirazione, essa verrà in seguito scoperta e resa pubblica, per la prima volta, nella rubrica Spectacles del numero di febbraio 1722 del Mercure de France. Un anonimo spettatore, dopo il successo riportato dagli attori del Théâtre François col Venceslas alla fine di dicembre 1721, indirizza una lettera «aux auteurs du Mercure, […] sur les tragédies de Venceslas et d’Héraclius» e, senza nascondere il suo disgusto per i modelli spagnoli, confusi, disordinati, contrari tout court al gusto classico, ne rivela la fonte: J’ai lû, messieurs, avec plaisir les louanges que vous donnés dans le Mercure du mois de décembre dernier à la tragédie de Venceslas; je suis fâché que ce ne soit pas l’auteur françois qui les mérite, mais un poète espagnol, le fameux don Francisco de Roxas. Il est le véritable auteur de Venceslas et Rotrou n’en est que le traducteur. L’ordonnance confuse, la morale et la politique répandues sans assez de ménagement, la multitude d’incidens, l’intrigue chargée d’épisodes, le sujet entierement fabuleux, la Pologne choisie pour théâtre de la fable, auroient pû faire soupçonner d’où venoit cette tragédie. La plupart des tragédies espagnoles sont faites sur ce modèle; mais ce n’est pas une simple conjecture, le fait est constant par les dattes et l’on peut s’en éclaircir dans les ouvrages de Roxas qui sont dans la Bibliothèque du Roy. […] J’oubliois que la tragédie 31 en espagnol a pour titre On ne peut être père et roi.

Ristabilito l’ordine e riconosciuta la paternità del soggetto drammatico a Rojas Zorrilla, si possono a questo punto elencare, seppure brevemente, anche gli antecedenti a disposizione del drammaturgo spagnolo. Studi più e meno recenti hanno individuato almeno un paio di fonti, storiche e letterarie, che, con buona probabilità, Rojas Zorrilla ha vagliato per la sua comedia. Si tratta in particolare della vicenda di Vladislav II narrata nell’Historia bohemica (1552) di Johannes Dubravius (1486-1553), una cronaca latina che offre lo spunto per 29

ZENO, Venceslao, [1703] cit., p. 8 n.n. La comedia di Zorrilla è stata stampata per la prima volta in Parte primera de las comedias de Francisco de Rojas Zorrilla, Madrid, María de Quiñones, 1640, pp. 23-247, consultabile online: <http://www.cervantesvirtual.com/nd/ark:/59851/bmcw09m1» (ultima consultazione 16 aprile 2020). 31 Mercure de France, «Spectacles», fevrier 1722, pp. 118-119; citata anche in FRANCESCO ORLANDO, Rotrou: dalla tragicommedia alla tragedia, Torino, Bottega d’Erasmo, 1963, p. 297. 30

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alcuni motivi nodali, e di una pièce di Guillén de Castro (1569-1631), La piedad en la justicia (1623-1625), con la quale è possibile stabilire alcuni parallelismi. Nonostante dunque l’incontestabile filiazione, non si deve però dimenticare che il drammaturgo francese rielabora e modifica il modello spagnolo al punto di indurre il sospetto che anch’egli in realtà si sia servito, come suggeriscono alcune indagini, di più fonti per la sua tragicomédie.32 Il mancato riferimento al modello iberico nei paratesti zeniani lascia supporre che il poeta sia venuto a conoscenza del soggetto soltanto attraverso la tragedia francese e la successiva versione in prosa italiana. Il suo interesse per il mondo spagnolo affiorerà in modo esplicito più tardi, quando, in una lettera indirizzata da Vienna al fratello Pier Caterino nell’ottobre 1725, poco prima della rappresentazione viennese del Venceslao, scriverà: Mi preme grandemente che alla bottega del Lovisa ovvero del Baseggio mi facciate la scelta di due dozzine di opere sceniche in prosa, ma non già comiche e buffonesche, ma bene gravi e reali, impresse in Bologna o in Napoli o in Roma. Avvertite che non sieno tradotte dal francese. Se sono poi traslatate dallo spagnuolo, purché non sieno semplici commedie, serviranno al bisogno. Della lor qualità vi potrete accorgere dal registro degl’interlocutori, accompagnati dal carattere di re, di principe e simili. Non vi dia scrupolo che vi sieno mescolati i ridicoli, bastandomi che i principali attori sieno nobili e tragici. Debbo valermene in servigio di sua maestà e tanto vi basti a dirvi la mia premu33 ra.

Sebbene per il momento non si possa dare per certo che la richiesta di Apostolo sia stata soddisfatta dal fratello, si può tuttavia affermare che tra i volumi della biblioteca del drammaturgo, regolarmente registrate nel suo catalogo manoscritto, vi erano anche alcune commedie spagnole.34 32

Per una bibliografia essenziale sulle fonti di No hay ser padre siendo rey di Rojas Zorrilla e del Venceslas di Rotrou, cfr. HENRY CARRINGTON LANCASTER, The ultimate source of Rotrou’s “Venceslas” and of Rojas Zorrilla’s “No hay ser padre seindo rey”, «Modern Philology» 15/7, 1917, pp. 115-120; WOLFGANG LEINER, Rotrou: “Venceslas”. Edition critique, Saarbrücken, West-OstVerlag, 1956, pp. XI-XII; RAYMOND R. MACCURDY, Francisco de Rojas Zorrilla and the tragedy, Albuquerque, University of New Mexico Press, 1958; ORLANDO, Rotrou cit., pp. 295-353; SVEN BIRKMEIER, Sources d’inspiration et leurs traces dans “Venceslas” (1647) de Jean Rotrou, in Intertexto y Polifonía. Estudios en homenaje a Ma Aurora Aragón, tomo I, Oviedo, Universidad de Oviedo, 2008, pp. 165-171, consultato online <http: //digibuo.uniovi.es/dspace/bitstream/10651/ 22903/1/Intertext> (ultima consultazione 20 marzo 2020). 33 Ringrazio Giovanni Polin per la segnalazione: Lettere di Apostolo Zeno cit., vol. IV, n. 661, a Pier Caterino Zeno, Vienna 6 ottobre 1725, p. 60. 34 I-Vnm Cod. It., cl. XI 289 (=7274), alla voce Comedias sono registrati i seguenti titoli: Comedias españolas, el mejor de los mejores libro que ha salido de Comedias nuevas, Alcalà, Maria Fernandez, 1651, Flor de las mejores doce comedias de los mayores ingegnos de España, Madrid, Diego Diaz de la Carrera, 1652, Primera parte de comedias escogidas de los mejores de España, Madrid, García y Morrás, 1652, Segunda parte de comedias escogidas de los mejores de España, Madrid, Imprenta Real, 1652, Parte veinte y cinco de comedias ricopiladas de diferentes autores e illustres poetas de España, Zaragoza, Hospital Real y General de nuestra Señora de Gracia, 1632. 82


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c. Fonte sottaciuta Sempre nelle prefazioni iniziali, Zeno rivendica l’originalità dell’intreccio che narra gli «amori di Casimiro con Lucinda, granduchessa di Lituania», assenti in Rotrou, dichiarando che «sono di mera invenzione». 35 Ma l’episodio cui allude, assente non solo nella pièce francese ma anche in quella spagnola, ha in realtà un antecedente. Nel 1663 era stata stampata a Napoli un’«operetta» comica, Non è padre essendo re36 di Carlo Celano (1617-1693), un adattamento della commedia di Rojas Zorrilla, rappresentata soltanto tre volte da «alcuni gentiluomini». 37 Nel rifacimento partenopeo, come osserva Katerina Vaiopoulos, Celano «ristruttura […] il testo sfruttando elementi consueti delle fonti a cui solitamente attinge, quali la doppia coppia e la donna travestita da uomo, e aggiunge una seconda trama, intrecciata alla vicenda ripresa da Rojas Zorrilla». 38 Il confronto tra le dramatis personae del rifacimento napoletano e quelle della pièce di Zeno rivela una singolare corrispondenza (tabella1). La trama, è vero, non procede in parallelo, ma alcuni indizi inducono a congetturare che Zeno, pur passandolo sotto silenzio, conoscesse il rifacimento partenopeo della commedia spagnola. Del testo di Celano circolano sei edizioni a stampa: Napoli, [Novello] De Bonis, 1663; Roma, [Paolo] Moneta, 1669 e 1690; Bologna, Gioseffo Longhi, 1670; Napoli, [Francesco] Massari 1691 e [Michele Luigi] Muzio 1715.39 L’operetta comica ha dunque una buona diffusione. Merita un breve cenno il testo della cantata Reggetemi, non posso più, intonato da Alessandro Stradella nel 1668, un duetto fra Costanza e Capriccio, attribuito a Flavio Orsini,40 nel quale si allude all’«umore incostante» del principe Alfonso, al tradimento subito da Gismena «infanta dell’ungarico regno» e alla pietà di Glostavo, tutti personaggi del rifacimento napoletano della commedia spagnola; e nel finale i due personaggi allegorici, duettando, 35

ZENO, Venceslao, [1703] cit., Argomento, p. 7 n.n. CARLO CELANO, Non è padre essendo re, Napoli, De Bonis, 1663. 37 CARLO CELANO, Non è padre essendo re, Roma, Moneta, 1669, p. 5. 38 KATERINA VAIOPOULOS, “No hay ser padre siendo rey” di Rojas Zorrilla nell’adattamento di Carlo Celano, in Il viaggio della traduzione, a cura di Maria Grazia Profeti, Firenze, Firenze University Press, 2007, p. 129. 39 Per un esame approfondito della commedia di Celano, cfr. KATERINA VAIOPOULOS, Temi cervantini a Napoli. Carlo Celano e “La Zingaretta”, Firenze, Alinea, 2003, [le pp. 106-111 contengono le schede]; VAIOPOULOS, “No hay ser padre siendo rey” di Rojas Zorrilla cit., pp. 127-143. 40 Flavio Orsini: duca di Bracciano, collezionista e studioso di pietre preziose (1620-1698), grande appassionato di musica, è stato egli stesso un poeta e un autore drammatico, noto con lo pseudonimo di Filosinavro; aggregato all’Arcadia con il nome Clearco Simbolio, organizzò magnifici spettacoli nel suo palazzo in piazza di Pasquino a Roma; cfr. SAVERIO FRANCHI, Drammaturgia romana repertorio bibliografico cronologico dei testi drammatici pubblicati a Roma e nel Lazio, secolo XVII, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1988, p. 884; SAVERIO FRANCHI, Drammaturgia romana II (1701-1750), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997, p. XXVI; ANNE-MADELEINE GOULET, voce Orsini Flavio, in Dizionario Biografico degli Italiani http://www.treccani.it/enciclopedia/flavio-orsini_res-610fcc7d-3730-11e3-97d500271042e8d9_(Dizionario-Biografico) (ultima consultazione 20 marzo 2020). 36

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cantano e ribadiscono: «Non è padre essendo re. | Sarà padre essendo re, | pietoso, pietoso | Glostavo sarà, | credilo credilo a me». 41 Come è noto, per redigere i loro libretti i poeti teatrali attingono a varie fonti e spesso si servono di topoi ricorrenti: il tradimento, il travestimento, l’equivoco, che genera una sequenza di errori a volte letali, e ancora un biglietto o una lettera rivelatrice. 42 Sebbene non sia finora emersa una prova inconfutabile che Zeno abbia conosciuto la commedia di Celano o un suo remake, ciò che appare assai sospetto è l’introduzione dello stesso intreccio secondario in due rifacimenti derivanti dal medesimo soggetto tragico. Confesso che mi sarebbe piaciuto scoprire tra le migliaia di volumi della biblioteca zeniana una copia della commedia di Celano o almeno trovare nel catalogo manoscritto sopra citato la voce “Celano Carlo”, seguita da un elenco di commedie, tra “Cei Francesco, cittadin fiorentino” e “Celebrino Eustachio da Udine, dottore di medicina”, oppure la voce “Calcolone (o Calcolona) Ettore”, pseudonimo del Celano, tra “Calcagnini Carlo, nobile ferrarese” e “Calzaveglia Vincenzio, bresciano”: ma per ora la ricerca non ha dato esito. A questo punto l’elenco delle fonti sfruttate dal poeta veneziano va ridefinito e, sebbene con cautela, si può affermare che all’origine del Venceslao non ci fu una tragicommedia francese bensì un adattamento francese di una comedia spagnola. Non solo. Di questa stessa comedia viene messa a frutto anche una riscrittura italiana, per l’esattezza napoletana. Emerge dunque un legame, sottaciuto dal poeta, col mondo della comedia spagnola, mediato – secondo le due tipologie di derivazione testuale 43 individuate da Maria Grazia Profeti – da adattamenti sia francesi sia italiani. Ignorare, tacere o censurare un antecedente iberico o napoletano e di conseguenza esibire come fonte ufficiale esclusivamente la pièce del drammaturgo francese, appare un sottile gioco di destrezza, opportuno – agli occhi di un classicista e di un pastore arcade – per mettere in pace, di fronte agli spettatori e ai lettori, la coscienza di Zeno.

41

Prologhi et intermedii diversi per opere et altro. Musica di Alessandro Stradella, manoscritto, IMOe, Mus. F.1130, cc. 65r-80r: 77v-78v; non è documentata una rappresentazione della commedia con questo prologo, ma non si può escludere che sia stato allestito uno spettacolo in forma privata nel palazzo di Flavio Orsini a Roma, cfr. ROBERTO STACCIOLI, Roma 1670, Il concerto d’Arianna, Dynamic, 2006, booklet. 42 Per una disamina su topoi, convenzioni ed espedienti nel teatro veneziano, cfr. PAOLO FABBRI, Il secolo cantante. Per una storia del libretto d’opera in Italia nel Seicento, Roma, Bulzoni, 2003: pp. 184-201. 43 Cfr. MARIA GRAZIA PROFETI, Commedie, riscritture, libretti: la Spagna e l’Europa, Firenze, Alinea, 2009.

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IL VENCESLAO DI APOSTOLO ZENO

APPENDICE

sinossi dei personaggi No hay ser padre siendo rey Francisco de Rojas Zorrilla Ia ed. 1640 jornadas 3 REY DE POLONIA

Venceslas Jean Rotrou Ia ed. 1648 atti 5

VENCESLAS

roi de

Pologne RUGERO

príncipe

LADISLAS

infante

son fils,

ALEXANDRE

COSCORRÓN

-

DUQUE FEDERICO

FÉDÉRIC

CASANDRA

CLAVELA

duquesa

criada

GLOSTAVO

re padre

[di]

prince ALEJANDRO

Non è padre essendo re Carlo Celano 1663 atti 5

infant

ALFONSO

Venceslao Apostolo Zeno Ia rappr. 1703 atti 5

VENCESLAO

principe di

CASIMIRO

suo fi-

Polonia

gliuolo

suo fratello innamorato di Florinda -

ALESSANDRO

FERNANDO

duc de Curlande et favori

generale e favorito di Venceslao ERNANDO

duchesse de Cunisberg

FLORINDA

figlia del constestabile innamorata di Fernando

ERENICE

-

-

-

gouverneur de Varsovie

ARIMBERTO

ungaro capitano delle guardie del re e confidente d’Alfonso GISMENA principessa d’Ungaria innamorata d’Alfonso sotto nome di Dolindo ed in abito maschile CONTESTABILE cugino del re e padre di Florinda FLORETTO paggio di corte

GISMONDO

OCTAVE

-

THÉODORE

-

-

-

-

-

-

-

-

LÉONORE

-

infante suivante

altro

suo figliuolo

CASSANDRE

ROBERTO

re di Po-

lonia

principessa polacca, discendente dagli antichi re di Polonia

capitano delle guardie, confidente di Casimiro regina di Lituania [in abito d’uomo] LUCINDA

-

-

di corta vi- sta servo d’Alfonso TIRITAPPA napoletano grazioso, servo di Fernando GIUBONE

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SILVIA URBANI

-

-

Dos criados y acompaĂąamiento -

Gardes -

tenente del- le guardie del re GISMERO

Quattro moscoviti, soldati di Gismero parti mute

86

-


Saverio Franchi† PATRONI, POLITICA, IMPRESARI: LE VICENDE STORICO-ARTISTICHE DEI TEATRI ROMANI E QUELLE DELLA GIOVINEZZA DI METASTASIO FINO ALLA PARTENZA PER VIENNA Oggi è appunto il primo giorno delle maschere e io sono qui a gelarmi. Pure mi trattengo piacevolmente, figurandomi voi impiegata e divertita. In questo momento, che secondo l’orologio di Roma saranno le 21 ore, comincerà la frequenza de’ sonagli pel Corso. Ecco il signor canonico de Magistris, che apre l’antiporta. Ecco il signor abate Spinola. Ecco Stanesio. Ecco Cavanna. Ecco tutti i musici di Aliberti. Chi sarà mai quella maschera che guarda tanto le nostre fenestre? Fa un gran tirar di confetti, e non può star ferma. – È certo l’abatino Bizzaccari. – E quel bauttone così lungo che esamina tutte le carrozze, fosse mai il bellissimo Piscitelli? – Certo; senza dubbio. – Ecco il conte Mazziotti, che va parlando latino. – Ecco i cortegiani affettati vestiti di carta. – Ma che baronata è mai questa! Quasi tutte le carrozze voltano a San Carlo. – Che cosa è? – Il segno. – Presto. – Viene il bargello. – Venga, signor agente di Genova. – Non importa. – Ma se v’è luogo per tutti? – Vede ella? – Vedo benissimo. – Ma mi pare che stia incomodo. – Mi perdoni, sto da re. – Eccoli, eccoli. – Quanti sono? – Sette. – Chi va innanzi? – Il sauro di Gabrielli, ma Colonna lo passa. – Uh, Gesù Maria! – Che è stato? – Una creatura sotto un barbero. – Sarà morta certo. – Povera madre! – Lo portano via? – No, no. Era un cane. – Manco male

Con questo brano di una famosa lettera, scritta il 27 gennaio 1731 a Marianna Benti Bulgarelli, Metastasio rievocava da Vienna il carnevale sul Corso di Roma. 1 Tra i protagonisti della scena da lui immaginata con singolare realistica efficacia sono Cavanna e i musici d’Aliberti, ossia l’impresario e i cantanti del maggior teatro della città, teatro al quale Metastasio stesso fu legato per avervi colto i maggiori successi nel quinquennio 1726-1730 e già prima negli anni giovanili come variopinto sfondo nel corso della sua formazione al gusto del dramma per musica, intrecciandosi altresì con l’attività di quel teatro un nugolo di relazioni umane, di progetti e di ambizioni personali, di difficili equilibri tra diversi indirizzi artistici e tra diversi colori politici, e finalmente, last but not least, di vicende amorose decisive per il suo destino. Negli anni in cui Metastasio lavorò per l’Alibert quel teatro aveva pochi anni di vita, eppure già notevoli e complesse erano le sue vicende. Ma per inquadrarle nella giusta prospettiva occorre risalire più indietro, al principio del secolo. Durante l’infanzia del poeta una serie di avvenimenti negativi, tra cui il terremoto del 1703 e soprattutto gli anni più duri del gran conflitto europeo noto come guerra di successione spagnola, aveva imposto a Roma la proibizione d’ogni spettacolo teatrale e d’ogni divertimento carnevalesco. Finalmente dal 1710 l’attività teatrale riprese, crescendo sempre negli anni successivi. V’era allora in Roma, oltre a numerosi teatri 1

Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di Bruno Brunelli, vol. III, Milano, Mondadori, 1951, pp. 52-53, lettera n. 31.

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SAVERIO FRANCHI

pubblici minori, sale private e teatrini di collegi, un solo grande teatro pubblico per i melodrammi, il Capranica, costruito nel secolo precedente dall’omonima famiglia entro l’avito palazzo a S. Maria in Aquiro. L’attività del Capranica, come in seguito quella degli altri teatri romani, fu a più riprese condizionata dalle ricorrenti «questioni dei palchetti». I maggiori teatri pubblici dell’epoca erano divenuti, in presenza del pubblico di maggior qualità, specchio del potere politico, e ciò tanto più a Roma dove, per il valore ideale di centro del mondo cristiano e più ancora per il ruolo di effettiva cassa di risonanza diplomatica dei maggiori eventi storici, gli ambasciatori delle potenze europee e i loro simpatizzanti nel grande patriziato della città attribuivano la massima importanza al possesso dei migliori palchi teatrali, da contrassegnare con gli stemmi dei loro sovrani. Nella divisione avvenuta negli anni di guerra tra i due partiti contrapposti, allora detti ‘gallispano’ quello filoborbonico e “di genio cesareo” quello filoasburgico, divisione che si protrasse al di là dei trattati di pace, pesava a Roma la malcelata predilezione di papa Clemente XI e della maggior parte della curia a favore delle potenze borboniche, il regno ‘cristianissimo’ di Francia e quello ‘cattolico’ di Spagna, ora uniti dagli strettissimi vincoli di famiglia intercorrenti tra i due sovrani; pure non mancava a Roma una agguerrita minoranza filoasburgica, che faceva capo non solo all’ambasciatore austriaco (e al suo alleato ambasciatore di Portogallo) ma anche ad alcune primarie famiglie patrizie, come gli Odescalchi e i Caetani, nonché ad alcuni cardinali. Avendo poi la conclusione della guerra europea segnato una sostanziale vittoria per l’imperatore, i suoi sostenitori romani fecero sentire più forte la loro voce. Ma le stesse vicende politiche avevano portato a un duro contrasto tra il papa e l’imperatore, tanto che la maggioranza a Roma non era tanto ‘filoborbonica’ quanto ‘filopapale’. In questa situazione l’allestimento delle stagioni teatrali era ben difficile. Nel 1710 il Capranica non riuscì a lavorare, nei tre anni successivi le stagioni si poterono realizzare solo sotto il patrocinio ‘neutrale’ dell’ex regina di Polonia Maria Casimira, che per tutta la guerra era riuscita a mantenere buone relazioni con entrambe le parti. Il musicista che in quegli anni diresse le rappresentazioni fu Giuseppe Orlandini, virtuoso del figlio del granduca di Toscana, altro sovrano che aveva osservato una stretta neutralità. 2 Anche le vicende del mondo letterario risentirono di queste tensioni. L’accademia d’Arcadia aveva conosciuto proprio nel primo decennio del secolo una straordinaria crescita, godendo dell’incondizionato appoggio di papa Albani e della fervida attività del suo «custode generale» Giovan Mario Crescimbeni. 2

Per l’attività del teatro Capranica in quegli anni, e in generale per tutti i dati, le fonti e i riferimenti all’attività teatrale e musicale romana relativa al periodo storico preso in esame da questo saggio, rimando al mio volume SAVERIO FRANCHI, Drammaturgia romana II (1701-1750). Annali dei testi drammatici e libretti per musica pubblicati a Roma e nel Lazio dal 1701 al 1750, con introduzione sui teatri romani nel Settecento e commento storico-critico sull’attività teatrale e musicale romana dal 1701 al 1730, ricerca storica, bibliografica e archivistica condotta in collaborazione con Orietta Sartori, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997. Per gran parte il presente contributo scaturisce dal lavoro e dai risultati di quel volume, cui rinvio una volta per tutte rinunziando a troppo frequenti citazioni.

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PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

Il profondo radicamento di quest’ultimo in una formazione storico–ecclesiastica di lontani seppur modernizzati spiriti controriformistici impresse al suo amore per le belle lettere e all’istituzione da lui diretta un tono di ossequio al potere papale e alla curia pontificia che i suoi nemici tacciavano di ‘cortigianesco’. Nemici ben presenti anche in seno alla stessa Arcadia, dove l’indirizzo perseguito da Crescimbeni della massima presenza nella società mediante la massiccia aggregazione di potenti e di patrizi amanti della cultura non aveva potuto far distinzioni di campo in un ecumenico progetto di «repubblica letteraria universale». A guerra non ancora conclusa queste contraddizioni interne scoppiarono in seno all’accademia, portando al famoso scisma del 1711. Nell’Arcadia della tradizione, rimasta unita in gran maggioranza intorno a Crescimbeni, prevaleva l’orientamento ‘filopontificio’, e ciò sia per convinzione personale sia per omaggio a una istituzione che tanto doveva a papa Albani; invece nell’«Arcadia nova» degli scismatici non si può non vedere il colore anticuriale d’una cultura amante delle «civili libertà», colore suggerito non solo dal loro capo ideale, Gian Vincenzo Gravina, rappresentante dei moderni indirizzi giuridici e politici sviluppatisi nel Regno di Napoli, ma anche in modo inequivocabile dal mecenate chiamato a presiedere il neonato consesso, il principe Livio Odescalchi, quanto dire il più fedele seguace che Casa d’Austria avesse in Roma. 3 Morto Odescalchi il 9 settembre 1713 gli scismatici ebbero a nuovo «dittatore perpetuo» il cardinal Lorenzo Corsini (il futuro Clemente XII), un toscano esperto del mondo e amante delle arti (suonava il violino), politicamente ben più moderato di Odescalchi. D’altronde la situazione politica volgeva alla pace in tutta Europa con i trattati di Utrecht, già firmati, e quelli di Rastatt di pochi mesi dopo. Corsini ottenne dagli scismatici la rinunzia al nome arcadico e così nacque l’Accademia dei Quirini. Anche dall’altra parte gli Arcadi ricevevano incitamenti a una pacificazione da parte dei loro più munifici patroni, il cardinal Ottoboni e il principe Ruspoli. Si addivenne così a una singolare esperienza: un confronto tra le due accademie su un terreno artistico, cioè nel maggiore teatro della città per la stagione del carnevale 1714.

3

Per le vicende dell’Arcadia nel periodo che qui interessa, in particolare per i riflessi delle vicende storiche e politiche, rimando agli studi di Amedeo Quondam (AMEDEO QUONDAM, La crisi dell’Arcadia, «Palatino», XII, 1968, pp. 160-170; ID., Nuovi documenti sulla crisi dell’Arcadia nel 1711, «Atti e memorie dell’Arcadia», serie 3a, VI, fasc. 3, 1973, pp. 103-215; ID., L’istituzione Arcadia: sociologia e ideologia di un’accademia, «Quaderni storici», 1973, n. 23, pp. 389-438; ID., Gioco e società letteraria nell’«Arcadia» del Crescimbeni. L’ideologia dell’istituzione, «Atti e memorie dell’Arcadia», serie 3a, VI, fasc. 4, 1976, pp. 165-195; ID., L’Arcadia e la «repubblica delle lettere», in Immagini del Settecento in Italia, a cura della Società italiana di studi sul secolo XVIII, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 198-211), al libro di Maria Teresa Acquaro Graziosi (MARIA TERESA ACQUARO GRAZIOSI, L’Arcadia. Trecento anni di storia, Roma, Palombi, 1991) e soprattutto al documentatissimo saggio di PAOLA FERRARIS, Il Bosco Parrasio dell’Arcadia, in Giovanni V di Portogallo (1707-1750) e la cultura romana del suo tempo, a cura di Sandra Vasco Rocca e Gabriele Borghini, Roma, Argos, 1995, pp. 136-148; a questo eccellente lavoro rimando anche per i riferimenti alle fonti e alla bibliografia.

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SAVERIO FRANCHI

Figura 1: Gian Vincenzo Gravina in un disegno caricaturale di Pier Leone Ghezzi (penna e inchiostro bruno). (BAV, Ottob. Lat. 3112, c. 79r). Da: GIANCARLO ROSTIROLLA, Il “Mondo novo” musicale di Pier Leone Ghezzi, Milano, Skira - Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, [2001], foto 40, p. 95.

Il Capranica, rinnovato nei palchi dall’architetto Tommaso Mattei e nel palcoscenico dal celebre Filippo Juvarra (già al servizio di Ottoboni e della regina Maria Casimira), era allora affidato alla gestione di una impresaria, Maria de Rosis. Su questa singolare figura di donna organizzatrice di spettacoli vale la pena di dire qualcosa di più. Maria era figlia di Marcello de Rosis (1648-1701), un piccolo nobile romano che era stato impresario del teatro Tordinona dal 1673 al 1697 e che in quella gestione, per autentica passione teatrale, aveva dilapidato ogni sua ricchezza. Nata nel 1671, Maria aveva seguito da vicino l’attività del padre. A 24 anni si era sposata con Filippo Colonnesi, un piccolo nobile di Velletri che per lei abbandonò una promettente carriera ecclesiastica. Anche Colonnesi era esperto del mondo teatrale:

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appassionato e competente di musica, aveva composto melodrammi e oratorii.4 Malgrado la demolizione del Tordinona, la rovina finanziaria di suo padre e il lungo periodo di proibizione d’ogni spettacolo, Maria de Rosis non esitò ad assumere l’impresa del maggior teatro romano, investendo nel progetto i residui suoi beni e quelli del marito. Anch’ella probabilmente simpatizzava per il partito filoimperiale, come suggeriscono i suoi antichi legami con casa Colonna e più ancora l’amicizia con l’editore Komarek (ben noto ai musicologi per le prime stampe di due raccolte di sonate di Corelli): Komarek, ch’era legatissimo all’ambasciatore austriaco, visse e morì in casa di Maria de Rosis.5 Chiudiamo qui la parentesi sull’impresaria e torniamo alla stagione 1714 del Capranica: la prima delle due opere rappresentate (Tito e Berenice) divenne un manifesto artistico degli Arcadi, la seconda (Lucio Papirio) dei Quirini. In effetti il testo poetico del Tito fu di un Arcade stimato in campo teatrale, Carlo Sigismondo Capeci, e la musica fu di Antonio Caldara, maestro di cappella del principe Ruspoli, il mecenate dell’accademia. Anche l’altro patrono degli Arcadi, il cardinal Ottoboni, ebbe parte nel Tito, sia con aggiunte e ‘miglioramenti’ al testo poetico di Capeci, sia fornendo lo scenografo Juvarra. Per l’altra opera i Quirini, tramite il cardinal Corsini loro protettore, ricorsero invece a un poeta toscano, il medico e drammaturgo Antonio Salvi, mentre il compositore Francesco Gasparini, reduce da lunghi anni alla direzione di uno dei conservatori di Venezia, era in rapporti con due nobili di parte filoaustriaca, il principe Borghese e il duca Grillo. Entrambi i drammi celebravano «le virtù e i fatti memorabili degli antichi romani» (e proprio questo era lo specifico programma della neonata Accademia Quirina), certo il Tito in tono più ‘affettuoso’, mentre il Lucio Papirio era un dramma più forte, ben rappresentativo dei seguaci del Gravina con la sua esaltazione dell’eroica Roma repubblicana. Sta di fatto che l’opera dei Quirini riscosse un caloroso successo, mentre scarsi furono gli applausi per quella degli Arcadi. Fosse per questo esito o per altre ragioni (si può indicare il potente impulso all’attività teatrale e musicale data dal nuovo ambasciatore cesareo conte Gallas), negli anni successivi gli spettacoli del Capranica videro la netta prevalenza di artisti legati a quella parte politica (così i musicisti Giovanni Bononcini, al servizio dell’ambasciatore Gallas, Alessandro Scarlatti, maestro della cappella reale di Napoli, allora sotto il dominio austriaco, e suo figlio Domenico Scarlatti, virtuoso dell’ambasciatore di Portogallo), mentre il poeta stabilmente attivo nel teatro per le modifiche ai libretti delle opere da rappresentare – e probabilmente anche nelle funzioni di regista dell’azione drammatica – fu il più brillante degli Accademici 4

L’attività musicale di Colonnesi, finora sconosciuta, risulta da fonti giornalistiche dell’epoca, cfr. ORIETTA SARTORI, Notizie d’interesse musicale in un antico periodico a stampa: il «Foglio di Foligno», «Esercizi. Musica e spettacolo», 16-17, nuova serie 7-8, 1997-1998, pp. 87-120. 5 SAVERIO FRANCHI, Le impressioni sceniche. Dizionario bio-bibliografico degli editori e stampatori romani e laziali di testi drammatici e libretti per musica dal 1579 al 1800, ricerca storica, bibliografica e archivistica condotta in collaborazione con Orietta Sartori, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1994, pp. 354-358.

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Quirini, Paolo Rolli, proprio colui che aveva causato lo scisma d’Arcadia. Peraltro il teatro era frequentato da ‘milordi’ inglesi: la potenza della Gran Bretagna, che nella conclusa guerra era stata alleata dell’imperatore, era allora in continua crescita e nella sede della Chiesa cattolica si doveva tollerare la presenza di questi gran signori protestanti. Tale sarà la suggestione operata dalla loro ricchezza e dai princìpi liberali del loro regime che nel 1716 l’ardente Rolli seguì Richard Boyle conte di Burlington a Londra, dove vivrà per quasi trent’anni. Quel poeta figlio di Roma, che tanto lavorerà per il successo dell’opera italiana in terra britannica, non mancò di cantarne le libertà civili e il sistema politico in un sonetto famoso: 6 Fiume che imitator dell’oceano sostien gran navi e seco alterna il corso: ponte che ha quasi una città sul dorso: popol, cui numerar tentasi in vano: Senato ch’è un’immagin del romano: governo popolar seco in concorso: della salvezza altrui sol per soccorso regio poter: nel ben oprar sovrano: Commercio, e di lui figlia, ampia ricchezza: libertà che n’è origine e sostegno: viril valore e femminil bellezza; Crawfurd, di Londra e del britanno regno tutte le parti son: chi non le apprezza, del nome d’uom, non che di vita, è indegno.

Ben altri concetti aveva sulla Gran Bretagna papa Albani. Ed anche questi, come vedremo, verranno a incidere sulle vicende teatrali romane. Nella speranza di una possibile restaurazione cattolica in quella nazione, Clemente XI chiamò a Roma Giacomo III Stuart, il pretendente cattolico a quella corona, figlio del re spodestato dalla glorious revolution del 1688. Lo Stuart, che il papa farà sposare contro il volere dell’imperatore con Clementina Sobieski nipote della regina Maria Casimira, fu a Roma il patrono di un nuovo grande teatro, sorto in contrapposizione al Capranica. La nuova sala, chiamata Teatro Alibert, fu perciò sede di un ideale orientamento ‘filopontificio’ e frequentato da un nobile pubblico in maggioranza legato a papa Albani e alla sua politica: spiccano i nomi del principe Ruspoli, del marchese Maccarani, del finanziere Minucci, del gran priore dell’Ordine di Malta Antonio Vaini, d’una famiglia da sempre legata alla Francia. Ma come era nato il nuovo teatro? Il conte Antonio d’Alibert, figlio di colui che nel 1671 aveva costruito a Roma il primo teatro pubblico d’opera in musica, il Tordinona, avendo ereditato dal padre un piccolo patrimonio ma insieme una grande passione teatrale destinò l’unica sua proprietà immobiliare, una casa con due lotti di terreno alle pendici del Pincio, nella zona all’epoca detta «gli Orti di Napoli», a una nuova sala di spettacolo, che per ampiezza e per prestigio artistico sarà tra le maggiori d’Europa. Suo padre aveva utilizzato quella proprietà per un gioco di pallacorda, molto in voga nel Seicento 6

PAOLO ROLLI, Liriche, a cura di Carlo Calcaterra, Torino, UTET, 1926, p. 203.

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romano, e forse egli stesso aveva già coltivato l’idea di costruirvi un teatro. Nel 1716, nel corso di pochi mesi, Antonio d’Alibert eliminò la pallacorda e avviò i frenetici lavori di costruzione del nuovo teatro, che fu inaugurato (quantunque non ancora completato) nel gennaio 1717 e che dal carnevale 1718 ospitò splendide stagioni d’opera in musica. Un simile progetto, che non solo accresceva in quantità e qualità l’attività teatrale romana ma soprattutto recava una formidabile concorrenza al Capranica nel campo fino ad allora suo esclusivo del melodramma, fu evidentemente consentito dal papa, che certo vide con benevolenza la nuova sala agire sotto il patrocinio del suo prediletto Giacomo Stuart. L’indirizzo affermatosi al Capranica, con spettacoli ed artisti favoriti dall’ambasciatore austriaco e con la direzione letteraria in mano ai Quirini, non poteva risultare gradito a Clemente XI, e non sorprende trovare che nello stesso 1717 si riaprì al pubblico dopo una lunga chiusura il teatro della Pace, più piccolo e di prestigio molto minore rispetto al Capranica, eppure dal detto anno anch’esso destinato a stagioni d’opera in musica sotto il fervido patrocinio del cardinal Ottoboni che ne era affittuario. Giacché le licenze di attività ai teatri venivano concesse anno per anno dal governatore di Roma, il quale prendeva al riguardo dirette istruzioni dal papa, non si può negare che Clemente XI abbia di proposito voluto creare delle alternative all’indirizzo ideologico prevalso nel Capranica. La direzione artistica del nuovo teatro Alibert fu dal suo proprietario affidata all’esperto Gasparini, strappato al teatro rivale. D’altra parte Gasparini, con un cambio di campo del tutto normale negli artisti dell’epoca, era passato al servizio del principe Ruspoli, il mecenate dell’Arcadia. Il Capranica, affidato al nuovo impresario Bernardo Robatti, un benestante di Locciolo Vercellese, rispose con opere dei due Scarlatti sotto l’aperto patrocinio dell’ambasciatore austriaco. Così dal 1718 la bella società romana che formava il pubblico teatrale dell’epoca (gli ambasciatori, alcuni cardinali, il grande patriziato e la mezzana e minore nobiltà, gli abatini e i giovani prelati, la fascia più ricca della borghesia sia professionale, con medici, avvocati e notai, sia finanziaria, con banchieri, mercanti e appaltatori) ebbe la facoltà di scelta tra splendide stagioni operistiche allestite in vivace concorrenza tra i due teatri maggiori, con l’aggiunta tutt’altro che insignificante di quelli minori e degli spettacoli nei collegi. Salvo Venezia, nessuna città d’Italia, che è quanto dire nessuna al mondo, ebbe all’epoca una simile fioritura di spettacoli in musica, in prosa, misti, con burattini, in teatri ‘regi’ o popolari, pubblici o privati, con il contorno di concerti d’oratorio, di cantate e serenate, di recite ‘spirituali’ e di commedie all’improvviso, di accademie di lettere e di canto, di balli e di conversazioni. Una simile attività, capillarmente diffusa (recitavano i carbonai e i barcaioli, tra i quali Pulcinella era popolarissimo, si allestivano recite nei conventi di frati e nei monasteri di monache che chiamavano i virtuosi dei teatri per gustarsi le ariette dell’Alibert o del Capranica, si fecero spettacoli financo per i carcerati di Castel S. Angelo) non poteva non esercitare la sua suggestione su un giovane poeta come Metastasio cui la stessa natura aveva donato l’estro di un’invenzione elegante e cantabile, di un sicuro istinto drammaturgico, di un dilettoso fascino musicale. In quest’ottica ripercorriamo le tappe della sua biografia. 93


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Il suo maestro e benefattore Gian Vincenzo Gravina morì il 6 gennaio 1718. Il ventenne Metastasio si ritrovò d’un tratto libero e ricco. È probabile che già negli anni precedenti avesse frequentato gli spettacoli del Capranica, dove come si è visto agiva Rolli, anch’egli allievo del Gravina, e dove devono averlo colpito le opere di Gasparini, in particolare il Ciro rappresentato nel 1716: sul medesimo soggetto egli stesso scriverà vent’anni dopo un notevole dramma. Passato Gasparini al teatro Alibert, Metastasio prese a frequentare la nuova sala e l’amicizia con il compositore giocò forse un ruolo nel suo abile bon ton con i due diversi ambienti e indirizzi facenti capo ai due teatri rivali. Certo spinto dalla volontà di superare i pregiudizi del mondo letterario romano, largamente ostile al Gravina,7 senza con ciò tradire il retaggio morale e artistico del suo maestro, Metastasio entrò in Arcadia, dove ebbe il nome pastorale di Artino Corasio (15 aprile 1718). Questa adesione, che suonò all’epoca come una vittoria di Crescimbeni sul pupillo del Gravina, fu temperata nello spirito di un appeasement e il giovane Pietro ottenne di leggere in una pubblica riunione dell’accademia il poemetto in terzine La Strada della Gloria ch’era tutto un omaggio al defunto maestro. 8 Si potrebbe dunque rileggere nella chiave del fin qui rievocato contesto storico–ideologico tutta la produzione giovanile del Metastasio, sperando di trarne qualche ulteriore spunto critico. Al di là degli studi già esistenti,9 non manca chi in questo tricentenario si propone appunto un nuovo esame del Metastasio giovane.10 Qui bastano un paio di accenni, proposti in funzione del discorso sulla committenza artistica e letteraria romana dell’epoca. Prima di entrare in Arcadia Metastasio aveva scritto, oltre a qualche sonetto d’occasione, due opere di maggiori dimensioni e impegno. Secondo quanto egli stesso giudicò in vecchiaia in una lettera al sacerdote Giuseppe Calvi di Messina,11 l’idillio Il Convito degli Dei era uscito «quasi informe» dalle sue mani nell’«immatura età di quattordici anni». Se la memoria dell’autore fosse precisa, questa sarebbe la sua prima opera poetica, risalendo al 1712; e a quell’anno appunto la assegna l’edizione Brunelli. Ma, come da tempo è noto agli studiosi, così non è. Il componimento, un poemetto di 60 ottave, reca il sottotitolo «Pel felicissimo parto d’Elisabetta Augusta» e celebra la nascita di un erede maschio alla stirpe asburgica e al trono imperiale. Orbene, l’unico figlio maschio partorito dall’imperatrice Elisabetta moglie di Carlo VI fu Leopoldo, nato nella primavera 1716 ma morto di lì a poco in 7

In una lettera del dicembre 1719 Metastasio parla del «pertinace odio che ancor si conserva in Roma non meno al nome che alla scuola tutta dell’abate Gravina» (Tutte le opere cit., vol. III, p. 20). 8 Si veda al riguardo il contributo di Maria Teresa Acquaro Graziosi (MARIA TERESA ACQUARO GRAZIOSI, Pietro Metastasio e l’Arcadia, in Metastasio da Roma all’Europa, a cura di Franco Onorati, Roma, Fondazione Besso, 1998, pp. 49-62). 9 Specifico al riguardo è il saggio (soprattutto stilistico) di FRANCO GAVAZZENI, La poesia giovanile del Metastasio, che costituisce il primo capitolo (pp. 5-78) dei suoi Studi metastasiani (Padova, Liviana Editrice, 1964). 10 ROSY CANDIANI, Pietro Metastasio da poeta di teatro a «virtuoso di poesia», Roma, Aracne, 1998. 11 Lettera n. 2008 del 13 aprile 1772 (Tutte le opere cit., vol. V, p. 154).

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tenera età. Quella nascita, che per Casa d’Austria allontanava (purtroppo per poco) i timori di una crisi dinastica, fu accolta dal partito filoimperiale di Roma con manifestazioni di giubilo.12 L’idillio di Metastasio va perciò riportato a questa data e a questa occasione: non dunque frutto immaturo di un quattordicenne ma opera consapevole ed elegante di un diciottenne. Pochi mesi dopo Il Convito degli Dei veniva stampato a Napoli nella prima raccolta edita del poeta, che nell’epistola dedicatoria a donna Aurelia d’Este Gambacorta conferma di aver scritto l’idillio sul parto dell’imperatrice per «la divozione [...] dovuta da chiunque romana religione e romane leggi professa», 13 motivazione certo ispirata dall’insegnamento del Gravina, ma destinata a differenza di altri precetti del maestro a mettere durature radici in Metastasio.

Figura 2: PIETRO METASTASIO, ritratto di Pompeo Batoni (collezione privata) (fonte di pubblico dominio: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Metastasio_by_Batoni.jpg) 12

Il cardinale austriaco Schrattenbach fece allestire nel Collegio Clementino una solenne Accademia di lettere e d’arti cavalleresche, con recita di orazioni e di componimenti poetici (4 giugno 1716), cfr. LINA MONTALTO, Il Clementino, 1595-1875, Roma, Ulpiano, 1939, p. 122. 13 Lettera n. 3 del primo agosto 1716 in Tutte le opere cit., vol. III, pp. 13-14. La famiglia napoletana Gambacorta era di salda fede filoasburgica e aveva animato la «congiura di Macchia» del 1701 contro il viceré spagnolo.

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Il quale aggiunge che il componimento fu «imposto dall’onore che godo della famigliarità dell’eccellentissimo signor conte Gallas» e da ciò si deduce che se non proprio al suo diretto servizio il poeta era in quel periodo in assidua frequentazione dell’ambasciatore cesareo, del quale godeva il patrocinio. Chiarite così le circostanze in cui fu scritto l’idillio, va pur detto che il giudizio espresso dal poeta oltre cinquanta anni dopo su questa sua opera giovanile sembra errato come l’età alla quale voleva retrodatarla. Leggendola essa non appare affatto un lavoro «quasi informe», anzi colpisce per la piacevole e talora esuberante ricchezza di immagini, di lessico, di richiami letterari, per la felicità della versificazione, soprattutto per la disposizione del mitico racconto in successive scene quasi teatrali: i personaggi sono descritti con arguta precisione,14 gli sfondi tenuti in abile equilibrio tra l’allegorico-celebrativo e il pittorico-favoloso, la narrazione efficacemente intercalata da discorsi diretti. Il poeta realizza qui per la prima volta quella nobilitazione di un componimento d’occasione, nella sostanza cortigianesco, attraverso un tono lieve e brillante che, malgrado il fitto ripetersi di consimili commissioni nel corso della sua vita, riuscirà in più momenti a riscattarne la banalità con una raffinata eleganza non priva di una punta di sincerità. Già in questo Convito Metastasio riuscì, nel racconto che fa il Tevere, a delineare con ampie pennellate in una decina di ottave una materia tanto ostica quanto la storia politica di Roma e dell’Impero dall’alto Medioevo ai tempi suoi; e soprattutto colpisce la parte finale dell’idillio, dove Iride è inviata da Giove e Giunone alla corte imperiale; ivi Carlo VI, «grave e pensieroso», si prepara all’imminente guerra contro la Turchia, avendo al suo fianco il generalissimo Eugenio di Savoia, il trionfatore della guerra di successione spagnola: Aveva a lato il duce al Ciel sì caro, Eugenio, onor de’ bellicosi eroi, Quegli il cui nome va temuto e chiaro Dal Boristene algente ai lidi eoi; Quei che col lampo dell’ardito acciaro Fa strada, o Carlo, ai gran disegni tuoi; E qualor la sua mano il brando strinse, I tuoi nemici o volse in fuga o estinse. 15

Poi Iride giunge in un giardino segreto per annunziare all’imperatrice la futura maternità. Qui la scena è dipinta con colori deliziosi e non si può fare a meno di pensare a una Annunciazione della Beata Vergine, cui del resto il poeta allude apertamente con l’alone luminoso e le «diverse e colorate piume» delle ali di Iride, nonché con il pudico rossore d’interna felicità che tinge il volto di Elisabetta. Anche di Iride, come dell’angelo del bassorilievo nel Purgatorio dantesco, «giurato si sarìa ch’el dicesse Ave»; e con l’immagine che conclude il poemetto siamo rapiti in cielo: «nel fulgor si ascose | Per entro l’aria lucida e serena, | Di sé lasciando la sembianza appena». 14

Cfr. le fini osservazioni di Franco Gavazzeni (GAVAZZENI, La poesia giovanile cit., pp. 20-27), in particolare quelle sulle figure del Danubio e dell’imperatrice Elisabetta. 15 Tutte le opere cit., vol. II, p. 868.

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L’altra opera giovanile di Metastasio, la tragedia Giustino, per la forma e per l’argomento rimase più rigidamente legata ai modelli di un classicismo formale cari a Gravina. Ma in relazione al discorso sui legami con le vicende storiche dell’epoca non mi pare azzardato vedere nella scelta dell’argomento, svolto sullo sfondo della riconquista d’Italia voluta dall’imperatore Giustiniano, un’eco delle vittoriose campagne delle armate imperiali che nel corso della guerra di successione spagnola avevano dato all’Austria asburgica il predominio politico su tutta l’Italia. In Giustiniano sarebbe allora da vedere Leopoldo I, nel giovane Giustino suo designato successore Carlo VI, nell’amata Sofia Elisabetta di Brunswick e infine in Belisario traspare Eugenio di Savoia. Uno dei sonetti giovanili ci riconduce ai rapporti di Metastasio con il mondo teatrale romano. Scritto all’inizio del 1719, nella fase in cui il poeta si sforzava di affermarsi negli ambienti letterari e artistici cari a papa Clemente XI, è dedicato a Gasparini, all’epoca direttore musicale del teatro Alibert: vi si loda l’«insigne» compositore, che con la sua arte armonica sa «calmare ed eccitar [...] con soave vicenda i nostri affetti». 16 E di affetti appunto si trattava poiché frequentando Gasparini il poeta si era innamorato della bella figlia dell’operista, Rosalia. Questo, che fu il primo e forse più sincero amore della sua vita, è stato indagato e compiutamente narrato in un magistrale articolo di Enrico Celani pubblicato oltre novant’anni fa.17 Gasparini, che certo apprezzava i talenti poetici di Metastasio e forse ne immaginava una possibile attività teatrale, favorì la relazione e tant’oltre si giunse che in breve si stese un regolare contratto di nozze. 18 Intanto i contatti con l’Arcadia produssero la canzonetta La Primavera, che se ai severi occhi del defunto Gravina sarebbe dispiaciuta come «canzoncina» da recitarsi in una «cicalata pastorale», proprio in un ingenuo rapporto con la natura trova la sua tenue tinta di pastello, così da collocarsi in una nicchia mezzana fra la tradizione melica del passato e le esemplari strofette delle future serenate napoletane. Nella Fille che vi compare e che «o pietosa o crudel» resta per il poeta «l’alma del mio cor» potrebbe forse vedersi Rosalia Gasparini, ch’ebbe per Metastasio momenti alterni di affetto e di ripulsa, fino alla rottura finale in vista delle nozze per essersi innamorata di un altro. In modo

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Ivi, p. 950. Gasparini era allora al culmine della fama e del successo, come compositore, come teorico, come uomo di teatro e come maestro (i suoi allievi Domenico Scarlatti e Benedetto Marcello erano a loro volta giunti alla celebrità). Su Gasparini si vedano gli atti del convegno internazionale a lui dedicato (Francesco Gasparini, 1661-1727, a cura di Fabrizio Della Seta e Franco Piperno, Firenze, Olschki, 1981) e numerose altre notizie in un successivo saggio di FABRIZIO DELLA SETA, I Borghese (1691-1731). La musica di una generazione, «Note d’archivio per la storia musicale», nuova serie I, 1983, pp. 139-208. 17 ENRICO CELANI, Il primo amore di Metastasio (con documenti inediti), «Rivista Musicale Italiana», XI, 1904, pp. 228-264. 18 Il documento, stipulato il 26 febbraio 1719, è integralmente riportato dal Celani (CELANI, Il primo amore cit., pp. 247-249), che lo trascrisse dall’originale, conservato nell’Archivio di Stato di Roma (Trenta Notai Capitolini, atti Caesar Parchettus, uff. 18, vol. 382, cc. 329-330).

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persuasivo il Celani aveva già interpretato i famosissimi versi dedicati a una Nice19 come ispirati non a un modello immaginario di amata sdegnosa e traditrice, bensì alla reale vicenda amorosa con Rosalia. E se prima di chiamarla Nice il poeta la chiamò Fille, fino all’amara conclusione egli fu tenuto dalla fanciulla in una affannosa altalena di sentimenti, che gli causavano scatti d’ira e subitanei pentimenti: Ah no: ben mio, perdona Questi sdegnosi accenti, Che sono i miei lamenti Segni d’un vero amor. 20

Il «vero amor» fu per Metastasio una dura prova. La fama di Gasparini era allora grande, tutta la città accorreva al teatro Alibert per le sue opere, e la vicenda sentimentale di Metastasio fu perciò nota a tutti. Lo smacco crudele del rampollo dell’orgoglioso Gravina, abbandonato in faccia a tutti alla vigilia delle nozze avendogli la fidanzata preferito uno sconosciuto, rese ridicolo Metastasio e rinfocolò contro di lui l’ostilità dell’ambiente letterario romano, contro il quale il poeta scriverà dure parole nei mesi seguenti.21 L’amor proprio di un temperamento ambizioso e abituato al controllo di sé spinse Metastasio a romper di getto con Roma, con l’Arcadia, con il mondo teatrale e quasi quasi con la stessa poesia; l’idea d’un freddo egocentrismo con cui pensava di conformarsi ai modelli di vita del suo defunto maestro lo persuase a rifiutare tutte le nuove suggestioni cui si era abbandonato dopo la morte di lui, e a impiegarne l’eredità per fare invece carriera nel campo giuridico. Quasi confortato dal poter ribattere le orme del Gravina se ne fuggì a Napoli, patria culturale del maestro e fervido centro di studi legali, ivi riannodando i legami con la parte politica «giusta», cioè con il viceré austriaco e il patriziato partenopeo (in primo luogo i Pignatelli già patroni del Gravina) che gli faceva corona. Come proprio a Napoli, per merito di un’altra bella romana, risorgesse in lui il demone poetico e teatrale è vicenda ben nota. Mentre Metastasio viveva lontano dalla patria le vicende teatrali romane si 19

Le canzonette La Libertà, Palinodia, La Partenza, A Nice, nonché i sonetti Desiderio affettuoso, Pentimento dell’antecedente desiderio, La Gelosia; infine una cantata pure intitolata La Gelosia. 20 La Primavera, vv. 65-68 (Tutte le opere cit., vol. II, p. 770). 21 La citata lettera del 23 dicembre 1719, dopo aver parlato dell’odio di Roma contro Gravina, così prosegue: «Qual odio [...] si è trasfuso, e come discepolo eletto e come erede, sovra di me. Ed ancorché possa io con le mie rendite onestamente vivere in Roma, ho stimato prudente risoluzione il vivere lontano per non vivere fra nemici» (Tutte le opere cit., vol. III, p. 20). Odio non solo da parte degli Arcadi crescimbeniani, ma anche da parte «degli altri, che invece di difendere e sostenere nella mia persona l’onore della scuola e l’elezione del comune Maestro, hanno caricato e detratto le mie operazioni, pieni di malignità e di veleno» (Ivi,p. 21). Così Metastasio pagava i suoi rapporti con l’Arcadia, con Gasparini e con il partito ‘filopontificio’ del teatro Alibert con lo screditamento di fronte ai vecchi condiscepoli e seguaci del Gravina. In una lettera «a un amico» dello stesso periodo lamenta ancora lo smacco subito «nella mia cara patria», il «sommo danno», il tempo «malamente perduto» e per la disillusione «chiamai mille volte Roma ingrata», ma la colpa era sua che non aveva studiato «il gran libro del mondo» (Ivi, p. 22).

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arricchivano di nuovi capitoli. La stagione del carnevale 1720 fu l’ultima per Gasparini all’Alibert. Forse la vicenda di sua figlia aveva danneggiato anche il compositore, che per suo conto cambiò anch’egli di patrono passando al servizio del filoaustriaco principe Borghese. 22 Ma l’epoca dei successi teatrali di Gasparini era finita e al suo posto il conte d’Alibert, forse su suggerimento altrui, chiamò come nuovo direttore musicale il famoso compositore e maestro di canto Nicolò Porpora, che guiderà l’attività del teatro Alibert nel triennio 1721-1723. Non è noto chi fosse allora il poeta incaricato delle modifiche ai drammi da rappresentare e delle funzioni di moderno regista, ma non sorprenderebbe, per quanto già detto, che fosse un membro dell’Arcadia. Quello era il posto che Gasparini aveva probabilmente progettato per Metastasio; quello sarà il posto che Metastasio, sull’onda dei grandi successi a Napoli e Venezia, verrà a riconquistare nel 1726. Intanto nell’altro teatro principale di Roma, il Capranica, proseguiva l’attività di artisti legati al potere politico austriaco (Alessandro Scarlatti, Silvio Stampiglia, Giovanni Bononcini), mentre in veste di poeta teatrale compare di nuovo un Accademico Quirino, il giovane Gaetano Lemer. La morte di Clemente XI dopo un lungo pontificato portò a mutamenti significativi: il nuovo pontefice (l’anziano Innocenzo XIII Conti) operò una rapida pacificazione con l’imperatore (giugno 1722) e così l’annosa contrapposizione che divideva patroni artisti e pubblico in fazioni ‘filopapali’ e ‘filoimperiali’ finiva col perdere il pepe politico del periodo precedente. In questa direzione si era mosso per tempo il principe Ruspoli, che pure tanto doveva a papa Albani: Ruspoli, uno dei principali patrocinatori dell’attività teatrale e musicale della città, era parente del nuovo pontefice in quanto marito di una sua nipote.23 Fin dal 1707 Ruspoli era stato il più generoso patrono dell’Arcadia, ospitandone le riunioni nel suo giardino in via Merulana e poi nella villa Ginnasi all’Aventino della quale era affittuario; ma intanto i rapporti si andavano deteriorando. Già nel carnevale 1721 il principe, abbandonando il favorito teatro Alibert, passò a patrocinare il Capranica ed ivi a sostenere il poeta Lemer, uno dei Quirini. La stessa situazione si ripeté nel 1723, quando al Capranica fu attivo come poeta teatrale il segretario di Ruspoli Gian Gualberto Barlocci, un altro Quirino. Crescimbeni, cui certo non difettava l’esperienza delle cose del mondo, fu prontissimo a sostituire quello di Ruspoli con un patronato ben più munifico: il 25 22

Com’è noto l’anno dopo Borghese fu nominato viceré di Napoli e proprio a sua moglie Maria Livia Spinola Borghese Metastasio dedicherà il componimento drammatico Gli Orti Esperidi. Certo alla corte napoletana il poeta sentì parlare di Gasparini e forse di Rosalia, ma ora il suo cuore – o almeno il suo diletto e la sua maschile vanità – era occupato dalla Bulgarelli. 23 Maria Isabella Cesi, figlia della sorella di Innocenzo XIII. Il riavvicinamento di Ruspoli alla parte ‘filoimperiale’ (per la quale alcuni storici hanno parlato di un ‘neoghibellinismo’ romano, così come di ‘neoguelfismo’ si parlerà nel secolo successivo) ebbe dall’elezione di Innocenzo XIII solo l’ultima spinta. In effetti Ruspoli fin dai tempi della guerra di successione spagnola, pur avendo armato a sue spese un reggimento col quale combatté in Romagna contro le armi austriache, si era guadagnato il rispetto degli avversari; e soprattutto negli anni seguiti alla pace di Utrecht fu tra i fautori di una pacificazione tra papato e impero sulla base del comune interesse nella guerra antiturca (1716).

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novembre 1721, pochi mesi dopo la morte di Clemente XI, il ‘cognome’ arcadico del defunto papa fu attribuito, su proposta di Crescimbeni, a Giovanni V re di Portogallo. 24 Quel sovrano, uscito vittorioso dalla guerra di successione spagnola in alleanza con l’Impero e la Gran Bretagna, aveva dopo la pace dato impulso a una fastosa politica di rappresentanza, aspirando ad essere riconosciuto su un piede di parità con i regnanti delle grandi potenze; in particolare si resero interpreti di queste manifestazioni i suoi ambasciatori alla S. Sede,25 che promossero splendide iniziative artistiche e musicali, attraendo al servizio del loro re personalità di gran rilievo, come Domenico Scarlatti e Filippo Juvarra, in precedenza legati ad altri patrocini. Ovviamente tanto sfarzo era rivolto anche all’immagine di potenza necessaria per ciò che veramente stava a cuore al re di Portogallo: la questione dei «riti cinesi». In essa interesse del re era che il papa confermasse l’antico privilegio portoghese del real padroado.26 Nel suo ruolo di patrono dell’Arcadia il re di Portogallo provvide a risolvere in via definitiva il problema della sede per le riunioni dell’accademia: grazie alla sua munificenza fu acquistato un terreno sul Gianicolo ed ivi realizzato il Bosco Parrasio, su tre livelli uniti da rampe di scale conducenti ad un piccolo anfiteatro. Il Bosco Parrasio sarà solennemente inaugurato il 9 settembre 1726. L’architetto che progettò e costruì la nuova sede fu Antonio Canevari, che in seguito partirà per Lisbona dove lavorerà al diretto servizio di Giovanni V.27 24

FERRARIS, Il Bosco Parrasio cit., pp. 139-140. Con questa nomina non solo si soddisfaceva «la propensione ormai evidente di Giovanni V verso riconoscimenti romani al suo prestigio», ma s’intese compiere una scelta gradita anche al nuovo papa: Innocenzo XIII era stato nunzio a Lisbona per dieci anni (1698-1708), mantenendo in seguito con quella corte i migliori rapporti. La scelta di Crescimbeni si rivelò oculata: Giovanni V fu per l’accademia un vero benefattore. 25 Un diretto riflesso di questa aspirazione alla parità con le altre potenze cattoliche fu la pretesa dell’ambasciatore portoghese marchese di Fontes di avere nel teatro Capranica «i Palchetti nella qualità e sito che anno l’altri regi Ministri» (Avvisi di Roma del 24 dicembre 1712, Biblioteca Corsiniana, ms. 35.A.21, c. 102v); poi si era accontentato di quello offertogli dal contestabile Colonna (peraltro ottimo), ma quando pochi mesi dopo si condussero grandi lavori nel teatro furono costruiti due palchetti in più «nell’ordine nobile», dei quali «l’uno per l’Amb.re di Portogallo e l’altro per la Casa Albani» (Avvisi di Roma del 5 agosto 1713. Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Barb. Lat. 6430, c. 75). Per i particolari si veda FRANCHI, Drammaturgia romana II cit. a nota 2. 26 L’accesa questione dei riti cinesi avrà un curioso effetto anche sulle vicende teatrali, causando lo stravolgimento di un melodramma rappresentato nel 1726 al teatro Alibert con il titolo Il Valdemaro. Si trattava del Teuzzone, un libretto di soggetti e costumi cinesi scritto da Apostolo Zeno nel 1706, da riproporre a Roma con la nuova musica di Domenico Sarro. Ma dato il delicato dibattito allora in corso sui riti adottati dai Gesuiti in Cina in conformità con le usanze nazionali e contestati da altri ordini religiosi, si ritenne opportuno «mutare il titolo e l’opera» mediante un completo rifacimento del testo drammatico ad opera di un poeta rimasto ignoto. Questo rielaboratore fu probabilmente un Arcade giacché quella stagione, come si dirà appresso, fu tutta sotto il segno dell’Arcadia; ma ben decise quel poeta di mantenere sull’intervento un totale segreto, giacché a causa di quel rifacimento l’opera, come notò il diarista Valesio, «è divenuta di mal gusto». Si veda sull’episodio FRANCHI, Drammaturgia romana II cit., pp. 213-214. 27 Sul progetto e la realizzazione del Bosco Parrasio si veda il saggio di Paola Ferraris (FERRARIS, Il Bosco Parrasio cit.). Di Canevari, oltre ai dati già noti sulla sua attività di architetto (per i quali v.

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Intanto importanti novità erano intervenute nelle vicende teatrali. Il conte Alibert, avendo voluto affrontare la magnifica impresa di costruire un gran teatro e di gestirne in prima persona i costosi allestimenti, era riuscito sì a dare a Roma e all’Italia un nuovo palcoscenico di successo per la splendida attività dei migliori artisti ma insieme si era rovinato economicamente ed ora, sommerso dai debiti, fu costretto a subire un esproprio di fatto: dalla stagione 1722 il teatro fu gestito da un gruppo di “interessati” in rappresentanza dei suoi numerosi creditori. Tra essi spicca il finanziere Ferdinando Minucci, da tempo esponente della linea ‘filopontificia’ per essere depositario generale della Camera Apostolica. Minucci sarà l’amministratore di fatto del teatro fino al 1729. Per nulla ammaestrato da queste vicende anche il proprietario dell’altro teatro principale, Federico Capranica, aveva cacciato l’impresario Robatti e dal 1721 si era messo a gestire in proprio gli spettacoli. Finirà male anche per lui, costretto nel 1724 da una cospicua mole di debiti a vendere il teatro al nipote Camillo. Nella storia dei teatri romani la serie di disastri finanziari che colpirono proprietari e impresari è davvero impressionante (solo il teatro Argentina, inaugurato nel 1732, avrà una vita economica meno tormentata) e bisogna convincersi che la passione teatrale di questi aristocratici e borghesi doveva essere davvero imperiosa per non sfuggire come la peste l’acquisto o la gestione di una sala teatrale. Ma certo la popolarità che un simile ruolo dava, lo sfarzo degli spettacoli, l’effimera ma esaltante euforia degli applausi, la lusinghiera vanità del rapporto con artisti e virtuosi ovunque richiesti e celebrati, infine i contatti e la possibile amicizia con i potenti di turno (parenti del papa regnante, ambasciatori, cardinali, principi) erano tutte ragioni ben allettanti per questi ‘edili’ del Settecento. La stagione del 1724 fu memorabile in entrambi i teatri maggiori. All’Alibert, sempre sotto il patronato degli Stuart, comparve per la prima volta a Roma Leonardo Vinci, un compositore calabrese reduce da un quinquennio di continui successi a Napoli. Vinci, autore di stile ‘moderno’ e animato, conquistò il pubblico dell’Alibert, dove lavorerà negli anni seguenti fino alla morte. Al Capranica intanto si esibiva, sotto il patronato di Faustina Mattei Conti nipote del papa, l’altro musicista che pienamente rappresentava lo stile ‘moderno’ dell’epoca, Antonio Vivaldi. Il famoso compositore veneziano, che già aveva lavorato per il Capranica l’anno prima, diresse quest’anno l’intera stagione, riportando anch’egli un vivo successo. Dopo la sosta per l’anno santo 1725 ritroviamo a Roma il Metastasio. Con lo straordinario successo della sua Didone abbandonata, rappresentata il primo febbraio 1724 nel teatro napoletano di S. Bartolomeo con la musica di Domenico Sarro, alla presenza del viceré cardinal d’Althann, con Marianna Benti Bulgarelli nei panni della protagonista e il grande contraltista Nicolò Grimaldi in quelli di Enea, la carriera teatrale del poeta era segnata e spianata. Secondo l’indicazione ch’egli stesso aggiunse al titolo della canzonetta L’Estate («composta in le fonti e la bibliografia citate dalla Ferraris), va segnalata anche la presenza come scenografo nella stagione 1718 del teatro Capranica, in collaborazione con un pittore, Giovanni Battista Bernabò, che pure riceverà importanti committenze dall’ambasciatore di Portogallo (VASCO ROCCA, Le committenze pittoriche di Giovanni V, in Giovanni V di Portogallo cit., pp. 289-375: 301).

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Roma l’anno 1724»), qualche mese dopo si trovava a Roma. Certo vi passò provenendo da Napoli e diretto a Venezia; e probabilmente vi sostò abbastanza per riprendere qualche opportuno contatto: L’Estate è l’evidente seguito della Primavera e potrebbe anch’essa essere stata recitata in una riunione arcadica. Forse il nuovo corso dell’accademia sotto il patronato del re di Portogallo e anche l’elezione di un napoletano a nuovo papa (Benedetto XIII Orsini) ammorbidirono il terreno. Di certo dalla fine dell’anno Metastasio era a Venezia dove nella stagione di carnevale 1725 curò il nuovo allestimento della Didone, da lui ora definita «tragedia». L’opera andò in scena al teatro Tron di S. Cassiano con la nuova musica di Tomaso Albinoni, interpreti ancora la Bulgarelli e Grimaldi.

Figura 3: Marianna Benti Bulgarelli in un disegno caricaturale di Pier Leone Ghezzi (BAV, Ottob. Lat. 3116, c. 144r). Da: GIANCARLO ROSTIROLLA, Il “Mondo novo” musicale di Pier Leone Ghezzi, Milano, Skira - Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, [2001], foto 127, p. 137.

La dedica fu rivolta da Metastasio con un sonetto «alle dame veneziane». 28 Il libretto a stampa reca sul frontespizio il nome arcadico del poeta: è quindi credibile che la sosta a Roma avesse riportato Metastasio in seno all’Arcadia e che la tournée veneziana fosse in sostanza il preludio per un rientro alla grande sulle scene 28

Oltre che nell’edizione originale del libretto (Venezia, Marino Rossetti, 1725), il sonetto è riportato in Tutte le opere cit., vol. II, p. 946.

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romane. 29 Ma per meglio intendere il suo futuro ruolo di poeta teatrale dell’Alibert occorre riassumere ancora qualche dato sulle vicende di quel teatro. La sciagurata situazione finanziaria del conte Alibert, la cui unica proprietà immobiliare era il teatro che recava il suo nome, spinse i creditori, approfittando della chiusura per l’anno santo 1725, a chiederne la vendita forzosa mediante asta giudiziale. Il tribunale della Camera Apostolica diede loro ragione e per decreto del governatore di Roma l’asta fu battuta il 10 aprile di quell’anno, risolvendosi a favore di Cesare Salvani per il misero prezzo di 1320 scudi; pochi giorni dopo al posto di Salvani, ch’era un prestanome, si conobbero i nomi degli effettivi nuovi proprietari del teatro: erano dodici e a loro, in solido, fu aggiudicata l’asta. Per la gestione artistica e finanziaria i dodici formarono una società, il cui regolamento, approvato in novembre, rimarrà poi definitivamente in vigore: scopo della gestione era quello di allestire nel teatro opere ‘regie’ in musica degne della città e del patriziato romano, senza cercare un lucro ma solo obbligandosi a bilanci in pareggio affinché i soci non subissero danni economici e rinunziando, proprio come oggi recentissime disposizioni impongono alle associazioni culturali, alla divisione di ogni eventuale utile, che doveva essere impiegato nell’attività successiva. Va pur detto che questa soluzione era per l’epoca straordinariamente moderna ovvero, per usare un termine più consono, ‘illuminata’, in quanto utile in termini ragionevoli e concreti al decoro civile, all’onesto diletto, alla promozione delle arti belle. Forse i nuovi proprietari furono impietosi col povero conte Alibert, che morirà dimenticato e in totale miseria, ma certo si resero meritevoli di plauso agli occhi della città e del governo. La curia, che fin dalla sua costruzione aveva favorito questo teatro ‘filopontificio’ in 29

In un importante articolo di Rosy Candiani (ROSY CANDIANI, Il mestiere di «poeta del teatro»: la produzione di Pietro Metastasio durante il soggiorno a Roma, in Il melodramma a Roma tra Sei e Settecento, a cura di Saverio Franchi, «Roma moderna e contemporanea», IV, 1996, pp. 143-165) si suppone che il ristabilimento a Roma del Metastasio abbia avuto come probabile incentivo l’amichevole protezione del cardinal Ottoboni che, veneziano di nascita, può aver incontrato il poeta nei suoi soggiorni nella città lagunare. Certo Ottoboni è una figura di mecenate di primissimo piano per la musica, il teatro, le lettere e le arti nel mezzo secolo dal 1690 al 1740; sicuramente era anche, da quasi trent’anni, uno dei patroni dell’Arcadia e, quanto ai rapporti di Metastasio con il teatro Alibert, il cardinale pur non avendo esercitato su quella sala alcun patrocinio era tuttavia ben presente agli spettacoli nel palchetto che aveva in affitto (nel 1729 era quello al numero 13 del II ordine secondo un interessante documento d’archivio relativo ai palchi del teatro che ho in animo di pubblicare [il documento non è stato poi pubblicato]). Quanto ai possibili incontri veneziani con Metastasio sembra che vadano esclusi. Dai documenti noti (si veda il ricchissimo regesto cronologico di documenti sul cardinale raccolto e pubblicato da FLAVIA MATITTI, Il cardinale Pietro Ottoboni mecenate delle arti. Cronache e documenti [1689-1740], «Storia dell’Arte», 84, 1995, pp. 156-243) nel 1725 l’unico viaggio di Ottoboni fu un breve soggiorno alla Santa Casa di Loreto alla fine di giugno, mentre nel 1726 egli fu effettivamente a Venezia, partendo da Roma il 17 luglio e tornandovi il 7 gennaio 1727, ma come diremo appresso è difficile che in quei mesi Metastasio sia stato a Venezia. Dunque, se contatto vi fu l’unica sede possibile è Roma nel corso del 1724; oppure occorre rimandare i rapporti di Metastasio con il cardinale al Componimento sacro del gennaio 1728, quando ormai da un anno Metastasio risiedeva stabilmente a Roma.

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contrapposizione al ‘filoimperiale’ Capranica, appoggiò pienamente la svolta, anche con la sollecitudine dei suoi organi giudiziari ed esecutivi. La riapertura prevista per la stagione di carnevale del 1726 doveva mandare segnali espliciti del rinnovato corso del teatro e insieme della sua funzione, per dir così, ‘istituzionale’. Oltre al rinnovato patrocinio dello Stuart, che rappresentava il mai abbandonato sogno politico dei papi per la restaurazione di una dinastia cattolica sul suolo britannico (e come «Giacomo III re della Gran Brettagna» figurava il patrono sul frontespizio dei libretti), si cercò dunque un contatto con l’‘istituzione’ per eccellenza nell’ambito della cultura romana: l’Arcadia. Un filo non troppo nascosto lega la stagione veneziana del 1725, dove Metastasio aveva presentato sotto il nome di Artino Corasio Pastor Arcade la sua Didone nel teatro di S. Cassiano (il più antico teatro pubblico d’Italia per l’opera in musica), e quella romana del 1726, dove la stessa Didone inaugurò il rinnovato teatro già del conte Alibert con la regia del medesimo poeta. Sul frontespizio del libretto campeggiava anche questa volta il suo nome arcadico. Così Metastasio, nel nome dell’accademia alla quale si era dapprima accostato e poi, per le narrate vicende, allontanato, tornava a brillare nel cielo romano. E fu un trionfo. L’atmosfera ben preparata, la sala rinnovata (il palcoscenico era stato ampliato di dieci metri), la nuova splendida musica di Leonardo Vinci, del tutto congeniale al dramma metastasiano, la magnifica compagnia di canto, tutto contribuì al successo. Ne fu testimone il dotto gesuita Giulio Cesare Cordara, allora giovane professore di retorica a Viterbo: «Il popolo dimenticò per allora i pregiudizi del Gravina, che si dicevano passati nel suo figliolo adottivo, ed assordito dall’incanto dell’opera non pensò all’autore. Ogni scena fu un continuo batter di mani». All’aria con cui Didone fronteggia da donna e da regina il tracotante Iarba la «commozione della platea» esplose: «Tale fu il grido, che parve si schiantasse dai suoi cardini il teatro». 30 Metastasio, che per la rappresentazione aveva apportato qualche riuscita modifica al suo dramma, ebbe in compenso un orologio d’oro del valore di 65 scudi.31 Il clima ‘arcadico’ della stagione fu confermato da Domenico Sarro, compositore della seconda opera rappresentata (Il Valdemaro): proprio durante quel soggiorno romano Sarro ottenne di essere ascritto all’Arcadia; dell’essere uno dei pochi musicisti associati alla celebre accademia menò gran vanto: il libretto del Valdemaro cita infatti il compositore dell’opera come «Domenico Sarro, tra gl’Arcadi Daspio, vice-maestro della R. Capp. di Napoli». 32 Infine va ricordato il nuovo nome del 30

Il passo del Cordara è citato da Giosuè Carducci (GIOSUÈ CARDUCCI, Opere, vol. XV, Bologna, Zanichelli, 1905, p. 248) e dal Brunelli (Tutte le opere cit., vol. I, p. 1386). 31 ALBERTO DE ANGELIS, Il teatro Alibert o delle Dame (1717-1863), Tivoli, Chicca, 1951, p. 145. Sulle modifiche di Metastasio all’opera: CANDIANI, Il mestiere cit., pp. 148-152. 32 Oltre ad essere stato il primo compositore che aveva posto in musica la Didone metastasiana, Sarro doveva forse agli occhi degli Arcadi prendere il posto del defunto Alessandro Scarlatti, che era stato accolto in Arcadia all’inizio del secolo, quando era virtuoso del cardinal Ottoboni, e che malgrado la sua successiva ininterrotta fedeltà ai viceré austriaci di Napoli era stato tanto stimato da Clemente XI da essere fatto cavaliere dello Speron d’Oro. Sarro invece nei difficili anni del passaggio di Napoli dal dominio spagnolo a quello austriaco era stato apertamente filoborboni-

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teatro. I proprietari, volendo dare anche in questo il senso di un nuovo ciclo ed anche per far dimenticare il nome dell’infelice costruttore da loro espropriato, ribattezzarono la sala Teatro delle Dame. Altrove 33 avevo ricollegato il nuovo nome alla dedica rivolta alle dame dal conte d’Alibert nello spettacolo che nel 1717 aveva inaugurato il teatro. Ora mi sembra proponibile tener conto della dedica della Didone nella rappresentazione veneziana, dedica rivolta da Metastasio alle dame di quella città. Alle dame soprattutto e alla loro femminile sensibilità era adatta quella Didone «regina e amante», sola sovrana del suo regno e del suo cuore (memorabile dichiarazione protofemminista che aveva condotto l’opera al trionfo), con cui ora si riapriva nel segno del poeta alla moda la maggiore sala romana. Quanto all’altra, il Capranica, non era restata inerte di fronte al rinnovato splendido impegno dei rivali. Il nuovo proprietario Camillo Capranica chiamò invece come impresario Polvini Faliconti, che già aveva dato ottima prova di sé al Teatro della Pace. Polvini, alla guida del Capranica nel triennio 1726-1728, riuscì a\\ fronteggiare la concorrenza del Teatro delle Dame con risultati notevoli.34 Sarà in seguito il primo impresario del nuovo teatro Argentina e infine del ricostruito Teatro Tordinona. Le opere in musica da lui allestite nei quattro diversi teatri che diresse nel corso della sua vita furono quasi tutte splendide, accolte da successo; le sue capacità nelle scelte artistiche e nell’organizzazione degli spettacoli furono considerate di prim’ordine. Insomma Polvini fu uno dei maggiori impresari del secolo. In una lettera scritta da Vienna all’amico violoncellista Peroni qualche anno dopo Metastasio diede di lui una definizione famosa: «Ma un’opera? Madre di Dio! Che seccatura di polmoni! Lo dica il signor Pulvini Falliconti, ch’è stato sempre l’ortolano di Parnaso». Come non pochi dei suoi colleghi, l’«ortolano di Parnaso» offriva bensì al pubblico i buoni frutti del co, pagando questa scelta di campo con una lunga esclusione dagli incarichi alla corte vicereale. Ultimamente, nel migliorato clima politico, era riuscito a farsi apprezzare dal cardinal Cienfuegos, plenipotenziario austriaco alla S. Sede ma spagnolo di nascita, e anche a Napoli i governanti riconobbero i suoi meriti quando, morto il maestro della cappella reale Alessandro Scarlatti il 22 ottobre 1725 e promosso al suo posto Francesco Mancini, l’incarico di vicemaestro già di Mancini fu dato a Sarro. Quando Sarro fu aggregato all’Arcadia erano morti i musicisti Arcadi più famosi (Corelli, Pasquini, Scarlatti) e restavano in vita solo il violinista Valentini (da giovane anche poeta) e l’ex cantore pontificio Adami, peraltro da tempo dedito a studi di erudizione storico-antiquaria. 33 FRANCHI, Drammaturgia romana II cit., p. 213. 34 Nel 1726 il nuovo impresario, con abile mossa, chiamò a Roma Albinoni (unica presenza romana nella lunga attività del musicista veneziano), proprio il compositore della Didone metastasiana nella versione che aveva trionfato a Venezia. Ad Albinoni fu affidata la seconda opera di carnevale, che fu la Statira, mentre per la prima fu chiamato, quasi a contrapporsi a Vinci e Sarro, un altro compositore dello stile napoletano, Leonardo Leo, che pose in musica un vecchio famoso libretto di Stampiglia, la Camilla. Nei rapporti con i due compositori Polvini si valse di potenti patroni, i cardinali Coscia e Ottoboni. Ad Ottoboni Polvini era legato da anni, avendo gestito il teatro Pace del quale Ottoboni era affittuario e patrocinatore; e ancora più importante fu la protezione di Coscia, che era il favorito di papa Benedetto XIII e in breve divenne l’uomo più potente di Roma. Coscia, che era di Benevento e di inclinazione filoimperiale, fece venire da Napoli Leonardo Leo, musicista da lui favorito.

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Parnaso poetico e musicale (e insieme non sgraditi frutti d’un buon lucro agli artisti), ma il favore popolare non lo salverà dal fallimento ed anch’egli morirà tra i debiti.35

Figura 4: PIER LEONE GHEZZI, L'impresario teatrale Giuseppe Polvini Faliconti in un disegno caricaturale (penna e inchiostro bruno). (BAV, Ottob. Lat. 3115, c. 177r). Da: GIANCARLO ROSTIROLLA, Il “Mondo novo” musicale di Pier Lorenzo Ghezzi, Milano, Skira - Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, [2001], foto 118, p. 133. 35

Era nato a Camerino nel 1673 e all’inizio del Settecento si era stabilito a Roma per esercitarvi la professione di procuratore legale, avendo studio e abitazione in via Frattina. I suoi contatti con il mondo artistico furono probabilmente dovuti al fratello Alessandro, appassionato di architettura (nel 1702 ottenne il secondo premio nel concorso di architettura indetto dall’Accademia di S. Luca; dopo di lui, al terzo posto, si classificò un architetto che diventerà famoso, Gabriele Valvassori). Frequentando i teatri Polvini divenne noto al cardinal Ottoboni il quale gli affidò la gestione del teatro Pace, allora in suo possesso. Così Polvini lasciò via Frattina e nel 1719 si trasferì in via di Tor Millina, vicino al teatro, e dal 1720 al 1724 vi produsse un’attività di opere in musica di tutto rispetto, che valse a lanciarlo. Così, senza mai lasciare del tutto il teatro Pace, assunse la gestione del Capranica e, negli anni Trenta del secolo, quella dell’Argentina e del Tordinona. Proprio a Metastasio rimanda la memorabile stagione del 1735 al Tordinona: l’Olimpiade con musica di Pergolesi e il Demofoonte con musica di Ciampi, i due più patetici libretti scritti dal poeta a Vienna e subito da Polvini riproposti a Roma tra «il vespaio di questi nostri inquietissimi abatini, la gara delle belle cacciatrici, il calor delle fazioni, la molteplicità dei giudizi e quel bulicame universale che costì si risveglia in somigliante stagione», come bene immaginava Metastasio stesso scrivendo in quei giorni da Vienna all’amico Peroni (lettera n. 88 dell’8 gennaio 1735 in Tutte le opere cit., vol. III, p. 119). Polvini morì il 22 gennaio 1741 lasciando «un’eredità abbondantissima di debiti» (FRANCESCO VALESIO, Diario di Roma, a cura di Gaetana Scano con la collaborazione di Giuseppe Graglia, vol. VI, Milano, Longanesi, 1979, p. 433). Un’ultima curiosità sull’«ortolano di Parnaso» (così definito nella lettera n. 62 del 18 settembre 1733, Tutte le opere cit., vol. III, p. 93): il suo nome completo era Giuseppe Polvini Faliconti. Certo Faliconti sembra un soprannome, e quanto adatto ad un impresario! Così fu inteso dagli stessi suoi contemporanei; ma era un vero secondo cognome, portato non solo da lui ma da tutti i suoi parenti (SAVERIO FRANCHI-ORIETTA SARTORI, Polvini Faliconti, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXIV, 2015, pp. 662664; ORIETTA SARTORI, Nomen omen: Polvini Faliconti impresario del Settecento romano, «Recercare» XXIX/1-2, 2017, pp. 101-150).

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Subito dopo il gran successo della Didone Metastasio partì con la sua Marianna Benti Bulgarelli per Venezia, dove in una stagione tutta metastasiana nel maggior teatro della città, il S. Giovanni Grisostomo, il suo Siroe andò «alle stelle», com’egli stesso scrisse al fratello.36 La musica era anche questa volta di Vinci, il compositore a lui più congeniale. Poi per alcuni mesi del 1726 non si hanno documenti diretti sui movimenti del poeta; si sa solo che alla fine dell’anno era di certo a Napoli.37 Nella fase più intensa dei rapporti amorosi con la Bulgarelli è però credibile che il poeta l’abbia seguita nelle tappe della sua professione di virtuosa di canto, in città dove liberamente potevano manifestare la loro intimità, mentre a Roma essa andava dissimulata per il rispetto delle convenienze dovuto alla sede della Chiesa cattolica (la Bulgarelli era sposata e Metastasio aveva fin dal 1714 preso gli ordini minori); infatti a Roma, come ha dimostrato il Celani, i due amanti non vissero mai nella stessa casa. Se dunque Metastasio seguì la cantante, fu dapprima a Reggio, dove il 29 aprile ella cantava in un’opera di Vincenzo Chiocchetti, 38 poi in estate a Napoli dove il 28 agosto la “Romanina” era prima donna nel Sesostrate rappresentato al S. Bartolomeo per festeggiare il compleanno dell’imperatrice. La musica era di Johann Adolf Hasse, il “Sassone”, già allievo di Alessandro Scarlatti ed ora al suo debutto sulle scene napoletane. La cantante e Metastasio non dovrebbero essersi mossi da Napoli per tutto il periodo da agosto 1726 a gennaio 1727. A Napoli dovevano essere in ottobre per le prove dell’Ernelinda di Vinci, andata in scena al S. Bartolomeo il 4 novembre, rimanendovi poi per le prove dell’Astarto di Hasse, rappresentatovi in dicembre. In entrambe le opere la Bulgarelli fu la prima donna. Vinci e Hasse: quanto dire i musicisti prediletti da Metastasio, Vinci all’epoca anche in collaborazione diretta, Hasse in future collaborazioni nell’età matura di entrambi, poeta e compositore.39 Infine nel gennaio 1727 andò in scena al S. Bartolomeo il Siroe, che 36

Lettera da Venezia del 16 febbraio 1726 (Tutte le opere cit., vol. III, p. 45). L’altra opera della stagione, il Siface, era pure un suo lavoro quantunque, per essere nato come rifacimento d’un libretto altrui, il poeta lo considerasse opera spuria («non è mio, benché non credo che vi sia rimasto alcun verso del primo autore. Per esser mio avrebbe dovuto essere da me da bel principio immaginato», lettera del 29 giugno 1772, Tutte le opere cit., vol. V, p. 171). La musica del Siface fu di Porpora. In entrambe le opere la Bulgarelli fu la prima donna e Nicola Grimaldi il protagonista. 37 Nella lettera che scriverà alla Bulgarelli da Vienna il 23 febbraio 1732, il poeta ricorda di aver assistito insieme a lei alla prova della commedia di Fagiuoli Il Cicisbeo sconsolato in casa dell’abate Andrea Belvedere, suo procuratore per i beni di Napoli. Poiché la commedia del Fagiuoli fu rappresentata nel gennaio 1727, la prova di cui si parla nella lettera sarà della fine del 1726 (cfr. BENEDETTO CROCE, I teatri di Napoli, Napoli, Pierro, 1891, p. 295; CELANI, Il primo amore cit., p. 253). 38 Molto apprezzata fin dalla Didone interpretata nel teatro di Reggio l’anno prima, la Bulgarelli fu nominata «virtuosa di camera» della principessa Carlotta Aglae nuora del duca di Modena, titolo con il quale appare non solo nel libretto dell’Andromaca di Chiocchetti ma anche in quelli delle opere interpretate a Napoli nell’inverno 1726-1727. Al titolo certo corrispondeva, secondo l’uso dell’epoca, qualche onorevole emolumento. 39 Nella relazione presentata al convegno metastasiano del 1983 all’Accademia dei Lincei, Nino Pirrotta pensava che Metastasio avesse conosciuto Hasse (e la sua musica) solo a Vienna dopo il

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degnamente concludeva la carriera della Bulgarelli con una nuova interpretazione dell’opera dell’amato Metastasio, questa volta con la musica di Sarro: questa fu l’ultima apparizione sulle scene della celebre virtuosa, che per amore abbandonerà la professione, per seguire il suo poeta a Roma dove le donne non erano ammesse sul palcoscenico. Infatti i due partirono in fretta da Napoli, dove era nato il loro amore e dove non torneranno più, per recarsi a Roma, dove l’11 febbraio 1727 andò in scena al teatro delle Dame il medesimo Siroe, questa volta con la musica di Porpora, ma ovviamente senza la Romanina. Neppure a Roma mancò il successo; anzi fu tale che le monache di S. Maria in Campo Marzio ottennero dal cardinal vicario che alcuni cantanti e strumentisti si recassero nel loro monastero per una speciale replica delle migliori arie dell’opera. 40 Da Roma Metastasio non si muoverà più per due anni, fino alla partenza per Vienna. Sul teatro delle Dame, dove dalla stagione seguente il poeta opererà stabilmente anche nelle funzioni di regista, in ciò felicemente coadiuvato dalla Bulgarelli,41 vi è ancora da dire qualcosa. Forse spaventati dalle ingenti spese per i lussuosi allestimenti, alcuni comproprietari del teatro si ritirarono dalla società e dal condominio nel corso del 1726, tanto che in breve padroni del teatro rimasero solo cinque comproprietari: Paolo Maccarani, Ferdinando Minucci, Giacomo de Romanis, il gran priore dell’Ordine di Malta Antonio Vaini e suo fratello monsignor Filippo. A guidare di fatto l’attività furono il marchese Maccarani (soprattutto per la parte artistica) e Minucci (soprattutto per quella economica). Di entrambi ho dato notizie biografiche in un mio volume; 42 qui perciò basterà ricordare che il primo era di una famiglia di mezzana nobiltà, romana ma oriunda fiorentina, fin dal medio Seicento appassionata di musica e spettacoli, poi rimasta legatissima al teatro Alibert per tutto il Settecento e ancora nell’Ottocento, impegnandovisi direttamente nella gestione fino a forme di vero e proprio impresariato; Minucci invece, nato a Livorno, era di origini borghesi se non plebee, ma con abilità e ingegno da «povero giovane» commesso di banca era a sua volta divenuto ricchissimo banchiere, disponendo alla morte di un capitale di 150.000 scudi. In questa coppia che diresse il teatro delle Dame negli anni romani di 1730 (NINO PIRROTTA, I musicisti nell’epistolario di Metastasio, in Atti dei convegni Lincei. Convegno indetto in occasione del II centenario della morte di Metastasio, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1985, pp. 245-256: 253). Per quanto detto si può invece presumere che l’incontro tra i due artisti sia avvenuto nel 1726 a Napoli, e a quell’epoca potrebbe pure rimontare la reciproca stima. Circa il Sesostrate va notato che era già stato rappresentato nello stesso teatro di San Bartolomeo nel maggio dello stesso 1726 e tanto piacque da essere replicato il 28 agosto. La compagnia di canto era identica, salvo la Bulgarelli che prese il posto di Margherita Gualandi. 40 VALESIO, Diario cit., vol. IV, p. 779; DELLA SETA, I Borghese cit., p. 197. 41 Già per l’edizione romana del Siroe la Bulgarelli si sarebbe presa cura «dell’allestimento e della preparazione dei musici» (CANDIANI, Il mestiere cit., p. 153; cfr. DE ANGELIS, Il teatro cit, p. 146: la Bulgarelli avrebbe anche dato consigli di gestualità «femminile» al castrato Giacinto Fontana detto «il Farfallino»; peraltro quest’ultimo era già esperto per proprio conto avendo cantato in parti femminili fin dal 1712, cfr. BIANCAMARIA BRUMANA, Il cantante Giacinto Fontana detto Farfallino e la sua carriera nei teatri di Roma, in Il melodramma a Roma cit., pp. 75-108). 42 FRANCHI, Drammaturgia romana II cit., pp. XLIX-LV.

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Metastasio si può ammirare una bella concordia fra esponenti di classi diverse, e quindi di diversa formazione e attività, uniti dall’amore per l’opera in musica e per una moderna proposta di civile operosità in campo artistico. La successiva attività di Metastasio a Roma è scandita dalle rappresentazioni dei sette nuovi lavori ch’egli scrisse in quegli anni: – Palazzo della Cancelleria, 2 gennaio 1728 Componimento sacro per la festività del SS. Natale, «poesia del signor abbate Pietro Metastasio Romano fra gli Arcadi Artino Corasio», fatto eseguire dal cardinal Ottoboni con musica di Giovanni Costanzi per l’annua riunione dell’Arcadia in onore del Bambin Gesù suo patrono celeste; – Teatro delle Dame, 19 gennaio 1728 Catone in Utica, «tragedia per musica di Artino Corasio P. A.», prima rappresentazione dell’opera, musica di Leonardo Vinci; – Teatro delle Dame, 2 gennaio 1729 Ezio, «drama per musica di Pietro Metastasio frà gli Arcadi Artino Corasio», musica di Pietro Auletta (un compositore favorito dal cardinal Coscia), rappresentazione curata e diretta dal Metastasio, che fu invece assente a quella allestita dal poeta–impresario Domenico Lalli a Venezia nel teatro di S. Giovanni Grisostomo 42 giorni prima dell’edizione romana; 43 – Teatro delle Dame, 6 febbraio 1729 Semiramide riconosciuta, «drama per musica di Pietro Metastasio fra gl’Arcadi Artino Corasio», rappresentato con la regia di Metastasio e la musica di Leonardo Vinci; 44 – Palazzo Altemps, 26 novembre 1729 Componimento dramatico, «poesia del sig. abbate Pietro Metastasio», fatto eseguire con musica di Vinci dal cardinal Melchior de Polignac, plenipotenziario del re di Francia alla S. Sede, per festeggiare la nascita del Delfino; 45 43

Per questa nuova opera di Metastasio ci fu dunque una vera gara tra i maggiori teatri di Roma e Venezia; nella Serenissima, dove la stagione degli spettacoli cominciava a novembre, non fu difficile per l’impresario Lalli battere sul tempo i gestori del teatro delle Dame; a Roma infatti le recite non potevano cominciare prima della licenza concessa dal governatore, e comunque in Avvento e fino a Santo Stefano erano proibite. A Venezia Lalli presentò l’Ezio con la musica di Porpora il 20 novembre 1728, dedicandolo al conte d’Harrach viceré di Napoli. Sintomatica dell’urgenza con cui i padroni del teatro delle Dame allestirono la propria messa in scena dell’opera – che ritenevano «autentica» e ufficiale per la presenza di Metastasio – è la data della «prima», il 2 gennaio, che anticipò di un giorno l’editto del governatore, pubblicato il 3 gennaio. Giovò anche la dedica dell’opera al potente cardinal Coscia, il quale influì sul riluttante pontefice per autorizzare il governatore a dare il via agli spettacoli senza restrizioni di sorta (salvo quelli nei collegi, che in quell’anno furono proibiti). 44 Anche quest’opera fu data quasi contemporaneamente a Venezia, come secondo spettacolo della stagione, probabilmente qualche giorno prima che a Roma, sempre a cura di Domenico Lalli nel teatro S. Giovanni Grisostomo e con la musica di Porpora. 45 Questo componimento è più noto con il titolo La Contesa de’ Numi, con il quale compare nelle edizioni successive. Così doveva chiamarsi anche nel libretto pubblicato a Roma ma, come riferisce Rosy Candiani (CANDIANI, Il mestiere cit., p. 163), i Numi o la loro contesa non piac-

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– Teatro delle Dame, 2 gennaio 1730 Alessandro nell’Indie, «drama per musica di Pietro Metastasio tra gli Arcadi Artino Corasio», rappresentato con la regia di Metastasio e la musica di Vinci; – Teatro delle Dame, 4 febbraio 1730 Artaserse, «drama per musica di Pietro Metastasio tra gli Arcadi Artino Corasio», rappresentato con la regia di Metastasio e la musica di Vinci, e nello stesso carnevale 1730 rappresentato anche al S. Giovanni Grisostomo di Venezia con musica di Hasse.

Non mancano accurati studi critici su questi lavori metastasiani; in particolare il Componimento sacro per il cardinal Ottoboni è stato studiato da Franco Piperno,46 l’Ezio da Elena Sala di Felice,47 l’Alessandro da Reinhard Strohm; 48 a tutti i melodrammi di Metastasio per il teatro delle Dame sono pure specificamente rivolti un breve saggio di Nino Pirrotta e il più ampio studio di Rosy Candiani.49 Sulla Contesa de’ Numi 50, il più notevole cenno critico è ancora della Candiani. 51 Ai contributi critici citati si possono qui aggiungere solo brevi osservazioni, sempre fatte nell’ottica del contesto storico e della concreta attività teatrale. Innanzi tutto va sottolineata l’esperienza, che mi sembra un caso unico nella storia dell’opera, di un poeta che scrive i suoi drammi perché siano rappresentati quasi contemporaneamente in due diversi teatri di due diverse città, con musica di diversi compositori e ovviamente con compagnie di canto completamente differenti. Considerando poi che le due città erano Roma e Venezia, quanto dire le capitali del quero al S. Offizio, onde l’anodina intestazione di Componimento dramatico. Meno problemi ebbe a Venezia l’ambasciatore francese conte Languet de Gergy che il 16 ottobre dello stesso 1729 fece eseguire nel suo palazzo la serenata Il Concilio de’ Pianeti, con musica di Albinoni, sempre per festeggiare la nascita del Delfino. 46 FRANCO PIPERNO, Il Componimento sacro per la festività del SS. Natale di Metastasio-Costanzi: documenti inediti, in Metastasio e il mondo musicale, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze, Olschki, 1985, pp. 151-169. Altri riferimenti alle fonti e alla letteratura alle pp. 237 e 240 della mia Drammaturgia romana II e in CANDIANI, Il mestiere cit., pp. 146-147. 47 ELENA SALA DI FELICE, L’«Ezio» del Metastasio, in Orfeo in Arcadia. Studi sul teatro a Roma nel Settecento, a cura di Giorgio Petrocchi, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1984, pp. 4762. 48 REINHARD STROHM, L’«Alessandro nell’Indie» del Metastasio e le sue prime versioni musicali, in La drammaturgia musicale, a cura di Lorenzo Bianconi, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 157-176. 49 NINO PIRROTTA, Metastasio e i teatri romani, in Le Muse galanti. La musica a Roma nel Settecento, a cura di Bruno Cagli, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1985, pp. 23-34; CANDIANI, Il mestiere cit. 50 Nel 2006 l’Accademia Nazionale di S. Cecilia ha pubblicato la riproduzione facsimile della Contesa de’ numi dall’edizione di Antonio de’ Rossi (1729). 51 CANDIANI, Il mestiere cit., pp. 163-164: vi si sottolinea il recupero di idee e immagini dalle precedenti esperienze (serenate e drammi), soprattutto dal Componimento sacro, in un tono asciutto e in una dimensione «atemporale» del tutto diversi dal contesto spettacolare delle manifestazioni festive promosse da Polignac, per le quali si veda il commento di MICHELE RAK in La Festa a Roma, catalogo della mostra a cura di Marcello Fagiolo, vol. I, Torino, Allemandi, 1997, pp. 197198.

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melodramma, e che i due teatri, quello delle Dame a Roma e il S. Giovanni Grisostomo a Venezia, erano i più grandi e prestigiosi delle rispettive città, si ha il senso del primato che Metastasio era giunto ad esercitare con i suoi drammi per musica sulla scena italiana, con gli inevitabili riflessi europei che ne seguirono. Eppure dal suo esordio in campo teatrale non erano passati neppure cinque anni: si accresce così la meraviglia intorno a tanto successo, che certo l’autore seppe sapientemente costruirsi una volta deliberato, con l’abbandono della professione legale avviata nello studio napoletano dell’avvocato Castagnola, di ritornar poeta, e poeta di teatro, e in tal modo prendersi piena rivincita sulla sconfitta dei suoi progetti al tempo degli amori per Rosalia Gasparini. Roma e Venezia: ma non appena il crescente plauso e gli opportuni preparativi lo consentirono Roma fu la sede prescelta dal poeta per la sua stabile residenza e per una stabile collaborazione con il teatro delle Dame, ormai volutamente ed orgogliosamente noncurante dei nemici d’un tempo e delle male lingue del presente. Prudente però, come nel suo carattere: se, salvo il rispetto della forma, lasciò che si chiacchierasse sul suo rapporto con una ‘canterina’ sposata e più vecchia di lui, fu certo ben contento di non rischiare un incontro anche fortuito con Rosalia; ma la giovane fin dal 1722 aveva lasciato Roma con l’odiato marito. Quanto al padre di lei, Francesco Gasparini era vecchio e malato: come si è visto, cacciato nel 1720 dal teatro Alibert si era ridato al partito avverso, contando sull’appoggio del suo nuovo patrono, il filoaustriaco principe Borghese; partito quest’ultimo per Napoli come viceré, Gasparini aveva cercato il patrocinio del munifico cardinale portoghese José Pereira de Lacerda; infine, in un ultimo sussulto, aveva di nuovo cambiato campo ottenendo dal cardinal Polignac (quello della futura metastasiana Contesa de’ Numi) l’incarico di porre in musica un componimento per le nozze di Luigi XV (palazzo Altemps, 25 settembre 1725): ma la sua musa era agli sgoccioli e la serenata «riuscì malinconica». 52 Nel giugno 1726 il suo stato di salute gli impediva ormai di lavorare e la Basilica Laterana, dove era maestro, fu costretta a nominare un sostituto (Girolamo Chiti). Il 22 maggio 1727 Gasparini morì e certo con lui sparirono per Metastasio le ultime ombre di un passato che intendeva recidere dalla coscienza se non addirittura dalla memoria. 53 Come ha osservato Rosy Candiani,54 l’aver ristabilito la sua fissa dimora a Roma significò per Metastasio da un lato la rinunzia a seguire di persona gli allestimenti dei suoi drammi nei diversi teatri d’Italia e dall’altro una «ricerca del consenso del mondo accademico e letterario», in omaggio al quale si compiva «un gesto di 52

VALESIO, Diario cit., vol. IV, p. 584. Al riguardo va citato un notevole episodio di molti anni dopo. Il 6 gennaio 1772 scriveva da Vienna al fratello Leopoldo: «Non saprei dove domine avete mai ripescato il sonetto che mi trascrivete. Io non ho la minima reminiscenza d’averlo mai letto, non che composto» (Tutte le opere cit., vol. V, p. 133). Si trattava del sonetto in lode di Gasparini, scritto nel momento più fervido dell’amore per Rosalia e degli ambiziosi progetti che ad esso si legavano. Il Brunelli così ha commentato: «È singolare l’affermazione del M. di non avere “la minima reminiscenza” di averlo scritto nonché letto» (ivi, p. 771). 54 CANDIANI, Il mestiere cit., pp. 147-148. 53

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distacco dalla vita teatrale dei propri lavori». Dunque, ancora una volta, il rapporto con l’Arcadia. Del resto tutti i suoi melodrammi dell’epoca, come si è visto, recavano sul frontespizio il suo nome arcadico e certo una sorta di riconoscimento ufficiale fu la sontuosissima esecuzione del Componimento sacro per la riunione dell’Arcadia sotto il patrocinio del cardinal Ottoboni. Orbene, questa riunione con cantata per il Bambin Gesù si faceva alla Cancelleria tutti gli anni fin dal 1716, sempre sotto il patrocinio del munifico cardinale: ma in tanti anni questa fu la più solenne e memorabile, con orchestra di ben 52 elementi e magnifico apparato visivo dello scenografo Alessandro Mauro, questa fu l’unica per la quale fu stampato il testo poetico della cantata. 55 Fra l’altro l’esecuzione di questo componimento, che rappresenta il momento di maggiore affermazione di Metastasio in seno all’Arcadia lungo il corso di un rapporto complesso e difficile, fu quanto mai tempestiva: il vecchio Crescimbeni era malato e forse assente; due mesi dopo, alla sua morte, scoppiarono nuove liti per la successione alla guida dell’accademia tra gli ex– graviniani e i fedelissimi alla linea del defunto custode.56 Metastasio per parte sua aveva già risposto: pochi giorni dopo la sua cantata alla Cancelleria andava in scena al teatro delle Dame il suo Catone, esplicito omaggio al suo maestro in consapevole riaggancio alla giovanile elegia in terzine dantesche La morte di Catone, l’una e l’altra ispirate ai modelli di libertà civile cari a Gravina. 57 Quanto alle rappresentazioni veneziane dei suoi melodrammi «romani», Metastasio fu indubbiamente abilissimo. Se tollerò che Domenico Lalli (alias Sebastiano Biancardi, alias Ortanio P. A.), «direttore delli Teatri Grimani», allestisse con ogni disinvolta libertà di interventi e modifiche i suoi drammi nel teatro di S. Giovanni Grisostomo, è pur vero che così si spogliava d’ogni responsabilità al riguardo di fronte ai letterati e al pubblico di Venezia; con il risultato che qualche anno dopo sarà proprio un editore veneziano (Giuseppe Bettinelli) a chiedergli i testi autentici delle sue opere per un’edizione a cura dell’autore.58 D’altronde la tolleranza mostrata nei 55

L’elegante edizione, stampata da Antonio de Rossi, tipografo dell’Arcadia e di Ottoboni, è ornata da varie incisioni di Vincenzo Franceschini, riproducenti l’apparato scenico e la «gran machina di nuvole» dell’introduzione cantata dal Genio Celeste. 56 Una sintesi della nuova lite in ACQUARO GRAZIOSI, L’Arcadia cit., pp. 31-32. 57 La Morte di Catone è riportata in Tutte le opere cit., vol. II, pp. 760-764. Come ha notato il Gavazzeni, il giovanile poemetto, dopo il solenne esordio narrativo, diviene «così gremito di interrogazioni, di risposte, di esitazioni, di sentenze, da trasformare l’elegia in un frammento melodrammatico» (GAVAZZENI, Studi metastasiani cit., p. 28). Non sarà dunque casuale il ritorno sul medesimo personaggio e sulla medesima tematica politico-morale nel Catone in Utica del 1728, questa volta un vero melodramma, quasi una conciliazione fra un soggetto caro al Gravina e una forma artistica, l’opera in musica, che il Gravina disapprovava ma che corrispondeva al vero genio del suo allievo. 58 La prima edizione dei drammi metastasiani (ovviamente limitata alle prime opere dell’autore) fu quella del libraio romano Pietro Leone, di cui parla lo stesso Metastasio nelle lettere a Bettinelli del 14 giugno 1732 e del 28 febbraio 1733 (Tutte le opere cit., vol. III, pp. 66-67 e 79-80). Malgrado il poeta se ne lamenti («con mio infinito rammarico», «piena d’errori ed in forma assai ordinaria»), l’edizione di Leone non sembrava un abuso giacché condotta sulle prime edizioni romane dei singoli libretti, che erano state pubblicate dal medesimo Leone. Egli infatti fu il maggior edito-

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confronti di Lalli non sarà stata senza opportuni compensi, dal momento che era Metastasio stesso ad inviare i suoi testi drammatici al poeta-impresario del S. Giovanni Grisostomo. E tanto il poeta era consapevole di questo «doppio gioco» di lavorare per due città contemporaneamente da riuscire a blandire entrambi i pubblici, lusingandone l’orgoglio cittadino: quello romano nell’Ezio con le vedute del Foro e del Campidoglio, degne prospettive per le glorie del generale romano, quello veneziano con la lode a «un popolo d’eroi» che dalle acque fece sorgere mura «di marmi adorne e gravi», unendo «con cento ponti e cento | le sparse isole».59 La stagione del 1729 al teatro delle Dame, con l’Ezio e la Semiramide, fu l’ultima ad essere gestita direttamente dai proprietari. I loro crescenti impegni e forse ancor più lo stesso successo ottenuto, che causava aspettative sempre maggiori e una massa di rapporti e operazioni sempre più fitta, suggerirono a Maccarani, a Minucci e ai loro soci di affittare il teatro ad un impresario. Il prescelto fu quel Francesco Cavanna che Metastasio nomina nella lettera con cui ho iniziato questo lungo intervento. Nell’epistolario del poeta il «nostro carissimo signor Cavanna» ritorna più volte e sempre in termini di grande simpatia, sia per augurargli il buon esito degli spettacoli, sia per dolersi, dopo un esito negativo, delle «maladette vicende de’ teatri» («un niente gli esalta ed un niente gli atterra»). Una volta gli scrisse personalmente 60 perché l’impresario gli aveva chiesto di persuadere Carlo Broschi, il celebre «Farinelli», ad accettare le condizioni proposte dallo stesso Cavanna per una scrittura. Metastasio provò per due volte, ma invano: Broschi preferì andare a Venezia, dove evidentemente Lalli lo pagava di più; e fece bene perché in quella stagione tutti i teatri di Roma rimasero chiusi per una nuova «questione dei palchetti». Tanta amicizia tra Metastasio e Cavanna sarà nata sull’onda dell’ottima stagione del 1730, con le due opere nuove (l’Alessandro nell’Indie e l’Artaserse) accolte da gran successo: poeta e impresario costituirono insieme a Vinci, che di entrambe le opere fece la musica, un trio artistico-teatrale davvero ben affiatato. Ma forse, al di là della collaborazione, c’era qualche cosa di più. Nel contratto del 31 gennaio 1729 con il quale i proprietari del teatro delle Dame, rappresentati da Minucci, davano in locazione il teatro per ben nove anni «a fine di farvi recitare opere regie in musica» (contratto peraltro dettagliatissimo e ricco di documenti allegati ben al di là dell’uso consueto di questi affitti teatrali), si nomina come locatore il solo «sig.r Francesco Cavana figlio del quondam Domenico Milanese»; così pure la notizia è data dai giornali dell’epoca. Invece Francesco Valesio, autore di un diario privato molto bene re di libretti teatrali dell’epoca (un ruolo analogo ebbe a Venezia Marino Rossetti) e fece stampare tutti quelli dell’Alibert dall’inaugurazione del teatro al 1732 (cfr. FRANCHI, Le impressioni sceniche cit., pp. 404-440, in particolare pp. 416, 434-437). Ma si sa, per Metastasio anche le precise parole da lui medesimo fatte cantare sul palcoscenico dell’Alibert non costituivano una versione «autentica» e tanto meno definitiva, poiché pur sempre legate all’effimero della rappresentazione teatrale con i condizionamenti di tutte le sue circostanze concrete. 59 Così per primo aveva notato Filippo Clementi (Il Carnevale romano nelle cronache contemporanee, vol. II, Città di Castello, R.O.R.E.-Niruf, 1938, p. 42), osservazione poi ripresa e ampliata da PIRROTTA, Metastasio cit., p. 28. 60 Lettera da Vienna del 24 maggio 1732 (Tutte le opere cit., vol. III, p. 64).

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informato e libero dalle pastoie della ufficialità, riferendo alla data del 3 febbraio 1729 l’avvenuto affitto novennale del teatro aggiunge che «gli nuovi impresari sono Millesi, corriero di Venezia, Porzio, Cavana e Vinci». 61 Anche un altro documento d’archivio si riferisce ad una obbligazione a favore di Cavanna e di suoi soci, non citati però per nome. 62 Dunque Cavanna era rappresentante di una società per gestire il teatro e i nomi dei soci riportati dal Valesio sono molto interessanti: mentre Andrea Porzio era il legale di uno dei comproprietari (il gran priore dell’Ordine di Malta Antonio Vaini) e forse figurava nella società per tutelare gli interessi del suo patrono, Vinci non può non essere Leonardo Vinci, cioè il compositore che ormai dal 1724 era presente in tutte le stagioni dell’Alibert. La sua presenza nella società di gestione giustifica l’insolito fatto che nella stagione del 1730 entrambe le opere, contro il costume dell’epoca, siano state poste in musica da un unico compositore, cioè dallo stesso Vinci. Rimane lo sconosciuto Millesi, definito «corriero di Venezia». Questo Millesi ricompare nell’epistolario di Metastasio, significativamente proprio nella citata lettera dal poeta inviata a Cavanna («È qui il nostro Millesi, ma io lo vedo poco perché sono occupatissimo, ed egli abita fuori città»). 63 Riflettendo su queste notizie si può provare a darne una interpretazione complessiva. Innanzi tutto, se i comproprietari del teatro delle Dame avevano deciso di darlo in gestione certo dovevano avere grande fiducia nell’affittuario; sembra perciò strano che ad uno sconosciuto Cavanna, ammesso pure che fosse benestante e quindi solvibile, si desse il teatro per il quale si erano fatti tanti sforzi e sacrifici senza una precisa garanzia umana e artistica della sua serietà e capacità. Ma negli annali di tutti i teatri d’Italia questo Cavanna è ignoto. Possibile che ci si fidasse di un personaggio che fino ad allora non aveva mai fatto l’impresario teatrale? E ancora, bisogna presupporre una assoluta convinzione da parte dei proprietari circa la bontà del negozio, tanto da stipulare in fretta (la stagione 1729 era ancora in corso) un contratto di ben nove anni, per di più rinnovabile tacitamente di altri tre anni in tre anni al di là della scadenza. Ecco che la società ch’era dietro le spalle di Cavanna giunge opportunamente a giustificare un comportamento dei proprietari che altrimenti sembrerebbe improvvido (ma certo non era uno sprovveduto il finanziere Minucci, che di lì a poco sarà nominato tesoriere dal nuovo papa Clemente XII e che come si è già visto proprio per la sua oculatezza negli affari da «povero giovane di Livorno» era divenuto uno dei maggiori capitalisti di Roma): la presenza dell’avvocato Porzio, e per suo tramite del ricchissimo priore Vaini, era la migliore garanzia economica e 61

VALESIO, Diario cit., vol. V, p. 14. Per questo documento, come per il contratto e le fonti giornalistiche coeve si veda FRANCHI, Drammaturgia romana II cit., pp. LIII-LIV. 63 Lettera da Vienna del 24 maggio 1732 (Tutte le opere cit., vol. III, p. 64). Salvo la scempia anziché la doppia elle nel cognome, costui ricompare ancora in una lettera del 28 settembre 1751 e sempre connotato da un possessivo: «Conviene perfettamente con l’idea che mi ha lasciata del gentil suo costume l’obbligante attenzione del mio signor Milesi nel parteciparmi il suo felice arrivo in cotesta corte» (Tutte le opere cit., vol. III, p. 673). La lettera è inviata da Metastasio a un abate Milesi, con tutta probabilità parente dell’omonimo di nostro interesse, che si era stabilito a Dresda. 62

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insieme un punto di controllo della proprietà (esercitabile con occhio giuridicamente esperto) all’interno della stessa società di gestione; la presenza di Vinci garantiva invece (come di fatto avvenne per la stagione 1730) la sicura collaborazione del musicista di maggior successo, con tutti i vantaggi che ne derivavano nella scelta e nell’ingaggio dei virtuosi di canto. Vinci era il compositore ideale per i drammi di Metastasio, e Metastasio era stato il cavallo vincente sul quale i proprietari dell’Alibert avevano puntato non appena il teatro nel 1725 era passato nelle loro mani. Ma allora, si dirà, sarebbe stata garanzia ancora maggiore se nella società che affiancava Cavanna ci fosse stato lo stesso Metastasio. Assicurarsi Metastasio e Vinci per nove anni: un colpo magistrale. Metastasio non figura e invece troviamo il nome del «corriero di Venezia» Millesi. Che ruolo poteva avere costui in una società teatrale? Immaginiamo che questo Millesi fosse per così dire il prestanome del poeta. Certo di ciò non vi è alcuna traccia nei documenti; ma per quanto azzardata l’ipotesi non mi sembra da scartare, almeno in attesa di trovare qualche notizia in più sul misterioso Millesi. L’ipotesi consente inoltre raccordi di qualche suggestione: nei suoi rapporti riservati con Lalli e il teatro di S. Giovanni Grisostomo di chi si sarà servito Metastasio se non appunto di un «corriero di Venezia»? Come mai scrivendo a Cavanna dirà «il nostro Millesi»? «Nostro», dunque suo e di Cavanna; e ancora vent’anni dopo lo chiamerà «il mio signor Milesi». Quando nel settembre 1729 seppe di essere stato scelto dall’imperatore come poeta cesareo, Metastasio certo fu lusingato dal riconoscimento, ma come egli stesso scrisse fu colto di sorpresa. Se l’ipotesi proposta fosse veritiera, quella bella notizia veniva a scompigliare progetti di lunga durata che lo legavano a Roma, progetti che peraltro possono giustificare la totale rinunzia alle scene fatta dalla Bulgarelli. Come rispose Metastasio alla proposta che Carlo VI gli aveva fatto su suggerimento di Zeno e di Marianna Pignatelli contessa d’Althann? Chiese piuttosto sfacciatamente l’onorario di 4000 fiorini annui, ch’era quello percepito da Zeno, più vecchio di lui di trent’anni. Ne ottenne 3000 e si contentò, ma certo per meno a Vienna non sarebbe andato. Nella lettera di accettazione, datata 3 novembre 1729, chiese però tempo per partire, giacché si trattava della «variazione di tutte le misure mie», della necessità di «dar ordine agl’interessi domestici [...] e, finalmente, per adempiere all’obbligo di mettere in scena due miei drammi nuovi in questo teatro di Roma, contratto quando non ardiva di augurarmi l’onore de’ comandi augustissimi». 64 Francamente sembra un cumulo di pretesti: gli serve tempo, questo sì, ma qual’era la vera ragione? Un librettista dell’epoca a novembre doveva aver già scritto i libretti per la stagione di carnevale; e ammessa la necessità di qualche giorno in più avrebbe sempre potuto mandarli a Roma per corriere. Proprio il corriere ci riporta l’ipotesi «azzardata»: se Millesi era un prestanome o comunque il rappresentante di Metastasio nella società che aveva preso in gestione il teatro delle Dame, allora sì che occorreva tempo per sciogliersi dagli impegni, in ogni caso bisognava almeno attendere il felice esito della prima delle nove stagioni previste. 64

Tutte le opere cit., vol. III, p. 48.

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Quando nel marzo 1730 Metastasio partì per Vienna l’intricato nodo probabilmente non si era ancora sciolto. Questo spiegherebbe perché il 9 marzo, in procinto di lasciare Roma, egli con atto del notaio Orsini abbia voluto conferire un’amplissima procura generale alla Bulgarelli.65 Con la morte improvvisa e inattesa di Vinci (28 maggio 1730) la società di Cavanna venne meno del tutto e forse Metastasio, al di là delle espressioni affettuose e di stima per l’amico scomparso, tirò un sospiro di sollievo. Le successive amichevoli preoccupazioni per i problemi impresariali di Cavanna come pure la buona volontà nel provare a mandargli il Farinelli nascondevano forse una dose di cattiva coscienza. Certo a Vienna non si aspettavano che il poeta, al quale la proposta di nomina era stata mandata fin dal 31 agosto 1729, non avrebbe assunto servizio neppure in tempo per il carnevale 1730. Fu così che come spettacolo di carnevale si dovette riprendere un’opera di molti anni prima, La Verità nell’inganno, andata in scena il 5 febbraio nel teatro di corte. Fece bene Metastasio, che giunse a Vienna il 17 aprile, a farsi almeno precedere dal libretto della Passione di Gesù Cristo Signor Nostro, che fu il primo suo lavoro per la corte imperiale. Nei primi versi che mirabilmente esprimono lo smarrimento di San Pietro – Dove son? Dove corro? Chi regge i passi miei? Dopo il mio fallo Non ritrovo più pace; Fuggo gli sguardi altrui: vorrei celarmi Fino a me stesso. In mille affetti ondeggia La confusa alma mia. Sento i rimorsi, Ascolto la pietade; a’ miei desiri Sprone è la speme, è la dubbiezza inciampo: Di tema agghiaccio, e di vergogna avvampo 66

– si può forse cogliere l’affanno di un altro «ingratissimo Pietro», il poeta stesso, in un momento decisivo della sua vita. Se i rapporti con l’imperatore e la corte, principiatisi con così poca sollecitudine, fossero andati per il peggio, se le opere da scrivere a Vienna non fossero piaciute, quanto si sarebbe pentito di aver lasciato Roma! Ma quella partenza aveva sciolto un altro nodo intricato: quello dei suoi rapporti sentimentali. È inutile ripetere qui quanto altri hanno già egregiamente detto: Metastasio andando a Vienna si liberò della Bulgarelli. Non la vedrà mai più. Trincerandosi dietro la volontà dell’imperatore fu ben lieto che la donna non potesse metter piede nelle terre dell’Impero e non venisse a turbare i delicati compiti del poeta cesareo, peraltro sempre più confortato dall’altra e ben più potente Marianna, la contessa d’Althann dama favorita dell’imperatrice. Certo a suo modo voleva bene 65

Archivio di Stato di Roma, Notai del Tribunale delle Acque e Strade, atti Francicus Nicolaus Ursinus, vol. 142, cc. 55-56 e 80-81. All’atto, rogato nella casa della Bulgarelli al Corso all’angolo di via Laurina, furono testimoni il poeta Giovanni Bernardino Pontici e un Carlo Mossi probabilmente parente dei violinisti Bartolomeo e Giovanni Mossi. 66 Tutte le opere cit., vol. II, p. 551.

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PATRONI, POLITICA, IMPRESARI

alla Bulgarelli e non poteva non serbar riconoscenza a quella donna, a quell’artista che di lui aveva fatto il più grande poeta teatrale d’ogni tempo. Ma la psicologia di Metastasio («ingratissimo Pietro!») prendeva forme sottili di rimozione e di dissimulazione, nella sua mente e forse nel suo «debole, ingrato cor» giocavano pesi e contrappesi ch’egli stesso ignorava o voleva ignorare. Perché la Bulgarelli non partì con lui? perché rimanere sola a Roma dove tra l’altro non poteva cantare? perché poi, dopo soli tre mesi, mettersi in viaggio per raggiungerlo a Vienna? Di nuovo l’azzardata conclusione della società impresariale con Cavanna potrebbe spiegare tutto. Dapprima Marianna rimase a Roma per coprire l’amato, che perciò le fece la procura generale; e a ciò probabilmente la Bulgarelli era motivata dall’aver spinto Metastasio nel legarsi definitivamente a Roma, cioè a lei; ma poi la morte di Vinci alla fine di maggio mandò definitivamente per aria la società con Cavanna e allora ella si sentì libera di raggiungere a Vienna l’amato poeta. Ma giunta a Venezia le fu proibito di proseguire. Non è escluso che in questa faccenda la Bulgarelli per liberare Metastasio dagli impegni romani ci abbia rimesso di tasca propria. Il nobile disinteresse con cui in futuro il poeta ne rifiuterà l’eredità (quando ormai non ne aveva più bisogno) può nascondere questo ed altro. Certo, ogni passaggio di questa fase biografica del poeta poteva recargli danni, fastidi, sconfitte; invece tutto congiurò per il meglio e alle sue scelte di vita e di attività arrisero ogni volta il successo, la tranquillità, la soddisfazione. Ben si applica allo stesso autore una quartina del Demofoonte: Tutto si muta in breve, E il nostro stato è tale, Che, se mutar si deve, Sempre sarà miglior. 67

Nei decenni seguenti su questi fatti girava una singolare versione. Il sopranista bergamasco Filippo Finazzi, che aveva interpretato Selene nell’edizione romana della Didone abbandonata del 1726, narrava viaggiando per l’Europa centrale con la compagnia Mingotti che quell’opera famosa era in realtà la storia stessa di Metastasio e della Bulgarelli, con la cantante-regina che aveva raccolto a Cartagine (Napoli) l’«esule infelice» poeta, ma che questi per il destino che lo chiamava nella futura sede dei Cesari (in realtà all’autentica corte cesarea dell’epoca) l’aveva abbandonata ed ella ne era morta di sdegno e di dolore. Non mancava neppure un tentato suicidio con un coltellino 67

Demofoonte, atto terzo, scena ottava (Tutte le opere cit., vol. I, p. 686). Proprio questi versi citerà Metastasio stesso in una lettera al fratello, parlando della propria fortuna, che dal male volgeva le cose al bene (lettera n. 108 del 7 aprile 1736, Tutte le opere cit., vol. III, p. 139). Il poeta aveva sulla propria vita idee ben chiare. Fa impressione leggere nella citata giovanile lettera da Napoli del 23 dicembre 1719 come già a quell’epoca, quando nulla lo faceva presupporre, Metastasio immaginava che, non potendo aver successo a Roma, lo avrebbe cercato a Vienna dove si sarebbe stabilito («volendo io esentarmi di qui, e non potendo sperare in Roma alcun incamminamento fin che dura questo vento, passerò ultra montes, per cercare ove far nido, e probabilmente a Vienna», Tutte le opere cit., vol. III, p. 21). E a Vienna andrà, dopo essersi tolto la soddisfazione di aver pieno successo e «incamminamento» a Roma.

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SAVERIO FRANCHI

quando ebbe ricevuto l’ordine di non entrare nei domini imperiali. Finazzi lavorò anche ad Amburgo (1743-44, cantando da protagonista nell’Artaserse metastasiano) e così si spiega come mai Lessing abbia accolto questa versione nel suo libro di memorie.68 Che la Didone, cioè il più grande successo della vita sia per Metastasio che per Marianna, abbia poi determinato il destino dei due amanti è bella, suggestiva favola propalata da un altro artista di teatro. Che ci sia stato un abbandono è fuor di dubbio, ma vedere il razionalissimo e piuttosto egoista Metastasio nelle vesti del pius Aeneas, l’eroe altruista e religioso, mosso da sogni e visioni fino alla discesa nell’aldilà, è davvero una stonatura. Del resto anche la Bulgarelli nel ruolo di Didone rimase ben lontana da Virgilio, come peraltro lontano ne resta tutto il melodramma metastasiano. Ma qui ci soccorre un’osservazione critica desanctisiana: La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono soverchiate da impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di Didone qui trovi l’Armida del Tasso messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca qui cede il posto alla donna terrena come l’ha abbozzata il Tasso in questa delle sue creazioni la più popolare, una vera orchestra da cui scappan fuori i più varii e concitati suoni della passione femminile, tenerezze, malizie, smanie, furori. 69

Dunque Didone come Armida. E del personaggio di Armida la Bulgarelli era davvero una specialista: giovanissima aveva cantato come protagonista in una Armida abbandonata (Venezia, teatro S. Angelo, autunno 1707, poesia dell’abate Francesco Silvani, musica di Giovanni Maria Ruggieri) e dodici anni dopo nella stessa opera al Real Palazzo di Napoli (primo ottobre 1719, musica di Michele Falco). A quell’epoca Metastasio viveva già a Napoli, né si può escludere che fosse presente allo spettacolo.70 Ma in fondo questo non è determinante, perché comunque fu dovuto a lei, la virtuosa di canto già innamorata del giovane poeta, se quel capolavoro fu poi scritto e rappresentato, dando luogo a quella catena di eventi biografici e artistici che hanno dato materia a questo contributo.

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Così riferisce Enrico Celani (CELANI, Il primo amore cit., p. 259). FRANCESCO DE SANCTIS, Pietro Metastasio, in La poesia cavalleresca e scritti vari, a cura di Mario Petrini, Bari, Laterza, 1954, p. 202. 70 Sicuramente era nella «gran sala» del Palazzo Reale esattamente un anno dopo, per la rappresentazione del Tito Manlio (primo ottobre 1720), della quale riferisce l’esito sfavorevole all’avvocato d‘Aguirre (lettera da Napoli del 29 ottobre 1720, Tutte le opere cit., vol. III, p. 33). Anche nel Tito Manlio prima donna era la Bulgarelli, e Metastasio si mostra molto interessato alle vicende teatrali malgrado parli di «noiosissimo soggiorno». 69

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Stefania Onesti MUZZARELLI COREOGRAFO DALL’ITALIA A VIENNA. CONTINUITÀ O ROTTURA? Dopo aver lavorato in Italia (tra Venezia, Firenze, Roma e altre città), Antonio Muzzarelli si trasferisce a Vienna nel 1791, dove resta fino al 1803, a parte per una pausa tra il 1796 e il 1799. 1 Al volgere del nuovo secolo presenta a Vienna La danzatrice ateniese, nel 1802, e dopo sporadiche apparizioni in Italia (1804, Firenze e Bologna; 1807 Torino; 1810 Venezia), vi ritorna per proporre l’ultima sua produzione a noi nota, Gustavo Vasa del 1811, e trascorrervi gli ultimi anni di vita, fino alla morte, sopraggiunta nel 1821. 2 Nella capitale austriaca, affiancato dalla moglie, Antonia Vulcani, e dal fratello di quest’ultima, Andrea Vulcani, ripropone, almeno per i primi anni, titoli già collaudati del suo repertorio. In lui testimoni come Cornelius von Ayrenoff3 e il conte Zinzendorf 4 vedono rinascere il balletto secondo lo stile e il gusto noverriani, ma la sua formazione e attività in Italia, oltre che a Vienna, lasciano trasparire anche altro. Anticipiamo le nostre conclusioni: diversamente da quanto Ayrenoff e Zinzendorf scrivono, a noi pare che Muzzarelli sappia accogliere gli aspetti migliori tanto di Noverre quanto di Angiolini, dei quali è un conoscitore. E non ci pare affatto che introduca grandi differenze nei suoi balletti quando lavora nella capitale austriaca rispetto a quando allestisce i suoi spettacoli in Italia, circostanza del resto comprensibile quando si constati come i grandi coreografi del tempo sono estremamente mobili, essendo ingaggiati da diverse capitali europee dello spettacolo e dunque possono trarre ispirazione da diversi artisti e da varie modalità rappresentative. Forse, l’unico cambiamento di un certo peso nell’opera di Muzzarelli nel passaggio dall’Italia a Vienna riguarda i soggetti rappresentati, “selezionati” e adattati, presumibilmente, in risposta alle aspettative di un pubblico inevitabilmente diverso: un 1

Su Antonio Muzzarelli cfr. JOHN ARTHUR RICE, Muzzarelli, Koželuh e La ritrovata figlia di Ottone II (1794): il balletto viennese rinato nello spirito di Noverre, «Nuova rivista musicale italiana» 1, gennaio-marzo 1990, pp. 1-46; STEFANIA ONESTI, Di passi, di storie e di passioni. Teorie e pratiche del ballo teatrale nel secondo Settecento italiano, Torino, Accademia University Press, 2016, in particolare le pp. 149-164 a lui dedicate. 2 Per una biografia maggiormente dettagliata cfr. la voce Muzzarelli, Antonio curata da RITA ZAMper il Dizionario Biografico degli Italiani: <http://www.treccani.it/enciclopedia/antonioBON muzzarelli_(Dizionario-Biografico)> (ultima consultazione 5 gennaio 2019). 3 Al confronto fra Muzzarelli, Noverre e il giovane Salvatore Viganò, Ayrenoff dedica un intero scritto: Uber die theatralischen tanze, und die balletmeister Noverre, Muzzarelli und Viganò, edito a Vienna nel 1794. 4 Dopo aver assistito all’Ines de Castro, Vienna 1791, Zinzendorf scrive: «Ce dernier est dans le gout des ballets de Noverre, les habillemens magnifiques, les decorations belles». Vienna, Haus-, Hof-, und Staatsarchiv, Diario del Conte Zinzendorf, 15 e 19 novembre 1791, citato in RICE, Muzzarelli, Koželuh e La ritrovata figlia di Ottone II cit., p. 11. Su Zinzendorf cfr. DOROTHEA LINK, Vienna’s Private Theatrical and Musical Life, 1783-92, as Reported by Count Karl Zinzendorf, «Journal of the Royal Musical Association» 122/2, 1997, pp. 205-257. 119


STEFANIA ONESTI

pubblico “popolare” in Italia, un pubblico di corte a Vienna.5 Se in Italia le preferenze di Muzzarelli sembrano orientate soprattutto verso soggetti di ispirazione letteraria e a lui “contemporanea” (attinge a Voltaire e a Goldoni, per esempio), a Vienna più spesso (e comunque non esclusivamente) si concentra su soggetti di ispirazione mitologica e relativi alla storia del passato. Quindi accanto a titoli come Il capitano Cook all’isola degli Ottaiti, ispirato alle vicende dell’esploratore britannico James Cook, e a La ritrovata figlia di Ottone (conosciuto anche come L’Adelasia), 6 rappresenta anche Ines de Castro, Arminio ossia La sconfitta di Varo, Il ratto d’Elena, L’incendio e la distruzione di Troia, La danzatrice ateniese, fino ad arrivare a Gustavo Vasa (vedi tabella 1). A questo sembrano limitarsi le differenze tra i balli italiani e austriaci. Tutte le altre caratteristiche tipiche dell’opera di Muzzarelli paiono ritrovarsi nei due paesi. La prima: i personaggi, che siano figure del popolo o regali, sono latori di azioni pervase da sentimenti che appartengono a tutti, come diversi indizi fanno supporre. In primo luogo, presentando al pubblico veneziano una delle versioni dell’Adelasia, Muzzarelli osserva come il suo primo intento sia stato di «richiamare colle voci della natura il core umano» e «interessarlo con la vivacità degli spettacoli»;7 sostanzialmente, nell’Adelasia mette in scena il contrasto di passioni che animano la protagonista divisa fra i doveri di figlia e di sposa. Non molto differente quanto Muzzarelli scrive sul ballo Igor primo Zar di Moscovia, rappresentato al San Benedetto di Venezia nel carnevale 1786. La semplicità del medesimo [ballo] m’ha fatto esitare qualche poco sulla scelta. Privo di spettacolose morti, dello squallore delle carceri, di furie, e strepitosi avvenimenti, ho dubitato, che si scostasse dal consueto. Rammentandomi per altro, che l’esponevo ad un pubblico illuminato, e sensibile, ho creduto più opportuno eccitare i moti dell’anima coll’interesse delle più naturali passioni, che sorprenderlo cogli eccessi del furore, e della barbarie. 8

Analoghe le ragioni che guidano Muzzarelli nella messa in scena del Beverlei o sia il giuocatore inglese, in cui sono protagonisti gli «avvenimenti lagrimevoli a’ quali è ridotta una infelice privata famiglia» 9 (Venezia, 1787). In vicende di questo tipo il 5

Sulla vita teatrale viennese del periodo cfr. almeno DOROTHEA LINK, The National Court Theatre in Mozart’s Vienna: sources and documents 1783-1792, Oxford, Clarendon Press, 1998. 6 Sull’Adelasia in particolare cfr. STEFANIA ONESTI, L’Adelasia di Antonio Muzzarelli. il ballo e le sue fonti tra poetica e prassi scenica, «Studi Goldoniani» XIII/5 n.s., 2016, pp. 127-135. 7 ANTONIO MUZZARELLI, Ottone II Imperatore d’Alemagna. Ballo eroico pantomimo, in FRANCESCO SALVINI, Il Ricimero. Drama per musica da rappresentarsi nel nobilissimo teatro di San Benedetto la fiera dell’Ascensione dell’anno 1785, in Venezia, appresso Modesto Fenzo, 1785, p. 23. 8 ANTONIO MUZZARELLI, Gli amori d’Igor Primo Zar di Moscovia. Ballo eroico pantomimo d’invenzione, e direzione del signor Antonio Muzzarelli esposto per la prima volta nel nobilissimo teatro di San Benedetto, in MARCO COLTELLINI, Ifigenia in Tauride. Dramma per musica da rappresentarsi nel nobilissimo teatro di S. Benedetto il carnovale dell’anno 1786, in Venezia, presso Modesto Fenzo, 1786, p. 26. 9 ANTONIO MUZZARELLI, Ballo primo. Il Beverlei o sia Il giuocatore inglese, in [GIOVANNI BERTATI], Il nuovo convitato di pietra. Dramma tragicomico da rappresentarsi nel nobile teatro di San Samuele il carnovale dell’anno 1787, in Venezia, appresso Modesto Fenzo, 1787, p. 38. 120


MUZZARELLI COREOGRAFO DALL’ITALIA A VIENNA

pubblico può riconoscersi e identificarsi: esse colpiscono la sensibilità degli spettatori attraverso le storie dei loro protagonisti. Altrettanto vale per i balli ottocenteschi di Muzzarelli. La danzatrice ateniese (Vienna, 1802),10 prende le mosse da un contrasto di passioni universalmente noto: si narra sostanzialmente dell’amore contrastato tra la giovane Cyane e Filinto. La sua nutrice, Afrodisia, vorrebbe che ella sposasse un pretendente ricco ma detestabile, mentre la giovane si innamora dello spasimante povero. Gustavo Vasa, allestito nel 1811,11 inizia invece con l’occupazione, da parte di Cristierno re di Danimarca, del trono svedese e racconta le gesta di Gustavo Vasa, legittimo successore al trono, per la riconquista del potere. Sebbene non vi sia un’ambientazione bucolica, Muzzarelli non tralascia di inserire personaggi umili, dei minatori, per conferire alla vicenda maggiore “umanità” e universalità e per fare del protagonista un liberatore dall’oppressione del re straniero, acclamato dal popolo. I minatori infatti accompagnano Gustavo nell’impresa e gli manifestano tutto il loro appoggio divenendo il suo esercito e aiutandolo a deporre Cristierno, il re usurpatore. Un’azione che fa perno sui sentimenti, piuttosto che su messe in scena spettacolari. Più rari in Italia sono i balli muzzarelliani di argomento mitologico, come il Castore e Polluce andato in scena a Faenza nel 1788. 12 In questi casi, che significativamente sono ripresi anche a Vienna (nella fattispecie, nel 1792), 13 le macchine volanti e le scenografie sono particolarmente ricche e articolate: le divinità ascendono al cielo, appaiono carri infernali attraverso non meglio precisate magie, le Furie e la Discordia compaiono come personaggi. Infine, nell’ultima scena vi è una vera e propria trasformazione a vista con Giove che «scende maestosamente dal cielo» trasfigurando l’atrio del palazzo di Leucippo nella sua reggia.14 Si tratta di un allestimento complesso e con personaggi che sono la personificazione di passioni (le Furie, la Discordia, ecc.). una pratica quest’ultima di influenza noverriana. Come è noto, Angiolini critica apertamente il suo rivale francese su questo punto. Per lo più questi balli di argomento mitologico nascono a Vienna, come nel caso di Coreso e Calliroe, datato 1795.15 Anche in questo caso il ballo termina con un prodigio ad opera di Bacco che rende la vita a Coreso e permette il lieto fine, contrariamente alla vicenda mitologica originaria da cui il coreografo trae ispirazione: «Ma 10

ANTONIO MUZZARELLI, La danzatrice ateniese. Ballo serio in cinque atti inventato e diretto da Antonio Muzzarelli, maestro di ballo presso la corte imperiale, Vienna, presso Mattia Andrea Schmidt, 1802. 11 [ID.], Gustavo Vasa. Ballo in cinque atti. Invenzione e composizione di Antonio Muzzarelli, Maestro di Ballo dell’I. e R. Corte, Vienna, presso Giov. Batta Wallischausser, 1811. 12 [ID.], Castore e Polluce, in EUSTACHIO MANFREDI, Cajo Ostilio. Dramma serio per musica di Eustachio Manfredi bolognese, da rappresentarsi nella primavera dell’anno 1788 in occasione dell’apertura del nuovo teatro di Faenza, in Faenza, nella Stamperia dell’Archi, 1788, pp. 47-52. 13 [ANTONIO MUZZARELLI], Castore e Polluce. Ballo eroico pantomimo da rappresentarsi nelli imperiali teatri di Vienna. Composto da Antonio Muzzarelli, in Vienna, [s.e.], 1792. 14 Ivi, p. 30. 15 [ID.], Coreso e Calliroe. Ballo eroico di nuova invenzione e composizione di Antonio Muzzarelli, in PIETRO METASTASIO, Achille in Sciro. Dramma per musica da rappresentarsi nelli reg. imper. teatri di corte l’anno 1795, Vienna, presso Mattia Andrea Schmidt, [1795], pp. 45-60. 121


STEFANIA ONESTI

all’improvviso trasformasi il bosco nella Reggia di Bacco. Comparisce Coreso pieno di vita. Calliroe è immersa nel più soave delirio, mentre l’ammirazione e l’allegrezza s’impadroniscono di tutti i cuori». 16 È del tutto verosimile che in un teatro di corte, com’è quello di Vienna, scenografie e costumi siano più lussuosi e costosi dati i fondi più cospicui di cui si può usufruire, ma, stando alle testimonianze del tempo, Muzzarelli, a prescindere dalla sontuosità e ricchezza dei coefficienti scenici, è attento alla loro armonizzazione fin dai tempi italiani: dal vestiario alla disposizione delle figure, alla scenografia. L’idea del balletto come un evento scenico coerente, in cui ogni parte viene messa in relazione con il tutto, aspirazione che percorre le Lettres noverriane tanto quanto le intenzioni di Angiolini, sembra trovare riscontro nei resoconti relativi alle messinscene di Muzzarelli tanto in Italia quanto in Austria. A proposito del ballo Le amazzoni (Firenze, 1779 ma ipotizziamo anche Vienna 1790) leggiamo che «il vestiario, l’esecuzione, la disposizione delle figure, l’armonia, e lo scenario» suscitano tanta ammirazione da produrre incessanti applausi. Il ballo viene percepito per l’insieme dei coefficienti che il coreografo ha saputo gestire bene sulla scena «ripieno di bellezza e magnificenza».17 Per i balli dati alla Pergola nel 1783 viene lodata la capacità del coreografo di costruire lo sviluppo dell’azione che risulta dinamica nel suo svolgimento, ma allo stesso tempo ben eseguita e precisa: «Il primo ballerino, che ha inventata e diretta una tal rappresentanza, non ha lasciato di porre in vaga forma tuttociò dovea conferire allo sviluppo dello spettacolo, essendo esso eseguito con la massima precisione e con tutti quelli abbellimenti, e varietà di scena, che facilmente s’insinuano, ed appagano, perché vivamente colpiscono la fantasia degli spettatori». 18 Per l’Adelasia leggiamo che il ballo «per la forza dell’espressione, vivezza dei quadri, ed aggiustatezza di decorazione richiama singolarmente l’attenzione di coloro che intendono la bellezza dell’arte mimica». 19 Strettamente connessa a questa caratteristica è la capacità di Muzzarelli di costruire lo sviluppo dell’azione in modo unitario e coinvolgente. Ayrenhoff, a tal proposito, dichiara che il coreografo dovrebbe mantenere un’«unità di intenti», vale a dire che «ogni scena dovrebbe contribuire al raggiungimento di un singolo obiettivo»20 portando appunto l’Adelasia di Muzzarelli come massimo esempio e parafrasando uno degli assunti principali delle Lettres di Noverre. In questo lavoro ogni scena è collegata alla successiva e l’alternanza di scene pantomimiche e d’insieme è magistralmente orchestrata. Analogo ragionamento potremmo fare per Gustavo Vasa. Costruito sulla medesima struttura dell’Adelasia, presenta una concatenazione convincente di quadri che conducono tutti alla soluzione finale del dramma. Tutta l’azione si 16

Ivi, p. 58. «Gazzetta Toscana» n. 18, 1779, Firenze 1 maggio, p. 71. 18 Ivi n. 1, 1783, Firenze 4 gennaio, p. 2. 19 Ivi n. 30, 1777, Siena 19 luglio, p. 119. 20 CORNELIUS VON AYRENHOFF, Uber die theatralischen tanze, und die balletmeister Noverre, Muzzarelli und Viganò, Wien, [s.e.], 1794, citato in JOHN ARTHUR RICE, Emperor and Impresario: Leopold II and the transformation of Viennese musical theatre, 1790-1792, Ph.D, University of California, Berkley, 1987, p. 214. Le traduzioni dall’inglese si devono a chi scrive. 17

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MUZZARELLI COREOGRAFO DALL’ITALIA A VIENNA

svolge tra Stoccolma e le sue vicinanze, alternando scene all’esterno e all’interno del palazzo o della città. Ai duetti dei personaggi spetta il compito di portare avanti l’azione, mentre il “corpo di ballo” celebra determinati passaggi narrativi attraverso azioni d’insieme maggiormente danzate. Se ciò è poi concretamente realizzato in scena, è per l’abilità di Muzzarelli di impiegare la pantomima nelle cui possibilità espressive il coreografo crede fino alla fine, come osserva nel programma di sala della Danzatrice ateniese, data a Vienna nel 1802: in «quel semplice insieme e finissimo ritrovato d’insinuare nell’animo altrui il vivo sentimento di tutte le passioni umane senza servirsi della parola, quella muta e viva eloquenza, che fedele imitatrice della natura sa rappresentare all’attonito spettatore colle tinte più vivaci d’una pittura animata il quadro delle vicende più strepitose». 21 Scopo nascosto del ballo La danzatrice ateniese, sembra infatti essere quello di rendere omaggio alla danza pantomima, erede, secondo Muzzarelli, della danza antica greca, come leggiamo dall’Avviso del programma, oltre che di istituire un paragone tra la cultura dell’antichità classica e quella viennese del tempo 22. E in effetti sin dalla prima scena intuiamo come l’assolo della danzatrice sia volto a dimostrare le potenzialità e capacità espressive del linguaggio coreutico pantomimo. Si presenta qui allora anche la Danzatrice Cyane, seguita dai suoi amanti Nicandro e Filinto, ed Anassagora fa distinguere a Pericle la sua abilità, che seppe sublimar la danza fino ad esprimere le misurate regole della geometria, gli orrori della tragedia, i vezzi della commedia, e le varie attitudini della scoltura. Queste prove rendono tutti incantati, ed impegnano Pericle ed Aspasia a protegger Cyane. 23

La fiducia nelle capacità espressive della pantomima è condivisa da Muzzarelli tanto con Noverre, quanto con Angiolini. Anche se in realtà Noverre nell’edizione del 1803 delle sue Lettere avanzerà dubbi e perplessità sulla possibilità di imitare il linguaggio pantomimico antico, esprimendo un punto di vista più critico e meno fiducioso a tal riguardo. Secondo Corenlius von Ayrenoff, Muzzarelli è particolarmente apprezzato anche per la capacità di innestare felicemente la danza all’interno dell’azione pantomima, senza interrompere quest’ultima ma, al contrario, rinforzandola, rendendola «parlante», per utilizzare una locuzione cara ad Angiolini, e funzionale all’espressione dei sentimenti dei protagonisti. Ecco cosa afferma a proposito della Ritrovata figlia di Ottone II ovvero L’Adelasia (Vienna, 1794) e di Ines de Castro (Vienna, 1792): Quando, nel secondo atto di Ottone, la regina e sua figlia danzano, ciò accade perché sopraffatte da sentimenti di gioia e per dare il benvenuto nel campo all’imperatore. L’azione tragica non è interrotta dunque, dal momento che la sua esposizione ha avuto 21

MUZZARELLI, La danzatrice ateniese cit., p. 5. Ivi, p. 8. Sul rapporto fra il ballo pantomimo e la saltatione antica cfr. CATERINA PAGNINI, Dalla Pantomima classica al ballet d’action, «Mantichora» 7, 2017, pp. 158-169 e ISMENE LADA RICHARDS, Dead but not Extinct: on Reinventing Pantomime Dancing in Eighteenth-century England and France, in Fiona Macintosh (ed. by), The Ancient Dancer in the Modern World. Responses to Greek and Roman Dance, Oxford, OUP, 2010, pp. 19-38. 23 MUZZARELLI, La danzatrice ateniese cit., p. 20. 22

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luogo nell’atto precedente; adesso è ferma, fino a che l’imperatore ritorna dalla caccia con i suoi prigionieri. Alla fine della scena della prigione in Ines, la breve danza per tutti coloro che sono in scena è come una effettiva espressione del loro piacere e della riconciliazione e della grazia del re. 24

Anche per L’incendio e la distruzione di Troia (Vienna, 1796), terza scena del primo atto, la danza assume questa funzione: «Menelao è cinto dai suoi alleati. Ciascuno gli contesta la brama di seco dividere i di lui torti, e in una danza analoga esprimono il piacere di vendicarli». 25 Così come sembrano particolarmente integrate all’azione le danze all’interno dell’Impostore punito, andato in scena in Italia nel 1787 26 e a Vienna nel 1793. 27 In quasi tutti gli atti il coreografo trova il modo di innestare dei momenti ballati che sottolineano il particolare carattere dell’azione in corso. Per esempio, nel primo atto una «divota danza» accompagna la discesa della Dea a cui tutti gli astanti si prostrano; 28 alla proclamazione della legge dell’impostore che ammette la poligamia, il «giubilo generale» si trasforma in un ballo connotato in senso maggiormente gioioso. 29 Nel terzo atto una danza definita «voluttuosa» 30 distrae Selimo, il figlio del re, dalle trame dell’impostore Barach; mentre nel quarto atto l’a solo ballato di Zelica serve a manifestare l’indecisione tra «l’amore verso Selimo, e la venerazione per l’impostore». 31 Anche nei balli ottocenteschi permane questa caratteristica, come dimostra la già citata prima scena della Danzatrice ateniese. La chiarezza con cui il coreografo conduce e sviluppa gli episodi dei suoi balli riuscendo ad innestarvi felicemente danza e pantomima in Italia quanto a Vienna, gli valgono una significativa definizione: «In quest’arte considererei Muzzarelli il Michelangelo della pantomima, mentre riterrei il forse più corretto ma meno ispirato Noverre il suo Raffaello». 32 Muzzarelli dimostra, inoltre, di utilizzare con particolare maestria i danzatori grotteschi, com’è noto non particolarmente amati da Noverre e invece assai apprezzati da Angiolini, innestandoli nelle azioni del ballo in modo, sembrerebbe, equilibrato. Nella Ritrovata figlia di Ottone II, il primo atto si apre su una scena bucolica in cui i due 24

AYRENHOFF, Uber die theatralische tanze, citato in RICE, Emperor and Impresario cit., p. 218. I corsivi sono di chi scrive. 25 [ANTONIO MUZZARELLI], L’incendio e la distruzione di Troia. Ballo eroico-tragico in cinque atti inventato e composto da Antonio Muzzarelli e rappresentato sugl’imperiali teatri di corte, Vienna, presso Mattia Andrea Schmidt, [1796], p. 14. 26 [ID.], Ballo primo. L’impostore punito. Ballo tragico pantomimo composto ed eseguito dal signor Antonio Muzzarelli nel nobil teatro di S. Samuele in Venezia il carnevale dell’anno 1787, in GIOVANNI GREPPI, Castrini padre e figlio. Dramma giocoso per musica di Florimondo Ermionèo P.A., da rappresentarsi nel nobile teatro di San Samuele il carnevale dell’anno 1787, in Venezia, appresso Modesto Fenzo, 1787, pp. 47-49. 27 [ID.], L’impostore punito. Ballo tragico-pantomimo in cinque atti da rappresentarsi negl’imperiali teatri di Vienna. Composto da Antonio Muzzarelli in attual servizio di S.M.I., in Vienna, [s.e.], 1793. 28 Ivi, p. 11. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 18. 31 Ivi, p. 22. 32 AYRENHOFF, Uber die theatralische tanze, citato in RICE, Emperor and Impresario cit., p. 220. 124


MUZZARELLI COREOGRAFO DALL’ITALIA A VIENNA

protagonisti sono affaccendati in diversi lavori campestri insieme ad altri contadini, interpretati da danzatori grotteschi. Tutti insieme danno vita ad una scena corale coreografata. Ayrenoff a tal proposito afferma: È evidente quanto siano utili questi personaggi […] dove come contadini hanno una parte ampia e attiva nell’azione. […] Desidero vedere banditi dalla pantomima eroica solo le acrobazie dei grotteschi, ciò nonostante Muzzarelli sa quando introdurli nella maniera più opportuna, nel momento in cui non interrompono l’azione tragica, come, per esempio, nell’Ines, quando sono introdotti prima dell’inizio dell’azione, e in Ottone, quando vengono inseriti dopo la sua conclusione. 33

L’ultima scena del ballo vede rientrare i contadini del primo atto che accorrono per festeggiare la riconciliazione fra Adelasia e il padre. La prima scena di Ines de Castro (Vienna 1791) si apre con una marcia trionfale che celebra le vittorie di Don Pedro, figlio del re di Portogallo Don Alfonso. Tra i vari prigionieri vi sono degli schiavi africani che, come apprendiamo dal libretto, sono interpretati da danzatori grotteschi. Anche in Gustavo Vasa possiamo ipotizzare un impiego di tale tipologia di interpreti. Come nell’Adelasia, il protagonista è travestito da paesano e si trova tra minatori intenti ai loro diversi impieghi. La scena dà luogo ad una danza ordinata dal capo dei minatori ai suoi uomini e alle donne presenti. Le fonti non permettono un riscontro puntuale; tuttavia presumiamo che anche in questo caso quelle dei minatori siano parti affidate ai grotteschi. Se così fosse, tali interpreti risulterebbero integrati lungo tutto il corso dell’azione, partecipando anche alla danza di festeggiamento finale che «spiega la pubblica gioia, nella quale la corte permette che si frammischino i buoni minatori». 34 Un passaggio che, a nostro parere, avvalora la commistione di ballerini seri (probabilmente i protagonisti e gli stessi cortigiani) e grotteschi (i minatori) all’interno della stessa scena. Se i danzatori italiani sono particolarmente forti nei caratteri grotteschi e se la troupe viennese di Muzzarelli è composta principalmente da italiani, sembra inevitabile che, almeno sotto questo aspetto, le coreografie di Muzzarelli a Vienna siano contraddistinte da un preciso contrassegno italianizzante. Per il resto, si può affermare che più numerosi (ma non esclusivi) sono i balli relativi alla storia passata e di argomento mitologico e che probabilmente per le scenografie, le macchine sceniche e i costumi c’è una maggiore disponibilità economica e dunque sono più lussuosi e ricchi. Per il resto, le differenze nei balli italiani e austriaci non paiono particolarmente rilevanti. Piuttosto, sembra di poter affermare che c’è una significativa continuità nella produzione di Muzzarelli.

33 34

Ivi, p. 219. MUZZARELLI, Gustavo Vasa cit., pp. 31-32. 125


STEFANIA ONESTI

APPENDICE

I balli di Muzzarelli a Vienna La tabella tiene traccia dei balli di Muzzarelli messi in scena a Vienna tra il 1791 e il 1811. Al titolo, prima colonna, seguono le date delle rappresentazioni viennesi e italiane (laddove presenti), rispettivamente seconda e terza colonna. Per redigerla sono stati utilizzati i libretti dei balli e il primo volume del testo di Franz Hadamovsky, Die Wiener Hoftheater (Staatstheater) 1776-1966. Verzeichnis der aufgeführten stüche mit bestandsnachweis und täglichem spielplan. 35 I titoli contrassegnati da asterisco sono quelli per cui è stato possibile rintracciare il libretto viennese. Tali fonti, solitamente, riportano il testo italiano con quello tedesco a fronte. Alcune corrispondenze fra le produzioni italiane e viennesi sono date come ipotesi e, per questo, inserite tra parentesi quadre.

Titolo

Rappresentazioni viennesi (Burgtheater)

Rappresentazioni italiane

Il capitano Cook all’isola degli Ottaiti*

1791 e 1792

Venezia, 1786 - Parma e Milano, 1789 - Roma, 1790

Ines de Castro*

1791 e 1792

Mantova, 1786

La capricciosa umiliata

1792

Venezia, 1786 - Firenze, 1788

Arminio ossia La Sconfitta di Varo*

1792

La forza del bel sesso

1792

Faenza, 1788

Vogelstelle

1792

Castore e Polluce*

1792

Faenza, 1788

Jahrmarkt [I diveritmenti?] 36 I volontari / Die freiwilligen L’impostore punito

1793

[Senigallia, 1783]

1793

Parma, 1789

1793

Venezia, 1787

Diana und Endymion

1793

Il giudice del proprio errore

1793

Torino, 1807

35

FRANZ HADAMOVSKY, Die Wiener Hoftheater (Staatstheater) 1776-1966. Verzeichnis der aufgeführten stüche mit bestandsnachweis und täglichem spielplan, teil 1, 1776-1810, Wien, Georg Prachner Verlag, 1966. 36 Nel 1783 al teatro di Senigallia Muzzarelli presenta come secondo ballo I falsi minori, o sieno I divertimenti. Dal momento che in entrambi i casi non possediamo alcun soggetto o argomento del ballo, ipotizziamo sulla base del titolo che possa trattarsi di un riadattamento dello stesso lavoro. Cfr. GIOVANNI DE GAMERRA, Medonte re dell’Epiro. Dramma per musica da rappresentarsi nel teatro dei cinque sigg. condomini di Sinigallia in occasione della fiera del corrente anno 1783, in Firenze, nella stamperia Bonducciana, 1783, p. 10. 126


MUZZARELLI COREOGRAFO DALL’ITALIA A VIENNA

L’Adelasia*

1794

La sconfitta delle amazzoni 37 Das Sinnbild des menschlichen lebens

1794

Genova, 1777 - Bologna, 1777 - Mantova, 1778 - Milano, 1779 - Palermo, 1780 - Firenze, 1782 - Venezia, 1785 Brescia, 1786 Milano, 1779

1794

Die Zigeuner

1794

Die Müller Die reue des Pygmalion Die Weinlese Coreso e Calliroe* Il ratto d’Elena* Die Unterhaltung auf dem lande

1794 1794 1794 1795 1795 1795

– – – – Bologna, 1804 - Padova, 1808 –

Der Mondsuchtige L’incendio e la distruzione di Troia* La danzatrice ateniese*

1795 1796

– –

1802

Venezia, 1810

1811

Alceste* Gustavo Wasa*

37

I balli che hanno per protagoniste le amazzoni sono molto comuni nella seconda metà del Settecento. Muzzarelli ne presenta diversi: La sconfitta delle amazzoni, Le amazzoni (Firenze, 1779); L’amazzone moderna (Brescia, 1786; Roma, 1790; Torino, 1790). Per un quadro maggiormente completo delle produzioni di Muzzarelli in Italia cfr. ONESTI, Di passi, di storie e di passioni cit., pp. 152-156. 127


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TESI ____________________________________________________________________

Maria Cristina D’Alessandro LA MONODIA ACCOMPAGNATA E L’INTRODUZIONE DEL GENERE RAPPRESENTATIVO A NAPOLI TRA LA FINE DEL CINQUECENTO E LA PRIMA METÀ DEL SEICENTO Il periodo di passaggio tra Cinquecento e Seicento costituì una svolta decisiva per la storia della musica: si chiuse definitivamente l’epoca rinascimentale e iniziò il nuovo mondo “barocco”; le conseguenze di tale transizione furono molteplici e travolsero le modalità di produzione e fruizione della musica stessa, nonché le scelte stilistiche e armoniche. Prima fra tutte fu la necessità di utilizzare un nuovo tipo di struttura musicale, individuata nella monodia con basso continuo, che scavalcò quasi del tutto il tradizionale stile polifonico-contrappuntistico in quanto risultava molto più adatta ad esprimere «il contenuto emozionale (e non soltanto il significato letterale) del testo poetico a cui era associata»: 1 la musica iniziava concretamente a porsi a servizio della parola per trarre da essa una maggiore intensità espressiva. Non a caso Claudio Monteverdi diede un’autorevole svolta alla cosiddetta “seconda prattica”, secondo la quale nell’«uso moderno», «l’armonia […] diventa serva al oratione, e l’oratione padrona del armonia», come sosteneva già Vincenzo Calmeta a inizio Cinquecento. 2 In secondo luogo, la musica monodica veniva arricchita grazie al nuovo stile concertante, che consisteva nel “mettere d’accordo” diversi elementi, quali voci e strumenti, oppure gruppi di voci, o insieme di strumenti. Una terza importante esigenza fu, invece, la tendenza alla rappresentatività in musica, ossia la propensione ad essere spettatori di vicende teatrali illustrate musicalmente: è doveroso non dare per scontato la presenza di un pubblico, in quanto nel Cinquecento coloro che assistevano ad un’esecuzione musicale erano semplici ascoltatori di una musica quasi sempre funzionale ad altri scopi e non fine a se stessa, come nel caso della musica cerimoniale – in cui essi erano i protagonisti della cerimonia stessa – o per quanto riguardava la musica per danza o per i banchetti, in cui essi erano coloro che danzavano o partecipavano ai banchetti stessi. D’altronde, non si può parlare di “pubblico” vero e proprio, secondo l’accezione moderna del termine, fino all’apertura all’opera, nel 1637, del Teatro San Cassiano a Venezia che determinò la nascita della cosiddetta opera

1

MARIO CARROZZO – CRISTINA CIMAGALLI, Storia della musica occidentale, 3 voll., Roma, Armando Editore, 1998, II, p. 12. 2 Cfr. VINCENZO CALMETA, Prose e lettere edite e inedite, a cura di Cecil Grayson, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959, p. 2. 129


MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO

impresariale con la conseguenza di un pubblico di persone più consapevole che iniziava a pagare un biglietto per vedere lo spettacolo. 3 Ciò non toglie che la quarta e fondamentale esigenza dell’epoca, nonché scopo essenziale di questa nuova musica monodica – d’ora in poi si parlerà di monodia accompagnata, per evidenziare la sua natura intimamente polifonica –, concertante e rappresentativa, fosse ‘muovere gli affetti’ degli ascoltatori. Il termine “affetto” va inteso come ‘stato d’animo’, ‘sentimento’, ‘passione’ tanto positiva quanto negativa, e ancora, ‘esaltazione dell’emozione’, ‘turbamento’, ‘commozione fino alle lacrime degli spettatori’. 4 La cosiddetta “teoria degli affetti” riprende, inoltre, due figure retoriche: la prima, l’hypotyposis, rappresentava le cose con le parole, in modo tale da farle sembrare più viste che sentite; secondo Susenbrotus, «è una figura che rende il discorso immediato e piacevole e può muovere qualunque affetto». 5 La seconda, la pathopoeia, significava proprio «tutta la varietà e mozione degli affetti» 6 derivante da circostanze, abitudini, persone e così via. Secondo Lausberg, infatti, «il grado di emozione più violenta si chiama pathos; l’effetto cui tende l’oratore, di provocare un’emozione violenta e sconvolgente che possa essere favorevole alla parte da lui rappresentata, si chiama movere (commovere, commuovere)»; tale sensazione si può pertanto ricreare «quando un testo viene interpretato dai semitoni in modo tale che nulla appaia di intentato per produrre gli affetti che esso esprime». 7 Per tali ragioni, sono considerate le figure retoriche più importanti del cosiddetto periodo barocco. Per quanto riguarda il primo punto, per monodia si intende una composizione per voce sola, «l’arte di cantar solo, con accompagnamento», 8 pratica che già esisteva durante il Cinquecento, in una prassi più privata e cortigiana, e in certe rappresentazioni teatrali; comunque e tuttavia arginata dalla pratica polifonica imperante di tradizione colta e scritta della cultura. A partire dalle intavolature di frottole per canto e liuto, talvolta si era soliti isolare la voce a cui era affidata la parte del canto dalla partitura a più voci, la quale veniva ridotta e le altre voci affidate agli strumenti, tramite intavolature per liuto, tiorba, chitarrone, arpa, cembalo, organo o altre tastiere. Il momento di svolta che ci consente di poter parlare di monodia accompagnata è dato dall’avvento e dallo sviluppo del basso continuo; la natura di questo basso d’accompagnamento era di «singola parte strumentale grave, sottoscritta alla melodia o all’insieme principale, stesa in forma sintetica, che l’interprete svolgeva ed integrava all’atto dell’esecuzione, ricomponendo all’improvviso un accompagnamento completo conveniente». 9 3

Cfr. LORENZO BIANCONI, Il Seicento. Storia della musica, a cura della Società Italiana di Musicologia, V, Torino, EDT, 1991, pp. 195-204. 4 Cfr. CARROZZO-CIMAGALLI, Storia della musica occidentale cit., II, pp. 13-14. 5 Cfr. FERRUCCIO CIVRA, Musica Poetica, Introduzione alla retorica musicale, Torino, UTET, 1991, pp. 148-149. 6 Cfr. Ivi, p. 162. 7 Cfr. Ivi, p. 163. 8 CLAUDIO GALLICO, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento Storia della musica, a cura della Società Italiana di Musicologia, IV, Torino, EDT, 1991, p. 107. 9 Ibidem. 130


LA MONODIA ACCOMPAGNATA

L’origine del concetto di “continuo” risale ad una base armonica di particella di basso vocale che utilizzavano gli organisti nell’intera intavolatura o partitura, ai fini dell’accompagnamento di composizioni polivocali; l’esecuzione tendeva pertanto ad una riproduzione strumentale scritta delle voci dell’insieme che si stava accompagnando. La pratica della monodia accompagnata fiorì soprattutto in area fiorentina, nella cosiddetta “camerata” del conte Giovanni Maria Bardi, grazie soprattutto a Giulio Caccini (1550 ca.-1618), dove il continuo apparve come una «parte concertante, imitativa (ma “seguente”, ossia che riprendeva ogni voce, che fosse la più bassa, formando una linea sonora grave non interrotta), tematicamente nutrita alla pari con le voci», per poi successivamente apparire come una «semplice catena di bassi d’armonia, quasi privi d’ornamenti sonori, sfondo e sostegno del divagare del canto». 10 Tornando al terzo punto, cioè la tendenza alla rappresentatività in musica, essa ha origini già nei secoli precedenti. Contemporaneamente alla visione del teatro – come nel caso delle commedie – come specchio o riproduzione della vita e dei costumi umani, l’attenzione si indirizzò alla «rappresentazione realistica del luogo in cui si svolge l’azione»,11 la cui conseguenza più immediata risiedette nell’uso della prospettiva scenica e del concetto aristotelico dell’unità di luogo. Ciò fu esplicitamente indicato nella descrizione della rappresentazione della prima commedia di Ludovico Ariosto, la Cassaria, che avvenne a Ferrara nel 1508: Ma quello che è stato il meglio in tutte queste feste et representationi, è stato tute le s[c]ene, dove si sono representate, quale ha facto uno M.º Peregrino [= Pellegrino da Udine] depintore che sta con il S(igno)re [= il cardinale Ippolito d’Este] ch’è una contracta et prospetiva di una terra cum case, chiesie, campanili etzardini, che la persona non si può satiare a guardarla per le diverse cose che ge sono, tute de inzegno et bene intese. 12

In tal modo, l’inserimento della musica nell’azione principale assunse a sua volta una funzione realistica in cui i personaggi potevano cantare, suonare o danzare sulla scena, allo stesso modo in cui il canto, il suono e la danza erano verosimili nella vita comune. Già a partire dalla fine del Quattrocento, tra un atto e l’altro di una commedia, o di «uno dei cosiddetti drammi mescidati», 13 furono posti gli intermedi al fine di segnalare agli spettatori la divisione della rappresentazione in atti – mediamente cinque – dato che non era presente un sipario che si abbassasse, come avviene nei teatri moderni. Tale separazione era funzionale per distrarre temporaneamente il pubblico – in particolar modo se l’argomento dello spettacolo principale risultava impegnativo –, consentendogli di ‘svagarsi’, per poi riportare l’attenzione su ciò che stavano guardando. Per far sì che questo diversivo funzionasse, gli intermedi dovevano presentare 10

Ivi, pp. 108-109. NINO PIRROTTA, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino, Einaudi, 1975, p. 92. 12 Cfr. GIUSEPPE CAMPORI, Notizie per la vita di Ludovico Ariosto, Firenze, Sansoni, 1896, pp. 4849: lettera di Bernardino Prosperi a Isabella Gonzaga, datata 8 marzo 1508. 13 PIRROTTA, Li due Orfei cit., p. 91. 11

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degli ‘ingredienti’ che si distinguessero chiaramente da quelli degli atti; in questi ultimi, prevaleva quasi totalmente la recitazione parlata, realistica e in prosa. Negli intermedi, invece, dominava l’uso della musica in funzione realistica, che doveva quindi esserci per davvero, e il gesto ritmato della danza, con notevole riduzione dell’uso della parola, specialmente di quella parlata. Il ruolo degli intermedi, tuttavia, non riguardava solo l’intrattenimento: «essi si ponevano quasi come un ‘negativo’ fotografico della commedia a cui venivano associati. […] Personaggi mitologici o allegorici creavano (pertanto) un’atmosfera decisamente irreale, che giustificava pienamente l’inverosimiglianza del loro esprimersi cantando». 14 In aggiunta, essendo la durata degli atti molto lunga – a volte occupava persino l’arco di un’intera giornata ai fini del rispetto delle unità aristoteliche di luogo e azione –, l’ulteriore funzione degli intermedi, allo scopo di rispettare l’unità di tempo, era di assicurare il «collegamento tra gli inevitabili piccoli salti temporali che andavano a crearsi tra un atto e l’altro». 15 Gli intermedi, inoltre, potevano essere “apparenti”, se i musicisti erano visibili in scena, o “non apparenti”, se la scena restava vuota e la musica proveniva da luoghi non visibili al pubblico. Per questa ragione, nel corso del Cinquecento nella maggior parte delle commedie ci fu raramente menzione degli intermedi eseguiti, o da eseguire tra un atto e l’altro; e con ancor meno frequenza risultavano indicazioni delle musiche che facevano parte degli atti, proprio ad ulteriore dimostrazione che esse fossero riservate agli intermedi stessi. Questi ultimi non erano prescritti in quanto «soltanto gli esecutori potevano farne la scelta in base alle loro possibilità»,16 e al tempo stesso era possibile che i commediografi lasciassero sì la responsabilità agli esecutori, non considerando tuttavia un problema l’inserimento realistico di elementi musicali in aggiunta ai loro testi; motivo per il quale, gli stessi intermedi, o alcune parti di essi, potevano essere riutilizzati in altre composizioni teatrali. Quest’ultima condizione andava di pari passo con la tendenza del teatro cinquecentesco italiano di realizzarsi sul piano dell’attività letteraria – di cui si hanno testimonianze dalle opere pubblicate a stampa – e di quello legato all’attività pratica, governata dall’intenzione di piacere e divertire. Sotto questi aspetti, il testo letterario di una commedia risultò essere «una traccia da integrare al momento della rappresentazione»,17 nonché un’anteprima della pratica degli «scenari» della commedia dell’arte, che di lì a poco si andò sviluppando. Per quanto concerne la musica, ampia fu la pratica di esercizio dell’arte scenica effettuata da coloro che successivamente presero il nome di comici dell’Arte, ossia di professione; l’atto unico della senese Comedia di Pidinzuolo del 1517 fu un’importante testimonianza che comprese canti di chiesa, balli, strambotti, serenate ecc.: tutte esibizioni musicali di quei comici senesi, che furono chiamati diverse volte a Roma per il carnevale sotto il papato di Leone X e recitarono anche a Napoli nel 1536 e nel 1540. Nella città partenopea, durante il suo governo, il viceré Don Pedro 14

CARROZZO-CIMAGALLI, Storia della musica occidentale cit., I, p. 261. Ibidem. 16 PIRROTTA, Li due Orfei cit., p. 97. 17 Ibidem. 15

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LA MONODIA ACCOMPAGNATA

di Toledo, reggendo il viceregno napoletano di Carlo V, favorì una ripresa delle attività letterarie ed artistiche che erano andate perdute durante le guerre e i tumulti avvenuti nei primi tre decenni del XVI secolo. Tra le attività di recupero culturale fu incluso anche il teatro, e nel tentativo di dargli la medesima importanza che esso aveva nelle altre città si distinse particolarmente Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, «nipote del conte Cajazzo e di Fracasso Sanseverino i quali erano stati ai loro tempi promotori di alcune delle prime rappresentazioni date al mondo classico a Milano e a Venezia». 18 Inoltre, egli fu il primo ad introdurre a Napoli, il «recitar Comedie con apparati solennissimi […] nel dì che le Comedie si rapresentavano, egli haveva pensiero di star alle porte per far entrare i Cittadini a vedere, & sentire commodamente quelle […]». 19 Nel novembre del 1535 l’imperatore Carlo V giunse a Napoli e vi restò fino al carnevale seguente; il 2 febbraio del 1536 fu ospitato dal principe Sanseverino per il pranzo e si trattenne fino a sera per assistere alla prima impresa teatrale di rilievo del principe stesso: una commedia. Dopo questo successo, nel 1540 ne diede altre due, il Calando e il Beco, per le nozze di Maria di Cardona, marchesa della Padula, con Francesco d’Este, che furono rappresentate con gli stessi comici senesi a cui aveva fatto ricorso nel 1536. La caratteristica di «festevolezza musicale che caratterizzava il teatro senese», 20 fu così importante al punto da ritrovare parecchi di quei musicisti nella lista degli esecutori della commedia senese Gli ingannati, che fu rappresentata a Napoli nel 1545. Le parti dei servi furono affidate al napoletano Scipione Dentice e al senese Scipione del Palla, noto per essere stato, in seguito, maestro di Giulio Caccini; «Fabrizio Dentice, figlio di Luigi e compositore di madrigali, ebbe la parte di Pasquella, la fante anziana furba e trafficona; l’abate Giovan Leonardo Salernitano ebbe quella di uno dei vecchi e Giulio Cesare Brancaccio quella dell’innamorato Flaminio». 21 Sebbene tale commedia fosse già ricca di musica nella versione stampata a Siena nel 1537, in quella napoletana l’aspetto musicale fu ampliato notevolmente. Per quanto riguarda il canto, malgrado non risultassero accenni ad esso nelle parti dei servi, né tantomeno in quella di Flaminio, a Napoli furono utilizzate due delle voci più celebri del tempo: quelle di Scipione del Palla e di Giulio Cesare Brancaccio. Nel marzo del 1558 il maestro di Caccini prese parte, inoltre, nelle vesti di Proteo, ad uno degli «intermedi con i quali fu eseguito l’Alessandro di Alessandro Piccolomini (anch’egli senese), fatto rappresentare dalla marchesa del Vasto «nel suo bel palazzo di Chiaia» (e nel suo «sì ricco teatro») in onore della viceregina duchessa d’Alba che lasciava Napoli».22 Nelle occasioni particolarmente solenni, come quelle sopracitate, gli intermedi assunsero tuttavia una forma, interamente sfarzosa, utilizzando persino apparati scengra18

Ivi, pp. 120-121. GIOVANNI ANTONIO SUMMONTE, Historia della Città, e Regno di Napoli, Napoli, Antonio Bulifon, 1675, p. 235. 20 PIRROTTA, Li due Orfei cit., p. 122. 21 Ibidem. 22 Ivi, p. 220. 19

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MARIA CRISTINA D’ALESSANDRO

fici articolati e costumi sontuosi: quella degli intermedi aulici, tipologia che si distinse in particolar modo a Firenze. Proprio in questa città, il compositore pugliese Girolamo Montesardo (1580 ca.-dopo 1620), maturò a pieno la sua formazione. Di lui si hanno scarse notizie, «per lo più tratte dai frontespizi e dalle dediche delle sue opere, e anche il suo cognome ha generato qualche confusione […] In realtà egli si chiamava Girolamo Melcarne, ma seguendo una prassi molto frequente in quel tempo, nelle città in cui operò si fece conoscere con il nome del suo paese d’origine, chiamato appunto Montesardo».23 Tale incertezza va di pari passo con la sicurezza che egli operò a Napoli, Bologna, Ancona, Fano, Lecce e Firenze e in quest’ultima ebbe modo di conoscere e frequentare Giulio Caccini (1550 ca.-1618), Iacopo Peri (1561-1633), il conte Giovanni Maria Bardi (1534-1612), figure che furono fondamentali per lo sviluppo di nuovi generi monodici e per la nascita del melodramma. Nel 1608, infatti, Montesardo pubblicò la raccolta di madrigali e arie ad una e a più voci intitolata L’allegre Notti di Fiorenza di Girolamo Montesardo dove intervengono i più eccellenti musici di detta città, in cui si ha per la prima volta testimonianza, da parte dell’autore, di adesione a queste nuove forme monodiche. Intento del compositore fu quello di rievocare le serate musicali fiorentine a cui aveva preso parte; a tale scopo, i ventisei brani furono raggruppati in cinque «notti», che si svolgevano in posti molto suggestivi di Firenze. Ad ognuno di questi luoghi era dedicato un madrigale a quattro voci seguito da uno monodico, mentre la quinta «notte» chiudeva la raccolta con un madrigale a cinque voci; la prosecuzione comprendeva arie polifoniche. La presenza di queste ultime è la dimostrazione che Montesardo «non era riuscito a scrollarsi completamente di dosso i retaggi della sua formazione di polifonista»,24 conferma dataci anche dalla particolare espressività delle melodie dei suoi madrigali monodici, i quali si impadronivano delle tensioni insite nel testo poetico. Piuttosto frequente fu l’utilizzo di abbellimenti, in particolare di quegli «effetti» citati da Caccini nella Prefazione alle sue Nuove Musiche: «passaggi» o diminuzioni, «ribattuta di gola», «cascata scempia», «l’esclamazione» ed infine il «trillo». I madrigali che lo stesso Caccini aveva ascoltato insieme ad alcune arie a casa del conte Bardi a Firenze, furono un’importante testimonianza per la pratica della monodia accompagnata nello stile del recitar cantando: per fino a quei tempi non avere udito mai armonia d’una voce sola sopra un semplice strumento di corde, che avesse avuto tanta forza di muovere l’affetto dell’animo quanto quei madrigali: sì per lo nuovo stile di essi come perché, costumandosi anco in quei tempi per una voce sola i madrigali stampati a più voci, non pareva loro che per l’artifizio delle parti corrispondenti fra loro la parte sola del soprano, di per sé sola cantata, avesse in sé affetto alcuno. 25 23

MARIA GRAZIA BARONE, Da «L’allegre notti di Fiorenza» a «I lieti giorni di Napoli»: itinerario di un compositore del ‘600, in La musica a Napoli durante il Seicento; a cura di Domenico Antonio D’Alessandro – Agostino Ziino, Roma, Edizioni Torre d’Orfeo, 1987, pp. 105-123: 105. 24 Ivi, p. 110. 25 GIULIO CACCINI, Prefazione da Le Nuove Musiche, vol. I, ed. moderna a cura di Federico Kaftal, Albese Con Cassano, Edizioni Musedita, 2009, p. 7. Tra parentesi quadre sono indicate le esplicazioni del curatore Federico Kaftal nella sua edizione de Le Nuove Musiche di Caccini qui utilizzata. 134


LA MONODIA ACCOMPAGNATA

Questa testimonianza di Caccini è un chiaro esempio dell’evoluzione a cui i generi in questione si stavano sottoponendo nel corso del Seicento: nonostante nel secolo precedente ci fosse la consuetudine di eseguire a voce sola i madrigali polifonici, cantando la linea del soprano e intavolando su liuto, tiorba, o chitarrone le altre voci, particolarmente qui in Firenze […] qualunque ha voluto ha potuto vedere ed udire a suo piacere […] così nei madrigali come nelle arie ho sempre procurata l’imitazione dei concetti delle parole: ricercando quelle corde [= accordi] più e meno affettuose, secondo i sentimenti di esse [= delle parole], e che particolarmente avessero grazia; avendo ascosto in esse quanto più ho potuto l’arte del contrappunto, e posato le consonanze nelle sillabe lunghe e fuggito le brevi, ed osservato l’istessa regola nel fare i passaggi [= variazioni] […] se pure si debbono questi giri di voce usare, si facciano […] non a caso, o sulla pratica del contrappunto; onde sarebbe di mestieri pensarli prima nelle opere che altri vuol cantar solo e fare maniera di essi, […] però che alla buona maniera di comporre e cantare in questo stile serve molto più l’intelligenza [= significato] del concetto, e delle parole il gusto [= il senso], e l’imitazione di esso così nelle corde affettuose come nello esprimerlo con affetto cantando […] e legare [= preparare] alcune durezze [= dissonanze] più per accompagnamento dello affetto che per far arte [= mostrare bravura]. 26

Questo brano appena citato è un piccolo esempio di quanto fosse complesso dar vita alla bellezza di queste nuove figure monodiche, e ci fa comprendere maggiormente l’evoluzione di generi di cui sopra. Uno dei principali veicoli di divulgazione di questo stile monodico fu rappresentato da quei musicisti, come lo stesso Montesardo, che viaggiavano su e giù per la penisola, portandosi dietro le novità armoniche del tempo. Per quanto riguarda Napoli, si iniziò a parlare di monodia accompagnata già nel marzo del 1558, con la rappresentazione sopracitata degli intermedi con cui si eseguì l’Alessandro di Piccolomini, e a cui prese parte Scipione del Palla. Fu inoltre fondamentale la figura di Francesco Lambardi, il quale compose certamente l’«Aria grave per cantar solo in Tenore, & anco in Soprano» Erano i capei d’oro a l’aura sparsi ed il «Madrigale per cantar una sola voce» Dolce Filli mia cara e dolce mia vita, entrambi pubblicati ne Il secondo Libro de Villanelle a tre, a quattro et a cinque. Con alcune à modo di Dialoghi, et nella parte del Tenore due Arie in fine… da Gio. Giacomo Carlino nel 1614: 27 stesso anno in cui, non a caso, fu pubblicata a Firenze la seconda edizione ampliata de Le Nuove Musiche di Caccini. Alla luce di quanto detto finora, risultano essere chiare le principali caratteristiche rintracciabili nella musica del Seicento: stile monodico con basso continuo (monodia accompagnata), stile concertante (quando sono previsti più strumenti), tendenza alla rappresentatività e l’indispensabile volontà di muovere gli ‘affetti’; ebbene, nel corso del XVII secolo si andò proprio sviluppando un genere che le racchiuse tutte: la can26

Ibidem. Tra parentesi quadre sono indicate le esplicazioni del curatore Federico Kaftal nella sua edizione de Le Nuove Musiche di Caccini qui utilizzata. 27 Cfr. AGOSTINO ZIINO, Nota su Francesco Lambardi e l’introduzione della monodia a Napoli, in Centri e periferie del Barocco Napoletano, a cura di Gaetana Cantone, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato-Libreria dello Stato, 1992, pp. 501-513: 105. 135


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tata. Inizialmente tale termine era utilizzato in modo vago, indicando con esso una qualsiasi composizione cantata per una o due voci, accompagnata dal basso continuo o da alcuni strumenti, ma anche le stesse ‘arie’ di cui parlava Caccini nelle sua Prefazione a Le Nuove Musiche, con le dovute differenze, dato che quest’ultime composizioni erano strofiche: cioè la stessa musica veniva riproposta quasi senza cambiamento alcuno per tutte le strofe del testo; nelle cantate, invece, l’unica cosa che si ripeteva allo stesso modo era il basso – anche per questo definito continuo –, laddove la melodia variava ad ogni strofa. Per queste sue origini, ben presto «le “cantate” andarono articolandosi in strutture più complesse, che si basavano sugli stessi criteri che venivano contemporaneamente introdotti nelle musiche operistiche: vale a dire la distinzione tra sezioni in stile recitativo, in stile arioso e in arie vere e proprie». 28 Ciò spiega perché si produssero cantate della durata di pochi minuti aventi una sola aria ed altre di dimensioni più ampie che riuscivano pertanto ad ospitare sia recitativi che arie stesse. Nonostante la prima stampa in cui comparve questo termine – Cantade et arie di Alessandro Grandi (1575/80-1630) – fosse stata pubblicata dall’editore veneziano Vincenti nel 1620, Roma fu considerato il luogo d’origine della cantata. Infatti, tra i vari musicisti che nel corso del Seicento servirono le famiglie principesche romane di cantate furono annoverati: Girolamo Frescobaldi, Giacomo Carissimi, Luigi Rossi (1598-1653) e così via. Di quest’ultimo sopravvivono circa 300 cantate, di cui analizzerò quella dal titolo Precorrea del sol l’uscita. Nonostante le sue origini pugliesi, Luigi Rossi fu mandato a studiare a Napoli, nel 1612 – si presume sotto il patrocinio dei di Sangro, duchi di Torremaggiore e principi di San Severo –, dove ebbe modo di studiare con il franco-fiammingo Jean de Macque, maestro della Cappella reale, e ivi rimase per diversi anni, beneficiando della protezione di Luigi Gaetani, duca di Traetta, mecenate dello stesso Macque; esperienze di gioventù a Napoli confermate, tra l’altro, da una sua lettera al marchese Enzo Bentivoglio datata Roma 26 gennaio 1620. Come altri suoi colleghi, anch’egli si ritrovò a girare l’Italia; ma vicenda degna di nota fu quando si ritrovò a Bologna nel 1644 – dopo che nel 1641 entrò al servizio del cardinale Antonio Barberini, definendosi musicus di quest’ultimo – per delle esecuzioni musicali: con la morte di Urbano VIII nel luglio di quell’anno e l’elezione del nuovo papa filospagnolo Innocenzo X Pamphili, i Barberini messi in stato d’accusa dal nuovo papa, si rifugiarono in Francia sotto la protezione del cardinale Mazzarino portando con sé un gruppo di musicisti italiani fra i quali il Rossi, che si recò a Parigi nel giugno del 1646 e, con la rappresentazione dell’Orfeo (2 marzo 1647), «tragicomedia per musica» di Francesco Buti, si assicurò fama internazionale almeno fino alla fine del Settecento.29 La cantata Precorrea del sol l’uscita è contenuta nella raccolta manoscritta Cantates italiennes de différents auteurs. Tome I conservata a Parigi nella Bibliothèque Nationale de France e in un’altra raccolta del fondo Chigi della Biblioteca Apostolica 28

CARROZZO-CIMAGALLI, Storia della musica occidentale cit., II, p. 142. Cfr. ALESSIO RUFFATTI, ‘voce’ Rossi, Luigi (Aloigi de Rossi, Aloysius de Rubeis), in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 88, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2017, pp. 654-657. 29

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Vaticana di Roma (Chigi, ms. Q.VII.99, cc. 64v-67v). 30 Nonostante la sua struttura non sia ancora ben sviluppata – in tutto il corso del Seicento avrà modo di formalizzarsi più precisamente in quell’alternanza di recitativo e aria, RARA o, viceversa, ARAR – è composta da un avvicendamento di momenti più in stile recitativo, che portano avanti l’azione, ed altri più vicini al tipico sfogo dell’aria, quando il compositore usa dei madrigalismi volti ad evidenziare meglio il significato testuale; inoltre in Rossi – come anche in Monteverdi – tipica è l’alternanza tra tempi binari e ternari che consentiva una maggiore scorrevolezza al fluire di musica e testo. Quest’ultimo recita: Precorrea del sol l’uscita la bell’alba in Oriente e lucente già sua chioma era fiorita. Quando il sonno si diffuse su’l mio ciglio e’l guardo chiuse. Non so d’onde al mio pensiero tempestoso un mar s’offerse che sommerse nel furor più d’un nocchiero. Pieno il lido è di spavento fischia l’onda e mugghia il vento. Al soffiar d’Euro che freme s’empie il ciel d’orrore e lutto vola il flutto e del mar l’arena geme. Van tra scogli i legni infranti e dan forza all’onde i pianti. Voce all’or nel cor mi suona uom non sia che lasci il porto cadeabsorto chi suoi lini all’aura dona. Questo il mare è di Cupido deh non sia chi lasci il lido.

La cantata, su versi di Domenico Benigni (1596-1653), è dunque composta da quattro stanze di tipo ABACC, A₁B₁A₁C₁C₁, A₂B₂A₂C₂C₂, A₃B₃A₃C₃C₃. Il poeta fu autore di numerose cantate e canzonette profane e morali, poste in musica dai più noti compositori del tempo come – oltre Luigi Rossi –, Giacomo Carissimi, Mario Savioni, Marco Marazzoli e Marc’Antonio Pasqualini; tra l’altro i suoi versi, concepiti prevalentemente per l’ambiente romano, furono pubblicati postumi, a Macerata, in una raccolta di sue poesie nel 1667 curata dal nipote Francesco e dedicata al principe Giovan Battista Pamphili.31 Nonostante la varietà di metri utilizzati, la musica di Rossi riesce a dare una completezza ed unità alle quattro strofe di questo poema, grazie all’uso di ‘stili declamati’ (recitar cantando o stile recitativo) che presentavano pertanto un basso di tipo accordale; ma anche concetti con musica più ornata su alcune parole, con utilizzo di ‘stile passeggiato’ (alla Caccini) che si muove talvolta per 30

Facsimile del ms. in Cantatas by Luigi Rossi c. 1597-1653, a cura di Francesco Luisi, New YorkLondon, Garland, 1986, pp. 41-43. 31 Cfr. Poesie di Monsignor Domenico Benigni […], Macerata, A. Grisei e G. Piccinni, 1667.

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grado congiunto, con un basso quasi di passacaglia, nonché ‘passeggiato’. L’incipit quasi a sé stante, «Precorrea del sol l’uscita», è declamatorio, in levare, in tempo binario, ed ha come soggetto il sopraggiungere della «bell’alba in Oriente» del verso seguente; tra le due crome delle sillabe «pre-cor» e la semiminima col punto sulla sillaba «-rea» di «precorrea» è posto un intervallo di quarta ascendente che consente di avviare il concetto con maggiore slancio, per poi procedere con due terze ascendenti, una discendente e un semitono discendente del seguito della frase. Sul secondo verso, «la bell’alba in Oriente», già c’è un cambio di tempo, ternario, e differenti figurazioni, più lente rispetto al ritmo più rapido e puntato dell’inizio: necessarie a raffigurare l’alba che notoriamente nasce ad est – come anticipazione del sorgere del sole. Il seguito, «e lucente già sua chioma era fiorita», si riferisce al sole con un madrigalismo sulla sillaba «-cen-» di «lucente»:

Questo madrigalismo ci fa immaginare i raggi del sole che si espandono irradiando l’orizzonte, salendo e scendendo, come dimostrato dalla catabasi con valori più lunghi posta sul «già sua chio-», mentre la sillaba «-ma» è posta a distanza di quarta ascendente dalla precedente e ridiscende in seguito di terza sulla «e-» di «era»; tutta la sequenza di questo verso viene ripetuta allo stesso modo a distanza di quarta ascendente per evidenziare maggiormente l’illuminazione data dai raggi:

Prima del verso successivo, «Quando il sonno si diffuse», il tempo torna binario, l’inizio è in levare e sono utilizzate figurazioni più brevi per assecondare la stanchezza e la successiva diffusione del sonno con più rapidità; infatti, sulla sillaba «son-» è posta una minima legata ad una croma che dista di una quarta discendente dalla sillaba «-no», la quale dista di una terza minore discendente dalle crome di «sidif-», che a loro volta scendono di terza maggiore sulle semiminime delle sillabe «-fu-se». Il seguito, «su’l mio ciglio e’l guardo chiuse», dista una quinta ascendente dalla frase precedente; sono utilizzate sempre figurazioni brevi che salgono di semitono sulla parola «ciglio» per evidenziare l’apertura delle ciglia delle palpebre prima della successiva chiusura; «e’l guardo chiuse» dista una sesta discendente da esso e prevede una breve anabasi sulla sillaba «-do» di «guardo» che si ferma su «chiu-» di «chiuse», in cui è presente una sincope in catabasi volta ad evidenziare il serrare degli occhi. Quest’ultima semifrase, «e’l guardo chiuse», viene ripetuta e sulla sillaba «guar-» è posto un altro madrigalismo con un gioco di semicrome in anabasi e catabasi, che ci

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dà il senso di movimento ultimo che si arrende in seguito alla definitiva chiusura delle palpebre e del sonno avvenuto:

Il verso successivo, «Non so d’onde al mio pensiero», procede con figurazioni rapide – che si fermano solo sulla minima legata ad una semiminima della parola «d’onde» –, volte a sottolineare l’aspetto dubbioso. Prima del seguente «tempestoso un mar s’offerse», si torna in tempo ternario e sulla sillaba «-sto-» è posto il seguente madrigalismo:

Il verso «che sommerse nel furor più d’un nocchiero», inizia riprendendo la stessa figurazione e il medesimo madrigalismo di «e lucente», questa volta posizionato sulla sillaba «-mer-» di «sommerse» per evidenziare l’aver fatto annegare, alla stregua di uno stato di pensiero tempestoso, diversi timonieri:

Paradossalmente, «nel furor più d’un nocchiero» è scritto con figurazioni più larghe ai fini di esprimere la rassegnazione per l’annegamento ormai avvenuto; l’intero verso è poi ripetuto una quarta sopra, com’era avvenuto con «e lucente», con una sola differenza del madrigalismo sulle sillabe «mer-se»:

Il verso successivo, «Pieno il lido è di spavento», riprende l’andamento binario: «pieno il lido» inizia in levare preceduto da una pausa di semiminima; «è di spavento», invece, inizia sempre in levare ma con una pausa di croma volta ad accentuare il senso di timore di chi si trova sul litorale. Il verso successivo «fischia l’onda e mugghia il vento» inizia con un ritmo puntato per dare il senso di penetrante suono dell’onda, e sulla cui sillaba «on-» è utilizzato tale madrigalismo:

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Il seguito «e mugghia il vento», invece, viene ripetuto due volte per accentuare il cupo rumoreggiare del mare in tempesta legato questa volta al vento:

Tutto questo movimento è la dimostrazione del percorso che fa il vento, determinato da differenze di pressione atmosferica in cui vengono evidenziati i suoi caratteri distintivi di andamento nel tempo, dapprima calmo e in direzione ascendente, fino ad arrivare all’intensità e forza delle crome col punto, che si abbattono infine in quella impetuosa discesa. Il seguito, «Al soffiar d’Euro che freme», torna in tempo binario e presenta il seguente madrigalismo:

tutto ciò per darci l’idea dello scirocco che spira da sud-ovest e prepara le frasi successive in cui si capiscono le conseguenze di quest’azione: «s’empie il ciel d’orrore e lutto», «vola il flutto e del mar l’arena geme». La prima ripercussione, «s’empie il ciel d’orrore e lutto», riprende il tempo ternario ed esattamente la melodia della frase «la bell’alba in Oriente» per evidenziare il netto contrasto tra le due; la seconda, «vola il flutto e del mar l’arena geme», inizia con un madrigalismo sulla sillaba «vo-» per darci la sensazione di spostamento d’acqua:

«vola il flutto» sta a figurare quindi l’onda potente ed ostile ormai in prossimità della costa. La frase «e del mar l’arena geme» presenta un madrigalismo su «mar»:

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per poi continuare sulla battuta seguente con una figurazione binaria che si lega a «l’a-» di «l’arena», sulle cui altre sillabe sono poste una minima ed una semiminima che sale di semitono per poi essere la stessa nota di partenza – una semiminima legata poi ad una minima e seguite da una minima col punto – della parola «geme»; tutto ciò per spiegare che a causa die moti del mare, dapprima calmo ma in seguito agitato, il lido (inteso come approdo di salvezza e protezione di uno stato d’animo) ne è profondamente atterrito e ne soffre penosamente. La frase «vola il flutto e del mar l’arena geme» viene ripetuta una seconda volta una terza sopra ma con gli stessi rapporti intervallari e figurazioni, per accentuare maggiormente il senso figurato di lamento:

Il seguito «Van tra scogli i legni infranti» riprende il tempo binario, e il «van tra scogli» procede con figurazioni rapide abbastanza linearmente; sull’ultima sillaba di «scogli» è posta una synaeresis «-gli_i» che si collega al resto della frase, «legni infranti», in cui tra la croma di «in-» e la semiminima di «-fran-» è posto un intervallo di quarta discendente che evidenzia la fragilità dei rami degli alberi che possono rompersi facilmente. Il verso successivo, «e dan forza all’onde i pianti», è ricco di madrigalismi:

Il primo presenta figurazioni diverse tra loro in quanto esplicative della causa capace di modificare lo stato di quiete o di moto di un corpo che, se viene applicata ad un elemento non rigido ne può causare la deformazione. Il seguito «all’onde i» precede il secondo madrigalismo che consente di rappresentare con notevole forza quest’espressione di commozione o dolore manifestata con lacrime spesso accompagnate da gemiti e lamenti:

Il terzo madrigalismo inizia subito dopo, con la ripetizione del semiverso «all’onde i pianti»:

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L’ennesima successione di figurazioni diverse che ci dà l’idea della massa d’acqua, la quale si solleva alternativamente sul livello di quiete del mare modificandone la superficie in modo caratteristico per poi struggersi in un pianto più intimo rispetto al precedente. Nella frase successiva «Voce all’or nel cor mi suona» il tempo torna binario e ricorda un po’ l’incipit della cantata, nonostante figurazioni e note siano differenti; le prime sono alquanto scorrevoli e sono poste sulla stessa nota che scende di semitono solo tra «cor» e «mi». Il seguito, «uom non sia che lasci il porto», riprende il tempo ternario, presenta l’«uom non sia» identico a «la bell’al-» dell’inizio, scendendo tuttavia di sesta per poi restare sulla medesima nota ed infine salire di tono, con figurazioni di minima e semibreve su «porto» per darci l’idea di ampiezza del tratto di mare dove gli sbarchi possono avvenire con sicurezza. Sul «cade absor-» del verso seguente, «cade absorto chi suoi lini all’aura dona», avviene lo stesso madrigalismo di «e lucente» che termina tuttavia scendendo di terza:

per dare il senso figurato di una totale immersione in un processo mentale legato all’immaginazione, alla riflessione o all’attenzione, talmente concentrato da sembrare indifferente al mondo circostante; il seguito «chi suoi lini all’aura dona» presenta un madrigalismo di crome sulla sillaba «au-»:

La parola «dona» inizia con la stessa nota in cui termina la sillaba «-ra», per poi proseguire in catabasi prima sulla minima e poi sulla minima col punto. Un salto d’ottava ci conduce alla ripetizione dell’intero verso «cade absorto chi suoi lini all’aura dona», che risulta essere una terza sopra rispetto al precedente:

Per accentuare maggiormente il concetto metaforico che nonostante il nocchiero/amante sappia come il tessuto pregiato del lino avvolgeva i morti, togliendogli pertanto l’aria, quindi la vita stessa (l’«aura» simboleggia proprio la vita), egli decide di voler vivere. Il penultimo verso, «Questo il mare è di Cupido», riprende il tempo binario, inizia in levare e su «questo il mare» è presente una figurazione di croma col punto, semicroma, semiminima col punto, croma che si collega alle crome, sempre in levare, di «è di Cu-», seguite da due semiminime sulle sillabe «-pi-do»: tutto per sim142


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boleggiare lo scoccare della freccia del dio dell’Amore. Essendo il regno di Cupido il ‘mare’ di Amore, è evidente che l’ultimo verso «deh non sia chi lasci il lido» risulti essere un’esortazione a non lasciare il lido, ossia il proprio stato e non abbandonarsi ad Amore; la semiminima dell’esclamazione «deh» inizia in levare e presenta pertanto una sincope che termina sulla croma dell’avverbio di negazione «non» per poi procedere sulla minima legata ad una croma del congiuntivo «sia» dove inizia – sempre in sincope e a distanza di sesta ascendente, la ripetizione di «deh non sia». Quest’ultima è volta ad evidenziare l’esclamazione che introduce sicuramente una preghiera: non abbandonare il proprio essere, visto come porto sicuro, per evitare Amore. Il seguito «chi lasci il lido» inizia con un primo madrigalismo di semicrome ascendenti a due a due sulla sillaba «la-» per poi salire di semitono su un accordo di settima che precede la croma su cui sono poste, in synaeresis, le sillabe «-sci il»; inoltre anche sull’intervallo di semitono presente su «li-do» vi è un ulteriore accordo di settima. A distanza di terza ascendente, sul «deh», è posta invece l’ultima ripetizione dell’esclamazione «deh non sia» che presenta il «non sia» ad un intervallo di quinta discendente. Ed ecco che inizia la ripetizione, conclusiva, di «chi lasci il lido» su cui è utilizzato un ultimo e lungo madrigalismo:

Al di là delle altre possibili interpretazioni, questo ennesimo madrigalismo ci mostra ancora una volta il grido disperato – uno sfogo vicino all’elemento distintivo dell’«aria» – dell’amato al pensiero che, come detto, il nocchiero/amante possa metaforicamente lasciare il porto sicuro incappando in pericoli naturali brillantemente descritti dal compositore nel corso dell’intera cantata.

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Nicola De Rosa SU UNA VOCE DEL POETA NELLA FANTASIE OP. 17 DI SCHUMANN a Myra Amoureux las de tant d’étapes et de plaies, Schumann, soldat songeur que la guerre a déçu. 1

Proust compose questi versi su Schumann che per la loro passione fanno da motto al nostro saggio. Ebbene tentiamo di ottenere il meglio da quest’incipit. La Recherche racconta di come Swann, nel salotto di Madame Verdurin, finisca per associare il tema della Sonata di Vinteuil al tempo dell’amore per Odette. Di più, seppur non fosse presente, Odette irromperebbe nello spazio della stanza solo attraverso quel tema: «Mais tout à coup ce fut comme si elle était entrée».2 L’interesse di Proust per una melodia di tipo wagneriano – che tuttavia non si limita ad allarme annunciante l’arrivo del personaggio, bensì diviene essa stessa personaggio che si muove e muta – è sottolineato anche da Deleuze e Guattari, che in Mille piani trasportavano Schumann dentro una prospettiva rizomatica: Proprio Proust fu tra i primi a sottolineare questa vita del motivo wagneriano: lungi dal credere che il motivo sia legato a un personaggio che appare, si dirà che ogni apparizione del motivo costituisce un personaggio ritmico, nella «pienezza di una musica riempita in effetti da tante musiche, ciascuna delle quali è un essere». 3

Fu la Sonata op. 75 di Saint-Saëns tra i brani che ispirarono la Sonata di Vinteuil, il pezzo immaginario apparso nell’oeuvre cathédrale di Proust. Eppure, per il lettore schumanniano, è arduo resistere alla tentazione di stratificare un’associazione su un’altra: qualora passasse per l’ascolto di Swann, il ‘tema di Odette’ la invocherebbe come farebbe il ‘tema di Clara’ 4 per quest’ultima, qualora passasse per l’ascolto di Schumann. Quel tema è Clara. Meglio ancora, per la logica del desiderio, è Clara e Robert condensati insieme, coi loro corpi, mai più separabili. In quel tema si aggrega tutto ciò che fuori di esso accadde e la realtà che lo permea tende la molla romanzesca. Nel marzo 1838, circa un anno prima della pubblicazione della Fantasie op. 17, Schumann scriveva a Clara: 1

MARCEL PROUST, Schumann, in Poesie, Torino, Einaudi, 1993, p. 46. ID., À la recherche du temps perdu. Du côté de chez Swann, vol. 2, Paris, Gallimard, 1919, p. 171. 3 GILLES DELEUZE – FÉLIX GUATTARI, 1837. Sul ritornello, in Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Cooper & Castelvecchi, 2003, p. 449. 4 Sul ‘tema di Clara’ cfr. i saggi tradotti e raccolti in ERIC SAMS, Il tema di Clara. I codici cifrati, i Lieder, la malattia e altri saggi su Schumann, a cura di Erik Battaglia, Asti, Analogon, 2010. 2

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NICOLA DE ROSA

In più, ho completato una fantasia in tre movimenti, che nel giugno del ’36 avevo concepito fino all’ultimo particolare. Il suo primo movimento è forse il più raffinato che abbia mai composto – un profondo lamento per te – gli altri sono più deboli, ma non c’è bisogno di vergognarsene tanto. 5

Poi, nell’aprile 1839, le dava qualche indizio su una possibile chiave di lettura del brano: «Puoi capire la Fantasie solo se torni indietro alla sfortunata estate del 1836, in cui rinunciai a te».6 Ancora, in giugno, le chiedeva: «Mi scrivi cosa pensi del primo movimento della Fantasie? Non evoca molte immagini in te? Qui la melodia [bb. 6567] mi soddisfa al massimo. Sei forse tu il ‘suono’ nel motto? Credo quasi che tu lo sia».7 I versi di Friedrich Schlegel che fanno da motto alla Fantasie evocano il «suono» a cui Schumann si riferiva: Durch alle Töne tönet Im bunten Erdentraume Ein leiser Ton gezogen, Für den, der heimlich lauschet. 8

Il velo che difendeva le note incontaminate di un brano dalle vicende degli uomini, con violenza si squarcia per mezzo di un qualche tipo di simbolizzazione. Ci sovviene un passo di Barthes sull’ascolto intersoggettivo, che prelude a un discorso di natura edipica sull’origine del linguaggio: Nel primo tipo di ascolto l’essere vivente rivolge la propria audizione (l’esercizio della facoltà fisiologica di udire) verso degli indizi. [...] Questo tipo di ascolto è, se così si può dire, un allarme. Il secondo è una decifrazione: quel che si cerca di captare con l’orecchio sono dei segni [...]. Per finire, il terzo tipo di ascolto [...] non riguarda ciò che è detto, o emesso, quanto piuttosto chi parla, chi emette. Questo ascolto ha luogo in uno spazio intersoggettivo, dove «io ascolto» vuol dire anche «ascoltami»; ciò di cui esso si impadronisce per trasformarla e rilanciarla all’infinito nel gioco del transfert, è una «significanza» generale, inconcepibile al di fuori della determinazione dell’inconscio. 9 5

«Außerdem habe ich eine Phantasie in drei Sätzen vollendet, die ich im Juni 36 bis auf das Detail entworfen hatte. Der erste Satz davon ist wohl mein Raffiniertestes, was ich je gemacht – eine tiefe Klage um Dich – die anderen sind schwächer, brauchen sich aber nicht gerade zu schämen» – CLARA - ROBERT SCHUMANN, Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe (di qui in poi Bw), vol. 1 (1832–1838), a cura di Eva Weissweiler, Basel/Frankfurt am Main, Stroemfeld/Roter Stern, 1984, p. 126 (TdA). È curioso notare come «Klage» in tedesco rimandi sia al «lamento» emotivo che alla «causa» legale. Schumann si sarebbe appellato alla giustizia per risolvere la disputa con Wieck per il matrimonio. Se vista in questa luce, la lettera si rivela persino premonitrice! 6 «Die Phantasie kannst Du nur verstehen, wenn Du Dich in den unglücklichen Sommer 1836 zurückversetzt, wo ich Dir entsagte» – Bw, vol. 2 (1839), Basel/Frankfurt am Main, Stroemfeld/Roter Stern, 1987, p. 495. 7 «Schreibe mir was Du bei dem ersten Satz der Phantasie Dir denkst? Regt er nicht viele Bilder in Dir an? Die Melodie [bb. 65–67] gefällt mir am meisten darin. Der „Ton“ in Motto bist Du wohl? Beinah glaub’ ich es» – ROBERT SCHUMANN, Jugendbriefe, Liepzig, Breikopf & Härtel, 1910, p. 303. 8 «Risuonando tra le note tutte, | nei sogni colorati della Terra, | scorre un debole suono | per chi segretamente ascolta» – FRIEDRICH SCHLEGEL, Die Gebüsche, in Gedichte, Berlin, Hitzig, 1809, p. 33. 9 ROLAND BARTHES, Ascolto, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Torino, Einaudi, 2001, pp. 237-238.

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Il bambino ascolta vigile gli indizi del ritorno della madre. Quando inizia a mimarne l’assenza e la presenza lanciando e riprendendo un rocchetto attaccato a uno spago, allora trasforma l’indizio in segno. Prima manifestava l’allerta per l’allontanamento o il ritorno di lei, ora ne invoca la permanenza attraverso un codice segreto. Marcel, all’inizio della Recherche, durante la sua infanzia a Combray, non fa altro che attendere il bacio della buona notte, ma la madre lo tradisce per intrattenere Swann, venuto a far visita in tarda serata. «Ora, Schumann è veramente il musicista dell’intimità solitaria, dell’anima innamorata e raccolta, che parla a se stessa [...], in breve del bambino che non ha altro legame se non quello con la Madre».10 Da Johanna Christiane sgorgherebbe tutto ciò che Schumann ebbe di più intimo: l’amore materno e quello musicale, perché in casa era lei a cantare e a suonare. Se non fosse, però, che Schumann sia il bambino tradito dalla madre sin dalla nascita: come osservava Egge, sulla nascita di Schumann grava già il fardello del lutto, perché lui ha rubato il posto della sorellina Laura, morta in tenera età. 11 Il bambino che non nasce al suo posto si identifica con l’oggetto a cui il posto spettava: «l’ombra dell’oggetto cadde così sull’io che d’ora in avanti potè essere giudicato da un’istanza particolare come un oggetto e precisamente come l’oggetto abbandonato». 12 Se Laura è morta, è ‘perduta’, è ‘abbandonata’, lo dev’esser anche Robert, nella misura del dubbio su tutto ciò che è umano. Una ferita che alimenta il sospetto sembra esser di per sé emblema del poeta romantico. Egli finisce per dubitare del suo stesso spazio, abita il suo territorio, ma percependolo come perduto e vivendolo come esiliato. In Zwielicht, la lirica di Eichendorff scelta da Schumann per Liederkreis op. 39, così recita il poeta: Hast ein Reh du lieb vor andern, Laß es nicht alleine grasen, Jäger ziehn im Wald und blasen, Stimmen hin und wieder wandern. Hast du einen Freund hienieden, Trau ihm nicht zu dieser Stunde, Freundlich wohl mit Aug’ und Munde, Sinnt er Krieg im tück’schen Frieden. 13 10

BARTHES, Amare Schumann, in L’ovvio e l’ottuso cit., p. 281. «Alla sua nascita, nel fantasma materno, il posto che lo accoglie è quello lasciato vuoto dalla sorella Laura morta poco prima [...] La madre, nell’impossibilità di elaborare il lutto, non ha preparato un nuovo posto per lui, un posto che accolga simbolicamente l’ultimo nato, ma, nella sua depressione, lo colloca nel posto vacante lasciato dalla figlia morta» – MARTIN EGGE, Gli ultimi anni di Robert Schumann: quando il sintomo non tiene più, in Robert Schumann. Dall’Italia, a cura di Elisa Novara - Antonio Rostagno, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2014, p. 126. 12 SIGMUND FREUD, Lutto e melanconia, in Opere, vol. 8, Torino, Boringhieri, 1976, p. 108. 13 «Hai un capriolo più caro di altri, | non lasciare che pascoli solo, | cacciatori si aggirano nel bosco e suonano, | voci vagano di tanto in tanto. | Hai un amico quaggiù, | non fidarti di lui in quest’ora, | amico col viso e le labbra, | medita guerra in insidiosa pace» – JOSEPH VON EICHENDORFF, Zwielicht, in Sämtliche poetische Werke, vol. 2, Leipzig, Amelang, 1883, p. 436. 11

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Nell’inquadrare la fase del sospetto di Schumann, va posto l’accento sulla relazione precaria dell’artista col suo spazio e coi suoi interlocutori. Rostagno osserva: «Come Heine, Schumann è estraneo in patria e [...] il suo atteggiamento di ‘sospetto’ lo isola da qualsiasi contatto con la realtà circostante».14 Tuttavia, se la ‘ferita Heine’15 o quella Mahler sono geopolitiche, la ‘ferita Schumann’ è luttuosa per la perdita delle sue amate: Laura, di cui Schumann prende il posto; Johanna Christiane, che dunque non prepara mai un posto per lui; Emilie, l’altra sorellina che si suicida gettandosi nel fiume. Se l’amico medita guerra in insidiosa pace e le amate sono perdute, nel suo spazio, il romantico manca di interlocutore: «il territorio non si apre ad un popolo, tende ad aprirsi all’Amico, all’Amata, ma l’Amata è già morta, e l’Amico, incerto, inquietante».16 L’Unheimliche che lo stesso Freud rinveniva nei racconti di E.T.A. Hoffmann, è «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo»; 17 sopraggiunge col ritorno inatteso di ciò che più ci è familiare, come un doppio o un morto che risorge dalla tomba; è un che di intrigante, attraente, ma proprio in quanto insidioso e inquietante. Al tempo della faida con Wieck, che ostacolava il matrimonio tra i due, Clara provocava in Schumann diffidenza come il desiderio di una fusione pericolosa. Nel novembre 1837, in una lettera rancorosa Schumann le racconta un sogno: Poi, ora che tu tieni così poco conto del mio anello, da ieri neanche il tuo mi è più caro e non lo porto più. Mi sognavo camminare sul bordo di un’acqua profonda, così mi veniva in mente e ci gettavo dentro il tuo anello, allora avevo l’infinito desiderio di lanciarmici dietro. 18

«Ich will meine Seele tauchen | In den Kelch der Lilie hinein»19 grida la lirica di Heine scelta da Schumann per Dichterliebe op. 48. Nel lapsus di Schumann, sono l’ultima sillaba del nome Clara (oppure del nome Laura) e la prima del nome Robert a concepire Raro, l’alter ego che solo può fondere i tipi antinomici di Eusebius e Florestan. È come se Clara fosse un anello colmo d’acqua, un grembo in cui si può condensare ciò che è perduto per esser salvato, ciò che è morto per tornare a vivere.20 Nel dicembre 1837, Schumann scrive a Clara: «Addio, mio Fidelio nei panni di 14

ANTONIO ROSTAGNO, Schumann e «la fine del periodo artistico goethiano», in Schumann e i suoi rapporti con lo spazio letterario, a cura di Arnaldo Morelli, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2007, p. 25. 15 Cfr. THEODOR W. ADORNO, La ferita Heine, in Note per la letteratura, Torino, Einaudi, 2012, pp. 34-38. 16 DELEUZE - GUATTARI, 1837. Sul ritornello cit., p. 475. 17 FREUD, Il perturbante, in Opere, vol. 9, Torino, Boringhieri, 1977, p. 82. 18 «Und nun auch, daß Du so gar wenig von meinem Ring hältst – seit gestern hab ich Deinen auch gar nicht lieb mehr u. trag ihn auch nicht mehr. Mir träumte, ich ging an einem tiefen Waßer vorbei, da fuhr mir’s durch den Sinn und ich warf den Ring hinein – da hatte ich unendliche Sehnsucht, daß ich mich nachstürzte» – Bw 1, p. 48. 19 «Voglio immergere la mia anima | nel calice del giglio» – HEINRICH HEINE, Ich will meine Seele tauchen, in Buch der Lieder, Hamburg, Hoffmann und Campe, 1827, p. 115. 20 «Il doppio speculare di Robert, l’ideale nato dalla fusione del suo nome con quello dell’amata, non ha altro posto per lui che quello occupato dalla sorellina morta Laura, il posto della sua prima identificazione melanconica» – EGGE, Gli ultimi anni di Robert Schumann cit., p. 128.

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Julius Kraus e resta fedele al tuo Robert come lo era Leonore al suo Florestan».21 Nel febbraio 1838, con entusiasmo le racconta della vitalità del suo momento creativo: «per quattro settimane non ho fatto quasi nulla fuorché comporre». 22 Intanto, consulta alcuni manoscritti di Beethoven. 23 Poco dopo la pubblicazione della Fantasie, nel giugno 1839, si scusa con Herrmann Hirschbach per aver risposto alla sua lettera con ritardo: «Urgenti circostanze, che fissano un verdetto su tutta la mia vita, hanno la colpa di ciò; ora io letteralmente vivo di alcuni ultimi quartetti beethoveniani fin dentro all’amore e all’odio».24 In quei giorni, Schumann decideva di risolvere per vie legali la questione del matrimonio. Fino all’amore e all’odio, imbastiva una contesa con Wieck e sembrava rifletterla nel confronto con Beethoven e la sua tradizione, «‘autorità’ dalla cui pesante presenza si rischia di essere schiacciati».25 Come in Fidelio Leonore libera Florestan dalle grinfie di Pizarro, Clara paradossalmente andrà salvata dalle grinfie di Wieck, cosicché l’eroina possa poi salvare l’eroe. Durante la battaglia, la musica dell’amante racconterà una storia in cui «la cattività diviene l’emblema esasperato della lontananza» 26 e, in segreto, celerà il lamento per l’amata che si percepisce come perduta. Invocandola spasmodicamente, l’amante si consola nel piacere di ritrovare ciò che più gli è noto. 27

21

«Adieu, mein Fidelio in Gestalt v. Julius Kraus und bleib treu wie Leonore ihrem Florestan Deinem Robert» – Bw 2, p. 53. Attestiamo l’interesse di Schumann per il Fidelio di Beethoven, in relazione alle similitudini con la sua vicenda amorosa, rimandando anche a una testimonianza senza parole. Il brano n. 21 dell’Album für die Jugend op. 68 cita il tema di «Euch werde Lohn in bessern Welten», il terzetto in cui Florestan prigioniero supplica il pane a Rocco e Leonore intercede per soddisfare il suo bisogno. La Stichvorlage, il Ms. 10995-A1 della Robert-Schumann-Haus a Zwickau, voleva il ritorno della citazione beethoveniana alla fine del brano, che non ha titolo, ma presenta al suo posto una triangolazione astrale (NdA). Senza la presunzione di svelarne un arcano, vedremo come queste due ambiguità di fatto si ripresentino nei mss. della Fantasie. 22 «Seit 4 Wochen habe ich fast nichts als componirt» – Bw 1, p. 100. 23 «Skizzenbücher v. Beethoven» – ROBERT SCHUMANN, Tagebücher (di qui in poi Tb), vol. 2, a cura di Gerd Nauhaus, Leipzig, VEB Deutscher Verlag für Musik, 1987, p. 79. 24 «Dringende Verhältnisse, die eine Entscheidung meines ganzen Lebens ausmachen, haben die Schuld daran; ich lebe jetzt einige der letzten Beethovenschen Quartette im besten Sinne bis auf die Liebe und den Hass darin» – ID., Briefe. Neue Folge, a cura di Friedrich Gustav Jansen, Leipzig, Breitkopf & Härtel, 1904, p. 158. 25 ROSTAGNO, Schumann e «la fine del periodo artistico goethiano» cit., p. 17. 26 ANDREA MALVANO, La citazione come strumento di poetica: Robert Schumann e le voci della lontananza, in Schumann e i suoi rapporti con lo spazio letterario cit., p. 156. Anche Jankélévitch osservava che «il languore dell’assenza e la nostalgia della reminiscenza offrono alla musica l’ambito remoto dal quale essa attinge i suoi messaggi» – VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile, Milano, Bompiani, 1998, p. 44. 27 La psicanalisi osservava come «rima, allitterazione, ritornello e altre forme di ripetizione di suoni verbali simili in poesia sfruttino la stessa fonte di piacere, il ritrovamento del già noto» – SIGMUND FREUD, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in Opere, vol. 5, Torino, Boringhieri, 1972, p. 109.

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☆ Aprile 1836, un annuncio sulla «Neue Zeitschrift für Musik» sollecita il pubblico di Bonn ad elargire generose donazioni per la costruzione del monumento a Beethoven in Münsterplatz. August Schlegel è presidente del bonner Verein che promuove il progetto e dunque primo firmatario della proposta pubblicata in gazzetta. 28 A giugno, Florestan, Eusebius, Jonathan e Raro firmano quattro interventi a tal proposito e tra questi appare l’aforisma in cui Daverio vedeva un’immagine dialettica: «io dico, di certo un monumento è una rovina tendente in avanti (come questa un monumento tendente all’indietro)». 29 A settembre, Schumann segna sul diario l’«idea per un tributo a Beethoven»:30 sostenere il progetto coi proventi derivati dalla pubblicazione di una grande sonata. A dicembre il brano è quasi pronto 31 e di lì a poco Schumann si rivolge all’editore Kistner presentando il lavoro miscellaneo di due compositori ancora esordienti: Florestan ed Eusebius32 vogliono omaggiare Beethoven col brano dal titolo «Ruinen. Trophaeen. Palmen. Große Sonate f.[ür] d.[as] Pianof.[orte] Für Beethovens Denkmal». 33 Kistner rifiuta il pezzo, lo stesso fa Haslinger e mesi dopo finalmente lo accetta Breitkopf & Härtel. Ma qui iniziano le vicissitudini sui dettagli della pubblicazione. Nell’aprile 1838, Schumann presenta il lavoro a Clara come una raccolta di fantasie, le svela che “Dichtungen” sarà il titolo dell’opera e “Ruine”, “Siegerbogen” e “Sternbild” i titoli dei singoli movimenti.34 Incuriosisce il confronto tra la lettera a Kistner e quella indirizzata a Clara. Rispetto agli altri titoli che cambiano, “Ruinen” rimane invece pressoché invariato nell’arco di due anni. Ecco che la questione dei titoli di quella che sarà la Fantasie si aggroviglia se da quella epistolare veniamo a una consultazione della tradizione manoscritta. Si consideri il noto autografo del primo movimento (maldestramente venduto a Londra in due 28

Cfr. Aufruf an die Verehrer Beethoven’s, «Neue Zeitschrift für Musik» (di qui in poi NZfM) 4/29, 1836, pp. 121–122. 29 «Ich sage, schon ein Denkmal ist eine vorwärts gedrehte Ruine (wie diese ein rückwärts gedrehtes Monument)» – ROBERT SCHUMANN, Monument für Beethoven. Vier Stimmen darüber, in NZfM 4/5, 1836, p. 212. «Schumann’s remarks on the paradoxical nature of monuments, written just as he was conceiving the work that would eventually become the Fantasie, can be read in tandem with what Walter Benjamin would later describe as a “dialectical image”» – JOHN DAVERIO, NineteenthCentury Music and the German Romantic Ideology, New York, Schirmer, 1993, p. 20. 30 «Idee zu Beitrag f. Beethoven» – Tb 2, p. 25. 31 «Arbeit: Sonate für Beethoven. Bis auf Kleinigkeiten Anf. Dezember geendet» – Ivi, p. 30. 32 Il debutto di Florestan ed Eusebius come compositori era avvenuto con la pubblicazione della Sonata op. 11 nel 1836, poi Schumann avrebbe chiesto una seconda edizione senza pseudonimi. Cfr. ELISA NOVARA, La genesi della Sonata op. 11 in Fa diesis minore. Frammentismo e grande forma, in Robert Schumann. Dall’Italia cit., p. 63. 33 «Florestan und Eusebius wünschen gern etwas für Beethovens Monument zu thun und haben zu diesem Zweck etwas unter forgendem Titel geschrieben: „Ruinen. Trophaeen. Palmen. Große Sonate f. d. Pianof. Für Beethovens Denkmal“» – ROBERT SCHUMANN, Leben aus seinen Briefen, vol. 1, a cura di Hermann Erler, Berlin, Ries & Erler, 1887, p. 101. 34 «Das nächste im Druck sind dann Phantasien, die ich aber zum Unterschied von den Phantasiestücken, „Ruine, Siegerbogen u. Sternbild“ und „Dichtungen“ genannt habe» – Bw 1, p. 145.

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aste Sotheby’s del 1977 e del 1984). Reca in francese un’iscrizione aggressivamente depennata: «Ruines. Fantaisie pour le Pianoforte dediée à <…>». Questa è sostituita con «Ruinen, Trophäen, Palmen. Große Sonate für das Pianoforte. Für Beethovens Monument». Siamo dunque di fronte all’autografo di un primo movimento, “Ruinen”, all’origine pensato singolarmente 35 e poi incluso nel progetto più ampio del monumento a Beethoven, presenza ingombrante che dietro l’inchiostro offusca una dedica più segreta. Oltretutto, all’altezza della celebre sezione che nelle edizioni odierne è segnata con «Im Legendenton» alla sinistra del rigo, come un’indicazione di andamento, l’autografo reca invece “Romanza” al centro, come un titolo vero e proprio. 36 Siamo trascinati subito verso la grande questione della forma vocale nella musica strumentale; concettualmente, verso l’antinomia di una voce che parla in un mondo senza parole.37 C’è poi la Stichvorlage, il Ms. Mus. 37 custodito alla Biblioteca Nazionale Széchényi di Budapest, ultimo esemplare di scambio col copista Breitkopf, subito precedente alla prima edizione. Il titolo è «Dichtungen. Für das Pianoforte. Hrn. Franz Liszt zugeeignet», ma “Dichtungen” è rimpiazzato da “Fantasie”. All’inizio di Im Legendenton, poi, il copista lascia spazio tra l’intermezzo e la musica che lo precede, come se fosse qualcosa di lontano dal mondo che lo circonda, e pone il titolo “Legende” al centro. Tuttavia, nel manoscritto “Legende” è sostituito in prima istanza da «Erzählend im Legendenton» alla sinistra del rigo, a sua volta «Erzählend» è cancellato e l’indicazione diventa «Im Legenden-Ton», con la correzione delle maiuscole. Come “Romanza” solleva il problema della voce nella Fantasie, coi rinvii di “Legende” e ancor di più di «Erzählend» alla sfera della narrazione meditiamo su cos’è che la voce sussurra. Ma ci sorprende anche l’esito dei titoli contenutistici che rifinivano i singoli movimenti. Nella Stichvorlage, “Ruinen”, “Siegesbogen” e “Sternbild” sono scartati e ad essi subentra niente di meno che una nota in cui si esplicita la richiesta di porre una triangolazione astrale, prontamente abbozzata da Schumann, a capo di ogni singolo movimento. 38 Benjamin applaudirebbe all’immagine generata prima dal titolo del terzo movimento (seppur Schumann scriva Sternbild, mentre la ricorrente figura benjaminiama sia quella della Konstellation) e in seguito riflessa attraverso i simboli, in un brano in cui, come vedremo, indubbiamente «quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione». 39 35

Cfr. NICHOLAS MARSTON, “Im Legendenton”: Schumann’s “Unsung Voice”, «19th-Century Music» 16/3, 1993, p. 230. 36 Per le riproduzioni dell’autografo su permesso di Sotheby’s cfr. NICHOLAS MARSTON, Schumann. Fantasie, Op. 17, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, pp. 32-33. 37 «The signs of narrative in music include not merely an event-sequence and a way of reading, but rather a voice with a characteristic way of speaking» – CAROLYN ABBATE, Unsung Voices. Opera and Musical Narrative in the Nineteenth Century, Princeton, Princeton University Press, 1991, p. 48. 38 «Ueber die Anfänge der drei verschiedenen Nummern bitte ich jedermal drei Sterne zu setzen». Per le riproduzioni della Stichvorlage su permesso della Biblioteca Nazionale Széchényi cfr. MARSTON, “Im Legendenton” cit., p. 235 e ALAN WALKER, Schumann, Liszt and the C Major Fantasie, Op. 17: A Declining Relationship, «Music & Letters», 60, 2 (1979), pp. 158-160. 39 WALTER BENJAMIN, I «passages» di Parigi, in Opere complete, vol. 9, Torino, Einaudi, 2000, p. 516.

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Eppure, tra l’aprile e il maggio 1839, Breitkopf & Härtel annuncia la pubblicazione del brano semplicemente come Fantasie,40 i titoli dei singoli movimenti svaniscono nel nulla e con loro anche la simbologia astrale. Il brano riporta una dedica a Liszt, quella segreta dell’autografo è sepolta nel calco dell’inchiostro e neppure di quella a Beethoven c’è più traccia. Tornando al progetto scultoreo, i bonnesi vedranno cadere il velo dal monumento solo nell’agosto 1845, durante una cerimonia in pompa magna per il primo Beethovenfest. 41 C’era Federico Guglielmo IV di Prussia, ma Schumann disattese l’evento. 42 Abbiamo osservato come gli avvicendamenti epistolari ed editoriali della Fantasie ce la presentino coi titoli formali “Sonate” e “Fantasie”, col titolo “Dichtungen”, le triadi descrittive per i singoli movimenti “Ruinen”, “Trophäen”, “Palmen” e “Ruinen”, “Siegesbogen”, “Sternbild” e gli ipotetici titoli “Romanza” e “Legende” per l’intermezzo Im Legendenton. A partire dalla sua nomenclatura, il brano alimenta quelle ambiguità che lo pongono in un limbo della forma e animano una riflessione sul contenuto che esso vorrebbe esprimere. Ma già in merito alle qualità dei titoli descrittivi in generale pesa uno dei tanti «warum?» lasciati in sospeso dal trasognato Eusebius e, in questo caso, mosso proprio da uno spunto beethoveniano: La tua affermazione, Florestan, che ami la Sinfonia “Eroica” e la “Pastorale” di meno, perché Beethoven stesso le ha denominate così e perciò ha posto dei limiti alla fantasia, mi sembra derivare da una giusta impressione. Ma tu chiedi: perché? Allora io a stento saprei rispondere. 43

Da una parte, Florestan a gran voce affermava come la musica «sarebbe un’arte insignificante, se risuonasse soltanto e non avesse linguaggio né segni per gli stati d’animo» 44. Dall’altra, commentando la Grande ouverture de Waverley op. 1 di Berlioz, Schumann si lamentava della tendenza a chiedere il significato di ogni nota: «Cielo, quando verrà finalmente il tempo in cui non ci si chiederà più cos’abbiamo inteso con le nostre divine composizioni [...]». 45 Se la sua posizione in merito alla dicotomia tra il suono puro e quello descrittivo appare composita, ciò si spiega proprio in quanto per lui questo manicheismo risulta sterile: 40

Cfr. Anzeige, in NZfM 10/40, 1839, p. 160. Cfr. Inauguration des Beethoven-Monument, in NZfM 23/7, 1845, p. 28. 42 «Reise zum Beethovenfest angetreten Donnerstag d. 31sten Juli 1845»; «schon sehr krank aufgestanden»; «Aenderung des Reiseentschlussen» – Tb 2, p. 393. 43 «Deinen Ausspruch, Florestan, daß du die Pastoral- und heroische Symphonie darum weniger liebst, weil sie Beethoven selbst so bezeichnete und daher der Phantasie Schranken gesetzt, scheint mir aus einem richtigen Gefühl zu beruhen. Fragst du aber: warum? so wüßt’ ich kaum zu antworten» – ROBERT SCHUMANN, Aus Meisters Raros, Florestans und Eusebius’ Denk- und Dichtbüchlein, in Gesammelte Schriften über Musik und Musiker (di qui in poi GS), vol. 1, a cura di Martin Kreisig, Leipzig, Breitkopf & Härtel, 1914, p. 28. 44 «Das wäre eine kleine Kunst, die nur klänge und keine Sprache noch Zeichen für Seelenzustände hätte!» – Ivi, p. 22. 45 «Himmel, wann endlich wird die Zeit kommen, wo man uns nicht mehr frägt, was wir gewollt mit unsern göttlichen Compositionen [...]» – SCHUMANN, Concertouverturen für Orchester, in NZfM 10/47, 1839, p. 187. 41

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Quanto poi alla difficile questione, riguardo fino a che punto la musica strumentale possa arrivare alla rappresentazione di pensieri e di avvenimenti, in molti guardano troppo inquieti alla cosa. Si sbaglia di certo quando si crede che i compositori si mettano davanti carta e penna col misero intento di esprimere, di descrivere, di dipingere questo o quello. Tuttavia, non si sottovalutino gli influssi casuali e le impressioni dall’esterno. Inconsciamente, accanto alla fantasia musicale continua spesso ad agire un’idea [...]. 46

Le idee che muovono la musica devono annidarsi sia nella relazione dialettica dell’opera d’arte con la sua stessa tradizione estetica che in quella con gli eventi che ne circondano la produzione. Così, un ragionamento sulla forma e sul contenuto dell’opera si svincola dalla concezione che le vorrebbe nettamente separate. In merito alle qualità dei titoli formali “Sonate” e “Fantasie”, ci è utile rilevare l’indirizzo estetico di Schumann all’alba della pubblicazione del brano. Nel 1839, egli esortava i compositori a volgersi verso le forme lunghe: «si viri verso generi superiori, verso la sonata, verso il concerto, o se ne creino di più grandi». 47 Allo stesso tempo, però, intimava di non rimanere incollati alla tradizione. In merito alla sonata: ma per il resto sembra che la forma abbia percorso il suo ciclo vitale e sì questo è nell’ordine delle cose e non dovremmo ripetere per secoli l’uguale ed essere accorti anche verso il nuovo. Dunque si scrivano sonate, o fantasie (ciò che garba come nome), solo non ci si dimentichi della musica. 48

Per lo Schumann secondo il quale il tempo della sonata era concluso, le manifestazioni coeve di quel genere rischiavano di fermarsi a imitazioni poco riuscite. I compositori avrebbero dovuto abbandonare il filisteismo e abbracciare nuovi orizzonti. Ecco un altro passo in linea con l’invito a chiamare ciò che si compone “sonata” o “fantasia”, come se fossero interscambiabili: Noi siamo abituati, in base al nome che una cosa porta, a richiuderla in se stessa; riponiamo determinate aspettative in una “fantasia”, altre in una “sonata”. Per i talenti di secondo rango è sufficiente padroneggiare la forma tradizionale, a quelli di primo rango consentiamo che l’allarghino. 49 46

«Was überhaupt die schwierige Frage, wieweit die Instrumentalmusik in Darstellung von Gedanken und Begebenheiten gehen dürfe, anlangt, so sehen hier viele zu ängstlich. Man irrt sich gewiß, wenn man glaubt, die Componisten legten sich Feder und Papier in der elenden Absicht zurecht, dies oder jenes auszudrücken, zu schildern, zu malen. Doch schlage man zufällige Einflüsse und Eindrücke von außen nicht zu gering an. Unbewußt neben der musikalischen Phantasie wirkt oft eine Idee fort [...]» – SCHUMANN, Sinfonie von H. Berlioz, in GS 1, p. 84. 47 «Zu höheren Gattungen zu wenden, zur Sonate, zum Concerte, oder eigene grössere zu schaffen» – SCHUMANN, Etuden für das Pianoforte, in NZfM 10/34, 1839, p. 74. 48 «im Uebrigen aber scheint es, hat die Form ihren Lebenskreis durchlaufen und dies ist ja in der Ordnung der Dinge und wir sollen nicht Jahrhunderte lang dasselbe wiederholen und auch auf Neues bedacht sein. Also schreibe man Sonaten, oder Phantasien (was liegt am namen), nur vergesse man dabei die Musik nicht» – SCHUMANN, Sonaten für das Clavier, in NZfM 10/34, 1839, p. 134. 49 «Wir sind gewohnt, nach dem Namen, den eine Sache trägt, auf diese selbst zu schließen; wir machen andere Ansprüche an eine “Phantasie”, andere an eine „Sonate“. Bei Talenten zweiten Ranges genügt es, daß sie die hergebrachte Form beherrschen: bei denen ersten Ranges billigen wir, daß sie sie erweitern» – SCHUMANN, Sinfonie von H. Berlioz cit., p. 70.

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Schumann continua con la chiosa secondo cui solo al genio è permesso di produrre liberamente. Ci interessa, però, il fatto che l’impulso riformatore, in risposta alla voluminosa eredità della Wiener Klassik, non appaia meramente demolitore. Il proposito di decostruzione della forma a partire dalla rigidità del suo nome è da leggere nell’ottica dell’ibridazione. L’allargamento della forma forza il lettore oltre la sua statica identificazione e muove verso il domandare critico riguardante la sua concezione. Ad esempio, la fantasia potrebbe tendere verso una struttura interrotta e la sonata verso una struttura in continuum. Tuttavia, resta arduo compiere il superamento della tradizione, perché l’embrione della riforma nasce dall’autorità da oltrepassare. Beethoven scrive due Sonata quasi una fantasia, op. 27 n. 1 e 2. Solo una forma nuova capace di connettere l’allora e l’avvenire a partire dall’ora avrebbe potuto sovvertire la forma vecchia. ☆☆

Il primo movimento della Fantasie si apre in sforzando con l’armonia di sopratonica incastrata su un pedale di dominante. Sin dall’inizio si rivela questa qualità costitutiva del brano: ciò che nella dialettica tonale di per sé tende alla distensione, qui è destinato a vorticare rimanendo in tensione perpetuamente. Quel pedale di dominante non risolverà mai in maniera esplicita, se non alla fine del brano e per mezzo di un ‘fattore esterno’. La sequenza di semicrome la–sol–fa al basso preannuncia l’origine della frase a1 (bb. 2-5), che di lì a poco si staglierà in ottave al canto, aprendo il primo gruppo tematico (bb. 1-33): 50

Questa frase discendente è seguita dalla sua controparte ascendente che termina sulla settima di dominante. Già al secondo periodo, a1 si sposta di un tono in avanti e a2 (bb. 14-17) che le consegue prosegue anch’essa in moto discendente:

La melodia asseconda l’illusione del basso di star portando a sol maggiore. Una volta che il basso affonda sul sol, però, capiamo dalla settima di essere ancora nell’area di dominante. Ecco che a1 riappare contratta in valori e a2 si estende verso il 50

Il lettore perdonerà qualche licenza grafica utile a evidenziare, nei prossimi esempi musicali, la genesi monomotivica del primo movimento della Fantasie.

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basso in intervalli (bb. 19ss.). La musica porta in ritardando verso un’imminente modulazione, preannuciata dal la♭. Qui, si ha la straniante riproposizione del primo tema in mi♭ maggiore (bb. 28ss.). Essa restituisce quasi l’impressione che la musica sia tornata indietro invece che proseguire in avanti, che l’esposizione stia cominciando di nuovo,51 oppure che inizi una sorta di transizione che attinge dal primo tema. È curioso notare come la riesposizione del motivo condensi lo sviluppo che esso stesso fin lì ha subito: è forte com’era a b. 2 ed è contratto come poi era divenuto a b. 19. In realtà, proseguendo nell’ascolto, capiamo che il fa al basso si prefigurava già come sottodominante del do minore con cui inizia la vera transizione t (bb. 33-41). Dunque il vortice di semicrome alla sinistra si interrompe alternandosi con un inciso sincopato alla destra. Questo è connesso a ciò che è già stato (osserveremo come lo sia anche a ciò che ancora dev’essere), nella misura in cui ricalca l’inciso in levare di a2:

La transizione, passando per sol minore, porta al secondo tema in re minore. Confrontando il materiale col primo gruppo, si nota subito quanto il secondo (bb. 41-81) conservi ancora la figurazione di semicrome all’armonia. Alla melodia, invece, la frase b1 (bb. 41-44) mantiene il moto discendente per gradi congiunti e b2 (bb. 45-47) si estende anch’essa verso il basso in intervalli. È difficile negare un’analogia con lo sviluppo che a1 e a2 subiscono a bb. 19ss.:

51

«One has the distinct impression that the exposition, after a false start, is beginning again, this time firmly in E♭ major» – LINDA CORRELL ROESNER, Schumann’s “Parallel” Forms, in «19thCentury Music» 14/3, 1991, p. 274.

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Nella proposta di materiali così interconnessi, tra il primo e il secondo gruppo, l’esposizione della Fantasie elude la chiara logica oppositiva su cui si fonda la dialettica della forma-sonata; senza di essa, il suo discorso sfugge al ‘senso’. Da b. 49 in poi, il vortice di semicrome all’armonia, che la musica si portava dietro sin dall’inizio, lascia il posto alle sestine di crome e, alla melodia, il secondo tema inizia a mimetizzarsi. Ricordano la sua forma invertita quelle semiminime accentate, incastrate tra le sestine in opposizione emiòlia, ad esempio a b. 54. Così, come accadeva per il primo, il secondo tema si trasfigura per poi essere esposto nuovamente in un’altra tonalità, in questo caso fa maggiore (bb. 61ss.). Capiamo che la bivalenza tonale eretta intorno alla distanza di terza minore, do-mi♭ per il primo gruppo, re-fa per il secondo, è appunto prerogativa di entrambi i gruppi tematici. 52 Tuttavia, quando il secondo tema riappare in fa maggiore, è come se fosse un altro tema, con una lirica nuova, perché ormai il vortice di semicrome all’armonia ha fatto posto alle crome per terze il cui moto sincopato evoca un’eloquenza da ballata romantica. A b. 73, il secondo tema si disintegra in una progressione in ritardando, essa porta al breve Adagio (bb. 76-81), che si può pensare come una sorta di coda dal tono quasi recitativo. Ora, a b. 82, inizia la sezione di solito classificata come il brevissimo sviluppo del primo movimento (bb. 82-97). Tuttavia, se consideriamo il tipo di elaborazione monomotivica perseguita dal brano fin qui, la stessa idea di uno sviluppo a sé stante risulta quasi inservibile. La cosa certa è che le ottave sincopate a b. 82 sono anch’esse legate all’inciso a bb. 14-15 e pure il frammento lirico a bb. 90-91 è una reminiscenza del materiale tematito. Questa sezione, più che le sembianze di uno sviluppo, sembra assumere quelle di un’altra transizione. Essa ci rivela che l’unico criterio strutturale del brano è quello di una sconnessa coazione a ripetere. Infatti, la transizione in vero non transita, non conduce in avanti, bensì all’indietro, è retroattiva. Quando tutto sembra portare a una cadenza sulla dominante di sol minore, a b. 97, il basso affonda sul re, ma il si e il sol non risolvono sul la e sul fa♯. La dominante di do maggiore ci rispedisce allo spazio sonoro del primo gruppo tematico. La Fantasie sta ricominciando da capo. Si ha quella che definiremmo ripresa (bb. 97-296),53 senza che lo sviluppo sia mai iniziato o, meglio, non abbia mai avuto modo di terminare. La ripresa non ritorna però all’inizio del brano, ma parte dalla forma contratta e sottovoce di a1. Sembra esserci nuovo materiale nell’episodio transitorio (bb. 105ss.) che divide la prima e la seconda esposizione del tema. Stavolta, a1 viene riproposta (bb. 119ss.) a gran voce e nella forma iniziale, seguita da a2 estesa verso il basso in intervalli. Intanto, il pedale di tonica ha rimpiazzato quello di dominante. È questo il momento in cui la musica si dissolve nei cromatismi discendenti che portano al celebre intermezzo Im Legendenton in do minore (bb. 129-224). La sua 52

«The juxtaposition of keys removed by a minor third (here, C/ E♭) emerges as a fundamental feature of thematic presentation in the movement as a whole» – JOHN DAVERIO, Schumann’s “Im Legendenton” and Friedrich Schlegel’s “Arabeske”, «19th-Century Music» 11/2, 1987, p. 156. 53 Si consideri la circoscrizione della ripresa, tra b. 97 e b. 296, indipendentemente da Im Legendenton che ad essa si interpone.

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straniante introduzione, che invece è in sol, è il “c’era una volta” 54 che contribuisce a porre la musica, come tutte le leggende che si rispettino, lontana nel tempo e nello spazio. Con la promessa di ritornare sulla questione, accenniamo al fatto che, oltre ad appellarsi alla prospettiva di distanziamento appena descritta, quest’intermezzo diverge perché, nella sua forma rondò, appare nettamente più organico, più razionale rispetto a ciò che lo circonda. Ad ogni modo, seppur in un contesto che diverge, la frase l (bb. 140-144) ricalca quella che era la transizione dal primo al secondo tema, che non a caso, almeno inizialmente, era in do minore:

Più volte, l è esposto in modo più o meno inalterato, ma con una corazza sonora sempre più vigorosa. La musica raggiunge un climax a b. 156 e di lì in poi il tema si alterna a due episodi più rapsodici, che intervengono tra bb. 156-173 e bb. 181-204. Il secondo di questi, ancora una volta, ci rassicura sull’interconnesione motivica di Im Legendenton con il materiale dell’esposizione, poiché ne rievoca il ricorsivo moto discendente per gradi congiunti. Quando l riappare, in maniera simile alla prima volta, conduce a un climax a b. 212. Im Legendenton giunge al termine quando una breve coda finale sembra alludere di nuovo al materiale dell’esposizione, riproponendone stavolta il moto discendente per gradi disgiunti. Quando alla coda segue la riapparizione del primo tema (bb. 225ss.), ci accorgiamo che Im Legendenton era posto, nell’ossatura del primo movimento della Fantasie, come un elemento di spaccatura nella ripresa,55 che in effetti ricomincia da dove si era interrotta. Dunque la ripresa ripropone a gran voce il primo tema nella sua forma in mi♭ maggiore. Quella che era la transizione dell’esposizione qui si accorcia e si conclude sulla dominante di do minore. Ecco che il secondo tema stavolta è esposto in questa tonalità e di conseguenza la sua riesposizione a distanza di terza minore ora sarà in mi♭ maggiore. Se nell’esposizione abbiamo osservato il rifiuto della contrapposizione dialettica tra il primo e il secondo gruppo dal punto di vista della conservazione del materiale melodico, nella ripresa si rincara la dose, poiché il secondo tema si mantiene indubbiamente più vicino anche allo spazio armonico del primo. Ora approdiamo a un punto cruciale del movimento. Dopo la riesposizione del secondo tema in mi♭ 54

«Is it too fanciful to hear these measures as a musical analogue for the kind of conventional opening gambit in literary narrative (“Once upon a time, long ago…”) [...]?» – MARSTON, “Im Legendenton” cit., p. 238. 55 «“Im Legendenton” has been intentionally placed to disturb what would otherwise have been an absolutely symmetrical form: exposition –“Im Legendenton” – recapitulation. It is rather positioned between the two tonal elements of the first theme group in the recapitulation, C/E♭» – DAVERIO, Schumann’s “Im Legendenton” cit., p. 158.

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maggiore, la musica procede esattamente come nell’esposizione. Ritroviamo quella che abbiamo riconosciuto come una sorta di coda in recitativo e anche il presunto sviluppo che ci sembrava più una transizione retroattiva. Difatti, dopo di essa, la musica ancora una volta ricomincia da capo. Il primo tema riappare, come se la ripresa tenesse fede alla sua funzione davvero fino in fondo, ripetendo finanche se stessa e plasmando così la mise en abyme di una musica dal ricorso potenzialmente infinito. Se Schumann davvero riesce a imperniare un’opera a matrioska nei confini della carta stampata, l’unico modo per interromperla è calare dall’alto, nel corso della musica, un evento estrinseco ad essa. La musica potrebbe continuare all’infinito, se non fosse per il sopraggiungere di una coda (bb. 296-309) in cui spicca la frase γ, costruita sulle note del lied n. 6 dal ciclo di Beethoven An die ferne Geliebte op. 98. Considerando che solo qui Schumann concede, al vacillare della sua musica, la cadenza perfetta su un do mai realmente affermato sin dal pedale di dominante all’inizio, il tema di Beethoven finisce per porsi sia come esito che come principio armonico del brano. In più, scopriamo che γ veniva preparata dai suoi accenni fugaci, come quelli a bb. 156-157 o a bb. 49-50. Da una parte, è chiaro che il tema di Beethoven concretamente sia antecedente a tutto il resto, dall’altra, sembra sgorgare dall’evoluzione motivica del brano. Se si raffronta poi col materiale del primo e del secondo tema, paradossalmente iniziamo a dubitare di ciò che funge da materiale primario, di ciò che viene prima e di ciò che viene dopo:

Daverio osservava che «forse la rete motivica di Schumann è plasmata per dare l’impressione generale che tutto sia connesso a tutto il resto, sia avanti che indietro nel tempo». 56 Allora, il tema di Beethoven si pone anche come esito e come principio melodico del brano. Quando in An die ferne Geliebte la musica giunge a «Nimm sie hin denn, diese Lieder», il canto dell’amante si proietta nella lontananza, l’amata si presta all’ascolto e, come in un asterismo, si realizza la configurazione spaziale che 56

«Perhaps Schumann’s motivic network was fashioned to produce the general impression that everything is related to everything else, both forward and backward in time» – Ivi, p. 161.

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lacera il vuoto tra i due. 57 Nella sua origine armonica, la tonalità C in notazione tedesca, e in quella melodica, un tema dal chiaro potenziale semantizzabile, il primo movimento della Fantasie si dissolve invocando un’amata lontana che inizia per “C”. Nella Stichvorlage, anche il terzo movimento si chiudeva con l’avvento del tema di Beethoven.58 Schumann alla fine cambierà idea, ma un appunto di Raro saggiamente sentenziava che «la prima concezione è sempre la più naturale e la migliore. L’intelletto sbaglia, il sentimento no». 59 ☆☆☆

Come un monumento che piange e allo stesso tempo celebra un parricidio, il primo movimento della Fantasie vorrebbe utilizzare Beethoven proprio per conquistarne l’eredità. Le ambiguità che esso ci pone sollecitano il problema critico che vede nel frammentismo, da una parte, il carattere essenziale dell’architettura schumanniana e, dall’altra, il fattore compromettente per la dialettica strutturale delle forme lunghe. Tuttavia, il fatto che il brano si qualifichi in un difetto di forma lo compromette quanto un quadro di Klee può essere compromesso dal suo infantilismo. Rostagno osserva che, a fine anni Trenta, nelle forme lunghe di Schumann «l’attimo, il particolare, il momento, la parte, il frammento è valido per sé, non come funzione del tutto destinata a realizzare un obiettivo finale».60 Piuttosto, la nozione di obiettivo, melodico o armonico, sembra svincolata dalla sua strutturazione in una temporalità lineare, che rinchiuda la musica nella prospettiva di un sistema compiuto: In Schumann tutto un sapiente lavoro melodico, armonico e ritmico, giunge a questo risultato semplice e sobrio, deterritorializzare il ritornello. Produrre un ritornello deterritorializzato, come meta finale della musica, lasciarlo andare libero nel Cosmo, è più importante che costruire un nuovo sistema. [...] Resta il fatto che non si è mai certi di essere abbastanza forti, poiché non si ha alcun sistema, si hanno soltanto linee e movimenti. 61

Nella musica disorganica del romantico che non è mai certo di essere abbastanza forte, che abita il suo territorio, ma percependolo come perduto, una ripartizione in concatenamenti riconducibili precisamente a quel modello organico che è la formasonata – l’intero che si compie per contrapposizione dell’idea con la sua negazione – risulta inservibile, poiché viene a mancare la sua chiara logica oppositiva. La dialettica stabilità-instabilità, realizzata sul piano armonico in distensione-tensione e su quel57

«The poem unfolds the topos of lament transformed into song, which the male lover sends into the distance to overcome what separates him from his beloved. But only in the last song of Beethoven’s cycle, as the sun sets over a blue lake, will the beloved sing these songs. Only then, their “Liebesklang” has the effect of actioindistans: the spiritual communion of hearts bridging the gap between their physically distant “bodies”» – BERTHOLD HOECKNER, Schumann and Romantic Distance, «Journal of the American Musicological Society» 50/1, 1997, pp. 114. 58 Cfr. WALKER, Schumann, Liszt and the C Major Fantasie cit., p. 160. 59 «Die erste Konception ist immer die natürlichste und beste. Der Verstand irrt, das Gefühl nicht» – SCHUMANN, Aus Meisters Raros, Florestans und Eusebius’ Denk- und Dichtbüchlein cit., p. 25. 60 ROSTAGNO, Schumann e «la fine del periodo artistico goethiano» cit., p. 29. 61 DELEUZE - GUATTARI, 1837. Sul ritornello cit., pp. 487-488.

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lo melodico in esposizione-sviluppo, è licenziata da una instabilità-instabilità per la quale la musica sembra precipitare perpetuamente a vuoto, come nell’esperienza dell’inconscio descritta da Lacan: «la forma essenziale in cui ci appare inizialmente l’inconscio come fenomeno è la discontinuità-discontinuità in cui qualcosa si manifesta come un vacillamento». 62 Se delle idee si aggirano in questo precipitare della musica, in ogni caso, il loro senso non può essere letterale. Jankélévitch osservava che «la musica si muove su un piano del tutto diverso da quello dei significati intenzionali, [...] senza la visione retrospettiva del cammino percorso, il puro ascolto non noterebbe lo schema della sonata». 63 Le parole e la sintassi sono mezzi della coscienza, laddove, come nel sogno, nelle fantasie mnestiche, l’inconscio ci parla per figurazioni. Se la parola appartiene alla storia della psiche, l’immagine e il suono appartengono invece alla sua pre-storia.64 In questo senso, il linguaggio è la censura dell’inconscio al degré zéro e il suo uso sovversivo implica un risarcimento. Il bambino gioca con le forme della lingua e accosta le parole senza badare al senso. Da adulto questa libertà gli viene censurata, gli sono permesse solo combinazioni sensate. Emerge così l’investimento nel piegare le limitazioni della lingua manipolandone la forma e il contenuto, costruendone schemi esoterici, il non-più-bambino «trova il suo diletto nel fascino inerente a ciò che la ragione proibisce».65 Nella Fantasie che vuole realizzare ciò che proibisce la forma, lo spazio melodico è un’unica radice che si estende come un rizoma e quello armonico è la tesa corteccia che potrebbe non distendersi mai, se non per l’intervento di fenomeni esterni, perni asimmetrici che sopraggiungono quando meno li si aspetta, ad aprire e allo stesso tempo colmare le faglie di un territorio destrutturato. Ecco dunque l’avvento di Im Legendenton come fenomeno che spacca e s’intercala nella ripresa e quello di An die ferne Geliebte come evento che risulta principio della musica e ne decreta anche l’esito. Abbiamo osservato come quel posizionamento di Im Legendenton produca un certo effetto di distanziamento. Im Legendenton sopraggiunge da fuori, da lontano, «chiaramente interrompe un processo in moto, solo per ‘parlare’ in un modo che è nettamente diversificato da quello della musica circostante». 66 Per una voce che si propone di narrare in tono di leggenda, la distanza è prerogativa fondamentale del territorio che separa il poeta da chi ascolta la sua storia.67 Eppure, da una prospettiva così lontana, Im Legendenton sembra comunque raccontare episodi vicini, attraverso le 62

JACQUES LACAN, Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Torino, Einaudi, 2003, p. 26. 63 JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile cit., p. 16. 64 «La rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta» – FREUD, L’inconscio, in Opere, vol. 8 cit., p. 85. 65 ID., Il motto di spirito cit., p. 113. 66 «It clearly interrupts an ongoing process, only to “speak” in a manner that is sharply differentiated from that of the surrounding music» – DAVERIO, Nineteenth-Century Music cit., p. 29. 67 «Music is compared [...] with a literary genre [...] characterized above all by great discursive distances between a narrator's voice and the actions recounted. [...] Discursive space must be taken as one necessary mark of narrativity» – ABBATE, Unsung Voices cit., p. 26.

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continue allusioni ai frammenti dell’esposizione. A differenza di essa, però, l’intermezzo appare nettamente più organico, più razionale. Quest’osservazione ci riconduce a Dichterliebe. Marston osserva come in Ein Jüngling liebt ein Mädchen la voce del poeta necessiti di distanziarsi dal dolore della sua storia: Il lied n. 11 è il primo – difatti è l’unico – lied nel ciclo a sganciarsi dal mondo dell’“io” e del “tu” del poeta e della sua amata perduta. Per essere chiari, l’alte Geschichte a cui il poeta si riferisce nel lied n. 11 racconta la sua stessa storia, ma è il modo del suo raccontare che è nuovo e rilevante. È raccontata come una storia universale, senza tempo, che offre al poeta l’occasione di porre il suo stesso dolore in una prospettiva più generale, finanche più razionale. 68

La leggenda sembra dunque raccontare una storia dell’io, ma da una prospettiva meno emotiva e più razionale, meno individuale e più universale, che si compie nel momento stesso in cui quest’io si riconosce nel poeta. Alla fine della Recherche (o dovremmo dire all’inizio), il narratore-personaggio si riconosce nel narratorescrittore. Marcel diventa scrittore. Dalla sua penna sgorga l’energia del percorso mnestico che mantiene i suoi ricordi attaccati allo spazio della realtà, ma proprio staccandoli dal sé e attaccandoli alla carta. Il poeta nasce quando l’io distanzia la sua storia da sé e inizia a raccontarla, ergendosi al di sopra o, quantomeno, prendendo parola al posto di chi lo ascolta: La cocente privazione fu forse ciò che indusse uno dei singoli a svincolarsi dalla massa e a trasporsi nel ruolo del padre. Chi fece questo fu il primo poeta epico, e il passaggio si compì nella sua fantasia. [...] Il poeta va in giro e racconta alla massa le azioni dell’eroe da lui inventato. Quest’eroe non è in sostanza altri che lui stesso. 69

In questo senso, se il procedere del primo movimento della Fantasie è il romanzo, Im Legendenton che si interpone dentro di esso ne è la sua epica. Da una prospettiva diversa, si direbbe che entrambe le parti veicolano un desiderio di condensare i ricordi e buttarli fuori dal sé, per poi rinchiuderli in un’enorme bara e immergere il tutto, come recita un’altra lirica da Dichterliebe, negli antri di un’acqua profonda: Die sollen den Sarg forttragen, Und senken in’s Meer hinab; Denn solchem großen Sarge Gebührt ein großes Grab. Wißt ihr warum der Sarg wohl 68

«Song 11 is the first – in fact it is the only – song in the cycle to break away from the world of “I” and “you” of the poet and his lost beloved. To be sure, the alte Geschichte which the poet relates in Song 11 tells his own story, but it is the manner of its telling which is new and significant. It is told as a timeless, universal tale, one which offers the poet the chance to put his own misery in a more general, even rational perspective» – NICHOLAS MARSTON, Schumann’s Monument to Beethoven, «19th-Century Music» 14/3, 1991, p. 255. 69 FREUD, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, vol. 9 cit., pp. 322-323.

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So groß und schwer mag sein? Ich legt auch meine Liebe Und meinen Schmerz hinein. 70

Su questi ultimi due versi di Die alten, bösen Lieder, il lied di Schumann non può che intonare un ‘tema di Clara’. Dichterliebe si rivela pozzo ricolmo di archetipi che sprofondano anche nelle acque della musica senza parole. Barthes sottolineava come «i cicli di Lieder non raccontano una storia d’amore, ma solo un viaggio: [...] un divenire senza finalità: il tutto, in quanto può, in un solo colpo e all’infinito, ricominciare».71 Anche il primo movimento della Fantasie è un perpetuo vacillare intorno a Clara, ferne Geliebte da cui tutta la musica sgorga e a cui tutta la musica termina, che può sopraggiungere come allontanarsi di nuovo e che, in ogni caso, una ferita inconscia macchia come perduta. In questo senso, come osserva Cavallo, la musica davvero «sembra isomorfa al movimento stesso della pulsione: percorso che ha per finalità il circuito intorno al posto vuoto dell’oggetto “perduto”, percorso destinato inevitabilmente a ripetersi»,72 e perciò si pone in stretta relazione – più che con una logica degli stati d’animo, delle forme del sentimento di Susanne Langer 73 – con la dinamica del corpo e del desiderio descritta da Barthes: Il corpo schumanniano conosce (qui, almeno) solo biforcazioni; non si costruisce, diverge incessantemente, secondo un accumulo di intermezzi [...]. Il testo musicale non segue (per contrasti e amplificazioni) ma esplode: è un big-bang continuo. Non si tratta di battere i pugni contro la porta, come si pensa faccia il destino. Piuttosto, è necessario che batta all’interno del corpo, contro la tempia, nel sesso, nel ventre, contro la pelle interna, in tutto quell’emotivo sensuale che si chiama, per metonimia e anche per antifrasi, il «cuore». 74

Nel battito che dal corpo muove la Fantasie, penetra furiosamente la storia stessa delle dediche perdute, dei titoli e delle triangolazioni astrali scomparse e delle sezioni di musica espunte. Le rovine del suo racconto possono ricostruirsi nel lettore – egli prosegue la catena di identificazione che aveva portato l’io a riconoscersi nel poeta. Mosso a indagare i nessi tra fenomeni sonori che sfuggono a una dialettica lineare – e in ciò rivelano la loro trama inconscia – egli giunge, non a sproposito, all’ipotesi che i fenomeni nel caos reiterino instancabilmente una sola idea. Ancora Jankélévitch: «quando si sviluppano dei significati ciò che è stato detto non va più ripetuto; in mu70

«La bara dovrebbero portar via | e affondarla giù nel mare, | perché una bara così grande | merita una grande tomba. | Sapete perché una bara così | dev’esser grande e pesante? | Lì dentro persino il mio amore | e il mio dolore ci pongo» – HEINE, Die alten, bösen Lieder, in Buch der Lieder cit., p. 171. 71 BARTHES, Il canto romantico, in L’ovvio e l’ottuso cit., p. 279. 72 MICHELE CAVALLO, L’inconscio musicale. Riflessioni intorno a Robert Schumann, in Robert Schumann. Dall’Italia cit., p. 155. 73 «Because the forms of human feeling are much more congruent with musical forms than with the forms of language, music can reveal the nature of feelings with a detail and truth that language cannot approch» – SUSANNE K. LANGER, Philosophy in a New Key. A Study in the Symbolism of Reason, Rite and Art, New York, New American Library, 1959, p. 191. 74 BARTHES, Rasch, in L’ovvio e l’ottuso cit., p. 289.

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sica e in poesia invece ciò che è stato detto è ancora da dire [...]. Tacere [...] sarebbe come rifiutare di scrivere un poema sull’amore perché il soggetto è già stato trattato». 75 Come le stelle proseguono e finiscono in un solo bagliore originale, quei fenomeni sonori anelano e scaturiscono da un solo fuoco: non l’estremo puntiforme di un tempo lineare che non è, ma il fuoco di un tempo che inizia ad essere nel momento in cui la sua linearità deflagra. Se l’astrologo, pur dal suo angolo del mondo, continua a narrare un divenire delle cose architettato nelle triangolazioni immaginarie dei suoi asterismi, il poeta trasfigura l’universale, ergo il compiuto, il mondo che lui vorrebbe, nella misteriosa ponderazione dei suoi frammenti. Entrambi i visionari spodestano una realtà intollerabile, in cui si proietta una dinamica del desiderio senza censure, in cui si può uccidere un padre (Wieck-Beethoven) sposandone l’eredità più sfarzosa (Clara-Musica).

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JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile cit., p. 21.

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Walter Aveta - Oscar Corpo - Paola Nastasi TEN TO SURVIVE: LA SETTIMA ARTE DÀ VOCE AI BAMBINI* Nel 1979 l’Unicef volle patrocinare la realizzazione di un lungometraggio di animazione nella ricorrenza del ventesimo anniversario della Giornata internazionale del fanciullo.1 Si decise così di produrre dieci cortometraggi, ciascuno in relazione ad uno dei dieci articoli della Carta del fanciullo, e ogni corto venne affidato ad uno o più disegnatori provenienti da dieci paesi differenti, nell’ordine: Fernando Ruiz (Messico), Klaus e Katia Georgi (Germania), Eugene Fedorenko (Canada), Seppo Suo-Anttila (Finlandia), Roman Kacianof (Russia), Katalin Macskàssy (Ungheria), Manfredo Manfredi (Italia), Johan Hagelback (Svezia), Jerzy e Alina Kotowski (Polonia), John Halas (Inghilterra). Per la colonna sonora furono scelti cinque compositori italiani, a ciascuno dei quali venne richiesto il commento sonoro di due brani: Nino Rota (1911-1979), Ennio Morricone (1928-), Franco Evangelisti (1926-1980), Egisto Macchi (1928-1992) e Luis Bacalov (1933-2017), che in realtà era nato in Argentina, ma all’epoca era molto attivo in Italia, tanto da averne conseguito la cittadinanza.2 Com’è facile immaginare, i dieci cortometraggi di cui si compone Ten to Survive sono molto differenti l’uno dall’altro, e la pellicola nel suo insieme risulta essere estremamente eterogenea e frammentaria. Si veda in proposito il severo giudizio di Sergio Miceli, il musicologo che più assiduamente ha seguito le imprese di Morricone: […] nella realizzazione venne a mancare del tutto il rapporto di collaborazione fra autori e compositori, indispensabile nel cinema d’animazione a partire dalla genesi del lavoro. Inevitabilmente discontinuo nella qualità del disegno e dell’animazione e altrettanto se non di più nelle soluzioni musicali. 3 *Un ringraziamento alla prof. Daniela Tortora che ci ha dato l’opportunità di conoscere e di studiare con interesse e con passione il film d’animazione Ten to survive. 1 Venne redatta a Ginevra nel 1923 da parte della Società delle Nazioni - l’antecedente di ciò che oggi è l’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’ONU - la “Dichiarazione dei diritti del fanciullo” in seguito ai disastrosi avvenimenti della Prima Guerra Mondiale. Tale carta fu revisionata e poi approvata dall’ONU nel 1959. I diritti dei bambini nel mondo sono riassunti in dieci articoli che negano ad ogni Stato discriminazioni razziali, di genere, religiose e di altro tipo, mentre impongono ad ogni Stato di farsi garante della migliore formazione fisica e culturale dei bambini. Purtroppo tali articoli ancora oggi non fanno parte né dei diritti sanciti all’interno delle legislazioni dei singoli Stati, né tantomeno del Diritto internazionale, e fungono esclusivamente da monito sul piano morale. 2 Cfr. l’Appendice in calce allo scritto con le note biografiche sui disegnatori e i compositori (non siamo riusciti a rintracciare notizie inerenti a Eugene Fedorenko e Johann Hagelback). Va detto inoltre che, tenuto conto dello scopo umanitario del progetto, i compositori lavorarono per l’allestimento del film senza percepire alcun compenso. 3 SERGIO MICELI, Musica per film, Storia, Estetica, Analisi, Tipologie, Lucca-Milano, Libreria Musicale Italiana-Ricordi, 2009, p. 955.

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Ciononostante, siamo convinti che la difformità strutturale di Ten to Survive non inficiasse a suo tempo il conseguimento dell’obbiettivo umanitario e che, tra l’altro, ne costituisse il tratto distintivo originario, vale a dire che la messa a punto dell’impresa fosse stata sin da subito pensata da ideatori e produttori come la realizzazione di un insieme composito di immagini e di commenti sonori, una molteplicità di voci, in senso lato, per dare voce all’infanzia e ai suoi diritti trascurati o dimenticati proprio grazie al numero cospicuo e assai diversificato di disegnatori e musicisti provenienti da varie parti del mondo. Altro è poi il discorso inerente ai singoli corti e alle modalità di collaborazione fra i disegnatori e i compositori rispetto a ciascuno di essi: in tal caso possiamo senz’altro concordare con Miceli nell’affermare che una maggiore accuratezza nella definizione del rapporto fra immagini e suoni avrebbe certamente giovato alla qualità intrinseca dei dieci piccoli film d’animazione. Diversamente da quanto sostenuto da Miceli,4 sappiamo che per la messa a punto dell’intero progetto di sonorizzazione del film fosse stato interpellato in primis Franco Evangelisti, malgrado egli fosse da sempre ideologicamente contrario alla pratica della musica applicata, vale a dire alla soggezione della musica (d’arte) nei confronti delle prescrizioni di un regista e/o di un produttore ai fini della realizzazione di un manufatto commerciale. Soltanto il solido movente umanitario riuscì ad avere la meglio sui suoi convincimenti e, soprattutto, a indurlo all’impresa dopo il lunghissimo periodo di silenzio compositivo trascorso a partire dall’opera Die Schachtel degli anni 1962-63. Questo leggiamo nelle Note biografiche del compositore redatte nel 1980, nei mesi immediatamente successivi alla sua scomparsa: 1978 Fa parte della commissione italiana per la musica dell’UNICEF (United Nations Children’s Fund): organizzazione che lo invita insieme a Luis Bacalov, Egisto Macchi, Ennio Morricone e Nino Rota a scrivere la musica per un film d’animazione da realizzare per l’Anno internazionale del bambino. Scartata la possibilità di farlo con il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza torna a comporre, elaborando il progetto elettronico di Campi Integrati per strumenti convenzionali. […] 1979 In aprile registrazione delle due versioni di Campi integrati destinati all’UNICEF […] Dal 22 al 27 novembre partecipa a Firenze a un convegno dell’UNICEF intitolato “Firenze Cinema – Cinema for UNICEF”. Scopo del meeting: «ottenere un impegno pubblico di tutti i responsabili per gli audiovisivi per un futuro delle comunicazioni mediante immagine e suono, nello spirito del 1979, Anno Internazionale del Bambino». 5

Vale la pena di rileggere in proposito anche il commento redatto ‘a caldo’ da Claudio Annibaldi, un musicologo generazionalmente e ideologicamente vicino al compositore romano:

4

Ibidem. Appendice seconda. Franco Evangelisti – Note biografiche, a cura di Irmela Evangelisti Heimbächer, in di Franco Evangelisti e di alcuni nodi storici del tempo, Roma, Nuova Consonanza editore, 1980, pp. 129-145: 134-135. 5

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Questo […] ci pone anche in vista di una straordinaria novità nella produzione di Franco: l’incontro della sua musica («assoluta, se mai altre») con la dimensione del comporre eteronomo, funzionale, a metraggio. La soluzione ch’egli ha dato del problema non manca di finezza. […] Così il «campo di possibilità» dell’ultimo lavoro di Franco cela anche la possibilità di mimare – sotto specie di «aleatorio al massimo li-vello di sintesi» - il dispositivo tipico della musica commerciale: il congegno finalizzato all’utilizzazione massima di un minimo materiale di base. Possiamo pensare che Franco non si rendesse conto di questo? Di stare rischiando, con l’immagine delle sue cose migliori, la base stessa del credito di cui aveva goduto negli ultimi sedici anni? Direi di no. Tornava a comporre nei termini più svantaggiosi che potesse prevedere: con mezzi convenzionali assoggettati per giunta a esigenze di un’eteronomia tirannica. Però glielo chiedeva una grande istituzione umanitaria; avrebbe cooperato a un progetto filantropico di portata internazionale; la rinuncia ai diritti d’autore da lui proposta, e poi fatta propria anche dagli altri musicisti interpellati per il film, avrebbe tolto ogni equivoco al senso della sua prestazione. Non c’è dubbio che questo bastasse a fargli superare qualsiasi remora. Perché Franco aveva un senso vivissimo del dovere sociale […] Quando si sentiva «precettato dalla collettività» era pertanto capace di slanci solidaristici assolutamente rari. 6

Ten to Survive fu proiettato in anteprima nel corso della XXXIX edizione del Festival di Cannes, fuori concorso, il 21 maggio 1979. La congiuntura sfavorevole alla presentazione della pellicola fu la comparsa a Cannes in un’annata particolarmente florida per la cinematografia internazionale: al festival di quell’anno venivano presentati, tra gli altri, Manhattan di Woody Allen, Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e Prova d’orchestra di Federico Fellini. Ten to Survive venne quasi del tutto ignorato dalla stampa e dalla critica cinematografica. Successivamente la pellicola venne trasmessa dalla RAI Radiotelevisione italiana in una sola circostanza e, tra l’altro, suddiviso in due parti nei pomeriggi del 26 e del 27 dicembre del 1979 (lo stesso anno del Festival). Ed è questa la ragione per la quale abbiamo avuto a disposizione per il nostro studio un’unica fonte video, registrata su cassetta e risalente per l’appunto alla trasmissione televisiva targata RAI del ‘79. Per quanto concerne la colonna sonora del film, va invece segnalata la pubblicazione del disco da parte della etichetta WEA, su licenza CAM, nel 1983, ancora una volta con una pessima distribuzione. La copertina del long playing fu disegnata da Manfredo Manfredi, uno dei disegnatori più quotati della pellicola. 7

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CLAUDIO ANNIBALDI, Intorno a Franco Evangelisti, in di Franco Evangelisti cit. pp. 67-103: 93-94. Sull’intera vicenda del lungometraggio UNICEF, cfr. VALERIO D’ANGELO, Ten to Survive, in Franco Evangelisti: verso un nuovo mondo sonoro, a cura di Eleonora Ludovici e Daniela Tortora, «le Arti del Suono» II/4, 2010, pp. 155-162. 7

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Figura 1: Ten to survive, music score for a picture produced by Arnaldo Farina e Giancarlo Zagni, Milano WEA, 1983: copertina e retro del disco con la colonna sonora del film di animazione.

Il lungometraggio è strutturato in dieci episodi e ognuno si riferisce ad un differente articolo della Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo (ONU, New York, novembre 1959), il cui Preambolo scorre silenziosamente nei fotogrammi iniziali del film congiuntamente ai titoli di testa: Considerato che, nello Statuto, i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo e nella dignità e nel valore della persona umana, e che essi si sono dichiarati decisi a favorire il progresso sociale e a instaurare migliori condizioni di vita in una maggiore libertà; Considerato che, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo le Nazioni Unite hanno proclamato che tutti possono godere di tutti i diritti e di tutte le libertà che vi sono enunciate senza distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di ogni altra opinione, d’origine nazionale o sociale, di condizioni economiche, di nascita o di ogni altra condizione; Considerato che il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali, compresa una adeguata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita; Considerato che la necessità di tale particolare protezione è stata la Dichiarazione del 1924 sui diritti del fanciullo ed è stata riconosciuta nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo come anche negli statuti degli Istituti specializzati e delle Organizzazioni internazionali che si dedicano al benessere dell’infanzia; Considerato che l’umanità ha il dovere di dare al fanciullo il meglio di se stessa. L’ASSEMBLEA GENERALE Proclama la presente Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo affinché esso abbia una infanzia felice e possa godere, nell’interesse suo e di tutta la società, dei diritti e delle libertà che vi sono enunciati; invita genitori, gli uomini e le donne in quanto singoli, come anche le organizzazioni non governative, le autorità locali e i governi nazionali a riconoscere questi diritti e a fare in modo di assicurare il rispetto per mezzo di provvedimenti legislativi e di altre misure da adottarsi gradualmente in applicazione dei seguenti princìpi. [vedi infra]

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Il filo conduttore della pellicola è costituito dal decalogo dei diritti enunciato all’interno di detta Dichiarazione, i cui dieci principi vengono letti disgiuntamente dalla voce fuori campo di Marcello Mastroianni prima dell’avvio del corto cui fanno riferimento ed è per questo che li abbiamo trascritti in cima al commento critico su ciascuno di essi. Ad esaltare il contenuto e il valore simbolico di tutti gli articoli fa da sfondo alla lettura il battito incessante di un cuore. Nella tavola seguente compaiono i titoli dei singoli film di animazione facenti parte di Ten to Survive con i rispettivi autori e dei disegni animati e della colonna sonora: 1. FERNANDO RUIZ / NINO ROTA, Tutti i bambini (Messico) 2. KLAUS E KATIA GEORGI / LUIS BACALOV, Temino per imparare (Germania) 3. EUGENE FEDORENKO / FRANCO EVANGELISTI, Un nome e una cittadinanza (Canada) 4. SEPPO SUO-ANTTILA / ENNIO MORRICONE, Bambini del mondo (Finlandia) 5. ROMAN KACIANOF / NINO ROTA, Handicap (Russia) 6. KATALIN MACSKÀSSY / EGISTO MACCHI, Il bambino ha bisogno d’amore (Ungheria) 7. MANFREDO MANFREDI / ENNIO MORRICONE, Grande violino, piccolo bambino (Italia) 8. JOHAN HAGELBACK / EGISTO MACCHI, Storia di un uovo (Svezia) 9. JERZY E ALINA KOTOWSKI / FRANCO EVANGELISTI, Diritto all’infanzia (Polonia) 10. JOHN HALAS / LUIS BACALOV, Storia del diavolo cacciato via (Inghilterra) Tavola: Gli autori di Ten to survive Principio primo: il fanciullo deve godere di tutti i diritti enunciati nella presente Dichiarazione. Questi diritti debbono essere riconosciuti a tutti i fanciulli senza eccezione alcuna, e senza distinzione e discriminazione fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione o opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, le condizioni economiche, la nascita, o ogni altra condizione, sia che si riferisca al fanciullo stesso o alla sua famiglia.

L’autore delle immagini di Tutti i bambini è Fernando Ruiz, la colonna sonora è affidata alla invenzione compositiva di Nino Rota. Proprio in riferimento a questo primo corto di Ten to Survive, è presente all’interno del Fondo Rota della Fondazione Giorgio Cini di Venezia una cartellina contenente sette fogli, sui primi quattro dei quali compare una segmentazione del cartone per immagini con il relativo minutaggio: I. «cosmo - stelle - nebulosa (carrello)/ terra (come emblema luminoso)/ fiori […]» II. «mali della vita dei bambini […]» III. «forze ostili all’infanzia […]» IV. «battaglia bruchi apine» 8

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I fogli contenuti all’interno della cartellina intestata «UNICEF (per i cartoni animati da sonorizzare)», ANR RC 152 (Fondo Rota, Istituto della Musica della Fondazione Giorgio Cini di Venezia) sono stati trascritti e commentati in DANIELA TORTORA, Voce bianca, candore e altre cose: Rota e il mondo dell’infanzia, in L’altro Novecento di Nino Rota, a cura di Daniela Tortora, Napoli, Conservatorio di musica S. Pietro a Majella, 2014, pp. 73-91: 88-90.

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Si tratta di un cartone disegnato secondo i canoni estetici dell’epoca; i contorni sono ben delineati e i colori alquanto accesi, con immagini semplici ma efficaci e scorrevoli. Un contadino si prende cura della sua terra con l’aiuto di alcune api che si schierano in difesa dei fiori lottando addirittura contro i bruchi, grossi e aggressivi. I fiori, dopo essere stati curati dall’uomo, si trasformano in bambini di tutte le etnie del mondo e si uniscono in un abbraccio fraterno. La colonna sonora di Rota è un brano orchestrale il cui tema principale, dal carattere sereno e disteso, circola attraverso vari strumenti a fiato mentre l’accompagnamento è affidato agli archi.

Esempio 1: Trascrizione degli autori del tema principale di Tutti i bambini (Nino Rota).

La voce principale spetta ai fagotti nel momento in cui i bruchi divorano le foglie dei fiori, ma vengono prontamente cacciati dalle api, mentre la musica descrive l’azione con un aumento progressivo di tensione e una conseguente risoluzione. La colonna sonora presenta una strumentazione assai varia. Il compositore ha deciso di utilizzare soprattutto legni e ottoni per descrivere le varie fasi del racconto, mentre gli archi fanno da sfondo. A nostro parere l’utilizzo dei legni si combina molto bene con il contenuto espressivo delle immagini e soprattutto con i movimenti dei personaggi, sia dell’ape (da notare sono infatti i gesti del clarinetto quando compare l’insetto), sia del giardiniere. L’uso dei legni serve inoltre a dare l’idea del paesaggio in cui è situata l’azione, un’ambientazione campestre, fatta perlopiù di prati e di fiori. L’uso dei fagotti per dare l’idea dei grossi e grassi bruchi è assolutamente geniale e merita di essere segnalato, così come l’utilizzo degli archi nel registro grave per esprimere il senso di affanno. Interessante è anche il ricorso allo squillo della tromba, nel momento in cui l’ape chiama a raccolta le sue compagne per attaccare i bruchi: è un tipico caso di suono diegetico, cioè di una musica utilizzata all’interno del racconto per essere ascoltata dai personaggi in scena. Alcuni rapidi gesti dei legni vengono poi utilizzati a scopo descrittivo, ad esempio per indicare le gocce della pioggia, e anche qui la musica si adatta benissimo al clima generale del cartone. Vengono infine impiegati gli archi per il piacevolissimo tema che si ascolta in concomitanza con la scena in cui i fiori si trasformano in bambini. Stavolta i fiati si limitano ad accompagnare e gli archi giocano il ruolo della parte principale secondo una distribuzione strategica degli interventi strumentali che Rota ha sapientemente saputo dosare nel corso del cartone, evitando di mettere in campo da subito tutte le risorse a sua disposizione.

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Principio secondo: il fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di possibilità e facilitazioni, in base alla legge e ad altri provvedimenti, in modo da essere in grado di crescere in modo sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale, spirituale e sociale in condizioni di libertà e di dignità. Nell’adozione delle leggi rivolte a tal fine la considerazione determinante deve essere del fanciullo.

I disegnatori di Temino per imparare sono Klaus e Katia Georgi; Luis Bacalov è l’autore delle musiche. I disegni sono in questo caso molto particolari: è come se li vedessimo prender vita lentamente grazie al loro progressivo costruirsi nel corso del tempo. La qualità delle immagini è molto fine per essere inserita in un corto d’animazione; gli elementi rappresentati sono difficili da definire con precisione ad un primo sguardo e non vi sono colori ad eccezione di una leggera ombreggiatura. Il video intende mostrare l’evoluzione di un bambino a partire dall’immagine di un neonato che dorme all’interno di una sfera (simbolo del ventre materno), fino ad arrivare ad individui ben formati e istruiti. Oltre a questo, vi sono solo due interruzioni nel discorso filmico-musicale, entrambe di tipo drammatico: si tratta di due ‘attacchi’ da parte del mondo esterno ai bambini, ove guerra, morte e dolore affiorano attraverso le immagini e la relativa sonorizzazione a tinte forti e cupe, anche se in entrambi i casi alcune mani adulte sopraggiungono a proteggere gli infanti affinché essi possano continuare il loro percorso di crescita. Ad accompagnare i primi disegni c’è un sottofondo orchestrale in cui spicca la presenza di un assolo del flauto. Quando si vedono le immagini dei neonati che piangono ritorna il tema introduttivo del flauto, affidato questa volta al clarinetto. È il momento del pasto, compaiono i biberon e possiamo ascoltare per la prima e unica volta all’interno del film una citazione da un brano di repertorio: è il famoso motivo popolare francese Ah, vous-dirai je maman, utilizzato anche da Mozart nelle sue 12 variazioni K. 265/300e [Es. 2].

Esempio 2: Tema dalle 12 variazioni K. 265 di Wolfgang Amadeus Mozart.

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Questo motivo compare e scompare, affidato ogni volta a uno strumento diverso (la prima volta è assegnato al flauto con l’accompagnamento dei pizzicati degli archi). Le immagini dei bambini che dormono sono sottolineate da una musica tranquilla con dinamica in piano e timbri chiari. Appena sorge il sole il clarinetto esegue un breve motivo seguito ancora da reminiscenze orchestrali della citazione di cui s’è detto in precedenza. I bambini ora giocano e si divertono, dondolandosi su un’altalena; mentre si trovano all’aria aperta, appaiono di nuovo le immagini violente di cui sopra e la musica lo sottolinea con rulli di timpano e ottoni in “fortissimo”. Dopo questa ulteriore intrusione, viene presentato ancora il tema iniziale affidato dapprima all’oboe e poi al fagotto. I bambini leggono i loro libri seduti sotto gli alberi e spetta agli archi sospingere la melodia principale: lo studio rende liberi e vittoriosi come la trionfante conclusione in cui spicca lo squillo delle trombe. Principio terzo: il fanciullo ha diritto, sin dalla nascita, a un nome e una nazionalità.

Il terzo cartone ha come autori il disegnatore canadese Eugene Fedorenko e il compositore Franco Evangelisti. Un nome e una cittadinanza è stato premiato agli Academy awards nel 1980 con un Oscar al miglior cortometraggio d’animazione; più in particolare, va detto che ha avuto tanto successo per via delle suggestive immagini molto stilizzate, in assenza quasi totale di prospettiva e profondità, con colori spenti e fondali spesso bianchi. Quello in questione è l’unico fra i cartoni animati di Ten to Survive in cui vi siano anche delle immagini reali, e non solo dei disegni. Infatti ha inizio e termina con due uomini che giocano e fanno dei versi insieme ad un bebè all’interno di uno studio di registrazione. Il cartone animato raffigura un bambino non voluto e abbandonato dapprima dinnanzi alla porta di un ufficio, in seguito più volte nei pressi di altri edifici, in un’odissea che lo condurrà a precipitare in una discarica nella quale sarà accolto da due clochard che lo intratterranno giocando con lui sino a trasformarsi nei due veri uomini dell’inizio. È opportuno tener conto anche della particolarità e della qualità dei rumori: gli effetti sonori sono stati realizzati vocalmente. Il brano che costituisce la colonna sonora è Campi Integrati n. 2 di Franco Evangelisti. Di particolare interesse è il fatto che il compositore avesse smesso di scrivere musica da circa sedici anni per dedicarsi esclusivamente all’improvvisazione e alle sue ricerche di natura teorica, e che fosse tornato alla scrittura proprio in quella circostanza per ragioni di ordine eminentemente etico. Il brano è in forma aperta, ciò significa che è composto da più parti assemblabili a piacere da parte degli esecutori in un numero notevole di disposizioni differenti. Si veda quanto è custodito all’interno del Fondo Evangelisti (il manoscritto autografo della partitura e tutte le carte di lavorazione del progetto), in particolare quanto a suo tempo catalogato da Annibaldi sotto la dicitura “Scheda 14”:

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CAMPI INTEGRATI / VERSIONE UNICEF / 1979 / Con la piena coscienza che il problema resta politico / Franco Evangelisti 1v (pennarello viola) 6r (pennarello arancione) I VERSIONE II VERSIONE per: Fl. Cl. Fg. Tb. Cr. Tbr. per: V, Vla, Vc, Vla², Cb 1 Serie [di] W [ood] B [locks] 1 Celesta “ [di] T [emple] B [locks] Camp [anelli a] T [astiera] 2 “ [di] Guiro 2 Vibrafono “ [di] C [asse?] C [hiare?] Serie [di] piatti 3 Pf preparato 3 Arpa 9

Il sistema di Evangelisti prevede 12 altezze, l’intera scala cromatica, e 6 sole durate differenti. Inoltre la partitura è scritta per un limite massimo di 9 strumenti.

Esempio 3: Partitura/schema di Campi integrati n. 2 di Franco Evangelisti.

Trattandosi di un’opera aleatoria (come osservato da Annibaldi, Evangelisti ricomincia a scrivere esattamente dal punto in cui aveva interrotto la sua esperienza compositiva agli inizi degli anni Sessanta),10 gli esecutori sono chiamati a scegliere una delle possibili configurazioni indicate dall’autore. La musica caotica esprime con molta schiettezza ciò che si vede nei disegni, il destino incerto e confuso di un bambino abbandonato ripetutamente: si tratta a nostro parere di uno dei corti della pellicola maggiormente riusciti proprio per il rapporto felice che si è instaurato, in maniera del tutto accidentale, fra le immagini e il commento sonoro. 9

In ANNIBALDI, Intorno a Franco Evangelisti cit., pp. 79-80. Si fa presente che il Fondo Evangelisti è attualmente custodito all’interno dell’Archivio della Fondazione Isabella Scelsi di Roma. 10 Ibidem.

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Principio quarto: il fanciullo deve beneficiare della sicurezza sociale. Deve poter crescere e svilupparsi in modo sano. A tal fine devono essere assicurate, a lui e alla madre, le cure mediche e le protezioni sociali adeguate, specialmente nel periodo precedente e seguente alla nascita. Il fanciullo ha diritto ad una alimentazione, ad un alloggio, a svaghi e a cure mediche adeguate.

Bambini del mondo ha come autori Seppo Suo-Anttila per quanto riguarda i disegni animati ed Ennio Morricone per la colonna sonora. Per ciò che concerne l’estetica delle immagini, possiamo affermare che in questo caso ci si è basati sull’utilizzo di figure bidimensionali simili a dei ritagli di carta che si muovono su sfondi fissi, creando un ritmo molto particolare nel loro succedersi. La sovrapposizione di queste immagini, che scorrono liberamente rispetto ai fondali, si lega alla musica mediante lo stesso principio costruttivo per cui differenti elementi ritmico-melodici vengono a sovrapporsi e creare sfondi sonori densi e ipnotici. Abbiamo provato a individuare una qualche traccia narrativa, ma la trama è volutamente vaga e inafferrabile. È possibile comunque cogliere una linea generale di svolgimento che segue i vari punti enunciati dal principio in oggetto: la sicurezza sociale, l’accudimento, la protezione e le cure mediche. Nel video vengono mostrate varie situazioni in cui le madri ricevono soccorso da parte della comunità circostante. Nella scena iniziale vi è una donna che, stremata dalla fatica, cade nel trasportare dell’acqua in un vaso e viene prontamente soccorsa da un uomo. In altri momenti le mani che corrono in aiuto sono disegnate in modo da trasformarsi in uccelli che volano verso le donne. La colonna sonora di Morricone è un brano affidato alle sole voci del Coro di Voci Bianche dell’Arcum diretto da Paolo Lucci e composto da 24 tracce: 15 frammenti melodici, 2 armonici e i restanti 7 sono basati su semplici effetti sonori. Ogni melodia è basata su una porzione di scala ascendente o discendente, diatonica e non. Ogni scala fa riferimento ad una regione differente del mondo e dei suoi continenti (Europa, Giappone, Africa, Sud America, etc.), e in base alla lingua parlata di detti luoghi viene tradotto il testo unico onnipresente: «noi siamo i bambini del mondo» [Es. 4].

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Esempio 4: Manoscritto originale di Bambini del mondo (in ENNIO MORRICONE, Bambini del mondo, cd, Roma, Musica e oltre s.r.l., 2017).

Le differenti tracce furono registrate separatamente per poi essere sovrapposte e montate dall’autore stesso. Questa operazione ‘di laboratorio’ crea un effetto molto particolare per cui si mescolano suoni e parole diversi per generare un’unica luminosa voce infantile ove spiccano soprattutto il motivo del Giappone, con le sincopi, e quello europeo. L’idea musicale che si trova alla base del processo compositivo è quella di costruire un crescendo dinamico e di dissonanze, partendo da un punto di quiete, per poi farvi ritorno alla fine della composizione. La scelta del coro di sole voci bianche crea un effetto molto particolare nel rapporto sinergico che si instaura con le immagini: guardando il cartone pare quasi che i bambini protagonisti dei disegni si animino davvero per essere essi stessi a cantare. Il canto è quasi uno sfondo, cioè non serve tanto a descrivere e dettagliare meglio le immagini, come accade nella più parte dei cartoni, quanto, piuttosto, a creare l’ambiente sonoro per l’intera narrazione. Principio quinto: il fanciullo che si trova in una situazione di minoranza fisica, mentale o sociale ha diritto a ricevere il trattamento, l’educazione e le cure speciali di cui esso abbisogna per il suo stato o la sua condizione. 175


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Gli autori di Handicap sono Roman Kacianof e Nino Rota e certo in questo caso «non può non sorprendere che “alla fine della sua grande bellissima giornata” l’esperienza musicale di Rota vada a compiersi saldandosi nuovamente al mondo dell’infanzia» (com’è noto, il contributo di Rota a Ten to Survive costituisce l’ultimo atto prima della sua scomparsa nell’aprile del 1979).11 I disegni di Kacianof, così come quelli del cortometraggio di Fernando Ruiz, entrambi musicati da Rota, ricordano nello stile la maggior parte dei cartoni animati dell’epoca, con colori molto vivaci, linee curve e tratti semplici, proprio alla maniera delle animazioni per i bambini. Il corto racconta il cambio di atteggiamento di un bambino strafottente, dispettoso e in cerca di attenzioni dopo l’incontro con una bimba non vedente, e può essere suddiviso in tre parti. Nella prima ci vengono presentati il protagonista biondino e le sue monellerie: in un parco fa irritare il giardiniere e nasconde due gomitoli di lana a una donna anziana intenta a lavorare a maglia su di una panchina. Tutta la sequenza è molto giocosa e allegra nonostante in scena siano rappresentati piccoli disastri, e ciò al fine di illustrare il comportamento irritante del bambino in modo ingenuo: in realtà non è cattivo, vuole solo giocare e divertirsi. Nella seconda parte il protagonista incontra la bambina non vedente, e si intuisce che lei non sarà come tutte le altre vittime dei suoi tranelli. Dal momento in cui si rende conto dei problemi che affliggono la piccola, il ragazzino si pente di ciò che voleva farle (nasconderle il bastone) e la salva proprio nel momento in cui sta per precipitare in un burrone. Nella terza parte i due bambini hanno ormai stretto amicizia, il biondino cerca di rimediare agli errori commessi in precedenza, e alla fine dona un fiore alla sua nuova amica del cuore. Il commento sonoro ha un carattere stilisticamente riconoscibile grazie all’utilizzo dell’orchestra in modo descrittivo e piuttosto lineare nei confronti dell’andamento della storia. L’apertura è affidata all’oboe. Successivamente gli archi conferiscono al racconto una tinta serena e gioiosa, con la descrizione musicale di un paesaggio in cui abbiamo la natura in primo piano. Entrano poi il fagotto e le percussioni che servono a far virare l’atmosfera in senso piuttosto umoristico in concomitanza con l’ingresso dell’anziano giardiniere sbraitante nei confronti del bambino.

Esempio 5: Trascrizione degli autori di un motivo dalla colonna sonora di Handicap (Nino Rota).

È ancora una volta il clarinetto a dare un tocco grazioso e familiare all’inquadratura dell’anziana signora che lavora a maglia, e l’ingresso successivo degli archi, con lo stesso tema, serve a descrivere la birbanteria del bambino che le nasconde i gomitoli di lana. In buona sostanza la musica aderisce alla scena e dà un toc11

Si tratta di una citazione da Giovanni Testori che compare in TORTORA, Voce bianca, candore e altre cose: Rota e il mondo dell’infanzia cit., p. 88.

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co di ingenuità ai gesti del bambino e agli ingressi successivi dei personaggi. Serve, dapprima, a descrivere la voglia di farsi notare del bambino mediante l’utilizzo dei fiati e delle percussioni che danno quasi l’idea di un gioco circense; successivamente si acquieta, avvolta da un velo sottile di malinconia, quando il bambino si accorge di non essere riuscito a portarsi al centro delle attenzioni dell’anziana signora. La musica non è presente per qualche istante quando il bambino si nasconde dietro un albero per spiare la bambina seduta, segno che qui si vuole accentuare il senso di attesa per lo spettatore che non capisce bene cosa stia per accadere. Il successivo utilizzo delle percussioni e del flauto nel registro grave contiene una certa idea di tristezza e di solitudine, e a questo si fa ricorso per descrivere la condizione della bambina non vedente in maniera davvero calzante, poiché il tema, connesso con la strumentazione utilizzata per esporlo, conferisce una tinta intimistica e malinconica all’insieme. Come già accaduto precedentemente, l’attacco degli archi enfatizza ancora di più il carattere espressivo del tema.

Esempio 6: Trascrizione degli autori di un tema dalla colonna sonora di Handicap (Nino Rota).

Toccante è la melodia successiva del corno che entra non appena la bambina non vedente sfiora il viso del ragazzino con le mani, ricostruendone per sé un’immagine solo mentale. Quest’ultimo tema è molto delicato e si accosta piuttosto bene alle immagini del cartone, suggerendo il bisogno di solidarietà e di comprensione. Ritorna il tema della signora anziana quando la rivediamo e, a seguire, quello precedente della bambina, ma stavolta con un incedere più veloce e una strumentazione diversa che contribuiscono allo scioglimento del nodo della vicenda con l’affermazione della tonalità di impianto. Principio sesto: il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale. Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre. La società e i poteri pubblici hanno il dovere di aver cura particolare dei fanciulli senza famiglia o di quelli che non hanno sufficienti mezzi di sussistenza. È desiderabile che alle famiglie numerose siano concessi sussidi statali o altre provvidenze per il mantenimento dei figli.

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Il bambino ha bisogno d’amore della disegnatrice ungherese Katalin Macskàssy reca le musiche applicate alle immagini di Egisto Macchi. I disegni sono anche qui molto stilizzati; vi sono raffigurate esclusivamente figure di donna col proprio bambino in grembo e molte sono rappresentate in pose che ricordano icone e immagini sacre, mentre altre sono talmente stilizzate e semplificate al punto da sembrare disegnate dai bambini. La musica di Egisto Macchi è stata forse ispirata proprio da questo riferimento al sacro, in quanto il suo primo brano, che è la seconda composizione corale del film, evoca all’ascolto l’intonazione di melodie religiose. Nella seconda parte del corto i bambini sono ormai abbastanza grandi da mangiare autonomamente e da istruirsi, e quindi sono sempre più frequentemente disegnati da soli. Anche la musica cambia registro, divenendo più incalzante e perdendo parte di quel carattere solenne che ne definiva il tratto peculiare iniziale. Nel finale sono raffigurate scene di guerra e la musica lo sottolinea con un rullante che esegue un ritmo militare; poco alla volta il suono svanisce, unitamente alle immagini belliche che si trasformano in simboli di pace con i bambini che tornano a giocare felici. La musica fa da sfondo a tutto questo e impiega fondamentalmente un coro di voci miste. La scelta di non adoperare voci bianche è forse qui dovuta alla volontà da parte dell’autore di non leggere la situazione dal punto di vista dei bambini, ma da quello degli adulti. Laddove i disegni cambiano e si fanno più infantili, anche la musica muta carattere mediante l’utilizzo di scale cromatiche discendenti, e questo suggerisce l’idea di un qualche mutamento di clima. Tale sensazione viene successivamente enfatizzata mediante crescendo dinamici in combinazione con immagini poco serene, che alludono ai problemi morali e materiali che ostacolano una crescita sana e felice. Il coro suggerisce una certa idea di felicità quando viene mostrato un piccolo che addenta un pezzo di pane, ed è chiaro che il bambino ha anche avuto la possibilità di istruirsi. L’intensità dinamica cresce abbastanza rapidamente quando viene mostrato un bambino soldato e successivamente un altro recluso: la musica qui indica la differenza di condizione fra alcuni infanti e altri mediante l’utilizzo di sonorità alquanto liete e dinamiche molto fievoli, dapprima, e poi attraverso sonorità piuttosto aspre e dinamiche particolarmente incisive. Anche l’impiego dei cromatismi serve a indicare la condizione di vita disumana di alcuni bambini. Il video si conclude con un lieto fine e il ritorno di sonorità liete con un passaggio ritmato nel momento in cui vengono mostrati dei fiori, dei bambini felici con i propri genitori e successivamente altri piccoli intenti a giocare al giro giro tondo. Principio settimo: il fanciullo ha diritto a una educazione che, almeno a livello elementare, deve essere gratuita e obbligatoria. Egli ha diritto a godere di un’educazione che contribuisca alla sua cultura generale e gli consenta, in una situazione di eguaglianza di possibilità, di sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale e il suo senso di responsabilità morale e sociale, e di divenire un membro utile alla società. Il superiore interesse del fanciullo deve essere la guida di coloro che hanno la responsabilità della sua educazione e del suo orientamento; tale responsabilità incombe in primo luogo sui propri genitori. Il fanciullo deve avere tutte le possibilità di dedicarsi a giochi e attività ricreative che devono essere orientate a fini educativi; la società e i poteri pubblici devono fare ogni sforzo per favorire la realizzazione di tale diritto. 178


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I disegni animati di Manfredo Manfredi, con tratti e colori molto leggeri, e il commento sonoro affidato a Ennio Morricone esprimono al meglio la delicatezza, la purezza e l’innocenza dell’infanzia. Grande violino, piccolo bambino può essere suddiviso in tre parti: nella prima vengono mostrati alcuni bambini sorridenti con i propri genitori, che poco alla volta crescono fino a giungere al momento della colazione prima di andare a scuola. Nella seconda parte, a scuola, si vedono crescere i bambini, e, con loro, cambiare le immagini sui loro libri. Alla fine di questa sequenza l’autore si sofferma sui contenuti di un libro raffiguranti un albero con una forma molto particolare, assimilabile proprio a quella di un enorme violino. I bambini, ormai abbastanza cresciuti, giungono ai piedi del tronco dell’albero per ammirare la grandezza della natura. Infine, nell’ultima parte, i piccoli tornano a casa ricchi e irrobustiti dal sapere che hanno acquisito. Il brano di Morricone è molto lirico: a un violino solista è affidata la melodia principale nelle prime due parti, mentre l’accompagnamento e il resto delle voci secondarie sono assegnati agli archi. Nell’ultima parte invece vi è una voce bianca solista, a cui è affidata la linea melodica principale con l’aggiunta, tra l’altro, delle percussioni. Il tema, che rimane lo stesso per tutta la durata del brano, è molto romantico e struggente, una tipica melodia nello stile delle colonne sonore del Maestro romano. Questo brano è veramente in totale sinergia con i disegni di Manfredi al punto da assorbire totalmente qualsivoglia commento: basti dire che risulta davvero difficile, se non impossibile, non emozionarsi di fronte alla bellezza di tale musica e alla suggestione dei disegni! La colonna sonora ha inizio con bassi profondi che trasportano lo spettatore sin da subito in un’atmosfera intensa. Attacca poco dopo il protagonista sonoro, il violino solista, che dà un’idea di tenerezza così viscerale che lo spettatore riesce a sentirsi parte integrante della storia narrata. Il violino viene utilizzato come strumento narrante, oseremmo dire quasi ‘parlante’, poiché descrive magnificamente la crescita del bambino con i genitori, raccontando episodi della sua vita quotidiana, e quindi il processo di scolarizzazione e di educazione. Ciò che viene mostrato con grande chiarezza, ed è questo forse il punto più importante di tutto il racconto, è il processo di istruzione e di crescita del bambino, un momento musicale molto tenero che potrebbe essere in contrasto con quello più faticoso dello studio e dell’applicazione. Ciò, secondo il nostro parere, è dovuto alla precisa scelta da parte di Ennio Morricone di realizzare una musica che non esprima il punto di vista dei personaggi, ma che piuttosto si incentri su quello del pubblico adulto. Un altro momento molto interessante è quello in cui attacca la voce bianca solista in sostituzione di quella del violino. Con questa operazione, nella sequenza in questione, l’autore sposta il punto di vista della musica dall’esterno del racconto verso l’interno del giovanissimo personaggio. Principio ottavo: in tutte le circostanze, il fanciullo deve essere fra i primi a ricevere protezione e soccorso.

Johan Hagelback ed Egisto Macchi sono gli autori rispettivamente delle immagini e della musica di Storia di un uovo. I disegni sono quelli tipici della cultura d’animazione svedese, ricchi di uno speciale intrinseco umorismo. Le immagini sono

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molto chiare, e ricordano i tratti dei cartoni animati per la prima infanzia. Il corto d’animazione mette in scena un uomo col suo uovo, che rappresenta il bambino. I due devono affrontare diversi ostacoli, il freddo e le intemperie, un incendio, un tuffo in acqua da una notevole altezza, un enorme pesce carnivoro, diversi animali minacciosi in un bosco e un incidente stradale. In ognuna delle situazioni l’uomo dà la precedenza al soccorso dell’uovo, o al bambino che dir si voglia, cercando di metterlo in salvo prima di se stesso. E allo stesso modo si comportano anche le altre persone adulte coinvolte nell’incidente. Nel finale l’uovo si schiude, e da esso fuoriesce una versione più piccola del protagonista, con a sua volta un uovo a sua misura da proteggere. La colonna sonora di questo video è caratterizzata da una melodia ricorrente, inizialmente affidata ad un violoncello.

Esempio 7: Trascrizione degli autori del tema principale di Storia di un uovo (Egisto Macchi).

La musica esprime fin dalla prima scena, caratterizzata dall’apparente tranquillità del primo mattino, un sentimento di tensione che anticipa le situazioni minacciose cui siamo in procinto di assistere. Quando il protagonista esce di casa, portando in una carrozzina il suo uovo, compare l’ipnotico motivo principale. Successivamente l’uomo si scontra con un sasso e perde l’uovo: questo momento è sottolineato da un forte colpo di timpani e dal rumore della carrozzina che perde una rotella. Il protagonista recupera l’uovo e lo ripara dal vento mentre il tema principale passa dagli strumenti più gravi dell’orchestra a quelli più acuti. Si rifugia in una casa, ma un fulmine la colpisce provocando un incendio. L’azione di questa sequenza è evidenziata da alcune note acute tenute dai violini. Successivamente la minaccia del pesce è evidenziata da uno oscuro sfondo sonoro su cui si appoggia, ancora una volta, il tema principale. Scampato il pericolo, il protagonista si trova in una foresta dove compaiono, non più nascosti dagli alberi, animali minacciosi, e la musica accompagna la scena creando uno stato tensivo tipico del film dell’orrore o del thriller. Nelle ultime scene un rullante produce un effetto di suspense nel momento in cui il protagonista cade nel vuoto, dapprima, e l’uovo viene scaraventato per aria nell’incidente stradale, poi. Durante il momento della rottura del guscio si ascoltano le ultime schegge del tema principale. Principio nono: il fanciullo deve essere protetto contro ogni forma di negligenza, di crudeltà o di sfruttamento. Egli non deve essere sottoposto a nessuna forma di tratta. Il fanciullo non deve essere inserito nell’attività produttiva prima di aver raggiunto un’età minima adatta. In nessun caso deve essere costretto o autorizzato ad assumere un’occupazione o un impiego che nuocciano alla sua salute o che ostacolino il suo sviluppo fisico, mentale, o morale.

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Gli autori sono in questo caso Jerzy e Alina Kotowski per quanto riguarda il cartone animato e Franco Evangelisti per ciò che concerne il commento sonoro. Il titolo del corto è Diritto all’infanzia. Vi vengono rappresentati due gruppi differenti di bambini, uno stanco, triste e sfruttato, è disegnato senza colori, al lavoro in una fabbrica, mentre l’altro gruppo, gioioso e sorridente, disegnato ovviamente a colori, è in strada lì vicino a giocare con palle altrettanto colorate. I disegni degli artisti polacchi sono stati ideati proprio per evidenziare in modo marcato questo contrasto, infatti oltre ai colori vi sono differenze anche nei tratti del disegno: più spigolosi nell’ambiente dei bambini sfruttati dal lavoro minorile e più arrotondati all’esterno, dove vi è l’altro gruppo intento a giocare. Le due visioni distinte vengono alternate finché una palla non rompe una delle finestre dello stabilimento, cosicché i due gruppi si incontrano e quello sfruttato si unisce all’esterno al gioco degli altri bambini, mentre i macchinari e gli attrezzi della fabbrica poco alla volta si arrestano e si spengono. Il commento sonoro di Evangelisti è un’ulteriore riconfigurazione di Campi Integrati n. 2. Questa volta però, come previsto dalla partitura, viene utilizzata una differente combinazione timbrica. Stridenti, assordanti e dissonanti gli archi accompagnano i bambini costretti al lavoro, mentre le percussioni, giocose e divertenti, perlopiù metallofoni, quasi fossero i giocattoli della prima infanzia, sono naturalmente associate ai bambini che giocano. La tecnica di accostamento della musica alle immagini adoperata dal compositore è molto chiara anche ad uno spettatore meno attento. Nell’ultima scena, in cui i due gruppi giocano assieme, e tutti i bambini sono colorati cosicché entrambi i gruppi si mischiano e confondono l’uno con l’altro, vi sono in maniera prevedibile le sole percussioni. Invece, nell’industria abbandonata, le macchine che rallentano il loro moto fino a fermarsi sono seguite dagli archi che pure poco alla volta si spengono nel silenzio. 12 È importante ricordare che, oltre alle due versioni di Campi integrati n. 2 che compaiono nei due corti di Ten to Survive, rispettivamente quello canadese e quello polacco, 13 sia stata elaborata e successivamente eseguita una terza versione del brano, nella primavera del 1979, nel corso di un concerto tenutosi sul lago di Bracciano, ad Anguillara Sabbazia (Roma). Il concerto, sotto la direzione di Luca Pfaff, venne registrato e trasmesso nell’ambito del programma televisivo Che musica è a cura di Teo Usuelli in quello stesso anno e, successivamente, nel 1998 pubblicato in un disco dell’etichetta berlinese RZ. 14 Principio decimo: il fanciullo deve essere protetto contro le pratiche che possono portare alla discriminazione razziale, alla discriminazione religiosa e ad ogni altra forma di di12

Nella Scheda 15 redatta da Annibaldi a partire dai materiali contenuti nella cartellina intestata Campi integrati n. 2 del Fondo Evangelisti cit., si legge il seguente appunto ms. di altra mano (non dell’autore): «M1 Risveglio 45” – M2 Fabbrica 65” – M3 Giocare (Giardino) 37” – M4 Fabbrica 60-62” – M5 Giardino 24” – M6 Pallone Fabbrica 50” – M7 Giocano insieme 25” (30” dissolvere)», ANNIBALDI, Intorno a Franco Evangelisti cit., p. 80. 13 Ibidem. 14 Cfr. D’ANGELO, Ten to Survive cit.; inoltre DANIELA TORTORA, Il congedo televisivo di Franco Evangelisti, «Musica/Realtà» XXXVIII/112, marzo 2017, pp. 103-123.

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scriminazione. Deve essere educato in uno spirito di comprensione, di tolleranza, di amicizia fra i popoli, di pace e di fratellanza universale, e nella consapevolezza che deve consacrare le sue energie e la sua intelligenza al servizio dei propri simili.

Il cortometraggio che chiude il film s’intitola Storia del diavolo cacciato via ed è affidato ai disegni di John Halas e alle musiche di Luis Bacalov. I disegni presentano contorni molto semplici e così come abbiamo accostato il primo e il quinto cortometraggio al cinema d’animazione coevo, anche i disegni di Halas seguono gli stilemi standard dell’epoca (si pensi, ad esempio, ai grandi successi targati Walt Disney). Inoltre, è da notare la tecnica adoperata per colorare le immagini con i tratti volutamente molto evidenti, l’impiego della scala dei grigi nella prima parte del corto e del colore nella seconda, quando compare la fatina. Con questa tecnica l’artista inglese intreccia molto brillantemente il modo in cui racconta la storia con la trama stessa. Nelle prime scene vi sono due bambini, uno bianco e uno di colore, che giocano insieme ma combinano tanti piccoli pasticci e spingono i rispettivi genitori e le due famiglie al litigio. Improvvisamente appare la fatina che dà colore alla scena e caccia via il diavolo calmando la lite. Gli adulti, vedendo i due piccoli giocare e andare d’accordo fra loro, recuperano la pace. Coscienti e forti dell’esperienza vissuta, i due fanciulli giungono nei pressi di una scuola, e qui vi sono altri bambini delle due diverse etnie separati da una staccionata; i protagonisti la abbattono, distruggendo simbolicamente le barriere che dividono l’umanità tutta. Nell’ultima scena vi è una grande festa in cui i bambini e gli uomini delle varie etnie del mondo manifestano l’amicizia fra tutti i popoli e la fraternità universale. Il commento sonoro di Bacalov inizia con un breve accenno al tema della festa conclusiva. Anche questo brano fa ricorso a sonorità che riportano alla mente la musica jazz: nelle prime scene vi è solo il pianoforte con un ritmo swing, interrotto dalle brusche sfuriate dei genitori, sottolineate da glissando acutissimi degli strumenti a fiato e da affondi minacciosi e gravi delle percussioni. Il corto e la musica sembrano poi terminare nel momento della pace ritrovata fra le due famiglie. Nella seconda parte del cartone animato la musica sottolinea in modo trionfale, con ritmi energici degli ottoni, il momento in cui viene abbattuta la staccionata per consentire la libera circolazione da una parte all’altra dei bambini. Infine, tutti i bambini entrano nella scuola e ne escono adulti, ormai consapevoli e maturi. Nell’ultima scena si transita dalle sonorità ritmiche del lavoro ad un brano danzabile e gioioso che rappresenta la festa e il sentimento di fraternità che unisce gli uomini. Il brano possiede un carattere celebrativo e festante, con un utilizzo della strumentazione di tipo bandistico per le immagini che ritraggono una sorta di festa di paese con giostre e attrazioni di vario tipo. La particolarità sta nel fatto che detto tema è diegetico, cioè viene suonato all’interno della storia e tutti i personaggi lo possono ascoltare.

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Esempio 8: Trascrizione degli autori del tema della festa (Luis Bacalov).

Quest’ultimo episodio rappresenta la logica conclusione delle immagini mostrate nel corto e, al tempo stesso, il naturale lieto fine di Ten to Survive: dopo aver indugiato nel corso del racconto sulle varie problematiche legate al mondo dell’infanzia, il lungometraggio si chiude con grande gioia e spensieratezza. Siamo convinti che valga sicuramente la pena di recuperare questi dieci piccoli film di animazione, questi dieci corti che nel loro insieme filmico ci appaiono come una collana di dieci perle vere da sottrarre al dimenticatoio e da riportare alla luce dei tempi moderni per una più adeguata conoscenza dei manufatti d’arte del secondo Novecento. Il film d’animazione Ten to Survive merita senz’altro di ‘sopravvivere’ grazie al valore artistico intrinseco della pellicola e al nobile fine umanitario che a suo tempo si era prefisso di conseguire. Di fatto non esistono altri lungometraggi che possano vantare la partecipazione riunita di tanti disegnatori altrettanto affermati e, ancor più, di compositori della statura di Nino Rota, Ennio Morricone, Franco Evangelisti, Egisto Macchi e Luis Bacalov. Nonostante il carattere della pellicola sia essenzialmente eterogeneo e frammentario – lo ribadiamo ‒, avvertiamo la necessità di sollecitare una rivalutazione dell’impresa nel suo insieme poiché, malgrado la difformità di stili, linguaggi e concezioni artistiche, tutti e quindici gli autori di questo ambizioso lungometraggio sono riusciti a far leva su ciò che tocca e commuove la nostra sensibilità, vale a dire sulla causa umanitaria dell’infanzia non adeguatamente protetta, ancora oggi a distanza di oltre quattro decenni. Non potremmo esprimerci meglio del filosofo tedesco Immanuel Kant in proposito, nel ricordare che «la solidarietà del genere umano non è solo un segno bello e nobile, ma una necessità pressante, un ‘essere o non essere’, una questione di vita o di morte».

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APPENDICE

I disegnatori KLAUS GEORGI è nato ad Halle sul Saale nel 1925. Dai 21 ai 27 anni ha studiato all’Institute for Artistic Design di Burg Giebichenstein ed è diventato un graphic designer freelance. Appartiene alla generazione fondatrice del DEFA Studio for Animation Films di Dresda ed è stato uno dei principali animatori del gruppo dal 1954 al 1989. Georgi ha diretto principalmente cartoni animati, con la sola eccezione per l’animazione delle marionette. La sua opera comprende quasi 70 titoli. JOHN HALAS (1912 - 1995) è stato un disegnatore ungherese. Si è trasferito in Gran Bretagna nel 1936, dove nel 1940, assieme a sua moglie Joy Batchelor, ha fondato lo Studio Halas and Batchelor. Lo Studio si concentrò dapprima su film di propaganda antifascista, poi, finita la guerra, pose l’attenzione su produzioni sia divulgative che di intrattenimento. Ma il salto di qualità venne compiuto producendo La fattoria degli animali, adattamento del celebre romanzo di George Orwell. Il film vide la luce nel 1954 ed è il primo lungometraggio d’animazione britannico. ROMAN KACIANOF nacque nel 1921 a Smolensk. A Soyuzmultfilm ha studiato animazione. In seguito ha lavorato come animatore, assistente alla regia e scenografo per registi e animatori tra i quali Dmitry Babichenko, Valentina e Zinaida Brumberg, Lev Atamanov, Ivan Ivanov-Vano e Vladimir Polkovnikov (che considerava il suo mentore). Nel 1958 Kachanov ha diretto il suo primo film in collaborazione con Anatoly Karanovich, The Old Man and the Crane. Nel 1959 ha scritto la sceneggiatura di Nazim Hikmet in Love Cloud, che ha ricevuto premi ai festival di Annecy, Oberhausen e Bucarest. Grazie all’esperienza maturata con questi due film, si è potuto dedicare totalmente alla direzione. I film di Kachanov, The Mitten, Crocodile Gena e The Mystery of the Third Planet, sono diventati i classici della cinematografia russa. JERZY KOTOWSKI (1925 - 1979) è stato un cameraman e un regista di film d’animazione. Ha studiato alla facoltà di cinema e televisione dell’Accademia delle Arti Musicali di Praga. Dopo aver completato gli studi, nel 1952 è entrato a far parte dello Studio cinematografico delle marionette a Łódź. Ha diretto il Dipartimento pedagogico della State University for Film, Television and Theatre negli anni Sessanta. Nel 1967 e nel 1968 è stato vicepreside del Dipartimento di direzione e vicerettore fino al 1971; ha mantenuto la carica di rettore dell’Università dal 1971 al 1972. In 21 anni Kotowski ha realizzato ben 36 film d’animazione. KATALIN MACSKÁSSY (1942 - 2008) è stata una regista cinematografica ungherese, vincitrice del premio Béla Balázs. Ha studiato al College of Theatre and Film fra il 1966 e il 1971. È stata poi segretaria di colorazione, disegno, montaggio e pubbliche relazioni del Pannonia Film Studio. Nel 1971 ha realizzato il suo primo film al Béla Balázs Studio. La sua produzione conta diversi disegni e testi per bambini, film di animazione sociologica, psicologica e politica, fiabe, serie TV, film educativi, documentari e spot pubblicitari. MANFREDO MANFREDI è nato a Palermo nel 1934. Ha studiato a Roma, alla Facoltà di architettura e si è diplomato in Scenografia all’Accademia di Belle Arti nel 1958. Ha cominciato a lavorare come scenografo nel 1960, in qualità di assistente di Piero Filippone nel film Antinea, l’amante della città sepolta. Ha dato vita ai disegni per la sigla del Carosello. Nel 1963 ha iniziato a lavorare nell’animazione e ha ricevuto riconoscimenti tra cui il Nastro d’argento al miglior cortometraggio nel 1968 per Su sambene non est abba. Nel 1975 con Uva salamanna ha vinto il premio film ragazzi al Festival cinematografico internazionale di Mosca e nel 1977 è stato nominato all’Oscar per il miglior cortometraggio d’animazione con Dedalo.

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FERNANDO RUIZ ha studiato regia all’Università Ibero-Americana (1957-1961). Il suo primo cortometraggio animato sperimentale, intitolato The Musician, ha vinto il primo posto nella categoria cortometraggi animati al Festival di Guadalajara, Jalisco. Il suo primo lavoro di animazione è stato realizzato nel 1958, per il film El Duende y Yo con Tin-Tan, dove sono mescolate animazione e azione reale. Nel 1961 gli viene assegnata una borsa di studio dal Dipartimento di Stato per specializzarsi in animazione all’UCLA e nello stesso anno entra negli Studi di Walt Disney, partecipando in seguito al film La spada nella roccia (1963). Dopo il ritorno in Messico ha fondato la sua compagnia di cartoni animati, Anim-Art. Ad oggi le produzioni della compagnia vantano oltre 500 manufatti. Ha anche realizzato il primo lungometraggio d’animazione in America Latina, I tre saggi (1976). SEPPO SUO-ANTTILA (1921-2009) è stato l’animatore finlandese meglio conosciuto all’estero, in particolare dopo aver vinto un premio al Festival di Mamaia con Impressio (1967). Quest’ultima era una storia drammatica in bianco e nero con bottiglie animate. Le sue opere successive includono la serie per bambini The Courtyard (1968-70), Impressio II (1973) e il tradizionale racconto The Death-Tamer (1981). I musicisti LUIS BACALOV (San Martìn, 30 agosto 1933 - Roma, 15 novembre 2017). Ha iniziato lo studio del pianoforte in Argentina con Enrique Barenboim. Nel 1960 ha iniziato a comporre musiche per il cinema sotto lo pseudonimo di Luis Enriquez. Degni di nota sono alcuni film di cui ha composto le colonne sonore: Il Vangelo secondo Matteo (1964), Django e Quién sabe? (1966), A ciascuno il suo (1967), L’amica (1969), Cuori solitari (1970), Milano calibro 9 (1972). Successivamente ha collaborato con Federico Fellini per le musiche del film La città delle donne (1980), dopo la morte improvvisa di Nino Rota. Nel 1996 ha vinto il Premio Oscar, in seguito diviso, per le musiche del film Il postino (1994). Bacalov ha collaborato con: Pier Paolo Pasolini, Damiano Damiani, Ettore Scola, Fernando Di Leo, Gianni Serra, Franco Giraldi e anche con Francesco Rosi nel 1997 per La tregua. Parte della colonna sonora scritta da Bacalov per il western all’italiana Il Grande Duello (1972) è stata utilizzata da Quentin Tarantino nel film Kill Bill (2003-2004) e in questo stesso film ci sono musiche di Ennio Morricone, con il quale ha collaborato. Alcuni brani composti da Bacalov sono stati usati da Tarantino nel suo film di ambientazione western Django Unchained (2012). Il 25 agosto 2015, a vent’anni dall’Oscar, Bacalov ha tenuto uno spettacolo a Pollara, nelle Isole Eolie, dove ha presentato in anteprima Poetry Soundtrack, in onore di importantissimi registi: da Pasolini a Fellini, da Troisi a Tarantino. Il recital ha riproposto le composizioni eseguite in una veste minimale, così come erano nate. Dopo aver lottato invano contro la leucemia, è scomparso nel novembre del 2017. FRANCO EVANGELISTI (Roma, 21 gennaio 1926 - 28 gennaio 1980). Nel 1948 ha iniziato lo studio della musica con Daniele Paris a Roma e poi con Harald Genzmer alla Musikhochschule di Friburgo in Bresgovia. Dal 1952 al 1960 ha frequentato i Ferienkurse per la Nuova Musica a Darmstadt, dove ha conosciuto Werner Meyer-Eppler dell’Università di Bonn. Da subito restìo all’idea compositiva tipica della musica dodecafonica, ha cominciato a pensare che fosse necessario andare oltre il modus operandi compositivo inseguito fino a quel momento, gettando le fondamenta per quella che verrà successivamente chiamata “improvvisazione libera” e iniziando a interessarsi alla musica elettronica. Nel 1958 con Karlheinz Stockhausen e Luigi Nono ha inaugurato lo Studio Sperimentale della Radio polacca di Varsavia. Nel 1960 ha promosso la prima Settimana Internazionale Nuova Musica di Palermo. Nello stesso anno ha fondato a Roma l’Associazione Nuova Consonanza, che ha come obiettivo la diffusione della musica contemporanea in Italia. Più tardi è nato l’omonimo Gruppo di improvvisazione che ha permesso a Evangelisti di mettere in pratica le sue teorie. Col tempo si è fatta sempre più intensa l’attività che lo ha visto impegnato in conferenze e seminari sul-

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la Nuova Musica, e la composizione per lui ha lasciato sempre più spazio alla ricerca e agli approfondimenti teorici e all’improvvisazione. Alla fine del 1979 ha terminato il libro Dal silenzio a un nuovo mondo sonoro. È morto a Roma a soli 54 anni. EGISTO MACCHI (Grosseto, 4 agosto 1928 - Montpellier, 8 agosto 1992). Ha studiato a Roma composizione, pianoforte, violino e canto e ha avuto come maestri Roman Vlad e Hermann Scherchen. Dalla fine degli anni Cinquanta si è occupato di organizzazione musicale, collaborando con Franco Evangelisti, Domenico Guaccero, Daniele Paris. È stato, insieme ad Evangelisti, tra i fondatori dell’Associazione Nuova Consonanza di cui ha rivestito la carica di Presidente dal 1980 al 1982 e nel 1989. Il compositore toscano è stato al centro dell’organizzazione delle Settimane Internazionali Nuova Musica di Palermo (1959-1968). Nel 1967 è diventato uno dei membri del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Ha dedicato l’ultimo periodo della sua vita alla composizione di Apocalypsis altera (conclusa nel 1988). Nel novembre del 1991 ha terminato la trascrizione per sedici strumenti e quattro sintetizzatori de La Bohème che, insieme a quella della Tosca, con lo stesso organico, trascritta da Ennio Morricone, ha lo scopo di attuare un mutamento radicale nella circolazione del melodramma. È morto a Montpellier nell’estate del 1992. ENNIO MORRICONE (Roma, 10 novembre 1928). Ha studiato al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, dove si è diplomato in tromba e successivamente in composizione con Goffredo Petrassi. Dal 1946 ad oggi ha composto più di 100 brani di musica colta contemporanea. È socio dell’associazione Nuova Consonanza impegnata in Italia nella diffusione e produzione della musica contemporanea. Morricone è stato anche membro del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Ciò che gli ha conferito la fama mondiale come compositore, però, sono state le musiche composte per il genere del western all’italiana. Ha collaborato con registi come Sergio Leone, Duccio Tessari, Tonino Valeri e Sergio Corbucci, con film come la Trilogia del dollaro (1964-19651966), Una pistola per Ringo (1965), La resa dei conti (1966), Il grande silenzio (1968), Il mercenario (1968), Il mio nome è Nessuno (1973) e la Trilogia del tempo (1968-1971-1984). Per la varietà dei generi compositivi usati e per la sua versatilità, è sicuramente uno dei più prolifici e influenti compositori di colonne sonore di tutti i tempi. Ha scritto le musiche per più di 500 film e serie TV, tra cui più di 60 film vincitori di premi. A partire dagli anni Settanta Morricone è diventato noto anche nel cinema hollywoodiano, poiché ha composto musiche per registi del calibro di John Carpenter, Brian De Palma, Barry Levinson, Mike Nichols e Quentin Tarantino. Nel 2007 Morricone ha ricevuto il premio Oscar alla carriera; nel 2016 il suo secondo Oscar e il Golden Globe per il film di Tarantino, The Hateful Eight (2015). NINO ROTA (Milano, 3 dicembre 1911 - Roma, 10 aprile 1979). Ha studiato presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano e all’Accademia di Santa Cecilia a Roma con Ildebrando Pizzetti ed Alfredo Casella. Fin dalla più tenera età è stato un compositore molto prolifico. Nonostante abbia continuato a scrivere per tutta la vita musica d’arte di tutti i generi (opere, musica sinfonica e cameristica, musica sacra e didattica), la sua maggior fama la si deve alla musica per film. La prima colonna sonora da lui realizzata è stata per il lungometraggio Treno popolare di Raffaello Matarazzo nel 1933. Ma i maggiori successi si debbono alle collaborazioni con grandi registi come Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, Francis Ford Coppola e soprattutto Federico Fellini. Per Visconti ha composto le musiche di Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il Gattopardo (1963); per Zeffirelli la colonna sonora di Romeo e Giulietta (1968). Ha collabora con Coppola per la trilogia de Il Padrino (19721974-1990) e con le musiche del secondo lungometraggio si è aggiudicato il Premio Oscar alla colonna sonora. Durante la trentennale collaborazione con l’amico Federico Fellini ha realizzato le colonne sonore di numerosi film, fra i quali ricordiamo La Dolce Vita (1960), 8½ (1963), Amarcord (1973) e Il Casanova di Federico Fellini (1976). Poco dopo la registrazione della colonna sonora del film di Fellini Prova d’orchestra (1979), in seguito a una crisi cardiaca, a soli 67 anni, è scomparso uno dei compositori più influenti di tutta la Storia del cinema. 186


NOTE D’ARCHIVIO ____________________________________________________________________

Tommasina Boccia L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA SAN PIETRO A MAJELLA DI NAPOLI ESISTE! Introduzione La scelta del titolo di un contributo condiziona sempre il taglio e lo stile che si dà a un lavoro. Proprio per questo, dopo tanti interventi sul patrimonio archivistico dell’Istituto si è pensato, per il primo numero dei «Quaderni del San Pietro a Majella», a un titolo che contenesse una frase esclamativa: l’archivio storico esiste! Vent’anni sono trascorsi da quando, grazie anche alla stretta collaborazione con la Soprintendenza archivistica e bibliografica per la Campania, si è dato avvio alla vasta operazione che ha portato, prima al censimento di gran parte del materiale archivistico storico e, poi, via via alla schedatura, al riordinamento e al restauro parziale di alcuni fondi e unità archivistiche. 1 Tutti questi interventi hanno consentito anche di aprire alla consultazione ‒ dal 2004 ‒ i fondi riordinati e di arrivare, nel volgere di alcuni anni, all’istituzione della sezione separata dell’archivio storico, 2 stabilita con determina commissariale del 9 dicembre 2014. Ma cos’è un archivio storico? Può sembrare una domanda banale, e per molti forse lo è, ma nella sua semplicità fornisce lo spunto per rispondere a un’affermazione che per troppi anni è riecheggiata tra le mura del San Pietro a Majella, e ahimè in altri enti con patrimoni archivistici fondamentali per la nostra storia, vale a dire che “l’archivio non esiste”. Questa asserzione è in larga misura determinata, nella maggior parte dei casi, dalla percezione molto vaga e spesso travisata che si ha di un archivio. Attualissima, anche se datata, è l’amara constatazione di Eugenio Casanova il 1

Sono stati oggetto di restauro l’intero archivio del Real Conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana e la serie dei Libri Maggiori del Real Conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini. Successivamente grazie alla sponsorizzazione del Distretto Rotaract 2100 si è restaurato, dello stesso conservatorio, il magnifico Liber Capitolorum del 1583, e successivamente, con il contributo dell’Associazione Maggio della Musica è stato possibile restaurare due preziosi documenti del Real Conservatorio di Santa Maria di Loreto, e precisamente il volume Introito ed Esito dal 1544 al 1549 (trattasi del documento più antico custodito nell’archivio storico) e il Libro del Patrimonio risalente al 1790. 2 Si confronti in particolare l’articolo 69 del DPR 445/2000 Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, e giova ricordare l’articolo 10, comma 2°, del Titolo I del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio che, a proposito delle fonti documentarie, enuncia che sono beni culturali «gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico».

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quale novantadue anni fa scriveva «rari sono, in Italia e altrove, coloro i quali sappiano che cosa sia un archivio; rarissimi coloro i quali discernano a che veramente serva». 3 Per fare un po’ di chiarezza, è utile riportare, quasi integralmente, il paragrafo dedicato alla definizione e alla normativa prevista per gli archivi storici di un ente pubblico, parte di un rigoroso e puntuale documento tecnico della Soprintendenza archivistica per il Piemonte e la Valle d’Aosta: L’archivio storico è costituito dai documenti relativi agli affari esauriti da oltre quaranta anni (art. 30 c.4 D.Lgs 42/2004). I documenti selezionati per la conservazione permanente devono essere ordinati (art. 30 c.4 D.Lgs 42/2004), rispettando i criteri delineati nelle fasi corrente e di deposito, ma tenendo conto che, dopo tutti i successivi scarti, tale parte dell’archivio deve ormai assumere uno stato definitivo, e devono essere trasferiti, contestualmente agli strumenti che ne garantiscono l’accesso (protocolli, repertori, rubriche, schedari, elenchi, ecc.), nell’apposita separata sezione di archivio (art. 69 DPR 445/2000). Le delicate operazioni di sistemazione definitiva della parte storica dell’archivio (che nella letteratura professionale va sotto il nome di "riordinamento") vanno affidate a personale, eventualmente anche esterno all’Ente, dotato di adeguata professionalità specifica (diploma di archivistica, paleografia e diplomatica rilasciato dalle omonime Scuole istituite presso 17 Archivi di Stato, o titolo equipollente). […] L’archivio storico deve inoltre essere inventariato (art. 30, c.4 D.Lgs 42/2004), cioè dotato di uno strumento di descrizione complessiva che, affiancando gli strumenti originari di gestione (protocolli, repertori, ecc.), ne faciliti l’accesso ai fini giuridicoamministrativi (mai del tutto esauriti) e di ricerca scientifica, e ne consenta la tutela anche patrimoniale. […] Gli archivi storici sono liberamente consultabili, salvi i limiti di riservatezza previsti dalla legge (artt. 122-123 D.Lgs 42/2004). […] Sull’archivio storico, che deve essere correttamente conservato, ed è inalienabile come le altre parti dell’archivio (art. 54, cc.1-2 D.Lgs 42/2004), si esercita la medesima vigilanza della Soprintendenza archivistica, già citata per l’archivio nelle sue prime fasi di vita (art. 18 D.Lgs 42/2004). Nell’esercizio di tale vigilanza, saranno date le eventuali autorizzazioni a interventi di restauro, a trasferimenti di sede e più in generale le necessarie prescrizioni per la tutela del patrimonio archivistico. Al fine di garantirne la sicurezza, assicurarne la conservazione o impedirne il deterioramento, la Soprintendenza ha facoltà di imporre la custodia coattiva dell’archivio storico dell’Ente presso un pubblico istituto (art. 43 D.Lgs 42/2004). 4

Dunque, nel pieno rispetto della legislazione vigente, le operazioni archivistiche ad oggi attuate hanno consentito di effettuare la selezione della documentazione per la conservazione permanente prodotta dall’Istituto sino al 1960 circa e di procedere al riordinamento dei fondi degli antichi conservatori, dell’archivio del San Pietro a Ma-

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EUGENIO CASANOVA, Archivistica, Siena, Lazzeri, 1928, Prefazione, p. IV. Il testo integrale è disponibile anche all’indirizzo <http://archivi.beniculturali.it/Biblioteca/EuCa/totalCasanova.pdf> (ultima consultazione 23 febbraio 2020). 4 SOPRINTENDENZA ARCHIVISTICA PER IL PIEMONTE E LA VALLE D’AOSTA, Obblighi di legge dell’ente pubblico riguardo al proprio archivio, Torino, 2005, il testo integrale è disponibile all’indirizzo <http://www.archivi.beniculturali.it/archivi_old/sage/testi/obblighi-legge-ente-pubblico.pdf> (ultima consultazione 17 febbraio 2020).

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jella del periodo preunitario (dall’anno della sua fondazione 1807 5 al 1860), dei subfondi novecenteschi Archivio didattico e Archivio Amministrativo,6 e alla schedatura parziale della documentazione del periodo postunitario.7 Nota storico-istituzionale La storia del conservatorio napoletano è la storia di quattro istituzioni indipendenti: una storia di cinque secoli, iniziata nella seconda metà del Cinquecento con la nascita dei conservatori di Santa Maria di Loreto, di Sant’Onofrio a Capuana e di Santa Maria della Pietà dei Turchini, modelli applicativi dei vari istituti di assistenza e beneficenza sorti a Napoli per accogliere l’infanzia abbandonata, trasformatisi nell’arco del Seicento e del Settecento in istituzioni che sarebbero divenute i più importanti luoghi per la formazione musicale in Europa.8 Enti i quali, a seguito di fusioni e passaggi, avrebbero dato origine al Real conservatorio di musica, dichiarato reale nel giugno 5

Cfr. (N.° 174) Decreto, con cui il conservatorio di musica stabilito in Napoli viene dichiarato conservatorio Reale, Napoli 30 giugno, «Bullettino delle Leggi del Regno di Napoli» I, 1807, p. 20. Per completezza bisogna ricordare che già a partire dal 1806 furono emanati provvedimenti legislativi per la riorganizzazione del conservatorio, in particolare si confronti il real decreto del 21 novembre 1806 (N° 251) Decreto, con cui sono nominati membri del ramo musicale del Real Conservatorio i signori Giovanni Paisiello come presidente, Fedele Finaroli, e Giacomo Tritto e il real decreto del 5 febbraio 1807 (N° 31) per la Giubilazione accordata a taluni individui del conservatorio di Musica, di seguito citati integralmente. 6 Per la ricostruzione di questi due fondi si rimanda a TOMMASINA BOCCIA, L’archivio storico del Conservatorio di musica San Pietro a Majella di Napoli: i fondi Amministrativo e Didattico, in Musica e musicisti a Napoli nel primo Novecento. Atti del convegno internazionale (Napoli 21-23 maggio 2009) a cura di Pier Paolo De Martino – Daniela Margoni Tortora, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 2012, pp. 505-516. 7 Per un quadro d’insieme sull’archivio, sugli interventi di riordinamento e sulla ricostruzione delle vicende storico-istituzionali si confronti anche: TOMMASINA BOCCIA – CONCETTA DAMIANI, L’archivio storico, in Il Conservatorio di San Pietro a Majella, Napoli, Electa Napoli, 2008, pp. 9-22. 8 Per la storia degli antichi conservatori si legga: SALVATORE DI GIACOMO, I quattro antichi Conservatorii di musica di Napoli. Il Conservatorio di S. Onofrio a Capuana e quello di S. M. della Pietà dei Turchini, [Palermo], Remo Sandron, 1924; IDEM, I quattro antichi Conservatorii di musica di Napoli. Il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo e quello di S. M. di Loreto, [Palermo], Remo Sandron, 1928; ROSSELLA DEL PRETE, La trasformazione di un istituto benefico-assistenziale in scuola di musica: una lettura dei libri contabili del conservatorio di S. Maria di Loreto in Napoli (1586-1703), in Francesco Florimo e l’Ottocento musicale. Atti del Convegno (Morcone 19-21 aprile 1990), a cura di Rosa Cafiero – Marina Marino, 2 voll., Reggio Calabria, Jason, 1999, II, pp. 671-715; IDEM, Un’azienda musicale a Napoli tra Cinquecento e Settecento: il Conservatorio della Pietà dei Turchini, ‹‹Storia Economica›› 3, 1999, pp.413-464; IDEM, Legati, patronati e maritaggi del Conservatorio della Pietà dei Turchini di Napoli in età moderna, «Rivista di Storia Finanziaria», Luglio-Dicembre 2001, Napoli, Arte Tipografica, pp. 7-32; TOMMASINA BOCCIA, Non solo note: il riordinamento dell’archivio del Real Conservatorio di Santa Maria di Loreto, in Domenico Cimarosa: un ‘napoletano’ in Europa. Atti del Convegno Internazionale (Aversa, 25-27 Ottobre 2001), a cura di Paologiovanni Maione – Marta Columbro, 2 voll., Lucca, LIM, 2004, II: Le fonti, pp. 643-651.

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1807 9 con decreto di Giuseppe Napoleone. Una storia complessa, dunque, intricata e articolata, che affonda le sue radici nella Napoli del Cinquecento, per poi svilupparsi ed evolversi, affrontando cambi di dominazione e di governi, rivoluzioni epocali e sociali, stravolgimenti istituzionali e organizzativi. Per grandi linee l’unione dei tre conservatori si attuò in momenti diversi e con modalità differenti: nel febbraio del 1797 ha luogo il trasferimento del Conservatorio di Santa Maria di Loreto nella sede del Conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana; tale passaggio accompagna il vero e proprio accorpamento dei due istituti, in virtù del quale Santa Maria di Loreto accoglie i figlioli e incamera il patrimonio del Sant’Onofrio. Tra il 1806 e il 1807, poi, è ufficializzata, con appositi provvedimenti, la fusione del Conservatorio di Loreto con quello della Pietà dei Turchini.10 Il reale conservatorio, quindi, nel 1808 trova collocazione nell’edificio dell’ex monastero di San Sebastiano, sede del conservatorio sino al 1826: Il Signor Ministro del Culto con sua del 27 febbraio p.° p.° mi partecipa un Real decreto in virtù del quale i locali del soppresso Monistero di S. Sebastiano è destinato per situarvi il Real Conservatorio di Musica, e la Chiesa della Pietà de’ Torchini è posta a disposizione del Ministero della Guerra. Nel darvi parte di una tale Sovrana decretazione per vostra intelligenza, vi prevengo e per uopo aspettare che dall’Amministrazione de’ Demanii si effettui la consegna del detto Monistero non ancora evacuato dalle religiose, e che sia destinata dal Ministero della Guerra la persona che dovrà prendere possesso della Chiesa della Pietà; atto per altro che non potrà farsi che dopo la translazione del Conservatorio nel nuovo locale accordatogli da S.M. 11

Nel 1826, a seguito dell’avvenuta concessione dei locali di San Sebastiano ai Padri Gesuiti, si attua un nuovo trasferimento dell’istituzione in quella che è l’attuale sede e a cui si deve la trasformazione della denominazione in Conservatorio di Musica San Pietro a Majella. 12 Nel corso del decennio francese l’impostazione delle attività di governo dell’istituto subisce diverse modifiche, in primis viene stabilito che il conservatorio 9

Cfr. (N.° 174) Decreto, con cui il conservatorio di musica… cit. Cfr. (N. 31) Decreto, con cui attesa l’unione dei due conservatori di musica in un sol corpo, ed il nuovo sistema di economia adottato, vengono giubilati con soldo alcuni individui addetti ai medesimi (Napoli 5 Febbraio), in Bullettino delle leggi del Regno di Napoli Anno 1807, tomo I, Napoli, Stamperia Simoniana, n. 3, p. 18. 11 Archivio storico del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli [d’ora in poi CMS NA as], San Pietro a Majella preunitario, Ministeriali, «2 marzo 1808 per il locale di S. Sebastiano accordato al Conservatorio», busta 1, fascicolo 10/bis. 12 Con real decreto del 15 settembre 1826 fu concesso ai Padri Gesuiti il locale di San Sebastiano, mentre al conservatorio fu assegnato il monastero di San Pietro a Majella. L’articolo 5 disponeva «Al Collegio musicale, che si trovava stabilito nel locale di S. Sebastiano da cedersi ai Padri Gesuiti assegniamo l’altro di San Pietro a Maiella, già sgombrato dalle truppe. Lo stesso Collegio riceverà, giusta gli ordini da noi comunicati al nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari interni, il corrispondente compenso per la rendita, che si ritraeva dai giardini interni e da alcuni casamenti annesse al locale di S. Sebastiano, e per quella parte di locale di Pietro a Maiella che trovasi affittata per uso di locanda di cui il collegio di musica dee indennizzarsi il R. albergo dei Poveri». 10

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si uniformi alla legge del 30 maggio 1807.13 A seguito di tale disposizione, la direzione musicale istituita nel 1806 e affidata alla terna composta da Giovanni Paisiello, quale presidente, Fedele Fenaroli e Giacomo Tritto,14 viene abolita nel 1809, con la precisa prescrizione che l’organizzazione educativo-didattica fosse di competenza del rettore, mentre l’amministrazione generale venne attribuita ad una commissione amministrativa, formata da due membri, nominati dal re, e dal rettore. A seguito della restaurazione borbonica, si introdusse, al fianco del direttore tecnico, un rettore ecclesiastico, cui spettava la cura dell’educazione morale e religiosa degli alunni, e una commissione di tre governatori, preposta alla gestione delle funzioni amministrative e alla vigilanza del rispetto dei regolamenti. Bisogna evidenziare che Ferdinando I, con il decreto dell’ 11 settembre 1816, 15 aveva auspicato una riforma del Conservatorio, che nei fatti non arriverà prima del 1856 quando, con decreto del 21 luglio, 16 fu stabilito che un Governo, composto da tre soggetti di nomina regia, doveva curare l’alta tutela del collegio, mentre a un direttore della musica, sempre di nomina regia, veniva «conferita la soprintendenza di tutte le specialità dell’ammaestramento musicale degli alunni»; il decreto inoltre promulgò il Regolamento del Real Collegio di Musica, un poderoso testo composto da 164 articoli suddivisi in sei titoli: Governo ed amministrazione del Collegio, Disciplina e religione, Insegnamento musicale, Insegnamento letterario, Scuola esterna gratuita, Stipendi.17 Con il Governo unitario, negli anni tra il 1870 e il 1873, grande attenzione viene posta all’istruzione musicale. Sono gli anni in cui è convocata a Firenze, dal ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti, la prima Commissione del settore, presieduta da Giuseppe Verdi e costituita da direttori e docenti di vari conservatori «per studiare i mezzi onde procurare un indirizzo fermo e concorde all’insegnamento musicale in Italia e restituire alle sue gloriose tradizioni il Collegio di Napoli». 18 Nella 13

Cfr. (N.° 14) Legge per lo stabilimento dei collegi nella capitale, e nelle provincie del Regno. Dei 30 Maggio, in Collezione delle leggi de’ decreti e di altri atti riguardante la pubblica istruzione promulgati nel giù Reame di Napoli dall’anno 1806 in poi, vol. I. dal 1806 al 1820, Napoli Stamperie e cartiere del Fibreno, 1861, pp. 34-42. 14 Cfr. (N° 251) Real decreto del 21 novembre 1806 Decreto, con cui sono nominati membri del ramo musicale del Real Conservatorio i signori Giovanni Paisiello come presidente, Fedele Finaroli, e Giacomo Tritto, «Bullettino delle leggi del Regno di Napoli» Anno 1806 Seconda Edizione in Napoli nella Stamperia reale e Stamperia della Segreteria di Stato 1813, p. 428. 15 Cfr. (N° 482) Decreto portante una riforma di sistema nel real collegio di musica Capodimonte, 11 settembre 1816, in Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Semestre II Da Luglio a tutto Dicembre, seconda edizione, Napoli nella Stamperia Reale 1821, pp. 238240. 16 Cfr. CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e regolamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Decreto di Ferdinando II, 21 Luglio 1856». 17 Ibidem, «Regolamento del Real Collegio di Musica». 18 Membri della commissione nelle fasi iniziali furono, oltre a Verdi e al ministro Correnti, Luigi Ferdinando Casamorata, direttore del liceo musicale di Firenze, Alberto Mazzuccato, docente di composizione del conservatorio di Milano, Paolo Serrao, docente di composizione del conservatorio

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sostanza i lavori della Commissione condussero a un’indicazione di massima rivolta a tutti gli istituti, al fine di adottare come modello di ordinamento il conservatorio di Milano; un risultato, in definitiva, modesto. Anche il secondo obiettivo, finalizzato al rilancio del conservatorio napoletano, non fu raggiunto, negli stessi anni nell’istituto, dopo la morte nel 1870 di Mercadante, si accese una lotta per ricoprire la carica di direttore, lotta che vide prevalere Lauro Rossi.19 Di fatto, il conservatorio napoletano, dopo l’unità nazionale, inizia un percorso caratterizzato, per un verso, dalla faticosa adesione alla normativa nazionale per quanto concerne l’organizzazione amministrativa e la programmazione didattica e, per un altro, dalla tenace difesa della sua specificità di ente autonomo, così come enunciato all’articolo 1 dello Statuto approvato con regio decreto dell’11 novembre 1888: «Il Real Collegio è ordinato, in conformità della sua istituzione, conservando la sua natura di ente morale autonomo in quanto sia conciliabile col presente Statuto, all’insegnamento della musica vocale e strumentale non che agli studi letterarii adatti a compiere l’istruzione degli alunni d’ambo i sessi»20 e riconfermato all’articolo 1 dello Statuto del 1890: «Il Regio Conservatorio di Musica di Napoli è un ente autonomo, posto sotto la dipendenza del Ministero della Pubblica Istruzione ed ordinato all’insegnamento della musica nelle varie sue manifestazioni […]». 21 Difficili furono le situazioni che caratterizzarono la storia dell’Istituto tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, una storia cadenzata da una serie di Napoli. Sull’argomento si legga: ANTONIO CAROCCIA, L’istruzione musicale nei conservatori dell’Ottocento tra regolamenti e riforme degli studi. I modelli di Milano e Napoli, in L’insegnamento dei Conservatorî, la composizione e la vita musicale nell’Europa dell’Ottocento. Atti del Convegno internazionale di studi (Milano, Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi”, 2830 novembre 2008), a cura di Licia Sirch – Maria Grazia Sità – Marina Vaccarini, Lucca, LIM, 2012 (Strumenti della ricerca musicale, 19), pp. 207-327 e Sulla riforma degli Istituti musicali. Relazione al Ministro della Pubblica Istruzione, «Supplemento straordinario» alla «Gazzetta musicale di Milano», XXVI/22-25, 1871. 19 Rossi immediatamente lavorò a un progetto di riforma del conservatorio e a un nuovo statuto, i continui ostacoli frapposti al suo impegno lo convinsero a dimettersi da direttore del Collegio. Sull’argomento si confronti: LAURO ROSSI, Riforma della istruzione musicale, Stabilimento Tipografico del Cav. Gennaro de Angelis, Napoli, 1877 (il contenuto dell’opuscolo venne pubblicato anche in apertura del n. 6 del 17 marzo 1877 del periodico napoletano «La Musica»), MARINA MARINO, Lauro Rossi ed un suo mancato progetto di riforma del conservatorio di musica “San Pietro a Majella di Napoli (1877) attraverso le pagine del periodico “La Musica”, in Francesco Florimo e l’Ottocento musicale cit., II, pp. 861-874 e ANTONIO CAROCCIA, La corrispondenza salvata. Lettere di Lauro Rossi a Francesco Florimo, Porto S. Elpidio, Le Marche della musica, 2008: XL-XLVII. 20 CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e regolamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Real Collegio di Musica di Napoli Statuto e ruolo normale approvato con R. Decreto del dì 11 Novembre 1888 N. 5819», bisogna evidenziare che vari furono i provvedimenti miranti alla riorganizzazione e alla non facile “statalizzazione” del conservatorio napoletano a partire dallo Statuto e regolamento approvati con regio decreto di Vittorio Emanuele II del 14 gennaio 1872, modificati già nel 1873, e successivamente nel 1879, nel 1880 e nel 1881. 21 Ibidem, «Statuto del Regio Conservatorio di Musica di Napoli approvato con R. Decreto del 30 Marzo 1890 N. 7243 (Serie 3ª) a cominciare dall’anno scolastico 1890-91».

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di ispezioni e inchieste ministeriali: nel 1892 l’ispezione Pellicani, nel 1899 l’ispezione Testoni, nel 1901 l’inchiesta Saredo, nel 1904 l’inchiesta D’Ancora, nel 1904 l’inchiesta Fiorini – Scotoni, nel 1913 l’ispezione Salvagnini.22 Le varie inchieste fornirono elementi che portarono all’emanazione della legge del 6 luglio 1912, Approvazione dei ruoli organici degli Istituti di belle arti e di musica,23 che mise ordine nella intricata gestione del personale degli istituti governativi, fino ad allora regolamentata da provvedimenti disorganici. Interessanti informazioni sulle complicate vicende amministrative e istituzionali che interessarono l’istituto in questi anni ci vengono fornite dalla relazione, pubblicata nel 1914, del regio commissario Salvagnini, di cui si riportano alcuni passaggi salienti: trascinato l’istituto sull’orlo del fallimento. Ritornato il Conservatorio nelle mani dello Stato, mediante l’opera energica di un Regio Commissario (De Bellis), e poi di un Regio Delegato (Rendina) fu riformato lo statuto con Regio Decreto 11 novembre 1888. Tale statuto affidava il governo del Conservatorio ad un consiglio composto di tutte le alte cariche cittadine, il sindaco, il presidente del consiglio provinciale, il rettore dell’università, il presidente della reale accademia e quello dell’istituto di belle arti, l’avvocato erariale e finalmente il direttore del Conservatorio ed uno dei professori, eletto dal comitato tecnico. Era evidente che un tale consiglio, ideato con una incredibile mancanza di senso pratico, non avrebbe mai potuto, non che funzionare, neppure giungere ad essere nominato. E così fu. Tanto che due anni dopo, nel 1890, fu approvato un nuovo statuto – quello vigente – che affidava l’amministrazione del Conservatorio ad un governatore ad honorem, assistito da un segretario generale. Si credette di aver rimediato nel modo migliore ai guai secolari dello sfortunato istituto; ma trascorso appena un anno dal nuovo ordinamento, ecco che il Ministero vi compie una ispezione e questa rivela un vuoto di cassa di circa 35 mila lire. 24

Inoltre, altra grave carenza evidenziata dal commissario è la mancata adozione di un regolamento generale, attribuita dallo stesso a una precipua volontà dell’Istituto: Lo statuto vigente, all’art. 29, prescrive l’esistenza di un Regolamento; ma dal 30 marzo 1890 in poi il Ministero non riuscì ad ottenere che il Conservatorio ottemperasse a tale prescrizione. Uno schema fu proposto nel 1894 dal direttore tecnico Maestro Platania, ma non venne approvato; si temporeggiò e si attese la nomina del successore per compilarlo d’intesa con lui ma si lasciò passare anche la nuova direzione senza dare un Regolamento al Conservatorio. E così, 23 anni dopo l’approvazione dello statuto, si attendeva ancora la 22

Per un approfondimento sulle ispezioni ministeriali si confronti BOCCIA, L’archivio storico del Conservatorio… cit. 23 Cfr. N.734 Legge 6 Luglio 1912, che approva i ruoli organici degli Istituti di belle arti e di musica, in Raccolta Ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, volume terzo, anno 1912, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1912, pp. 2708-2738. 24 Cfr. CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e regolamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Relazione del Regio Commissario Alberto Salvagnini Ispettore Centrale Amministrativo nel Ministero della Pubblica Istruzione, Napoli Stabilimento Tipografico Francesco Lubrano», pp. 31-32.

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presentazione del Regolamento; ed è questa una grave irregolarità più volte rilevata nell’andamento del Conservatorio. 25

Sempre Salvagnini sottolinea come fosse di fondamentale importanza l’adozione del regolamento, secondo quanto enunciato all’art. 29 dello Statuto: Saranno determinati da un Regolamento da approvarsi dal Ministero dell’Istruzione Pubblica: 1. Le attribuzioni e i doveri di ciascun insegnante, impiegato o inserviente del Regio Conservatorio. 2. Il numero degli alunni da assegnarsi a ciascuna classe di studi. 3. Il limite massimo ed il minimo di età per l’ammissione degli alunni. 4. I corsi ed i programmi di studi. 5. L’orario delle lezioni e le ferie scolastiche. 6. Le norme per gli esami e per le esercitazioni. E quant’altro possa occorrere al buon andamento artistico ed economico del Regio Conservatorio. 26

Dopo la promulgazione della già citata legge sulla Approvazione dei ruoli organici degli Istituti di belle arti e di musica (6 luglio 1912),27 nel 1918 veniva ratificato il regolamento generale degli istituti di belle arti, di musica e di arte drammatica.28 Dunque alla mancanza di un regolamento sopperì la normalizzazione dei dettami normativi nazionali. L’ispezione e i provvedimenti del commissario, con la direzione artistica di Cilea, contribuirono notevolmente al miglioramento del sistema amministrativo e didattico così come alla pianificazione e alla messa in opera di interventi per l’edificio, che versava in «uno stato preoccupante di disordine, di fatiscenza, di incompiutezza e di incuria». 29 Lo stesso Salvagnini nella presentazione dichiarava: Il Regio commissario e il Direttore artistico si accinsero all’opera con fervore, alacrità e fermezza, ciascuno nel proprio campo, pur guidati da un comune programma, e in breve apparvero i risultati concreti del concorde lavoro nel rapido riattamento dei locali, nella adozione di nuovi e più rigorosi metodi di amministrazione e di disciplina artistica, nella 25

Ivi, pp. 35-36. Ibidem, «Statuto del Regio Conservatorio di Musica di Napoli approvato con R. Decreto del 30 Marzo 1890 N. 7243 (Serie 3ª) a cominciare dall’anno scolastico 1890-91», p. 11 27 Cfr. N.734 Legge 6 Luglio 1912, che approva i ruoli organici degli Istituti di belle arti e di musica… cit. 28 Cfr. N. 1852 Decreto Luogotenenziale 5 maggio 1918, che approva il regolamento generale per l’applicazione della legge 6 luglio 1912, n. 734, negli istituti di belle arti, di musica e di arte drammatica, in Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia, volume quinto, anno 1918, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1918, pp. 3650-3722. 29 Cfr. CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e regolamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Il Regio Conservatorio di Musica San Pietro a Majella Relazione del Regio Commissario Alberto Salvagnini…» cit., p. 3. 26

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compilazione di regolamenti e di ordinanze, nel risveglio dell’attività artistica dell’istituto, che ritornava a contatto con la vita mediante pubbliche manifestazioni accolte con grande favore. 30

I provvedimenti legislativi del 1912 e del 1918 dettarono norme precise, in particolare, con la legge 734 furono emanate le prime disposizioni comuni su: nomine, rapporti tra il personale docente e non docente, retribuzioni e sanzioni per i docenti; 31 invece le norme relative al numero degli allievi e gli orari di servizio furono disciplinate con il regolamento generale del 1918.32 Il regolamento è stato per i Conservatori, senza dubbio, il riferimento normativo più importante per quasi tutto il Novecento. Il documento attribuiva un ruolo monocratico alla figura del direttore, il quale aveva competenza sull’andamento didattico, amministrativo e disciplinare. Negli anni del ventennio furono apportate profonde innovazioni,33 a partire dalla riforma Gentile, attuata con il regio decreto del 31 dicembre 1923, 34 che introdusse alcune novità sostanziali: tra queste, la vigilanza del Ministero della pubblica istruzione, la conferma del direttore a capo del governo che doveva però essere affiancato, nello svolgimento delle sue funzioni, dal Consiglio di amministrazione e dal Consiglio dei professori. Gli anni successivi videro un intenso dibattitto sulla concezione dei conservatori e sulle relative finalità.35 Con il regio decreto n. 1945 dell’11 dicembre 1930 36 furono approvati i nuovi programmi, che unificarono per la prima volta a livello nazionale la normativa in materia di esami. Nel 1935 il R.D.L. 2 dicembre, n. 2081, 37 in linea con l’autoritarismo del regime attuò un poderoso accentramento delle 30

Ibidem. Il personale docente venne distinto in titolari, aggiunti, incaricati di discipline speciale e di classi aggiunte a quelle normali e principali. 32 Cfr. N. 1852 Decreto Luogotenenziale 5 maggio 1918, che approva il regolamento generale per l’applicazione della legge 6 luglio 1912… cit. 33 Per la ricostruzione dell’adozione dei dettami normativi emanati dal 1923 al 1934 nel conservatorio napoletano si rimanda alla documentazione collocata in CM NA as, Archivio Amministrativo, «Ammissioni – Radiazioni – Programmi dal 1926 al 1932 Esami di Licenza Normale e Superiore», cassetta 4 A 2, fascicolo 1. 34 Cfr. Regio Decreto 31.12.1923, n. 3123 Ordinamento dell’istruzione artistica, in Raccolta delle Leggi e dei decreti del Regno d’Italia, Volume Undicesimo, anno 1923, Roma, Libreria dello Stato, 1924, pp. 9716-9740. 35 Per una rigorosa ricostruzione, non solo storica sui provvedimenti legislativi in materia di disciplina giuridica dei conservatori di musica leggasi NAUSICAA SPIRITO, Disciplina giuridica dei Conservatori di musica. Istituti di Alta Formazione Artistica e Musicale, Torino, G. Giappichelli Editore, 2012 (Diritto dell’economia, 23). 36 Cfr. Regio Decreto 11 dicembre 1930, n.1945. Norme per l’ordinamento dell’istruzione musicale ed approvazione dei nuovi programmi pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 16 marzo 1931, n. 62, consultabile all’indirizzo <http://www.rsu.unito.it/Tutto_Contratto/ccnl_snur/rd19301945.htm.> (ultima consultazione 28 marzo 2020). 37 Cfr. Regio Decreto Legge 2 dicembre 1935, n. 2081. Aggiornamento della legislazione relativa all’istruzione artistica e alla tutela del patrimonio artistico ed archeologico pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 1 dicembre 1935, n. 290, consultabile all’indirizzo <http://www.rsu.unito.it/Tutto _Contratto/ccnl_snur/rdl19352081.htm> (ultima consultazione 28 marzo 2020). 31

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funzioni sia centrali che periferiche, e in tale direzione anche le mansioni del direttore furono quasi del tutto attribuite al novello Ministero per l’educazione nazionale. Si può pertanto concludere che con il provvedimento del 1930, dedicato a Norme per l’ordinamento dell’istruzione musicale ed approvazione dei nuovi programmi d’esame, è stato avviato un processo di rinnovamento dell’apparato didattico che potrà dirsi pienamente realizzato soltanto con la completa e attesa attuazione della riforma dell’Alta Formazione Artistica e Musicale così come prospettata dalla legge n. 508 del 1999,38 che ha inquadrato i conservatori nell’ambito degli “istituti di alta cultura”, sebbene li collochi, poi, in un’ambigua struttura amministrativa duale: ma questa è un’altra storia. L’articolazione dell’Archivio storico Riordinare un archivio vuol dire ricostruire la storia istituzionale del soggetto produttore, che nel caso del conservatorio San Pietro a Majella è una storia, come più volte ribadito, quasi labirintica, evolutasi in cinque secoli, la cui trama sottile è percorsa ‒ e scandita ‒ da intrecci, da passaggi, da cambiamenti e fusioni; la storia di quattro soggetti produttori, ognuno con la propria amministrazione e organizzazione, ma uniti dalla comune vocazione per la formazione musicale. Altro aspetto non secondario, per il riordinamento, è la storia specifica dell’archivio, anche questa per il conservatorio napoletano tortuosa, fatta di traslochi, di eventi disastrosi e di cattiva conservazione dovuta o a precisi intenti di non lasciare testimonianze o a incuria. Per citare solo alcuni emblematici avvenimenti che ne hanno segnato la vita, possiamo ricordare la disposizione adottata dai Governatori del conservatorio di Santa Maria di Loreto che durante la pestilenza del 1656 fecero bruciare i documenti perché, come si legge in una Relazione dei governatori del 1748, «le carte e scritture che sempre si sono stimate materia più atta a ricevere le parti pestilenziali, per cauteal della comun salute furono tutte condannate al fuoco», 39 oppure per arrivare a tempi più vicini, alcuni passaggi della preziosa relazione del regio commissario Salvagnini, il quale con precisione si sofferma sullo stato di abbandono degli archivi rilevato durante il suo incarico ministeriale e su alcune iniziative intraprese. In particolare, nel paragrafo sui Lavori compiuti ed in corso di esecuzione, nella sezione in cui descrive gli interventi eseguiti per gli uffici amministrativi, egli sottolinea come si fosse proceduto alla separazione dell’archivio amministrativo dall’archivio tecnico e illustra quanto fatto per l’archivio patrimoniale:40 38

Legge 21 dicembre 1999, n.508 Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 4 gennaio 2000 n.2 Riforma delle Accademie di belle arti, dell’Accademia nazionale di danza, dell’Accademia nazionale di arte drammatica, degli Istituti superiori per le industrie artistiche, dei Conservatori di musica e degli Istituti musicali pareggiati, consultabile all’indirizzo <http://www.miur.it/0006Menu_C/0012 Docume/0098Normat/1128Riform_cf4.htm.> ( ultima consultazione 28 marzo 2020). 39 Cfr. CM NA as, Real conservatorio di Santa Maria di Loreto, Governo del conservatorio, «Relazione dei governatori», 1748. 40 Con questa definizione venivano indicati i soli volumi e registri degli antichi conservatori.

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All’archivio patrimoniale che, come si è detto era stato ammassato in una specie di sottoscala, sono state destinate tre stanzette del mezzanino, opportunamente fornite di scaffali, per modo che le antiche carte tanto necessario per lo studio delle questioni legali attinenti al patrimonio siano distinte secondo la loro provenienza. Avremo dunque in vari reparti le carte del Conservatorio di S. Maria di Loreto, di S. Onofrio a Capuana, della Pietà dei Turchini, del R. Collegio di S. Sebastiano, e finalmente del Conservatorio di San Pietro a Majella. Nel piano degli uffici amministrativi resterà soltanto l’archivio vivo, che dev’essere sempre a portata di mano. Quello della parte tecnica troverà posto in una grande stanza, in prossimità dell’ufficio del segretario addetto alla Direzione. 41

Altre notizie sono state tratte dalla lettura dei verbali del Consiglio di amministrazione dal 1920 al 1928, in cui più volte vengono discussi punti relativi alla tenuta dell’archivio amministrativo e dell’archivio antico. Per esempio, dal verbale della tornata del 20 dicembre 1921 42 si evince che l’archivio versava in uno «stato di disordine» e che il riordinamento fu affidato a due impiegati che lo completarono nel 1923. 43 Si trascrive parte del verbale della delibera adottata nella tornata del 17 dicembre 1923, essenziale anche per capire quanto determinante fu, per la salvaguardia della documentazione, l’operato di Salvatore Di Giacomo: Ha la parola il comm. Di Giacomo, il quale dice che, avendo visitato l’Archivio Antico patrimoniale dell’Ente, ha constatato che il medesimo trovasi in un locale umidissimo, ciò arreca danni grave danno ai libri e ai registri antichi che vi sono depositati distruggendone le scritture; il che sarebbe di grave responsabilità per gli amministratori se non si provvedesse a tempo. Il Sig. Direttore M° Cilea dichiara che egli sin dall’anno passato ha prospettato al Consiglio tale situazione in occasione del riordinamento dell’archivio amministrativo corrente. Anzi a tale riguardo, poiché questo è stato già eseguito, propone che in vista del trasloco del predetto archivio antico, di fare eseguire il riordinamento di esso da due impiegati del Conservatorio con lavoro straordinario. Il Consiglio, considerata la gravità delle cose, e compreso la necessità del trasloco dell’archivio antico, ne delibera l’attuazione in altro locale esistente al 2° piano del Conservatorio, con l’incarico agli impiegati Lupo e Di Molfetta per il riordinamento […] pregando il comm. Di Giacomo di guidare il lavoro con criteri adeguati alla natura dei libri riguardanti gli antichi Conservatori, dai quali proviene il nostro attuale. 44

41

Cfr. CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e regolamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Relazione del Regio Commissario Alberto Salvagnini…» cit., p. 23. 42 CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella postunitario, Amministrazione, «Libro dei verbali del Consiglio di Amministrazione», p. 150. 43 Ivi, p. 356. 44 Ivi, pp. 418-419. Sembra opportuno ricordare che Salvatore Di Giacomo fu nominato consigliere del Consiglio di Amministrazione del Conservatorio nella tornata del 9 novembre 1923. L’incarico di guidare le operazioni di riordinamento gli consentì di poter lavorare ai volumi riservati ai quattro antichi conservatori pubblicati nel 1924 e nel 1928, lavoro minuzioso e attento testimoniato dalla sigla con matita blu SDG segnata su alcuni documenti d’archivio.

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Dieci anni dopo furono deliberati i lavori per l’allestimento dell’archivio antico situato nei locali dell’antico guardaroba. 45 Le tortuose vicende dell’archivio storico sono state affrontate in maniera definitiva solo alla fine degli anni Novanta, con dei primi interventi parziali della Soprintendenza Archivistica per la Campania sulla sola documentazione che era stata collocata nella Biblioteca dell’Istituto. Grazie, poi, a un progetto della stessa Soprintendenza, avviato nel settembre del 2000, a successivi progetti attuati dall’Istituto e a finanziamenti del Ministero per i beni e le attività culturali, si è potuti arrivare al quasi totale censimento, 46 al riordinamento e alla definitiva collocazione nei locali allestiti al secondo piano dell’edificio, all’apertura alla consultazione nel 2004 e, come prima ricordato, all’istituzione della separata sezione d’archivio, nel 2014. Le iniziali e delicate operazioni di ricostruzione storico-istituzionale e archivistica, effettuate contestualmente al censimento, e di schedatura, hanno consentito di delineare la struttura dell’insieme documentale. L’archivio è stato strutturato in due sezioni: la prima, denominata Antichi Conservatori, è composta dagli archivi aggregati del Real Conservatorio di Santa Maria di Loreto (1537-1807), del Real Conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana (1578-1797) e del Real Conservatorio di Santa Maria della Pietà de’ Turchini (1583-1807); 47 la seconda sezione, denominata Conservatorio di musica San Pietro a Majella, conserva, invece, la documentazione prodotta dall’Istituto dal 1807 al 1960 circa, ed è stata articolata in due parti: la prima è costituita dai documenti del periodo preunitario (1807-1860); la seconda custodisce la documentazione del periodo postunitario dal 1861 al 1960 ca.,48 che comprende anche i subfondi novecenteschi Archivio amministrativo e Archivio Didattico.49 Si riporta la rappresentazione complessiva dell’archivio storico, in gergo archivistico struttura logica o albero logico, composta da sezioni, fondi, partizioni, serie e sottoserie, 50 per la sezione Conservatorio di musica San Pietro a Majella fino al livello serie 45

Ivi, p. 557. Il ‘quasi’ è d’obbligo, perché ancora sono da analizzare documenti collocati nella Biblioteca dell’Istituto. 47 I documenti dei tre archivi aggregati sono stati riordinati rispettando il criterio di disposizione delle serie nell’ordine originario, attraverso la rilevazione della numerazione coeva che le singole unità presentavano. Laddove non si è riscontrato un ordine originario, le serie sono state ricostruite attraverso lo studio dell’assetto amministrativo dei tre antichi conservatori che, come tutte le istituzioni assistenziali, avevano figure preposte per l’amministrazione – il regio delegato, i governatori, il razionale-segretario, il maestro di casa – e figure deputate alla gestione assistenziale e didattica: il rettore, il vicerettore, il prefetto, i maestri di scuola, di cappella e di strumento. La struttura organizzativa interna degli archivi dei tre antichi conservatori è stata articolata in serie e sottoserie. 48 La data del 1960 è relativa alla selezione della documentazione effettuata agli inizi degli 2000, data dell’avvio delle operazioni di censimento, in applicazione della legislazione archivistica che prevede, come è noto, che la sezione separata d’archivio è costituita dalle pratiche esaurite da oltre un quarantennio). 49 Si confronti BOCCIA, L’archivio storico… cit. 50 Per la sezione Antichi conservatori e per la sezione Conservatorio di musica San Pietro a Majella l’articolazione è riportata a livello serie, per il subfondo Archivio amministrativo è stata inserita an46

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Archivio storico Conservatorio di musica San Pietro a Majella di Napoli

Sezione Antichi Conservatori Fondo Real conservatorio di Santa Maria di Loreto 51 (1537-1807) Governo del conservatorio Patrimonio Contabilità Alunni e convittori Legato Battimelo Culto Scritture di Giuseppe e Giovanni di Nardino Padri Somaschi Libri delle Musiche Fondo Real Conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini 52 (1583-1807) Governo del conservatorio Patrimonio Contabilità Alunni e convittori Assistenza e beneficenza Culto Contenzioso Confraternita de’ Bianchi Cappella di Sant’Anna Fondo Real conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana ((1578-1797) Governo del conservatorio Patrimonio Contabilità Alunni e convittori Affari contenziosi Culto

che una breve descrizione di alcune serie. Le date tra parentesi a livello fondo degli antichi conservatori si riferiscono alla data dell’istituzione e alla data della chiusura). 51 La serie Scritture di Giuseppe e Giovanni di Nardino è in realtà un archivio aggregato, in quanto custodisce le scritture contabili dei ricchi commercianti di tessuti di Nardino, che nella prima metà del Seicento lasciarono al conservatorio una cospicua eredità. 52 Le ultime due serie sono da considerarsi degli archivi aggregati, costituiti da documenti di due istituzioni con una propria storia e una propria amministrazione.

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Sezione Conservatorio di musica San Pietro a Majella Parte I

Periodo preunitario (1807-1864 ca.)

Serie 1 Serie 2 Serie 3 Serie 4 Serie 5 Serie 6 Serie 7 Serie 8 Serie 9

Amministrazione dei beni degli antichi conservatori Amministrazione del Real collegio di musica Patrimonio Contenzioso Contabilità dei beni degli antichi conservatori Contabilità del Real collegio di musica Attività didattica Personale Archivio musicale e biblioteca

Parte II

Periodo postunitario (1861 ca -1960 ca.)

Serie 1 Serie 2 Serie 3 Serie 4 Serie 5 Serie 6 Serie 7

Amministrazione Patrimonio Contenzioso Contabilità Attività didattica Personale Archivio musicale e biblioteca Subfondo Archivio Amministrativo (1890 1960ca.)

Titolo I Presidente, Consiglio di Amministrazione, Statuto Titolo 2 Vigilanza Titolo 3 Manifestazione d’arte e di scuola Titolo 4 Scuola; Titolo 5 Biblioteca Titolo 6 Museo – Chiesa San Pietro a Majella Arredi Sacri – Pinacoteca – Celebrazioni Martucciane Titolo 7 Canto corale Titolo 8 Premi Titolo 9 Personale; Titolo 10 Concorsi Titolo 11 Convitto Titolo 12 Proprietà Immobiliare (edificio del Conservatorio) Titolo 13 Proprietà immobiliari (Proprietà Urbane) Titolo 14 Proprietà immobiliare. Vendite ed espropri Titolo 15 Proprietà mobiliare Titolo 16 Uffici Titolo 17 Contabilità Titolo 18 Consulenza legale Titolo 19 Servizio tecnico Titolo 20 Pratiche varie Titolo Sezione Reggio Calabria Titolo Agimus 200


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Subfondo

Archivio Didattico (1890-1960 ca.)

Serie Serie

Serie Serie Serie

Serie Serie Serie Serie Serie

Deliberazioni Fascicoli alunni (composta da sei sottoserie: Alunni interni, Privatisti, Sezione staccata Salerno, Sezione staccata Martuscelli, sezione staccata Reggio Calabria e infine sottoserie Vecchio programma, contenente le pratiche degli alunni che terminarono gli studi negli anni Trenta con i programmi precedenti a quelli approvati dal Regio Decreto 11 dicembre 1930 n. 1945 53). Registri degli alunni, poi Registri matricole istituiti sotto la direzione del Direttore Francesco Cilea dall’anno scolastico 1915 -1916 Registri degli esami e delle ammissioni Partiture, serie di registri di particolare interesse, anche questa voluta da Cilea a partire dell’anno scolastico 1913-1914, per la registrazione dei corsi principali, dei corsi complementari e dei corsi di Lettere maschili e femminili, delle diverse classi di insegnamento, dei nominativi dei professori, degli alunni e dei relativi voti di profitto Registri dei Professori Contabilità Domande di ammissione per canto corale, corso di avviamento al teatro lirico per cantanti, corso per danza classica Attestati e diplomi Fascicoli medie disciplinari

Conclusione L’Archivio è memoria, memoria documentale; se condivisa essa diviene storia, tradizione, patrimonio culturale. La dicitura Archivio storico del conservatorio di musica San Pietro a Majella suona suggestiva e ricca di implicazioni, perché sembra coniugare termini che rinviano a contesti tra loro assai differenti, quasi opposti. Mette insieme infatti un elemento percepito come giovane, dinamico, artistico, piacevolmente chiassoso, e uno invece, nella considerazione dei più, avvertito come vecchio, polveroso, estraneo, malinconicamente silenzioso. Al contrario, questa percezione duale deve trasformarsi in un’unica certezza: l’archivio è la nostra memoria, è la nostra cultura, è la nostra tradizione, è uno spazio vivo e funzionale, dove poter leggere, conoscere, analizzare, capire la “storia” di un’istituzione somma di tante storie, piccole e grandi.

53

Cfr. Regio Decreto 11 dicembre 1930, n. 1945. Norme per l’ordinamento dell’istruzione musicale... cit.

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L’Archivio storico deve e dovrà essere per sempre il testimone non più muto, come per ragioni contingenti a lungo è stato, della Scuola musicale napoletana. E facendo mie le parole del commissario Salvagnini, concludo: e i lettori benevoli di queste pagine vorranno tener conto del buon volere e dell’affetto che le hanno inspirate all’autore, lieto e orgoglioso di aver potuto dedicare la sua attività al più grande istituto musicale d’Italia e animato da incrollabile fede nel glorioso avvenire che ad esso è serbato. Con profondo ossequio. 54

54

Cfr. CM NA as, Conservatorio San Pietro a Majella preunitario, Amministrazione, Statuti e regolamenti, «Raccolta di Statuti regolamenti Ecc. 1923 Napoli - Relazione del Regio Commissario Alberto Salvagnini…» cit.

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APPENDICE

Questa parte del contributo è dedicata alla riproduzione di alcuni documenti dell’Archivio storico del Conservatorio di musica San Pietro a Majella, selezionati come campione esemplificativo del consistente patrimonio archivistico dell’Istituto.

Figura 1: Particolare del Libro del Patrimonio, 1790. (Real conservatorio di Santa Maria di Loreto)

Figura 2: Notizie di Regole da Conservatorio di Loreto; e notizie dello stato di loro osservanza, col riscontro delle regole del Real Convitto di San Ferdinando, 1777. (Real conservatorio di Santa Maria di Loreto)

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Figura 3: Regole e Statuti del Real conservatorio della Pietà de’ Torchini, 1746. (Real conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini)

Figura 4: Notamento degli alunni ammessi ed espulsi, 22 giugno 1781. (Real conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini)

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Figura 5: Fede del vicerettore Fiorillo dei figlioli usciti, Napoli 9 ottobre del 1796. (Real conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini)

Figura 6: Registro degli alunni e convittori dal 1751 al 1770. (Real conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana) 205


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Figura 7: Particolare della serie dei Libri maggiori del Real collegio di musica degli anni dal 1813 al 1824. (Conservatorio San Pietro a Majella – preunitario)

Figura 8: Regolamento delle scuole del 1848 e Regolamento della scuola esterna gratuita del Real collegio di musica del 1818 e modificato nel 1848. (Conservatorio San Pietro a Majella – preunitario)

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L’ARCHIVIO STORICO DEL CONSERVATORIO DI MUSICA

Figura 9: Tabella dell’organico dei professori a partire dall’anno 1849 del regolamento del 1848. (Conservatorio San Pietro a Majella – preunitario)

Figura 10: Registro annuale dell’anno scolastico 1895-1896, particolare dei corsi di canto e pianoforte. (Conservatorio San Pietro a Majella – postunitario)

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Figura 11: Partitura degli anni scolastici 1923-24 e 1924-25. Particolare della classe del Maestro Raffaele Caravaglios. (Conservatorio San Pietro a Majella – postunitario)

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RECENSIONI ____________________________________________________________________ Serenata and festa teatrale in 18th Century Europe, edited by Iskrena Yordanova – Paologiovanni Maione, Wien, Hollitzer Verlag, 2018 (Specula spectacula 5 / Cadernos de Queluz 1), 550 pp. I primi due volumi dei Cadernos de Queluz nascono dall’intensa attività di ricerca e produzione del Divino Sospiro - Centro de Estudos Musicals Setecentistas de Portugal. Come esplicita la denominazione scopo di tale Centro è quello di studiare, e diffondere, la produzione e l’attività musicale portoghese sviluppatesi nel corso del XVII secolo: estremamente fiorente ma oggi poco nota. Il progetto che il Divino Sospiro sta realizzando negli ultimi anni è volto al restauro di molte delle Serenate scritte nel ‘700 per il palazzo reale di Queluz, costruito nel 1747 e usato come residenza estiva della Real Casa di Braganza, divenuto cuore della vita musicale portoghese dopo il crollo del Teatro nel corso del terremoto del 1755. A tale forma è dedicato il primo dei due volumi editi – Serenata and Festa Teatrale in 18th century Europe – che, in una pregevole stampa su bella carta forte avorio ed elegante rilegatura tutta tela rossa e titoli in oro al dorso e alla copertina, raccoglie ben sedici saggi suddivisi in tre sezioni che ne delineano gli aspetti musicali e sociali nei diversi contesti cortigiani di regni e città europei. Ciò che emerge in modo inequivocabile è l’estrema difficoltà di poter dare una definizione univoca di questa forma e dei tanti sinonimi che a essa sono associati: Festa Teatrale, Dramma Lirico, Festa Musicale, Festa Pastorale per Musica, Dramma per Musica. La funzione encomiastico/celebrativa è spesso obiettivo primario di tali composizioni, condizionandone in modo sostanziale il contenuto, l’organico, l’apparato scenico, la struttura stessa e rendendo, quindi, ardua la descrizione di una “forma tipo”. Gli elementi costitutivi, di volta in volta diversamente modulati e aggregati in un unico atto a volte suddiviso in due parti, sono le voci soliste, gli strumenti, l’apparato scenico, il coro, il ballo: ciò portava alla compartecipazione di moltissime professionalità spesso provenienti da aree geografiche diverse. I pregevoli contributi del volume offrono un’ampia panoramica delle pratiche diffuse nelle corti, case patrizie o anche luoghi religiosi con le molteplici diversità che connotavano i vari spettacoli. Eppure, da una lettura attenta, si riescono a ricavare delle caratteristiche riferibili a tutte le Serenate e Feste Teatrali ovunque esse abbiano trovato accoglienza. L’elemento di comunanza più evidente è la funzione encomiastico/celebrativa che ne determina due caratteristiche: il soggetto per lo più mitologico, storico o epico volto a esaltare i pregi del destinatario e, al tempo stesso, lo strettissimo legame del brano con l’ambiente in cui, e per cui, era stato scritto. Molte delle allegorie, dei riferimenti, delle metafore risulterebbero del tutto incomprensibili se la Serenata non venisse contestualizzata; e a tal proposito si evince anche che tali elementi erano più o meno esplicitati a seconda che lo spettacolo venisse dato in forma privata, per una élite colta, o destinato a un pubblico vasto ed eterogeneo. La rappresentazione poteva, quindi, avvenire in saloni o teatri, in giardini o luoghi pubblici 209


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all’aperto a conferma dell’adattabilità della forma. Come apprendiamo dai saggi, rispettivamente di Giulia Giovani e Teresa Chirico, si manifestò anche come composizione di ispirazione popolare o di destinazione religiosa: la prima si diffuse in Toscana, con la denominazione di Serenata rustico/civile, e inneggiava al ritorno della primavera, tòpos della cultura popolare, contrapponendo a un personaggio nobile un contadino caratterizzati dall’uso di un diverso linguaggio; la seconda, SerenataOratorio, fiorita a Roma presso la corte del cardinale Pietro Ottoboni veniva allestita in occasione della festa di San Lorenzo e aperta al popolo con un organico considerevole e uno sfarzoso allestimento scenico. Per tutto quanto fin qui asserito risulta evidente come le Serenate fossero delle composizioni difficilmente replicabili in quanto nate per una specifica occasione o ricorrenza, con precisi riferimenti al personaggio o all’evento per cui erano state concepite. Anche rispetto a tale caratteristica, però, il saggio di Andrea Chegai dimostra come la Serenata sembra sfuggire a qualsiasi tentativo di tipizzazione: L’Isola disabitata di Pietro Metastasio, composta nel 1753 per la Corte spagnola, ebbe numerose riprese negli anni successivi in altre città, anche italiane. La difficile riutilizzazione di questo tipo di composizioni è certo all’origine della esigua quantità di partiture in nostro possesso: molte delle trattazioni si avvalgono di cronache dell’epoca o esaminano i contenuti del solo testo che, a differenza della musica, andava a stampa. Nel saggio di Paologiovanni Maione, invece troviamo una interessantissima analisi della condotta musicale de La marina risplendente, data a Napoli nel 1745 per le nozze della sorella di Carlo di Borbone con il Delfino di Francia, che viene considerata nel suo rapporto con il testo. L’autore, inoltre, attraverso la lettura di cronache del tempo, poi riportate in Appendice, fornisce al lettore una interessante e accattivante descrizione della vita del tempo. Questo volume offre una panoramica scientificamente rigorosa e storiograficamente aggiornata non solo della Serenata, e delle forme a essa affini, ma anche della realtà culturale, sociale e artistica del periodo in cui essa si affermò. Renata Maione Diplomacy and the aristocracy as patrons of music and theatre in the Europe of the ancient régime, edited by Iskrena Yordanova – Francesco Cotticelli, Wien, Hollitzer Verlag, 2019 (Specula spectacula 7 / Cadernos de Queluz 2), 528 pp. Il secondo volume è suddiviso in più sezioni, che mettono a fuoco, da diversi punti di vista, il rapporto tra diplomazia, aristocrazia, mecenatismo e sviluppo culturale nell’ancien régime; in tal modo, utilizzando importanti fonti indirette come le relazioni diplomatiche e applicando efficacemente il metodo dell’interdisciplinarietà, è possibile ricostruire la geografia europea dello spettacolo tra Sei e Settecento, un’epoca in cui lentamente il sistema teatrale prova a realizzare una propria autonomia dall’intervento protettivo di principi e casati. Il sistema del protezionismo è delineato da Helen Geyer («…und mit der Protek210


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tion […] wird er, so hoffe ich, allen Beistand finden». Meccanismi e protezionismo: «viaggiatori» stranieri…), che sottolinea l’importanza degli scambi europei favoriti dal diffondersi della consuetudine del grand tour, realizzato spesso grazie all’aiuto di attenti mecenati, spesso destinatari di dediche nelle composizioni musicali. Parimenti la politica si fa promotrice della diaspora degli artisti, come nel caso del conte Daun che porta a Barcellona i membri della cappella reale di Napoli. Proprio il rapporto tra potere e il viaggio è oggetto della speculazione di Francesco Cotticelli («Cacciarsi per tutto». Considerazioni sull’«invenzione viaggiante» e gli spazi del potere), che illustra il sistema attraverso la figura di Calzabigi, emblema dell’artista che si barcamena per ottenere incarichi. Il librettista e i suoi pari, infatti, intessono «una fittissima trama di percorsi, carriere, episodi in cui ai caratteri unitari dei generi e delle formule, alle finalità encomiastiche e alla ricerca di consensi politici interni ed esterni si uniscono e si sovrappongono i motivi suggeriti da contingenze specifiche, da spinte creative individuali e da interazioni con le arti e la cultura di aree differenti» (p. 16), sempre in ossequio al potere aristocratico. Il volume prosegue con l’osservazione dell’importanza del grand tour nelle capitali europee della cultura: caso esemplare è il viaggio del granduca Pavel Petrovich Romanov (Anna Giust, When Music Suits Diplomacy: The Grand Tour of Pavel Petrovich Romanov, 1781–1782), che percorre l’Europa formalmente in incognito, ma in realtà ben riconosciuto, per tessere alleanze politiche. I rapporti tra potere spagnolo e teatro sono ricostruiti attraverso la figura di Vitaliano Borromeo che nella Milano di secondo Seicento si pone quale concreto mediatore tra la politica e la vita teatrale, grazie anche ai suoi rapporti con musicisti e cantanti in tutta Europa (Roberta Carpani, Patriziato, corti e impresariato teatrale in Italia nella seconda metà del XVII secolo: il caso di Milano) in un periodo in cui si sovrappongono vecchi e nuovi moduli di gestione della res spettacolare, tra mecenatismo e nascita del professionismo. Parallelamente si indaga sugli scambi culturali che avvengono a Roma grazie al cardinale Ottoboni, concreta figura di committente oltre che abile diplomatico (Teresa Chirico, Il cardinale Pietro Ottoboni, la diplomazia e la musica (1689–1721), e sul mecenatismo asburgico nel diciassettesimo secolo attraverso il ruolo del castrato Domenico Dal Pane, poi compositore, per tutta la vita al servizio di teste coronate (Maria Paola Del Duca, Al suo Augustissimo Servitio Nobili e coronate Teste Patrone dei madrigali del musico di camera Domenico Dal Pane). Sempre l’intervento degli ambasciatori spagnoli a Roma è ricostruito attraverso l’attività dei cardinali Acquaviva d’Aragona, che nei propri palazzi solennizzano eventi spagnoli, romani e napoletani con feste, cerimonie, accademie, che utilizzano in particola modo il genere della cantata encomiastica (Roberto Ricci, I cardinali Francesco e Troiano Acquaviva d’Aragona nella cultura di corte del Settecento romano). Notevole attenzione viene mostrata alle strategie diplomatiche che si sviluppano nel Palatinato, sottolineando l’importanza delle donne reali, che per matrimoni emigrano nelle corti europee. In particolare, si riflette sui matrimoni di spagnoli e austriaci con nobildonne tedesche come le sorelle Neuburg, che assumono un posto di rilievo nella gestione delle vite culturali nelle nuove nazioni in cui giungono (Giulio 211


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Sodano, Le figlie del Palatinato: rigenerazione del sangue e trasferimenti culturali tra le corti europee). Nella stessa regione opera Giovanni Guglielmo Neuburg, grande mecenate e amante della musica, che ha contatti in tutta Europa per assoldare cantanti che poi diventeranno suoi emissari presso le corti straniere, come Steffani, il cantante Pellegrini o il castrato Tosi (Valentina Anzani, Dal Reno alla penisola iberica: i «musici» spia dell’elettore Palatino Giovanni Guglielmo (1690–1716) durante la Guerra di Successione Spagnola). La vita culturale della capitale lusitana è ricostruita attraverso l’epistolario diplomatico di Zignoni, corrispondente imperiale, inviate da Lisbona all’imperatore d’Austria (Giuseppina Raggi, Lisbona nello specchio di Vienna: le lettere di Giuseppe Zignoni per una nuova visione sul teatro e sull’opera italiana in Portogallo). Ancora, attraverso una documentazione inedita si descrive il sistema impresariale portoghese, con caratteristiche spiccatamente elitarie e aristocratiche (José Camões -Bruno Henriques, The Noblemen’s Balcony: a Perspective on Theatre Subscription). L’attività degli emissari spagnoli a Napoli è ricostruita grazie alla descrizione dei complessi festeggiamenti per la vagheggiata nascita e il battesimo dell’erede napoletano, figlio di re Carlo e di Amalia di Sassonia (Paologiovanni Maione, «Fece spiccare la magnificenza del suo Padrone»: le feste ispaniche per la nascita dell’erede al trono di Napoli (1748). Analogamente, le feste per il matrimonio di Ferdinando IV e Maria Carolina nel 1768 sono lo spunto per l’organizzazione di una complessa serata nella casa di Aróstegui, ministro plenipotenziario di Carlo III e mecenate a tutto tondo (Paola De Simone-Nicolò Maccavino, Alfonso Clemente de Aróstegui: musica, arte e mecenatismo nella Napoli borbonica di Carlo III e Ferdinando IV), dove spicca la messinscena della serenata Il giudizio di Apollo di Sala. Non manca nel volume una riflessione sulla genesi del famoso Saggio sopra l’opera in musica di Algarotti, poliedrica figura di musicista e intellettuale (Giovanni Polin, Note sul processo creativo del Saggio sopra l’opera in musica di Francesco Algarotti: una testimonianza di cultura europea). Francesca Seller

Musica, Arte e Grande Guerra. Atti del convegno nazionale di studi (Avellino, Conservatorio di Musica “Domenico Cimarosa”, 3-4 ottobre 2018), a cura di Antonio Caroccia e Tiziana Grande, Avellino, Il Cimarosa, 2018, pp. 242. Il tema, doloroso e complesso della Grande Guerra riceve un interessante e significativo contributo grazie alla recente pubblicazione Musica, arte e Grande Guerra, a cura di Antonio Caroccia e Tiziana Grande. Un volume ponderoso dalla bella veste tipografica che raccoglie gli atti di un convegno promosso e realizzato dal Conservatorio “Domenico Cimarosa” di Avellino il 3 e 4 ottobre 2018; un’iniziativa che ha meritato, per il suo indubbio valore culturale, la Medaglia di Rappresentanza della Presidenza della Repubblica Italiana.

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La Prima guerra mondiale viene così rivista e raccontata dai nostri studiosi attraverso la disamina del contributo apportato in quegli anni dagli artisti, in special modo meridionali. I vari articoli, soffermandosi ora su personaggi, ora su particolari aspetti, riescono a ben argomentare anche il contesto storico sociale, nonché le pesanti ricadute che il conflitto ebbe sulla compagine culturale, consegnandoci dunque un affresco quanto mai suggestivo ed emblematico dove l’arte si conferma veicolo privilegiato della grande comunicazione sociale. Numerosi gli interventi che riguardano la musica, in particolare quella popolare, così ben descritta da Emilio Jona (Il meridione nel canto popolare della Grande Guerra), e da Giovanni Vacca (“Canzone ‘e surdate”: immaginario collettivo e posizionamento sociale della canzone napoletana nella Prima guerra mondiale). Da essi ben si evince come la canzone seppe fornire un contributo fondamentale a supporto della causa e dei militi, dando voce a una narrazione sentimentale, seppure realistica, descrivendo fatti, situazioni, sentimenti di chi era partito per il fronte e di chi, invece, restava nell’attesa della fine o di un rientro. Ancora una volta la musica, con inni, marce e canzoni, riuscì a diffondere in maniera capillare tante informazioni andando ben oltre una funzione di puro intrattenimento al punto tale che, proprio attraverso la canzone, quella scritta per il fronte, l’Italia post-unitaria divisa in tanti regionalismi, trovò «la sua prima reale unificazione», privilegiando l’italiano. Ciò nondimeno, Napoli mantenne viva la produzione di canzoni rigorosamente dialettali, senza tradire quei caratteri stilistici dettati da una secolare tradizione, ampliando la sfera dei suoi contenuti alle vicende contemporanee. L’industria della canzone napoletana trovò, infatti, un forte incentivo al fine di offrire sostegno, con spirito nazionale, a quanti partecipavano all’industria bellica. Molto interessanti risultano, a tal proposito, gli esempi forniti dalle Piedigrotte di guerra, raccolte di album editi dalla Bideri del fondo Dell’Angelo, custodito presso la Biblioteca del Conservatorio di Avellino, attentamente analizzate nel bel saggio di Tiziana Grande; brani esemplari scritti per il concorso canoro che si sviluppava proprio durante la Festa di Piedigrotta. Fra questi (l’articolo riporta in appendice ben 415 titoli di diversa tipologia) spicca La leggenda del Piave di E.A. Mario, canzone vincitrice della Piedigrotta del 1918. Poeta, musicista, sia pure autodidatta, Giovanni Ermete Gaeta (in arte E. A. Mario) grazie all’accurata disamina di Antonio Caroccia (“Si vide il Piave rigonfiar le sponde!”: E. A. Mario e la canzone patriottica), si conferma personaggio di grande spessore. Animato da un forte sentimento di amor patrio, dedicò una gran parte della sua vasta produzione al tema bellico, descrivendo in maniera empatica, con versi e musica, le varie fasi del conflitto; così come ben nota l’autore del contributo in esame: «attraverso le canzoni patriottiche riuscì a esprimere il sentimento autentico e sincero di un intero paese». Tra le tante importanti memorie musicali che questo libro ci rivela, spicca anche quella fornita dalla doppia collezione di canzoni napoletane e vignette francesi, custodite da Diego Landi nel piccolo borgo siciliano di Ciampino descritte nell’articolo di Consuelo Giglio e Patrizia Maniscalco (Tra Napoli e Parigi: Canzoni e caricature della Grande Guerra in una collezione siciliana), diviso in base alle rispettive com213


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petenze. L’interessante narrazione porta alla ribalta una cospicua e rara collezione di canti di guerra composta da fogli volanti per mandolino solo, che ben attestano l’importanza e la diffusione di uno strumento che assurgerà a simbolo musicale di quel conflitto bellico. Mentre le vignette di Abel Faivre e Jean-Louis Forain «gettano un ponte verso Parigi, mostrando altri aspetti e altro sentire di guerra», riuscendo in maniera satirica, e dunque con maggiore potenza, a stigmatizzare gli orrori della guerra con tratti decisi e significativi con i quali i due artisti non tralasciano di registrare, nelle espressioni dei volti, la cattiveria del nemico, il dolore e lo sgomento sofferto dai civili. Anita Pesce (La grande Guerra in tre minuti, Il 78 giri nel periodo della Prima guerra mondiale) analizza invece una campionatura della produzione discografica napoletana dell’allora nascente Phonotype Record riferita al particolare momento storico, tracciando, con esempi significativi, la parabola cronologica della guerra. Nonostante le esigenze di mercato con il mantenimento di varie tipologie di repertorio, il disco a 78 giri fornirà il suo contributo diffondendo anche all’estero, specie nei paesi che accoglievano comunità d’immigrati italiani, canzoni e “scene dal vero” con finalità patriottiche. Non poteva mancare, in quest’ampia ricostruzione, il considerare l’importante apporto fornito dalle bande. E così il saggio di Luigi Izzo (Il suono del cannone: le bande musicali e la Grande Guerra) ne analizza la portata e la funzione, ponendo in luce le diverse problematiche sorte fin dai primi anni dell’Unità d’Italia in merito alla composizione degli organici, al repertorio, alla sentita necessità di attivare dei veri e propri progetti di riforma, ritenuti quanto mai necessari alla luce delle nuove esigenze fonico espressive. Giuseppe Camerlingo (La nuova musica e l’antica: Napoli 1911-1920) offre un’interessante visione sugli effetti della generale crisi che colpì il mondo artistico e culturale, soffermandosi in particolare sul dibattito sorto fra antico e moderno che portò infine effetti oltremodo positivi anche nel mondo accademico musicale napoletano. Ciò grazie innanzitutto agli sforzi compiuti in tal senso da Alberto Fano, per un breve periodo alla guida del Conservatorio di San Pietro a Majella, e dall’Associazione Alessandro Scarlatti, fondata nel 1918-19 da Emilia Gubitosi. Fiorella Taglialatela in Echi di guerra tra voci di quartiere: Raffaele Viviani e la Grande Guerra, osserva l’utilizzo del tema bellico nella produzione edita ma anche inedita del grande Raffaele Viviani, rivelando come, anche in questo caso, l’autore riesca a uscire dal solito cliché della napoletanità di genere. Con il contributo di Marco Pizzo (Il Fondo Guerra e i pittori-soldato nel Museo Centrale del Risorgimento di Roma) entriamo più nel merito delle arti figurative. In esso si pone in rilievo come, seguendo l’ottica generale del Nazionalismo, la Prima guerra mondiale venisse vista in continuità con i moti risorgimentali. Vengono così descritte e analizzate le opere di diversi pittori che furono testimoni diretti del grande conflitto combattendo nelle forze armate, artisti che quindi riportarono i vari soggetti in maniera quanto mai veritiera e sentita. Lo studio di Gaia Salvatori (La Grande Guerra fra pittura e illustrazione: la “Battaglia di Bligny” in posa) analizza invece l’iconografia della Battaglia di Bligny at214


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traverso la pittura e l’illustrazione condotta dall’artista napoletano Ugo Matania. Di questo ne contestualizza ampiamente l’opera, descrivendo i procedimenti base della sua costruzione artistica, comparando infine questo particolare soggetto con la restante produzione del pittore attinente al medesimo filone. Anche l’apporto del cinema viene ben documentato negli ultimi due articoli di Mariangela Palmieri (Il racconto della Grande Guerra nel cinema italiano del Novecento) e di Roberto Calabretto (Carosello napoletano tra realismo e quadri allegorici). Il primo offrendo uno spaccato storico generale sulla trattazione del tema della Grande Guerra, rivela una serie di ritardi nella registrazione documentaristica e un lento ma inesorabile disinteresse verso contenuti non sempre appetibili. Pur se un certo recupero si concretizzerà, a fini propagandistici, durante il fascismo, la storia del primo conflitto mondiale vedrà un più lucido inquadramento nel film di Monicelli, La grande Guerra, affresco dolce amaro che, attraverso toni talvolta irriverenti, ci consegna una narrazione appassionante e quanto mai umana. Carosello Napoletano ci offre invece l’esito di una sperimentazione ben riuscita. Film di Ettore Giannini, tratto da uno spettacolo teatrale dello stesso regista, offre una visione d’opera totalizzante in cui tutte le componenti artistiche dello spettacolo diventato parte attiva e integrante della narrazione cinematografica. L’unione dei generi in quello che, a ragione, potremmo definire uno dei primi musical italiani, dà vita a un racconto allegorico scandito dalle canzoni popolari che descrivono gli accadimenti storici ed anche quelli bellici con una poetica nuova, e soprattutto, priva della retorica usuale. Chiara Macor

ALESSANDRO PONTREMOLI, La danza 2.0. Paesaggi coreografici del nuovo millennio, Bari-Roma, Editori Laterza, 2018 (Biblioteca Universale Laterza, 679), pp. 179. Il volume La danza 2.0. Paesaggi coreografici del nuovo millennio di Alessandro Pontremoli, Professore ordinario di Storia della Danza presso l’Università degli Studi di Torino (Editori Laterza, 2018), dischiude al lettore il non semplice panorama della danza internazionale degli ultimi tre decenni, tracciandone una visione sintetica e complessa al contempo. Complessa perché sottolinea, per ciascun argomento trattato, riferimenti teorici importanti finalizzati a condurre il discorso sulla danza come arte e come pratica, alla luce di nuove visioni che ancora combattono la sclerotizzazione del tradizionale approccio a quest’arte. Allo stesso tempo Pontremoli sa essere doverosamente sintetico, perché avvolge in una panoramica a volo d’uccello la complessa realtà della danza contemporanea su fronti materiali e immateriali, accompagnando per mano il lettore – come un filo di Arianna – all’uscita del ‘labirinto danzante’ dei nostri giorni, laddove talvolta finanche performer e tecnici del settore si muovono con difficoltà tra categorizzazioni e definizioni. L’introduzione si apre con Ted Shawn in epigrafe, ovvero con il richiamo a «liberare la mente da tutti i fraintendimenti sul significato dell’arte», perché «l’arte è esperienza… e solo nella danza si fa un’esperienza così generosa della realtà dell’arte»; è 215


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dunque proprio la parola esperienza a condurre idealmente chi si appresta alla lettura di questo testo. Si parte da concetti esperienziali quali la centralità dello sguardo dell’osservatore e del corpo danzante, in una prima necessaria differenziazione tra chi fruisce dell’esperienza e di chi la osserva, dedicando particolare attenzione alle tendenze sociali che si contrappongono ai modelli di spettacolo borghese e agli esperimenti di nicchia. Più di un richiamo è fatto alla crisi della critica, che non appare più padrona di «spazio espressivo» ed è, in questo, interessante la scelta lessicale, poiché riconduce all’idea spaziale e dunque fisica: un ambito di osservazione della danza quale arte divoratrice di spazi. A questo proposito l’Autore non manca di esprimere giudizi espliciti sugli strumenti della critica e questo appare un interessante spunto di riflessione che dovrebbe generare, nella comunità del settore, un più ampio dibattito sullo stato e sulle prospettive di chi scrive di danza, ovvero i cosiddetti osservatori ‘privilegiati’ che hanno il compito di dare voce immediata alla fugacità del prodotto coreico e spesso ne condizionano (a torto o a ragione) i percorsi e la ricezione. I processi culturali di cui la danza è espressione sono richiamati con riferimenti teorici puntuali e continui nelle note a piè di pagina, procedendo da rapide comparazioni storiche che partono dal Rinascimento e attraversano i secoli, dai canoni del balletto romantico al classicismo della danse d’école, alla modernità e post modernità del Novecento, fino alla liquida società attuale, non mancando di ricercare l’impegno politico e/o il disagio sociale che emergono da ciascun corpo in scena. Una scena che muta, che si de-struttura e si ri-compone in spazi non convenzionali, che arrivano a rompere le certezze del teatro borghese e traducono la molteplicità di visioni e interpretazioni. Il giudizio critico nei confronti delle Istituzioni italiane e la mancanza di fondi (da cui derivano anche ‘forme sostenibili’ della messa in scena contemporanea, quali l’assolo) è parte integrante di questo viaggio ideale. Il lettore non avvezzo all’argomento si potrà meravigliare della complessità di questo mondo; di contro, il professionista che, a causa di un training per lo più solo pratico, trova difficoltà ad ascrivere in un percorso storicamente e sociologicamente organico ciò che vive sulla scena o in sala prove sarà aiutato da questa lettura a intendere razionalmente lo sfaccettato panorama che si affaccia al nuovo millennio. La metafora geografica dei «tre paesaggi estetici» – quello «museale», la «terra di mezzo» e il «terzo paesaggio» – esemplifica i diversi stati della danza oggettivandoli in una prospettiva ancora una volta spaziale, oltre che temporale: dalla conservazione del balletto classico e del suo repertorio alla permanenza dei linguaggi moderni dotati di paradigmi riconoscibili fino alle sperimentazioni di artisti ‘eccentrici’ che si muovono al di fuori degli schemi. Questa topografia delle pratiche trova riscontro in una topografia della ricerca (cosa per lo più nota solo agli accademici di settore e che, invece, sarebbe opportuno divulgare anche tra i tecnici del mestiere, in maniera più o meno stemperata) con lo sviluppo dei cosiddetti studi culturali, ovvero quelle nuove visioni che, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, hanno prodotto gli Studi di danza sulla scia dei Dance studies di area anglosassone, basati sulla teoria critica e 216


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sullo studio delle opere (e dei loro processi di funzionamento) in relazione alle ideologie e ai rispettivi e specifici contesti culturali. L’analisi dei nuovi modi di studiare il corpo danzante, sottolinea Pontremoli, nasce dunque dal connubio tra visione e giudizio critico, ancor più amplificando l’aspetto poietico, che diventa indispensabile per la crescita del pubblico. Fare significa entrare nell’esperienza dei corpi e appropriarsi dell’incorporazione dei concetti attraverso il movimento. Molto interessante il paradosso, più volte sottolineato nel testo, della nostra società: una quotidianità intrisa di spettacolarizzazione del sé attraverso i social media ma, in sostanza, espressione di un tempo «lontano dal teatro e dalle sue forme», così come appare contraddittoria la sproporzione tra i fruitori di corsi pratici di danza/ballo rispetto al pubblico che va a teatro (fruitore vs osservatore). Il nuovo e costante medium della tecnologia, invasivo e pervasivo, riporta grande attenzione alla corporeità e alle nuove indagini sul corpo, che inaugurano il Novecento e si sviluppano oggi lungo direttrici polimorfe. Le parole chiave danza-cultura-società si articolano nel trinomio identità-poterememoria, per inquadrare con lente di ingrandimento il corpo danzante che si muove all’interno delle estetiche coreiche del presente. Il concetto non univoco di autorialità trova nel corpo del danzatore una memoria storica che fa di esso un archivio in movimento e mette in discussione le tradizionali pratiche di conservazione/archiviazione e trasmissione della memoria. L’Autore risponde ad alcune domande che egli stesso si pone, da studioso e osservatore ma anche da figlio del proprio tempo, non mancando di completare il quadro soffermandosi sul sistema di formazione, storicizzando le prassi pedagogiche e ponendo attenzione alle visioni di genere, sui modelli di maschile e femminile/omo ed etero e alla progressiva trasformazione del corpo da una «visione estetizzante» a quella di un «corpo efficiente», sempre in una stretta connessione tra formazione e contesti socio culturali. Il capitolo dedicato alla danza di comunità avvia la conclusione del volume lungo le coordinate di realtà-mimesi-spazio-scena-fruizione-osservazione ben chiariti fin dal principio; esso appare come un terreno di indagine privilegiato proprio perché vi si palesa la sostanza del cambiamento della messa in azione del prodotto coreico. Questo si riconduce qui a una estetica relazionale, come sottolinea Pontremoli richiamando Bourriaud (2010) e portando quale esempio, sul concetto di pratica, il lavoro di Virgilio Sieni, coreografo tra i più importanti nel panorama nazionale ed europeo. L’Autore lo definisce «poeta del gesto», ma anche «portatore di nuove economie», scegliendo di «proporre azioni etiche in forme estetiche, finalizzate a risanare patologie della relazione con la costruzione di quella che egli stesso definisce una “comunità del gesto”». Concetti su cui riflettere, per comprendere a pieno il significato della performance danzata oggi e inquadrarla nella sua dimensione più corretta, in relazione non solo al singolo ma alla comunità intera, laddove l’isolamento mediatico ci rende cittadini di un mondo virtuale che molto poco ha a che fare con il concetto di comunità vissuta. A conclusione di questa ricca sintesi di evoluzioni, teorie, studi, ricerche, creazioni, personalità della coreografia, l’attenzione posta sulla Drammaturgia della danza, 217


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attraverso il percorso del fenomeno e la figura del dramaturg di danza - nella sua evoluzione indipendente rispetto a quella del dramaturg teatrale (compresa l’evoluzione di questa figura in ambito lavorativo rispetto al coreografo stesso) - centra l’attenzione del discorso ancora una volta sul corpo, una analisi imprescindibile per la speculazione sulla danza contemporanea, quale «sistema di significati costruiti socialmente e culturalmente». Le oltre centosettanta pagine che racchiudono più di un secolo di cambiamenti e trasformazioni del ‘sistema danza’ potrebbero non essere per tutti una lettura di immediata intellegibilità, poiché presuppongono un sostrato di conoscenze specifiche; tuttavia il volume appare prezioso strumento di guida (specie nei percorsi universitari) lungo il sentiero percorso dal corpo e dai mille risvolti socioculturali di cui la danza si rende portatrice spesso misconosciuta. Maria Venuso

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L’arpa Stradivari, opera rara del celebre cremonese, appartenente alle collezioni del Conservatorio di San Pietro a Majella, è datata 1681, così come attesta l’iscrizione a fuoco impressa sulla colonna: ANT:US STRADIVARIUS / CREMONEN:S f. j68j. Lo strumento dispone di 27 corde ed è realizzato in legno di pioppo intagliato. La colonna è decorata nella parte superiore da una sirena portante un puttino e da un mascherone nella parte inferiore. Il modiglione è sormontato da una sirena, priva della testa. Verosimilmente la decorazione scolpita potrebbe essere di mano di Giacomo Bertési (1643-1710), scultore in legno attivo a Cremona e in stretti rapporti con Stradivari. La cassa è in acero a cinque coste, profonde e orizzontali. La tavola armonica, in abete, presenta quattro fori di risonanza intagliati a forma di cuore. I disegni, realizzati da Stradivari per la costruzione di arpe, e con molta probabilità anche di questo esemplare, si custodiscono presso il MdV di Cremona. Secondo Ettore Santagata, economo del Conservatorio e autore del primo catalogo del Museo Storico Musicale di San Pietro a Majella (n. 438 del 1930), l’arpa sarebbe appartenuta alla marchesa Spinola di Genova e da lei donata alla nipote Amina Boschetti. Al Conservatorio napoletano lo strumento è pervenuto per donazione di Francesco Florimo del 1° ottobre 1887: Ill.mo Sig. Regio Governatore del Collegio di Musica / Mi onoro portare a conoscenza della S.V. di aver consegnato al signor economo di questo R. Collegio gli oggetti qui sotto segnati di mia assoluta proprietà […] / 1. Un’arpa del famoso Stradivari fabbricata nel 1881 [sic] inapprezzabile (cfr. I-Nc, Donativi, II, cc. 55-58). Nel corso del Novecento lo strumento è stato protagonista di diverse esposizioni: dalle celebrazioni per il bicentenario stradivariano del 1937 alle Settimane Musicali di Stresa del 1963, alla Mostra Internazionale dell’Arco a Cremona del 1985 e in occasione delle Celebrazioni Stradivariane del 1987. Una sua riproduzione è stata realizzata nel 1987 dagli allievi della Scuola Internazionale di Liuteria di Cremona sotto la guida di Giorgio Cè e Pietro Ferraroni. Lo strumento, esposto nella sala centrale dell’area museale del Conservatorio, si custodisce in una teca realizzata dalla ditta Goppion di Milano.

Luigi Sisto

Edizioni San Pietro a Majella ©2020 Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli tutti i diritti sono riservati


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