Napoli & Rossini di questa luce un raggio

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Napoli & Rossini di questa luce un raggio

Napoli & Rossini

Rossini e Napoli, un amore a prima vista. Fin dal 1815, anno dell’arrivo in città, l’artista non conobbe un attimo di tregua, di respiro. Un perfetto crescendo, in cui vi furono prime rappresentazioni, riprese, incontri, relazioni, fino al 1822, anno della ripartenza. Sette anni fecondi per l’artista, all’ombra del Vesuvio, che gli permisero di conoscere meglio la realtà cittadina con i suoi teatri, la sua scuola e soprattutto la secolare cultura partenopea; sette anni difficili per un giovane regno che era stato travolto dalle ondate rivoluzionarie e provava a riannodare i fili della storia fra mille traversie politiche, economiche, sociali, nella consapevolezza che un ritorno al passato era affatto impossibile. Il volume ha permesso di indagare meglio l’influenza su Rossini del teatro e degli artisti del tempo, dei fermenti artistici, ideologici, letterari che orientarono la scelta dei soggetti rossiniani, l’evoluzione degli stili e dei generi.

a cura di Antonio Caroccia Francesco Cotticelli Paologiovanni Maione Edizioni San Pietro a Majella ©2020 Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli tutti i diritti sono riservati

Edizioni San Pietro a Majella



Napoli & Rossini di questa luce un raggio

a cura di Antonio Caroccia - Francesco Cotticelli - Paologiovanni Maione

Edizioni San Pietro a Majella


Napoli&Rossini: di questa luce un raggio Atti del Convegno internazionale di studi (Napoli-Avellino, 25-27 ottobre 2018) a cura di Antonio Caroccia Francesco Cotticelli Paologiovanni Maione ISBN 978-88-98528-09-7 Edizioni San Pietro a Majella © Conservatorio di musica “San Pietro a Majella” di Napoli Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere tradotta, ristampata o riprodotta, in tutto o in parte, con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, fotocopie, film, diapositive o altro senza autorizzazione degli aventi diritto. Grafica e impaginazione Nunzio Perrone Printed in Italy

Comitato scientifico Giancarlo Alfano Antonio Caroccia Francesco Cotticelli Paologiovanni Maione Ettore Massarese Sergio Ragni Francesca Seller

Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” Via San Pietro a Majella, 35 I - 80138 Napoli (NA) Tel. (+39) 081/544.92.55 Fax (+39) 081/ 297.778 direttore@sanpietroamajella.it www.sanpietroamajella.it Pubblicato con un contributo del Dipartimento di Studi Umanistici – Università degli Studi di Napoli Federico II


Sommario

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Premessa Sergio Ragni

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Introduzione Antonio Caroccia – Francesco Cotticelli – Paologiovanni Maione

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I «servizi pubblici intellettuali» nella Napoli preunitaria Paola Avallone – Raffaella Salvemini

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La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli al servizio di Sua Maestà Ferdinando I di Borbone (1816-1824) Alberto Bentoglio

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Considerazioni sul teatro a Napoli negli anni rossiniani Francesco Cotticelli

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Uno spettacolo a misura dei tempi: Barbaja reinventa il teatro Paologiovanni Maione – Francesca Seller

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La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini: interferenze e possibili visioni Maria Venuso

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Il ruolo dell’orchestra nelle opere napoletane di Rossini Paul-André Demierre

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Echi di Mayr al San Carlo Paolo Fabbri

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L’“Otello”: una catarsi sublime Massimo Fusillo


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Prima della Gazzetta. Strategie melodrammaturgiche della commedia per musica nei teatri napoletani d’inizio Ottocento Lorenzo Mattei

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Rossini “italiano” sulle scene napoletane Antonio Caroccia

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«Se tu Potessi prestarmi un Miserere, il più facile che ai». Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli Rosa Cafiero – Marina Marino

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Echi rossiniani nella stampa periodica degli anni Trenta dell’Ottocento Loredana Palma

205 Rossini in Conservatorio. Musiche per Rossini nella biblioteca di San Pietro a Majella Cesare Corsi 221

Strumenti a tastiera per «un pianista di quarta classe» Francesco Nocerino

233 Indice dei Nomi


Napoli & Rossini di questa luce un raggio



Premessa

Bologna fu la città di formazione di Rossini. Alla scuola di Padre Stanislao Mattei, continuatore di quella di Giovan Battista Martini, Rossini studiò violoncello, pianoforte e contrappunto. Tra i suoi maestri figurano tra gli altri i nomi di Angelo Tesei, Vincenzo Cavedagna e di Matteo Babini, quest’ultimo celebrato tenore dal quale doveva derivare a Rossini l’amore e la dedizione assoluta per il belcanto. Sua sponte il giovanissimo alunno superava le lezioni avventurandosi da solo tra gli scaffali della biblioteca della scuola, alla scoperta delle partiture di Haydn e di Mozart. Il “tedeschino”, come Mattei l’aveva soprannominato, non rinnegò mai quelle scelte alle quali rimase fedele fino alla fine dei suoi giorni. Forse non c’è troppo da chiedersi perché Rossini smise di comporre nel 1829... A Bologna Rossini diede ampie prove della sua versatilità di artista e il suo nome è riportato sui libretti e sui manifesti dell’epoca quale autore, cantante o “Maestro al cembalo e direttore”, come nel caso di una delle primissime esecuzioni italiane delle Stagioni di Haydn “nella Grand’aula del Liceo Filarmonico”, per conto della prestigiosa Accademia dei Concordi. Nessuna città sembrerebbe dunque poter competere con Bologna per aver offerto a Rossini i mezzi per affinare al meglio il suo genio. Eppure gli echi dei concerti delle blasonate accademie felsinee non si ripercuotevano oltre le mura cittadine: l’energia del compositore in erba necessitava di estrinsecarsi altrove. Due anni dopo il debutto con La cambiale di matrimonio, all’indomani della prima dell’Inganno felice l’impresario del Teatro di San Moisè, forte dell’entusiasmo del pubblico veneziano, scriveva alla madre di Gioachino: «le dico che può andar gloriosa d’aver dato dal suo seno un giovane che da qui a poch’anni sarà un ornamento dell’Italia, e si sentirà che Cimarosa non è morto, ma il suo estro passato in Rossini». In quello stesso 1812, al Teatro alla Scala, le 53 repliche della Pietra del paragone segnavano un nuovo record di cui poteva fregiarsi il musicista. Per altri avrebbe potuto essere un traguardo definitivo, per Rossini la gloria era ben lungi dall’essere compita. Interviene a questo punto quel genio dell’imprenditoria teatrale che è Domenico Barbaja. Informato da Gaetano Gioja dell’incredibile successo di Rossini a Milano dà subito il via alla sua scrittura per i Reali Teatri di Napoli. Rossini è già impegnato e non potrà 7


giungervi prima dell’estate del 1815. Il suo arrivo segnerà l’apogeo della sua gloria e quello della fama del Teatro di San Carlo. Barbaja consegna alle cure del più accreditato compositore italiano quella che è la più grande fabbrica di musica esistente nel mondo. Rossini ha a disposizione la migliore compagnia di canto d’Europa e la migliore orchestra d’Italia. Favorito e sostenuto da un ambiente culturale cosmopolita, si dedica quasi esclusivamente all’opera seria, “genere” che ritiene il più consono a decretare il valore di un musicista. Da Napoli Rossini sparge musica per tutta Europa. Il principe di Metternich, nel 1819 a Napoli al seguito dell’imperatore d’Austria, resta abbagliato dallo splendore della sala del San Carlo, dalla magnificenza dei suoi spettacoli e dalle meraviglie della musica di Rossini. Più tardi dichiarerà che uno dei suoi sogni è quello di realizzare qualcosa di simile a Vienna. E tanto per cominciare affiderà a Barbaja l’Hoftheater della capitale. Intanto Rossini continua a scrivere opere che costituiranno per molti anni un utilissimo prontuario melodrammatico per i successori Donizetti, Bellini e Verdi. Napoli capitale della musica dunque, e officina sperimentale per un Rossini alla costante ricerca di perfezionamento della sua scienza musicale; Napoli è città di benemerenze rossiniane almeno al pari di Bologna. Nell’anno di celebrazioni rossiniane forse con la sola Bologna Napoli ha condiviso un rinnovato interesse di studi e di rappresentazioni, nell’inspiegabile silenzio di molte istituzioni e di molti teatri che non hanno inserito neanche un titolo di Rossini nel proprio cartellone, a cominciare dal Teatro alla Scala. A Napoli, un convegno i cui esiti sono raccolti in questo volume ha celebrato i 150 anni della morte del genio pesarese e ha voluto affrontare i temi più diversi, in osservanza di quella “varietà di ritmo” che è un imperativo categorico nell’estetica di Rossini. L’altro principio, che “tutti i generi sono buoni tranne il noioso”, non è sempre applicabile in musicologia. Chi scrive ha avuto il privilegio di essere amico di illustri musicologi che dopo una giornata intensissima di studio la sera a teatro cadevano in letargo, cinque minuti cominciata l’opera. Era forse un ossequio alla massima tanto cara al Casacciello: “la musica è bella e fa dormire”. Altri amici e musicologi, altrettanto celebrati, escludevano qualsiasi eventualità di accendere in casa propria la radio o di avviare il lettore di cd. I giovani musicologi – giovani si fa per dire – autori dei saggi qui raccolti, sono tutti, per prova, appassionati ascoltatori e spettatori pronti a confondersi nell’entusiasmo del pubblico per una bella esecuzione. Sergio Ragni

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Introduzione

Il volume Napoli & Rossini: «di questa luce un raggio» accoglie le relazioni presentate durante il convegno di studi tenutosi all’Università degli Studi Federico II e ai Conservatori di Musica “San Pietro a Majella” di Napoli e “Domenico Cimarosa” di Avellino dal 25 al 27 ottobre 2018. L’iniziativa, promossa da queste istituzioni in occasione del 150° anniversario della morte di Gioachino Rossini, ha permesso di conoscere meglio il rapporto tra il compositore e la città partenopea. Rossini e Napoli, un amore a prima vista. Fin dal 1815, anno dell’arrivo in città, l’artista non conobbe un attimo di tregua, di respiro. Un perfetto crescendo, in cui vi furono prime rappresentazioni, riprese, incontri, relazioni, fino al 1822, anno della ripartenza. Sette anni fecondi per l’artista, all’ombra del Vesuvio, che gli permisero di conoscere meglio la realtà cittadina con i suoi teatri, la sua scuola e soprattutto la secolare cultura partenopea; sette anni difficili per un giovane regno che era stato travolto dalle ondate rivoluzionarie e provava a riannodare i fili della storia fra mille traversie politiche, economiche, sociali, nella consapevolezza che un ritorno al passato era affatto impossibile. Il volume ha permesso di indagare meglio l’influenza su Rossini del teatro e degli artisti del tempo, dei fermenti artistici, ideologici, letterari che orientarono la scelta dei soggetti rossiniani, l’evoluzione degli stili e dei generi. L’attività del compositore si colloca in un’epoca in cui fu necessario ripensare a quelli che oggi – sulla scia di Gramsci – si definiscono “servizi pubblici intellettuali”, alla luce di scelte non facili, come illustrano Paola Avallone e Raffaella Salvemini nel loro contributo; le congiunture che gravarono sulle spese per la cultura si riflettono anche nell’esperimento della «Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini» di cui racconta con dovizie di particolari Alberto Bentoglio: è un momento rilevante nella storia dell’intervento pubblico in materia di spettacolo che tratteggia luci e ombre di una complessa Restaurazione. Più in generale, i primi decenni dell’Ottocento nella capitale borbonica sono anche segnati da un ripensamento della gloriosa stagione settecentesca: i primi tentativi di storicizzazione nel clima incandescente degli eventi rivoluzionari si uniscono e si contrappongono poi a prassi operative ora venate di nostalgia, ora convinte dell’efficacia dei modelli autorevoli del secolo tramontato, ora sollecite alla sperimentazione e al dialogo con altri contesti: è il quadro che emerge da uno sguardo alle programmazioni delle sale 9


che accanto ai Reali Teatri completano l’offerta di spettacolo (a suggello di una realtà più intricata di quanto un testimone di eccezione come il “vegliardo” Napoli Signorelli lascia intravedere, secondo le considerazioni svolte da Francesco Cotticelli), o dall’analisi delle strategie melodrammaturgiche della “commedia” ravvisate da Lorenzo Mattei. E se Rossini costituì per molti versi un salutare elemento di rottura, ciò fu possibile, seguendo gli studi di Paologiovanni Maione e Francesca Seller, solo attraverso la “reinvenzione” del teatro che una figura scaltra e lungimirante come Domenico Barbaja seppe realizzare, unendo all’abilità diplomatica con le autorità il fiuto affaristico e la dimensione cosmopolita dei suoi investimenti, che rappresentarono un ulteriore fattore di dialogo della città e del regno meridionale con l’Europa intera. Va da sé che questo dialogo si nutre di questioni poetiche, scelte drammaturgiche, relazioni evidenti o sommerse con un mondo artistico, letterario, musicale che si proietta idealmente avanti e indietro nel tempo. Si pensi alle riflessioni sulle orchestrazioni napoletane di Rossini offerte sulla scorta delle testimonianze coeve da Paul-André Demierre, che ne giustificano (o ne stigmatizzano) la novità al cospetto di esperienze prestigiose e del differente gusto delle nazioni, o a un capolavoro come Otello dove, liquidato il problema di una fedeltà improponibile a quell’altezza cronologica per le fondamentali mediazioni francesi e restituita la collaborazione fra librettista e compositore alle effettive tensioni di primo Ottocento, emergono le consonanze di un’opera straordinaria con le suggestioni letterarie e gli approfondimenti filosofici di un intero continente sul tema del “bello” e del “sublime”, per approdare alla descrizione di uno dei più significativi episodi di “empatia negativa” nel corso dei secoli sulla scorta dell’exemplum shakespeariano, stando all’importante lettura di Massimo Fusillo. È che Rossini non tardò a essere un caso; integrandosi e rispondendo ai desideri di un pubblico esigente in un momento delicato, ma andando oltre, e imponendo una cifra di stile, di invenzione e di metodo inconfondibile, e sua. Lo si vede nell’implicito raffronto con Mayr che, entrando nell’officina di un maestro di buona reputazione ma pur sempre esordiente su una piazza prestigiosa, spiega la sua rapida affermazione, come acutamente dimostra Paolo Fabbri, o nel definirsi di un’auctoritas presso la società e le istituzioni del regno, ben al di là del suo soggiorno, come attestano le ricerche di Antonio Caroccia, Cesare Corsi, Rosa Cafiero e Marina Marino, Loredana Palma. La vivace e versatile personalità del musicista funge anche da opportuno termine di riferimento per le incursioni nel mondo della danza teatrale, di cui da anni si vanno ricostruendo contorni e profili storici tra Sette e Ottocento, in base alle indagini e alle possibili visioni di Maria Venuso, o per le prospettive organologiche documentate da un esperto come Francesco Nocerino. Nel congedare questo volume per la stampa, desideriamo ringraziare gli amici e i colleghi che con il loro contributo hanno voluto impreziosirlo, nonostante l’attuale emergenza sanitaria. Un doveroso ringraziamento va alle istituzioni che hanno promosso questo simposio: l’Università degli Studi di Napoli Federico II, e in particolare coloro che nei ruoli rispettivamente di Magnifico Rettore e di Prorettore, il ch.mo prof. Gaetano Manfredi 10


(ora Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica) e il ch.mo prof. Arturo De Vivo, nel 2018 hanno sostenuto e incoraggiato l’iniziativa; il Magnifico Rettore in carica, ch.mo prof. Matteo Lorito; il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli Studi Federico II, nelle figure dell’ex direttore, ch.mo prof. Edoardo Massimilla e dell’attuale direttore ch.mo prof. Andrea Mazzucchi; il professor Ettore Massarese, i Conservatori di Musica “San Pietro a Majella” di Napoli e “Domenico Cimarosa” di Avellino con i loro direttori, maestri Carmine Santaniello e Carmelo Columbro, la Regione Campania e la Fondazione “Gioachino Rossini” di Pesaro. Un sincero ringraziamento ai componenti del comitato scientifico (Giancarlo Alfano, Ettore Massarese, Sergio Ragni e Francesca Seller) che hanno permesso la buona riuscita del convegno. Antonio Caroccia Francesco Cotticelli Paologiovanni Maione

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Paola Avallone – Raffaella Salvemini¹ I «servizi pubblici intellettuali» nella Napoli preunitaria

1. Le spese per la cultura dal presente al passato Nel 2016 la Svimez pubblicò una ricerca su Le spese per la cultura nel Mezzogiorno d’Italia,2 nella quale riportava ed analizzava l’ammontare aggregato e consolidato delle spese dedicate alla cultura dal 2000 al 2013. Tale analisi si dimostra fondamentale per misurare la condizione di vitalità di un luogo e l’evoluzione della stessa in un arco temporale definito. Le spese per la cultura, come sottolineato nella ricerca, contribuiscono a mettere in luce la qualità di vita della collettività di un determinato territorio. Un territorio culturalmente valorizzato si trasforma in opportunità per la comunità presente ma anche centro di attrazione per l’esterno, a maggior ragione, poi, se il territorio è, per sua natura, particolarmente vocato all’apprezzamento di chi viene da fuori. Fondamentale si rivela, pertanto, la comprensione dei contenuti compositi di tutte quelle attività che si possono far rientrare nel concetto di “cultura e servizi ricreativi”. A tal proposito, nel sistema inerente i dati consolidati dei Conti Pubblici Territoriali (CPT) riferiti alla finanza pubblica, il settore succitato comprende la seguente tipologia di spese per: la tutela e valorizzazione del patrimonio artistico e culturale di musei, biblioteche, pinacoteche e centri culturali; il sostegno a cinema, teatri, attività musicali ed enti lirici; le attività ricreative e sportive e i centri e strutture funzionali alle stesse; i giardini e musei zoologici; gli archivi di stato, le accademie, antichità e belle arti. Ma questo è oggi. La documentazione storica che abbiamo a nostra disposizione non ci permette di fare una ricostruzione di lungo periodo come quella fatta nella suddetta Nota. Tuttavia possiamo almeno tentare di proporre, o almeno suggerire, questo modello attuale con le dovute variabili e adattamenti per il periodo in cui Giacchino Rossini fu a Napoli, al fine di stimolare ad approfondire temi non analizzati dal punto di vista storico-economico

¹ Sebbene il lavoro sia frutto di una comune ricerca, nella sua stesura i paragrafi 1 e 2 sono attribuiti a ²

Raffaella Salvemini e i paragrafi 3 e 4 sono attribuiti a Paola Avallone. Le conclusioni sono in comune. Le spese per la cultura nel Mezzogiorno d’Italia, nota di ricerca a cura di Federico Pica e Alessandra Tancredi, Roma, Svimez, 3 febbraio 2016.

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Paola Avallone – Raffaella Salvemini quali erano quelli che Antonio Gramsci chiamava “servizi pubblici intellettuali”.³ 2. La situazione politica ed economica dopo la Restaurazione All’indomani della Restaurazione quando con la caduta dell’impero napoleonico i Borbone tornarono sul trono di Napoli, per il Regno delle due Sicilie si aprì una fase molto delicata dal punto di vista economico. Il Blocco continentale aveva comunque offerto indirettamente al Regno un vantaggio, in quanto non doveva più subire la concorrenza dei prodotti esteri, in particolare quelli inglesi che prima del Blocco stavano spiazzando i prodotti locali. Inoltre le guerre napoleoniche avevano consentito lo sviluppo di alcune industrie produttrici di manufatti necessari all’esercito. Con la Restaurazione e la fine del Blocco tale vantaggio era venuto meno, e queste stesse industrie dovettero fare i conti con la concorrenza straniera. Il governo borbonico, anziché seguire l’esempio degli altri regni, aveva adottato una politica doganale liberistica.4 L’agricoltura, che ovviamente restava sempre la fonte più importante di lavoro e di reddito, attraversava una profonda crisi a causa di terre che restavano incolte, aride e paludose; la feudalità, nonostante fosse stata abolita, nella pratica sussisteva ancora come sistema economico con vaste estensioni di terre appartenenti ai baroni, alle chiese e ai comuni che le sfruttavano in modo irrazionale o le abbandonavano. Nonostante la convalida dell’eversione della feudalità del 1816, la piccola e media proprietà continuava ad essere poco diffusa, anche se le terre erano meglio coltivate. Lo sviluppo economico sul piano agricolo risentiva dello stato dei prezzi, tenuti bassi dal sistema annonario, dalla concorrenza dei grani giunti dal Levante, e dalla coltura del frumento in quei paesi un tempo tributari del regno.5 I contadini, che non possedevano terra, ma erano dei salariati a giornata, furono quelli maggiormente colpiti da questa situazione, ricevendo paghe da fame per più di 18 ore di lavoro al giorno, vessati dal nobile/proprietario di turno e cibandosi di erbe in periodo di carestia.6 I Borbone, anziché mettere in atto delle politiche economiche per uno sviluppo di medio e lungo periodo, si preoccuparono solo di tenere buone le masse nelle città, mantenendo i prezzi bassi ostacolando in qualsiasi modo il libero scambio della produzione. Viste le cattive condizioni della viabilità terrestre non si permetteva nemmeno la circolazione delle derrate all’interno stesso del Regno. Questo comportava un disinteresse da parte dei ³ Antonio Gramsci, nei suoi Quaderni dal carcere, Quaderno 14 (I) § (56), così definiva la scuola, il teatro, 4 5 6

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le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche, i giardini zoologici, gli orti botanici, ecc. Domenico Demarco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie. La struttura sociale, Napoli, ESI, 2000 p. 53. Ivi, p. 31. Ivi, pp. 127-133; Luigi Grimaldi, Studi statistici sull’industria agricola e manifatturiera della Calabria Ultra II, Napoli, Stabilimento Tipografico di Borel e Bompard, 1845, pp. 35-36; Nunzio Federigo Faraglia, Storia dei prezzi in Napoli dal 1131 al 1860, Napoli, Tip. del Real Istituto d’Incoraggiamento, 1878, pp. 320-321.


i «servizi pubblici intellettuali» nella napoli preunitaria coltivatori a migliorare o incrementare le loro colture, in quanto non avrebbero ricavato alcun profitto maggiore essendo il mercato ristretto a solo quello interno: un aumento della produzione avrebbe comportato solo un ulteriore abbassamento dei prezzi. Inoltre mancava il credito all’agricoltura e il costo del denaro era alto. I monti frumentari pur essendone parecchi, mal funzionavano e i contadini erano soggetti ai contratti usurai locali. L’unico banco pubblico, il Banco delle due Sicilie, era appena uscito da una trasformazione e comunque era sotto l’egida del governo.7 Il commercio estero non stava meglio, nonostante la politica liberista. Il calo era cominciato già nel periodo napoleonico, quando Gioacchino Murat nel 1809 decise un’unica tariffa per i diritti sulle merci sia importate sia esportate, abolendo di fatto le dogane baronali. L’obiettivo era stato quello di restituire allo Stato la diretta riscossione senza affidarla a baroni o appaltatori che puntualmente riuscivano a frodare il fisco. Le tariffe variavano però a seconda dei casi, potevano essere specifiche o ad valorem. La capitale godeva di una scala franca per le navi e le merci provenienti dall’estero. La tariffa venne modificata l’anno dopo con tariffe maggiori per le importazioni dei prodotti coloniali e tariffe più care all’esportazione della seta, olio lana, grano e altre merci poco importanti.8 Scarsi i risultati sull’economia del Regno per l’eliminazione nel 1813 di Murat del blocco napoleonico permettendo l’ingresso a tariffe vantaggiose di prodotti stranieri e l’esportazione di prodotti nostrani. Se, come dice Davis, questa politica attirò nel Regno una classe di imprenditori e banchieri, tuttavia ciò non facilitò il commercio in generale a causa delle difficoltà in cui si trovavano agricoltura e industria locale.9 La situazione non migliorò con il ritorno dei Borbone, in quanto la politica commerciale da loro seguita nei primi anni della Restaurazione fu influenzata soprattutto dalle politiche delle potenze europee, rispondendo a logiche internazionali e non alle esigenze interne del Regno. Ecco dunque l’applicazione di una politica a carattere liberistico e non protezionistico. Furono favorite l’importazione di merci straniere, colpite da un dazio di pochi grani e dal cosiddetto diritto di bilancia, di 20 grani per ogni 100 d di valore. Il dazio massimo, che colpiva però solo alcune merci, fu del 25/30% ad valorem, anche se a conti fatti le merci indicate nella tariffa non furono colpite più del 15-20% del valore, e quelle non specificate non superarono il 3% per le materie prime e del 10% per i prodotti finiti. Per l’export furono toccati dal dazio solo lino, canapa, seta, lana, legno, olio, pelli, legumi; 7 Paola Avallone, Il credito, in Il Mezzogiorno prima dell’Unità. Fonti, dati, storiografia, a cura di Paolo

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Malanima e Nicola Ostuni, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino editore, 2013, pp. 257-282; Ead., I monti frumentari nel Regno di Napoli (secc. XVI-XIX), in I Monti frumentari e le forme di credito non monetarie tra medioevo ed età contemporanea, a cura di Ippolita Checcoli, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 299-327. Augusto Graziani, La politica commerciale del Regno delle due Sicilie, in Atti dell’Accademia Pontaniana, VI, 1956-57, Napoli, Giannini editore, 1958, p. 220. Cfr. John A. Davis, Economy and Society in Bourbon Naples 1815-1860, Arno Press, NY 1981, edizione inglese di Imprenditori e Società nel Regno Borbonico, Bari, Laterza, 1979.

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Paola Avallone – Raffaella Salvemini per le merci non previste il dazio fu del 6% se grezze e del 2% se lavorate.¹0 Il nuovo sistema di tariffe doganali risultò nocivo al commercio del Regno. Gli altri stati europei avevano instaurato una politica protezionistica, riducendo così la domanda delle derrate alimentari verso il Regno che imponeva dazi sull’estrazione di commestibili, principalmente sull’olio, che costituiva una delle più importanti voci del commercio di esportazione.¹¹ Le importazioni dei manufatti esteri, invece, con la lieve tariffa che li colpiva, non facevano altro che concorrere con quelli delle industrie nazionali a loro discapito, non bilanciato dalle esportazioni dei prodotti agricoli gravati da un lato da tariffe doganali di export e dall’altro, come già detto, da tariffe protezionistiche nei paesi di destinazione. A ciò si aggiungevano gli accordi stipulati tra 1816 e 1817 con Inghilterra, Francia e Spagna in base ai quali in cambio della rinuncia al privilegio di bandiera (cioè all’esenzione della visita doganale a bordo nei porti napoletani che quegli stati reclamavano in virtù di antichi trattati o consuetudini - caso della Spagna), si concedeva una riduzione del 10% sui dazi che colpivano le merci introdotte nel Regno da navi appartenenti alle tre nazioni. E dal momento che la stessa franchigia non venne accordata alle navi regnicole, queste convenzioni non fecero che arrecare gravi danni alla marina mercantile napoletana, costretta a limitare i propri viaggi al piccolo cabotaggio o a restare ferma nei porti interni.¹² Favorendo l’ingresso delle merci straniere si aggravò la situazione dell’industria interna.¹³ Si dovrà aspettare solo i primi anni ’20 perché il governo si rendesse conto che quel tipo di politica commerciale non stava giovando alle già misere finanze statali, e con due decreti emanati nel 1823 e nel 1824, si cambiò completamente rotta con le nuove tariffe doganali a carattere protezionistico:¹4 esportazione libera da qualsiasi tassa per i prodotti interni e si abolì o almeno si diminuì il dazio sulle merci necessarie all’industria nazionale; per le merci non previste nella tariffa venne stabilito un 3% per le merci grezze, per i semilavorati fino al 30%. Si pensi che se nel 1818 le merci esportate sottoposte a dazio erano 528, con le nuove tariffe esse scesero a sole 49, con un dazio piuttosto tenue solo per olio e legname. Venne ridotto il dazio al 10% per le merci importate o esportate che si avvalevano di navi battenti bandiera napoletana, volendo con questo dare un aiuto anche alla marina mercantile nazio¹0 Augusto Graziani, Il commercio estero del Regno delle Due Sicilie dal 1832 al 1858, «Archivio economico ¹¹ ¹² ¹³ ¹4

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dell’Unificazione italiana» I/XI, 1960, p. 9; Demarco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie, cit. p. 72. Daniela Ciccolella, Hommes de guerre, hommes d’affaires. Filangieri, Nunziante e la politica doganale nel Regno delle Due Sicilie dopo il 1824, «Storia economica» 2, 2012, pp. 403-435. Luigi Antonio Pagano, L’industria armatoriale siciliana dal 1816 al 1880, «Archivio Economico dell’Unificazione italiana» I/XIII, fasc. 3, 1964, p. 19. Demarco, Il crollo del Regno delle Due Sicilie cit. p. 73. Sui processi decisionali e le logiche sottese alla svolta protezionista del 1823-24 cfr. Daniela Ciccolella – Walter Palmieri, Un protezionismo atipico? La politica delle materie prime nel Mezzogiorno della Restaurazione, in Quello che i numeri non dicono. L’Italia nel commercio internazionale tra ’800 e ’900. Istituzioni, tecniche, protagonisti, a cura di Giuseppe Moricola, Roma, Aracne editore, 2014, pp. 141-174.


i «servizi pubblici intellettuali» nella napoli preunitaria nale ponendola allo stesso livello di quella internazionale. Il porto di Napoli venne abolito come scalo franco, mentre fu istituito il porto franco a Messina, liberalizzando anche il cabotaggio lungo tutte le coste del Regno.¹5 Nonostante questo nuovo corso della politica commerciale che diede un impulso alle industrie nazionali con la nascita di una borghesia industriale e commerciale,¹6 essa continuava comunque a dipendere dalle grandi potenze. La stessa marina napoletana durante il periodo della Restaurazione continuava a giacere nella crisi in cui era caduta alla fine del XVIII secolo. La flotta militare non era granché e il governo borbonico non fece molto per migliorarla. La marina mercantile non stava meglio, non riuscendo a trovare noli, restando le navi ferme nei porti e senza la costruzione di nuove imbarcazioni. Il governo cercò di intervenire stabilendo ad esempio dei premi di costruzione e privilegi per i primi due viaggi delle navi di grossa portata e di nuova produzione. Ma non ebbe che effetti minimi. La situazione sarebbe cambiata solo a partire dagli anni ’20, con l’approvazione del codice di commercio del 1818 e poi con l’introduzione delle nuove tariffe doganali a carattere protezionistico.¹7 3. Le spese per la cultura al tempo di Rossini La condizione economico-commerciale si rifletteva sullo stato delle finanze del Regno, caratterizzato da un forte indebitamento statale a causa delle spese ordinarie e straordinarie, il ripianamento di deficit di bilancio, gli interessi su debiti a breve e a lungo che dovevano essere pagati.¹8 Dai bilanci del Regno ricostruiti da Nicola Ostuni si evince chiaramente la sofferenza del Regno nei primi 10 anni di Restaurazione, sofferenze che ovviamente non potevano non riflettersi anche su quelle che oggi chiameremo spese per la cultura. Ma il lavoro di Ostuni è un lavoro complessivo, di storia economica anzi di storia delle finanze. Il suo è stato un pregevole tentativo, ben riuscito, di ricostruire i bilanci dello stato napoletano, da cui tuttavia non si possono estrapolare le voci che potremo associare alle spese della cultura nel Mezzogiorno in quegli anni. Oggi nelle spese della cultura non è compresa l’istruzione, che invece in quel periodo era accomunata ad altre voci. Istruzione e sanità vanno insieme, in quanto rappresentano il cosiddetto welfare; mentre cultura e tutela dell’ambiente sono altra cosa. Ieri invece, in assenza di un welfare state, istruzione e cultura erano accomunate. Per parlare di spese della cultura ci viene in aiuto Ludovico Bianchini con la sua opera La storia delle finanze del Regno di Napoli.¹9 Bianchini fu assunto al Ministero delle finanze Sull’argomento cfr. Pagano, L’industria armatoriale siciliana cit. Davis, Imprenditori e Società nel Regno Borbonico cit. Luigi De Matteo, Politica doganale e industrializzazione nel Mezzogiorno. 1845-1849, Napoli, 1982. Sull’argomento si veda lo studio di Nicola Ostuni, Finanze ed economia nel Regno delle due Sicilie, Napoli, Liguori, 1992. ¹9 Lodovico Bianchini, Della storia delle finanze del Regno di Napoli: libri sette, Palermo, dalla Stamperia di

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Paola Avallone – Raffaella Salvemini negli anni ’30, e grazie a questo suo incarico ebbe accesso ad una serie di documenti e dati che gli permisero di scrivere la grande opera sulla storia delle finanze nel Regno di Napoli, con la quale ricostruì lo stato delle finanze a partire dall’antico Regno degli spagnoli. Il suo obiettivo era quello di studiare il passato per migliorare la finanza del presente. Non a caso il suo primo compito fu quello di raggiungere il pareggio del bilancio. Uomo di larghe vedute, sapeva bene che «non v’ha più nobile tributo e spesa di quella che un popolo paga a se stesso per ingentilirsi ed educarsi».²0 Ed infatti è proprio Bianchini a parlare di “spese della cultura”, e fu il primo che prova a farne un bilancio. Si comincia con l’istruzione e rammenta che prima del 1806 questa era affidata a 33 scuole normali e in parte a seminari di ciascuna diocesi, parte ai corpi religiosi e infine, quella reputata più importante, all’università degli studi di Napoli. C’erano due collegi: quello di Avellino che preparava in giurisprudenza, teologia e medicina, ma era affidato ad una particolare famiglia; quello di Salerno che preparava per la medicina. Entrambi i due collegi riscuotevano diritti particolari. Con la soppressione nel 1806 degli ordini monastici che curavano i seminari, le scuole normali rimasero in poche, e la pubblica istruzione cadde nel totale abbandono. Il nuovo governo intervenne in materia per estendere l’istruzione nei comuni attraverso le scuole primarie gratuite a spese di ciascun municipio. Nei capoluoghi di provincia se ne aprì più di una, e nella sola Napoli se ne contavano 24. L’istruzione secondaria fu affidata a dei collegi, assegnando diritti a vari corpi religiosi affinché si interessassero di nuovo dell’educazione. Riguardo la cosiddetta istruzione sublime, cioè quella universitaria che conferiva la licenza o la laurea, furono accresciute le cattedre, e fu aumentato anche il salario dei docenti. Anche nelle province si intervenne per quanto riguarda questo tipo di istruzione, trasformando alcuni collegi in licei. Si accrebbe il museo di mineralogia, il laboratorio di chimica fu arricchito di nuovi strumenti, si ampliò l’orto botanico, si ricostruì in parte l’edificio dell’osservatorio astronomico nel 1812; venne istituita una scuola dei sordomuti. La scuola di medicina dell’Ospedale degli Incurabili venne potenziata. Insomma quando Ferdinando II tornò sul trono trovò un sistema educativo ben avviato e non fece altro che implementare l’esistente. Anche le biblioteche pubbliche videro un miglioramento. Il primo dato economico che Bianchini ci dà sull’istruzione pubblica è del 1820, anche se risulta parziale, in quanto non considera i seminari, le accademie, le case di educazione per le giovanette. Questo valore ammontava a ducati 551.948,59. La somma era ricavata dai proventi della rendita sul gran libro del debito pubblico per ducati 42.759, da un assegnamento sul Tesoro dello Stato per ducati 104.200,99, dei fondi provinciali per ducati 59.686, Francesco Lao, I, 1839. Qui ci siamo avvalsi della edizione a cura di Luigi de Rosa, Napoli, ESI, 1971. ²0 Ivi, p. 589.

18


i «servizi pubblici intellettuali» nella napoli preunitaria dalle entrate particolari dei comuni per ducati 153.338,25, dagli avanzi degli stessi comuni per ducati 18.231, dalle rendite di vari beni, censi e capitali per ducati 63.355,75, dal prodotto delle lauree ducati 58.781,07 e da fondi diversi ducati 51.596,53 (tab. 1). Fonte di spesa

ducati

%

42.759,00

8%

104.200,99

19%

59.686,00

11%

Entrate dei comuni

153.338,25

28%

Avanzi dei comuni

18.231,00

3%

Vari beni, censi e capitali

63.355,75

11%

Prodotto delle lauree

58.781,07

11%

Fondi diversi

51.596,53

9%

551.948,59

100%

Gran Libro del debito pubblico Tesoro dello Stato Fondi provinciali

Totale

Tabella 1: Fonti di finanziamento dell’Istruzione nel 1820 (Bianchini, Della storia delle finanze cit., p. 591). Oltre a quelle per l’istruzione, tra le spese per la cultura Bianchini considerava le cosiddette “adunanze di uomini dotti”. Nel 1808 venne infatti istituita l’Accademia Reale divisa in tre rami: quella di storia e belle lettere, quella di scienze, e quella di belle arti. Questa accademia venne finanziata con ducati 15.000 annui. Di questi si sarebbero assegnati 4 premi di ducati 2.000 ciascuno ad autori di opere giudicate meritevoli. La parte restante era destinata alle spese necessarie e ai gettoni da distribuirsi ai soci ordinari. Questa accademia, con il ritorno dei Borbone sul trono napoletano venne chiamata Società Reale Borbonica, distinta sempre in tre accademie, quella ercolanese di archeologia, quella di scienze e quella di belle arti. Ad essa si affiancava il Real Istituto di Incoraggiamento istituito nel 1806 per la diffusione delle scienze naturali, per l’agricoltura, per le arti e le manifatture. Questo istituto vide la sua consacrazione con lo statuto del 1821. A questo Istituto erano assegnati annui ducati 8.100. Altre società culturali ereditò il governo borbonico: la Società Pontaniana del 1812 e la Società Sebezia del 1814. Ricevevano ogni anno ducati 600 ciascuna per la pubblicazione degli atti. Solo nel 1825 vennero fuse con la costituzione dell’Accademia Pontaniana, con l’assegnamento di soli ducati 600. In ogni capoluogo di provincia era istituita una Società Economica, con lo scopo della diffusione delle conoscenze tecniche per il miglioramento dell’agricoltura e dell’industria, alimentate dai soci e dalle finanze comunali. Quanto ai “musei” si intendevano ovviamente le collezioni che da Carlo di Borbone erano confluite poi insieme alle scoperte di Pompei e Ercolano nel museo archeologico, 19


Paola Avallone – Raffaella Salvemini aperto sostenendo una grande spesa. Nel tempo era stato sempre più arricchito con i reperti derivanti dagli scavi di Pompei, scavi che vennero finanziati con ducati 2.000 al mese. Nel 1815 questa spesa si restrinse a ducati 7.600 all’anno anche se nel tempo si presentarono buone occasioni di collezioni da acquistare e dunque non si lesinò come quando vennero acquistati i reperti egiziani dalla famiglia Borgia per ducati 50.000 o la famosa collezione di vasi antichi appartenenti alla famiglia Vivenzio. Lo stesso Bianchini avvisa però che la spesa pubblica per l’istruzione pubblica di scienze e lettere non poteva con certezza calcolarla perché dipendeva da varie branche, cioè dai comuni, dalle province, dallo Stato, dai beni fondi e da altri proventi. Approssimativamente però valutava che arrivava a circa annui ducati 800.000, compresi gli annui ducati 3.200 per “incoraggiamento a’ letterati poveri”. Per la parte dell’istruzione pubblica che riguardava le belle arti, in particolare la pittura, la scultura, l’architettura e il disegno, dal 1810 al 1815 le spese giunsero fino a ducati 10.650 l’anno. A queste si dovevano aggiungere ducati 7.800 l’anno per il mantenimento di alcuni giovani studiosi a Roma, presso una scuola di perfezionamento aperta nel 1813. Le spese per l’istruzione pubblica per le belle arti e per il mantenimento dei giovani a Roma si erano ridotte nel tempo rispettivamente a 9.500 e 4.400. Le province a loro volta sostenevano le spese per mantenere a Napoli un certo numero di giovani da istruire nelle suddette arti. C’erano poi spese per lavorare e incidere le pietre dure per un totale di ducati 3.500 l’anno. Per la musica, come è noto i 4 conservatori furono riuniti in uno solo nel 1806 e la rendita assegnata nel 1808 era di ducati 33.378 all’anno più altri ducati 10.008 che furono aggiunti dopo. Ma anche i teatri non erano esclusi dalla lista delle spese per la cultura. Primo fra tutti il Teatro di S. Carlo che nel 1816 aveva subito il noto incendio, e che venne ricostruito grazie anche al suo impresario Domenico Barbaja per la somma di ducati 230.000. Per supplire alle spese di mantenimento del Massimo dopo il 1806 erano stati stanziati dal Ministero dell’interno annui ducati 97.000, che nel 1821 si ridussero a ducati 86.000, quindi a ducati 60.000 e infine a ducati 57.000. Al momento (1857) in cui scriveva Bianchini questa somma ammontava a ducati 70.000. Dovevano aggiungersi le spese per gli impiegati e altre dipendenze della soprintendenza del teatro, sempre a carico del governo e che raggiungevano la cifra di ducati 4.219; quella dei premi e della manutenzione, per le scuole di scenografia e ballo, aperte nel 1816, a ducati 1.404. Ma il teatro San Carlo non era l’unico che gravava sul bilancio statale. Al teatro dei Fiorentini erano assegnati ducati 8.500 annui nel 1816 che poi nel corso del tempo scesero a ducati 6.000 e poi a ducati 4.000. Infine in quasi ogni capitale di provincia erano stati aperti teatri. Ma la spesa non è calcolata. Provando a mettere insieme questi dati si arriva ad un totale di ducati 950.901 spesi in un anno per la cultura (tab. 2). Di questi ben l’84% era per l’istruzione “di scienze e lettere”. Se però queste ultime le sottraiamo al totale generale, vediamo che la spesa maggiore che il governo sosteneva era per il teatro San Carlo. 20


i «servizi pubblici intellettuali» nella napoli preunitaria Spese per la cultura

ducati

% (su a)

800.000

84,13%

Pittura, scultura, architettura e disegno

9.500

1,00%

6,30%

Mantenimento di giovani studiosi mandati dal Governo napoletano alla scuola di perfezionamento a Roma

4.400

0,46%

2,92%

Istruzione pubblica di scienze e lettere

Lavorare e incidere le pietre dure

% (su b)

3.500

0,37%

2,32%

Musica (Conservatorio)

33.378

3,51%

22,12%

Teatro San Carlo

86.000

9,04%

56,99%

Teatro San Carlo per impiegati e altre dipendenze della soprintendenza del teatro

4.219

0,44%

2,80%

Teatro San Carlo per premi e manutenzione, per le scuole di scenografia e ballo

1.404

0,15%

0,93%

Teatro Fiorentini

8.500

0,89%

5,63%

Totale (a)

950.901

Totale senza le spese per l’istruzione (b)

150.901

Tabella 2: Spese per la cultura (elaborazione dei dati in Bianchini, Della storia delle finanze cit., pp. 591-592). Se poi consideriamo che nel 1820 nella voce del bilancio consuntivo il totale delle spese riportato da Ostuni ammontava ducati 25.021.506,²¹ la cifra orientativa relativa alle spese per la cultura pari a ducati 950.901 rappresentavano il 4% delle spese complessive. Da questi dati si deduce che una struttura di spese per la cultura, sia che fossero relative all’istruzione, sia che fossero relative alle varie accademie o ai teatri già esisteva. È dunque evidente che il governo napoletano in quei tempi era sensibile a che il proprio popolo potesse godere della conoscenza. 4. La società commerciale anonima per l’impresa dei reali teatri L’idea così moderna che aveva Bianchini che un governo illuminato dovesse sostenere spese per la cultura in ogni modo e con tutti i mezzi a disposizione al fine dell’educazione del proprio popolo si radica sempre più tanto che nel 1833 fu addirittura fatta la proposta della costituzione di una società commerciale anonima per l’impresa dei reali teatri per sostituire Barbaja che aveva lasciato un debito non indifferente. L’idea di metter su una società anonima non era nuova in quei tempi. Terminata la corsa all’investimento nei titoli del debito pubblico, dal 1829 si era ripresa l’industria e il commercio locale grazie alle nuove tariffe doganali – come abbiamo detto – per cui in molti avevano indirizzato i capitali e le proprie forze verso altri settori, soprattutto quelli ²¹ Ostuni, Finanza ed economia nel regno delle due Sicilie cit., Tavola III - Esito consuntivo, anno 1820.

21


Paola Avallone – Raffaella Salvemini dell’industria e delle arti. Ciò aveva innescato anche un sentimento di maggior fiducia tra le persone, e il connubio capitali-fiducia portò gli uomini ad associarsi fra di loro per intraprendere una qualche attività alla ricerca di maggiori profitti. Ecco che si diffusero numerose società anonime e in accomandita, che come delle vere e proprie moderne holdings operavano in vari campi, da quello assicurativo e creditizio, a quello commerciale a quello agricolo ed industriale.²² E tra queste non mancò chi propose appunto una compagnia che avesse come oggetto principale la gestione degli spettacoli nei regi teatri, senza disdegnare però anche altre attività redditizie. La proposta era mossa dal fatto che le finanze statali non erano più in grado di coprire con varie assegnazioni ordinarie e straordinarie le grandi spese dei teatri regi. Abbiamo visto come solo il San Carlo assorbisse una buona percentuale delle spese per la cultura, oltre a quelle dell’istruzione e il sovvenzionamento era calato negli anni. Ma il «teatro è pruova, scuola, e misura di civiltà; e si reputa tanto più incivilito un paese quanto più venga accresciuto il numero degli onesti suoi godimenti».²³ Pertanto non bisognava lasciarlo nel decadimento totale: era certamente necessario risparmiare, ma allo stesso tempo non si dovevano penalizzare i cittadini privandoli degli strumenti per la loro educazione. Dunque bisognava pensare ad una formula alternativa per sostenerne le spese alleggerendo così l’erario statale. E perché non «applicare a quest’oggetto l’opera e i mezzi di una di quelle Società in anonimo che cominciano oramai ad essere tanto giovevoli all’industria e al commercio delle Sicilie?».²4 Durante il diciassettesimo secolo, il teatro faceva parte del sistema di benessere religioso e, con l’avvento di una monarchia assoluta, divenne instrumentum regni per il controllo sociale. Che la produzione immateriale delle arti dello spettacolo potesse avere un valore economico non era dunque tra le idee principali dei politici e degli intellettuali del diciottesimo secolo²5. Le cose cambiano con l’inizio del nuovo secolo e le motivazioni che spingono a fare la ²² Sulle società per azioni in quel periodo e sulle assicurazioni marittime si veda Nicola Ostuni, Tentativi di

ampliamento della base produttiva nel Regno di Napoli. Le società per azioni dal 1818 al 1834, Napoli, Arte Tipografica, 1986; Paola Avallone, Navigare sicuri nel Mediterraneo. Assicurazioni marittime nel regno di Napoli (XVII-XIX secolo), in Sguardi mediterranei tra Italia e Levante (XVII-XIX secolo). Commerce, Politics and Ideas (XVII-XIX Centuries), a cura di Mirella Mafrici e Carmel Vassallo, [Msida], Malta University Press, 2012, pp. 1-18. ²³ Proposta e statuto di una Società in anonimo per la impresa de’ reali teatri, Napoli, dai Torchi del Tramater, 1833, p. 2. Di questa società si accenna in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di Lorenzo Bianconi e Renato Bossa, Firenze, L.S. Olschki, 1983, p. 372; Il Teatro di San Carlo, 1737-1987, a cura di Franco Mancini, Bruno Cagli, Agostino Ziino, Napoli, Electa, I, p. 21. Ivi, pp. 2-3. ²4 ²5 Alida Clemente – Rossella del Prete, Cultural Creativity and Symbolic Economy in Early Modern Naples. Music and Theatre as Cultural Industries, in Cities and Creativity from the Renaissance to the Present, edited by IlijaVan Damme, Bert De Munck, Andrew Miles, London, Routledge, 2017, pp. 85-104.

22


i «servizi pubblici intellettuali» nella napoli preunitaria proposta di costituzione di una società per i teatri sono argomentate proprio da un punto di vista economico. Esse rappresentano un primo timido tentativo, anche se poi mal riuscito, di considerare l’impresa teatrale non come uno dei tanti strumenti per “tenere a bada il popolo”, ma come una questione meramente di mercato. Ma vediamo il dettaglio. In genere la produzione di qualche cosa dipende dalla richiesta, ossia dalla domanda. Questa, a sua volta, dipende dalla ricchezza in generale. Nel caso si produca di più di quanto effettivamente richiesto gli effetti per il produttore non saranno vantaggiosi, perché i beni prodotti dovranno essere svenduti. Dal momento che il prodotto del teatro è uno solo cioè la rappresentazione, questo unico prodotto permette il godimento di più persone e tale godimento dipende ovviamente dalle “sensazioni piacevoli” che esso genera. Queste sensazioni piacevoli possono essere quantificate in relazione al numero degli spettatori. Dunque quanti più spettatori ci sono per un’opera teatrale tanto più ci saranno dei vantaggi in relazione a quel prodotto/rappresentazione. Insomma se il teatro si riempie allora si è raggiunto lo scopo. Ma oltre questo aspetto puramente economico, vanno considerate altre due cause per determinare il valore del teatro. La prima riguarda il maggior entusiasmo che produce negli attori il numero degli spettatori, con effetti positivi sulla rappresentazione stessa accrescendone il valore; la seconda mostra che la rappresentazione diventa più bella e interessante in quanto gli attori, visto il crescente numero di spettatori, danno il meglio di sé, con il conseguente aumento del numero delle piacevoli sensazioni: dunque la rappresentazione aumenta di pregio²6. Dunque l’obiettivo di questa società sarebbe stato quello di trovare il modo di massimizzare il “consumo” degli spettacoli teatrali. E la formula della Società anonima si presentava come lo strumento più adatto a questo scopo, in quanto sarebbe stata al tempo stesso produttrice e consumatrice del proprio prodotto ogni qualvolta non si sarebbero trovati altri consumatori/spettatori: i soci, avendo versato una certa quota di capitale, avrebbero avuto diritto a un palco o una sedia per assistere alla rappresentazione. E a rafforzare questa ipotesi si fa l’esempio delle Società di assicurazione che si stavano aprendo a Napoli in quel tempo nelle quali i soci erano al tempo stesso assicuratori e assicurati. Inoltre con le quote anche piccole e proporzionate sottoscritte dai soci si sarebbe formata quella massa di capitali di cui una parte sarebbe stata impiegata nell’impresa teatrale, e la parte rimanente in ogni altro tipo di investimento, i cui proventi poi si sarebbero reinvestiti nell’impresa teatrale. I benefici che ne avrebbero avuto i soci sarebbero stati di due tipi: in moneta e in “godimento”. In moneta, il beneficio era in proporzione alle rendite derivanti dagli investimenti fatti, dai proventi derivanti dal Governo secondo il contratto d’appalto da stabilirsi, e gli introiti annuali e serali degli affitti dei palchi o sedie. Si diceva in “godimento” cioè come risultato dalla distribuzione giornaliera agli azionisti dei posti del teatro non dati in fitto, ²6 Proposta e statuto di una Società in anonimo per la impresa de’ reali teatri cit., pp. 4-8.

23


Paola Avallone – Raffaella Salvemini ovviamente in proporzione alla quota sottoscritta e in relazione a dove erano situati i posti.²7 Ecco dunque la distribuzione per classi delle azioni (tab. 3), in modo da far corrispondere ad ogni classe i benefici in moneta e in godimento, le eventuali spese e perdite, il tutto secondo una contabilità separata in generale e speciali. Questo perché, ad esempio ci sarebbero state alcune classi che prevedevano addobbi o affitti di palchi e sedie che non riguardavano le altre classi. Teatro

Classe/fila

San Carlo

prima classe

18

120

4,00

8.640,00

seconda classe

30

136

9,00

36.720,00

19

120

5,00

11.400,00

terza classe

30

136

6,00

24.480,00

19

120

3,60

8.208,00

32

136

4,50

19.584,00

19

120

2,40

5.472,00

quinta classe

30

136

3,60

14.688,00

17

120

1,20

2.448,00

sesta classe

30

136

2,00

8.160,00

0

0

0,00

0,00

718

130

0,60

56.004,00

366

120

0,40

17.568,00

quarta classe

Fondo San Carlo Fondo San Carlo Fondo Totale

35.296,00

26.656,00

Fondo San Carlo

totale

7,00

Fondo San Carlo

tot (a*b*c)

136

Fondo San Carlo

prezzo d’affitto serale (c)

28

Fondo San Carlo

palchi/sedie rappresentazioni (a) e altro per anno (b)

settima classe

48.120,00 32.688,00 25.056,00 17.136,00 8.160,00 73.572,00 240.028,00

Tabella 3: Calcolo per i teatri S. Carlo e Fondo di quanto avrebbe dovuto costare la visione di una rappresentazione in relazione al numero di rappresentazioni. (Fonte: Proposta e statuto di una Società in anonimo per la impresa de’ reali teatri, Napoli, dai Torchi del Tramater, 1833, pp. 8-9). Per la terza classe il totale riportato dal documento è di ducati 33.128. Ciò dipende dal fatto che sempre per il Fondo nel documento il totale è di ducati 8.648. Dunque o è sbagliata la somma sul documento o il prezzo d’affitto non è di ducati 3,60 o il numero dei palchi è sbagliata (probabilmente sarà 20). Per la quarta classe il totale riportato dal docu²7 Ibidem.

24


i «servizi pubblici intellettuali» nella napoli preunitaria mento è di ducati 24.480. Ciò dipende dal fatto che sempre per il Fondo nel documento il totale è di ducati 4.896. Dunque o è sbagliata la somma sul documento o il prezzo d’affitto non è di ducati 2,40 o il numero dei palchi è sbagliata (viene esatto con un numero 17). Il Fondo non ha sesta fila e quindi non ha sesta classe. Per la settima classe si parla di sedie e non più di palchi e sono esclusi i festini per il San Carlo. Il totale complessivo riportato nel documento è di ducati 239.892. La differenza è dovuta ai problemi rilevati su. In base a tutti questi calcoli il capitale della compagnia doveva essere di ducati 300.000, da dividere proporzionalmente per ciascuna classe, e per mantenere la giusta proporzione tra le diverse classi, in rapporto alla quantità e al valore delle azioni, le prime sei classi si sarebbero divise 500 azioni per ciascuna e la settima in 6000 azioni in due serie come riportato nella sottostante tabella. valore complessivo delle azioni

numero di azioni per classe

valore singola azione

Prima classe

44.139,86

500

88,28

Seconda classe

60.177,08

500

120,36

Terza Classe

41.428,64

500

82,86

Quarta classe

30.613,78

500

61,23

Quinta classe

21.429,64

500

42,86

Sesta classe

10.204,60

500

20,41

Settima classe

92.006,40

6.000

15,34

300.000,00

9.000

Totale

Tabella 4: Capitale sociale e numero di azioni (Fonte: Proposta e statuto di una Società cit., pp. 12-13). Di questa Compagnia, costituitasi sul finire del 1833, poco si sa se non dallo statuto. Non si conoscono i soci e quanto fu effettivamente versato in termini di capitale.²8 Certo è che aveva un conto intestato nel Banco delle Due Sicilie a nome del suo tesoriere Filippo Imperiale del quale si sono contate almeno una trentina di pagine di contabilità che aspet²8 Dalla proposta di Statuto risulta che il Presidente della Società sarebbe stato il Principe di Torella; gli amministratori il Marchese Luigi Imperiali di Francavilla, il Principe di S. Giorgio Spinelli, il Cav. Giovanni Galeota, il Cav. Francesco Capecelatro, Antonio Santorelli, Francesco Falconet, il Marchese Luigi Dragonetti, Raimondo Miramont; il Segretario Generale Fortunato Cafaro; il Vice segretario Giuseppe Capecelatro; gli Agenti Superiori Francesco Accinni e Vincenzo Capecelatro; il Tesoriere Giovanni Castelli fu Francesco (Proposta e statuto di una Società in anonimo per la impresa de’ reali teatri, cit., p. 22).

25


Paola Avallone – Raffaella Salvemini tano di essere studiate. E da questi documenti che si ricava quanto la Compagnia pagò a Gaetano Donizetti per il dramma Lucia di Lammermoor andato in scena nella stagione 1834-35. Il musicista ricevette ben ducati 2.500 in più tranche, tra il 1834 e il 1835.²9 Nell’Almanacco Reale dei Reali Teatri a cura del Segretario della Reale Soprintendenza dei teatri e spettacoli di Napoli, Vincenzo Brignole, la cui ristampa anastatica venne fatta nel 1987, si accenna a questa Società e si presenta anche il bilancio (tab. 5). Come si vede la percentuale maggiore, il 27%, di sostentamento dei due teatri è data dal Governo, con ducati 55.000 all’anno; seguivano poi i profitti derivanti dall’appalto dei palchi. Ma le spese maggiori erano per le due compagnie, quella di ballo e quella di canto, per il montaggio degli spettacoli e per il vestiario. Ma proprio da questo bilancio si evince che anche questa compagnia non diede i frutti sperati e l’annata teatrale si chiuse con un passivo di più di ducati 37.000.

INTROITO

ducati

%

Incoraggiamento del Real Governo secondo contratto

55.000,00 27%

Appalto dei palchi e delle sedie nel Real Teatro di S. Carlo per 112 rappresentazioni (12 nella Quaresima)

48.214,56 23%

Profitto serale del Real Teatro di S. Carlo per 112 rappresentazioni (12 nella Quaresima) più 7 recite di appalti sospesi

30.039,20 15%

Appalto dei palchi e delle sedie nel Real Teatro del Fondo per n. 110 rappresentazioni Profitto serale del Real Teatro del Fondo per n. 110 rappresentazioni più 8 recite di appalti sospesi Profitto netto serale per n. 7 feste del Real Teatro di S. Carlo

7.039,08

3%

11.976,24

6%

3.266,80

2%

10.355,54

5%

Profitto sul godimento dei palchi e della platea degli azionisti nel Real Teatro di Sn Carlo

3.351,52

2%

Profitto sul godimento dei palchi e della platea degli azionisti nel Real Teatro del Fondo

2.055,11

1%

Impieghi di capitali

8.600,00

4%

Beneficio sugli artisti ceduti all’estero

Decadenza di azioni e premi sulle aperture di novelle serie Totale Introito

25.576,91 12% 205.474,96

²9 Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco Due Sicilie, Cassa Argento, volume di bancali estinte il 24/10/1835; 29/3/1836; 27/4/1836.

26


i «servizi pubblici intellettuali» nella napoli preunitaria ESITO Compagnia di canto Cori di ambo i sessi Compagnia di ballo delle prime e seconde parti

86.286,37 35% 6.344,59

3%

35.660,46 15%

Corifei d’ambo i sessi

7.632,59

3%

Figuranti d’ambo i sessi

1.610,74

1%

Compositori delle musiche

5.750,82

2%

700,00

0%

Corpo d’orchestra, per l’opera e per il ballo

15.458,48

6%

Montaggio per tutti gli spettacoli (macchinismo, decorazioni, attrezzi, soldi agli scenografi, altre spese ordinarie e straordinarie)

25.765,21 11%

Per il vestiario in generale per appalto

15.800,00

6%

Viaggi per affari teatrali e per gli artisti

2.500,00

1%

Compenso al tesoriere

1.000,00

0%

449,00

0%

Portantinai

1.056,00

0%

Storno di godinmenti in mancanza di titoli

5.506,68

2%

500,00

0%

6.250,00

3%

Poeti

Viaggi degli amministratori e direttori

Spese commerciali Storno dei palchi e sedie nei due teatri per uso della Reale Corte sendo quanto stabilito nell’appalto, statuto e contratto Direttori delle scritture

660,00

0%

Spese di amministrazione

1.623,99

1%

Spese per gli impiegati dell’amministrazione

3.000,00

1%

Soldi per gli impiegati nei teatri

6.067,30

2%

Spese di copisteria di musica

492,00

0%

Per la cessione della prosa del teatro dei Fiorentini per 5 recite

270,00

0%

Per transazione di 4 serate dovute alla beneficenza, secondo il contratto col real Governo

600,00

0%

Per transazione di due serate con lo stabilimento della cassa dei professori giubilati

900,00

0%

Spese di stampa

450,00

0%

Illuminazione ad olio e cera

4.600,00

2%

Altro esito che non risulta dal bilancio ma dalla differenza tra il totale riportato dal compilatore (243.219,23) e quanto fa la somma dei dati parziali riportati dal compilatore (236.934,23)

6.285,00

3%

Totale Esito

243.219,23

Deficit

-37.744,27

Totale a pareggio

205.474,96

Tabella 5: Bilancio generale degli introiti ed esiti dell’Impresa dei Reali teatri dell’annata 1834 al Sabato di Passione 1835 (Fonte: Almanacco dei reali teatri S. Carlo e Fondo, a cura di Vincenzo Brignole, Napoli, Dalla Tipografia Flautina, 1835, pp. 24-27). 27


Paola Avallone – Raffaella Salvemini 5. Conclusioni: prospettive di ricerche L’analisi di questa compagnia apre a numerosi scenari che potrebbero farci tornare indietro nel tempo, e cioè quando Barbaja assunse a partire dal 1809 l’appalto dei regi teatri insieme al gioco d’azzardo e solo per pochi anni fu interrotto questo suo monopolio, come abbiamo visto uno di questi fu con la suddetta Società. È una pagina di Storia che andrebbe approfondita, soprattutto avvalendosi delle carte dell’Archivio storico del Banco di Napoli, dove nei libri apodissari del Banco delle due Sicilie esiste il conto intestato al Barbaja e dal quale si potrebbero dedurre non solo le movimentazioni di denaro legate alla sua attività teatrale, ma anche a quella dell’uomo Barbaja. Inoltre con una ricostruzione dettagliata dei bilanci consuntivi del Regno, cioè partendo da quelli analizzati da Ostuni e andando nel dettaglio delle spese, si potrebbe comprendere quanto effettivamente fosse cambiato negli anni l’interesse del Re per la cultura della popolazione del suo Regno. E confrontando poi con le situazioni di altri stati dell’epoca non è da escludere che anche in questo ambito il Regno godeva di uno dei suoi tanti primati che poi perderà con l’Unità d’Italia.

28


Alberto Bentoglio La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli al servizio di Sua Maestà Ferdinando I di Borbone (1816-1824)

Gli anni napoletani di Gioachino Rossini coincidono con l’attività che la Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini, al servizio di Ferdinando I di Borbone, svolge a Napoli dal 1816 al 1824 sotto la guida del rinomato impresario Salvatore Fabbrichesi. L’idea di esportare nella capitale partenopea il fortunato modello di “Compagnia privilegiata” – il cui “privilegio” consiste principalmente nell’essere sovvenzionata dalla pubblica amministrazione ed essere, per conseguenza, dipendente dagli organi governativi – che aveva diretto a Milano dal 1807 si fa strada nella mente di Fabbrichesi sin dall’estate 1814. Constatata l’impossibilità di restare con i suoi attori stabilmente a Milano e resosi conto di essere troppo compromesso con il passato regime napoleonico per potere confidare nella collaborazione degli organi governativi ora filoaustriaci, Fabbrichesi decide di recarsi nella capitale del Regno di Napoli, piazza teatrale fra le più attive e frequentate d’Europa, intenzionato a caldeggiare personalmente l’assunzione della sua troupe al servizio di quel governo. Nel 1814 Napoli è ancora governata dall’irrequieto cognato di Napoleone, Gioachino Murat, e rappresenta quindi il solo Regno “non restaurato” dell’intera penisola. L’impresario spera così di ottenere condizioni favorevoli avendo egli, durante gli anni precedenti, fedelmente servito l’impero francese. Ma il viaggio, che avviene nell’estate 1814, si rivela nel complesso un insuccesso. Fabbrichesi parte ad agosto, lasciando a Milano la Compagnia impegnata a recitare presso il Teatro della Canobbiana, e, giunto a Napoli, incontra dapprima un gran numero di persone, sforzandosi di comprendere il variegato mondo teatrale che lo circonda. Successivamente, egli indirizza al ministro dell’interno Giuseppe Zurlo una richiesta formale per potere presentare la sua Compagnia in uno dei teatri della città nel corso della successiva stagione teatrale. La proposta desta, tuttavia, un interesse marginale: il 31 agosto il ministro dell’interno trasmette a sua volta il progetto di Fabbrichesi a Giovanni Carafa, sovrintendente dei teatri e degli spettacoli, il quale propone di riunire una apposita commissione, presieduta dal drammaturgo e poeta Cesare della Valle, per valutare la proposta. Il ministro tuttavia non ritiene opportuno seguire tale prassi e invita il funzionario a limitarsi a raccogliere informazioni sull’impresario. Non sappiamo come le cose siano procedute ma, in ogni caso, i risultati che Fabbrichesi consegue non sono incoraggianti se, come testimoniano le parole di Francesco Augusto Bon indirizzate a Giovanni Casoni 29


Alberto Bentoglio il 14 ottobre 1814, «Fabbrichesi fino ad ora nulla ha concluso e stanco de’ suoi tentativi fra giorni parte. Perotti è ancora indeciso circa alla sua Compagnia: sarà probabilmente forzato a restare; non so se accetterà; molti individui per altro lo lasceranno».¹ Il ritorno dei Borbone con Ferdinando I sul trono del Regno delle Due Sicilie, dopo la battaglia di Tolentino, nel maggio 1815, coincide per Fabbrichesi con l’avvio di nuove trattative con il restaurato governo di Napoli. Il 4 luglio il ministro dell’interno scrive al sovrintendente dei teatri: Informato il Re che al momento non esiste in Napoli alcuna Compagnia di prosa italiana per esser già terminato l’impegno contratto dal capo comico Perotti pel Teatro del Fondo, ha ordinato e vuole che si tratti per quest’oggetto col capo comico Fabbrichesi, riserbandosi la M.S. di risolvere l’occorrente in vista degli ulteriori riscontri.²

Così, da luglio a novembre 1815, pur impegnato con la sua compagnia in un lungo ciclo di recite al Teatro Nuovo di Trieste, Fabbrichesi mantiene serrati contatti con le autorità napoletane per definire, soprattutto, gli aspetti economici del futuro contratto. La trattativa prosegue con la presentazione di un dettagliato progetto da lui inviato a re Ferdinando il 25 ottobre 1815.³ In questo documento Fabbrichesi, riproducendo il contratto sottoscritto nel 1807 con il governo napoleonico, offre al sovrano il servizio della sua compagnia per tre anni consecutivi, dalla Pasqua 1816 alla Pasqua 1819. La compagnia al servizio dei Borbone avrebbe proposto cinque recite settimanali (per un totale di poco più di duecento rappresentazioni annue) presso il Teatro Nuovo di Napoli, preso in locazione e gestito autonomamente. Avrebbe, quindi, stipendiato il personale di servizio, gli elementi dell’orchestra ¹ Daniele Bratti Ricciotti, Sette lettere di Francesco Augusto Bon, «Rivista Teatrale Italiana» VII/12, fs. 2-3,

² ³

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p. 42. Nell’Archivio di Stato di Napoli, Fondo teatri e spettacoli, f. 143 (d’ora innanzi indicato con la sigla ASNa seguito dal numero della filza) sono conservate alcune richieste, posteriori al progetto Fabbrichesi, inviate da alcuni impresari per potere recitare a Napoli nell’anno 1815/1816. Tali documenti attestano che, ancora all’inizio del 1815, il posto riservato alla Compagnia di prosa italiana risultava vacante. Può essere utile ricordare che nel biennio 1813-1814 l’impresario e attore Gaetano Perotti aveva ricevuto da Murat l’incarico di formare e dirigere una compagnia teatrale che avrebbe potuto disporre di una sovvenzione governativa di seimila ducati. Il contributo alla compagnia era poi venuto a mancare, l’anno successivo, per non gravare le già indebitate casse dello stato. Perotti tuttavia era rimasto a Napoli, recitando due volte alla settimana presso il Teatro de’ Fiorentini, fino alla caduta del Regno napoleonico. Prima di Gaetano Perotti avevano recitato stabilmente in Napoli la compagnia diretta da Luigi Rossi e la compagnia di prosa francese diretta da Armand Verteuil. Esemplata questa ultima su modello di quella milanese diretta dalla celebre attrice M.lle Raucourt, la compagnia aveva recitato in lingua francese, alternandosi con gli attori italiani. Cfr. Valeria De Gregorio Cirillo, I “Comédiens français ordinaires du roi”. Gli spettacoli francesi al Teatro del Fondo nel periodo napoleonico, Napoli, Liguori, 2007. ASNa, f. 143. Il progetto si può leggere integralmente in Alberto Bentoglio, L’arte del capocomico. Biografia critica di Salvatore Fabbrichesi 1772-1827, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 216-217.


La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli e mantenuto una sufficiente illuminazione in sala. Nei giorni di riposo, qualora il re avesse desiderato assistere a una rappresentazione, gli attori si sarebbero recati gratuitamente nei siti reali. Inoltre la compagnia avrebbe programmato due recite annue a beneficio degli indigenti della città. Ogni questione gestionale e amministrativa sarebbe stata sottoposta alle direttive impartite dal sovrintendente dei teatri e Fabbrichesi avrebbe, a sua volta, ottenuto dalle autorità borboniche, oltre a un equo canone d’affitto per il Teatro Nuovo, che non avrebbe dovuto superare i mille ducati annui, la privativa per la prosa sui teatri di prima classe napoletani (Teatro San Carlo, Teatro del Fondo e Teatro de’ Fiorentini). Il che significava che mentre recitava in città la sua compagnia, gli altri teatri non avrebbero potuto presentare spettacoli in prosa, eccezione fatta per le ribalte dei teatri minori. Dal punto di vista economico, l’impresario e direttore della compagnia avrebbe potuto contare su un contributo di diecimila ducati (che sarebbero stati ridotti a novemila se l’organico degli attori non avesse annoverato due primedonne) e sui proventi derivanti dalla vendita degli abbonamenti e dei biglietti nei giorni di spettacolo. Unitamente alla proposta, Fabbrichesi presenta al re la lista degli attori che, sotto la sua direzione, avrebbero raggiunto Napoli per dare vita alla costituenda Compagnia reale. Le parti maschili sono attribuite a Giuseppe De Marini primo attore comico, Giovanni Battista Prepiani primo attore tragico, Alberto Tessari primo tiranno e padre, Nicola Pertica primo caratterista, Francesco Lombardi primo amoroso e allo stesso Fabbrichesi altro primo caratterista. Le parti femminili sono affidate alle due primedonne Carolina Cavalletti Tessari e Angela Bruni, il ruolo di madre comica a Francesca Fabbrichesi, quello di madre tragica a Lucrezia Bettini, quello di servetta a Carolina Barberis e quello di amorosa giovine a Geltrude Cavalli. Si indicano poi fra gli altri attori Demetrio Cristiani, Francesco Appelli e il secondo caratterista Pietro Cristiani. Completano l’organico il suggeritore Giuseppe Cavalli, i macchinisti Giovanni e Carlo Sacchi e il trovarobe Marco del Dosso. Fabbrichesi si riserva infine di reclutare un secondo padre e due generici per arricchire ulteriormente l’organico. Grazie alla riconosciuta abilità di questi attori, senza dubbio fra i migliori dell’epoca, alla ragionevole richiesta economica e alla riconosciuta esperienza dell’impresario, re Ferdinando il 29 novembre approva il progetto e il primo dicembre conferma il contributo di diecimila ducati disponendo che a Fabbrichesi sia permesso di fare recitare la propria Compagnia al Teatro Nuovo, secondo gli accordi stabiliti, dalla Pasqua 1816. Conclusi i cicli di recite precedentemente programmati nei teatri della penisola, Fabbrichesi concentra la propria attenzione sull’imminente e importante debutto nella città dei Borbone dove giunge, con la sua compagnia, alla fine del marzo 1816. Egli prende alloggio in vico Afflitti (sopra Toledo), nelle immediate vicinanze del Teatro Nuovo a lui destinato e, anche se le testimonianze dirette sono del tutto assenti, possiamo ipotizzare che tutti gli attori, chiamati in Napoli per espresso volere di re Ferdinando – che, contrariamente a quanto si è spesso scritto e ripetuto, fa del mecenatismo un vero e proprio blasone di nobiltà – dedichino attenzione e studio alla preparazione dell’imminente debutto. Scrive il «Giornale delle Due Sicilie»: 31


Alberto Bentoglio La Compagnia Fabbrichesi richiama in questo momento l’attenzione di tutti gli amatori della buona commedia e della buona tragedia. Composta de’ primi attori che vanta oggi l’Italia, essa comparirà sulla scena con minori dritti all’indulgenza di un pubblico, il quale attende vedere per essa restituito all’ antica sua gloria il nostro teatro in prosa.4

Il 15 aprile 1816 (giorno di Sant’Angelo) con Pamela nubile5 di Carlo Goldoni la Compagnia reale si esibisce per la prima volta nella prestigiosa sala del Teatro de’ Fiorentini. La sala del Teatro Nuovo, destinata da contratto alla Compagnia, non è, infatti, concessa a Fabbrichesi dai proprietari, i quali richiedono un canone d’affitto eccessivamente elevato. Così la compagnia ha il privilegio di calcare per la prima settimana di recite, fino al 23 aprile, il palcoscenico del ben più blasonato Teatro de’ Fiorentini per poi spostarsi, come stabilito, al Teatro Nuovo. L’accoglienza del pubblico è calorosa. Jersera, abbiam visto l’immortale Goldoni comparir sulla scena in tutta la sua gloria. Con ciò crediamo aver detto abbastanza del successo felice della prima rappresentazione della Compagnia comica Fabbrichesi, e del valore dei personaggi che ebbero parte nella Pamela nubile. Di essi e degli altri non ancora intesi parleremo a lungo e spesso in questo nostro giornale, contenti oggi di poter rendere particolare testimonianza di lode al signor De Marini, novello Roscio dell’Italia.6

Il «Giornale delle Due Sicilie» che in realtà non dedicherà mai particolare attenzione alle vicende della Compagnia, annuncia quindi le recite al Teatro Nuovo con un breve trafiletto 4 «Giornale delle Due Sicilie», 8 aprile 1816. 5 Pamela nubile era stata scelta per inaugurare, qualche mese prima, le recite che la Compagnia aveva of-

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ferto al pubblico di Firenze: «La prima sera dell’anno 1816, fu dalla Compagnia Fabbrichesi rappresentata nel R. Teatro degli Intrepidi la Pamela nubile dell’immortale Goldoni. Erano vari giorni che il pubblico desiderava impazientemente di gustare una classica produzione teatrale per mezzo di questi attori nei quali fino dalle prime rappresentanze aveva riconosciuti non ordinari talenti, ed è forza confessare, per rendere giustizia al vero, che la comune aspettativa non fu delusa in detta sera, ma che anzi poco restò a desiderare anche ai più difficili uditori. Infatti la sig. Fabbrichesi nella parte di madama Ferre, ed il sig. Lombardi in quella del Cavaliere si distinsero vantaggiosamente. Riscosse i meritati applausi la sig. Carolina Tessari, ma sopra tutti si attirò la generale attenzione il sig. De Marini, sostenendo la parte di Milord Bonfil. Quest’eccellente attore che nelle sere antecedenti si era fatto ammirare, malgrado la cattiva scelta delle rappresentazioni, superò la comune aspettativa ed il pubblico riconobbe con trasporto di vera gioia nel relodato sig. De Marini, il Roscio della nostra età. Dando le dovute lodi a questa abilissima Compagnia ci giova però ricordare a chi la dirige che offende un poco troppo l’onore nazionale il soverchio conto in cui si tengono le oscure e straniere produzioni teatrali, per le quali i suddetti attori sembrano avere troppo parzialità, allorché un Goldoni, un Metastasio, e ultimamente un Alfieri hanno di tanti capi d’opera arricchito ed illustrato il nostro Teatro» («Gazzetta di Firenze», 6 gennaio 1816»). «Giornale delle Due Sicilie», 16 aprile 1816.


La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli pubblicato il 7 maggio: Non è minore l’attività in cui mostrasi la Compagnia comica Fabbrichesi, premurosa di cominciare le sue nuove recite con rappresentazioni le quali per merito di composizione e per esattezza di esecuzione possano sempre più conciliarle i suffragi del pubblico, dal quale è stato finora coronata di giusti applausi.7

Ben differente è, invece, il trattamento riservato a Fabbrichesi dal potente impresario dei teatri reali (San Carlo, Fondo e Fiorentini), Domenico Barbaja, il quale ospita per regio ordine le prime otto recite della Compagnia nella sala da lui gestita, ma già il 29 aprile ne reclama un pronto risarcimento alle autorità, avendo egli dovuto, in tale circostanza, cancellare le opere in musica già programmate e rinunciare al promettente incasso che avrebbe ricavato. Barbaja critica, inoltre, la privativa per la prosa concessa a Fabbrichesi, condizione che, a suo dire, va a infrangere gli accordi da lui stabiliti con il passato governo, nel marzo 1814, secondo i quali egli avrebbe avuto facoltà di fare recitare, a sua discrezione, due volte la settimana nello stesso teatro una Compagnia di prosa italiana, purché sul palcoscenico del San Carlo e del Fondo si rappresentasse opera in musica. Barbaja reclama, quindi, il diritto di programmare recite di prosa presso il Teatro de’ Fiorentini, come del resto aveva fatto fino all’arrivo di Fabbrichesi, presentando due spettacoli settimanali sul palcoscenico della sala da lui gestita. Inoltre, sempre a detta di Barbaja, la nuova Compagnia, dopo la settimana di rappresentazioni, aveva portato con sé al Teatro Nuovo tutto il pubblico del Teatro de’ Fiorentini che ora risultava desolatamente vuoto. Certo, Barbaja riconosce nel collega Fabbrichesi un importuno rivale il quale va a ledere, anche se in un campo differente, i suoi interessi e a sottrargli quel potere assoluto che, in materia di gestione teatrale, egli detiene fin dal 1809. In tale direzione Barbaja si muove, infatti, quando presenta alle autorità, in diretta concorrenza con Fabbrichesi, un progetto per mantenere una propria Compagnia di prosa fino al marzo 1818, accontentandosi di un contributo annuo di ottomila ducati, a fronte dei diecimila che si corrispondono alla Compagnia Fabbrichesi. Le trattative, tuttavia, non vanno in porto e Fabbrichesi nel maggio 1816 dà inizio in esclusiva alle recite della sua Compagnia al Teatro Nuovo, dove la formazione si esibirà fino al marzo 1818. Prosegue dunque al Teatro Nuovo il soggiorno napoletano della Compagnia reale al servizio di sua Maestà Ferdinando I di Borbone che risiederà stabilmente nella capitale borbonica per otto anni consecutivi. Fatta eccezione per il periodo che va dal luglio 1820 al marzo 1821, come vedremo, ricco di accadimenti, gli anni trascorsi a Napoli non riservano a Fabbrichesi e ai suoi attori particolari sorprese: la Compagnia instaura ottimi rapporti con la corte dei Borbone ed è, gradatamente, apprezzata dal pubblico napoletano, che 7 «Giornale delle Due Sicilie», 7 maggio 1816.

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Alberto Bentoglio segue con interesse continuo, anche se non straordinario, il repertorio proposto. Non si dimentichi, infatti, che la capitale del Regno delle Due Sicilie in campo musicale è in questo periodo la città più all’avanguardia d’Italia e l’opera in musica, seria o buffa, vi riveste un ruolo del tutto predominante, relegando il teatro in prosa a divertimento marginale. Di qui l’incostante attenzione dedicata alla Compagnia reale al servizio di Ferdinando I di Borbone dal «Giornale delle Due Sicilie», organo ufficiale del governo, e dalla stampa in genere che si limita a segnalare la presenza degli attori nella sala da loro occupata e ad annunciarne saltuariamente il titolo dello spettacolo proposto. Dopo il fortunato debutto nella sala de’ Fiorentini, Fabbrichesi inaugura, come si è detto, la sua gestione del Teatro Nuovo proponendo il 13 maggio 1816 la tragedia di Agostino Tana Fedima alla quale fa seguire una programmazione che presenta ogni settimana cinque spettacoli in prosa (circa una ventina di recite mensili) e manifestazioni musicali e di arte varia, osservando una pausa durante le principali festività religiose, con relative novene ed ottavari, quali la settimana santa, l’ascensione, le feste in onore di San Gennaro e l’avvento natalizio. Da sottolineare che nella sua veste di impresario del Teatro Nuovo, Fabbrichesi ha il compito di presentare al sovrintendente dei teatri al termine di ogni settimana l’elenco delle opere teatrali che i suoi attori sarebbero andati a mettere in scena nel corso della settimana successiva, dopo averne ricevuto l’approvazione. Tale prassi è seguita per tutta la permanenza della Compagnia reale in Napoli, anche se limitati e sporadici sono gli interventi censori operati dalle autorità governative, come si evince dallo spoglio dei registri relativi alla revisione teatrale per gli anni in oggetto. Se, infatti, durante i primi mesi di attività, il prefetto di polizia informa il sovrintendente dei teatri che la Compagnia reale in più occasioni ha messo in scena rappresentazioni che hanno generato il malcontento degli spettatori, la mancanza di testimonianze successive in tale senso, ci induce a credere che, dopo un periodo iniziale di assestamento, la Compagnia conquisti il favore del pubblico napoletano, anche grazie all’incondizionato appoggio delle autorità borboniche. Prova del successo ottenuto in questi primi mesi è che già, il 21 agosto 1816, re Ferdinando conferma a condizioni invariate il contratto a Fabbrichesi, incaricandolo inoltre di stipendiare con trecento ducati annui il revisore delle produzioni teatrali presenti nel repertorio della Compagnia reale. Per quanto riguarda il repertorio proposto, Fabbrichesi mette in scena molti fra i più celebri lavori dell’epoca nei quali possono emergere al meglio le doti dei suoi attori e in particolare di Giuseppe De Marini, Nicola Pertica e Carolina Cavalletti Tessari (che dopo la partenza della Bruni resta la sola primadonna della Compagnia). Le opere di Goldoni, Sografi, Nota, Federici, Giraud, Kotzebue, inframmezzate dalle azioni patetiche di Giovanni Carlo Cosenza,8 dalle commedie di Francesco Augusto Bon e Alberto Nota e dalle 8 Dal 1817 al 1824, Giovanni Carlo Cosenza concede in esclusiva alla Compagnia reale tutti i drammi da lui

composti, sempre accolti con entusiasmo di pubblico e critica. Anche Francesco Augusto Bon stipula un

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La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli traduzioni e adattamenti approntati, oltre che dallo stesso Fabbrichesi, da Giuseppe Checcherini e altri lavori, a volte di modesto valore letterario, allietano e commuovono la platea del Teatro Nuovo. Ridotto è il numero di tragedie proposte, da un lato, per l’intervento della censura che non vede di buon occhio la messa in scena, per esempio, dei capolavori di Vittorio Alfieri e, d’altro lato, per le difficoltà di allestimento presenti in questo genere teatrale, non particolarmente amato dal grande pubblico. Alle frequenti rappresentazioni di Francesca da Rimini di Pellico, fanno così seguito ben pochi testi tragici di norma quasi mai replicati. Un posto a parte merita la collaborazione con Cesare della Valle che offre molte fra le sue opere a Fabbrichesi come egli stesso ricorderà anni dopo: Tranne l’Ippolito, tutte queste tragedie furono per la prima volta esposte al cimento della scena dalla Compagnia già Fabbrichesi ora Tessari, e debbo rendere giustizia alla cura ed alla intelligenza con che que’ valenti attori tutte egualmente le rappresentarono. Per quanto un autore drammatico possa degli attori profferir competente ed imparziale giudizio, sembrami dover dichiarare di aver rinvenuto nella prima attrice signora Carolina Tessari si pregevoli qualità dalla natura medesima a lei fornite, che difficile sarà il rimpiazzarla allorché il tempo l’avrà tolta alle scene. Siccome ho benanche per fermo che il signor Giovan Battista Prepiani possa dirsi un caposcuola in fatto di declamazione e di teatrale dignità.9

Il risultato complessivo è molto buono se valutiamo anche che l’impresario dà il via ad una collana editoriale che si propone di pubblicare le commedie e le tragedie che la Compagnia ha messo in scena con maggiore successo. Or non può negarsi che la Compagnia comica condotta dal signor Fabbrichesi non sia fornita d’un numero di eccellenti produzioni teatrali dell’uno e dell’altro genere, fra le quali non poche inedite, non che di tragedie le quali rappresentate con finezza d’arte, e con non ordinaria intelligenza sono state giudicate e riconosciute per ottime dal colto ed avveduto pubblico di Napoli, e queste appunto ci siamo proposti di pubblicare coi nostri torchi, per procurare alla gioventù d’ambedue i sessi una gradevole insieme ed istruttiva lettura. Né questa è la sola utilità, che pensiamo poter ricavare dalla nostra intrapresa, poiché i giovani studiosi i quali avranno sott’occhio queste commedie e tragedie che l’esperienza ha dimostrato esser riuscite felicemente nelle fatte rappresentazioni, appunto perché accolte con plauso universale, avranno una quasi sicura norma per conoscere di quali mezzi bisogna servirsi onde sieno ben ricevute, e producano effetto sul teatro; e se dalla natura sono dotati di genio comico o tragico, si accingeranno per avventura all’impresa di provare le loro forze, e fra tanti che tenteranno correre in questa onorata e

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contratto con la Compagnia reale impegnandosi a fornire ogni anno quattro commedie nuove. Cesare della Valle, duca di Ventignano, Tragedie, Napoli, dai torchi del Tramater, 1830, I, p. 28.

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Alberto Bentoglio difficile carriera, forse qualcheduno si avanzerà tanto che potrà illustrare il suo nome e la patria con sì fatte rarissime produzioni.¹0

Fra le numerose testimonianze dell’attività della Compagnia reale in questo primo periodo mi limito a ricordare quella di Stendhal che, assistendo ad alcune recite nell’aprile 1817, riserva parole di elogio alla Compagnia reale e in particolare alla abilità di Nicola Pertica protagonista del Poeta fanatico di Goldoni Pertica, que j’ai vu ce soir, est un bon comique, surtout dans les rôles chargés. Il m’a fait bâiller à outrance dans le Poeta fanatico, une des plus ennuyeuses pièces de Goldoni, qu’on joue sans cesse. Cela est vrai, mais cela est si bas! et cela dégrade, aux yeux des gens grossiers, l’être le plus distingué de la nature: un grand poète. Il a été fort applaudi dans le caractère de Brandt, et a mérité son succès, surtout à la fin, lorsqu’il dit à Frédéric II: “Je vous écrirai une lettre”. Ce qui m’a frappé, c’est le public: jamais d’attention plus profonde; et, chose incroyable à Naples, jamais de silence plus complet. Ce matin, à huit heures, il n’y avait plus de billets: j’ai été obligé de payer triple. […] On donnait pour petite pièce La Jeunesse de Henri V, comédie de Mercier, corrigée par M. Duval. Pertica a beaucoup fait rire le prince don Léopold, qui assistait au spectacle.¹¹

A De Marini Stendhal riserva, al contrario, un giudizio piuttosto severo: Les Italiens, et surtout les Italiennes, mettent au premier rang De Marini, que je viens devoir dans li Baroni di Felsheim, pièce traduite de Pigault-Lebrun, et dans les Deux Pages. […]. II suit la nature, mais de loin; et l’emphase a encore des droits plus sacrés sur son cœur. Il a ravi toute l’Italie dans les rôles de jeunes-premiers; maintenant il a pris les pères nobles. Ce genre admettant l’enflure, il m’y a fait souvent plaisir.¹²

Poco oltre possiamo ancora leggere : Madame Tessari, qui joue dans la troupe de De Marini, n’est pas mal dans ce genre. Son mari, Tessari, est un bon tyran. […] Je retourne chez De Marini. Ils ont des habits superbes, toute la dépouille des sénateurs et des chambellans de Napoléon, que ceux-ci ont eu la lâcheté de vendre. Ces habits font la moitié du succès tous mes voisins se récrient.¹³

¹0 Nuova biblioteca analitica di scienze, lettere ed arti, Napoli, tipografia Masi, IV, 1816, pp. 5-6. ¹¹ Stendhal, Rome, Naples et Florence en 1817, Paris, Delaunay, Libraire au Palais-Royal, Galerie-de-Bois et Pélicier, Libraire, au Palais-Royal, Galerie-des-Offices, 1817, pp. 114-116. ¹² Ivi, p. 113. ¹³ Ivi, p. 114-120.

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La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli Incoraggiato dai successi riportati, il 9 novembre 1817 Fabbrichesi propone una nuova conferma del suo contratto questa volta per cinque anni teatrali dal marzo 1819 al marzo 1824, mantenendo invariata la sovvenzione governativa. Egli si impegna a proseguire nella direzione di quella che, non solo a suo dire, è la migliore Compagnia teatrale che esista in Italia. La Cavalletti Tessari, De Marini e Pertica, colonne portanti della Compagnia, ne sono la prova quotidiana. Propone quindi di premiare con aumenti salariali gli altri attori che si sono distinti (fra i quali Demetrio Cristiani che, nel frattempo, ha sposato Geltrude Cavalli, amorosa giovane e Giovanni Visetti che dal debutto della Compagnia è sempre stato apprezzato dal pubblico e ha rimpiazzato con ottimi risultati Francesco Lombardi) e sollecita un intervento governativo che moderi il costo dell’affitto della sala del Teatro Nuovo a suo avviso eccessivamente oneroso. Svolte le consuete indagini, il sovrintendente dei teatri riferisce a re Ferdinando che la situazione della Compagnia non è eccellente, in particolare per soddisfare le esigenze del pubblico napoletano, la Compagnia dovrebbe, a suo dire, essere rinforzata in alcuni ruoli (tiranno e primo amoroso) e il repertorio arricchito con buone traduzioni di commedie francesi alle quali si dovrebbero aggiungere alcune farse per prolungare la durata degli spettacoli serali. Ma il funzionario aggiunge in conclusione che, nonostante ciò, sarebbe praticamente impossibile trovare una Compagnia migliore in tutta la penisola. Anche a seguito di tali osservazioni, Fabbrichesi ottiene la rapida ridefinizione del contratto, la riconferma della sovvenzione e la privativa per la prosa sino al marzo 1824. Al Teatro Nuovo, la Compagnia al servizio di sua Maestà Ferdinando I di Borbone rimane in scena fino al 6 aprile 1818, quando la scadenza del contratto d’appalto stipulato a suo tempo da Domenico Barbaja per il Teatro de’ Fiorentini, permette lo spostamento della Compagnia dal Teatro Nuovo a tale sala. Fabbrichesi, infatti, non si lascia sfuggire l’occasione di potere gestire la più prestigiosa e remunerativa sala napoletana destinata alla prosa e ne richiede formalmente il permesso a re Ferdinando che, non avendo Barbaja opposto resistenza alcuna, la accorda con regio decreto il 4 marzo 1818. Dall’8 aprile Fabbrichesi può così presentare la Compagnia reale sulle scene del Teatro de’ Fiorentini (preso in affitto come impresario per nove anni, sei forzosi e tre di rispetto) dove resterà per sei anni sino alla sua partenza da Napoli. Come si era già verificato per la sala del Teatro Nuovo, nella sua veste di impresario egli programma non solo le opere in prosa eseguite dalla Compagnia reale, ma ospita, nelle sere di riposo, opere in musica, prosa napoletana, balletti, accademie ed ogni altro spettacolo, nessuno eccettuato. Nella programmazione dell’impresa Fabbrichesi ai Fiorentini compaiono così Il Turco in Italia e Il Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, accademie vocali e strumentali - fra le quali alcuni concerti di Niccolò Paganini - esercizi ginnici e fisico-meccanici, divertimenti di ventriloqui e un cospicuo numero di farse napoletane. Gli anni che corrono dall’aprile 1818 all’estate 1820 si rivelano, nel complesso, felici. Il teatro è spesso affollato e, in più occasioni, Ferdinando I e la sua corte onorano della loro presenza la sala de’ Fiorentini 37


Alberto Bentoglio Sabato, la rappresentazione del Teatro de’ Fiorentini era annunziata a beneficio de’ poveri; l’appalto era sospeso, e quattro giorni innanzi non vi erano più biglietti né di platea né di palchi. Speravasi che S. M. sarebbesi recata in quella sera allo spettacolo; le speranze del pubblico non rimasero deluse. Il Re v’intervenne con tutta la sua Augusta Famiglia. Da che la M.S. erasi ristabilita in salute, non era comparsa ancora in quel teatro. La festa era dunque solenne e per la presenza dell’Amatissimo Principe, e per l’uso al quale il prezioso sentimento dell’umanità destinava l’introito. Il cartello annunziava: Il popolo riconoscente e L’ospizio degli orfanelli. La prima di queste due produzioni era opera del nostro Giulio Genoino, colto e gentile scrittore, noto per le sue belle poesie liriche, e per il suo Viaggio poetico pe’ Campi Flegrei. Questo primo drammatico componimento, allusivo alla ricuperata salute del Re, fu eseguito con inimitabile verità da fanciulli di teneri anni. E non poté anzi scegliere migliori interpreti per rendere i pubblici voti con ingenua schiettezza e con quella tenera espansione di cuore che parla sì possentemente ne’ petti dei Napoletani, tutte le volte che loro ritornano al pensiero i benefici ricevuti dal loro amatissimo Ferdinando. Non è possibile concepire i trasporti cui gli spettatori, alla fine di questa breve azione drammatica, si abbandonarono, per fare intendere al Re che il linguaggio, sì felicemente dal poeta a quei fanciulli prestato, era perfetta immagine di quello che parlasi tutti i giorni in seno delle famiglie di sette milioni di sudditi gratissimi. Questa scena veramente deliziosa fu seguita dall’Ospizio degli orfanelli, dramma piangoloso cui bisogna condonare tutti i difetti dell’arte, in grazia delle belle lagrime che chiamerà sulle ciglia delle anime sensitive, sempre che sarà rappresentato da una compagnia di egual valore della nostra e si avrà il vantaggio di avere in De Marinis l’attore per eccellenza, ove trattasi di portare la commozione fino all’ultimo grado. L’introito di questa rappresentazione è stato oltre l’usato abbondante: esso sarà diviso a poverelli della parrocchia dei SS. Giuseppe e Cristoforo.¹4

Inoltre, nonostante la lunga defezione di Giuseppe De Marini nel corso dell’estate 1819 e la successiva malattia di Nicola Pertica, la sala de’ Fiorentini registra in più occasioni il tutto esaurito. Il gusto della buona commedia e della tragedia cresce tra noi di giorno in giorno. È glorioso per la Compagnia Fabbrichesi il vedere tutte le sere il teatro de’ Fiorentini troppo angusto alla folla degli spettatori. Il pubblico sentirà con piacere che l’ottimo Salvatore Fabbrichesi accresce i palchetti di quel teatro, facendone costruire parecchi altri nel palco scenario, senza che con ciò venga questo per nulla ad impicciolirsi.¹5

Applauditi sono in particolare, a fianco degli amatissimi De Marini e Pertica, gli attori Giovanni Battista Prepiani, Alberto Tessari, Giovanni Visetti, Demetrio e Pietro Cristiani, ¹4 «Giornale del Regno delle Due Sicilie», 8 marzo 1819 ¹5 «Giornale del Regno delle Due Sicilie», 26 aprile 1819.

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La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli Francesco Appelli e con loro le attrici Carolina Cavalletti Tessari, Geltrude Cavalli Cristiani, Lucrezia Bettini, Francesca Fabbrichesi e Carolina Barberis. Richiamato dai successi della Compagnia al servizio di Ferdinando I di Borbone, Paolo Belli Blanes - durante una visita privata avvenuta nell’aprile 1819 - incontra Fabbrichesi e la stampa locale non tarda a dare risalto all’arrivo del celebre attore, prospettandone l’ingresso nella Compagnia, come si legge del «Giornale del Regno delle Due Sicilie» In tal modo il nostro teatro avrebbe nel signor De Marini e nel signor Blanes i due illustri corifei della commedia e della tragedia italiana. E bene sono essi degni di essere uniti a formare la delizia di un paese, ove il trasporto per il teatro di prosa eguaglia quello sì vivo ed antico per il teatro di musica, ed ove i grandi attori sono sicuri di essere tutte le sere ammirati dal più bel fiore delle colte e gentili persone.¹6

Nulla di concreto è, tuttavia, realizzato in tale direzione e Blanes, da tempo a capo di una propria Compagnia, riparte da Napoli, con la vaga promessa di farvi ritorno quanto prima. Il 18 gennaio 1820 leggiamo a proposito della rappresentazione della commedia Le Nozze in testamento del già ricordato autore napoletano Giulio Genoino. Originale Italiano del sig. abate don Giulio Genoino napolitano, il quale in questa sua prima produzione teatrale destò meritamente l’entusiasmo de’ suoi concittadini. Il sommo De Marini fece in questa sera la sua recita di benefizio. Nulla diremo dell’incasso sorprendente. Basta sapere che il pubblico adora questo unico attore e che l’introito fu tale da sorpassar quanti ne furono fatti a memoria d’uomini al Teatro dei Fiorentini. Sua Maestà si compiacque di onorarlo. La commedia che si riproduceva per la seconda volta fu sempre più applaudita.¹7

L’attività artistica della Compagnia prosegue, dunque, con regolarità fino al 9 luglio 1820, quando le truppe guidate dal generale Guglielmo Pepe fanno il loro trionfale ingresso in Napoli e sanciscono la vittoria del moto costituzionale sul regime assolutista borbonico. Il repentino sconvolgimento politico ha pesanti ripercussioni sulla vita teatrale della città e Fabbrichesi, la cui devozione ai Borbone è universalmente nota, si trova ad affrontare una situazione delicata e, nel contempo, pericolosa. Come era avvenuto vent’anni prima durante le repubbliche napoleoniche, anche in questo caso, al teatro, soprattutto a quello in prosa, è affidato il compito di fortificare le virtù politiche del ceto popolare. L’impresario, per guadagnarsi il favore dei nuovi venuti, si affretta dunque ad allestire tre tragedie ¹6 «Giornale del Regno delle Due Sicilie», 28 aprile 1819. ¹7 «Giornale delli teatri comici delle città principali d’Italia» in Biblioteca teatrale italiana e straniera, Venezia, presso Giuseppe Gnoato, 1820, pp. 25-26.

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Alberto Bentoglio di Vittorio Alfieri, conformi, a suo parere, al mutato clima politico. Tale scelta, tuttavia, non è apprezzata: Ottavia, infatti, passa quasi inosservata, Antigone è poco apprezzata e la rappresentazione di Mirra desta le immediate rimostranze dell’«Amico della costituzione», foglio patriottico di recente nascita, apertamente ostile al borbonico Fabbrichesi e alla sua reale Compagnia: Noi domanderemo agli autori di questa impresa teatrale: che guadagnerà mai la morale pubblica alla rappresentazione di una favola, di cui il soggetto è un amore orribile, incestuoso e fatale? Che guadagnerà la gloria del poeta? Che guadagnerà l’arte drammatica, offrendo un tal modello alla imitazione de’ nostri poeti? L’unica risposta soddisfacente a tali interrogativi si è che ci guadagna solo l’impresario.¹8

La rappresentazione di altre tragedie di Alfieri, «vero apostolo della libertà», avrebbe potuto essere considerata positivamente. Il quotidiano non manca infatti di indicare in Bruto primo, Agide e Timoleone le «tragedie bellissime per la scuola politica popolare», mentre «per la morale privata” segnala Oreste, Antigone e Agamennone, «nelle quali si vede parlante la gran verità, che il delitto presto o tardi è punito, e che non si è mai senza le debite pene scellerato”. Alle valutazioni negative riservate alla Mirra, apoiché‚ non si cava affatto del bene dagli incesti e dagli orrori teatrali»,¹9 si uniscono le dure parole rivolte alla messa in scena di Antigone, nonostante la buona interpretazione offerta da Alberto e Carolina Tessari, da Geltrude Cavalli e da Giovanni Visetti e l’ottima accoglienza del pubblico che ne richiede la replica la sera successiva Sta di fatto che l’«Amico della costituzione» giudica negativamente l’intera programmazione artistica del Teatro de’ Fiorentini, gli attori della Compagnia, e, soprattutto, il suo impresario: dure critiche sono rivolte all’allestimento del goldoniano Impostore e alle “aristocratiche” scelte di repertorio operate da Fabbrichesi: «L’epoca intanto dell’arbitrio di ogni classe è finita: veggasi se non debba aver un termine il dispotismo degli impresari».²0 Il tono minaccioso è ripreso anche nei giorni successivi, a proposito della modesta e mal terminata recita del dramma I vivi sepolti di Andrea Willi: Che diremo de’ comici? De Marini è sempre lo stesso: negl’altri v’è di che esercitare la virtù del compatimento e della condiscendenza. Ma l’impresario ormai non puote aver più diritto alla pubblica indulgenza, finché‚ con esatte ammende e con migliore condotta, non

¹8 «L’Amico della costituzione», 19 agosto 1820. ¹9 Ivi, 8 settembre 1820. Sulla polemica suscitata dalla messa in scena della Mirra alfieriana si vedano anche gli articoli pubblicati il 26, il 31 agosto e il primo settembre. ²0 Ivi, 3 ottobre 1820.

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La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli voglia placar l’ombra dell’assassinata pazienza pubblica.²¹

Insomma, da questo momento, per Fabbrichesi le cose si mettono male. Le recensioni, via via più ostili, si susseguono a ritmo incalzante: ogni giorno il quotidiano, ricordando lo spettacolo della sera precedente, non manca di accusare l’impresario ora di proporre spettacoli con scene «di eterni colonnati, di sudicie sale e di giardini più antichi di quelli di Semiramide», ora di dirigere una Compagnia che «ha bisogno di nuove e valide braccia che la puntellino perché cade già da tutte le parti», ora di non mettere a disposizione della sua Compagnia teatrale «i poveri ducati ottomila cinquecento pagati dallo stato», ma di farne proprio tesoro. Il pubblico, dal canto suo, assiste sempre numeroso e plaudente alle rappresentazioni offerte dalla Compagnia del Teatro de’ Fiorentini, ma ciò avviene, secondo il foglio patriottico, per la mancanza di svaghi e l’assenza in Napoli di altre valide Compagnie di prosa. La commedia Uno fra quattro ovvero La pretesa ed i pretendenti di Francesco Avelloni, seguita dalla farsa La Conversazione al buio di Giovanni Giraud, Carlotta e Werther di Antonio Simeone Sografi, Francesca da Rimini di Silvio Pellico e altri testi proposti, trasformano, ogni sera, il teatro – afferma il quotidiano – da «scuola di morale» a «spettacolo di corruzione e di perversità» in modo da non permettere a «nessun onorato cittadino napoletano» di ricondurre la sua sposa e le sue figlie agli spettacoli della Compagnia de’ Fiorentini. La violenta campagna denigratoria condotta senza scrupoli dagli elementi più estremisti dell’assemblea costituzionale contro la reale Compagnia, «ciecamente sommessa al suo dispotico invisibile tiranno» e «che la nostra resupina goffaggine soffre ancora di pagare con immense somme del pubblico tesoro», prosegue con un appello rivolto a tutti i giornalisti napoletani affinché‚ denuncino pubblicamente «gli abusi ed i falli del Teatro de’ Fiorentini» e proclamino «la libertà de’ teatri che non suonò mai nel dizionario della giustizia e del buon senso libertà dell’adempimento de’ propri doveri». La libertà si sarebbe, in ogni caso, ottenuta soltanto quando l’impresario fosse stato privato dell’annua sovvenzione «che costui invola al pubblico tesoro» e, nel medesimo tempo, si fosse abolita la privativa teatrale concessa agli attori della Compagnia, definiti «manigoldi del pubblico strazio». L’ingente contributo destinato alla Compagnia del Teatro de’ Fiorentini, sarebbe stato meglio impiegato nel «sovvenir le famiglie di quei prodi che corrono sotto le bandiere della patria per la difesa di essa a cimentar le loro vite». Non ci è dato sapere come Fabbrichesi risponda ai pesanti attacchi dell’«Amico della costituzione» che si riassumono nel motto, coniato per l’occasione, “ci è d’uopo di soldati, non di buffoni». Da un lato, egli dà vita a un concorso rivolto a tutti «i buoni ingegni nazionali» che forniranno «al suo repertorio ottime produzioni comiche e tragiche» garantendo un premio di duecento ducati alla migliore opera teatrale proposta, d’altro lato, tuttavia non modifica concretamente le scelte di repertorio che, fatta eccezione per Il vero cittadino ²¹ Ivi, 17 ottobre 1820.

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Alberto Bentoglio e l’ipocrita «commedia del signor Giulio Genoino, che ebbe iersera felicissimo successo nella prima rappresentazione al Teatro de’ Fiorentini»²² e per due nuovi allestimenti di Polinice e Sofonisba di Alfieri, non si discostano di molto da quelle “moderate” operate degli anni precedenti. La situazione precipita quando le istanze dell’«Amico della costituzione» sono fatte proprie dal colonnello Gabriele Pepe, deputato al Parlamento nazionale, letterato e poeta, il quale, in un primo tempo, si limita a richiedere che l’impresario sia sempre presente in teatro nel corso delle rappresentazioni al fine di non potere «sfuggire le giuste querele del pubblico». Indi, nella adunanza del 17 novembre, presenta una mozione, «veramente spartana», durante la quale inveisce «felicemente e colla maggior luce di vittoriosa ragione contro il distruttivo asiatico lusso de’ nostri teatri, voragine che ingoia un tesoro delle rendite nazionali, nella somma di circa ducati 100.000 fra le spese del Teatro Massimo e quelle del Teatro de’ Fiorentini».²³ In tale intervento, il deputato Pepe considera tendenziosamente la situazione contingente e non esita a proporre con molta energia di abolire gli onerosi contratti di appalto stipulati dal precedente governo sia con Barbaja per i teatri reali, sia con Fabbrichesi per quello de’ Fiorentini: Nel momento in cui vi è d’uopo di ferro e di soldati, in cui la dignità del trono costituzionale e la nostra indipendenza è minacciata, deve certamente destare stupore ed indignazione nel vero patriota che le sostanze dell’industrioso cittadino, dell’affaticato colono e del commerciante benefico, si versino in seno a’ teatri, cioè a ricettacoli dell’ozio e della svenevole effeminatezza d’imbelli costumi.²4

Pepe, tuttavia, tralascia di analizzare la ben più complessa gestione del San Carlo e del Fondo che, nonostante tutto, proseguono la loro programmazione regolarmente, per infierire contro l’impresario […] che oltre all’infelicissimo suo stato, oltre alle tante colpe ch’egli ha commesse per meritare la pubblica indignazione, mostra agli occhi del cittadino costituzionale il monopolio più odioso e degno de’ passati tempi cioè la ingiusta e scoraggiante privativa dalla quale quel teatro ha saputo trarre il profitto maggiore, quello di rendersi unico e di fare portare al pubblico le pene della sua unicità.²5

La mozione, che insiste sulle «spartane virtù» e, soprattutto, sul tema della necessaria ²² ²³ ²4 ²5

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«Giornale costituzionale del Regno delle Due Sicilie», 7 dicembre 1820. «L’Amico della costituzione», 18 novembre 1820. Ibidem. Ibidem.


La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli economia dei fondi pubblici, è caldamente applaudita e accompagnata da due lunghi articoli, pubblicati dall’«Amico della costituzione», che, assumendo atteggiamenti giacobini ormai desueti, si schierano a favore dell’intervento del deputato Gabriele Pepe. Il Ragionamento sulla mozione fatta dal colonnello Pepe deputato al Parlamento Nazionale intorno a’ teatri della capitale si propone di esaminare il contratto stilato da Fabbrichesi con i Borboni e, dopo una sommaria cronistoria del Teatro de’ Fiorentini, un tempo «veramente nazionale», di valutare i risultati che il passato governo si era prefisso nello stilare tale documento. Il risultato è, prevedibilmente, del tutto avverso a Fabbrichesi: si dimostra che egli conduce un mediocre gruppo di attori «ributtati solennemente dal teatro di Milano dove conoscevasi la loro incapacità» e che folle dunque sarebbe il governo nel pagare in contanti la mala fede dell’altro contraente, nel toglier quelle somme alla pubblica difesa, nel sostenere a solo suo danno e colla pubblica indignazione la speculazione di uno straniero il quale se provasse gli stimoli della benefica emulazione, se fosse privato di una privativa eternamente odiosa ed oggi iniqua, perché‚ anticostituzionale, arrossirebbe certo della sua condotta verso una delle più illustri città d’Europa, che ha fatto la sua fortuna.²6

Si aggiunga che, a detta dell’estensore dell’articolo, lo stesso impresario ha, «sin dal giorno della nostra riforma politica», previsto il termine del «suo secolo d’oro» e, per conseguenza, si è già recato personalmente presso la corte di Torino «la quale solennemente lo ributtò, scegliendo a preferenza l’illustre attore Righetti, accompagnato dalle Marchionni madre e figlia e dalla Vidari che faranno l’onore delle scene italiane e ‘l decoro di quel teatro».²7 Ciò che si è detto per il Ragionamento sulla mozione fatta dal colonnello Pepe,²8 è ripreso e ampliato nel secondo articolo dedicato interamente all’analisi dell’organico della Compagnia. Ne nasce un rapporto ambiguo e falso, teso sbrigativamente a screditare con insidioso livore Fabbrichesi e tutti attori da lui dipendenti: Capocomico signor Fabbrichesi: nobilissime sono le sue attribuzioni. Primo. Egli presentasi mensualmente al pubblico tesoro con una carta che gli vale 8.500 ducati annui. In quella carta è scritta in due colonne così: buonafede del governo - malafede dell’impresario, annui ducati 8.500. Egli suda sangue in creare la gloria delle scene. I suoi sforzi sono sempre diretti: 1) a scegliere le pessime fra le produzioni teatrali, 2) a tenere pessimi individui che le eseguiscono, 3) a mantenere pessimo scenario, 4) a ferire la morale

²6 «L’Amico della costituzione», 29 novembre 1820. ²7 Ibidem. ²8 Il documento si può leggere integralmente in Bentoglio, L’arte del capocomico cit., pp. 218-221.

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Alberto Bentoglio pubblica, 5) a corbellare il governo e la nazione. Direttore delle scene signor Giuseppe Checcherini: talento cospicuo ed abilissimo nel guastare i primi capolavori del teatro comico. Ne diede un saggio mirabile nel travestimento della Putta onorata. Signor Tessari. Uno de’ tiranni della scena tragica, ma più pernicioso oppressore e tiranno della pazienza del pubblico. La sua vocazione era di fare il frate: la disgrazia lo fece comico. Signora Tessari. Enciclopedicamente ricca di difetti di ogni classe. Arte e natura congiurarono a farla tal quale ella è. Signor Visetti: può dirsi l’attore di sasso. Egli non commuovesi in viso neppure se addosso gli cade il teatro. La statua di Pigmalione era forse più animata di lui. Il suo equipaggio è miserabile per non far contrapposto alla povertà delle scene. Signor Prepiani: insoffribile nella commedia, poiché collocato per colpa del proteismo teatrale fuori della sua sfera. Signora Bettini: può dirsi la ipecacuana teatrale. Al primo suo comparire vi è rivoluzione ne’ nervi dello stomaco di tutti gli spettatori. Dio la perdoni poiché osa comparir sulle scene, e più perdoni a chi ve la fa comparire. Coniugi Cavalli: buoni e piacevoli, se non gli guastasse il dispotismo dell’impresario col condannarli al proteismo teatrale. Essi son per fuggire da quelle malauguratissime scene. Signor Ferri: può chiamarsi il Lappone della commedia. Dio lo guardi dal cimentarsi mai più colla tragica declamazione. Tutto in lui è lagrimevole, ma di quella classe che desta non compassione, ma indignazione rabbiosa. Cristiani maggiore, Borgo: fan ridere. Compatibili: fan quel che possono. Da nessuno può pretendersi ciò che supera le sue forze. Signor Pertica: attore egregio, ma che infelicemente è sempre ammalato. Egli vorrebbe, ma non può servire il pubblico: l’impresario lo potrebbe, ma nol vuole. La sua borsa è chiusa ad ogni impegno che possa fare onore al teatro, alla capitale che lo possiede e ai suoi doveri. Egli possiede una carta, oltre la designata di sopra, in cui è scritto così: pubblica resupinità - sfrontatezza dell’impresario - ducati 8.500 annui dello stato. Il foglio finisce colle parole della scrittura, proferite da San Pietro: Domine, bonum est nos hic esse.²9

Questa non facile situazione è ulteriormente compromessa dalla pubblica denuncia sporta dai coniugi Demetrio e Geltrude Cristiani, i quali accusano l’impresario di avere abolito d’autorità una serata a loro beneficio precedentemente accordata e di essere «tutto diretto a scoraggiare i comici attori a detrimento del pubblico interesse, riserbando alla sua avidità il risecare il più che può le pingui pensioni che a lui paga lo Stato».³0 È facilmente immaginabile l’effetto che le dichiarazioni ricordate sortiscono sulla pubblica opinione e il foglio patriottico, facendo proprie tali lagnanze, non tarda a commentare severamente «la istoria del fatto, genuina, innegabile», sottolineando che «ogni altro ²9 «L’Amico della costituzione», 1° dicembre 1820. ³0 «L’Amico della costituzione», 25 novembre 1820. Sulla questione interviene anche il «Giornale costitu-

zionale del Regno delle Due Sicilie» del 6 dicembre 1820 con parole di solidarietà verso l’operato dell’impresario. La presenza dei coniugi Geltrude e Demetrio Cristiani nelle successive formazioni dirette da Fabbrichesi ci testimonia che la vertenza sia stata presto risolta e non abbia avuto conseguenze di rilievo.

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La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli ne arrossirebbe se il più vile interesse non velasse sempre gli occhi ad un’anima avara che chiama al suo soccorso l’insulto e la menzogna».³¹ Nel dicembre 1820 il termine della “dittatura” del borbonico Fabbrichesi appare ormai prossimo: se, infatti, Sofonisba di Alfieri, la farsa Il segreto di François Benoît Hoffman e la Covacenere, «parto dell’ingegno dell’impresario», sono colossali fiaschi, accolti dal pubblico con «la tempesta degli urli e de’ sibili», anche la rappresentazione del 28 dicembre de Un buon capo di famiglia «comincia [...] colle grida a coro del pubblico sdegnato: fuori l’impresario, fuori l’impresario». Indi, il pubblico invade il palcoscenico, determinato a punire Fabbrichesi che, nel frattempo, «sbalordito e mezzo morto, dicendo: dove salvarmi dalla tempesta», cerca nella fuga una via di scampo. Ricompariva il pubblico con fiaccole e con in mano gli avanzi de’ rotti scanni in caccia del tiranno teatrale e non trovandolo si disponeva a delle risoluzioni... Quando accorse al clamore il colonnello Pepe, deputato al Parlamento Nazionale. Al suo comparire non si udì che un grido solo di applausi: viva il deputato Pepe! Viva la sua mozione al parlamento contro l’assassinio del pubblico tesoro fatto dagli impresari bricconi!³²

Contrariamente alle aspettative, tuttavia, dal gennaio 1821, gli attacchi del quotidiano si fanno meno frequenti e alla rappresentazione della pièce patriottica Amor di patria, presentata ai Fiorentini il 9 febbraio e replicata al San Carlo alla presenza del principe ereditario Francesco, è tributato un grande successo: Noi crediamo che le mura di quel teatro rimbombino ancora e che il suo pavimento e il suo proscenio vacillino tuttavia alle grida indescrivibili, alle voci patriottiche, al linguaggio di tutte le passioni cittadine per la pubblica causa, sviluppato ieri sera in un modo stupendo alla rappresentazione della nominata commedia, il di cui titolo basta a far conoscere tutte le ragioni del fremito de’ cori napoletani.³³

La recita è intercalata da grida di viva la libertà e viva la costituzione e l’estensore dell’articolo, occupato da questo «vero spettacolo», non ha occasione di dedicare la sua attenzione alla recitazione degli attori. Non è certo questa la sede per narrare come si giunga alla restaurazione dei Borbone che, preceduti dalle truppe austriache, fanno ritorno in Napoli il 24 marzo 1821. È bene tuttavia sottolineare che nei primi mesi del 1821 i gravi problemi contingenti impediscono all’«Amico della costituzione» e al Parlamento nazionale di dedicarsi, come avevano ³¹ «L’Amico della costituzione», 13 dicembre 1820. ³² «L’Amico della costituzione», 30 dicembre 1820. ³³ «L’Amico della costituzione», 10 febbraio 1821.

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Alberto Bentoglio stabilito, alla Compagnia del Teatro de’ Fiorentini, alla quale sono riservate soltanto due brevi recensioni: con la prima si elogia la messa in scena della commedia storica L’abate de l’Epée di Jean-Nicolas Bouilly nell’interpretazione di De Marini, invitando la Compagnia a gridare «all’orecchio dell’impresario per essere arricchita di nuovi collaboratori e per vegliare alla scelta di buone, morali ed interessanti commedia», mentre la seconda si limita ad annunciare una serata a beneficio di Nicola Pertica che torna nuovamente in scena. I successivi rivolgimenti politici decretano la fine delle ostilità contro Fabbrichesi: la mozione di Gabriele Pepe è prontamente archiviata, l’«Amico della costituzione» cessa di esistere e l’impresario, il 27 marzo, riprende il regolare ciclo di recite (interrotto il 20 febbraio) sotto l’egida dell’antico potere politico. Le non indifferenti traversie affrontate durante il moto costituzionale lasciano, tuttavia, un segno profondo nell’animo di Fabbrichesi: probabilmente egli rimprovera al pubblico il repentino mutamento nei confronti della Compagnia reale ma, soprattutto, teme che il contributo destinato al Teatro de’ Fiorentini sia prossimamente azzerato a seguito della grave crisi economica che colpisce il Regno delle Due Sicilie tra l’agosto 1821 e il maggio 1822. Così, se da un lato egli, fiducioso nei buoni rapporti da lui precedentemente intrattenuti con l’Austria, non esita il 26 giugno 1821 a indirizzare all’imperatore d’Austria Francesco I un articolato progetto, proponendo di condurre una Compagnia di attori «per sei anni consecutivi nel Regno Lombardo Veneto cioè da Pasqua 1824 sino alla domenica delle Palme del 1830» con il medesimo organico napoletano, d’altro lato si impegna attivamente nell’organizzazione del concorso destinato a premiare i giovani drammaturghi meritevoli che scrivano opere nuove per la Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini: Ed a questo proposito ci viene appunto alle mani un grande invito diretto a tutti gli scrittori comici e tragici della nostra penisola dal sig. Salvatore Fabbrichesi direttore ne’ passati anni della Compagnia Italiana di Milano, ora impresario e direttore del Teatro Fiorentini in Napoli. Questo capocomico propone un premio di 200 ducati alla migliore tragedia o commedia fra quelle che saranno in quest’anno mandate al concorso in Napoli per essere (dopo un rigoroso esame che ne sarà fatto da sette letterati) recitate su quel teatro.³4

Fabbrichesi accorda inoltre al napoletano Teatro della Fenice, destinato all’opera in musica, che si trova in grande difficoltà, il permesso di fare agire la sua Compagnia di musica nel detto Teatro de’ Fiorentini, in quelle sere però che non agiva la comica Compagnia e ciò per dare sì un divertimento maggiore al

³4 «Biblioteca italiana ossia giornale di letteratura scienze ed arti», VI/XXI, gennaio-febbraio-marzo 1821, pp. 103-104.

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La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli pubblico, un lucro all’impresa Fabbrichesi che per vantaggiare anche quella della Fenice, al quale soffre una scarso introito giornaliero ad oggetto del circo di equitazione formato dirimpetto ad esso teatrino.³5

Nonostante l’opposizione del proprietario della sala de’ Fiorentini, il quale pretende un indennizzo proporzionato ai maggiori incassi previsti dalla nuova programmazione, Fabbrichesi riesce a fare valere i propri interessi e le necessità contingenti. Il 1822 è un anno importante per la Compagnia del Teatro de’ Fiorentini poiché dopo lunghe e complesse trattative, può finalmente annunciare l’ingresso nelle sue fila del celeberrimo attore caratterista Luigi Vestri. Da tempo, infatti, l’impresario aveva intrattenuto fruttuosi rapporti epistolari con Fabbrichesi e già il 4 ottobre 1820 il conte Ludovico Piossasco, incaricato della scelta degli attori della Compagnia Reale Sarda, aveva escluso dal novero dei suoi artisti Vestri perché egli aveva già allora deciso di recarsi a Napoli. La morte di Nicola Pertica,³6 avvenuta il 22 dicembre 1821, a seguito, pare, di un agguato compiuto dai carbonari e della successiva lunga malattia, aveva lasciato un vuoto nell’organico e incoraggiato ad affrettare i tempi. L’8 gennaio 1822, Fabbrichesi richiede dunque un contributo economico straordinario al governo borbonico per fare fronte alla recente perdita di Pertica, alla indisposizione di De Marini, e soprattutto all’imminente arrivo del «meilleur acteur d’Italie et du monde», come lo definiva Stendhal. Vestri, in effetti, raggiunge la Compagnia nella quaresima 1822, come ricorda Antonio Colomberti: Ai primi adunque della Quaresima dell’anno 1822 il Vestri partì per Napoli preceduto dalla fama di essere il solo competitore di De Marini, al quale ritornava a riunirsi dopo di essere stati insieme nella Compagnia Bianchi. Ma De Marini era favorito di quella gran metropoli. La famiglia reale, la corte e l’intiero pubblico n’erano fanatici al punto da non voler ammettere in nessun altro artista il merito di quello. Né soltanto con questa generale opinione doveva il Vestri lottare, ma con la propria celebrità stessa e con la memoria ancor recente dell’estinto Pertica, che aveva per vari anni sostenuto sulle scene de’ Fiorentini lo stesso suo ruolo. Vestri esordì con Il poeta fanatico, del Goldoni. I sedili della platea erano tutti occupati, i palchetti pienissimi, né mancavvi la famiglia reale. Dubitò il Vestri del suo genio, o il silenzio sepolcrale con cui fu accolto reagì tanto su quello da paralizzarlo? Conseguenza dell’uno o dell’altro si fu che, il grande artista non piacque, e

³5 ASNa, f.140. ³6 «Il giorno 22 del corrente cessò di vivere il valente attore della Compagnia Fabbrichesi del Teatro de’ Fio-

rentini, signor Nicola Pertica. S. M. aveagli conceduto una serata a suo benefizio. L’impresario, penetrato dalla situazione della di lui dolente famiglia, rilascia a di lei benefizio quella del 31 dell’andante, sperando che il pubblico, il quale ha sempre dimostrato particolar compiacenza verso il defunto attore, voglia in questa occasione concorrere al sollievo degli orfani figliuoli». («Giornale del Regno delle Due Sicilie», 26 dicembre 1821).

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Alberto Bentoglio per sei mesi dové combattere, ma il vero merito raggiunge o presto o tardi il suo scopo. Venne annunziata la commedia del Barone Cosenza Un odio ereditario, ed in quella, rappresentando il Vestri con insuperabile maestria il Duca di Drombel, fu tale e sì grande il fanatismo da lui destato, che da quella sera divenne il favorito dei Napolitani e divise continuamente col De Marini gli applausi frenetici di quel pubblico che tanto severo si era prima mostrato verso di lui.³7

Le cose, tuttavia, non andarono proprio così: in realtà la prima rappresentazione della commedia in cinque atti Un odio ereditario che riscuote «i più vivi applausi»³8 ha luogo il 24 luglio 1823, più di un anno dopo l’ingresso di Vestri in Compagnia, ed è, quindi, ipotesi credibile che l’attore non abbia dovuto attendere un periodo tanto lungo per ingraziarsi il favore del pubblico partenopeo. Egli propone, infatti, sin dal suo ingresso in Compagnia, le interpretazioni a lui più congeniali e ottiene rapidamente i riconoscimenti dovuti al suo non comune talento, alternandosi, o confrontandosi, con De Marini nelle commedie di carattere e nei più noti testi goldoniani. In questo periodo, l’organico della Compagnia è, inoltre, arricchito dalla giovane ma già promettente Amalia Bettini la quale, a fianco della madre Lucrezia, compare dall’inizio del 1823 per sostenere alcuni ruoli di giovani ingenue. Uscita dall’istituto all’età di quattordici anni, incominciò a calcare la scena con parti di giovani ingenue sotto la direzione di quei due giganti dell’arte drammatica chiamati Giuseppe De Marini e Luigi Vestri e questi si affezionarono tanto alla fanciulla che, necessariamente doveva questa, inspirata dall’arte perfezionata dal primo e dalla spontaneità inarrivabile del secondo, raggiungere in seguito quella celebrità che per vari anni la rese acclamatissima sulle primarie scene della penisola.³9

Da notare infine il rientro di Francesco Lombardi che in questo anno torna a recitare continuativamente con la Compagnia del Teatro de’ Fiorentini dopo avere diretto negli anni precedenti una propria Compagnia e la presenza non meno importante del primo amoroso e primo uomo Francesco Paladini, del secondo caratterista Vincenzo Fracanzani e del brillante Luigi Belisario. L’ultimo anno che Fabbrichesi e la sua Compagnia trascorrono per ³7 Antonio Colomberti, Dizionario biografico degli attori italiani. Cenni artistici dei comici italiani dal 1550

al 1780, compilati dall’artista comico Francesco Bartoli e dall’attore Antonio Colomberti continuati fino al 1880, testo, introduzione e note a cura di Alberto Bentoglio, Roma, Bulzoni, 2010, II, p. 574-575. ³8 Cfr. «Giornale del Regno delle Due Sicilie», 1 settembre 1823. Interpreti della prima rappresentazione sono Giuseppe De Marini (Mastro Paolo), Luigi Vestri (Conte di Rems), Carolina Cavalletti Tessari (Agnese), Francesco Paladini (Enrico), Demetrio Cristiani (Duchino di Gressel), Vincenzo Fracanzani (Don Gregorio), Luigi Belisario (Luigi), Amalia Bettini (Nina), Francesca Dal Dosso (Giulia), Maria Branchi (Cecchina), Andrea Branchi (Giorgio). ³9 Colomberti, Dizionario biografico cit., I, p. 150.

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La Compagnia reale del Teatro de’ Fiorentini di Napoli intero al Teatro dei Fiorentini è un anno nel complesso molto positivo. Dalla Pasqua 1823 al marzo 1824, la Compagnia offre duecentotrenta recite circondata dall’affetto del pubblico napoletano che non perde occasione per frequentare il Teatro de’ Fiorentini. Dal canto suo l’impresario si dedica a individuare una nuova compagnia che possa degnamente sostituire la sua, in prossimità della scadenza del contratto sottoscritto con il governo. Operazione piuttosto complessa, poiché il re Ferdinando I, su parere del consiglio di stato ordinario, ha nel frattempo abolito il contributo economico destinato alla compagnia di prosa per non gravare ulteriormente sulle già dissestate finanze pubbliche. Tale decisione rende quindi difficile la necessaria successione al posto che la Compagnia reale aveva occupato stabilmente da otto anni: se, infatti, è cosa certa che Fabbrichesi sarebbe partito, altrettanto chiara risulta che nessuna compagnia teatrale avrebbe potuto recitate stabilmente nella capitale del Regno delle Due Sicilie senza un contributo del governo. Non viene infatti avanzato alcun progetto per sostituire la Compagnia reale: il solo Barbaja, residente a Vienna, manifesta la volontà «di voler introdurre una Compagnia di prosa [...] che potrebbe risparmiarsi l’assegnamento accordato a Fabbrichesi», ma, a tale proposta, l’impresario non fa seguire alcun progetto concreto. Trovandosi «per l’anno medesimo nell’impresa privativa di Roma», anche Paolo Belli Blanes offre al sovrintendente dei teatri «di sostituirsi colla sua Compagnia a quella di Fabbrichesi, giacché la sorte gli presenta il bene di toccare, per così dire, il confine di questa limitrofo Regno». Tuttavia, il sovrintendente dei teatri e degli spettacoli interrompe sul nascere la trattativa, facendo sapere al celebre attore «che dove voglia venire, potrà farla, assoggettandosi ai regolamenti in vigore come si pratica per ogni altra Compagnia». Sta di fatto che nei primi mesi del 1824, quando ormai il governo non può più procrastinare la scelta di una nuova Compagnia, Fabbrichesi richiede il permesso di inaugurare il teatro de’ Fiorentini con la Compagnia Internari, ma «sotto l’appalto Fabbrichesi». In questo modo, pur dovendo partire da Napoli, egli si impegna a mantenere la carica di impresario della sala napoletana per un altro anno (fino al carnevale 1825), a «fare agire per suo canto e sotto di lui nome» la compagnia diretta da Quinto Mario Internari e a vigilarne le attività.40 La proposta è accolta con favore e all’impresario il 28 febbraio è offerto 40 «Un abbonamento per 240 rappresentazioni, principiando dal dì di Pasqua 1824 a tutto l’ultimo giorno

di Carnevale del 1825, offre il riconoscente impresario Salvatore Fabbrichesi con la comica Compagnia Internari, assicurando che nello zelo almeno non sarà d’altra minore [...]. Quinto Mario Internari non ignoto attore sull’itale scene, ed ora conduttore di una nuova comica Compagnia, ascrive a sua particolare fortuna se nel primo anno della sua teatrale condotta, dato gli viene di prodursi a questo colto pubblico, ed ottenere dalla di lui benignità valevole patrocinio. Omette ogni discorso sull’abilità de’ suoi attori, sulla novità, sulla varietà e valore delle produzioni che andrà di mano in mano esponendo, sopra quanto in fine dal giudizio dipenda dell’illuminato, e cortese uditore. Ciò che promette, si è ordine, precisione, decoro. La speranza animatrice d’ogni onesto desiderio lusinga il rispettoso offerente di un fortunato evento. Questa speranza ha vita dalla innata napoletana gentilezza: da questa esso attende, se potrà meritarlo, il compimento di tutt’i suoi voti. Elenco della Compagnia Internari: prima attrice Carolina Internari, madre nobile Assunta Perotti, altra madre Massimina Dionisi, prima e seconda attrice giovane Adelaide Fabbri, caratterista Anna Taffani, servetta Giuseppina Garofoli, attrici generiche Maria Mari,

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Alberto Bentoglio un inaspettato (anche se modesto) contributo di mille ducati. L’ultima recita della Compagnia reale diretta da Fabbrichesi al Teatro de’ Fiorentini, programmata l’8 aprile 1824, è un evento memorabile: Presa dal Fabbrichesi la risoluzione di partire da Napoli con la sua Compagnia per recarsi nell’Italia centrale, Vestri e De Marini lo seguirono, e nell’ultima recita di quella riunione, della quale i due più celebri dell’arte drammatica facevano parte, infrenabile fu il fanatismo che a questi addimostrò l’accorrente pubblico, e lo stesso re, che facendo per primo il segno dell’applauso, associossi con tutta la corte al generale e strepitoso successo che, sotto l’applauso, nascondeva il dolore di vederli partire.4¹

Nell’aprile 1824 Fabbrichesi parte, dunque, alla volta di Manfredonia per poi imbarcarsi per Trieste, dove è previsto il debutto della sua nuova Compagnia: egli lascia temporaneamente in Napoli, a sostegno della compagnia diretta da Quinto Mario Internari, Francesco Paladini quale primo attore e Demetrio Cristiani quale seconda caratterista. L’impresario conclude, tuttavia, anche la sua collaborazione con Alberto Tessari, Giovanni Battista Prepiani e Giovanni Visetti, i quali restano a Napoli e formano una propria compagnia. Essi scritturano Carolina Cavalletti Tessari, la servetta Carolina Barberis e altri attori che avevano fatto parte dell’organico di Fabbrichesi per recitare, trascorso l’anno destinato alla Compagnia Internari, al Teatro de’ Fiorentini con il titolo di Compagnia reale. Nel marzo 1824 il re concede, infatti, alla “Tessari Prepiani Visetti”4² l’appalto per il «mantenimento della comica Compagnia di prosa italiana nel Teatro de’ Fiorentini dalla Pasqua del 1825 per sei anni consecutivi», garantendo alla nuova Compagnia reale la privativa della prosa e un contributo di quattromila ducati annui.

Annetta Bassi, Maria Tarolfi, primo attore tragico e padre Giacomo Modena, primo attore comico e tiranno Quinto Mario Internari, caratteristi Gaetano Appi Metello, Paolo Tarolfi, Pietro Pin Cristiani, amorosi Antonio Bucciotti, Nicola Tofano e Antonio Carrano, generico dignitoso ed altro padre Angelo Venier, altro tiranno Luigi Garofoli, attori generici Andrea Dionisi, Giuseppe Pedranzani, ragazzi Dionisio Dionisi, Carlo Tarolfi, rammentatore Gesualdo Tolli, macchinista Giovanni Sacchetto». 4¹ Colomberti, Dizionario biografico cit., II, p. 575. 4² Elenco della comica Compagnia di prosa italiana Tessari Prepiani Visetti: madre nobile Teresa Marchionni, prima attrice Carolina Cavalletti Tessari, servetta Carolina Barberis, amorosa giovine Anna Job, seconde donne Enrichetta Miutti, Margherita Bonmartini, Teresa Job, Maria Branchi, padre Giovanni Battista Prepiani, primo attore Giovanni Visetti, tiranno Alberto Tessari, amoroso Giovanni Battista Gottardi, caratterista Francesco Miutti, altro primo attore Luigi Marchionni, secondo amoroso Andrea Pini, secondo caratterista Girolamo Rubelli, secondo padre Luigi Marchesio, attori generici Giacomo Job, Gaetano Maraviglia, Andrea Branchi, Antonio Astolfi, ragazzi Andrea ed Angelina Branchi, macchinisti Luigi Pescatori, Antonio Pescatori, suggeritore Giacomo Canapa, guardarobe Stefano Toti. Il contratto è rinnovato fino al 1840. Dal 1840 al 1845 Giovanni Battista Prepiani, in società con Pietro Monti e Adamo Alberti, firma un nuovo contratto d’appalto per la prosa italiana al Teatro de’ Fiorentini.

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Francesco Cotticelli Considerazioni sul teatro a Napoli negli anni rossiniani

Non ha l’Italia ricusato di accogliere nel suo recinto di simili merci oltramontane, fossero pur di quelle che la sana critica ed un gusto fine riprovano come imbrattate di fangose materie eterogenee. Così le dolorose rappresentazioni di atroci fatti privati […] o tutte tragiche o mescolate di drammi comici, si sono alla rinfusa tradotte e recitate dovunque ascoltansi i commedianti dell’alta Italia.¹

Sono queste le parole con cui l’ormai anziano Pietro Napoli Signorelli, nelle pagine che dedica alle più recenti vicende della tragedia nell’ultima edizione della sua Storia critica de’ teatri antichi e moderni del 1813, passa a concentrarsi sulle scene italiane, in ossequio a un metodo comparatistico a lungo sperimentato in materia teatrale.² Ma v’è qualcosa di sottile e di nuovo in questo incipit, icastico e amaro oltre ogni più ferma presa di posizione contro gli usi e i costumi di altre civiltà, ogni contrasto ideologico e di gusto: il valore spregiativo dato a “merci” tradotte alla rinfusa non è avulso dal peso sempre meno incisivo di una critica ancorata ai suoi principi, e travolta dalle esigenze di commedianti alla perenne ricerca di un repertorio. Lo sforzo di guardare a ogni nazione in un mosaico che ha voluto e saputo considerare l’arte rappresentativa come un luogo privilegiato di dialogo, sia pur entro marcate differenze, non riesce a nascondere una doppia, insidiosa subalternità: quella verso modelli forestieri ormai assunti pedissequamente (siamo lontani dalla vis polemica che aveva contraddistinto almeno l’ultimo quarto del secolo appena trascorso), e quella verso una prassi incontrollata, proiettata su un mercato esteso e insofferente a qualsiasi

¹ Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi […], tomo X, parte

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II, Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1813, pp. 3-4. Sulla complessa vicenda editoriale dell’opera, apparsa per la prima volta sul finire degli anni Settanta, si vedano Lucio Tufano, Pietro Napoli Signorelli e la musica a Napoli nella seconda metà del Settecento. Pagine inedite dal Regno di Ferdinando IV, in Studi per Marcello Gigante, a cura di Stefano Palmieri, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 457-495 e Francesco Cotticelli, Prolegomeni a Pietro Napoli Signorelli, in Denn Musik ist der größte Segen... Festschrift Helen Geyer zum 65. Geburtstag, hrsg. von Elisabeth Bock und Michael Pauser, Sinzig, Studio Verlag, 2018, pp. 51-60. Cfr. Franco Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, Giardini, 2002, pp. 407–425.

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Francesco Cotticelli dettame di regola, di distinzione di genere.³ Forse nessun giudizio esprime più sinteticamente il diffuso senso di smarrimento che buona parte dell’intellighenzia di primo Ottocento prova dinanzi allo spettacolo di un’epoca nuova, in un frangente in cui convivono drammaticamente le illusioni di chi è proiettato in una dimensione politica e sociale definitivamente mutata e quelle di chi combatte per un ritorno al passato. A Napoli – si è detto – il clima convulso di una stagione di rapidi sommovimenti istituzionali assume sub specie theatri i contorni del rimpianto di un primato perduto,4 se è vero che, in fasi alterne, alcuni episodi significativi nascono dal presupposto di tracciare un bilancio dalle recenti vicende del Regno: basterebbe por mente all’edizione delle Opere di Giovanni Battista Lorenzi, che tra 1806 e 1807 ripercorre nelle pagine introduttive cinquant’anni di produzioni dilettantesche, accademiche e professionistiche nella consapevolezza di un mondo ormai tramontato, ma additando quella comicità a esempio da non dimenticare,5 o a I Pittagorici di Monti e Paisiello nel 1808, che – accanto a ben più meditate forme di storicizzazione – guardano alla rivoluzione del 1799 in chiave allegorica, non senza muoversi in un’ambiguità di fondo.6 Ovvero, anche laddove lo scarto fra il passato e presente si fa materia e sostanza d’arte e tende a essere enfatizzato, è il rituale celebrativo in cui l’opera si iscrive che segna una continuità con l’antico: una dialettica che attraversa l’intero decennio francese, e sul piano dell’amministrazione e dell’organizzazione del settore introduce cambiamenti decisivi e costituisce un punto di non ritorno rispetto ³ Sulle vicende del teatro nel Settecento a Napoli cfr. – a parte l’opera di Benedetto Croce, I teatri di

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Napoli. Sec. XV-XVIII, Napoli, Pierro, 1891 – il classico Franco Carmelo Greco, Teatro napoletano del ’700. Intellettuali e città fra scrittura e pratica della scena, Napoli, Pironti, 1981. Sulle vicende del secolo si veda anche Storia della musica a Napoli. Il Settecento, a cura di Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione, Napoli, Turchini edizioni, 2009. Si veda anche Melanie Traversier, Gouverner l’opéra. Une histoire politique de la musique à Naples, 1737-1815, Rome, École française de Rome, 2009. È la formula usata da Tobia Raffaele Toscano, Il rimpianto del primato perduto. Studi sul teatro a Napoli durante il Decennio francese (1806-1815), Roma, Bulzoni 1988. Opere teatrali di Giambattista Lorenzi napolitano. Accademico Filomate, tra’ Costanti Eulisto, e tra gli Arcadi di Roma Alcesindo Misiaco, Napoli, nella Stamperia Flautina, 1806-1813. Ma forse sull’esigenza di rileggere il passato recente e di fornirne un primo inquadramento storico – sulla scia del saggio di Cuoco e della sua risonanza – esemplare è il lavoro di Sigismondo, per cui si veda Giuseppe Sigismondo, Apoteosi della musica del Regno di Napoli, a cura di Claudio Bacciagaluppi – Giulia Giovani – Raffaele Mellace, con un saggio introduttivo di Rosa Cafiero, Roma, SEdM, 2016. Friedrich Lippmann, Un’opera per onorare le vittime della repressione borbonica del 1799 e per glorificare Napoleone: «I Pittagorici» di Vincenzo Monti e Giovanni Paisiello, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di Lorenzo Bianconi e Renato Bossa, Firenze, Olschki, 1983, pp. 281-306; Marina Mayrhofer, Drammaturgie della Rivoluzione: tre drammi per musica di scuola napoletana, in Napoli 1799 fra storia e storiografia, a cura di Anna Maria Rao, Napoli, Vivarium, 2002, pp. 565-595; Ead., Morfologie e maniere nel tardo stile di Paisiello: «I Pittagorici», dramma in un atto solo di Vincenzo Monti, in Giovanni Paisiello e la cultura europea del suo tempo, a cura di Francesco Paolo Russo, Lucca, LIM, 2007, pp. 75-98; Lucio Tufano, Costruire la regalità. Feste teatrali e cerimonie con musica a Napoli tra Giuseppe e Gioacchino (1806-1815), in Musica e spettacolo a Napoli durante il decennio francese (1806-1815), a cura di Paologiovanni Maione, Napoli, Turchini 2016, pp. 69-153: 91-96


Considerazioni sul teatro a Napoli negli anni rossiniani alle ultime fasi settecentesche, ma nei cerimoniali di corte come nelle pratiche quotidiane non si discosta completamente dai ritmi e dalle consuetudini del mestiere.7 È una considerazione basilare: non è facile conciliare nella visione critica – ancor più di prima – lo sguardo al teatro come luogo di dibattimento di temi e questioni, che si concretizza spesso nella forma del libro,8 con la policroma, multiforme attività delle sale cittadine, che vivono all’ombra di quello o perseguono logiche del tutto peculiari alla loro tradizione o alle ragioni dell’impresa, sulla scia di un trasformismo che è il risvolto meno edificante di una temperie storica. È quel che rende prezioso il tassello di Napoli Signorelli, il trapasso dalla letteratura alla scena, una programmazione che accoglie qualsiasi novità in linea con un’offerta ricca e cadenzata, mentre la circolazione peninsulare di testi e compagini lascia pensare a una modifica di circuiti, di “teniture”, che è davvero presagio di un altro mondo. Secondo una suggestione di Franco Carmelo Greco Tra rappresentazione anteriore alla rivoluzione del ’99 e rappresentazione ad essa successiva, si avverte che qualcosa è cambiato sul piano ideologico generale nel modo in cui il teatro napoletano si propone nei confronti della realtà9

e di se stesso, naturalmente. L’arrivo di Rossini a Napoli si colloca poco prima di due altri eventi altamente simbolici: l’incendio del San Carlo, nel Febbraio del 1816,¹0 e la morte di Paisiello, nel Giugno di quello stesso anno.¹¹ Nel primo caso, la ricostruzione, in piena restaurazione borbonica, era metaforicamente un ripensamento o una riconferma delle funzioni di una sala che aveva assolto dalla sua fondazione le funzioni di un instrumentum regni perfettamente integrato nelle logiche propagandistiche e di consenso dell’ancien régime; quanto a Paisiello, si spegneva con lui l’ultimo compositore che aveva saputo racchiudere in sé il senso di una fortissima identità “napoletana” con una straordinaria capacità di 7 Per la storia dello spettacolo si veda il recente Musica e spettacolo a Napoli durante il decennio francese cit. 8 Un omaggio alle riflessioni critiche di un uomo di teatro come Ferdinando Taviani, che ha additato nella “forma del libro” la realizzazione del teatro (e spesso la sua sopravvivenza): cfr. Ferdinando Taviani, Attilia o lo spirito del testo, in Il magistero di Giovanni Getto. Lo statuto degli studi sul teatro. Dalla storia del testo alla storia dello spettacolo, Genova, Costa & Nolan, 1993, pp. 261-286; Id., Uomini di scena. Uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Bologna, il Mulino, 1995. 9 Franco Carmelo Greco, La scena illustrata. Teatro, pittura e città a Napoli nell’Ottocento, Napoli, Tullio Pironti editore, 1995, p. XII. ¹0 Sul valore simbolico dell’evento, immortalato anche da un celebre dipinto, cfr. ivi, pp. XIV-XV. Sulla ricchezza di implicazioni del soggiorno napoletano di Rossini si vedano anche le pagine in Gioachino Rossini, Lettere e documenti. I. 29 febbraio 1792-17 marzo 1822, Pesaro, Fondazione Rossini, 1992, in particolare pp. 65-592. ¹¹ Per un profilo del compositore (con il rammarico che il recente bicentenario non abbia promosso occasioni di studio e rilettura della sua opera) si rinvia alla voce di Lorenzo Mattei in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 80, 2014, <https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-paisiello_%28Dizionario-Biografico%29> (ultima consultazione 7 dicembre 2020).

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Francesco Cotticelli apertura ad altri ruoli e ad altri contesti, con una dose di spirito d’avventura e di adattabilità che possono apparire incomprensibili al di fuori delle dinamiche sociali di un artista nel Settecento. Sembrava davvero che calasse il sipario su tempi irripetibili. Eppure, l’espansione dei centri di spettacolo nella capitale non conosceva battute d’arresto. Stando alle brevi informazioni riportate alla fine dei fogli del «Giornale [del Regno] delle Due Sicilie»,¹² in città dal 1815 erano attivi, oltre ai due teatri regi, il San Carlo e il Fondo,¹³ i gloriosi Nuovo e Fiorentini,¹4 il San Carlino¹5 e la Fenice (quest’ultimo inaugurato nel 1805 in un rapporto controverso con la sala dei Tomeo e di Cammarano),¹6 il San Ferdinando¹7 e i teatri della Sorte, della Posta e di Fontana Medina.¹8 Questi ultimi, ¹² Sulla stampa periodica napoletana si veda Alfredo Zazo, Il giornalismo a Napoli nella prima metà del seco-

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lo XIX, II ediz., Napoli, Procaccini, 1985; per una panoramica sull’importanza delle fonti giornalistiche per il dibattito culturale cfr. lo studio di Loredana Palma, Genesi e forme dell’appendice ottocentesca. «L’Omnibus» di Napoli durante il decennio preunitario, tesi di Dottorato di ricerca in Italianistica con particolare attenzione alla letteratura meridionale, IX ciclo, 1999. Per la storia dei teatri si vedano Il Teatro di San Carlo 1737-1987, 3 voll., a cura di Bruno Cagli e Agostino Ziino, Napoli, Electa, 1987; Il Teatro di San Carlo, 2 voll., Guida, Napoli, 1987; Il Teatro del Re. Il San Carlo da Napoli all’Europa, a cura di Gaetana Cantone e Franco Carmelo Greco, Napoli, ESI, 1987; Real Teatro di San Carlo, a cura di Cesare De Seta, Milano, Franco Maria Ricci, 1987; Il Teatro Mercadante. La storia. Il restauro, a cura di Tobia Raffaele Toscano, Napoli, Electa, 1989. Ulteriori riferimenti per gli anni in questione sono in Bruno Cagli, Al gran sole di Rossini, in Il Teatro di San Carlo 1737-1987 cit., pp. 153-175; Id., All’ombra dei gigli d’oro, in Rossini 1792- 1992, a cura di Mauro Bucarelli, Perugia, Electa 1992, pp. 161-196; Paologiovanni Maione – Francesca Seller, Gioachino Rossini, «Protagonisti nella Storia di Napoli», III, Napoli, Elio De Rosa Editore 1994; Id., Scene musicali a Napoli nel primo Ottocento, in Passatempi musicali. Guillaume Cottrau e la canzone napoletana di primo ’800, a cura di Pasquale Scialò e Francesca Seller, Napoli, Guida 2013, pp. 87-98. Anna Scalera, Il Teatro dei Fiorentini dal 1800 al 1860, Napoli, Melfi & Joele, 1909; Felice De Filippis – Mario Mangini, Il Teatro «Nuovo» di Napoli, Napoli, Berisio, 1967. Salvatore Di Giacomo, Cronache del Teatro San Carlino. Contributo alla storia della scena dialettale napoletana: 1738-1884, Napoli, s.e., 1891 (una riedizione presso Trani, Vecchi, 1895; si è consultata la Storia del Teatro San Carlino 1738-1884, Napoli, Berisio, 1966 – sulle vicende del testo si veda anche Ornella Petraroli, La Cronaca del Teatro San Carlino di Salvatore Di Giacomo, tesi di Dottorato in Filologia Moderna, Ciclo XXII, Università degli Studi di Napoli Federico II, 2009. Cfr. Alessandro De Simone, I teatri popolari di Napoli nell’Ottocento, Napoli, A. De Frede, 2013, 2 tomi, I, p. 432 («Il novello teatro, costruito nello Stallone della Posta vecchia, sorgeva nel Largo del Castello all’angolo della Via di Santa Brigida ai numeri 56, 7, 58 e 59 corrispondenti ai locali di una vasta scuderia dell’antico Palazzo della Regia Posta, che in seguito ad un incendio era stata trasferita in un edificio sito alla Piazza Francese, alle spalle del Teatro del Fondo, nei primi anni dell’Ottocento e, secondo il Chiarini, sicuramente prima della dominazione francese (1805-1815), dato che collima perfettamente con la nominata richiesta alla Sovrintendenza degli Spettacoli») e pp. 431-492. Cfr. ivi, pp. 629-638. Ivi, p. 212 (Il Teatro della Sorte «fondato nel 1810, sorgeva nei locali dell’antico refettorio del Conservatorio della Pietà dei Turchini. […] cominciò la sua attività il 26 gennaio 1813 con lo spettacolo intitolato Il nemico generoso seguito da un’azione mimica»); per il Sebeto cfr. ivi, pp. 531-574; per il Teatro di Fontana Medina ivi, pp. 293-298; per la Posta ivi, pp. 222-224. Si veda anche Anselmo Fiordelisi, La storia d’un “Casotto”, Napoli, Gennaro Priore Editore, 1899.


Considerazioni sul teatro a Napoli negli anni rossiniani in verità, furono esperimenti cui non arrise particolare fortuna, investimenti che riuscirono a collocarsi per poco tempo poco al di sopra dello status organizzativo e artistico degli innumerevoli casotti disseminati lungo le direttrici di fuga dal Largo di Castello, vero cuore pulsante di un quartiere dello spettacolo idealmente delimitato dalle due sale direttamente gestite dalla corte.¹9 Si delineava così quella «topografia della fruizione»²0 che avrebbe caratterizzato la vita teatrale della capitale fino alla metà del XX secolo, ma che, nell’altissima concentrazione di imprese medie o piccole a ridosso dei monumenta settecenteschi in questa precisa fase storica, lascia trapelare aspetti e problemi della scena che investono tanto attori, compagnie, gestori quanto un pubblico socialmente eterogeneo. Se si eccettua la privativa dell’opera seria in musica e il ballo per il San Carlo e le compagnie lombarde al Fiorentini²¹ (celebre il soggiorno della troupe di Fabbrichesi tra 1816 e 1824²²), ogni tentativo di specializzare l’offerta o di assicurarsi il monopolio di un’offerta non sortì mai gli esiti sperati. Ne consegue una pronunciata fluidità tra le possibili opzioni in campo, musica e/o prosa, commedia in lingua e/o in dialetto napoletano – anche i centri che più si identificano con la tradizione “nazionale” avevano in realtà cartelloni assai variegati –, tragedie e/o farse, senza soluzione di continuità. Per circa un ventennio il San Carlino e la Fenice, la cui attività partì dal rilevamento della compagnia dell’altra sala al tramonto dell’astro Cammarano-Giancola²³ in un momento di effettivo disorientamento dopo decenni di successi, si contesero fonti d’ispirazione e spettatori a colpi di rimaneggiamenti di Francesco Cerlone,²4 opere buffe e drammi all’insegna delle contaminazioni più ¹9 Un prospetto delle sale attive a Napoli nel XIX secolo è in De Simone, I teatri popolari di Napoli nell’Otto-

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cento cit., II, pp. 1051-1084. Sul dinamismo e sul metamorfismo della scena cittadina interessanti le considerazioni svolte da Franco Carmelo Greco, La scena illustrata cit., pp. XVIII-XXII (capitolo 4 L’impresa del teatro). Emma Giammattei, Tempi e luoghi della parodia: Scarpetta al Mercadante, in Il Teatro Mercadante cit., pp. 217-229: 217. È in sostanza l’unico principio organizzativo della realtà teatrale napoletana che resiste nel tempo; i diversi tentativi di accaparrarsi il monopolio di un genere - o di mettere in discussione il primato di altre strutture – come quelli che scandiscono i rapporti fra San Carlino e Fenice nel primo ventennio del secolo non sortirono altro effetto che quello di ribadire il solo privilegio dei due maggiori teatri in un segmento specialistico dell’offerta. Imprescindibile il riferimento ad Alberto Bentoglio, L’arte del capocomico: biografia critica di Salvatore Fabbrichesi (1772-1827), Roma, Bulzoni, 1994. Su Vincenzo Cammarano cfr. Croce, I teatri di Napoli cit., pp. 475-477 e Di Giacomo, Cronaca del Teatro San Carlino, Trani, Vecchi, 1895, pp. 183-185 Risale al periodo 1825-1829 la ristampa delle Commedie di Francesco Cerlone napoletano presso Napoli, Francesco Masi. Sono anche quelli gli anni in cui il repertorio dell’autore settecentesco continua a tenere banco nelle sale cittadine, nelle prime stagioni della Fenice, ad esempio, prima che la sua fama tramontasse (travolta anche da una vulgata tardo-ottocentesca a lui di certo non favorevole) e i suoi testi non venissero più riproposti. Sull’autore cfr. Croce, I teatri di Napoli, cit., pp. 460-477; Vittorio Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida, 1992 (ristampa dell’edizione ivi, 1969), pp. 335-389; Francesco Cotticelli, Problemi della drammaturgia di Francesco Cerlone. Appunti sui drammi esotici, in Le arti

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Francesco Cotticelli ardite, come lamentava Napoli Signorelli. Un viaggiatore scriveva: dans ces petis théâtres, on entend souvent de la bonne musique et l’on y voit des jolies scene; quelques-unes sont de Goldoni, mais chargées et métamorphosées en opéra; d’autres sont tradite du françois et arrangées dans le goût italien: l’histoire de France et celle d’Angleterre sont mises à contribution pour amuser un peuple, qui ne connoît pas même celle de son pays; les mœurs locales et celles du temps n’y son pas trop observées […] nous avons assisté à la répresentation de Henri IV, ou le passage de la Loire: Polichinelle jouoit un grand rôle dans cette derniere pièce […]²5

A scorrere le laconiche informazioni sui titoli in scena riportati dal «Giornale del Regno delle Due Sicilie» (è davvero raro trovare interventi critici più dettagliati, soprattutto per la prosa), emerge una concorrenza serrata, anche se si tiene conto del probabile dislivello delle produzioni. Si pensi alla messinscena de Il convitato di pietra alla Fenice dal 28 al 30 gennaio del 1817²6 – tenitura insolita in questa sede, ma alquanto consueta al Nuovo o al Fiorentini, dove un allestimento ha vita più lunga all’interno di una stessa stagione – che fa seguito ad un omonimo spettacolo al Casotto alla Posta il 27.²7 Se però l’indicazione “musica” per le messinscene alla Fenice lascia pensare alla ripresa di uno dei capolavori della stagione tardo settecentesca, alla Posta il plot del Burlador è inserito in una serie di occorrenze delle antiche, e a quanto pare mai tramontate, commedie dell’Arte: valga l’esempio delle

della scena e l’esotismo in età moderna, a cura di Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione, Napoli, Turchini editrice, 2006, pp. 383-420; Id., Il teatro recitato, in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Settecento cit., pp. 455-510: 487-497; Anna Scannapieco, Da Venezia a Napoli. Da Goldoni a Cerlone, «Studi goldoniani» XVII, 2020, pp. 27-54. A titolo di esempio, Il cavaliere napolitano in Costantinopoli è dato al San Carlino il 5 febbraio 1816 e il 23 novembre 1821, ma il titolo è ripetutamente ai Pupi alla Posta tra 1818 e 1820; l’Aladino è alla Posta tra 1815 e 1816, anno in cui approda al San Carlino (Aladino è anche il balletto che debutta al San Carlo il 4 ottobre del 1819); San Carlino, Fontana Medina, Posta si contendono Il Colombo nell’Indie (o Il Colombo) tra 1816 e 1820; L’amor di figlio posto a cimento è al San Carlino il 7 agosto 1815. ²5 George Mallet, Voyage en Italie dans l’année 1815, Paris, Paschoud, 1817, p. 204. ²6 «Giornale del Regno delle Due Sicilie» 29-30 gennaio 1817. Alle informazioni desunte direttamente dal periodico si è affiancata la consultazione di una cronologia degli spettacoli a Napoli negli anni di Rossini – I teatri di Napoli nell’età di Rossini (1815-1822): [materiali per] sette stagioni di opere, balli, cantate, accademie e spettacoli in prosa – a cura di Rosa Cafiero, in fase avanzata di allestimento per la pubblicazione. Ringrazio l’amica Rosa per avermene consentito la consultazione anticipata. Il titolo è anche alla Posta il 14 febbraio e al San Ferdinando il 15 e il 26 febbraio 1816, con molte riprese in prosa e in musica nelle varie sale fino al 1822. ²7 «Giornale del Regno delle Due Sicilie» 27 gennaio 1817.

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Considerazioni sul teatro a Napoli negli anni rossiniani Metamorfosi di Pulcinella,²8 de Le novantanove disgrazie,²9 del Pietro Barliario,³0 il che, tra l’altro, servirebbe pure a cogliere quanto il melodramma primo-ottocentesco recuperi alcune suggestioni per via della vitalità che molte trame vetuste ancora possono vantare sui palcoscenici dell’epoca.³¹ Per il Convitato, che si tratti della versione di Abri desunta da Perrucci (l’ultima ristam²8 Ha questo titolo il quinto scenario della Selva di Placido Adriani, il manoscritto conservato alla Biblioteca

Comunale di Perugia (A 20), ma di pièces à transformation relative alla celebre maschera vi è ampia testimonianza anche nella Raccolta Casamarciano (Biblioteca Nazionale di Napoli, mss. XI AA 40 e 41 – cfr. The Commedia dell’Arte in Naples. A Bilingual Edition of the 176 Casamarciano Scenarios = La Commedia dell’Arte a Napoli. Edizione bilingue dei 176 Scenari Casamarciano. Volume 1. English edition (eds.. Thomas F. Heck, Anne Goodrich Heck and Francesco Cotticelli); Volume 2. Edizione italiana. Introduzione, nota filologica, bibliografia e trascrizione di Francesco Cotticelli, Lanham, Md. & London 2001. Per ulteriori informazioni cfr. il classico Anton Giulio Bragaglia, Pulcinella, Firenze, Sansoni, 1982 (rist. dell’ed. Roma, Casini, 1952), pp. 523-597, in particolare pp. 537-538 e p. 577 e, quanto alla frequenza del tema negli scenari dell’Arte, Thomas F. Heck, Commedia dell’Arte: A Guide to the Primary and Secondary Literature, Lincoln, Ne, 2000 (ediz. aggiornata della prima pubblicata a New York-London, Garland, 1988), pp. 332-356. Sulla maschera e il suo secolare successo cfr. Benedetto Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia, Roma, Loescher, 1899; Quante storie per Pulcinella / Combien d’histoires pour Polichinelle, a cura di Franco Carmelo Greco, Napoli, ESI, 1998; Pulcinella: una maschera tra gli specchi, a cura di Franco Carmelo Greco, Napoli, ESI, 1990; Pulcinella maschera del mondo. Pulcinella e le arti dal Cinquecento al Novecento, catalogo della mostra, a cura di Franco Carmelo Greco, Napoli, Electa, 1990; Romeo De Maio, Pulcinella. Il filosofo che fu chiamato pazzo, Firenze, Sansoni, 1989; Luigi Maria Lombardi Satriani – Domenico Scafoglio, Pulcinella. Il mito e la storia, Milano, Leonardo, 1992. Negli anni rossiniani la pièce è data in prosa, in musica, in versione di teatro di figura. ²9 Anche questo tema discende direttamente dalle esperienze dell’Arte, con Pulcinella forestiero (e altrove diversi tipi comici) al centro di raggiri tesi a evitare il suo matrimonio con una donna a lui promessa ma innamorata di un altro uomo. Le disgratie di Pollicinella è il ventitreesimo scenario del ms. XI AA 40 della Biblioteca Nazionale di Napoli (cc. 73v-78r); il plot resta fra le storie di maggior successo relative alla maschera, con interessanti riprese otto-novecentesche. Al ³0 Casotto della Posta il 18 gennaio 1817. Il tema della conversione del potente mago doveva essere molto caro alle scene secentesche (Croce, I teatri di Napoli cit., p. 156 dà notizia della rappresentazione il 21 dicembre 1665 de La conversione di Pietro Bailardo da parte di comici italiani, desumendola da Fuidoro) e affine alla drammaturgia della santità largamente attestata all’epoca (cfr. Franco Carmelo Greco, Drammaturgia della santità a Napoli in età barocca, in I santi a teatro. Da un’idea di Franco Carmelo Greco, a cura di Tonia Fiorino e Vincenzo Pacelli, Napoli, Electa, 2006, pp. 25-33). Barliario è l’ottantacinquesimo scenario del ms. XI AA 40 della Biblioteca Nazionale di Napoli (cc. 268r - 270r); sul tema cfr. anche Romeo De Maio, Pittura e Controriforma a Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 205-211. Sono molto più numerosi i titoli che evocano l’Arte: lo Spirito folletto dato al San Carlino il 26 settembre del 1821 (dalla Dama duende di Calderón), L’oggetto odiato fra l’Ottobre 1818 e il Maggio 1819, prima di approdare nell’autunno successivo al Teatro dei Pupi al Molo, I due Pulcinelli simili fra Fontana Medina e Posta tra 1815 e 1816, prima di riprese tra 1818 e 1819, Il guardare la donna (forse dal Non può essere dal No puede ser di Mira de Amescua, o dal Casa con dos puertas mala es de guardar da Calderón) il 5 agosto 1815 a Fontana Medina, dove il 9 settembre e il 25 dicembre dello stesso anno va in scena Sansone ebreo e il 4 novembre Bernardo del Carpio, Il figlio prodigo alla Posta il 19 marzo 1816 (poi anche al Teatro della Sorte) ³¹ La considerazione affiora anche per altri plots: cfr. Francesco Cotticelli, Belisario. Appunti di una storia teatrale, «Il Risorgimento» LXVI/I, 2019, pp. 72-92.

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Francesco Cotticelli pa è del 1810³²) o di un aggiornamento dei vecchi canovacci poco importa: sono prove che si alternano e si mischiano con gli esiti del teatro “riformato”, omologato all’uso degli attori e del gusto del pubblico. Anche a Napoli si ha conferma de «gli erari vastissimi del repertorio goldoniano»:³³ I quattro rusteghi,³4 Il burbero di buon cuore³5 sono, accanto a imitazioni sulla falsariga del commediografo, tra le punte di diamante del Nuovo, e spiegano la familiarità con una drammaturgia che rese possibile l’operazione di adattamento napoletano di alcuni capolavori (come Le baruffe divenute L’appicceco de le funnachere de

³² Il Nuovo Convitato di pietra Opera tragica ridotta nella forma in cui oggi si rappresenta dal sig. Michele Abri

[…], In Napoli DCCXXV (sic), per Gio: Francesco Paci; Il Nuovo Convitato di pietra Opera tragica Ridotta nella forma in cui oggi si rappresenta dal Sig. Michele Abri […], In Napoli, a spese di Angela Morolla […], s.d. ma databile fra gli anni 1740-1750; Il Nuovo Convitato di pietra Opera tragica Ridotta nella forma in cui oggi si rappresenta dal Sig. Michele Abri […], In Napoli, per Gio: Francesco Paci, 1764; Il Nuovo Convitato di pietra Opera tragica Ridotta nella forma in cui oggi si rappresenta dal Sig. Michele Abri […], In Napoli, per Domenico Sangiacomo, 1799; Il Nuovo Convitato di pietra Opera tragica Ridotta nella forma in cui oggi si rappresenta dal Sig. Michele Abri […], Napoli, presso Domenico Sangiacomo, 1810. L’opera riproponeva in una forma riattualizzata la versione del plot data alle stampe da Perrucci nel 1690 (cfr. Convitato di pietra, opera tragica ridotta in miglior forma & abbellita dal Dottor Enrico Predaurca dedicato al Sig. Lorenzo Massari, In Napoli, Per Gio: Francesco Paci, M.DC.XC – si vedano anche Andrea Perrucci, Il convitato di pietra, a cura di Roberto De Simone, Einaudi, Torino, 1998; l’edizione originale (1690) è riprodotta anastaticamente in Don Giovanni, dal mito popolare a Mozart, a cura di Filippo Arriva ed Eugenio Ottieri, Napoli, Edizioni del Teatro di San Carlo, 1995, pp. 99-204). Sulla complessa relazione intertestuale cfr. Francesco Cotticelli, Burladores e convitati a Napoli fra Sei e Settecento, da Perrucci ad Abri (ed oltre), in Ricerche sul teatro classico spagnolo in Italia e oltralpe (secoli XVI-XVIII), a cura di Fausta Antonucci e Salomé Vuelta García, Firenze, Firenze University Press, 2020, pp. 219-235. Va da sé che il tema ebbe altre attestazioni nel Settecento in area napoletana; basterebbe por mente all’opera di Tritto-Lorenzi (cfr. Li due gemelli ed Il convitato di pietra commedie di un atto per musica di Giambattista Lorenzi P.A. da rappresentarle nel Nuovo teatro de’ Fiorentini nel carnevale del corrente anno 1783 […], In Napoli 1783), e un Nuovo convitato di pietra apparso nell’edizione romana delle commedie di Cerlone nel 1789. Per un’analisi complessiva dei testimoni del plot si veda Hans Ernest Weidinger, Il Dissoluto punito. Untersuchungen zur äußeren und inneren Entstehungsgeschichte von Lorenzo Da Pontes & Wolfgang Amadeus Mozarts Don Giovanni, Dissertation zur Erlangung des Doktorgrades der Philosophie an der Human und Sozialwissenschaften Fakultät der Universität Wien, 2002. ³³ Cfr. Anna Scannapieco, «…gli erari vastissimi del Goldoniano repertorio». Per una storia della fortuna goldoniana tra Sette e Ottocento, in «Problemi di critica goldoniana» VI, 1999, pp. 143-238. ³4 Al Nuovo il 13 e 14 febbraio 1817. ³5 Nuovo, 19 gennaio 1817; Fiorentini 13 novembre 1819 (Il burbero pietoso è al Molo il 6 marzo 1819). De Il Genio buono e il Genio malvagio al San Carlino già sul finire del primo decennio del secolo cfr. De Simone, I teatri popolari di Napoli cit., I, p. 445. La moglie saggia va in scena a Fontana Medina il 16 agosto 1815, dove il 26 agosto viene dato Il bugiardo; Il poeta fanatico è al Nuovo il 16 agosto 1816 (dove – a titolo di curiosità – dieci giorni dopo debutta un Matrimonio di Carlo Goldoni); Il medico olandese sempre al Nuovo il 5 novembre 1816; Pamela nubile è il titolo con cui il 15 aprile 1816 debutta al Fiorentini la compagnia Fabbrichesi, cui segue Il poeta fanatico; Un curioso accidente è in scena fra 1816 e 1818; può darsi che ne Le quattro nazioni che viene dato al San Carlino nel 1816 si adombri La vedova scaltra, secondo il titolo alternativo con cui l’opera era apparsa nell’edizione Venaccia del 1754 (cfr. Carlo Goldoni, La vedova scaltra, a cura di Laura Sannia Nowé, Venezia, Marsilio, 2004, p. 92).

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Considerazioni sul teatro a Napoli negli anni rossiniani lo Muolo³6), intrapresa con successo da Filippo Cammarano, quindi autore di una serie di successi esemplati su questo modello ma direttamente ambientati nella variegata topografia cittadina (La festa de l’Archetiello, La Mmalora de Chiaia, Li Cantastorie de lo Muolo, La scialata de tre don Limune a lo Granatiello, etc.³7). Manco a dirlo, furoreggia la trilogia di Adelaide e Comingio³8 in tante varianti, a riprova di un intramontabile gradimento, a ritmi serrati fra una sala e l’altra. È legittimo ipotizzare che di fronte a tante rappresentazioni, e ai confronti che inevitabilmente ne scaturivano, il composito mondo degli spettatori affinasse una mentalità e un approccio altamente contrastivi sulle rese di testi e soggetti tenuti costantemente vivi dalle produzioni. È un discorso estremamente delicato, perché una disamina anche veloce delle informazioni fornite dal periodico giorno per giorno evidenzia come, a cavallo fra Sette e Ottocento, si sia consumato un processo irreversibile nelle sorti del teatro, a Napoli e in Europa, una sostanziale metamorfosi del concetto di repertorio da accumulo di “testi” nell’ambito di una continua variazione su tema ad agglomerazione di “classici” con lentissimi, misurati aggiornamenti.³9 Più che perduto, il primato è difeso, amministrato, con un passato che viene letto in maniera funzionale a questo gioco incessante di memoria e riattivazione in cui siamo ancora pienamente immersi. È offerta in prosa, ma la metastasiana Didone è un titolo di sicura presa, se rimane attestato a lungo tra Fontana Medina, Posta, San Carlino rimane presente (del 1823 è l’intonazione di Mercadante per il Regio di Torino), mentre degli altri drammi ancora si presentano Clemenza di Tito (nella lettura mozartiana o nella versione non musicale) e Adriano in Siria.40 Non è tramontato l’interesse per Francesco ³6 Greco, La scena illustrata cit., pp. 1-31 (con L’appicceche de le barraccare dello Lario de lo castiello), e anche

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Stefania Maraucci, La scena trasformata: il modello goldoniano nell’opera di Filippo Cammarano, Tesi di dottorato, Università degli studi di Napoli L’Orientale, 2004. Cfr. anche Francesco Cotticelli, Goldoni a Napoli: la presenza e l’assenza. Qualche riflessione, in «Rivista di letteratura teatrale» 5, 2012, pp. 213-222. Su questo repertorio che copre i primi decenni dell’Ottocento al San Carlino informa Di Giacomo, Storia del Teatro San Carlino cit., pp. 287-288, cui si rinvia anche per informazioni sull’illustre esponente della famiglia di artisti, che ha come capostipite il Giancola Vincenzo. In prosa e in musica, dai drammi settecenteschi di Gualzetti desunti da fonti francesi alle rielaborazioni di Tottola e del compositore Fioravanti, fra Nuovo, Fiorentini, Sorte, Posta, San Carlino, la trilogia mantiene inalterata la sua capacità di attrazione in tutto il periodo rossiniano. Sul tema cfr. Paologiovanni Maione, Adelaide e Comingio: vicissitudini di un’idea teatrale, in L’officina del teatro europeo, a cura di Alessandro Grilli e Anita Simon, 2 voll., Pisa, Edizioni Plus, 2001, vol. II (Il teatro musicale), pp. 13-31. È un fenomeno che interessa l’intero continente, con declinazioni diverse nelle aree geo-culturali dipendenti da fattori molteplici. A Napoli coincise con una fase storica particolarmente turbolenta, i cui esiti si colgono ancora nella stagione complessa della Restaurazione. Una riflessione tra Francia ed Europa è in Dörte Schmidt, Metastasios Artaserse, die Literarizität der Oper und die Bedingungen von Repertoires, in «Die Musikforschung» 66/2, 2013, pp. 103-119; su Napoli si rinvia a Paologiovanni Maione–Francesca Seller, I Reali Teatri di Napoli nella prima metà dell’Ottocento. Studi su Domenico Barbaja, Bellona (CE), Santabarbara, 1995. Il che riapre la delicata questione della persistenza del repertorio metastasiano nel XIX secolo; cfr. Metastasio nell’Ottocento, a cura di Francesco Paolo Russo, Roma, Aracne, 2003.

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Francesco Cotticelli Cerlone – e l’edizione delle sue opere nel 1825 ne è un’ulteriore conferma –, ma esemplare è il caso dell’Annella di Portacapuana riproposta nel 1809 alla Fenice in cerca di uno spettacolo di forte impatto,4¹ dove con ogni probabilità una storia sommersa di riproposte si trasforma di fronte a un evento che stabilisce un diverso rapporto tra passato e presente, sostituendo al fluire ininterrotto di un racconto la fascinazione del ritorno, della rilettura, della verifica di una differenza dal momento dell’ideazione al momento della riviviscenza. E stabilizzando il titolo nei cartelloni, al punto che il sequel elaborato da Cammarano con Le gelosie de Porzia e Masto Cianne fra 1817 e 18224² non poté mai reggere il confronto con l’opera originale. Era, tuttavia, la ripresa di un modulo settecentesco di inventio teatrale, che andava facendosi sempre più raro. L’impressione è che le «merci oltramontane» contemplate da Napoli Signorelli o i prodotti di altri mondi teatrali, intuibili nei titoli “lombardi” che circolavano fra i cartelloni delle sale attive con alterna fortuna, almeno a giudicare dalla loro permanenza, costituissero una significativa voce di apertura del contesto al panorama teatrale coevo “internazionale”, ma in fondo rendessero la dialettica fra drammaturgie ‘dominanti’ e ‘subalterne’ molto più sfumata e complessa di quanto la contrapposizione fra una scena ‘borghese’ e una scena ‘popolare’ (testimoniate da centri maggiori e minori) lasci oggi intravedere. Trame, contenuti, situazioni (e probabilmente artisti) attraversavano le une e le altre con una curiosità e una frenesia che andrebbero indagate con particolare attenzione, al di là delle suggestioni quantitative di una ricostruzione cronologica, e provandosi a superare – per quanto possibile – il divario fra una tradizione che lascia tracce e una ‘pratica’ che ama inabissarsi nel silenzio.4³ Quanto il lavoro di Rossini a Napoli vada letto anche entro questa dinamica di antico/ 4¹ Cfr. Di Giacomo, Storia del Teatro San Carlino cit., pp. 261-264. Emblematico già il commento dell’au-

tore, che parte dalla considerazione di un’eco limitata del lavoro in epoca settecentesca: «Piacque, mezzo secolo dopo, a una generazione più fresca e intelligente che incominciava a desiderar per la scena opere in cui fosse almeno salvato il senso comune; piacque ai superstiti del secolo antecedente, i quali si rivedevan tutti, bonariamente felici del ricordo e del ritorno, di faccia alle vere abitudini loro popolane che tante nuove commedie storiche, mitologiche, brigantesche e sacre avevano pomposamente allontanate dalla scena dialettale» (p. 263). Per una ricognizione più puntuale dell’Annella nel suo tempo rinviamo allo studio e all’edizione moderna in Greco, Teatro napoletano del ’700 cit., pp. 307-415 con nota alle pp. 582-586. L’episodio del 1809 proietta l’opera del D’Avino fra i classici del teatro partenopeo, musicata da Vincenzo Fioravanti (per una prima versione in musica al San Carlino negli anni 1809-1810 cfr. De Simone, I teatri popolari di Napoli cit., I, p. 444) e ripresa sistematicamente nei cartelloni dei teatri fino a tutto il XX secolo. 4² Di Giacomo (Storia del Teatro San Carlino cit., pp. 283-284) colloca le prime rappresentazioni del sequel nel 1821, ma il titolo, stando al «Giornale del Regno delle Due Sicilie» è già in cartellone dal 15 aprile 1817. 4³ Il lavoro riguarda l’identificazione dei testi sulla base delle scarne indicazioni (qualche esempio: Gli affetti in cimento di Francesco di Sangro del 1787 tra San Carlino e San Ferdinando nel 1816; Le lagrime d’una vedova di Federici alla Fenice nel 1816; La malattia guarita dalla morte tra 1816 e 1819), l’approfondimento di quelle significative testimonianze provenienti da altre latitudini (l’Emilia di Liverpool «commedia tradotta dal tedesco» di Kotzebue al Nuovo nel 1816; La casa da vendere di Duval; Il barbiere di Gheldria di Avelloni e tutto il repertorio Fabbrichesi) e – naturalmente – l’intarsio con le fonti bibliografiche e archivistiche che possono far luce su attori, impresari, maestranze.

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Considerazioni sul teatro a Napoli negli anni rossiniani moderno, alto/basso riferita ai criteri di gestione e di allestimento di una stagione è cosa non facile a dirsi. Con molta probabilità fu anch’esso parte della fitta rete di echi e richiami che il nuovo sistema di repertorio aveva promosso, se si pensa all’Otello con lieto fine che Luzi mise in scena al San Carlino nel 1816, secondo quanto racconta Di Giacomo nella sua Cronaca.44 Certo è che la vita dello spettacolo si polarizza intorno ad alcune grandi strutture, mentre il mestiere dell’impresa continua a suggerire esperimenti o a mietere vittime. Dei teatri attivi nei primi anni del soggiorno del compositore in città, la Sorte, che era stato fondato nel 1810 ed era stato inaugurato nel 1813, chiuse i battenti nel 1820 con Le 99 disgrazie di Pulcinella prima della demolizione nel 1822;45 quello di Fontana Medina terminò la sua esistenza nel 1818.46 Ma per tutto il secolo lo show business dové sembrare non privo di una sua attrattiva, se nel Largo e lungo la direttrice della Marina continuarono ad aprirsi, con alterne vicende, luoghi per rappresentazioni di ogni genere, marionette, burattini, e farse dialettali. Nel primo quarto dell’Ottocento giunge a maturazione un processo avviatosi almeno a partire dagli anni Settanta del XVIII secolo, allorché la presenza sempre più incisiva di compagnie “francesi” e “lombarde” consentì di prendere coscienza delle specificità di una lingua recitativa “nazionale”.47 Fu solo allora che il napoletano costituì una scelta alternativa, quando non antagonistica, a tutte le altre forme di spettacolo presenti nella capitale e nel Regno. Se in effetti neppure al San Carlino e alla Fenice prosa e musica in dialetto furono un’esclusiva, in questo panorama – a mala pena sfiorate da ogni dibattito su stili e ragioni della scena – esse assunsero una fondamentale funzione identitaria: l’istituto della parodia tenne vivo un legame con i grandi fermenti culturali d’Europa, privilegiando il comico come forma di conoscenza e di circolazione di idee. Più che di un’esplosione familistica e reazionaria, si trattò del luogo di incubazione e di tutela di un metodo di composizione dello spettacolo, e di un senso del teatro, beninteso, di lunga memoria, di fronte alle ricorrenti tentazioni dell’antilingua: una via, per dirla con Franco Carmelo Greco, attraverso la quale «ottenevano o riottenevano cittadinanza scenica napoletana Rossini, Bellini, Donizetti, Mercadante e Verdi, Offenbach e Bizet, come immessi in un circuito 44 Di Giacomo, Storia del Teatro San Carlino cit., pp. 269-270. 45 De Simone, I teatri popolari di Napoli cit., I, pp. 212-214. 46 L’ultimo spettacolo registrato dal periodico, Il mostro della China, è del 23 aprile 1816. Su un probabile

prosieguo delle attività fino al 1818 cfr. De Simone, I teatri popolari di Napoli cit., I, p. 295. 47 Cfr. Francesco Cotticelli, Sulle caratteristiche “nazionali” nel teatro napoletano dagli anni Settanta in relazione alle compagnie forestiere, in L’idea di nazione nel Settecento, a cura di Beatrice Alfonzetti e Marina Formica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, pp. 197-205; Id., Lombardi, Francesi, Napoletani. I nuovi scenari nella Capitale, in Musica e spettacolo a Napoli durante il decennio francese cit., pp. 215-227. Si veda anche Id., After the Golden Age: Considerations on the Nature of Nineteenth-Century Neapolitan Theater, in The Neapolitan Canzone in the Early Nineteenth-Century as Cultivated in the Passatempi musicali of Guillaume Cottrau, edited by Pasquale Scialò, Francesca Seller and Anthony R. DelDonna, Lanham, Maryland (U.S.A.), Lexington Books, pp. 51-59.

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Francesco Cotticelli d’invenzioni e di fruizione del quale essi stessi non potevano avere il sospetto».48 O forse sì. L’anno della partenza di Rossini, il 1822, è un altro momento altamente simbolico nella storia ottocentesca: arriva Donizetti, scritturato da Barbaja,49 e il Real Teatro di San Carlo conosce un’altra stagione sulla breccia, prima di nuovi eventi traumatici per la città e per il Regno;50 nasce Antonio Petito, il grande Petito, un corpo-attore di straordinaria potenza e inventiva, campione di una commedia di attualità e di un istinto parodico5¹ che riscatta le ossessioni di Pietro Napoli Signorelli, lì dove le «fangose materie eterogenee»5² e le mescolanze di tragico e comico, pubblico e privato sono il suggello, lucidissimo e poetico, di una visione del reale e di una scena che è tota nostra.

48 Greco, La scena illustrata cit., p. XV. 49 Sul famoso impresario cfr. Maione–Seller, I Reali Teatri di Napoli nella prima metà dell’Ottocento cit.; Id.,

L’ultima stagione napoletana di Domenico Barbaja (1836-1840): organizzazione e spettacolo, «Rivista Italiana di Musicologia» XXVII/1-2, 1992, pp. 257-325; Mélanie Traversier, L’impresario d’opera nel Decennio francese tra libertà economica e tutela politica: il caso di Domenico Barbaja, in Cultura e lavoro intellettuale: istituzioni, saperi e professioni nel Decennio francese, a cura di Anna Maria Rao, Napoli, Giannini, 2009, pp. 65-109; infine la monografia di Philip Eisenbeiss, Bel Canto Bully: The Life and Times of the Legendary Opera Impresario Domenico Barbaja, London, Haus Publishing, 2013 (ora in traduzione italiana con il titolo Domenico Barbaja. Il padrino del bel canto, Torino, EdT, 2015) 50 Alla bibliografia sancarliana si aggiunga almeno Franco Mancini – Sergio Ragni, Donizetti e i teatri napoletani nell’Ottocento, Napoli, Electa, 1998. Si veda anche Paola Cinque – Fabrizio Coscia-Stefania Maraucci, Donizetti e il mondo teatrale napoletano (1822-1838), in Il teatro di Donizetti. Atti dei Convegni delle Celebrazioni 1797/1997-1848/1998 (Bergamo, 8-10 ottobre 1998), III. Voglio amore, e amor violento. Studi di Drammaturgia, a cura di Livio Aragona e Federico Fornoni, Bergamo, Fondazione Donizetti, 2006, pp. 109-125. 5¹ Su Petito – anche per ulteriori indicazioni bibliografiche – si veda la voce a cura di Annamaria Sapienza, in A.M.At.I., Archivio Multimediale degli Attori Italiani, <http://amati.fupress.net> (ultima consultazione 10 dicembre 2020). 5² Cfr. nota 1.

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Paologiovanni Maione – Francesca Seller Uno spettacolo a misura dei tempi: Barbaja reinventa il teatro

L’impresario Domenico Barbaja si erge quale concreto traghettatore della scena napoletana dal Sette all’Ottocento: il passaggio, in maniera simbolica, è caratterizzato dalle ceneri del San Carlo e dal transito del gran maestro Paisiello.¹ Quest’ultimo era passato indenne attraverso vicissitudini politiche di ogni genere, conservando la sua mitica aura di musicista adatto a tutte le stagioni.² Il magistero del tarantino si rivela nell’affrontare stili, forme e generi in continuo divenire, caratteristica che lo pone quale modello di una stagione “napoletana” ormai mitizzata; egli stesso cerca di amplificare questo suo ruolo agli occhi della posterità, immaginando la scrittura di un oratorio che lo ponga al livello di Pergolesi, il cui nome e la cui musica echeggiavano senza soluzione di continuità.³ L’ambizioso progetto messo in cantiere assume un rilievo particolare sin dalla scelta del testo da intonare: il musicista si rivolge ai «versi dolcissimi dall’oggimai scordato Metastasio», poeta che aveva segnato le sorti della drammaturgia musicale europea del secolo dei Lumi e che ancora era vivo con il suo insegnamento nella memoria e nel quotidiano di una società che mai lo obliava. Egli stesso, ben conscio del proprio valore al cospetto del mondo, rimarcando di essere ¹ Si vedano almeno Il Teatro di San Carlo 1737-1987. L’opera, il ballo, a cura di Bruno Cagli e Agostino Ziino,

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Napoli, Electa, 1987; Il Teatro di San Carlo, Napoli, Guida, 1987, 2 voll.; Il Teatro del Re: il San Carlo da Napoli all’Europa, a cura di Gaetana Cantone e Franco Carmelo Greco, Napoli, ESI, 1987; Paologiovanni Maione-Francesca Seller, Teatro di San Carlo di Napoli. Cronologia degli spettacoli (1737-1799), vol. I, Napoli, Altrastampa, 2005. Cfr. Lorenzo Mattei, Paisiello Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 80, 2014, <http:// www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-paisiello_%28Dizionario-Biografico%29/> (ultima consultazione il 2 settembre 2020), a cui si rinvia per la relativa bibliografia. Sulla fortuna pergolesiana si vedano almeno Francesco Degrada, Dipingere il mito: Nacciarone e Pergolesi, in Omaggio a Pergolesi. Dipingere un mito, a cura di Luisa Martorelli, Napoli, Electa Napoli, 2003, pp. 22-39; Lorenzo Mattei, Il ‘mito Pergolesi’ nella trattatistica musicale del Settecento, «Studi Pergolesiani. Pergolesi Studies» 9, 2015, pp. 539-565; Francesca Seller, Fortuna e ricezione pergolesiana nella Napoli dell’Ottocento, in ivi, pp. 591-607; Loredana Palma, La versione di Mastriani. Pergolesi tra biografia e leggenda, in ivi, pp. 609-623; Lucio Tufano, «Mostruoso a vedere un Pergolesi coi baffi». 1857: il mito in scena tra Milano (Solera-Ronchetti-Monteviti) e Napoli (Quercia-Serrao), in ivi, pp. 625-658.

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Paologiovanni Maione – Francesca Seller al momento «maestro compositore, e direttore della musica della real camera, e cappella palatina» partenopea, svela la sua strategia per ascendere al Parnaso dei grandi, e dunque all’immortalità, paragonandosi all’autore jesino, ormai modello indissolubile di una stagione irripetibile: Un Pergolesi (abbenché io troppo al disotto del di lui singolare merito) ha lasciato una memoria al Pubblico, ed all’arte della musica lo Stabat Mater, il quale fa epoca a giorni Nostri, e lo farà ne’ Secoli avvenire. Non mi lusingo tanto per il mio di sopra Oratorio, ma bensì mi lusingo di ottenere un compatimento tutte le volte, che avrà la sorte di essere ascoltato.4

L’ipotesi è di dare esecuzioni private e pubbliche, da tenersi nel corso della Quaresima del 1816: la composizione è già terminata il 9 di febbraio, ma il 12 un incendio distrugge la gran sala reale.5 Intanto, nel ‘15 alla chetichella, quasi come indesiderato ospite, arriva «un tal signor Rossini maestro di cappella che ci si dice venuto per dare una sua Elisabetta regina d’Inghilterra su questo stesso teatro di San Carlo, che risuona ancora de’ melodiosi accenti della Medea e della Cora dell’egregio signor Mayer».6 Il giovane Gioachino inaugura, forse inconsapevolmente, una nuova epoca, facendo lentamente breccia in un pubblico diffidente, ma affilando le proprie armi e blandendo la platea attraverso il magistero della grande Isabella Colbran.7 Il sipario sul leggendario Settecento napoletano cade il 5 giugno del ‘16, alla morte di Paisiello: sulle ceneri del teatro si proietta l’immagine dell’impresario Barbaja, anch’egli partecipe di questa catastrofe annunciata e pronto a far risorgere con nuove tattiche la fama musicale della Capitale, seppur accusato di essere il mandante della distruzione del San Carlo.8 4 Archivio di Stato di Napoli (da ora in poi ASN), Ministero dell’Interno (da ora MI), I inventario (da ora 5 6 7

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inv.), f. 932, documento del 15 marzo 1816. La richiesta di Paisiello, senza data, viene vagliata dal re il 9 febbraio 1816, che accetta la pagina con alcune modifiche che saranno comunicate a voce (ASN, Fondo Teatri, f. 51). «Giornale delle Due Sicilie», n. 107, 25 settembre 1815. Per il periodo napoletano di Rossini si vedano almeno: Bruno Cagli, Al gran sole di Rossini, in Il Teatro di San Carlo 1737-1987 cit., pp. 133-168; Id., L’epoca di Rossini, in Il Teatro Mercadante: la storia, il restauro, a cura di Tobia R. Toscano, Napoli, Electa Napoli, 1989, pp. 93-106; Id., All’ombra dei gigli d’oro, in Rossini 1792-1992. Mostra storico-documentaria, a cura di Mauro Bucarelli, Perugia, Electa Editori Umbri, 1992, pp. 161-196; Gioachino Rossini, Lettere e documenti (dal 29 febbraio 1792 al 17 marzo 1822), vol. I, a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, Lucca, LIM, 1992; Id., Lettere e documenti. Lettere ai genitori (18 febbraio 1812-22 giugno 1830), vol. III, a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, Pesaro, Fondazione G. Rossini, 2004. Sulla cantante cfr. Sergio Ragni, Isabella Colbran, Isabella Rossini, Varese, Zecchini, 2012. Per il ruolo di Barbaja sulla scena europea cfr. Paologiovanni Maione-Francesca Seller, I Reali Teatri di Napoli nella prima metà dell’Ottocento. Studi su Domenico Barbaja, Bellona (CE), Santabarbara, 1995; Idd., L’ultima stagione napoletana di Domenico Barbaja (1836-1840): organizzazione e spettacolo, «Rivista


Uno spettacolo a misura dei tempi: Barbaja reinventa il teatro Il disegno per la rifondazione dello spettacolo diviene prioritario per l’imprenditore, che, forte di uno staff che lo sorregge, immagina soluzioni di vario genere per riscrivere la mappa del divertimento cittadino. Su suggerimento di Gallenberg, si ipotizza addirittura l’abolizione dei teatri Nuovo, San Ferdinando, San Carlino e di tutti i “casotti” – tavole che avevano accolto nel tempo repertori disparati e pratiche sperimentali di incommensurabile importanza – per una puntuale collocazione dei repertori sugli edifici superstiti: al San Carlo sarebbero destinati i grandi spettacoli, al Fondo la commedia francese e le opere semiserie e buffe con balli, al Fiorentini l’opera buffa nazionale, mentre alla Fenice il repertorio destinato al “popolo basso”.9 L’utopistica mappatura della scena non sarà mai realizzata, in virtù di una città dai grandi appetiti spettacolari, con sale in continua attività, fondati sull’incessante vocazione alla scrittura drammaturgica, in un inesauribile scambio di idee e linguaggi, come da antica tradizione.¹0 L’ingombrante figura del forestiero, che si trova a operare in uno scenario incerto e barcollante, deve fare i conti con una serie di ostacoli che vanno superati diplomaticamente; l’incertezza della messinscena della sua opera di debutto sulle autorevoli tavole del Massimo determina l’intervento del Ministero dell’Interno e di quello di Polizia, affinché sia rispettata la data della prima esecuzione dell’Elisabetta, regina d’Inghilterra. In effetti, il vero problema è causato dall’indisciplinata condotta della compagnia nel corso delle prove.¹¹ Il duca di Noja, a fine settembre del ’15, annota l’emergenza insorta per la «opposizione alla produzione dell’opera nuova del M. ro Rossini», determinata dall’ assoluta inobbedienza del Tenore Garcia dominata costantemente dal suo capriccio rifiutandosi all’invito delle prove, e altresì alla sospensione d’esse succeduta nei giorni 15 e 26, aducendo dovendo cantare alla sera ed altre della Sig.ra Dardanelli rifiutata pe’ il g.no 17 per la stessa proposizione per cui l’Autorità di codesta Soprintendenza fù generosa co’

Italiana di Musicologia» XXVII/1-2, 1992, pp. 257-325; Idd., Domenico Barbaja a Napoli (1809-1840): meccanismi di gestione teatrale, in Gioachino Rossini 1792-1992 il testo e la scena, a cura di Paolo Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini Pesaro, 1994, pp. 403-429; Idd., Gioco d’azzardo e teatro a Napoli dall’età napoleonica alla Restaurazione borbonica, «Musica/Realtà», aprile 1994, pp. 23-40; Idd., Da Napoli a Vienna: Barbaja e l’esportazione di un nuovo modello impresariale, «Römische Historische Mitteilungen» 44, 2002, pp. 493508; Philip Eisenbeiss, Domenico Barbaja. Il padrino del belcanto, Torino, EdT, 2015. 9 ASN, MI, II inv., f. 4672. ¹0 Franco Carmelo Greco, La scena illustrata: teatro, pittura e città a Napoli nell’Ottocento, Napoli, Pironti, 1995 e La pittura napoletana dell’Ottocento, a cura di Franco Carmelo Greco, Mariantonietta Picone Petrusa e Isabella Valente, Napoli, Pironti, 1996. ¹¹ ASN, I inv., f. 929, documento del 30 settembre 1815; una ricca documentazione sull’Elisabetta è in Gioachino Rossini, Elisabetta, regina d’Inghilterra, a cura di Vincenzo Borghetti, Pesaro, Fondazione G. Rossini, 2019.

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Paologiovanni Maione – Francesca Seller suoi favori passando sotto silenzio l’avvenuto.¹²

Barbaja sottolinea l’impudenza del cantante nel voler abbandonare la prova, poiché Rossini intendeva «cominciare dal finale» e solo l’intervento delle autorità, in modo inedito, era riuscito a evitare questo inconveniente; si conferma «la possibilità di effettuare la produzione pel designato giorno, semprecché la Compagnia si uniformi a qualche sacrificio di maggior fatica». La produzione riscuote il “compatimento” della platea, per cui Barbaja chiede alla Soprintendenza ai Teatri di poter scritturare nuovamente Rossini per il successivo anno teatrale, in virtù anche della «sua approvazione all’opera ora scritta».¹³ Il sodalizio tra l’impresario e il musicista, come è noto, si suggella con una collaborazione che travalica l’impegno teatrale: «concertare i conosciuti o non conosciuti spartiti, accomodarli secondo il bisogno, e scrivere qualche Dramma o Programma, e tutto quello che compete».¹4 Ben presto, infatti, la cooperazione fra i due si estende anche al gioco d’azzardo e probabilmente ad altre speculazioni economiche. Di sicuro i pensieri maggiori glieli danno la scena e i suoi interpreti; le carte si dilungano sugli aspetti organizzativi e il musicista è chiamato a dirimere una serie di urgenze tese a favorire il buon esito degli spettacoli. Nel 1819, ad esempio, Andrea Nozzari si mostra recalcitrante nell’affrontare il ruolo di Fernando ne La gazza ladra, adducendo l’inadeguatezza del ruolo al proprio strumento, nonostante la disponibilità di Rossini «di puntarglielo ovi il Signor Nozzari lo credesse opportuno, e di scrivere una nuova aria per esso».¹5 Il documento attesta, sottolineando le bizze del cantante, che la parte, in origine scritta per il celebre Galli per la piazza di Milano, era adeguata alla sua vocalità: nonostante ciò, il tenore continua a recalcitrare, ma alla fine è costretto a cedere. Fanno da contraltare a questo spaccato di malcostume delle maestranze le esigenze del pubblico, particolarmente incontentabile, come si evince da uno “sfogo” di Barbaja alla Soprintendenza, col quale si informa l’autorità di quanto valore abbiano acquisito i cantanti “sottovalutati” dai napoletani:¹6 Circa gli Attori de’ Reali Teatri di Napoli, posso vantarmi, che forman questi un complesso difficile a rinvenirsi in nessun Teatro di Europa, e se l’Eccellenza Vostra ne desideri una pruova si degni riscontrare i Giornali, e le Corrispondenze delle Piazze Estere, e si accerterà che un Donzelli, il quale nulla era valutato in Napoli, costui ha fatto gran piacere a

¹² ASN, I inv., f. 925, lettera di Barbaja al duca di Noja del 30 settembre 1815. ¹³ ASN, Fondo Teatri, f. 51, documento del 18 dicembre 1815. ¹4 Le mansioni sono elencate in una memoria di Luigi Capotorti datata 5 febbraio 1822, con la quale lui stesso si proponeva al posto di Rossini (ASN, MI, II. Inv., f. 4664). ¹5 ASN, Fondo Teatri, f. 125, documento del 25 giugno 1819. ¹6 Ivi, f. 113, documento del 23 ottobre 1825.

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Uno spettacolo a misura dei tempi: Barbaja reinventa il teatro Vienna, ed ultimamente a Parigi; un Botticelli, che qui non voleva sentirsi, ha ugualmente piaciuto a Vienna, in diversi Teatri d’Italia, ed in ultimo a Milano, ove con applauso generale fu richiamato sulla scena nella parte del Conte alle Nozze di Figaro; Un Rubini in fine, che quando cantava a questi Reali Teatri non si faceva che ducati 20 d’introito, ora forma il piacere del Teatro Italiano a Parigi. Da tutto ciò l’eccellenza vostra rimarrà convinta che i detti Attori piacciano generalmente in tutti i Teatri, mentre qui non si volevano tollerare.

Il livello delle compagnie di canto e ballo, arruolate per i Reali Teatri, secondo il milanese, è tale che «basterebbero per formare la delizia de’ primarj teatri d’Europa…».¹7 E Barbaja è un uomo che ben conosce l’attività europea, sia come osservatore che come attore delle sorti spettacolari del vecchio continente. La rete capillare di contatti tra agenti, diplomatici, autorità, maestranze lo mettono in condizione di essere continuamente aggiornato e di cooptare per la sua scuderia i nomi più altisonanti da smistare nelle innumerevoli piazze dove ha interessi, diretti o indiretti. Si tratta di una geografia dello spettacolo disegnata dall’impresario, che di giorno in giorno si arricchisce di nuove tessere, talvolta incredibili, che danno la misura della sua longa manus. Fioccano richieste di suoi pareri e compartecipazioni in appalti per città nazionali ed estere. Oltre a quelle piazze dove compare ufficialmente, si stanno rinvenendo tracce di suoi interessi in luoghi e nazioni fino a ora non conosciuti: una rete tentacolare che in maniera sotterranea lo vede quale ago della bilancia di esiti spettacolari incredibili. Nel ’26 una sua partecipazione all’appalto per il teatro di Bologna è vivamente caldeggiata dal marchese Zampieri, preposto all’organizzazione nella città felsinea: le condizioni per aderire alla proposta sono alquanto dettagliate e vanno dalla durata della stagione alla determinazione di escludere qualsiasi impegno per i balli.¹8 Altrettanto intenso è lo scambio di partiture e artisti con i teatri “amici”, la cui conoscenza permette una ridefinizione dell’industria teatrale ottocentesca. Il rapporto con Cartoni, impresario a Roma, è tratteggiato all’interno di missive recuperabili in vari fondi archivistici. Alle carte napoletane emerse nel Ministero di Polizia per la scrittura rossiniana

¹7 Ibidem. ¹8 Cfr. Paolo Fabbri, Rossini nelle raccolte Piancastelli di Forlì, Lucca, LIM, 2001; di seguito si riporta la

trascrizione del documento datato Milano, 31 maggio 1826: «Al Sig.r Marchese Zampieri – Bologna | Alla gradita sua del 27. cadente, quando scorgessi le mie convenienze di combinare il contratto d’Appalto per codesto Teatro della Comune, non mi sarebbe però mai permesso di estenderlo oltre la Primavera, e senza anche verun impegno dei Balli, e portando la Stagione dalla metà circa di Giugno al 5. Agosto. | Quest’è quanto ho il piacere di sinceramente comunicargli per miglior norma di codesti Signori. | Ho il bene di riverirla, e professarmi colla solita stima. | Suo Aff.mo Serv.re | Domenico Barbaja» (Biblioteca Comunale “A. Saffi”, 407.CR).

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Paologiovanni Maione – Francesca Seller di un’opera e le ingerenze con il contratto napoletano,¹9 si aggiungono quelle custodite a Forlì e già segnalate da Paolo Fabbri, in cui si dà rilievo alle modalità di scambio dei materiali musicali; esemplare risulta la richiesta effettuata da Barbaja di ricevere copia dell’Alzira di Manfroce, per la quale ottiene un notevole sconto sul prezzo da pagare al copista Cencetti. Nella stessa missiva Cartoni gli dà notizia del “fanatismo” sortito dall’esecuzione della Cenerentola rossiniana, in cui ha primeggiato Caterina Lipparini.²0 Alla richiesta dell’imprenditore romano per ricevere la partitura dell’Otello nel ‘18, Barbaja risponde che non è possibile inviarla, perché l’opera «è facile che debbasi rappresentare da un momento all’altro» e si potrebbe solo cavare una copia in tempi lunghi.²¹ Particolarmente proficui appaiono gli scambi con Palermo,²² testimoniati già dagli anni Venti, che si sostanziano in un continuo scambio tra i teatri delle due città: si va dalla cessione di prime parti per il canto²³ a intere compagnie di ballo, sotto il controllo di Hus, il quale deve vigilare affinché i ballerini non scappino via.²4 Il continuo scambio di maestranze costella tutta la lunga gestione del Reali Teatri da ¹9 Cfr. Maione-Seller, Domenico Barbaja a Napoli (1809-1840): meccanismi di gestione teatrale cit., pp. 418²0

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420. Fabbri, Rossini nelle raccolte Piancastelli cit.; di seguito si riporta la trascrizione del documento datato Roma 29 settembre 1818: «Napoli = G.mo Sig.r Barbaja | La prego à perdonarmi la tardanza fatta di rispondere alla pregiatiss.a sua 15. corrente, giacché per la moltiplicità d’affari me n’ero dimmenticato, il Copista Cencetti riguardo al nolo dello spartito l’Alzira mi dice, che alla fine di Novembre essendo terminata la staggione d’Autunno deve ritirarlo, a seconda poi delle sue istruzioni gli ho detto quanto pretendeva per la vendita, mi ha fatto una richiesta fortissima, e con gran stento l’ho ridotto a d. 27= onde se crede convenevole gli pagherò altri d. 15= e così resterà di sua proprietà il detto spartito, à posta corrente favorisca dirmi come debbo regolarmi. Sabato andiede in scena la Cenerentola e di nuovo à fatto fanatismo, la p.ma Donna Liparini, che era affatto caduta nella prima Opera di Fioravanti in questa, è risorta e piace moltissimo in tutta l’Opera, specialmente nel suo rondò di tutti l’altri soggetti accade lo stesso. La prego dire al Sig.r Fumagalli, che pagai alla Marietta Durante li d. 15= de quali ne ha debito, e pieno di verace stima, e rispetto sono | Dev.o Aff.mo Servo | Pietro Cartoni». (Biblioteca Comunale “A. Saffi”, 407.CR.126.). Si veda anche la missiva datata Roma 19 gennaio 1819: «G.mo Sig.r Barbaja | Doppo il fiasco fatto con l’Opera del Sig.r Mayer, speravo risorgere con quella del Sig.r Nicolini, che andiede in scena l’altra sera, questa si sostiene più della prima, ma non è possibile possa reggere molte sere. Per quante opere vengano proposte niuna se ne trova adattata. Il Sig.r Tacchinardi sarebbe di parere fare l’Otello, per cui prego caldamente spedirmi con il prossimo corriere detto Spartito con le sue parti sperando riceverlo Domenica, per il nolo mi rimetto alla Sua onestà. Rd in attenzione di suo pronto riscontro pieno di verace stima sono | Aff.mo Servo | Pietro Cartoni» (Biblioteca Comunale “A. Saffi”, 407.CR.127). Cfr. ivi, documento del 22 gennaio 1819: «Si è risposto che non si può dare l’Otello perché essendo opera inserita nel repertorio attuale è facile che debbasi rappresentare da un momento all’altro. | Che al più si potrebbe farne una copia quando però il S. Cartoni lo ordinasse». Si veda, ad esempio, ASN, MI, I inv., f. 933, documenti del 1825 che attestano gli accordi tra Barbaja e l’impresario Tedeschi. Ivi, richiesta di Giovanni Tedeschi per formare una compagnia di ballo per la stagione 1820-21; ASN, Fondo Teatri, f. 98, documento del 30 luglio 1819, che riporta il contratto con Antonio Ambrogi, primo buffo che canta anche come basso serio. ASN, MI, I inv., f. 933, documenti del periodo 1825-1826.


Uno spettacolo a misura dei tempi: Barbaja reinventa il teatro parte di Barbaja, che continua a intrattenere rapporti con i responsabili della scena europea: nel ’28, ad esempio, l’imprenditore cerca di riportare a Napoli il Pesarese;²5 la sua presenza, in ogni caso, è una costante nei cartelloni della Capitale: le produzioni francesi giungono in breve tempo, creando non pochi problemi per la messinscena. Le opere “napoletane” francesizzate sono esibite nella nuova veste, subendo ulteriori rimaneggiamenti, non solo nella versificazione (in italiano), ma anche nelle modifiche richieste dai cantanti interpellati a sostenere le parti. Luigi Lablache, scritturato per il ruolo di Maometto ne L’assedio di Corinto, si mostra recalcitrante, sostenendo che la parte non è adatta per le sue qualità vocali. In realtà, pare che gli avessero consegnata la parte destinata a Tamburini, quindi con una tessitura più vicina alla corda di baritono. Prontamente, Pietro Raimondi la accomoda per basso, ma invano, poiché Lablache continua a trovare inappropriata la tessitura. Barbaja, esausto per i capricci del virtuoso, fa notare che «il signor Lablache ha torto di ricusarsi in ciò, quando il Maometto si canta in tutta l’Italia da un Basso, e da soggetti che non hanno neppure un terzo del talento di Lablache», auspicando un pronto intervento della Soprintendenza. L’urgenza di impegnare il cantante nasce da problemi organizzativi: Consideri l’Eccellenza Vostra che il Signor Lablache non cantando nell’Assedio di Corinto rimane a passeggiare Toledo a discapito dell’Impresa, perché l’opera che avevo divisato di montare con Lablache non si deve fare per ora, e questa era il Saulle del maestro Vaccaj, e così il Signor Lablache in due mesi avrà cantato N.o 14 volte, circa.

La partitura rimaneggiata è sottoposta al controllo di Zingarelli, Crescentini e Capotorti, in quanto Lablache continua a sostenere di «essere questa parte accomodata in Napoli con diversi cangiamenti per lo Signor Tamburrini che a suo dire, è un baritono e non già un basso» e che, a suo parere, «si dovrebbe tradurre in lingua italiana lo spartito francese tal quale fu scritto da Rossini», incontrando in questo suo proposito l’opposizione dell’impresario, che vede dilatarsi i tempi delle prove.²6 ²5 ASN, Fondo Teatri, f. 5, lettera della Soprintendenza a Rossini dell’11 febbraio 1828. ²6 La lunga questione si legge in ivi, f. 125, di seguito si riporta la lettera di Barbaja del 28 gennaio 1829: «[…]

Mi do premura di far sapere a Vostra eccellenza che jeri mattina mandai la parte di Maometto nell’Assedio di Corinto al Signor Lablache, e questi lo rimandò dicendo essere adattata per la voce di Baritono, e non per Basso, e ciò in forza d’uno sbaglio dal Copista, il quale inavertitamente vi lasciò alcune note, che servivano al Signor Tamburini. | Ritornatami la parte dal Signor Lablace feci chiamare subito il maestro Raimondi, perché l’accomodasse per Basso e questi diffatti eseguì subito gli ordini miei, ed il Signor Donizetti che si trovava presente soggiunse pure che il Signor Lablache non poteva più ricusarsi a cantarla. | Si mandò di nuovo la parte accomodata al signor Lablache alle ore 23 e questi non volle neppure riceverla dicendo, che non aveva bisogno di accomodi, ma che non intendeva cantarla perché non conveniente a un Basso. | Faccio presente a Vostra Eccellenza che il signor Lablache ha torto di ricusarsi in ciò, quando il Maometto si canta in tutta l’Italia da un Basso, e da soggetti che non hanno neppure un terzo del talento

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Paologiovanni Maione – Francesca Seller Anche il testo de Le Comte Ory è sottoposto nel ‘30 alla traduzione di Schmidt e alla revisione di Ruffa, «depurato di tutto ciò che poteva urtare a buoni costumi, senza minimamente alterare lo sviluppo dell’azione», mentre la musica è rivista da Mandanici.²7 Rossini continua a essere un punto di riferimento per Barbaja e una figura con la quale confrontarsi anche quando finiscono i vincoli ufficiali: i rapporti di forza necessariamente mutano, alla luce dell’impegno impresariale assunto dal musicista a Parigi e dalla caratura internazionale di Barbaja, che, addirittura, nel ’21 suscita l’accorata preoccupazione di Lichtental, secondo il quale egli seppe «insinuarsi presso Metternich ed altri primarj personaggi […]. Se mai la cosa è vera, allora addio opera tedesca! ».²8 Nell’avventura parigina del Pesarese, il vecchio méntore accusa non pochi colpi da parte di colui che, lontano da Napoli, ha perso la sua vena feconda e si mostra scorretto nel gestire il mercato dei cantanti: nelle trattative del 1824 per il Théâtre Italien Rossini tenta in tutte le maniere di assoldare le migliori voci del suo entourage, promettendo loro un notevole aumento di paga. Invano li alletta, giacché gli artisti, riconoscenti verso il loro antico protettore, lo mettono a conoscenza delle subdole manovre che sta intessendo alle sue spalle. È questo un periodo di grandi trattative internazionali per l’imprenditore milanese: la sua fama ha raggiunto ogni angolo d’Europa tanto che, seppure malato, è chiamato a organizzare compagnie di canto per Venezia, Vienna, Parigi e San Pietroburgo, ²9 capitale nella quale la sua tournée viene bloccata da un repentino ordine del diplomatico Tatischef, a causa della terribile alluvione che aveva messo in ginocchio la Russia nel 1824.³0 Le scorrettezze di Rossini, sul quale nutre molte perplessità al riguardo del suo genio

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di Lablace. | Vostra eccellenza come soprintendente puoll’obbligarlo, ed è per ciò che le rimetto la parte accomodata, e copia del suo contratto, affinché conosciute le obbligazioni di Lablache si compiaccia di farlo chiamare, e farlo stare all’esecuzione del Contratto giacché io altro non domando. | Spero che Vostra Eccellenza non vorrà proteggere il Signor Lablache come per l’Aria nell’Esule di Roma, tanto più che si conosce evidentemente che tutto fa per danneggiare l’Impresa. | Consideri l’Eccellenza Vostra che il Signor Lablache non cantando nell’Assedio di Corinto rimane a passeggiare Toledo a discapito dell’Impresa, perché l’opera che avevo divisato di montare con Lablache non si deve fare per ora, e questa era il Saulle del maestro Vaccaj, e così il Signor Lablache in due mesi avrà cantato N.o 14 volte, circa». ASN, Fondo Teatri, f. 38, lettera di Barbaja del 31 maggio 1830 al revisore. Biblioteca del Museo teatrale alla Scala di Milano, f. 3602, lettera di Lichtental a Giovanni Simone Mayr del 29 settembre 1821. Archives Nationales di Francia, lettera di Barbaja al visconte Sosthène Rochefoucauld, aiutante da campo del re e incaricato del dipartimento delle Belle Arti, del 23 ottobre 1824 in cui l’impresario racconta che il maestro Turina è giunto da Parigi a Napoli per proporre uno scambio di cantanti, ma egli si è dimesso dai Reali Teatri perché malato e paralizzato. Nonostante ciò, l’impresario deve organizzare una compagnia di opera italiana per i teatri di San Pietroburgo ed è in trattativa con i teatri di Milano e Venezia, dove ci sono molte difficoltà a causa delle pretese dei cantanti che solo Napoli e Parigi possono sostenere. Sugli affari nazionali di Barbaja, si veda ASN, Ministero di Polizia, Consulte, I parte, f. 156, Bilancio dei giochi 1816-1818. Archives Nationales di Francia, lettera di Barbaja a Rochefoucauld da Vienna del 3 gennaio 1825.


Uno spettacolo a misura dei tempi: Barbaja reinventa il teatro artistico attuale,³¹ non gli impediscono di essere attore principale nelle trattative parigine, nonostante i continui capricci delle ugole d’oro. Esemplare la condotta di Donzelli, che nel ’26, nonostante sia sempre stato trattato con amor paterno, si sta comportando in maniera subdola, tentando di sottrarsi, “il miserabile”, all’impegno già preso: e il povero impresario dovrà di nuovo mettersi in viaggio per Parigi per appianare la situazione.³² L’anno precedente Barbaja aveva stipulato una scrittura con Parigi, per concedere, in cambio di altri cantanti italiani di stanza nella capitale francese, lo stesso tenore, con una lunga lista di postille, che vanno dalla durata del soggiorno (sei mesi) all’impegno di cantare almeno 16 volte al mese, dall’opera del debutto individuata in Otello alla libertà di esibirsi in accademie e case private, con il diritto di rivestire sempre il ruolo di primo tenore e di acquisire copia dell’opera nuova di Rossini da rappresentarsi esclusivamente a Napoli.³³ L’attività dell’uomo d’affari è costellata da richieste di audizioni, raccomandazioni, perorazioni di artisti alla ricerca di ingaggi per intraprendere sotto la sua egida brillanti carriere: è il caso della figlia di Antonio Benelli, che da Dresda, grazie ai buoni uffici di Francesco Morlacchi, mediatore presso “l’impresario degli impresari”, chiede di esibirsi sulle tavole partenopee, in virtù delle sue abilità canore e delle presunte parentele napoletane.³4 La svolta operata da Barbaja segna vistosamente l’organizzazione e l’economia dello spettacolo, con risvolti inediti che amplificano viepiù il suo profilo manageriale, che lo proietta in una dimensione moderna; il suo atteggiamento diventerà un modello imprescindibile nel campo dell’imprenditoria culturale, modello dal quale non si allontaneranno le generazioni successive. Ancora oggi, probabilmente, in maniera inconsapevole, si conti³¹ Ibidem; nella missiva Barbaja si dichiara dispiaciuto che Rossini non scriva più opere da quattro anni

dopo aver composto Semiramide. Quando era a Napoli scriveva almeno due opere nuove all’anno: si augura che Rossini ritorni a scrivere come un tempo, ma ne dubita. ³² Ivi, lettera di Barbaja del 1826, senza data, in cui rimarca la cattiva condotta del cantante che avrebbe un obbligo fino al 1830 per cantare nei teatri italiani. ³³ Ivi, il contratto viene inviato da Vienna a Rochefoucald per l’approvazione in data 2 febbraio 1825. Tra le postille, si ricorda che avrà un alloggio di due stanze, la possibilità di una serata a beneficio, il viaggio gratis. ³4 Lettera da Dresda del primo marzo 1819: «Impresario degli Impresarj | La figlia del gran professore di Canto Antonio Benelli, che incominciò qui in questo Regio Teatro la sua carriera Teatrale come prima Donna nell’opera il Sagrifizio interrotto con felicissimo successo, che possiede una graziosa figura, con voce di soprano, agile e bella, ed un buon metodo di canto (essendo allieva di Suo Padre), con una comica naturalmente animata, è quella che vi raccomanto per i vostri Teatri. Questa sarebbe una buona acquisizione per voi. Avendo Ella una Madre Napoletana e dei Parenti a Napoli, amerebbe molto essere impiegata in uno dei vostri Teatri, ed io ve la raccomando tanto che posso. Ella conosce perfettamente la musica, e la Sua maniera piace al Teatro dunque… prendetela, ed acquisterete nuovi diritti alla mia riconoscenza. Tanti Saluti alla Regina delle Regine Colbran, al maestro Buttiro, ed a tutti quelli che compongono la vostra periodica società, compreso l’avvocato Doratori, pittore perfetto. Vogliatemi bene, comandatemi, e credetemi il vostro aff.mo amico sincero Francesco Morlacchi». (Biblioteca Comunale “A. Saffi”, 407. CR)

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Paologiovanni Maione – Francesca Seller nuano a percorrere le strade da lui segnate; le sue strategie di programmazione, unitamente all’utilizzo dell’edificio teatrale come contenitore sensibile alle esigenze del tempo, appaiono ancora valide ed efficaci, pur in un diverso quadro sociale e politico.

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Maria Venuso La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini: interferenze e possibili visioni

Premessa In una panoramica ricostruttiva degli anni che videro Gioachino Rossini a Napoli, le prospettive di studio relative alla danza possono contribuire a sostenere una speculazione interdisciplinare sulle attività teatrali partenopee del tempo.¹ La storiografia della danza considerata ‘canonica’ non si è, fino ad anni recenti, avvicinata con sistematico interesse alla produzione coreografica partenopea² e l’autoreferenzialità irradiante dell’Opéra di Parigi ha per molto tempo viziato la visione storica confermando, in maniera quasi dogmatica, una tradizione per filiazione. Da diversi decenni la ricerca sta ormai procedendo in maniera differente, secondo una visione in cui le prassi coreutiche di nazioni confinanti (e non) possano incrociarsi sì da tenere nella giusta considerazione i fattori che hanno determinato lo sviluppo e la migrazione di lavori, tecniche ed estetiche della danza teatrale. L’interscambio culturale che impedisce le cristallizzazioni, soprattutto in un’arte che si trasferisce da un corpo all’altro attraverso i gesti e la voce (e solo in minima parte attraverso un sistema di notazione),³ è dunque alla base della nuova visione sulla danza. ¹ Punto di riferimento imprescindibile, per Rossini e la danza, è il noto volume edito dalla Fondazione

²

³

Rossini di Pesaro curato da Paolo Fabbri, Di sì felice innesto. Rossini, la danza e il ballo teatrale in Italia, Pesaro, Fondazione Gioachino Rossini, 1996. Per Napoli un punto di partenza importante in merito – dopo l’avvio con le celebrazioni del 250° anniversario dalla fondazione del Teatro di san Carlo – è stato il Convegno Internazionale di Studi promosso e organizzato lo scorso anno da Airdanza (Associazione Italiana per la Ricerca sulla Danza) e dal Centro di Musica Antica Fondazione Pietà de’ Turchini Danza e ballo a Napoli: un dialogo con l’Europa (1806-1861), che ha aperto un rinnovato interesse sulle fonti archivistiche della capitale del Regno delle due Sicilie. Patrizia Veroli, I balli composti e/o diretti da Salvatore Taglioni nei Teatri Reali napoletani San Carlo e Fondo (1814-1861). Una prospettiva dai libretti, in Danza e ballo a Napoli: un dialogo con l’Europa (18061861), a cura di Paologiovanni Maione e Maria Venuso, Napoli, Turchini Edizioni, 2020, pp. 53-87 e Appendice online sul sito Airdanza. A questo proposito si veda la recensione di Emanuelle Delattre Destenberg, Marie Glon e Vannina Olivesi (Congress of Research in Dance, 2014) al volume Le Ballet de l’Opéra: Trois Siecles de Suprématie d’apuis Louis XIV di Mathias Auclair e Christophe Ghristi, pubblicato a Parigi nel 2013 (ed. Albin Michel), in cui le studiose sottolineano l’inopportunità del termine usato nel sottotitolo, ovvero «Suprématie». Non è infatti possibile supporre tre secoli di supremazia da parte di Parigi, non solo perché si ignorerebbe il

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Maria Venuso Opera e ballo al San Carlo negli anni di Rossini: alcuni casi specifici In questo ambito, chi scrive si sta occupando della ricostruzione della storia della Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo, una istituzione pubblica fondata con regio decreto del 22 gennaio 1812, su progetto di Louis Henry (ma di fatto già attiva nel privato almeno dal 1810 presso l’abitazione dello stesso coreografo) per offrire onesto impiego ai più bisognosi, ma soprattutto pensata per infarcire di masse i sontuosi spettacoli senza gravi oneri per le casse reali. In questo modo i professionisti da pagare sarebbero stati solo i primi ballerini ospiti mentre gli allievi, con un modesto compenso, avrebbero occupato le file dei corifei o, all’occorrenza, ricoperto ruoli solistici.4 Lo stabilimento di formazione coreutica, negli anni di Rossini, è dunque in ufficiale avvio e conta maestri di grande livello la cui fama, nella formazione tecnica, travalica i confini del Regno: lo stesso Henry e Salvatore Taglioni alle scuole di Perfezione, Pietro Hus alla Scuola generale. La formazione strutturata contribuisce alla magnificenza della messa in scena voluta da Domenico Barbaja:5 in questo periodo storico le produzioni di ballo a Napoli sono interessanti e spesso all’avanguardia e, come è noto, i soggetti trasmigrano dall’opera al ballo e viceversa in un processo osmotico che Marian Smith, per Parigi, defi-

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concetto di métissage, ma perché, invece di analizzare il discorso relativo alla propaganda politica insita nel balletto, a partire da Luigi XIV, questo stesso principio tenderebbe a riprodurla. Di qui la responsabilità dello storico della danza, che spesso ha dato adito a rappresentazioni semplicistiche senza inquadrare la riflessione sulle fonti in un discorso storico di ampie vedute, e le visioni fuorvianti di una presunta superiorità francese o le nostalgie nei confronti di una presunta purezza, secondo una lista di clichés molto ampia. Le studiose lamentano inoltre che, nonostante questa miope visione sia oggi superata, nessuno abbia provveduto a pubblicare un volume destinato al grande pubblico che rifletta sui significati della storia della danza occidentale. D’altra parte la presenza di artisti provenienti da Italia, Inghilterra, Spagna, Germania, Russia e altre numerose regioni non europee hanno contribuito non poco all’arricchimento della danza francese e non va dimenticato il valore degli scambi culturali in un complesso dialogo che talvolta si trascura di far fiorire. Archivio di Stato di Napoli, da adesso in poi indicato come ASNa, Teatri e Spettacoli, 56. Per la danza al San Carlo e l’Istituzione scolastica cfr.: Roberta Albano, Il Teatro di San Carlo, in Roberta Albano – Nadia Scafidi – Rita Zambon, La danza in Italia. Dal XVII secolo ai giorni nostri, Roma, Gremese, 1998, pp. 167-219; Rosa Cafiero, Aspetti della musica coreutica fra Settecento e Ottocento, in Il Teatro di San Carlo1737-1987, Napoli, Electa Napoli, 1987, II, L’opera, il ballo, a cura di Bruno Cagli e Agostino Ziino, pp. 309-332; Ead., Ballo teatrale e musica coreutica, in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Settecento, a cura di Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione, Napoli, Turchini Edizioni, 2009, pp. 707-732; Paologiovanni Maione – Francesca Seller, Teatro di San Carlo di Napoli. Cronologia degli spettacoli (1851-1900), Cava de’ Tirreni, Avagliano, 1999; Rosa Maresca, Le scuole di ballo del Teatro di San Carlo dal 1812 al 1840: i documenti dell’Archivio Storico di Napoli, «Chorégraphie» 5/10, 1997, pp. 85-112; Nadia Scafidi, La danza nelle istituzioni scolastiche governative nell’Italia dell’Ottocento (1ª e 2ª parte), «Chorégraphie» 2/3 e 4, 1994, pp. 75-90, 63-82; Ead., La Scuole di Ballo del Teatro alla Scala: l’ordinamento legislativo e didattico nel XIX secolo (1ª e 2ª parte), «Chorégraphie» 5/7 e 8, 1996, pp. 51-72, 63-82. Cfr. nello specifico Paologiovanni Maione – Francesca Seller, I Reali Teatri di Napoli nella prima metà dell’Ottocento. Studi su Domenico Barbaja, Bellona (CE), Santa Barbara Editore, 1994; Philip Eisenbeiss, Domenico Barbaja. Il padrino del belcanto, Torino, EDT, 2015.


La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini nisce come la conseguenza di essere parte di una ‘stessa famiglia’.6 Rossini arriva a Napoli in un momento di grande fermento culturale, nell’anno della Restaurazione che segue il decennio francese (e nel 1816 nasce il Regno delle Due Sicilie); si trova a operare sotto Ferdinando I, in un momento in cui la gloria della casa reale dei Borbone si esprimeva più che mai attraverso gli allestimenti al San Carlo. Una convivenza con il ballo teatrale, da parte dell’opera, nel momento del suo massimo splendore. Non ci si soffermerà in questa sede sulle Reali Scuole di Ballo, poiché le piste da seguire, per una ricostruzione generale dell’ambito coreico, sono molteplici: la formazione dei soggetti, il milieu culturale, i protagonisti, le maestranze. Si tenterà di offrire, invece, una piccola panoramica di settore riferita al periodo in oggetto e alcuni spunti di riflessione.

Figura 1: Elisa Vacquemoulin e Antonio Guerra in un passo, Napoli, Tipografia Flautina, 1835. 6 Marian Smith, Ballet and Opera in the Age of Giselle, Princeton, Princeton University Press, 2000; Ead.,

Ballet, Opera and Staging Practices at the Paris Opéra, in La realizzazione scenica dello spettacolo verdiano, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 1997, pp. 172-318; Matilda Ann Butkas Ertz, Scoring the ballo fantastico: supernatural characters and their music in Italy’s ballets during the Risorgimento, «Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni» 8, 2016, pp. 5-46.

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Maria Venuso La principale difficoltà degli studi sulla danza consiste, com’è noto, nel non avere una partitura sulla quale lavorare, per cui anche ipotesi di studio appaiono spesso destinate a rimanere senza certezze. Un esempio di suggestione che, allo stato attuale è impossibile da verificare e corroborare e che emerge da un confronto ideale fra la struttura ritmica delle partiture rossiniane e le descrizioni dei balli di Salvatore Viganò, potrebbe risiedere nella riconosciuta espressività ritmica propria dei coreodrammi del coreografo, col quale Rossini aveva avuto rapporti e ne aveva protetto la figlia pianista. Questa peculiarità dell’impianto coreografico di una delle personalità più influenti del tempo si sarebbe persa con la sua morte e sarebbe rimasta, in parte, nello stile di Henry, suo ultimo epigono all’epoca e considerato «il solo che ormai riesca a interessare il pubblico all’azione»7 quando, nello stesso momento storico, l’azione in musica vedeva in Rossini il suo più fulgido esponente. Come sottolineano Claudia Celi e Andrea Toschi, in proposito: dall’esame delle differenti scelte attuate dagli autori si evidenzia la relazione fra ballo e melodramma in un continuo confronto, coscientemente perseguito da Salvatore Viganò, Gaetano Gioia e gli altri autori del genere non a caso definito da Ritorni «coreodramma» […] L’affinità non fu determinata solo da un fenomeno di moda, che vedeva il rincorrersi degli stessi soggetti fra teatro drammatico, opera e ballo; la reciproca influenza fu già nelle scelte interpretative se, come sottolinea la Hansell, le magistrali interpretazioni di ruoli femminili di Antonietta Pallerini ne La vestale di Viganò o nella Gabriella di Vergy di gioia costituivano un punto di riferimento anche per le interpreti del teatro cantato.8

Si tratta di una suggestione che può avere un fondo di verità, ma al momento non appare verificabile: in una riflessione sulla morfologia dei prodotti, potrebbe trattarsi di un elemento da indagare per un confronto tecnico-stilistico che andrebbe ben oltre l’esame di soggetti, libretti o della ‘traduzione’ delle diverse situazioni sceniche a livello drammaturgico e presupporrebbe un lavoro congiunto di musicologi e coreologi. Mettendo da parte queste visioni audaci, ci si soffermerà in questa sede sui più recenti studi storici documentati dalle carte d’archivio, secondo quanto emerso in merito a soggetti e soluzioni drammaturgiche nuove per il ballo. Queste sembrano mettere in discussione il ‘primato’ francese legato al balletto romantico, in un panorama di visioni che sta spostando l’asse di osservazione dall’Opéra di Parigi, luogo ‘sacro’ in cui, a un certo punto della storia, le innovazioni provenienti dai teatri des Boulevards avevano siglato i passaggi epocali della storia della danza teatrale ottocentesca, fra Sonnambule e Silfidi. I clichés del ballet blanc divengono elementi da ricollocare nel tempo e nello spazio, in virtù dell’aspet7 «Gazzetta di Milano», 30 dicembre 18299, cit. in Claudia Celi – Andrea Toschi, Lo spartito animato, o 8

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delle fortune ballettistiche dell’«Adelaide di Francia», in Di sì felice innesto cit., p. 146. Cfr. Celi – Toschi, Lo spartito animato cit., pp. 146-147 e relative note.


La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini to culturale che vede la danza quale terreno di espressione di più ‘romanticismi’ paralleli, come riconosciuto in letteratura e nell’arte in generale.9 Approcci importanti, per l’Italia, sono stati avviati grazie ai documenti emersi per i balli messi in scena dai maestri francesi (e italiani di formazione francese), nonché per la ricezione di determinati soggetti da parte del pubblico; la stessa musica dei balli fantastici in Italia è stata solo in parte indagata per lo studio dei soggetti soprannaturali nell’Italia risorgimentale.¹0 Nel riportare alcuni esempi relativi alla presenza dell’elemento magico sulle scene, la studiosa Matilda Ann Butkas Hertz per l’ambito operistico cita La Cenerentola di Rossini «as an early operatic fairy tale example, even if it avoids overt magic in favor of a more realistic telling».¹¹ Dal momento che si sottolinea il ricorso a un impianto realistico, più che fantastico, si potrebbe ricondurre il discorso al prodotto rossiniano in cui l’elemento magico appare invece portante, ossia Armida. Per di più, nel menzionare La Cenerentola, non è fatto alcun riferimento al precedente ballettistico immediato, rispetto all’opera, ossia il ballo La virtù premiata, ballo magico composto e diretto da Louis-Antoine Duport,¹² andato in scena prima a Vienna nel 1813 e poi al San Carlo il 12 gennaio del 1816 su musica del Conte di Gallenberg, in occasione dei festeggiamenti per la nascita di Ferdinando, per poi tornare sulle scene il 12 gennaio del 1817,¹³ a seguito del devastante incendio che avrebbe distrutto il Teatro, un prodotto che Rossini doveva conoscere molto bene. L’osmosi tra opera e ballo appare dunque molto forte anche a Napoli ed è noto che Rossini abbia ereditato da quest’ultimo genere diversi soggetti, quali Otello (1808), Guglielmo Tell (1809), Rinaldo e Armida di Louis Henry (1811), Il Barbiere di Siviglia di Salvatore Taglioni (1814).

9 Si vedano in merito Debra H. Sowell, a Plurality of Romanticism: Italian Ballet and the Repertory of An-

¹0 ¹¹ ¹²

¹³

tonio Cortesi and Giovanni Casati, «Dance Research Journal» 37/1, 2005, pp. 37-55; Rethinking the Sulph. New Perspectives on the Romantic Ballet, a cura di Lynn Garafola, Middletown, Wesleyan University Press, 1997. Rosa Cafiero, Il ‘grande industriale internazionale del balletto’ a Napoli nell’età di Rossini: Wenzel Robert Gallenberg, in Di sì felice innesto cit., pp. 1-40: 2, nota 4; Butkas Ertz, Scoring the ballo fantastico cit., passim. Butkas Ertz, Scoring the ballo fantastico cit., p. 12 Questo ballo non è stato ancora indagato in un orizzonte di studio specifico sulla figura del grande danzatore francese Louis Duport, che a Napoli ebbe molta gloria: in proposito, è in corso di avvio uno studio ‘a quattro mani’ della sottoscritta con Roberta Albano, dal titolo Louis Duport and Domenico Barbaja: the relationship between art and management and the ‘case’ of La virtù premiata, in Times for Changes: Transnational Migrations and Cultural Crossings in Nineteenth-Century Dance, Proceedings of International Research Conference, (Salzburg, 28-30 November 2019) edited by Irene Brandenburg-Francesca Falcone-Bruno Ligore-Claudia Jeschke, Bologna, Piretti, 2021 (in preparazione). Cf. Paolo Fabbri, Il ballo veduto colla lorgnette, in Di sì felice innesto cit., p. XI. Su Gallenberg e la sua produzione cfr. Cafiero, Il ‘grande industriale cit.

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Maria Venuso Armida: il soggetto e le suggestioni preromantiche nella Napoli degli anni Dieci Ci si soffermerà qui sul soggetto dell’Armida, non per ipotizzarne la struttura coreutica dei ballabili, ma per tentare una piccola visione a volo d’uccello su come l’elemento magico, nell’opera di Rossini, possa essere dovuto proprio alla persistenza, nella città, di elementi fantastici graditi al pubblico e che anticipano sulle scene i caratteri principali del balletto romantico in Francia. Non appare un caso che l’unica opera dal soggetto fantastico nella produzione del Pesarese sia stata portata in scena nella Capitale del Regno delle Due Sicilie: se i coreografi sono per lo più francesi – con conseguente impronta sulla scelta del repertorio e dello stile – è pur vero che il pubblico partenopeo appare particolarmente ricettivo a questo tipo di costruzioni e a Napoli un astro come Salvatore Viganò a Napoli stenta ad affermarsi con la sua Clotilde.¹4 Partendo ancora dallo studio di Matilda Butkas sulle partiture del ballo fantastico nell’Italia risorgimentale, quando si legge: While Il Noce di Benevento did not have the designation fantastico, it gives us a indication of the early wandering of fantastic subject matter between foreign and Italian theatres, which perhaps paved the way for Italian ballet’s earlier acceptance of fantastic than in opera,¹5

siamo sulla strada che si intende percorrere. Il noto ‘ballo delle streghe’ di Viganò, che la studiosa prende giustamente in considerazione, tratto da Il noce di Benevento del 1812, non è tuttavia il primo esempio di ballo infarcito di elementi preromantici. Armida e Rinaldo di Louis Heny presenta già, in nuce, alcuni crismi del balletto romantico e introduce, con grande risposta positiva da parte del pubblico, sensibili elementi soprannaturali della costruzione drammaturgica della vicenda.¹6 ¹4 Su questo specifico punto cfr. Kathleen Kuzmick Hansell, Il ballo teatrale e l’opera italiana, in Storia

dell’Opera Italiana, a cura di Lorenzo Bianconi e Giorgio Pestelli. La spettacolarità 5, Torino, EDT, 1988, pp. 177-306. Su Salvatore Viganò cfr. Carlo Ritorni, Commentarii della vita e delle opere coreodrammatiche di Salvatore Viganò e della coreografia de’ Corepei scritti da Carlo Ritorni Reggiano, Milano, Tipografia Guglielmini e Redaelli, 1838; Il sogno del coreodramma. Salvatore Viganò, poeta muto, a cura di Ezio Raimondi, Bologna, il Mulino, 1984; Ritorno a Viganò, a cura di José Sasportes e Patrizia Veroli, Roma, Aracne Editrice, 2017. In particolare, per l’attività di Salvatore Viganò a Napoli, si vedano gli studi recentissimi di Roberta Albano, Salvatore Viganò e l’attività al teatro del Fondo di Napoli, «Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni» 10, 2018, pp. 11-36; Ead., Salvatore Viganò e la Clotilde napoletana, in Danza e ballo a Napoli cit., pp. 25-52. ¹5 Butkas Ertz, Scoring the ballo fantastico cit., p. 12. ¹6 Nell’Ottocento un altro dramma per musica intitolato Armida, e Rinaldo era andato in scena, nel 1802 al San Carlo, su musica di Gaetano Andreozzi e libretto di Lorenzo d’Amico, con due balli di Pietro Angiolini, ballerino e coreografo, collocati alla fine. Primo ballo L’apoteosi di Ercole, azione eroico-pantomima inventato e composto dal sig. Pietro Angiolini primo ballerino e direttore del ballo e il Secondo ballo Le Amazzoni moderne, che fanno parte di Armida e Rinaldo dramma per musica da rappresentarsi nel Real

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La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini Antecedente immediato dell’Armida rossiniana, come dichiarato dallo stesso librettista Giovanni Schmidt, è dunque Armida e Rinaldo, ballo pantomimo in cinque atti di Louis Henry, rappresentato per la prima volta in Napoli sul real Teatro di S. Carlo, nel carnevale dell’anno 1811 su musica del Conte di Gallenberg, compositore e direttore della musica de’ balli del San Carlo,¹7 decorazioni del Sig. Niccolini, professore dell’accademia imperiale delle belle arti di Firenze, macchinismo del Signor Smiraglia e costumi del Signor Pietro Ricci.¹8 Va in scena con l’opera Odoardo e Cristina di Cesare Pavesi (prima rappresentazione dell’opera al San Carlo il 1° dicembre del 1810). Su questo prodotto, che avrebbe condizionato Schmidt pochissimi anni dopo, il «Monitore delle Due Sicilie» del 9 gennaio («Corriere di Napoli») così riporta: […] Dobbiamo al signor Taglioni padre lo stabilimento in Napoli di un teatro meccanico costruito sul modello di quello del signor Pierre a Parigi. Questa nuova specie di spettacolo, che mancava tra noi, avrà sicuramente un felice successo, se proseguirà ad esser diretta colla diligenza che si è osservata nelle prime rappresentazioni. Malgrado alcuni piccioli difetti, che costerà poco al signor Taglioni far scomparire, dobbiam dire, infatti, che non potrebbe desiderarsi né maggiore verità né maggiore esattezza. […]

Il ballo di Henry del 1811, nel secondo atto, entra in un’atmosfera di magia e di oscurità con largo anticipo rispetto alle note testimonianze francesi di balletti in cui si affacciano Teatro di S. Carlo nel di 2 settembre 1802. Dedicato alla S. R. M. di Ferdinando IV nostro amabilissimo sovrano. I balli furono danzati da Pietro Angiolini e Giovanna Campilli, ballerina che si distinse come coreografa, cosa inusuale al tempo ma che a Napoli non pare lo fosse in assoluto. La stessa Fanny Cerrito, una delle dive del balletto romantico, formatasi privatamente a Napoli (e non alla Scuola del Teatro come fino a ora tramandato – cfr. Maria Venuso, La Storia della danza e i documenti d’archivio: il caso di Napoli, in Le Reali Scuole di Ballo del Teatro di San Carlo di Napoli, a cura di Giovanna Caridei, Napoli, Arte’m, 2017, pp. 15-20 ed Ead., La Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo: luci e ombre di una istituzione, in Danza e ballo a Napoli cit., pp. 7-24) si distinse come coreografa; così la nipote di Salvatore Taglioni – Luisa Taglioni Fuchs, sarebbe stata direttrice della Scuola di Ballo del San Carlo alla rifondazione del 1861, ricoprendo un ruolo inusuale e unico in Europa per una donna, mentre durante gli anni della prima apertura dello stabilimento Elisabetta Naley Neuville aveva diretto la Scuola di perfezione delle donne, pur non trovandosi nella consueta posizione ‘di coppia’ con un marito nel settore, com’era invece d’uso. ¹7 In un documento del 27 novembre 1816 (ASNa, Teatri e Spettacoli, fascio 51) il Conte di Gallenberg, in una supplica al Segretario di Stato Ministro dell’Interno a proposito del valore del suo ruolo di Direttore e Compositore della musica de’ Balli del R. Teatro di San Carlo (17 maggio 1809) sottolinea la propria scrupolosità e l’aver ottenuto per questo «l’incarico parziale delle Reali Scuole di ballo, che appena affidatomi, procurai in prima assodare con un Regolamento, ch’è tuttora in vigore, e che l’Eccellenza Vostra ha trovato finora convenevole, ed indi, colle mie assidue cure nulla ho trascurato, perché un così ottimo e provvido stabilimento, progredisce in miglioramento, per l’onore della Nazione, e del Nostro Buon Sovrano che n’è lo special protettore. [...]». Sulla sua partecipazione alla fondazione delle Reali Scuole di Ballo si vedano ASNa, Ministero dell’Interno, fascio 4663, fasc. 3 e ASNa, Teatri e Spettacoli, fascio 54. ¹8 Armida e Rinaldo, libretto conservato presso il Conservatorio di Musica di Napoli San Pietro a Majella, Napoli, stamperia F.lli Masi.

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Maria Venuso il soprannaturale e il demoniaco: si pensi alle monache morte di Robert le Diable del 1831 prima de La Sylphide di Filippo Taglioni del 1832 e, ancor prima, a La Somnambule di Hérold-Aumer del 1827, in cui l’oscurità del soprannaturale fa capolino sotto la veste di false credenze intorno a un disturbo del sonno in buona parte ancora sconosciuto.¹9 L’elemento demoniaco che si registra in Francia come novità degli anni di Luigi Filippo, a partire dal balletto La Somnambule di Hérold-Aumer su testo di Eugéne Scribe come prodromo del genere in oggetto, trova in questo ballo di Henry un anticipo notevole, dal punto di vista cronologico, se ci riferiamo alla danza. Nella II scena del II atto, Armida è dipinta dal libretto come una donna-demonio che anticipa la Madge taglioniana ma anche la Myrtha di Giselle, sia pure sotto la veste del personaggio della Gerusalemme liberata del Tasso.²0 Nel momento in cui la maga, fattasi scortare da cinque cavalieri (non dieci come canta il Tasso, a causa dell’esiguità del corpo di ballo,²¹ come spiega una nota del libretto), si legge che «Vedendosi in mezzo al bosco, invoca l’Inferno. Esce dal terreno una verga, ch’ella rapidamente afferra. Armida non è più quella giovanetta piangente; ma una maga in mezzo a’ suoi incantesimi, agitando furiosamente in mano quella verga». Il bosco sarà una componente topica della Romantische Oper tedesca e influenzerà il balletto francese, che nei boschi ambienterà i cosiddetti ‘atti bianchi’, emblemi del romanticismo coreico.²² Si tratta di luoghi simbolo della forza maschile, in cui l’uomo è attirato dalle figure femminili soprannaturali, per trovare la morte o la salvezza, a seconda del caso;²³ ed è proprio nel bosco che Rinaldo incontra Amore sotto mentite spoglie di fanciullo e si sente divorare dalla sua fiamma. Nel bosco il guerriero è sconfitto da una potenza magica, come in un bosco le Villi attireranno gli uomini per annientarli nella danza. Lo stesso Filippo Taglioni, che avrebbe consegnato alla storia il proprio nome come ‘padre’ del primo balletto romantico, era presente a Napoli il 20 ottobre del 1819 per una sua serata di beneficio al Teatro del Fondo,²4 periodo in cui era sulle scene il Macbeth di Armand Vestris del 1818, come sottolinea Roberta Albano in un recentissimo studio condotto insieme ¹9 Maria Venuso, La ‘danza’ di Amina e il ‘canto’ di Giselle. Alcune osservazioni comparative dal balletto La ²0

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Somnambule a Giselle, passando per La Sonnambula di Vincenzo Bellini, «Acting Archives Review» IV/8, 2014, pp.132-181. Molto importanti, sullo stesso soggetto, i figurini per Armida e Rinaldo del coreografo Filippo Izzo, che il 6 luglio del 1839 porta in scena al San Carlo questo soggetto: il figurino che raffigura la danzatrice Raffaella Santalicante in un atteggiamento tipico delle litografie del ballet blanc nella posa della arabesque ‘a due braccia’, avvolta in un bianco e vaporoso tutù con leggera decorazione trasversale di fiori e foglie longitudinali. Cf. Fig. 6. Questo sarà uno dei motivi che porterà a ufficializzare lo stabilimento di formazione coreutica. Cfr. Elisabetta Fava, Ondine, vampiri e cavalieri. L’opera romantica tedesca, Torino, EDT, 2006; Marina Mayrhofer, Di specie magica. Drammaturgia musicale tedesca dell’Ottocento, Roma, Aracne Editrice, 2012. Cfr. Venuso, La ‘danza’ di Amina cit., passim. Cfr. Roberta Albano – Rosa Cafiero, Shakespeare in ballo: Macbeth di Armand Vestris e Wenzel, in Danza e ballo a Napoli cit., pp. 123-155.


La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini a Rosa Cafiero.²5 Le visioni stregonesche, il sonnambulismo e l’ambientazione scozzese anticipano o comunque innestano a Napoli elementi tradizionalmente attribuiti alle scene d’oltralpe, quali novità assolute del balletto romantico.

Figura 2: Armida e Rinaldo di Louis Henry (1811), frontespizio del libretto (I-Nc, Ok.10.23/6).

Figura 3: «Armand Vestris nel ballo di Macbeth, da esso composto». Incisione di L. M. Napoli, circa 1819. (Collezione Sowell).

Nella scena VII del II atto del ballo di Henry è presente l’invocazione delle ombre grazie alla verga magica di Armida, per far sì che l’esercito musulmano da lei capeggiato abbia facilmente la meglio sul paladino; ella trasforma la foresta in un luogo incantato, in cui «delle larve, in sembianza di zefiri, terminano di addormentarlo profondamente, quindi spariscono al giunger di Armida». Demoni e furie ricompaiono nella scena III dell’atto III per cercare di vincere i poteri d’Amore, invano. Ninfe, Zefiri, Mostri e Demoni popolano l’atto IV e un messo dall’Inferno richiama Armida. La situazione non procede in un climax ²5 Ibidem.

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Maria Venuso ascendente di negatività e l’ordine si ristabilisce a vantaggio dei paladini cristiani mentre Armida, che ha perso l’amore, si innalza verso il cielo e distrugge il palazzo incantato.²6 Nello specifico, questo il commento nella sezione Varietà del «Corriere di Napoli» (n. 545, 30 gennaio 1811): Armida, e Rinaldo, ballo pantomimico del signor L. Henry Vi sono alcuni popoli frà [sic] i quali presso ad un uomo, che sia giunto al termine della sua vita, i parenti e gli amici tessono danze festose e sciolgono lieti canti di gioja, onde render così men funesta l’imagine [sic] della morte. Nel modo stesso prima di deporre la penna, e prima che questo Giornale si giaccia nella tomba a cui è condannato, a me pure fu concesso di arrestare gli ultimi sguardi sopra le immagini più ridenti e giulive. In ciò fortunato, e più felice ancora se le estreme mie parole potranno essere paragonate al canto del cigno. La favola, la storia e la poesia non possono presentare a un compositore di balli un argomento, che al pari di quello di Armida comprenda tutti i prestigi del bello, della seduzione e dell’incanto: né questa è la prima volta che gli amori di Rinaldo furono riprodotti sulle scene. Ma il nostro compositore ha sdegnato d’imitare coloro che l’han preceduto nella medesima carriera, e con saggio avvedimento non ha voluto altro consigliero ed altra scorta che quel poeta divino che <…> Gli antichi credeano, che la pantomima potesse esprimere con egual felicità i pensieri più reconditi della mente e tutti i sentimenti del cuore: è noto un antico epigramma in cui alludendo ad un celebre pantomimo si osserva, che ogni parte del suo corpo ha quasi voce e mente. Tot linguae quos membra viro: mirabilis est ars Quae facit articulos, voce silente, loqui.

Già gli antichi, dice Cassiodoro, diedero il nome di muta a quella parte della musica, che per mezzo di movimenti e di gesti può esprimer ciò che lingua mortale potrebbe appena ridire. Ma pure, chi mai può lusingarsi di riprodurre con altro linguaggio i versi del Tasso, ²6 Tra gli interpreti: Signora Quériau (Armida), Signora Sichera (Cupido), Signor Hus (Goffredo), lo stesso

Henry (Rinaldo), Signor Marchiò (Ubaldo), Signor Gucci (Gernando), Signor Lamberti (Un cavalier Danese), Signor Sichera (Un vecchio), Signora Tarzia (Una messaggera), Signori Taglioni, Piccardi e Gucci (Zeffiri), Signore Taglioni Dubourg, Péraud Taglioni, Klangfort, Tarzia (Ninfe); Signori Piccardi e Gucci, Signore Taglioni, Majorana, Klangfort (Piaceri e per i ruoli dei Turchi, Demoni e Ombre).

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La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini quantunque parlando di Armida egli stesso dica Che ciò che lingua esprimer non puote Muta eloquenza ne’ suoi gesti espresse?

Il compositore del nuovo ballo ha voluto riunire in un sol quadro tutte le vicende di Rinaldo e d’Armida: egli ha dovuto perciò stringere, e premere gli avvenimenti, e precipitarne il corso e il progresso, in modo che non risultasse palesemente tradita ed offesa l’unità di tempo e di azione. Esempio ne sia che, appena partito Rinaldo, dal campo, Goffredo nel momento stesso riceve dal cielo il consiglio di richiamarlo. S’apre la scena, i guerrieri cristiani, e principalmente Rinaldo e Gernando, contendono non già come nel poema per la gloria di succedere a Dudone, ma per il possesso dell’armi: questo cambiamento è felice e drammatico. Giunge Armida al campo a guisa di fuggitiva disadorna e negletta, ne sò [sic] perché, quando il poeta appunto parlando del suo arrivo al campo, ci dice Argo non mai, non vide Cipro o Delo D’abito o di beltà forme sì care.

Rinaldo vincitore, e uccisor di Gernando parte dal campo, ne parte Armida coi cavalieri, che Goffredo destinò a sua difesa; l’azione procede intanto velocemente, e si prepara lo sviluppo. Le mutazioni di scena, e le diverse transformazioni si succedono le une all’altre con rapidità: ma questa rapidità non offende la ragione, perché esse son l’opera di una forza soprannaturale. Il compositore ha voluto, che l’ultima scena rappresentasse l’interno del palazzo di Armida. Giungono ivi i due guerrieri. Rinaldo tornato in se stesso s’invola all’oggetto del suo amore, ne bastano a ritenerlo i pianti d’Armida, e così senza altro intervallo, senza altra mutazione di scena si è potuto dar termine al ballo, e raddoppiare l’effetto colla distruzione, e coll’incendio dell’intiero edificio. Ma il compositore non ha voluto sagrificare a questo effetto il quadro voluttuoso dei giardini di Armida. Solamente questa scena, che nell’ordine del Poema sarebbe l’ultima, nell’ordine del ballo precede l’ultimo atto. In questi giardini però sarebbe stato pure un utile consiglio di non tentare di riprodur quel lago, che difficilmente potea imitarsi in modo da eccitar l’illusione. In tal modo si otteneva un doppio vantaggio, perché non si sarebbero riprodotte quelle nuotatrici ignude e belle la cui continua e prolungata ondulazione stanca lo spettatore, e ne divide l’attenzione, senza scopo, e senza oggetto, poiché nel piano del ballo neppur son vedute, o incontrate da coloro de quali nel poema mossero alquanto i duri petti talchè si fermarono a riguardarle. E tanto più, che quando nella successiva scena giungono di fatti i due guerrieri, il compositore per arrestarne i passi, ha saputo circondarli 83


Maria Venuso di un genere di seduzione assai più possente e soave, per mezzo delle danze sì vivamente applaudite di tutta la famiglia Taglioni. Henry merita egual lode come ballerino e come compositore, e si è potuto anzi osservare in esso un insolito impegno d’incatenare per così dire i suffragi e gli applausi: la signora Quériau esprime con verità, e con energia le passioni di Armida. Il ballo è stato accolto con trasporto, e sarà anche maggiormente applaudito all’avvenire quando i cambiamenti di scena e le trasformazioni saranno eseguiti con più precisione e velocità. <…> compariscono a un cenno di Armida siano coperte di lunghi manti, che ad esse danno somiglianza di tutt’altro che di larve? Perché que’ demonj, che ritornano sì spesso sulla scena, son cinti sulla fronte di un velo per cui hanno, più che di demonj, l’apparenza di antiche statue Egizie? Perché il solitario Piero è quasi vestito a guisa di giovane donzella? Perché la ninfa che dee servir di guida a’ guerrieri in vece di una barca non appresta essi ad un carro, poiché non si vede né mare, né fiume? Questo cambiamento era reso necessario dalle circostanze locali, né la nota inserita nel programma può scusare il compositore di una inverisimiglianza, che rammenta quell’aria buffa Capitan di due Sciabecchi Sopra l’Alpi navigai

La musica convien confessarlo è assai inferiore di pregio a quella del Sansone: né il signor Conte di Gallenberg può duolersi che di due produzioni delle quali è egualmente l’autore sia una preferita all’altra. I vestiarj sono egualmente magnifici e ricchi; e questi si rinnovano sì spesso che ben si scorge che nulla si è voluto risparmiare per accrescer la pompa dello spettacolo. Le scene son degne dell’autore, e ciò basta. Non voglio dissimulare però, che forse alcune di desse non han corrisposto pienamente a quanto si sperava da lui. Il sig. Niccolini non dee in tal caso dolersi che di se stesso, poiché coll’averci resi famigliari i prodigj dell’arte egli ci ha resi anche più difficili ad essere intieramente paghi. La prima scena che rappresenta le Tende Cristiane fra le palme idumee è piena di verità, sebbene sia forse troppo breve l’intervallo che divide il campo da Gerusalemme, e la penultima scena, che rappresenta la parte esteriore del magnifico edificio descritto dal Tasso è una nuova prova che il sig. Niccolini è non men architetto, che pittore. Egli ha avuto in mente il verso del Poeta Tondo è il ricco edificio, pur sembra che non abbia avuto presenti i versi che seguono Le porte qui d’effigiato argento Su i cardini stridean di luci d’oro

Ma basti così: già mi sembra, che altri mi accusi, che più dell’amore dell’arte queste osservazioni sono dettate da una vana pedanteria, e dal desiderio di far palese, che mi son presenti al pensiero i versi del nostro Poeta. 84


La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini

Figura 4. Adélaïde Mersy. Litografia di L. Metalli (da G. B. B.). Torino, D. Festa, 1832 (Collezione Sowell). Il ballo di Henry inizia nel campo dei guerrieri cristiani, come sarà per l’opera rossiniana. Il coreografo, nella versione dello stesso soggetto riproposta nel 1819, avrebbe invece fatto iniziare il nuovo ballo con i protagonisti già presi d’amore, intitolando il nuovo lavoro La Gerusalemme liberata, o sia Il ritorno di Rinaldo, ballo pantomimo in cinque atti messo

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Maria Venuso in scena per la prima volta il 20 gennaio del 1819²7 al San Carlo con musica di Gallenberg per il primo atto (e ricordiamo che la recensione del 1811 su riportata ne bocciava la partitura), in parte di Rossini, Carafa e Mercadante per il secondo atto. Qui si registra, tra i vari ballabili, una danza a nove del Signor Vestris primo, colle signore Mori, Ronzi, Mersi, Demartini, Vitolo, Aquino, Sica e Porta. Scene di Niccolini, dipinte da Pasquale Canna, costumi del Sig. Novi per gli uomini e del Sig. Giovinetti per quelli da donna.

Figura 5: La Gerusalemme liberata, o sia Il Ritorno di Rinaldo frontespizio del libretto, Teatro di San Carlo 1919 (I-Nc, Ok.10.23/13).

²7 Ringrazio Rosa Cafiero per le informazioni relative alla cronologia di questi anni.

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La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini Dalla recensione pubblicata sul «Giornale del Regno delle Due Sicilie» il 1° febbraio del 1819, si legge che l’ambientazione fantastica non aveva ricevuto un giudizio positivo dalla critica, ma che invece aveva strappato molti applausi al pubblico la sera della prima: Real Teatro di San Carlo. La Liberazione di Gerusalemme, ballo del Signor L. Henry. La spedizione degli antichi Greci contra la più rinomata città dell’Asia, e le Crociate de’ moderni contra i barbari, sono i due avvenimenti de’ quali siasi maggiormente giovata la poesia; e ciò sarebbe vero, quando anche dovessimo loro i soli canti di Omero, di Virgilio, del Tasso […]. Ma donde avviene che i fonti dell’epiche bellezze, dischiusi da quei tre sublimi cantori, sono sparsi di scogli famosi per illustri naufragi, ne’ quali perdendonsi chiarissimi compositori di balli, quando pretesero farne tesoro per il teatro? Per esempio: altra volta Henry tentò di mettere in azione l’incendio di Troia, e fu poco felice; ha voluto ora arci vedere Gerusalemme liberata, e non è stato più fortunato. Chi avvisarebbe, infatti, di riconoscere in questa povera Gerusalemme l’autore meritatamente applaudito del Guglielmo Tell, del Paolo e Virginia, dell’Amleto, del Gengis- Khan? Che se alcuno non volesse farsene delitto, noi ci congratuleremmo di questa sventura, perché desidereremmo che Henry rinunziasse per sempre a spettacoli che parlano unicamente agli occhi, ed alle perpetue fantasmagorie cui sembrano oggi condannati tutti i nostri balli. Spettacoli, che nulla dicono al cuore, applauditi alla prima rappresentazione, saranno sempre accolti con fredda indifferenza alla seconda. Gli esseri immaginari della mitologia antica e moderna deono restituirsi per sempre all’epopeia, o lasciarsi a miserabili compositori, incapaci di saper condurre una favola qualunque senza il prestigio del meraviglioso, e senza le furie, le fate, le selve, i palazzi, le torri, le nuvole, i voli incantati, e l’eterno fuoco di Bengala […] Henry, cui natura concesse molto ingegno ed anima capace di profondo sentire; Henry sempre vero, sempre nobile, sempre grande nell’azione; Henry già coronato di tragici allori, segua le tracce della buona tragedia, e concilierà la sua gloria, gl’interessi dell’impresa, ed il genio, se non della moltitudine, di coloro almeno i quali non mancano del senso detto comune, e che il satirico latino con sano giudizio disse raro. In mezzo al languor dell’azione, vaghissime danze vengono in questo ballo a svegliare lo spettatore addormentato, ed a compensarlo generosamente della noia sofferta. Molli, caratteristiche, perfettamente disegnate sono tutte quelle del primo atto, le quali, nella mancanza di ogni altra illusione, fanno elle sole intendere lo stato in cui il compositore l’innamorato Rinaldo. Nella selva incantata, l’incomparabile Duport è Zefiro che vola leggiero sulle acque, ed annunzia col suo arrivo il ritorno di Flora. Sventuratamente però quelle e tutte le altre allegorie, delle quali è sparsa l’azione, per essere intese, hanno bisogno di un commento; e ne’ balli tutto deve esser di sì facile intelligenza, che non si dovrebbe aver bisogno neppure di programma.

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Maria Venuso Con l’egregia Signora Doubourg, con le Signore Naley-Neuville, e Mori, e con Duport, Henry, Taglioni e Vestris spiccano in questo ballo le Signore Sichera, Vitolo, Aquino, Sica, Porta, Oliva, De Luca, Talamo, Pompei, Ricci, tutte allieve della nostra scuola; e primeggiano le Signore Ronzi e Mersi per la forza, l’agilità, la precisione e la grazia de’ movimenti. Ed è glorioso per la Signora De Martini poter meritare i pubblici suffragi, ballando accanto a giovinette che in ogni altro teatro sarebbero considerate prime ballerine di sommo valore. Senza essere stata allevata nelle nostre scuole di ballo, la Signora De Martini mostra di essere stata istituita co’ medesimi principi, o per meglio dire con quelli della buona danza; ed ella potrà aspirare a primi onori della scena, se, non lasciandosi abbagliare dal pubblico compatimento, mirerà alla perfezione della quale ha tanti esempi nel nostro teatro. Noi troviamo vaghissimi i gruppi dell’atto quarto ne’ quali si direbbe che Duport sdegni toccar co’ piedi la terra, ed il passo del quinto atto, nel quale Vestris si mostra degno del nome paterno.

Barbaja, il 2 marzo del 1819, scrive al Sovrintendente per chiedere l’autorizzazione a rimuovere il ballo La Gerusalemme liberata dal repertorio.²8 Questo riallestimento del soggetto prende le mosse dal quadro idilliaco degli amori di Armida e Rinaldo, inquadrandosi negli schemi del balletto romantico più affermato, laddove una situazione iniziale di gioia e tranquillità è interrotta da un’altra che la stravolge. Prima dell’allontanamento Armida è già presaga di un turbamento futuro (sembra di intravedere il turbamento di Giselle, che nella prima versione del libretto, pensata da Théophile Gautier, era presaga del suo avvenire a causa di un sogno). Rinaldo è ricondotto al dovere dai compagni, ma Cupido gli prospetta l’eidolon dell’amata, alla quale viene ricondotto. La temibile maga è qui una donna innamorata che lo prega in ginocchio di non abbandonarla (atto I, Palazzo di Armida): «Nel vederlo risoluto ad abbandonarla, gli abbraccia le ginocchia nel gesto tipico dei supplici e, bagnandole di pianto, dice che s’egli compirà il suo disegno, ella morrà dal dolore». Ma Rinaldo terrà fede al proprio onore di guerriero e la lascerà nella disperazione: l’abbandono della donna, topos tanto caro al Romanticismo canonico, trova qui il suo naturale compimento scenico, benché il recensore ribadisca la staticità dell’azione e attribuisca tutto il successo all’elemento tecnico, ovvero alla gestione delle danze, che si contraddistinguono per forza, agilità, precisione, grazia. Il II atto è ambientato all’inferno, dove Cupido intende avvelenare le frecce per vendicarsi del disprezzo di Rinaldo; Armida lo asseconda. Ancora una visione infernale, dunque, mentre l’atto IV ritorna nella selva incantata, dove l’eroe è attirato grazie a uno stratagemma del dio dell’amore. Egli vi si addentra e scorge un mirto, qui definito «più sublime degli altri alberi», pianta sacra agli dei inferi che tanta parte avrebbe avuto nel secondo atto del ²8 ASNa, Teatri e Spettacoli, fascio 51.

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La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini balletto Giselle, sia nell’onomastica che negli elementi di scena.²9 Il tumulto delle passioni è chiaramente espresso nel libretto, quando si descrive Armida che, scorto Rinaldo, «si avanza fissandogli in volto gli sguardi in cui sono impressi e confusi il dolore, la gioia e mille altri moti dell’animo». Uno Sturm und Drang mentale che ci permette di intuire quanto fosse psicologicamente caratterizzato il personaggio creato da Henry, che col suo ascendente francese ha provveduto a innestare a Napoli un insieme di elementi che stavano fermentando e che, però, sulle scene ballettistiche parigine avrebbero dovuto attendere almeno il 1827. Tornando al nostro ballo, Cupido fallisce di nuovo, perché un Genio fedele alla causa cristiana distoglie i dardi avvelenati destinati al paladino e la Larva di Armida allora compare, esortando a ferirle il seno, al posto di colpire l’albero da lei protetto, ovvero il mirto. L’immagine di Armida che offre il seno alla violenza ricorda quella di Clitemnestra che, nell’Orestea di Eschilo,³0 compie questo gesto nei confronti di Oreste armato di scure: veicolo di amore materno, questo, di amore passionale quello di Armida. Una reminiscenza dal sapore classico che non doveva sfuggire. Rinaldo, come Oreste, non indugia e colpisce. Ai colpi ripetuti sull’albero si raddoppiano i demoni e la pianta geme, come quella di Polidoro e Pier delle Vigne.³¹ La natura, che partecipa alla vicenda come nel Werther di Goethe, mugghia e si rivolta contro di lui in un tableaux degno del più noto immaginario romantico; Rinaldo rimane fermo e dissipa i fantasmi per un ritorno all’ordine. Alla fine dell’atto V, i morti in scena non sono i protagonisti, ma l’esito della vicenda a favore dei cristiani non impedisce che vengano inscenati spargimenti di sangue, per cui le ombre degli eroi estinti appaiono sulle nuvole lanciando fiamme su Gerusalemme, che diventa cenere, fatta eccezione per il suo Tempio. Tra gli interpreti: Signora Sichera (Amore), Signor Duport (Zefiro), Signora Quériau (Armida), Signor Costantini (Ismeno mago e Genio benefico), Signor Henry (Rinaldo), Signor Durante (Goffredo), Signor Gucci (Ubaldo), Signor Piccardi primo (Carlo), Signor Vestris secondo (Solimano e Capo delle Furie), Signor Sichera padre (Un Savio). Per i ballabili: settimino delle Signore Taglioni, Dubourg, Mori, Ronzi, Naley-Neuville, Mersi e Signor Henry «accompagnato di gruppi colle Signore Vitolo, Aquina, Sica e Porta». Danza pirrica degli Amorini. Combattimento dei Signori Guerra e Marchese. Per l’atto III si hanno evoluzioni militari miste a danze. Terzetto dei signori coniugi Taglioni e Signora Dubourg. Nell’atto IV è segnalato dal libretto l’«Arrivo del Sig. Duport e gruppi colle signore Duport, Mori, Ronzi, Mersi, Demartini, Vitolo, Aquina, Sichera, Porta, Oliva, De Luca, Talamo, Pompei, Ricci prima e Ricci seconda». Poi ancora un Pas de Deux dei coniugi Duport, mentre nel V atto «Danza a nove del Sig. Vestris primo, colle signore Mori, Ronzi, Mersi, Vitolo, Aquino, Sica e Porta». ²9 Cfr. Venuso, La ‘danza’ di Amina e il ‘canto’ di Giselle cit., passim. ³0 Eschilo, Coefore, terzo stasimo, vv. 838-934. ³¹ Publio Virgilio Marone, Eneide, III, 22-68; Dante Alighieri, Commedia, Inferno, XIII, 22-51.

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Maria Venuso In questi anni cade dunque la realizzazione dell’Armida rossiniana, rappresentata per la prima volta al San Carlo il 9 novembre del 1817 su versi di Giovanni Schmidt, «poeta addetto a’ reali teatri di Napoli». Come si legge nella Edizione critica della partitura curata da Charles e Patricia Brauner, questa opera rappresenta una eccezione nella produzione del Pesarese, per via del soggetto fantastico, ed è la sola sua opera italiana che contenga un ballo, pur appartenendo a una tradizione ben consolidata nell’ambito delle opere sullo stesso soggetto (dalla versione francese di Quinault del 1686 al precedente locale di Niccolò Jommelli Armida abbandonata del 1770). Essa ingloba, all’interno dell’azione, i balli analoghi di Pietro Hus, «professore della regia scuola generale di ballo», e il settimino figurato, alla fine dell’atto secondo, creato da Armando Vestris,³² con lo stesso nel ruolo maschile e le danzatrici Signore Peraud-Taglioni, Conti, Mori, la signora Ronzi, Adelaide Mersi e la Signora Vitolo. Il secondo atto, nello specifico, si dipana con una quantità sensibile di Larve, Genj, Ninfe e Amorini in cui la danza si intreccia di quando in quando con il canto (si pensi alla scena II), fino al trionfo finale del grande ballabile sostenuto dal coro.³³ La struttura del libretto di Schmidt, criticata dal Radiciotti per la sua monotonia, è stata invece apprezzata dalla critica più recente, che ha visto questo aspetto come un pregio, perché l’azione procede in maniera lineare senza l’accavallamento di scene e personaggi secondari e accessori.³4 Questo permettere, come notano i Brauner, di concentrarsi sulla storia d’amore semplificando l’azione e concentrandola, conferisce inoltre preponderanza assoluta alla figura femminile. Visto con gli occhi della danza, questo potrebbe apparire un ulteriore elemento di ascendenza coreutica: riduzione dell’azione (semplificata) sulla storia d’amore dei protagonisti e mancanza di parti maschili ‘di rilievo’ nel balletto romantico sono due aspetti fondanti della rappresentazione coreutica ottocentesca. D’obbligo i Pas de deux che si alternano ai ballabili d’insieme e alle variazioni singole, non solo per fermare l’azione sugli affetti dei protagonisti, ma anche e soprattutto per mostrare i virtuosismi tecnici tanto cari al pubblico. La tecnica femminile avanza ed è esaltata dall’uomo che sostiene la donna e ne amplifica i virtuosismi; se la tecnica maschile nella scuola napoletana è superiore a quella femminile, ciò non toglie che l’influenza del gusto francese abbia potuto ³² Vestris lavora a Napoli dal 1817 al 1823, con nomi quali Louis Duport, Gaetano Gioja, Louis Henry, Pietro

Hus, Salvatore Taglioni e danzando come partner di molte ballerine come Marianna Conti, Adelaide Perraud Taglioni, Adelaide Mersi, Amalia Brugnoli, Elisa Vaque-Mulin e Therese Heberle, di alcune delle quali era stato maestro. Saranno le più giovani, come ad esempio Brugnoli e Vaque-Mulin, a spostarsi a Vienna, grazie all’incarico di Domenico Barbaja come impresario nei teatri della capitale viennese, favorendo così la migrazione di principi didattici e di ricerche sul movimento dense di innovazioni, messe a punto anche dallo stesso Vestris, come nota Francesca Falcone, Armando Vestris danzatore e coreografo a Napoli: la stagione del 1817, in Danza e ballo a Napoli, cit., pp. 101-122, che si propone di avviare una prima fase della ricostruzione della sua attività presso i teatri napoletani. ³³ Ornella Di Tondo, I balli negli allestimenti rossiniani a Milano, in Di sì felice innesto cit., pp. 70-71. ³4 Armida, Dramma per musica in tre atti di Giovanni Schmidt, musica di Gioachino Rossini, Partitura, a cura di Charles S. Brauner e Patricia B. Brauner, Pesaro, Fondazione Gioachino Rossini, 1997, pp. XXIV.

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La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini contribuire alla messa in luce dell’elemento femminile già in questo periodo.³5 Interessante, a tal proposito, quanto si legge ancora nella Prefazione all’edizione critica: a parte il duetto del I atto «Amor! (Possente nome!)» che è costruito in maniera convenzionale, gli altri duetti hanno caratteristiche inusuali e degne di rilievo; ad esempio, durante il Finale Primo, «Che terribile momento!» (99-137) e «Deh! Se cara a te son io» (157-196). Se era abbastanza comune inserire una sezione del genere come parte del finale, proporre due episodi avvicinati di questo tipo è un fatto inconsueto che sottolinea la centralità, all’interno dell’opera, della relazione tra i due amanti. Si noti che nel primo duetto la lunga frase di Armida è in contrasto con le brevi frasi in ritmo puntato di Rinaldo e del coro, mentre nel secondo i due cantano separatamente la stessa melodia di otto battute, per poi intrecciare le rispettive linee vocali. […] In questi ‘duettini’ [«Dove son io!...» (N. 9) e «Soavi catene» (N. 13)], che rivelano una straordinaria intensità compressa in poche battute, aleggia un senso emozionale e di sospensione del tempo sottolineato dall’andamento lento e dal ritmo ternario.³6 Al di là dell’attribuzione di questi «modi voluttuosi» – cosiddetti dal critico del «Giornale delle Due Sicilie» citato in questa Prefazione e alla visione perenne di Isabella Colbran, che imprime il suo nome alla rovescia sul foglio 166 dell’autografo – la struttura di questi duetti non può non riportare alla mente dello storico della danza la struttura del Pas de deux accademico della prima metà dell’Ottocento, in cui la linea della danza maschile e femminile è generalmente costruita su linee coreografiche dell’uomo e della donna che procedono intrecciate e parallele (nell’arco fisso di otto battute ripetute con modalità variabile) su ritmi prevalentemente binari e ternari. «Molti dei cambiamenti introdotti dal librettista discendono direttamente dalla necessità di creare le premesse drammaturgiche per i ‘numeri’ chiusi»,³7 si legge ancora nello stesso luogo, e i numeri chiusi sono quelli che si succedono nei divertissement di danze che, in qualità di assolo o Pas de deux, concentrano i principali virtuosismi. Riflessioni conclusive In una vita teatrale variegata e complessa, come quella di Napoli nel primo venticinquennio dell’Ottocento, Rossini si imbatte in un crocevia di fermenti che condizionano le arti sorelle. Per la danza è possibile confermare, a Napoli, la presenza di elementi che anticipano il canone mitteleuropeo del balletto romantico, in un milieu culturale straordinariamente ricco e vivo, che ha saputo esportare, nella musica come nella danza, talenti e conoscenze ³5 Si tratta di ipotesi più che plausibili ma da verificare a tappeto: gli studi sull’Ottocento coreutico napoletano che stanno progressivamente emergendo contribuiranno a delineare un quadro articolato di una ‘piazza’ importante, fino ad oggi ingiustamente trascurata. ³6 Ivi, p. XXXI. ³7 Ivi, p. XXV.

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Maria Venuso didattiche, modernità inusitate e personalità prolifiche cui gli archivi stanno finalmente rendendo la giusta memoria. La messa in scena è spesso il risultato di incroci che nella danza sono particolarmente vivi, poiché il nuovo modo di danzare, nato dal superamento dell’estetica di Ancient Régime, nella visione didattica (illuministica) di Carlo Blasis,³8 non è solo ‘francese’ – benché politicamente Napoli fosse francesizzata – o italo-francese, ma si arricchisce delle esperienze che danzatori, coreografi e maestri maturano nella propria carriera trans-nazionale e in relazione ai gusti del pubblico locale, oltre alle prassi radicate sul territorio. Ecco perché, nella danza, appare fuorviante parlare ‘scuole nazionali’, benché questa locuzione sia all’ordine del giorno anche nella didattica contemporanea. L’interscambio perenne di materiale umano tra Italia e Francia, nonché le permanenze nelle capitali europee di diversi coreografi hanno permesso l’innesto e l’assorbimento di stili e peculiarità locali sulla cosiddetta dance d’école in maniera così profonda che appare impossibile definirne i confini. Anche laddove si è spesso discusso di unità di metodo nell’insegnamento, rispetto alla Scuola francese, è bene ricordare che ciascun maestro ha maturato le proprie esperienze estetiche su terreni mai neutrali, per cui, anche se a Napoli il metodo ‘ufficiale’ delle Reali Scuole di Ballo è quello francese, lo stile dell’esecuzione doveva necessariamente risentire del parterre locale. A questo proposito, un esempio poco noto, ma che testimonia la transnazionalità delle carriere è, in questo stesso arco cronologico, la figura di Giuseppe de Dominicis de’ Rossi: danzatore, coreografo e maestro di ballo, inizia a emergere come figura di un certo rilievo non solo per la sua presenza negli archivi delle capitali europee, ma anche per il lavoro che dichiara nell’ambito della formazione coreutica e degli sviluppi sulla metodologia. Nato a Napoli nel 1761 da Carminantonio De Dominicis De Rossi e Barbara Mondi, si forma a Parigi con le grand Vestris, Noverre e Dauberval, come lui stesso dichiara in una supplica del 25 febbraio 1825.³9 Sposato con Rosa D’Antonio, muore il 16 dicembre del 1833.40 Qualora non ci trovassimo di fronte a un caso di omonimia,4¹ apparirebbe attivo a Barcellona giovanissimo, a partire dal 1772; nel 1781 è a Madrid con un ‘balletto equestre’ luogo in cui torna nel 1787 come primo ballerino e coreografo, al teatro Coliseo de los Caños del Peral, ³8 Cfr. Carlo Blasis, L’uomo fisico, intellettuale e morale, a cura di Ornella Di Tondo e Flavia Pappacena,

Lucca, LIM, 2007; Flavia Pappacena, Il rinnovamento della danza tra Settecento e Ottocento. Il trattato di danza di Carlo Blasis, Lucca, LIM, 2009. ³9 ASNa, Teatri e Spettacoli, fascio 55. 40 La data di nascita è stata ricostruita a partire dal certificato di morte, disponibile online alla sezione Portale degli Antenati degli Archivi di Stato. La digitalizzazione degli atti anagrafici del quartiere San Ferdinando, per la città di Napoli, è stata di fondamentale importanza per de Rossi e costituisce un punto di riferimento per tutte le personalità che ruotavano intorno al Teatro di San Carlo, in quel quartiere ubicato. Cfr. <http://dl.antenati.san.beniculturali.it/?q=gallery> (ultima consultazione 20 novembre 2020). 4¹ L’indagine su Giuseppe de Dominicis de Rossi è agli inizi della ricerca e i documenti presentati in questo contributo riguardano esclusivamente quanto emerso presso l’Archivio di Stato di Napoli, nelle carte che riguardano la Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo.

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La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini e dove rimane attivo fino al 1799, fatta eccezione per la stagione 1790-91, per un rientro in Italia.4² Il suo ritorno a Napoli non appare semplice e le ripetute richieste di essere ammesso come Maestro della Scuola di Ballo del Reale Teatro di San Carlo lo vedono arrivare alla meta non senza ripetute difficoltà economiche e di merito. Egli lamenta la mancanza di considerazione della sua carriera europea a vantaggio esclusivo delle personalità francesi e lascia intuire un’interessante elaborazione di una propria metodologia di insegnamento, valida per la rapidità di esiti sui corpi degli allievi. De Rossi fa infatti preziosa menzione di un opuscolo sul metodo che non gli avrebbero permesso di dare alle stampe e che, se ritrovato, permetterebbe di intuire le influenze della sua permanenza nella penisola iberica che, oltre a quanto appreso in Francia, si sarebbero innestaste nella scuola napoletana.4³ Filippo Izzo è un altro nome semi-obliato che emerge con prepotenza in alcuni documenti nei quali si attribuisce a lui la ‘paternità’ della formazione della grande danzatrice Fanny Cerrito, tradizionalmente considerata allieva di Taglioni ed Henry alle Scuole Reali. La supplica di Izzo e della moglie Marianna Danese fornisce notizie importanti non solo sulla diva Cerrito, da sempre annoverata tra i diplomati alla Scuola del San Carlo (ma il suo nome non compare nel registro degli allievi dal 1812 al 183944), ma apre allo storico la visione sul gran numero di balli da lui creati per il San Carlo. I coniugi Izzo, dopo vent’anni di reclami, in due documenti del 1860 indirizzati al Re palesano la propria indigenza, dopo tanti onori e fatica, per chiedere di essere ammessi come maestri della rinnovata Scuola di Ballo.45 In una panoramica così ridotta e parziale come quella qui presentata per la danza al San Carlo negli anni di Rossini, il quadro che emerge è quello di una realtà composita e all’avanguardia, sotto certi aspetti, a livello drammaturgico e formativo. L’alternanza di Maestri e coreografi francesi e il loro continuo interagire con personalità locali e non, oltre che con i principali nomi del panorama musicale tout court, ha fatto sì che Napoli fosse, per la danza, molto più di quanto non si sappia ancora oggi. Le indagini avviate, sia per l’ambito spettacolare che della didattica, potranno contribuire a colmare una lacuna che spesso non rende giustizia neanche ai grandi nomi che hanno fatto la storia del balletto ottocentesco, negli anni di permanenza nella capitale borbonica, laddove la convivenza con i fermenti più vivi del tempo possono aver contribuito alla maturazione di idee e novità stilistiche, che hanno poi generato altrove prodotti assegnati all’immortalità. 4² Xoán M. Carreira, Opera and Ballet in Public Theatres of the Iberian Peninsula, in The Cambridge Com-

panion to Eighteenth-Century Opera, a cura di Anthony R. Del Donna e Pierpaolo Polzonetti, Cambridge University, Press, 2009, pp. 17-29: 26. 4³ Maria Venuso, Giuseppe de Dominicis de Rossi, artista europeo: note su alcuni documenti d’archivio napoletani, in La danza teatrale europea come fenomeno transculturale nel Settecento, a cura di Rosa Cafiero e Angela Romagnoli, in corso di stampa. 44 ASNa, Deputazione Teatri e Spettacoli, fascio 57. 45 ASNa, Soprintendenza Teatri e Spettacoli, 57. Cfr. Venuso, La Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo: luci e ombre di una istituzione, in Danza e ballo a Napoli, Atti del Convegno, cit.

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Maria Venuso

Figura 6: Raffaella Santalicante in Armida e Rinaldo di Filippo Izzo. Raccolta di figurini dei Reali Teatri di Napoli (I-Nc, C9-3).

*

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Figura 7: Fanny Cerrito nel ballo La Fille de marbre di Arthur Saint-Léon. Litografia di F. Sorrieu (da una litografia di J. Bouvier). Londra, Chappell, circa 1842.¹*

Si ringraziano i coniugi Madison e Debra Sowell per aver messo a disposizione con grande cortesia le preziose immagini della propria collezione.


Paul-André Demierre Il ruolo dell’orchestra nelle opere napoletane di Rossini

Nel 1815, quando Rossini arriva a Napoli, egli ha scritto già quattordici opere tra il 1809 (Demetrio e Polibio) e il dicembre 1814 (Sigismondo alla Fenice di Venezia). Alla fine della primavera, il musicista incontra Domenico Barbaja, ex-cioccolatiere, gestore di salotti da gioco e di ‘luoghi di piacere’, che è diventato, dall’ottobre 1809, direttore dei teatri lirici di Napoli (Teatro di San Carlo, Teatro del Fondo). Il contratto firmato tra di loro ha una durata di sei anni. Rossini deve fornire due opere all’anno e dirigere le riprese delle opere di repertorio. Il suo stipendio è fissato tra otto e dodicimila franchi per un anno e comprende anche una parte dell’incasso proveniente dalle tavole da gioco. Ha inoltre la possibilità di scrivere per altri teatri. Ma il contratto non sarà totalmente rispettato, con dieci opere realizzate sulle dodici previste. In cartellone da metà agosto 1811, il Teatro di San Carlo ha una schiera di cantanti di primo livello: il soprano Isabella Colbran, i tenori Manuel García, Andrea Nozzari, Giovanni Davide, il contralto Rosmunda Pisaroni, il basso Michele Benedetti. Il repertorio include le opere di Johann Simon Mayr, Ferdinando Paër, Domenico Cimarosa, e quelle di Gaspare Spontini e di Christoph Willibald von Gluck che hanno ottenuto un successo a Parigi e quelle di Mozart che hanno trionfato a Vienna. Secondo l’Allgemeine Musikalische Zeitung di Lipsia, l’organico strumentale del San Carlo comprende, nel novembre 1806, 118 strumentisti (4 fl. 4ob. 4 cl. 4 fg. /4 corni 4 tbe 4 tbni 2 timp./56 vl. 12 vle 10 vc 10 cb + una banda di 20 strumenti).¹ Nel dicembre 1810, è ridotto a 73 strumentisti. E il coro include 8 donne, 8 tenori, 8 bassi.² All’epoca delle creazioni napoletane di Rossini, la critica giornalistica nota alcune particolarità: 1. Mettere la statua nell’orchestra a scapito delle parti vocali. Dopo le recite di Zelmira di marzo 1823, la Gazzetta di Firenze scrive: «Nella Zelmira, si balza spesso senza degradazioni… dal verace canto ove dominano, come conviensi, le umane voci, al tuo¹ «Allgemeine Musikalische Zeitung» VIII, novembre 1806, col. 766. ² «Allgemeine Musikalische Zeitung» XII, dicembre 1810, col. 948.

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Paul-André Demierre nare di tempestosa orchestra assordatrice, che farebbe apparire fiochi i cantori quando anche fossero un’armata di Stentori. Rossini è incomparabile nell’accompagnamento degli strumenti quando vi adopra la temperanza… ma cade non di rado nell’abuso di soffogare col fracasso degli strumenti le voci che questi solo dovrebbero accompagnare. Conchiudiamo: l’Opera onde parliamo è piena di sublimi bellezze; Zelmira è una ‘Sirena’, ma conviene talvolta usar con essa la precauzione a cui risorse Ulisse con le ‘Sirene’, chiudersi l’organo acustico per salvarsi».³ Quanto a Pietro l’Eremita, titolo utilizzato per ragioni di censura per rappresentare Mosè in Egitto al King’s Theatre di Londra, la rivista The Examiner giudica la partitura di Rossini inutilmente rumorosa: «He also falls too often into the mistake of expressing grandeur by noise, and is not sufficiently sparing of the drums and trombones. How differently Mozart felt on such occasions, may be seen in the sublime march and subsequent hymn of «Possente numi», in the Zauberflotte (sic), where all is quiet and subdued, and doubly solemn and imploring on that account»4. 2. A che cosa si riferiscono queste critiche? La ridondanza degli ottoni che rendono assordanti i concertati. Come primo esempio musicale, possiamo prendere l’Introduzione orchestrale e il Coro «Alla voce d’Armida possente» nel secondo atto di Armida. L’orchestra include 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni 2 trombe, 3 tromboni+ archi. Per la prima volta, Rossini approda al fantastico (fosca foresta dove regna Astarotte e le sue legioni infernali). L’introduzione di undici battute ha una progressione armonica dalla tonica alla dominante dove si inseriscono armonie di settime diminuite in progressione ascendente. L’arrivo alla dominante si fa con due arpeggi degli archi e accordi dei fiati. Il coro «Alla voce d’Armida possente» è costruito su due episodi: un primo di sette battute con il disegno delle terzine dei violini, un secondo di dodici battute che è la doppia ripresa delle voci ridotte a un semplice declamato ma di sicuro effetto calcolato da Rossini. Il «Giornale del regno delle Due Sicilie» del 3 dicembre 1817 osserva: «Io paragono la musica dell’Armida a giovin vaghissima, la quale a’ tratti della fisionomia mostri chiara la sua origine italo-alemanna. Accanto alle grazie ed alla soavità della melodia, ed a quella espression vera, naturale, toccante, piena di anima, di movimento, di vita, la quale forma il carattere de’ grandi compositori d’Italia, scappan fuori accordi, i quali mostrano che l’Autore, nato con l’anima di Cimarosa e di Paisiello, fatichi incessantemente a reprimere gli slanci dell’indole natia, per comparire adorno di barbari modi».5 ³ «Gazzetta di Firenze», 15 marzo 1823. 4 «The Examiner», 29 aprile 1822 [Egli cade spesso nel difetto di esprimere la grandezza con il rumore e non

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risparmia abbastanza i timpani ed i tromboni. Che differenza con il Mozart del Flauto magico se prendiamo la marcia sublime e l’inno che segue «Possente nume» (cfr. Atto II, inizio, marcia e coro «O Isis und Osiris»), dove tutto è calmo, sommesso e insieme così solenne e implorante»]. «Giornale del Regno delle Due-Sicilie», 3 dicembre 1817.


Il ruolo dell’orchestra nelle opere napoletane di Rossini Parlando della Zelmira, The Morning Post di Londra (January 26, 1824) insiste sul medesimo fatto: «He composed it for the ears of the scientific German harmonists; and he succeeded in the difficult task of satisfying their profound depth of taste; thereby repelling the insinuation which it has been so fashionable to make that he had more imagination than learning».6 A Parigi, Le Globe del 18 marzo 1826 dichiara: «Rossini singe les mystiques musiques d’outre-Rhin qui se creusent le cerveau pour enfanter du bizzare (sic!)».7 Possiamo paragonare il coro “Di ferro e fiamme cinti” nel secondo atto di Armida (11 novembre 1817) con la scena della Gola del Lupo, il finale del secondo atto in Der Freischütz (18 giugno 1821). In questi due casi, le battute iniziali dell’orchestra creano un’atmosfera di tensione provocando il grido del coro. Si deve notare anche che la formazione orchestrale è identica (tranne due ottavini e due corni in più nel Freischütz). 3. L’utilizzazione della banda di scena A proposito della Zelmira, The Quarterly Musical Magazine del 1824 scrive: «Rossini has obviously written this opera with more care than usual, and he has studied striking combinations of harmony and accompaniment more perhaps than melody… For there is a heaviness that prevails almost throughout, and which is redeemed by the pathos that may sometimes serve to account for and to compensate the weight. There is probably generally too much of force and complication, too much of chorus, while the occasional appearence of a military band upon the stage increases the clamour without adding much to the effect».8 Ma, soprattutto, molte critiche riguardano il Finale primo de La Donna Del Lago. Il Journal des Débats del 9 settembre 1824 nota: «Un général doit parler à ses soldats; mais aussitôt, ses musiciens se mettent à jouer de leurs trompettes, trombones, grosses caisses et tambours. Quelle inconvenance et quel ridicule pour des montagnards qui savaient à peine faire canarder le pibroch et mugir la cornemuse».9Secondo l’auto6 «The Morning Post», January 26, 1824 [Egli la compose per l’orecchio degli scientifici armonisti tedeschi; 7 8

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e riuscì nel difficile compito di soddisfare la loro profondità di gusto; respingendo per questo motivo l’insinuazione che si faceva generalmente, secondo la quale avrebbe avuto più immaginazione che scienza]. «Le Globe», 18 marzo 1826 [Rossini scimmiotta le mistiche musiche d’oltre Reno che si lambiccano per partorire del bizzarro]. «The Quarterly Musical Magazine», 1824 [Rossini ha ovviamente scritto quest’opera con più cura del solito; e ha sviluppato combinazioni di armonia e di accompagnamento sorprendenti più della melodia. Che c’è una pesantezza che prevale dappertutto… Probabilmente in generale c’è troppa forza e troppa complicazione, troppo coro; e l’apparizione occasionale di una banda militare sul palcoscenico accresce il baccano senza aggiungere niente all’effetto]. «Journal des Débats», 9 settembre 1824 [Un generale deve parlare ai suoi soldati; ma, immediatamente, i suoi musicisti cominciano a suonare le loro trombe, tromboni, gran cassa e tamburo. Che mancanza di convenienza e che ridicolo per montanari che sapevano appena fare bersagliare il pibroch e muggire la zampogna].

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Paul-André Demierre grafo conservato alla Fondazione Rossini di Pesaro,¹0 la dimensione dell’orchestra è enorme: 2 fl. con ottavino, 2 ob. 2 cl. 2 fg. 2 corni, 2 tbe 3 tbni, arpa, timpani, gran cassa, triangolo, piatti e archi / tre cori (donne, guerrieri, bardi) / banda: 2 ottavini, 2 ob. 2 cl. 2 fg. 2 tbe 3 tbni gran cassa e arpa. Ma una copia manoscritta conservata alla Biblioteca Musicale Giovanni Battista Martini di Bologna¹¹ contiene 14 clarini e 3 tbni per la banda. L’effetto è assordante. E il cronista parigino dell’Allgemeine Musikalische Zeitung offre una precisione molto interessante: «Von der vierten Vorstellung an verwechselte man alle Instrumente auf der Scene mit papierenen und übertrug ihre Leistungen den Blasinstrumenten des gewöhnlichen Orchesters. Dies thut allerdings bessere Wirkung…».¹² La stretta del Finale primo suscita altre reazioni. Stendhal dice: «Rossini avait eu l’idée de lutter avec les trois orchestres du bal de Don Juan; il avait divisé son harmonie en deux parties, savoir, le chœur des bardes, et la marche militaire avec accompagnement de trompettes qui, après avoir paru séparément, sont entendues en même temps».¹³ E la rivista inglese The Harmonicon del 1823 ha la medesima impressione: «The latter part of this finale is for three choirs, in imitation of Mozart’s scene with three orchestras in Don Giovanni. When well performed it must be very grand and imposing, for it is ingeniously put together, and requires a very efficient chorus».¹4 Se prendiamo La Donna Del Lago, 3 battute dopo la cifra 269, il marziale di Malcolm è sovrapposto sul coro dei bardi nello spazio di 20 battute più 8 nel tempo di 2/4. Nel Don Giovanni, la scena del ballo si sviluppa su 62 battute con 48 di sovrapposizione in una maestria contrappuntistica eccezionale (minuetto in 3/4, contredanse in 2/4, Teich – girotondo paesano – in 3/8). E Stendhal concluderà: «Je trouve plus de difficulté vaincue dans Mozart, et un effet plus clair et plus agréable chez Rossini».¹5 In conclusione, la scrittura orchestrale di Rossini nelle opere napoletane è giudicata troppo rumorosa, dunque troppo germanica, dai contemporani del musicista. Dopo la cre¹0 La Donna del Lago, partitura manoscritta autografa, 1819, Pesaro, Fondazione Rossini. ¹¹ Partitura manoscritta in 2 volumi, Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, S.G. H Coll I 49 1-2 ¹² «Allgemeine Musikalische Zeitung» XXVI, novembre 1824, col. 740 [Dalla quarta recita gli strumenti di

scena furono sostituiti con strumenti di carta; e la loro parte fu suonata dai fiati dell’orchestra normale. Ciò fece effettivamente un migliore effetto]. ¹³ Vie de Rossini cit., p. 408. Trad. Rossini aveva avuto l’idea di lottare con le tre orchestre del ballo di Don Giovanni; aveva diviso la sua armonia in due parti, il coro dei bardi e la marcia militare con accompagnamento di trombe che, dopo essere apparse separatamente, sono sentite simultaneamente. ¹4 «The Harmonicon», 1823, vol. I, part I [L’ultima parte di questo finale è scritta per tre cori con la voglia di imitare le tre orchestre del Don Giovanni. Se è ben eseguita, deve essere grandiosa e imponente, perchè è radunata ingegnosamente e ha bisogno di un coro di ottima qualità]. ¹5 Ivi, p.408 [Io trovo più di difficoltà superata nel Mozart e un effetto più chiaro e più piacevole da Rossini].

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Il ruolo dell’orchestra nelle opere napoletane di Rossini azione di Ricciardo e Zoraide, il «Giornale del Regno delle Due Sicilie» del 4 dicembre 1818 risuscita per un giorno Domenico Cimarosa, che dal cielo, scrive all’autore di Otello: «E si riseppe pure che, vergognoso delle barbariche maniere e degli estranei ornamenti, con che spesso facesti grave onta a te stesso ed a noi, tu sei finalmente consecrato al vero culto del Nume, in ogni età, tempio e sede nel bel paese che sorge tra la culla del Tasso e le tombe di Virgilio e di Sannazzaro».¹6 E finalmente, nell’aprile 1822, quando Rossini avrà l’occasione d’incontrare Beethoven a Vienna, l’autore dell’Eroica, che aveva avuto in mano gli spartiti di Tancredi, Otello, Mosè in Egitto, esprimerà l’opinione generale del pubblico dell’epoca, dichiarando a Rossini, in un italiano maccheronico: «Fate molto del Barbiere!».¹7

¹6 «Giornale del Regno delle Due-Sicilie», 3 dicembre 1817. ¹7 Edmond Michotte, Souvenirs personnels. La visite de Richard Wagner à Rossini, Paris, Fischbacher, 1906, p. 22.

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Paolo Fabbri Echi di Mayr al San Carlo

Anche se ben conosciuto, non è possibile non prendere le mosse da quanto si poteva leggere sul «Giornale delle Due Sicilie» del 25 settembre 1815 (n. 107), a ridosso del debutto di Elisabetta regina d’Inghilterra (4 ottobre):¹ Tutto è moto in questo momento nel nostro mondo teatrale; da per tutto arrivano maestri di cappella, cantanti, ballerini, artisti di ogni genere. In pochi giorni sono giunti il Signor Viganò, compositore rinomato di balli; la Signora Pallerini ed il Signor Le Gros primi ballerini; il Signor Duport e la sua giovine consorte, l’uno e l’altra sì applauditi sulle nostre scene; il Signor Rubini, tenore destinato a cantare nel teatro de’ Fiorentini; ed in fine un tal Signor Rossini maestro di cappella che ci si dice venuto per dare una sua Elisabetta Regina d’Inghilterra su questo stesso teatro di S. Carlo, che risuona ancora de’ melodiosi accenti della Medea e della Cora dell’egregio Signor Mayer.

In realtà, alla data di questo brioso trafiletto Rossini era già a Napoli da circa 3 mesi e, nell’opinione del sovrintendente duca di Noia ‒ ad esempio ‒ per nulla un tizio qualunque, bensì un «rinomato Maestro».² Il quale, tra l’altro, nel frattempo si era benissimo inserito nell’alta società locale: «sono sempre da Duchi, Principi, e Principesse» aveva scritto Gioachino alla madre, il 23 agosto.³ Sulle ali del trionfo di Elisabetta, a fine ottobre anche il «Giornale delle Due Sicilie» sarà costretto a fare ammenda, a denti stretti: «Il Signor Rossini, di cui taluni avranno trovato altra volta strano ignorarsi da noi il merito, trionfa oggi ¹ Cit. ad esempio da: Giuseppe Radiciotti, Gioacchino Rossini. Vita documentata, opere ed influenza su

² ³

l’arte, I, Tivoli, Arti Grafiche Majella di Aldo Chicca, 1927, pp. 160-161; Bruno Cagli, All’ombra dei gigli d’oro, in Rossini 1792-1992, a cura di Mauro Bucarelli, Pesaro, Fondazione Rossini 1992, pp. 161-196: 161; Sergio Ragni, Isabella Colbran Rossini, Varese, Zecchini 2012, pp. 937-938. Gioachino Rossini. Lettere e documenti, I (29 febbraio 1792 – 17 marzo 1822), a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, Pesaro, Fondazione Rossini 1992, p. 99. La lettera è di alcuni giorni successiva all’annotazione giornalistica: 28 settembre. Gioachino Rossini. Lettere e documenti, IIIa (Lettere ai genitori. 18 febbraio 1812 – 22 giugno 1830), a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, Pesaro, Fondazione Rossini – Regione Campania 2004, p. 91.

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Paolo Fabbri su i primi teatri di questa antica culla della scienza e del genio musicale». 4 Carneade o no, la diffusione della sua musica prima di quel debutto non è l’oggetto che qui mi propongo. Piuttosto, oltre alla vivacità dei quadretti delineati, val la pena prendere atto delle novità ambientali ‒ per così dire ‒ che Rossini si trovò ad affrontare. Certo, era mutato il contesto politico: Ferdinando iv di Borbone, invece di Murat. Ma, più ancora, stavolta si trattava di conquistare i gusti di un pubblico molto particolare rispetto agli altri teatri italiani. Com’è noto, i Teatri Reali napoletani ‒ unici in Italia ‒ si fondavano anche su di un repertorio, per cui le inclinazioni dei suoi frequentatori non costituivano un gusto generico e sfuggente, ma potevano incarnarsi in autori e titoli ben individuabili, consolidato grazie alla loro reiterazione. Questo andava ad aggiungersi allo spiccato ‘patriottismo’ formatosi lungo il secolo precedente, al mito cioè di una Partenope vocata alla musica e al canto, e madre di musicisti. 5 Non per nulla, anche l’anonimo giornalista aveva evocato l’immagine di Napoli «antica culla della scienza e del genio musicale», così proseguendo: La sua Elisabetta Regina d’Inghilterra è sempre più applaudita su quelle scene di S. Carlo, ove si formarono e crebbero, alla gloria dell’Italia ed all’ammirazione dell’Europa intera, i grandi compositori dell’epoca più bella della musica; e la sua Italiana in Algieri in quelle de’ Fiorentini, che risuonano ancora de’ melodiosi accenti dell’immaginoso Cimarosa e del tenero e passionato Paisiello.6

Il Rossini comico avrebbe dovuto dunque dimostrarsi degno dei Cimarosa e Paisiello: quello serio, di Mayr. Campioni della Scuola Napoletana i primi, forestiero a tutti gli effetti l’altro, ma autore di recenti successi come appunto Medea in Corinto e Cora, entrati in repertorio. «Si direbbe che nel cembalo di Mayr s’assida il Genio della divina Musica Italiana, che nella mano tiene il cuore umano, e allontana colla destra dalla composizione le folgori e gli aquiloni della musica d’oltremonte», commentava il «Giornale del Vesuvio» del 6 aprile 1815 (n. 50),7 celebrando il paradosso di un tedesco difensore dei confini musicali italiani. Quella fama Mayr la doveva anzitutto a Medea, andata in scena nel novembre 1813 ed entrata subito nella rosa dei titoli da riproporre: tra quella data e il debutto di Elisabetta sono segnalate infatti una settantina di rappresentazioni, nelle annate teatrali 1813-14 e 1814-

4 L’articolo, apparso sul n. 138 (31 ottobre 1815), si può leggere in Ragni, Isabella Colbran cit., p. 940, e 5 6 7

parzialmente in Cagli, All’ombra dei gigli d’oro cit., p. 193. Vi accenna anche Cagli, All’ombra dei gigli d’oro cit., p. 161. L’articolo, apparso sul n. 138 (31 ottobre 1815), si può leggere in Ragni, Isabella Colbran cit., p. 940. Ivi, p. 935.

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Echi di Mayr al San Carlo 15,8 ed altre ne seguiranno negli anni del soggiorno rossiniano a Napoli.9 Il ricordo di Cora era invece freschissimo: dopo il debutto, il 26 marzo 1815, aveva accumulato quasi una ventina di repliche.¹0 Grande protagonista di entrambe le opere, così come poi dell’esordio napoletano di Rossini, era stata Isabella Colbran, «la quale sostiene egregiamente col canto e con l’azione il personaggio dell’Elisabetta, come sostiene incomparabilmente quello della crudele Medea e della passionatissima Cora».¹¹ Ebbe modo, Rossini, di conoscere de visu e de auditu quei modelli con cui si pretendeva si confrontasse? È possibile, essendo arrivato a Napoli a fine di giugno 1815: repliche di Cora ci furono anche in luglio; e in agosto, poi, si ebbero altre riprese di Medea in Corinto, che tornò in scena il 26 settembre,¹² quando le prove di Elisabetta dovevano essere nel pieno. Così come per il compositore, anche per il pubblico del San Carlo il raffronto fra queste partiture non fu dunque a distanza di anni, affidato al ricordo, e solo ideale, ma un vis-à-vis immediato, a caldo. L’impressione dovette essere di una sostanziale continuità complessiva, tra Mayr e il nuovo arrivato Rossini, ma con aspetti interni di novità. Intanto, nel profilo di alcune categorie di ‘numeri’ Elisabetta, Medea e Cora ripropongono architetture ampiamente condivise: l’Introduzione che ingloba la sortita di una prima parte, i Duetti che toccano tutte le stazioni di quella che diverrà una scansione standard e prevedibile (l’arcinota «solita forma de’ duetti»),¹³ la sequenza del Finale I. Quest’ultimo però è un caso interessante.¹4 Le due opere di Mayr presentano infatti un

8 Per la precisione, 33 nella prima, 36 nella seconda. Lo indicano: Il Teatro di San Carlo. La cronologia 17379 ¹0 ¹¹ ¹² ¹³

¹4

1987, a cura di Carlo Marinelli Roscioni, Napoli, Guida 19882, pp. 146 e 148; Paolo Russo, Medea in Corinto di Felice Romani. Storia, fonti e tradizioni, Firenze, Olschki 2004, pp. 17-18. Per questo, si rimanda a Paolo Fabbri, Zelmira, un’opera da esportazione?, in Rossini after Rossini. Musical and Social Legacy, a cura di Arnold Jacobshagen, Turnhout, Brepols 2020, pp. 107-121: 118. Cfr. Il Teatro di San Carlo cit., p. 149. Altre 8 si registreranno nell’annata 1815-16 a partire dalla serata di gala del 4 novembre 1815 (ivi, p. 152), e 6 nell’annata 1818-19 a partire dall’8 marzo 1818 (ivi, p. 155). «Giornale delle Due Sicilie», 18 novembre 1815 (n. 154): cit. in Ragni, Isabella Colbran cit., p. 941. I dati provengono da Ragni, Isabella Colbran cit., p. 938, e da Paolo Russo, Medea in Corinto. Vicende d’un’opera «per lo spirito e la mente», in Giovanni Simone Mayr, Medea in Corinto, a cura di Paolo A. Rossini, München, Ricordi 2013, Kritischer Bericht pp. 3-18: 5-6. Abramo Basevi, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Firenze, Tofani 1859, p. 191. A proposito di Mayr ne tratta (in maniera molto ‘evoluzionistica’, e senza tener conto di prospettive drammaturgiche) Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini, and the Development of the Opera Seria Duet: some preliminary Conclusions, in I vicini di Mozart, I, Il teatro musicale tra Sette e Ottocento, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze, Olschki 1989, pp. 377-398. In Cora i contorni morfologici sono talora più sfumati, e più complessa qualche sottosezione. Non ne parla Scott L. Balthazar, Mayr, Rossini, and the Development of the Early Concertato Finale, «Journal of the Royal Musical Association» CXVI/2, 1991, pp. 236-266.

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Paolo Fabbri doppio concertato: Medea «Ah! se manco a te di fede» e «Mira, infido/infida a quale stato», entrambe indicate come sezioni «a 5» nel libretto, e trattate come blocchi a se stanti; Cora «Che stato… oh Dio!» ed «È il mio bene! Lo veggio! egli è desso!». Anche il Finale I di Elisabetta ha due momenti statici ben individuati, corrispondenti a situazioni in cui i 4 personaggi principali si esprimono con ‘a parte’ simultanei: «Oh dio! resisto appena», e «Al colpo inaspettato», che già il libretto indicava «a 4» e la partitura esplicita come sezione a sé. Le successive opere serie napoletane, Otello e Mosè in Egitto (tralascio Armida, troppo particolare), si orienteranno piuttosto su di un unico Largo Concertato (rispettivamente: «Ti parli l’amore» e «Alla idea di tanto eccesso»), e altrettanto faranno ‒ di norma ‒ le opere seguenti. Dunque, da questo punto di vista il Rossini 1815 di Elisabetta risulta più affine a Mayr, che al sé stesso degli anni successivi.

Pur disegnati a grandi linee secondo la traccia che Basevi cristallizzerà, i Duetti non presentano però fattezze fisse, né in Mayr ma neppure in Rossini. Quelli di Elisabetta, per esempio, hanno un ventaglio di soluzioni tutte differenziate per i Tempi d’Attacco: parallelismo totale (salvo che per le codette) nel N. 8 «Pensa che sol per poco» (un Terzetto che inizia come un Duetto); parallelismo dei soli vv. 1-2 nel duettino N. 4 «Incauta! che festi!»; identità del solo incipit e successivo parallelismo dei vv. 3-4 nel N. 6 «Perché mai, destin crudele»; difformità radicale nel duettino N. 11 «Deh! scusa i trasporti». Tranne le due soluzioni estreme ‒ parallelismo totale, o totalmente assente ‒ anche Medea e Cora proponevano le altre, quelle con perfetta corrispondenza/affinità nei 2 versi iniziali (N. 4 «Cedi al destin, Medea», e N. 3 «Serena il mesto ciglio» in Cora), oppure nei 2 successivi (N. 9 «Non palpitar, mia vita» e N. 11 «Se il sangue, la vita» in Medea).¹5 Piuttosto, dove Rossini diverge in modo deciso da Mayr era nei recitativi ¹6 e nelle arie. Queste ultime si dispongono secondo una scansione già notevolmente standard: in Elisabetta 6 su 6 sono articolate in cantabile seguito da cabaletta, con o senza ripresa (integrale o parziale che sia). È vero per Norfolc nell’Introduzione (ripresa integrale) e per la sortita di Elisabetta (ripresa parziale). Ed è ancor più significativo per Matilde (N. 5 «Sento un’interna voce»), di nuovo per Norfolc (N. 9 «Deh! Troncate – i ceppi suoi») e per Leicester (N. 10 «Fallace fu il contento»), perché il librettista Schmidt in quei casi non le aveva chiaramente prefigurate: Rossini, che evidentemente le voleva, dovette ricavarle manipolando e riformulando il suo testo, o chiedendo un rimpiazzo (nel caso di quella di Matilde la seconda quartina, isometrica, fu sostituita da una di altro metro). Delle 9 arie presenti in Medea, solo 4 si dispongono secondo lo schema a 2 movimenti con cabaletta. E in Rossini l’urgenza di approdare a quest’ultima è tale, da ridurre i Tempi di Mezzo a puri passi di collegamento. Mayr invece non ne fa sempre e solo un semplice ¹5 In Cora il N. 6 «Amato ben! fuggiamo…» si configura come una «solita forma» dai contorni meno netti. ¹6 Per questo aspetto, si rimanda a Fabbri, Zelmira cit.

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Echi di Mayr al San Carlo connettivo, come mostrano le arie Nn. 3 e 4. Anche in Cora quelle scandite in cantabile-cabaletta sono solo 2 su 4 (i Nn. 5 «Si mora: oh ciel tiranno!» e 9 «Vanne, combatti, e riedi»), e perdipiù con gli Allegro conclusivi molto poco cabalettistici. Ciò che per Mayr era una delle possibilità, per Rossini costituiva ormai la norma. Per entrambi, però, non era d’obbligo la ripresa della cabaletta: sia Mayr sia questo Rossini 1815 la prevedono solo nella metà dei casi. Dunque, non si era ancora imposta la soluzione che un decennio dopo si attirerà i sarcasmi di Lichtenthal (grande amico e corrispondente di Mayr, tra l’altro): dopo un picciolo Andante od Andantino la Regina Cabaletta apre la ridente bocca, e canticchiando una specie di Walzer con un ritmo e prosodia stravolta, modula co’ graziosi e languenti sì e no nella favorita Terza o Sesta minore, e vola sulle ali d’un dolce Eco tutta giubbilante e gorgheggiante a tuono. Il Coro ed i subalterni applaudono tosto, ed Ella, tutta compiacenza, torna subito a ribeare codesti suoi fidi sudditi, ripetendo coll’uniforme pizzico degli strumenti la celeste melodia; e questi accompagnano non di rado con galante mormorio le ultime cadenze, con cui termina immediatamente il pezzo sublime, affinché non perdasi la delicatissima e dolcissima illusione del non plus ultra dell’odierna espressione musicale.¹7

All’altezza del 1826 la doppia cabaletta era uno degli effetti della supremazia di Rossini, come denunciava anche Girolamo Crescentini, docente di canto al Conservatorio napoletano. In una lettera del 29 dicembre di quello stesso 1826 all’amico Alessandro Micheroux, deprecava «la moda delle Cabalette, e dei Crescendi che a bizzeffe sonovi in ogni pezzo di musica dei nostri odierni compositori seguaci del genio rossiniano».¹8 Ridotta in spiccioli, quell’egemonia si sostanziava polemicamente nell’ovvietà di formule di climax prevedibili, e nell’astuta ruffianeria di quei motivetti squadrati e replicati (per dar campo ulteriore ai virtuosismi canori), infestanti come un flagello biblico: un’invasione di cabalette. Era una semplificazione, ma non priva di fondamento. Mayr mostrava scelte formali più varie, e una scrittura che puntava su rinnovamento, sviluppo ed elaborazione dei materiali, in un flusso continuo e con limitate differenze interne. Proprio il corpo a corpo tra lui e Rossini, nel 1815 al S. Carlo, pose a confronto due mondi: quello nuovo ‒ rossiniano ‒ tendeva all’uniformità morfologica e rimodellava il lessico tradizionale dandogli maggior quadratura, articolandolo in maniera più netta e perspicua, inserendovi strutture prefabbricate (cadenze in quantità, crescendi, progressioni), sveltendo le giunture, differenziando le funzioni (focalizzazione motivica versus semplice connettivo). Scrivendo da Vienna all’amico Giuseppe Acerbi, il 28 maggio 1817 Giuseppe Carpani aveva acutamente

¹7 Pietro Lichtenthal, Dizionario e Bibliografia della musica, Milano, Antonio Fontana 1826, I, p. 107. ¹8 Giuditta Pasta e i suoi tempi. Memorie e lettere, a cura di Maria Ferranti Giulini, Milano, s.e. 1935, p. 99.

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Paolo Fabbri detto di Rossini: «ha una tinta sua propria, che lega l’antico col moderno».¹9 E un paio di mesi prima (26 marzo 1817): «Non ha passi nuovi, ma li accozza in una maniera tutta sua, ed anche il sentito maneggiato da lui pare nuovo»,²0 per poi concludere (16 maggio 1817): «Rossini è il solo compositore veramente originale in Italia, e quel ch’è curioso, originale rubando a man salva; ma lo fa in modo che a guisa degli stomaci ciò che prende di non suo lo trasforma in chilo e diventa suo sangue. Sparisce il furto e brilla la proprietà».²¹ Qualche anno dopo, sintetizzava questa visione in una felice formula: «badate bene, tutto non è nuovo, ma nuovo n’è il Tutto».²² Due esempi. Il primo è la cabaletta della sortita di Medea «Sommi dei, che i giuramenti», particolarmente utile perché ha singolari punti di contatto con la sezione corrispondente della coeva cavatina di Lindoro nell’Italiana in Algeri. In pratica i loro motivi, disposti come piccole barformen aab, hanno aa identici e b equivalenti, e dunque consentono di verificare come Mayr e Rossini si comportano da lì in poi, prendendo avvio da un punto di partenza comune. Dopo la presentazione della cabaletta vera e propria (il motivo aab) Rossini passa la mano all’orchestra, per una digressione solo funzionale, un cuscinetto prima della ripresa; Mayr invece prolunga e chiude la frase (bb. 171-176) e inizia immediatamente un ulteriore episodio intermedio, di pari valore melodico (bb. 176-189).²³ Le code successive, che in Rossini sono uno strascico virtuosistico (eccezionalmente lungo, per la verità), in Mayr danno il destro a espansioni e prolungamenti.

¹9 Leggibile in Helmut C. Jacobs, Literatur, Musik und Gesellschaft in Italien und Österreich in der Epoche ²0 ²¹ ²² ²³

Napoleons und der Restauration. Studien zu Giuseppe Carpani (1751-1825), II, Frankfurt, Peter Lang 1988, p. 445. Cfr. Jacobs, op. cit., I, pp. 426-427. Ivi, p. 434. Giuseppe Carpani, Le Rossiniane ossia Lettere musico-teatrali, Padova, Tipografia della Minerva 1824, p. 142 (Lettera VII, da Vienna, 5 maggio 1822). La numerazione delle battute rimanda all’edizione critica citata a nota n. 12.

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Echi di Mayr al San Carlo

Es. mus. 1a: Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri.

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Paolo Fabbri

Es. mus. 1b: Giovanni Simone Mayr, Medea in Corinto.

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Echi di Mayr al San Carlo L’altro esempio lo offrono le Sinfonie. Le grandi linee di quelle di Medea ed Elisabetta sono le medesime, ma le differenze di condotta interna indicano strategie diverse. L’Adagio di Mayr è il tipico esordio irresoluto, alla maniera dell’ultimo Haydn, mentre Rossini lo concepisce (meglio: l’aveva concepito, trattandosi di un riuso che poi tornerà notoriamente nel Barbiere) mettendo a fuoco un passo melodico perfino opportunamente incorniciato dal medesimo ‘gesto’ ritmico. I motivi sui quali scattano i due Allegro sono singolarmente affini: entrambi in minore (re per Mayr, mi per Rossini), con segmenti ritmici perfettamente paralleli. Quello di Mayr consta però di 2 membri sbilanciati (4 + 6 battute: bb. 50-60) immediatamente riproposti (bb. 60-70), mentre Rossini procede con perfetta regolarità ‒ di 4 in 4 battute ‒ e, tra un’esposizione e l’altra, intercala un passo con funzione di chiusa e collegamento.

Es. mus. 2a: Giovanni Simone Mayr, Medea in Corinto. Entrambi i Tutti conducono alle dominanti (rispettivamente: Do e Re) dei relativi maggiori (Fa e Sol) per introdurre i secondi motivi. Anche qui, Rossini regolare (4 + 4 battute [a I-V + a’ V-I], e 4 di cadenza composta b: il tutto ripetuto) e Mayr di nuovo asimmetrico: 2 + 2 (bb. 96-100: a I a’ V) e 4 di cadenza composta b (bb. 100-104): idem dilatato, con a a’ duplicati in imitazione tra fagotto e clarinetto (bb. 104-108), e b protratto a 8 battute (bb. 108-116).

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Paolo Fabbri

Es. mus. 2b: Giovanni Simone Mayr, Medea in Corinto. Mentre Rossini inizia a questo punto il crescendo, Mayr dilunga il secondo motivo per altre 15 battute, prima di fare altrettanto. E il suo crescendo (da b. 130) è solo un blando incremento di stratificazione, e soprattutto una ripetizione insistita (una cadenza perfetta I-V-I &c. reiterata 7 volte, battuta per battuta) laddove Rossini prima espande il suo motivo, poi lo comprime armonicamente (cadenze sempre più ravvicinate) creando un aumento spasmodico di tensione ‒ ignoto a Mayr ‒ prima di far deflagrare il fortissimo. La ripresa in Rossini è inequivocabile: motivo 1 come nella formulazione d’apertura, niente Tutti o modulazione alla dominante, motivo 2 nell’omologo maggiore, e infine crescendo e code: una riepilogazione decisa, senza divagare. Quando comincia quella di Mayr (b. 169, con un’anticipazione in maggiore a b. 162), restiamo nel dubbio si tratti invece di uno svilup110


Echi di Mayr al San Carlo po, dato che il motivo iniziale riappare in fa min. (laddove era stato presentato in re min.) e, in sovrappiù, ciò che segue inizia un percorso modulante tipico delle Entwicklungen di Haydn. Quando Medea venne proposta alla Scala, nel 1823, quella soluzione aveva lasciato perplesso anche il recensore milanese: «Dopo il gran riposo in fa, Mayr modula in toni troppo lontani dal punto dond’è partito. Il ripiglio del motivo principale non è felice per esser troppo rapida la transizione».²4 Il ritorno del motivo 2 (b. 218), in Re magg. (anche qui l’omologo maggiore, ma di una tonalità che non abbiamo riascoltato a breve), è nella versione a canone, e ancor più lungo e sviluppato della prima apparizione. Il crescendo conclusivo (bb. 252 e sgg.) ha sonorità decisamente tardo-settecentesche. Al suo debutto napoletano, Medea era stata progressivamente ammirata: una «magistrale composizione», ²5 ma di uno stile poco affabile. Quanto più si ascolta con attenzione questa musica del maestro Mayer, tante più sono le bellezze intellettuali di composizione che gl’intelligenti vanno scuoprendo, ne’ diversi pezzi, già da noi un’altra volta notati, come pezzi d’effetto sia per le frasi felici e veramente conformi all’idea delle cose, come per la loro originalità per la loro varietà e per la dottrina musicale. La composizione potrebbe dirsi del buon genere gluckiano […]. Invano sperano coloro che furono dotati dalla natura di felice e ben costrutto orecchio d’uscire dal teatro canterellando e ripetendo qualche aria o qualche duetto: i passaggi, le frasi e la loro costruzione sono sì varî e sì difficili che la memoria ed il gusto più squisito non giunge mai ad afferrarli con sufficiente precisione. ²6

Due anni dopo, di certo Elisabetta non si sarebbe potuta definire «del buon genere gluckiano».²7 Con un arbitrio non poi così azzardato, possiamo invece attribuirle ‒ ribaltati ‒ i tratti che il recensore negava a Medea: relativo facilismo, strutture maggiormente regolari e uniformi, e dunque più agevole memorabilità. Erano pregi che dovettero riuscire decisivi per il fulmineo successo di Rossini.

²4 «Giornaletto teatrale ragionato» LXXVII, [1823], pp. 535-540: cit. in Russo, Medea in Corinto. Vicende di un’opera cit., p. 130. ²5 «Il Monitore delle Due Sicilie», 30 novembre 1813 (cit. in Russo, Medea in Corinto. Vicende di un’opera cit., p. 127). ²6 «Il Monitore delle Due Sicilie», 15 dicembre 1813, p. 3 (cit. in Russo, Medea in Corinto. Vicende di un’opera cit., p. 129, e Russo, Medea in Corinto di Felice Romani cit., pp. 16-17). ²7 Per le ragioni argomentate in Fabbri, Zelmira cit.

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Massimo Fusillo L’“Otello”: una catarsi sublime

1. Napoli 1816 Andato in scena per la prima volta al Teatro del Fondo nel 1816, l’Otello di Rossini scaturisce dall’ambiente culturale che fioriva attorno a Francesco Berio di Salsa, un letterato allora molto famoso, colto e cosmopolita, e appassionato di cultura inglese.¹ Come librettista, Berio è stato spesso fortemente bistrattato da una critica che ragiona troppo con i canoni della drammaturgia otto-novecentesca, e con i concetti di verosimiglianza e funzionalità.² In quell’epoca Shakespeare arrivava al melodramma sempre attraverso la mediazione del neoclassicismo francese, come ha mostrato bene un saggio di Fabio Vittorini: bisognerà aspettare il Macbeth di Verdi per avere un rapporto intenso e diretto con la poetica del drammaturgo inglese, in sintonia con la rivoluzione romantica.³ Nel caso dell’ Otello di Berio-Rossini la fonte primaria è la traduzione-riscrittura di Jean-François Ducis, che addolcisce e stempera di molto la tensione tragica di Shakespeare.4 Sappiamo che nella ricca biblioteca di Berio di Salsa (il cui catalogo è conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli) figurava un’edizione in originale dei drammi di Shakespeare, e si può certo ipotizzare in alcuni punti un rapporto diretto con l’originale e con altre fonti, come l’Otello, azione patetica in cinque atti, di Giovanni Carlo Cosenza, andato in scena in forma privata a Napoli nel 1813, o il balletto sullo stesso soggetto del 1808;5 la fonte primaria resta comunque ¹ Paolo Somigli, Da Othello di Shakespeare a Otello ossia Il Moro di Venezia di Rossini - Berio di Salsa, ²

³ 4 5

«Rivista di Studi Italiani» 22, 2004, pp. 41-58. Durissimo il giudizio di Ferruccio Tammaro, Ambivalenza dell’Otello di Rossini, in Il melodramma italiano dell’Ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila, a cura di Giorgio Pestelli, Torino, Einaudi, 1977, pp. 187-235 (uno studio peraltro assai stimolante); al polo opposto troviamo la difesa di Berio da parte di Paolo Isotta, I diamanti della corona: Grammatica del Rossini napoletano, Torino, Utet, 1974, pp. 219220. Fabio Vittorini, Shakespeare e il melodramma romantico, Firenze, La nuova Italia, 2000. Una comparazione fra i testi si può fare agevolmente ricorrendo a William Shakespeare-Arrigo Boito-Francesco berio di Salsa-Jean-François Ducis, Quattro volti di Otello, a cura di Marco Grondona e Guido Paduano, Milano, Rizzoli, 1996. La questione delle fonti è analizzata in modo esaustivo nel volume di Renato Raffaelli, Otello, Pesaro, Fondazione Rossini, 1996, che contiene anche una serie di testi, fra cui Ducis.

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Massimo Fusillo Ducis, perché Berio, come tutti gli artisti neoclassici, era convinto che Shakespeare andasse corretto, reso più levigato e accettabile, meno barbarico e violento. Non si può quindi chiedere a Rossini una fedeltà (concetto comunque molto opinabile) a Shakespeare che era impensabile in quel contesto e in quella cultura. A partire da questa base Rossini scrive una delle sue opere più innovative, e si lancia nell’esperimento della divisione in tre atti, e del finale tragico. L’opera avrà poi, nelle sue diverse varianti, un successo enorme in tutta Europa, anche a livello figurativo, se si pensa agli splendidi quadri di Eugène Delacroix (La mort de Desdémone, 1859; Desdémone maudite par son père, 1851) e di Théodore Chassériau (Desdémone, 1849), autore anche di un ciclo litografico (Othello, 1843), tutte opere che si richiamano direttamente alla versione rossiniana6. Come scrive Sergio Ragni, comico o tragico, bianco o nero, uomo o donna, l’Otello di Rossini ha trionfato in tutti i teatri d’opera dell’epoca, grazie anche a un’impressionante versatilità e intercambiabilità dei ruoli (una straordinaria performatività, si direbbe oggi).7 2. L’empatia negativa fra tragedia e melodramma Proveremo a leggere quest’opera chiave del soggiorno napoletano di Rossini attraverso due concetti molto importanti nella cultura settecentesca soprattutto inglese, l’empatia e il sublime, strettamente intrecciati fra di loro, e a loro volta spesso in sinergia con un’altra categoria estetica in questo caso antichissima, la catarsi. Il primo di questi concetti, l’empatia, sta vivendo oggi un nuovo rilancio, dopo la sua fase aurorale nel Settecento, con la filosofia delle passioni (la sympathy di Hume e di Adam Smith), e la sua grande fioritura a inizi del Novecento, legata invece alla teoria delle arti visive, all’estetica e alla psicanalisi.8 Il successo contemporaneo dell’empatia deriva soprattutto dalle neuroscienze, e dalle varie implicazioni politiche che il concetto ha ormai assunto: domina però in modo massiccio la sua accezione positiva, l’identificazione con le fasce più deboli della società, i soggetti subalterni, le vittime di traumi violenti, i personaggi sofferenti, e più in generale con tutte le forme di alterità, dagli animali all’insieme dell’ambiente ecologico. Una sorta di pietas virgiliana trasformata in un meccanismo universale e onnicomprensivo. Senza misconoscere il valore fondamentale di questa tipologia dominante, noi ci occuperemo invece di un fenomeno tendenzialmente regressivo, che è stato finora completamente sottovalutato e trascurato, benché sia una pratica diffusissima in tutte le epoche e soprattutto nel con6 Cfr. Otello. Un percorso iconografico da Shakespeare a Rossini, a cura di Cesare Scarton e Mauro Tosti-Cro7

8

ce, Pesaro, Fondazione Rossini, 2004, in particolare pp. 238-250. Rossini a Napoli: 1815-1822: la conquista di una capitale, a cura di Sergio Ragni, Napoli, Teatro di San Carlo, 1991, p. 22: «l’opera più rappresentata nei teatri europei […] primedonne vittime il giorno prima divenivano assassini accecati dalla gelosia il giorno dopo, passando con nonchalance dal ruolo femminile a quello maschile». Per un buon inquadramento storico cfr. Andrea Pinotti, Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano, Bari, Laterza, 2011.

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L,«Otello»: una catarsi sublime temporaneo (da Le benevole a Breaking Bad): l’empatia verso personaggi negativi, su cui ci sono alcuni cenni nel primo teorico dell’Einfühlung, Theodor Lipps, e pochi altri lavori.9 Abbiamo a che fare con un meccanismo fondamentale per capire l’importanza dell’esperienza estetica e la sua funzione sociale: la capacità di farci entrare con la mente in mondi e soggetti molto lontani dal nostro, talvolta in dissonanza con le nostre convinzioni etiche, politiche, culturali e con la nostra identità sociale. Così intesa, l’empatia negativa ha una funzione sicuramente catartica, come suggeriva Freud in Personaggi psicopatici sulla scena;¹0 un breve scritto che mette a fuoco il desiderio di vite plurime come un fenomeno primario che solo la letteratura e il teatro sanno soddisfare appieno, grazie alla cornice estetica che permette identificazioni paradossali. Già nella Poetica di Aristotele, che segue a questo proposito le teorie di Gorgia, gli effetti precipui della tragedia, pietà e terrore, racchiudono in sé tutto il potenziale catartico dell’empatia negativa: identificarsi con i cattivi serve a scaricare le pulsioni (auto)distruttive, i lati oscuri della propria psiche, le spinte antisociali, e a trasfigurarli ludicamente nella performance artistica. La distanza è il presupposto fondamentale per l’empatia in generale (mi riferisco sempre al suo tipo più complesso, non immediato, che scaturisce dal mindreading e dal re-enactment¹¹), e in particolare per l’empatia negativa; ed è anche il presupposto per due fenomeni estetici strettamente correlati: il sublime e la catarsi. Per richiamarci alla metafora a cui Blumenberg ha dedicato un saggio famoso:¹² possiamo essere spettatori del naufragio solo perché ne siamo lontani, possiamo godere appieno dell’esperienza sublime di un luogo orrido, di una tempesta, di un abisso solo se la nostra vita non è in pericolo. Allo stesso modo possiamo identificarci con personaggi negativi e fare esperienza del male anche estremo solo perché la cornice estetica ci protegge, e ci fa sospendere il nostro sistema morale e ideologico, portandoci alla fine alla catarsi dell’energia negativa.

9 Theodor Lipps, Leitfaden der Psychologie, Leipzig, Engelmann, 1909 (terza edizione), p. 222 (su cui cfr.

Maria Rosaria De Rosa, Theodor Lipps: estetica e critica delle arti, Napoli, Guida, 1990, capp. 1-2); Adam Morton, Empathy for the Devil, in Empathy. Philosophical and Psychological Perspectives, a cura di May Coplan e Peter Goldie, Oxford, Oxford University Press, 2011, pp. 325-326; Stefano Ercolino, Negative Empathy: History, Theory, Criticism, «Orbis Litterarum» 73/3, 2018, pp. 243-262. ¹0 Sigmund Freud, Psychopathische Personen auf der Bühne (1905), in Gesammelte Werke. Nachtragsband. Texte aus den Jahren 1883-1938, a cura di Angela Richards e Ilse Grubrich-Simitis, Frankfurt, Fischer, 1987; trad. it. di Marilisa Tonin Dogana, Personaggi psicopatici sulla scena, in Opere vol. 5, Il motto di spirito e altri scritti 1905-1908, Torino, Boringhieri, 1989, pp. 227-236. ¹¹ Cfr. Karsten Stueber, Rediscovering Empathy: Agency, Folk Psychology, and the Human Sciences, Cambridge (MA), The MIT Press, 2006. ¹² Hans Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer, Paradigm einer Dasaeinsmetapher (1979), Frankfurt, Suhrkamp, 1997; trad. it. Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna, Il Mulino, 2001.

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Massimo Fusillo La musica è senza dubbio un catalizzatore di empatia, soprattutto per il suo straordinario impatto emotivo: per il suo configurarsi come codificazione delle emozioni nel loro stato più puro.¹³ Questa funzione si percepisce con particolare evidenza in un genere misto come il teatro musicale, in cui il canto sviluppa e potenzia le situazioni drammaturgiche delineate dal libretto. Il melodramma in particolare ha un sistema di personaggi in cui le figure negative giocano un ruolo strutturale costante: è fin troppo nota e citata la battuta di George Bernard Shaw, che definisce l’opera il genere in cui il tenore vuole andare a letto con il soprano mentre il baritono cerca a tutti i costi di impedirlo; una battuta efficace, che copre però solo una parte del melodramma. Nella dialettica delle voci il baritono ha un ruolo importante, per cui in tutta la storia del melodramma lo spessore semantico dei rivali va sempre ben oltre la loro funzione narratologica di opponente. Nella lunga storia del genere tragico, fatta di oscillazioni e trasformazioni continue, spetta a Shakespeare il merito di aver sviluppato al massimo questa tecnica. Le sue tragedie sono infatti un momento culminante nella storia dell’empatia negativa; a prescindere dal grado di identificazione latente che possono più o meno suscitare, le sue figure negative sono fra le più straordinarie dell’immaginario globale oggi, e incarnano in modo quasi antonomastico l’idea del male (di un male che sa essere sottilmente e inspiegabilmente fascinoso): Jago, Riccardo III, lady Macbeth. Per la categoria dell’empatia negativa Jago rappresenta senz’altro un caso limite: è possibile empatizzare, anche solo in forma latente e disgiunta dalla valutazione morale, con un personaggio la cui malvagità non ha vere motivazioni? Non siamo forse di fronte a un caso di male assoluto, che in quanto tale può affascinare proprio per la sua assolutezza, senza comunque mai creare identificazione, ma solo distanza altrettanto assoluta? Credo che se mai esiste un margine di possibile empatia con questo personaggio, risiede tutto nella sua abilità di demiurgo, nella sua raffinata strategia retorica di manipolazione che fa di Othello una tragedia del linguaggio, e che trova piena espressione nel declamato melodico di Verdi. 3. Jago secondo Rossini Per Ducis Jago è, non a caso, un personaggio inadatto al gusto classico francese: rappresenta infatti lo scandalo del male. Sulla sua scia anche il libretto di Berio di Salsa riduce drasticamente la presenza di questo personaggio chiave: non gli affida infatti nessuna aria. Resta però intatto il suo ruolo registico di demiurgo dell’azione, esplicato attraverso una serie di recitativi di grandissima efficacia espressiva. Fin dall’inizio dell’opera: ad esempio nella terza scena del primo atto, quando cerca di frenare Rodrigo, o nella scena quinta, in ¹³ Sulla musica e sulle emozioni, negative in particolare, cfr. Jerrold Levinson, Music, Art and Metaphysics. Essays on Philosophical Aesthetics, Oxford, Oxford University Press, 2011, pp.306-335; The Routledge Companion to Philosophy and Music, a cura di Theodor Gracyk e Andrew Kania, London - New York, Routledge, 2011, Parte II.

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L,«Otello»: una catarsi sublime cui in un monologo dà espressione alla frustrazione amorosa nei confronti di Desdemona, e al desiderio di vendetta: Fuggi... sprezzami pur: più non mi curo della tua destra... un tempo a’ voti miei utile io la credei... Tu mi sprezzasti per un vile africano, e ciò ti basti. Ti pentirai, lo giuro; tutti servir dovranno a’ miei disegni gli involati d’amor furtivi pegni.

Il momento più importante è senz’altro il «bellissimo duetto» (D’Amico)¹4 fra Jago e Otello nel secondo atto (scena VI); la manipolazione retorica avviene, come in Shakespeare, tramite allusioni, reticenze, litoti, frasi spezzate, rese in modo molto poetico dal libretto: L’interrotto parlare, i dubbi tuoi l’irresoluto volto in quanti affanni involto hanno il mio cor. […] chieder non deggio…Oh Dio ! Quanto s’accresce il mio timor dal tuo silenzio!...Ah forse l’infida…

Sono nuclei tematici che vengono potenziati dalla musica, come dimostra l’esegesi ricchissima di Paolo Isotta: le asimmetrie, le interiezioni orchestrali, i cromatismi, i «minacciosissimi unisoni» ci fanno vivere dall’interno l’esperienza del plagio, concretizzando, nelle loro forme oblique, la distorsione dell’io.¹5 Questo arco drammaturgico, che la regia di Giancarlo del Monaco al Rossini Opera Festival (Pesaro 2007) visualizzava con una serie di porte,¹6 culmina nella famosa stretta «L’ira d’avverso fato», reimpiegata da Rossini dal Torvaldo e Dorlisca e riecheggiata poi da Verdi nel Rigoletto nel famosissimo «Sì vendetta, tremenda vendetta». ¹4 Fedele D,Amico, Il teatro di Rossini, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 150; del tutto opposta l’opinione di Luigi Rognoni, Gioacchino Rossini, Torino, Einaudi, 1977, p. 127. ¹5 Paolo Isotta, Otello: Shakespeare, Napoli, Rossini, Napoli, Teatro di San Carlo, 2016, p. 55. ¹6 Scene: Carlo Centolavigna, costumi: Maria Filippi, progetto luci: Wolfgang Von Zoubek; uno spettacolo molto onirico, che puntava sulla dialettica fra interno claustrofobico e paesaggio marino, dando anche spazio all’ossessione per Jago di cui si vedevano all’inizio una serie di replicanti; sembra sia stata molto meno convincente la regia di Jürgen Flimm alla Scala: cfr. Elvio Giudici, L’Ottocento. L’Opera: storia, teatro, regia, Milano, IlSaggiatore, 2019, pp. 1130-1133.

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Massimo Fusillo C’è un ultimo aspetto da affrontare riguardo questa scena così importante: l’assegnazione delle due parti a due tenori deriva certo dalla prassi vocale dell’epoca e da questioni contingenti, ma assume anche, grazie alla musica di Rossini, una connotazione drammaturgica e simbolica. Come ha dimostrato il saggio ormai canonico di Alessandro Serpieri, L’eros negato, la complessa dialettica che si stabilisce in Shakespeare fra Jago e Otello, fatta di censure e attrazioni represse, scaturisce anche da complementarietà e somiglianza (sono due affabulatori, anche se di segno opposto):¹7 vederli impersonati da due tenori non fa che potenziare questo elemento. Sulla base di tutti questi fattori possiamo dire che l’empatia negativa in Rossini non ha i tratti dirompenti ed espressionistici che avrà in Verdi (che la usa sistematicamente in tutta la sua produzione),¹8 ma è comunque una strategia presente e tangibile: sottile e stilizzata, ma capace di incrinare l’estetica neoclassica del bello. 4. L’ultimo atto: una catarsi sublime L’estetica neoclassica del bello vacilla ancor più nel terzo ed ultimo atto, il più innovativo dell’opera e uno dei più interessanti di tutto il Rossini serio. Tutta la critica fin dall’inizio (Stendhal, Byron) l’ha apprezzato e l’ha considerato più vicino al modello di Shakespeare: Giacomo Meyerbeer arrivò a sostenere che le sue bellezze sono «antirossiniane».¹9 È un atto teso e compatto, senza la dilatazione temporale tipica del belcanto, incandescente dall’inizio alla fine, e tutto concentrato verso il finale tragico e verso la catarsi; proprio questa insolita essenzialità, che lasciò sconcertato il pubblico contemporaneo, spinge Luigi Rognoni a parlare di una «modernità sorprendente».²0 Anche in questo caso l’analisi brillante di Paolo Isotta ci aiuta a descrivere alcuni snodi fondamentali: il canto del gondoliere con la citazione di Dante, la tempesta, il declamato «potente e duro», il canone di «teso espressionismo», la sospensione e il silenzio prima di un finale inaspettatamente fulmineo e sostanzialmente brachilogico²¹ (lasciando da parte la questione critica dei due finali, tragico e comico, divisi solo da un minimo asincroni¹7 Alessandro Serpieri, Otello: l’eros negato (1980), Napoli, Liguori, 2003. ¹8 Mi permetto di rimandare a Massimo Fusillo, Sull’empatia negativa: “Macbeth” secondo Verdi, in Shake-

speare: un romantico italiano, a cura di Raffaella Bertazzoli e Cecilia Gibellini, Firenze, Cesati, 2017, pp. 183-194; Id., Sulla drammaturgia dell’antagonista. Verdi e l’empatia negativa, in Interpretazioni. Studi in onore di Guido Paduano, a cura di Alessandro Grilli e Francesco Morosi, Pisa, Pisa University Press, 2019 (= «Studi classici e orientali» 65.2, 2019). Giacomo Meyerbeer, Briefwechsel und Tagebücher, vol. 1. Bis 1824, a cura di Heinz Becker, Berlin, De ¹9 Gruyter, 1960, pp. 359-360: il terzo atto avrebbe salvato dal fiasco, in quanto «divinamente bello» (göttlich schön), anche se le sue bellezze sono «in tutto e per tutto antirossiniane» (ganz und gar antirossinianisch) (trad. mia). ²0 Rognoni, Gioacchino Rossini cit., p. 131; cfr. anche Daniela Tortora, Drammaturgia del Rossini serio. Le opere della maturità da Tancredi a Semiramide, Roma, Torre d’Orfeo, 1996, pp. 224-225. ²¹ Isotta, I diamanti della corona cit., p. 225.

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L,«Otello»: una catarsi sublime smo).²² Isotta parla in proposito di un unicum «fuori dall’estetica del Bello Ideale»:²³ e io ritengo infatti che questo atto vada letto attraverso una categoria estetica che si è sempre contrapposta al bello ideale (anzi, è stata la prima categoria estetica non basata sulla bellezza), e che non è stata utilizzata appieno dalla critica rossiniana, a quanto mi risulta (se non come aggettivo che designa l’eccellenza artistica, il che è tutt’altra cosa): il sublime. Notte, terrore, tempesta, silenzio, sottrazione: sono tutti nuclei che animano questo straordinario terzo atto dell’Otello di Rossini, ma che costellano anche in vario modo la storia millenaria del sublime, sia nella teoria che nella prassi. A partire da Longino (Sul sublime, 9.2), che esalta il silenzio dell’ombra di Aiace vanamente interrogata da Ulisse nel regno dei morti, più sublime di qualsiasi parola (ne scaturisce un uso retorico del silenzio²4), per arrivare all’astrattismo tragico di Mark Rothko, frutto di sottrazione e concentrazione. I primi tre elementi – la notte, la tempesta e il terrore – sono più tangibili, e massicciamente presenti nella pratica artistica del sublime in tutti i suoi generi, dalla pittura di Salvator Rosa, amante di abissi, rovine e crepacci, alle tempeste informali di Turner, dalle elegie preromantiche di Young alla poesia di Leopardi, lettore appassionato di Longino. Ma soprattutto il terrore è la parola chiave, dato che nel Settecento era diventato il concetto che più identificava il sublime grazie ad un nuovo testo canonico, che ha quasi soppiantato il trattato antico, l’Inchiesta sul bello e il sublime di Edmund Burke (A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful, 1757); e di «tragico terrore» parlò il «Giornale del Regno delle due Sicilie», a proposito di quest’opera.²5 Per passare alla musica: la critica ha ravvisato più di un elemento beethoveniano in questo atto, soprattutto nella tempesta notturna iniziale (ben diversa dalle tempeste a fine narrativo del Rossini comico, del Barbiere), e Beethoven, come Dante e Shakespeare (non a caso presenti entrambi in questo atto di Rossini) è uno dei numi tutelari dell’estetica del sublime. Nel celebrarne il centenario della nascita (1870), Richard Wagner scriverà che il progresso che Beethoven ha prodotto nella musica si può sintetizzare come passaggio dal bello estetico al sublime;²6 e già a inizio dell’Ottocento uno scrittore-musicista come Ernst Theodor Amadeus Hoffmann lo considerava il più sublime dei musicisti, perché capace di suscitare terrore, orrore, paura e dolore, e di portare l’ascoltatore verso il regno dell’incommensurabile e dell’infinito; una motivazione in cui si avverte l’effetto Burke, e anche l’ap²² Cesare Questa-Renato Raffaelli, I due finali di Otello, in Gioacchino Rossini 1792-1992. Il testo e la scena, ²³ ²4 ²5 ²6

a cura di Paolo Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini, 1994, pp. 183-203; diversa la posizione di Marco Grondona, Otello, una tragedia napoletana. Commento a Rossini, Lucca, LIM, 1997. Isotta, Otello: Shakespeare, Napoli, Rossini cit., p. 116. Paolo Valesio, Ascoltare il silenzio. La retorica come teoria, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 353-397. 11 Dicembre 1816: «le più forti perturbazioni del tragico terrore», a proposito dell’interpretazione di Isabella Colbran; cfr. Rossini a Napoli: 1815-1822 cit., p. 22. Richard Wagner, Beethoven, Leipzig, Fritzsch, 1870; trad. it. in Id., Scritti su Beethoven, traduzione e cura di Lorenza Armellini, Milano, Manzoni, 2018.

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Massimo Fusillo partenenza di Hoffmann al fantastico romantico, su cui Freud ha modellato la sua nozione di perturbante (che ha alcune tangenze con il sublime).²7 Comunque già a fine Settecento, su influsso diretto del pensiero di Kant, si era sviluppata una teoria del sublime musicale puro, strumentale (Friedrich Rochlitz, Christian Friedrich Michaelis), tesa a individuare anche una serie di stilemi, come la rapida successione di movimenti uniformi o di suoni gravi, l’unisono, o le lunghe pause all’interno di melodie patetiche.²8 Ma è un oratorio molto amato da Rossini (che lo diresse) l’opera musicale che affronta in questo periodo direttamente un tema sublime, La Creazione (Die Schöpfung, 1796) di Franz Joseph Haydn. L’incipit in particolare è una delle più straordinarie realizzazioni del sublime moderno: dopo l’ouverture orchestrale, che evoca con ricchezza di chiaroscuri il caos primordiale, l’arcangelo Raffaele (basso) recita l’inizio famoso della Genesi, poi continuato dal Coro, sempre in pianissimo, quasi sussurrato. Al momento del Fiat lux, considerato già da Longino (Sul sublime, 9.9) un esempio perfetto di sublime, semplice nella sua potenza, si ha un’esplosione grandiosa di musica («E la luce fu», Und es ward Licht!), un tutti in fortissimo con cambio di tonalità, che prosegue anche quando l’arcangelo Uriele (tenore) sviluppa il tema cosmico della separazione fra la luce e l’oscurità, e della sconfitta delle forze infernali. La critica non ha invocato la categoria estetica del sublime a proposito del terzo atto dell’Otello perché in genere Rossini viene ascritto alla categoria opposta, al bello, come succede anche per il suo pittore preferito, l’amato Raffaello; e su questa sintonia basta consultare il bel catalogo della mostra Raffaello, Rossini e il bello stile, curata da Sergio Ragni.²9 Le dicotomie, come sempre sono però solo dei punti di partenza: possono rendere bene alcuni tratti, ma poi schematizzano troppo la fluidità dei fenomeni. Contrapporre il bello e il sublime attraverso le polarità tra Raffaello e Michelangelo, Mozart e Beethoven, o anche Rossini e Verdi, può certo sintetizzare alcuni nuclei di base (levità, grazia, armonia vs passione, contorsione, dissimmetria), ma rischia di appiattire figure sommamente complesse in una serie di pericolosi stereotipi (pensiamo solo, ad esempio, all’ossesso nella Trasfigurazione di Raffaello, o al finale del Don Giovanni di Mozart per capire come queste due figure possano essere capaci di puro sublime). Ma soprattutto è importante sottolineare che, dopo le lunghe elaborazioni teoriche sull’opposizione fra bello e sublime che culminano nella Critica del giudizio di Kant, le due categorie verranno sempre meno contrapposte, e diventeranno addirittura l’una parte dell’altra nell’estetica romantica, come sintetizza un frammento di Friedrich Schlegel: «Bello è ciò che è allo stesso tempo attraente e sublime» (Schön ist, was ²7 Hans-Joachim Hinrichsen, Beethoven, Schiller und das Pathetisch-Erhabene, in Il Sublime. Fortuna di

un testo e di un’idea, a cura di Elisabetta Matelli, Milano, Vita e pensiero, 2007, pp. 205-220; Hugues Dufourt, Beethoven: ideologia e strategia del sublime, «Musica/Realtà» 99, 2012, pp. 89-100, in particolare p. 92 sulla «visione pantragica del mondo». ²8 Cfr. Michela Garda, Musica sublime. Metamorfosi di un’idea nel Settecento musicale, Milano-Lucca, Ricordi/LIM, 1995. ²9 Raffaello, Rossini e il bello stile, a cura di Sergio Ragni, Urbino, Quattroventi, 1993.

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L,«Otello»: una catarsi sublime zugleich reizend und erhaben ist, 108):³0 il sublime viene così distaccato dalla sfera sensibile, e associato all’entusiasmo, all’estasi, e all’elemento negativo, mentre il bello ha una funzione più ampia e totalizzante. A questo punto qualcuno potrebbe essere tentato dallo sposare lo scetticismo spietato e nichilista di Flaubert, che nel suo ultimo capolavoro incompiuto, Bouvard et Péchucet (1881), fa scontrare i suoi due antieroi con l’estetica e con la distinzione fra bello e sublime, ritenuta alla fine incomprensibile (il sublime sarebbe forse solo un bello accresciuto). In realtà si tratta di due categorie teoriche non dicotomiche, che appaiono in una continua tensione, fatta anche di intersezioni e ibridazioni. Una testimonianza di Lady Morgan (scrittrice e viaggiatrice irlandese «partenopea e giacobina»)³¹ ci raffigura il marchese Berio di Salsa in uno studio pieno di testi inglesi, intento a scrivere di getto un’ode a Byron:³² ed è proprio la cultura inglese quella che ha dato nel Settecento lo slancio maggiore alla teoria e alla prassi del sublime. Nella biblioteca di Berio, oltre al trattato antico di Longino e alle opere di Hume, Shaftesbury e Locke, figurano le Lezioni di Rettorica e Belle Lettere di Hugh Blair, un testo che giocherà un ruolo importante nella poetica del sublime di Leopardi (non ci sono tracce invece del trattato di Burke).³³ In ogni caso, a Napoli il sublime aveva già avuto in pieno Settecento una versione molto idiosincratica da parte di Giambattista Vico, che ne ha fatto uno dei motori della civilizzazione umana. Su queste basi, stimolato dall’ambiente culturale napoletano, Rossini ci ha dato una versione di Otello che certo resta, nella sua struttura portante, neoclassica e molto lontana da Shakespeare (la fedeltà comunque non è un criterio per valutare gli adattamenti, soprattutto in questo ambito³4); ma che grazie all’empatia negativa nei confronti delle ³0 Dalla Sezione III (trad. mia); cfr Friedrich Schlegel, Frammenti critici e poetici, a cura di Michele Co³¹ ³²

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meta, Torino, Einaudi, 1998, p. 42 n° 91. donatella Badin, Un’irlandese partenopea e giacobina: Lady Morgan, in Continente Irlanda. Storia e scritture contemporanee, a cura di Carla De Petris e Maria Stella, Roma, Carocci, 2001, pp. 51-62. Il riferimento a Berio di Salsa si legge nel suo reportage Lady Morgan, Italy, vol. 3, Paris, Galignani, 1821, p. 196: «He has read every thing, and continues to read every thing; I have seen his sitting room loaded with a new importation of English novels and poetry»; ora è disponibile nella collana «Womens travel writing: 1750-1850», a cura di Caroline Franklin, New York-London, Routledge, 2006. Lady Morgan (pseudonimo di Sydney Owenson) è anche autrice di una monografia su Salvator Rosa, pittore sublime e ribelle per eccellenza. Cfr. Catalogue Raisonné [sic] of the Berio Library, 1826, vol. Belles Lettres (Ms. XVIII 16, Biblioteca Nazionale di Napoli), p. 91: «Lezioni di Rettorica e Belle Lettere di Ugone Blair, tradotte dall’Inglese e commentate da Francesco Soave, Napoli 1814» (l’originale è: Hugh Blair, Lectures on Rhetoric and Belles Lettres, Dublin, printed for Messrs. Whitestone, Colles, Burnet, Moncrieffe, Gilbert […], 1783); l’edizione di Longino è quella tradotta da Anton Francesco Gori (Bologna, Lelio dalla Volpe, 1748); l’edizione di Shakespeare è Plays and Poems, London, Printed for J. Dodsley, 1774 (p. 481), assieme alla traduzione italiana di Michele Leoni, Verona, Società Tipografica, 1819 (p. 487) e a quella francese di Pierre Le Tourneur, Paris, Duchesne, 1776-82 (p. 489); le opere di Hume, Shaftesbury e Locke sono elencate alle pp. 50-54 del volume Sciences and Arts (Ms. XVIII 14, Biblioteca Nazionale di Napoli). James Aldrich-Moodie, False Fidelity: Othello, Otello, and Their Critics, «Comparative Drama» 28/3, 1994, pp. 324-347.

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Massimo Fusillo macchinazioni di Jago, e grazie a un atto finale carico di effetti sublimi, riesce a ottenere una peculiarissima forma di catarsi tragica: stilizzata, rarefatta, ma non priva di una sua fortissima tensione espressiva.

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Lorenzo Mattei Prima della Gazzetta. Strategie melodrammaturgiche della commedia per musica nei teatri napoletani d’inizio Ottocento

Un’attesa spasmodica A ridosso del successo dell’Elisabetta regina d’Inghilterra (San Carlo, 4 ottobre 1815) Domenico Barbaja scriveva al soprintendente dei teatri reali, Giovanni Carafa Duca di Noja,¹ per proporre di scritturare Rossini nella successiva stagione primaverile al teatro dei Fiorentini, dove erano risuonate le musiche delle riprese dell’Italiana in Algeri (in primavera) e dell’Inganno felice (in autunno). Considerati gli impegni assunti con i teatri di Roma, ovvero la ripresa del Turco in Italia e le prime di Torvaldo e Dorliska e del Barbiere di Siviglia, Rossini fin da subito pensò di sbrigarsi nella confezione della nuova opera buffa per Napoli pensandola come un centone con brani già composti in precedenza; ma l’operazione si rivelò più complessa del previsto e i tempi di consegna slittarono. Di conseguenza durante la Pasqua del 1816 come prim’opera della stagione dei Fiorentini andò in scena la commedia in prosa e musica Il disperato per eccesso di buon core musicata da Giuseppe Mosca, mentre la stesura della Gazzetta fu iniziata soltanto nel successivo giugno. Ancora il 18 di quel mese Rossini confessava: «Il dialetto napolitano che non troppo capisco forma il dialogo e lo sviluppo di questa azione; il cielo mi assisterà?».² Il 7 agosto sul «Giornale delle due Sicilie» si auspicava l’arrivo della tanto attesa opera rossiniana, ritenuta capace di svecchiare un repertorio che sembrava aver saturato l’interesse del pubblico: «Nel teatro dei Fiorentini alle opere da gran tempo invecchiate su quelle scene, si darà finalmente un momento di riposo con La festa della Rosa del sig. Pavesi. I giornali stranieri annunziano per quest’ultimo teatro una nuova composizione del sig. Rossini, tutti assicurano esser vicina a comparire, tutti l’anelano; ma sventuratamente essa non viene ancora a compiere i voti unanimi del pubblico, annoiato da interminabili ripetizioni di vecchie nenie».³ La confezione delle Nozze di Teti e Peleo ¹ La lettera è del 18 ottobre 1815; cfr. Gioachino Rossini, Lettere e documenti, a cura di Bruno Cagli e Sergio ² ³

Ragni, Pesaro, Fondazione Rossini, 1992, I, pp. 110-111. Cfr. Gioachino Rossini, La gazzetta, in Edizione critica delle opere di Gioachino Rossini, Sezione I, vol. 18, a cura di Philip Gossett e Fabrizio Scipioni, Pesaro, Fondazione Rossini, 2002, Prefazione, p. XXII. Cfr. «Giornale delle Due Sicilie» n. 187, mercoledì 7 agosto 1816, cit. in Giuseppe Radiciotti, Gioacchino Rossini. Vita documentata, opere ed influenza su l’arte, Tivoli, Arti Grafiche Majella, 1927, I, p. 246. La

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Lorenzo Mattei (24 aprile 1816), la cura della ripresa di Elisabetta regina d’Inghilterra in primavera e della prima napoletana di Tancredi il 29 agosto 1816, tutte rappresentate al teatro del Fondo, rallentarono il lavoro destinato alla Gazzetta che era attesa spasmodicamente dal pubblico partenopeo: «Speriamo che libero da questo impegno voglia il sig. Rossini rivolgere le sue ultime cure al Matrimonio per concorso promesso al teatro dei Fiorentini il quale da gran tempo reclama qualche nuova composizione musicale».4 Vino nuovo in otri vecchi La frase conclusiva dell’articolo apparso sul «Giornale delle due Sicilie» è significativa: con «nuova composizione» s’intendeva alludere a un’opera capace di rinnovare le «opere da gran tempo invecchiate» e di staccarsi dalla drammaturgia ancorata al modello tardo settecentesco di Paisiello e Cimarosa, i cui alfieri erano ancora assai attivi, come ad esempio Giuseppe Palomba, librettista presente sulle scene di Napoli con undici commedie messe in musica lungo il lustro 1812-1816.5 A ben vedere, tuttavia, l’elenco delle opere buffe rappresentate a Napoli nell’arco di questi quattro anni mostra un numero di prime assolute superiore alla metà del totale, 22 su 43 (cfr. Appendice I) consono con la richiesta di novità e di varietà espressa da un pubblico sempre più irrequieto.6 Dal secolo precedente provenivano la trilogia di Da Ponte e Mozart, opportunamente rimodellata per le istanze della scena napoletana, la Nina pazza per amore e il Socrate immaginario di Paisiello, Gli accidenti della villa del defunto Dutilleu e Che originali! di Mayr. Per il resto le restanti opere importate da Milano, Lisbona, Venezia e Parigi proponevano fortunate produzioni risalenti a pochi anni addietro. Va notato che negli adattamenti per Napoli le parti destinate al basso buffo Carlo Casaccia erano sempre riscritte in napoletano con la sola eccezione della ripesa dell’Inganno felice di Rossini. L’assetto drammaturgico delle commedie napoletane di primo Ottocento, fortemente stereotipato, prevedeva una divisione in due atti, per la prima volta tentata da Giambattista

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festa della Rosa di Gaetano Rossi si presenta in effetti come un «melodramma comico» di taglio nuovo sul piano lessicale e per struttura drammaturgica. Cfr. «Giornale delle Due Sicilie» n. 206, giovedì 29 agosto 1816. Il titolo che qui compare è ancora quello provvisorio riferito al vecchio libretto di Goldoni che fu la fonte letteraria primaria per Palomba. Su Giuseppe Palomba si veda la monografia tratta dalla tesi dottorale di Pamela Parenti, L’opera buffa a Napoli: le commedie musicali di Giuseppe Palomba e i teatri napoletani, Roma, Artemide, 2009; e il saggio di Paola De Simone, Amore a dispetto e in gioco: fra Eros e risus. Le tecniche del comico nei libretti di Giuseppe Palomba per i teatri di Napoli, in Commedia e musica al tramonto dell’ancien régime: Cimarosa, Paisiello e i maestri europei, atti del convegno internazionale di studi (Avellino, Conservatorio di Musica “Domenico Cimarosa” 24-26 novembre 2016), a cura di Antonio Caroccia, Avellino, Il Cimarosa, 2017, pp. 331-376. Nel 1816 l’uditorio partenopeo non si peritava di fischiare opere ritenute «di niun valore e di pessimo gusto» anche in presenza dei sovrani; cfr. Paologiovanni Maione, Verso un moderno assetto teatrale: la macchina spettacolare napoletana negli anni francesi, in Fedele Fenaroli. Il didatta e il compositore, a cura di Gianfranco Miscia, Lucca, LIM, 2011, pp. 121-141: 122.

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Strategie melodrammaturgiche nei teatri napoletani d’inizio Ottocento Lorenzi in una revisione degli Amanti comici nel 17777 e poi da Giuseppe Palomba nel 1786 con Le gare generose. Dalla contrazione degli atti derivò quella delle arie, che fece sfumare la goldoniana tripartizione in parti serie, buffe e di mezzo carattere e la conseguente ricchezza di registri stilistici e linguistici. Meno frequenti, rispetto all’ultimo Settecento, furono anche quei gustosi spunti metateatrali, ch’erano capaci di enfatizzare il lato grottesco dei buffi caricati. Un esempio indicativo di questa stagione mezzana della commedia per musica napoletana, assai restia ad abbandonare i topoi drammaturgici collaudati da decenni, è offerto dai Vampiri, bizzarro libretto di Giuseppe Palomba, messo in musica da Silvestro Palma ad apertura della stagione 1812 del Teatro Nuovo, ispirato alla Dissertazione sopra i vampiri dell’arcivescovo Giuseppe Davanzati.8 L’opera s’apre con un tradizionale quartetto d’Introduzione, arricchito dalla presenza d’un coro maschile; seguono due duetti (uno comico tra i due buffi, l’altro amoroso tra i protagonisti Celinda e Floridoro), un breve coro, tre arie per le due buffe e per il basso toscano, un quintetto centrale e un finale primo, poco sviluppato.9 Nel secondo atto l’architettura musicale si duplicava: Palomba affidava un’aria a testa al tenore, al basso napoletano e alla terza buffa, collocava all’interno dell’atto un terzetto e nella penultima scena avviava il finale conclusivo (sestetto, coro e breve tutti). Allievo prediletto di Paisiello, Silvestro Palma¹0 seguì le orme del maestro, peraltro ancora in vita anche se oramai inattivo, replicando una ricetta collaudata: per le arie delle donne e del tenore era bene impiegare melodie semplici e cantabili, arricchite dall’apporto concertante dei legni e dei corni; per le arie dei due bassi con scrittura in stile sillabato e per la gestione dei concertati (qui in verità più brevi e già tutti orientati verso quei meccanicismi metrici¹¹ che Rossini già in quell’anno aveva iniziato a sublimare) 7 «Nel carnevale poi del 1777 si replicò quest’opera [Gli amanti comici]. Ebbe più felice accorgimento

per averci il Lorenzi fatti alcuni cangiamenti, tolti alcuni pezzi di musica meno interessanti e ridotto il dramma in due atti» cfr. Opere di Giambattista Lorenzi, Napoli, Flautina, 1813, p. XI. Non esiste copia del libretto di questa versione del 1777 sotto nessuno dei tre titoli possibili: Don Anchise Campanone, Fra i due litiganti il terzo gode, Gli amanti comici. 8 L’opera era stata scritta nel 1739 ma pubblicata postuma nel 1774 a Napoli. Il tema orrifico del vampirismo, qui alla sua prima elaborazione librettistica, era funzionale alle gag più spassose, durante le quali i due bassi comici (Gennaro Luzio nella parte di Marcantonio Treassi e Francesco Lombardi in quella di Asdrubale Battinferno) si credevano vicendevolmente vampiri. Sul soggetto cfr. Elisabetta Fava, Ondine, vampiri e cavalieri. L’opera romantica tedesca, Torino, de Sono, 2007. 9 Lo scarso valore musicale di questo finale è conseguenza di un’inconsistenza drammatica del testo di Palomba che mal annoda l’intrigo: non è chiaro infatti il motivo che spinge i due servi Silvia e Zurfariello a mascherare da soldati ungheresi Marcantonio e Asdrubale, né trova collocazione sensata l’insurrezione capeggiata da Floridoro. Le risorse dell’Improvvisa più antiche, il travestimento e la zuffa, dunque non si amalgamano con la vicenda drammatica. ¹0 Se ne veda la recente voce del Dizionario Biografico degli Italiani curata da Paologiovanni Maione (volume 80, 2015) disponibile online. ¹¹ Resta d’obbligo il rimando al saggio di Lorenzo Bianconi, “Confusi e stupidi”: di uno stupefacente (e banalissimo) dispositivo metrico, in Gioachino Rossini il testo e la scena 1792-1992, a cura di Paolo Fabbri,

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Lorenzo Mattei prevaleva invece una costruzione paratattica, articolata in blocchi caratterizzati da grande incisività ritmica. Nei Vampiri l’elemento corale, specchio d’una comunità contadina attanagliata dalle superstizioni, non sviluppava appieno il proprio potenziale dialogico restando confinato in tre bozzetti canori di breve durata e modellati sui coretti di fine Settecento. Allo stesso modo, anche uno dei pezzi più attesi dal pubblico, l’aria di Gennaro Luzio Nel sentir che un tuo cugino, scritta su un testo esteso per ben 46 ottonari, in nulla modificava le strutture melodiche e ritmiche adottate per i personaggi buffi paisielliani, affidando la riuscita alla pura gestualità dell’interprete. Osservando lo schema della costruzione musicale e drammatica di questa commedia si evince una struttura che anche librettisti più giovani e smaliziati di Palomba non abbandoneranno facilmente: Numeri

Funzioni drammatiche

Avvenimenti

Definizione dell’ambiente Esposizione nodo 1 (amore di Eleonora non ricambiato)

Panico generale per i presunti vampiri. La villanella Eleonora si strugge per Floridoro

Azione ferma GAG

Il vecchio capitano Marcantonio e il pavido ammazzavampiri Asdrubale si scambiano per vampiri e fuggono dallo spavento

Esposizione nodo 2 (Celidea costretta al matrimonio) Azione ferma SFOGO LIRICO

Celidea pensa ad un piano per evitare l’obbligo delle nozze. Schermaglia Eleonora/Floridoro

I.4 Coro

Azione ferma GAG

Asdrubale finge coraggio ma è nel panico

I.5 Concertato interno (Quintetto)

Svelamento dell’antefatto avviluppo del nodo 1

I due innamorati per evitare le nozze mettono l’un contro l’altro i due creduti vampiri

I.6-7 Aria Buffo napoletano

Azione ferma GAG

Marcantonio finge di aver ucciso Floridoro

I.8-9 Aria 1a buffa

Nuovo avviluppo del nodo 1 GAG Azione ferma SFOGO LIRICO

Celinda mette l’un contro l’altro i creduti vampiri rendendoli rivali ma non accetta nessuno dei due e fugge via

Campagna I.1 Quartetto e coro

I.2 Duetto comico B+B

Camera del castello I.3 Duetto amoroso S+T Aria 2a buffa

Pesaro, Fondazione Rossini, 1994, pp. 129-161, le cui considerazioni possono ben applicarsi alla partitura dei Vampiri di Silvestro Palma, gratificata di una ripresa moderna (Fermo 1990) disponibile all’ascolto online. La partitura manoscritta custodita nella Biblioteca del Conservatorio di Napoli è digitalizzata sulla piattaforma <www.internetculturale.it>.

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Strategie melodrammaturgiche nei teatri napoletani d’inizio Ottocento Sala d’armi I.10-12 Finale primo

Camera del castello II.1 Aria 3a buffa

Avviluppo del nodo 2 Avviluppo del nodo 1

Eleonora e Celinda si contendono Floridoro che si arma contro Marcantonio

Azione ferma MOTTEGGIO

Schermaglia tra i due servi

II.2-4 Aria Buffo toscano Avviluppo Nodo 1

Asdrubale si illude di poter avere Celinda

II.5 Terzetto

Conflitto

Celidea illude entrambi i pretendenti

II.6 scena e aria tenore

Azione ferma SFOGO LIRICO

Floridoro chiede l’aiuto di Eleonora

Atrio del castello II.7 Coro

Avviluppo nodo 1

Celinda accetta di sposare Marcantonio a patto che lui si finga vampiro; Floridoro si sente tradito

II.8-9 Sestetto

Scioglimento dei nodi 1 e 2

La fobia dei vampiri si svela una truffa; Floridoro ha promesso la mano ad Eleonora

II.10 Coro e Finale

Celinda accetta la mano di Marcantonio

Il primo atto si apre quasi sempre con un’azione concitata già avviatasi al di qua dell’alzata del sipario, che segna un momento di caos, stemperato dai successivi dialoghi, funzionali al recupero degli antefatti o di fatti interdrammatici.¹² L’Introduzione privilegia il quartetto vocale come tipologia di concertato poiché permette di presentare il modo incisivo e sintetico più della metà dei personaggi. Un duetto comico chiude il primo quadro, all’interno del quale è stato esposto per intero il primo nodo drammatico. Il secondo quadro è piuttosto ampio, presenta il secondo nodo (talvolta può essercene un terzo o un quarto) avviluppandolo insieme al primo e conduce a un apice tensivo dove trova posto un articolato quintetto. Il terzo quadro si struttura in funzione della crescente tensione che poi sfocia nel finale d’atto. Il secondo atto, di norma avviato con un’aria di sorbetto,¹³ si compone di soli due quadri: il primo di essi va a concentrarsi sul nodo principale e può prevedere un ulteriore momento conflittuale realizzato in terzetto o quartetto; il secondo porta alla conclusione. Il finale ultimo vero e proprio consta di un breve tutti, separato rispetto al lungo concertato che lo precede da alcuni versi di recitativo. In alcuni casi al posto dell’ensemble finale può esserci un duetto tra il basso napoletano e la prima buffa. ¹² Per la definizione di questo come di altri termini usati in seguito si rimanda al Glossario di drammaturgia

in Antonella del Gatto – Giovanni Cappello – Walter Breitnermoser, L’annodamento degl’intrighi. Studi di sintassi drammatica, Napoli, Liguori, 2007. ¹³ Cfr. Marco Beghelli, Dall’aria di sorbetto all’aria della pissa, in Musica di ieri, esperienza d’oggi. Ventidue studi per Paolo Fabbri, Lucca, LIM, 2018, pp. 141-168.

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Lorenzo Mattei La schematicità¹4 di queste commedie si giustifica considerando anche la fissità dei ruoli e la stabilità della compagnia di attori cantanti. Al teatro dei Fiorentini il cast faceva perno intorno a Carlo Casaccia, primo buffo napoletano, e alla sua spalla il primo buffo toscano Felice Pellegrini cui s’aggiungeva il terzo basso buffo Giovanni Pace. Il primo buffo napoletano già sul finire del XVIII secolo assunse un particolare ruolo di amoroso che era estraneo alla tradizione goldoniana, dove il basso di norma restava un personaggio turlupinato e comunque non connotato eroticamente. I personaggi interpretati da Casacciello sono grassi, maldestri, sguaiati, ma fanno innamorare di primo acchito le protagoniste femminili. Il matrimonio che scioglie immancabilmente il nodo drammatico principale non è più quello tra il tenore e la prima buffa bensì quello tra lei e il primo buffo. Uguale importanza rivestiva il ruolo della prima buffa – affidato per anni a Carolina Miller o a Margherita Chabrand supportate dai secondi soprani Marianna Loyslet o Francesca Ceccherini – talvolta impegnata pure lei a cantare in dialetto napoletano. Il tenore, che a Napoli rivestì dunque in questi anni il ruolo di secondo amoroso, portava i retaggi della parte “seria” settecentesca ed era privo di tratti caricaturali; poteva presentare tessiture diverse, da quelle più chiare di Domenico Donzelli e Savino Monelli a quelle più scure di Giuseppe Viganoni e Pietro Gazzotti. Va tuttavia fatto notare che se il cambiamento della prima buffa e del tenore non influenzava l’ossatura delle commedie, la presenza o meno di un interprete come il basso Felice Pellegrini aveva, invece, importanti ricadute sulla disposizione dei numeri, ad esempio veniva a mancare il duetto tra i due buffi. Aver rimarcato la persistenza delle medesime strutture melodrammaturgiche non vuol dire tuttavia che la commedia musicale napoletana di primo Ottocento fosse davvero così simile a quella dell’ultimo Settecento come le righe del «Giornale delle Due Sicilie» vorrebbero far credere. Le differenze fra le due tipologie di scrittura scenica possono essere ben osservate attraverso il confronto tra le rielaborazioni testuali che alcuni librettisti riproposero nello stesso teatro a distanza di molti anni. Un esempio è dato dalla commedia I fuorusciti di Giuseppe Palomba (Fiorentini, inverno 1777, con musiche di Pietro Alessandro Guglielmi; d’ora in poi NA1777) poi intitolata Gli amori e l’arme per la ripresa nel marzo 1812, trentacinque anni più tardi, nell’intonazione di Giuseppe Mosca (NA1812). Le divergenze tra questi due libretti, che in comune hanno solo una manciata di versi, si notano a partire dalla costellazione dei personaggi: in NA1777 il barone Don Aronzio Sciabolone e ¹4 La prefazione al secondo tomo delle Opere teatrali Giambattista Lorenzi (Napoli, Stamperia Flautina,

1813, pp. IV-VI) conferma la stereotipia nella condotta dei drammi individuando alcune sezioni fisse: 1) L’introduzione «sempre a più voci e chiassosa»; 2) la cavatina della prima buffa o «il duettino tra lei e il primo buffo»; 3) un terzetto, quartetto o quintetto nella scena quarta o quinta; 4) l’aria del primo buffo in penultima posizione seguita da quella della prima buffa; 5) finale primo di sei o sette scene; 6) aria di sorbetto ad apertura del secondo atto; 7) duetto tra i due bassi buffi; 8) scena e aria del tenore; 9) un pezzo concertato; 10) il finale secondo. Nell’eventualità di un brevissimo terzo atto si doveva scrivere un duetto tra il primo basso e la prima buffa «i quali debbono necessariamente sposarsi insieme».

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Strategie melodrammaturgiche nei teatri napoletani d’inizio Ottocento suo figlio Cicco (interpretati da Giuseppe e Antonio Casaccia) cantano entrambi in dialetto napoletano – alternato all’italiano solo in alcune occasioni per dar luogo a spassosi esiti metalinguistici¹5 – ed agiscono quasi sempre in coppia. In NA1812 solo Cicco (Carlo Casaccia) parla in napoletano e si distingue in modo netto dagli atteggiamenti del barone, qui nominato Melchiorre Sciabolone e fratello maggiore, non più padre, di Cicco. In NA1777 il dialetto napoletano era usato anche da Annella (la terza buffa, Maria Giuseppa Migliozzi), giovane astuta e promessa sposa al barone, la cui presenza, oltre ad aggiungere un ulteriore nodo drammatico, assicurava divertenti gag, come quella dove la donna insisteva per farsi sposare come premio delle trascorse prestazioni sessuali (I.4): Barone: Ed io padre canzirro la pella primogenita del figlio arrisco così? Annella: Justo pe chesto sposateme a l’ampressa; già chiù bote vuje data mme n’avite la parola. Barone: E ti par tempo questo di penzare a ’minei? Annella: Comme? e l’ammore che nziemo avimmo fatto?

Il carattere sanguigno di questa scalcinata coppia morganatica – le cui schermaglie, presenti in quattro scene, avevano la funzione di rallentare il decorso del dramma – scompare del tutto in NA1812, dove Annella diventa Livietta, serva del barone, personaggio secondario e utile soltanto per alcuni monologhi di recupero intradrammatico e per annunciare l’ingresso di personaggi.¹6 ¹5 Quando Cicco si decide ad affrontare il temibile fuoruscito Sinonimo, veste i panni dell’eroe impavido

ma senza troppa convinzione: «Non più, non più; via jammo (Occhi miei belli | comm’aggio da vederve | co’ tante de barcune?) Ma che vedo! | Voi piangete per gli occhi? Io senza pianto | e senza fatto aver collazione | son debole abbastanza: dunque vado | a stracciarmi per voi; io per la patria | spilerei tutto il sangue | se pur non fosse mio; | sposa, padre, cafon, vi lascio, addio. || Ah frenate il pianto imbello | non è ver non vado a morte | vò a pugnar; ma poi bel bello | zombo, abbusco e torno qua» (I.3) cfr. I fuorusciti, Napoli, 1777, p. 10. Esemplare consultato in I-Nn. ¹6 Livietta è tuttavia importante come ruolo attanziale nel momento in cui svela a Sinonimo le vere intenzioni di Ernesto dandogli la possibilità di ricattarlo.

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Lorenzo Mattei La riduzione di scene, da 38 in NA1777 a 25 in NA1812, porta come conseguenza una drastica diminuzione delle arie (da 16 a 6) ma non cambia né l’articolazione delle mutazioni sceniche (sette, alternanti spazi chiusi e aperti), né il numero dei duetti e dei brani polivoci, rispettivamente 2 e 7 in entrambe le opere. La costruzione drammaturgica all’interno delle unità segmentate dai quadri scenici è però assai differente: basti osservare il primo quadro, la sala del palazzo baronale, che in NA1812 viene liquidato in due scene, utili solo al recupero degli antefatti, mentre in NA1777 è un organismo complesso di quattro scene e sei numeri musicali, arricchito di due gag gestuali (l’ingresso di Cicco armato in modo buffonesco e le avances di Annella al barone) e di spunti parodistici (Cicco nel partire per combattere i fuorusciti assume il lessico degli eroi metastasiani). La gestione del secondo quadro nei due libretti è meno divergente quanto a dimensioni e funzioni drammatiche (avviluppa il nodo principale) ma ben simboleggia il passaggio da una commedia misurata sulle arie (ve ne sono quattro), ad una incentrata sui brani polivoci (due duetti). Inoltre NA1777 coinvolge anche le comparse nelle gag gestuali come, ad esempio, nella fallita imboscata a Sinonimo dormiente che terrorizza Cicco e il suo seguito mentre parla nel sonno (I.5): Sinonimo: Pur che salvo l’onor, la vita pera. (Sinonimo parla dormendo) Cicco: L’avite ’ntiso? dicembre ca nce vò dà le pera! Ora una botta dammolo a l’antrafratta. A nuje, e una… e quanno? Siate accise, vuie tremmate? Tremm’io e nuje l’avimmo pigliate pe ne pressa. Ora m’accosto… (Sinonimo sospira un poco forte allorché tutti fuggono e poi ritornano in scena passo a passo) Cicco: Ne v’ha cuoveto? Conta; fummo tutte? Nce ne manca nisciuno? E bà, dammole ncuollo, io so lo primmo (Oh che bella carrera che farimmo) Sinonimo: Chi è qua? Fiordispina: Birbi chi siete? Sinonimo: Fatti animo germana.

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Strategie melodrammaturgiche nei teatri napoletani d’inizio Ottocento Cicco: Sparate mo. Sinonimo: Ribaldi, tutti a terra!

(le comparse fuggono.)

Nel suo complesso NA 1812 ha un andamento drammatico molto più rapido, sia perché privo dei rallentamenti offerti dalle schermaglie amorose (specie quelle grottesche di Annella), sia perché fa convergere la tensione soltanto nei due finali d’atto e nel quintetto di I.8; NA1777 è invece costruito tramite accelerazioni e rallentamenti intorno a quattro apici tensivi, il primo dei quali coincide con la complicazione del dramma (la costrizione di Cicco a sposare Fiordispina) dilazionata al finale primo. NA1777 impiega inoltre l’antica risorsa del travestimento (Sinonimo si maschera da devoto pellegrino per cercare di fuggire dal castello del barone) e ricorre a tecniche dell’Improvvisa come la relazione di contiguità tra la scena e il fuori scena o come il dialogo ascoltato da un personaggio nascosto. Lo scioglimento del fidanzamento tra Metilde e Cicco in NA1777 avviene infatti dopo che la ragazza ascolta, non vista, le profferte amorose del suo promesso sposo a Fiordispina; in NA1812 Metilde lo lascia perché Cicco stupidamente le fa leggere una focosa lettera che lui crede indirizzatagli da Fiordispina, ma il cui vero destinatario era Ernesto. Tra l’altro poco dopo Cicco fa credere che la lettera della bella fuoruscita sia destinata a suo fratello, facendolo così diventare un furibondo rivale (lo scontro tra i due sciocchi fratelli costituirà la molla per l’ultimo concertato, posto a ridosso del tutti finale). La scena del sotterraneo dove si svolge l’interrogatorio dei fuorusciti imprigionati, in NA1777 occupa le ultime scene e non costituisce soltanto uno sfondo scenico bensì diventa protagonista della vicenda al pari del nodo drammatico cui dava vita; in NA1812 essa apre il secondo atto ma non genera nessun impatto emotivo sul pubblico, anche perché si limita a fare da sfondo alle civetterie di Fiordispina che dà per scontata un’assoluzione, assente in NA1777 dove il perdono dei fuorusciti era rimandato a pochi momenti prima della fine ed era dovuto a un’agnizione nata dalla lettura di un provvidenziale dispaccio. NA1812 perde dunque anche elementi di suspense rispetto a NA1777 ma si conferma più lineare e ordinata; una linearità che probabilmente il pubblico napoletano percepiva come una consunta «vecchia nenia».¹7 Logorrea: recitazione parlata e verbalizzazione delle gag Nel 1813 il soprintendente dei teatri di Napoli aveva emanato una disposizione che proibiva per legge di eseguire nell’opera seria i recitativi secchi, in quanto non allineati al gusto del teatro francese. Le conseguenze si fecero sentire anche nelle opere comiche che da quella ¹7 Ragioni di spazio non permettono di porre a confronto le partiture di Guglielmi e di Mosca che palesano

punti in comune piuttosto evidenti nella gestione dei pezzi concertati, questi sì davvero immutati nei loro meccanismi compositivi in un arco di tempo così esteso.

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Lorenzo Mattei data infittirono i libretti con le inserzioni parlate, congeniali a implementare la verve attoriale dei cantanti e la loro inarrestabile loquacità.¹8 Il proliferare dei dialoghi in prosa non andò soltanto ad ossequiare la gallicizzazione dell’operismo napoletano, ma assecondò anche una tendenza che aveva visto allungare le sezioni recitative nelle opere comiche tutte cantate: gran parte delle gag e degli episodi più riusciti sul piano della scrittura comica, erano infatti concentrati nei recitativi “parlanti” o “correnti”¹9 che, rispetto a quelli dell’ultimo ventennio del Settecento, s’erano accresciuti. Liberi dai vincoli del recitare cantando, i buffi napoletani potevano in tal modo sfruttare con maggior vantaggio gli ampi stralci prosastici per le proprie capacità istrioniche. Vi furono tuttavia non pochi detrattori delle opere di genere misto, infastiditi dal gap che si veniva a creare tra i numeri cantati e la recitazione parlata. Nella prefazione al già citato II tomo delle Opere teatrali di Giambattista Lorenzi, al librettista conversanese si fa esporre – in aperta polemica con la prassi corrente – un deciso attacco ai melo-drammi: E qual nuovo mostro volete farmi esporre sulle scene musicali? E non vedete che questa novità mi renderebbe ridicolo in Europa? Un dramma metà in prosa, metà in musica? E come? Dopo che un attore si sarà divertito un quarto d’ora declamando con tutta l’eloquenza, espressione ed energia di un dialogo in prosa e di un’azione sempre viva e gradatamente crescente e che versato abbia fiato e sudore per bene esprimere le sue idee e dar risalto e forza al suo discorso, facendo un punto finale alla sua bella declamazione prosaica, si volgerà poi intrepidamente all’orchestra e al popolo che ascolta dicendo “non v’incresca, signori, che queste mie idee io ve le rappresenti ora in musica con i miei trilli e gorgheggi” e facendosi in mezzo al teatro sul luogo del suggeritore mettasi a cantare come un forsennato? or chi non riderebbe a questo passo?²0

L’adozione dei libretti con recitativi in prosa avalla l’ipotesi che nelle commedie per musica partenopee di primo Ottocento si tendesse a verbalizzare quelle gag che in altri teatri italiani restavano allo stato mimico-gestuale. Un esempio tra i tanti possibili è offerto dalle Finte rivali di Mayr su libretto di Romanelli rappresentato alla Scala di Milano nell’autunno del 1803. Quando aveva luogo il primo incontro tra i due buffi, Tricotazio e Ottavio (impersonati da Andrea Verni e Giuseppe Liparini), una lunga didascalia descriveva la gag della goffa riverenza con triplice inchino chiusa da un maldestro abbraccio (I.9): ¹8 Dal 1810 con La forza del giuramento Andrea Leone Tottola aveva iniziato a comporre libretti con re-

citativi in prosa; cfr. Arnold Jacobshagen, The origins of recitativi in prosa in neapolitan opera, «Acta musicologica» 74, 2002, pp. 107-128; Id., Cantare e parlare nell’opera napoletana: un equivoco storiografico, «Il Saggiatore musicale» 16, 2009, pp. 123-128. ¹9 Questi i termini, sostitutivi dell’aggettivo “secco” o “semplice” e di essi più esplicativi, che il gergo teatrale assegnava ai recitativi non orchestrati. ²0 Cfr. Lorenzi, Opere teatrali cit., tomo II, pp. VII-VIII.

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Strategie melodrammaturgiche nei teatri napoletani d’inizio Ottocento

Barone Tricotazio: Se questa o quella preferisco! e due: rifiutar l’una e l’altra… addio… sarebbe l’ultima mia ruina; insomma io vedo malanni dappertutto; perché, barbari dei, non farmi brutto? In questo mentre sopraggiunge in fretta Ottavio che poi si ferma e senza parlare fa goffamente al barone de’ complimenti ad imitazione di Lucilio e non avendo prese bene le sue misure, gli si trova addosso prima di aver terminate le tre riverenze e fa ritirare il barome spaventato; finalmente gli va colle braccia al collo (Chi è questo matto?) Ottavio: Oh! genero garbato… Barone: Lei mio suocero? (ohimè!) Ottavio: Ben arrivato!

Undici anni più tardi l’opera fu ripresa a Napoli e i due cantanti, Ranfagna e Casaccia, inglobarono parte del testo della didascalia milanese nel loro dialogo, descrivendo a parole i gesti e offrendo in tal modo una ridondanza di codici, verbale e visivo (I.10): Barone Tricotazio: Io tengo doje gallotte e nche la mano stenno pe provarne una, l’auta ammenaccia e caccia da lo pietto! o doje belle pistole o no stelletto. Si parlo songo acciso, sto diuno si maje non faccio mutto, perché, barbari dei, non farmi brutto? Ottavio: Sta qui, sta qui… ringrazio Barbagiove (da dentro) che ritrovar mel fa. Barone: (Chi è sto facciommo che bene a scelle aperte?)

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Lorenzo Mattei Ottavio: Genero garbatissimo! vado in traccia di te per urbo et orbo. Pria con architettata riverenza mi ti subisso e poi con svelto piede salto e così mi ti sospendo al collo Barone: Statte, ca mme stroppie… bennaggia Apollo!

Questa invadenza dell’elemento performativo, esplicitata tanto nel gesto quanto nella verbosità grottesca, vincolava librettisti e compositori a compiere operazioni di riscrittura e adattamento di precedenti testi che sulle tavole dei teatri napoletani finivano per accentuare gli elementi istrionici. Talvolta l’impresario, in accordo con il cast, sceglieva di recuperare vecchi libretti con scene funzionali all’esibizione della pura corporeità: ai Fiorentini, pochi mesi prima della Gazzetta, si diede una ripresa dei Virtuosi ambulanti di Fioravanti sui versi di Luigi Balocchi – rappresentato al Théâtre de l’Impératrice di Parigi il 26 settembre 1807 – un’opera che si apriva con un recitativo accompagnato dove il capocomico Bellarosa (il basso Luigi Barilli ne fu il primo interprete) immerso nella natura silvestre pareva rimandare all’Orfeo gluckiano nei campi Elisi (I.1): Foresta; da un lato un’antica cappella mezzo diroccata; nel fondo una collina; in mezzo vari sedili erbosi. Bellarosa cala dalla collina con una valigia sulle spalle e viene a riposarsi sopra uno dei sedili erbosi. Bellarosa: Riposiamoci un poco… oh che bel luogo! Sorge la bella aurora, e spande un frescolin che mi ristora. Il sussurrar dell’aure, il mormorio dell’onde, il dolce gorgheggiar degli augelletti scordar mi fanno il disastroso viaggio.

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Strategie melodrammaturgiche nei teatri napoletani d’inizio Ottocento

Figura 1: Valentino Fioravanti, I virtuosi ambulanti, partitura (I-Nc 14.5.17, c. 18r). Questa scena fu ritenuta idonea all’entrata di Carlo Casaccia che, a dispetto della pratica consueta, si esibiva qui all’alzata del sipario. Folto bosco; da un lato un’antica fabbrica in parte diroccata; nel fondo una collina; in mezzo vari sedili erbosi. Gabolone cala dalla collina colla valigia sulle spalle e viene a riposarsi su di un sedile. Gabolone: Assettammoce ccà… che bello luoco! Sorge la bella aurora, (in enfasi comico) e sparge un frescolin che mi ristora! Li fische venticelle, lo zzì zzì, lo cchiò cchiò de l’augellette già me fanno scordà lo brutto viaggio.²¹

Analogo discorso può farsi per la chiusura del primo atto dove in un finale in dissolvenza il pavido Gervasio tremava di paura verso la troupe scambiata per una banda di ladri (gli attori stavano recitando la parte dei masnadieri e venivano scambiati per veri banditi). ²¹ I virtuosi ambulanti, Napoli 1816, scena I.1.

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Lorenzo Mattei Gervasio uscendo dalla cappella Gervasio: Son partiti… sì respiro… scappo… corro… volo… ahimè! Tremo oh dio da capo a piè! Posso appena camminar (Fugge traballando)²²

Gervasio uscendo dalla cappella Gervasio: (Oh la tremenda guerra in lor più incalza e dura! e pieno di paura qui ascoso io sto a guardar. Ah! da sì rio periglio se può salvarmi il fato un uomo fortunato io mi potrò chiamar). Tutti viano, Gervasio resta nascosto nella fabbrica diruta. Si cala il sipario²³

La gustosità comica della gag del personaggio in preda al panico giustificò in questo caso la deroga alla normale stretta chiassosa del finale d’atto. Una caratteristica peculiare dei melodrammi buffi misti di canto e prosa fu la predisposizione a unire elementi grotteschi con altri imparentati all’opera seria. Pur definite “commedie” sui frontespizi dei libretti a stampa, molte di queste produzioni rientrano a pieno titolo nel filone semiserio destinato ad imporsi nelle scelte degli operisti a dispetto delle remore del pubblico e della critica più tradizionalisti. L’effetto dell’Italiana in Algeri e dell’Inganno felice a Napoli fu dirompente poiché con Rossini il pubblico percepì il concretizzarsi di un ricambio stilistico dovuto al fatto che l’opera comica ritrovò il gioco dialettico tra registri espressivi differenti. Nel metamelodramma Il libretto alla moda musicato ai Fiorentini da Antonio Brunetti la principale preoccupazione del librettista don Cicco Miettepezze (nomen omen) era quella di «confondere col serio anche il bernesco» cercando di convincere il cast della bontà di tale operazione di fusione fra generi teatrali: «io saccio ancor di musica e improvvisanno ‘ncoppa a ciò che è serio, addevenna bernesco e facimmo accussì ‘na cosa nova». L’idea di Cicco tuttavia non prese corpo; non tanto per la disistima dell’impresario Ortenzio («che preme che il poeta sia riputato un asino? Il libretto si può ²² I virtuosi ambulanti, Parigi 1807, finale primo scena ultima. ²³ I virtuosi ambulanti, Napoli 1816, finale primo scena ultima.

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Strategie melodrammaturgiche nei teatri napoletani d’inizio Ottocento dir del teatro ultimo oggetto»), quanto per l’incomprensione con l’operista Gismondo, convinto assertore che «strofe seria e poi giocosa non si può ben combinar». L’atteggiamento compositivo del “maestro plagiario” Gismondo coincise con quello di tanti maestri napoletani che non intuirono con prontezza quanto il futuro del melodramma comico (e non solo) risiedesse nella mescolanza di forme, livelli e registri stilistici. I vari Cordella, Fioravanti, Mosca, Palma, Raimondi preferirono assegnare alla componente musicale (i.e. alla ricerca di verve ritmica e alla felice invenzione di belle melodie) una preminenza assoluta, connettendola solo in maniera superficiale alle ragioni del dramma. Forse, sotto sotto, erano convinti che il pubblico condividesse l’approccio disincantato al mondo dell’opera espresso dal protagonista del Libretto alla moda: Ortenzio: Cicco:

Dorina: Cicco: Ortenzio: Cicco:

Ortenzio: Cicco:

Sentiamo un po’ il soggetto. Che soggetto? Questo si costumava nel Seicento, se vi fosse soggetto non sarebbe alla moda il mio libretto. E il titolo? Che titolo? Potete intitolarlo voi come volete. E la scena? Che scena? In questo libro sia scena longa o corta, sia bosco o sia cantina non importa. E gli attori? Che attori? Esce e trase chi vuole e ccà sta il bello: che l’azione fenesce senza sapè pecchè se trase o esce.

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Lorenzo Mattei

Appendice I Cronologia delle opere comiche allestite a Napoli (1812-1816) Data Titolo

Autori

1812 Gli amori e l’arme Palomba/Mosca Commedia per musica

Prime messinscene

Fiorentini prim’opera NA 1777 I fuorusciti

Lo sposo agitato Palomba/Raimondi Commedia per musica

Fiorentini second’opera

Il palazzo delle fate Palomba/Palma Commedia per musica

Fiorentini terz’opera

L’oro non compra amore Dramma giocoso

Caravita/Portugal

S. Carlo carnevale

Lisbona 1804

Che originali! Dramma giocoso in un atto

Rossi/Mayr

Fondo primavera

VE 1798

La capricciosa pentita Romanelli/Fioravanti Commedia per musica

Fiorentini estate

MI 1802 (poi 18 riprese)

I vampiri Palomba/Palma Commedia per musica

Nuovo prima opera

Il raggiratore n.n./Grazioli Commedia per musica

Nuovo estate

La dama soldato Dramma giocoso

Mazzolà/Orlandi

S. Carlo febbraio

MI 1808

Il dissoluto punito Dramma giocoso

Da Ponte/Mozart

Fondo autunno

Wien 1787

La finta zingara Piccinni/Gasse Commedia per musica

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Teatro e stagione

Fiorentini quart’opera


Strategie melodrammaturgiche nei teatri napoletani d’inizio Ottocento 1813 L’isola incantata+La Palomba/Cordella e P. Nuovo prim’opera fiera C. Guglielmi Farse per musica in un atto La diligenza a Joignì o G. Palomba/G. Mosca Fiorentini sia il collaterale second’opera Commedia in musica [rec. in prosa] Una follia Tottola/Cordella Commedia per musica [rec. in prosa] L’audacia delusa Commedia in musica

G. Palomba/L. Mosca

Il trionfo delle belle o Rossi/Pavesi sia il Corradino Dramma giocoso

Fiorentini terz’opera

Fiorentini quart’opera Fondo autunno

Venezia 1809

La lavandara o sia il ritorno di maggio Dramma giocoso

Schmidt/Raimondi

Fondo autunno

Il califfo di Bagdad Melodramma in due atti [rec. in prosa]

Tottola/Garcia

Fondo autunno

Romanelli/Mayr

Fiorentini prim’opera MI Scala 1803, TS 1809 FI 1813

Zini/Dutilleu ±

Fiorentini

1814 Le finte rivali Dramma giocoso in due atti Gli accidenti della villa Farsa [rec. in prosa]

Gli inganni ed amori Palomba/Fioravanti Commedia per musica [rec. in prosa]

Wien 1794, poi NA 1797 e 1801 PA 1802

Fiorentini primavera

I pretendenti delusi dramma giocoso

Prividali/Mosca

Fondo primavera

MI Scala 1811

Le nozze di Figaro Dramma giocoso

Da Ponte/Mozart

Fondo 15 marzo

Wiem 1 maggio 1786

I tre mariti Farsa comica

Rossi/Mosca

Fiorentini

Venezia S.Moisé 1811

L’avaro G. Palomba/Cordella Commedia per musica [rec. in prosa]

Fiorentini autunno

Socrate immaginario Lorenzi/Paisiello Commedia per musica

Nuovo

NA 1775

139


Lorenzo Mattei 1815 Don Gregorio in Tottola/Mosca imbarazzo Commedia per musica [rec. in prosa]

Fiorentini prim’opera

Pulcinella molinaro Cammarano/ Commedia per musica Fioravanti [rec. in prosa]

San Carlino carnevale

Da un disordine ne Palomba/Russo nasce un ordine Commedia per musica

Fiorentini second’opera

La scuola degli amanti Da Ponte/Mozart Dramma giocoso

Fondo primavera

Le nozze di Figaro Dramma giocoso

Da Ponte/Mozart

Fondo 6 maggio (poi Wien 1786 S. Carlo l’11 maggio)

L’azzardo fortunato Tottola/Cordella commedia per musica [rec. in prosa]

Fiorentini carnevale o estate

La casa da vendere Tottola/Chelard commedia per musica [rec. in prosa]

Fiorentini estate

La gelosia corretta Tottola/Carafa commedia in un atto [rec. in prosa]

Fiorentini

Da La moglie libera di Federici

L’italiana in Algeri

Anelli/Rossini

Fiorentini

Venezia 1813

L’inganno felice

Foppa/Rossini

Fiorentini autunno

Venezia 1812

1816 Il disperato per Giannetti/Mosca eccesso di buon cuore Commedia per musica [rec. in prosa] I virtuosi ambulanti Dramma giocoso

Balocchi/Fioravanti

Nina pazza per amore Carpani/Paisiello Il dissoluto punito

Da Ponte/Mozart

Fiorentini Pasqua

Fiorentini primavera

Parigi 1807 Les comédiens ambulants di Picard

Fondo quaresima

S. Leucio 1789

Fondo autunno

Wien 1787

Paolo e Virginia Diodati/P. C. Guglielmi Fiorentini inverno Commedia per musica [rec. in prosa]

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Wien 1790


Strategie melodrammaturgiche nei teatri napoletani d’inizio Ottocento II Raffronto fra I fuorusciti (1777) e Gl’amori e l’arme (1812) Napoli 1777 I fuorusciti Palomba-Guglielmi Scene

Numeri musicali

Azione drammatica

1. Introduzione S2 S3 T B2 rec 2. Aria B2

Caos generale: dei banditi attaccano il feudo. Il barone vuole inviare contro di loro suo figlio Cicco, promesso sposo di Matilde (nodo 1) rivale ignaro di Ernesto che vorrebbe sposare Metilde (nodo 2)

I.2

Rec. 3. Aria T

Schermaglia tra Ernesto e Metilde; recupero dell’antefatto (nodo 2)

I.3*

4. Cavatina B1 Miei compagni Rec. 5. Terzetto S2 B1 B2 Rec.

Cicco armato (abbigliamento comico) con il suo seguito, prende congedo dal padre e dalla fidanzata millantando il proprio valore (gestualità buffonesca; giochi metalinguistici)

I.4

Rec. 6. Aria S3

Il barone è in ansia per il figlio e Anella a lui promessa cerca di convincerlo a sposarla (nodo 4) ma il momento è inopportuno (caratteri grotteschi)

Sala I.1*

Campagna I.5* 7. Cavatina S1 Rec. 8. Aria B1

Cicco sorprende a dormire i fuorusciti Fiordispina e Sinonimo; quest’ultimo parla nel sonno spaventando il baroncino (gag); poi si desta e lo disarma dopo aver messo in fuga i suoi seguaci. Recupero di antefatto su Sinonimo. Cicco minacciato di morte nel far testamento svela il suo status nobile (gag)

I.6

Rec. 9. Aria B3

Recupero di antefatti (nodo 3) Piano di Fiordispina (AVVILUPPO del nodo 3, che risulta essere il principale) che pensa di sposare Cicco

I.7-8

Rec. 10. Aria S1

Fiordispina corteggia Cicco e lo convince a farla entrare in casa sua

Rec. 11. Aria S2 Rec.

Ernesto comunica a Metilde la notizia della falsa morte di Cicco e ha prova che la donna non lo ha dimenticato (nodo 2)

I.10-12

Rec.

Prima Annella, poi Metilde, infine Ernesto dilazionano la comunicazione al Barone della presunta morte di Cicco (comicità nell’iterazione)

I.13-16

12. Finale primo

Cicco entra con Fiordispina come suo promesso sposo (COMPLICAZIONE) sotto le minacce di lei e del fratello. Ernesto scombina il piano perché conosce le vere identità ma decide di non rivelarle.

Rec. 13. Aria B3 rec.

Sinonimo corteggia Anella per avere informazioni su Ernesto

Sala I.9

Sala II.1

141


Lorenzo Mattei II.2

Rec. 14. Aria B2 rec.

Strampalata spiegazione di Cicco dei fatti accaduti (gag verbale)

II.3

Rec.

Cicco vorrebbe dare in sposa Fiordispina a suo padre ma lei rifiuta

II.4-5*

Rec. Ernesto smaschera i fuorusciti che fuggono APICE 15-16. Quintetto poi Sestetto TENSIVO

II.6

Rec. 17. Duetto S2 T

Schermaglia amorosa Metilde-Ernesto (Rallentamento del dramma)

II.7*

Rec. 18. Aria S3 (frammezzata rec.)

Schermaglia Barone-Annella (Rallentamento del dramma)

Rec. 19. Aria B1

Sinonimo travestito da pellegrino sfrutta Cicco per uscire dal castello del barone

II.9

Rec. 20. Aria S1

Sfogo lirico di Fiordispina ch’è sola in cerca di suo fratello

II.10-13*

Rec. 21. Finale secondo

Fiordispina minaccia di morte Cicco che si rifiuta di sposarla; le si allea Sinonimo che sveste i panni del pellegrino. Caos generale APICE TENSIVO

Rec.

Il barone e Cicco vogliono interrogare in carcere i due fuorusciti

III.2

Rec. 22. Aria S3 Rec.

Annella minaccia di lasciare il barone se non verrà sposata

III.3

Rec. 23. Aria T

Metilde sposerà Ernesto se sorprenderà ancora Cicco con Fiordispina

Rec. 24. Quartetto

Buffo interrogatorio che si conclude con una condanna. Caos generale APICE TENSIVO

III.5

Rec.

Fiordispina cerca di far leva sull’infatuazione che Cicco ha per lei

III.6

Rec.

Metilde nascosta con il barone ascolta le profferte di Cicco a Fiordispina; il barone caccia il figlio Metilde è libera di sposare Ernesto scioglimento nodo 1

III.7

Rec.

Giunge Sinonimo col proposito di fuggire insieme a Cicco e alla sorella

III.8

Rec. 25. Duetto S1 B1

Cicco decide di seguire i fuorusciti e per vivere farà il cantante

III.9

Rec. 26. Tutti

Una lettera da Roma assicura il nobile rango dei fuorusciti. Cicco sposerà Fiordispina (scioglimento nodo 3), il barone Annella (scioglimento nodo 4) e Metilde Ernesto. RISOLUZIONE

Rovine II.8

Sala III.1

Carcere III.4*

142


Strategie melodrammaturgiche nei teatri napoletani d’inizio Ottocento Napoli 1812 Gl’amori e l’arme Palomba-Giuseppe Mosca Scene

Numeri musicali

Azione drammatica

1. Introduzione S2 S3 T B2 Rec

Caos generale: dei banditi attaccano il feudo. Il barone vuole inviare contro di loro suo fratello minore Cicco, promesso sposo di Matilde (nodo 1) che ha deluso le aspettative di Ernesto suo spasimante introdottosi a casa di barone fingendosi cugino di Metilde (nodo 2)

Rec.

Schermaglia tra Ernesto e Metilde; recupero dell’antefatto (nodo 2)

2. Duetto S1 B3 Rec.

Sinonimo e Fiordispina sono fuorusciti; monologo di recupero dell’antefatto (nodo 3 Fiordispina promessa ad Ernesto)

I.4*

3. Cavatina B1 Miei compagni Rec.

Cicco armato in modo buffo è lasciato solo dai suoi uomini che fuggono (uso del fuori scena; carattere grottesco)

I.5

Rec. 4. Duetto S1+ B1

Cicco è sorpreso dai fuorusciti che ne scoprono l’identità. Fiordispina, invaghitasi del baroncino propone di andare nel suo feudo sotto mentite spoglie per poi sposarlo sotto minaccia di morte AVVILUPPO del nodo 3

Rec. 5. Aria S2 rec.

Cicco è dato per spacciato e Metilde è sconvolta perché crede di aver perso lo sposo (nodo 1); Ernesto (nodo 2) non demorde (rallentamento del dramma)

I.7

Rec.

Cicco millanta di aver vinto e introduce i fuorusciti con vesti di nobili

I.8

Rec. 6. Quintetto

Il barone si invaghisce di Fiordispina e vuole sposarla ma la donna viene riconosciuta da Ernesto che minaccia di svelarne l’identità APICE TENSIVO

I.9

Rec.

Sinonimo teme una denuncia di Ernesto ma quando dalla serva Livietta apprende che egli si è finto cugino di Metilde ha modo di ricattarlo

I.10

Rec.

Ernesto viene messo in fuga da Sinonimo e Fiordispina obbliga con pistola alla tempia Cicco a stendere una promessa matrimoniale COMPLICAZIONE

I.11

Rec. 7. Terzetto S2 B1 B2

Sopraggiunge il Barone con Metilde; Cicco consegna loro la promessa scritta a Fiordispina suscitandone una reazione allibita (gag gestuale)

I.12

Rec. 8. Aria S1+pertichini

Fiordispina corteggia il barone e gli svela le mire di Ernesto; poi lo obbliga a voltarsi per fingere di dargli la sua mano che invece fa sostituire a Cicco (gag gestuale), da lei opportunamente nascosto.

Sala I.1*

I.2 Valle I.3

Camera I.6

143


Lorenzo Mattei Atrio I.13-15*

Rec. 9. Finale primo

Il barone accusa Ernesto che conduce le forze dell’ordine e smaschera i due fuorusciti nel momento in cui Fiordispina stava stipulando le nozze. I due mostrano le armi e minacciano gli astanti APICE TENSIVO

Sotterraneo II.1 Rec. 10. Aria S3

Livietta: monologo di recupero e aria motteggiante sulla superiorità del genitl sesso

II.2

Rec.

Cicco e il barone cercano di trarre d’impiccio Fiordispina

II.3

Rec. 11. Aria T Rec.

Ernesto ha detto ai vassalli che il barone vuol proteggere i fuorusciti e prima di congedarsi lo sfida a duello per ottenere la mano di Metilde (nodo 2)

II.4

Rec. 12. Terzetto S1 B1 B2

Cicco e il barone visitano in carcere Fiordispina che li lusinga entrambi cercando di farsi rimettere in libertà

Camera II.5

Rec.

Livietta porta un messaggio amoroso di Fiordispina ad Ernesto che lo fa credere indirizzato a Cicco per convincere Metilde a non sposarlo (nodo1)

II.6

Rec.

Arriva Cicco che Metilde scaccia rifiutando definitivamente di sposarlo Scioglimento nodo 1

II.7

Cicco fa credere che il barone sia il destinatario del Rec. 13. Aria B2 con B1 pertichino biglietto mandandolo in delirio amoroso

Galleria II.8

Rec.

Metilde vorrebbe liberare Fiordispina come pure Ernesto che svela di esserne stato il fidanzato a Roma (nodo 3)

II.9

Rec. 14. Sestetto

Buffo interrogatorio (gag) che si conclude con piena assoluzione. Fiordispina però esige la mano di Cicco che viene attaccato dal barone suo fratello, ignaro di esserne stato rivale. APICE TENSIVO

II.10

Rec. 15. Tutti

Ben presto il barone si convince che è meglio esser scapolo e benedice le unioni di Metilde con Ernesto e del fratello con Fiordispina RISOLUZIONE

144


Antonio Caroccia Rossini “italiano” sulle scene napoletane

Nella primavera del 1815, a soli ventitré anni, il giovane Rossini parte da Bologna alla volta di Napoli colmo di gioia e soprattutto di future speranze non prima, l’8 giugno, di aver sollecitato Angelo Anelli a fornirgli un nuovo libretto: «Io devo comporre un’opera nuova? e tu mi offri un libro vecchio: dov’è ito il tuo genio la tua bella fantasia? ma per Dio non mi credi forse capace di poter investire di declamativa, espressiva, parlante i tuoi versi? [...] Io parto per Napoli colà mi risponderai».¹ Il compositore arrivava nella città partenopea con un ricchissimo bagaglio di precedenti esperienze e soprattutto con un inizio di carriera sfolgorante: fin dal suo debutto (1810), l’artista non aveva conosciuto un sol momento di pausa; un perfetto “crescendo” di successi: quattordici opere in soli quattro anni, un ritmo produttivo impressionante «[...] la conquista dell’Italia, se vogliamo usare una metafora stendhaliana, non era completa. Napoli, la piazza più importante, era rimasta chiusa alla sua musica: una limitazione che un compositore dell’epoca non poteva non sentire come grave».² Va da sé che l’assenza rossiniana dai palcoscenici napoletani, in un lasso di tempo brevissimo, è perlopiù da ascrivere a turbolenze politiche e locali; vaghe tracce di resistenze possiamo coglierle nel «Giornale del Regno delle Due Sicilie» del 25 settembre 1815: Tutto è moto in questo momento nel nostro mondo teatrale. Da per tutto arrivano maestri di cappella, cantanti, ballerini, artisti d’ogni genere. [...] un tal Sig. Rossini, maestro di cappella, che si dice venuto per dare una sua Elisabetta regina Inghilterra su questo stesso T. San Carlo che risuona ancora dei melodiosi accenti della Medea e della Cora dell’egregio Sig. Mayr. In mezzo a questo movimento generale, il giovane figlio del nostro illustre compositore Sig. Tritta fa sperare una musica veramente italiana sul R. Teatro del Fondo e il m° Prota in un’altra in quello dei Fiorentini.³

¹ Gioachino Rossini, Lettere e documenti. Volume I: 29 febbraio 1792 – 17 marzo 1822, a cura di Bruno Cagli ² ³

e Sergio Ragni, Pesaro, Fondazione Rossini, 1992, pp. 93-94. Bruno Cagli, All’ombra dei gigli d’oro, in Rossini 1792-1992. Mostra storico-documentaria, a cura di Mauro Bucarelli, Napoli, Electa, 1992, pp. 161-195: 161. «Giornale del Regno delle Due Sicilie», 25 settembre 1815.

145


Antonio Caroccia Ostilità che mutarono ben presto: «l’egregio Rossini, che consideriamo come uno de’ maggiori compositori viventi, ed uno de’ più illustri autori de’ quali possa oggi far mostra la scena italiana».4 L’accoglienza partenopea al giovane Rossini, seppur contraddistinta da minute resistenze e gelosie locali, non fu certo ostile. Anzi, l’artista seppe farsi apprezzare e amare dal pubblico napoletano fin dalle prime recite, facendo sì che i resoconti periodici mutassero in un sol colpo. Accanto a produzioni composte espressamente per Napoli, Rossini dovette nel contempo presentare per i teatri cittadini titoli di suoi lavori prodotti per le scene italiane. È il caso dell’Italiana in Algeri, la cui prima rappresentazione era avvenuta a Venezia al Teatro San Benedetto il 22 maggio del 1813 e verrà riproposta al Fiorentini di Napoli nell’autunno del 1815, con artisti del calibro della Checcherini, Pellegrini e Rubini.5 Sulle scene partenopee, il personaggio di Taddeo diventa Pompeo e annotiamo anche una serie di modifiche testuali dovute alla censura. Venezia, Teatro San Benedetto, 22 maggio 1813 Napoli, Teatro dei Fiorentini, 28 ottobre 1815 Atto I, scena 1 Mustafà Delle donne l’arroganza Il poter, il fasto insano Qui da voi s’ostenta invano, Lo pretende Mustafà

Atto I, scena 1 Mustafà Donne austere il vostro orgoglio Deve a me star sottomesso: Non comanda il vostro sesso Dove regna Mustafà.

Atto II, scena 10 Isabella Pensa alla patria, e intrepido Il tuo dover adempi: Vedi per tutta Italia Rinascere gli esempi D’ardire e di valor

Atto II, scena 10 Isabella Nelle piene compagnie Fra ben mille bizzarie ischierem delizie, orrori; E fra un sacco di bugie Qualche mezza verità

4 «Giornale del Regno delle Due Sicilie» n. 37, 13 febbraio 1818, pp. 147-148: 148. 5 A tal proposito si legga anche la lettera di Barbaja al Duca di Noja del 10 ottobre 1815: «Mi affretto render

inteso l’Ecc.za Vostra che ripetutamente ho fatto presentare la Parte di Seconda Donna alla Cardini per l’Opera l’Italiana in Algeri, e che fatta invitare per il primo Concerto di questa mattina, si è recata senza però muover bocca, motivo di levar il concerto senza effetto. Ho fatto proporre che avrei ordinato al Maestro Latilla di passarle la parte, e nell’allontanarsi dalla prova, lasciò la parte protestando che a nessun conto l’avrebbe fatta. Presi in seguito la via della dolcezza facendoci rimettere la parte nuovamente, e facendole conoscere l’errore, ma in riscontro ripeté lo stesso aggiungendo che non conosce ordini di nessun Autorità, e che è prontissima a sciogliere il contratto. Propongo perciò a V.E. che per mezzo dello Scrivano dei Fiorentini, o per quello della Polizia le sii intimata l’esecuzione della parte, e che per la sfrontata ripulsa alle nobili maniere usate sii castigata con una penale. Se aggrada parimenti all’E.V. lasciarla in libertà dall’attuale contratto potrà ciò accadere alla fine del corrente mese obbligandola prestarsi a recitare le opere in corso, e dar tempo ad altre Virtuose di studiare le parti.» (Rossini, Lettere e documenti cit., pp. 108-109).

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Rossini «italiano» sulle scene napoletane

Figura 1: Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri

Figura 2: Gioachino Rossini, L’Italiana in Algeri (I-Nc, 31.5.23-24). 147


Antonio Caroccia Il 31 ottobre, la critica dovrà ammettere che «il signor Rossini, di cui taluni avranno trovato altra volta strano ignorarsi da noi il merito, trionfa oggi sui primi teatri di questa antica culla della scienza e del genio musicale».6 L’italiana in Algeri dovette in qualche modo stupire benevolmente il pubblico napoletano, tanto che poco dopo, nel medesimo teatro, viene proposta la farsa L’inganno felice, la cui prima era stata data a Venezia al San Moisè l’8 gennaio del 1812.7

Figura 3: Gioachino Rossini, L’inganno felice.

Figura 4: Gioachino Rossini, L’inganno felice (I-Nc, 31.5.22). 6 «Giornale del Regno delle Due Sicilie», 31 ottobre 1815. 7 Da segnalare nell’ottimo cast anche il celebre basso buffo Carlo Casaccia detto Casacciello.

148


Rossini «italiano» sulle scene napoletane Rossini, come sappiamo, fu di fatto un autentico direttore artistico e direttore musicale, occupandosi in prima persona dei cantanti, dei compositori, di rivedere e adattare alle scene napoletane i melodrammi precedenti. Questa attività inizierà a svolgerla pienamente dal 1818, anno in cui di proprio pugno inizierà a scrivere agli artisti come persona di fiducia di Barbaja.8 Risalgono a quest’anno diverse riprese di opere composte per i teatri italiani, come ad esempio il Tancredi messo in scena 14 aprile al San Carlo: I nuovi cantori, destinati a succedere a chi con tanta gloria finora sostenne l’onore di questo Real Teatro San Carlo sono già arrivati, e sarebbero eglino comparsi per la prima volta sulla scena nel prossimo giovedì col Tancredi del Rossini, se non avesse impedito il compimento di questo disegno. In tal circostanza, la Signora Colbran, di cui erano già terminati gl’impegni che avea con l’amministrazione, sul punto stesso di partir, ha condisceso di fermarsi per altre rappresentazioni, onde non restasse per un giorno solo sospeso lo spettacolo; con ciò ha desiderato dare nuova testimonianza di suo rispetto e di sua riconoscenza per un pubblico, il quale ha per sei anni continui unanimemente applaudito a suoi talenti ed al suo instancabile zelo.9

Seppur l’anonimo recensore del «Giornale del Regno delle Due Sicilie» sembra non aver gradito il libretto di Gaetano Rossi: In mezzo a somma perturbazione di animo, la Signora Festa ottenne frequenti ed unanimi applausi, e molti ella ne divise con le Signore Malanotti e col Bordogni. Ché se il pubblico favore non fu per i tre cantori egualmente costante sino al fatale calar del sipario, potrebbe ciò ascriversi a cagioni, estranee affatto al merito degli esecutori. Oggi nulla vale pregevolissima musica, quale certamente è quella del Tancredi, quando il poema nulla ti dice al cuore [...] Se il Tancredi sarà accorciato di qualche ora, sarà a nostro avviso, d’altrettanto più bello: tolto il mortale narcotico di cui è sparsa tutta l’azione.¹0

Il 20 aprile lo stesso giornale giudica in questi termini la Malanotti, interprete di Tancredi: «Questa cantatrice, accolta la prima sera con fredda indifferenza, cattiva ogni sera di 8 «Barbaja era stato più volte battuto sul tempo dagli impresari dei teatri minori napoletani nella messa in

scena di spartiti rossiniani non ancora conosciuti a Napoli. Al San Carlino il 9 agosto 1817 si rappresentava Il turco in Italia, e il 19 novembre dello stesso anno La Cenerentola. Nel 1818 alla Fenice si rappresentava La pietra del paragone il 16 maggio e Il barbiere di Siviglia il 14 ottobre. L’anno seguente il Teatro Nuovo riapriva i suoi battenti il 26 settembre col Torvaldo e Dorliska, cui faceva seguito il 5 novembre, L’occasione fa il ladro rappresentata a Napoli col titolo Il cambio delle valige». (Rossini, Lettere e documenti cit., nota 2, p. 268). 9 «Giornale del Regno delle Due Sicilie» n. 82, 7 aprile 1818, p. 329. ¹0 «Giornale del Regno delle Due Sicilie» n. 89, 15 aprile 1818, p. 364.

149


Antonio Caroccia più i voti di tutti; ed ogni sera si mostra maggiormente degna de’ primi onori della scena musicale... Un gran nome non si acquista senza un gran merito»,¹¹ annunciando nel contempo la rappresentazione della Cenerentola.

Figura 5: Gioachino Rossini, Tancredi.

Figura 6: Gioachino Rossini, Tancredi (I-Nc 31-4-3). ¹¹ «Giornale del Regno delle Due Sicilie» n. 93, 20 aprile 1818, p. 380.

150


Rossini «italiano» sulle scene napoletane Il 12 maggio la Cenerentola viene rappresentata al Fondo a distanza circa di un anno dalla prima romana (Teatro Valle, 25 gennaio 1817) con Rubini, Pellegrini, Casaccia, la Checcherini, la Festa, che la critica accoglie in questi modi: Perché mai in fronte al libretto di questo Dramma Giocoso si è impresso il nome del maestro di cappella, e si è taciuto quello del poeta? Non avrebbe dovuto farsi per l’appunto il contrario. Le composizioni musicali del Rossini hanno tutte l’aria di famiglia, la quale, dalla prima sino all’ultima nota, ti svela l’origine paterna. [...] La storia del teatro musicale non ricorda più meschina farsa: essa è nel genere giocoso ciò che il Tancredi è nel genere eroico; e se l’una e l’altra poesia sono state vestite di bella musica dal Rossini, bisognerà dire che questo egregio compositore, che noi stimiamo moltissimo, e che crediamo uno de’ maggiori scrittori viventi, sia spesso condannato a servire infelici poeti da trivii. [...] La Festa ha perfettissima intonazione, buon metodo di canto e voce all’orecchio gratissima. [...] Rubbini manca questa volta di anima. [...] L’incomparabile Casacciello, il quale è nel suo genere l’attore per eccellenza, è sacrificato all’onor della scena.¹²

Figura 7: Gioachino Rossini, Cenerentola (collezione privata Sergio Ragni).

¹² «Giornale del Regno delle Due Sicilie», 13 maggio 1818, p. 459-460.

151


Antonio Caroccia Anche in questa occasione troviamo nel libretto alcune modifiche testuali e inserzioni dall’italiano al napoletano. Roma, Teatro Valle, 25 gennaio 1817

Napoli, Teatro del Fondo, primavera 1818

Atto II, scena 1

Atto II, scena 1

Coro Ah! Della bella incognita L’arrivo inaspettato Peggiore assai del fulmine Per certe ninfe è stato La guardano e taroccano; Sorridono, ma fremono Hanno una lima in core Che a consumar le va. Guardate! Già regnavano. Ci ho gusto. Ah ah ah ah.

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Don Magnifico Mi par che quei birbanti Ridessero di noi sotto-cappotto. Corpo del mosto cotto, Fo un cavaliericidio

Don Magnifico Ma vi chilli birbante Se ridono de me sotto cappotto! Corpo del mosto cotto Fo un cavaliericidio

Don Magnifico Giocato ho un ambo e vincerò l’eletto. Da voi due non si scappa; oh come, oh come, Figlie mie benedette, Si parlerà di me nelle gazzette! Questo è il tempo opportuno Per rimettermi in piedi. Lo sapete, Io sono indebitato. Fino i stivali a tromba ho ipotecato. Ma che flusso e riflusso Avrò di memoriali! ah questo solo È il paterno desìo. Che facciate il rescritto a modo mio. C’intenderem fra noi; Viscere mie, mi raccomando a voi. Sia qualunque delle figlie Che fra poco andrà sul trono Ah! non lasci in abbandono Un magnifico papà. Già mi par che questo e quello, Conficcandomi a un cantone E cavandosi il cappello, Incominci: sor Barone; Alla figlia sua reale Porterebbe un memoriale?

Don Magnifico Me joco n’ambo, e piglierò l’eletto. Da vuje doje non se scappa. Oh comme a volo, Figlie meje benedette, De vuje se parlerrà nelle gazzette! Chisto è lo vero tiempo De defrisearme un poco. Lo sapite Ca songo ndebetato. Nzà a li stivale a tromba aggio mpignato. Ma che flusso e riflusso Aggio de’ memoriali! Ah contentate Il paterno desio E facite il decreto a modo mio. La vedrimmo fra nuje. Viscere mie, m’arrecommanno a buje. Chi de vuje sarrà la bestia. Fortunata reggenella Il marito ha da pregare Per far bene a chi non l’ha. Già de gente no grociello Llà m’aspetta a no pontone, E levannose il cappiello, Accommenzano… Barone! A lo Prencepo reale Vorria dà no memoriale

152


Rossini «italiano» sulle scene napoletane Prende poi la cioccolata, E una doppia ben coniata Faccia intanto scivolar. Io rispondo: eh sì, vedremo. Già è di peso? Parleremo. Da palazzo può passar. Mi rivolto: e vezzosetta, Tutta odori e tutta unguenti, Mi s’inchina una scuffietta Fra sospiri e complimenti: Baroncino! Si ricordi Quell’affare, e già m’intende; Senza argento parla ai sordi. La manina alquanto stende, Fa una piastra sdrucciolar. Io galante: occhietti bei! Ah! per voi che non farei! Io vi voglio contentar! Mi risveglio a mezzo giorno: Suono appena il campanello, Che mi vedo al letto intorno Supplichevole drappello: Questo cerca protezione; Quello ha torto e vuol ragione; Chi vorrebbe un impieguccio; Chi una cattedra ed è un ciuccio; Chi l’appalto delle spille, Chi la pesca dell’anguille; Ed intanto in ogni lato Sarà zeppo e contornato Di memorie e petizioni, Di galline, di sturioni, Di bottiglie, di broccati, Di candele e marinati, Di ciambelle e pasticcetti, Di canditi e di confetti, Di piastroni, di dobloni, Di vaniglia e di caffè. Basta basta, non portate! Terminate, ve n’andate? Serro l’uscio a catenaccio.

E pé avé na lunga udienza Vostra sia la compiacenza Il gran Prence di pregà. Io risponno… eh! vedarrimmo… Mi c’impegno… parlarimmo… A palazzo po’ aspettà! Po me voto e smorfiosetta Tutt’addore, e tutt’agniente Se presenta na scuffietta Co sospire, e complimente… Baroncino! Si ricordi! Cara mia, non parla ai sorcii Essa allor con avvenenza Riverenza a me sta a fa. Io galante… oh mia signora! Lei lo sa… son pronto ognora Per giovar l’umanità. Po’ me sceito a miezojuorno, Sono lesto il campanello , E me vedo già d’intorno Amichevole drappello… A trottar poi ce ne andiamo… Indi gran conversazione, Dopo a pranzo ci mettiamo… Qui cinque ore per usanza Voglio stà p’anghì la panza: E sarò ben fortunato Se in mia casa in ogni lato Avrò sempre bei bocconi, Gallinacci, e storioni, Gran bottiglie di liquori, Pesci grossi, e de’ migliori, E timpani, e pasticcetti, Gran canditi, gran confetti, Poi gelati, in abbondanza, Ed infine un buon caffè. Basta! basta! non portate! Non me fido… via… levate! Io mo crepo! Non ne voglio… Servitori! Seccatori! Fora! fora! Via da me!

153


Antonio Caroccia

Figura 8: Gioachino Rossini, Cenerentola.

Figura 9: Gioachino Rossini, Cenerentola (I-Nc 31.5.10). 154


Rossini «italiano» sulle scene napoletane Nell’autunno, poi, viene messo in scena il Torvaldo e Dorliska al Teatro Nuovo, che sarà poi ripreso al San Carlo nell’estate del 1820, con l’introduzione del personaggio di Masiello per Raffaele Casaccia: Torvaldo e Doriliska... Che voglion dire queste barbare voci? Lasciatele in pace; esse tambene in fronte a una dramma piangoloso; nuova merce venuta dalle regioni iperboree, in cambio della commedia regolare già vecchia. [...] Signor impresari del Teatro Nuovo: dopo questa solenne approvazione de’ principi che diressero la prima vostra scelta, io oso consigliarvi a rinunziare per sempre a questo genere di spettacoli. [...] Fate che le opere del Lorenzi, del Casti, del Palomba sieno vestite delle musiche popolari di Piccinni, di Cimarosa, de’ due Guglielmi, di Palma, di Fioravanti, ed il pubblico ve ne saprà buon grado. [...] Il vostro teatro eccheggia tutte le sere di applausi, ma quegli applausi sono tutte le sere più vivi e più unanimi, quando la scena si presta agli scherzi della commedia e quando la musica di Rossini più si avvicina a’ modi di quel povero uomo di Cimarosa.¹³

Figura 10: Gioachino Rossini, Torvaldo e Dorliska (I-Nc, Rari 10.9.3/4).

¹³ «Giornale del Regno delle Due Sicilie», 2 ottobre 1818, p. 955-956: 955.

155


Antonio Caroccia

Figura 11: Gioachino Rossini, Torvaldo e Dorliska (I-Nc 31.4.4). Per Raffaele Casaccia furono anche introdotte nuove porzioni di testo in napoletano, come ad esempio, nella terza scena del primo atto: Sarva sarva!! uh bene mio! pare, che ancora le palle me secutano! me le sento fiscà dinto a le recchie! e che brutta museca! io me tocco sta capo ncapo, e me pare no suonno! gamme meje! ve songo obbricato de la vita. Io teneva sto tesoro commico, e non me n’era addonato? da mo nnanze me voglie cosere a filo duppio co buje. Quanno tenco cheste doje colonne, che me defenneno a correre de sta manera, io pozzo sfidà porzì a duello le cannonate mpersona! ah! Pigliammo no po’ de sciato, ca sta panza mia me pare na zampogna abbottata de viento… ahù!... e pà dice lo mutto, ca chi nasce de sette mise è affortunato! Eppuro ncuollo a me chiovono sempre le disgrazie a delluvio.¹4

¹4 torvaldo e dorliska | dramma semiserio | Rappresentato la prima volta in Roma | l,anno 1816. | e

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Rossini «italiano» sulle scene napoletane Non v’è dubbio che è il 1818 l’anno in cui si concentrano le maggiori produzioni rossiniane, sia quelle composte per Napoli sia quelle riprese per la città partenopea. Per il 1819 troviamo il 15 luglio la ripresa della Gazza ladra al Teatro del Fondo: Siccome ebbi già l’onore di prevenire V.E. che io mi proponevo di far produrre l’opera La Gazza ladra del Signor Maestro Rossini, mi fo ora l’onore di riferirle che darò le opportune disposizioni perché la detta opera sia in pronto per rappresentarsi nel Real Teatro del Fondo per la prossima Santa Pasqua. ¹5

L’opera fu poi rappresentata al San Carlo alla fine dell’anno e, più di una volta, l’anno successivo. «Ambrogi e Rubini compariranno sulle scene il 25 ed il 26 del corrente nella Gazza Ladra di Rossini, che sarà data per la prima volta in S. Carlo».¹6 Grave mal di gola, sopravvenuto al Signor Nozzari, impedisce questa sera la prima rappresentazione del Ciro in Babilonia, la quale sarà data sabato, o col Signor Nozzari, se sarà sano, o col Signor Ciccimarra, che ha gentilmente voluto incaricarsi della parte del collega infermo. Domenica, seguirà la seconda rappresentazione dello stesso oratorio. Intanto questa sera, al Ciro in Babilonia del Signor Raimondi, sarà sostituita la Gazza Ladra del Signor Rossini. Perché il teatro non rimanesse senza spettacolo, il Signor Benedetti è condisceso a sostenere le veci del Signor Nozzari.¹7 Martedì, 9 del corrente sarà riprodotta la Gazza Ladra, opera del Signor Maestro Rossini. Quella bella composizione avrà nuove attrattive per tutti gli amatori della musica. Il Signor Gallo, esimio cantore e rinomato attore, farà in essa la sua prima comparsa, assumendo la parte che fu scritta per esso; e così gusteremo un duetto ed un’aria non ancora cantati sulle nostre scene.¹8

¹5

¹6 ¹7 ¹8

riprodotto | nel teatro nuovo | sopra toledo | L’Autunno del corrente Anno | 1818 | Napoli | Dalla Tipografia Flautina | 1818 (I-Nc Rari 10.9.3/4, pp. 10-11: 11). Rossini, Lettere e documenti cit., p. 354. Si legga anche il documento del 25 marzo 1818: «Avendo il Sig.r Maestro Rossini prescelto il Suo Spartito di musica dell’opera intitolata la Gazza Ladra, prego V.E. di voler disporre che non si permetta a verun Teatro la produzione di detto spartito, e doversi il medesimo conservare per li Teatri Reali» (ivi, p. 354). «Giornale del Regno delle Due Sicilie» n. 305, 23 dicembre 1819, p. 1050. «Giornale del Regno delle Due Sicilie» n. 65, 16 marzo 1820, p. 267. «Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie» n. 26, 7 agosto 1820, p. 108.

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Figura 12: Gioachino Rossini, La gazza ladra (I-Nc, Rari 10.30/5).

Figura 13: Gioachino Rossini, La gazza ladra (I-Nc 31.5.20-21). 158


Rossini «italiano» sulle scene napoletane Nella primavera del 1820 abbiamo la ripresa del Turco in Italia al Teatro Nuovo e il 26 giugno l’Italiana in Algeri alla Fenice di Napoli.

Figura 14: Gioachino Rossini, Il turco in Italia (I-Nc Rari 10.9.16/5). Nell’inverno del 1821 al Fondo¹9 viene rappresenta Bellezza cuor di ferro (Matilde di Shabran), a pochi giorni dalla prima romana dell’Apollo del 24 febbraio, ripresa poi nel 1825. Per questo spettacolo, si segnalano le ministeriali del 24 ottobre e 14 dicembre del duca di Noja al Ministro degli Affari Interni: Sul merito della prima donna Signora Biagioli si fa un dovere di prevenirla che la medesima è andata in scena coll’opera Bellezza e cuor di Ferro, senza riportare alcuna soddisfazione, che poi avendo disimpegnata la parte di seconda donna nel Matrimonio segreto è stata compatita dal pubblico. Con questa occasione la Deputazione fa presente a V.E. di esserle stato partecipato in iscritto dal Signor Barbaja di aver scritturata per la prossima Quaresima pel servizio del Real Teatro S. Carlo, in qualità di prima donna la Signora Lalandi.²0

¹9 «I nostri teatri sono tutte le sere ingombri di spettatori. Casacciello, lasciato per più anni in ingrato

obblio, ravviva oggi le scene del Fondo, nel Barbiere di Siviglia di Rossini; e se voi non rendete pietoso qualche portinaio di quel teatro, invano cercherete ogni sera un palco e perfino picciolo posto in platea» («Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie» 18 gennaio 1821). ²0 Archivio di Stato di Napoli (da ora in poi ASN), Ministero degli Affari Interni (da ora MI), II inventario (da ora inv.), f. 4356/I n. 3, documento del 14 dicembre 1825.

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Figura 15: Gioachino Rossini, Bellezza e cuor di ferro (I-Nc, 31.5.4). Nell’inverno del 1823 viene rappresentata Semiramide al San Carlo e ripresa anche negli anni successivi.

Figura 16: Gioachino Rossini, Semiramide (I-Nc Rari 10.8.15/3). 160


Rossini «italiano» sulle scene napoletane

Figura 17: Gioachino Rossini, Semiramide (I-Nc, 31.4.1). Un altro documento datato 31 gennaio 1825 del procuratore di Barbaja Cesare Politi e indirizzato al duca di Noja offre numerose informazioni sui cantanti per la stagione 1825/26.²¹ La memoria, poi, di Barbaja dell’anno successivo indirizzata al Marchese Amati, Ministro degli Affari Interni, chiarisce maggiormente la questione: Ho presentate nel Prospetto la Signora Lalande Prima Donna di cartello per tale reputata in tutte le Piazze Teatrali. La Lorenzani è oggi il migliore contralto che si conosca, e S.M. la Regina che l’ha intesa al Teatro di Parma, si degnò manifestarmi la sua Sovrana approvazione per l’acquisto di tale Attrice. Per rapporto alle altre due prime Donne; cioè la Signora Comelli, e la Signora Unger si conosce da tutti che queste cantanti si sono accreditate in diversi primi Teatri [....]. I Tenori di grido si conoscono sono appena tre, Signor David, il Signor Rubini, ed il Signor Donzelli; [...].²²

²¹ ASN, MI, II inv., f. 4357/II, documento del 31 gennaio 1825. ²² Ivi, documento del 25 febbraio 1826.

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Figura 18: Gioachino Rossini, Demetrio e Polibio.

Figura 19: Gioachino Rossini, Demetrio e Polibio (I-Nc, 31.5.12).

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Rossini «italiano» sulle scene napoletane Su quest’opera, così si esprime il revisore Ruffa in una missiva del 7 marzo 1838 indirizzata al Ministro Santangelo: La commissione le rassegna tre produzioni, un melodramma per R. Teatro del Fondo intitolato Demetrio e Polibio, e pel Teatro de’ Fiorentini una Commedia col titolo il Salvadanaro ed una Farsa con quello di Amor pittore. Il primo è un antico melodramma vestito di musica dal Rossini, e se non è un bel componimento poetico non è tale che offende le convenienze de’ nostri teatri.²³

Qualche anno prima gli spettatori napoletani avevano conosciuto il Conte Ory nella serata di gala del 19 ottobre 1830: In pronta ubbidienza degli ordini di V.E. contenuti nella Ministeriale di jeri colla quale mi dimanda se il proposto libretto del Conte Ory, per rappresentarsi nel Real Teatro San Carlo nella ricorrenza della gran gala de’ 19. Novembre sia stato convenientemente depurato di tutto ciò che potrebbe urtare à buoni costumi e se le modificazioni che avrà potuto subire a tale effetto alterino per niente lo sviluppo dell’azione, o detraggano alla bontà della musica, mi fo un dovere di rassegnare a V.E. che il citato libretto è stato riveduto da me questa mattina, ed antecedentemente dal mio collega Sig. Principe Dentice, e dal Regio revisore Sig. Ruffa è stato depurato di tutto ciò che poteva urtare à buoni costumi, senza alterare in nulla lo sviluppo del soggetto né far torto alla bontà della musica, giusta l’assicurazione fattami dal maestro di Cappella D. Placido Mandanici incaricato dall’impresa per adattare la musica dello stesso maestro Rossini né versi cambiati.²4

Nel prospetto d’appalto della Quaresima del 1829 del Teatro del Fondo, troviamo diverse riprese rossiniane, tra cui il Barbiere di Siviglia e la Gazza Ladra

²³ ASN, MI, II inv., f. 4360/II, documento del 7 marzo 1838. ²4 ASN, MI, II inv., f. 4362, documento del 16 ottobre 1830.

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Figura 20: Real Teatro del Fondo, prospetto d’appalto per la Quaresima del 1829 (ASN, MI, II inv. F. 4362). La ricca stagione napoletana di Rossini vedrà, dunque, accanto alle prime napoletane un’intensa stagione di riprese italiane sui palcoscenici partenopei che contribuiranno a rendere ancor più celebre l’artista e a far brillare il suo astro nell’olimpo dei grandi compositori.

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Rosa Cafiero – Marina Marino «Se tu Potessi prestarmi un Miserere, il più facile che ai». Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli

I Nel primo volume dell’epistolario rossiniano curato da Bruno Cagli e da Sergio Ragni è incluso un biglietto autografo non datato destinato a un certo Capranica; i due studiosi hanno identificato tale destinatario in Domenico Capranica (1792-1870), romano, e hanno contestualizzato la richiesta di Rossini nella capitale papalina ipotizzando una datazione entro gli inizi di marzo 1821.¹ La storia materiale del biglietto e la sua presenza nella collezione di Masseangelo Masseangeli (1809-1878), custodita nell’archivio dell’Accademia Filarmonica di Bologna,² forniscono elementi per una diversa contestualizzazione; il Capranica al quale si rivolge Rossini non è Domenico, bensì Gian Lorenzo, formatosi al conservatorio di Santa Maria ¹ Frutto di un progetto di ricerca comune, la redazione del saggio è stata così suddivisa: Rosa Cafiero ha

scritto la prima parte (pp. 167-170), Marina Marino la seconda (pp. 171-188). Gioachino Rossini, Lettere e documenti, I, 29 febbraio 1792-17 marzo 1822, a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, Pesaro, Fondazione Rossini Pesaro, 1992, p. 481 («Caro Capranica | Se tu Potessi prestarmi un Miserere | il più facile che ai mi obligheresti | infinitamente, nel caso che tuo | voglia favorirmi dimmi quando e | dove posso io mandarlo a prendere | t’abb.o il tuo | Rossini»). ² Catalogo della collezione d’autografi lasciata alla R. Accademia Filarmonica di Bologna dall’accademico Ab. Dott. Masseangelo Masseangeli, a cura di Francesco Parisini ed Ernesto Colombani, Bologna, Regia Tipografia, 1896 (rist. anast. Bologna, Forni, 1969), d’ora in avanti Parisini-Colombani, Catalogo della collezione d’autografi. Alessandra Fiori, Musica e collezionismo. La raccolta di autografi dell’abate Masseangeli, in Spigolature d’archivio: contributi di archivistica e storia del progetto “Una città per gli archivi”, a cura di Armando Antonelli, Bologna, Bononia University Press, 2011, pp. 251-260 (i documenti di Masseangeli sono consultabili online nel portale archIVI Città degli archivi <www.cittadegliarchivi.it>). Cfr. Luigi Ferdinando Tagliavini, August e Hermann Kestner cultori della musa popolare. Le vicende avventurose d’una raccolta manoscritta, in Musikstadt Rom: Geschichte, Forschung, Perspektiven. Beiträge der Tagung “Rom – die ewige Stadt im Brennpunkt der aktuellen musikwissenschaftlichen Forschung” am Deutschen Historischen Institut in Rom, 28.-30. September 2004, hrsg. von Markus Engelhardt, Kassel, Bärenreiter, 2011 (Analecta musicologica, 45), pp. 370-451; Rosa Cafiero, La creazione di un paradigma: musica antica di scuola napoletana nelle collezioni di Gaspare Selvaggi (1763-1856), in “Cara scientia mia, musica”. Studi per Maria Caraci Vela, a cura di Angela Romagnoli, Daniele Sabaino, Rodobaldo Tibaldi e Pietro Zappalà, Pisa, Edizioni ETS, 2018 («Diverse voci…», 14), pp. 343-419:414.

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Rosa Cafiero – Marina Marino della Pietà dei Turchini e attivo a Napoli nell’organico della real cappella palatina con varie mansioni: basso e curatore delle carte («archivario») dell’archivio musicale della cappella. La città in cui Rossini conobbe ed ebbe contatti con Capranica pertanto non è Roma, bensì Napoli. Come è giunto l’autografo rossiniano nella collezione dell’abate lucchese? Masseangeli giunge a Napoli nel 1837 come precettore dei figli del principe di Montemiletto Francesco Tocco Cantelmo Stuart (1790-1877) e vi rimane con tale mansione fino al 1848; ritorna nuovamente nel 1870 trattenendosi fino al 1872. Il biglietto autografo, che Capranica aveva certamente custodito come un prezioso cimelio, viene venduto al collezionista lucchese insieme a numerosi documenti che testimoniano le frequentazioni di Capranica e permettono di ricostruire alcune tappe biografiche di quest’ultimo.³ Lo stesso Masseangeli annota la provenienza dell’autografo rossiniano su una scheda allegata al biglietto: «Biglietto autografo di G. Rossini | ad un Professore addetto a S. Carlo | da Napoli da cui l’ho avuto».4 Il collezionista associa il «Professore» alla sua attività in teatro invece che presso la cappella palatina: una scrittura sancarliana di Capranica è sottoscritta il 30 ottobre 1824 da Louis Drouet (1792-1873), «procuratore generale dell’appaltatore pe’ RR. Teatri di Napoli»5 Joseph Glossop. Scorrendo il Catalogo della collezione assemblata da Masseangeli si possono ricostruire in filigrana alcune tappe dell’attività musicale di Capranica: l’8 marzo 1834 Johann Caspar Aiblinger (1779-1867), che arriva a Napoli il 23 maggio 1833, gli scrive da Monaco di Baviera per «ringraziarlo delle attenzioni prodigategli nel tempo di sua dimora in Napoli»6 e lo definisce «direttore del coro del R. Teatro di S. Carlo». Aiblinger era stato inviato in Italia dal principe ereditario alla corona bavarese Maximilian (1811-1864, che salirà al trono nel 1848 come Maximilian II) con l’incarico di acquistare o copiare significativi Meisterwerke della tradizione musicale italiana (confluiti nella Collectio Musicalis Maximilianea7 oggi custodita nella Staatsbibliothek bavarese). ³ All’epoca della redazione del presente studio (settembre 2019) il biglietto risulta disperso nell’archivio

4 5

6 7

dell’Accademia Filarmonica di Bologna (I-Baf ); ringraziamo Romano Vettori per averci guidato con la consueta disponibilità e competenza alla ricerca dell’autografo rossiniano, del quale purtroppo si sono perse le tracce dopo una mostra allestita nel 2000; cfr. Luigi Verdi, Rossini a Bologna. Note documentarie in occasione della mostra “Rossini a Bologna”, Bologna, Pàtron, 2000. Ringraziamo Luigi Verdi per avere messo a nostra disposizione una fotocopia del biglietto. I-Baf, Masseangeli MSG, I.ROSS.LET. Parisini-Colombani, Catalogo della collezione d’autografi cit., p. 102. Drouet aveva il ruolo di procuratore generale dell’impresa di Joseph Glossop (cfr. Cesare Corsi, Un’“armonia competente”. L’orchestra dei teatri reali di Napoli nell’Ottocento, «Studi verdiani» 16, 2002, pp. 21-96: 30n). L’ingaggio sottoscritto nel documento arriva — secondo la prassi invalsa — fino al sabato di Passione 1825. Parisini-Colombani, Catalogo della collezione d’autografi cit., p. 4. Cfr. Bettina Wackernagel, Bayerische Staatsbibliothek. Katalog der Musikhandschriften, III, Collectio musicalis Maximilianea, München, Henle, 1981.

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Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli In qualità e con l’autorità di «addetto alla Real Cappella» Capranica garantisce e sottoscrive l’autografia dell’Ave Maria a tre voci di Francesco Catugno (1782-1847), suo compagno di studi presso il conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini;8 nella collezione di Masseangeli confluiscono numerose lettere personali inviategli da compagni di studio fuggiti da Napoli nel 1799, fra i quali il pisano Stefano Romani9 (1788-1859) e il ferrarese Ercole Paganini¹0 (1770-1825). Scorrendo e collazionando elenchi, appunti e inventari della collezione Masseangeli troviamo un salmo di Giulio Sarmiento¹¹ e un Dixit di Francesco Saverio Landri,¹² verosimilmente provenienti dall’archivio della real cappella grazie ai buoni uffici di Capranica. Da un biglietto non datato di Giulio Sarmiento,¹³ che invita l’archivario a «recarsi subito da lui, per conferire d’affari che riguardano il Reale servizio della Cappella» apprendiamo che Capranica ha abitato al Vico de’ Greci n. 11, lungo la strada in cui era (ed è) ubicata la chiesa greco-ortodossa dei SS. Pietro e Paolo, asse che metteva (e mette) in comunicazione l’odierna via Toledo (olim Strada Toledo) con il Largo del Castello, punto di snodo delle attività musicali della cappella palatina, del teatro di San Carlo, delle chiese di San Giacomo degli Spagnoli, di San Ferdinando (che ospita la prima esecuzione della Messa di Gloria).¹4 Sappiamo che Rossini era costantemente al corrente di quanto accadeva nella gestione della real cappella: prova ne sia la lettera del 20 gennaio 1818 a Nicola Tacchinardi,¹5 che viene informato della «piazza vacante» lasciata da Andrea Nozzari, che si sarebbe allontanato da Napoli dal marzo 1818. Il Plan de la ville de Naples stampato da Andrea de Jorio nel 1826 illustra come i luoghi

Parisini-Colombani, Catalogo della collezione d’autografi cit., p. 63. Ivi, p. 264. Ibidem. Ivi, pp. 364-365. Ivi, p. 180. Un Saverio Landri figura come corista nel progetto di riforma del 20 novembre 1826; Rosa Cafiero-Marina Marino, La musica della Real Camera e Cappella palatina di Napoli fra restaurazione e unità d’Italia. II: organici e ruoli (1815-1864), «Studi musicali» 38/1, 2009, pp. 133-205:153. ¹³ Giulio Sarmiento è direttore della musica della real camera e cappella palatina dall’autunno 1824; cfr. Cafiero-Marino, La musica della Real Camera II cit., p. 180. ¹4 Cfr. Jesse Rosenberg, Rossini, Raimondi e la Messa di Gloria del 1820, «Bollettino del centro rossiniano di studi» 35, 1995, pp. 85-102; Rosa Cafiero, Un’istituzione «richiamata all’antico splendore». Il collegio di musica di Napoli nell’età di Rossini (1815-1822), «Accademia nazionale virgiliana di scienze, lettere e arti. Atti e memorie» n. s., 86, 2018, pp. 399-418:415. Fra gli interpreti della messa segnaliamo, attingendo ai diari di John Waldie citati da Sergio Ragni, Mosè Tarquinio, Francesco Rubini, Antonio Ambrogi, Michele Benedetti e Giuseppe Ciccimarra, variamente attivi anche alla cappella reale; cfr. Sergio Ragni, Isabella Colbran – Isabella Rossini, Varese, Zecchini, 2012, p. 453; The Journal of John Waldie Theatre Commentaries, 1799-1830, n. 32 [Journal 45] December 1, 1819-May 23, 1820 https://escholarship.org/uc/item/337260v6. ¹5 Rossini, Lettere e documenti, I, cit., pp. 238-239.

8 9 ¹0 ¹¹ ¹²

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Rosa Cafiero – Marina Marino della musica nelle stagioni rossiniane fossero concentrati in un ideale quadrilatero:¹6 il Teatro di San Carlo (riquadro 87, numero 4), il Teatro dei Fiorentini (riquadro 79, numero 11), il Teatro San Carlino (riquadro 79, numero 12), il Teatro La Fenice nel Largo del Castello (riquadro 79, numero 13), il Palazzo Reale con l’annessa cappella palatina (riquadro 87, numero 3), la basilica di San Francesco di Paola nella Piazza del Real Palazzo (riquadro 86, numero 2).

Figura 1: Andrea de Jorio, Plan de la ville de Naples et ses indications par M.r le Chanoine André de Jorio, 1826 (dettaglio).

¹6 Andrea de Jorio, Plan de la ville de Naples et ses indications par M.r le Chanoine André de Jorio, [Naples], De l’imprimerie française, 1826.

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Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli II Gian Lorenzo Capranica era entrato come convittore al Conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini il 4 luglio 1792 e successivamente la sua permanenza nell’istituto era stata prolungata fino al 1805 ed esentata dal pagamento per il suo servizio come basso e come copista.

Figura 2: Archivio storico del Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli (d’ora in poi CM NA as), Real Conservatorio di Santa Maria della Pietà dei figlioli Turchini, Alunni e convittori, Reg. IV.1.7, c. 2v.: Rollo degli Alunni del Real Cons:rio della Pietà de’ Turchini a piazza franca M.co D. Andrea Mammana Raz:le. Rollo degli Alunni che attualmente esistono nel Real Cons:rio della Pietà de’ Turchini e che tuttavia in esso vengono ammessi. Dal 1809 al 1839 fu presente nell’organico della Cappella Reale di Napoli in qualità di basso del coro¹7 e proposto nel ruolo di custode dell’Archivio delle Carte di musica da Giulio Sarmiento nel piano di riforma della cappella del 1826. Propongo per tale incarico [incaricato della custodia dell’archivio delle carte di musica] il Professore di musica Capranica attuale Corista della Real Cappella, il quale per lungo

¹7 Cfr. Cafiero-Marino, La musica della Real Camera II cit., p. 204.

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Rosa Cafiero – Marina Marino tempo ha rimpiazzato l’inabilità del Vecchio Landi, ed avendone esperimentato un esatto, e preciso servizio, tanto nella Real Cappella, che nella Real Camera, ed un’onestà e delicatezza, e bravura in questa Classe, mi sembra giusto che lo proponga essendo ben noti i suoi servizj, e la sua abilità, merita averne la piazza di Archivario con tutti gli obblighi annessi all’incarico, dandogli D.i 4. per tale incarico, restandogli la piazza di Corista con D.i 8. il mese, potendo bene sotto i miei ordini disimpegnare l’uno, e l’altro incarico.¹8

Come sostenuto dallo stesso Sarmiento Capranica gestiva l’archivio delle musiche della Cappella Reale già da molto tempo prima del 1826 ed è dunque presumibile che ciò accadesse già al tempo della permanenza di Rossini a Napoli. Quale fosse l’esatto corpus di musiche sacre conservato in quell’archivio, e nello specifico quali e quanti Miserere vi fossero, non è dato sapere con certezza. La presenza di numerosi manoscritti provenienti da Casa Reale nella Biblioteca del Conservatorio di musica “San Pietro a Majella” di Napoli può fornire dei suggerimenti ma pur sempre parziali: è noto infatti che molto materiale è stato acquistato da collezionisti ed è confluito in altre biblioteche.¹9 Stando a ciò che risulta proveniente da Casa Reale ed oggi conservato nella Biblioteca del Conservatorio di Napoli l’unico Miserere che poteva trovarsi nell’Archivio della Real Cappella ai tempi della presenza rossiniana a Napoli doveva essere di Paisiello;²0 tuttavia non si esclude che vi fossero anche composizioni di Giacomo Tritto, maestro della Real Cappella negli anni 1816-24 e di Alessandro Speranza, un modello di riferimento imprescindibile per la musica sacra. Prendendo in esame questi due ultimi autori si potrebbe rintracciare quella ‘facilità’ richiesta da Rossini. Il Miserere di Speranza a sei voci rappresenta proprio quella semplicità tanto invocata dalla Chiesa per l’uso delle sole voci accompagnate dal continuo con violoncelli obbligati. ¹8 Progetto per un piano di riforma della cappella proposto da Giulio Sarmiento (20 novembre 1826). Archivio

di Stato di Napoli, Casa Reale Amministrativa III, Categorie diverse 328/8 (ivi, p. 187). ¹9 Fra i tanti visitatori della Biblioteca del Conservatorio di Napoli interessati a copiare e/o ‘prelevare’ i manoscritti delle musiche lì custoditi si ricordi almeno Gustavo Adolfo Noseda sul quale si rimanda a Carla Moreni, Vita musicale a Milano 1837-1866. Gustavo Adolfo Noseda collezionista e compositore, Prefazione di Francesco Degrada, Milano, Quaderni degli Amici della Scala, 1985 (Musica e teatro. Quaderni degli Amici della Scala, I, 1). ²0 Biblioteca del Conservatorio di musica “San Pietro a Majella” di Napoli (d’ora in poi I-Nc), Casa Reale 77.8.4 (136-160) - [collocazione precedente] Mus. Rel. 1290 (1-24). Il fondo di musiche appartenuto alla real camera e cappella palatina di Napoli venne trasferito nella biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella” e inventariato a partire dal 14 febbraio 1949 dall’allora bibliotecaria Anna Mondolfi. Allargando la ricerca dei Miserere a questo inventario si potrebbero aggiungere composizioni di Zingarelli, Salvatore Palumbo, Giulio Sarmiento, Luigi Capotorti, Mercadante. Altri Miserere appartenuti alla cappella palatina sono di Jommelli, Paisiello, Giulio Sarmiento, Perez. Cfr. Rosa Cafiero-Marina Marino, La musica della Real Camera e Cappella palatina di Napoli fra restaurazione e unità d’Italia. I: Documenti per un inventario (1817-1833), «Studi musicali» 19/1, 1990, pp. 133-182.

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Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli

Figura 3: Alessandro Speranza, Miserere a sei voci (I-Nc, Mus. Rel. 3196). Anche il Miserere di Giacomo Tritto presenta una scrittura severa e soprattutto una scarna strumentazione — le sole viole e il continuo — che era una delle principali esigenze della chiesa per la musica di sua pertinenza.²¹

Figura 4: Giacomo Tritto, Miserere (I-Nc, Mus. Rel. 3268). ²¹ Per secoli la Chiesa aveva emanato regolamenti per la musica sacra che raccomandavano un uso limitato degli strumenti, argomento ribadito, insieme ad altri, nella Bolla Annus qui di Benedetto XIV (1749).

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Rosa Cafiero – Marina Marino Non sappiamo se Capranica si fosse adoperato per esaudire la richiesta di Rossini e neanche a quale scopo Rossini avesse fatto una tale richiesta. Molti anni dopo Rossini torna a fare riferimento a un Miserere in un’altra lettera indirizzata a Giovanni Ricordi, Io composi è vero nella mia prima gioventù un Misererino a tre voci senza accompagnamento in Venezia, feci dono del autografo al mio amico conte Grimani che era uno dei tre esecutori né più sentii parlare di questa mediocre mia composizione. Ritengo non essere essa da stamparsi per la soverchia semplicità del lavoro, se poi volete un autografo dippiù io non mi oppongo. [...] Bologna 26 Febbraio 1848

La lettera è citata da Philip Gossett e da Massimo Mila.²² Gossett aggiunge poi che in una stampa di Breitkopf und Härtel del 1831 si trova un Miserere von J. Rossini, una partitura per due tenori, basso, coro, e orchestra. Nessun’altra fonte è conosciuta, esistono quindi dubbi circa l’autenticità. La descrizione del Miserere nella lettera di Rossini a Ricordi parla di tre esecutori, ma secondo Rossini il suo «Misererino» manca dell’accompagnamento. Esiste, però, la possibilità, che questo sia il Miserere giovanile di Rossini. (La quarta sezione, «Asperges me» è scritta per tre voci soliste senza accompagnamento! Forse di qui nasce l’equivoco?).²³

Tale partitura a stampa reca la data 1831 che porrebbe un termine ante quem per la datazione di questo Miserere.²4 Pur avendo osservato la presenza di uno dei brani per tre voci senza accompagnamento appare strano che Gossett non abbia notato che il testo — in quel brano come in tutta la composizione — sia in tedesco.

²² Philip Gossett, Catalogo delle opere, in Luigi Rognoni, Gioacchino Rossini, Torino, Einaudi, 1968, nuova ediz., 1977, p. 468. La stessa lettera, con le medesime informazioni, è riportata da Massimo Mila, Documenti e autografi rossiniani: Un «Miserere» sconosciuto di Rossini, «Nuova Rivista Musicale Italiana» 2/5, 1968, pp. 973-975. ²³ Gossett, Catalogo delle opere cit., p. 468. ²4 Si veda però quanto si dirà più avanti alla nota 29.

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Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli

Figura 5: Gioachino Rossini, Trost und Erhebung, Leipzig, Breitkopf und Härtel, 1831, N° 4, p. 21.

Figura 6: Gioachino Rossini, Miserere, Terzetto Asperges me (I-Mc Noseda Z.17.12b, c. 12v). 173


Rosa Cafiero – Marina Marino Una esecuzione della cantata Trost und Erhebung²5 a Praga il 22 aprile 1832 è attestata da una recensione che riferisce di due degli interpreti, un soprano e un basso/baritono.²6 Due copie manoscritte di questa composizione sono conservate presso la biblioteca del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano:²7 in entrambi i casi la musica è la stessa di quella stampata dalla casa di Lipsia, ma il testo, pur se con qualche variante, è quello del salmo in latino. Per la prima copia nella relativa scheda è scritto «riconoscibile la mano di Peter Lichtenthal»,²8 la seconda è di mano di Guglielmo Stehle e reca la data 5 dicembre 1868, pochi giorni dopo la morte di Rossini. Luca Aversano ha dimostrato che Lichtenthal fornì nel 1828 la sua copia di questo Miserere all’editore Breitkopf und Härtel che se ne servì per l’edizione a stampa, con testo tedesco, del 1831.²9 Queste fonti sono ormai note e sono servite alle moderne esecuzioni di cui alla nota 27. Nell’opuscolo allegato al cofanetto del 2009 Edoardo Brizio scrive: Presso il Fondo Noseda assorbito dalla Biblioteca del Conservatorio di Milano, esiste il manoscritto di un «Miserere per Canto e Orchestra - Partittura (sic!) conforme all’originale del Maestro Gioachino Rossini copiata dall’originale da me Stehle Guglielmo il 5 dicembre 1868».³0

Brizio, dopo aver considerato l’attendibilità di Stehle, già copista di altri lavori rossinia²5 Letteralmente Consolazione ed elevazione, il titolo completo sul frontespizio recita Trost und Erhebung, ²6

²7

²8 ²9 ³0

Kantate nach einem Miserere. Musikalische Akademie, «Boemia, oder Unterhaltungsblätter für gebildete Stände» n. 50, 24 aprile 1832. I cantanti citati sono Kathi Cometta, nota come Katharina Kometova-Podhorska, soprano (cfr. Edith Császár Mályusz, The Theater and National Awakening, Budapest, Hungarian National Foundation, 1980, p. 209) e Karel Strakaty, basso/baritono (cfr. D. Kern Holoman, Berlioz. A musical biography of the creative genius of the Romantic era, Cambridge MA, Harvard University Press, 1989, p. 330). Evidentemente una o entrambe le parti di tenore erano state affidate a voci di soprano. I-Mc Noseda Z 17-12 a; Z 17-12 b. Di tale composizione si conoscono almeno due incisioni discografiche: Stefano Sacher direttore, Gruppo polifonico Claudio Monteverdi, Udine, Nota 2001; Edoardo Brizio direttore, Orchestra e coro Filarmonico di Praga, José Antonio Campo, Vladimir Dolezal (tenori), Jiri Kalendovsky (basso), contenuto nell’album Gioachino Rossini, Tu le sais bien, mon Dieu, Musica sacra inedita e rara per soli, coro e orchestra, Multimedia San Paolo/Zebralution, 2009; il solo Ecce enim poi è incluso in un disco di musica sacra di Rossini eseguita dalla Kaunas Chamber Orchestra e dal Kaunas Chamber Chorus diretti da Silvano Frontalini, Halidon/Musical Dorica, 2014. Si rimanda a Mariangela Donà, Peter Lichtenthal musicista e musicologo, in Ars iocundissima, Festschrift für Kurt Dorfmüller zum 60. Geburstag, hrsg. von Horst Leuchtmann und Robert Münster, Tutzing, Schneider, 1984, pp. 49-63. A questo proposito e in generale sui rapporti fra Lichtenthal e la cultura germanica in Italia si veda il saggio di Luca Aversano, Il commercio di edizioni e manoscritti musicali tra Italia e Germania nel primo Ottocento (1800-1830), «Fonti musicali italiane» 4, 1999, pp. 113-160: 132-133. Opuscolo allegato al cofanetto citato alla nota 27, p. 43.

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Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli ni, senza tuttavia fare alcun riferimento all’altra copia milanese redatta da Lichtenthal, prosegue «La seria origine della fonte, in parte confermata dall’edizione tedesca, non smentita da Rossini, imponeva un attento esame del manoscritto».³¹ Nell’attribuire al periodo giovanile di Rossini tale composizione, Brizio ne elogia l’unità stilistica e l’adeguamento al testo. Ci troviamo perciò di fronte ad un lavoro di notevole livello, certo non inferiore a quello dei migliori prodotti giovanili di Rossini. […] È assai difficile ipotizzare, una volta ammessane l’autenticità, una data della composizione; anche se indubbiamente si tratta di lavoro giovanile. Non è però da ritenersi opera della “primissima gioventù”, ma piuttosto dei primi anni dell’attività teatrale, perché molti elementi fanno pensare ad una mano più esercitata in tal direzione Anzitutto il distacco totale dai moduli di accompagnamento antiquati che ancora troviamo in alcuni brani del 1808; poi la maestria nell’uso dei recitativi con orchestra; ed infine quel raffinato gusto del chiaroscuro che solo un’acquisita familiarità col teatro poteva conferire. In base a queste considerazioni il lavoro potrebbe datarsi tra il 1810 e il 1813, nel periodo cioè in cui il ventenne Rossini stava per divenire il nuovo idolo della musica italiana.³²

Un’esecuzione moderna del Miserere avvenne a Stuttgart nel 1999 con la direzione di Guido Johannes Joerg.³³ Questi evidenziò nelle successive opere Otello e Semiramide diverse suggestioni provenienti dalla composizione sacra giovanile che, come sosteneva lo stesso Rossini nella lettera a Ricordi, fu donata al conte Filippo Grimani.³4 Il Miserere è diviso in nove sezioni. 1. Introduzione: coro e soli. Andante, C, Mib magg., vl1, vl2, vla, ob1, ob2, cr, fg, T1, T2, B, vlc, cb Miserère mei, Deus, secùndum magnam misericòrdiam tuam. Et secùndum multitùdinem miseratiònum tuàrum, dele iniquitàtem meam. ³¹ Ibidem. ³² Ivi, p. 44. ³³ Luca Aversano ha recensito tale esecuzione: «La Gazzetta. Zeitschrift der Deutschen Rossini Gesellschaft» 7, 1997, pp. 19-20. ³4 Guido Johannes Joerg, Zur Wiederentdeckung von Gioachino Rossinis einziger geistlicher Kantate, dem Miserere für Solostimmen, Männerchor und Orchester, «La Gazzetta. Zeitschrift der Deutschen Rossini Gesellschaft» 7, 1997, pp. 4-7. Lo stesso Joerg ha curato l’edizione a stampa della partitura per Carus-Verlag, Stuttgart 40.805 nel 1998.

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Rosa Cafiero – Marina Marino 2. Recitativo: Basso Allegro, C, Sib magg., vl1, vl2, vla, B, cb Angelus³5 lava me ab iniquitàte mea, et a peccato meo munda me. Quòniam iniquitàtem meam ego cognòsco, et peccàtum meum contra me est semper. 3. Aria: Basso Allegro, C, do magg., vl1, vl2, vla, B, cb Tibi soli peccavi Et malum coram te feci Ut justificeris in sermonibus tuis Et vincas cum judicaris tibi. 4. Coro Moderato, ¾, fa magg., vl1, vl2, vla, ob, cr, fg, T1, T2, B, cb Ecce enim in iniquitàtibus concèptus sum, et in peccàtis concèpit me mater mea. Ecce enim veritàtem: incèrta et occùlta sapièntiae tuae manifestàsti mihi. 5. Terzetto senza strumenti Adagio, 2/4, la magg., T1, T2, B Aspèrges me hyssòpo, et mundàbor; lavàbis me, et super nivem dealbàbor. 6. Recitativo: Tenore 1 e 2 Andante, 6/8; C, re magg., vl1, vl2, vla, T1, T2, cb Audìtui meo dabis gàudium et laetìtiam, et exsultàbunt ossa humiliàta. Avèrte fàciem tuam a peccàtis meis, et omnes iniquitàtes meas dele. ³5 Il testo originale del salmo prevede Amplius anziché Angelus. Anche nei versi successivi il testo è modificato rispetto all’originale con alcuni spostamenti di emistichi e con il taglio di alcune parole.

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Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli 7. Duetto: Tenore 1 e 2 Andante, C, sib magg., vl1, vl2, vla, ob, cr, T1, T2, cb Cor mundum crea in me, Deus, et spìritum rectum ìnnova in viscèribus meis. Ne proìcias me a fàcie tua, et Spìritum sanctum tuum ne àuferas a me. Redde mihi laetìtiam salutàris tui, et spìritu principàli confìrma me. Docèbo inìquos vias tuas, et ìmpii ad te convertèntur. Lìbera me de sanguìnibus, Deus, Deus salùtis meae: et exsultàbit lìngua mea justìtiam tuam. 8. Coro Moderato maestoso, C, sol magg., vl1, vl2, vla, fg, T1, T2, B, cb Dòmine, làbia mea apèries, et os meum annuntiàbit làudem tuam. Quòniam, si voluìsses sacrifìcium, dedìssem ùtique: holocàustis non delectàberis. 9. Finale: Tenore 1 e coro Andante, C, do min., vl1, vl2, vla, ob, cr, T solo, T1, T2, B, cb Sacrifìcium Deo spìritus contribulàtus: cor contrìtum et humiliàtum, Deus, non despìcies. Il primo autoimprestito si può notare fra l’inizio del n. 1, Miserere (figura 7) e l’introduzione, a partire dalla quarta battuta, del III atto dell’Otello del 1816 (figura 8 a-b): tonalità, tempo e orchestrazione, escluso il movimento ritmico di violoncelli e contrabbassi, sono perfettamente coincidenti.

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Rosa Cafiero – Marina Marino

Figura 7: Gioachino Rossini, Miserere (I-Mc, Noseda Z 17-12 a, c. 1v).

Figura 8a: Gioachino Rossini, Otello, Atto III (I-Nc, 31.5.32, c. 96r). 178


Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli

Figura 8b: Gioachino Rossini, Otello, Atto III (I-Nc, 31.5.32, c. 96v). Questo e altri rimandi all’Otello (1818) e alla Semiramide (1823), già evidenziati da Guido Johannes Joerg come si è detto precedentemente, collocherebbero la composizione del Miserere delle due copie milanesi ad un periodo antecedente il 1818.³6 L’intera composizione possiede una sua organicità per i collegamenti tonali fra le sezioni con l’esclusione del terzettino a sole voci: il numero precedente (4, Ecce enim) infatti termina su fa maggiore e il successivo attacco alla tonalità lontana di la maggiore farebbe sembrare forzata l’inclusione di tale brano. In un’alternanza di cori, arie, pezzi d’insieme, spiccano anche i due recitativi obbligati di pregevolissima fattura. Un altro Miserere di Rossini, il cui manoscritto si conserva nella Biblioteca musicale “Greggiati” di Ostiglia, consiste nelle partiture e parti di quattro brani:³7

³6 Joerg ipotizza come data di composizione del Miserere il 1813, anno in cui Rossini aveva composto per lo stesso Filippo Grimani un Quoniam e l’aria da concerto Alle voci della gloria. Cfr. Guido Johannes Joerg, Zur Wiederentdeckung von Gioachino Rossinis cit., p. 5. ³7 Ostiglia, Biblioteca musicale Giuseppe Greggiati, Mss. Mus. B 931/1-4. Un ringraziamento speciale va alla responsabile della biblioteca “Greggiati” dott.ssa Elisa Superbi.

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Rosa Cafiero – Marina Marino 1. Terzettino con coro Andante mosso, 3/8, sol min., vl1, vl2, vla, fl, cl1, cl2, cr1, cr2, fg, tr, trb, T1, T2, B, cb Aspèrges me hyssòpo, et mundàbor; lavàbis me, et super nivem dealbàbor. Audìtui meo dabis gàudium et laetìtiam, et exsultàbunt ossa humiliàta. 2. Duettino con coro Andante affettuoso, ¾, sol magg., vl1, vl2, vla, fl, cl1, cl2, cr1, cr2, fg, T, B, cb Avèrte fàciem tuam a peccàtis meis, et omnes iniquitàtes meas dele. Cor mundum crea in me, Deus, et spìritum rectum ìnnova in viscèribus meis. Ne proìcias me a fàcie tua. 3. Coro Allegro moderato, C, re magg., vl1, vl2, vla, fl, cl1, cl2, cr1, cr2, tr1, tr2, T, B, cb Dòmine, làbia mea apèries, et os meum annuntiàbit làudem tuam. Quòniam, si voluìsses sacrifìcium, dedìssem ùtique: holocàustis non delectàberis. 4. Coro Largo, C, do min., vl1, vl2, vla, fl1, fl2, cl1, cl2, cr1, cr2, tr1, tr2, fg, T, B, cb Sacrifìcium Deo spìritus contribulàtus: cor contrìtum et humiliàtum, Deus, non despìcies. Benìgne fac, Dòmine, in bona voluntàte tua Sion, ut aedificèntur muri Jerùsalem. La presenza delle parti ricondurrebbe ad una o più esecuzioni, probabilmente in area lombarda, tuttavia le fonti rimaste risultano frammentarie ed inoltre differenti numerazioni sui frontespizi farebbero pensare a pezzi staccati provenienti da un corpus manoscritto più ampio allo stato attuale disperso. 180


Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli

Figura 9: Gioachino Rossini, Miserere (I-OS, Mss. Mus. B 931/1, c. 1r). Un’aggiunta a matita reca il nome dell’adattatore, Luigi Anelli.³8 Come si può osservare confrontando la successiva figura 10 che riproduce l’inizio dell’Asperges me, con il corrispondente brano del Miserere milanese (figure 5 e 6) si tratta di una composizione del tutto diversa.

Figura 10: Gioachino Rossini, Miserere (I-OS, Mss. Mus. B 931/1, c. 2r). ³8 Luigi Anelli, vissuto fra il 1813 e il 1854, è un copista menzionato in numerose partiture manoscritte conservate presso la Biblioteca musicale Giuseppe Greggiati di Ostiglia. Da lui il sacerdote Giuseppe Greggiati acquistò molto materiale ora conservato in quella biblioteca.

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Rosa Cafiero – Marina Marino Le parti di questo brano sono: tenore primo di concerto, tenore secondo di concerto (due parti), basso cantante di concerto, primo tenore di ripieno, secondo tenore di ripieno (due parti), basso di ripieno (due parti), violino primo (quattro parti), violino secondo (due parti), viola, flauto, clarinetto, corno primo, corno secondo, fagotto, contrabbasso (due parti), organo. Mancano le parti di tromba e trombone indicate in partitura per la parte del ‘tutti’. Il secondo brano è un duettino con coro su Averte faciem.

Figura 11: Gioachino Rossini, Miserere (I-OS, Mss. Mus. B 931/2, c. 1r). Come si può osservare nell’angolo superiore destro del frontespizio della partitura qui sotto ingrandito

Figura 12: Gioachino Rossini, Miserere (I-OS, Mss. Mus. B 931/2, c. 1r, particolare). 182


Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli il brano doveva forse contenere anche la parte testuale relativa ai due successivi versetti del salmo Redde mihi laetìtiam salutàris tui, et spìritu principàli confìrma me e Docèbo inìquos vias tuas, et ìmpii ad te convertèntur. Le parti di questo brano comprendono: tenore primo di concerto, basso cantante di concerto, tenore primo di ripieno, tenore secondo di ripieno (tre parti), basso di ripieno (tre parti), violino principale, primo, violino secondo (due parti), flauto, clarinetto primo, clarinetto secondo, corno primo e secondo, fagotto, contrabbasso (due parti), organo.

Figura 13: Gioachino Rossini, Miserere (I-OS, Mss. Mus. B 931/3, c. 1r). Le parti di questo brano comprendono: tenore di concerto, basso di concerto, tenore secondo di ripieno (due parti), basso di ripieno (due parti), violino primo (tre parti), violino secondo (due parti), viola, flauto, clarinetto primo, clarinetto secondo, corno primo e secondo, tromba prima e seconda, trombone, fagotto, contrabbasso (tre parti), organo. 183


Rosa Cafiero – Marina Marino Il testo delle parti non corrisponde a quello presente in partitura. Prima dei versetti Dòmine, làbia mea apèries, et os meum annuntiàbit làudem tuam. Quòniam, si voluìsses sacrifìcium, dedìssem ùtique: holocàustis, si òffero, non delectàberis. è riportato il versetto precedente del salmo Lìbera me de sanguìnibus, Deus, Deus salùtis meae: et exsultàbit lìngua mea justìtiam tuam. La parte melodica delle voci, pur con qualche variante ritmica dovuta alle parole diverse, è la stessa in partitura e nelle parti.

Figura 14: Gioachino Rossini, Miserere (I-OS, Mss. Mus. B 931/4, c. 1r). Le parti di questo brano comprendono: tenore primo di ripieno, tenore secondo di ripieno (due parti), basso (due parti), violino principale, violino primo, violino secondo (due parti), trombone, organo, flauto primo e secondo, clarinetto primo, clarinetto secondo, corno primo, corno secondo, tromba, fagotto, contrabbasso. Per i due Miserere qui esaminati gli organici vocali per soli tenori e bassi — per un Rossini che caldeggiava l’uso delle voci femminili nella musica sacra³9 — farebbero pensare ³9 A tale scopo Rossini aveva scritto al papa Pio IX; cfr. Stefano Alberici, Rossini e Pio IX alla luce di documenti inediti dell’Archivio segreto vaticano, «Bollettino del centro rossiniano di studi» 17, 1977, pp. 5-35.

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Gioachino Rossini e la musica della real cappella palatina di Napoli ad una commissione in un ambiente ecclesiastico in cui le norme pontificali erano strettamente osservate. La musica religiosa […] non è più, necessariamente, musica destinata in forme precostituite alla funzione liturgica o cultuale; in altri termini, l’identità di forma, contenuto e funzione, talora ormai assente, talaltra vana, non vale più ad individuare con sicurezza l’intento espressivo dell’autore o dell’opera, al di là peraltro di qualunque considerazione assiologica sul singolo brano.40

La composizione di musica sacra in Rossini si orienta spesso verso occasioni extra-liturgiche — celebre il caso della Petite messe solennelle4¹ — che permettevano ogni deroga ai dogmi ecclesiastici. Tali dogmi non venivano tuttavia osservati scrupolosamente ovunque, al di fuori dello stato pontificio molte regole erano ignorate o aggirate. Nel Rapporto intorno la Riforma della musica di Chiesa del 1839 Gaspare Spontini si rivolgeva all’ambiente romano e chiedeva, in merito alla questione dell’impiego dei registri vocali, di poter istituire in ogni dove delle Scuole di Canto per i giovanetti Soprani e Contralti che divengono poi Tenori e Bassi, come si praticò nei secoli passati, chiamate allora Scuole di Putti […] Altrimenti la buona, la vera musica di Chiesa sarà per sempre perduta giacché meglio saria di sbandirla interamente dalle Chiese, piuttosto che di continuarla così miseramente co’ soli Tenori e Bassi.4²

Pochi mesi dopo Spontini avrebbe sottoposto il progetto al ministro dell’interno del Regno delle due Sicilie (Niccolò Santangelo) sperando in una sua applicazione sull’onda dell’entusiasmo per essere stato insignito (l’8 marzo 1839) della croce di cavaliere del Real Ordine di Francesco Primo;4³ ne parla all’amico Guillaume Cottrau in una lettera del 2 maggio seguente:

40 Francesco Rimoli, Del sacro in Rossini: divagazioni soggettive sull’oggettività in musica, «Bollettino del centro rossiniano di studi» 27, 1987, pp. 25-43: 27. 4¹ La prima esecuzione della Petite messe solennelle avvenne in forma privata in casa della contessa Louise Pillet-Will, alla presenza di pochi amici. 4² Il manoscritto Rapporto intorno la Riforma della musica di Chiesa di Spontini è pubblicato in Remo Giazotto, Quattro secoli di storia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, II, Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, 1970, pp. 472-473. 4³ Cfr. «Gazzetta piemontese» n. 79, 8 aprile 1839. Nel dicembre 1838 era stato decorato a Roma «dell’insigne pontificio ordine di S. Gregorio Magno».

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Rosa Cafiero – Marina Marino Monsieur Guglielmo Cottrau […] Vous aurez sans doute reçu la lettre que je vous ai adressée de Civitavecchia pour M.r Sarmiento. Dans celle-la je réitère mon extrême désir que, par la médiation de l’excellentissimo Mons.r votre Beau-père auprès de S. Exc. Mon.r le Ministre de l’Intérieur, qui m’a honoré d’un bienveillance distinguée, mon Plan de Réforme de la musique d’église soit adopté et exécuté dans les états des Deux-Siciles: l’essentiel, à cet effet, est de la soumettre au jugement éclairé du Ministre qui doit en faire le rapport à Sa Majesté.44

Il progetto di Spontini non venne realizzato a Roma e tanto meno a Napoli dove tuttavia la musica sacra della cappella palatina non era mai stata costretta a ripiegare sulle sole voci maschili avendo sempre avuto negli organici donne durante il periodo francese e castrati in tutte le altre epoche fino all’unità d’Italia.45

44 Guillaume Louis Cottrau, Lettres d’un mélomane pour servir de document à l’histoire musicale de Naples de 1829 à 1847 avec une préface de F. Verdinois, Naples, Morano, 1885, p.75 (lettera da Napoli, 2 maggio 1839). 45 Cafiero-Marino, La musica della Real Camera II cit.

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Loredana Palma Echi rossiniani nella stampa periodica degli anni Trenta dell’Ottocento

Dopo la partenza di Rossini dalla capitale borbonica nel 1822, la stampa periodica napoletana mantenne intatta negli anni un’incondizionata ammirazione per il Maestro, che trovò modo di esprimere soprattutto in occasione delle ripetute messe in scena delle sue opere. Ancora nel corso degli anni Trenta, infatti, era possibile leggere nei giornali locali parole di lode all’indirizzo del Pesarese e di rammarico per il prolungarsi del suo silenzio dopo la composizione del Guglielmo Tell. La celebrazione del genio rossiniano emergeva talvolta anche in un solo aggettivo calato tra le scarne righe delle cronache teatrali. Così, ad esempio, nell’«Omnibus» – un giornale fondato nel 1833, che divenne in breve tempo, grazie al direttore Vincenzo Torelli, un autorevole punto di riferimento per quanto veniva portato sui palcoscenici di mezza Europa –, a proposito di una nuova rappresentazione rossiniana, si legge: «Napoli à potuto nuovamente sentire la sublime musica del Guglielmo Tell».¹ E sempre nell’«Omnibus», per limitarci al solo primo anno di vita del giornale, troviamo puntuali annotazioni a proposito delle rappresentazioni rossiniane tanto in Italia² quanto in altre città europee come Vienna³ o Parigi.4 ¹ Teatri. Teatro S. Carlo, «L’Omnibus» I/12, 18 maggio 1833, p. 47. ² Cfr. «L’Omnibus» I/7, 13 aprile 1833, pp. 27-28 (sul Guglielmo Tell al Teatro San Carlo); I/8, 20 aprile 1833,

³ 4

p. 32 (su Otello); I/30, 21 settembre 1833, p. 120 (su Otello, a Palermo); I/37, 9 novembre 1833, p. 148 (aneddoto riportato dal «Gondoliere» sulla prima rappresentazione del Barbiere di Siviglia); I/38, 16 novembre 1833, p. 152; I/39, 23 novembre 1833, p. 156 (a proposito della Malibran, di Otello e Gazza ladra). «Il Guglielmo Tell di Rossini fu rappresentato per la prima volta al Teatro della Josephstadt, a beneficio del Cantante sig. Pock. Questa Opera si distinse come uno dei migliori spettacoli di quel teatro ed ottenne il più brillante successo» («L’Omnibus» I/42, 14 dicembre 1833, p. 168). «Il pubblico sembrava non disposto ad applaudire alla rappresentazione del 2 novembre quando venne il duetto Parlar ec. a rianimare l’entusiasmo. È impossibile l’imaginare cosa più meravigliosa della esecuzione di questo duetto. Tamburini e Rubini sono sempre ammirabili. La Ungher canta con molto gusto ed espressione. La giovane e vezzosa madamigella Shutz è stata applaudita alla sua aria del secondo atto. Santini à sostenuto convenevolmente la parte di Mosè» (Rivista teatrale. Parigi. Teatro italiano. Mosè di Rossini, «L’Omnibus» I/41, 7 dicembre 1833, p. 164); «È stata rappresentata l’Italiana in Algeri del maestro Rossini. Le parti principali di questa opera sono state eseguite da madamigella Ungher (Isabelle) Rubini (Lindoro) Tamburini (Mustafà) Santini (Taddeo). Il pubblico ha moltissimo applaudito» («L’Omnibus» I/43, 21 dicembre 1833, p. 172).

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Loredana Palma Quando Rossini mancava ormai da più di un decennio dalla città partenopea, il «Poliorama Pittoresco» pubblicò lo spartito di un’arietta inedita del Maestro,5 fatto che appare ancora più eclatante se consideriamo che una siffatta pagina musicale era destinata a rimanere un unicum nella storia del giornale.6 Anche «La Moda», appendice dello stesso «Poliorama», ci offre una significativa testimonianza del rimpianto che il Pesarese aveva lasciato dietro di sé nella capitale borbonica recensendo nel 1839 una rappresentazione dell’Otello, portata in scena al San Carlo da Bernardo Winter e Francilla Pixis. L’articolo, nell’esprimere le proprie riserve su questi cantanti che giudica, nonostante i loro sforzi, non ancora «a livello dell’altezza di questo capolavoro di Rossini»7, traccia un ritratto del carattere che un interprete rossiniano deve possedere: Delle musiche Rossiniane soprattutto esser non può vero interprete se non colui che agitato da forti passioni abbia ad esse sì devote le fibre che la sua voce, il suo sguardo, ogni suo minimo gesto ogni respiro sia canto e canto solenne.8

Napoli dunque mantenne, anche a distanza di anni dal suo allontanamento, un legame privilegiato con il musicista. Non sorprende, perciò, come il breve rientro di Rossini nella città partenopea nell’estate del 1839 avesse potuto suscitare un così vasto clamore nella stampa periodica locale. Tra i primi a segnalare la notizia dell’arrivo a Napoli del Maestro troviamo «Il Lucifero» che saluta Rossini come il «massimo de’ viventi compositori di musica»9 e gli ricorda i debiti da lui contratti nei confronti della città partenopea che si vantava di avergli offerto, con le sue bellezze paesaggistiche, il clima ideale per la composizione delle opere migliori del suo repertorio. L’autore dell’articolo, infatti, sostiene che Rossini si fosse ispirato «principalmente alla luce di questo cielo, sotto il quale compose la maggiore e forse la miglior parte de’ suoi melodrammi».¹0 Dopo aver enumerato i frutti della prolifica stagione rossiniana a Napoli - Elisabetta, Armida, Ricciardo e Zoraide, Zelmira, Mosè in Egitto, La Donna del lago, Maometto Secondo, tutti rappresentati al San Carlo, nonché Otello, andato in scena al Fondo -, il giornalista non perde occasione di sottolineare il legame profondo della capitale borbonica con il musicista: Ecco tale avvenimento che tutti i nostri giornali non potrebbero tacer senza colpa ai loro

5 6 7 8 9 ¹0

Cfr. Musica, «Poliorama Pittoresco» I/13, 12 novembre 1836, pp. 99-100. Cfr. Massimo Privitera, Musica nel “Poliorama Pittoresco”, «TeCLa» 2, 29 dicembre 2010, pp. 26-49. Real Teatro S. Carlo. Otello, «La Moda» I/6, 20 luglio 1839, p. 23. Ibidem. Gioacchino Rossini, «Il Lucifero» II/21, 3 luglio 1839, p. 168. Ibidem.

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Echi rossiniani nella stampa periodica degli anni Trenta dell’Ottocento lettori. Di breve sulle scene di S. Carlo verrà ripetuto, presente l’autore, il Moro di Venezia. I Napoletani ritroveranno così pel gran Pesarese le splendide corone che allora gli offrirono e che non dovevano appassire giammai.¹¹

Pochi giorni dopo, il 13 luglio, nel «Poliorama Pittoresco» vennero pubblicate due liriche dedicate al ritorno di Rossini a Napoli: un sonetto di Pasquale Francesconi¹² e un’ode di Lorenzo Morgigni,¹³ intitolata A Gioacchino Rossini. Nel primo si celebra la venuta del musicista come una discesa dalle Alpi ben diversa da quelle a cui l’Italia era ormai tristemente adusa. La tromba che accompagna metaforicamente l’arrivo del compositore stavolta non è foriera di lutti e di terrore bensì è «un suon che desta i più sublimi affetti, / che ne infiamma alla gloria ed all’onore / ed infonde nuov’anima ne’ petti».¹4 L’accostamento di Rossini, salutato come gloria patria, alle vicende dell’Italia risorgimentale appare più esplicito nell’ode di Morgigni, dove torna – come nel «Lucifero» – il tema della dolcezza dei lidi partenopei, cari al Maestro, con l’auspicio che il soggiorno napoletano possa risvegliare in lui «l’addormentato [...] Genio sovrano».¹5 Segue il rimprovero per la dimora parigina, ritenuta causa del prolungato silenzio del musicista, che viene così stigmatizzata: Troppo, ahimé, la incantevole Molle Parigi te lusinga, e troppo Tu cedi a sue blandizie! Ell’è, no’l vedi? ell’è a tua gloria intoppo. ¹6

Infine, dopo aver celebrato alcuni dei capolavori rossiniani (l’Otello, la Semiramide, Mosè, La donna del lago, il Barbiere e il Guglielmo Tell), la lirica si conclude con un caldo invito al musicista a ripagare la Terra della lunga attesa di una sua nuova opera: […] cupida Chiede la Terra a te nuovi portenti. Pensa chi sei, che immenso Darle tu dei dell’ozio tuo compenso.¹7

¹¹ ¹² ¹³ ¹4 ¹5 ¹6 ¹7

Ibidem. Pasquale Francesconi, Il ritorno di Rossini a Napoli, «Poliorama Pittoresco» III/48, 13 luglio 1839, p. 379. Lorenzo Morgigni, A Gioacchino Rossini, «Poliorama Pittoresco» III/48, 13 luglio 1839, p. 379. Francesconi, Il ritorno di Rossini a Napoli cit. Morgigni, A Gioacchino Rossini cit. Ibidem. Ibidem.

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Loredana Palma Nel numero successivo del 20 luglio, un articolo di Cesare Malpica, Rossini nella villa Barbaja a Posillipo, insisteva su temi analoghi a quelli visti finora: decantava la dolcezza dei luoghi (e, in particolar modo, di Posillipo), esaltava lo stile innovativo del musicista e sottolineava la calorosa accoglienza a lui tributata dal popolo napoletano. Consequenziale era l’invito a tornare alla composizione e a riconciliarsi con la città definita «madre che ti nutrì infante, e ti salutò immenso».¹8 Più aspro, invece, risultava il biasimo di Malpica nei confronti dei rivali francesi, da lui ritenuti irriconoscenti e beffardi mistificatori della superiorità del genio italiano: Oltre que’ monti v’ha una terra che da noi ebbe il sole delle scienze, da noi la scintilla delle arti, da noi la grandezza e le forme de’ monumenti. Poi queste cose tolte agl’Italiani fece sue, e negando donde venivano insultò al duolo de’ donatori, li schernì li offese. Chiamò barbara la terra che avea dirozzati i barbari!... Nuotante nell’oro delle conquiste e del commercio, volle anche far suo il nostro Genio. Ma il genio non si compra. Se i denari lo ispirassero o lo creassero i ricchi sarebbero i dominatori del mondo morale, come lo sono del mondo materiale. Rossini andovvi: ma qui erano le sue ispirazioni, qui le testimonianze de’ suoi prodigi, qui il popolo che lo avea compreso. Gli stranieri fan le viste d’intendere a fondo i nostri Grandi. Non ne credete nulla. Noi che li produciamo sappiamo soltanto sentirli.¹9

Quelle pubblicate nel «Poliorama» non furono le uniche liriche apparse nei giornali napoletani in occasione del breve rientro in città del compositore. «L’Omnibus», ad esempio, dedicò una cronaca alla visita di Rossini al Conservatorio di Musica soffermandosi sull’inno – composto da Leopoldo Tarantini e musicato da Giuseppe Puzone – cantato dagli allievi della prestigiosa istituzione per omaggiare l’illustre ospite. Nell’articolo, a firma di Vincenzo Torelli, si insiste sulla suggestione esercitata su quei giovani dall’incontro con un modello eccelso quale Rossini: Il Gran Maestro gradì sentitamente quell’omaggio, e gli giunse al cuore il voto festivo e di gloriosa ammirazione, che partiva da giovani ardenti, in cui sta il germe d’una gloria né nuova né straniera, e che non vuol altro per svilupparsi che una gran meta, in cui giurare ed ispirarsi; e certo che nessuna meta più alta e gloriosa di Rossini.[..] E se de’ nostri giovani si potessero concretare in parole i varii sensi e voti nel cantare le lodi e la gloria di Rossini, certamente nessuno si vedrebbe voler esser da meno di lui, e tutti guardare all’immenso uomo, come alla stella, al sole, al Cielo della loro vita.²0

¹8 Cesare Malpica, Rossini nella villa Barbaja a Posillipo, «Poliorama Pittoresco» III/49, 20 luglio 1839, pp. 385-397: 387. ¹9 Ibidem. ²0 T.[orelli], Attualità. Visita di Rossini al R. Conservatorio di Musica, «L’Omnibus» VII/13, 27 luglio 1839, p.

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Echi rossiniani nella stampa periodica degli anni Trenta dell’Ottocento Analoga è l’emozione che traspare dalle parole con cui un altro giornalista emergente, Achille de Lauzières, raccontava ai lettori del «Salvator Rosa» l’aneddoto di un incontro tra Rossini e il giovane Pasquale De Virgiliis, l’uno intento ad ascoltare l’esordiente poeta leggere per intero il suo Sardanapalo, l’altro timoroso di abusare della disponibilità del Maestro che invece lo incoraggiava a fargli sentire quel libretto da cima a fondo. Ma perché mai – si interroga de Lauzières – darsi «l’impaccio di trasportar questo fatto da un gabinetto privato sur un pubblico foglio»?²¹ Per esaltare la grandezza del Maestro – si risponde - che, come tutti i veri geni, si distingue per essere prodigo di consigli con i giovani e per il desiderio di lasciare dietro di sé dei successori. Anche de Lauzières ritiene che la terra partenopea sia stata fonte di ispirazione per il genio rossiniano e considera, perciò, maggiormente inaccettabile il prolungato silenzio del compositore: Eppure allora un pensiero malinconico mi veniva in mente: – se Egli non si è invogliato qui a rannodar il filo delle sue creazioni, dove più mai potrà ispirarsi! – È inconcepibile! Poter fare de’ capolavori a colpo sicuro e starne inerte… Ah! Rossini, chi potrà mai perdonarti questo peccato!²²

Non venne meno al coro di celebrazioni in versi nemmeno l’«Omnibus» che, nel numero del 3 agosto, pubblicava un sonetto, siglato N. N. e intitolato L’Italia a Gioacchino Rossini. In questa lirica la Patria in persona si lamenta di come l’allontanamento del figlio l’abbia lasciata alla mercé di musicisti di ben altro calibro ed auspica che, dinanzi al Maestro, invocato come «Creator di arcana melodia», possa finalmente tacere quella «rea genia» che aveva svilito la sua anima e il suo onore: Va figlio, dissi quando a lidi novi, A gloria nova ti chiamò Fortuna; Va figlio, dissi, e rammentar ti giovi La vaga terra che ti diè la cuna! Or tu ritorni a rivedermi! e provi Tristezza, ché mia gloria omai s’imbruna! Dispersi i figli miei, qui sol ritrovi Per discorde armonia ciurma importuna! O Creator di arcana melodia, Che move e scalda ogni agghiacciato core; 52. L’articolo è pubblicato in appendice al presente saggio. ²¹ A.[chille] de Lauzières, Attualità. Una lettura a Rossini, «Salvator Rosa» I/44, 8 settembre 1839, pp. 349351: 350. ²² Ibidem.

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Loredana Palma E molce l’alma alla pietà restia, Se per la Madre tua nutrisci amore, Per te si ammutì questa rea genia, Che invilì l’alma e mi bruttò l’onore!!²³

Neppure «La Moda» lasciò passare sotto silenzio il rientro a Napoli di Rossini pubblicando in quegli stessi giorni un ritratto del Pesarese – opera di Filippo Molino –, accompagnato da alcuni versi di Francesco Ruffa in lode del compositore. Al pari delle altre, anche questa lirica rivolge al Maestro la preghiera di uscire finalmente dal suo imperdonabile ozio e di dare nuove musiche al mondo in trepidante attesa: De’ portenti che un secolo Nel declinar portava, unico avanzi; E il sente il mondo, e cupido Di tue nuove armonie ti sta dinanzi, E con le lodi, ond’usa Altre esaltarne, il tuo silenzio accusa. Un Silla, un Carlo all’ozio Riedan: quell’ozio all’universo è pace. Ma colpa è il tuo che il frauda D’ampio tesor di voluttà verace… Puoi dormir su le palme?²4

La lirica si conclude con l’invito a restare in Italia, terra dove spira un’aura propizia alla creatività rossiniana: Resta in Italia.²5 Armoniche Qui sono, il sai, l’aura le piagge e l’onde;

²³ N.N., L’Italia a Gioacchino Rossini. Sonetto, «L’Omnibus» VII/14, 5 agosto 1839, p. 56. ²4 I versi riportati nell’articolo (cfr. Gioacchino Rossini «La Moda I/3, 20 giugno 1839, pp. 17-20), come si legge in una nota, sono estrapolati da un’ode di Francesco Ruffa pubblicata in un opuscolo composto in occasione della morte di Vincenzo Bellini (cfr. Francesco Ruffa, A Gioacchino Rossini. Ode, in Id., Componimenti di Francesco Ruffa in occasione della morte di Vincenzo Bellini, Napoli, Tipografia dell’Ariosto, 1836, pp. 3-8). ²5 In un’altra nota veniva riportato il verso originale del componimento, scritto nel 1836, durante il soggiorno francese del Maestro: «Vieni in Italia, diceva l’Autore di questo carme sublime invitando Rossini nell’italo giardino, ove, a comun delizia, ora soggiorna respirando l’aura di Posilipo [sic] nel casino del sig. Barbaja» (cfr. Gioacchino Rossini cit., p. 20).

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Echi rossiniani nella stampa periodica degli anni Trenta dell’Ottocento Qui è melodia la patria Favella, a cui l’anima tua risponde Con facili concenti: Qui resta. Il seme è qui de’ tuoi portenti.²6

L’articolo che accompagnava questi versi – che davano notizia del soggiorno napoletano del Pesarese ed esprimevano, come gli altri, un’ammirazione sconfinata per la sua opera – si distingueva per il vanto con cui veniva presentato un ritratto di Rossini la cui qualità era rivendicata con orgoglio dal periodico: Tocchi a noi il vanto di aver cercato ed ottenuto il cospetto dell’uomo immortale per offrirlo ritratto dal vero in questo Album ai nostri lettori, e dir loro: eccovi finalmente la vera immagine del Grande di cui udiste sempre maravigliando le note divine, di cui leggeste con estasi di gioia i trionfi, ma di cui vedeste sì spesso contraffatta la sembianza da litografi ed incisori imperiti: in questa immagine cercate il volto di Rossini, e sappiate a noi grado di aver i primi renduto al culto della vostra ammirazione una sembianza a cui vi celava l’errore di tante infelici matite. Primo a riconoscersi in questa immagine è stato Rossini stesso, che degna mostrarne la sua compiacenza, e ne è ad un tempo liberale della propria firma, onde desumiamo il facsimile che leggesi in questo foglio avventuroso, di cui forma il pregio più vago […].²7

Sul ritratto di Rossini tornò di lì a poco il giornale “maggiore”, il «Poliorama», che in una nota ci informa del successo ottenuto dall’immagine e della decisione di aumentare la tiratura della «Moda» al fine di arginare il fenomeno delle copie contraffatte: Avendo testé pubblicata su la Moda con un successo maggiore di ogni speranza l’immagine del grand’uomo ch’è l’argomento di questo articolo non abbiam creduto riprodurla su questa pagina; tanto più che per provvedere ai bisogni ed ai desideri de’ curiosi e per impedire, se è possibile, che lo spirito di speculazione e la smania di copiare non riproduca anche qui sotto gli occhi nostri delle contraffatte sembianze del gran Rossini abbiam stampato distintamente un gran numero di esemplari dal somigliantissimo ritratto, oltre al

²6 Ibidem. ²7 Gioacchino Rossini cit., p. 18. La litografia in questione viene riprodotta a chiusura del presente saggio.

Della circolazione di cattivi ritratti di Rossini (non somiglianti e deludenti sul piano del disegno e dell’incisione) si lamenta, da Parigi, anche il tipografo-editore Niccolò Bettoni il quale, nel «Glissons», propone, in vendita separata, la pubblicazione del ritratto di Rossini disegnato «dall’originale» dalla mano del valente pittore Dupré e inciso dall’abile Lefèvre (Cfr. N.[iccolò] Bettoni, Iconografia. Il ritratto del maestro Rossini, «Glissons, n’appuyons pas» VI/22, 16 marzo 1839, p. 88).

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Loredana Palma maggior numero de’ fogli della Moda, che è, come sanno i nostri Associati, l’avventurosa Appendice di questo Giornale.²8

Per ritrovare il testo dell’inno di Tarantini e di Puzone cantato dagli allievi del Conservatorio di cui ci parla «L’Omnibus» del 27 luglio si dové, però, attendere il «Salvator Rosa» dell’11 agosto, che antepose alla lirica la pubblicazione di un articolo in francese di Michel Ribas in cui, a metà tra cronaca e testimonianza autobiografica, venivano descritte le accoglienze riservate al compositore da parte dell’istituzione musicale napoletana.²9 Nell’inno di Tarantini troviamo i consueti toni elogiativi. Rossini viene definito «immenso» e «dell’Italia primiero splendor» mentre viene sottolineata l’audacia del suo genio innovatore: Fè di sé stupir le genti Quando audace a vol si spinse, Quei che un dì parean portento Col suo lume al suol prostrò. […] Ei lasciando il calle usato Al pensier nuov’orme aprio, Quanto chiude in sé il creato D’armonia vestir tentò.³0

Accanto agli elogi, nell’inno suscitano la nostra curiosità i versi che sembrano riecheggiare una voce che, nell’estate del 1839, circolava incontrollata nei giornali di mezza Europa, e cioè che Rossini stesse preparando una nuova opera da rappresentare al San Carlo, dopo il silenzio seguito al Guglielmo Tell: D’ogni gloria or corso il segno Par che posi in sugli allori, Ma non posa il vasto ingegno Sta nuov’opera a meditar; E qui reca i suoi tesori Forse Italia a consolar.³¹

²8 Malpica, Rossini nella villa Barbaja cit., p. 385. ²9 Cfr. Michel Ribas, Rossini au Conservatoire de Musique a Naples, «Salvator Rosa» I/39, 4 agosto 1839, pp.

311-312. L’articolo è pubblicato in appendice al presente saggio. ³0 L.[eopoldo] Tarantini, Gli alunni del Real Collegio di Musica di Napoli a Gioacchino Rossini. Inno, «Salvator Rosa» I/40, 11 agosto 1839, pp. 318-319. Anche l’inno di Tarantini è pubblicato in appendice al presente saggio. ³¹ Ibidem. Il corsivo è mio.

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Echi rossiniani nella stampa periodica degli anni Trenta dell’Ottocento Dinanzi a tale prospettiva, Tarantini conclude la sua lirica pregando il Maestro di donare alla sua terra natale (e non alla Francia) l’eventuale nuovo frutto del suo genio: O bell’anima cortese, Se ancor lice udir tue note, S’abbia l’Italo paese Di tai note il primo onor³²

Un simile dono – prosegue il giornalista – non potrebbe che riscattare l’onore dei vilipesi Italiani, incitandoli a rialzare il capo grazie all’orgoglio di aver dato i natali al genio di Rossini: Ed a noi, cui per l’erto sentiero, L’opre tue furo scorta e sostegno, Porgi nuovo dolcissimo pegno Che raccenda la vampa d’onor; Sicché sempre sul labro ci suoni In memoria dei ritmi divini. Celebriamo l’immenso Rossini, Dell’Italia primiero splendore.³³

La notizia di una nuova opera, di cui si dava persino il nome, Giovanna di Monferrato – vera o presunta che fosse, visto che non risulta traccia di essa nel repertorio rossiniano –, scatenò un parapiglia tra i fogli napoletani, con echi che sarebbero rimbalzati attraverso i periodici dell’intera penisola fino a raggiungere la stampa estera, seguendo dinamiche paragonabili a quelle delle odierne fake-news. Già all’altezza del 25 luglio, infatti, «La Moda» di Milano, in un articolo intitolato eloquentemente Il maestro Rossini scrive una nuova opera a Napoli, aveva annunciato: Si dice che il celebre maestro Rossini, da alcuni giorni arrivato in Napoli, sta componendo una nuova opera per il Teatro di S. Carlo, sopra un libretto del poeta sig. Luigi Guarniccioli di Napoli col titolo Giovanna di Monferrato. Se la cosa si verifica sarà soddisfatto il voto universale, che da tanto tempo desidera un nuovo lavoro di Rossini, e rimarrà la speranza che dopo la Giovanna di Monferrato il Cigno Pesarese progredisca a scrivere con vantaggio del mondo musicale.³4

³² Ivi, p. 319. ³³ Ibidem. ³4 Alfonso Frisiani, I teatri. Il maestro Rossini scrive una nuova opera a Napoli, «La Moda», IV/59, 25 luglio

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Loredana Palma La rivista bolognese «Teatri, arti e letteratura» del 1° agosto 1839 si affrettava, invece, a smentire la notizia riportata dai giornali milanesi, chiamando in causa la stampa periodica della capitale borbonica: I Fogli di Milano portano che Rossini stia scrivendo pel Teatro s. Carlo la Giovanna di Monferrato. E noi invece assicuriamo che la corrispondenza di Napoli non parla di questo, ed anzi assicura che Egli sarà in Bologna ai primi di settembre.³5

All’ombra del Vesuvio, di rimando, il «Salvator Rosa» commentava incredulo la notizia proveniente dai giornali settentrionali: «I Fogli di Milano portano che Rossini il quale è da un mese tra noi stia scrivendo per Teatro S. Carlo la Giovanna di Monferrato. Sarebbe mai possibile!».³6 Ma la notizia era già stata accolta dalla stampa francese e si era sparsa in tutta Europa. La Cronique étrangère della parigina «Revue et gazette musicale de Paris» del 18 luglio, ad esempio, l’aveva diffusa, pur senza garantirne l’autenticità: Naples, 29 june – Rossini est arrivé ici avant-hier au soir, et le lendemain matin il en est reparti pour la villa de M. Barbaja, située au pied du mont Pausilippe [sic]. On assure positivement que l’illustre maestro s’y occupera a mettre en musique pour le thèatre royal de Saint-Charles un opèra seria en quatre actes, intitulè Giovanno di Montferato [sic], dont le libretto est de Luigi Guarniccioli, de Naples. Nous donnous cette nouvelle sans en garantir l’authenticité.³7

Dalla capitale francese la notizia era rapidamente rimbalzata in tutta Europa. Il periodi1839, p. 236. Il “rumore” intorno a questa notizia fu forse generato da una proposta avanzata da Barbaja durante il soggiorno napoletano di Rossini e riportata, all’interno di un dialogo tra l’impresario e il musicista, nella monografia dedicata al compositore da Arnaldo Fraccaroli circa un secolo dopo: « – Cosa vuoi per pranzo? Torniamo al preludio di uno spettacoloso piatto di maccheroni con la pommarola? Un tempo la adoravi. Può darsi che ti facciano tornare l’ispirazione: non ti sentiresti di prepararmi un operone per il San Carlo? Ho pronto un libretto, Giovanni di Monferrato del poeta Guarniccioli, che è uno splendore. So che all’Opera di Parigi ti hanno dato quindicimila franchi per il Guglielmo Tell. Te ne dò ventimila. – Non farti sentire da Olimpia. Mi obbligherebbe a accettare. - E non vuoi? - Non voglio, e non posso. Ma accetto l’idea dei maccheroni» (Arnaldo Fraccaroli, Rossini, Milano, Mondadori, 1941, p. 288). ³5 Notizie del giorno, «Teatri, arti e letteratura» XVII, tomo 31, 805, 1° agosto 1839, p. 183. ³6 «Salvator Rosa» I/40, 11 agosto 1839, p. 320. ³7 «Rossini è arrivato qui l’altro ieri sera e il mattino seguente è ripartito per la villa di Messieur Barbaja, situata ai piedi della collina di Posillipo. Si asserisce che l’illustre maestro si occuperà di mettere in musica per il teatro real del S. Carlo un’opera seria in quattro atti, intitolata Giovanna di Monferrato, il cui libretto è di Luigi Guarniccioli di Napoli. Noi diamo questa notizia senza garantirne l’autenticità» (Chronique étrangère, «Revue et gazette musicale de Paris, journal des artistes, des amateurs ed des théatres» VI/31, 18 luglio 1839, p. 247).

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Echi rossiniani nella stampa periodica degli anni Trenta dell’Ottocento co di lingua tedesca «Didaskalia» dell’11 agosto riportava: Aus Neapel wird gemeldet, Rossini werde einige Zeit auf der Villa Barbaja’s, des bekannten italienischen Opernunternehmers, verweisen, die am Fuße des Pausillips gelegen ist, um sich dort mit der Komposition einer vieraktigen Oper, Giovanna di Monferrato, zu beschäftigen. Das Libretto zu dieser Oper wird Lugi Guarnicioli [sic] aus Neapel schreiben, und auf dem dortigen St. Carlo-Theater soll sie zuerst aufgeführt werden.³8

A settembre la possibilità di un ritorno di Rossini alle scene suscitava ancora le aspettative dei lettori di mezza Europa, per quanto un’altra rivista in lingua tedesca, «Bohemia», cominciasse a riportare le prime smentite, chiamando in causa questa volta l’autorevole giornale diretto da Vincenzo Torelli: Der Omnibus di Napoli widerlegt die Nachricht, daß Rossini an einer großen Oper: „La Giovanna di Monferrato“ schreibe, mit den Worten „Lügen! Rossini schläft“.³9

La smentita, tuttavia, non era stata sufficiente ad impedire che, ancora qualche giorno dopo, il 26 settembre, il giornale di lingua inglese «The musical world» riportasse, con evidenti errori dovuti al passaparola: ROSSINI is now staying at a villa belonging to the manager Barbaja at Pausilippo [sic]. It is confidently affirmed that he is writing a new serious opera for the San Carlo theatre, to be entitled Giovanni di Montserrat [sic]; the libretto by Luigi Guarniccioli.40

³8 «Arriva da Napoli la notizia che Rossini soggiornerà per un po’ nella villa di Barbaja, il celebre impresario

italiano, ai piedi di Posillipo, per impegnarsi nella composizione di un’opera di quattro atti, Giovanna di Monferrato. Compone il libretto per quest’opera Lugi Guarnicioli di Napoli, e dovrebbe rappresentarsi al Teatro San Carlo» (Mannichfaltigkeiten, «Didaskalia: Blatter für Gust, Gemüth und Publicität» XVII/220, 11 agosto 1839). ³9 «L’Omnibus di Napoli smentisce la notizia di giornali italiani secondo la quale Rossini starebbe scrivendo una grande opera, la Giovanna di Monferrato, con le parole: Bugie! Rossini dorme!» (Mosaik, «Bohemia» XII/112, 17 settembre 1839). Nella generale agitazione della stampa internazionale anche il giornale milanese «Glissons, n’appuyons pas» aveva pubblicato a metà agosto una smentita circa una nuova composizione di Rossini ricorrendo, invece, a una lettera pubblicata dalla «Gazzetta musicale di Parigi»: «Alcuni giornali divulgarono la notizia che Rossini stesse per comporre un’Opera pel teatro San Carlo di Napoli, ed annunciarono perfino il titolo e il poeta dell’Opera stessa; ma questa non è pur troppo che una vana speranza. La Gazzetta musicale di Parigi, pubblica ora una lettera e si fa mallevadrice della verità di quanto ivi è asserito, nella quale è detto che il gran maestro non vuol più nè comporre, nè sentir musica, e ch’egli non si cura nemmen più di parlarne; solo parla qualche volta degli artisti ch’egli ha conosciuto, o ch’ei conosce, ma dell’arte neppur parola» (Cronaca straniera, «Glissons, n’appuyons pas», VI/65, 14 agosto 1839, p. 260). 40 «Rossini si trova attualmente in una villa appartenente all’impresario Barbaja a Pausilippo. Si dice confidenzialmente che egli stia scrivendo una nuova opera seria per il teatro S. Carlo, intitolata Giovanni di Montserrat su libretto di Luigi Guarniccioli» (Miscellaneous, «The musical world» CLXXXIV – New Series

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Loredana Palma Le speranze venivano probabilmente alimentate dalla constatazione del protrarsi del soggiorno napoletano del musicista: Naples. -The extreme and unusual heat of the weather, during the spring and the summer, has had a considerable effect upon the Theatres throughout Italy, they have been less visited. Rossini is still here, and engaged in writing a new opera for the Theatre S. Carlo, under the title of “Johann Von Montferrat”. The libretto is by Ludwig Guarniccioli.4¹

Fondato o meno che fosse lo scoop che accompagnò il soggiorno napoletano di Rossini, è certo che lo spaccato che emerge da questo rincorrersi di notizie da un giornale all’altro ci restituisce l’eco della dimensione di trepidante attesa che attraversava non solo l’Italia ma le più importanti platee d’Europa che non si rassegnavano alla prematura conclusione di una carriera tanto brillante e tanto amata quanto quella di Rossini. Conclusioni Se il giornale con le sue notizie di attualità, talvolta non adeguatamente verificate, viene più volte tacciato di essere il regno dell’effimero e del superficiale, pure, con il passar di molto tempo, esso è in grado di acquisire valore di documento storico e di “fissare” come in una pellicola il clima di un’epoca nell’immediatezza e vivacità della sua quotidianità. Ammirazione per la musica del Pesarese, istanze patriottiche, invocazione di un ritorno a Napoli (o in Italia), rimproveri per il lungo silenzio, auspici per la composizione di una nuova opera: ecco lo stato d’animo – fedelmente restituitoci dalla lettura dei periodici del tempo – con cui Napoli e gli Italiani si rapportavano a Rossini all’altezza degli anni Trenta dell’Ottocento. Ma il Genio apparteneva anche agli altri popoli d’Europa, pronti a rimpallarsi ogni nuova notizia relativa all’autore del Barbiere. Perciò, parafrasando l’articolo del «Salvator Rosa» che reclamava per l’archivio del Conservatorio il dovere di custodire per la posterità anche le più piccole tracce autografe del Genio,4² riteniamo che la stampa periodica del tempo possa rappresentare una testimonianza apparentemente “minore” ma sicuramente utile nella sua capacità di rimandarci, a distanza di due secoli, echi della fama rossiniana presso i contemporanei.

XCI, 26 settembre 1839, p. 345). 4¹ «Napoli. - «Il prolungato e inusuale caldo del clima, durante la primavera e l’estate, ha avuto un considerevole effetto sui Teatri in tutta Italia, essi sono stati meno frequentati. Rossini è ancora qui ed è impegnato a scrivere una nuova opera per il Teatro S. Carlo, dal titolo “Johann Von Montferrat” Il libretto è di Ludwig Guarniccioli» (Music abroad and at home, «The Foreign Quarterly Review» XXIV, 1840, p. 205). 4² Cfr. Ribas, Rossini au Conservatoire... cit., p. 312.

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Echi rossiniani nella stampa periodica degli anni Trenta dell’Ottocento

Appendice «L’Omnibus» VII/12, 27 luglio 1839 attualità visita di rossini al r. conservatorio di musica Rossini fu a visitare il nostro Conservatorio di Musica, culla di tanti gloriosi, e gloria della città nostra. Quei Governatori, a proposta e sollecitudine del Maestro Florimo, Archivario del conservatorio, e che varii illustri Maestri si son pregiati avere amico e confidente, hanno festeggiata questa visita coi mezzi analoghi al luogo stesso, cioè facendogli sonare e cantare un Coro con musica, voci, e strumenti degli allievi stessi del Conservatorio. L’inno assai bello fu del chiaro nostro pregiato amico Leopoldo Tarantini, la musica del coro del signor Puzone, che si trovò molto bella, festiva, ed adatta all’occasione. Il Gran Maestro gradì sentitamente quell’omaggio, e gli giunse al cuore il voto festivo e di gloriosa ammirazione, che partiva da giovani ardenti, in cu sta il germe d’una gloria né nuova né straniera, e che non vuol altro per svilupparsi che una gran meta, in cui giurare ed ispirarsi: e certo che nessuna meta più alta e gloriosa di Rossini. Io credo agli Inni pel cuore de’ giovani come allo squillo della tromba per l’orecchio di uomini invitti. Quando i Greci ed i Romani avanti la battaglia, dopo la vittoria, o per rendimento di grazie agli Dei intuonavano i loro Inni dalle mille voci, certo che i sentimenti che chiamansi coraggio trionfo e preghiera sarebbero riusciti freddi ed infruttuosi senza esaltazione di mente, e l’inno solo, voce concorde e inebbriante, menava a quell’esaltazione e a quei grandi sentimenti, di cui la storia non pare d’uomini. E se de’ nostri giovani si potessero concretare in parole i varii sensi e voti nel cantare le lodi e la gloria di Rossini, certamente nessuno si vedrebbe voler esser da meno di lui, e tutti guardare all’immenso uomo, come alla stella, al sole, al Cielo della loro vita. Fra le molte utilità che apportano i grandi uomini non è ultima quella di fare da specchio e modello agli altri uomini. T.

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Loredana Palma «Salvator Rosa» I/39, 4 agosto 1839 rossini au conservatoire de musique a naples4³* Depuis que les journaux ont annoncé l’arrivée de Rossini dans cette capitale, je n’ai cessé d’épier toutes les occasions pour voir cet homme célèbre, - c’est en vain que chaque matin je me promenai à Mergellina, le nez en l’air, et l’œil aux aguets à toutes les fenêtres, pour l’apercevoir même en robe de chambre; - c’est en vain que chaque soir je me rendais à l’opéra pensant l’y rencontrer – oh par ici je ne l’aurai pas vu, car il ne pense même pas à aller au théâtre, - Et en vérité, rien de plus désagréable pour un auteur que de lire ses ouvrages dans une mauvaise édition – je désespérai déjà de le voir, quand un aimable jeune homme me fit la proposition d’aller au conservatoire de musique où devait se rendre Rossini – imaginez ma joie,… j’y couru de bonne heure, et attendant son arrivée, nous nous arrêtâmes dans la bibliothèque musicale du collège qui est peut être unique dans son genre, car elle possède tous les ouvrages autographes de tous les compositeurs qui sont sortis de cette fameuse école – Mon introducteur était l’auteur des paroles d’un hymne qu’on devait chanter, et ces paroles étaient pleines de grâce et de sensibilité; ces vers n’ont pas ce style si outré d’adulation qui ne flatte personne, et qui pourtant est si commun à cette sorte de poésie: ceux-ci sont beaux par la vérité des louanges et par l’expression du regret qu’ils renferment de ce que le cygne ne chantait plus; Guillaume Tell devait être son dernier chant pour l’étranger; la patrie espérait encore lui inspirer du moins un dernier accent qui fut pour elle – Rossini arrive; nombre de personnes l’attendait à la porte: le professeur Crescentini le vit et lui dit - «voici vos admirateurs qui sont si heureux de vous voir» - ce sont mes confrères, reprit Rossini; nous sommes tous de la même famille, et rien ne satisfait autant mon cœur, qu’une pareille réunion» - On le conduisit dans le salon où il fut reçu par les plus vifs transports de tous les élèves – Comme le soleil vivifie les plantes sur lesquelles il porte ses rayons, la présence de Rossini devait donner un élan de vie à cette jeunesse qui vit continuellement dans une atmosphère d’harmonie, et qui n’élève ses idées qu’aux inspirations mélodieuses; si un regard de ce génie est tombé avec bienveillance sur quelques élèves, ce regard ne s’effacera plus de la mémoire du fortuné jeune homme; ce regard deviendra son étoile heureuse, qui le guidera à la gloire – On commença, l’hymne, et la musique pleine de verve et de jeunesse était bien analogue aux belles paroles: l’instrumentation arrêta pour un moment son élan pour faire ressortir les paroles du Chœur… Ed a noi, cui per l’erto sentiero, L’opre tue furo scorta e sostegno, Porgi nuovo dolcissimo pegno

4³ * Si ringrazia M.me Kadidja Mandili per la cortese revisione del testo, l’adattamento degli accenti ai criteri moderni e la correzione dei refusi di stampa.

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Echi rossiniani nella stampa periodica degli anni Trenta dell’Ottocento Che raccenda la vampa d’onor; Sicché sempre sul labro ci suoni In memoria dei ritmi divini. Celebriamo l’immenso Rossini, Dell’Italia primiero splendor.

Une voix de soprano commença la strophe qui fut renforcée par une jeune voix de ténor et une vigoureuse basse: ce terzetto fut très bien modulé et en général toute la pièce parfaite et qui promet du succès à l’auteur: elle devait, aussi faire plaisir à Rossini qui reconnaissait de ses prédécesseurs, et en révolutionnant le système musical; mon attention était fixée sur cet homme singulier: je ne pouvais m’imaginer que j’avais sous mes yeux celui qui avait fait pleurer dans l’assisa a piè d’un salice, celui qui avait enflammé dans son terzetto de Guillaume Tell, celui enfin qui dans ses notes avait si bien fait passer l’esprit de Beaumarchais; - Non! – Rossini sous des formes humaines ne peut croire que celui qui pénètre dans les replis les plus cachés du cœur humain, qui touche les fibres les plus déliées, qui fait verser des pleurs, qui console, qui enflamme, l’homme d’un autre bout du monde, celui revêtu d’un frac, auquel pendent même des décorations; l’imagination volatilise un pareil génie, et lui donne des formes éthérées; aussi quand nous nous approchons de cet être, que nous le trouvons pareil à nous, l’illusion tombe, l’homme reste, et la malignité, l’envie, la jalousie s’en emparent, et ce n’est qu’à travers les milles obstacles de la haine et de l’ignorance que le génie se fraye un chemin – l’éloignement est au génie, œ que la perspective est d’une vue – Et Rossini que de détracteurs n’a-t-il pas eu? – parce qu’il n’a pas voulu trainer le joug de la routine, il eut des ennemis – parce que s’emparant d’une main hardie de l’harmonie, avant même d’en avoir étudié les lois, il créa une nouvelle instrumentation, et donnant un nouvel élan à la voix, il l’assujettit à ses inspirations, il eut des ennemis – parce qu’il fut inimitable dans ses motifs comme Métastase dans ses ariettes, il eut des ennemis – Fatigué du bourdonnement de quelques puristes germaniques ou germanisés il leur jeta enfin Guillaume Tell, écrasa tous ses ennemis, et s’est tu, - il s’est tu, non parce que la veine de son génie s’est lari, mais parce qu’il fait comme la femme coquette qui sait qu’elle est adorée, et qui refuse une caresse pour mieux la faire désirer – Quand le jeune auteur de l’hymne, et de la brillante symphonie qu’on exécute, M. Puzone, lui fut présenté, Rossini lui dit: «Bravo mon Cher, vous vous êtes éloigné du commun, vous êtes jeune, suivez ce chemin: le jeune homme pour lequel ces paroles deviennent prophétiques, les larmes aux yeux, lui baisa la main – Pendant l’exécution de la symphonie je regardais son jeune auteur, appuyé contre le mur: que d’émotions agitaient son âme, et que le désir de la gloire est beau dans un jeune cœur!,… il tremblait; son pied, sa main son cœur, tout son être, suivait, battait, doublait la mesure; son regard n’osait interroger Rossini, mais du coin de l’œil il épiait ses mouvements. Il y avait aussi un autre homme qui guettait un signe approbatif de Rossini, mais pour un motif différent!... le premier ne demandait qu’un peu de gloire; le second la 201


Loredana Palma lui souhaitait, pour lui acheter cette gloire; car cet autre homme était Barbaja, Napoléon des entrepreneurs, négrier de voix humaines, qu’il surprend au pied du mont Vésuve, et les envoie entourées de cachemires, de châles, d’édredons enchanter le nord de l’Europe – Acheteur de talents, de génies, de gloires en brut, qu’il revend au public brillant et poli; – c’est lui qui accapara Bellini et tant d’autres; eux ils recueillent la gloire, lui il recueille l’or; mais il faut que la vérité parle et proclame que jamais cet homme n’a profité bassement des contrats singuliers qui lient quelquefois l’existence de l’artiste de sa bourse; il est toujours prêt à secourir les malheureux; un chanteur qui a perdu sa voix trouverait en lui un protecteur, et la veuve de l’artiste ne mendie jamais son pain – De cette manière personne ne peut blâmer sa spéculation – Barbaja a un type de bonhomie qui se rencontre souvent chez de pareilles personnes malgré toute la finesse d’esprit qu’ils doivent nécessairement avoir – Voilà donc Barbaja, entrepreneur monstre, qui semble avoir son corps à Naples et une tête et des bras partout où il y a un opéra – cet écumeur de talents était là, auprès de Rossini, observant si dans cette pépinière il ne découvrirait pas quelque petit génie en herbe. Après de belles variations exécutées sur la basse par un jeune élève, Rossini se leva et alors tous les jeunes gens se précipitèrent pour lui baiser la main: heureux qui parvenaient à la lui toucher; jamais de vœux, jamais d’enthousiasme ne furent plus sincères, et par conséquent plus touchants; c’était l’espérance qui embrassait la gloire; Rossini s’avançait vers la porte, lorsque une idée, une de ces idées qui quelquefois est toute une histoire, l’arrêta; il désira voir ses autographes, et monta à l’archive: là en revoyant son écriture qui lui rappelait ses premières espérances, ses premiers succès, il fut ému; l’imagination de l’homme est quelquefois bizarre, et réunit souvent les idées les plus disparates; savez-vous qui me rappelait Rossini regardant ses nombreux ouvrages…? Rien moins que Napoléon méditant sur une carte!... Je me sauve avec ma comparaison, et je laisse à mes lecteurs le soin d’en faire le rapprochement. – L’auteur du Barbier de Séville aurait voulu retirer une fille boiteuse de son imagination qui se trouvait parmi ses productions, mais l’archive doit rendre compte à la postérité des moindres pensées d’un grand génie. – Il fut reconduit aux grandes acclamations, jusqu’à la voiture, et moi je me retirai et de suite j’achetai le Portrait du grand Compositeur…: chaque fois que mes yeux s’y arrêteront je me souviendrai de la scène touchante du 27 juillet 1839. Michel Ribas

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Echi rossiniani nella stampa periodica degli anni Trenta dell’Ottocento «Salvator Rosa» I/40, 11 agosto 1839 gli alunni del real collegio di musica di napoli a gioacchino rossini inno O Compagni, la voce sciogliamo E il nostr’inno sia l’inno di lode, Il signor dell’eccelsa melode Da noi s’abbia il tributo d’onor; Faccian eco a quest’inno festivo Quanti han senso di ritmi divini, Celebriamo l’immenso Rossini, Dell’Italia primiero splendor. Fè di sé stupir le genti Quando audace a vol si spinse, Quei che un dì parean portento Col suo lume al suol prostrò. Cento lauri in fascio strinse Ed un serto a sé formò. Ei lasciando il calle usato Al pensier nuov’orme aprio Quanto chiude in sé il creato D’armonia vestir tentò. Uom non già ma parve un Dio Nei prodigi che creò. D’ogni gloria or corso il segno

Par che posi in sugli allori, Ma non posa il vasto ingegno Sta nuov’opera a meditar; E qui reca i suoi tesori Forse Italia a consolar. O bell’anima cortese, Se ancor lice udir tue note, S’abbia l’Italo paese Di tai note il primo onor; Tra le genti a te devote Te le ispiri il patrio amor! Ed a noi, cui per l’erto sentiero, L’opre tue furo scorta e sostegno, Porgi nuovo dolcissimo pegno Che raccenda la vampa d’onor; Sicché sempre sul labro ci suoni In memoria dei ritmi divini. Celebriamo l’immenso Rossini, Dell’Italia primiero splendor.

L. Tarantini

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Loredana Palma

Figura 1: Ritratto di Gioachino Rossini, «La Moda» I/3, 20 giugno 1839, p. 17 (su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo © Biblioteca Nazionale di Napoli). 204


Cesare Corsi Rossini in Conservatorio. Musiche per Rossini nella biblioteca di San Pietro a Majella

La presenza di Rossini nella biblioteca del Conservatorio è fatta di tracce ben note e di grande rilievo, dagli autografi, ai manoscritti delle opere composte per Napoli.¹ In queste pagine si cercherà di raccontare un altro aspetto del rapporto tra la biblioteca e Rossini. Oggetto del presente lavoro non saranno le musiche scritte da Rossini, ma per Rossini o legate alla sua presenza. La nostra attenzione si soffermerà sulle musiche conservate in biblioteca scritte per il compositore o in suo onore in diverse circostanze e sulle rielaborazioni d’autore di sue composizioni utilizzate in occasioni legate alla vita del Conservatorio negli anni rossiniani. In questo racconto la biblioteca mostrerà la funzione che svolse per gran parte dell’Ottocento di “archivio musicale” dell’istituzione, luogo di conservazione dei materiali preparati ed eseguiti nelle attività del Conservatorio. Una presenza ricorrente in queste pagine sarà, come vedremo, quella di Mercadante, che incontreremo di volta in volta nel ruolo di compositore, trascrittore, arrangiatore; circostanza che si spiega con il lungo periodo che egli trascorse in Conservatorio in una posizione preminente, prima come brillante allievo e grande speranza della scuola compositiva napoletana, poi come direttore dell’istituto. Le vicende narrate toccheranno anche la particolare posizione che nell’opera di Mercadante occupano le musiche di Rossini, come termine di riferimento e di ispirazione. La rassegna di cui si darà conto in queste pagine ha inizio con la presenza di Rossini in Conservatorio. Rossini visitò il Collegio in due occasioni. La prima nel 1818, la seconda molti anni dopo, in quella che sarebbe stata la sua ultima presenza nella città che gli aveva dato tanto successo e tanta fortuna. La prima visita è ricordata da Florimo. «Un bel mattino nella primavera del 1818», scrive ¹ Sulle fonti rossiniane di San Pietro a Majella si veda Philip Gossett, Le fonti autografe delle opere teatrali

di Rossini, «Nuova rivista musicale italiana» II, 1968, pp. 936-960 e Id., Rossini a Napoli, «Bollettino del Centro Rossiniano di Studi» XI, 1971, pp. 53-71; cimeli e fonti iconografiche sono presenti nelle collezioni museali del Conservatorio, si veda Ettore Santagata, Il museo storico musicale di S. Pietro a Majella, Napoli, Giannini, 1930 e Dal segno al suono. Il Conservatorio di musica San Pietro a Majella repertorio del patrimonio storico-artistico e degli strumenti musicali, a cura di Gemma Cautela, Luigi Sisto e Lorella Starita, Napoli, Arte’m, 2010.

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Cesare Corsi Florimo, Rossini visitò il Collegio di musica, allora nella sede di San Sebastiano. Qui «fu ricevuto festevolmente da quella schiera di giovani alunni, i quali desideravano conoscere lui già grande fra i grandi […] andò a riceverlo Zingarelli alla testa dei maestri tutti del luogo, colà congregati per tributargli onore».² Per l’occasione nella sala dei concerti ebbe luogo un’accademia vocale e istrumentale («a bella posta preparata perché il Collegio potesse onorarlo degnamente, secondo le sue forze»). Florimo fa riferimento all’esecuzione di due sinfonie composte dal giovane Mercadante, allora allievo del Collegio, e di come furono accolte da Rossini: due sinfonie piene di spontanee melodie, di un regolare andamento, adorne di bei coloriti, che produssero grande effetto e, più che una promessa, erano un fatto splendido e consolante per l’avvenire del giovine autore, il quale era appunto Saverio Mercadante. Rossini ne rimase contentissimo, l’applaudì, volle conoscerlo, l’abbracciò con effusione, e voltosi a Zingarelli, che gli stava vicino, “Caro maestro”, gli disse stringendogli la mano “vi faccio i miei complimenti per questo vostro caro allievo. Le sue composizioni mi danno seriamente a pensare, e vedo bene che i vostri alunni cominciano dove noi terminiamo”.³

La seconda visita fu nel luglio del 1839. Rossini tornava in Conservatorio (trasferitosi nel frattempo nella sede definitiva di San Pietro a Majella), in quello che sarebbe stato il suo ultimo soggiorno a Napoli. Informazioni sull’avvenimento sono riportate dalla stampa periodica. Un articolo apparso sulla rivista «Teatri arte e letteratura» fa riferimento alle esecuzioni musicali che ebbero luogo per l’occasione.4 Rossini fu accolto nel teatrino del Collegio con l’esecuzione di un inno composto in suo onore da un giovane allievo, Giuseppe Puzone: Ieri le porte di questo Conservatorio di musica si schiudevano all’arrivo di un uomo, cui inchinavasi reverente un eletto stuolo di filarmonici e facevagli corteggio, mentre Egli entrava nel Teatro che serve per l’istruzione pratica degli alunni. Ed al suo entrare voci di gioia ed applausi grandissimi s’intesero che furon poi interrotti dal preludio di una Cantata, composta appositamente dal valoroso alunno Giuseppe Puzone, con parole del signor Leopoldo Tarantini, per salutare il fortunato erede della scienza di Cimarosa,

² Francesco Florimo, La scuola musicale di Napoli e i suoi Conservatori con uno sguardo sulla storia della

³ 4

musica in Italia, III, Napoli, Morano, 1882, p. 112. Secondo Florimo, Rossini avrebbe assistito anche alla rappresentazione delle Truppe in Franconia di Carlo Conti nel teatrino del collegio nel 1819 (ibidem, IV, pp. 522-523). Ibidem. «Teatri arti e letteratura» XVII, 1839, pp. 194-195, l’articolo è riportato anche in Giuseppe Radiciotti, Gioacchino Rossini. Vita documentata, opere ed influenza su l’arte, Tivoli, Arti grafiche Majella di Aldo Chicca, 1928, II, pp. 222-223.

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Musiche per Rossini nella biblioteca di San Pietro a Majella l’autore del Barbiere e del Mosè, il sommo Rossini, il quale dopo lunga assenza rivedeva quel Convitto, dove furono educati all’arte dell’armonia Zingarelli, Manfroci, Bellini, Mercadante e Ricci.5

Al brano d’omaggio seguì una sinfonia dello stesso autore e una fantasia da concerto per violoncello e orchestra: Alla bellissima cantata fece seguito una grande sinfonia, pure opera del Puzone, che produsse un effetto sorprendente. Dopo venne eseguito col violoncello in concerto una fantasia sui motivi del Giuramento dall’abilissimo alunno Domenico Laboccetta, allievo dell’egregio maestro sig. Gaetano Ciandelli, che di lodi è ben degno per aver segnato nuove regole onde facilitare il maneggio di sì malagevole istrumento ed ottenere l’eufonia. Quindi gli alunni tutti si affollarono ossequiosi attorno al supremo Maestro.6

L’autore dell’inno era uno dei più promettenti allievi di Donizetti. Uscito dal Collegio, Puzone avrebbe intrapreso una brillante carriera nelle istituzioni musicali napoletane. Fu insegnante di armonia e di contrappunto in Conservatorio,7 e per molti anni maestro concertatore al San Carlo, dove nel 1860 divenne, insieme a De Giosa, il primo direttore in senso moderno dell’orchestra.8 Un altro resoconto della visita di Rossini comparve sul «Salvator Rosa». In un articolo in francese, il giornale dava una vivace descrizione dell’avvenimento, ricordava come Rossini fosse accolto al suo arrivo dal vecchio Crescentini, accennava alla presenza in sala di Barbaja, e come al termine dell’accademia Rossini visitò la biblioteca vedendo alcune delle sue partiture autografe, chinandosi sulle carte come un «Napoleone che medita su una mappa»: Apres des belles variations executées sur la basse par un jeune élève […] Rossini s’avançait vers la porte, lorsque une idée, une de ces idées qui quelque fois est toute une histoire, l’arreta; il désira voir ses autographes, et monta à l’archive: là en revoyant son écriture qui lui rappelait ses premières esperances, ses premièrs succes […] savez vous qui me rapellait Rossini regardant ses nombreux ouvrages..? rien moin que Napoleon méditant sur une carte!9

5 Ivi, p. 194. 6 Ibidem. 7 Si veda François-Joseph Fétis, Biographie universelle des musiciens et bibliographie générale de la musique. 8 9

Supplément et complément, Paris, Firmin Didot,1880, II, p. 375. Cfr. Cesare Corsi, “Un’armonia competente”. L’orchestra dei teatri reali di Napoli nell’Ottocento, «Studi Verdiani» XVI, 2002, pp. 21-96: 74. «Salvator Rosa. Album artistico scientifico letterario industriale» I/39, 4 agosto 1839, pp. 311-312.

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Cesare Corsi Venendo alle musiche eseguite in queste circostanze, sono parecchie le tracce che di esse troviamo in biblioteca. Non è facile identificare le due sinfonie giovanili di Mercadante, diverso è il caso dei brani eseguiti nella visita del 1839. Dell’inno composto da Puzone ci rimane la partitura autografa e alcuni dei materiali esecutivi.¹0 L’organico prevedeva tre solisti, un coro di voci maschili e orchestra. L’assenza di voci femminili nel coro si spiega naturalmente con il fatto che il Conservatorio è in questo periodo una scuola esclusivamente maschile. Più curiosa la presenza di un soprano tra i solisti. I resoconti apparsi sulla stampa non riportano i nomi degli esecutori. Un suggerimento viene da una circostanza di poco successiva. Un mese dopo la visita di Rossini, il Conservatorio organizzò una nuova accademia per commemorare la scomparsa del conte di Gallenberg avvenuta nella primavera di quello stesso anno. Questa volta la composizione dell’inno fu affidata a un altro allievo di Donizetti, Nicola De Giosa, mentre Puzone scrisse un preludio funebre. La composizione di De Giosa è per lo stesso organico di quella per Rossini di Puzone e in questo caso conosciamo i nomi degli esecutori.¹¹ La parte solista di soprano fu cantata da Paolo Pergetti, un allievo di Crescentini, quasi sicuramente impiegato quindi anche per l’inno a Rossini. Il cantante, di cui scopriamo in questo modo la formazione a Napoli, è in realtà uno degli ultimi castrati di cui si abbia notizia. Uscito dal Conservatorio, fu assunto nella cappella reale di Napoli.¹² Nel 1844 si esibì a Londra, dove fece stampare anche un trattato di canto.¹³ La circostanza dimostra come la formazione di cantanti evirati che tanta importanza aveva avuto nei Conservatori napoletani nei secoli precedenti non si sia interrotta del tutto con il periodo francese, ma sia proseguita, anche se in modo episodico rispetto al passato, ben addentro l’Ottocento, in rapporto a una domanda che doveva provenire almeno da alcuni ambiti.

¹0 Cfr. Inno a G. Rossini scritto espressamente per l’occasione della sua visita al Collegio, partitura autografa,

Biblioteca del Conservatorio San Pietro a Majella (d’ora in poi I-Nc), 31.1.20/3 (vedi Fig. 1 e 2); parte di violino conduttore, 1.4.13/21. Per l’occasione fu stampato un opuscolo con il testo dell’inno: Gli allievi del Real Collegio di musica a Gioacchino Rossini. Inno di Leopoldo Tarantini con musica di Giuseppe Puzone alunno del sudetto Real Collegio, [Napoli], s.e., s.d. ¹¹ Inno funebre in onore del M.o Gallenberg composto da Nicola de Giosa, partitura autografa, I-Nc, 9.8.7/8 (riproduzione digitale consultabile sul sito Internet Culturale <http://www.internetculturale.it>, d’ora in poi IC), parti, Pacco 2208. Pergetti cantò anche una Preghiera per soprano, coro e orchestra composta sempre da De Giosa per l’occasione (I-Nc, A.647.42). Su questi manoscritti e in generale sulle composizioni eseguite per la commemorazione del conte di Gallenberg rinvio alla mia relazione “Fonti degiosiane nella biblioteca del Conservatorio di Napoli con un’appendice su De Giosa direttore d’orchestra” letta al convegno “Nicola De Giosa non solo Don Checco”, Bari, 3 maggio 2019, di prossima pubblicazione. ¹² Si veda il «Diario di Roma» n. 105, 31 dicembre 1841, che fa riferimento alla partecipazione di Pergetti a un’esecuzione tenuta in occasione della congregazione annuale dell’Accademia di Santa Cecilia, di cui faceva parte. ¹³ Se ne veda la voce in Grove’s Dictionary of Music and Musicians, a cura di Eric Blom, New York, St. Martin’s Press, 19545, VI, p. 626; Paolo Pergetti, Treatise on Singing Forming a Complete School of the Art, London, Olivier, s.d.

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Musiche per Rossini nella biblioteca di San Pietro a Majella

Figura 1: Giuseppe Puzone, Inno a Rossini, partitura autografa (I-Nc 31.1.20/3, c. 1r).

Figura 2: Puzone, Inno a Rossini, c. 1v. 209


Cesare Corsi Più difficile è identificare gli altri brani. Riguardo all’altra composizione di Puzone eseguita nell’accademia, la biblioteca conserva un certo numero di sinfonie giovanili del compositore; quella maggiormente indiziata potrebbe essere una sinfonia in la minore, l’unica di cui si conservino anche materiali destinati all’esecuzione.¹4 Al di là delle musiche scritte in onore di Rossini sulle quali torneremo tra poco, un altro aspetto sul quale ci dobbiamo soffermare è la presenza in biblioteca di elaborazioni di musiche del compositore scritte per occasioni legate alla vita del Conservatorio negli anni rossiniani. Le composizioni rientrano nel genere della parafrasi e della fantasia, e in quello del rifacimento, della trascrizione e dell’arrangiamento d’autore. Per quanto riguarda il primo caso, sono numerose le fantasie su motivi rossiniani composte dagli studenti ed eseguite nei concerti del Conservatorio negli anni Quaranta e Cinquanta conservate in biblioteca. Ne sono un esempio la fantasia per violoncello e orchestra su un tema del Guglielmo Tell di Gaetano Braga,¹5 una sui motivi dello Stabat per clarinetto di Francesco Cappa¹6 o ancora una fantasia su motivi dell’Otello di Silvestro Nicosia per violino¹7 o di Giovanni Scaramella per flauto sul Guglielmo Tell e sullo Stabat mater.¹8 Tutte le composizioni furono scritte sotto la direzione di Mercadante, che ne incoraggiò quindi la scrittura, ed eseguite nei saggi quasi sempre dagli stessi autori, che erano eccellenti strumentisti e avevano modo quindi di mettere in mostra tutta la loro bravura.¹9 Per quanto riguarda invece l’utilizzazione nelle attività del Conservatorio di rielaborazioni di musiche rossiniane la biblioteca ne conserva alcuni esempi, tutti opera di Mercadante. ¹4 Partitura autografa in I-Nc, 31.1.20/10; parte di conduttore, 10.7.17/13. ¹5 Fantasia per violoncello con accompagnamento d’orchestra sopra un tema del Guglielmo Tell composta dall’a¹6 ¹7 ¹8

¹9

lunno Gaetano Braga e da lui eseguita nell’Accademia di Giu. 1849, partitura ms., I-Nc, 9.8.7/2 (consultabile in IC). Fantasia per clarinetto su vari motivi dello Stabat del Sig. Maestro Rossini, composta sotto la direzione del M:o Cav: Saverio Mercadante da Francesco Cappa Collegio di musica 6 7-bre 52, partitura ms., I-Nc, 7.8.3/4 (consultabile in IC). Pezzo per violino sopra motivi dell’Opera Otello di Rossini composto da Silvestro Nicosia sotto la direzione del Si:r Direttore Mercadante, partitura ms., I-Nc, 28.1.17/8. Fantasia per flauto con accompagnamento d’orchestra su vari motivi del Guglielmo Tell di Rossini composta da S.r Scaramella, partitura ms., I-Nc, 32.1.18/109; Fantasia per Flauto con accompagnamento d’Orchestra su vari motivi dello Stabat del M.o Rossini composta da G.i Scaramella sotto la direzione del M.o Direttore Saverio Mercadante, partitura ms., 32.1.18/110. Scaramella fu un eccellente flautista, Silvestro Nicosia, come il fratello Salvatore, un buon violinista, Gaetano Braga uno dei più importanti violoncellisti della sua epoca. Dell’esecuzione da parte di Scaramella delle due fantasie in accademie date al Collegio è data notizia nel «Museo di scienze e letteratura» I, 1843, pp. 170-178: 177 e II, 1844, pp. 106-110: 108, nello stesso articolo è fatto riferimento anche a Silvestro Nicosia. Il flautista eseguì la fantasia sul Guglielmo Tell anche al San Carlo qualche anno dopo. Si veda «Il Lucifero» IX/9, 1° aprile 1846, p. 75. L’esecuzione da parte di Braga della sua fantasia è indicata nel manoscritto (vedi supra).

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Musiche per Rossini nella biblioteca di San Pietro a Majella Un primo caso è dato da due manoscritti che contengono le elaborazioni di “Qual mesto gemito” e della Preghiera del Mosè fatte da Mercadante per delle accademie tenute nel 1852 e nel 1857.²0 In entrambi i casi Mercadante utilizza dei pezzi concertati e li adatta perché siano eseguiti da coro e orchestra. Di queste trascrizioni e arrangiamenti abbiamo notizia anche dalla stampa. Un dettagliato resoconto di un’accademia tenuta in Conservatorio nel marzo del 1850 è riportato dalla «Gazzetta musicale di Milano», che mette in evidenza anche l’attenzione e la cura che durante la sua direzione Mercadante ebbe per l’orchestra degli allievi: Nel Conservatorio, il direttore cav. Saverio Mercadante ci ha offerto quattro mattinate, nelle quali gli allievi han dato un bel saggio della loro istruzione nella nobil arte. L’orchestra completa e numerosa è degna di particolari encomii. Si vede senza velo che Mercadante con preferenza ha dedicato tutto il suo zelo all’istrumentale. Se tante nostre orchestre assistessero agli esperimenti del Collegio di Napoli, rimarrebbero meravigliate dell’espressione, del nerbo, che questi giovanetti impiegano nell’eseguire le composizioni de’ propri compagni, e dei più famigerati maestri. Il cav. Mercadante con la sua magica bacchetta li dirige con quella valentia dovuta al suo alto merito. Qualche volta, preso da soverchio entusiasmo, trasforma la battuta in un nuovo assordante istromento a percossa; gli alunni debbono in tutto imitare il loro direttore, meno in questo eccesso di marcare il tempo: le orecchie degli ascoltanti non ne rimangono contente.²¹

Il foglio contiene un commento esteso e anche piuttosto critico riguardo a questo uso di Mercadante di musiche rossiniane: Il nome di Mercadante giustamente impone a chicchessia; perciò guai a colui che ardisse dirigergli la più piccola osservazione. Io però, profittando dell’anonimo, m’arbitro a fargli un’interrogazione. Il Conservatorio non vanta alunni con buone voci per cantare arie, duetti, ecc., perciò per la parte vocale negli esperimenti non si fanno che cori, i quali, volendoli paragonare con l’orchestra, rimangono di gran lunga inferiori. Ciò sta bene. Ma perché il Direttore sceglie i pezzi concertati di Rossini per trasformarli in coro?.. Questi, composti originalmente per quattro o più parti reali, mal sopportano la riduzione a continuato coro: vi si oppone il concetto musicale che l’autore intese esprimere: vi si oppone l’istromentale: vi si oppone il sentimento delle parole. L’anno scorso ci diede l’introduzione del nuovo Mosè, il finale primo della Semiramide: quest’anno il finale della

²0 Largo del finale 1. Qual mesto gemito accomodato da Mercadante per eseguirsi dagli alunni del Collegio

nell’accademia del 1852, partitura ms., I-Nc, 7.8.11/2; Preghiera del Mosè trasportata un tono sotto. Accomodato dal Direttore Mercadante per farla a coro nell’accademia di giugno 1857, partitura ms., 7.8.11/9 (entrambi i manoscritti sono consultabili in IC). ²¹ «Gazzetta Musicale di Milano» VIII/4, 17 marzo 1850, p. 42.

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Cesare Corsi Zelmira. Era ben bizzarro udire da 10 o 12 voci di basso cantare l’invocazione di Mosè: altrettanti soprani intuonare Qual mesto gemito della Semiramide: e tanti altri tenori aprire l’adagio del finale della Zelmira. Non sarebbe più saggio consiglio scegliere de’ pezzi creati per coro, senza manomettere così inopportunamente, ed in un collegio di musica, le ispirazioni del Genio, in cui l’effetto delle masse è considerato con fino discernimento?²²

È probabile che l’osservazione non sia caduta nel vuoto. È quanto sembra suggerire un altro manoscritto, che presenta forse il caso più interessante tra i rifacimenti mercadantiani di composizioni di Rossini conservati in biblioteca. Si tratta dell’elaborazione del mottetto “O salutaris hostia”, composto da Rossini nel 1857, fatta da Mercadante per un’accademia tenuta in Conservatorio nel 1860.²³ In questo caso la scelta di Mercadante cade su un brano per sole voci, che è elaborato per coro e orchestra. Gli interventi sulle parti vocali originarie si limitano a un adeguamento della tessitura, in rapporto probabilmente ai mezzi esecutivi: la composizione è abbassata di un semitono, alcuni passi sono scambiati tra le voci, presumibilmente per contenere l’ambito della parte più acuta e adattarla al coro degli allievi. L’intervento più importante riguarda la scrittura ex novo dell’accompagnamento strumentale. Da sottolineare la scelta di Mercadante di scrivere per una compagine orchestrale dal colore particolare, costituita da archi soltanto bassi (quattro parti di violoncello e una di contrabbasso), fiati prevalentemente ad ancia (due clarinetti e due fagotti, con una coppia di corni), un’arpa e timpani. La tinta scura degli archi ricorda quanto praticato dallo stesso Mercadante in un alcune sue composizioni sacre, come le Sette ultime parole di Cristo sulla croce o i Responsori, le cui parti strumentali sono scritte per un’orchestra d’archi in cui sono esclusi i violini.²4

²² Ibidem. ²³ Nella biblioteca del Conservatorio sono presenti due partiture manoscritte, una contenente le sole parti

orchestrali aggiunte da Mercadante (O salutaris hostia mottetto a 4 voci. Partitura d’orchestra aggiunta da Mercadante per farsi eseguire dagli alunni del collegio marzo 1860, I-Nc, 34.3.28/12) l’altra completa di tutte le parti (1.4.3/9). Sulle intonazioni rossiniane di “O salutaris hostia” si veda Norbert Pritsch, Rossinis Vertonungen des “O salutaris hostia”, «La Gazzetta. Zeitschrift der Deutschen Rossini Gesellschaft» XVI, 2006, pp. 4-14. ²4 Vedi es. mus. 1, realizzato da Guglielmo Esposito, allievo della classe di composizione del M° Gaetano Panariello.

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Musiche per Rossini nella biblioteca di San Pietro a Majella

Figura 3: Gioachino Rossini – Saverio Mercadante, «O salutaris hostia», rielaborazione per orchestra del mottetto per sole voci di Rossini (I-Nc 1.4.3/9, c. 1r).

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Cesare Corsi

Es. mus. 1: Rossini – Mercadante, «O salutaris hostia», mm. 1-12.

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Musiche per Rossini nella biblioteca di San Pietro a Majella

Es. mus. 1: Rossini – Mercadante, «O salutaris hostia». Tornando alle opere scritte in onore di Rossini, i manoscritti della biblioteca ci con215


Cesare Corsi ducono a un piccolo gruppo di composizioni di Mercadante, già in parte note, scritte per occasioni diverse. Si tratta di esempi del genere della fantasia, basati quindi sulla riscrittura e la tessitura di idee musicali note, di cui Mercadante aveva già dato grandi prove, dalla Sinfonia sui motivi dello Stabat mater di Rossini alla fantasia per orchestra Omaggio a Bellini.²5 Il primo esempio è l’Inno a Rossini per coro e orchestra, una composizione commissionata a Mercadante per le celebrazioni organizzate dalla Società rossiniana di Pesaro nel 1864.²6 Dell’Inno la biblioteca conserva due copie della partitura e i materiali esecutivi probabilmente preparati per l’occasione.²7 L’Inno a Rossini è scritto per risorse strumentali e vocali elefantiache. L’organico era pensato per una esecuzione all’aperto. La partitura prevedeva un ampio numero di archi e il raddoppio di tutte le parti dei fiati.²8 Per l’esecuzione, la cui direzione fu affidata ad Angelo Mariani, furono impiegati oltre quattrocento tra orchestrali e coristi. L’opuscolo pubblicato per l’occasione ne riporta uno a uno tutti i nomi.²9 ²5 Sui brani discussi di seguito si veda Rey M. Longyear, The Symphony in Naples 1800-1840, New York-Lon²6

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don, Garland, 1983, pp. XXVII-XXVIII e Antonio Rostagno, La musica italiana per orchestra nell’Ottocento, Firenze, Olschki, 2003, pp. 257-259. L’avvenimento, è molto ben documentato da una pubblicazione a stampa, in cui è riportato l’intero programma della manifestazione: Delle feste fatte in Pesaro in onore di Gioacchino Rossini nel suo dì onomastico 21 agosto 1864, Pesaro, Tipografia Nobili, 1864. Si veda pure Radiciotti, Gioacchino Rossini cit., II, pp. 451-459, ed Ernesto Paolone, Inaugurazione della statua di G. Rossini nel 1864 e pompe funebri in onore dello stesso nel 1869, a Pesaro, attraverso spigolature epistolari, «Rassegna Dorica. Cultura e cronaca musicale» VI, 1935, pp. 252-256 e sgg. A Rossini Inno con grandi masse vocali e strumentali da eseguirsi in Pesaro il giorno 21 agosto 1864 per la solenne inaugurazione del busto dell’immortale compositore, attestato di stima e di amicizia di Saverio Mercadante, Napoli giugno 1864, partitura ms. dettata da Mercadante I-Nc, 41.7.6, altra partitura ms. 1.4.8/11 (entrambi i manoscritti sono consultabili in IC). Riguardo ai materiali esecutivi la biblioteca conserva la parte del conduttore e le parti (rispettivamente, 1.4.15/18 e 25.7.1-3). La partitura prescrive un’orchestra formata da un numero molto ampio di archi (48 violini primi, 36 violini secondi, 16 viole, 16 violoncelli, 24 contrabbassi) e prevede il raddoppio delle parti di tutti i fiati e delle percussioni (4 ottavini, 4 flauti, 4 clarinetti piccoli, 4 clarinetti in si bemolle, 4 oboi, 6 tra fagotti e controfagotti, 8 corni, 8 trombe, 6 tromboni, 2 oficleidi, 4 tamburi, 2 sistri, 2 grancasse), indica, infine, la composizione del coro, tutto maschile (60 tenori primi, 40 tenori secondi, 40 baritoni e 60 bassi), e fornisce ragguagli sulla disposizione ( «L’orchestra deve essere costruita ad anfiteatro, e composta di otto registri […], beninteso che il primo registro deve elevarsi dal suolo almeno 12 palmi» (41.7.6, c. 1v). Nell’elenco sono presenti nomi eccellenti. È il caso, ad esempio, di Giulio Briccialdi e di Gioacchino Bimboni, del coro faceva parte Gaetano Gaspari «maestro della musica di S. Petronio e professore bibliotecario del Liceo musicale di Bologna». Cfr. Delle feste fatte in Pesaro cit. p. 83 e 85. La composizione di Mercadante è così descritta: «quest’inno dal lato poetico bello in ogni sua parte […] dal lato musicale è un vero prodigio; giacché l’illustre autore del Giuramento, e del Bravo e della Vestale seppe sì bene unire i diversi pensieri tolti dalla Zelmira, dalla Donna del Lago, e dallo stesso Guglielmo da rendersi ognor più degno dell’alta estimazione che gode come uomo nelle musicali discipline dottissimo. E ben gliene diè il pubblico solenne attestato domandandone ad unanimi grida la replica, la quale fu anche più vivamente applaudita. Povero Mercadante! Per essere cieco degli occhi fu costretto a dettare quest’inno nota per nota, e gli scoppiava il cuore pensando di non poter venire in persona a dirigerlo ed offrirlo al suo amico e collega Gioacchino Rossini» (ivi, p. 28).

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Musiche per Rossini nella biblioteca di San Pietro a Majella Rossini ringraziò Mercadante con una lettera indirizzata alla moglie Sofia Gambaro, nella quale ricordava la presenza a Pesaro di Florimo e di Carlo Conti ed esprimeva la sua gratitudine per quanto fatto da Mercadante: Alcuni amici mi scrissero da Pesaro […] essere partiti di colà per la volta di Parigi i maestri Conti e Florimo, fui lieto a questa notizia perché mi promettea […] (nel loro ritorno a Napoli) far agradire in mio nome al vostro Illustre consorte i sentimenti della mia viva gratitudine per quanto egli magistralmente aveva oprato in onore della mia Patria e di me stesso; attesi sino ad’ora, incerto come il sono del loro arrivo, in debito sacro di offrire a Mercadante il tributo che le è ben dovuto prendo la libertà di rivolgermi a voi e pregarvi di dichiarare al vostro celebre compagno che la mia riconoscenza ugualia la mia ammirazione per lui; nella dolce lusinga che queste parole offertele da voi abbiansi l’efficacità da me sinceramente desiata.³0

Sempre al 1864 risale la Sinfonia dedicata a Rossini, stampata più tardi da Ricordi in una riduzione per pianoforte, di cui la biblioteca conserva partitura e materiali esecutivi.³¹ L’ultima composizione è Omaggio a Rossini, una sinfonia scritta da Mercadante nel 1868 per la morte di Rossini. ³² Il brano fu eseguito nella commemorazione funebre organizzata dal Conservatorio nella chiesa di San Pietro a Majella. Il programma prevedeva l’esecuzione, oltre a questo brano, della Sinfonia sui motivi dello Stabat di Rossini dello stesso Mercadante e del Requiem di Paisiello. Nel resoconto riportato sulle pagine di «Napoli musicale» così è descritta la sinfonia composta da Mercadante: Senza dubbio era desso il pezzo atteso, e l’illustre Mercadante diè con esso altra

³0 La lettera, riportata da Santo Palermo (Santo Palermo, Saverio Mercadante. Biografia epistolario, Fasano,

Schena, 1985, p. 66), fa parte del fondo recentemente donato alla biblioteca da Francesco Rodriguez, erede di Mercadante. Florimo e Conti erano a Pesaro insieme a Paolo Serrao in rappresentanza del Conservatorio (Delle feste fatte in Pesaro cit., p. 62). ³¹ Partitura I-Nc, 1.4.8/6 (consultabile in IC), parte del conduttore 1.4.18/4, parti 27.7.41/1-40; Saverio Mercadante, Sinfonia per grand’orchestra a G. Rossini, riduzione per pianoforte, Milano, Ricordi, 1866 ca. La sinfonia è stata eseguita di nuovo in Conservatorio nel 2001 (si veda il programma Musica strumentale a Napoli fra Settecento e Ottocento, 17 ottobre 2001, Napoli, Edizioni del Conservatorio di San Pietro a Majella, 2001); edizione moderna, Saverio Mercadante, A Rossini. Sinfonia a grand’orchestra (1864), a cura di Michael Wittmann, Stuttgart, Deutsche Rossini Gesellschaft, 2013 (disponibile sul sito della Deutsche Rossini Gesellshaft). ³² Omaggio all’Immortale Rossini Sinfonia a grand’Orchestra di Saverio Mercadante autografo dettato, partitura ms., 41.7.31 (consultabile in IC), parti 27.7.41/1-40; edizione moderna: Saverio Mercadante, Omaggio all’immortale Rossini, Fantasia (1868), a cura di Michael Wittmann, Stuttgart, Deutsche Rossini Gesellschaft, 2013 (disponibile sul sito della Deutsche Rossini Gesellschaft).

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Cesare Corsi meravigliosa pruova della sua sapienza musicale, specialmente in vista della sua fisica situazione. Egli toccò dell’Assedio di Corinto, della Semiramide, del Guglielmo Tell infine de’ colossali capolavori del Rossini e tessì [sic] con sentito magistero di arte un gran pezzo di musica. Lo spazio non cel consente, né questo è il luogo di denotarne i particolari e farne un’analisi critica: solo diciamo che il rispetto del sacro tempio impedì all’affollato, quanto scelto, uditorio di prorompere in un plauso clamorosissimo.³³

Il giornale ricorda come lo stesso Mercadante guidò gli allievi nell’esecuzione del brano; mentre Paolo Serrao diresse l’orchestra degli allievi nel Requiem di Paisiello, in cui furono impiegati come solisti i cantanti allora scritturati al San Carlo: La direzione […] tenuta dallo stesso Mercadante ne fece diventar lodevole l’esecuzione, quantunque la difficoltà de’ lavori richiedesse qualche pruova maggiore per farla rispondere perfettissima. La messa del Paesiello, cosparsa di canti patetici, e qualche volta sublimi nella loro semplicità, diretta dal Serrao riuscì discretamente bene. Fra i cantanti si distinse il Mazzoleni, che interpretò con puro sentimento artistico il Rex tremendae maiestatis. Bene gli altri. Dovea cantare anche il Coletti, ma una indisposizione istantanea gliel vietò, e si soppressero i suoi pezzi.³4

La sinfonia fu di nuovo eseguita qualche anno dopo. Scritta per Rossini, finì per essere utilizzata in commemorazione dello stesso Mercadante. L’occasione fu l’inaugurazione nel 1876 del monumento al compositore, opera di Tito Angelini, collocato a Via Medina nei pressi del Conservatorio della Pietà dei Turchini.³5 La composizione fu eseguita dall’orchestra degli allievi del Conservatorio in un programma che prevedeva, insieme ad altri brani ³³ «Napoli musicale. Giornale di musica ed arti affini» II/1, 4 gennaio 1869, p. 1. ³4 Ibidem. Mazzoleni e Coletti facevano parte della compagnia di canto scritturata dal teatro. In quella

stagione entrambi furono impiegati in una tempestosa rappresentazione della Jone di Petrella, che segnò il ritiro dalle scene di Coletti. ³5 Il monumento fu più tardi spostato nella sua sede attuale, la piazza vicino Corso Vittorio Emanuele che porta il nome del compositore. La «Gazzetta musicale di Milano» fa riferimento all’avvenimento e all’esecuzione della sinfonia in una breve cronaca: «Il terzo pezzo strumentale fu un omaggio a Rossini che il Mercadante scrisse nel 1868, quando era cieco, pe’ funerali del grande maestro celebrati nella chiesa di S. Pietro a Maiella». Il resoconto non è del tutto lusinghiero: «comincia la sinfonia in parola col canto del gondoliere nell’Otello, cui segue la popolare frase del duetto del Guglielmo Tell: O Matilde. Il movimento agitato, fu, ad arte, cangiato in un moderato; questo motivo è affidato ai violoncelli, e l’effetto non sarà mai bello, perché vi si trovano dei passaggi acutissimi […]. Fa udire in seguito il Qual mesto gemito della Semiramide, ma il Mercadante vi aggiunge una battuta che scolora, sciupa ed allunga l’originale disegno melodico […] il brano meglio riuscito è quello che riproduce il duetto dell’Otello: L’ira d’avverso fato […] fa capolino da ultimo il celebre canto dei Bardi nella Donna del Lago». Cfr. «Gazzetta musicale di Milano» XXXI/39, 24 settembre 1876, pp. 326-327.

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Musiche per Rossini nella biblioteca di San Pietro a Majella di Mercadante (le sinfonie dell’Elena da Feltre e della Schiava saracena), due composizioni d’omaggio: una ouverture scritta da Paolo Serrao qualche anno prima per i funerali del compositore e un inno in onore di Mercadante composto per l’occasione dal direttore del Conservatorio Lauro Rossi, brani di cui la biblioteca conserva autografi e materiali per l’esecuzione.³6

³6 Cfr. Omaggio a Mercadante. Ouverture funebre scritta espressamente pel funerale dell’illustre maestro da

Paolo Serrao, ms. autografo I-Nc, 7.8.8/11 (consultabile in IC), partitura 1.6.15 (consultabile in IC), parte di conduttore 1.4.16/21, parti 30.7.9/1-86 (olim Pacco 602) e 30.7.20/1-97 (olim 613/a-k); Inno a Mercadante, ms. autografo 3.1.21/3 (consultabile in IC), partitura 41.7.45/2, parti 27.8.8/1-128.

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Francesco Nocerino Strumenti a tastiera per «un pianista di quarta classe» Egli ha vinto un nome imperituro, il genio e, soprattutto, la felicità. (Stendhal, Vita di Rossini)

Le recenti celebrazioni per i 150 anni dalla morte di Gioachino Rossini (1792-1868), hanno suscitato anche per gli strumenti musicali una rinnovata attenzione per le ricerche legate agli interessi, ai gusti e alle preferenze dell’insigne compositore pesarese. Violinista, violista, violoncellista, flautista e cornista, Rossini fu fine conoscitore degli strumenti musicali e, negli anni della sua giovinezza, studiò pure su strumenti a tastiera diversi dal pianoforte. Di ciò, ne è importante testimonianza quanto il musicista stesso asserì nell’ultima sua lettera, inviata il 18 ottobre 1868, da Passy, all’amico Luigi Grisostomo Ferrucci: Niuna cosa potea essermi più gradita che il parlarmi del gravicembalo o spinetta esistente ognora presso il tuo cugino Malerbi. Saprai che nella mia adolescenza e durante un mio soggiorno in Lugo mi esercitavo quotidianamente su quel barbaro istrumento! Dico barbaro oggi perché divenuto come il sai pianista di qualche valore nella 4a classe ma che ho ognora raccomandato ai professori di canto come di molto preferibile ai nuovi clamorosi pianoforti per l’istruzione del canto sentito, se vai al Teatro ti sarà facile verificare come sian stati messi in pratica i consigli del Pesarese!! Oh miserie umane!!!¹

Realizzato da Augustinus Henrichini Silesiensis nel 1707, cembalaro e organaro originario della Slesia, antica regione dell’Europa centrale, questo “barbaro strumento”, recentemente ritrovato,² è particolarmente prezioso per essere stato lo strumento a tastiera ¹ La lettera è nel Fondo Ferrucci della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Cfr. Matteo Messo-

²

ri-Anna Katarzyna Zareba, Über das von Gioachino Rossini benutzte Lugheser Cembalo, «Deutsche Rossini Gesellschaft», 2018, pp. 4-22: 5. Cfr. Luigi Crisostomo Ferrucci, Giudizio perentorio sulla verità della patria di Gioachino Rossini impugnata dal prof. Giuliano Vanzolini, Firenze, Tipografia della Gazzetta d’Italia, 1874, p. 13 in nota; Paolo Fabbri, I ricordi rossiniani di Luigi Grisostomo Ferrucci, in Belliniana et alia musicologica. Festschrift für Friedrich Lippmann, Wien, Edition Praesens, 2004 (= Primo Ottocento, 3), pp. 104-130. Del clavicembalo di cui parla la lettera, si erano perse le tracce nel secolo scorso, ma grazie agli studiosi Matteo Messori e Anna Katarzyna Zareba, lo strumento è stato rinvenuto presso una collezione privata negli Stati Uniti d’America. Cfr. Messori-Zareba, Über das von Gioachino Rossini benutzte Lugheser Cembalo cit., pp. 4-22.

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Francesco Nocerino sul quale studiò il giovanissimo Gioachino Rossini sotto la guida del canonico Giuseppe Malerbi tra il 1802 e 1804, mentre era a Lugo di Romagna, città natale paterna. L’estensione del clavicembalo rinvenuto è di quattro ottave con prima ottava corta (Do1/Mi1-Do5), ambito alquanto diffuso all’epoca e comune a quello dell’organo positivo dell’Oratorio di Sant’Onofrio realizzato dall’organaro bolognese Filippo Gatti nel 1750, a sei registri e con una piccola pedaliera di otto tasti, collegata all’ottava grave corta del manuale. È tradizione che su questo strumento si esercitasse il piccolo Rossini, quando era allievo dei fratelli Luigi e Giuseppe Malerbi, rettori della confraternita che gestiva l’Oratorio di Sant’Onofrio. L’oratorio fu gravemente danneggiato nel secolo scorso durante la seconda guerra mondiale e l’organo Gatti, restaurato nel 1970 da Barthélemy Formentelli, oggi si trova nella Chiesa del Carmine di Lugo. Nella stessa chiesa dove ora è conservato il positivo del 1750, vi è anche un importante organo del celebre organaro veneziano Gaetano Callido del 1797, con estensione di 62 tasti (Do1-Re6) e con una pedaliera all’italiana di 27 tasti, di certo ugualmente noto a Rossini,³ durante il suo periodo di soggiorno a Lugo. Per ciò che riguarda l’accordatura degli strumenti a tastiera (organi e clavicembalo) presenti a Lugo, sui quali si esercitava “quotidianamente” il giovane compositore, si sa che non era adottato il sistema temperato equabile, appoggiato da Rossini dal 1834 in poi, bensì un sistema inequabile, basato sulle direttive dettate dalle Registrature ed accordature per organo e cembalo del C[anonico] D[on] Luigi Malerba – 1794, molto simile al sistema Vallotti.4

Figura 1: Filippo Gatti, Organo 1750, Lugo, [particolare]. ³ Oscar Mischiati, L’organo della chiesa del Carmine di Lugo di Romagna, Bologna, Riccardo Patron, 1968. 4 Patrizio Barbieri, Persistenza dei temperamenti inequabili nell’Ottocento italiano, «L’Organo» XX, 1982, pp. 57-124: 66-68 e l’appendice alle pp.115-120.

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Strumenti a tastiera per «un pianista di quarta classe» La prima metà dell’Ottocento corrisponde a un periodo di fervida ricerca e sviluppo di nuove tecnologie applicate all’evoluzione del pianoforte, divenuto lo strumento dal quale reclamare risposte adeguate alle numerose ed esigenti richieste dei compositori del tempo. Meccaniche più complesse di quelle viennesi, che erano state protagoniste nel Settecento, a favore di quelle inglesi si andarono sviluppando grazie all’evoluzione dei materiali messi a disposizione dalle nuove tecnologie e l’applicazione di corde d’acciaio, con superiori capacità di tensione e diversa risposta timbrica, imponendo serie evoluzioni nella struttura di questo strumento, sempre più diverso dall’artigianale e ormai antiquato clavicembalo, considerato rappresentante dell’ancien régime. Quando nel 1829, con la composizione del Guillaume Tell, terminò la sua carriera operistica, Rossini aveva solamente 37 anni. Dopo un periodo di scarsa produzione musicale, in una seconda intensa e non meno impegnativa fase compositiva della sua vita, dedicata principalmente alla produzione musicale cameristica, Rossini ci ha lasciato l’interessantissima raccolta di Péchés de vieillesse e la sua Petite messe solennelle, che lui stesso definiva come «l’ultimo dei miei Péchés de vieillesse», musica tutta scritta negli ultimi anni vissuti a Parigi, nella quale è sempre presente, in maniera preponderante, il pianoforte.5 Un primo pianoforte ricordato nelle lettere del grande maestro è proprio un pianoforte viennese, costruito da Johan Fritz, posseduto da Rossini a Castenaso, nei pressi di Bologna, nella villa acquistata nel 1812 da Giovanni Colbran, padre della celebre cantante Isabella Colbran. Il pianoforte, raffigurato in una foto tratta dal poderoso testo su Rossini pubblicato circa un secolo fa da Giuseppe Radiciotti,6 era lo strumento sul quale fu composta l’opera Semiramide,7 come ricordato dallo stesso Gioachino Rossini nella sua lettera del 25 marzo 1851 a Rinaldo Fagnoli, al quale il pianoforte, assieme alla villa, era stato venduto dopo la morte di Isabella Colbran: Pregiatissimo Sig. Rinaldo Mi compiaccio dichiararle che il Pianoforte del Fabricante Johann Fritz di Vienna a lei ceduto, esistente tutt’ora nella Villa di Castenaso, è quello stesso di cui mi valsi allorquando composi il mio Spartito che per titolo Semiramide: In fede Gioacchino Rossini Bologna 25 Marzo 1851 All’Ill.mo Sig.r Rinaldo Fagnoli.8

5 Su questa fase della vita rossiniana, si vedano i saggi presenti in I Péchés de Vieillesse di Gioachino Rossini, 6 7 8

a cura di Massimo Fargnoli, Napoli, Guida, 2015. Giuseppe Radiciotti, Gioacchino Rossini. Vita documentata opere ed influenza su l’arte, 3 voll., Tivoli, Arti grafiche Majella di Aldo Chicca, 1928, tavola XXVII, tra pp. 324-325. La prima rappresentazione della Semiramide di Rossini si tenne a Venezia al Teatro La Fenice il 3 febbraio 1823. La lettera, insieme alla foto dello strumento, si trova pubblicata in Radiciotti, Gioacchino Rossini cit., tavola XXVII.

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Francesco Nocerino

Figura 2: Johan Fritz, Pianoforte, [foto da Giuseppe Radiciotti]. Lo strumento, un pianoforte a coda, è andato purtroppo perduto e dall’unica foto a noi rimasta non è possibile ricavare molto: non è chiara l’estensione dello strumento per la scarsa definizione dell’immagine; la pedaliera presenta solo tre pedali, nonostante siano ben visibili invece quattro tiranti; infine, una delle tre colonnine stile impero di sostegno dello strumento appare non in asse perpendicolare. Questi piccoli indizi fanno pensare a un pianoforte in disuso già agli inizi del secolo scorso. La villa di Castenaso, appartenuta poi a Rossini, subì un incendio durante la Seconda Guerra Mondiale dal quale, mentre poté essere recuperato il bel leggio visibile nella foto,9 malauguratamente non scampò il pianoforte, andato così perduto.

9 Il leggio è oggi presente nella Casa Museo dedicata a Rossini del musicologo e collezionista Sergio Ragni.

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Figura 3: Johann Baptiste Reiter, Isabella Colbran, (1835 circa). 225


Francesco Nocerino Un bel quadro dipinto da Johann Baptiste Reiter negli anni trenta dell’Ottocento, rappresenta Isabella Colbran, all’epoca moglie di Rossini, nella sua residenza di Castenaso, seduta accanto ad un pianoforte con una mano sulla tastiera e un piede poggiato su uno dei pedali dello strumento. Dalla targhetta posta sul pianoforte al centro della tastiera è possibile leggere il nome del costruttore viennese Franz Werle (1772-1826). Lo strumento anche in questo caso è un pianoforte a coda che con i giochi timbrici realizzabili dall’uso combinato dei cinque pedali presenti (pedale di risonanza, una corda, fagotto, sordino e turcherie), di sicuro conferiva alle esecuzioni musicali un fascino intrigante ed esotico per noi difficile da immaginare. Una rara raffigurazione di Rossini accanto a un fortepiano, sempre degli anni Trenta del secolo XIX, ugualmente rappresenta uno strumento con una simile pluralità di pedali.¹0

Figura 4: Gioacchino Rossini, Editore Weber, collezione Ragni (Rossini fu nominato membro dell’Istituto di Francia nel 1823). ¹0 Ringrazio il gentilissimo dott. Sergio Ragni per avermi fornito le immagini e le preziose informazioni sul loro reperimento.

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Strumenti a tastiera per «un pianista di quarta classe» Mentre degli antichi pianoforti sinora citati non rimane altra traccia che quella lasciata dalle immagini e dalla lettera di Rossini, migliore sorte invece è stata riservata a un pianoforte tavolino realizzato a Venezia nel 1809 del costruttore Luigi Hoffer, oggi esposto a Casa Rossini di Pesaro, esistente al tempo di Rossini e di recente restaurato da Giulio Fratini.¹¹ Il piccolo fortepiano, testimone di una tipologia “domestica” di strumento a tastiera di primo Ottocento, è dotato di 53 tasti e ha un’estensione di quattro ottave e mezza, con prima ottava stesa (Do1-Mi5). I tasti diatonici sono in ebano e i cromatici in avorio. Privo di pedali, lo strumento è fornito di una ginocchiera per sollevare gli smorzatori (Forte). Durante il periodo della produzione cameristica di Rossini sono stati protagonisti, in particolare, gli strumenti realizzati dalla parigina maison Pleyel, una delle più prestigiose fabbriche europee di pianoforti. Gli strumenti di questa famosa ditta, fondata e diretta ai tempi di Rossini da Ignace Pleyel nel 1807 e successivamente dal figlio Camille Pleyel e Auguste Désiré Bernard Wolff, furono particolarmente apprezzati da Fryderyk Chopin che li preferì ai pianoforti viennesi e ai pianoforti Érard, che pur montavano l’innovativa meccanica con “doppio scappamento”.¹² Il brend Pleyel fu stimato da numerosi illustri musicisti, tra i quali, oltre a Fryderyk Chopin e a Gioachino Rossini, si ricordano anche Alfred Cortot, Claude Debussy, Camille Saint-Saëns, Maurice Ravel e Igor’ Stravinskij. La meccanica dei pianoforti a coda Pleyel, sul modello della meccanica di tipo inglese, aveva lo scappamento singolo fissato sull’asta del tasto e i martelletti fissati su una barra separata, com’è ben evidente nell’accurata illustrazione del meccanismo riprodotta nel manuale napoletano del costruttore Ferdinando Sievers (vedi fig. 5), che così commenta: Meccanismo Pleyel. Atl. Tav. 8, fig. 246, rappresenta un meccanismo in uso in Francia ed in Italia; la casa Pleyel Wolf e Comp. a Parigi l’adopera da molti anni pei suoi grandi pianoforti; ben finito fa un buon giuoco, benché sia un poco pesante pel peso del martello con lo sperone ad un’asta troppo prolungata. Il dito risente ogni volta l’urto quando il martello ricade sul freno. Alle mani abituate a questo genere obbedisce bene; oltre a ciò la capacità del defunto Pleyel fa fede abbastanza della bontà di questo meccanismo, purché la parte artistica sia ben finita.¹³

¹¹ Vedi Giulio Fratini, Relazione conclusiva di restauro / Pianoforte a tavolo Luigi Hoffer / Venezia 1809, 2015.

Documento gentilmente fornitomi dal restauratore Giulio Fratini, che ringrazio. ¹² Chopin e il suono di Pleyel. Arte e musica nella Parigi romantica, a cura di Florence Gétreau, Briosco (MB), Villa Medici Giulini, 2010, in particolare i contributi di Christopher Clarke, Grant O’Brien, Giovanni Paolo Di Stefano. ¹³ Giacomo Ferdinando Sievers, Il Pianoforte. Guida pratica per costruttori, accordatori, dilettanti e professori di pianoforti, Napoli, Stabilimento Tipografico Ghio, 1868, p. 187. Sui pianoforti Pleyel a Napoli nell’Ottocento, mi sia consentito segnalare il mio saggio Francesco Nocerino, Pianoforti Pleyel a Napoli, in corso di pubblicazione.

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Francesco Nocerino In aggiunta al commento di Sievers, occorre rilevare che questo sistema, il quale prevede la presenza dello spingitore e, quindi, dello scappamento sul tasto, favorisce la prontezza e al tempo stesso l’accuratezza nella risposta dei martelletti al tocco del pianista.

Figura 5: Meccanismo Pleyel (Giacomo Ferdinando Sievers, Il Pianoforte […] cit., Napoli, 1868). I pianoforti Pleyel, meticolosamente curati in ogni particolare, offrivano un’eleganza e una ricercatezza che consentiva al tocco un ampio ventaglio di sfumature, rendendoli ben cari anche a Rossini, nonostante amasse definire se stesso, sornionamente, «pianiste de la quatrième classe». Dalle notizie d’archivio ricavabili dai registri della maison Pleyel-Wolff, attualmente conservati al Musée de la Musique di Parigi¹4 e attualmente messi online, risulta che Rossini fosse l’acquirente di vari pianoforti a coda Pleyel nel periodo tra il 1832 e il 1844. I numeri seriali di questi strumenti sono 2362, 10965, 10966 e 11695.

¹4 Per approfondimenti Giovanni Paolo Di Stefano, Gli strumenti musicali di Palazzo Mirto. Storia, tecno-

logia, restauro, Palermo, Regione Siciliana, 2011, pp. 64-83; René Beaupain, Chronologie des pianos de la maison Pleyel, Paris, L’Harmattan, 2000; Christopher Clarke, I pianoforti di Pleyel all’epoca di Chopin a Parigi: caratteristiche nella produzione di pianoforti del periodo, in Getreau, Chopin e il suono di Pleyel cit., pp. 212-255 e Andrea Malvano, Érard Versus Pleyel. Liszt e Chopin rispecchiati dai loro pianoforti, «Nuova Rivista Musicale Italiana» 2, 2011, pp. 157-172.

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Strumenti a tastiera per «un pianista di quarta classe»

Figura 6: Registri di vendita Pleyel, Pianoforti a coda numeri seriali 2362, 10965, 10966, 11695, Parigi, anni 1832 e 1846. Mentre si sono perse le tracce del pianoforte Pleyel con numero seriale 2362, un pianoforte verticale acquistato nel 1832 a Parigi, e di quello con numero 10965, un pianoforte a coda acquistato a Bologna assieme all’esemplare 10966, gli altri due pianoforti a coda Pleyel acquistati da Rossini e inviati a Bologna sono ancora presenti in Italia e, di recente, accuratamente restaurati. Quello identificabile col numero seriale 10966,¹5 fu acquistato nel 1844 e adesso appartiene al Museo Civico di Bibliografia Musicale di Bologna e l’altro, col numero seriale 11695, acquistato nel 1846, oggi appartiene alla collezione privata del musicista e studioso Flavio Ponzi di Bologna. Grazie a questi due magnifici strumenti è possibile oggi costatare direttamente il gusto e la qualità delle scelte del musicista pesarese nella sua produzione pianistica di fine carriera. Un ultimo strumento Pleyel riguardante Rossini è contrassegnato con il numero di serie 36445: un pianoforte a coda in palissandro, realizzato presso la fabbrica nel maggio del 1864¹6 che, nei registri della ditta, risulta venduto a “G. Rossini”, Parigi, per 2100 franchi; lo strumento però, è segnato in uscita il 9 maggio 1869, a morte già avvenuta del compositore (13 novembre 1868) e, quindi, mai consegnato al musicista. Questo dato, riportato nei registri di fabbricazione della Pleyel, è contrassegnato da una “R” che indica repris, ossia restituito (riportato) al deposito di fabbrica per essere venduto come strumento d’occasione.

¹5 Flavio Ponzi, Il suono pianistico rossiniano: la tipologia Pleyel, in Viaggio a Rossini, a cura di Luigi Ferrari, Bologna, Nuova Alfa, 1992, pp. 150-165. Cfr. Ivi, p. 157, dov’è citato un pianoforte Pleyel dello stesso anno, appartenente a una collezione privata ¹6 di Pesaro.

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Francesco Nocerino

Figura 7: Registri di fabbricazione Pleyel, Pianoforte a coda numero seriale 36445, in uscita il 9 Maggio 1869 per Gioachino Rossini, Parigi. Un evento editoriale, infine, lega il nome di Rossini al pianoforte; infatti, un interessante e poco conosciuto libretto della prima metà dell’Ottocento, destinato alla manutenzione del pianoforte, fu dedicato a Gioachino Rossini, quando era ancora nel pieno della sua folgorante e fulgida carriera di operista. Si tratta del Manuel simplifié | de l’accordeur | ou | L’art d’accorder les pianos mis à la portée de tout le monde di Giorgio Armellino,¹7 un testo pubblicato a seguito della sempre maggiore diffusione nell’Ottocento del pianoforte,¹8 uscito nel 1834 in francese presso la casa editrice Roret di Parigi. Questo piccolo libro desta alcune perplessità già a una prima scorsa, poiché appare davvero strana l’assenza del cognome dell’autore, che si firma solamente M. Giorgio di Roma | Professeur, sia in copertina, sia nella dedica. Il nome dell’autore, Giorgio Armellino, apparirà solo in una successiva edizione del 1855, laddove, invece, sparirà la qualifica di professore, pur permanendo la dedica all’illustre Rossini.¹9 Suscita curiosità a riguardo, inoltre, che vi sia una succinta pubblicazione proprio nello stesso anno 1834 a Parigi di poche pagine dal titolo Abrégé de l’art d’accorder soi-même son piano, déduit des principes rigoureux de l’acoustique et de l’harmonie da parte di Claude Montal, noto accordatore e costruttore di pianoforti, autore, un paio d’anni dopo, di un ben più poderoso e notevole libro su L’Art d’accorder soi-même son piano. In quest’ultimo libro, Claude Montal, pur senza farne il nome, ma citando solo un certo “Monsieur Giorgio”, critica chiaramente il testo di Armellino, manifestando un atteggiamento cattedratico tale da far ipotizzare che Giorgio Armellino possa essere stato un suo allievo.²0 Seppur lo si possa accusare di essere un vero e proprio plagio, il testo di Giorgio Armel¹7 [Giorgio Armellino], Manuel simplifie de l’accordeur, ou l’art d’accorder le piano mis a la portee de tout le

monde | par Giorgio di Roma, Paris, De Roret, 1834. ¹8 Tra le prime pubblicazioni in francese Alexandre Loüet, Instructions théoriques et pratiques sur l’accord du pianoforte, Paris, Le Duc, 1797-1800; Armand François Nicolas Blanchet, Méthode abrégée pour accorder le clavecin et le fortepiano, avec figures, Parigi, Lacloye, [1800]; Pierre Jean Jobert Lasalette, Lettre sur une nouvelle manière d’accorder les forte-pianos, Parigi, chez Goujon libraire rue du Bacq n. 33, 1808. ¹9 Giorgio Armellino, Manuel simplifié de l’accordeur, ou L’art d’accorder les pianos mis à la portée de tout le monde, Paris, à la Librairie encyclopédique de Roret, 1855. ²0 Claude Montal, L’art d’accorder soi-même son piano, Paris, Jules Meissonnier, 1836, p. X.

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Strumenti a tastiera per «un pianista di quarta classe» lino, non solo conobbe un’altra edizione nel 1855, ma fu anche tradotto in spagnolo e in tedesco, ottenendo un ampio successo. Nell’edizione del 1855, oltre ad emendare errori e refusi dell’edizione del 1834, l’autore ampliò il proprio lavoro, fiero del successo ottenuto, non citando però mai Claude Montal, e spiegando (excusatio non petita?) che il suo primo libro era nato a seguito di uno scambio epistolare con un artista di provincia che gli chiedeva consigli.²¹ Sia Montal sia Armellino furono convinti assertori del temperamento equabile e della necessità di stabilire un unico diapason su basi scientifiche. In particolare Montal fu in contatto con Charles Cagniard de Latour, inventore della sirena di Cagniard de Latour, che consentiva di poter stabilire il numero di vibrazioni di un determinato suono. L’accordatore Giorgio Armellino ovviamente conosceva sia i pianoforti Érard, sia quelli Pleyel, prodotti dalle due principali ditte francesi: infatti, in modo paradigmatico, quando nel suo manuale inserisce la raffigurazione di due pianoforti tavolino, rappresenta un “Érard 1790”, come esempio di pianoforte antico e un “Playel 1843” (sic, recte Pleyel 1843), come esempio di pianoforte moderno.

Figura 8: Erard 1790 (Giorgio Armellino, Manuel simplifié de l’accordeur. […], cit., Parigi, 1855). ²¹ Armellino, Manuel simplifié (1855) cit., pp. 7-8.

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Francesco Nocerino

Figura 9: Pleyel 1843 (Giorgio Armellino, Manuel simplifié de l’accordeur. […], cit., Parigi, 1855). Quasi certamente a Parigi, dove il maestro pesarese trascorse molti anni della sua vita, Giorgio Armellino conobbe Gioachino Rossini e, sfruttando le sue origini italiane (nella sua prima opera a noi nota si firma “Giorgio di Roma”), seppe ottenere quel consenso per la dedica che certamente favorì le vendite e il successo del suo libro: AL SIGNOR MAESTRO ROSSINI Monsieur, En acceptant la dédicace du Manuel de l’Accordeur, vous avez comblé le plus fervent de mes voeux; permettez que je vous en témoigne ma vive reconnaissance. Votre tout dévoué serviteur, Giorgio ARMELLINO.²²

²² Ivi, p. 5

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Indice dei Nomi

Abri, Michele, 57-58 Accinni, Francesco, 25 Acerbi, Giuseppe, 105 Adriani, Placido, 57 Aiblinger, Johann Caspar, 166 Albano, Roberta, 74, 77-78, 80 Alberici, Stefano, 184 Alberti, Adamo, 50 Aldrich-Moodie, James, 121 Alfano, Giancarlo, 11 Alfieri, Vittorio, 32, 35, 40, 42, 45 Alfonzetti, Beatrice, 61 Alighieri, Dante, 89, 118-119 Amati, Felice, marchese, 161 Ambrogi (Ambrosi), Antonio, 68, 157, 167 Andreozzi, Gaetano, 78 Anelli, Angelo, 140, 145 Anelli, Luigi, 181 Angelini, Tito, 218 Angiolini, Pietro, 78-79 Antonelli, Armando, 165 Antonucci, Fausta, 58 Appelli, Francesco, 31, 39 Appi Metello, Gaetano, 50 Aquino, 86, 88-89 Aragona, Livio, 62 Arato, Franco, 51 Aristotele, 115 Armellini, Lorenza, 119 Armellino, Giorgio, 230-232

Arriva, Filippo, 58 Ashley-Cooper, Anthony, III conte di Shaftesbury, 121 Astolfi, Antonio, 50 Auclair, Matthias, 73 Aumer, Jean Pierre, 80 Avallone, Paola, 3, 9, 13, 15, 22 Avelloni, Francesco, 41, 60 Aversano, Luca, 174-175 Babini, Matteo, 7 Bacciagaluppi, Claudio, 52 Badin, Donatella, 121 Bailardo, Pietro, 57 Balocchi, Luigi, 134, 140 Balthazar, Scott L., 103 Barbaja, Domenico, 3, 7-8, 10, 20, 28, 33, 37, 42, 49, 62, 66-68, 71, 74, 77, 88, 90, 95, 123, 146, 149, 159, 161, 192, 196-197, 202 Barberis, Carolina, 31, 39, 50 Barbieri, Patrizio, 222 Barilli, Luigi, 134 Bartoli, Francesco, 48 Basevi, Abramo, 103-104 Bassi, Annetta, 50 Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de, 201 Beaupain, René, 228 Becker, Heinz, 118 233


Beethoven, Ludwig van, 99, 119-120 Beghelli, Marco, 127 Belisario, Luigi, 48 Belli Blanes, Paolo, 39, 49 Bellini, Vincenzo, 8, 62, 80, 192, 202, 207, 216 Benedetti, Michele, 95, 167 Benedetto XIV, 171 Benelli, Antonio, 71-72 Bentoglio, Alberto, 3, 9, 29-30, 43, 48, 55 Berio di Salsa, Francesco, 113-114, 116, 121 Bertazzoli, Raffaella, 118 Bettini, Amalia, 48 Bettini, Lucrezia, 31, 39, 44 Bettoni, Niccolò, 193 Beyle, Marie-Henry vedi Stendhal Biagioli, Laura, 159 Bianchini, Lodovico, 17-21 Bianconi, Lorenzo, 22, 52, 78, 125 Bimboni, Gioacchino, 216 Bizet, George, 62 Blair, Hugh, 121 Blanchet, Armand François Nicolas, 230 Blasis, Carlo, 92 Blom, Eric, 208 Blumenberg, Hans, 115 Bock, Elisabeth, 51 Boito, Arrigo, 113 Bon, Francesco Augusto, 29-30, 34 Bonmartini, Margherita, 50 Bordogni, Marco, 149 Borghetti, Vincenzo, 65 Bossa, Renato, 22, 52 Botticelli, Sandro, 67 Bouilly, Jean-Nicolas, 46 Bouvier, Joseph, 94 Braga, Gaetano, 210 Bragaglia, Anton Giulio, 57 Branchi, Andrea, 48, 50 234

Branchi, Angelina, 50 Branchi, Maria, 48, 50 Brandenburg, Irene, 77 Bratti Ricciotti, Daniele, 30 Brauner, Charles, 90 Brauner, Patricia, 90 Breitnermoser, Walter, 127 Briccialdi, Giulio, 216 Brignole, Vincenzo, 26-27 Brizio, Edoardo, 174-175 Brugnoli, Amalia, 90 Brunetti, Antonio, 136 Bruni, Angela, 31, 34 Bucarelli, Mauro, 54, 64, 101, 145 Bucciotti, Antonio, 50 Buonarroti, Michelangelo, 120 Burke, Edmund, 119, 121 Butkas Ertz, Matilda Ann, 75, 77-78 Buttiro, Ugo, 71 Byron, George Gordon, 118, 121 Cafaro, Fortunato, 25 Cafiero, Rosa, 4, 10, 52, 56, 74, 77, 80-81, 86, 93, 165, 167, 169-170, 186 Cagli, Bruno, 22, 54, 63-64, 74, 101, 123, 145, 165 Cagniard de Latour, Charles, 231 Callido, Gaetano, 222 Cammarano, Filippo, 59 Cammarano, Salvatore, 54-55, 60, 140 Cammarano, Vincenzo (Giancola), 59 Campilli, Giovanna, 79 Campo, José Antonio, 174 Canapa, Giacomo, 50 Canna, Pasquale, 86 Cantone, Gaetana, 54, 63 Capecelatro, Francesco, 25 Capecelatro, Giuseppe, 25 Capecelatro, Vincenzo, 25


indice dei nomi Capotorti, Luigi, 66, 69, 170 Cappa, Francesco, 210 Cappello, Giovanni, 127 Capranica, Domenico, 165 Capranica, Gian Lorenzo, 165-167, 169170, 172 Caraci Vela, Maria, 165 Carafa, Giovanni, duca di Noja, 29, 86, 101, 123, 146, 161 Carafa, Michele, 140 Caravita, Giuseppe, 138 Cardini, Francesca, 146 Caridei, Giovanna, 79 Carlo di Borbone, 19 Caroccia, Antonio, 3-4, 10-11, 124 Carpani, Giuseppe, 105-106, 140 Carrano, Antonio, 50 Carreira, Xoán M., 93 Cartoni, Pietro, 67-68 Casaccia, Antonio, 129 Casaccia, Carlo (Casacciello), 124, 128-129, 133, 135, 148, 151, 159 Casaccia, Giuseppe, 129 Casaccia, Raffaele, 155-156 Casati, Giovanni, 77 Casoni, Giovanni, 29 Castelli, Francesco, 25 Castelli, Giovanni, 25 Casti, Giovanni Battista, 155 Catugno, Francesco, 167 Cautela, Gemma, 205 Cavalletti Tessari, Carolina, 31, 34, 37, 39, 48, 50 Cavalli Cristiani, Geltrude, 31, 37, 39-40 Cavalli, Giuseppe, 31 Cavedagna, Vincenzo, 7 Ceccherini, Francesca, 128 Celi, Claudia, 76 Cencetti, Giovanni Battista, 68

Centolavigna, Carlo, 117 Cerlone, Francesco, 55-56, 58, 60 Cerrito, Fanny (Francesca Teresa Giuseppa Raffaela), 79, 93-94 Chabrand, Margherita, 128 Chassériau, Théodore, 114 Checcherini, Francesca, 146, 151 Checcherini, Giuseppe, 35, 44 Checcoli, Ippolita, 15 Chelard, Hippolyte-André-Jean-Baptiste, 140 Chiarini, Giuseppe, 54 Chopin, Fryderyk, 227-228 Ciandelli, Gaetano, 207 Ciccimarra, Giuseppe, 157, 167 Ciccolella, Daniela, 16 Cimarosa, Domenico, 7, 95-96, 99, 102, 124, 155 Cinque, Paola, 62 Clarke, Christopher, 227-228 Clemente, Alida, 22 Colbran, Giovanni, 223 Colbran, Isabella, 64, 72, 91, 95, 103, 119, 149, 167, 223, 225-226 Coletti, Filippo, 218 Colombani, Ernesto, 165-167 Colomberti, Antonio, 47-48, 50 Columbro, Carmelo, 11 Comelli, Adelaide, 161 Cometa, Michele, 121 Cometta, Kathi vedi Kometova-Podhorska, Katharina) Conti, Carlo, 206, 217 Conti, Marianna, 90 Coplan, May, 115 Cordella, Giacomo, 137, 139-140 Corsi, Cesare, 4, 10, 166, 207 Cortesi, Antonio, 77 Cortot, Alfred, 227 235


Coscia, Fabrizio, 62 Cosenza, Giovanni Carlo, 34, 48, 113 Costantini, signor, 89 Cotticelli, Francesco, 3, 10-11, 51-52, 55-57, 59, 61, 74 Cottrau, Guillaume Louis, 185-186 Crescentini, Girolamo, 69, 105, 200, 207208 Cristiani, Demetrio, 31, 37-38, 44, 48, 50 Cristiani, Geltrude, 44 Cristiani, Pietro Pin, 31, 36, 50 Croce, Benedetto, 52, 55, 57 Császár Mályusz, Edith, 174 Cuoco, Vincenzo, 52 D’Amico, Fedele, 117 D’Amico, Lorenzo, 78 D’Antonio, Rosa, 92 D’Avino, Gennaro, 60 Da Ponte, Lorenzo, 58, 124, 138-140 Dal Dosso, Francesca, 48 Danese, Marianna, 93 Dardanelli, Girolama (Geronima), 65 Dauberval, Jean, 92 Davanzati, Giuseppe, 125 David, Giovanni, 95, 161 Davis, John A., 15, 17 De Dominicis de Rossi, Carminantonio, 92 De Dominicis de Rossi, Giuseppe, 92-93 De Filippis, Felice, 54 De Giosa, Nicola, 207-208 De Gregorio Cirillo, Valeria, 30 De Lauzières, Achille, 191 De Luca, signora, 88-89 De Maio, Romeo, 57 De Marini, Giuseppe, 31-32, 34, 36-38, 3940, 47-48, 50 De Martini, Celeste, 86, 88-89 236

De Matteo, Luigi, 17 De Munck, Bert, 22 De Petris, Carla, 121 De Rosa, Luigi, 18 De Rosa, Maria Rosaria, 115 De Seta, Cesare, 54 De Simone, Alessandro, 54 De Simone, Paola, 124 De Simone, Roberto, 58, 60-61 De Virgiliis, Pasquale, 191 De Vivo, Arturo, 11 Debussy, Claude, 227 Degrada, Francesco, 63, 170 Del Dosso, Marco, 31 Del Gatto, Antonella, 127 Del Monaco, Giancarlo, 117 Del Prete, Rossella, 22 Delacroix, Eugène, 114 Delattre Destenberg, Emanuelle, 73 DelDonna, Anthony R., 61, 93 Della Valle, Cesare, 29, 35 Demarco, Domenico, 14, 16 Demierre, Paul-André, 3, 10 Dentice, principe, 163 di Drombel, duca, 48 Di Giacomo, Salvatore, 54-55, 60-61 di Sangro, Francesco, 60 Di Stefano, Giovanni Paolo, 227-228 Di Tondo, Ornella, 90, 92 Diodati, Giuseppe Maria, 140 Dionisi, Andrea, 50 Dionisi, Dionisio, 50 Dionisi, Massimina, 49 Dolezal, Vladimir, 174 Donà, Mariangela, 174 Donizetti, Gaetano, 8, 26, 62, 207-208 Donzelli, Domenico, 66, 71, 128, 161 Dorfmüller, Kurt, 174 Dragonetti, Luigi (marchese), 25


indice dei nomi Drouet, Louis, 166 Dubourg (Taglioni), Luisa, 88-89 Ducis, Jean-François, 113-114, 116 Dufourt, Hughes, 120 Duport, Louis-Antoine, 77, 87-90, 101 Duprè, Jules, 193 Durante, Marietta, 68, 89 Dutilleu, Pierre, 124, 139 Duval, Alexandre, 36 Eisenbeiss, Philip, 62, 65, 74 Engelhardt, Markus, 165 Érard, Sébastien, 227-228, 231 Ercolino, Stefano, 115 Eschilo, 89 Esposito, Guglielmo, 212 Fabbri, Adelaide, 49 Fabbri, Paolo, 3, 10, 65, 67-68, 73, 77, 103104, 111, 119, 125, 221 Fabbrichesi, Francesca, 3, 39 Fabbrichesi, Salvatore, 29-33, 35, 37-38, 4150, 55, 58, 60 Fagnoli, Rinaldo, 223 Falcone, Francesca, 77 Falconet, Francesco, 25 Faraglia, Nunzio Federigo, 14 Fargnoli, Massimo, 223 Fava, Elisabetta, 80, 125 Federici, Camillo, 34, 140 Federico II, 36 Ferdinando I di Borbone, 3, 29-31, 33, 37, 39, 75 Ferdinando II di Borbone, 18 Ferdinando IV di Borbone, 51, 102 Ferdinando I, 49 Ferranti Giulini, Maria, 105 Ferrari, Luigi, 229 Ferri, Camillo, 44

Ferrucci, Luigi Grisostomo, 221 Festa, Francesca, 149, 151 Fétis, François-Joseph, 207 Filippi, Maria, 117 Fioravanti, Valentino, 59, 68, 134-135, 137138-140, 155 Fioravanti, Vincenzo, 60 Fiordelisi, Anselmo, 54 Fiori, Alessandra, 165 Fiorino, Tonia, 57 Flaubert, Gustav, 121 Flimm, Jürgen, 117 Florimo, Francesco, 199, 205-206, 217 Foppa, Giuseppe Maria, 140 Formentelli, Barthélemy, 222 Formica, Marina, 61 Fornoni, Federico, 62 Fracanzani, Vincenzo, 48 Fraccaroli, Arnaldo, 196 Francesco I d’Austria, 46 Francesco I di Borbone, 185 Francesconi, Pasquale, 189 Franklin, Carolin, 121 Fratini, Giulio, 227 Freud, Sigmund, 115, 120 Frisiani, Alfonso, 195 Fritz, Johan, 223-224 Frontalini, Silvano, 174 Fusillo, Massimo, 3, 10, 118 Galeota, Giovanni, 25 Gallenberg Wenzel, Robert Graf von, 65, 77, 79, 84, 86, 208 Galli, Filippo, 66, 157 Gambaro, Sofia, 217 Garafola, Lynn, 77 Garcia, Manuel, 65, 95, 139 Garda, Michela, 120 Garofoli, Giuseppina, 49 237


Garofoli, Luigi, 50 Gaspari, Gaetano, 216 Gasse, Ferdinando, 138 Gatti, Filippo, 222 Gautier, Théophile, 88 Gazzotti, Pietro, 128 Genoino, Giulio, 38-39, 42 Gétreau, Florence, 227-228 Getto, Giovanni, 53 Geyer, Helen, 51 Ghristi, Christophe, 73 Giammattei, Emma, 55 Giannetti, Giuseppe, 140 Giazzotto, Remo, 185 Gibellini, Cecilia, 118 Gigante, Marcello, 51 Gioja, Gaetano, 7, 76, 90 Giovani, Giulia, 52 Giovinetti, signor, 86 Giraud, Giovanni, 34, 41 Giudici, Elvio, 117 Glon, Marie, 73 Glossop, Joseph, 166 Gluck, Christoph Willibald, 95 Goethe, Johan Wolfgang von, 89 Goldie, Peter, 115 Goldoni, Carlo, 32, 34, 36, 47, 56, 58, 124 Goodrich Heck, Anne, 57 Gorgia, 115 Gori, Anton Francesco, 121 Gossett, Philip, 123, 172, 205 Gottardi, Giovanni Battista, 50 Gracyk, Theodor, 116 Gramsci, Antonio, 9, 14 Graziani, Augusto, 15-16 Grazioli, Filippo, 138 Greco, Franco Carmelo, 52-55, 57, 59, 6163, 65 Greggiati, Giuseppe, 181 238

Grilli, Alessandro, 59, 118 Grimaldi, Luigi, 14 Grimani, Filippo, conte, 172, 175, 179 Grondona, Marco, 113, 119 Grubichs-Simitis, Ilse, 115 Gualzetti, Giacomo Antonio, 59 Guarniccioli, Luigi, 195-198 Gucci, signor, 82, 89 Guerra, Antonio, 75 Guglielmi, Pietro Alessandro, 128, 131, 141, 155 Guglielmi, Pietro Carlo, 139-140, 155 Haydn, Franz Joseph, 7, 109, 111, 120 Heck, Thomas F., 57 Henrichini, Augustinus, 221 Henry, Louis, 74, 76-82, 84-85, 87-90, 93 Hérold, Ferdinand Louis Joseph, 80 Hinrichsen, Hans-Joachim, 120 Hoffer, Luigi, 227 Hoffman, François Benoît, 45 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 119120 Holoman, D. Kern, 174 Hume, David, 114, 121 Hus, Pietro, 68, 74, 82, 90 Imperiale, Filippo, 26 Imperiali Luigi di Francavilla (marchese), 25 Internari, Carolina, 49 Internari, Quinto Mario, 49-50 Isotta, Paolo, 113, 117-119 Izzo, Filippo, 80, 93-94 Jacobs, Helmut C., 105-106 Jacobshagen, Arnold, 103, 132 Jeschke, Claudia, 77 Job, Giacomo, 50


indice dei nomi Job, Teresa, 50 Joerg, Guido Johannes, 175, 179 Jommelli, Niccolò, 90, 170 Jorio, Andrea de, 167-168 Kalendovsky, Jiri, 174 Kania, Andrew, 116 Kant, Imanuel, 120 Klemens von Metternich, 8, 70 Kometova-Podhorska, Katharina, 174 Kotzebue, August von, 34, 60 Kuzmick Hansell, Kathleen, 78 Labboccetta, Domenico, 207 Lablache, Luigi, 69-70 Lamberti, signora, 82 Landi, Pasquale, 170 Landri, Francesco Saverio, 167 Lasalette, Pierre Jean Jobert, 230 Latilla, Gaetano, 146 Le Gros, Giovanni, 101 Le Tourneur, Pierre, 121 Lefèvre, Achille Désirée, 193 Leoni, Michele, 121 Leopardi, Giacomo, 119, 121 Leuchtmann, Horst, 174 Levinson, Jerrold, 116 Lichtenthal, Peter, 70, 105, 174-175 Ligore, Bruno, 77 Liparini, Giuseppe, 132 Lipparini, Caterina, 68 Lippmann, Friedrich, 52, 221 Lipps, Theodor, 115 Liszt, Franz, 228 Locke, John, 121 Lombardi Satriani, Luigi Maria, 57 Lombardi, Francesco, 31-32, 37, 48, 125 Longino pseudo, 119-121 Longyear, Rey M., 216

Lorenzani, Brigida, 161 Lorenzi, Giovanni Battista, 52, 58, 125, 132, 139, 155 Lorito, Matteo, 11 Loüet, Alexandre, 230 Loyslet, Marianna, 128 Luigi XIV, 74 Luzi, Silvio Maria, 61 Luzio, Gennaro, 125-126 Mafrici, Mirella, 22 Maione, Paologiovanni, 3, 10-11, 52, 54, 56, 59, 62-64, 68, 73-74, 124-125 Malanima, Paolo, 15 Malanotti, Adelaide, 149 Malerbi, Giuseppe, 222 Malerbi, Luigi, 221-222 Malibran, Maria, 187 Mallet, George, 56 Malpica, Cesare, 190, 194 Malvano, Andrea, 228 Mammana, Andrea, 169 Mancini, Franco, 22, 62 Mandanici, Placido, 70, 163 Mandili, Kadidja, 200 Manfredi, Gaetano, 10 Manfroce, Nicola, 68, 207 Mangini, Mario, 54 Maraucci, Stefania, 59, 62 Maraviglia, Gaetano, 50 Marchesio, Luigi, 50 Marchiò, signor, 82 Marchionni, Luigi, 43, 50 Marchionni, Teresa, 50 Maresca, Rosa, 74 Mari, Maria, 49 Mariani, Angelo, 216 Marinelli Roscioni, Carlo, 103 Marino, Marina, 4, 10, 165, 167, 169-170, 239


186 Martini, Giovanni Battista, 7, 98 Martorelli, Luisa, 63 Massarese, Ettore, 11 Massari, Lorenzo, 58 Masseangeli, Masseangelo, 165, 166-167 Massimilla, Edoardo, 11 Matelli, Elisabetta, 120 Mattei, Lorenzo, 3, 10, 53, 63 Mattei, Stanislao, 7 Maximilian II di Baviera, 166 Mayr, Giovanni Simone, 3, 10, 64, 68, 70, 95, 101-106, 108-111, 124, 138-139, 145 Mayrhofer, Marina, 52, 80 Mazzolà, Caterino, 138 Mazzoleni, Francesco, 218 Mazzucchi, Andrea, 11 Mellace, Raffaele, 52 Mercadante, Saverio, 62, 86, 170, 205-208, 210-219 Mercier, Louis Sébastien, 36 Meric-Lalande, Enrichetta, 159, 161 Mersy (Mersi), Adelaide, 86, 88-90 Messori, Matteo, 221 Metastasio, Pietro, 32, 59, 63, 201 Meyerbeer, Giacomo, 118 Michaelis, Christian Friedrich, 120 Micheroux, Alessandro, 105 Michotte, Edmond, 99 Migliozzi, Maria Giuseppa, 129 Mila, Massimo, 172 Miles, Andrew, 22 Miller, Carolina, 128 Miramont, Raimondo, 25 Mischiati, Oscar, 222 Miscia, Gianfranco, 124 Miutti, Enrichetta, 50 Miutti, Francesco, 50 Modena, Giacomo, 50 240

Molino, Filippo, 192 Mondi, Barbara, 92 Mondolfi, Anna, 170 Monelli, Savino, 128 Montal, Claude, 230-231 Monti, Pietro, 50 Monti, Vincenzo, 52 Moreni, Carla, 170 Morgan, Lady pseudonimo di Sidney, 121 Morgigni, Lorenzo, 189 Mori, signora, 86, 88-90 Moricola, Giuseppe, 16 Morlacchi, Francesco, 71 Morosi, Francesco, 118 Morton, Adam, 115 Mosca, Giuseppe, 123, 128, 131, 137-140, 143 Mosca, Luigi, 139 Mozart, Wolfgang Amadeus, 7, 58, 95-96, 98, 120, 124, 138-140 Münster, Robert, 174 Muraro, Maria Teresa, 103 Murat, Gioacchino, 15, 29, 102 Naley Neuville (Cholat), Elisabetta Paolina, 79, 88-89 Napoli Signorelli, Pietro, 10, 51, 53, 56, 59, 62 Niccolini, Antonio, 68, 79, 84, 86 Nicosia, Salvatore, 210 Nicosia, Silvestro, 210 Nocerino, Francesco, 4, 10, 227 Noseda, Gustavo Adolfo, 170, 173-174 Nota, Alberto, 34 Noverre, Jean Georges, 92 Novi, signor, 86 Nozzari, Andrea, 66, 95, 157, 167 O’Brien, Grant, 227 Offenbach, Jacques, 62


indice dei nomi Oliva, signora, 88-89 Olivesi, Vannina, 73 Orlandi, Ferdinando, 138 Ostuni, Nicola, 15, 17, 21-22, 28 Ottieri, Eugenio, 58 Pace, Giovanni, 128 Pacelli, Vincenzo, 57 Paër, Ferdinando, 95 Paduano, Guido, 113 Paganini, Ercole, 167 Paganini, Niccolò, 37 Pagano, Antonio Luigi, 16-17 Paisiello, Giovanni, 52-53, 63-64, 96, 102, 124, 139, 170, 217-218 Paladini, Francesco, 48, 50 Palermo, Santo, 217 Pallerini, Antonietta, 76, 101 Palma, Loredana, 4, 10, 54, 63 Palma, Silvestro, 125-126, 137-138, 155 Palmieri, Stefano, 51 Palmieri, Walter, 3 Palomba, Giuseppe, 124-126, 128, 138-141, 143, 155 Palumbo, Salvatore, 170 Panariello, Gaetano, 212 Paolone, Ernesto, 216 Pappacena, Flavia, 92 Parenti, Pamela, 124 Parisini, Francesco, 165-167 Pauser, Michael, 51 Pavesi, Cesare, 79 Pavesi, Stefano, 123, 139 Pedranzani, Giuseppe, 50 Pellegrini Felice, 128, 146, 151 Pellico, Silvio, 35, 41 Pepe, Gabriele, 42-43, 45-46 Pepe, Guglielmo, 39 Perez, David, 170

Pergetti, Paolo, 208 Pergolesi, Giovanni Battista, 63-64 Perotti, Assunta, 49 Perotti, Gaetano, 30 Perraud-Taglioni, Adelaide, 90 Perrucci, Andrea, 57-58 Pertica, Nicola, 31, 34, 36-38, 44, 46-47 Pescatori, Antonio, 50 Pescatori, Luigi, 50 Pestelli, Giorgio, 78, 113 Petito, Antonio, 62 Petraroli, Ornella, 54 Petrella, Errico, 218 Pica, Federico, 13 Picard, Louis-Benoît, 140 Piccardi, signore, 82, 89 Piccinni Niccolò, 155 Piccinni, Domenico, 138 Picone Petrusa, Mariantonietta, 65 Pierre, 79 Pigault-Lebrun, 36 Pillet-Will, Louise, contessa, 185 Pini, Andrea, 50 Pinotti, Andrea, 114 Pio IX, 184 Piossasco, Ludovico, 47 Pisaroni, Rosmunda, 95 Pixis, Francilla, 188 Pleyel, Camille, 227-232 Pleyel, Ignace, 227-232 Pock, signore, cantante, 187 Politi, Cesare, 161 Polzonetti, Pierpaolo, 93 Pompei, signora, 88-89 Ponzi, Flavio, 229 Porta, Luisa, 86, 88-89 Portugal, Marcos, 138 Prepiani, Giovanni Battista, 31, 35, 38, 44, 50 241


Pritsch, Norbert, 212 Prividali, Luigi, 139 Privitera, Massimo, 188 Prota, Giovanni, 145 Puzone, Giuseppe, 190, 194, 200-201, 206, 208-210 Quercia, Federico, 63 Quériau, Marie, 82, 84, 89 Questa, Cesare, 119 Quinault, Philippe, 90 Radiciotti, Giuseppe, 90, 101, 123, 206, 216, 223-224 Raffaelli, Renato, 113, 119 Ragni, Sergio, 3, 8, 11, 62, 64, 101, 103, 114, 120, 123, 145, 151, 165, 167, 224, 226 Raimondi, Ezio, 78 Raimondi, Pietro, 69, 137-139, 157, 167 Ranfagna, Angelo, 133 Rao, Anna Maria, 52, 62 Raucourt, mademoiselle (Françoise-Marie Saucerotte), 30 Ravel, Maurice, 227 Reiter, Johann Baptiste, 225-226 Ribas, Michel, 194, 198, 202 Ricci (prima), 88-89 Ricci (seconda), 89 Ricci, Luigi, 207 Ricci, Pietro, 79 Richards, Angela, 115 Ricordi, Giovanni, 172 Righetti, Francesco, 43 Rimoli, Francesco, 185 Ritorni, Carlo, 78 Rochefoucauld, Sosthène, 70-71 Rochetti-Monteviti, Stefano, 63 Rochlitz, Friedrich, 120 Rodriguez, Francesco, 217 242

Rognoni, Luigi, 117-118, 172 Romagnoli, Angela, 93, 165 Romanelli, Luigi, 138-139 Romani, Stefano, 167 Ronzi, (Marietta?), 86, 88-90 Rosa, Salvator, 119 Rosenberg, Jesse, 167 Rossi, Gaetano, 124, 138-139, 149 Rossi, Lauro, 219 Rossi, Luigi, 30 Rossini, Paolo A., 103 Rostagno, Antonio, 216 Rothko, Mark, 119 Rubelli, Girolamo, 50 Rubini, Francesco, 146, 151, 157, 167 Rubini, Giovanni Battista, 67, 101, 161, 187 Ruffa, Francesco, 70, 163, 192 Russo, Francesco Paolo, 52, 59 Russo, Paolo, 103, 111 Russo, Raffaele, 140 Sabaino, Daniele, 165 Sacchetto, Giovanni, 50 Sacchi, Carlo, 31 Sacchi, Giovanni, 31 Sacher, Stefano, 174 Saint-Léon, Arthur, 94 Saint-Saëns, Camille, 227 Salvemini, Raffaella, 3, 9, 13 Sannazaro, Iacopo, 99 Sannia Nowé, Laura, 58 Santagata, Ettore, 205 Santalicante, Raffaella, 80, 94 Santangelo, Niccolò, 163, 185 Santaniello, Carmine, 11 Santini, Vincenzo, 187 Santorelli, Antonio, 25 Sanzio, Raffaello, 120 Sapienza, Annamaria, 62


indice dei nomi Sarmiento, Giulio, 167, 169-170, 186 Sasportes, José, 78 Scafidi, Nadia, 74 Scafoglio, Domenico, 57 Scalera, Anna, 54 Scannapieco, Anna, 56, 58 Scaramella, Giovanni, 210 Scarton, Cesare, 114 Schlegel, Friedrich, 120-121 Schmidt, Dörte, 59 Schmidt, Giovanni, 70, 79, 90, 104, 139 Schutz, Augusta, 187 Scialò, Pasquale, 54, 61 Scipioni, Fabrizio, 123 Scribe, Eugène, 80 Seller, Francesca, 3, 10-11, 54, 59, 61-64, 68, 74 Selvaggi, Gaspare, 165 Serpieri, Alessandro, 118 Serrao, Paolo, 63, 218-219 Shaftesbury, III conte di, vedi Ashley-Cooper, Anthony Shakespeare, William, 113-114, 117-119, 121 Shaw, George Bernard, 116 Sica, signora, 86, 88-89 Sichera (padre), 89 Sichera, Laura, 82, 88-89 Sievers, Giacomo Ferdinando, 227-228 Sigismondo, Giuseppe, 52 Simon, Anita, 59 Sisto, Luigi, 205 Smiraglia, Francesco, 79 Smith, Adam, 114 Smith, Marian, 74-75 Soave, Francesco, 121 Sografi, Antonio Simeone, 34, 41 Solera, Temistocle, 63 Somigli, Paolo, 113 Sorrieu, Frédéric, 94

Sowell, Debra H., 77, 94 Sowell, Madison U., 94 Speranza, Alessandro, 170-171 Spinelli, principe di S. Giorgio, 25 Spontini, Gaspare, 95, 185-186 Starita, Lorella, 205 Stehle, Guglielmo, 174 Stella, Maria, 121 Stendhal (Beyle, Marie-Henri), 36, 41, 98, 118, 221 Strakaty, Karel, 174 Stravinsky, Igor, 227 Stueber, Karsten, 115 Superbi, Elisa, 179 Tacchinardi, Nicola, 68, 167 Taffani, Anna, 49 Tagliavini, Luigi Ferdinando, 165 Taglioni (Fuchs), Luisa, 79 Taglioni, Filippo, 80 Taglioni, Salvatore, 73-74, 77, 79, 82, 88, 90, 93 Talamo, signora, 88-89 Tamburini, Antonio, 69, 187 Tammaro, Ferruccio, 113 Tana, Agostino, 34 Tancredi, Alessandra, 13 Tarantini, Leopoldo, 190, 194-195, 199, 203, 206 Tarolfi, Carlo, 50 Tarolfi, Maria, 50 Tarolfi, Paolo, 50 Tarquinio, Mosè, 167 Tarzia, Raffaella, 82 Tasso, Torquato, 80, 99 Tatishchev, Dmitry Pavlovich, 70 Taviani, Ferdinando, 53 Tedeschi, Giovanni, 68 Tesei, Angelo, 7 243


Tessari, Alberto, 31, 38, 40, 44, 50 Tessari, Carolina, 32, 35, 40 Tibaldi, Rodobaldo, 165 Tocco Cantelmo Stuart, Francesco (principe di Montemiletto), 166 Tofano, Nicola, 50 Tolli, Gesualdo, 50 Tonin Dogana, Marilena, 115 Torella, principe di, 25 Torelli, Vincenzo, 187, 190, 197 Tortora, Daniela, 118 Toscano, Tobia Raffaele, 52, 54, 64 Toschi, Andrea, 76 Tosti-Croce, Mauro, 114 Toti, Stefano, 50 Tottola, Andrea Leone, 59, 132, 139-140 Traversier, Mélanie, 52, 62 Tritto, Giacomo, 58, 145, 170-171 Tufano, Lucio, 51-52, 63 Turner, William, 119 Unger, Caroline, 161, 187 Vaccaj, Nicola, 69 Vacque-Mulin, Elisa, 75 Valente, Isabella, 65 Valesio, Paolo, 119 Vallotti, Francesco Antonio, 222 Van Damme, Ilija, 22 Vanzolini, Giuliano, 221 Vaque-Mulin, Elisa, 90 Vassallo, Carmel, 22 Venier, Angelo, 50 Venuso, Maria, 3, 10, 73, 79-80, 89, 93 Verdi, Giuseppe, 8, 62, 113, 116-118, 120 Verdi, Luigi, 166 Verdinois, Federigo, 186 Verni, Andrea, 132 Veroli, Patrizia, 73, 78 244

Verteuil, Armand, 30 Vestri, Luigi, 47-48, 50 Vestris, Armand (Vestris secondo), 80-81, 90, 92 Vestris, Augusto (Vestris primo), 86, 88-89 Vettori, Romano, 166 Vico, Giambattista, 121 Vidari, Amalia, 43 Viganò, Salvatore, 76, 78, 101 Viganoni, Giuseppe, 128 Virgilio Publio, Marone, 89, 99 Visetti Giovanni, 37-38, 40, 44, 50 Vitolo, signora, 86, 88-90 Vittorini, Fabio, 113 Viviani, Vittorio, 55 Vuelta García, Salomé, 58 Wackernagel, Bettina, 166 Wagner, Richard, 119 Waldie, John, 167 Weidinger, Hans Ernest, 58 Werle, Franz, 226 Willi, Andrea, 40 Winter, Bernardo, 188 Wittmann, Michael, 217 Wolff, Auguste Désiré Bernard, 227-228 Young, Edward, 119 Zambon, Rita, 74 Zampieri, marchese, 67 Zappalà, Pietro, 165 Zareba, Anna Katarzyna, 221 Zazo, Alfredo, 54 Ziino, Agostino, 22, 54, 63, 74 Zingarelli, Nicola, 69, 170, 206-207 Zini, Francesco Saverio, 139 Zoubek, Werner von, 117 Zurlo, Giuseppe, 29






Napoli & Rossini di questa luce un raggio

Napoli & Rossini

Rossini e Napoli, un amore a prima vista. Fin dal 1815, anno dell’arrivo in città, l’artista non conobbe un attimo di tregua, di respiro. Un perfetto crescendo, in cui vi furono prime rappresentazioni, riprese, incontri, relazioni, fino al 1822, anno della ripartenza. Sette anni fecondi per l’artista, all’ombra del Vesuvio, che gli permisero di conoscere meglio la realtà cittadina con i suoi teatri, la sua scuola e soprattutto la secolare cultura partenopea; sette anni difficili per un giovane regno che era stato travolto dalle ondate rivoluzionarie e provava a riannodare i fili della storia fra mille traversie politiche, economiche, sociali, nella consapevolezza che un ritorno al passato era affatto impossibile. Il volume ha permesso di indagare meglio l’influenza su Rossini del teatro e degli artisti del tempo, dei fermenti artistici, ideologici, letterari che orientarono la scelta dei soggetti rossiniani, l’evoluzione degli stili e dei generi.

a cura di Antonio Caroccia Francesco Cotticelli Paologiovanni Maione Edizioni San Pietro a Majella ©2020 Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli tutti i diritti sono riservati

Edizioni San Pietro a Majella


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