1870 | 2020 SAVERIO MERCADANTE 150° anniversario della morte
MERCADANTE150
Convegno internazionale di studi Napoli Vienna Milano Altamura Atti del Convegno a cura di Antonio Caroccia Paologiovanni Maione
Volume primo
Conservatorio Statale di Musica San Pietro a Majella
Comune di Altamura Città d’Arte
MERCADANTE150
1870 | 2020
Celebrazioni per il 150° anniversario della morte di Saverio Mercadante
Atti del Convegno internazionale di studi Napoli 1-3 ottobre 2020 Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” Vienna 20-21 ottobre 2020 Istituto Italiano di Cultura Milano 30 ottobre 2020 Teatro alla Scala Altamura 13-14 novembre 2020 Comune di Altamura
a cura di Antonio Caroccia Paologiovanni Maione
Progetto grafico e impaginazione Nunzio Perrone Assistente Vita Fiorino
Composizione tipografica in Sole Serif by CAST
Edizioni San Pietro a Majella © 2022 Conservatorio di musica “San Pietro a Majella” di Napoli ISBN 978-88-98528-12-7
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Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” Via San Pietro a Majella, 35 I - 80138 Napoli (NA) Tel. (+39) 081/544.92.55 Fax (+39) 081/ 297.778 direttore@sanpietroamajella.it www.sanpietroamajella.it
Pubblicazione realizzata con il contributo del Comune di Altamura
Sommario
Prefazioni
Volume primo
15 Massimo Fusillo “Passioni commoventi, non feroci”: Mercadante e lʼestetica del melodramma
27 Tiziana Grande From Naples to Europe. Spread and Popularity of Mercadanteʼs Operas in the First Half of 19th Century
47 Michael Wittmann Saverio Mercadante Künstler zwischen Kommerz und Politik
59 Paolo Sullo Mercadante e la tradizione che si rinnova
79 Rosa Cafiero «Zingarelli, Mercadante, son due gran nomi, due grandi Maestri»: a proposito delle «basi gloriose della scuola di Durante, Leo etc. etc.»
91 Antonio Rostagno (†) Generi, contesti, esperimenti della composizione per orchestra di Mercadante
115 Marta Columbro (†) Gli “omaggi” di Mercadante ai compositori italiani
129 Roberta Albano - Maria Venuso Saverio Mercadante e la danza nei Reali Teatri di Napoli
167 Paolo Fabbri I due illustri rivali: Donizetti incrocia Mercadante
179 Marco Leo I libretti di Salvadore Cammarano per Mercadante: alla ricerca della forma (e della riforma)
197 Simone Di Crescenzo Maria Stuarda regina di Scozia di Mercadante in una prospettiva diacronica da Carissimi a Dallapiccola
209
Liana Püschel
Unʼopera ʼfantasticaʼ per La Scala: Ismalia di Saverio Mercadante
227 Alberto Rizzuti
Giovanna dʼArco al palo. Storia inedita di un viaggio mai compiuto
255 Ernesto Pulignano
Forme drammatico-musicali e forme melodiche nelle «opere della riforma»
271 Lorenzo Corrado LʼElena da Feltre e le sue fonti
291 Saverio Lamacchia
«Un ghiribizzo stranissimo è quello modernamente creato di adoprare in unʼopera due primi soprani». Primedonne e regine ne Le due illustri rivali
311 Gerardo Tocchini Mercadante, Venezia, «The Bravo» di Fenimore Cooper e le implicazioni politiche e patriottiche della “leggenda nera”
345 Mariano Rivas
Las dos óperas asturianas de Saverio Mercadante: Pelagio y La Solitaria delle Asturie
371 Alessandro Avallone
La Virginia e il Mercadante ʼpoliticoʼ
459 Livio Marcaletti Il giuramento alla tedesca, ovvero Das Gelübde di Saverio Mercadante (Vienna 1841)
477 Víctor Sánchez Sánchez Mercadante a Madrid: due sfortunati soggiorni (1826-1831)
499 Francesco Lora Due versioni per La rappresaglia di Mercadante: fonti librettistiche e musicali dalla creazione a Cadice alla revisione per Madrid (1829-30)
513 Elisabetta Pasquini Il ʼcasoʼ Francesca da Rimimi: «unʼopera nuova» per Madrid o Milano?
529 Adela Presas «Más meditación, más arte». La recepción crítica de Mercadante en Madrid a través de Il giuramento (1840-1880)
Volume SeCoNdo
559 Germán Labrador López de A. Saverio Mercadante en Madrid: tres visiones sobre el compositor y su obra. Las transcripciones para piano publicadas por A. Hermoso (1826-1833)
395
Paologiovanni Maione
Da Vienna a Napoli: da Il podestà di Burgos a Il signore del villaggio
579 Francesc Cortès Mercadante, un modelo para su discípulo barcelonés Mariano Obiols: un referente estético
607
Emilio Sala - Ruben Vernazza Melodrammatici e risorgimentali: I briganti visti da Parigi
629 Michele Nitti Verdi non ha vinto Mercadante?
651 Raffaele Di Mauro
Le canzoni napoletane di Mercadante tra stornelli e arie da camera
679 Marina Marino Il Miserere di Saverio Mercadante
709 Domenico Denora
Lo sviluppo del percorso artistico mercadantiano fra epistolario e cronache del tempo: un contributo cognitivo per nuove prospettive musicologiche
747 Paola Besutti ʼEssere possa nominato Maestro di contrappuntoʼ: reputazione del ʼceleberrimo Mercadanteʼ prima della nomina al Conservatorio di Napoli
771 Loredana Palma Saverio Mercadante nelle cronache del suo tempo
799 Paola De Simone Fonti, musiche e immagini per gli anni napoletani di Saverio Mercadante
875 Francesca Seller Mercadante nellʼeditoria napoletana dellʼOttocento
921 Tommasina Boccia Il conservatorio di musica di Napoli negli anni degli studi e della direzione di Saverio Mercadante nei documenti dellʼArchivio storico
965 Antonio Caroccia «Ma i pugliesi sono piú flessibili deʼ calabresi»: Mercadante vs Florimo per lʼarte e per la patria
983 Cesare Corsi La formazione dei fondi mercadantiani della biblioteca di San Pietro a Majella. Dalle musiche per il Conservatorio allʼacquisizione dellʼarchivio musicale del compositore
1031 Francesco Nocerino Pianoforti di Saverio Mercadante a Napoli
1045 Chiara Macor Saverio Mercadante: lʼiconografia del compositore nelle collezioni del Museo storico musicale del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli
Prefazioni
Il Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” non poteva non “festeggiare” lʼillustre direttore e glorioso compositore della nostra “scuola” Saverio Mercadante nel centocinquantesimo della sua morte. Correva lʼanno 2020, quando, fra ottobre e novembre, si tenne il convegno internazionale di studi Mercadante 150 nel nostro istituto, allʼIstituto Italiano di Cultura di Vienna, al Teatro alla Scala di Milano e al Teatro Mercadante di Altamura. Purtroppo, la pandemia ha fortemente inciso nellʼorganizzazione degli ultimi due appuntamenti che si sono svolti da remoto. Nonostante le avversità, abbiamo voluto onorare degnamente la memoria di un artista che seppe onorare il “San Pietro a Majella” prima come allievo e poi, per ben trentʼanni, come direttore. Mercadante vive nella nostra memoria allʼombra degli impareggiabili Rossini, Donizetti, Bellini e Verdi eppure seppe degnamente rappresentare la nostra “scuola” e la sua epoca. Sono molteplici i motivi che hanno spinto il Conservatorio di Napoli e il Comune di Altamura a promuovere questa ardita impresa, benché non coadiuvata dallʼistituzione di un comitato nazionale, per onorare colui che nella visione rossiniana era tra i primi musicisti dʼItalia. Con grande orgoglio lʼIstituto da me rappresentato ha deciso di istituire un comitato per celebrare degnamente questo anniversario offrendo la presidenza a Riccardo Muti, altro “figliolo” della celebre scuola, e chiamando a far parte della virtuosa cordata studiosi nazionali e internazionali e prestigiose istituzioni come le Università degli Studi di Napoli, Teramo, Bari, Cattolica e Statale di Milano, Vanvitelli della Campania, Suor Orsola Beninacasa, Vienna, Barcellona, Lisbona, Madrid, Georgetown di Washington, il Teatro di San Carlo, il Teatro Stabile di Napoli, il Teatro Mercadante di Altamura, lʼIstituto Italiano di Cultura di Vienna, la Fondazione Istituto Italiano per la Storia della Musica e non per ultimi la Regione Campania e il Comune di Napoli.
Oggi, a qualche anno di distanza, questo volume è il frutto di quelle intense e serene giornate di studio, di confronto e di dibattiti. Nellʼesprimere soddisfazione per i
traguardi raggiunti e per la rilevanza delle ricerche ottenute, ringrazio gli studiosi e sentitamente i curatori che hanno permesso in brevissimo tempo di realizzare questo alto prodotto scientifico. Desidero evidenziare come, negli ultimi anni, il Conservatorio “San Pietro a Majella” continui a documentare il lavoro scientifico, grazie allʼincessante impegno dei suoi docenti e la stretta interazione tra didattica, ricerca e produzione scientifica, che permette di valorizzare sempre piú le competenze e le risorse professionali indispensabili per conseguire prestigiosi obiettivi.
Santaniello Direttore del Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” di NapoliLa Città di Altamura è stata orgogliosamente partecipe delle celebrazioni del 150° anniversario della morte di Saverio Mercadante, il suo piú illustre figlio al quale a suo tempo dedicò un teatro e una piazza. A testimonianza dell’importante ricorrenza l’Amministrazione comunale ha voluto lasciare un ulteriore segno, apponendo una lapide nel Municipio, sotto il busto del Maestro presente sulla scalinata di ingresso.
Per rimarcare il privilegio di aver dato i natali a Mercadante, il Comune di Altamura ha fortemente voluto essere al fianco del Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” di Napoli e ha unito gli sforzi per promuovere una maggiore conoscenza del profilo e della produzione di Saverio Mercadante, con l’obiettivo di ricollocarlo finalmente nel firmamento dei grandi della sua epoca. Un'impresa certamente non facile visto il cono d’ombra in cui la storiografia musicale sembra aver relegato la figura del Maestro.
Oltre alla costituzione di un Comitato internazionale, presieduto dal maestro Riccardo Muti, con importanti studiosi e prestigiose istituzioni, si è voluto promuovere un Convegno internazionale di studi, articolato in quattro appuntamenti di cui l'ultimo proprio ad Altamura. Nonostante le alterne vicende legate alla pandemia, è stata ferrea la volontà di portare a termine le iniziative, con recupero della sessione concertistica nel 2021.
Il volume che abbiamo tra le mani raccoglie gli Atti delle giornate di studio e rappresenta un contributo prezioso, forse definitivo, per consentire a studiosi e appassionati di riconsiderarne la figura nel panorama musicale di fine Ottocento. A tal proposito, mi associo ai ringraziamenti agli studiosi e ai curatori del volume; a mia volta, per la proficua collaborazione, ringrazio il direttore del Conservatorio, Carmine Santaniello, e il prof. Paologiovanni Maione.
I legami tra le nostre Città si sostanziano anche nel riferimento culturale che Napoli ha rappresentato storicamente per tutta l’Italia meridionale come capitale del Regno. Inevitabile, in tal senso, il rimando alle vicende della cosiddetta “Repubblica partenopea” del 1799 nelle quali le due Città condivisero gli stessi fervori rivoluzionari. Ma, per restare al solo ambito musicale, è doveroso citare anche Giacomo Tritto e Vincenzo Lavigna, entrambi nati ad Altamura e formatisi musicalmente a Napoli sebbene in epoche e con profili diversi. Con grande orgoglio, pertanto, Altamura rivendica a buon diritto un tratto distintivo e una certa vivacità culturale che l’ha legata in passato alle fortune della “città musicalissima”. Auspico che l’anniversario mercadantiano sia stato un punto di inizio, e non di arrivo, al fine di costruire un'intensa stagione di collaborazioni tra le istituzioni piú rappresentative, nel nome della musica e della crescita culturale delle due comunità.
Melodia Sindaca di AltamuraMERCADANTE150
1870 | 2020
Celebrazioni per il 150° anniversario della morte di Saverio Mercadante
Convegno internazionale di studi - 2020
Napoli, 1-3 ottobre 2020 Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” Vienna, 20-21 ottobre 2020 Istituto Italiano di Cultura Milano, 30 ottobre 2020 Teatro alla Scala Altamura, 13-14 novembre 2020 Comune di Altamura
a cura di Antonio Caroccia Paologiovanni Maione
COMITATO PER LE CELEBRAZIONI
Riccardo Muti Presidente onorario
Paola Besutti Università degli Studi di Teramo Tommasina Boccia Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli
Daniel Brandenburg Universität Salzburg
Rosa Cafiero Università Cattolica di Milano
Michele Calella Universität Wien
Antonio Caroccia Conservatorio di Musica Santa Cecilia di Roma
Marta Columbro Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli Cesare Corsi Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli
Francesc Cortés Universitat Autònoma de Barcelona
Francesco Cotticelli Università degli Studi di Napoli Federico II
Luisa Cymbron Universitade Nova de Lisboa Anthony DelDonna Georgetown University Fabrizio Della Seta Università degli Studi di Pavia Vincenzo De Luca Presidente della Regione Campania
Roberto De Simone Direttore emerito del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli Paolo Fabbri Università degli Studi di Ferrara
Gerardo Guccini Università degli Studi di Bologna Fabrizio Iurlano Direttore dellʼIstituto Italiano di Cultura di Vienna German Labrador Universidad Autònoma de Madrid
Jürgen Maehder Università della Svizzera Italiana
Paologiovanni Maione Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli
Lorenzo Mattei Università degli Studi di Bari Rosa Melodia Sindaca del Comune di Altamura
Antonio Palma Presidente del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli
Nunzio Perrone Assessore alle culture del Comune di Altamura Adela Presas Universidad Autònoma de Madrid
Alessandro Roccatagliati Università degli Studi di Ferrara Emilio Sala Università degli Studi di Milano
Carmine Santaniello Direttore del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli
Francesca Seller Conservatorio di Musica Giuseppe Martucci di Salerno Lucio Tufano Università degli Studi di Palermo
Michael Wittmann Università di Berlino Agostino Ziino Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
1870 | 2020
SAVERIO MERCADANTE 150° anniversario della morte
Volume prImo
Massimo FusilloDeclinazioni del melodramma
Apparso per la prima volta nel 1972, il saggio epocale di Peter Brooks, The Melodramatic Imagination, ha individuato nel romanzo ottocentesco (Balzac, James) un immaginario di lunga durata, che scaturisce dal teatro e si irradia poi capillarmente nel cinema.1 In questa prospettiva il melodramma non è piú (o non è solo) un genere, ma è soprat tutto un modo: un insieme di costanti formali e tematiche che, benché chiaramente storicizzate, attraversano diverse epoche e diversi generi. Questa nozione di modo è stata teorizzata da Gérard Genette, che la affianca al concetto piú ampio e astratto di tipo, e a quello piú storico e concreto di genere, dando vita a una triade tipicamente strutturalista.2 Da una prospettiva diversa, meno formalistica, Remo Ceserani e la sua scuola hanno a lungo lavorato sui modi piú significativi dellʼimmaginario occiden tale: realistico, fantastico, patetico (questʼultimo molto vicino al nostro).3 Mi sembra però che il melodramma sia un caso particolarmente significativo di un modo che si trasforma ben presto anche in unʼestetica: i suoi temi caratterizzanti e le sue tecniche espressive molto peculiari vengono valorizzati come strategie tese a suscitare spe cifiche reazioni emotive (stupore, commozione). È unʼestetica dunque che privilegia
1 peTer BrookS, The Melodramatic Imagination. Balzac, Henry James, the Melodrama, and the Mode of Excess (1976), with a new Preface, New York and Haven, Yale University Press, 1995; trad. it. di Daniela Fink, Lʼimmaginazione melodrammatica, Parma, Pratiche, 1992.
2 GérArd GeNeTTe, Genres, “types”, modes, «Poétique» 32, 1977, pp. 389-421; poi rielaborato in Introduction à lʼarchitexte , Paris, Seuil, 1979; trad. it. di Armando Marchi, Introduzione allʼarchitesto, Parma, Pratiche, 1981.
3 remo CeSerANI, Guida alla studio della letteratura, Bari, Laterza, 1999, pp. 130-136; cfr. anche alcuni contributi nella collana Alfabeto letterario: pAolo ZANoTTI, Il modo romanzesco, Bari, Laterza, 1998; SerGIo ZATTI, Il modo epico, Bari, Laterza, 2000 (il modo melodrammatico è rimasto purtroppo un titolo annunciato).
“Passioni commoventi, non feroci”: Mercadante e lʼestetica del melodramma
lʼeccesso, le passioni smodate, lʼemotività estrema: nuclei fondativi che alimentano la spettacolarità, i colpi di scena, i classici riconoscimenti; e animano storie che ruotano attorno ad opposizioni primarie, a polarità quasi manichee, come quella fra privato e pubblico, fra amore e figure del potere (in particolare padri reali e simbolici)
Benché si possano rintracciare antecedenti già nel teatro antico, in particolare nelle ultime tragedie sperimentali di Euripide, e in altre epoche come il barocco, il melodramma è comunque fortemente radicato nella piena modernità. Le sue origini sono legate alla grande frattura storica della Rivoluzione francese e alla sua desacralizzazioine del potere; in questo clima di «democrazia cognitiva» (Vittorini)4 si sviluppa un genere popolare e antirealistico, il mélodrame, che attinge pienamente dalla sensibilità romantica, e sperimenta registri stilistici ibridi, che vanno al di là della dicotomia classica fra tragico e comico. A partire da questo genere di grande successo sulle scene parigine, calato nel suo contesto storico e sociale, il modo melodrammatico si irradia ben presto verso altri generi: il romanzo realistico, pur essendo il realismo un approccio fondamentalmente antitetico; il romanzo gotico, che ha invece per statuto una propensione agli effetti truci e sensazionalistici; il teatro musicale, che usa spesso il melodramma come fonte diretta dei libretti, oltre a ripercorrere le sue costellazioni tematiche e formali; il cinema, in cui il mélo torna ad essere un genere allʼinizio ben riconoscibile, soprattutto nelle due fasi auree, gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, e diventa poi un modo pervasivo e sfuggente;5 e infine, per giungere ai giorni nostri, le serie TV, in cui appare come un filone pervasivo anche se poco riconoscibile (This is Us). In generale si può sostenere che il melodramma piú viene negato e rifiutato, piú riemerge in modo imprevedibile.
Lʼautocoscienza di Mercadante
Saverio Mercadante è sicuramente una delle figure che piú hanno contribuito a formare lʼestetica del melodramma in ambito musicale, anche se il suo ruolo resta ancora abbastanza misconosciuto. In particolare, è significativa la sua transizione da un neoclassicismo ricco di espressività (basta pensare alla Didone abbandonata, 1823) a un romanticismo pieno e maturo, per quanto sempre mediato da un ideale di compostezza classica, che trova il suo culmine in unʼopera della maturità, La Vestale (1840), a riprova che le due componenti non si sono mai escluse a vicenda. È un percorso che si può sintetizzare, come spesso è stato fatto, attraverso la formula del passaggio da Rossini a Verdi, a patto di evitare ogni stereotipo teleologico, e ogni visione lineare della storia. Non si tratta insomma di un progresso evolutivo, ma di un intreccio di modelli espressivi che subiscono metamorfosi complesse.
4 FABIo VITTorINI, Melodramma. Un percorso intermediale fra teatro, romanzo, cinema e serie tv, Bologna, Patron, 2020, p. 11.
5 Sui problemi teorici e sul cinema italiano cfr. emIlIANo morreAle, Cosí piangevano. Il cinema mélo nellʼItalia degli anni Cinquanta, Roma, Donzelli, 2011.
Il decennio dal 1835 al 1845 è il periodo in cui la riforma di Mercadante si concre tizza gradualmente: il compositore mostra una notevole autocoscienza del proprio percorso creativo, evidente soprattutto nella lettera inviata a Francesco Florimo il 1 Gennaio 1838, in cui rievoca la «rivoluzione principiata nel Giuramento», che consiste in una maggiore cura della «parte drammatica», dellʼazione complessiva, e dellʼinterpretazione.6 Sul piano strutturale Mercadante tende sempre di piú verso lʼunitarietà della composizione, e mostra uno spiccato senso del dramma; mentre sul piano musicale raggiunge una notevole opulenza espressiva, che non diventa però estrema, non compromette mai lʼequilibrio e la regolarità: è una forma classica che assume tinte espressioniste. Mercadante giunge cosí ad elaborare una propria estetica del melodramma, che si concretizza soprattutto in un uso massiccio del concertato, luogo privilegiato di espressione dei conflitti drammatici e della ricchezza vocale e strumentale. È unʼestetica che troviamo sintetizzata in modo efficace in una lettera a Salvatore Cammarano dellʼagosto del 1839:
Passioni commoventi, non feroci, colpi di scena, varietà di genere, di forme, di mezzi da fare canti soavi e robusti, tinte dʼorchestra, cori originali, stravaganti, gran pezzi concertati, non arrabbiati tutti, anco cantabili.7
È una dichiarazione di poetica che parte dal nucleo fondamentale di ogni forma di melodramma, voler suscitare «passioni commoventi», per ribadire subito il limite classicheggiante entro cui vuole rimanere («non feroci»), e passare poi alle tecniche drammatiche ed espressive: spettacolarità, varietà di registri stilistici, persino stra vaganza; ed infine al ruolo primario che spetta al concertato, che deve comunque restare nei limiti di una piacevole cantabilità. Per usare unʼefficace categoria freu diana, potremmo dire che lʼestetica di Mercadante è una formazione di compro messo fra eccesso melodrammatico e controllo classico della forma, fra passionalità smodata e dicibilità delle emozioni, fra slancio romantico e piacere del bel canto.
I turbamenti della rivalità amorosa: Il Giuramento
Dopo la Lucrezia Borgia di Felice Romani e Gaetano Donizetti (1833), Il Giuramento (1837) è la seconda opera italiana tratta da un dramma di Victor Hugo, quindi dallo scrittore che piú ha incarnato, anche a livello teorico (basta pensare alla prefazione al Cromwell), la rivoluzione romantica, e che ha contribuito non poco allʼestetica del
6
La Raccolta Florimo consta di ben 34 volumi divisi fra la Biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella e lʼArchivio storico; cfr. ANToNIo CAroCCIA, La corrispondenza salvata. Lettere di maestri e compositori a Francesco Florimo, Palermo, Mnemes, 2004. Per la lettera citata vedi SAN To pAlermo, Saverio Mercadante: biografia-epistolario, Fasano, Schena editore, 1985, pp. 178-179.
7 pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 203.
l’estetica del
melodramma. Andato in scena per la prima volta nel 1835 alla Comédie Française, Angelo tyran de Padoue è un dramma in tre giornate che ha ispirato ben cinque adattamenti di teatro musicale, fra cui il piú famoso è La Gioconda di Amilcare Ponchielli: segno di una particolare consonanza fra questo testo e il melodramma musicale (come è noto, Mercadante ha avuto piú di una volta la sorte di firmare adattamenti che poi avranno realizzazioni famosissime, come Il reggente, tratto dalla stessa fonte de Il ballo in maschera: altro segnale di poetica condivisa).
Lʼedizione critica complanare della varie versioni di Angelo, curata da Elena Randi per Le Lettere, è uno strumento prezioso che mira a ricostruire la prima messin scena, soprattutto grazie al copione del suggeritore e alle varie testimonianze di schizzi, bozzetti, e recensioni. 8 Hugo aveva pensato il testo direttamente per la messinscena, che curò fin nei minimi dettagli, svolgendo a tutti gli effetti il ruolo di regista: tutto il suo testo si orienta verso la visualità, come ha dimostrato una grande semiologa del teatro, Anne Ubersfeld.9 Per il nostro tema è importante sottolineare la specularità sociale e caratteriale che il dramma sviluppa fra le due protagoniste, la nobile Caterina Bragadini, moglie del tiranno di Padova, e lʼattrice Tisbe: due donne legate al protagonista Angelo, e accomunate dallʼamore per Rodolfo, dietro cui si nasconde il proscritto Ezzelino romano. I due ruoli furono affidati alle due attrici piú famose del tempo, Mademoiselle Mars e Madame Dorval, per la prima e unica volta assieme sulla scena in un confronto che fece storia. La duplicità è un tema che ossessiona lʼimmaginario romantico, soprattutto nellʼambito della letteratura fantastica; ma è anche un dispositivo che produce i conflitti dilaceranti cosí tipici del melodramma. Lo spettacolo di Hugo era tutto improntato a questa categoria, come sintetizza Elena Randi nella sua Introduzione storico-critica:
La specularità delle scenografie e della situazione luttuosa in esse rappresentata è solo uno dei molti elementi di binarietà o di duplicità presenti nel lavoro. Due anzitutto sono i personaggi femminili principali e due quelli maschili e sdoppiata è la loro personalità. Come provano le recensioni, la Tisbe di Mlle Mars conserva la voce melodiosa, mai urlata, tipica della grande attrice della Comédie, si muove poco in scena, pronuncia parole emotivamente forti, ma con un tono e movimenti contenuti, piuttosto composti. La Catarina di Mme Dorval è molto piú mobile, offre variazione di toni e di volume notevoli, sicché si realizza la paradossale situazione per cui il personaggio nobile è reso in modo piú infuocato, dinamico e acceso, quello plebeo in maniera piú trattenuta visivamente e “sonoramente”.10
8
VICTor HuGo, Angelo, tyran de Padoue, Edizione complanare e fonti per lo studio della prima messinscena, a cura di Elena Randi, con la collaborazione di Simona Brunetti, Franco Benuc ci, Barbara Volponi, Gessica Scapin, Firenze, Le Lettere, 2012.
9 ANNe uBerSFeld, Le Roi et le Bouffon. Etdue sur le théâtre de Victor Hugo de 1830 à 1839 (1974), Paris, Corti, 2001 (edizione rivista).
10 eleNA rANdI, Introduzione storico-critica a Hugo, Angelo, tyran de Padoue cit., p. 26.
Il Giuramento di Mercadante riadatta in modo abbastanza drastico questo testo di partenza: cambia innanzitutto lʼambientazione, che dalla Venezia tanto amata dai romantici si sposta in Sicilia; ridimensiona poi in modo consistente la figura demoniaca di Homodei, e in generale lo sfondo politico in cui è calata lʼazione. Come accade spesso nella storia dello spettacolo, il melodramma musicale è piú atemporale di quello teatrale: una scelta dovuta in parte a problemi di censura e di pubblico, in parte alle differenze dei linguaggi. La critica ha sempre sottolineato il ʼtradimentoʼ del dramma di Victor Hugo, e ha cercato di motivarlo in vario modo: Philip Gossett attribuisce la responsabilità al neoclassicismo del librettista Gae tano Rossi, mentre Geoffrey Edwards sottolinea la scarsa adattabilità dellʼAngelo di Hugo.11 Credo che si debba superare del tutto il vecchio dogma della fedeltà: il teatro musicale ha dinamiche espressive del tutto diverse che non si possono tralasciare. Lʼessenzializzazione a cui giunge il librettista (che da un punto di vista estetico può anche risultare piú efficace rispetto alla prolissità di Hugo) mette a nudo il nucleo melodrammatico, i suoi conflitti violenti. Lʼestetica del melodramma spicca particolarmente nel finale del primo atto, che si configura come «un blocco unitario ardito»12 per il suo imbastire i conflitti in forme poco prevedibili. È il momento cruciale del riconoscimento della rivalità amorosa: «Chi son? Chi son io? Tremate! | Rival vostra» (I.10), canta Elaísa – la figura corrispon dente alla Tisbe di Hugo, che qui però è dello stesso rango sociale elevato – rivolta a Bianca (nel libretto di Arrigo Boito lʼeffetto sarà ancora piú plateale: «il mio nome è la vendetta | ami lʼuomo che io amo»). Questo snodo drammaturgico catalizza in Elaísa il conflitto tipicamente melodrammatico fra il desiderio di vendetta e la fedeltà alla memoria del padre: un conflitto che esplode al momento in cui, nel terzetto successivo alla presenza di Viscardo, Bianca le mostra lʼeffigie che prova che è stata lei a salvarle il padre. Tutto il lungo blocco drammaturgico si svolge nella stanza di Bianca allʼinterno del palazzo di Manfredo, che ha una grossa porta centrale e porte laterali, adatte a suscitare suspense: si avverte il piacere claustrofobico che caratterizza lʼimmaginario romantico in generale e lʼopera di Hugo in particolare (lo ha mostrato un saggio di Vic tor Brombert).13 Nel maestoso concertato finale tutti i personaggi si accumulano sulla scena (a differenza che nel dramma di Hugo): dopo il topico momento di sospensione e silenzio, si confrontano in un insieme complesso di a parte, dialoghi e monologhi, che trascende ogni verosimiglianza in nome dellʼeffetto melodrammatico, come faceva anche il quartetto iniziale, raggelato in un tableau vivant, tipica tecnica del mélodrame.
11 Cfr. erNeSTo pulIGNANo, Il “Giuramento” di Mercadante e Rossi, Torino, edT, 2007, pp. 28-29 per una sintesi del dibattito critico; il saggio offre anche unʼapprofondita analisi morfologica dellʼopera in confronto con il dramma di Hugo.
12 mATTeo SummA, Bravo Mercadante. Le ragioni di un genio, Fasano, Schena, 1995.
13
VICTor BromBerT, La prison romantique. Essai sur lʼimaginaire, Paris, Corti, 1975; trad. it. di Aldo Pasquali, La prigione romantica. Saggio sullʼimmaginario, Bologna, il Mulino, 1991: il capitolo IX è interamente dedicato a Hugo.
Se il monumentale primo atto intesse i vari conflitti in un sistema complesso, gli altri due si focalizzano sul triangolo amoroso e sulla sofferta rinuncia di Elaísa a favore della rivale: nel secondo atto è notevole lʼambientazione, a partire dalla quarta scena, in un recinto remoto circondato da cipressi e salici, che ospita le tombe di famiglia di Manfredo. In questo contesto gotico si svolge la scena cruciale fra le due donne, che sviluppa una paradossale sintonia e solidarietà fra le due rivali, secondo le dinamiche del desiderio triangolare messo a fuoco da Girard,14 potenziate da una musica di intensità estrema. Elaísa salva Bianca dandole un narcotico al posto del veleno che si era impegnata a somministrare: questo secondo snodo drammaturgico provoca una morte apparente, un motivo di grande effetto spettacolare, che dalle tragedie romanzesche di Euripide e dai romanzi ellenistici e barocchi si irradia in tutta la narrativa avventurosa, e poi nellʼimmaginazione melodrammatica. È un motivo ambivalente: da un lato può avere una funziona antitragica, come nei romanzi dʼavventura, in cui lʼinganno e la frustrazione pro dotta dal caso sono destinati a sciogliersi nel lieto fine; o una funzione ipertragica, quando lʼequivoco conoscitivo provoca morti reali, sentite come particolarmente tragiche perché frutto di un asincronismo, come nellʼarchetipo del Romeo e Giulietta, in cui lo svelamento della morte apparente arriva con pochi fatali minuti di ritardo, e come sarà anche nel Giuramento.
Il secondo atto termina con una scena di grande effetto spettacolare: Bianca che sviene fra le braccia di Elaísa dopo aver ricevuto da lei il narcotico, e Manfredo che esce esultante, convinto di aver ucciso la moglie adultera. Il terzo si concentra invece, con notevole essenzialità. sul triangolo amoroso fra le due rivali e sul loro oggetto dʼamore comune, Viscardo. È dunque il punto culminante di quella scar nificazione del testo lussureggiante e polifonico di Hugo di cui abbiamo parlato allʼinizio: Rossi e Mercadante ne mettono a nudo il nucleo melodrammatico forte, a cui è dedicato interamente questo breve ultimo atto, uno dei primi nella storia dellʼopera a mostrare una rapidità e una densità di grande efficacia (diventerà una prassi sempre piú diffusa a fine Ottocento: basta pensare allʼultimo atto di Manon Lescaut di Puccini). La prima scena è dedicata a una piena focalizzazione emotiva con il personaggio di Elaísa: il recitativo è composto da frasi paratattiche e spezzate da vari punti di sospensione, che dipingono, grazie a un intreccio forte fra testo e musica, la disperazione assoluta del personaggio, mentre lʼaria si rivolge piú topi camente alla madre morta, vero motore dellʼintreccio. Nella scena successiva ritro viamo uno dei nuclei portanti dellʼestetica del melodramma: il topos della donna abbandonata (che dalla poesia antica giunge fino a Madama Butterfly), estremizzato fino a un chiaro masochismo femminile, evidente già nel sacrificio per la rivale, e
14 reNè GIrArd, Mensonge romantique et vérité romanesque (1961), Paris, Hachette, 1999; trad. it. di Leonardo Verdi-Vighetti, Menzogna romantica e verità romanzesca. La mediazione del desi derio nellʼarte e nella vita, introduzione di Marco Dotti, postfazione di Luca Doninelli, Milano, Bompiani, 2021.
ora spinto fino alla richiesta di essere uccisa:
VISCArdo (quasi fuori di sé)
La sua spoglia!... Che ne feste?... E dovʼè?... Chi a me lʼinvola?... Non sapete chʼè la sola... sí... la sola pe ʼl mio core!...
elAÍSA È la sola!... dio!... la sola!...
VISCArdo
Che anche morta, adorerà.
elAÍSA (disperata)
Vedi... io moro... il mio dolore!... Ah! tu sei senza pietà. Sí... lo sappi... ne fremi... delira... Io lʼodiai... tʼinvolai la diletta, esultai nel compir la vendetta... Questa mano il veleno le dié. Or la vendica... sfoga quellʼira... chiede Bianca il mio sangue da te.
VISCArdo
Mia ragione sʼoffusca... delira... dove sei!... Ti perdei... mia diletta... triste vittima dʼempia vendetta... e ancor vive chi morte le dié! Freno in sen non ha piú la giustʼira: abbi morte, spietata, da me. (alza il pugnale e la ferisce)
elAÍSA (cade ferita)
Ah!... Qui... al core. Cosí bramai... (in questo sʼode la voce di Bianca dallʼalcova)
BIANCA
Viscardo! ove son io?...
VISCArdo (si volge)
Ah! qual voce!
BIANCA (aprendo il cortinaggio) Viscardo!...
VISCArdo (accorrendo)
Ella! gran dio! Bianca! è vero?... Tu vivi?... Come? Da chi salvata?
elAÍSA
Da me... per te.
La foga autodistruttiva si accende al momento in cui Viscardo dichiara che Bianca è il suo unico oggetto dʼamore: Elaísa allora gli ricorda lʼatto che ha compiuto e lo sprona esplicitamente alla vendetta («Or la vendica... sfoga quellʼira... | chiede Bianca il mio sangue da te»). Viscardo cade subito nel delirio omicida, compie lʼatto fatale, che viene accolto con chiara soddisfazione da Elaísa: «Cosí bramai», con autentica pulsione di morte. Lʼasincronismo tragico scatta immediatamente dopo, con il colpo di scena di Bianca che si risveglia, e con lʼefficace poliptoto con cui già nel testo di Victor Hugo viene sintetizzato lʼintreccio e la scelta melodrammatica e autodistruttiva della protagonista: «da me… per te…», verso molto amato da tutte le grandi attrici che hanno affrontato lʼAngelo di Hugo. Segue la breve benedizione di Elaísa in punto di morte alla coppia primaria che sopravvive, e che commenta allʼunisono «Per me tu mori, oh Dio | vittima dellʼamor». Una concentrazione den sissima, in poche battute, di desiderio triangolare, rinuncia eroica e masochistica, e ironia tragica dellʼasincronismo.
Agnizioni e ambivalenze: Il Bravo (Milano, Teatro alla Scala, 1839)
Se nel Giuramento lʼambientazione di Hugo nella città-mito del romanticismo era stata cancellata da Rossi e Mercadante, nel Bravo (1839) essa ritorna con tutta la sua forza simbolica: Venezia incarna cosí il dispotismo aristocratico, e una politica perversa e demonica. Questa volta la fonte è direttamente un mélodrame: La Vénitienne di Auguste Anicete-Bourgeois (1834), scrittore della cerchia di Dumas: un testo vagamente ispirato da James Fenimore Cooper e dal suo romanzo The Bravo. A Venetian Story (pubblicato a Parigi nel 1831), scaturito dal viaggio in Italia e focalizzato sul tema politico. La bibliografia critica su Mercadante e su questʼopera non mostra in genere una conoscenza diretta del Bravo di Cooper, che in effetti si distingue nettamente dai suoi adattamenti per la piena positività del protagonista, vittima totale del potere in ogni sua forma.
Il protagonista dellʼopera di Mercadante è invece una figura ambivalente, ai limiti dello sdoppiamento: è un sicario che lavora per il governo di Venezia, e quindi è lo strumento con cui il potere attua la sua violenza intrinseca; ma ha accettato questo
lavoro solo per salvare la vita a suo padre. È insomma una figura negativa, legata al male nei suoi atti e nel suo mestiere, ma che ha motivazioni positive e affettive dietro questa sua condizione. Il passato tenebroso, il fondo oscuro che si cela dietro la maschera del ruolo politico affiorano pian piano lungo tutto il complicato intreccio, che sfrutta anche un motivo tipico dellʼuniverso tematico del doppio, lo scambio di identità. Lo svelamento progressivo della verità ruota attorno ad alcuni colpi di scena, nella forma di un antico procedimento amato dal teatro antico ed esaltato da Aristotele: il riconoscimento, su cui Piero Boitani ha scritto un saggio appassionato, che ne insegue le declinazioni da Omero a Joyce.15 È un procedimento sicuramente spettacolare, che mira a stupire il pubblico e a risolvere brillantemente gli intrecci piú complicati; ma ha anche un forte valore simbolico e metateatrale: segna lʼesplodere della conoscenza nella carne e nella passione dei personaggi, e rimanda nello stesso tempo al meccanismo primario della ricezione, con cui il pubblico riconosce il proprio mondo cognitivo ed emotivo.
Una prima agnizione inconscia ha luogo nel primo Atto: tornato da una solita giornata «tenebrosa», il protagonista evoca un passato felice nella sua aria di sortita, di grande effusione melodica, e riceve poi la visita di un proscritto, Pisani, che gli chiede di assumere la sua maschera di Bravo per due giorni: richiesta che si articola in un duetto tripartito, in cui lo svelamento si intreccia con unʼattrazione pertur bante. Nel complesso concertato che chiude lʼatto, il Bravo, che ora prova il piacere dellʼanonimato, si slancia a proteggere Violetta, la giovane orfana genovese il cui canto fuoriscena aveva intervallato lʼaria di sortita di Foscari, lʼantagonista, e che ora compare come vittima in cerca di sostegno. Il rapporto fra la ragazza e il Bravo assume subito le caratteristiche di un rapporto fra padre e figlia, il che prelude al rico noscimento effettivo; e si svilupperà ulteriormente il giorno seguente, nel secondo atto, quando al risveglio il Bravo racconterà nel dettaglio a Violetta il suo passato, il suo dilemma impossibile, tipicamente tragico e tipicamente melodrammatico, che è alla base della sua vita infernale; una scena a due che avrà un influsso sul Rigoletto, soprattutto per il senso di oppressione che grava sulla vita dei due personaggi:
BrAVo
Tranquillo, beato, dʼunʼalma, dʼun core un figlio viveva col suo genitore: entrambi accusati quel padre ed il figlio son tratti dinanzi deʼ Dieci al consiglio. Le prove fur vane di loro innocenza; quei giudici infami segnar la sentenza. Per sempre quel figlio proscritto allʼesilio, il padre al patibolo da lor si dannò.
15 pIero BoITANI, Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento in letteratura, Torino, Einaudi, 2014.
VIoleTTA Né speme restava di vita?
BrAVo
Una sola.
VIoleTTA E quale?
BrAVo
Tremenda. Egli un patto ascoltò. Quel tetro consiglio chiedeva un mortale di volto mentito, di servo pugnale: a lui si propose di sangue il mercato, fossʼei lʼassassino, lo schiavo giurato... Un bivio ferale gli poser dinanzi, qui un padre che vive, là infamia ed orror.
VIoleTTA Ed egli?
BrAVo
Del padre udí lʼultima ora. Il palco egli vide... salvò il genitor... Divenne colpevole dinanzi allʼeterno, la vita chʼei vive, sʼè resa un inferno... Ma il vecchio suo padre ei può riveder!
A lui non avanza che questo piacer. Ma lʼora… lʼora è questa. Figlia, per poco resta. Non déi temer.
Dopo questo momento di introspezione, empatia e legame solidale, è il finale del secondo atto il momento culminante dellʼestetica del melodramma: abbondano infatti riconoscimenti, colpi di scena, spettacolarità, passioni smodate, nonostante le intenzioni dʼautore. Si tratta di una festa tragica, un interessante topos operistico messo a fuoco da Francesco Orlando:16 è un ballo mascherato a casa di Teodora,
16
FrANCeSCo orlANdo, Festa corale e pene personali: una costante operistica, con una risposta di Pierluigi Pietrobelli, in La letteratura e le altre arti, a cura di Massimo Fusillo e Marina Polacco, «Contemporanea» 3, 2005, pp. 33-39; ora in Id., Su Wagner e altri scritti musicali, a cura di Francesco Fiorentino e Luca Zoppelli, postfazione di Luciano Pellegrini, Pisa, Pacini,
donna misteriosa di cui si è innamorato a suo tempo Manfredi, ora invaghito di Violetta. Durante la festa il Bravo svela che Violetta è la figlia di Teodora, susci tando un riconoscimento pubblico e plateale, che sfocia in un concertato di grande bellezza teatrale e musicale: Carli Ballola vi riscontra infatti un «superbo slancio melodico», una «tumultuosa stretta», una «vocalità ʼespressionisticamenteʼ irrigi dita in note ribattute, aggressivi scarti di registro e violenti impennate».17 Turbata dal ritrovamento inaspettato della figlia, Teodora vorrebbe interrompere la festa, ma i suoi ospiti irridono il suo dolore: la donna allora inveisce con violenza contro il mondo degli aristocratici e si vendica appiccando il fuoco al palazzo; e lʼincendio costituisce lʼimprevedibile finale di un atto particolarmente ricco di colpi di scena. Teodora è dunque un personaggio femminile anomalo (madre viva, e non morta e rievocata con rimpianto, come succede il piú delle volte nellʼopera): sfida ʼvirilmenteʼ la società, mentre Violetta appare la topica vittima angelicata del melodramma. Durante il concertato, che, come dʼobbligo, dà spazio ai turbamenti di tutti i personaggi coinvolti, secondo quella poetica dello stupore di cui parla Brooks, il Bravo si mostra turbato di fronte alle sofferenze di Teodora: è la seconda agni zione inconscia che prelude al riconoscimento reale, una tecnica che sembra la cifra di questo melodramma iperbolico. Dopo un duetto fra madre e figlia, sim metrico a quello con il padre (in entrambi i casi si rievoca un passato oscuro), con il terzo atto si raggiunge il vertice delle strategie di riconoscimento: Teodora si rivela essere la moglie che il Bravo credeva di aver ucciso perché adultera, e che invece era innocente (cʼera stato un accenno a questo evento a inizio dellʼopera); il ricongiungimento fra i due sposi avviene fra le braccia della loro figlia ritrovata, in unʼeffusione melodrammatica particolarmente accesa. Violetta parte con Pisani, il proscritto che aveva scambiato lʼidentità con il Bravo nel primo atto: la coppia di amanti giovani viene benedetta dai due genitori di lei appena ricongiunti, ma il lieto fine temporaneo, segnato comunque da auspici funesti (il cielo che si oscura) è turbato dallʼultima agnizione ambivalente: il Bravo è costretto a svelare la sua funzione di sicario, e riceve dal Consiglio un ultimo terribile incarico per salvare la vita di suo padre: uccidere entro unʼora Teodora, invisa al potere aristocratico dopo lʼincendio e lʼinvettiva alla festa. Carlo (il nome del Bravo) si trova cosí nel piú tipico conflitto tragico insolubile: scegliere fra lʼamore paterno e lʼamore per la donna amata appena ritrovata, conflitto risolto con un altro colpo di scena imprevisto, il suicidio di Teodora. Con il ritmo incalzante e accelerato dei finali melodrammatici piú inverosimili (penso al Trovatore), arriva subito dopo la notizia che il padre del Bravo è morto, per cui il protagonista è libero dal patto con il Consiglio. Ancora dunque un caso eclatante di asincronismo tragico, che visualizza lʼinsensatezza di un mondo dominato dal caso e da forze oscure incontrollabili.
2020 (I libri dellʼAssociazione Sigismondo Malatesta. Studi di teatro e spettacolo), pp. 241-254.
17 GIoVANNI CArlI BAllolA, Mercadante e “Il Bravo”, in Il melodramma italiano dellʼOttocento. Studi e ricerche per Massimo Mila, Torino, Einaudi, 1977, p. 393.
Fra le opere piú note della ricca produzione di Mercadante, Il Giuramento e Il Bravo ci mostrano quanto sia potentemente sviluppata lʼestetica del melodramma nella fase matura della sua creatività, e in svariati nuclei tematici ed espressivi, fra cui spiccano il desiderio triangolare, il masochismo femminile, il riconoscimento spettacolare, lʼasincronismo tragico. Nuclei che mirano a produrre reazioni di forte coinvolgimento emotivo, che si infiltrano e un poʼ trasformano, anche contro i progetti del compositore, la compostezza e la compattezza della forma.
Tiziana Grande
From Naples to Europe. Spread and Popularity of Mercadanteʼs Operas in the First Half of 19th Century
During his lifetime, Mercadante was acknowledged as one of the prominent Italian composers and his operas received the attention of the European contemporary press. Mercadanteʼs operas began staging in 1822 in many Courtʼs Theatres and were also performed by touring companies all over Europe and overseas. It is well known that throughout the 19th Century the demand for the Italian opera became so high that it could only be satisfied through a remarkable mobility of singers, composers, impresari, in a new operatic market. On the one hand, the widespread success of the Italian opera made the fortune of famous impresari such as Domenico Barbaja - who assumed a sort of monopoly of the theatrical life in Europe after 1820, by engaging a long list of singers and composers with long-term contracts;1 on the other hand, it enhanced the circulation of freelance artists and increased the costs of the opera staging as a whole. Indeed, cities such as Paris, London or Madrid used to pay artists far more than any Italian theatre.2
As many talented young musicians educated at the Naplesʼ Collegio di musica, Saverio Mercadante had been trained early to face the stage and to become a pro fessional composer.3 The ambition for a theatrical career outside Naples was a
1
See pAoloGIoVANNI mAIoNe - FrANCeSCA Seller, Da Napoli a Vienna: Barbaja e lʼesportazione di un nuovo modello impresariale, in Antonio Salieri (1750-1825) e il teatro musicale a Vienna. Convenzioni, innovazioni, contaminazioni stitlistiche, ed. Rudolph Angermüller, Elena Biggi Parodi, Lucca, lIm, 2012, pp. 405-420.
2
See JoHN roSSellI, Il sistema produttivo, 1780-1880, in Storia dellʼopera italiana, ed. Lorenzo Bianconi, Giorgio Pestelli, second part, vol. 4: Il sistema produttivo e le sue competenze, Torino, edT, 1987, pp. 77-165. See also pAolo CASCIo, Un modelo de temporada de Ópera Italiana en el Teatro Príncipe. La correspondencia desde Milán del empresario D. Cristóbal Fernández de la Cuesta en 1826, «Cuadernos de música iberoamericana» 17, 2008, pp. 61-77.
3 Saverio Mercadante definitely left the Collegio di Musica on April 9th 1820, as reported in Tom mASINA BoCCIA, Il Conservatorio di musica di Napoli negli anni di studi e della direzione di Saverio Mercadante nei documenti dellʼArchivio Storico in Mercadante 1870-2020, ed. Antonio
common goal for most students and an indispensable prerequisite for a future return, full of honors and fame, to the Neapolitan scenes.4 The will to succeed in professional operatic career and to fight the envy, the wickedness, the rivalries that characterized the enviroment, pushed some of the students to sign a sort of pact before leaving the College. Probably born as a goliardic community, such an alliance was based on relationships of true friendship between very close fellows, grown together for years and ready to ensure mutual support in facing the outside world. The pact consisted of a series of rules often quoted in many letters as articles of a Code, called by Mercadante Codice Geratelliano (i.e. probably for Cerretelliano by the name of the violinist Antonio Cerretella). Affiliates to the group used to call themselves ʼPistacchiʼ:5 «I have no doubt that returning among you Pistacchi will awaken the ancient spirits in me»6 wrote Mercadante to Florimo from Novara in 1835. In another letter, he emphasized the spirit of friendship of old friends, inspired by the utmost correctness and sincerity:
You neglect me, you do not write to me when it would be needed, you reply to my letters just when you like and then you claim the right to abuse me, slander me, to overwhelm me and to silence me, putting me on the wrong side. I am older than you, so I was first to study that Geratellian code, and although you agree on the progress made since those times, yet I do not give up on your chatter: That said, letʼs be frank, forgive each other and donʼt confuse our laziness with friendship, since as I believe you unchanged towards me so you must believe me, without ever taking advantage of some slight lack to scold me.7
Caroccia, Paologiovanni Maione, Napoli, Edizioni del San Pietro a Majella, 2020, p. 20. About the professional training received by the students of Naples Conservatory, see pAoloGIoVAN NI mAIoNe - FrANCeSCA Seller, «Saranno destinati a far conoscere il loro valore»: gli alunni “napoletani” e le scene cittadine, in Lʼinsegnamento dei conservatori, la composizione e la vita musicale nellʼEuropa dellʼOttocento, ed. Licia Sirch, Maria Grazia Sità, Marina Vaccarini, Lucca, lIm, 2012, pp. 329-363.
4
On the new role of music composers in society in the early 19th Century, see luCIo TuFANo, Aspetti della professionalità musicale (1785-1815), in Cultura, e lavoro intellettuale: istituzioni, saperi e professioni nel Decennio francese, ed. Anna Maria Rao, Napoli, Giannini, 2009, pp. 276296.
5
6
The Belliniʼs biographer Francesco Pastura already wrote about the alliance among “Pistacchi”. See FrANCeSCo pASTurA, Bellini secondo la storia, Parma, Guanda, 1959, pp. 47-49.
«Non dubbito che trovandomi fra voi Pistacchi, mi si sveglino gli antichi spiriti», letter from Saverio Mercadante to Francesco Florimo, Novara 7th July 1835, (I-NC Rari Lettere 19.12/106) published in SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario, Fasano, Schena edi tore, 1985, pp. 141-143: 141.
7
«[…] Tu mi trascuri, non mi scrivi quando ve ne sarebbe bisogno, riscontri le mie quando ti piace e poi ti arroghi il diritto di strapazzarmi, calunniarmi, per impormi e farmi tacere, met tendomi dalla parte del torto. Sono piú vecchio di te, quindi prima studiai quel codice Gera
Some articles of this maybe never-written Code deserve our attention because they tell us about the professional mentality of the young musicians educated at Naplesʼ College. After completing their studies, the young composers and instrumentalists had trained to better fit into the theatrical world undertaking a profes sional path that would have given them a dignified life. The demand for theatrical performances was abundant and the primary purpose of the young students was that ironically described in article 55: earn the day and set aside as much money as possible when things are going well.8 Mercadante wrote to Florimo about this, when he realized that his Spanish adventure was coming to an end: «In the midst of this uncertainty I took the party of accumulating as many effective sounding colonnati, earning cash on the side, to better consolidate the Article 55 and put aside a half pound of spaghetti».9
The young composers were also attentive to the tricks that helped the success of a performance. According to article 29, “The applause at first performance”, they knew they had to rely on a good number of true friends among the audience of a première to ensure the success of a new opera. Mercadante tells us about it, writing to Florimo from Turin in the autumn 1831: «You would have been pleased to see the Marchese Galeati, with his family and followers, making noise, as did the good and excellent Duchessina di Noja on the first evening of the Zaira – il Principino Dentice, and all the Neapolitans helped to run the show very well, since I used Article 29 the applause at first performance».10
telliano, e benché accordi i progressi fatti daʼ tempi, pure non allaccio alle tue chiacchiere: Ciò posto facciamo franchi dei franchi, perdoniamoci scambievolmente e non confondiamo la nostra pigrizia con lʼamicizia, poiché comʼio ti credo invariabile cosí mi devi credere, senza mai approfittare di qualche lieve mancanza per darmi addosso […]», letter from Saverio Mer cadante to Francesco Florimo from Novara, 3rd June 1839, (I-NC Rari Lettere 19.12/115) published in pAlermo, Saverio Mercadante, cit., pp. 196-197: 196.
8 The scholar Giorgio Sanguinetti reminds us that in order to respond to the great demand for ever new works, music students of the early nineteenth century were trained to compose at a frenetic pace. He wrote, indeed: «Every professionally trained Italian composer was able to compose an opera in five weeks, or less if necessary. This was the result of training, and not of genius.». See GIorGIo SANGuINeTTI, The art of Partimento, Oxford, Oxford University Press, 2012, p. 7.
9
«In mezzo a questa incertezza ho preso il partito di vedere ammassare quanto piú posso colonnati effettivi, sonanti e fuori banco, ad ogetto (sic!) di soliditare meglio lʼarticolo 55 e crescere nu miezzo ruotolo de vermicelli.», letter from Francesco Mercadante to Francesco Flo rimo, Madrid 2nd November 1830 (I-NC Rari Lettere 19.12/92) published in pAlermo, Saverio Mercadante, cit., pp. 88-92: 91.
10
«Tʼavrebbe fatto piacere vedere il Marchese Galeati, con famiglia e seguito fare chiasso, come fece la buona e ottima Duchessina di Noja la prima sera della Zaira – Il principino Dentice, e tutti i Napolitani hanno aiutato la barca benissimo, poiché mi servii dellʼarticolo 29 di applau so in prima sera». The letter is datable September 1831 and refers about the first Turinʼs repre sentation of the opera La Testa di Bronzo (I-NC Lettere 20.5/17). Itʼs published in pAlermo,
Gray eminence of the ʼPistacchiʼ, Francesco Florimo 11 weaved the threads of relationships and made sure that everyone helped each other, especially outside Naples. It is well known that Mercadante gave a hand to Bellini on his arrival in Milan,12 just like years later, he received help from Bellini in Paris:
Mercadante writes to me on his arrival to Paris, he hopes to find you a friend as you have always shown him to be. He hopes you will benefit him with your connections and relationships. I replied that you have not changed with anyone, and particularly you would not have changed with him; that your friends in Paris would be his friends, that he would find you in Paris as you found him the first time you saw him in Milan, that your friendship was of beneficiary to him. Iʼm sure you would agree with what I wrote to him and I have no doubt that you will express yourself personally to Mercadante, who is the only composer who praises and appreciates you.13
Many years later, another friend, Michele Carafa, claimed his role in allowing Mercadante to receive the Légion dʼhonneur from the French government.14 Florimoʼs
Saverio Mercadante, cit., pp. 105-109: 106.
11 Fellow student of Mercadante and Bellini at the Neapolitan music College, Francesco Florimo carried out all his musical activity in Naples, covering the role of music librarian in San Pietro a Majella from 1826 to 1888 and also that of director of vocal concerts since 1827. See roSA CAFIero, Florimo, Francesco in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dellʼEnciclopedia Italiana, vol. 48, 1997, pp. 349-353. For a better comprehension of the influence that Florimo had on the artistic careers of many of his friends see ANToNIo CAroCCIA, La corrispondenza salvata. Lettere di maestri e compositori a Francesco Florimo, Palermo, Mnemes, 2004.
12 See mArIA roSA AdAmo - FrIedrICH lIppmANN, Vincenzo Bellini, Torino, erI, 1981, pp. 55-222.
13 «Mercadante mi scrive che venendo a Parigi spera di trovarti amico come sempre glielo hai dimostrato. Spera che gli gioverai con le tue conoscenze e coi tuoi rapporti. Io gli risposi che tu non cambiavi con alcuno, e particolarmente non avresti cambiato con lui; che li tuoi amici di Parigi sarebbero stati gli amici suoi ancora, chʼegli avrebbe trovato te in Parigi come tu trovasti lui la prima volta che lo vedesti a Milano, che tanta amicizia ti ha usato. Sono sicuro che tu penserai come gli scrissi e non dubito punto che [lo] mostrerai a Mercadante che ti ha sempre stimato ed [è] il solo tra i compositori che ti loda e tʼapprezza», letter from Francesco Florimo to Vincenzo Bellini, Naples 9-11th July 1835, published in Vincenzo Bellini Carteggi, critical edition ed. Graziella Seminara, Firenze, Olschki, 2017, pp. 544-546: 546. See also AdA mo - lIppmANN, Vincenzo Bellini cit., pp. 223-311. Actually, Mercadante and Bellini lived toge ther in the College just for a few months, since Mercadante left it on April 1820 and Belliniʼs presence is attested at least starting from the 28th January 1820 as recorded in Naples Conservatoryʼs Archivio Storico. See Cm NA as, San Pietro a Majella preunitario, Copie di delibe razioni e appuntamenti, II.6.1, c. 365r.
14 Michele Carafa (1787-1872), studied in Naples with Francesco Ruggi and Fedele Fenaroli. From 1840 to 1858 he taught counterpoint and composition at the Paris Conservatory becaming one of the most prestigious figures of Italian music in France.
interest in the matter had been great, and Carafa finally replied to him:
You knew, for your interest, that only thanks to me Mercadante had the decoration of the Légion dʼhonneur. My friend Auber and all my collegues did nothing but sign the application that I presented. I have been twice to the Minister of Foreign Affairs (the first time with Auguste Aymé) to bring the request signed by the Music Section, and to commit the minister to support our petition […].15
Mutual support between old Collegeʼs mates was also based on the awareness of the musical talent of each of them. The article 151 of the Code declared without hesitation: «The best is the one who earns the most». In this letter written from Turin in 1831, Mercadante rejoiced at Belliniʼs ability to increase his fee for the benefit of all other composers, recognizing the undisputed excellence of his friend:
From what Romani has written to me, it seems that he [Bellini] is ahead with his work, and that the libretto is very interesting and well suited to the Company. He can only make good music, be successful, and bring his pay to 18,000 francs letting all of us shout like eagles, and laugh out loud, referring on article 151 that the best is the one who earns the most.16
The oath between ʼPistacchiʼ implied a strong sense of belonging and fidelity to the Neapolitan composition school, of which they felt they were heirs. The responsi bility of keeping up its fame was linked to the awareness of the high teachings they had received. Often more celebrated abroad than at home, the musicians trained in Naples always remained obliged to the city and to the College. Mercadante wrote to Florimo, indeed: «Despite ungrateful to his children, long life to the Casalone the home of composers, and if we do not have the talent of our great masters, at least we
15 «Sapevate, per vostra regola, che io solo ho fatto avere la decorazione della Legione dʼonore a Mercadante. Il mio amico Auber, e gli altri miei colleghi, non hanno fatto altro che firmare la domanda che io ho presentato. Io sono stato due volte dal Ministro degli Affari Esteri (e la p.ma volta con Auguste Aymé) per portare la domanda, firmata dalla Sezione musicale, e per impegnare il ministro ad appoggiare la nostra petizione […]», letter from Michele Carafa to Francesco Florimo, Paris 28th March 1853 (I-NC Rari 19.5/22), published in CAroCCIA, La cor rispondenza salvata cit., pp. 61-62.
16 «Da quanto mi scrive Romani, pare che [Bellini] sia avanti con il suo lavoro, e che il libro sia interessantissimo e ben adatto alla Compagnia, lui non potrà che fare una buona musica, incontrare, e portare la paga a 18.000 fr. lasciando gridare tutti noi altri come aquile, e ridere a crepapancia, appoggiandosi allʼart.151 che il piú bravo è chi guadagna di piú». The letter refers to Belliniʼs Norma, which was performed on 26th December 1831 at Milan Teatro alla Scala. The passage is taken from the same letter quoted in footnote n. 9; see pAlermo, Save rio Mercadante, cit., pp. 105-109: 108. On the pay obtained by Bellini for his operas see also JoHN roSSellI, Bellini, Milano, Ricordi, 1995, p. 84.
must with every effort show ourselves not inferior to all these titled charlatans».17
Coming from the Music College of Naples represented, at the time, a sort of “quality license” to which Italy and Europe looked with interest. It is known that during the seventeenth and eighteenth centuries the Neapolitan conservatories had become the most important professional music schools in all of Europe.18 At the beginning of the nineteenth century, fame continued to exist but the dialectic between an “old” Neapolitan school (i.e. that of Cimarosa and Paisiello) and a “new” Neapolitan school became a familiar topic to the international music press, which usually considered the emerging composers as unworthy of their ancestors. It must be considered, in truth, that the composers of the ʼnewʼ school shared the common fate to start their careers in the shadow of Rossini and that this did not facilitate their reception among the foreign audience. 19
When Mercadante staged his first opera LʼApoteosi di Ercole at San Carlo Thea tre in 1819, the «Allgemeine musikalische Zeitung», reported the news as follows:
Towards the end of August, a new work entitled LʼApoteosi di Ercole received the greatest acclaim at the San Carlo of Naples. Mr Mercadante, a new composer still very young who was a pupil of Zingarelli, made his debut with this opera and caused such a stir that he was immediately commissioned to compose a comic opera, in which style, however, as Zingarelli believes, he might not succeed so well. The Italian newspapers are completely silent on this work, because in Naples the impresario Barbaglia and the director Rossini deal with the direction of theatres and with music critics too, and probably also have an indirect or direct influence on other Italian magazines. Furthermore, Zingarelli is a very strong opponent of Rossini and madame Colbrand was not brilliant in this performance.20
17 «Benché ingrato con i suoi figli, pure, evviva il Casalone, la patria dei compositori, e se non abbiamo il talento dei nostri gran Maestri, almeno dobbiamo con ogni sforzo non mostrarci inferiori a questi ciarlatani titolati». The letter is datable February 1838 (I-NC Rari Lettere 19.12/113) and itʼs published in pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario cit., pp. 181-184: 183.
18 As Giorgio Sanguinetti states, «it is not an exaggeration to say that every European composer in the seventeenth, eighteenth and nineteenth centuries was exposed, directly or indirectly, to the influence of the Neapolitan masters». See SANGuINeTTI, The art of Partimento cit., p. 7.
19 The subject is extensively treated by FrANCeSCA plACANICA, Saverio Mercadante and France (1823-1836), PhD Thesis, University of Southampton, 2013.
20 «Gegen Ende Augustʼs wurde zu Neapel auf St. Carlo eine neue Oper, lʼApoteosi di Ercole beti telt, mit vielem Beyfall gegeben. Herr Mercadante, ein angehender, noch sehr junger Compo siteur und Schüler Zingarelliʼs, debütirte mit derselben und erregte dadurch grosses Aufseheu, bekam auch sogleich den Auftrag, eine opera buffa zu componiren, in welchem Style aber, wie Zingarelli glaubt, es ihm vieileicht nicht so gut gelingen möchte. Die italianischen Zeitun gen schweigen über diese Oper gänzlich, weil in Neapel der Impresario Barbaglia und der Director Rossini das theatralische Ruder und die dasigen Zeitungsschreiber leiten, wohl auch
It is known that in the 1820s Barbaja put a lot of efforts into commissioning new operas to young composers with the hope of discovering the ʼnew Rossiniʼ. At that time the composer from Pesaro was the undisputed ʼgeniusʼ of the Neapolitan scenes. Yet, Zingarelliʼs opposition towards Rossini was probably more an invention of the press and the critics, eager to give life to a new querelle between Rossinisti and Zingarelliʼs students, than a real hostility. 21 It has been already highlighted, in fact, that Zingarelliʼs teaching, althought faithful to tradition, was also marked by serious studies of the European instrumental culture and was not so dully con servative, providing students with the tools to welcome in a non-passive way the melodramatic models in vogue at that time.22
Five months later, in april 1820, the German journal gave brief news of the success of the announced Mercadanteʼs comic opera given at Naplesʼ Teatro Nuovo, intitled Violenza e Costanza. This opera in two acts seems to be the first of Mercadanteʼs work to have been staged out of Italy, having been performed in 1822 in Berlin and in Münich with the title Il castello degli spiriti (Die Geisterburg) [figure 1].23 On the occasion of the Münichʼs performance on June 22nd 1822, the reviewer of the «All gemeine musikalische Zeitungʼs» had probably for the first time the opportunity to listen to Mercadanteʼs music live and to write:
The Royal Italian Theatre gave two new operas called Il castello degli spiriti by Mercadante and la Fedra by Orlandi. The first, a comic opera, is based on a very funny fairy tale, but it has not maintained the great reputation enjoyed by the
mittel-oder unmittelbar auf andere italienische Zeitungen Einfluss haben. Hierzu kommt noch, dass Zingarelli ein sehr starker Gegner Rossiniʼs ist, und dass d.e Colbrand in dieser Oper nicht glänzte», see «Allgemeine musikalische Zeitung» XXI/45, 10th November 1819, col. 758.
21 Still in 1877, an editor of the «Gazzetta Musicale di Milano», G. Villanti, wrote that on the occasion of the inauguration of a Zingarelliʼs portrait in 1835, a sonnet entitled La musica dei fracassisti was declaimed in the Neapolitan Collegeʼs library. The quarrel between Rossinisti and Zingarelliʼs students was traditionally traced to this episode, even if in the brouchure published for that occasion there is no trace of that sonnet. See «Gazzetta Musicale di Milano» XXXII/12, 25th March 1877, p. 95. See also Componimenti recitati in occasione della inaugurazio ne del ritratto del cavaliere Niccolò Zingarelli: alla presenza di sua eccellenza D. Niccolò Santan gelo, Napoli, tip. Osservatore medico, 1835.
22 See mArCello CoNATI, Florimo e Mercadante in Francesco Florimo e lʼOttocento musicale, ed. Rosa Cafiero, Marina Marino, Reggio Calabria, Jason, 1999, pp. 121-133. On Zingarelliʼs teaching method see FlorImo, Cenno Storico sulla scuola musicale di Napoli, I, Napoli, Rocco, 1869, p. 485 and GIorGIo SANGuINeTTI, Decline and Fall of the “Celeste Impero”: the Theory of composi tion in Naples during the Ottocento, «Studi Musicali» XXXIV/2, 2005, pp. 451-502.
23 leoNe ANdreA ToTTolA, Die Geisterburg. Eine scherzhaftes Drama in zwey Akten in Musik gesezt von Mercadante. München, Hübschmann, 1822 (d mBS). The German libretto contains just a synopsis since the opera was performed in the original language.
young composer in Italy. On the other hand, we found little originality and a too evident imitation of Rossini.24
The comic and sentimental opera was still the most widespread operatic genre in 1820s. It represented a high level and enjoyable entertainment and it had lower costs for the theatrical staging. Moreover, in comic and sentimental operas, the original music could more easily be interpolated with local folk melodies and arias composed for the occasion, according to a very common practice of that time. In the cosmopolitan world of opera of the beginning of nineteenth Century, indeed, lasting convention provided the keys to appreciation of foreign spectators, but cultural differences sometimes represented an obstacle to the comprehension of Italian comic opera.
When the successful opera semiseria Elisa e Claudio, first represented in Milan in 1821, was staged for the first time in Münich on December 1822, the «Allgemeine musikalische Zeitungʼs» reviewer highlighted the good reception of the work, but invited the detractors of the Italian Opera to listen to it with the right disposition, pointing out the different attitudes towards ʼhumorʼ among northern populations and Italians:
Yesterday in Residenz Royal Court Theater we witnessed a new comic opera in 2 acts, entitled Elisa and Claudio, with music by Mr. Maestro Mercadante. You have to take an Italian comic opera for what it is there for, for an easily and funny farce. And the most curious thing is that in the midst of funny things our feeling often creeps into a sweet agitation, and we, as in several parts of the opera discussed here, donʼt know whether to laugh or cry. Italians often do both, and so it suits them. But if our German seriousness goes out of deep analyses, if we look too strictly for novelty, thoroughness, depth, where one only wanted to appeal lovingly through seductive forms, then we completely ignore the point of view from which these merry products of the southern sky are to be judged. In short, there is no need to seek the shade of German oak groves in an Italian orange garden […].25
24
«München. Das königliche italianische Theater gab in kurzer Zeit zwey neue Opern, nähmlich Il castello degli spiriti von Mercadante, und la Fedra von Orlandi. Die erste, eine komische Oper, gründet sich auf eine sehr unterhaltende Fabel, hat aber keineswegs den grossen Ruf, welche der junge Tonsetzer in Italien geniesst, hier ganz bewährt. Finden wir von der andern Seite wenig Originalität und eine zu offenbare Nachahmung von Rossini». See «Allgemeine musi kalische Zeitung, mit besonderer Rücksicht auf den österreichischen Kaiserstaat» VI/50, 22nd June 1822, col. 399.
25 «Im königl. Hoftheater an der Residenz sahen wir gestern eine neue Opera buffa in 2 Aufzün gen, betitelt: Elisa e Claudio, mit music von Hrn. Maestro Mercadante. – Man muss eine italia nische opera buffa für das nehmen, wofür sie sich gibt, für einen lustigen Schwank, für eine leicht unterhaltende Posse. Und das ist gerade das spasshafteste, dass in Mitte des tollsten Zeuges unser Gefühl nicht selten eine süsse Rührung beschleicht, und wir, wie an mehreren
Mercadante himself considered Elisa e Claudio his unsurpassed triumph for many years. The opera had many representations as documented by the surviving librettos or magazineʼs reviews and it was also the first Mercadanteʼs opera to be staged overseas in New York in 1832 thank to Lorenzo da Ponte [figure 2].26 This work absolutely helped to spread the composerʼs fame as evidenced by some biog raphies published on European magazines in those years.27
Elisa e Claudio was also the first Mercadanteʼs opera to be staged at Parisʼ Théâtre Italien in November 1823, during a benefit evening for Giuditta Pasta. Its reception was weak in spite of the great expectation.28 The evening included, in addition to Mercadanteʼs title, a one-act reduction of Paisielloʼs Nina pazza per amore. Due to the length of the program it was necessary to cut many pieces of Elisa e Claudio. 29 The French press focused on the weakness of the libretto, finding it terribly bor ing. Regarding the music, it deplored the abundance of thematic materials which made the listening “a too labourious experience”: «[…] the composer has sweated blood and water to produce the effect of piling theme upon theme which no happy transition can link and blend, resulting in a mass of jolts to the ear; this mosaic of notes in all tones […] may offer the elements of twenty finales, but they are too diverse to reach a single one satisfactorily».30
Stellen der hier besprochenen Oper, nicht recht wissen, ob wir darüber lachen oder weinen sollen. Der Italiener thut oft beydes und so ist ihm wohl. – Geht aber unser deutscher Ernst aus Zergliedern, suchen wir allzustrenge nach Neuheit, Gründlichkeit, Tiefe, wo man nur durch reitzende Formen lieblich ansprechen wollte, so verrücken wir gänzlich den Standpunct, von welchem aus diese heitern Kinder, man muss in einem italienischen Orangenwäldchen eben so wenig den breiten Schatten deütscher Eichenhaine […]». See «Allgemeine musikalische Zeitung, mit besonderer Rücksicht auf den österreichischen Kaiserstaat» VII/6, 18th January 1823, col. 47.
26 luIGI romANellI, Eliza and Claudio, or, Love protected by friendship [music by Saverio Merca dante], New York, Lorenzo Da Ponte, 1827 (uS-CA). In the first ten years, between 1821 and 1831, Elisa and Claudio was performed out of Italy in: München (1822), Berlin (1822), Barcelon (1823), München (1823), London (1823), Paris (1823), Innsbruck (1824), Paris (1824), Lisbon (1824), Wien (1824), Madrid (1824), Odessa (1824), Dresden (1825), Majorca (1825), Budapest (1825), Paris (1827), Berlin (1828), Paris (1828), Saint Petersburg (1829), Santiago (1830), Buenos Ayres (1831), Corfú (1831).
27 See for istance Mercadanteʼs biographies published in the Parisian magazine «Le Miroir des spectacles, lettres, des moeurs et des arts», 21 June 1822 p. 4 or in the Londoner «The Harmon icon», May 1824, pp. 90-91.
28 Françoise Henry Joseph Castil-Blaze had already reported enthusiastic appreciation on the opera given at Milan Teatro alla Scala. See «Journal des débats», Paris 30th November 1821 and 2nd January 1822.
29 plACANICA, Saverio Mercadante and France cit., pp. 53-82.
30 «Le Corsaire» 24 November 1823, quoted in ivi, p. 73.
In comparison with the success of Paisielloʼs Nina, immediately following the per formance of Elisa e Claudio that night, the real encounter with Mercadanteʼs music was somewhat disappointing for the French public and critics, and once again gave the opportunity to compare the most appealing old Neapolitan opera school (considered authentic) with the new Neapolitan school.
Figure 1:
luIGI romANellI – SAVerIo merCAdANTe, Die Geisterburg, München, Hübschmann, 1822. (Bayerische StaatsBibliothek München). Libretto.
Source: <www.opacplus.bsb-muenchen.de> (last consultation 31 March 2021).
Figure 2: luIGI romANellI – SAVerIo merCAdANTe, Eliza and Claudio New York, per Lorenzo Da Ponte, 1832. (Harvard College Library). Libretto.
Source: <www.babel.hathitrust.org> (last consultation 31 March 2021)
After the staging of Elisa e Claudio at the Théâtre Italien, the music of this opera resurfaced in Paris in 1825 at the Théâtre de lʼOdéon in the Luc Guénéeʼs pastiche Les Noces de Gamache [Fig. 3].31 This work has nothing to do with the opera Don Chisciotte alle nozze di Gamaccio that Mercadante wrote in Cadiz in 1828.32 It is a
31 Les Noces de Gamache. Opéra Bouffon en Trois Actes, Paroles de M.M. Sauvage et Dupin, Musique de Mercadante, Arrangé pour le scène Francaise Par M. Guénée, Paris, chez C. Lafitte, [1825].
32
A manuscript of the opera, entitled Nozze di Gamaccio / (D. Chisciotte) / Musica di Saverio Mer
single-composer pasticcio including music taken from two of Mercadanteʼs operas, LʼApoteosi di Ercole and Elisa e Claudio and reshuffled.33 As demonstrated by the studies of the scholar Francesca Placanica, this work represents a very interesting study-case to understand the consumption and reception of Italian opera out of Italy, which often passed through unusual and non-ordinary paths.34 The libretto of the pastiche, in french language, did not have any relation with the two original librettos set to music by Mercadante. The music was arranged by Luc Guénée, a violinist and composer who included in Les Noces de Gamache three new musical numbers written by him and inspired to Spanish dance rhythms, probably to meet the expectations of the Parisian audience who was well aware of the settings of Cervantesʼ work.
The diffusion of Mercadanteʼs Elisa e Claudio and its transformation into Les Noces de Gamache was important for the spread of Mercadanteʼs name in Paris although, in the following years, France would always remain skeptical about the successes that the composer was simultaneously collecting in Lisbon, Madrid and Cadiz.35 Mercadanteʼs cold reception in France was probably also favored by the article on The state of music in Italy, France and Germany written by François-Jo seph Fétis and published in the «Revue Musicale» of February 1827.36 After having expressed appreciation on Elisa and Claudio, the famous Belgian musician and musicologist deplored Mercadanteʼs following works and wrote that the composer had disappointed the initial expectations. As a matter of fact, no other Mercadanteʼs opera was staged at the Parisʼ Théâtre Italien after Elisa e Claudio in 1823 and before I briganti in 1836.37
cadante, dated Cadice 7 9bre 1828, is held in Naplesʼ Conservatory Library (I-NC 29.6.18). See AdelA preSAS, Creaciòn y vida de Saverio Mercadante en España. Don Chisciotte alle nozze di Gamaccio (Cadiz, 1830), Madrid, Universidad Autónoma de Madrid, 2018.
33 mArk eVerIST, Music at Paris Odeon, 1824-1828, Berkley-Los Angeles-London, University of California, 2002, pp. 189-198.
34 plACANICA, Saverio Mercadante and France cit., pp. 83-132.
35 «Il est difficile de décider si les acteurs et la pièce ont satisfait le public, ou sʼil les à entendus avec indifférence», wrote the «Revue musicale» on the occasion of the first representation of Mercadanteʼs Il posto abbandonato, revisioned for Lisbon in 1828. See «Revue musicale» IV/2, August 1828, p. 43.
36 FrANçoIS-JoSepH FéTIS, Examen de lʼètat actuel de la musique en Italie, en Allemagne, en Angle terre et en France, «Revue musicale» I/3, February 1827, pp. 80-88.
37
For the list of operas staged in those years at the Parisʼ Théâtre Italien see JeAN moNGrédIeN Le Théâtre Italien de Paris 1801-1831: chronologie et documents, vol. VI 1825-1826, Lyon, Symetrie – [Venezia], Palazzetto Bru-Zane, 2008. Michael Wittmann writes on relation between Mer cadante and Paris: «[…] all Mercadanteʼs operas of 1832-6 had at best a succès dʼestime. He was far less popular with the audiences than Bellini and Donizetti, a state of affairs clearly reflected in Rossiniʼs decision not to invite him to compose an opera for the Théâtre Italien in Paris until the Spring of 1836 […], and even then asked for an opera buffa or semiseria». See mICHA
Figure 3:
SAVERIO MERCADANTE, Le Noces de Gamache, musique arrangée pour la scène française par Mr Guenée, Paris, Lafitte, [1825].
(Bibliothèque nationale de France, <www.gallica.bnf.fr> last consultation 31 March 2021).
Before Paris, Elisa e Claudio had been staged in England too, in May 1823. In London, the reception had been even worse. Rossiniʼs preponderance at the Kingʼs Theatre left no room for easy successes. In 1823 the Italian operas performed had
el WITTmANN, Mercadante, (Giuseppe) Saverio (Raffaele), in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, ed. John Tyrrel and Stanley Sadie, New York, Grove, 20012, pp. 438-448.
been:38
La Clemenza di Tito Mozart
Le Nozze di Figaro Mozart
Elisa e Claudio Mercadante
La Gazza Ladra Rossini
Tancredi Rossini
La Donna del Lago Rossini
Otello Rossini Ricciardo e Zoraide Rossini Matilde e Corradino39 Rossini
On May 1823 the «Quarterly music Magazine & Review» laconically declared: «Elisa e Claudio was heard only to be condemned»40 and «The Harmonicon» wrote shortly after:
It is impossible to describe anything more stupid than this drama, (written by a certain Romanelli); which may somehow account for the dullness of the music. It is said that it was performed sixty nights successively in Milan; an assertion more easily made than proved: if true, it shews, as it has been observed, the degraded state of taste and intellect in Italy. The whole opera does not convey an original idea; it is borrowed mainly from Rossini, - that is to say, his singularities are copied, not his beauties.41
Some years later, in 1835, the same opera was to appear again at the Londonʼs English Opera House. Magazines announced: «On Saturday, and every night since, has been performed, with great effect and success, a new comic opera, founded on Eliza and Claudio, the music by Mercadante, and new-named No plot without danger».42
The habit of cutting and replacing some pieces, remodelling the opera and trans lating it, was still a common practice out of Italy for this kind of repertoire.43 The 38
JoHN eBerS, Seven Years of the Kingʼs Theatre, London, W. Harrison Ainsworth, 1828, p. 194. 39
40
41
42
Other title for Matilde di Shabran.
«The Quarterly music Magazine & Review» V/18, May 1823, pp. 262-263.
«The Harmonicon» I/5, May 1823, p. 72.
«The London Literary Gazette and Journal of Belles Lettres, Arts, Sciences, etc.» 973, 12th Sep tember 1835, p. 589.
43
The scholar Cristine Jeanneret in one of her studies on operaʼs migration in the northern Countries, states: «By the mid-eighteenth century, Italian opera was a truly European and cosmopolitan phenomenon, having being literally transported, adapted, translated and even sometimes mutilated to survive in different contexts», see CrISTINe JeANNereT, Costumes and Cosmopolitanism: Italian Opera in the North, «Cambridge Opera Journal» 32/1, March 2020,
fortune of Mercadanteʼs works outside Italy cannot be understood and evaluated without the knowledge of the theatrical practices that were normally put in place to meet the expectations of foreign audiences and to adapt the shows to the needs of different theaters and different orchestras and artistsʼ companies. Even the «Revue Musicale» remarked on the London performance of 1835:
This work is nothing more than a translation of Mercadanteʼs work known as Elisa and Claudio. Following the method of the English arrangers, the most important pieces have been cut, shortened or deleted, and have been replaced with small melodies whose fusion with Italian music has a rather bizarre effect, which shocked no one in London.44
The fate of Elisa e Claudio was no different in Austria. It was first staged in Wien in 1824 under the Barbaja management and it had a good success and ʼpiacque fino al fanatismoʼ as Florimo wrote;45 but in Dresden, in the next year 1825, it under went numerous changes and added so many new pieces and airs to induce the reporter to declare: «it is quite another thing from what it was when it first made its appearance». 46
We can suppose that the numerous alterations and new version that Elisa e Claudio underwent in many European countries hindered the correct reception of Mercadanteʼs music, even if they increased the musicianʼs popularity.47 As a pos sible consequence, the foreign professional musical press was often stingy with Mercadante, and sometimes malicious too. When the opera Didone abbandonata
pp. 27-51.
44 «Cet ouvrage nʼest autre quʼune traduction de lʼopera de Mercadante connu sous le nom dʼElisa et Claudio. Suivant la méthode des arrangeurs anglais, les morceaux les plus importants ont été coupés, écourtés ou supprimés, et ont été remplacés par de petites melodies donʼt lʼamalgame avec la musique italienne fait une effect assez bizarre, mais dont personne nʼa été choqué à Londres». See «Révue Musicale» IX/4, 25 october 1835, p. 344.
45
46
FrANCeSCo FlorImo, La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatori, 3, Napoli, Morano, 1883, p. 113.
«The Harmonicon» IV/39, March 1826, p. 60.
47 Mercadanteʼs popularity outside Italy is also documented by the testimonies of street musicians coming from the South of Italy who, in the nineteenth century, used to go playing all over the world the most famous Italian opera arias, accompanying themselves with a harp and a vio lin. «My name is Francesco Pennella: for 17 years I have been traveling with this harp on which my grandfather played the songs of Cimarosa and Jommelli; and my father taught me those of Rossini and Mercadante». See I Viggianesi in FrANCeSCo de BourCArd, Usi e costume di Napoli e contorni descritti e dipinti, Napoli, tip. Gaetano Nobile, 1853, 1, pp. 123-125: 124. See also Musicisti ambulanti e opera, dallʼarpa di Viggiano allʼorganetto porteño, in ANNIBAle eNrI Co CeTrANGolo, Dentro e fuori il teatro. Ventura degli italiani e del loro melodramma nel Rio de la Plata, Isernia, Cosmo Iannone, 2018, pp. 19-42.
was performed for the first time in Turin, in 1823, the «Allgemeine musikalische Zeitung» commented:
Now, one might wonder why the same artist composes three works simultaneously in two or three months, like this time Mr. Mercadante in Milan [Adele e Emerico], Turin [Didone] and Mantua [Alfonso ed Elisa] [...]. There are, however, malicious tongues that claim that Mercadante really lets himself be helped by others and that much of his Dido belongs to Donizetti.48
The echo of the Italian success of Didone abbandonata (Turin 1823) didnʼt prevent the failure of its first performance at London Kingʼs Theatre in 1827. The manager of this theatre was John Ebers, who published a diary of his management at the end of his enterprise.49 Musical director was Charles Bochsa, an extraordinary harpist, conductor and composer, bold in business and already expelled from France in 1817 for a forgery charge. Arrived in London, he soon reached a prominent position in the townʼs musical environment, gradually obtaining the support of the court which appointed him Professor of the harp at the Royal Academy of Music in 1823 and musical director of the Kingʼs Theatre from 1826 to 1830.50 Between 1821 and 1830 the Kingʼs Theatre engaged many top class Italian singers as Giovanni Battista Velluti, Giuditta Pasta, Maria Malibran, Antonio Tamburini. From Ebersʼdiary we know that Mercadanteʼs Didone was staged in London in 1827 because an Ebersʼcollaborator, Giovanni Puzzi – sent to Italy to engage first class singers – put under contract the nineteen-year-old soprano Giacinta Toso, who later married him:
This lady he engaged at three hundred and fifty pounds, and the travelling expenses of herself and her father and mother, who accompanied her. He also brought with him Mercadanteʼs opera ʼDidoneʼ, intending it for the débût of Mademoiselle Toso; the composer himself having made some alterations in the opera to adapt it accordingly.51
The opera was performed in a benefit evening for Mad.e Puzzi and the young singer performed the role of Enea while Giuditta Pasta sang in the role of Dido.
48 «Nun könnte man fragen, wie es zugehe, dass ein und derselbe Kunstler, zur nämlichen Zeit drey Opern auf einmal binnen zwey, drey Monaten componirt, wie z. B. diessmal Hr. Merca dante für Mailand, Turin und Mantua [...]. Indessen giebt es böse Zungen, welche behaupten, Mercadante habe sich wirklich von audern helfen lassen, und dass vieles in seiner Didone dem Donizetti angehöre» «Allgemeine musikalische Zeitung» XXV/5, 9th April 1823, col. 235.
49 See footnote 36.
50 NICHolAS Temperley, Bochsa, (Robert) Nicholas Charles in The New Grove Dictionary cit., 3, pp. 764-766.
51 eBerS, Seven Years cit., p. 318.
Further changes and cuts were made to the libretto for the English scenes:52 the performed opera was considerably shorter and Madame Pasta replaced Didoʼs cavatina in the first act Vedi, mio ben, di Venere with Il soave e bel contento from Paciniʼs Niobe, 53 while the Jarbaʼs aria sang by tenor Alberico Curioni in the sec ond act «Cadrà fra poco in cenere» was replaced with the Gernandoʼs aria «Non soffrirò lʼoffesa» from Rossiniʼs Armida. The failure was complete and Mercadante was defined as «a poor imitator of Rossini»,54 but the most severe criticism was reserved to the non sense of the libretto and to the Finale in which Giuditta Pasta sang a last air defined «a long, tedious, ranting compilation» completely different from the composerʼs original one.55
Mercadanteʼs name no longer appeared in London Opera seasons until July 1830, when on the occasion of another benefit evening in honor of Henriette Méric-La lande the serious opera Caritea regina di Spagna was first performed in London with an even worse outcome:56
A new opera by Mercadante was produced on Monday, the 26th of July, for the benefit of Madame Lalande, under the title of La Donna Caritea, a work on which to bestow a word of criticism would be a waste of time, and an unjustifiable trial of the reader patience. It is a poor imitation of Rossini, and… bears the stamp of imbecility in every part of it. This driveling affair was eminently unsuccessful […].57
For many years, until the success of Il Giuramento in 1837, Mercadanteʼs serious operas performed out of Italy were very few and mostly resounded along theatrical
52
The libretto has been digitised by the British Library: Didone, opera seria, in Due Atti. Musica di Mercadante. Rappresentata del teatro del Re, Haymarket, Giuglio 5, 1827 […], London, John Ebers, 1827 (GB-Lbl).
53
This cavatina was originally written for Giovan Battista Rubini who played the role of Licida in the first performance given in Naplesʼ San Carlo Theatre on November 19th 1826, while Giuditta Pasta played the role of Niobe. Transposed for sopran and published by Ricordi in 1827, it became one of Giuditta Pasta favouriteʼs trunk aria. The vocal score was also published in London. See GIoVANNI pACINI, Il soave bel contento. Cavatina, introduced by Madame Pasta in Mercadanteʼs opera of Didone at the Kingʼs Theatre, London, Goulding & DʼAlmaine, [1827] (GB-Lbl).
54
«The Harmonicon» V/8, August 1827, p. 171.
55 The whole final scene doesnʼt correspond to the Romaniʼs libretto.
56
Between Mercadante serious operas written before Il Giuramento, Caritea regina di Spagna was the more performed out of Italy, having been staged in Zara (1827), Barcelon (1828), Lon don (1830), Madrid (1830), Majorca (1831), Odessa (1831), Lisbon (1834), Oporto (1835) and also in Havana (Cuba) in 1836.
57
«The Harmonicon» VIII/9, September 1830, p. 398.
routes of new trading cities such as Odessa.58 The succès dʼestime obtained by the opera I Briganti – his only work written for the Parisʼ Théatre Italienne in 1836 –and the unfavorable conditions in which this opera was performed,59 prevented its diffusion outside France and Italy except for some performances in German translation with the title Der Räuber.60
As already has been pointed out by Michael Wittmann, I Briganti can be con sidered the first Mercadanteʼs reform-opera,61 introducing a prolific period for the composer between 1837 and 1843, in which he wrote his most famous and inspired works that really had a notable success also abroad. «I owe this new career to you, who shook me from my lethargy, giving me back to a new musical life»62 he wrote to Florimo in 1839. «La rivoluzione», the renewed compositional process discussed in many letters to Florimo, led him to write operas that would best meet the taste of the foreign public. 63 A taste extraordinarily summarized in a satirical article published next to a caricature of the journal «The Musical World» in November 1846. The lithographic sketch [Fig. 4] represented the small Mercadante in front of the big Charles Bochsa, the French musician that some years before had been musical director at the London Kingʼs Theatre at the time of the Didoneʼs first English performance; in the years 1843-1845 Bochsa landed in Naples, following the prima donna Anna Bishop, and was appointed musical director at the San Carlo Theatre.
58
The Odessa Opera House was built in 1810. According to Manferrari, between the 1824 and the 1848 it staged at least four Mercadanteʼs operas: Elisa e Claudio, Caritea, Gabriella di Vergy, Leonora. The adventurous journey of an Italian Opera Company from Venice to Odessa was described in a long memory by the artist Vittore Pelli DʼAranno, hired from 1824 to 1827 by the Odessa Theater as scene-painter. See umBerTo mANFerrArI, Dizionario universale delle opere melodrammatiche, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1955, 2, pp. 322-327; see also VITTore pel lI dʼArANNo, Memorie di me Vittore Pelli dʼAranno, «Bollettino storico della Svizzera Italiana» VII/3, 1932, pp. 89-112.
59
See Mercadanteʼs letters from Paris published in pAlermo, Saverio Mercadante, cit., pp. 150165. See also «La Revue et Gazette Musicale de Paris» III/13, 27th March 1836, pp. 99-101.
60
Die Räuber, große Oper in drei Aufzügen, nach Schillers Trauerspiel gleichen Namens, aus dem Italienischen des J. Crescini, zur beibehaltenen Musik von Mercadante, inʼs Deutsche übertragen von dem Freiherrn von Lichtenstein, Mainz, [1839]. On the attempts to re-import Schillerʼs work in Germany see: ACHIm AurNHAmmer, Die Briganti des Mercadante – eine Räuber-Oper vor Verdi in Der ganze Schiller. Programm ästherischer Erziehung, ed. Klaus Manger, Heidelberg, Universitätverlag Winter, 2006, pp. 531-544.
61
mICHAel WITTmANN, Meyerbeer and Mercadante? The reception of Meyerbeer in Italy, «Cam bridge Opera Journal» V/2, pp. 115-132.
62
«Questa nuova carriera la devo a te, che mi hai scosso dal mio letargo ridonandomi a nuova musical vita», letter from Saverio Mercadante to Francesco Florimo, Novara 7th January 1839, published in pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario cit., pp. 191-193: 192.
63
See, for instance, the famous letter written from Milan on the 1st January 1838 and published in ivi, pp. 178-179 in which Mercadante states: «Ho continuata la rivoluzione principiata nel Giuramento […]» (Iʼm continuing the revolution started with Il Giuramento […]).
There, he witnessed the failure of the Mercadanteʼs opera Il Vascello di Gama, given in March 1845. The episode gave the opportunity to the journal to list what the English audience considered the main defects of Mercadanteʼs operas and leaves us an interesting testimony of the reception of Mercadanteʼs music outside Italy in the mid 19th Century:
When Bochsa was in Naples, Mercadante not only submitted to him the entire directions of his operas, but never failed to consult him about his new scores. Bochsa had his own blunt manner of giving his musical opinions, and he was wont to take Mercadante into a corner of the San Carlo after the rehearsal was over, and proffer him advice on his forthcoming operas. When Il Vascello di Gama – an opera written by Mercadante for Madame Bishop, and produced in March, 1845 – was in rehearsal, several of this corner-councils were held by Bochsa and Mercadante, and the former was want to address the latter somewhat as follows: “Listen to me, my dear Mercadante; your music is very fine indeed, very fine – yes! Your first act is admirable, excellent – very good – yes! But, in the second act – ah! yes! If you donʼt cut that long wind instrument – yes!, that long wind instrument symphony in the second act, before the duet of Madame Bishop and Colletti; if you donʼt curtail also the largo and stretta of your second finale; if you donʼt make the introduction of the third act less noisy, and less lengthy – yes, less lengthy; and if you persist in making Madame Bishop – yes, mind, in making Madame Bishop sing an interminable, yes, a very long adagio sostenuto, in the same act, perched on a rock in the middle of the sea, after three day of starvation – yes; and above all, my dear, if you donʼt entirely cut out… It was at this point of the dialogue that the artist took this sketch.64
64 «The Musical World» XXI/48, 28th November 1846, p. 602.
Figure 4: Mercadante and Bochsa. Lithographical Sketch. «The Musical World» XXI/48, 28th November 1846, p. 602. (Source: <www.ripm.org> last consultation 31 March 2021).
When Mercadante received the assignment of director of the Naplesʼ Conserv atory of Music, he was again widely acclaimed by the foreign press, and honored through numerous articles and biographies. The authoritative position was wel comed as one of the most prestigious in the musical field, demonstrating that the Neapolitan Conservatory was still considered a forge of composers and performers destined to the world scenes. Mercadanteʼs fame as a learned musician, as a skilled harmonist and orchestrator, as a long-time composer, rapidly spread, growing around him an aura of respect and authority. But despite this attention and this popularity, his music was increasingly identified as a symbol of the lost primacy of Italian Opera and his works gradually disappeared from the international stages. While the Italian gazettes, and above all the Neapolitan gazettes, called him an undisputed genius and qualified his music as the real Italian music, Monsieur van Beneden wrote on the «Revue et Gazette Musicale de Paris»:
This is what Italy seems to me about his composers. Bellini dead, Rossini mute, Donizetti writing in France, it is reduced to Mercadante, who is generally not liked, and which, it must be said, is not the pure expression of Italian taste. With his work a little difficult, it is said, generally rather, it is certain that this composer, that no composer, could be enough to feed the many theaters and, could he do so, he would inevitably spread a very tiring monotony of style. Rossini and Bellini are known by heart, Donizetti if he does not maintain his repertoire in Italy with new works, will soon achieve the same result [...] Where is the future?65
Figure 5:
Das Gelübde (Il Giuramento), Musik von Mercadante, Wien, Kärnthnerthore Theater, 1832. Poster. (Kunsthistorisches Museum Wien, ©KHM-Museumsverband: <www.omnia.ie> last consultation 31 March 2021).
65 «Voilà oú me semble en étre lʼItalie à propos de ses compositeurs. Bellini mort, Rossini muet, Donizetti écrivant en France, elle en est réduite à Mercadante, qui ne plait pas généralment, et qui, on doit le dire, nʼest pas la pure expression du goût italien. Avec son travail un péu difficile, dit-on, plut-il mème généralment, il est certain que ce compositeur, quʼaucun com positeur même ne pourrait suffire à alimenter les nombreux théâtres de lʼItalie, et put-il le faire quʼil y répandrait inévitablement une monotonie de style fort fatigante. Rossini et Bel lini sont sus par coeur, Donizetti sʼil nʼentretient pas son répertoire en Italie par de nouveaux ouvrages, arrivera bientôt au même résultat... Où est lʼavenir?», «Revue et Gazette Musicale de Paris» VII/54, 20th September 1840, pp. 466-469: 467.
Saverio Mercadante Künstler zwischen Kommerz und Politik
Vorbemerkung: Wenn wir heute des 150sten Todestages Saverio Mercadantes gedenken, dann sollte unser Blick auch fünfzig Jahre zurückgehen, denn der hun derste Todestag Mercadantes in 1970 markiert den Beginn der Wiederentdeckung dieses Komponisten. Seinerzeit brachten sieben italienische Häuser erstmals wieder sieben verschiedene Opern Mercadantes auf die Bühne. Die Mitschnitte dieser Auf führungen (noch auf lp) bildeten den Grundstock weiterer Bemühungen, vor allem seitens der Schallplattenindustrie. Heute verfügen wir über eine ganze Reihe von Einspielungen, die zumindest für die Opern und Teile des instrumentalen Früh werkes einen repräsentativen Eindruck der Musik Mercadantes vermitteln können. Damit ist die musikalische Praxis der Musikwissenschaft deutlich voraus. Trotz einiger punktueller Arbeiten hat sich bisher keine kohärente Mercadante-Forschung entwickelt. Weder gibt es nennenswerte Kritische Ausgaben seiner Werken, noch eine umfassende Briefedition. (Eine geplante erweiterte Auflage seiner Samm lung konnte Santo Palermo nicht mehr vollenden). Was es gibt, ist die von Tom Kaufmann zuverlässig erarbeitete Dokumentation der Mercadante-Aufführungen, sowie die Mercadante-Artikel (mit umfangreichem Werkverzeichnis), die Michael Wittmann im New Grove (2000) und in erweiterter Form in der neuen mGG (2008) veröffentlicht hat, sowie neuerdings das Systematische Verzeichnis der Werke Saverio Mercadantes vom selben Autor.1 Hinzu kommt in den letzten Jahren noch die fortschreitenden Digitalisierung der Handschriften Mercadantes, vor allem aus den neapolitanischen Beständen. Damit ist zumindest philologisch eine solides Fundament gelegt, auf dem künftige Forschung aufbauen kann. Man kann nur hoffen, daß in weiteren fünfzig Jahren, zum zweihundertsten Todestag Mercadantes, der heurige Konreß als Auftakt einer kontinuierlichen und
1 mICHAel WITTmANN, mWV (=Systematisches Verzeichnis der Werke Saverio Mercadantes), Berlin 2020. On-line abrufbar unter <https://nbn-resolving.org/urn:nbn:de:bsz:14-quco sa2-728334> (ultima consultazione 24 giugno 2021).
systematischen musikwissenschaftlichen Beschäftigung mit dem Werk des Meis ters wahrgenommen werden wird. Und wenn man in diesen Zeiten noch träumen darf, dann von der Gründung eines Istituto nazionale Saverio Mercadante, so wie es diese für Rossini, Verdi oder Puccini lange schon gibt. ***
Führt man sich das erwähnte Werkverzeichnis Mercadantes vor Augen, so möchte man vorab den Mut sinken lassen. Mercadante war, höflich gesagt, überaus fleissig. Für das 18. Jahrhundert – man denke an Bach oder Telemann – wäre das normal; für das 19. Jahrhundert steht damit das pejorative Etikett des Vielschreibers im Raum. Aber – und das wäre als erstes festzuhalten – Mercadante hat sich selbst zeitle bens als Musicus im Sinne des 18. Jhd. verstanden, der für gutes Geld gute Musik ablieferte. Und in seinen Privatbriefen findet sich auffallend oft die Formulierung denaro e gloria als Motiv seiner Tätigkeit. Völlig fern lag ihm der sich im 19. Jhd. mehr und mehr entwickelnde Geniekult. Und wenn um 1870 in den Nachrufen und Würdigungen vom genio del Mercadante die Rede ist, dann wird an sein Werk ein Maßstab angelegt, unter dem er selbst nicht angetreten ist. Eben dieser zu seinen Lebzeiten erfolgte Paradigmenwechsel wäre in eine musikhistorische Gesamtbe trachtung Mercadantes mit einzubeziehen.
Wie also soll man mit einem solch überbordenden Gesamtwerk umgehen? Der naheliegendste Gedanke ist, Haupt- und Nebenwerke zu trennen. Und in der Tat ist die Musikwissenschaft bislang diesen Weg gegangen, in dem sie sich vor allem mit dem Opernschaffen befaßt hat. Allerdings zeigt schon ein flüchtiger Blick in die Orchesterwerke oder die bislang gänzlich vernachlässigte Kirchenmusik, daß man diese qualitativ wie quantitativ nicht als Nebenwerke abtun kann. Dies gilt erst recht, wenn man diesen Überblick mit einer Schaffenschronologie verbindet. Dann nämlich zeigt sich, daß Mercadante zu unterschiedlichen Zeitpunkten seiner Laufbahn unterschiedliche Schwerpunkte gesetzt hat. Diese Beobachtung ermög licht eine etwas andere Gliederung seines Schaffens, als die übliche Orientierung an der Entwicklung des Personalstiles oder der Verengung der Betrachtung auf den Beitrag Mercadantes zur italienischen Operngeschichte des 19. Jhd: Mercadante hat auf Staatskosten studiert. Entsprechend wurden seine Studien fortschritte überwacht. Wohl aus diesem Grund hat er eine Opuszählung seiner Frühwerke vorgenommen. Diese Zahlen markieren also die vollendeten, nicht die im Druck erschienen Werke. Die höchste Opusnummer ist 156, für drei 1819 im Druck erschienen Flötenduette. Nicht alle diese Werke sind erhalten, aber die überlieferten Werke ergeben doch ein gutes Bild von seiner kompositorischen Entwicklung. In der ersten Phase 1808-1812 hat er Violine studiert und begleitend dazu eine Grundausbildung im Tonsatz erhalten. 1813 nimmt ihn Zingarelli in seine Komponistenklasse auf. Aus diesem Jahr stammt sein Flötenquartett e-moll, das er 1814 zum 2. Flötenkonzert opus 48 erweitert. Das ist schon keine Schüler
arbeit mehr, sondern ein Werk, das eine persönliche Handschrift trägt. 1817 ist die Komponistenausbildung de facto abgeschlossen. Das 1818 im Druck erschienene 6. Flötenkonzert (dem Duca di Nola gewidmet) und das Concertone (König Fernando Io gewidmet) bildeten die Abschlußarbeiten. Als Primo alunno darf Mercadante auch weiterhin am Conservatorio verbleiben und wird 1816-1819 systematisch auf den Beruf des Opernkomponisten vorbereitet. Erst jetzt tauchen in den Manuscripten nennenswerte Vokal kompositionen auf, nämlich die Vertonung älter Arien oder Duett texte. Gleichzeitig verdient Mercadante erstes Geld mit eigenen Kompositio nen, u.a. den zahlreichen Flötenwerken, die in Neapel verlegt wurden. Vor allem aber wird er mit dem Opernbetrieb vertraut gemacht, indem er beauftragt wird, Ballettmusik zu schreiben. Und dabei kommt ihm seine reiche Erfahrung mit Kon zerten bzw. Concertoni sehr zu statten. Diese Concertoni lassen sich mühelos als Solistenensemble choreographieren. Schließlich schreibt er 1818 als Auftragsarbeit zwei Kantaten Ridente e fausto già sorge il sole für den Namenstag der Duchessa di Nola und Lʼunione delle belle arti für einen Staatsempfang beim König.
Das war die entscheidende Qualifikation für die erste Scrittura einer Oper, Lʼapoteosi dʼErcole, die am 19. August 1819 mit einer Traumbesetzung in San Carlo über die Bühne ging.
Mercadantes Start in die Opernkarriere ist einzigartig und nur als Politikum zu erklären. Tatsächlich war die Scuola napoletana nach 1800 in eine Krise geraten und hatte keinen überragenden Komponisten mehr hervorgebracht. Nur darum konnte ein auswärtiger Komponist wie Rossini, der überdies bei der Konkurrenz in Bologna studiert hatte, seit 1814 in Neapel Fuß fassen. Die Reorganistion der verschiedene Konservatorien in Neapel nach französischem Vorbild sollte diesem Umstand Abhilfe schaffen, und man erwartete von Zingarelli, daß er nach einiger Zeit die Resultate der Reform präsentieren konnte. Mercadante hatte das Glück, daß er sich genau in dieser Situation als überragende Begabung erwies. Diese musikpolitische Situation überkreuzte sich allerdings mit der allgemeinen Politik nachdem 1816 die Bourbonen nach Neapel zurückgekehrt waren. Diese haben die Reorganisation des Konservatorium mitgetragen, wodurch der Duca di Nola, der ja unter Murat ins Amt gekommen war, seinen Einfluß vorerst behalten konnte. Mercadantes Opernerstling Lʼapoteosi di Ercole spiegelt diese Verhältnisse exakt wider: Das Libretto hat einen ganz fürchterlichen Plot, bei dem man unschwer erkennt, daß mit Hercules König Fernando Io. gemeint ist. Es ist also eine Huldigungsoper an eine absoluten Monarchen ganz im Sinne des 18. Jhd. Diese Oper mußte (dem König) gefallen, denn sie paßte genau in das politische Narrativ: mit den Bourbonen kehrt die alte Herrlichkeit (auch musikalisch) wieder nach Neapel zurück. Mercadante dürfte dieses Libretto (davon später mehr) eher mit geballter Faust in der Tasche vertont haben. Aber der Erfolg eröffnete ihm den direkten Zugang zu den großen Opernhäusern und damit lukrativen Verdienstmöglichkeiten. Rossini und Donizetti mußten sich diesen Zugang erst mühsam erarbeiten. Von 1819 bis 1832 war Mercadante also als freischaffender Opernkomponist tätig. Die Notwen
digkeit, jährlich drei abendfüllende Opern vorzulegen, lies kaum Zeit für andere Kompositionen. Abgesehen von einigen Ballettmusiken schreibt er in diesen Jah ren keine Instrumentalmusik mehr. Was es noch gibt sind Gelegenheitswerke, die umgehend eine zusätzliches Einkommen ergaben, wie etwa die 1824 in Rom entstandene Krönungskantate für Karl X. von Frankreich, einen Chor zur Eröffnung des Freihafens in Cadiz 1829 oder die diversen Ariette per Camera, die in Rom, Wien und Madrid verlegt wurden. Als Opernkomponist war Mercadante in diesen Jahren unterschiedlich erfolgreich: er begann als dezidiert “spätneapoltanischer” Kompo nist und erreichte damit auch seine ersten Welterfolg Elisa e Claudio, der ihm über dies 1824-1826 die Nachfolge Rossinis als Hauskomponist an San Carlo in Napoli einbrachte. Ein Fiasko war der Wien-Aufenthalt in 1824. Mercadante zog daraus die Konsequenz, sich nunmehr intensiv mit den experimentellen Opern Rossinis aus Neapel auseinander zu setzen. Trotzdem war er gezwungen, seinen Lebensunter halt für einige Jahre als Gastarbeiter in Spanien und Portugal zu verdienen, wo er, den dortigen Möglichkeiten geschuldet, wieder einen etwas einfacheren Stil pflegte. 1831 kehrte er schließlich nach Italien zurück, wo ihm mit I normanni a Parigi 1832 in Turin eine glänzende Rentrée gelang. Mit dieser Oper hatte er wiederum eine Marktanpassung vorgenommen, indem er ein melodramma romantico nach dem Vorbild Bellinis ablieferte. Bemerkenswert ist dabei die Leichtigkeit, mit der Mer cadante diese Anpassung gelang. Giovanni Pacini etwa ist über dieser Aufgabe in eine mehrjährige Schaffenskrise geraten. Mindestens ebenso bedeutsam war auch, daß Mercadante 1832 in Genova seiner künftigen Ehefrau begegnete.
In den letzten 13 Jahren hatte Mercadante mehr-weniger aus dem Koffer gelebt. Um seiner Frau und der sich rasch einstellenden Familie ein festes Zuhause bieten zu können, übernahm er 1833 die Stelle eines Domkapellmeisters in Novara. Damit wird die Kirchenmusik, die er bis dato kaum gepflegt hatte, fester Bestandteil seines Schaffens. Vor Ort hatte er eine Capella, die aus elf Sängern und einem Organis ten bestand. Für diese schreib er in großer Zahl kirchliche Gebrauchsmusik, die im Domarchiv von Novara erhalten ist, von der Wissenschaft bislang aber kaum beachtet wurde. Das ist bedauerlich, da auch diese Werke musikalisch von höchster Qualität sind. Dazu genügt ein Blick in die beiden gedruckten dreistimmigen Messen in g-moll und B-Dur, die in diesen Jahren entstanden sind. Diese Drucke fehlen in kaum einer europäischen Bibliothek und stellen damit die meistverbreitetsten und erfolgreichsten Werke Mercadantes dar. Noch 1912 lies Ricordi eine Bearbeitung für die anglikanische Kirche im Druck erscheinen. Novara gehörte nicht unbedingt zu den “großen” Kirchemusikstellen. Dennoch war Mercadantes Schritt gut überlegt. Die geographische Lage Novaras ermöglichte es ihm, mit ein oder zwei Tagesreisen die Zentren der Opernproduktion Milano, Torino e Venezia zu erreichen. Mercadante konnte also von Novara aus seine Tätig keit als Opernkomponist fortsetzen, wobei eine großzügige Urlaubsregelung ihm erlaubte, die neuen Opern vor Ort einzustudieren und die ersten Vorstellungen selbst zu leiten. Daraus ergibt sich denn auch sein Geschäftsmodell jener Jahre:
Das Gehalt als Domkapellmeister reichte aus, um die Familie zu ernähren; die Honorare für die neuen Opern konnte er auf die hohe Kante legen. Tatsächlich hat er diese in Aktien angelegt. 1835 erreichte ihn dann die Einladung, für Paris eine Oper zu schreiben, wobei unglückliche Umstände dafür verantwortlich waren, daß sich sein Pariser Aufenthalt anstatt geplanter drei volle sechs Monate in Anspruch nehmen sollte. Künstlerisch war das jedoch eine höchst erfoglreiche Investition. In Paris erhielt er die entscheidenden Anregungen für seine Reformopern, mit denen er in den Folgejahren in Italien tatsächlich Musikgeschichte schrieb. Waren seine vorherigen stilistischen Wandlungen Anpassungen an den Markt, so wurde Mer cadante nunmehr selbst zum Trend-Setter, dem Komponisten wie Donizetti oder Pacini folgen mußten. Und auch der junge Verdi wurde erst zu einem bedeutenden Komponisten, nachdem er Mercadantes Reformopern rezipiert und in sein eige nes Schaffen integriert hatte. An dem Novareser Alltag und dem Geschäftmodell Mercadante änderte diese Entwicklung freilich zunächst nichts, wenn man einmal davon absieht, daß sich seine Honorare für neue Opern in der Zeit nach Paris deut lich erhöht haben. Vor allem aber sammelte er in diesen Jahren jene Reputation an, die es ihm 1840 ermöglichte, sich erfolgreich um den Posten des Direktors des Konservatoriums in Neapel zu bewerben.
Der Umzug von Novara nach Neapel war für Mercadante mehr als eine JobWechsel, es war die Erfüllung eines Lebenstraumes. Davor hatte Mercadante frei lich hoch gepokert und gewonnen: er nutzte den doppelten Ruf nach Bologna und Neapel, um in Neapel ein Gehalt als Konservatoriumsdirektor durchzuset zen, daß in etwa seinem Gehalt in Novara entsprach. Sprich: Kapellmeistergehalt plus Zusatzverdienst durch die Opernkomposition. Mercadante war damit in der für einen italienischen Komponisten des 19. Jahrhundert seltenen Position eines freischaffenden Komponisten angelangt. In einem bislang nicht publizierten an einen Freund in Novara Brief aus dem Frühjahr 1841 beschreibt Mercadante selbst diese neuen finanzielle Freiheiten und seine Genugtuung darüber, numehr auf die Komposition von Opern verzichten zu können.2 Zugleich berichtet er über seine ersten Monate am Konservatorium und seine Verständnis dieses Amtes. In diesen
2 Am 9. Februar 1841 schreibt Mercadante aus Napoli an seinen Freund, den Sig. Ingenniere Giuseppe Savio in Novara: «… Dal Signor Gio. Battista Villa di Milano come dallʼamico Ferra ri riceverete delle diverse somme, quali utilizarete per mio favore qundo sene presenterà lʼoccasione opportuna con la solita cautela e gentilezza. Ciò farete purʼanco del redito degli altri capitali, non bisognando di dennaro per ora e compiacendomi moltissimo che fia ammin sitrato da Voi. - Sinʼora sono semper contento del mio nuovo impiego quale è vero che mi occupa moltissimo ma rende tanto da poter vivere senza seccare i miei risparmi e ponendomi nella situazione di fare senza il Teatro che poco am». (Novara, Archivio di Stato, Fondo Museo b. 115). - Schon am 10. Dezember 1840 hatte er seinem Freund Luigi Camuletti in Novara vermelden können: «... Con il governo ho combinate tutte le mie cose. 7Milla e 200 svanziche di paga, una gratificazione di 5 milla per le spese di viaggio ed altri danni, lʼentrata libera di tutti miei effetti». (Novara, Archivio di Stato, Finazzi M b. 18, 6424a).
Ausführungen wird sehr deutlich, daß diese Position für Mercadante mehr war, als ein Verwaltungsposten: Er sah sich quasi als Oberhaupt der “scuola napoletana”, deren Tradition er pflegen und durch behutsame Reformen für die Gegenwart fitt machen wollte3. Dazu gehörte beispielsweise eine Aufwertung des Instrumental unterrichtes gegenüber der Dominanz des Gesangsunterrichtes, was ihn dann lang fristig in Konflikt zu Florimo brachte. (Hier liegt übrigens die Erklärung für dessen so unterschiedliche Bewertung Mercadantes in den beiden Auflagen seiner “scuola napoletana”). Mercadante ging mit gutem Beispiel voran und leitete – obwohl das gar nicht zu seinen Amtpflichten gehörte – jeden Samstagmorgen die Proben des Studentenorchesters. Und für dieses Orchester entstanden denn auch seine zahl reichen Sinfonischen Dichtungen und sonstigen späten Orchesterwerke. Tatsächlich hat Mercadante sich mit der Opernkomposition zunächst zurück gehalten. Diese nahm er erst wieder auf, als er 1843 auch Chefdirigent an San Carlo, Napoli wurde. Dabei hat er durchgesetzt, daß die Anzahl der jährlichen Vorstellun gen erheblich reduziert wurde. Vor allem aber wurde die Zahl der Uraufführungen auf eine pro Saison begrenzt, wobei die neuen Opern im Wechsel von Pacini, Verdi und Mercadante komponiert werden sollten. Beibehalten hat Mercadante sein Engagement für Kirchenmusik. Nun aber stets in Form von Werken mit Orchester begleitung. Dafür stand ihm ja das Studentenorchester zur Verfügung. Damit ergab sich eine zusätzliche Einnahmequelle, aber auch eine wirksame Möglichkeit für Öffentlichkeitsarbeit. Sein Dirktoriat fällt ja in die Regentschaft von König Fernando II, der erklärtermaßen an Musik nicht interessiert war und an der Notwedigkeit des Unterhalts des Konservatoriums zweifelte. Mercadante hatte (im Gegensatz zu Florimo) erkannt, daß unter diesen Umständen öffentliches Auftreten des Konser vatoriums nützlich war. Dazu gehörte die Praxis, Staatsgästen das Konservatorium als Seheswürdigkeit zu präsentieren und für diese ein Konzert zu geben. Aber auch die Aufführung von speziellen Werken, wie etwa das Inno a Pio IX anläßlich dessen Besuches des Archäologischen Museums in Neapel, die Fantasia sul Inno russo e borbonico anläßlich des Besuches des russischen Thronfolgers oder die Fanasia anläßlich der Einweihung des Bacino nuovo im Hafen von Neapel gehören in diesen Kontext. Insgesamt halten sich Opern, Orchestermusik und Kirchenmusik in der zweiten neapolitanischen Phase bei Mercadante die Waage. Was Mercadantes persönliche Verhältnisse in Neapel angeht, so muß man ihn
3 Saverio Mercadante a Luigi Camuletti Novara 12 Februar1841: «... Questo Collegio principa a migliorare. In tre mesi ho organizata unʼOrchetsra dʼAlunni 60 e si principiano ad eseguire le piú classiche composizioni de piú rinomati compositori. Per lʼanno venturo sarò nel caso di presentarla al Pubblico e raccogliere il frutto dalle mie pene. – Frau le Scuole Interne edd Esterne ho 400 giovani sogetti, ti lascio considerare che flemme ci vuole. – Fui già invitato a due grandiose funzioni di Chiesa, dove mi produssi con due Messe di quelle composte a Novara. In successo non potea essere piú lusinghiero, e ciò mi da speranza che ad alta verrà la stessa voglia echʼio possa profittare non poco da questa genere di Musica che generalmen te piace e che trovano nuovo». (Novara, Archivio di Stato, Finazzi M b. 18, 6425a).
wohl als benestante charakterisieren. Er bewohnte eine Neubauwohung nahe des Schlosses, die groß genug war, um dort Hauskonzerte und Hausbälle zu feiern, die gelegentlch in der Tagespresse erwähnt werden. Unterhalb der Sternwarte besaß er eine casa di campagna, in der er sonntags Gäste empfing.4 Die Sommer verbrachte er in der Somerfrische in Sorrento.5 Kurz gesagt: er führte ein sehr bürgerliches Leben. 1856 schrieb er mit Pelagio seine letzte Oper, für die er ein Honorar von 15.000 Lire erhielt. Eine letzte Oper für Venedig scheiterte 1858, da man das Honorar von 18.000 Lire nicht bezahlen konnte oder wollte. Man kann an diesen Ziffern sehr gut den ökonomischen Erfogl Mercadantes ablesen. Für seine Opern um 1820 hatte er durchschnittlich nur etwa 3000 Lire erhalten. Das macht eine Steigerung um 500% in 35 Jahren. Und das in einer Zeit, in der man Inflation nicht kannte. Man versteht dann übrigens auch, warum er 1866 die Virginia quasi verschenkte, in dem er diese für 1500 Lire zu verspäteten Uraufführung frei gab. Mercadante konnte es sich also Ende der 1850er Jahre leisten, auf weitere Opern zu verzichten; ebenso wie auf eine Angebot, noch einmal nach Paris zu reisen und dort eine neue Oper zu präsentieren – was immerhin von seiner international ungebrochenen Reputation zeugt. Zu Bedenken ist in diesem Zusammehang auch, die familiäre Sttuation: seine beiden Söhne waren in Neapel herangewachsen und hatten ihren Platz im Berufsleben gefunden, wobei Osvino Architektur und Armando Jura studiert hatte.6 Und von der Tochter Ismalia schreibt Mercadante nicht ohne Stolz, daß diese bereits verheiratet sei und zwar vantagiosamente, d.h. sie hatte in das neapolitanische Bürgertum eingeheiratet.7 Zudem war Mercadante nun selbst über 60 Jahre alt und hatte alles Recht, etwas kürzer zu treten. Nicht vorhersehbar war freilich, daß Garibaldi in Sizilien landen und auf Mercadante noch die Aufgabe zukommen würde, das Konservatorium im neuen Königreich Italien zu verankern. Da er schon in Novara beste Bezeihungen zum Königshaus der Savoier hatte, war er dafür der recht Mann zur rechten Zeit. Schließlich wurde er dafür auch mit dem Title eines Commendatore geadelt. Erst seine Erblindung 1863 setzte seinem öffentlichen Wirken ein Ende, wiewohl er als Komponist und Kompositionslehrer bis an sein Lebensende tätig blieb.
Bei Komponisten des 19. Jhds. pflegen wir, die Frage nach dem Zusammenhang von Leben und Werk zu stellen aus der Annahme heraus, daß ein romatischer Künstler sein Erleben in Kunst umwandele. Für Mercadante läßt sich das nur
4 Vgl. Brief Mercadante an Giuseppe Savio in Novara vom 15. März 1856. Die Adresse lautett: Strada nuova Capodimonte No. 22. (Novara, Archivio di Stato, Fondo Museo b 115, 23).
5 Dies ergibt sich aus den Datierungen einiger Manuskripte. So sind die Tre Divertimenti für Orchester in den Sommermonaten in Sorent entstanden.
6 Vgl. Brief Mercadante an Giuseppe Savio in Novara vom 22. Januar 1852. (Novara, Archivio di Stato, Fondo Museo b. 115, 21).
7 Vgl. Brief Mercadante an Luigi Camuletti in novara vom 30. August 1864. (Novara, Archivio di Stato, Fondo Museo b. 114).
sehr vereinzelt belegen, etwa wenn er nach seiner Erblindung die Sinfonische Dichtung Lamento del Bardo schreibt. Viel eher scheint er dem Typus eines Kom positonshandwerkers zu entsprechen, den wir aus dem 18.Jhd. kennen. Die vorgehende Aufgliederung seiens Schaffens ist darum auch bewußt unter den Aspekt von Karriere und Werk gestellt. Allerdings könnte es sein, daß gerade unter dieser Hinischt ein Zusammenhang von Leben und Werk auszumachen ist: Mercadante wurde 1795 als Findelkind getauft. De facto war er der uneheliche Sohn von Orazio Mercadante und der Rosa Bia. Der Vater war Hausbesitzer und gehörte der ört lichen Honorationrenschicht an. Er konnte es sich leisten, seine älteren Sohn in Neapel Jura studieren zu lassen, wo dieser sich 1799 an der Revolution beteiligte und später als Staatsverbrecher verurteilt wurde. Er ging nach Altamura zurück, wo er Saverio den ersten Musikunterricht erteilte. (Später hat dann sein Sohn bei dem Onkel Saverio in Neapel Musik studiert; die Musikalität scheint also aus der Linie der Mercadantes zu kommen). Die Mutter war die Tochter des Ölmüllers, der die Ölmühle im Erdgeschoß des Hauses von Orazio Mercadante gepachtet hatte. (Vermutlich war sie dessen Cameriera). Indem der Vater für den leiblichen Sohn die Patenschaft übernahm, hat er ihn zwar nicht legitmiert, wohl aber adoptiert. Eine für beide Seiten ehrenvolle Lösung. Im übrigen zeigen Mercdantes späteren Briefe, daß er als vollgültiges Mitglied der Familie Mercadante anerkannt war. Unter den genannten Bedingungen hätte Mercadante also eigentlich eine unbe schwerte Jugend erwarten können. Florimo berichtet unterdessen, daß Mercadante sich mehrfach über die extreme Armut seiner Jugend ausgelassen habe, als nicht einmal genügend Mittel für eine anständige Kleidung zur Verfügung standen. Die Erklärung dafür findet sich im Sacco dʼAltamura, der systematischen Plünderung der Stadt nach der Niederschlagung der Revolution von 1799, eines der großen Kriegsverbrechen der Neuzeit. Damals wurden die wirtschaftlichen Grandlagen für den Wohlstand des Vaters zerstört. Besserung egab sich erst, als Napolen 1806 nach Italien einmarschierte. Damals wurden etliche Bürger Altamuras nach Neapel gerufen und in staatlichen Stellen untergebracht, darunter Ottavio Mercadante und dessen ältester Sohn. Als Opfer der bourbonischen Racheaktion waren diese die natürlichen und loyalen Gefolgsleute der neuen Herren. Erst durch diese Übersiedlung der Familie ergab sich auch die Gelegenheit, Saverios musikalisches Talent zu entwickeln und durch die Ausbildung am Konservatorium zur Grundlage einer beruflichen Existenz zu machen, was dann ja ab 1808 tatsächlich auf umgesetzt wurde. (Daß man ihn dabei um drei Jahre jünger gemacht hat, war übrigens nicht durch die uneheliche Abstammung bedingt, sondern durch die Statuten des Kon servatoriums, das ein Eintrittsalter von 8-12 Jahren vorsah).
Daß die Zivilbevölkerung von den Mächtigen zur Geissel genommen wird, sehen wir – leider – auch heute noch. Was sich gewandelt hat ist das Verständnis dafür, welche Traumata dadurch ausgelöst werden. Da Mercadante sich nicht dazu geäußert hat, wissen wir nicht, ob er den Beschuß der Stadt bewußt erlebt hat, aber er war alt genug, um ihn unterbewußt zu erleben. In jedem Fall ist ihm die folgende
Not und Armut in Erinnerung geblieben. Und wohl auch das Gefühl der Deklas sierung, die in der Familie geherrscht haben muß. Das Konservatorium, das ja als Internat geführt wurde, war gewiß keine Versuchanstalt für Reformpädagogik. Aber die sichere Versorgung mit Nahrung und Kleidung muß Mercadante als wohltuend empfunden haben. Vielleicht liegt hier die Wurzel für seine später gezeigte Ver bundenheit mit dieser Einrichtung. Zudem bot ihm die Ausbildung eine Chance, nicht nur ein geordnetes Berufsleben zu führen, sondern auch wirtschaftlichen Erfolg gepaart mit öffentlichem Ansehen (denaro e gloria) zu erzielen und so die erlittene Deklassierung der Familie umzukehren. Am Ende ist ihm dies auch gelun gen. Jedenfalls was den Ruhm angeht. Ob das auch auf ökonomischer Seite der Fall war, kann bezweifelt werden: Jedenfalls berichtet Mercadante 1841 in einem Brief von einer möglichen Aussöhnung mit einem kinderlosen Cousin, mit dem man 30 Jahre im Streit gelebt habe und der nicht zuletzt deshalb von Interesse wäre, weil dessen Vermögen 500.000 Lire wert sei.8 In diese Dimensionen ist Mercadante trotz seiner üppigen Honorare niemals vorgestoßen. (Es wäre wünschenswert, wenn die Lokalgeschichte einmal das größere Umfeld der Familiengeschichte der Mercadan tes erforschen würde). Beachtlich bleibt sein wirtschaftlcher Erfolg dennoch. Und dies nicht zuletzt auch, weil dieser Erfolg teilweise unter schwierigen politischen Bedingungn errungen wurde.
Daß Mercadante seine Ausbildung am Konservatorium beginnen konnte, ver dankte er dem Einmarsch Napoleons in Italien und – wenn die Anekdote stimmt – sogar der persönlichen Entscheidung König Murats. 1815 aber kamen die Bour bonen und Ferdinando Io zurück, mithin jener König, der seine Familie ins Unglück gestürzt hatte. Nicht alle Napolitaner waren mit dieser Wendung glücklich. Z.B. Michele Carafa, der ja als Militär Flügeladjudant Murats gewesen war. Dieser begrüßte Fernando mit seiner Oper Gabriella da Vergy, die einen beziehungsunfä higen Sadisten zur Hauptfigur hat, der seine Ehefrau mit Wollust in den Tod treibt und in dem man unschwer ein Portrait Fernandos erkenne kann. Mercadante war von dieser Oper fasziniert. Er hat umgehend nicht nur Variationen über Themen aus dieser Oper geschrieben (in den Variationen für Flauto solo), sondern auch die Arie des Raoul neu vertont. (Diese Konservatoriumsarbeit findet sich im Fondo Arie 672.6). 1817 hat er zwar, wie erwähnt, sein im Druck erscheinendes Concertone Re Fernando gewidmet. Das Finale ist ein typisches Crescendo im Stil Rossinis, das sogar auf einem Thema Rossinis basiert. Und zwar dem Duetto «A solo per te questʼanima» aus der Oper Armida. Das ist vordergründig natürlich eine perfekte Verbeugung vor einem absolutistisch regirenden Monarchen. Bedenkt man aller dings, daß Armidas Königreich am Ende im Schutt und Asche zerfällt ist das eine
8 Mercadante an Camuletti Novara am 12. Februar 1841: «... Si tratta di una riconciliazione con un mio cugino ammogliato senza figli, ricco di 500 milla Svanziche, col quale la mia famiglia era in lite da 30 anni. Se ciò si effetera sarebbe un gran bene per i miei figli e quelli di mio Fratello». (Novara , Archvio di Stato, Finazzi M b. 18 6428).
Danaegeschenk. 1819 folgte die Huldigungsoper Lʼapoteosi di Ercole. Das hinderte Mercadante frei lich nicht daran, sich 1820 im Carbonara-Aufstand zu engagieren. Das Resultat war die Oper Maria Stuarda, die in Neapel verboten wurde und in Bologna uraufgeführt werden mußte. Ein Blick auf den Plot enthüllt den Grund: Maria sieht sich mit einer Adelsrevolte konfrontiert und soll gezwungen werden, einen der Aufrührer zu heiraten. Ein Volksaufstand befreit sie aus dieser Situation. Die Vision einer Union von König und Volk ist eine perfekte Allegorie für eine konstitutionelle Monarchie, wie sie 1820 für kurze Zeit in Neapel denkbar war. Auch die folgende Oper Elisa e Claudio hat einen solchen politischen Kern, nämlich die Aussage “Naturrecht bricht Standesrecht”. Und gleiches gilt für den für Venedig geschriebenen Andronico, der eine getarnte Version von Schillers Don Carlos ist. Der zentrale Satz des Posa lautet hier libertade per i Bulgari. Tatsächlich waren im Vorfeld der Ernennung Merca dantes zum Hauskomponisten von San Carlo 1824 einige Bedenken des Königs zu überwinden, und Mercadante sollte mit einer Oper Alfredo il Grande debütieren, die dann von Donizetti vertont wurde. Auch das wäre wieder eine Huldigungsoper geworden. Alfred der Große hat die Angelsachsen von der dänischen Vorherrschaft befreit, so wie Fernando die Neapolitaner von den Franzosen. Nach dessen Tod schrieb Mercadante einen Nachruf in Form des Erode. Formal geht diese Oper auf das Theaterstück von Voltaire zurück; de facto hat sie aber denselben Plot wie Gabriella da Vergy. Auch dieses Stück wurde in Neapel verboten und in Venedig uraufgeführt. Ersatzweise präsentierte Mercadante in Neapel seine Ipermestra. Diese endet allerdings nicht mit dem liete fine à là Metastasio, sondern dem antiken Mythos entsprechend damit, daß Danao von den Erynnien zerrissen wird. Das ist, nebenbei bemerkt, auch das genau Gegenbild zur Vergöttlichung des Helden, mit der Lʼapoteosi di Ercole endet.
Mit der Verlagerung seiner Aktivitäten in das Piedmont der svolta liberale endete vorerst diese Problematik, und in den Opern jener Jahre fehlen die politischen Bezüge. Neuerlich virulent wird dies, mit Mercadantes Wechsel nach Neapel 1840. Als Direktor des Konservatoriumss und als Haus- und Hofkomponist des Königreiches beider Sizilien befand sich Mercadante in einer delikaten Situation, insofern er nun nicht mehr nur als Privatperson agieren konnte, sondern auch die Interessen des Konservatorium in Rechnng stellen mußte. Fetis beschreibt in seiner Schil derung der dortigen Zustände sehr genau, wie gering der Handlungsspielraum Mercdantes war, der nicht einmal entscheiden konnte, wie er seinen Schrebtisch in seinen Arbeitszimmer aufstellen konnte. Man muß sich dazu klar machen, daß er als Direktor ausschließlich für die musikalische Ausbildung zuständig war. Die sonstigen Belange des Hauses lagen in Händen des Rektors, der ein Geistlicher war und das Hausrecht inne hatte. Die Wirtschafterlaubnis lag hingegen beim Governo des Conservatorio, einem vom König ernannten Dreiergremium. Hier hatte Mercadante das Glück, das in diesem Governo auch der Duca di Nola saß, der Mercadante schon in seiner Studienzeit gefördert hatte. Auch sonst versuchte Mer
cadante, über persönlche Beziehungen seine Spielraum zu erweiten. So widmete er seine erste neue Oper für Neapel dem damaligen Innen und Polizeiminister, was angesichts des Titels Il proscritto nicht einer gewissen Ironie entbehrt. Im Grunde verfuhr Mercadante zweigleisig: einerseits erfüllte er brav alle regierungsamtlichen Kompositionsaufträge für staatliche Festlichkeiten bis hin zur Krönungskantate von 1859, andererseits versuchte er durch eine geschickte Öffentlichkeitsarbeit, die Bedeutung des Konservatorium für die kulturelle Reputation des Könisreiches zu verankern. Und als Komponist zeigte er seine Volksverbundenheit mit Werken wie den im Druck erschienen Canzone napoletane oder den (für den Hausgebrauch geschrieben) Polke für Klavier. Daß Mercadantes Willfährigkeit gegenüber dem System auch Grenzen hatte, zeigte sich 1853, als er das Angebot ablehnte, seine Virginia aufzuführen, wenn man den Ort der Handlung von Rom nach Abessinien verlegen würde. Er hat damit mehr Standfestigkeit bewiesen als Giuseppe Verdi, der bekanntlich einer Verlegung des Ballo in maschera von Stockholm nach Boston zugestimmt hat.
Die glückliche Auflösung dieser Problemtik brachte die Landung Garibalds in Sizilien und die Einigung Italiens unter den Savoiern. Mercadante brachte seine Freude darüber gleich merhfach zum kompositorischen Ausdruck. Zwei Inni a Garibaldi und ein Inno a Vittorio Emanuele gleich 1860, 1862 in der Sinfonie Garibaldi, die dem Vaterland gewidmet ist. In den gleiche Zusammenhang gehört auch die Insurrezione polacca, die das (heute ganz vergessen) Engagement der Garibaldiner im Polenaufstand von 1863/64 zum Thema hat. Seine letzte vollendete Komposition ist die Sinfonia-Marcia, die 1869 zur Geburt des Principe di Napoli erklang, also jenes Kronprinzen, der dreissig Jahre später als Vittorio Emanuele II den italienischen Thron besteigen sollte.
Kommen wir also zum Schluß: Vordergründig betrachtet scheint Mercadante dem Typus eines Handwerker-Komponisten zu entsprechen, den man eher mit dem 18. Jahrhundert in Verbindung bringt. Mit einem vertieften Blick kann man ihn aber auch als sehr modernen Komponisten verstehen, der als Einzelunternehmer tätig war und der sein Schaffen sehr geschickt zu vermarkten wußte, zu Ansehen und Wohlstand kam und darüber hinaus auch noch soziales Engagement zeigte, indem er als Lehrer und Direktor der (musikalischen) Gesellschaft etwas von dem zurückzugeben versuchte, was er in jungen Jahren selbst empfangen hatte. Daß er überdies ein Meister seine Faches war, steht außer Frage.
Paolo Sullo
Mercadante e la tradizione che si rinnova
Lʼopera di Francesco Florimo,1 ben lungi dallʼessere un lavoro moderno e scien tifico di ricostruzione storiografica, ci restituisce una serie di informazioni le cui fonti restano quasi sempre sconosciute al lettore. Quando il resoconto dello storico napoletano si riferisce ai fatti del XVIII secolo infatti, molto spesso riporta notizie tratte dai lavori storiografici precedenti di Villarosa e Sigismondo,2 oppure scivola in racconti dalla chiara impostazione aneddotica. Un esempio di questa tendenza è la descrizione “mitica” di Francesco Durante che Florimo offre ai suoi lettori:
Vestiva sempre con una semplicità che teneva della negligenza, non avendo inclinazione alcuna, non dico allʼeleganza, ma neanche ad una certa decenza. Aveva però un poco di pretensione per la sua parrucca incipriata ed inanellata che gli dava una certa gravità, per altro poco in armonia col resto dellʼabbigliamento. Per conservarla intatta e non isconciarla, soleva portare il cappello triangolare, alla foggia di quel tempo, sotto il braccio sinistro, donde lo rimoveva talvolta nella stagione estiva per riempirlo di fichi freschi, che si dilettava andar mangiando con pacatezza, traversando le strade che menavano ai Conservatori, ove recavasi a dare lezioni.3
Rendendosi forse conto della scarsa attendibilità di queste informazioni differite di oltre un secolo, Florimo aggiunge in nota che quello riportato «è un racconto
1
Cfr. FrANCeSCo FlorImo, La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatorii, 4 voll., Napoli, Morano, 1880-1882.
2 Cfr. CArlANToNIo de roSA (mArCHeSe dI VIllAroSA), Memorie dei compositori di musica del Regno di Napoli, Napoli, Stamperia Reale, 1840; GIuSeppe SIGISmoNdo, Apoteosi della musica del Regno di Napoli, a cura di Claudio Bacciagaluppi, Giulia Giovani e Raffaele Mellace, con un saggio introduttivo di Rosa Cafiero, Roma, Sedm, 2016.
3 FlorImo, La scuola musicale cit., p. 182.
che piú volte abbiamo inteso dal maestro Giovanni Furno come pruova dei modi semplici del Durante».4
Questa informazione è sicuramente unʼottima chiave per meglio interpretare il testo di Florimo: certamente poco attendibile dal punto di vista della moderna ricostruzione storiografica, perché scarsamente documentato da fonti archivisti che, ma senzʼaltro interessante sotto il punto di vista della testimonianza diretta. Infatti, se da un lato gli aneddoti raccolti riferiti al secolo precedente alcune volte possono farci sorridere, dallʼaltro lato ci fanno avere contatto con i fatti coevi a Florimo, anche quelli riferiti al passato, “mitologici”, che, da buon testimone diretto, lo storiografo riporta nel suo testo.
Il racconto che segue, che sicuramente può essere annoverato tra le testimo nianze dirette, ha come oggetto unʼispezione ministeriale atta a verificare la qualità della scuola di canto, avvenuta nel 1825, di cui purtroppo oggi non si hanno ancora riscontri archivistici. I protagonisti di questo resoconto sono Nicola Zingarelli, mae stro di Saverio Mercadante dal 1813, e Girolamo Crescentini, con un riferimento anche a Vincenzo Bellini e a Gaspare Selvaggi.
Era verso la fine dellʼanno 1825 […] quando fu annunziato che il Ministro dellʼInterno e della Pubblica Istruzione intendeva visitare il Collegio. Diceva essere stato informato che lʼistruzione musicale andava di male in peggio, che gli alunni non istudiavano, che niun progresso si faceva nellʼinsegnamento, che nulla si scorgeva dʼimmegliamento nellʼinteresse dellʼarte, ecc. e perciò voleva che avesse luogo un esame generale a cui egli avrebbe preseduto. Oltre tutti i professori del luogo invitati ad intervenire, condusse seco il Ministro come suoi assistenti due dilettanti, il Cavaliere Corigliano dei Marchesi di Rignano, ed il cavaliere Gaspare Selvaggi, che, quantunque entrambi di gran valentia musicale, pure non dovevano esser messi in confronto coʼ maestri insegnanti del Collegio, scelti sempre tra le prime rinomanze artistiche del paese. Incominciato lʼesame, si chiamò il primo alunno Vincenzo Bellini. Appena si presentò, Zingarelli disse: «Credo soverchio, se non inutile, esaminare questo giovinetto, che fra qualche mese dovrà essere esaminato da giudici assai piú severi di noi, dal pubblico del San Carlo, ove darà la sua opera che sta componendo, Bianca e Fernando». Tutti si uniformarono allʼopinione dello Zingarelli. Si dié principio alla scuola di canto, alla direzione della quale trovavasi lʼegregio Girolamo Crescentini, che propose i suoi Solfeggi per esaminare gli alunni addetti alle diverse branche del canto; ma Zingarelli, che in quel momento doveva al certo trovarsi alquanto punto nellʼamor proprio, e perciò voleva dimostrare che egli non intendeva per nulla deporre la qualità di Direttore, uscí a dire: «Signor Crescentini, ricordatevi che là dove sono gli architetti, i muratori debbono rimanere al loro posto. Il solfeggio per lʼesame degli alunni della scuola di canto lo scrivo io che sono il Direttore del Collegio». Tacquero tutti, ed
4 Ivi, p. 182, nota 2.
egli si mise a comporlo. Lʼesame riuscí soddisfacente in tutti i particolari dellʼarte. Il Ministro si dichiarò contentissimo, come furono del pari gli assessori; e nel fare le sue scuse a Zingarelli, se per poco si era dubitato della sua solerte direzione, egli prodigò i piú lusinghieri elogi.5
Il racconto di Florimo, nonostante non sia documentato altrove, ci è prezioso non solo per ricostruire il “fatto”, ossia lʼispezione, ma soprattutto per comprendere unʼidea dei suoi tempi: la prassi di scrivere in modo estemporaneo un solfeggio destinato a un esame o a una prova concorsuale. Unʼaltra informazione che emerge chiaramente è che questo tipo di esercizio non poteva essere scritto da chiunque, ma da un vero compositore: scrivere un solfeggio era, come vedremo, già in sé una vera e propria prova di perizia di scrittura. I solfeggi legati alla figura di Mercadante custoditi presso la Biblioteca del Conservatorio di Napoli, infatti, sono da legarsi direttamente proprio alla prassi di scrivere un solfeggio per una procedura con corsuale, per un esame. La prima di queste fonti, autografa e datata primo maggio 1859, riporta la dicitura «Saggio per lʼesame di concorso alla piazza dʼIspettore delle Scuole esterne per le classi di canto ed accompagnamento».6 Sempre allʼinterno della Biblioteca del conservatorio di Napoli è custodito un altro solfeggio, anchʼesso autografo, questa volta datato 27 febbraio 1861, che, ripor tando la dicitura «scritto […] pel concorso della seconda piazza dʼIspettore delle scuole Esterne», si pone in evidente continuità con il primo.7 In questo caso, però, sono presenti anche altri nomi ossia quelli dei concorrenti: Vespoli Luigi, Viscoso Luca, Wenzel Enrico e Tinto Michele.
5
6
Ivi, II, pp. 413-414.
SAVerIo merCAdANTe, P.mo Maggio-59 - Saggio per lʼesame di concorso alla piazza dʼIspettore delle Scuole esterne per le classi di canto ed accompagnamento, autografo, 01 maggio 1859, I-NC, 3.1.21(5).
7
SAVerIo merCAdANTe, Solfeggi, autografo, 27 febbraio 1861, I-NC, 3.1.21(6). Sulla carta 1r è presente una scritta aggiunta dallʼarchivista Rondinella: «Solfeggio scritto il 27 Feb.o 1861 | pel Concorso della vacante piazza | dʼIspettore delle Scuole Esterne. | Concorrenti | Vespoli Luigi | Viscoso Luca | Wenzel Enrico | Tinto Michele».
Esempio
1: SAVERIO MERCADANTE, P.mo Maggio 59 - Saggio per lʼesame di concorso alla piazza dʼIspettore delle Scuole esterne per le classi di canto ed accompagnamento.
Esempio 2: SAVERIO MERCADANTE, Solfeggi
Osservando il contenuto musicale delle due fonti, appare chiaro come esse, composte in modo estemporaneo per le due diverse procedure concorsuali, siano legate alla “vecchia” tradizione del solfeggio settecentesco, innanzitutto per quanto riguarda lʼimpiego del basso continuo, prassi diffusa ancora, anche nel tardo Ottocento, nella tradizione didattica. Altra caratteristica che accomuna i lavori di Mer cadante alla tradizione settecentesca è lʼattenzione alla compiutezza della forma. In
particolare il solfeggio allʼesempio 1 è chiaramente composto da tre periodi, di cui i primi due, di otto battute, condividono lʼincipit tematico, e concludono rispettiva mente al terzo e al quinto grado. Lʼultimo periodo di dodici battute, invece, ha una chiara funzione cadenzale, concludendo il brano alla tonica. Il solfeggio presentato per la prova del 27 febbraio 1861 (vedi esempio 2), appare rispetto al precedente decisamente piú elaborato per quanto riguarda il percorso armonico. I cromatismi previsti dal compositore, infatti, lo costringono ad indicare attraverso una a volte minuziosa numerazione del basso continuo le giuste armonie, abitudine piuttosto rara e in alcuni casi del tutto assente nel panorama delle relative fonti settecente sche. In un quadro armonico piú articolato, permane comunque la stessa atten zione legata alla forma, con due periodi iniziali che condividono lʼincipit tematico (rispettivamente batt. 1-8 e batt. 9-18) e uno conclusivo cadenzale che termina il brano. Il confronto tra i due esercizi, quindi, ci restituisce da subito e con molta chiarezza il senso di una tradizione che si rinnova, che si aggiorna: da una parte il compositore non rinuncia al basso continuo ma dallʼaltra lo piega ad armonie piú “moderne”, che producono la necessità di utilizzare la cifratura al fine di esplicitarle con maggiore sicurezza allʼesecutore. La presenza del solfeggio in una procedura concorsuale per la “piazza dʼIspettore delle Scuole esterne per le classi di canto ed accompagnamento” ci rimanda anche alla concezione tutta settecentesca della sua multidisciplinarietà: un esercizio che esamina, e quindi forma, sia le competenze legate al canto che quelle rivolte allʼaccompagnamento. Un altro aspetto che lega i due solfeggi è il numero piuttosto esiguo di battute, circa trenta, di cui sono costituiti. Solfeggi brevi, espressamente indicati dallʼautore come ʼsolfeggiettoʼ, sono presenti già nella raccolta indirizzata allo studio del canto Teoria e Pratica Per formare un buon Cantante Professore di Saverio Valente.8 Il solfeggio presente allʼesempio 3,9 rivolto espressamente allʼintonazione dellʼintervallo di terza, si presenta comunque compiuto dal punto di vista musicale. La prassi didattica settecentesca, infatti, non prevede la pre senza di esercizi aridi e meccanici, basati esclusivamente sul superamento di unʼunica difficoltà tecnica, da contrapporsi a brani di repertorio, artistici, cosí come accadrà con piú frequenza nel secolo successivo. Una evidenza dellʼattenzione alla compiutezza musicale è la presenza in questo tipo di repertorio di formule compositive standardizzate, che si affermano dal periodo galante, enumerate recentemente da Robert Gjerdin gen10 e presenti in larga misura nella letteratura strumentale e vocale del XVIII secolo. In particolare nellʼesempio 3 sono chiaramente presenti gli schemi Do-Mi-Sol11 e Monte. 12
8
Teoria e Pratica Per formare un buon Cantante Professore Del Sig.r D. Saverio Valente Accademi co Filarmonico, ms., I-mC, Noseda Q.13.19.
9 Ivi, cc. 7v e 8r.
10 roBerT GJerdINGeN, Music in the Galant Style, New York, Oxford University Press, 2007.
11
12
Ivi, p. 204
Ivi, pp. 89-106.
Solfeggietto
[Gj Do-Mi-Sol] [Gj Monte]
Esempio 3: SAVERIO VAlENTE, Solfeggietto.
Solfeggi cosí brevi possono essere assimilati a quelli immediatamente succes sivi e presenti negli autografi di Nicola Zingarelli, custoditi presso la biblioteca San Pietro a Majella di Napoli. Questi esercizi, che potremmo definire ʼsolfeggiettiʼ prendendo il termine in prestito a Saverio Valente, oltre ad essere evidentemente formati da un numero ridotto di battute, costituiscono un esempio di composizione concepita con una grande economicità di mezzi, preservandone la compiutezza formale e armonica, proprio come già evidenziato nei lavori di Valente e Mercadante.
[Gj Do-Re-Mi]
[Gj Prinner]
[Gj Monte]
[Gj Do-Re-Mi]
Esempio 4: NICOlA ZINgAREllI, Andante.
Il solfeggio allʼesempio 4,13 composto di sole 25 battute, infatti, esemplifica come Nicola Zingarelli riuscisse a comporre un brano di senso compiuto con pochissimi elementi. La presenza degli schemi Do-Re-Mi, 14 Monte e Prinner, 15 è complementare e rivolta allʼattenzione del compositore alla forma: il solfeggio è chiaramente diviso in due parti, la prima (batt. 1-12) che tonicizza la dominante e la seconda (batt. 13-24) che, utilizzando lo stesso incipit tematico, conclude il brano alla tonica.
Allʼinterno degli autografi di Nicola Zingarelli è possibile rintracciare solfeggi
13 NIColA ZINGArellI, Andante, in Solfeggi di Soprano, I-NC, Solfeggio 420(9).
14
GJerdINGeN, Music in the Galant Style cit., pp. 77-88.
15 Ivi, pp. 45-60.
ancora piú brevi. Il solfeggio allʼesempio 5, presente in una raccolta autografa deno minata Solfeggi di Soprano,16 ma scritta per voce di contralto e basso continuo, infatti, si costituisce di sole otto battute. Nonostante il numero esiguo di battute, il solfeggio preserva una chiara articolazione tematica, assimilabile al modello Hybrid
1 teorizzato da William Caplin in The classical form. 17
Esempio 5:
NICOlA ZINgAREllI, Solfeggio.
Sicuramente il solfeggio appena preso in esame non costituisce unʼeccezione nel panorama generale delle fonti per la chiarezza formale. Lʼesempio che segue,18 può essere assimilato a uno schema compositivo presente in larga misura nel repertorio classico: la small ternary. 19
16 NIColA ZINGArellI, Solfeggio, in Solfeggi di Soprano, I-NC, Solfeggio 420(11), c. 18r.
17
WIllIAm e. CAplIN, The classical form, Oxford, Oxford University Press, 1998, pp. 59-61.
18 NIColA ZINGArellI, Solfeggio n. 7, Allegro giusto, in Scale, salti e solfeggi per voce di soprano divisi in tre parti, I-mC, Noseda R.31.3.
19 Ivi, pp. 71-86.
Esempio 6: NICOlA ZINgAREllI, Solfeggio n. 7, Allegro giusto.
Perché i solfeggi costituiscono non solo un esercizio di canto e di accompagnamento al cembalo, ma contengono al loro interno un vero e proprio vocabolario di soluzioni compositive altamente standardizzate? È evidente che essi costituiscano un vero e proprio esercizio di composizione, sicuramente praticato da Mercadante nella classe del maestro Zingarelli e valido ancora oggi per la formazione musica le.20 Una traccia di come il solfeggio fosse centrale nella scuola di composizione di Zingarelli è presente nella ricostruzione di Florimo dellʼapprendistato di Bellini:
20 Cfr. pAolo Sullo, Per un impiego delle fonti storiche dei solfeggi napoletani del Settecento nellʼinsegnamento di “Teoria, Analisi e Composizione” (TAC) al Liceo Musicale, in Dalla storia alla musica: percorsi di didattica musicale con le fonti, a cura di Giovanna Carugno, Montalto Dora (To), pm edizioni, 2019 (Le Nuove muse).
Tutti ricordano che Bellini il piú delle volte prendeva le sue lezioni sino a due volte al giorno, ed egli stesso sorridendo gli diceva: «Siete tanto giovane! avete forse paura che non vi basti la vita per apprendere lʼarte?... Vediamo questʼultimo solfeggio (il secondo della giornata), che spero piú felice di quello di questa mattina». Quattrocento solfeggi gli fece comporre, dicendogli sempre: «Questa è la vera e la miglior via di formarsi il canto. Se canterete nelle vostre composizioni, siate pur certo che la vostra musica piacerà. Se invece ammasserete armonie, contrappunti doppi, fughe, canoni, note, contronote, ecc. forse sí e forse no il mondo musicale vi applaudirà dopo mezzo secolo, ma certo il pubblico vi disapproverà. Egli vuole melodie, melodie, sempre melodie. Se il vostro cuore saprà dettarvele, studiatevi di esporle il piú semplicemente possibile, e la vostra riuscita sarà sicura, voi sarete compositore; in contrario non sarete che un buon organista di qualche villaggio».21
Dʼaltra parte la testimonianza di Florimo riprende quanto già tramandato da Villarosa:
Zingarelli, che conobbe lʼingegno del suo nuovo allievo, con sommo piacere lʼaccolse, e volle che sotto la sua scorta cominciasse dalla scala il suo studio, secondo la scuola di Durante. Fece col tal metodo rapidi progressi, e si distinse nello studio dei solfeggi, che ne compose piú di 200, che del Zingarelli se ne mostrava ben contento, dicendogli spesso che cantasse sempre nelle sue composizioni, che se ne troverebbe contento.22
Alle testimonianze di Florimo e Villarosa si aggiunge quella di un allievo di Zingarelli, il musicista e musicografo Angelo Catelani, che ci offre una descrizione dettagliata di come il maestro napoletano inserisse lʼesercizio del solfeggio nello studio della composizione. Dopo aver iniziato gli studi di composizione a Modena, nel 1831 Catelani si reca a Napoli per proseguire i suoi studi sotto la guida di Nicola Zingarelli, Gaetano Donizetti, Giovanni Furno e Nicola Crescentini. Le Memorie autobiografiche23 del musicista ci forniscono una testimonianza diretta e dettagliata sui metodi didattici e, piú in generale, sulla situazione ritrovata del Real Collegio di San Pietro a Majella:
Entrai […] in quellʼorrido sito [il Real Collegio] il 19 di detto mese. Fétis ha stigmatizzato il cosí detto Real Collegio di S. Pietro a Majella; sʼegli ha ecceduto nel
21 FlorImo, La scuola musicale cit., II, pp. 412-413.
22 VIllAroSA, Memorie cit., pp. 237-238.
23 ANGelo CATelANI, Cataloghi della musica di composizione e proprietà del M. Angelo Catelani preceduti dalle sue memorie autobiografiche, a cura di Luigi Francesco Valdrighi, Modena, Anti ca tipografia Soliani, 1893.
giudicar Zingarelli,24 nel resto è stato anche al disotto del vero. Questo stabilimento unico era lʼavanzo dei quattro Conservatorî Napolitani, tanto celebri una volta […]. Altro non aggiungo intorno al caro collegio, tranne quello me riguardante, altrimenti non basterebbe la carta, e forse non mi si crederebbe da coloro che non sono stati là dentro. […] Sappia intanto chi legge che il direttore Zingarelli, Crescentini, e gli altri professori insegnanti non avevano influenza alcuna nellʼazienda del Collegio, fuori la istruzione artistica.25
La testimonianza di Catelani, entrando nello specifico degli studi di composi zione, fornisce agli studiosi unʼinteressante ricostruzione delle prime lezioni seguite in classe di Nicola Zingarelli.
«Ora fatemi conoscere quello che sapete di musica» - Gli mostrai alcune composizioni fatte a Modena che attentamente esaminò fino a tre volte. «Dio vi ha dato del talento e vi chiama a scrivere musica sacra» (nota che i miei scarabocchi erano di genere profano, da camera, da teatro) «studiate e riuscirete. Comincierete dalla scala a due; ricordatevi che in armonia la quarta scende, la settima sale» cosí.
24
François-Joseph Fétis nella sua Biographie universelle, circa lʼattività dʼinsegnante di Zingarel li, riporta che «Arrivé dans cette ville [Napoli], vers la fin de 1812, il y fut, bientòt après, nom mé directeur di Collége royal de musique de Saint-Sébastien, la seule école de musique qui restàt debout pour succéder aux anciens conservatoires, et il prit possession de sa place pendant le mois de fevrier 1813. […] Ce fut un événement funeste pour lʼécole renaissante de Naples, que le choix de Zingarelli pour diriger. Esprit étroit, rempli de préventions et de préjugés, livré aux exercices dʼune dévotion bigote, il nʼavait ni lʼactivité, ni lʼénergie, ni la bienveillance naturelle envers la jeunesse, ni enfin le sentiment éclairé de lʼart qui, seuls, peuvent imprimer un mouvement de progrès à un établissement de ce genre. On peut affirmer que, loin dʼavoir fait quelque chose pour la prospèritè du Conservatoìre de Naples, il nʼy a pas été un des moindres obstacles à la restauration de lʼenseignement. Rien ne prouve mieux ce fait que lʼheureux changement qui sʼest opéré dans cette école après sa mort, lorsque la direc tion en a été confiée à Mercadante, artiste dʼune bien plus grande portée. Zingarelli nʼavait pas plus les qualités nécessaires pour enseigner les procédés de lʼart dʼécrire à de jeunes compo siteurs, que pour diriger une école. Absolument ignorant des productions des grands musìciens qui sʼétaient illustrés dans les pays étrangers pendant la seconde moitié du dix-neuvième, nʼayant ni méthode ni plan dʼenseignement, mais seulement des traditions quʼil avait puisées dans les leçons de Fenaroli et de lʼabbé Speranza, on lʼa vu chasser du Collége de SaintSébastien son élève Mercadante, pour lʼavoir surpris à mettre en partition des compositions instrumentales de Mozart. On lui a fait honneur de lʼéducation musicale de ce mème Merca dante, de Bellini, de Manfroce [...], de Charles Conti, et des deux Ricci; mais ces artistes sont plus redevables à leur nature dʼélite et à leurs propres efforts quʼaux leçons de leur vieux maitre. A lʼexception de Mercadante, musicien véritablement instruit, il y a plus dʼinstinct que de savoir dans les productions des autres. On compte aussi parmi les élèves de Zingarelli Pollini de Milan, Sgatelli, a Rome, M. Florimo, bibliothécaire du Conservatoire de Naples, et M. Lillo. Dans les vingt dernières années de sa vie, Zingarelli écrivit une très-grande quantité de musique dʼéglise, quoiquʼll ne travaillàt que deux ou trois heures chaque jour» [pp. 519-520].
25 CATelANI, Cataloghi della musica cit., p. 12.
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E scrisse in un pezzo di carta il seguente esempio: B ?
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Non compresi allora questa teoria, cardine di ogni modulazione e tacqui. […]. I miei studî sotto Zingarelli progredirono nel modo seguente: scale e disposizioni a 2, 3 e 4 voci. I bassi mi erano forniti dal maestro. Fughe a 2, 3 e 4 voci: solfeggi con basso continuo, spesse volte in istile fugato.26
Una traccia dei solfeggi scritti dagli allievi di Zingarelli allʼinterno di un corso di composizione è presente nei quaderni dello stesso Francesco Florimo e Angelo Catelani, ma anche di altri allievi come Nicola Fornasini, Antonio Maria Costantini e Francesco Rondinella27 e nel Compendio di contrappunto della antica e moderna scuola di musica napolitana di Giovanni Battista De Vecchis,28 maestro di cappella di Montecassino e allievo di Zingarelli. Unʼaltra testimonianza, sebbene molto piú tarda, che inserisce lo studio del 26 Ivi, pp. 14-15.
27
FrANCeSCo FlorImo, Studio di Contrapunto. Composto da me Francesco Florimo, sotto la dire zione del Sig.r Nicolò [sic] Zingarelli, Gran Maestro, e Direttore del Real Collegio di Musica di S. Sebastiano, I-NC, 31.1.19; NIColA ForNASINI, Studio di Contrapunto dato in luce da Nicola Fornasini sotto la direzione del celebre Maestro Sig.r D. Nicola [sic] Zingarelli, I-mC, Nos. Th.c.124; ANToNIo mArIA CoSTANTINI, Studio di Contropunto fatto dal Padre Antonio Costantino Min: Conventuale sotto la direzione del Maestro Niccolò Zingarelli, I-BAF, Masseangeli mSG-I-CoSTANTmuS.2; Id., Partitura | Fughe libere per Tenore e Basso p[er] Solfeggio del Padre Antonio Costan tini min. Conventuale sotto la Direzione del maestro Niccolò Zingarelli, I-rSC, A mS. 3195; FrAN CeSCo roNdINellA, Studio di Contrappunto di me Francesco Rondinella, Incominciato a 15 Febbraio 1832, sotto la direzione del sig. Zingarelli, I-NC, 84-3-54/1; Id., Solfeggi per voce di sopra no composti dal M.o Francesco Rondinella sotto la direzione di Zingarelli anno 1834, I-NC, Solf 423 e I-NC, Solf 424; ANGelo CATelANI, Minute di alcuni Studj fatti sotto la direzione del M.o Zingarelli, I-moe F.160 e I-moe F.162. Cfr. GIorGIo SANGuINeTTI, Decline and fall of the Celeste impero. The theory of composition in Naples during the Ottocento, «Studi musicali» 34, 2005, pp. 451-502; pAolo Sullo, I solfeggi nella scuola di Nicola Zingarelli, «I Quaderni del Conservato rio Umberto Giordano di Foggia» 2, 2014, pp. 173-198; peTer VAN Tour, Niccolò Zingarelli as Teacher of Dramatic Composition, in Nicola Zingarelli: il maestro, il compositore e il suo tempo, a cura di Paolo Sullo e Giovanna Carugno, Napoli, Editoriale Scientifica, in corso di stampa [2022].
28 GIoVANNI BATTISTA de VeCCHIS, Compendio di contrappunto dellʼantica e moderna scuola di musica napoletana, Napoli, tipografia Domenico Capasso, 1850.
solfeggio allʼinterno del corso di composizione è di Michele Ruta, compositore e studioso di fine Ottocento. Nella sua Storia critica delle condizioni della musica in Italia e del conservatorio di S. Pietro a Majella di Napoli,29 e in particolare nel capitolo XXII che tratta della Scuola di Composizione, Ruta espone in maniera ancora piú diretta e chiara il legame dellʼesercizio del solfeggio con lo studio della forma e quindi della costruzione di brevi melodie.
A noi manca una perfetta scuola di composizione ove si potesse apprendere lʼarte ritmica-fraseologica, e lʼarte di svolgere le idee nella tessitura di un pezzo. Lʼantica scuola napoletana, quantunque non avesse avuto un metodo scritto per tale studio, pure, tradizionalmente adottava, per questa parte della scuola, lo studio della composizione del solfeggio, il quale veniva nellʼinsegnamento riguardato come uno studio di logica e di estetica musicale. Quindi nel solfeggio essi insegnavano lo svolgimento di un pensiero musicale, la tessitura di cui è capace una frase melodica, le modulazioni che si addicono ad un canto, la correttezza del basso, ed altresí la natura delle voci umane, ed il loro speciale carattere. […]
Quantunque i vecchi maestri della nostra Scuola non avessero determinate queste norme, pure con la pratica esercitazione del solfeggio dettavano le loro norme a tenore della frase melodica del discepolo medesimo; di maniera che educavano il gusto speciale dellʼallievo col lungo tirocinio del fare, evitando con ogni cura il frasario convenzionale.
Essi davano grande importanza a questa sorta di studi, anche perché calcolavano, e giustamente, che nella disposizione non sempre si può far uso di tutto il diapason delle voci, o almeno che spesso non se ne possono scorrere con rapidità tutti i registri, essendo obbligati dalle altre voci, e per ragione di equilibrio di forza, a mantenersi in un certo numero di suoni. E col solfeggio addestravano i giovani a quella mobilità di suoni tanto necessaria in unʼopera dʼarte. Ed in ultimo nel solfeggio imparavano a comporre le frasi vocali nella durata della respirazione, distribuendo i vari incisi della medesima in modo da dar agio al cantante di respirare commodamente.30
I solfeggi di Mercadante si inseriscono appieno in questa tradizione e la tra ghettano, rinnovandola, fino al Novecento, dove, nei programmi ministeriali, stilati negli anni Quaranta per la scuola di Direzione di coro e musica corale, è ancora possibile ritrovare una traccia del solfeggio come studio di composizione.31 Tale corso di studi, tuttora in vigore in alcuni conservatorii, oltre alle prove pratiche di
29 mICHele ruTA, Storia critica delle condizioni della musica in Italia e del conservatorio di S. Pie tro a Majella di Napoli, Napoli, Libreria Detken e Rocholl, 1877.
30 Ivi, pp. 145-147.
31 Regio decreto 20 novembre 1941, n. 1425 pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 5 gennaio 1942.
direzione di coro, contiene prove specifiche di composizione. Lʼesame di diploma, infatti, oltre a prevedere la «composizione di un breve coro nello stile polifonico (mottetto o madrigale) a 3 o 4 voci su spunto musicale e parole dati», include anche la «composizione, su tema dato, di un solfeggio a 1 o 2 voci con accompagnamento di piano, tenendo calcolo delle possibilità vocali degli alunni delle scuole medie». Inoltre, dopo la prova pratica di direzione di coro, lʼallievo dovrà «svolgere in forma di lezione un punto qualunque (scelto dalla Commissione esaminatrice) del pro gramma musicale in vigore negli istituti magistrali, e comporre, seduta stante, un breve solfeggio, alla lavagna, improvvisandone poi lʼaccompagnamento al piano».
I programmi ministeriali del Novecento, costituendo un punto di arrivo di un per corso che affonda le sue radici nei due secoli precedenti, diventano altresí un ottimo spunto per la ricostruzione di quanto accadeva nelle classi dei maestri dellʼOttocento e del Settecento. In particolare, dal programma di diploma in Direzione di coro e musica corale, emergono due tipologie di solfeggi: la prima è una forma compositiva piú complessa, per pianoforte, a una o due voci, senza testo, mentre la seconda è sicuramente riconducibile al ʼsolfeggiettoʼ composto estemporaneamente cosí come gli esempi di Valente, Zingarelli e Mercadante appena esposti.
Lo stesso Mercadante, come vedremo nellʼanalisi delle fonti di altre raccolte di solfeggi, si divide tra una scrittura pianistica e unʼaltra per basso continuo.
Sempre assimilabili alla tradizione settecentesca e alla prassi del basso continuo sono le raccolte custodite presso il fondo Noseda della Biblioteca del conservatorio di Milano.32 In particolare la raccolta 36 solfeggi facili per voce di contralto, se si esclude lʼutilizzo piú moderno della chiave di violino, si riaccorda alla tipologia di scrittura riscontrabile nelle raccolte di solfeggi a partire dalla scuola di Leonardo Leo. Il maestro, infatti, aveva la consuetudine di comporre solfeggi in due tempi: il primo era costituito da un largo o un andante, mentre il secondo di solito era un allegro. I due solfeggi, nella stessa tonalità, formavano unʼunica ʼlezioneʼ.33 Con sultando la tabella 1, infatti, è possibile ipotizzare come anche Mercadante conce pisca i solfeggi a due a due, vista lʼalternanza di tempi lenti con tempi veloci. I due movimenti che costituiscono una lezione, però, non risultano nella stessa tonalità, come in Leonardo Leo e piú in generale nel corso del Settecento, ma sono nella maggioranza dei casi composti in tonalità vicine. Infatti le uniche coppie che sono costituite da solfeggi in tonalità lontane sono quelle dei solfeggi 17 e 18, 20 e 21, 24 e 25, 26 e 27, 28 e 29. Inoltre gli unici solfeggi isolati risultano essere i numeri 19, 34 e 36. Il solfeggio 35, invece, è espressamente costituito da due tempi, sempre in tonalità vicine: il primo tempo è un Andante in Si♭ maggiore, mentre il secondo è un Allegro in Mi♭ maggiore.
32 SAVerIo merCAdANTe, N.o 36 Solfeggi Facili per Voce di Contralto del Cav.e. Saverio Mercadan te, manoscritto, I-mC, Noseda M.16.17; Id., Solfeggi, autografo, I-mC, Noseda M.16.20.
33 Cfr. pAolo Sullo, La fortuna europea delle raccolte di solfeggi di Leonardo Leo, «Studi pergole siani. Pergolesi Studies» 8, 2012, pp. 407-433.
Numero Tempo
Andamento
Tonalità 1 3/8 Andante Re minore 2 3/4 Allegretto Fa maggiore 3 6/8 Andante Mi♭ Maggiore 4 2/4 Allegretto Sol Minore 5 C Andante Mi♭ Maggiore 6 3/4 Allegro scherzoso La♭ Maggiore 7 3/4 Andante Fa maggiore 8 2/4 Allegretto Re minore 9 6/8 Andante Do maggiore 10 3/8 Allegro mosso La minore 11 C Allegro mosso Sol maggiore 12 2/4 Allegro Mi minore 13 3/4 Cantabile Re maggiore 14 2/4 Allegro La maggiore 15 3/4 Andante cantabile Fa maggiore 16 2/4 Allegretto Re minore 17 2/4 Andante Si♭ maggiore 18 6/8 Allegretto Sol maggiore 19 C Maestoso Mi♭ maggiore 20 3/8 Andante Sol minore 21 2/4 Allegro Do maggiore 22 3/4 Andante Fa maggiore 23 2/4 Allegro La minore 24 6/8 Andante Re maggiore 25 2/4 Allegretto Si♭ maggiore 26 C Moderato Fa maggiore 27 2/4 Allegretto Re♭ maggiore 28 3/4 Andante Si♭ maggiore 29 2/4 Allegretto Do maggiore 30 3/8 Allegro Fa minore 31 3/4 Andante Re♭ maggiore 32 C Andante Si♭ maggiore 33 3/4 Allegretto Do minore 34 2/4 Andante Sol maggiore 35 3/4 Andante Si♭ maggiore segue 2/4 Allegro Mi♭ maggiore 36 3/4 Andante Si♭ maggiore Tabella 1: 36 solfeggi facili per voce di contralto.
Cosí come anticipato, non tutti i solfeggi di Mercadante utilizzano il basso con tinuo, ma nel quadro generale delle fonti è presente anche una raccolta autografa per voce e pianoforte, intitolata Solfeggi composti e scritti di proprio pugno da Saverio Mercadante per sua figlia Ismalia, custodita presso il fondo Lonati della biblioteca dellʼAccademia Filarmonica di Bologna.34 Come segnalato da Santo Palermo nella sua ricostruzione biografica di Saverio Mercadante,35 Ismalia era il nome con cui il maestro chiamava sua figlia Serafina. Lʼuso del nome Ismalia certamente sostituí quello di Serafina. È interessante notare come esso ritorni anche nella «Gazzetta Ufficiale» del 1871 in cui si disponeva fra le tante cose anche lʼeredità a favore di Ismalia di mille cento sessantacinque lire.
Sulla dimanda dei signori Sofia Gambaro fu Giovanni Battista vedova del cavaliere Saverio Mercadante, Ismalia Mercadante fu cavaliere Saverio ed Aniello Lanni di Francesco coniugi, e questi per semplice autorizzazione, Osoino Mercadante fu cavaliere Saverio, Armando Mercadante fu cavaliere Saverio. Il suddetto tribunale, seconda sezione, ha disposto quanto segue: Il tribunale, deliberando in camera di consiglio, sul rapporto del vicepresidente delegato, ed inteso il Pubblico Ministero delle sue orali conclusioni, ordina che la Direzione del Gran Libro del Debito Pubblico del Regno dʼItalia trasferisca nel seguente modo il certificato di annue lire settemila, sotto il numero cento cinquantamila cinquecento sessantanove, in testa di Mercadante Saverio fu Giuseppe, domiciliato in Napoli, cioè lire mille cento sessantacinque a favore di Ismalia Mercadante fu Saverio, moglie del signor Aniello Lanni, lire mille cento sessantacinque a favore di Armando Mercadante fu Saverio; lire mille cento settanta a favore di Osoino Mercadante fu Saverio; lire tremila cinquecento a favore dei signori Ismalia moglie del signor Aniello Lanni, Osoino ed Armando Mercadante fu Saverio la proprietà, e nellʼusufrutto a favore della signora Sofia Gambaro fu Giovanni Battista, vedova del cavaliere Saverio Mercadante, e durante il di lei stato vedovile […].36
La scelta di Mercadante di sostituire il “vecchio” basso continuo con lʼaccompagnamento pianistico non è certo isolata durante lʼOttocento. Un riferi mento a questo tipo di esigenza ci riporta innanzitutto alla figura di Gustav Wilhelm Teschner (1800 - 1883), cantante, insegnante ed editore tedesco. Dopo una forma zione in Germania, Teschner si formò in Italia con Giorgio Ronconi, Eliodoro Bianchi e Girolamo Crescentini. Ai fini della nostra ricerca è interessante il momento in cui Teschner cercò di importare a Dresda e a Berlino la tradizione didattica napoletana
34
SAVerIo merCAdANTe, Solfeggi composti e scritti di proprio pugno da Saverio Mercadante per sua figlia Ismalia Lanni Mercadante, autografo, I-BAF, Lonati FlN mer muS.2.
35
36
SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario, Fasano, Schena Editore, 1985.
«Gazzetta Ufficiale del Regno dʼItalia» 11 agosto 1871, p. 4.
del solfeggio, curando le edizioni a stampa non solo dei solfeggi di Crescentini, ma anche quelli di Francesco Durante e Nicola Zingarelli. In particolare nel caso dellʼedizione a stampa dei solfeggi di Zingarelli, concepiti originariamente per voce e basso continuo, Teschner sentí lʼesigenza di realizzare lʼaccompagnamento per pianoforte.37 A ulteriore conferma dei rapporti di Teschner con lʼItalia e con la scuola napoletana in particolare, è il Vocalizzo a Soprano38 «offerto in segno di stima al Signor Francesco Florimo a Napoli» e custodito nella Biblioteca di San Pietro a Majella. Lʼimportanza rivestita dai solfeggi italiani nellʼopera didattica e nella collezione personale di Teschner è ancora piú evidente in una lettera inviata il 27 agosto 1873 da Berlino a Gaetano Gaspari a Bologna, dove il maestro di canto tedesco scrive:
Pregiatissimo Signore, alcun tempo fa ho ricevuto per mezzo del mio amico Sir Ottone Kade a Sverino la sua spedizione, composta di 36 Solfeggi per Soprano del m° Pilotti,39 collʼordine di rimandarli verso il fine del mese corrente. Giunto al tempo prefisso, ed avendo terminato la copia, io rimando nel rotolo presente lʼopera sopradetta, rendendo nel medesimo tempo molte grazie obbliganti per la sua bontà, la quale mi ha permesso di acquistare per la mia collezione di Solfeggi classici e moderni unʼopera, già divenuta rara.40
Forse la distinzione operata da Teschner fra ʼsolfeggi classiciʼ e ʼmoderniʼ non è da ridursi solamente a una maggiore o minore vicinanza temporale, ma è da ricondursi alla presenza, nei solfeggi moderni, dellʼaccompagnamento pianistico, come previsto da Teschner per la sua edizione dei solfeggi di Zingarelli. Un esplicito riferimento alla necessità di sostituire la prassi del basso continuo con un piú “moderno” accompagnamento pianistico è contenuto nellʼ«Avvertimento dellʼAutore alla Terza Edizione» del Metodo di Canto di Francesco Florimo. Secondo lʼautore è, infatti,
37 NIColA ZINGArellI, Solfeggi elementari e progressivi per voce di Soprano, Berlino, M.Bahn, s.d.
38 GuSTAV WIllHelm TeSCHNer, Vocalizzo a Soprano di G. Gugl. Teschner a Berlino offerto in segno di stima al Signor Francesco Florimo a Napoli, ms., in 2.o Album, I-NC Rari 4.5.23.
39 Giuseppe Pilotti, nato a Bologna nel 1784 e formatosi sotto la guida di Saverio Mattei presso il liceo musicale di Bologna. Nel 1826, prese il posto di Mattei in S. Petronio a Bologna e tre anni dopo divenne insegnante di contrappunto nel locale liceo. Dal 1805 fece parte dellʼAccademia Filarmonica Bolognese. Fu attivo, inoltre, come maestro al cimbalo e direttore dei cori della musica del teatro comunale nel 1820 e, saltuariamente, nel 1827, dal 1830 al 1831 e dal 1834 al 1836.
40
La lettera di Teschner a Gaspari è in I-BC Epv.Teschner.1, inventario 27623; i solfeggi di Giu seppe Pilotti cui Teschner fa riferimento nella missiva sono tuttora custoditi in I-BC pp.184.
conveniente il pubblicare la prima edizione di questo metodo con un compiuto accompagnamento di pianoforte, e fin dʼallora fui il primo in Napoli, che lʼaccompagnamento formale costituii allʼusualissimo basso numerato, cagione spesse volte di errori, di inesattezza per coloro che sono inesperti negli studi armonici, o mancanti di buon gusto.41
In conclusione possiamo affermare che da una panoramica delle fonti di solfeggi composti da Saverio Mercadante e custoditi nelle biblioteche di Milano, Bologna e Napoli si evince come questo repertorio sia strettamente legato alla scuola di Zin garelli. Infatti, anche Mercadante, come e forse ancor piú del suo maestro Zingarelli, fa i conti con il passato, cercando di rielaborare e riadattare la tradizione didattica napoletana per renderla ancora attuale e spendibile in tempi “moderni”. Forse questa caratteristica tanto evidente nella produzione didattica di Zingarelli fa descrivere questʼultimo anche nella voce dedicata a Mercadante del Dizionario Biografico degli Italiani come «campione del conservatorismo della scuola napoletana».42 Questo giudizio, probabilmente frettoloso e, purtroppo, ancora molto diffuso in taluna letteratura musicologica, scaturisce dalla necessità avvertita da Nicola Zingarelli di mettere per iscritto tutti quegli insegnamenti che nel XVIII secolo precedente erano diffusi solo oralmente. Alcuni aspetti della prassi didattica settecentesca, presenti nei lavori didattici di Zingarelli e Mercadante, vengono codificati e aggiornati in una veste piú moderna che lentamente sostituisce la pratica con la scrittura.
41 FrANCeSCo FlorImo, Metodo di Canto, Milano, Tito di G. Ricordi, 1840, p. 3.
42 CArlIdA STeFFAN, “Mercadante, Saverio”, sub voce in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 73, Roma, Treccani, 2009, online: <https://www.treccani.it/enciclopedia/saverio-mercadante_%28Dizionario-Biografico%29/> (ultima consultazione 3 settembre 2021).
Il commento di Giuseppe Verdi a Cesare de Sanctis (lettera da Genova, 1° gennaio 1871) dal quale è estrapolato il titolo del presente studio merita di essere riletto integralmente e di essere chiosato:
Vorreste voi che rispondessi: Ma Mercadante, ma Zingarelli!!!... Vorreste voi che io rispondessi: Zingarelli, Mercadante son due gran nomi, due grandi maestri, se volete; ma non hanno fatto nulla secondo lʼesigenza dei tempi, e di piú, hanno lasciato cadere quelli studi profondi e severi, che furono le basi gloriose della Scuola di Durante, Leo, etc. etc.1
Un giudizio severo, che accusa Mercadante e Zingarelli, lʼuno allievo dellʼaltro, di essere (stati) anacronistici e soprattutto di aver «lasciato cadere» la linea della tradizione che affonda le radici negli insegnamenti di Durante e di Leo, «primi padri».2 Il 2 febbraio 1871 Verdi ritorna sulla questione in unʼepistola al ministro Cesare Correnti (1815-1888); è in gioco una riforma (un «riordinamento di studj») del Conservatorio di Napoli, che secondo Verdi dovrà essere affidata al nuovo direttore, senza che questi sia ostacolato da alcuna commissione. A sostegno della propria visione Verdi afferma che «negli antichi Conservatorj di Napoli, diretti da Durante e
1 Carteggi verdiani, a cura di Alessandro Luzio, I, Roma, Reale Accademia dʼItalia, 1935 (Reale Accademia dʼItalia. Studi e documenti, 4), p. 125. Cfr. mArCello CoNATI, Florimo e Mercadan te, in Francesco Florimo e lʼOttocento musicale, a cura di Rosa Cafiero e Marina Marino, Reggio Calabria, Jason, 1999, pp. 121-134:132. Un ringraziamento a quanti hanno reso possibili in vario modo le ricerche i cui esiti sono proposti nel presente studio (Tommasina Boccia, Cesare Corsi, Tiziana Grande) e agli organizzatori del convegno internazionale di studi Mercadante 150, Antonio Caroccia e Paologiovanni Maione.
2 Lettera a Francesco Florimo da Genova, 4 gennaio 1871; I copialettere di Giuseppe Verdi, pubbli cati e illustrati da Gaetano Cesari e Alessandro Luzio e con prefazione di Michele Scherillo, Milano, Tip. Stucchi Ceretti & C., 1913, p. 232 (lettera CCI); rist. anast. Sala Bolognese, Forni, 1987.
«Zingarelli, Mercadante, son due gran nomi, due grandi Maestri»: a proposito delle «basi gloriose della scuola di Durante, Leo etc. etc.»
Zingarelli, Mercadante, son due gran noMi
da Leo» non vi sarebbero state «norme dʼinsegnamento». E incalza affermando che Durante e Leo «creavano la via da seguire: erano vie, che in alcune parti differivano fra loto, ma entrambi buone». Anche Fenaroli viene travolto: «Né piú tardi vʼerano norme dʼinsegnamento, con Fenaroli, che lasciò i suoi partimenti, ora noti a tutti».3 Proviamo a scagionare Mercadante dallʼaccusa tranchante testimoniata nellʼepistolario verdiano risalendo la corrente della tradizione durantiana e rico struendo un episodio dellʼattività di Mercadante direttore del conservatorio: il 18 gennaio 1860 il direttore sottopone un basso di Durante per il concorso di «maestro di Partimento».
Il reclutamento dei maestri del Collegio di musica era stato sancito da un decreto del 12 luglio 1856:4 lʼarticolo 91 descrive le modalità di svolgimento delle prove dʼesame.
Chiunque nelle vacanze aspiri alla nomina di professore di musica del collegio dovrà assoggettarsi allo esperimento di un esame in concorso, il cui programma sarà compilato dal direttore della musica, dal maestro di composizione, e da uno deʼ maestri a tale uopo trascelto dal governo. Questo il trasmetterà con le sue osservazioni allʼapprovazione del Ministero, il quale fermerà tra due altri mesi il giorno del concorso. Approvato il programma verrà affisso alle porte del collegio, e pubblicato nel giornale ufficiale. Gli esaminatori saranno il direttore della musica, la sezione filarmonica della reale Accademia di belle arti, i tre professori di
3
Ivi, p. 242 (lettera CCVIII, Genova 1° febbraio 1871). Cfr. roBerTA moNTemorrA mArVIN, Ver di Learns to Compose. The Writings of Bonifazio Aioli, «Studi musicali» 36/2, 2007, pp. 469-490. Rimandiamo anche a roBerTA moNTemorrA mArVIN, Verdi, Conservatory Reform, and the Italian Musical Tradition, in Lʼinsegnamento dei conservatorî, la composizione e la vita musicale nellʼEuropa dellʼOttocento, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Milano, Conservatorio di Musica “Giuseppe Verdi”, 28-30 novembre 2008), a cura di Licia Sirch, Maria Grazia Sità, Marina Vaccarini, Lucca, lIm, 2012 (Strumenti della ricerca musicale, 19), pp. 3-30, a pHIlIp GoSSeTT, «Nissuno mi ha insegnato lʼistrumentazione ed il modo di trattare la musica dramma tica»: gli studi musicali di Giuseppe Verdi, in Lʼinsegnamento dei conservatorî cit., pp. 125-139 e a BIANCA mArIA ANTolINI, La “musica antica” nei Conservatori italiani della seconda metà dellʼOttocento, in Lʼinsegnamento dei conservatorî cit., pp. 181-205.
4 Atti sovrani riguardanti il riordinamento del Real Collegio di musica di Napoli, Napoli, Dalla Stamperia Reale, 1856; il decreto (n. 211) è firmato dal re Ferdinando II e dal ministro degli affari ecclesiastici e dellʼistruzione pubblica, Francesco Scorza (Almanacco Reale del Regno delle Due Sicilie per lʼanno 1857, Napoli, Dalla Stamperia Reale, 1857, pp. 84-85, 113). Cfr. Tom mASINA BoCCIA, Il conservatorio di musica di Napoli negli anni degli studi e della direzione di Saverio Mercadante nei documenti dellʼArchivio storico, in Mercadante 1870-2020, a cura di Antonio Caroccia e Paologiovanni Maione, Napoli, Edizioni San Pietro a Majella, 2020, pp. 13-25:22-23. Cfr. anche la Collezione delle leggi dei decreti ed altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di Napoli dallʼanno 1806 in poi. Vol. III. Dal 1849 al 1861, Napoli, Stamperia e cartiere del Fibreno, 1863, pp. 329-404. Si veda anche ANToNIo CAroCCIA, Lʼistruzione musicale nei conservatori dellʼOttocento tra regolamenti e riforme degli studi. I model li di Milano e Napoli, in Lʼinsegnamento dei conservatorî cit., pp. 207-327: 218, 324.
composizione e di partimenti, e tre altri distinti professori da scegliersi nel collegio o fuori, i quali saranno dal governo, inteso il ridetto direttore, proposti al Ministero per la sua adesione. Dellʼesito dellʼesperimento il governo istesso farà ragionato rapporto al Ministero, il quale provocherà la nomina sovrana a pro del candidato che avrà raccolto maggiori suffragi.
Il direttore, coadiuvato dal «maestro di composizione, e da uno deʼ maestri a tale uopo trascelto dal governo» ha dunque il compito di ʼcompilareʼ il programma di ciascuna prova e di esaminare i candidati insieme alla «sezione filarmonica della reale Accademia di belle arti», ai «tre professori di composizione e di partimenti» e da «tre altri distinti professori da scegliersi nel collegio o fuori». Ritorniamo al concorso del 18 gennaio 1860:5 i candidati hanno a disposizione tre ore; mentre gli aspiranti maestri di partimento realizzano il compito che è stato loro assegnato il direttore inganna lʼattesa («per non stare in ozio») realizzando il basso in unʼora e mezza, secondo quando registra con lo zelo che gli è proprio Francesco Rondinella, vicearchivario e aiutante di Francesco Florimo. Lʼesercitazione autografa viene custodita gelosamente nellʼarchivio del collegio di musica,6 divenuto vero e proprio monumentum ancor piú prezioso se si considera che Mercadante a breve inizierà a chiedere la collaborazione dei propri allievi e a dettare loro le proprie composizioni.7
5 Non abbiamo trovato finora riscontri archivistici relativi alle prove dei singoli candidati. Identifichiamo il vincitore sulla base di alcuni documenti relativi allʼinsediamento di Paolo Serrao (1830-1907) in qualità di «maestro di partimento e di accompagnamento al canto in partitura» il 13 marzo 1860 (I-NCAS, fascicolo personale di Paolo Serrao, cassetta 42, fascico lo 7); cfr. ANToNIo CAroCCIA, Serrao e il Real Collegio di musica di Napoli, in Paolo Serrao e la musica a Napoli nella seconda metà dellʼOttocento, a cura di Massimo Distilo, Annunziato Puglie se, Francesco Paolo Russo, Vibo Valentia, Istituto di Bibliografia Musicale Calabrese, 2021, pp. 31-51: 34.
6
I-NC 3.1.21/7: Basso di Durante N.° 31 scelto pel concorso del Maestro di Partimento il dí 18 Gen.° 1860 | nello spazio di ore 3. Il direttore Mercadante per non star in ozio le sud.te 3 ore che scri|vevano gli esaminati lo dispose nello spazio di in 1. ora e mezza. Numerose sono le testimonianze di concorsi svolti in conservatorio le cui prove vennero concepite dal direttore Mercadante; segnaliamo il concorso per la «piazza» di maestro di fagotto (28 agosto 1850), I-NC 3.1.21/4, il saggio per lʼesame di concorso alla «piazza dʼIspettore delle Scuole esterne per le classi di canto ed accompagnamento», 1° maggio 1859, I-NC 3.1.21/5, il solfeggio (27 febbraio 1861) scritto per la «vacante piazza» di ispettore delle scuole esterne, I-NC 3.1.21/6.
7 Fra gli allievi ai quali Mercadante detterà le proprie composizioni ricordiamo – fra gli altri –Costantino Palumbo (1843-1928), la cui mano stila la sinfonia a grandʼorchestra Il lamento del Bardo (I-NC Palumbo 5.5; una copia in I-mC Noseda I.8), ed Ernesto Viceconte (1836-1877).
Figura 1: I-NC 3.1.21/7 c. 1r
Figura 2: I-NC 3.1.21/7 c. 1v
Figura 3: I-NC 3.1.21/7 c. 2r
Figura 4: I-NC 3.1.21/7 c. 2v (riproduzioni per gentile concessione del Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” Napoli)
Zingarelli, Mercadante, son due gran noMi
Ne otterrà una copia8 per arricchire la propria collezione musicale Gustavo Adolfo Noseda (1837-1866), che soggiorna a Napoli dalla fine del 1859 al 1863; divenuto allievo di Mercadante («forse lo scolaro che ha amato e che ama di piú», come scrive al padre il 16 giugno 18629), Noseda era stato incaricato dallo stesso Mercadante di compilare «il catalogo di tutta la sua musica» e si era assicurato il permesso di
far copiare allʼarchivio tutte quelle composizioni che assolutamente mi abbisognano per la formazione della mia biblioteca nonché per il materiale da potersene compilare una buona storia artistica. Mercadante me lo fece avere, ma ciò con somma gelosia dellʼArchivario [Florimo] il quale considera lʼarchivio come sua particolare proprietà e non come pubblico stabilimento […]; mi feci promettere di non venderla se prima non avea trattato con me e lasciato scegliere ciò che piú mi conveniva; cosí il Collegio il quale conta la raccolta non interrotta degli autografi dei direttori del medesimo da Durante fino a Zingarelli, sarà privo di quella (o in tutto o in parte) di un di coloro che maggiormente lʼillustrarono, e dellʼultimo depositario di quella scuola che fece levare alto il grido di sé in tutto il mondo.10
Noseda riesce ad arricchire la propria biblioteca di un gran numero di monu menta della scuola napoletana,11 fra i quali il partimento realizzato da Mercadante campeggia come testimonianza significativa.
8
I-mC Noseda M.16.15. Il manoscritto (di due carte) reca come titolo (di aggiunta posteriore alla redazione) Disposizione a 4 Voci su di Basso di Durante; la data (18 Gennajo 1860) è annotata a c. 2v; sempre a c. 2v in basso si legge Basso di Durante N.o 31 scelto pel concorso del M.o di Partimento nello | spazio di ore 3. Il direttore Mercadante lo dispose in un ora e | mezzo. Cfr. lʼIndice generale dellʼArchivio musicale Noseda con una breve biografia del fondatore e con alcuni cenni intorno allʼarchivio stesso ed alla biblioteca del R. Conservatorio di musica di Milano compilato dal prof. Eugenio Deʼ Guarinoni, Milano, Stabilimento Tipografico Enrico Reggiani, 1897, p. 226, scheda 5748. La trascrizione del partimento restituito dal manoscritto milanese è pubblicata in GIorGIo SANGuINeTTI, The Art of Partimento. History, Theory, and Practice, Oxford-New York, Oxford University Press, 2012, pp. 52-53.
9 CArlA moreNI, Vita musicale a Milano 1837-1866. Gustavo Adolfo Noseda collezionista e com positore, Milano, Amici della Scala, 1985 (Musica e Teatro, 1), p. 147.
10 Ivi, pp. 148-149 (lettera al padre del 25 giugno 1862).
11 Segnaliamo la copia (datata 19 marzo 1862) delle prove di concorso fatte da Durante e da Marchitti per la Real Cappella di Napoli il 21 aprile 1745 (I-mC Noseda M.37.2). Noseda a sua volta ricambia la generosità di Mercadante con il dono della sua Sinfonia caratteristica su melodie popolari lombarde registrata da Rondinella nel catalogo della biblioteca del conserva torio napoletano il 20 luglio 1863 (I-NC Pacco 9.8.5/19).
Figura 5: I-MC Noseda M.16.15. c. 1r
Figura 6: I-MC Noseda M.16.15. c. 1v
Figura 7: I-MC Noseda M.16.15. c. 2r
Figura 8: I-MC Noseda M.16.15. c. 2v (riproduzioni per gentile concessione del Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi” Milano).
Quale basso viene scelto per la prova? Compulsando i manoscritti napoletani ritroviamo una raccolta di partimenti attribuiti a Francesco Durante che include lʼesercizio rubricandolo al numero 31 (I-NC 34.2.3) e una raccolta che lo contrassegna con il numero 32 (I-NC 34.2.4).
La figura 9 riproduce le occorrenze del partimento (contrassegnato dalla nume razione Gjerdingen Gj number 0232) nelle fonti (manoscritte e a stampa) censite nellʼUppsala Partimento Database. 12 La prima colonna reca la collocazione del volume manoscritto, la seconda riporta la prima carta del partimento (41v), la terza riporta la stringa relativa allʼincipit del partimento (D F A B♭ A G F E D C♯), la quarta le occorrenze del partimento con le rispettive carte o pagine nelle fonti manoscritte e a stampa13 censite.
Figura 9: PETER VAN TOuR, UUPart, The Uppsala Partimento Database. Compiled and edited by Peter van Tour. Launched 2015, Uppsala. <http://www2.musik.uu.se/UUPart/UUPart.php> (ultima consultazione 20 ottobre 2021); occorrenze del partimento di Francesco Durante (n. 31 I-NC 34.2.3 c. 41v).
Mercadante (verosimilmente coadiuvato da Francesco Rondinella o da Francesco Florimo) attinge al primo dei due volumi (I-NC 34.2.3). Il partimento originale (in re minore, ottantatré battute, notato in chiave di tenore, Figure 10-11) viene trasposto in sol minore (di fatto leggendo in chiave di basso) e ridotto a settantacinque bat
12
Cfr. peTer VAN Tour, UUPart, The Uppsala Partimento Database. Compiled and edited by Peter van Tour, Uppsala, Launched, 2015. <http://www2.musik.uu.se/UUPart/UUPart.php> (ultima consultazione 20 ottobre 2021). La stringa da ricercare è D F A B♭ A G F E D C♯.
13 HIppolyTe rAymoNd ColeT, Partimenti ou Traité Spécial de lʼAccompagnement pratique au piano, Paris, Langlet, 1846, p. 173 (Leçon 180). Nellʼedizione di Colet è omessa lʼattribuzione a Durante. Nella Préface Colet afferma di avere attinto a Fenaroli, a Sala e ai «meilleurs auteurs classiques».
Mercadante, son due gran noMi
tute; le prime trenta rimangono inalterate, alla trentunesima è riproposto lʼincipit in la minore.
Figura 10: FRANCESCO DuRANTE, Partimento n. 31, I-NC 34.2.3 c. 41v
Figura 11: FRANCESCO DuRANTE, Partimento n. 31, I-NC 34.2.3 c. 42r (riproduzioni per gentile concessione del Conservatorio di musica “San Pietro a Majella”)
Napoli).
Lʼattribuzione a Durante – annotata da Rondinella – era stata resa esplicita anche ai candidati? Un percorso facilitato per quanti si erano certamente allenati armonizzando e ʼdisponendoʼ esercizi di repertorio?
Qualche considerazione conclusiva sulla ʼscuolaʼ di Durante e sul tributo alla tradizione didattica, di cui Mercadante è stato a lungo considerato unico erede della propria generazione. A poco piú di mezzo secolo dal suo ʼdebuttoʼ in società Mercadante («uno dei piú grandi sostegni e forse ultimo della nostra secolare scuola»,14 per attingere a Florimo) ricorre a un partimento che egli stesso potrebbe aver armonizzato negli anni di apprendistato15 e sul quale verosimilmente ha fatto esercitare a lungo i suoi allievi. Un partimento il cui stile risultava familiare al candidato vincitore.
Il passaggio di testimone a Paolo Serrao, formatosi anche agli insegnamenti di Francesco Lanza (pianoforte), di Gennaro Parisi («partimento od armonia sonata») e di Carlo Conti (contrappunto e composizione), è altamente simbolico e perfetta mente in sintonia con un ideale filo rosso di continuità. Pochi anni dopo a Serrao – chiamato a far parte della commissione16 destinata a stilare un progetto di riforma dei conservatori – sarà dato il compito di raccogliere il testimone e di proseguire in linea con gli insegnamenti ricevuti e di mediare con altre scuole, in primis quella rappresentata da Lauro Rossi,17 succeduto a Mercadante alla direzione del conser vatorio napoletano nel 1871.
14 FrANCeSCo FlorImo, Cenno storico della scuola musicale di Napoli, I, Napoli, Lorenzo Rocco, 1869, p. 660.
15 Sulla formazione di Saverio Mercadante presso il Collegio di musica di Napoli sotto la guida di Niccolò Zingarelli rimandiamo a mArIATereSA dellABorrA, I quaderni di studio di Saverio Mercadante «primo allievo del R. Conservatorio di musica» di Napoli, in Lʼinsegnamento dei con servatorî cit., pp. 521-544. Si legga anche la testimonianza di Giuseppe Sigismondo: GIuSeppe SIGISmoNdo, Apoteosi della musica del Regno di Napoli, a cura di Claudio Bacciagaluppi, Giulia Giovani e Raffaele Mellace con un saggio introduttivo di Rosa Cafiero, Roma, Sedm, 2016 (Saggi, 2), pp. 120, 228, 243 («spero di vederlo noto al mondo intero come un altro Pergolesi, un Leo, un Jommelli»); roSA CAFIero, Il mito delle «écoles dʼItalie» fra Napoli e Parigi nel decen nio francese: il collegio di musica e il conservatoire, in Musica e spettacolo a Napoli durante il decennio francese (1806-1815), a cura di Paologiovanni Maione, Napoli, Turchini Edizioni, 2016 (I Turchini saggi), pp. 323-391.
16 Nel 1871 Serrao prende parte della commissione incaricata dal ministero della Pubblica Istru zione di redigere un progetto di riforma dei conservatori; nel gruppo di lavoro, coordinato da Giuseppe Verdi, figurano Alberto Mazzucato, Antonio Buzzi (in sostituzione di Gaetano Gaspa ri) e Luigi Ferdinando Casamorata.
17 Cfr. mArINA mArINo, Lauro Rossi ed un suo mancato progetto di riforma del conservatorio di musica “San Pietro a Majella” di Napoli (1877) attraverso le pagine del periodico «La Musica», in Francesco Florimo e lʼOttocento musicale, Atti del Convegno (Morcone, 19-21 aprile 1990), a cura di Rosa Cafiero e Marina Marino, Reggio Calabria, Jason, 1999, II, pp. 861-874.
Generi, contesti, esperimenti della composizione per orchestra di Mercadante
La produzione di Mercadante piú nota nel campo strumentale è quella dei Con certi per strumento solo e orchestra, che tuttavia non è sufficiente a testimoniare lʼimportanza di questa sezione del suo catalogo. I Concerti (per flauto o per clari netto), sono allineati a un linguaggio convenzionale prevedibile e con scarso inte resse armonico, senza sperimentazioni di scrittura dʼinsieme né particolari interessi formali; insomma produzione di consumo. Al piú tardi dal 1860, però, tutto cambia nella produzione per orchestra: subentra una mentalità diversa, dove si riduce lo spazio per la convenzione e Mercadante non si contenta piú di una comune scrit tura elegante o dʼintrattenimento; si direbbe che la prodizione sinfonica inizia un processo di emancipazione dal semplice svago sonoro, non piú sufficiente né al compositore né al nuovo uditorio a cui sa di rivolgersi. Nel decennio delle società di concerti professionalizzate, subito dopo lʼUnità, la composizione sinfonica eleva immediatamente le mire, lʼambizione culturale, il livello estetico. Insomma siamo prossimi alla concezione estetico-contestuale che contraddistingue la “rinascita strumentale italiana”.
Si è discusso a lungo se questa “rinascita” sia stata un fenomeno reale o unʼinvenzione degli storiografi ex post;1 anche grazie allo studio della tarda pro-
1 Ne parlo approfonditamente in Giuseppe Martucci, un solitario e formidabile cammino, in Giu seppe Martucci. Gli autografi della Collezione Pagliara di Napoli, Lucca, lIm, 2009, pp. 11-32; ed anche nella Musica e storia della Nuova Italia attraverso la figura di Sgambati, in Giovanni Sgambati, Milano, Curci, 2018 pp. 2-37. Diviene evidente in questi scritti che i compositori strumentali e sinfonici italiani del medio e tardo Ottocento non possono essere ridotti al ruolo di semplici epigoni o pionieri, o in ritardo in anticipo (su cosa poi?), ma sempre fuori del loro tempo. Non è mai cosí: dal tardo Mercadante a Martucci sono tutte risposte a esigen ze vive e attuali del cotesto, che ovviamente non è quello germanico, per cui applicando evi denze contestuali di cerchie e realtà socio-culturali diverse il risultato non può che esserne inficiato, la lettura storica falsata. Sono semmai altri i settori dove un evidente influsso ger manico diviene evidente; la produzione sinfonica di Alfredo Catalani, parte di quella di Anto
Generi, contesti, esperimenti duzione orchestrale di Mercadante siamo ora in grado di fornire una risposta a mio avviso solida e attendibile, e sostenere che di vera e propria “rinascita” di può parlare, ma nella giusta prospettiva: non è stata affatto un semplice fenomeno statistico dato che in termini puramente numerici si componeva di piú nella prima metà del secolo, ma erano quasi sempre semplici brani come ouverture in tempo unico, concertoni o concerti dalla fisionomia preformata in ogni suo aspetto, composizioni destinate a una sola esecuzione, appunto da consumare in un unico ascolto e poi rinnovare ogni volta. Con il decennio delle società dei concerti (i Sessanta, appunto) la media statistica ossia il numero assoluto cala, ma si innalza progressivamente il livello e lʼambizione della composizione sinfonica, e in questo senso Mercadante è uno dei primi autorevoli testimoni di questa nuova direzione. Insomma, se di “rinascita strumentale italiana” vogliamo parlare ancora, e mi sembra del tutto legittimo, dob biamo considerare il fenomeno sul piano della storia culturale, dobbiamo leggerlo come una svolta verso la composizione piú impegnata, una risposta a un uditorio desideroso di maggiore impegno. Non si tratta, perciò, di una semplice questione numerica o statistica.
Ecco per esempio come ne è consapevole uno dei piú acuti osservatori del momento, Alberto Mazzucato: come direttore del conservatorio di Milano, Mazzu cato infatti pensa in primo luogo a migliorare la qualità dellʼesecuzione e dellʼascolto, dando al conservatorio una forma di centro attivo per realizzare un miglioramento culturale ben la di là della semplice esecuzione materiale. Nella «Gazzetta musicale di Milano» scrive un lungo saggio dʼintenti programmatici che va nella direzione stessa che stiamo delineando. Secondo Mazzucato «Biblioteca e Museo porrebbero argine alla fugacità di questʼarte»; a cui aggiunge dieci corollari (storia, tradizione italiana, prassi esecutiva di tradizione nazionale, musica religiosa, erudizione sto rico-letteraria, scuola collettiva ecc.) dalla cui sinergia scaturirebbe senza errori una nuova civiltà, una nuova sociabilità della musica.2
nio Smareglia, Gaetano Coronaro, certo Franco Faccio orchestrale, Luigi e il fratello Marino Mancinelli. Per parlare di rinascita si dovrebbe assistere a una corrente alternativa e autono ma, consapevole e legata ad autorità di comune riferimento. E questo avviene in Italia piú tardi, quando Mercadante è realmente “fuori del giro”. È il “decadentismo italiano in Europa” che trova in Martucci e Puccini i suoi campioni (ANToNIo roSTAGNo, Martucci e Puccini. Decadentismo musicale italiano, in Giuseppe Martucci e la caduta delle Alpi, a cura di Antonio Caroccia, Francesca Seller e Paologiovanni Maione, Lucca, lIm, 2009, pp. 372-396). In ogni caso, il testo di riferimento per la mole di informazioni rimane SerGIo mArTINoTTI, Ottocen to strumentale italiano, Bologna, Forni, 1971, sebbene privo di un taglio storiografico qualun que sia, attento solo a radunare disjecta membra sotto labili etichette per lo piú crono-geogra fiche.
2 AlBerTo mAZZuCATo, Il nuovo regolamento del Conservatorio [traggo queste notizie dalla IV puntata], «Gazzetta musicale di Milano» XX/45, 9 novembre 1862. In questo fondamentale articolo Mazzucato aveva postulato elementi di innovazione di grande rilievo: accusata la musica strumentale di essere estranea auspica premi per composizioni strumentali «almeno fino a che il cresciuto favore non accresca il valor materiale di siffatto nobilissimo genere»
Se Milano e Firenze si muovono a ritmi rapidi, Napoli non sta ferma, sebbene con iniziative di genere un poʼ diverso. La produzione di Mercadante si fa intensa, termina il lavoro come operista anche a causa della cecità e riversa le sue attenzioni sulla strumentale, tanto nel campo orchestrale quanto in quello sinfonico-corale, trovando un ambiente favorevole.
Gli anni Sessanta: nuove società di concerti, nuovi modi di ascolto Inutile qui fare un abbozzo di catalogo di questa produzione, né individuarne capo lavori dimenticati; ma la produzione del “decennio orchestrale” di Mercadante (i Sessanta) è degna di attenzione. Non fosse altro perché siamo nel decennio in cui iniziano in tutta la penisola segnali di una nuova cultura musicale esterofila, quella stessa che preoccupava Verdi:3 è il decennio delle Società del quartetto,4 a cui Verdi avrebbe voluto contrapporre “Società del quartetto vocale”. Eppure lo stesso Verdi nel 1873, non per caso a Napoli, compone il suo unico Quartetto per archi; parrebbe
segno di mutamento socio-economico. Forse un poʼ ottimisticamente, poi, constata la pro gressiva maturazione del pubblico. E conclude rilevando la necessità, per lʼesecuzione della musica moderna, di unʼampia cultura analitica anche nei violinisti ed esecutori concertisti e orchestrali. «Le orchestre italiane difettano di buoni violinisti. Gli allievi devono poter udire i loro lavori per orchestra» (Id., ibidem XX/54, 26 ottobre 1862, II puntata).
3 Fra le diverse lettere in cui Verdi esprime la sua contrarietà alla disseminazione delle Società del Quartetto nelle città italiane, nel suo disegno di costruzione di una cultura nazionale che non disperdesse le proprie caratteristiche, è qui sufficiente ricordare quella dellʼaprile 1878 (minuta, destinatario ignoto; I copialettere di Giuseppe Verdi, pubblicati e illustrati da Gaetano Cesari e Alessandro Luzio, Milano, Tip. Stucchi Ceretti & C., 1913, p. 626; rist. anast. Sala Bolo gnese, Forni, 1987): «Dodici o quindici anni or sono, non ricordo se fu a Milano o altrove, mi nominavano presidente di una Società del Quartetto. Rifiutai e dissi: Ma perché non istituire una Società di quartetto vocale? Questa è vita italiana. Lʼaltra è arte tedesca. Era forse anche allora bestemmia come adesso, ma unʼistituzione del Quartetto vocale che avesse fatto sen tire Palestrina, i migliori suoi contemporanei, Marcello etc. etc. avrebbe tenuto vivo in noi lʼamore del canto, la cui espressione è lʼopera». Per inciso, le parole di Verdi non caddero nel vuoto, poiché alla fine degli anni Settanta a Milano fu attiva precisamente una società per le esecuzioni corali, la Società del Quartetto Vocale milanese, fondata e diretta da Martin Roeder («Gazzetta musicale di Milano» XXXIII/1, 6 gennaio 1878, s.n. Alla rinfusa, pp. 6-7). Roeder dispone di voci “istruite nella musica” (non dilettanti, lʼazione del coro non è il diletto, ma la formazione culturale continua), che cantano solo polifonia a quattro parti. Roeder poi è ber linese, e questo fatto proprio negli anni del cecilianesimo italiano è un problema di carattere nazionalista. In alcune occasioni Roeder tentò il ricupero di esecuzioni a parti ridotte, con due-tre cantori per voce, anche per prendere le distanze da una seconda società corale atti vissima in città, la Società Corale Milanese di Alberto Leoni, con la quale la Società del Quar tetto Milanese si sviluppa anche una certa tensione o competizione.
4 Ho proposto e argomentato la divisione in decenni (i Sessanta decennio delle Società del Quartetto, i Settanta decennio delle Società orchestrali, gli Ottanta il decennio delle grandi manifestazioni pubbliche) in La musica per orchestra italiana nellʼOttocento, Firenze, Olschki, 2003.
Generi, contesti, esperimenti una casualità, ma non è esattamente cosí: Verdi aveva in mente di scrivere un quartetto almeno dal 1865, come attesta lʼepistolario con Angelo Mariani,5 quindi la decisione del 1873 non deriva solo dallʼimprevista pausa nelle prove della prima locale di Aida, ma consegue a un processo che ha origini lontane. E allora, perché proprio a Napoli? Evidentemente la piazza non aveva nulla di meno rispetto alle piú forti capitali della cultura strumentale italiana come Firenze o Milano; e questo va a merito anche del tardo Mercadante, che spese molte energie in questo settore. La celebre “rivoluzione teatrale mercadantiana” lo aveva messo in grado di lavo rare su minimi particolari, restringere lʼattenzione sui dettagli tanto della forma quanto dellʼorchestrazione. La qualità della scrittura si era molto evoluta nella direzione del trattamento motivico a volte assai raffinato nei tempi di attacco e di mezzo; con lʼesito di acuire la resa scenica, il “momento scenico”, il punto preciso che spicca dalla pagina, un traguardo agevolmente applicabile poi anche nella com posizione strumentale. Dopo il culmine in tal direzione, collocabile negli anni del Bravo (1939) e del Reggente (1843), Mercadante applica i risultati anche ad altri generi e nel tardo sinfonismo troviamo molte particolarità degne del massimo interesse. Si potrebbe dire, vista la situazione, che la composizione orchestrale fosse il logico sbocco di decenni di lavoro in questa direzione, e si potrebbe dire che questa sia una mentalità a suo modo rivoluzionaria che, prendendo le mosse dal teatro, trova un suo ultimo e non minoritario sbocco nella produzione orchestrale. La conduzione armonica è del tutto inusuale, con lasciti e imprestiti che certo non possono farsi risalire allʼonda lunga appresa sui partimenti, ma direttamente dalla resa a teatro. Il fare persino gluckiano, a ben guardare, non è assente neppure in brani orchestrali monumentali come Il lamento del bardo o lʼOmaggio a Rossini, quindi non solo nelle grandi opere teatrali della maturità come La Vestale o Il Bravo.
A questa situazione personale si sposa perfettamente la condizione contestuale cittadina. Cosa accadeva a Napoli in quel momento è noto: era una città musical mente molto attiva in concerti pubblici e nei salotti (sí da giungere spesso alla recensione giornalistica): fra lʼattività del Circolo Bonamici dal 1863 e i primi Con certi Popolari diretti nellʼestate del 1862 da Bottesini, con lʼappoggio dello stesso Mercadante.6 La penisola, dopo lʼUnità si muove abbastanza uniformemente fra i
5 Lettera di Angelo Mariani a Giuseppe Verdi, Cesena, 20 agosto 1865: «Ho letto in un giornale che tu stai componendo un quartetto ed una Sinfonia, è vero? - È una notizia che fu tolta dallʼArte Musicale di Parigi, giornale di Escudier, il che mi farebbe credere che ciò fosse vero». (SantʼAgata, Villa Verdi, Archivio Verdi, Epistolario Mariani consultabile in riproduzione pres so lʼIstituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma)
6 È la prima iniziativa in Italia a darsi il nome poi divenuto consueto di “concerti popolari”. La stagione, programmata in sedici concerti, si ridusse a soli sei concerti, nei quali Bottesini diede una pionieristica prova di sé come direttore sinfonico. I programmi erano piuttosto leggeri, con prevalenza di brani brevi e trascrizioni, fra cui spicca unʼesecuzione parziale della Seconda Sinfonia di Beethoven (reNATo dI BeNedeTTo, Beethoven a Napoli nellʼOttocento, II, «Nuova Rivista Musicale Italiana» V/2, marzo/aprile 1971, pp. 201-241: 202.)
Sessanta, che ho chiamato “il decennio delle società del quartetto”, e i Settanta, “il decennio delle società orchestrali”:7 nel 1862 Firenze, prossima a diventare Capitale del Regno, avvia la prima Società del Quartetto stabile, che nel 1863 avvia anche Concerti popolari per orchestra (dir. Teodulo Mabellini); nel Centenario di Dante, il 1865, diverse sono le composizioni dedicate, da Pacini a Mabellini, da Carlo Romani a Gialdino Gialdini, Baldassarre Gamucci e altri. Nel 1864 apre lʼattività anche la Società del Quartetto di Milano (che include esecuzioni sinfoniche dellʼorchestra della Scala).
Sono cose note, ma non sempre è nota la musica che quellʼambiente ha pro dotto, ancora nata e consumata con la mentalità dellʼeffimero, della composizione di occasione, che tanto a lungo accompagna la musica strumentale in Italia. Ancor prima che una questione di tecnica compositiva o di estetica, quindi, lʼassenza di un repertorio strumentale italiano è la conseguenza dallʼatteggiamento dʼascolto, del comportamento della società piú che dai concetti e costrutti strettamente musicali. La composizione strumentale non genera repertorio nelle abitudini italiane del medio Ottocento, perché è destinata ad Accademie Filarmoniche o concerti episodici, quindi o esecuzioni private o occasionali. Possiamo dire che la condizione della musica orchestrale italiana dellʼ800 dipende piú dalla situazione performativa che dalla sostanza compositiva.
Eppure le novità della composizione orchestrale di Mercadante lasciano il segno in alcuni allevi, per esempio Costantino Palumbo (anche suo scriba nel periodo della cecità) divenne a sua volta un apprezzato compositore sinfonico con buoni risultati come il poema sinfonico Rama, fra altri; e da questo contesto in movimento nei Settanta inizia la parabola del maggiore compositore sinfonico dellʼOttocento italiano, Giuseppe Martucci.8
La linea quindi si può tracciare con chiarezza, nel percorso che congiunge Nicola Antonio Zingarelli, Mercadante, i suoi allievi e Martucci, una linea culturale parallela, complementare ma alternativa alla tradizione dei partimenti, a cui non è possibile ridurre molti dei princípi del genere orchestrale di Mercadante e del suo periodo, un genere che segue altre vie, altri indirizzi, altri obiettivi e richiede un diverso atteggiamento allʼascoltatore.
A Rossini. Sinfonia (1864)
Propongo subito un estratto dal “decennio orchestrale” di Mercadante, quando lʼormai cieco compositore (dal 1862) detta le partiture agli allievi e collaboratori; i frontespizi indicano fra essi Carlo Panara e il già ricordato Costantino Palumbo.
7 Vedi nota 4.
8 Martucci avvia il suo catalogo molto presto, nei Sessanta, ma nei Settanta attivano le prima composizioni di grande respiro come la Sonata per pianoforte, quella per pianoforte e violino e il Quintetto.
Generi, contesti, esperimenti
La sinfonia A Rossini (da non confondere con le quasi omonime Omaggio a Ros sini, Omaggio allʼimmortale Rossini - Fantasia, Sinfonia su temi dello Stabat Mater, A Rossini | Inno | Con grandi masse vocali strumentali eseguito nei festeggiamenti della posa del busto in Pesaro il giorno 21 agosto 1864) è di indubbio interesse. Anche lʼOmaggio a Rossini, che però qui non trattiamo, presenta tutte le caratteri stiche sopra indicate, brevità di motivi, sovrapposizione e deduzione di un motivo da un precedente, strumentazione sempre attenta a far risaltare il lavoro motivico anche nei particolari, alternata alla strumentazione pesante per le sezioni come la transizione fra primo e secondo tema, le zone cadenzanti, la coda.
Il deciso interesse impone di considerare la Sinfonia A Rossini un prototipo della Sinfonia nuova, non limitata allo schema di convenzione rossiniana: parlo della sinfonia ciclica, che sotto lʼapparenza di temi semplici spicca per la sua compat tezza, unicità di concezione, insomma pienezza dei mezzi compositivi impiegati.
Figura 1: frontespizio della partitura (copia) della “sinfonia a grande orchestra” A Rossini eseguita in Pesaro nellʼagosto 1864. (I-NC, 41.7.31).
Figura 2:
Delle feste fatte in Pesaro in onore di Gioacchino Rossini nel suo dí onomastico, 21 agosto 1864, Pesaro, Annesio Nobili 1864, (il comitato della neo-istituita “Società Rossiniana” era presieduto da Giovanni Pacini).
Esempio 1:
SAVERIO MERCADANTE, A Rossini , bb. 1-6.
Dal primo elemento viene derivato il tema principale a b. 23 poi ampiamente sviluppato per tutta la sezione Andante; dal secondo si genera il tema principale dellʼAllegro con spirito (b. 57) in modo molto elegante e leggero; infine il terzo materiale, la scala discendente di quattro suoni, diviene il tessuto connettivo comune e facilmente adattabile ad ogni situazione, per esempio il tema secondario dellʼAllegro stesso (bb. 103-104, la scaletta discendente). Anche trascurando le assonanze con temi rossiniani (non è qui il citazionismo, lʼomaggio diretto che interessa Merca dante), già da questi brevi estratti si manifesta la pienezza della circolazione dei motivi esposti in inizio e continuamente variati nel carattere, sempre nella lineare semplicità di realizzazione.
Esempio 2:
SAVERIO MERCADANTE, A Rossini, tema principale dellʼAndante [sviluppo melodico del motivo A].
Esempio 3:
SAVERIO MERCADANTE, A Rossini, tema principale dellʼAllegro con spirito [sviluppo melodico del motivo B].
Questo è un modo di procedere comune per il Mercadante tardo, e mi pare pro prio perciò degno di nota: il derivare, il dedurre varianti da nuclei non abbandonati alla loro prima comparsa, né semplicemente ripetuti dove la forma lo richieda.
Questi esempi mostrano anche come i tre motivi esposti in successione alle battute 1-6 siano sviluppati non secondo una logica costruttiva dei partimenti, ma secondo quella della continuità dialettica nellʼorganizzazione del tempo musicale: quello che prima era separato, frammentario, ora è divenuto ampia melodia e si attesta come la logica espressione di un intreccio, senza sottostare aprioristicamente a norme compositive o schemi sintattici preordinati.
Al tempo stesso questa Sinfonia è un saggio di orchestrazione mercadantiana, elogiata anche da Franz Liszt; pur lontanissimo dalla strumentazione ideale, visio naria dei grandi contemporanei, dʼaltra parte pur rimanendo legato alla prassi ita liana di strumentazione a timbri puri o a raddoppi sistematici, Mercadante mostra alcune singolarità della scrittura orchestrale, che possono cosí riassumersi:
1. uso di ottoni e legni non solo solistico e non solo come ripieno armonico, ma per colorare i temi con maggior vivacità: per esempio alcune note tenute dei corni, alcuni disegni di sfondo divisi fra famiglie;
2. la scrittura di melodie e contromelodie a intarsio, sia con raddoppi episodici (per esempio trombe che accompagnano o lʼavvio o lʼapice di un tema);
3. archi impiegati in funzione timbrica indipendentemente da funzioni armo niche o da andamenti melodici: basta un esempio di una serie di raffiche puramente timbriche nellʼOmaggio allʼimmortale Rossini per mostrare lʼuso non sintattico-funzionale, ossia non finalizzato a chiarire il percorso sintattico armonico, come si faceva usualmente per esempio con i corni tenuti nelle modulazioni principali secondo la convenzionale dellʼouverture rossiniana;
4. vitalità di raddoppi o di strumentazione variata nelle ripetizioni di motivi ricorrenti, soprattutto evidente nel Lamento del bardo di cui parlo qui in chiu sura.
Un poʼ di teoria della storiografia musicale
Ho voluto anticipare un esame della musica perché siano piú chiare le riflessioni storiografiche che ora avanzeremo. È il momento ora di completare lo sguardo dʼassieme, per poi chiudere con lʼesame ravvicinato di unʼultima partitura.
Nella sinfonia A Rossini, nonostante lʼelaborazione motivica quasi continua, non è difficile rintracciare i cardini della forma rossiniana; ma proprio questo è il dato che toglie anziché assegnare interesse a questa produzione, comʼè ormai chiaro. Il saggio di riferimento per questo tipo di analisi rimane ancora quello che Philip Gossett dedicò allʼargomento nel 1979.9 Nella consuetudine della sinfonia-ouverture
9 pHIlIp GoSSeTT, Le sinfonie di Rossini, «Bollettino del Centro rossiniano di studi» 19/1-3, 1979,
Generi, contesti, esperimenti italiana ottocentesca Gossett insiste sulla forma a due temi senza sviluppo centrale, una “solita forma” come le altre.
È il momento di riflettere su quel saggio, e in generale sul suo concetto di “sinfonia rossiniana”, non cosí semplice e puramente tassonomico. Il punto di vista di Mercadante, che al tempo stesso conserva tanto quanto modifica il modello rossiniano, è il piú adatto per avviare questa revisione storiografica della musica per orchestra italiana del medio Ottocento al di là della “sinfonia rossiniana” nella formalizzazione di Gossett. Come tutte le “solite forme”, anche la sinfonia-ouverture è assai resistente, la sua sintassi permane a lungo grazie alla sua pronta efficacia (verso un pubblico che si accontenta di riconoscere le forme, mentre abbiamo visto che nellʼambiente napoletano si viene formando un uditorio con piú alte ambizioni), per cui è facile vederne i tardi sviluppi in Mercadante, fino alla sua liquidazione definitiva. Ma questa visione storiografica è possibile proprio grazie alla resistenza e longevità del modello schematizzato magistralmente da Gossett. Questʼultimo, nel saggio citato, si faceva portavoce consapevole di una cultura strutturalista, una radicale riduzione dellʼindagine ai dati interni alla sinfonia e alla sua evoluzione tecnica; ben poca attenzione era dedicata al contesto storicoculturale, non al fatto che tanto i costrutti musicali quanto la grande forma siano frutto di una sociocostruzione, di una negoziazione (implicita o intenzionale) del compositore con tutto ciò che lo circonda e con la rete di relazioni in cui è immerso (lo voglia no, lo sappia o no). Una delle piú profonde avversioni di Gossett era quella che lui chiamava genericamente musicologia postmodernista, intendendo con ciò soprattutto i Cultural Studies, ai quali Gossett ha sempre voluto sottrarre la lettura di Rossini. Il saggio sulla sinfonia rossiniana, allora, non è solo un saggio su Rossini, ma anche un saggio di teoria storiografica, una testimonianza di strutturalismo musicologico e della concezione di musica assoluta sia pur riconsiderata (lo strut turalismo in tal senso non è un materialismo culturalista oggi tornato in auge, ma un idealismo basato sulla storia materiale; la distinzione è profondissima e senza di essa è inutile parlare di materiale musicale, di astrattezza strutturale, di forme o di solite forme).10
Ma se ci spingiamo oltre la visione a suo tempo necessaria impostata da Gossett, possiamo leggere la sinfonia italiana sotto un punto di vista opposto; la si può immaginare radicalmente sociocostruita, determinata da un ambiente tanto quanto frutto di impulsi personali, una simbiosi che porta frutti maturi nel Lamento del bardo, che vedremo fra poco.
È tempo di chiedersi se questa analisi sulla via segnata da Gossett, unʼanalisi astratta dalla cultura circostante, può portare a significative conclusioni nel caso pp. 7-123. 10
La situazione viene sintetizzata in due saggi dal musicologo americano: Carl Dahlhaus and the “Ideal Type”, «19th Century Music» XIII/1, summer 1989, pp. 49-56: 52, o anche Verdi, Ghi slanzoni and Aida: The Uses of Conventions, «Critical Inquiry» Dec. 1974, pp. 291-334: 321
della sinfonia italiana medio-ottocentesca. Per dirla chiara: in comunità di cul tura come quelle di Vienna, Londra, Dresda o Lipsia, il compositore scrive per un pubblico che vuole dalla sinfona quella doppia finalità di profondità e grandiosità, vuole riconoscersi come ascoltatore colto, vuole che gli si parli con un linguaggio adeguato al suo livello culturale, vuole “mettersi alla prova”. Similmente Rossini sa di rivolgersi a uditori che hanno forte conoscenza dʼascolto e la sua sinfonia è un numero atteso per la quantità e qualità delle sorprese che essa riserva, pur nel quadro di riferimento sempre limpido e riconoscibile fino a Semiramide.
Ma per quale uditorio compone il musicista italiano fino alla metà del secolo? Lʼuditorio delle occasioni per cui si componeva ed eseguiva una sinfonia, il suo comportamento dʼascolto, non hanno nulla in comune con la situazione germa nica, né con la situazione in teatro; come si può immaginare allora di applicare un metro di valutazione nato per quel repertorio ad una composizione che nasce con tuttʼaltri intenti e in tuttʼaltra “comunità di sentire”? Lʼesame strutturalista in sé è del tutto opposto a questa cultura e mentalità, per cui occorre tenere presente la distinzione e non cadere nellʼautoinganno, proiettando su quel materiale musicale concetti e idee ad esso del tutto estranei. Ecco che cosí si spiega come la deduzione motivica sopra dimostrata non annulli ancora del tutto la forma della convenzione rossiniana, come il compositore non si spinga ancora alla forma dettata liberamente dai motivi. Ma questo non deve mettere in secondo piano lʼeffettiva novità della scrittura mercadantiana.
Le sinfonie di Mercadante degli anni Sessanta sono ancora nate per occasioni, non per impulso dʼispirazione, sono pur sempre musica dʼoccasione per essere consumata al primo ascolto, e un ascolto non esclusivo, non attento come lʼodierno concerto: il comportamento di ascolto è sempre diverso, piú discontinuo, non asso luto; si svolge in situazioni socialmente connotate. Il concerto sinfonico, che in Germania ha la forma attuale già a fine Settecento per esempio a Lipsia, a Dresda, a Berlino e che già nei primi decenni dellʼOttocento è pratica comune, in Italia non inizia prima degli anni Cinquanta in modo del tutto episodico (ne riporto alcune anticipazioni da Milano a Napoli in La musica per orchestra nellʼItalia dellʼOttocento). Ma sarà solo con il 1870 che si apre anche per lʼItalia quello che ho chiamato “il decennio delle società orchestrali”, ossia il concerto a repertorio, con stagioni stabili e concerti a cadenza regolare, con musiche attese dal pubblico stesso, che inizia a familiarizzare con un repertorio di opere che conosce sempre meglio, e che vuole ascoltare sempre meglio.
Solo da questo momento, compositori e pubblico condividono un nuovo com portamento, una nuova intenzione di elevare la composizione e concepire ogni ascolto come un progresso, una maturazione (andare al concerto per studiare, lʼatteggiamento che piaceva a Filippo Filippi, ma che altri giornalisti attivi sulla pur ambiziosa «Gazzetta musicale di Milano» come Salvatore Farina o Antonio Ghislanzoni non mancarono di criticare). E a chiarire tali scopi ci pensò poco piú tardi Giulio Ricordi stesso quando, allʼapertura della Società dei concerti di Milano
Generi, contesti, esperimenti scrisse sulla sua Gazzetta della volontà di «dotare Milano di una istituzione artistica la quale corrisponda veramente ai seguenti scopi: dilettare e commuovere, istruire ed elevare».11 Non occorrono commenti, se non che queste parole sono scritte nel 1878, quindi anche da questo punto di vista Mercadante sembra anticipare i tempi.
E lo stesso ripeteva Giuseppe Depanis a Torino quando affermava di ricercare «un identico scrupolo di equilibrio opportunistico nella composizione dei programmi. Lʼavviare il pubblico a gradi sulla buona strada senza urtarlo»12
Ma questo accade dopo la morte di Mercadante; per testimoniare la singolarità dellʼambiente napoletano e la posizione al suo interno dellʼormai anziano maestro, occorre riferirsi alle abitudini e ai comportamenti consueti prima del “decennio delle società orchestrali”, grosso modo fra il 1850 e il 1870. In questi decenni, generaliz zando, le audizioni di musica sinfonica possono avvenire in tre situazioni prevalenti:
• sono concerti nelle accademie per cerchie di élite, ma élite di censo non di cultura (le vecchie Accademia Filarmoniche), che concepivano lʼesecuzione orchestrale come una autocelebrazione (e infatti spesso i soci erano anche gli esecutori)
• oppure “beneficiate”, concerti nei teatri con cui un cantante si congedava da una città o uno strumentista solista si esibiva (Liszt, Paganini, Servais, Sivori, Piatti …), concerti dove la sinfonia aveva funzione solo introduttiva, certo distratta e distraente prima del “pezzo forte” del cantante celebre,
• infine cadono in occasioni sociali diverse, come commemorazioni o raduni in cui certo lʼattenzione allʼascolto è molto intermittente.
Nessuna di queste occasioni si svolgeva secondo modalità “da concerto” nel senso attuale:
e) non da parte del compositore, che scriveva con minore impegno rispetto alla composizione teatrale, f) non da parte degli esecutori: per lo piú la musica orchestrale si eseguiva a prima lettura, senza prove, e certo senza lʼimpegno che un Bellini imponeva alla Scala concertando le sue opere, come racconta di Alberto Mazzucato,13
11
12
GIulIo rICordI, Concerti popolare milanesi, «Gazzetta musicale di Milano» XXXIII/28, 14 luglio 1878, p. 248.
GIuSeppe depANIS, I concerti popolari ed il Teatro Regio di Torino. Quindici anni di vita musicale. Appunti – Ricordi, Torino, S.T.E.N., 1916, I, p. 49.
13 Alberto Mazzucato ricorda la precisione maniacale che precede la cavatina di Pollione «Meco allʼaltar di Venere» durante le prove della prima alla Scala nel 1831: «per turno, uno solo alla volta, e poi di nuovo da tutti assieme e sempre senza orchestra» (AlBerTo mAZZuCATo, A proposito di Roberto il Diavolo, «Gazzetta musicale di Milano» V/20-21 e 27, 20 e 24 maggio, 5 luglio 1846).
g) non da parte degli ascoltatori, che intendevano la funzione della sinfonia come preludio allʼAccademia, o come interludio per dare riposo a cantanti o solisti, o ancora come conclusione e congedo “disimpegnato” dellʼuditorio.
Mancando la continuità, il radicamento nelle abitudini, tali condizioni perfor mative impongono lo stile, ma anche il comportamento e la generale concezione del sinfonismo italiano medio-ottocentesco: impongono il consumo immediato (quindi lʼassenza della formazione di repertorio), impongono un riconoscimento consumistico, impongono un ascolto poco attento e senza riflessione; ossia pro prio ciò che lentamente con Mercadante inizia a modificarsi nella direzione del moderno concerto.
E giunge allora la domanda: a quale scopo studiare oggi questi prodotti? quale utilità storiografica può avere lʼindagine di tale materiale e di tali ambienti e pro dotti? Ci sono molte risposte possibili, proprio perché siamo in una fase di passaggio e i compositori come Mercadante e diversi altri piú giovani avvertono i tempi nuovi e di conseguenza il loro lavoro compositivo tende verso nuovi obiettivi. Proviamo a dare risposte a quelle domande, e soprattutto a questʼultima, “qual è lo scopo di ristudiare oggi quel sinfonismo”:
h) non è la riscoperta di capolavori, piuttosto di una modifica della qualità media disseminata in una miriade di sottoprodotti di routine o di livello non elevato attraverso lʼintero secolo i) non è la particolarità di forme, non vige il principio estetico della “originalità”, estraneo alla civiltà orchestrale italiana di assai a lungo j) non è la rivelazione di genialità uniche e ineguagliabili: in Italia, attraverso il secolo, veri talenti sinfonici nel trattamento e scrittura orchestrale visionaria e innovativa o classica e solida (insomma i due estremi Berlioz e Mendelssohn, Wagner e Brahms) non compaiono se non con la tarda eccezione di Giuseppe Martucci (la sua Prima Sinfonia è però del 1894, unʼaltra storia) k) non è indicare avanguardie e sperimentazioni che hanno generato storia e progresso (dʼaltronde il dogma del progresso è del tutto assente nella idea di musica orchestrale italiana che stiamo delineando).
E allora perché studiare queste partiture e il loro contesto di origine e di ese cuzione? Lʼunica soluzione è abbandonare la prospettiva strutturalista di Gossett, pur senza dimenticare nulla di quanto ha insegnato, ma usandolo per definire panorami culturali.
Possiamo a questo punto passare ad una diversa divisione del campo indivi duando allʼinterno della produzione orchestrale di Mercadante alcuni sottogeneri: la sinfonia funebre, la Fantasia sinfonica, la Sinfonia ciclica, la Sinfonia fugata; sono distinzioni di comodo, si possono modificare, ma mi paiono utili a dare un ordine
Generi, contesti, esperimenti sia pur generico. Vediamoli in breve. La sinfonia funebre è lʼomaggio che il compositore autorevole fa a un modello riconosciuto o a una figura di levatura storica non musicale. Di solito la commemorazione di un musicista implica la citazione di suoi temi famosi, il che fa asso migliare queste composizioni alle “fantasie orchestrali”. La commemorazione di un personaggio pubblico ha altre mire, ne vuole interpretare il carattere secondo la visione comune del personaggio celebrato; ma Mercadante non sembra attento a questa seconda modalità. Farò solo un esempio: quando si compone un omaggio a Garibaldi (come fa anche Mercadante nella sua Sinfonia Garibaldi, le cui partitura e parti sono conservate alla biblioteca del conservatorio S. Pietro a Majella)14 si impiegano ritmi guerreschi e armonie semplici, per lo piú in sonori accordi pieni e per lo piú girando intorno al tema dellʼInno di Garibaldi di Mercantini-Olivieri.15
Figura 3:
SAVERIO MERCADANTE, Garibaldi – Sinfonia “autografo dettato”. (I-NC, 10.7.15).
14 SAVerIo merCAdANTe, Garibaldi – Sinfonia. Dedicata allʼItalia, Napoli, Biblioteca del Conser vatorio San Pietro a Majella, aut. febbraio 1861.
15 È lʼarcinota melodia sui versi «Si scopron le tombe, si levano i morti | i martiri nostri son tutti risorti».
Similmente, la celebrazione del re Vittorio Emanuele II di Savoia non si toglie di dosso invece una forte esteriorità da banda. È quanto accade anche nella Sinfonia funebre per Carlo Alberto di Mercadante (1835/6-rev. 1856), che non si modifica neppure nellʼInno a Vittorio Emanuele II del 1862.
La Fantasia sinfonica e la Sinfonia “a tema” sono categorie collegate con la precedente. Qui spesso Mercadante fa “musica su musica”, e lascia diversi esempi di come lui vede le personalità musicali piú strettamente legate a Napoli: Rossini, Bellini, Donizetti, senza dimenticare lʼOmaggio a Pacini e persino quello a Paolo Serrao, la Fantasia sul Figliuol prodigo del 1868.
Come Fantasia sinfonica prendiamo ad esempio, non interessante come compo sizione (anzi piuttosto convenzionale nella grammatica come nella sintassi), ma per il programma, la Fantasia descrittiva “Insurrezione polacca”. Viene “espressamente composta e dedicata” infatti a una delle nuove società concertistiche fra le piú attive nella promozione delle novità e dei nuovi generi, promuovendo fra le molte inizia tive anche quella dei concorsi di composizione: è la Società dei Concerti Popolari di Firenze che proprio nel 1863 inizia la sua attività grazie ad Abramo Basevi e Teodulo Mabellini: già il fatto che questa iniziativa pionieristica in Italia, emula di un analogo e presto fallito esperimento di Bottesini a Napoli, si rivolgesse a Mer cadante per una nuova composizione nellʼanno inaugurale, indica come qualcosa stesse cambiando, e proprio Mercadante fosse già considerato una personalità di spicco nel campo orchestrale.
La Fantasia si divide senza soluzione di continuità in 4 sezioni:
• Parte 1a 1862 – Sacre dimostrazioni nei tempi, punite dai Russi
• Parte 2a 1862 – Coscrizione – Desolazione del popolo – Grido di guerra
• Parte 3a 1863 – Arrivo di volontari italiani – Combattimento – Nullo è ferito mortalmente – Ultimi momenti dellʼeroe garibaldino – Solenne giuramento di vendetta
• Parte 4a 1863 – Sollevazione generale – Falciatori – Carica – Vittoria
È una grande sinfonia a programma ma del tutto sui generis: è nettamente segmentata ed ogni sezione porta un costrutto nuovo, o meglio apparentemente nuovo. La semplicità esteriore dei temi, se si riesce ad astrarre dalla grammatica spesso convenzionale nasconde tecniche già pronte per le prossime realizzazioni cicliche. Piú o meno da metà di questa grande Sinfonia a programma, infatti, cade lʼepisodio del ferimento del Colonnello Nullo (figura mitica del risorgimento non solo italiano). Eccone un sunto
Esempio 4:
Ultimi momenti dellʼeroe garibaldino – Solenne giuramento di vendetta.
E inizia cosí una grande melodia del corno inglese poi intrecciati agli archi e ad altri strumenti concertanti, mentre continua il ritmo funebre. Mi limito a riportare questa notevole traccia melodica con le sue indicazioni armoniche:
Esempio 5:
Ultimi momenti dellʼeroe garibaldino – Solenne giuramento di vendetta: grande melodia finale.
Dopodiché si avvia una serie di episodi che, visti da lontano, disegnano una incalzante alternanza fra una sostanza ritmica di base ed episodi in contrasto, che si giustificano sul piano narrativo, come lʼarrivo dei falciatori, che ha grande spicco. Il materiale di base è quello della sezione denominata “Sollevazione generale” e il culmine della macrostruttura è la Vittoria finale. Come è chiaro, la costruzione non ha nulla di particolarmente ricercato, a volte giungendo quasi al banale, e anche il pubblico meno attrezzato la può seguire con estrema facilità; la manifestazione esteriore degli episodi ha una semplicità persino eccessiva in alcune sue movenze; eppure emerge già lʼintenzione di estendere il racconto, la stessa che è alla base appunto della sinfonia ciclica, qui ancora in forma di descrizione narrativa. Occorre poi tenere conto del fatto che la sinfonia a programma sta divenendo un genere a sé nellʼItalia del momento; non si contano i concorsi di composizione per sinfonie a tema, per esempio sullʼalfieriano Saul (con cui Antonio Bazzini vince il primo concorso per unʼouverture della Società del Quartetto di Firenze, voluto da Abramo Basevi nel 1869) o sullo Shakespeare ora al centro di molti interessi culturali (lo stesso Bazzini scrive una sinfonia sul Re Lear per il medesimo premio a Firenze nel 1871). Altra fonte può essere poi lʼispirazione dantesca: la SinfoniaDante di Giovanni Pacini nel 1864, ancora una volta Bazzini con Francesca da Rimini op. 77 (1878-9, rev. 1884-5). E già prima la stessa società aveva realizzato concorsi
di composizione sinfonico-corale con gran rilievo grazie allʼaiuto del Duca di San Clemente: ne troviamo un resoconto nel Boccherini di Firenze del 1865.16
I concorsi di composizione a Firenze hanno fatto sorgere molte Società per lo studio dei buoni autori, dice Meini, e un pubblico in grado di comprendere. Ciò atte sta che la pratica del concorso si sta ormai diffondendo e la Firenze che si prepara a divenire capitale vuole anche in questo rappresentare un modello; e Mercadante ne è certo consapevole.
Un singolare esempio di sinfonia omaggio a mezza via con la sinfonia a pro gramma è infine lʼOmaggio a Bellini; spendiamo solo un appunto per vedere come Mercadante costruisce la sinfonia, un dialogo che idealmente Mercadante instaura con Bellini, come a indicare un “aggiornamento” del dettato belliniano dal punto di vista della “riforma” mercadantiana.
Qualche esempio: nella seconda parte dellʼOmaggio a Bellini compaiono i temi derivati da Norma (prima erano stati citati un tema dal Pirata, uno da Capuleti e Montecchi, uno da Sonnambula). Con che criteri sono scelti e presentati? Come notava anni fa Wolfgang Osthoff a proposito del Verdi riscritto da Liszt nelle sue varie Réminiscénces, 17 anche qui la riarmonizzazione e la collocazione hanno funzione narrativa di sintetizzare o rammemorare un momento scenico, assegnandogli in tal modo una importanza narrativa. Non si tratta solo di modulare per collegare due temi altrimenti discontinui: Mercadante come Liszt sta creando/ricreando una narrazione, una sua nuova narrazione. LʼOmaggio non termina con il tema del grande rogo di Norma in cui ogni colpa trova redenzione, ma con una modulazione ad hoc sfocia nel tema del coro bellicoso «Guerra, guerra». La grande redenzione dellʼopera si aggira qui nella sinfonia fra Si e Mi maggiore, che conducono quasi come loro logica conseguenza al La minore del coro «Guerra, guerra». Il ʼmessaggioʼ finale è capovolto: dalla pace superiore, dal messaggio irenico dellʼopera, si torna alla guerra e allʼimmagine di un Bellini guerresco. In tal modo non è un percorso di ascensione dal conflitto fra popoli, religioni, individui, generi e generazioni al per dono catartico nella armonia universale, ma esattamente lʼopposto: dal crescendo che tutto purifica si ricade nella guerra, nel conflitto definitivo e insuperabile. Siamo certi che questa scelta sia solo “da concerto”? solo un modo per chiudere rumorosamente e attirare lʼapplauso di un pubblico poco attrezzato? e non abbia invece un significato narrativo ed espressivo? E similmente, tendo a pensare che la riarmonizzazione di Mercadante, insieme e consequenzialmente al capovol
16 VINCeNZo meINI, Antonio Bazzini a Firenze, «Il Boccherini» IV, suppl. al n. 3, 25 aprile 1865. Per completezza dʼinformazione, il concorso del Duca di S. Clemente fu vinto da Bazzini con la sequenza Victimae Paschali Laudes.
17 oSTHoFF WolFGANG, Verdi lʼinattuale. Esempi e paragoni, «Studi verdiani» 11, 1996, pp. 13-29. Ho ripreso questi argomenti in ANToNIo roSTAGNo, Trascrizioni, fantasie, parafrasi e rémini scences. Proposte interpretative delle tarde composizioni di Liszt su Verdi, «Quaderni dellʼIstituto Liszt» 14, 2014, pp. 67-94.
Generi, contesti, esperimenti gimento dellʼordine narrativo, sia un elemento assai eloquente di questo nuovo impegno (intellettuale prima che strettamente tecnico-compositivo). In conclusione, è lʼimmagine di un Bellini non solo lacrimevole e sentimentale, ma partecipe del processo risorgimentale, visto nei primi anni dellʼUnità appena raggiunta, del quale lo si vuole far attivo e partecipe combattente. Bellini diviene cosí un compagno di guerra, un attivo protagonista, indipendentemente da ogni sua reale intenzione. Questa lettura si può chiedere solo a un pubblico con capacità critiche di ascolto, che non si limiti allʼascolto passivo, ma che sappia reagire e interpretare i diversi costrutti compositivi. Questo, a Napoli, è un merito che va ascritto in larga misura a Mercadante.
La Sinfonia ciclica
La piú rilevante e personale acquisizione delle composizioni sinfoniche di Merca dante nel suo decennio orchestrale (anni Sessanta) è la tecnica ciclica, sʼè detto e ripetuto. Dopo la metà del secolo è il modello prevalente per quei compositori che intendano elevare il livello della loro produzione. Ovviamente ciò non vale solo per Napoli, ma qui grazie a Mercadante questʼaffermazione avviene prima che in altre piazze. Ho già accennato a Foroni (che in ordine cronologico e per compiutezza di risultati merita la piazza di primo esempio e modello) e Bazzini, certo i due mag giori, ma gli esempi sarebbero molti.
Concentro allora il fuoco sul Lamento del bardo (1862), che a mio avviso è la par titura piú cospicua in tal senso, il sunto di molto di quanto abbiamo detto sinora. La fortuna di questa partitura è testimoniata già dalla diffusione dei manoscritti (senza contare la partitura e la riduzione per pianoforte stampate da Ricordi sparse in molte biblioteche italiane):
1. I-mC Noseda, partit. ms (25 cc., c. 1 e c. 25 vuote; 47 pp.), 22 parti ms
2. I-Fem [Finale Emilia, Bibl. Comunale], partit. ms, 26 parti ms – altra copia 36 parti ms
3. I-rF [Roma, Archivio Chiesa Nuova, Oratorio dei Filippini] (H.I.3, 30 parti ms)
4. Bari, Giovinazzo, Archivio diocesano, Capitolo Cattedrale Ms.818.1-26
Il lamento del bardo non è affatto una sinfonia fatta a collage come potrebbe sembrare. La forma esteriore conserva tracce della ripartizione rossiniana consueta, Introduzione lenta – Allego centrale – Coda con stretta. Ma la particolarità (ponendo da parte per il momento la strumentazione) è che tutte le sezioni e tutti i temi che le attraversano provengono da una sola sostanza motivica, o variata, o amplificata con elementi sonori di contorno, o in inversione, o per sviluppo melodico. Ma senza che questa tecnica non comune nella sinfonia italiana (un caso analogo è la sinfonia della Battaglia di Legnano di Verdi, o ancor piú quella immediatamente successiva della Luisa Miller anchʼessa costruita su una sostanza tematica principale continuamente
variata) diventi mai evidente e assuma caratteristiche di difficoltà tale da richiedere un ascolto faticoso, riflessivo, analitico. Ciò che Mercadante non può superare è da un lato il riferimento a una chiarezza della grande forma, comunque sempre percepibile, dallʼaltro lʼapparenza di leggerezza. Mai la sua composizione strumentale prende lʼaspetto di ascolto difficile, faticoso, esclusivo; mai traspare lʼatteggiamento del distacco dallʼuditorio, della solitudine dellʼartista (che già emerge con grande evidenza nella successiva generazione di Martucci), eppure ha concreti motivi di interesse, valori estetici che rendono il Lamento un testo di alto interesse e non solo un documento di un particolare momento storico-culturale.
Esempio 6: SAVERIO MERCADANTE, Il lamento del bardo, tabella delle derivazioni motiviche che attraversano lʼintero organismo.
In questa tabella sono riassunte le trasformazioni del motivo principale; lʼesempio mostra quindi come lʼintera sinfonia sia costruita su una sola sostanza motivica. Al di sopra di questa omogeneità sostanziale, il tema nella sua formulazione iniziale ricompare nelle diverse sezioni come elemento narrativo di superficie. E le grandi sezioni di questo racconto in suoni sono sempre molto chiaramente distinguibili dal punto di vita percettivo. Tutto ciò non è per complicare a tutti i costi un quadro che è e vuole rimanere semplice. Al contrario, questo doppio piano di lettura, motivico e formale-sezionale, serve a chiarire il doppio intento di Mercadante: offrire a un
Generi, contesti, esperimenti
pubblico che sta cambiando atteggiamento verso il sinfonismo un prodotto di inte ressante profondità compositiva, ma al tempo stesso conservare la tradizione della sinfonia descrittiva in piú sezioni immediatamente riconoscibili. Non un poema sinfonico che guardi alla tradizione settentrionale, come poco dopo faranno Antonio Bazzini, Alfredo Catalani e altri, ma neppure una semplice ripetizione di formule della ouverture descrittiva in molte sezioni indipendenti e successive.
Sia chiaro, soprattutto, che nulla in questa forma a sviluppo continuo può essere riferito alla tradizionale forma del rondò, tanto quanto sarebbe riduttivo riportarle negli argini della sola sinfonia rossiniana. Insomma il percorso formale narrativo da un lato, e la costruzione ciclica dallʼaltro sono i due nuovi parametri della compo sizione, con una netta svolta dalla tradizione dei partimenti, non piú considerabili lo strumento base per condurre la composizione “ideale libera”: altra grande novità della tarda produzione orchestrale di Mercadante.
Questa tecnica ciclica ha un potenziale costruttivo che esula dalla tradizione dei partimenti, poggia il pensiero compositivo su basi del tutto autonome e diverse, assegna alla composizione sinfonica unʼidentità nuova, unʼambizione culturale diversa, moderna: è un nuovo impegno per compositori, esecutori e ascoltatori. Ne abbiamo ripercorso alcune vie, alcune tracce, collocando qui al termine Il lamento del bardo (pur cronologicamente anteriore a tante altre); se ne intende in tal modo indicare idealmente la posizione centrale: si avvia con essa il decennio delle acqui sizioni maggiori e i modelli di sinfonia post-rossiniana che abbiamo rintracciato in Mercadante sono in questo decennio da lui trattati tutti con risultati efficaci.
Si spiega cosí il commento di alto elogio fatto dal giovane Arrigo Boito, secondo il quale Mercadante «compié nellʼarte la piú vasta manifestazione odierna dello sviluppo ritmico».18
Come ultimo esempio, per chiudere, rimane la sinfonia fugata, ossia includente una fuga o appunto un fugato in funzione di esposizione, di sezione secondaria autonoma o di coda. Mercadante la pratica precocemente, ed è un tratto distintivo della scuola napoletana: non ci interessa tanto quanto le precedenti perché non porta novità di rilievo essendo piuttosto una forma conservatrice; ma nella trat tazione occorre almeno una menzione dato che viene praticata (per lo piú come esercizio nel periodo di apprendimento) da molti nomi poi affermatisi: da Bellini a Florimo, per arrivare sin quasi alla fine del secolo a Nicola DʼArienzo e Pietro Platania.
Basti qui un estratto dalla Sinfonia in Do minore, uno dei lavori orchestrali piú interessanti del giovane Mercadante, databile ai primi anni Trenta.
Ecco come il soggetto del fugato iniziale viene variato e diventa il secondo tema di una consueta forma rossiniana:
18 ArrIGo BoITo, Concerti Noseda (“saggio storico-musicale”) e il Conservatorio, «Il Figaro» 24, marzo 1864.
Esempio 7:
SAVERIO MERCADANTE, Sinfonia in Do minore, Allegro fugato.
E qui incontriamo un ulteriore motivo di attenzione: la qualità della trasforma zione motivica; ma non possiamo parlare di forma ciclica, poiché le sezioni formali rimangono irrelate e nettamente separate, mancando una vera rete di derivazioni come abbiamo constatato nel Lamento del bardo.
A chiusura, riporto un ultimo esempio dalla Sinfonia fugata di Francesco Florimo, che proprio perché non continuerà la professione del compositore, segnala ancora piú fedelmente il livello medio della Napoli musicale:
Esempio 8:
Generi, contesti, esperimenti
Qui tutto il discorso sui partimenti torna a capovolgersi, nei Trenta (probabile collocazione di questa sinfonia) la nuova concezione organica della sinfonia ciclica è ancora lontana, ma è interessante sia vedere da dove parte Mercadante stesso, sia la qualità dallʼambiente professionale. E sottolineo professionale; non esiste ancora un pubblico per la sinfonia, che infatti è certamente un esercizio di scuola. Come si vede siamo agli antipodi della collocazione contestuale dalla sinfonia ciclica narrativa, e proprio questo è il dato che deve attrarre la nostra attenzione, pur riconoscendo a Florimo una sua eleganza di scritttura.
Potrei fare ancora esempi, fra altri, dalle sinfonie giovanili di Bellini. E infine interessa vedere come ancora negli anni Sessanta e fuori dellʼambiente partenopeo sia vigente il modello di sinfonia fugata di matrice napoletana. Lo dimostra questo estratto dalla ultima sezione della Sinfonia in do minore del romano Ettore Pinelli (1867; fondatore nel 1878 di quella che diverrà lʼattuale Orchestra dellʼAccademia di Santa Cecilia). È qui opportuno ricordare che Pinelli aveva studiato violino e composizione con lo zio Tullio Ramacciotti, figura chiave nella Roma del medio Ottocento, che intratteneva continui rapporti con gli ambienti napoletani, a con ferma di una paternità locale del sottogenere di sinfonia fugata.19
Esempio 9:
ETTORE PINEllI, Sinfonia in Do minore, coda con imitazioni (fugato).
Comʼè ora chiaro, la sinfonia fugata è un sottogenere prolifico, che ha un evidente valore didattico oltre che estetico; e di qui la sua fortuna. È impossibile che nella sua curiosità di mettersi alla prova in ogni genere e sottogenere, anche Mercadante
19 Ho ripercorso le tracce di questa formazione e del collegamento fra le due scuole in Musica riscoperta. Violinisti-compositori a Roma nel secondo Ottocento, Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, 2010.
non riservi attenzione a questʼindirizzo. Ma il fatto che non scriva sinfonie fugate con assiduità e che anzi ne interrompa presto la pratica indica che i suoi interessi vanno verso sottogeneri ed espressioni sentite come piú attuali, vive, concretamente significative, in primis la sinfonia ciclica.
Volendo ora trarre una conclusione, sono partito dalla storia culturale e da una riflessione sulla lettura strutturalista di Gossett, ma termino con una annotazione strettamente musicologica.
Questi ultimi esempi di fugato orchestrale hanno il sapore, la sonorità dellʼantico; con essi siamo tornati indietro rispetto alla tecnica di trasformazione motivica e di ciclicità narrativa vista nei tardi lavori precedentemente esaminati. Questo per corso ha testimoniato un aspetto forse non cosí riconosciuto di Mercadante: un aspetto non affatto tradizionalista ma quasi modernista. Sebbene il suo ruolo nel portare avanti la tradizione del partimento rimanga indiscusso, nella composizione sinfonica Mercadante guarda a tecniche piú moderne e a concezioni compositive che esulano, per non dire contrastano con quella tradizione. Basare il pensiero compositivo su una narrativa motivica, realizzata dalla trasformazione continua di minime sostanze motiviche, non ha nulla della tradizione del partimento, anzi è un pensiero costruttivo, generativo, espansivo, unʼidea del tempo musicale del tutto diverso, che procede per riflessioni concentriche dalla cellula alla frase, dalla frase alla sezione, e dalla sezione alla forma completa come sviluppo unitario del tempo in grande. Appunto, lʼesatto opposto della staticità del partimento, che non ha una concezione del tempo altrettanto dinamica (certo, ha ben altri valori, ma qui non si tratta di valutare un meglio e un peggio, solo di evidenziare come si è svolto un processo storico-culturale nella composizione).
Non voglio fare di Mercadante il genio del sinfonismo italiano, ho già detto chi secondo me sono i grandi sinfonisti italiani dellʼOttocento. Ma è doveroso e sto ricamente fondato riconoscergli questa funzione di pioniere, sia pur moderato e senza atteggiamenti né rivoluzionari, né avanguardistici, né elitari.
Gli “omaggi” di Mercadante ai compositori italiani1
Saverio Mercadante, come sappiamo, ha occupato un posto di grandissimo rilievo nel panorama operistico italiano ed internazionale della sua epoca.
Va comunque sottolineata la grande attenzione che fin dagli inizi del suo percorso artistico ha sempre mostrato di dedicare anche al campo della musica strumentale. Un interesse finalizzato non solo alla necessaria formazione didattica, bensí forte e continuativo, giacché esso assumerà via via un rilievo di piú ampio respiro che portò il nostro autore a riservare a questʼambito numerose composizioni relative per altro anche alla compagine orchestrale. Tale propensione aggiunge alla figura di questo musicista una connotazione particolarmente distintiva mostrandolo, per questo, alquanto in controtendenza rispetto a molti dei compositori italiani dellʼOttocento che si dedicarono per lo piú alla produzione operistica trascurando, in parte o del tutto, il genere strumentale.
Saverio Mercadante, entrato nel Collegio della Pietà dei Turchini, nel 1808 si instradò nello studio del violino, ottenendo ottimi risultati, divenendo ben presto solista e concertatore; non disdegnò nel frattempo di cimentarsi, ed in piena auto nomia, nello studio di altri strumenti. Apprezzabile, per completare il quadro della sua formazione fu anche lʼottima conoscenza del repertorio dei grandi classici, di Haydn, Mozart e Beethoven, le cui pagine spesso includeva nei repertori che soleva dirigere con lʼorchestra.
A tal proposito illuminanti, al fine di tracciare il profilo didattico e la carriera artistica del nostro musicista, appaiono gli scritti di Francesco Florimo; di parti colare riguardo risulta anche la fitta corrispondenza che intercorse tra il celebre bibliotecario del San Pietro a Majella e il suo vecchio compagno di studi.2 Grazie a
1 Ringrazio sentitamente il Bibliotecario del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli, prof. Cesare Corsi, che, nonostante la chiusura imposta dalla pandemia, ha reso comun que possibile il recupero dei materiali indispensabili per la compilazione di questo mio scritto.
2 Si rimanda a tal proposito allʼesaustivo e fondamentale contributo di SANTo pAlermo, Save
Florimo, amico, biografo e per lungo tempo mentore e grande estimatore di Mer cadante, possiamo dunque ripercorrere le tappe fondamentali della sua vita e della sua carriera riuscendo a penetrare anche in quegli aspetti piú legati al quotidiano e al vissuto piú intimo del compositore.
Lʼargomentata biografia del Florimo trova spazio in uno dei volumi della sua cele bre opera sulla Scuola Musicale di Napoli, 3 la cui fortuna gli consentí di provvedere, già nel 1882 alla stesura di una seconda e piú ampliata edizione. Ma i contenuti e i giudizi espressi nei riguardi del maestro di Altamura, pur rimanendo comunque oltremodo interessanti, appaiono in verità alquanto contrastanti tra il prima e il dopo, tanto che Florimo, col trascorrere degli anni, sembra aver avuto un forte ripensamento, e piuttosto in negativo, sulla ricomposizione della figura artistica di Mercadante. Nella prima edizione datata 1869, con il compositore ancora in vita, il relatore mostra in generale un grande apprezzamento illustrandoci anche i promettenti inizi:
Dopo essersi istruito negli elementi, lettura musicale e solfeggio, si dedicò allo studio del violino, e progredí talmente nella classe di questo strumento, che in breve tempo, contando appena quindici anni, divenne solista e concertatore dʼorchestra, ufficio assegnato al primo alunno maestrino per la parte strumentale. Scrisse per violino nella sua prima giovinezza variatissima musica, che di buonʼora pubblicò in Napoli.4
Nella seconda edizione del 1882, con il compositore ormai passato a miglior vita, il Florimo ci racconta invece tutta unʼaltra storia, ovvero: «Fu ammesso nel con servatorio il 1809. Ivi studiò contro voglia e fino al 1814 il violino».5 Nel contempo però lo descrive anche proteso e incuriosito verso lo studio di altri strumenti quali il violoncello, il fagotto, il clarino ed il flauto:
Strumenti che gli venivano prestati dà compiacenti compagni e su cui applicavasi per bramosia di maggiori cognizioni. Nel 1814 pensò di organare fra gli allievi una banda, e compose per questa marce, passi doppii, e ciò per semplice svago nelle ore di ricreazione.6
rio Mercadante. Biografia, epistolario, Fasano, Schena Editore, 1995.
3
FrANCeSCo FlorImo, Cenno Storico sulla Scuola Musicale di Napoli, Napoli, Tipografia di Lorenzo Rocco, 1869, I, pp. 640-667.
4 IVI, p. 641.
5
Id., La Scuola Musicale Di Napoli, Napoli, Stabilimento Tipografico di Vinc. Morano, 1882, III, p. 111.
6 Ivi, pp. 111-112.
Non a caso dunque divenne ben presto direttore dellʼorchestra degli allievi, in qualità di Maestrino, carica che mantenne per lungo tempo.
Di questa approfondita conoscenza strumentale Mercadante si gioverà senzʼaltro, come sappiamo, anche per la composizione dei suoi numerosi melodrammi, vantati spesso dalla critica oltre che per il forte ed espressivo senso drammatico e per la ricerca di taluni elementi formali ritenuti innovativi, anche per lʼuso di una stru mentazione appropriata, pur se talvolta ritenuta troppo poderosa ed eccessiva.7
Un interesse dunque che si manterrà vivo nel corso del tempo e che riceverà il massimo impiego nei lunghi anni spesi da Mercadante nella direzione del Conser vatorio di San Pietro a Majella, quando avrà cura di sollecitare in modo particolare gli allievi alle esercitazioni e alle esecuzioni orchestrali, che spesso lui stesso diri geva. Ma anche su questo argomento Florimo, sempre alquanto in contrasto con quanto aveva affermato nella prima stesura della sua ricostruzione storica, sembra assumere un atteggiamento, in alcuni tratti, ambiguo e critico:
Pare per altro che le maggiori cure del Mercadante fossero rivolte a fare che il Collegio spiccasse per la parte esecutiva solamente. A tal uopo offriva spesso al pubblico clamorose e splendide accademie, concerti e serate musicali.
Queste Accademie, queste manifestazioni artistiche erano composte quasi sempre di musica scritta dallo stesso Mercadante. Ed egli sapeva cosí bene trasfondere il suo pensiero, il soffio animatore negli esecutori, che tutti sembravano identificarsi nel direttore. E cosí avevano mirabili esecuzioni. Si piaceva talvolta di mescolare le sue con le altrui ispirazioni; talvolta addirittura aggiustava, rifaceva: e dalla sua mania innovatrice non furon salvi neppure il Mozart ed il Rossini.8
Non è ben chiaro quale sia stata la ragione che abbia condotto Florimo ad avere un cosí forte ripensamento sul nostro autore, il tutto lascia pensare ad un raffred damento dei rapporti, a delusioni, a dei fraintendimenti tali, sorti fra i due vecchi amici che portarono il grande bibliotecario appunto a rivedere, piú in negativo, il giudizio complessivo su Mercadante, giudizio che certamente gravò sulla fortuna postuma del compositore.
Comunque lʼimpegno profuso dal nostro musicista per lʼorchestra degli alunni diverrà un tratto distintivo del suo operato in qualità di Direttore del Conservatorio, specie nei suoi ultimi anni di carriera e di vita, affermando in tal modo una visione progettuale quasi avveniristica e di grande portata per quei tempi, un merito che
7 Come riporta Florimo: «I critici di quel tempo accusarono la musica degli Orazii di troppo strepito e di troppa sonorità, specialmente nellʼimpasto degli strumenti di ottone, nelle mas se corali, nelle bande e nellʼunione fragorosa di questa con lʼorchestra». Cfr. FlorImo, Cenno Storico cit., I, p. 651, nota 1.
8 FlorImo, La Scuola Musicale cit., p. 121.
Gli “omaGGi” di mercadante
fortunatamente gli verrà riconosciuto anche a posteriori. Un forte apprezzamento gli viene tributato anche da Michele Ruta nel corso della sua accurata ed acuta dissertazione sulla decadenza della musica italiana e del Conservatorio S. Pietro a Majella in particolare, volume datato 1876:9
Il Mercadante dava personalmente la lezione orchestrale collettiva nelle prove, e spese cure e fatiche improbe per portare quellʼorchestra ad uno stato fiorente, ad unʼaltezza mirabile, ma verso gli ultimi anni della sua direzione, per la perdita della vista, e per la sua salute ormai cagionevole, non poté assistere con la solita attività a questa sua occupazione favorita; e cominciò per tal ragione il periodo di decadenza di quella vigorosa orchestra. Ma dalla sua morte una tale decadenza crebbe smisuratamente fino a quanto che chiamato il maestro Lauro Rossi a dirigere il Collegio, trova una male augurata eredità, che gli fu forza accettare, senza beneficio dʼinventario.10
Diverse le composizioni strumentali relative soprattutto gli anni dellʼapprendistato giovanile, quandʼera ancora allievo di composizione nella classe di Zingarelli. Altre invece risalgono al periodo della maturità, al tempo in cui versava il suo impegno appunto nella dirigenza del conservatorio, ed in special modo nei suoi ultimi anni di vita, quando ormai era completamente afflitto dalla cecità. Prendono cosí corpo varie fantasie, sinfonie, brani orchestrali comunque legati solitamente nellʼispirazione al mondo dellʼopera e al canto, secondando il gusto del tempo.
Fra tutte queste pagine, in particolare ne figurano alcune denominate omaggio e dedicate dallʼautore a grandi operisti dellʼepoca quali Bellini, Rossini, Donizetti e Pacini.
Lavori dettati da particolari e non sempre liete circostanze, giacché appartenenti ad un genere solitamente adoperato in occasione di ricorrenze funebri, ma certo inconfutabile segno della sincera stima che Mercadante nutriva nei confronti di questi musicisti. Ad alcuni di essi lo legavano rapporti di stretta ed antica amicizia, comʼé nel caso di Vincenzo Bellini, suo compagno di studi, o di Gioacchino Rossini a cui riservava un sentimento di sentita riconoscenza, essendo stato il pesarese uno dei suoi primi importanti estimatori. Con gli altri due intestatari degli omaggi, Donizetti e Pacini, i rapporti furono certo meno stretti, anzi questi due musicisti inizialmente furono avvertiti da Mercadante quali suoi competitori, come testimonia una delle lettere indirizzate sempre al grande amico Florimo,11 scritta per altro con
9
10 Ivi, p. 104.
11 La lettera in questione risulta senza indirizzo ma, dalle notizie contenute appare lampante che il destinatario sia sempre Florimo. Cfr. pAlermo, Saverio Mercadante, cit., lettera n. 9, pp. 88-89.
un tono un poʼ goliardico, oscillante, potremmo dire, tra il serio e il faceto:
Le tue notizie teatrali mi hanno fatto quasi crepare dalle risa, poiché vi è veramente lo stile grammaticale del conservatorio dʼaltri tempi. Dunque Dozzinetti (voglio dire Donizetti) dopo essersi immortalato con lʼesule di Roma, ora è lʼesule di Napoli. Trovo ben compensate le sue virtuose fatiche, e non dubbito punto che a Milano non demeriterà punto della stessa sorte e diventando cosí lʼesule di Milano anderà a prendere fiato a Costantinopoli dove si trova suo fratello.
La stessa sorte desidero di tutto cuore a Pacini, e mi sembra che non è lontano dʼaderire alle mie giuste brame. In Parigi il Pompeano è caduto, anzi precipitato al punto che i giornali di quella capitale lo invitano a comporre per i loro Teatri di Vodville, perché lo trovano adattissimo.12
Indubbiamente la missiva riporta alcuni commenti alquanto mordaci, frutto comunque di una competizione sana e del tutto comprensibile e che col tempo risultò ampiamente superata visto che il buon Mercadante intrattenne con questi due compositori rapporti piú che cordiali, sapendone infine apprezzare lʼindubbio valore.
Lʼomaggio a Donizetti porta la data del 1848, anno in cui si spense a Bergamo questo grande operista. Mercadante dedica e invia questa composizione per grande orchestra, fondata su motivi celebri dellʼintestatario, al fratello Giuseppe Donizetti, anchʼegli musicista, che viveva a Costantinopoli dove ricopriva lʼincarico di diret tore della banda militare. A questi indirizza nel giugno 1849, le seguenti parole di accompagnamento:
Al Chiarissimo
Sig. Cavaliere Giuseppe Donizetti Costantinopoli
Pregiatissimo Sig. Cavaliere ed Amico Il compitissimo vostro foglio mi pervenne sommamente grato sia per sentirvi sano co tutti di famiglia come per scorgere a voi caro il piccolissimo attestato di stima per il gran Compositore Italiano che tanta gloria accrebbe allʼArte col suo chiaro ingegno ed assidui studi.
Il rendere omaggio musicale e ricordare alla gioventú studiosa, non che à coltivatori e amatori dellʼArte Bella, alcune tra le tante ispirate melodie del genio di Donizetti era per me sacro, dolce dovere; gradirne voi la dedica fu tratto di cortesia del quale sarò sempre memore.13
12 Ivi, p. 89.
13 pAlermo, Saverio Mercadante, cit., lettera n. 137, pp. 259-260.
Lʼomaggio a Giovanni Pacini14 venne realizzato nel 1868, un anno dopo la scom parsa del musicista, mentre quello dedicato a Rossini, sempre del 1868, fu compo sto solo pochi mesi dopo la morte del grande pesarese e proprio in occasione dei sontuosi funerali che vennero celebrati in sua memoria nella chiesa del Collegio di Musica di Napoli.
Di datazione incerta invece appare la partitura relativa allʼomaggio a Bellini; alcuni critici ed alcuni dizionari indicano una forcella cronologica piuttosto ampia per la sua segnatura ponendo la sua creazione tra il 1840 ed il 1860, ma la data di pubblicazione risulta infine essere il 1860, anno registrato dallo stesso Florimo nel catalogo delle opere di Mercadante di cui fa menzione nel suo testo.15
Tre di queste partiture (Pacini, Rossini e Bellini) sono custodite nella Biblioteca del Conservatorio di Napoli. Mentre quella dedicata a Donizetti si conserva presso lʼIstituto Musicale di Bergamo.
Comunque anche su queste pagine cade il giudizio critico di Florimo:
Le sinfonie in omaggio al Bellini, al Donizetti e al Pacini sono piú tosto fantasie orchestrali, perché intessute sopra motivi delle opere di queʼ celebri maestri. Lʼomaggio, a vero dire, sta fino a un certo punto, perché tratto tratto il Mercadante si sostituisce allʼautore, che vuol onorare, trascrivendone le idee, e accomoda le armonie, cangia i bassi, e non sempre con felice successo. Ciò osservasi, piú che altrove, nellʼomaggio al Bellini.16
È certamente possibile ascrivere queste composizioni nellʼambito musicale della fantasia funebre, genere che nel corso dei secoli aveva visto nascere forme quali il lamento, le deplorazioni, il tombeau, ma senzʼaltro, nello specifico, esse ambiscono, nel senso non tanto formale quanto letterale, a inquadrarsi piú propriamente come Apoteosi, forma anchʼessa commemorativa ma finalizzata alla divinizzazione, alla glorificazione di un eroe, di un artista.
I quattro omaggi di Mercadante osservano, nelle linee generali, dei caratteri comuni. Le partiture si presentano piuttosto brevi e condensate trovando tutte spazio di scrittura in circa 60 fogli di musica, considerando sia il fronte sia il retro, fatta eccezione per lʼomaggio a Pacini che ne conta ben 92. Sono tutte per grande orchestra ingaggiando anche un nutrito numero di fiati, fra cui spicca lʼinserimento dellʼoffleiden, strumento dal particolare timbro, appartenente alla famiglia degli antichi cornetti, molto amato, specie allʼepoca, per le esecuzioni bandistiche. Pur
14 Brano che riscontrò molto successo, sempre secondo Florimo che registra: «lavoro eseguito con molto successo a S. Carlo replicandosi per 4 sere», cfr. FlorImo, Cenno Storico cit., I, p. 658.
15 Lʼautore Santo Palermo invece nel suo libro non fa alcuna menzione di questa partitura nellʼelenco delle opere di Saverio Mercadante.
16 FlorImo, La Scuola Musicale cit., p. 120.
essendo talvolta definite da alcuni critici come Sinfonie, dal punto di vista compo sitivo ciò non corrisponde al vero in quanto la forma per esse adoperata è quanto mai libera, proponendo quella della Fantasia su temi dʼopera, molto praticata ed in gran voga allʼepoca. Tale termine in realtà, quello di Sinfonia, viene poco uti lizzato anche dallʼautore sullʼintestazione di queste opere, eccezion fatta nel caso dellʼomaggio a Rossini e a Donizetti, quando è lo stesso Mercadante ad usare questa denominazione, ma sempre in senso lato, riferibile piú che altro alla numerosa compagine orchestrale richiesta per la loro esecuzione.17
Fra tutte queste composizioni una particolare attenzione merita, a mio avviso, lʼomaggio a Bellini, non fossʼaltro che per lo stretto legame di amicizia e vicinanza che dai tempi della formazione scolastica si era istaurata fra questi due musicisti. Tra lʼaltro, proprio nei giorni in cui moriva cosí precocemente Bellini, Mercadante si trovava a Parigi per la commissione di unʼopera, e, secondo alcune cronache,18 anchʼegli, come tanti altri, cercò di visitare lʼamico ammalato ospite della famiglia Lewis a Puteaux, ma, seguendo un protocollo standardizzato, gli fu impedita la visita, in obbedienza allʼordine che aveva imposto il medico curante. Mercadante fu comunque presente ai funerali, dandone poi, in una lettera, il resoconto dettagliato al desolato Florimo.19
La prematura dipartita di Vincenzo Bellini fu un evento davvero memorabile che suscitò grande cordoglio e commozione non solo a Napoli ma nellʼEuropa intera. Il grande musicista catanese per la sua giovane età, per il suo grande talento e per lo straordinario successo che molte sue opere avevano raggiunto fu ben presto paragonato a grandi altri talenti della storia quali Raffaello, Pergolesi e Mozart, tutti artisti accomunati dal possesso di un grande genialità, da una fine prematura e da taluni, per altro, intesa come misteriosa. Nel dicembre del 1835 il Conservato rio di Musica S. Pietro a Majella tributò doverosamente a questo suo grande figlio una solenne cerimonia commemorativa cui parteciparono oltre ai musicisti molti esponenti della cultura e delle arti, anche con opere celebrative espressamente composte per la triste ricorrenza.20 Cosí Florimo ricorda:21
Il Duca di Noja, Giovanni Carafa, che puossi dire con fondata ragione il vero mecenate di Bellini, volle che il Collegio di Musica, al governo del quale egli presiedeva, celebrasse nella chiesa di San Pietro a Majella sontuosi funerali. Lo Zingarelli, di sua spontanea volontà, assunse lʼimpegno di dirigere la musica chʼera
17 Nel frontespizio dei restanti omaggi compare invece la dizione Fantasia.
18 FrANCeSCo FlorImo, Bellini, Memorie e Lettere, Firenze, G. Barbera Editore, 1882, p. 62.
19 pAlermo, Saverio Mercadante, cit., lettera n. 52, pp. 153-154.
20 Cfr. AleSSANdro CANNAVACCIuolo, Memoria della morte di Vincenzo Bellini nella poesia napo letana dellʼOttocento, «Bollettino di Studi Belliniani» IV, 2018, pp. 44-59.
21 FlorImo, Bellini, Memorie cit, pp. 69-70.
Gli “omaGGi” di mercadante
di sua composizione, e venne eseguita da piú di trecento professori tra sonatori e cantanti, e dallo stesso intero Collegio, che tutti uniti in un sol pensiero davano questʼultimo attestato di affetto e di ammirazione al grande artista, allʼamico ed allʼinfelice compagno. Lʼegregio Giuseppe Festa, uno dei piú valenti direttori dʼorchestra della prima metà del volgente secolo, guidava con magico effetto lʼesecuzione strumentale. La messa fu preceduta da una sinfonia funebre da me appositamente scritta per la luttuosa circostanza, ove quella malinconica e religiosa melodia dellʼintroduzione della Norma, a varie riprese ripetuta, ricordava lʼestinto e disgraziato giovane. Il piú patetico elogio funebre fu composto e reitato con sentita emozione dallʼegregio Cesare Dalbono, in quel tempo ancor giovanissimo, ma già chiaro nella repubblica delle lettere, ed ora uno dei letterati piú eminenti del paese, stato per ben venti anni a capo del Reale Istituto di Belle Arti in Napoli.
La vasta chiesa di San Pietro a Majella, parata di nero, risplendeva di mille ceri in bellʼordine distribuiti, a ornamento del modesto tumulo che nel mezzo si ergeva. Intervennero alla lugubre cerimonia il Conte di Siracusa, i Ministri di Stato, il Corpo diplomatico, lʼAccademia delle Scienze e Belle Arti, il Collegio Reale Medico Cerusico, lʼaltro deʼ Nobili detto del Salvatore, e quanti grandi e ragguardevoli personaggi napolitani e stranieri qui trovavansi.
Lo Zingarelli, che dirigeva la musica, fu visto versar lagrime, ed il rettore del Collegio, il reverendo Gennaro Lambiase, che avea educato Bellini, al momento della benedizione del tumulo, venne meno, sopraffatto dal dolore. Tutti gli alunni del Collegio, che non presero parte allʼesecuzione della musica, coi veli del dolore al braccio e colle fiaccole funerarie, in mestissimo atteggiamento circondavano il catafalco. Erano presenti tutti gli amici della sua adolescenza, tutti i maestri del Collegio, i piú chiari artisti e gli uomini piú illustri della città per nascita, per sapere, per dignità e per gradi, concorsi tutti a rendergli un supremo tributo, che certamente sarà stato caro, piú di qualunque altra splendida dimostrazione di onore, a quellʼanima benedetta.
Ma non fu quella lʼoccasione, come abbiamo visto, in cui Mercadante scrisse il suo “omaggio”. Dedica la composizione, definita Fantasia a grandʼorchestra, espres samente a tal Vincenzo Zurlo, personaggio dellʼambiente aristocratico e forse legato al mondo del conservatorio napoletano, nonché autore anche di diverse marce per banda, a cui per altro Mercadante aveva intestato anche altri lavori.22 Lʼorganico si presenta alquanto possente: violini, viole, flauti, ottavino, oboi, clarini in do, fagotti, corni in sol, corni in re, trombe in do, tromboni, offleiden, tim pani in mi♯, arpa, violoncelli, contrabbassi, schierando una compagine strumentale del tutto simile comunque a quello utilizzato anche per gli altri “omaggi”, solo il
22
A Vincenzo Zurlo dedica anche la Tarantella tratta dalla Cantata per soli coro e orchestra La danza augurale.
brano riservato a Pacini appare nei numeri ancora piú nutrito.
In realtà in questʼopera Mercadante ripropone la stessa struttura orchestrale che già Bellini aveva adoperato per la Norma e la Sonnambula, proprio le opere da cui trae ispirazione e ricava citazioni utili per poter strutturare la sua Fantasia.
Vi è però, come già accennato in precedenza, un interessante quanto personale aggiunta del nostro autore a quanto previsto dallʼimpianto belliniano, quella cioè dellʼoficleide o, come segnato in partitura, lʼoffleiden, usato da Mercadante nel registro di basso. È questo uno strumento particolare, per altro molto sfruttato dal nostro musicista che lo utilizza anche negli altri “omaggi”. Si tratta di uno stru mento a fiato, appartenente alla famiglia degli ottoni, ben presente nei repertori della musica antica e da banda, diretto discendente del serpentone, presente con le diverse taglie di contralto, tenore e basso e contrabasso.23
In questo brano, impostato sulla tonalità di mi minore, si alternano sezioni veloci ed episodi cantabili, in cui vengono a prefigurarsi i materiali tratti dalle opere di Bellini. A questi Mercadante si accosta in maniera abbastanza fedele rimanendo inalterato lʼimpianto tonale originale e ben riconoscibili i temi. Quindi la fantasia dellʼautore sembra impegnata nella creazione di un variegato collage dei brani piú noti di alcune opere di Bellini piuttosto che nella creazione di varianti o di nuovi spunti compositivi. Infatti non approfondisce od elabora, comʼera nellʼottica compositiva dettata dalla fantasia, poiché assembla lasciando inalterati i tratti piú significativi dei brani citati. Gioca quindi sulla dimensione spettacolare finaliz zata al riconoscimento, da parte del pubblico, delle celebri melodie. Piuttosto il nostro autore tende ad enfatizzare la carica narrativa ed emotiva dei temi belliniani mediante una strumentazione spesso enfatica che tende ad acuirne i caratteri. I temi, di cui mantiene sempre lʼimpianto tonale come proposto dallʼoriginale, si susseguono introdotti di volta in volta da cambi di tempo e di andamenti cosí da ben connotare le diverse atmosfere, e si passa da un tema allʼaltro con piccole varianti formate da brevi modulazioni cromatiche; talvolta le citazioni presentano soltanto la testa dei temi con piccole frasi che crescono, si ripetono, si sovrappongono o ripetono fedelmente lʼintera melodia.
Certo la scelta di Mercadante non a caso cade sulla selezione di determinati brani, quelli evidentemente ritenuti piú celebri e altamente significativi per lʼimmaginario collettivo.
Dopo una breve introduzione dal carattere solenne e marziale e a mio avviso dal sapore decisamente trionfalistico, subito il compositore inserisce un altrettanto breve accenno tratto dal tema del coro introduttivo e cabaletta del primo atto della
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A differenza del basso tuba, che sul finire dellʼ800 lo sostituirà definitivamente, lʼoficleide non presenta pistoni ma chiavette e quindi per lʼemissione sonoro non si basa sui suoni armoni ci ma sui suoni determinati. Un aneddoto narra che Adolphe Sax, lʼinventore del sassofono, deputato a riparare gli strumenti della banda Nazionale francese, decise di sostituire lʼimboccatura a bocchino dellʼoficleide con unʼancia e cosí, da questa sperimentazione, sareb be poi nato il sax.
Norma, «Ite sul colle o Druidi». Poche battute, solo unʼanticipazione di una piú ampia stesura che di lí a poco verrà dato a questo brano, momentaneamente inter rotto per dar spazio, in maniera piú compiuta e amplificata, alla ripresa del tema espresso dalla fanfara introduttiva, episodio che il compositore segna in partitura con la dicitura I Tempo.
La scrittura musicale si presenta via via sempre piú densa, assegnando agli stru menti a fiato ruoli piú impegnativi nel tracciamento del profilo melodico, cosí pro prio come accade nel passaggio successivo che affronta lʼesecuzione del momento piú lirico proponendo la celebre aria di Amina tratta dalla Sonnambula «Ah! Non credea mirarti». Un vero e proprio cameo che in questa rivisitazione assume carat tere di forte centralità discostandosi, per andamento e atmosfera, dal carattere espresso dalle altre citazioni belliniane che Mercadante aveva inteso riprodurre. A questo infatti faranno da contorno oltre al già menzionato inno dei druidi della Norma anche il coro «Guerra, guerra!» del finale del secondo atto, sempre della stessa opera, trattato in maniera ugualmente estesa. Ancora dunque brani corali dal sapore decisamente eroico e marziale, le cui cellule motiviche andranno poi a sovrapporsi, specie quelle tratte dalla Norma, in una sorta di stretta finale.
Mercadante in questa composizione pone in essere tutte le sue capacità di buon strumentatore utilizzando i movimenti dellʼorchestra argutamente elaborati, ben preparando lʼingresso dei celebri motivi; va da sé che tutta questa voluta ricerca dellʼamplificazione sonora, finalizzata probabilmente ad esecuzioni bandistiche o da realizzarsi comunque in ampi spazi, poneva il rischio di poter stridere con lʼessenza del melos belliniano basato sullʼessenza di una purezza melodica che poco poteva concedere ad una strumentazione piú fragorosa.
Da un punto di vista musicale il nostro autore sembra dunque adottare, in massima parte, una strategia che privilegi la scelta di taluni brani che potevano risultare, a livello sonoro, di maggiore impatto timbrico e ritmico presentando caratteri e temati che eroiche in cui il suo estro creativo si era sempre particolarmente distinto ed iden tificato, ma vi è anche da considerare un ulteriore lettura che lascia il campo ad una interpretazione che valuti gli aspetti di una comunicazione piú emotiva e, potremmo dire, psicologica. Innanzitutto, come già accennato, momento centrale nella costruzione simmetrica della composizione diviene quello piú lirico dove, appunto, emerge lʼaria di Amina dalla Sonnambula «Ah! Non credea mirarti». A mio avviso qui lʼautore, oltre a rendere omaggio e a dare piena evidenza allʼinconfondibile melos belliniano, si serve proprio di questo brano anche, o soprattutto, in considerazione delle parole enunciate dal testo, infatti il libretto scritto da Felice Romani cosí recita:24
Ah! Non credea mirarti sí presto estinto, o fiore; passasti al par dʼamore,
24 FelICe romANI, La Sonnambula, in Tutti i libretti di Bellini, Torino, uTeT, 1995, p. 185.
che un giorno sol durò.
A queste sicuramente egli allude, se ne appropria, per tendere ad una precisa narrazione, rivolgendo a Bellini, attraverso la sua stessa musica, uno struggente sentimento dʼamore e di rimpianto, reso ancora piú melanconico nellʼaffido del tema al suono piú grave e dolente dei violoncelli mentre il morbido accompagnamento viene realizzato da violini e viole.
È questo il momento piú intenso, quello del ricordo, dellʼelegia, ma per il resto Mercadante, con lʼutilizzo di tutte le altre non casuali citazioni, tende a conse gnare alla storia una determinata immagine di Bellini, quella piú amata e condivisa allʼepoca, quella piú idealizzata e legata allʼespressione dellʼamor patrio, portando cosí avanti il modello di un musicista non piú legato a scuole o regionalismi, ma in tutto e per tutto italiano. Unʼimmagine del resto da tempo condivisa da molti e ben accreditata già a ridosso della scomparsa del compianto catanese, in anni dunque ancora lontani dal concreto raggiungimento dellʼunità nazionale. Una lettura che si iscrive comunque in quel particolare contesto storico culturale, quello degli anni del Risorgimento italiano, che aveva inteso caricare diverse scene operistiche di significati patriottici, e questo pur prescindendo dalla reale visione politica che i vari musicisti coltivavano, giacché ai piú ben conveniva rimanere estranei alle vicissitudini rivoluzionarie dellʼepoca. Ciò nonostante appare indubbio che proprio nelle trame di molte opere sia riscontrabile lʼaderenza alle tematiche correnti det tate dal contesto storico generale e ben presenti nella letteratura europea. Vicende ambientate in altre epoche o in altri luoghi in cui, oltre alla dominante e spesso tormentata storia amorosa, faceva da sfondo una storia piú grande e generale, quella sociale e politica. Questa comunque risultava fortemente incidente per gli sviluppi del dramma evidenziando un conflitto basato sui temi dellʼoppressione e di una sospirata libertà, per i singoli o per un popolo.
È questo anche il caso in cui, come sappiamo, ben rientrano alcune opere di Vincenzo Bellini, non a caso dunque i già citati brani tratti dalla Norma, ma poi anche dai Puritani, ben presto divennero nellʼimmaginario collettivo inni di libertà, canti di rivolta. In particolare si ricorda un episodio legato alla rappresentazione di Norma avvenuta nel 1858 alla Scala di Milano che vide il pubblico presente in sala unirsi al coro del teatro per cantare lʼinno di guerra costringendo gli austriaci a sospendere lo spettacolo.
È per tutto questo che Mercadante nel confezionare la partitura della Fantasia sui temi di Bellini dà rilievo proprio a quelle pagine intrise di patriottismo, assegnando per altro ampio spazio nella stesura musicale allʼinno dei druidi, la cui originaria struttura motivica già allude e sembra confondersi, con lʼaltrettanto celebrato inno «Suoni la tromba e, intrepido» dei Puritani, opera di cui Bellini, in Francia, forse non a caso, aveva affidato la stesura del libretto allʼesule Carlo Pepoli.
La ben caratterizzata melodia dellʼinno della Norma inserita nellʼomaggio prende corpo nella sua interezza riportando anchʼessa alla memoria il bel testo di un inno
che, senza ombra di dubbio, incitava gli animi allʼunione ed alla libertà:25
oroVeSo e Coro (con ferocia marcata)
Guerra, guerra! Le galliche selve quante han querce producon guerrier; qual sul gregge fameliche belve, sui Romani van essi a cader.
Sangue, sangue! Le galliche scuri fino al tronco Bagnate ne son, sovra i flutti del Ligeri impuri ei gorgoglia con funebre suon.
Strage, strage, sterminio, vendetta! già comincia, si compie, sʼaffretta. Come biade da falci mietute son di Roma le schiere cadute.
Tronchi i vanni, recisi gli artigli, abbattuta ecco lʼaquila al suol. A mirar il trionfo deʼ figli ecco il Dio sovra un raggio di sol.
Furono dunque soprattutto inni e cori ad assumere grande importanza nellʼimmaginario collettivo di gran parte della società italiana dellʼOttocento, capaci per i loro contenuti e per lʼaccattivante incedere ritmico melodico di risultare facil mente comprensibili e soprattutto condivisibili; in tal modo anche la musica, forse piú delle altre arti contribuí decisamente alla formazione di una sentita identità nazionale.26 Lo stesso Mercadante, ancora in vita, fu presto oggetto, per alcune sue opere, di una rilettura in senso risorgimentale. Già nel 1831 ci fu, da parte dei patrioti, un grande apprezzamento per il coro «Chi per la patria muor, vissuto è assai» dellʼopera Donna Caritea regina di Spagna, canto intonato come ultimo atto compiuto dai fratelli Bandiera prima della loro esecuzione avvenuta in Calabria nel 1844. Simile considerazione investí anche lʼopera Gli Orazi e Curiazi di cui fu ripreso un brano, insieme ad altri di Verdi, per una celebrazione svolta la sera del 18 febbraio 1861 a Torino, in piazza Castello per lʼinaugurazione del nuovo Parlamento Italiano. Ritornando alle vicende dellʼomaggio, va ricordato che giustamente questo brano trovò la sua giusta collocazione esecutiva durante le celebrazioni occorse per la traslazione delle ceneri di Bellini da Parigi a Catania, avvenute nel 1876. Anche in questo caso la minuziosa cronaca redatta da Francesco Florimo e compresa nelle
25
26
FelICe romANI, Norma, in Tutti i libretti di Bellini cit., p. 201.
Cfr. pHIlIp GoSSeTT - dANIelA mACCHIoNe, Le «Edizioni distrutte» e il significato dei cori operistici nel Risorgimento, «Il Saggiatore Musicale» 12/2, 2005, pp. 339-387.
pubblicazioni: La Scuola Musicale di Napoli e Bellini, Memorie e lettere, entrambe del 1882,27 pone lʼaccento sulla connotazione eroica e risorgimentale che i citati brani di Bellini avrebbero senzʼaltro espresso.
Alle ore 8 pomeridiane, sulla Piazza degli Studi si eseguivano concerti vocali e strumentali, ed una compatta onda di popolo vi assisteva plaudente.
Le note del Bellini commovevano tutti gli animi, e li inebriavano di quella gioia che accompagna ogni festa della patria, di quellʼquellʼorgoglio per tutto ciò chʼessa contiene di sacro e di venerabile. E dopo, lʼorchestra risuona per le armonie della fantasia di Mercadante; e lʼInno di guerra della Norma prorompe colle sue note robuste a spirare quellʼebbrezza che sente un popolo vicino a rompere le sue catene e redimersi. La piazza si illumina di mille fuochi di bengala dai cento colori; e fragorosi, frenetici applausi e Viva Bellini scoppiano ed echeggiarono per tutto il Corso fino alle vie circostanti. Quellʼonda di popolo e commossa, si agita, acclama, respira quellʼaria, si elettrizza a quei suoni che tante volte ha ripetuti, eco dei suoi palpiti e di libertà.
Questa particolare visione si è comunque protratta nel tempo, potremmo dire quasi fino ai nostri giorni, infatti ancora nel 1943 Andrea Finocchiaro fondatore del Movimento per lʼindipendenza della Sicilia scelse «Suona la tromba e intrepido» come inno nazionale, qualora si fosse realizzato il suo utopico progetto. Lʼomaggio a Bellini di Saverio Mercadante pur essendo stato composto in un particolare contesto e forse per determinata finalità, ha travalicato il suo tempo trovando ancora spazio in diverse esecuzioni, ed è stata oggetto di ulteriori rivi sitazioni. Ne è stata realizzata infatti una riduzione per pianoforte di Luigi Truzzi datata 1931, e in piú una stesura per banda e una trascrizione organistica rielabo rata da Pietro Andrisani, ed eseguita per la realizzazione di un 33 giri, nel 2000, da Arturo Sacchetti.
27 FlorImo, La Scuola Musicale di Napoli cit., III, pp. 279-280. La stessa cronaca, in maniera quasi identica, viene riportata in Id., Traslazione delle ceneri di Bellini, Napoli, Tip. Vincenzo Morano, Napoli, 1882, p. 141. Cfr. pAoloGIoVANNI mAIoNe, Florimo allʼamico Bellini: «un monumento eterno di sospiri, di slanci e di melodie», in Francesco Florimo a Vincenzo Bellini, a cura di Dario Miozzi, Catania, Giuseppe Maimone Editore, 2001, pp. 65-122.
Saverio
Mercadante e la danza
nei Reali Teatri di Napoli*
Le prime esperienze di Mercadante nella musica per la danza
Premessa
La proposta di studio qui presentata è un primo approccio alla figura di Saverio Mercadante e il ballo teatrale, con focalizzazione ʼinternaʼ da parte di chi guarda allʼAutore con gli occhi della danza e si articola in due sezioni. La prima ripercorre a grandi linee i rapporti di Mercadante con il ʼsistemaʼ danza del Real Teatro di San Carlo, ne inquadra la figura di giovane allievo che si avvia al professionismo esercitando la propria tecnica anche nei balli e focalizza lʼattenzione su due speci fici prodotti (Gran Concerto per gli esami delle Reali Scuole di Ballo e partitura del ballo comico Il servo balordo); la seconda affronta le tematiche dei balli affidati al giovane compositore, alcune delle quali hanno avuto una vita longeva e influenze anche in ambito operistico.
Il tutto in una prospettiva iniziale e a volo dʼuccello, per uno studio che si innesta in un piú ampio progetto di ricerca che le sottoscritte stanno conducendo sulla spettacolarità coreica al San Carlo e sulla linea didattica delle Reali Scuole di ballo.
Pochissime, o quasi nulle, sono le tracce di movimento a disposizione degli storici della danza per i secoli anteriori al Novecento e lʼapprossimazione piú utile a ripercorrere la storia dei balli del passato è data, oltre ai libretti e alle notazioni dei coreografi,1 dallʼanalisi delle partiture. E questo al fine di comprenderne la
* La sezione Le prime esperienze di Mercadante nella musica per la danza si deve a Maria Venuso mentre quello denominato Artisti e tematiche dei balli di Mercadante a Roberta Albano.
1 Cfr. ArTHur SAINT léoN, La sténochorégraphie, a cura di Flavia Pappacena, Lucca, lIm, 2004 (Chorégraphie. Ricerche sulla danza, 4); FlAVIA pAppACeNA, Dal libretto di balletto alle note per la messa in scena, «Acting Archives Review» 6, 2013, pp. 1-25; Il libretto di ballo. Riflessioni storiche e teoriche in omaggio ad Alberto Testa, a cura di Patrizia Veroli (con la collaborazione di Mattia Scarpulla), Bologna, Piretti Editore, 2017; FlAVIA pAppACeNA, La notazione della
struttura e rinvenire, laddove si sia fortunati, annotazioni specifiche che permettano di estrapolare lʼandamento dei Passi solistici e degli insiemi. I materiali napoletani relativi alla musica per la danza sono avari di notazioni e non ci sono tracce dei ʼviolini ripetitori per i balliʼ, in Italia chiamati foglietti. 2
Nel mondo del balletto, come è noto, è stato per lungo tempo prassi ordinaria quella di affidare a compositori di secondʼordine le partiture dei balli, cosí come esisteva il primo violino per i balli e un direttore dei balli per lʼorchestra: una musica ʼdi servizioʼ non adatta a impiegare le migliori energie di chi creava e faceva musica alta. E questo per motivi economici, pratici, culturali. Fatta eccezione per Salvatore Viganò e Gasparo Angiolini, le prime partiture per la danza non pout-pourri sono considerate quelle di Adolphe Adam per Giselle (1841) di Coralli-Perrot e quella di Léo Delibes per la Coppélia (1870) di Arthur Saint Léon – lui stesso valente violinista allievo di Niccolò Paganini, oltre che grande danzatore e coreografo. Non solo esse sono organicamente costruite intorno al soggetto del ballo, ma sono soprattutto affidate a compositori versati anche in altri generi musicali, non arrangiatori mestieranti; tutto questo prima di arrivare al valore sinfonico della triade Čajkovskijana, in cui il genio russo riesce a sposare con grande intuizione artistica i rigidi dettami di Marius Petipa. Eppure, dalle recenti indagini in corso, a Napoli la situazione dei Reali Teatri inizia a mostrare segnali di novità o, se si vuole, di prassi alternativa.
Il San Carlo è un teatro che, soprattutto dopo lʼincendio del 1816, richiama grande pubblico nella capitale del Regno delle Due Sicilie: le nuove dimensioni della sala sono stimate perfette per il ballo e la pantomima, come anche per le evoluzioni dei cavalli, per le grandi masse, per gli allestimenti fantastici.3 Già la musica di Wenzel von Gallenberg4 poteva vantare una gradevolezza superiore a quella comunemente impiegata a Parigi negli stessi anni, da mediatore della cultura musicale vien nese – in primis mozartiana – a Napoli, per gli spunti innestati e opportunamente ʼmascheratiʼ5 come sottolinea Rosa Cafiero nei suoi studi sulla musica coreutica, tutte caratteristiche che conferivano corpo molto piacevole alla partitura.
danza nel Settecento. Un problema di conservazione, unʼaffermazione di statuto culturale o un atto creativo, «Acting Archives Review» 18, 2019, pp. 1-15.
2 Ringrazio Bruno Ligore per la condivisione di questa informazione.
3 roSA CAFIero, Vita musicale a Napoli negli appunti di viaggio di Louis Spohr, «Bollettino del Centro rossiniano di studi» 46, 2006, pp. 46-48.
4 roSA CAFIero, Il «grande industriale internazionale del balletto» a Napoli nellʼetà di Rossini: Wenzel Robert Gallenberg, in Di sí felice innesto. Rossini, la danza, e il ballo teatrale in Italia, a cura di Paolo Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini, 1996.
5 roSA CAFIero, Aspetti della musica coreutica fra Settecento e Ottocento, in Il Teatro di San Car lo 1737-1987, a cura di Bruno Cagli e Agostino Ziino, Napoli, Electa, 1987, p. 317.
La collaborazione con le Reali Scuole di ballo
Nonostante lʼesonero dei principali musicisti dellʼorchestra dei Reali Teatri dallʼesecuzione e dalla composizione dei balli, con lʼavvento del Decennio francese – che dà un energico impulso agli studi musicali e coreutici – e il successivo rientro della casa reale dei Borbone, che lascia immutato questo assetto, accade qualcosa di interessante per gli storici della danza. Al migliore degli allievi del Real Collegio di Musica, Saverio Mercadante, è assegnata la composizione di un concerto per la Scuola di Ballo dei Reali Teatri. Nel corso del 1817, nelle pagine del «Giornale del Regno delle Due Sicilie», si pubblicano recensioni entusiaste e nello stesso anno Mercadante scrive musica per tre balli.6
In qualità di primo allievo del Reale Collegio di Musica di San Sebastiano a Napoli, come si legge in un documento datato al 3 marzo del 1818,7 egli compone un Concerto in occasione degli esami degli alunni delle Reali Scuole di Ballo, che si svol gevano di norma con i contributi degli allievi del Real Collegio di Musica, i quali operavano nellʼorchestra utilizzata per le due esibizioni di prova degli aspiranti ballerini. Per lʼesame del 28 febbraio 1818, il giovanissimo Mercadante compone dunque un Concerto per due clarinetti, flauto e corno da caccia, apprezzato al punto da ricevere lʼ«accettazione della dedica» del lavoro da parte del re. Si trattava del riconoscimento piú alto concesso a un artista e per questo il giovane compositore chiede, nel documento, autorizzazione a stampare e distribuire il suo concerto,8 dato poi alle stampe dallʼeditore Girard come Gran concerto a 2 clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, con dedica dellʼ«alunno del R. Collegio di musica allʼAugusta Maestà di Ferdinando [primo] Re del Regno del due Sicilie» (figure 1-9).
Sarebbe oggi interessante comprendere in quale dei concerti di Saverio Merca dante esso sia confluito ma, al momento, nonostante le ricerche e il prezioso aiuto degli addetti ai lavori, questo non è stato ancora possibile per la mancanza della partitura dʼorchestra.9
Per chi studia un terreno evanescente come quello della danza, è molto impor tante il contesto in cui questo concerto prende forma. Lʼimpiego del migliore allievo
6
Dizionario Biografico Treccani online, s.v. «Mercadante, Saverio», <http://www.treccani.it/ enciclopedia/saverio-mercadante_%28Dizionario-Biografico%29/> (ultima consultazione 3 giugno 2020).
7
8
ArCHIVIo dI STATo dI NApolI [dʼora in poi ASN], Ministero degli affari Interni, II Inventario, f. 4354.
Ivi, in Le Reali Scuole di ballo del Teatro di San Carlo, a cura di Giovanna Caridei, Napoli, Arteʼm, 2017, p. 59.
9 Si ringraziano i bibliotecari del Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” di Napoli Tiziana Grande e Cesare Corsi per il prezioso aiuto, cosí come Francesca Seller e Paologiovan ni Maione per i consigli e le indicazioni. A Paola Volpe il ringraziamento piú accorato per lʼassistenza costante nella lettura delle partiture.
del Real Collegio di Musica, per una composizione relativa a esami di fine anno della Scuola di Ballo, rende lʼidea dellʼimportanza assunta dalla formazione coreutica a Napoli con la fondazione di uno stabilimento pubblico, il piú antico della penisola, in cui confluivano alcuni dei migliori maestri europei. La formazione strutturata contribuiva alla magnificenza della messa in scena voluta da Domenico Barbaja e permetteva di gestire imponenti masse a basso costo, riservando ai Primi ballerini invitati o residenti le parti principali.10 Si tratta degli anni delle produzioni dʼoro, che vedranno dal 1833 in poi una progressiva decadenza della scuola e la sua prima chiusura nel 1840, coincidente peraltro con la morte di Barbaja.11 Il felice connubio tra i migliori prodotti della Scuola di Ballo e del Conservatorio di Musica conferma lʼimportanza di una ricostruzione analitica (e possibilmente parallela) del per corso formativo dei giovani a Napoli e inquadra il sistema danza nella veste che merita, ossia di fucina non solo di talenti che calcavano indistintamente le tavole dei principali palcoscenici dʼEuropa, ma che avrebbero formato coreografi e maestri altrettanto preziosi per le realtà continentali. Queste carriere transnazionali con tribuivano a innestare elementi sempre diversi nello stile locale, i cui esiti sovente tornavano in patria ancora una volta contaminati da quanto appreso allʼestero. In questo periodo storico le produzioni di ballo a Napoli sono interessanti e spesso allʼavanguardia, anticipando elementi fondanti del balletto romantico pro priamente detto. Come è noto, i soggetti trasmigrano dallʼopera al ballo e viceversa in un processo osmotico e che per Napoli attendono ancora indagini approfondite
10
Sulla presenza e lʼattività a Napoli di Domenico Barbaja si veda JoHN roSSellI, The opera industry in Italy from Cimarosa to Verdi, Cambridge University Press, 1984, ed. it. Lʼimpresario dʼopera. Arte e affari nel teatro musicale italiano dellʼOttocento, Torino, edT, 1985; pAoloGIo VANNI mAIoNe - FrANCeSCA Seller, Napoli nel viaggio musicale di Rossini, in Protagonisti nella storia di Napoli. Grandi napoletani. Gioachino Rossini, Napoli, Elio De Rosa, 1994, pp. 2-27; Id., Musicisti, cantanti e impresari a Napoli, in Protagonisti, pp. 30-31; Id., I Reali Teatri di Napo li nella prima metà dellʼOttocento. Studi su Domenico Barbaja, Bellona, Santabarbara, 1995; Id., Domenico Barbaja a Napoli (1809-1840): meccanismi di gestione teatrale, in Gioachino Rossini 1792-1992. Il testo e la scena, a cura di Paolo Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini, 1994, pp. 403429; Id., Lʼultima stagione napoletana di Domenico Barbaja (1836-1840): organizzazione e spet tacolo, «Rivista Italiana di Musicologia» 27, 1992, pp. 257-325; Id., Gioco dʼazzardo e teatro a Napoli dallʼetà napoleonica alla Restaurazione borbonica, «Musica/Realtà» 15, 1994, pp. 23-40; Id., Il Tribunale di Commercio di Napoli: una fonte sconosciuta per lo studio dellʼattività teatrale, «Fonti Musicali Italiane» 1, 1996, pp. 145-162; Id., Da Napoli a Vienna: Barbaja e lʼesportazione di un nuovo modello impresariale, «Römische Historische Mitteilungen» 44, 2002, pp. 491-506; FrANCeSCA Seller, La copisteria musicale del teatro San Carlo tra Sette e Ottocento, in «… Et facciam dolçi canti». Studi in onore di Agostino Ziino in occasione del suo 65º compleanno, a cura di Bianca Maria Antolini, Teresa M. Gialdroni, Annunziato Pugliese, Lucca, lIm, 2003, II, pp. 1019-1028; pHIlIp eISeNBeISS, Domenico Barbaja. Il padrino del belcanto, Torino, edT, 2015.
11 Cfr. mArIA VeNuSo, La Storia della danza e i documenti dʼarchivio: il caso di Napoli, in Le Reali Scuole di Ballo cit, pp. 15-20; eAd., La Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo: luci e ombre di una Istituzione, in Danza e ballo a Napoli: un dialogo con lʼEuropa (1806-1861), a cura di Paologio vanni Maione e Maria Venuso, Napoli, Turchini Edizioni, 2020, pp. 7-24.
alla luce di visioni storiche incrociate e non nazionalistiche.12
Con Mercadante, che vive e opera in un contesto storico-sociale di grande muta mento, ci appare non scontato e allʼavanguardia il suo impiego nella composizione di balli o anche di musica per la pantomima – sezione dei balli che in genere preve deva una organizzazione piú libera e ʼnarranteʼ, non vincolata alla ritmica imposta a calco dai passi scenici, in cui ogni ʼpiede metricoʼ diviene un ʼlemma danzatoʼ. Mettendo da parte i documenti relativi alle Scuole di Ballo, ancora in fase di studio da parte della sottoscritta, sulla scena professionale Saverio Mercadante partecipa alla sistemazione delle partiture per i balli dello stesso Rossini e altri. Un esempio lo si trova in occasione del fiasco della musica di Gallenberg per Rinaldo e Armida di Henry nel 1811 poi sostituita, per il secondo atto, da musiche di Rossini, Carafa e Mercadante per La Gerusalemme liberata dello stesso Henry nel 1819. Tuttavia Mercadante crea anche ah hoc per la danza fin dallʼesordio.
Nello stesso anno del Concerto per gli esami delle Scuole di ballo si colloca Il servo balordo, ballo comico in tre atti composto e diretto dal Salvatore Taglioni, il coreografo ʼufficialeʼ dei Reali Teatri.13 «La musica è stata espressamente composta dal sig. Mercadante alunno del Real Collegio di Musica» riporta il libretto, di cui dirà nello specifico Roberta Albano nelle pagine seguenti.14 Lʼavverbio espressamente qui usato è per noi indicativo e importante, poiché per la scena parigina si dovrà attendere, come detto in principio, la Giselle di Adolphe Adam per avere una parti tura pensata per la danza, finalmente lontana delle air parlant che costituivano la struttura delle partiture di balletto.
Espressamente composto da Mercadante è anche Il *ritorno di M.r Deschalumeaux ballo comico […] diretto da Pietro Hus, [...]. Per la nuova comparsa in iscena del ballerino caratterista Antonio Calvarola detto Tognino. Rappresentato la prima volta in Napoli nel R. Teatro del Fondo nellʼestate del 1818, servendo di seguito allʼaltro ballo intitolato Mr. Deschalumeaux dello stesso autore / La musica, espressamente composta, è del signor Mercadante, in scena sempre nel 1818 al Teatro del Fondo.15
A momenti rilevanti dellʼazione coreutica è assegnata la sua musica, come il
12 mArIAN SmITH, Ballet and Opera in the Age of Giselle, Princeton, Princeton University Press, 2000; eAd., Ballet, Opera and Staging Practices at the Paris Opéra, in La realizzazione scenica dello spettacolo verdiano, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 1997, pp. 172-318; mATIl dA ANNA BuTkAS erTZ, Scoring the ballo fantastico: supernatural characters and their music in Italyʼs ballets during the Risorgimento, «Danza e Ricerca» 8, 2016, pp. 5-46.
13 pATrIZIA VerolI, I balli composti e/o diretti da Salvatore Taglioni nei Teatri Reali napoletani San Carlo e Fondo (1814-1861). Una prospettiva dai libretti, in Danza e ballo a Napoli cit., pp. 53-87.
14 Biblioteca del Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” di Napoli [dʼora in poi I-NC], S.Oi.11.10/20.
15 Il Ritorno di Monsieur Deschalumeaux, ballo comico, espressamente composto e diretto da Pietro Hus, Maestro della regia scuola generale di ballo per la nuova comparsa in iscena del ballerino caratterista Antonio Calvarola, detto Tognino, Napoli, Dalla tipografia Flautina, 1818, Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III, sezione Lucchesi Palli.
Pas de deux tra Paolo Samengo e Amalia Brugnoli in Selico o sia il buon figlio, ballo istorico pantomimo in tre atti composto e diretto da Luigi Henry rappresentato la prima volta in Napoli nel Real Teatro di S. Carlo nellʼinverno del 1826 / [la musica è del sig. maestro Carlini. Quella del terzetto dei signori conjugi Vestris con la signora Elssler Fanny è del signor Conte di Gallenberg. Quella del pas-de-deux del signor Samengo con la signora Brugnoli è del sig. maestro Mercadante]. Si tratta peraltro di un momento importante per la danza, perché si trovano a Napoli le tre sorelle Elssler Fanny, Thérese e Anna.16
Sempre del 1818 (primavera) è Il califfo generoso, per la coreografia di Armand Vestris, andato in scena al Teatro del Fondo; Il flauto incantato o Le convulsioni musicali, per la coreografia di Salvatore Taglioni, dato al Teatro di San Carlo il 19 novembre del 1818 (poi in scena a Caserta il 25 maggio del 1819 e ulteriormente rivisto per il Teatro alla Scala di Milano il 12 gennaio del 1828), sempre con musica composta espressamente, fatta eccezione per il quintetto di Henry; I portoghesi nelle Indie o La conquista di Malacca, ancora una volta per la coreografia di Salvatore Taglioni, al Teatro di San Carlo il 30 maggio del 1819.
Dallo studio dei fondi mercadantiani sono già emerse diverse trascrizioni di materiale proveniente da balli (le cui parti di assolo spesso erano separate dal resto della partitura, per cui molto spesso sono andate perse), come quella operata da F. Bozzaodra, per violino, flauto, clarinetto e fagotto, basata sul Passo a tre nel ballo Nicolò Pesce, quelle per pianoforte di Giuseppe Galluzzo sul Passo a due nel ballo Il Combattimento della Chimera e sul Passo a tre nel ballo Presentazione deʼ schiavi al gran signore. Ancora per pianoforte, quella composta da Andrea Leonhard sul Passo a due nel ballo Selico; esistono inoltre diverse partiture orchestrali chiaramente riferibili a balletti o parte di essi di cui non conosciamo né il titolo né le esecuzioni né i coreografi.17 O meglio, il quadro dei coreografi è chiaro dalle cronologie, per gli anni di Mercadante, ma senza la possibilità di associare la partitura a un titolo lʼattribuzione resta impossibile. Non mancano le trascrizioni per organici diversi e questo testimonia lʼattenzione per la musica da ballo di Mercadante, sulla quale il compositore si stava ʼfacendo le ossaʼ e probabilmente mostrava una spiccata attitudine alla collaborazione con le difficili richieste dei coreografi. Le musiche dei piú distinti autori sono spesso ridotte da Mercadante – e non da un qualunque musicista – nella ricerca di una qualità anche nella sistemazione del materiale altrui utilizzato per la danza.
Il quadro che emerge al San Carlo tra gli anni Dieci e gli anni Venti del XIX secolo, in questo senso, è dunque quello di una realtà composita e allʼavanguardia, sotto certi aspetti, sia a livello tecnico che di ricezione. Lʼalternanza di Maestri e core
16 I-NC, S.Oi.11.10/18.
17 GIANluCA peTruCCI, Saverio Mercadante, Duetto per due flauti sul Pas de neuf nel Ballo Arsene del Principe Michele Carafa, a cura di Franco Vigorito e Ugo Piovano, Eboli, Edizioni Vigormu sic, 2021.
ografi francesi e il loro continuo interagire con personalità locali e non, oltre che con i principali nomi del panorama musicale tout court, fanno di Napoli una realtà molto piú importante, per la danza, di quanto non si sappia ancora oggi e amplia le visioni sulle messe in scena, non relegandole alla sola riproposizione di quanto già affermatosi allʼOpéra di Parigi.18
La situazione di questi anni cosí importanti, al tempo della restaurazione bor bonica post Decennio francese, si sintetizza nella compresenza di personalità del calibro di Salvatore Viganò e giovani coreografi francesi quali Louis Henry e Pietro Hus, giunti a Napoli insieme ai sovrani della famiglia Bonaparte per sfuggire alla personalità ingombrante di Pierre Gardel. Costoro innestano la propria esperienza su quella locale, rappresentata da Gaspare Ronzi, Pietro Angiolini, Gaetano Gioja.19
Questo grande fermento culturale è incentivato anche dalla presenza di Gioachino Rossini, il quale opera in un contesto composito che spesso anticipa o comun que condivide i canoni preromantici europei piú di quanto comunemente non si creda.20
Benché la cronologia della musica di Mercadante sia nota, quello che fa la dif ferenza è dunque che un nome di questo calibro abbia costruito balli autonomi in una Europa in cui la qualità della musica per la danza era indiscutibilmente ʼdi servizioʼ. Sulla scia del balletto dʼazione noverriano, reso moderno dallʼascesa del tema borghese e popolare che apre la strada al balletto romantico, avviare uno studio sulle partiture dei balli di Saverio Mercadante in un auspicabile lavoro congiunto di tipo musicologico e coreologico potrebbe riscrivere non poche prassi coreutiche, avvalorando quanto sta emergendo dai documenti dʼarchivio per Napoli e la sua storia artistica ancora da svelare.
Il servo balordo: lo scheletro della partitura
Volendo riportare alla luce lo scheletro del ballo Il servo balordo di Salvatore Taglioni, è possibile al momento affidarsi solo alla partitura autografa conservata presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli e al libretto. Taglioni fa vivere a Napoli il ballo comico già in auge nel Settecento e il primo di tal genere, a sua firma, dato a Napoli è Il servo balordo (1818). In Italia questo tipo di spettacolo aumenta lentamente nelle occorrenze fino al 1845, per registrare
18 IVor GueST, Il balletto in Francia. LʼOttocento, in Musica in scena. Storia dello spettacolo musi cale, a cura di Alberto Basso, Torino, Utet, 1995, V, pp. 165-221.
19 Cfr. roBerTA AlBANo, Salvatore Viganò e lʼattività al teatro del Fondo di Napoli, «Danza e Ricer ca» 10, 2018, pp. 12-13.
20 mArIA VeNuSo, La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini: interferenze e possibili visioni, in Rossini & Napoli: di questa luce un raggio, a cura di Antonio Caroccia, Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione, Napoli, Edizioni San Pietro a Majella, 2020, pp. 73-94.
un declino intorno al 1850 e poi riaffermarsi fino al 40% nel 1875.21 In questo ballo si ammira una delle prime esibizioni di August Vestris a Napoli.22 Alcuni dei nomi piú importanti del panorama del balletto internazionale sono qui presenti; la stessa partitura si apre col Pezzo del Sig. Duport e si chiude coi pezzi di Henry e Taglioni. Tra i principali ballerini e interpreti: Louis Henry e consorte Signora Quériau, Marietta Ronzi, Luigi Maglietta, Lauretta Sichera (interprete), Antonio Calvarola detto Tognino (interprete), Antonio Guerra (interprete), Luisa Porta, Lam berti, Alfonso Démasier, Giovanna Campilli, Conti (cantante), Adelaide Mersi, Louis Duport, Giulia Mori (interprete), Luisa Talamo, Giuseppe Laini, Marchissi figlio, Salvatore Taglioni (interprete), Pietro Hus. Costumi di Filippo Giovinetti. La partitura di questo ballo in tre atti è stata composta da Mercadante ancora alunno del Real Collegio di Musica; è del tutto priva di annotazioni sui Passi soli stici/di coppia/di insieme, fatta eccezione per la possibilità di riconoscere alcuni momenti individuali e ballabili in relazione alla durata delle battute e allʼimpiego dellʼorganico. La prima cosa che salta allʼocchio è proprio questʼultimo: un organico che appare impegnativo rispetto, ad esempio, a quello di un prodotto di successo come La virtú premiata di Gallenberg (piú ʼcameristicoʼ, costituito da violini, viole, corno inglese, clarinetto, fagotto, violoncelli, contrabbassi). Qui si trovano infatti violini, ottavino, flauto, oboe, clarinetto, fagotti, corni, trombe, trombone, timpani, grancassa, viole, violoncelli, basso (con aggiunta di chitarra per un Passo di Taglioni). Questo appare, per la danza, un indicatore interessante, in quanto la ricchezza dellʼorganico a sostegno dellʼazione coreutica profila una moltiplicazione delle voci orchestrali che colorano la drammaturgia in maniera piú complessa e ricca, anche se si tratta di un prodotto ʼdi passaggioʼ tra lo stato di allievo e quello di professionista. Lʼorganico rinforzato, tuttavia, non comporta un necessario parallelismo col fasto del balletto: La virtú premiata, quale esempio già preso in considerazione, nono stante un organico non impegnativo poteva vantare una messa in scena fastosa e un macchinismo dʼavanguardia, imponenti masse e grandi virtuosismi. Tra Gallenberg e Mercadante cʼè però lo spartiacque degli studi professionali.
La difficoltà principale nellʼapproccio a questo documento è stata la leggibilità: spesso non è indicata la fine di un numero musicale né lʼinizio di quello successivo e la scrittura corre spesso disordinata e rovesciata.
Il primo atto si apre col già citato passo di Louis Duport, che al f. 1r presenta un allegro in 2/4 di 27 battute, che diviene al f. 3r un tempo di pastorale in 6/8 di 67 battute; questo si ritrasforma in allegro 2/4 dal f. 6v, per la durata di 8 battute di raccordo che ricorrono simili anche piú avanti allo stesso modo; al f. 7r attacca un moderato in 4/4 per 32 battute; al f. 9r segue di nuovo il raccordo precedente di 8 battute in 2/4; al f. 9v altre 8 battute di 3/4 di allegretto grazioso, per poi riprendere
21 VerolI, I balli composti e/o diretti da Salvatore Taglioni cit., p. 65.
22
FrANCeSCA FAlCoNe, Armando Vestris danzatore e coreografo a Napoli: la stagione del 1817, in Danza e ballo a Napoli cit., p. 103, n. 6.
in 2/4 altre 8 battute col primo violino. Seguono fino al f. 10v altre 9 (1 pausa + 8) battute nello steso tempo e poi ulteriori 9 (identica struttura) cassate dallʼAutore. Il Passo di Duport prosegue dunque al f. 11r con un 4/4 allegro assai di 9 battute (sempre 1 di pausa + 8); al f. 11v un 2/4 allegro di 40 battute (e una pagina e mezza cassate allʼinterno); il f. 14r procede in 6/8 moderato di 46 battute; dal f. 16v inizia un presto nello stesso tempo, che annuncia la parte finale del numero coreutico di 25 battute; segue un andante mosso in 2/4 al f. 17v, di 18 battute. Attacca dunque al f.18r un numero musicale di 12 battute, probabilmente una introduzione al pezzo sciolto del Signor Taglioni, segnalato nel margine superiore del f. 19r e che, in quanto ʼscioltoʼ, doveva essere accompagnato da altra musica. Lʼannotazione riportata è pezzo sciolto del Sig. Taglioni poi a * secondo [[pezzo]] del secondo atto. Segue nello stesso foglio un Larghetto in 4/4 di 19 battute e, dal f. 20v un Alle gretto alla polacca in 3/4 di 93 battute; questʼultimo è il numero musicale piú lungo incontrato fino ad ora ed è con ogni probabilità un ballabile corale. Al f. 25v continua un Allegretto di 16 battute (di cui le battute dalla 7 alla 13 risultano cancellate dallʼautore). Al f. 26v segue un Maestoso in 3/4 per 23 battute. Al 28r inizia un Allegro moderato in 4/4 di 22 battute. Segue al f. 29v un Andante in 3/4 di 18 battute; dal f. 30v un Allegro vivace in 2/4 per 33 battute. Al f. 32r si prosegue con un Andante mosso in 6/8 di 30 battute, con una pagina cassata (f. 32v) e una rovesciata (f. 33r): qui si legge una linea di canto per 26 battute con le parole Oh qual contrasto io sento in seno. Lʼalma dividono sdegno affetto. Non vi è indicazione della chiave in questa pagina e sotto sono presenti altre parole poco leggibili a causa della corruzione della carta (si legge solo Lʼamor); al f. 34r inizia un Allegro in 2/4 per 42 battute (al f. 35r la scrittura musicale della parte inferiore del foglio è scritta nuovamente al contrario e il manoscritto torna in posizione ordinaria per la lettura generale). Dal f. 36r inizia un Adagio in 3/4 per 27 battute; al f. 37v segue un Allegro vivace in 4/4 di 20 battute; poi un Allegro moderato per 17 battute; dal f. 39v Larghetto di 22 battute: poi dal f. 41 Allegretto in 6/8 per 17 battute: dal f. 42r Maestoso in 4/4 per 27 battute; f. 43r Allegretto in 6/8 come prima per un totale di 20 battute; al f. 44v Larghetto in 2/4 per 25 battute; f. 45v Andante mosso sempre in 2/4 per 124 battute; conclude dunque al f. 52v un altro Passo del Sig. Duport (non si comprende se su musica differente, e dunque ʼscioltoʼ, oppure se lʼannotazione nel margine destro si riferisca al numero musicale che conclude il primo atto e che senza dubbio coinvolge anche il corpo di ballo).
Sul f. 53r che introduce il secondo atto si legge, nel margine alto, Scena del Sig. Tognini. Al f. 54v Allegro in 4/4 per 136 battute, probabilmente altro numero musicale destinato alle masse, che confluisce in un Adagio sempre in 4/4 al f. 60r della durata di 7 battute (raccordo) in cui si rilevano tre punti coronati nelle prime tre battute, su pausa, cosa che probabilmente denota il prolungamento di una posizione o di una dinamica del danzatore. Questi punti coronati sono frequentissimi e ci danno la percezione della tenuta di una posizione o di un equilibrio quando non sono a fine numero musicale. Queste battute di collegamento portano
allʼAllegro del f. 60v, sempre in 4/4, di 109 battute, che a loro volta confluiscono in un ulteriore Adagio di raccordo, al f. 66v, di appena 4 battute. Segue un Allegro nello stesso tempo, di 21 battute; dal f. 67v Andante in 4/4 ancora di 6 battute (altro raccordo) e, al f. 68r, ancora Allegro per 22 battute; al f. 69r un Adagio di raccordo di 4 battute per introdurre un Allegro agitato di 25 battute; al f. 70r Andante di 22 battute. Dopo un foglio bianco, il f. 72r reca lʼannotazione Pezzo del Sig. Henry, un 6/8 di 50 battute; al f. 74v diventa un Allegro in 2/4 che inizia in pizzicato, per 155 battute: un pezzo importante che si conclude a partire dal f. 82r col finale Allegro vivace in 4/4 di 132 battute. Segue, al f. 89r, un Largo in 3/4 di 32 battute, poi un Allegro in 2/4, dal f. 91r, di 49 battute (metà del foglio 91v e lʼintero 92r appaiono cassati dallʼautore. Segue, dal f. 95v, una Polonese in 3/4 di 46 battute e, dal f. 99r, un Allegretto in 2/4 di 98 battute. Segue il Pezzo del Signor Taglioni (il nome Mercadante è ben leggibile nel margine superiore destro del f. 105r); questo numero aggiunge la chitarra allʼorganico e inizia con una introduzione di 6 battute in largo 2/4, per poi procedere in 6/8 al f. 106r per 59 battute; segue un Allegro in 3/4 a partire dal f. 110r di circa 139 battute. Risultano cassati dallʼautore i ff. 114v (metà) e 115r; il f. 118v è bianco. Al f. 118r la croce di rinvio lega al f. al 122r, che continua fino a 123r in 4/4; risultano rimossi dei fogli prima del 119r, che procede in 6/8. Il f.122 lega con il 118r (3/4); il f. 122v è vuoto; al f. 123r torna un 4/4 per 15 battute cui segue un Allegro per 41 battute sempre nello stesso tempo di 4/4. Al f. 126r Andantino in 2/4 per 26 battute; al f. 127v un Minuetto (tempo di minué) in 3/4 di 17 battute e poi dal f. 129v un Allegro in 4/4 di 32 battute; al f. 130r un Adagio di 21 battute nello stesso tempo; in conclusione di questo si legge Fine. Segue al f. 131v un Allegro agitato per 7 battute in 4/4, dunque un raccordo che porta allʼAdagio di 54 battute, nello stesso tempo e poi, dal f. 134v, un Allegretto in 2/4 per 58 battute.
Seguono il Passo del Sig. Vestris, il Passo del Sig. Henry e il Finale di cui non è riportata la musica, poiché ascrivibile alla tradizione delle danze sciolte e di altro (spesso di ignoto) autore.
Si tratta di una partitura poco pulita, spesso cassata e con diversi rimandi interni, quasi una minuta di servizio. Una sezione cosí grossolana dà, a chi si occupa di danza, lʼunica approssimazione possibile al prodotto scenico e lo inquadra, in questo caso, in uno status ordinario, per quanto riguarda il soggetto, straordinario per quanto concerne invece gli interpreti, ma ʼdi preparazioneʼ per il giovane Merca dante che, impiegato nei balli, inizia a sperimentare e a maturare un tipo di lavoro professionale nelle maglie ristrette e ʼcostretteʼ della musica per la danza.
È chiaro che una partitura di ballo, peraltro giovanile, si annovera tra quelle fonti di ʼapprossimazioneʼ per lʼaspetto coreutico, eppure costituisce un tassello per una ideale ricostruzione di una spettacolarità non impermeabile alle influenze recipro che. La coesistenza, in Mercadante, di classicismo e modernità, rispettivamente rappresentata da tradizione del partimento e tecnica motivica, proietta il mondo del Compositore su una coesistenza analoga per la danza, che si stava sviluppando sulle scene napoletane degli anni Dieci con Armand Vestris.
Figura 1:
SAVERIO MERCADANTE, Gran concerto a due clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, Napoli, Girard, 1818. Frontespizio. (Biblioteca dellʼIstituto Superiore di studi Musicali “Vecchi Tonelli” di Modena).
Figura 2: SAVERIO MERCADANTE, Gran concerto a due clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, Napoli, Girard, 1818. I clarinetto, p. 1. (Biblioteca dellʼIstituto Superiore di studi Musicali “Vecchi Tonelli” di Modena).
Figura 3: SAVERIO MERCADANTE, Gran concerto a due clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, Napoli, Girard, 1818. I clarinetto, p. 2. (Biblioteca dellʼIstituto Superiore di studi Musicali “Vecchi Tonelli” di Modena).
Figura 4: SAVERIO MERCADANTE, Gran concerto a due clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, Napoli, Girard, 1818. II clarinetto, p. 1. (Biblioteca dellʼIstituto Superiore di studi Musicali “Vecchi Tonelli” di Modena).
Figura 5: SAVERIO MERCADANTE, Gran concerto a due clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, Napoli, Girard, 1818. II clarinetto, p. 2. (Biblioteca dellʼIstituto Superiore di studi Musicali “Vecchi Tonelli” di Modena).
Figura 6: SAVERIO MERCADANTE, Gran concerto a due clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, Napoli, Girard, 1818. Corno, p. 1. (Biblioteca dellʼIstituto Superiore di studi Musicali “Vecchi Tonelli” di Modena).
Figura 7: SAVERIO MERCADANTE, Gran concerto a due clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, Napoli, Girard, 1818. Corno, p. 2. (Biblioteca dellʼIstituto Superiore di studi Musicali “Vecchi Tonelli” di Modena).
Figura 8: SAVERIO MERCADANTE, Gran concerto a due clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, Napoli, Girard, 1818. Flauto, p. 1. (Biblioteca dellʼIstituto Superiore di studi Musicali “Vecchi Tonelli” di Modena).
Figura 9: SAVERIO MERCADANTE, Gran concerto a due clarinetti, flauto e corno da caccia obligati, Napoli, Girard, 1818. Flauto, p. 2. (Biblioteca dellʼIstituto Superiore di studi Musicali “Vecchi Tonelli” di Modena).
Artisti e tematiche dei balli di Mercadante
Lʼinfluenza francese nella danza napoletana
Il coinvolgimento di un giovane allievo del Conservatorio e, successivamente, di un affermato musicista, nella composizione di musica per la danza, come già affer mato da Maria Venuso, evidenzia lʼalto livello della programmazione coreica sotto la gestione Barbaja. Seguire la partecipazione di Saverio Mercadante alla crea zione originale di musiche dei balli, o la sua collaborazione nellʼorchestrazione di brani per la danza composti anche da altri autori, significa riferire di unʼattività ricca, vivace e variegata che vede Napoli protagonista in Italia, per i primi quaranta anni del XIX secolo.23 Dʼaltro canto è opportuno chiedersi anche cosa abbia potuto dare, al giovane Saverio Mercadante, la frequentazione dellʼambiente coreico in un periodo in cui anche per il ballo si andava superando la catalogazione accademica dei generi coreografici.
Nelle Lettres sur la danse et sur le ballets di Noverre, pubblicato nella prima edi zione nel 1760, e poi nel 1803-1804 e nel 1807, vengono stabiliti i princípi estetici del ballet dʼaction. Noverre codifica i generi di balletto sulla falsariga dei canoni esistenti per la pittura (ma anche per il teatro, recuperando la divisione aristotelica in tragedia, commedia e dramma satiresco) per cui il genere sérieux afferisce alla tragedia con personaggi storici, mitologici e si esprime con la tecnica accademica rigorosa, dal ritmo posato, derivante dalla danse noble, adatto ad un fisico lon gilineo. Il genere demi-caractère, che affronta argomenti dʼambientazione pasto rale e mitologica, utilizza una tecnica accademica piú vivace e saltata, che rispetti comunque il rigore accademico, adatto a un fisico non troppo alto, muscolarmente predisposto allʼagilità e alla velocità dʼesecuzione. Il genere comique rappresenta soggetti contemporanei, o ispirati al teatro borghese o al nascente interesse per il folklore nazionale, e utilizza un movimento libero e acrobatico, proveniente dalla stilizzazione realizzata in Francia della tradizione performativa della Commedia dellʼArte, avviata già da François Riccoboni.24 Tali definizioni troveranno riscontro nellʼinquadramento dei danzatori, effettuata allʼOpéra di Parigi alla fine del Settecento, in serieux, demi-caractère e comique ma che ben presto verrà rimesso in
23
La bibliografia sulla storia musicale a Napoli è molto ampia, per i primi decenni dellʼOttocento facciamo riferimento a Musica e spettacolo a Napoli durante il decennio francese (1806-1815), a cura di Paologiovanni Maione, Napoli, Turchini edizioni, 2016 e Rossini & Napoli cit.
24 Cfr. FlAVIA pAppACeNA, Le Lettres sur la danse di Noverre. Lʼintegrazione della danza tra le arti imitative, «Acting Archives», Supplement 9, 2011, pp. 1-31; a cura di eAd., Jean-Georges Nover re, Lettres sur la Danse, sur les Ballets et les Arts (1803), «Chorégraphie» 6, 2012, Il Settecento e lʼOttocento, a cura di Flavia Pappacena, in orNellA dI ToNdo - FlAVIA pAppACeNA - AleS SANdro poNTremolI, Storia della danza e del balletto, Roma, Gremese, n.e. 2019, p. 166.
discussione dalla scompaginazione dei generi di cui parla Flavia Pappacena.25 Negli anni tra i due secoli la danza francese avvia un notevole rinnovamento tecnico che porta a sviluppi acrobatici che sarebbero stati inaccettabili nellʼestetica in vigore nellʼAntico Regime. Auguste Vestris e Louis Duport, due danzatori definiti demicaractère, sono i principali interpreti di tale evoluzione tecnica che, soprattutto nel secondo, portò allʼadozione di un allenamento estenuante e duro definito tour de force. Il palcoscenico dellʼOpéra, negli anni dellʼImpero napoleonico, vive però spinte contrastanti: se da una parte lʼalleggerimento dei costumi per uomini e donne pro muove una maggiore libertà dei movimenti, è pur vero che il lungo dominio di Pierre Gardel e la critica teatrale, che si svilupperà proprio in quegli anni, punteranno a mantenere una certa fedeltà ai criteri noverriani.26 Dʼaltra parte un cambio culturale cosí radicale, come quello avvenuto durante la Rivoluzione francese, presuppone anche un cambiamento semantico dei termini che distinguono la definizione dei generi. Non a caso i ballerini demi-caractère acquisiranno una notevole preminenza nel gusto del pubblico che inizierà a preferirli ai compassati ballerini serieux. Uno stile che gradualmente si andrà affacciando sulla scena del balletto francese è quello troubadour che recupera le ambientazioni cavalleresche e medievali e che troverà spazio e libertà di manifestarsi in varie produzioni coreutiche napoletane. Inoltre nei teatri periferici parigini o nelle città lontane dalla capitale, già dalla fine del Settecento, si rappresentavano balli ispirati alle opere di Beaumarchais o ai racconti morali di Marmontel, che arriveranno in ritardo sul palcoscenico dellʼOpéra dove si preferivano argomenti che non si discostassero dallʼambito eroico e mitologico.27
La scena napoletana, lontana dal rigore accademico dellʼOpéra, nel Decennio francese si rivolgerà prevalentemente ad artisti dʼoltralpe fornendo un importante trampolino di lancio per i giovani coreografi che non trovavano spazio nel rigido ambiente parigino. Francesca Falcone individua in Armand Vestris, e nella sua atti vità prima a Londra e poi a Napoli, un importante elemento di propagazione dello stile troubadour sulle scene sancarliane che presupponeva un movimento corporeo piú dinamico e vario adottato dalle danze di colore spagnolo o folklorico.28 I Teatri
25
FlAVIA pAppACeNA, Il rinnovamento della danza tra Settecento e Ottocento. Il trattato di danza di Carlo Blasis, Lucca, lIm, 2009, pp. 19-37.
26
Cfr. eleNA CerVellATI, Théophile Gautier e la danza. La rivelazione del corpo nel balletto del XIX secolo, Bologna, ClueB, 2007, pp. 41-96.
27 Almaviva e Rosina di Jean-Baptiste Blache era andato in scena a Lione e Bordeaux nel 1787, Honi soit qui mal y pense, ou le Page inconstant, e Le Ballet de la paille (La Fille mal gardée) di Dauberval avevano debuttato a Bordeaux nel 1786 e nel 1789. I balletti di Dauberval verranno rappresentati sulle scene dellʼOpéra solo parecchi anni dopo la sua morte da Jean Aumer che li mise in scena rispettivamente nel 1823 e nel 1828. Cfr. IVor GueST, Le Ballet de lʼOpéra de Paris, Paris, Flammarion, 2001, pp. 82-84.
28
Sullo stile troubadour si veda pAppACeNA, Il rinnovamento della danza cit., pp. 33-36; anche FAlCoNe, Armando Vestris cit., pp. 101-121.
Reali di Napoli offrivano la possibilità di fondere gli sviluppi tecnici di matrice fran cese con la forte tradizione di danza grottesca e pantomimica italiana, diventando luogo ideale per la proposta di una grande varietà di soggetti nei balli e di una ricerca di una tecnica ardimentosa che attraesse sempre piú lʼinteresse del pubblico, senza rinunciare alla eleganza prevista dalle convenzioni teatrali dellʼepoca.29
Nel periodo napoleonico lʼimpresario Domenico Barbaja chiama a piú riprese a Napoli i giovanissimi talenti dellʼOpéra che non trovavano spazio nella compagnia parigina dominata da decenni da Pierre Gardel. Si ristabilisce il predominio della danza francese con lʼattività di Pierre Hus,30 Louis Henry, Salvatore Taglioni, paler mitano ma educato allʼÉcole de Danse de lʼOpéra de Paris. Seguiti successivamente da Louis Duport, Armand Vestris, Albert che manterranno solido il legame tra Parigi e Napoli nei primi venti anni dellʼOttocento.31 Lʼintensità della programmazione coreica porta alla fondazione della Scuola di ballo del Teatro di San Carlo nel 1812 che si ispirerà, per regolamenti, proprio alla scuola parigina.32 La presenza di due importanti palcoscenici, la sala principale del San Carlo e quella del Teatro del Fondo, permetteva di impiegare gli allievi della scuola in numerose produzioni e sperimentare generi alternativi, sia per lʼopera che per il balletto, rispetto a quello
29 Sulla danza a Napoli nellʼOttocento si veda: JoSè SASporTeS, La danza, in Il Teatro di San Carlo, Napoli, Guida, 1987, pp. 367-396; roBerTA AlBANo, Il Teatro di San Carlo, in La danza in Italia. Dal XVII secolo ai giorni nostri, a cura di Flavia Pappacena, Roma, Gremese, 1998, pp. 167 219; pAolo ruSSo, Balli francesi nella Napoli napoleonica: “Paolo e Virginia” di Louis Henry, in Nicola Antonio Manfroce e la musica a Napoli Tra Sette e Ottocento, a cura di Maria Paola Borsetta, Massimo Distilo e Annunziato Pugliese, Reggio Calabria, Istituto di Bibliografia Musicale Calabrese, 2014, pp. 201-220; VeNuSo, La danza teatrale a Napoli negli anni di Rossi ni cit.; Danza e ballo a Napoli cit.
30 Pierre Huss, o Pietro Hus, discendente di una antica famiglia di danzatori francesi e padre di Augusto Hus. Questi formatosi alla Scuola di ballo del San Carlo, fu insegnante della Scuola della Scala dal 1850 con la moglie Savina Galavresi. In un decreto del 18 ottobre 1817 Pietro Hus ottenne la naturalizzazione come suddito del Regno delle Due Sicilie per sé e suo figlio Augusto. In ASN, Ministero dellʼInterno, II inventario, f. 4553.
31 «Le grazie semplici e naturali che fanno tanto piacere quando fanno sentire meno la fatica e costano la dolcezza e la delicatezza dellʼespressione, la morbidezza degli atteggiamenti ed unʼaria nobile ed animata sono le doti che distinguono questo giovane allievo della scuola del signor Coulon, che può dirsi quella delle grazie» in «Corriere di Napoli», 314, 11 novembre 1808 in SASporTeS, La danza cit , p. 386; anche in ClAudIA CelI, Lʼepoca del coreodramma (1800-1830), in Musica in scena. Storia dello spettacolo musicale, a cura di Alberto Basso, Torino, uTeT, 1995, V, p. 89.
32 Sulla scuola di ballo del San Carlo si veda roSA mAreSCA, Le scuole di ballo del Teatro di San Carlo dal 1812 al 1840: i documenti dellʼArchivio Storico di Napoli, «Chorégraphie» 5/10, 1997, pp. 85 112; NAdIA SCAFIdI, La danza nelle istituzioni scolastiche governative nellʼItalia dellʼOttocento (1ª e 2ª parte), «Chorégraphie» 2/3 e 4, 1994, pp. 75 90 e 63 82; VeNuSo, La Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo cit.
serio da sempre privilegio della scena principale.33
La lunga gestione di Barbaja affronta vari periodi politici, con conseguenti diverse esigenze culturali che vanno dal primo periodo, sotto il regno napoleonico di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, alla Restaurazione con il ritorno della monarchia borbonica, al periodo della ʼinternazionalizzazioneʼ, quando Barbaja, negli anni successivi alla rivoluzione del 1820, assume la gestione a Vienna del Teatro di Porta Carinzia con il compito di esportare la magnificenza degli spettacoli napoletani nella capitale austriaca.34
Nel 1814 lʼarrivo a Napoli di Louis Duport segna un momento importante legato alla personalità di un ballerino e coreografo che influenzerà lʼevoluzione del ballo al San Carlo. Molto apprezzato a Napoli sia negli anni del regno di Murat,35 sia durante la Restaurazione, diviene poi braccio destro di Barbaja a Vienna come direttore dei teatri dal 1825 al 1836.36 Duport era fuggito da Parigi nel 1808 travestito da donna per recarsi prima a Vienna e poi a San Pietroburgo, dove lavora a stretto contatto con Charles-Louis Didelot. Con la sua mirabile interpretazione in Flore et Zéphire Duport riesce a mettere in pratica quellʼaspirazione allo stile aereo, style volant, a cui il coreografo mirava con lʼutilizzo dei macchinari per il volo.37 Giunge infine a Napoli nel 1814 con la fama conquistata già in Francia, in Austria e in Russia per le straordinarie doti tecniche in relazione alla grande elevazione dei suoi salti e allo sviluppo delle pirouettes, elemento tecnico affermatosi nella danse dʼécole solo dopo la riforma di Noverre e con la Rivoluzione francese.38 La sua lunga presenza a Napoli condiziona innegabilmente la scuola e la tecnica maschile, che mantiene nel Teatro di San Carlo una importante tradizione, dando frutti duraturi ed apprezzati
33 pAoloGIoVANNI mAIoNe - FrANCeSCA Seller Il Palcoscenico dei Mutamenti: Il Teatro Del Fondo Di Napoli 1809-1840, «Recercare» 9, 1997, pp. 97-120.
34
Su Domenico Barbaja si veda: mAIoNe - Seller, Lʼultima stagione napoletana di Domenico Barbaja cit., pp. 257 325; Id., I Reali Teatri di Napoli nella prima metà dellʼOttocento cit., 1995; Id., Domenico Barbaia a Napoli (1809 1840): meccanismi di gestione teatrale cit., pp. 403 429; Id., Da Napoli a Vienna: Barbaja e lʼesportazione di un nuovo modello impresariale cit. 35 Duport aveva debuttato a Napoli nel 1814 con Zeffiro ossia lʼincostante fissato, con Il potere delle Dame al Teatro del Fondo e con Gli amori di Adone e Venere o sia la vendetta di Marte nellʼautunno dello stesso anno al Teatro di San Carlo. 36 mAIoNe - Seller, Da Napoli a Vienna cit., p. 407. 37 CoNCeTTA lo IACoNo, Il Balletto in Russia, in Musica in scena cit., pp. 307-313.
38 Il clamoroso successo ottenuto al suo debutto parigino prima come danzatore, nel ruolo di protagonista dellʼAchille in Sciro di Gardel, poi come coreografo di Aci e Galatée, lo avevano spinto a richiedere il ruolo di Maître de ballet che gli fu rifiutato dallo stesso Napoleone Bonaparte con lʼinvito a rispettare gli artisti piú anziani. Su Louis Duport si veda roBerTA AlBANo, Louis Antoine Duport: the activity at San Carlo in Naples (titolo provvisorio), in Times For Changes: Transnational Migrations and Cultural Crossings In Nineteenth- Century Dance, a cura di Irene Brandenburg, Francesca Falcone, Claudia Jeschke e Bruno Ligore, Bologna, Piretti, (in preparazione).
in Francia, quali Antonio Guerra39 e Leopoldo Adige.40 Il primo è definito al suo debutto come il petit Duport rendendo paradigmatica la preferenza del pubblico napoletano per la danza pura e acrobatica, inserita in un contesto narrativo, rispetto al ballo pantomimico di Salvatore Viganò, che poneva al primo posto la gestualità espressiva e non amava i divertissements fini a se stessi.41 Chiamato da Barbaja al San Carlo nel 1815, per la stessa stagione del debutto di Rossini, vive il periodo napoletano a stretto contatto con Duport e sono da piú voci messi a confronto per le loro diverse poetiche coreutiche.42
I balli mercadantiani
In questo periodo eclettico e vivace, caratterizzato anche dalla presenza in veste di compositore per la danza di Wenzel Robert von Gallenberg, agisce Saverio Merca dante su cui non può non aver influito lʼesigenza di una musica per lʼattività coreica, che da una parte sostenesse gli sviluppi della tecnica, dallʼaltra accompagnasse le sempre maggiori esigenze espressive.43 Dalla riforma del ballet dʼaction e, in parti colare, a seguito dellʼesperienza di Gasparo Angiolini e Christoph Willibald Gluck nella creazione del ballo Don Juan nel 1761 e successivamente anche nel melodramma Orfeo ed Euridice del 1762, il rapporto tra danza e musica si era andato gradualmente evolvendo. Le analisi della partitura musicale eseguita da Haas,44 Della Corte45 e
39 Antonio Guerra (Napoli 1806-?? dopo il 1848) fu uno dei principali ballerini della compagnia del San Carlo negli anni Venti, seguí Duport a Vienna continuando a studiare con lui e debut tando anche come coreografo. Iniziò unʼimportante carriera internazionale che lo portò a danzare con Maria Taglioni in una ripresa della Sylphide allʼOpéra nel 1836. GueST, LʼOpéra cit., p. 32; CrISTINA BAdII CICCAGlIoNI, Antonio Guerra, in Dizionario biografico degli italiani, <https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-guerra_%28Dizionario-Biografico%29/> (ulti ma consultazione 10 giugno 2020).
40 Leopoldo Adige, Léopold Adice poi in Francia, dopo aver danzato nel corpo di ballo del San Carlo, si diresse a Parigi dove insegnò nelle classi maschili dal 1848 al 1863. Scrisse Essai sur lʼorigine, les progres et la decadence de la Danse thiatrale. 1873. (Manuscript in Paris, Bibliothe que de lʼOpéra, C.5426) ed anche Grammaire et Thiorie chorigraphique/Composition de la gym nastique danse thidtrale. 17 mai 1868-17 juillet 1871. (Manuscript in Paris, Bibliotheque de lʼOpéra) in SANdrA Noll HAmmNoNd, Balletʼs Technical eritage: the Grammaire of Léopold Adice, «Dan ce Research: The Journal of the Society for Dance Research» 13/1, Summer 1995, pp. 33-58.
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42
In AlBANo - VeNuSo, Louis Duport cit.
roBerTA AlBANo, Salvatore Viganò e la Clotilde napoletana, in Danza e ballo cit., pp. 25-52.
43 Si rimanda alla sezione di Maria Venuso per questo argomento.
44
roBerT HAAS, Die Wiener Ballet-Pantomime Im 18. Jahrhundert Und Glucks Don Juan, «Studien Zur Musikwissenschaft» 10, 1923, pp. 6-36.
45 ANdreA dellA CorTe, Gluck e i suoi tempi, Sansoni, Firenze, 1948.
Tozzi,46 sottolineano come, senza diventare un semplice accompagnamento, la melodia suggerisca la drammaticità della situazione, soprattutto nella scena del duello tra il Commendatore e Don Giovanni o quando la statua si presenta a casa del proprio assassino. Per Gluck la frequentazione del mondo della danza forniva importanti materiali e idee creative, in un periodo di decisive rielaborazioni teoriche del rapporto fra testo e musica nel melodramma. Come specificato allʼinizio di questo saggio da Maria Venuso, in quanto storici della danza siamo destinati a individuare tracce raccolte oltre che dai documenti cartacei, da quello che si può definire la trasmissione orale presente sia nelle pra tiche coreutiche che si passano da danzatore a danzatore, da maestro ad allievo, sia nelle contaminazioni tra colleghi. Un elemento evidente nellʼanalisi dei balli composti da Mercadante è quello della prevalenza di argomenti comici e grotteschi. Tali ambiti, considerati minori soprattutto dai maestri e teorici di scuola francese che da Noverre in poi ribadivano la superiorità del genere serieux, saranno quelli in cui maggiormente si sperimenterà lʼevoluzione della tecnica coreutica, attraverso lʼacrobatismo e il virtuosismo. Le innovazioni coreutiche si andavano raffinando e selezionando nei balli pantomimi burleschi, per poi rientrare nel codice della danza aulica. Il balletto romantico, infatti, include virtuosismi come la danse dʼélévation, o aérienne, i salti e il lavoro sulle punte. Novità inizialmente puramente acrobatica, la danza in punta diventa, in un contesto drammaturgico e scenico particolare, segno di una nuova tragicità: la silfide e la Giselle-villi sono personaggi volatili, irraggiungibili. La tecnica che ne deriva diventa un fenomeno originale in cui i registri tecnico espressivi del genere serieux si vanno a fondere con gli elementi provenienti dal genere demi-caractère. A questo proposito vale la pena ricordare che una testimonianza di salita in punta a Napoli risale già alla fine del Settecento e non è prerogativa femminile. Gennaro Magri, nel suo Trattato teorico-prattico di ballo, pubblicato nel 1779, racconta di Antonine Bonaventure Pitrot in equilibrio sulla punta del piede.47 Si tratta, evidentemente, di esperimenti di abilità sullʼequilibrio, à plomb, ancora lontani dal valore simbolico dellʼuso delle punte come esempio del volo, tipico della tecnica femminile nel balletto romantico.
Il grottesco manterrà la sua attiva partecipazione in tutti i balletti del XIX secolo in ruoli mimici per lʼinterpretazione di mostri, streghe, demoni, alcuni interpretati en travesti.48
Dagli anni Dieci agli anni Trenta dellʼOttocento Napoli è la sede europea, insieme
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47
48
loreNZo ToZZI, Attorno a Don Juan (1761), «Chigiana» XXIX XXX, 1972-1973, pp. 550-564.
GeNNAro mAGrI, Trattato teorico-prattico di ballo, in CArmelA lomBArdI, Trattati di danza in Italia nel Settecento, Napoli, Istituto di Studi Filosofici, 2001, p. 184.
Esemplare in questo senso è Enrico Cecchetti che nella Bella Addormentata di Čajkovskij-Petipa del 1890 interpretò nel Prologo e nel I atto il ruolo en travesti della strega Carabosse e, nel terzo atto, il ruolo dellʼUccellino Azzurro, caratterizzato dal virtuosismo di salti brillanti e ʼbattutiʼ, tipici della tecnica italiana.
a Vienna grazie alla comune gestione ad opera di Barbaja, in cui maggiormente si sperimenta lʼevoluzione tecnico- artistica di un genere che lo stesso Vestris definirà ʼmistoʼ e che prefigura lʼesplosione del balletto romantico francese.49 Nella lettera di presentazione al suo arrivo a Napoli nellʼautunno del 1816, Armande Vestris cosí presentava un suo balletto:
Je part pour Paris dan deux jours car on me fait demander a notre grand Opera, pour y mettre un des mes ballets quiʼa fait tant dʼepoque a Londres que voila la 3.me saison quʼon le donne. Cʼest un ouvraje qui est mixte ni dans le genre francois, ni dans le genre italien. Mais ca nʼest pas le genre ennieux je puis vous assurer.50
Il primo lavoro completo di Mercadante è il ballo Il Servo balordo di Salvatore Taglioni, suddito del Regno delle due Sicilie e, come tale, promosso tra le prime file della compagnia al ritorno dei Borbone dopo il decennio francese. La data zione non è presente sul libretto ma nel «Giornale delle Due Sicilie» il 1° Febbraio del 1818 è segnalata una serata di beneficio andata in scena la sera precedente, il 31 gennaio, al Teatro di San Carlo per Tognino, ossia il famoso ballerino comico Antonio Calvarola. Si tratta di un ballerino presente sulle scene napoletane già dagli ultimi anni del Settecento, che continuerà la sua attività fino ad oltre gli anni Trenta dellʼOttocento.51 Molto amato dal pubblico ottiene notevole attenzione anche dalla direzione dei Teatri Reali, quando nel 1816 subisce la rottura del tendine dʼAchille durante la rappresentazione del ballo La Casa disabitata e ritorna in scena alla fine del 1817.52 La trama del ballo è molto semplice: la protagonista femminile donna Elvira, interpretata dalla signora Taglioni, è promessa dal padre, il Barone don Alonso, al Conte di Almeda che lei non ama. Attraverso le rocambolesche buffonerie del servo Sancio, la storia si risolve con Elvira che sposa il suo amato Don Ramiro (Salvatore Taglioni) e il Conte che sposa lʼamata Eleonora, fanciulla adottata dal Barone e amica di Elvira.
49
50
FAlCoNe, Armando Vestris cit., p. 99-122.
Lettera di Armand Vestris a Barbaja in ASN, Teatri, f. 125.
51 Antonio Calvarola fu un famoso ballerino grottesco, veneziano, presente a Napoli già nel 1798 negli intermezzi di ballo delle opere buffe in scena al Teatro deʼ Fiorentini.
52
ASN, Ministero dellʼInterno, II inventario, f. 4353, Napoli 17 Ottobre 1816, Il Soprintendente deʼ Teatri e Spettacoli a Sua Eccellenza il Segretario di Stato, Ministro dellʼInterno: «Eccellenza, Iersera disgraziatamente il ballerino Calvarola nel passo a due del ballo La casa disabitata si ruppe il tendine dʼAchille con rincrescimento ne passo la notizia allʼE. V. prevenendola, che per soccorrerlo nella sua malattia io disporrò, se sarà necessario, ed a titolo di ricognizione aʼ professori, che sʼimpegneranno nella cura, qualche somma dalla Cassa deʼ professori giubi lati, riserbandomi di farlo sempre presente allʼE.V. Sono colla piú distinta stima e alta consi derazione, Duca di Noja».
Figura 10: Il Servo Balordo, Napoli, Tipografia Flautina, 21 x 23, I-NC, Oi 11.10(20.
Il programma della serata del 31 gennaio prevedeva il I atto della Medea in Corinto di Simon Mayr, il ballo di Taglioni e il gran ballo in sei atti La Barba bleu (o Barbaturchina) di Armand Vestris, notevole successo del 1817, ripreso piú volte al San Carlo fino al 1822. Si ha un esempio, alquanto inedito per lʼItalia, di una serata quasi interamente dedicata alla danza, pratica prevalentemente napoletana. Nel «Giornale
del Regno delle Due Sicilie» si sottolinea la presenza, allʼinterno del Servo Balordo, del ballabile La Provenzale, interpretato dalla coppia dei coniugi Duport, un Passo a due danzato da Louis Henry con la Signora Conti ed un quintetto con Salvatore Taglioni e le ballerine Peraud-Taglioni, Mersi, Vitolo e Aquino.53 Si tratta di un ballo comico eletto a spettacolo di prestigio in quanto presentato sulla scena del San Carlo e interpretato dai principali ballerini della compagnia, tra cui le celebri coppie dei coniugi Duport ed Henry.54
Il successo dello spettacolo spinge Barbaja ad affidare a Mercadante un nuovo ballo, per cui il compositore si trova ad arrangiare le musiche scelte da Armand Vestris, come recita il libretto, senza citare gli autori selezionati: Il Califfo gene roso, che va in scena nella stagione di primavera del 1818. Composto per il Teatro del Fondo, il ballo era ambientato a Bagdad e ispirato al leggendario califfo de Le Mille e una notte, con lʼintento di rinverdire il successo del soggetto esotico de La Barba Bleu. Il soggetto de Il Califfo generoso è tratto dallʼopera Il Califfo di Bagdad rappresentato nel 1813 con musiche del tenore Manuel Garcia padre e libretto di Andrea Leone Tottola. Anche in questo caso lʼopera Il Califfo di Bagdad rientra nella stretta relazione tra la produzione francese e quella napoletana: si tratta infatti di una versione italiana dellʼopera in un atto, Le calife de Bagdad, di Claude de Saint Just con musiche di Adrien Boïeldieu, andata in scena a Parigi nel 1800.55 Tra le informazioni paratestuali contenute nel libretto de Il Califfo generoso si riscontra la seguente informazione: «La musica, di piú distinti autori, scelta dal Signor Vestris, è stata ridotta dal Signor Maestro Mercadante».56 A soli dodici anni compare il gio vane Antonio Guerra nel ruolo di un Piccolo Negro e in un terzetto ʼdetto della folliaʼ interpretato insieme alle Signore Farina e De Lorenzo, anchʼesse giovani allieve della Scuola di Ballo. Il Califfo generoso, oltre a essere rappresentato al Teatro del Fondo, dove in genere si davano le opere minori di carattere comico, sembra essere una importante occasione di esibizione per i migliori allievi della scuola. Mancano infatti gli interpreti di maggior prestigio: i primi ballerini della compagnia e i prin cipali ospiti francesi. Oltre ad Armand Vestris, nel ruolo del protagonista, ci sono solo Giulia Mori, allieva e compagna del coreografo, Giovanna Campilli, ballerina e una delle rare donne coreografe, e Marietta Ronzi, allieva ormai da anni inserita
53
54
«Giornale del Regno delle Due Sicilie» 26, 31 gennaio 1818.
La Signora Duport, nata Neumann, era una ballerina austriaca incontrata e sposata nel secon do soggiorno viennese di Duport, in «Zeitung für die elegante Welte», 11 dicembre 1813. La moglie di Henry era madame Queriau a lungo apprezzata sulle scene del San Carlo.
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Cfr. FrANCeSCo IZZo, Un califfo francese a Napoli: alcune osservazioni su il “Califfo di Bagdad”, in Musica e spettacolo a Napoli cit., pp. 193-204.
Il Califfo generoso, ballo in quattro atti espressamente composto peʼl Real Teatro del Fondo dal Signor Armando Vestris nella Primavera del 1818, Napoli, dalla Tipografia Flautina, 1818, 15,5x9, p. 10, I-NC, Ok 10.30(4-5.
in ruoli solistici della compagnia.57 Lʼallestimento di questo spettacolo è esemplare della grande capacità di gestione degli artisti da parte di Barbaja; sotto la guida di un coreografo apprezzato e considerato esperto, vengono messi in scena prevalentemente gli allievi della scuola di ballo e un giovane musicista come Saverio Mercadante che ha il compito di arrangiare le musiche ʼdi servizioʼ per il ballo. Il successivo ballo affidato a Mercadante, questa volta nuovamente con musi che create espressamente per lʼoccasione, vede come protagonista ancora Antonio Calvarola, che si esibiva nel suo genere comico-grottesco, Il Ritorno di Monsieur Deschalumeaux. 58 Pietro Hus ripropone un personaggio di derivazione francese, Monsieur Deschalumeaux ou la soirée de Carnaval che aveva creato nel 1810, in piena monarchia murattiana.59 Nel libretto Hus dichiarava di aver ripeso il personaggio dallʼopéra buffon Monsieur Des Chalumeaux con testi di Creuzé de Lessert e musica di Gaveaux, presentato nel febbraio del 1806 allʼOpéra Comique.60 È un esempio del genere misto di testo e parti cantate in cui il supponente e provinciale, limousin, Monsieur Deschalumeaux confonde il palazzo del Duca di Villier per un albergo, lʼhotel de ville, facendo divertire tutti i nobili amici ospiti del duca.
57
Giulia Mori arriva a Napoli insieme ad Armand Vestris e i contratti stipulati dal ballerino francese la vedranno sempre al suo fianco. Cfr. roBerTA AlBANo - roSA CAFIero, Shakespe are in ballo: Macbeth di Armand Vestris e Wenzel Robert von Gallenberg (4 ottobre 1818), in Dan za e ballo a Napoli cit., pp. 121-153; FAlCoNe, Armand Vestris cit., pp. 99-120; su Giovanna Campilli si veda ANNAmArIA CoreA, Donne “compositrici” di balli pantomimi in Italia fra Sette e Ottocento, in Donne del/nel teatro italiano: nodi storici, pratiche dʼarte e di vita, «Italica Wrati slaviensia» 10/2, 2019, pp. 162-175.
58
59
Il Ritorno di Monsieur Deschalumeaux, vedi nota 15.
Il Signor Descalumeaux ossia la serata di Carnevale, ballo burlesco in tre atti, composto dal Signor Pietro Hus figlio, compositore aggiunto al Real teatro di San Carlo, Napoli, Stamperia Flautina, 1810, I-NC, 15,5x9, ok 10.25(2.
60
<https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k205227q/f39.item#> (ultima consultazione 10 giugno 2020).
Figura 11: Monsieur Deschalumeaux ou la soirée de carnaval. Opéra comique di Creuzé de Lesser e Gaveaux, costume di Lesage disegnato da Jolly (1776-1839).
Lʼoperetta dovette conseguire un discreto successo popolare, in quanto è ripro posta ad Amsterdam nel 1808 in una traduzione in olandese con libretto di Creuzé de Lesser ed Augustin François. Pietro Hus, nella prefazione del ballo del 1810, paragonava Deschalumeaux ad un famoso personaggio della comédie ballet: il molieriano Monsieur de Pourcegnac rappresentato, dopo lʼinsuccesso dellʼAvaro, a Chambord, pour le divertissement du Roi, nel settembre del 1669, e presentato
poi a Parigi, al Théâtre du Palais-Royal, le 15 novembre 1669, dalla Troupe du Roi. Deschalumeaux conserva di Pourcegnac la presunzione provinciale, ma non ha le pretese di conquistare la giovane protagonista come avveniva nel testo di Molière. Nella prima versione di Hus, Deschalumeaux è uno sciocco su cui si riversa il disprezzo di una nobiltà dʼalto rango. Nel Il Ritorno di Monsieur Deschalumeau del 1818, che verrà musicato da Mercadante, invece il protagonista è inserito in un milieu che si diverte alle sue spalle ma lo considera ormai un suo pari. Il ballo si articola sul finto tradimento della moglie di Deschalumeaux, che flirta con una donna en travesti, e sulle manie per lʼultima moda dellʼabbigliamento manifestate dal marito. Gli interpreti del balletto sono Taglioni e la moglie, i principali allievi della scuola, lʼintramontabile Calvarola nel ruolo del titolo e, nel divertissement finale, è impe gnato Armand Vestris in un quintetto. Il ballo, originale per essere uno dei rari casi di sequel coreografico, entra nel repertorio del Teatro del Fondo cosí come il primo ballo del 1810, che ancora veniva rappresentato con continuità nel 1816, anno in cui Calvarola si era infortunato. Il Ritorno di Monsieur Deschalumeaux è presentato per il suo rientro sulle scene da protagonista. Anche in questo caso lo spettacolo è proposto per molti mesi con successo, non solo per lʼabilità del protagonista ma anche per la presenza di una ricca compagnia di ballerini di prima scelta tra cui emergono i coniugi Taglioni e Armand Vestris, che interpreta lʼimmancabile ballabile, ossia un quintetto con quattro delle migliori giovani della compagnia: la propria compagna Giulia Mori e Vitolo, DʼAquino e Porta emergenti allieve della scuola. Non è da escludere che unʼaltra attrazione dello spettacolo possa essere stata la parte danzata en travesti da Adelaide Mersi che interpretava il personaggio della Viscontessa di Crillon. Fingendo di essere un colonnello innamorato della moglie di Deschalumeaux, per suscitare la sua gelosia, la giovane Mersi indossa abiti maschili esponendo piú agevolmente allo sguardo del pubblico le proprie forme femminili. Abitudine di frequente utilizzata nei teatri minori, è interessante notare che lʼapparire di questa modalità è frequente anche nel melodramma serio e nella compagnia di ballo dei Teatri Reali. Dagli anni Quaranta dellʼOttocento lo scambio di genere diventerà dʼabitudine soprattutto allʼOpéra, a causa della deca denza della danza maschile, e sarà molto apprezzato da critici come Théophile Gautier, interessato anche a corpi e personaggi androgini come la sua Mademoiselle de Maupin. 61 A Napoli, in anni di gloria di Duport, Taglioni e Vestris, tale procedura si può ricondurre solo al piacere di esibire meglio il corpo femminile per attrarre dal punto di vista commerciale il pubblico. A questo proposito Lynn Garafola, in un celebre saggio, sottolinea lʼinteresse erotico per la danza en travesti che determina anche duetti dʼevocazione ʼsafficaʼ, come in effetti avviene tra Mme Deschalumeaux e la Viscontessa Crillon, in abiti da colonnello, nel ballo di Hus.62
61
Cfr. eleNA CerVellATI, Théophile Gautier e la danza cit., pp. 74; 208-209.
62 Cfr. lyNN GArAFolA, The Travesty Dancer in Nineteenth-Century Ballet, in Moving history/ dancing culture. A dance history reader, a cura di Ann Dils e Ann Cooper Albright, Middletown,
Il celebre personaggio del nobile limousin trasmigra in altri teatri, qualche anno dopo, e lo ritroviamo nella versione di Giovanni Galzerani alla Scala di Milano nel 1834, con una lieve modifica nel titolo in Monsieur de Chalumeaux. 63 Confrontando il libretto della versione di Hus napoletana del 1810, con quella di Galzerani non si evidenziano particolari differenze nella trama. Nel libretto milanese non cʼè, invece, nessuna prefazione sullʼorigine dellʼopera in relazione alla fonte francese.
La contiguità degli argomenti e dei personaggi, tra opera e balletto, si riscontra nel melodramma comico dal titolo Monsieur de Chalumeaux di Federico Ricci che andò in scena nel 1835, prima al teatro San Benedetto a Venezia, e fu poi ripreso a Verona, Firenze, Trieste e Genova prima di approdare alla Scala nel carnevale del 1839, un vero successo per lʼargomento trasposto in ballo da Pietro Hus nel 1810.64 Nellʼopera di Ricci rappresentata a Firenze, le coreografie dei balli sono composte da Alfonso Demasier, allievo della scuola di ballo del Teatro di San Carlo e per molti anni membro della compagnia.65
Procedendo nella disamina dei balli su cui è intervenuta lʼabile mano di Merca dante, non si può trascurare il celebre Il Flauto magico o sia le convulsioni musicali composto da Salvatore Taglioni e andato in scena al Teatro di San Carlo il 19 novembre del 1818 in occasione dellʼonomastico della Principessa Isabella. 66 Nelle informazioni presenti sul frontespizio del libretto non è precisato lʼautore delle musiche perché sono presenti molte informazioni relative allʼevento a cui è dedicato lo spettacolo. Neppure nelle indicazioni del paratesto si accenna al compositore, mentre nella recensione apparsa sul «Giornale del Regno delle Due Sicilie» del 20 novembre viene lodata la partitura, evidenziando il tipo di considerazione in cui era tenuta la scrittura di musica per la danza da parte del critico Taddei: «Una musica piena di verità, di estro, e dal Signor Mercadante, primo allievo del nostro Real Collegio
Wesleyan Univerity Press, 2001, pp. 210-217 e CerVellATI, Théophile Gautier e la danza cit.
63
Monsieur de Chalumeaux, ballo comico di Giovanni Galzerani da rappresentarsi nellʼImperiale Regio Teatro alla Scala il Carnevale 1834, Milano, Luigi di Giacomo Pirola, 12,2x16,2 cm. nella Biblioteca del Conservatorio G. B. Martini, Bologna, I-Bl FS W 2050, ringrazio la dott.sa Anna rosa Vannoni per la sua disponibilità.
64
Monsieur de Chalumeaux melodramma in due atti da rappresentarsi nellʼI. e R. Teatro in via del la Pergola il carnevale 1836, in Bayerische Staatsbibliothec Digital, consultato il 2 luglio 2021; <https://reader.digitale-sammlungen.de/de/fs1/object/display/bsb10579690_00005.html> (ultima consultazione 10 giugno 2021). Le varie versioni si possono recuperare in <http:// corago.unibo.it/opera/0000098954> (ultima consultazione 10 giugno 2021).
65 Alfonso Demasier fu uno dei ballerini preferiti da Salvatore Taglioni in quanto è sempre pre sente nei suoi titoli dati al San Carlo dagli anni Venti agli anni Quaranta e, in seguito, inizierà unʼimportante attività di coreografo.
66 Il Flauto magico o sia le convulsioni musicali, balletto posto in iscena da Salvatore Taglioni, rap presentato la prima volta in Napoli nel real Teatro di San Carlo à 19 Novembre 1818 ricorrendo il giorno onomastico di Sua Altezza Reale la Principessa D. Maria Isabella Duchessa di Calabria, Napoli, Dalla Tipografia Flautina 1818, 19x11, in I-NC, Oi 11.3(26.
di Musica, scritta con parità di stile e con sobrietà di ornamenti, accresce i pregi di questo Flauto magico, e ti fa desiderare che il giovine autore, abbandonando le sterili sinfonie, ci dia piú splendidi saggi del suo ingegno con musiche vocali».67 Lo spettacolo è allestito con la migliore compagnia perché, oltre alla coppia Taglioni e ai principali ballerini emergenti impegnati ad interpretare i protagonisti della vicenda, nel divertissement finale danzano Louis Henry e Paolina Elisabetta Cholat Naley -Neuville, ballerina francese allieva di Gardel.68 Al debutto del 19 novembre è presente, oltre la famiglia reale, il re di Spagna in esilio a Roma Carlo IV. Lo spettacolo ha un riscontro felice ed è riallestito nella primavera successiva, il 25 maggio del 1819, nel Teatro Reale di Caserta.69 In questo caso è specificato che le musiche sono di Saverio Mercadante «eccettuata quella del quintetto». Il ballo va in scena insieme a due commedie: Lʼajo nellʼimbarazzo, tratto dal testo in tre atti del Conte Girard, e La nemica degli uomini presentata come commedia in due atti tradotta dal francese. Entrambi i titoli sono noti in ambito operistico: la prima, Lʼajo nellʼimbarazzo, verrà messa in scena al teatro Valle di Roma nel 1824 con musiche di Gaetano Donizetti e testi di Jacopo Ferretti; la seconda era già stata rappresentata a Milano in epoca napoleonica, nel 1814, da Carlo Mellara.70 Lʼattività compositiva di Mercadante per la danza, in questi anni, è intensa e si affianca spesso al lavoro di altri autori come nel caso del già citato ballo La Geru salemme liberata o sia Il Ritorno di Rinaldo, Ballo pantomimo in cinque atti di Luigi Henry, rappresentato per la prima volta in Napoli nel Real Teatro di San Carlo nel Carnevale del 1819.71 In una lettera di Barbaja al sovrintendente dei teatri, il Duca di Noja, il 9 dicembre del 1818 si comunica che, a causa di una malattia di Gallenberg, si affida a Saverio Mercadante il completamento della musica.72 Lʼallestimento dello spettacolo è nuovamente caratterizzato da una grande ricchezza di interpreti, sono infatti ritornati a Napoli le coppie Duport e quella dei coniugi Henry. Sono inoltre
67
«Giornale del Regno delle Due Sicilie» 277, 20 novembre 1818, si ringrazia Rosa Cafiero per la segnalazione.
68
Cholat Naley-Neuville sposò Emanuele Petrone e lavorò per molti anni nella sezione femmi nile della Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo. Ringrazio Maria Venuso per la segnalazione.
69
Il Flauto magico o sia le convulsioni musicali, balletto posto in iscena dal Sig.r Salvatore Taglioni Maestro di perfezione della Reale Scuola di Ballo, primo ballerino e compositore deʼ Reali Teatri destinato ad eseguirsi la sera deʼ 25 maggio 1819 nel Real Teatro di Caserta, 18x11,5, in I-NC, Oi 11.3(27.
70
Libretto reperibile online <https://www.loc.gov/resource/musschatz.13908.0/?sp=2> (ultima consultazione 10 giugno 2021).
71
72
La Gerusalemme liberata o sia Il Ritorno di Rinaldo, Ballo pantomimo in cinque atti di Luigi Henry, rappresentato per la prima volta in Napoli nel Real Teatro di San Carlo nel Carnevale del 1819, Napoli, Tipografia Flautina, 1819, 18,5x11,5; in I-NC, ok 10.22.
Lettera di Domenico Barbaja al Sovrintendente deʼ Teatri Duca di Noja, Napoli 9 dicembre 1818, ASN, Teatri, f. 95.
Mercadante e la danza nei reali teatri di napoli presenti Armand Vestris e Giulia Mori e gli immancabili Salvatore Taglioni e signora Douburg-Taglioni, sua sorella. Lʼambientazione fantastica, che anticipa atmosfere ombrose del balletto romantico,73 affiancata a quella eroica, non verrà molto apprezzata dal critico Emanuele Taddei che, da classicista, non amava le commistioni di generi, mentre le ambientazioni magiche e allegoriche, intrise dellʼamore tra Armida e Rinaldo, otterranno un riscontro favorevole del pubblico.74 Mercadante sarà autore di un atto e della riduzione delle musiche di Carafa e Rossini per gli ultimi atti del ballo, laddove i primi due erano stati composti da Gallenberg. Unʼoperazione simile viene effettuata anche per il ballo di Salvatore Taglioni I Portoghesi nellʼIndie o sia la conquista di Malacca, che debutta il 30 maggio del 1819 in occasione dellʼonomastico di re Ferdinando.75 La particolarità, in questo caso, è che sul libretto è specificato che Gallenberg è lʼautore delle musiche del ballo e che Saverio Mercadante di quelle per le parti pantomimiche. La differenziazione tra i ballabili, cadenzati e schematicamente strutturati, e le parti pantomimiche ci descrive una trasformazione in atto in relazione alla possibilità della musica di accompagnare i momenti ʼnarrativiʼ ed emotivamente piú coinvolgenti dellʼazione drammaturgica rappresentata. Anche in questo caso sarebbe opportuna unʼanalisi specifica e comparativa della partitura come già accennato da Venuso. Lo spettacolo è rimesso in scena alla Scala nella primavera del 1820 e a Vienna, Kärtnertortheater 4 ottobre 1826.76
Negli anni Venti Mercadante, terminati gli studi al Conservatorio, inizia la sua carriera di compositore di fama internazionale e la sua attività nei balli sarà ridotta, ma appare ancora in due coreografie che segnano delle importanti presenze nella compagnia di ballo, un cambio generazionale che getta un ponte verso il balletto romantico francese degli anni Trenta. Nel mese di agosto del 1825 Mercadante com pone la musica del passo a due per Il Combattimento della Chimera, ballo di Louis Henry che riprende atmosfere mitologiche nella trama e vedrà in scena Albert, nel ruolo di Apollo, importante ballerino proveniente dallʼOpéra di Parigi dove aveva
73
Cfr. mArIA VeNuSo, La ʼdanzaʼ di Amina e il ʼcantoʼ di Giselle. Alcune osservazioni comparative dal balletto La Somnambule a Giselle, passando per La Sonnambula di Vincenzo Bellini, «Acting Archives Review» IV/8, novembre 2014, pp. 132-181; eAd., La danza teatrale al San Carlo negli anni di Rossini cit.
74 «Giornale del Regno delle Due Sicilie» 26, 1° febbraio 1819.
75
I Portoghesi nellʼIndie o sia la conquista di Malacca, ballo eroico pantomimico in cinque atti posto in iscena da Salvatore Taglioni, Maestro di perfezione per le Reali Scuole di Ballo e Primo Ballerino dei Reali Teatri, e rappresentato per la prima volta in Napoli nel Real Teatro San Carlo nella sera del 30 Maggio 1819 fausto giorno onomastico della Maestà di Ferdinan do I Re del Regno delle Due Sicilie, Napoli, dalla Tipografia Flautina 1819, 19x11,5, in I-NC, Ok 10.29(9-10.
76 Si ringrazia Rosa Cafiero per la segnalazione.
debuttato nel 1808, lʼanno dellʼabbandono di Duport.77 Altra stella nascente del bal letto, tra le prime ad essere notata a danzare sulle punte, sarà Elise Vaque-Moulin, qualche anno dopo molto apprezzata a Londra: «She possesses certainly great muscular powers, and leaves nothing to be wished for on the score of agility, viguor, and grace; her manner of standing and walking upon her toes is truly astonishing».78 Ma non si esaurisce qui il cast strepitoso del ballo in cui si individuano Amalia Brugnoli, una giovanissima Fanny Elssler, appena tredicenne, e Paolo Samengo. Fanny Elssler, futura stella del balletto europeo fino al suo ritiro dalle scene nel 1851, con le sue due sorelle Therèse e Anna, era stata mandata a studiare e ʼfarsi le ossaʼ sulle scene napoletane da Domenico Barbaja, giunto da poco a Vienna per dirigere i teatri. Amalia Brugnoli e Paolo Samengo si incontrano a Napoli e iniziano a formare una coppia, che convola a nozze nel 1828 e che gira per anni per i principali teatri europei. Amalia Brugnoli compare, appena undicenne, nel libretto delle Creature di Prometeo di Salvatore Viganò nel ruolo di Cupido,79 è citata in altri libretti tra Firenze e Roma, fino a stabilirsi per qualche anno tra Napoli e Vienna. Memorabile la sua citazione da parte di Maria Taglioni, nelle sue memorie, che nel 1823 la vide danzare in punta.80 Benché, dunque, nei giornali napoletani non si è finora trovata traccia di innovazioni legate alla danza sulle punte, le testimonianze coeve ci par lano invece di una sperimentazione realizzata da Armand Vestris, proprio in città, su questa nuova possibilità tecnica della danza femminile.
Sempre nellʼottobre del 1825 va in scena un ballo di Gaetano Gioia,81 rientrato a Napoli dopo la sua straordinaria carriera internazionale, Nicolò Pesce con musiche scritte da Gallenberg ma di cui si è trovato un passo a tre composto da Mercadante nella trascrizione di F. Bozzaodra, per violino, flauto, clarinetto e fagotto, come già detto nella prima parte di questo saggio. Il brano di danza, inserito nel quarto atto, è interpretato da Albert, da Vaque-Moulin e Amalia Brugnoli. Nel Passo a cinque
77 Albert, nome dʼarte di François Décombe (1787-1865) considerato maestoso, fu uno degli ultimi grandi interpreti dello stile nobile. Cfr. GueST, Il balletto in Francia cit., p. 201.
78
«Lei possiede certamente una grande forza muscolare, e non lascia nulla a desiderare in fatto di agilità, vigore, e grazia; il suo modo di stare in piedi e camminare sulle punte dei piedi è davvero sorprendente», «Morning Post» riportato in JudITH CHAZIN-BeNNAHuN, The Lure of perfection. Fascionan Ballet, 1780-1830, New york, Routledge, 2005, p. 191.
79
Prometeo ballo mitologico, inventato e posto sulle scene del R. Teatro alla Scala da Salvatore Viga nò nella primavera dellʼanno 1813, Milano, Dalla Società tipografica deʼ Classici Italiani, con trada del Cappuccio, 1813, <https://bibliolmc.ntv31.com/sites/default/files/2017-11/Prometeo. pdf> (ultima consultazione 10 giugno 2021).
80
Il debutto nel ballo di Armand Vestris di Amalia Brugnoli che «apportait un genre nouveau, elle faisait des choses très extraordinaires sur la pointe du pied quʼelle avait mince et long très avantageux pour ce genre de danse» in Marie Taglioni. Souvenirs. Le manuscrit inédit de la grande danseuse romantique, a cura di Bruno Ligore, Roma, Gremese, 2017, p. 98.
81
Si veda a proposito VeNuSo, La scuola di ballo cit., p. 17 e anche NoemI mASSArI, Gaetano Gioia al Teatro di San Carlo, in Danza e ballo a Napoli cit., pp. 157-170.
inserito nel primo atto troviamo Paolo Samengo in compagnia di Fanny Elssler, Luisa Porta, Rolland e una giovane Annunciata Ramaccini, futura moglie di Carlo Blasis e con lui insegnante alla Scuola di Ballo della Scala.82 Gaetano Gioia, considerato il maestro del fratello Antonio Ramaccini, diventato maestro di pantomima alla scuola del San Carlo, doveva aver preso sotto di sé, per un breve periodo, anche la giovanissima sorella.83 Altro grande successo a cui prende parte Mercadante è il ballo Selico di Louis Henry del 1826, con musiche di Carlini in cui, però, il terzetto dei coniugi Vestris (si intendono Carlo Vestris e Marietta Ronzi) e di Fanny Elssler, è composto da Gallenberg, e il pas de deux di Samengo e Brugnoli da Mercadante.84 Oltre a testi moniare la durevole presenza a Napoli di Fanny Elssler, il ballo ci riferisce della malattia di Gaeatano Gioia che lo porterà alla morte. Nellʼavvertimento del libretto, infatti, Henry scrive:
Col massimo timore, espongo al rispettabile pubblico un ballo in tre atti, che nel breve spazio di dieci giorni ho dovuto porre in iscena, stante la malattia del compositore Signor D. Gaetano Gioia. Questo mio lavoro meriterà cosí poco compatimento, che ardisco appena reclamarlo. Lo zelo degli artisti miei compagni ed il mio, non che le indefesse nostre fatiche, possano trovare qualche grazia presso di un pubblico amabile, il quale mi ha dato tante pruove di sua benevolenza!85
Pochi giorni prima Gioia è vittima di un incidente in teatro che lo porterà irrime diabilmente alla morte il 30 marzo. Lʼesigenza di non fermare gli spettacoli deter minava una grande capacità di Barbaja di provvedere ai continui imprevisti che la vita teatrale inevitabilmente poteva affrontare, e, dʼaltra parte, si fondava sullʼabilità degli artisti di allestire spettacoli in pochissimo tempo. Per quanto lʼattività dei Teatri Reali venisse spesso cadenzata dalle festività legate alla celebrazione di compleanni e onomastici reali, i la loro gestione era assolutamente fondata sulla redditività di una programmazione intensa e quasi ininterrotta durante lʼanno.
82
La famiglia Ramaccini ebbe in Simone il capostipite, coreografo attivo tra Venezia e Padova tra il XVIII e il XIX secolo. Annunciata, o anche Annunziata incontrò e sposò a Firenze Carlo Blasis nel 1825.
83
FrANCeSCo reGlI, Dizionario biografico dei piú celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860, Torino, E. Dalmazzo, 1860.
84 Selico o sia il buon figlio, ballo istorico pantomimo in tre atti, composto e diretto da Luigi Henry, rappresentato la prima volta a Napoli nel Real Teatro di San Carlo nellʼinverno del 1826, Napoli, Tipografia Flautina, 1826, 19x21, custodito presso I-NC, Ok 10.23.
85 Ivi, p. 3.
Trasmigrazioni coreo-musicali conclusive
Saverio Mercadante, dunque, dopo gli anni giovanili non ha piú motivazioni per scrivere per la danza se non in occasione della Danza Augurale, cantata scritta da Nicola Sole nel 1859 per le nozze tra Francesco II e Maria Sofia di Baviera nel 1859. Come ballo analogo alla Cantata, Salvatore Taglioni compone quadri in un contesto allegorico con vari gruppi di fate alcune, che rappresentano le province del Regno delle Due Sicilie, danzano con le altre fate, che rappresentano gli otto circoli della Baviera, per omaggiare lʼunione delle nazioni e delle famiglie reali. La tarantella compresa nella partitura è danzata da Ferdinando Walpot, Emilia e Jenny Osmond, ballerini poco noti, a dimostrare la decadenza raggiunta dalla compagnia del San Carlo pochi anni dopo la chiusura della Scuola di Ballo e la morte di Barbaja, avve nuta, come già detto, nello stesso anno il 1840. La vivace tarantella, trascritta ed eseguita ancora in epoca contemporanea, ci fa ormai immaginare gli sviluppi che la danza aérienne e dʼélévation aveva raggiunto nel balletto romantico a metà Ottocento.
Figura 22: frontespizio della partitura Les Noces de Gamache in BNF, reperibile online <https://gallica.bnf. fr/ark:/12148/bpt6k11876122.image#> (ultima consultazione 10 giugno 2020).
Nella sua ricca e prolifica attività Mercadante si trova ad affrontare il tema delle Noces de Gamache, argomento comico per la scena operistica, piú volte anche nel balletto, fino alla celebre versione di Marius Petipa per il Bolshoi di Mosca del 1869. Il tema del Don Chisciotte di Cervantes è ricorrente nella storia del teatro musicale e di danza fin dalla pubblicazione del primo libro: già nel 1614 si ha un Ballet de Don Quichot, dansé par Mrs. Sautenir. 86 Ma è in particolare sullʼepisodio tratto dal XX capitolo della seconda parte dellʼopera di Cervantes che si instaura un ricco gioco di ricorrenze tra opera e balletto: Les noches de Gamache. Il piú famoso dei ballerini francesi protagonisti delle stagioni napoletane, il già citato Louis Duport, era stato interprete, nel 1801 a Parigi, di un ballo ispirato al Don Chisciotte: Les noces de Gamache87 di Louis Milon con musiche di Lefevre, che era stato poi riproposto al Teatro del Fondo nel 1811 con i coniugi Taglioni nei ruoli di Quitera e Basilio, Antonio Calvarola nel ruolo di Sancio, e il signor Dufresse in quello di Don Chi sciotte. Lʼargomento è talmente celebre che verrà coniugato in tante forme teatrali: in relazione a Mercadante si ritrova unʼopera buffon a Parigi nel 1825. Si tratta di una trasposizione delle musiche della sua opera Elisa e Claudio, grande successo del 1823, arrangiato per la scena francese dellʼOpéra Comique da Luc Gueneé a Parigi. È un pastiche che precede lʼopera che poi nel 1830 a Cadice, con i testi di Ferrero, Mercadante realizzò: Don Chisciotte alle nozze di Gamaccio.
A seguito di recenti ricerche, ancora in atto, il terreno napoletano si profila come interessante ambito di sviluppo degli studi interdisciplinari per individuare importanti relazioni tra musica e danza come conferma questo primo approccio ai balli mercadantiani.
Dal punto di vista coreutico, inoltre, si evidenzia nellʼesperienza napoletana, soprattutto negli anni della gestione Barbaja, ma non solo, la presenza di una prassi coreica innovativa e sperimentale che spinge a lavorare a Napoli molti dei futuri protagonisti degli anni dʼoro del balletto parigino e milanese. Lʼanalisi dei libretti e delle compagini artistiche che prendono parte alle principali produzioni sancarliane contribuisce a completare in maniera esaustiva, e a volte sorprendente, la formazione e la carriera professionale di molti importanti artisti dellʼOttocento, ancora non del tutto indagate.
86 BeATrIZ mArTÍNeZ del FreSNo - NúrIA meNéNdeZ SàNCHeZ, El proyecto de investigación Temas Cervantinos en la Danza Europea (siglos XVIII al XX), Barcelona, Los Libros de Danza, 2004, pp. 71-83.
87 Le noces de Gamache, ballet-pantomime-folie en deux actes, Représenté, pour la primière fois, à Paris, sur le Théâtre de la République et des Arts, le 28 Nivôse an 9 par L.-J. Milon, Artiste de ce Théâtre: Musique arrangée par E. v C. Lefebvre, Artiste du même Théâtre. A Paris, et se vend Chez D. - Dupré, Imprimeur rue des Coutures-Saint à- Gervais, près lʼégoút de la Vieille-rue-du-Temple, N°. 446.
I due illustri rivali: Donizetti incrocia Mercadante
Quasi coetanei, Mercadante e Donizetti intersecarono spesso vita e carriere in un rapporto i cui snodi principali non sono privi di punti interrogativi. La loro cono scenza è documentata dallʼautunno 1821. Ai primi di ottobre Donizetti passava da Milano, andando da Bergamo a Roma, dove per il carnevale al Teatro Argentina scriverà Zoraida di Granata. Mercadante era invece lí alle prese con Elisa e Clau dio, che debutterà a fine mese. Il 4 ottobre consegnava a Donizetti una lettera di presentazione per degli amici romani.1 Presupporre una precedente conoscenza è impossibile. Prima di spingersi a Milano, Mercadante si era mosso tra Napoli e Roma, mentre lʼaltro non era uscito dalla pianura Padana: Bergamo, Bologna, Venezia, Mantova. E neppure possibile è che a propiziare la conoscenza reciproca fosse stato Mayr: Mercadante era ai primi passi della carriera, e non poteva certo essere in dimestichezza con unʼautorità come il bavarese. Dobbiamo allora immaginare che i due si fossero conosciuti proprio in occasione di quel passaggio di Donizetti a Milano. Sapendo dove si stava recando, Mercadante pensò di dargli generosamente una mano mettendolo in contatto con ambienti filarmonici che ben conosceva. Un mese e mezzo dopo ringraziava quegli amici per le «attenzioni fatte a mio riguardo»2 al nuovo venuto «Maestro Donesetti»: o forse si chiamava «Donisetti», come aveva scritto la prima volta? o «Donezetti», come scriverà nel febbraio 1822 dopo lʼesito felice di Zoraida di Granata «malgrado le solite cabale»?3 Anche lʼincertezza onomastica era spia di unʼamicizia di freschissima data. Pochi mesi dopo, Mercadante e Donizetti ebbero il primo ʼtesta a testaʼ profes
1 Donizetti. Carteggi e Documenti 1797-1830, a cura di Paolo Fabbri, Bergamo, Fondazione Doni zetti (Edizione Nazionale delle Opere di Gaetano Donizetti), 2018, p. 423.
2 Ivi, p. 429.
3 Ivi, p. 446.
sionale. Svanito per Mercadante il progetto di un Alfredo dʼInghilterra per Napoli,4 i due si ritrovarono nella medesima stagione autunnale 1822 alla Scala: lʼuno, con Adele ed Emerico, ossia Il posto abbandonato; lʼaltro con Chiara e Serafina. 5 Mercadante era a Milano fin dal 20 giugno circa,6 e cʼera ancora a metà ottobre, quando tramite Donizetti mandava saluti a Mayr. 7 Il successo di Elisa e Claudio, lʼanno avanti, aveva posto Donizetti in situazione di sudditanza psicologica. Il 4 settembre 1822 scriveva ai comuni amici romani: «Mercadante stà provando e credo ai 21. andrà col posto abbandonato: dramma Io stò scrivendo… che il Cielo mela mandi buona dopo un Cane cosí grosso» (cioè un concorrente di quella portata).8 Dei timori di Donizetti si era accorto anche Mayr, che il 28 settembre aveva confidato al suo ex allievo Bonesi: «Il nostro Donizetti è a Milano dicendo di aver concepito per quel Teatro un timore insolito; ma vorrei sperare, che cio non fosse se non che una spezie di velo presso il suo amico Mercadante, il quale (dicesi) non fu cosi felice come lʼanno scorso».9 In effetti il recensore del «Corriere delle dame» non aveva trovato «novità di sorte alcuna»10 nella sua opera, che gli era parsa «lunga a dismisura, ricolma di sover chie e noiose ripetizioni, vuota di brio e opprimente soltanto nellʼistromentale».11 Il 26 settembre Donizetti, molto meno negativo, riferiva ai medesimi amici romani
le consolanti notizie del Nostro Amico Mercadante, il quale andò in scena ai 21. collʼopera, e piacque moltissimo, fu quindi chiamato dal pubblico tutte e tre le sere etc. etc. Se gli esecutori fossero stati piú felici sarebbe ito anche meglio, ed è perciò che qualchʼuno la crede un poʼ troppo lunga, ma io dico che si rende tale per la cagione sopra espressa: Ora tocca a me, e Dio mi liberi dallʼandar diversamente, sarei sconquassato.12
Quando toccò a Donizetti, Chiara e Serafina fu un mezzo fiasco: dopo il debutto (26 ottobre) e 6 repliche (fino al 2 novembre), lʼopera venne accantonata e si riprese quella di Mercadante (salvo 4 repliche, dal 23 al 26 novembre).13
4
5
Ivi, p. 455, e AlBerTo CAmeTTI, Donizetti a Roma. Con lettere e documenti inediti, Torino, Boc ca, 1907, p. 27.
Donizetti. Carteggi e Documenti, cit., pp. 459 e 461.
6 Ivi, p. 467.
7 Ivi, p. 484.
8 Bergamo, Fondazione Teatro Donizetti, Cassaforte.
9
10
Donizetti. Carteggi e Documenti, cit., p. 478.
«Corriere delle dame» 39, 28 settembre 1822, p. 306.
11 Ivi, p. 305.
12
Donizetti. Carteggi e Documenti, cit., p. 475.
13 Ivi, p. 79.
Nel carnevale 1824 a Roma, tra i due, andò in scena un confronto ben piú rav vicinato. Il 7 gennaio al Teatro Argentina Donizetti presentava una nuova versione di quella Zoraida di Granata che era stata un successo due anni prima; un mese dopo (7 febbraio) Mercadante vi teneva a battesimo Gli amici di Siracusa, a soli 3 giorni di distanza da un ulteriore debutto di Donizetti, stavolta però al Teatro Valle, con Lʼaio nellʼimbarazzo (4 febbraio) accolto con «vero entusiasmo».14 Queste sfide incrociate fra sale concorrenti fornirono il pretesto per inventarsi un derby teatrale che vide gli spettatori dividersi in fazioni, e i giornali soffiare sul fuoco.
Peraltro Scinditur interea studia in contraria vulgus, 15 cosicché, parteggiando ciascuno pel suo idolo prediletto, si pronunzia alla cieca sul merito del Maestro rivale […]. Chi può negare agli Amici di Siracusa profondità di dottrina musicale, conio regolare deʼ pezzi, e grandiosità dʼidee propria soltanto dello stile serio? Chi contrasterebbe allʼAio in imbarazzo tutta la giovialità del genere buffo mista a quel fiore di sentimento che è propria deʼ caratteri di tal natura, vivacità somma nella parte strumentale ricca di mille delicatissimi motivi, ed espressione giustissima della parola col canto? Sia dunque lode a Mercadante e a Donizetti, che a buon diritto la meritano, e sia questa lode nuovo stimolo ad ambedue a purgarsi con piú assiduo studio di qualche macchia, che pur rilevasi nel loro stile […].16
I successivi corpo-a-corpo fra Mercadante e Donizetti ebbero luogo a fine 1834 alla Scala (La gioventú di Enrico V e Gemma di Vergy), e nel carnevale 1838 alla Fenice (Maria de Rudenz e Le due illustri rivali). Nel frattempo, però, lʼatteggiamento di Mer cadante verso il collega era mutato radicalmente. «Si dice che Dozinetti scriva (non componga) la prima opera al Carcano» confidava il 24 luglio 1830 a Florimo.17 E il 2 novembre rincarava la dose augurandogli un fiasco tale da costringerlo allʼespatrio: Dunque Dozzinetti (voglio dire Donizetti) dopo essersi immortalato con lʼesule di Roma, ora è lʼesule di Napoli. Trovo ben ricompensate le sue virtuose fatiche, e non dubbito punto che a Milano non demeriterà punto dalla stessa sorte e diventando cosí lʼesule di Milano anderà a prendere fiato a Costantinopoli dove si trova suo fratello.18
14 Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, a cura di Annalisa Bini e Jeremy Commons, Milano-Roma, Skira - Accademia Nazionale di Santa Cecilia, 1997, p. 110.
15 VIrGIlIo, Aeneis, II, 39.
16 «Notizie del giorno» 7, 12 febbraio 1824, p. 2: leggibile in Le prime rappresentazioni cit., p. 109.
17
SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario, Fasano, Schena Editore, 1985, p. 88.
18 Ivi, p. 89.
Il crescente successo di Anna Bolena, che debuttò il 26 dicembre, fu il miglior amuleto contro quel tentativo di iettatura.
È probabile che tanta ostilità si fosse innescata durante la citata sfida romana del 1824. Forse le diede impulso anche un episodio capitato lʼanno dopo a Palermo, quando Donizetti era direttore musicale delle stagioni del Teatro Carolino. Fra gli altri titoli di cui curò lʼesecuzione, lʼ8 dicembre fu posta in scena Elisa e Claudio. Il periodico «Mercurio siculo» del 15 dicembre registrò: «Unʼaria finale del M.o Doni zetti ha rimpiazzato quella di Mercadante, ma certamente senza miglior successo, e la prima e la seconda non faranno mai né la reputazione di un maestro né il diver timento del pubblico».19 Lʼaria sostituita in corso dʼopera dovrebbe essere quella di Elisa «A chi parlo?... che pretendo?...», assai articolata, con cori e pertichini: non è invece stato possibile fin qui identificare quella di Donizetti che ne prese il posto.20 Oltre alle citate stagioni del 1834 e 1838, anche altre circostanze abbinarono i due. Donizetti subentrò a Mercadante nellʼopera inaugurale del carnevale 1834 alla Scala (nacque Lucrezia Borgia). Entrambi contribuirono (lʼuno con la sinfonia, lʼaltro col terzetto con cori «Come suon dʼarpa dolente») alla cantata In morte di M. F. Malibran de Beriot eseguita alla Scala il 17 marzo 1837 (versi di Antonio Piazza: gli altri ʼnumeriʼ musicali affidati a Pacini, Coppola e Vaccai). Mercadante, e non Donizetti, fu posto alla guida del Real Collegio di Musica a Napoli. Né Mercadante, né – dopo di lui – Donizetti accettarono la proposta di Rossini di dirigere il Liceo Filarmonico di Bologna. Durante tutti questi anni, lʼanimosità di Mercadante non si placò: anzi, conobbe vette parossistiche ad esempio in occasione dellʼultimo confronto ravvicinato, alla Fenice nel 1838. Non abbisogna di commenti la lettera del 7-8 febbraio 1838 che Mercadante, da Venezia, diresse a Florimo: Lʼaspettativa per lʼOpera di Donizetti era immensa: LʼImpresario, suo partigiano, per conseguenza la Compagnia, suoi fanatici adulatori. Mai come questa volta il Cavalier Maestro fece uso del suo bindello e del suo titolo. Mai come questa volta frequentò assiduamente tutti i Caffè, le osterie, le Bettole, le alte e basse società, le accademie pubbliche, private, le compagnie de cosí detti sosurroni Teatrali, i quali erano incaricati di decantare il suo inesauribile genio, la grande straordinaria facilità, la prattica delle voci, del teatro e cet. e cet., aggiungendo che il profondo, scolastico Mercadante (e ciò per burla) sarebbe restato vittima dellʼArlecchino Bergamasco e che lo avrebbe disfatto e reso fuggiasco alla volta di Novara, a forza di vecchie Cabalette. Finalmente la scorsa settimana comparse la tanto attesa Opera, Maria Rudenz: Non precipitò, ma sobbissò, sprofondò. Il fiasco fu tale e tale, che il Maestro non stiede a Cembalo per il terzo atto, e fuggí dal Teatro, e ne vi comparve altro per la 2da e 3a recita, che furono date a dispetto del pubblico
19
oTTAVIo
20 Donizetti. Carteggi e Documenti, cit., p. 593.
per onore di firma, con la promessa di non darla altrove, in effetto questa sera vi sono i Puritani – Lʼesacrazione, lʼindignazione, le dicerie di questo Pubblico contro il Maestro, sono da non dirsi: Chi pretende che abbia vuotato il sacco, altri dicono che si è reso insolente ripetendo sempre le stesse cose, chi dice di non avere voluto, altri che non potuto, saputo; altri che lʼabbia fatta istrumentare dagli allievi del Conservatorio di Napoli, insomma è stato un affare serio, ma serio assai, che a dirtela schietta non avrei mai immaginato che un Cavaliere potesse cosí cadere. Io non lʼho intesa, giacché mi son fatto un riguardo, non volendo esser citato autore di critiche contro un collega, e né meno sono pentito. […] Benché ingrato con i suoi figli, pure, viva il casalone, la patria deʼ compositori; e se noi non abbiamo il talento deʼ nostri gran Maestri, almeno dobbiamo con ogni sforzo non mostrarci inferiori a questi Ciarlatani titolati.21
Da parte sua, Donizetti non ricambiò affatto tanta aggressività e, per quanto si capisce dalle lettere al collega, fiduciose e di costante apprezzamento, non ne fu minimamente consapevole.22 Piú che mai di circostanza, dunque, la Sinfonia con fezionata da Mercadante come omaggio funebre al collega bergamasco.
Ora, quanto fin qui esposto tocca episodî biografici, e aspetti di carattere che possono ricadere sotto la categoria delle Miserie Umane. Di diverso, e maggior interesse, risultano invece due questioni che rappresentano anche prospettive suscettibili di suggerire altrettante direttrici di ricerca.
Una riguarda lʼinizio del rapporto, nel 1821, quando Mercadante aveva racco mandato Donizetti ad amici romani. I destinatari di quella segnalazione erano Anna Carnevali e la sua famiglia. A loro chiedeva di «presentare il latore della presente al Maestro Fioravanti, ed in una parola a tutte le brave persone che frequentano la vostra armonica Casa».23 Sappiamo che tra Anna e Donizetti (e dunque anche Mer cadante) cʼera un sensibile divario dʼetà: «lei che con tanta bontà mi solea chiamare
21
22
pAlermo, Saverio Mercadante cit., pp. 182-183.
Le prove in tal senso sono numerose, e sparse lungo tutti gli anni della sua biografia, come dimostrano le lettere in data: 19 aprile 1836 (GuIdo ZAVAdINI, Donizetti. Vita – Musiche – Epi stolario, Bergamo, Istituto Italiano dʼArti Grafiche, 1948, n. 205), 24 febbraio 1838 (New York, Roger Gros Antiquaria), 4 febbraio 1841 («Studi donizettiani» I, 1962, p. 75), novembre 1841 (ZAVAdINI, Donizetti cit., n. 383), 18 gennaio 1842 (Id., Donizetti cit., n. 394), novembre 1842 (Id., Donizetti cit., n. 453), 7 giugno 1843 (Id., Donizetti cit., n. 487), 14 giugno 1843 (Id., Doni zetti cit., n. 489), ottobre-novembre 1843 («Studi donizettiani» IV, 1988, pp. 64-65), novembre 1843 (Jeremy CommoNS, Unknown Donizetti Items in the Neapolitan Journal ʼIl Sibiloʼ, «The Donizetti Society Journal» 2, 1975, pp. 145-160: 148), 31 gennaio 1844 (ZAVAdINI, Donizetti cit., n. 538), 1 febbraio 1844 (Id., Donizetti cit., n. 540), 11 febbraio 1845 (Caro Aniello. I carteggi doni zettiani del Fondo Moscarino (1836-1847), a cura di Carlo Moscarino, Bergamo, Fondazione Donizetti 2008, p. 22), 8 marzo 1845 (ivi, pp. 26-27).
23 Donizetti. Carteggi e Documenti, cit., p. 423.
suo figlio» le scriveva Gaetano il 14 maggio 1822.24 Appassionatissima di musica, Anna era sposata con Paolo Carnevali. Abitavano a Palazzo Cenci Bolognetti, in piazza del Gesú, e avevano almeno due figlie musicofile quanto la madre, Edvige e Clementina.25 Una plaquette di versi in onore di Edvige pubblicata26 in occasione delle sue nozze col capitano Giuseppe Salmi la dice «nella meravigliosa arte della pittura nella musica peritissima». Clementina (1806-90) sposerà nel 1823 il cavaliere imolese Natale Mongardi (1785-1831) già militare sotto Napoleone e poi alto uffi ciale della milizia pontificia.27 Come Mercadante, anche Donizetti diverrà assiduo di casa Carnevali, e per piú di un decennio intratterrà con Anna rapporti epistolari. Nel caso di Donizetti siamo a conoscenza di musiche scritte o inviate ai Carnevali per il loro salotto,28 compresa la cantata a 2 voci e pianoforte che il compositore dedi cherà ad Anna nel 1833, nel suo giorno onomastico (26 luglio): e sui pentagrammi figurano esplicitamente i nomi delle sorelle canterine, Edvige e Clementina.29
Figura 1: gAETANO DONIZETTI, Cantata, frontespizio (F-PN, MS. 4178).
24 Ivi, p. 464.
25 Ivi, p. 424.
26 Senza note tipografiche e senza data (cfr. ivi, p. 424). Altri documenti fanno pensare che la ragazza sia morta prematuramente, entro il 1831 (cfr. ibidem).
27 Ibidem. Mercadante inviò una lettera di felicitazioni per il matrimonio, datata 11 novembre 1823, con accenni alla famiglia Carnevali e al favore che riservava alle sue musiche (Ravenna, coll. privata Paolo Fabbri).
28 Ivi, pp. 424, 465.
29 Autografo a Parigi, Bibliothèque Nationale de France mS.4178.
Figura 2: gAETANO DONIZETTI, Cantata, c. 2r (F-PN, MS. 4178).
E Mercadante? Abbiamo notizie di analoghe destinazioni? Oltre alla citata lettera inedita, a casa Carnevali si lega una composizione celebrativa di grande impe gno, un corrispettivo del rossiniano Viaggio a Reims. Per la medesima circostanza, festeggiare cioè lʼincoronazione di Carlo X, nel 1825 Paolo Carnevali commissionerà a Mercadante una cantata su libretto dellʼarcade Alceo Maratonio (che altri non era se non suo genero Mongardi) eseguita nella propria abitazione alla presenza dellʼambasciatore francese, e poi replicata a Villa Medici, allʼAccademia di Francia, la sera del 19 giugno: diretta da Giuseppe Cecchini, venne eseguita da Clementina Carnevali, Gioachino Moncada, Nicola Cartoni, Filippo Moroni.30 La composizione è da identificare con la Cantata a 4 voci, coro e orchestra, il cui incipit è «Già veloce anzitempo la notte». I suoi personaggi: Elisa (S), Gallo (T), Francone (B), Genio (T). 31 Al momento, nel catalogo dettagliato della produzione da camera di Mercadante non sembrano figurare altri suoi contributi alle serate in casa Carnevali.32 Lʼaltro terreno dʼindagine è invece un misterioso oggetto bibliografico su cui ha richiamato lʼattenzione Luca Zoppelli quasi una ventina dʼanni fa.33
30 CAmeTTI, Donizetti a Roma cit., pp. 12-13.
31
Autografo a Roma, S. Cecilia Accademico A.Ms.558; ibidem, Accademico A.Ms.909-910 una partitura ms. in 2 voll.
32 Cfr. mICHAel WITTmAN, Saverio Mercadante – Systematisches Verzeichnis seiner Werke, Berlin, mW-Musikverlag, 2020 (la cantata del 1825 è schedata alle pp. [286-287]).
33
luCA ZoppellI, Schizzi, abbozzi, frammenti donizettiani: rilievi ed osservazioni sparse, in Dram maturgia, vocalità e scena tra Donizetti e Puccini. Convegno di studi in onore di William Ashbro ok (Bergamo-Lucca, 18-21 ottobre 2002).
Figura 3: gAETANO DONIZETTI, pagina iniziale di un duetto. (F-PN, Fonds Malherbe 4077.2-6).
Si tratta di alcuni fascicoli autografi conservati a Parigi:34 «frammenti, certamente di mano di Donizetti, di tre numeri di unʼopera, presumibilmente giunta allo stadio finale – perché già orchestrata – sul soggetto del Don Carlos di Schiller».35 I versi intonati sono i seguenti (le indicazioni tra parentesi quadre derivano dal libretto Alfonso ed Elisa, citato piú avanti; i commenti, miei):
[I, 16]
Filippo Carlo Diego
Sí, ferisci, e la mia morte sazj alfine il tuo furore. Chi infedele ha in petto il core parricida ancor sarà.
Che mai dici? E tanto, o padre, dal tuo labbro udir deggʼio? […]
[lacuna: mancano pagine tra c. 14v e c. 15r, e cambia anche la disposizione di strumenti e voci sulla pagina]
[I, 4: cabaletta]
Ah questʼamabile
34
35
Bibliothèque Nationale de France Fonds Malherbe 4077.2-6.
luCA ZoppellI, relazione al convegno cit., inedita. Ringrazio il collega e amico per averla messa a mia disposizione, insieme con la riproduzione in suo possesso di tali autografi, e lʼautorizzazione ad occuparmene.
Filippo Alvaro e Coro Elisa e Carlo Filippo Carlo Filippo Elisa Filippo Carlo
Filippo Alvaro e Coro Elisa e Carlo Fiippo [invece di Elisa ed Alfonso]
[Diego] Coro [insieme con Alvaro]
raggio di speme che viene a splendere a un cor che geme non fugga rapido come brillò.
[da c. 19r: II, 8]
Per te mʼè stato un giorno [invece di: «soave un giorno»] sacro/caro di padre il nome; [invece di: «mʼera di Padre]
oh come adesso, oh come pena ed orror mi fa.
Lavare il fallo orribile col sangue suo dovrà.
Ah più non è quellʼanima capace di pietà. […] [lacuna tra c. 22v e c. 23r]
Ma orrenda furia infiammami e di viltà mi sgrida… Padre… Signor… Mi lascia… Deh, ti commovi… Infida…
Per te di sdegno avvampo!... Per lui non vʼè piú scampo! Mira: è il destin segnato. Padre… Taci!
Egli morir dovrà.
Oh giorno orrendo! Oh fato! Che fiera crudeltà!
Vorrei pur reggere a tanto affanno, frenar queʼ palpiti che in cor mi stanno. Colpo peggiore dʼun padre al core la sorte barbara scagliar non può.
Si dee del perfido punir lʼerrore: la morte merita chi tʼoltraggiò.
Si tratta effettivamente di 3 diversi passi di un melodramma su soggetto schille riano, ma i versi sono quelli di Alfonso ed Elisa, un libretto adespoto che Mercadante aveva musicato per lʼapertura del nuovo teatro di Mantova, nel carnevale 1823. «La Scena si rappresenta in Arragona» [sic], e i personaggi maschili lí coinvolti hanno i nomi di Diego ed Alfonso. A breve distanza, nella primavera 1823 lʼopera fu ripresa a Reggio nellʼEmilia, ma lʼascendenza schilleriana venne ancor piú camuffata allonta nando la vicenda nellʼantichità greca, e ambientandola in Tessalonica. LʼArgomento ricalca per verba quello del libretto di Mantova, coi nomi ovviamente cambiati, e lʼaggiunta di un significativo paragrafo finale:
Dopo lʼAntigono dellʼimmortal Metastasio furono immaginati altri Drammi per Musica, che lo somigliano, come il Costantino, il Filippo, LʼAndronico, lʼAlfonso, ed Elisa, che si riprodussero sotto varie forme, e col cangiamento deʼ nomi per servire alla necessità di circostanze non prevedute, il che per la stessa imperiosa ragione, e con pari licenza si è fatto anche al presente.
Le «circostanze non prevedute», e lʼ«imperiosa ragione» alludono certo a det tami piú o meno espliciti della censura, sospettosa nei confronti della situazione di un figlio che si ribella platealmente al potere di un padre-sovrano, evidente mente percepito come piú pericoloso dello scottante problema para-incestuoso dellʼamore – corrisposto o no – tra figlio e matrigna. Dopo lʼAntigono di Metastasio, era Giovanni Kreglianovich (1777-1838), il pastore arcade Dalmiro Tindario autore del Costantino intonato da Stuntz (Venezia, Fenice, carnevale 1820) a chiamare in causa un altro archetipo:
in luogo dellʼintreccio dʼIppolito e di Fedra, si è pensato di rappresentar il figlio e la matrigna nella tragica situazione di cui felicemente si giovarono Campistron nellʼAndronico, Schiller nel don Carlos, ed Alfieri nel Filippo. Quantunque si ami comunemente di vedere lo spettacolo melodrammatico condotto a lieto fine, il che costringe sempre il poeta a stroppiar senza misericordia la mitologia, la storia o la tradizione, secondo lʼindole del soggetto preso a trattare; nondimeno si è lasciato che questo Dramma abbia uno sviluppo che in qualche modo al fatto istorico corrisponde; molto piú che in Venezia, e nelle piú ragguardevoli città dʼItalia furono ascoltati ed applauditi non pochi drammi tragici, e fra gli altri lʼOtello del maestro Rossini, senza che la tristezza dello scioglimento abbia in conto alcuno nuociuto allʼeffetto magico dellʼarmonia.36
Anche lʼAndronico che Mercadante aveva presentato a Venezia nel carnevale 1822 era opera di Kreglianovich che, nellʼAvvertimento premesso al suo libretto (Venezia, Casali, 1822), precisava ulteriormente quella genealogia letteraria:
36 Avvertimento, in Costantino, Venezia, Antonio Casali, 1820, pp. 5-6: 6.
Il celebre Abate di Saint-Réal, che in Francia fu paragonato a Sallustio, pubblicò nel 1672 una novella istorica intitolata Don Carlos [Nouvelle historique de Dom Carlos] con animo di giustificare la sposa di Filippo II, Isabella di Valois, cui imputavasi dʼessere stata partecipe della funesta passione che trasse a morte il figliastro suo. Questo romanzo ingegnoso scritto con eleganza e purezza di stile, fu accolto di queʼ tempi con grande favore, ed offerse al teatro un argomento assai interessante. Il primo autore che imprendesse a giovarsene, è stato Campistron; ma narra egli stesso che non potendo per ragioni invincibili mettere in azione queʼ personaggi coʼ veri nomi loro, sʼavvisò di rintracciare altrove alcun soggetto dʼintreccio corrispondente. Frutto dellʼindagine sua è stato lʼAndronico, tragedia tratta dalla Storia Bizantina, in cui i caratteri del padre, del figlio, e della matrigna sono glʼidentici descritti da Saint-Réal, e i fatti interamente conformi nelle circostanze. Un secolo dopo circa comparvero il Filippo dellʼAlfieri [1775: pubblicato nel 1783], la Isabella e Carlo del Pepoli [Alessandro, Carlo e Isabella, Parma 1792: debutto a Bologna, 1791], e il Don Carlos dello Schiller [1787], tragedie, come ognun sa, dettate con diversità di mezzi, dʼartifizî e di fini; ma tutte dalla stessa prima sorgente derivate.
Su questi fondamenti, e seguendo come meglio potevasi le tracce segnate, è stato condotto con le dovute modificazioni ed avvertenze il presente melodramma.
Sono piú dʼuno gli interrogativi suggeriti da quanto esposto: a cominciare dallʼinsistenza che Kreglianovich dedicò a questo soggetto. Ma per quale ragione Donizetti rimise in musica, e in una veste cosí rifinita (regolarmente orchestrata), tutto o in parte il libretto di Alfonso ed Elisa? Né sfugga che, rispetto ai personaggi di questʼultimo, sulla partitura donizettiana appaiono i nomi di quelli di Schiller, Filippo e Carlo.
A complicare le cose, a fine 1843 Michele Costa, che aveva intenzione di utilizzare quel soggetto di Schiller, doveva aver domandato a Donizetti se non lo stesse facendo già lui, perché il 13 novembre Donizetti gli replicava: «Conosci tu le mot Blague? Ora vai conoscerlo. Io non ho mai pensato a scrivere Filippo avendo scritto Fausta. Ainsi, Blague».37 Per inciso, si badi alla connessione Filippo-Fausta/Costantino: evidentemente a Donizetti era ben chiaro che il nodo dei due soggetti era affine. Insomma, piú quesiti che soluzioni: studi successivi forse aiuteranno a chiarirli, senza dover attendere il prossimo centenario.
37 «Studi Donizettiani» I, 1962, p. 109. Costa poi portò in scena (a Londra, nel giugno 1844) Don Carlos su libretto di Leopoldo Tarantini.
I libretti di Salvadore Cammarano per Mercadante: alla ricerca della forma (e della riforma)
È risaputo, e riconosciuto dalla critica coeva e successiva, nonché dichiarato dallo stesso compositore, che Saverio Mercadante, a cavallo degli anni Trenta e Quaranta dellʼOttocento, abbia pensato, provato a realizzare e, in seguito, in un certo senso, accantonato, un progetto di riforma del melodramma italiano che perseguiva una maggiore aderenza della struttura musicale alla drammaturgia del testo.1 In una lettera a Francesco Florimo, spesso citata come manifesto della riforma, Mercadante, a proposito di Elena da Feltre, afferma: Ho continuata la rivoluzione principiata nel Giuramento: variate le forme – Bando alle Gabalette triviali, esilio aʼ crescendo. Tessitura corta: meno repliche – Qualche novità nelle cadenze – Curata la parte drammatica: lʼorchestra ricca, senza coprire il canto – Tolti i lunghi assoli neʼ pezii concertati, che obbligavano le altre parti ad essere fredde, a danno dellʼazione – Poca gran cassa, e pochissima banda –.2
E Santo Palermo, nel ritratto biografico che precede la pubblicazione dellʼepistolario mercadantiano, non manca di riferire come lʼoriginalità delle opere
1
Evidenza di questa lettura critica si ha anche da una fonte enciclopedica quale il Dizionario biografico degli italiani (cfr. voce Saverio Mercadante, a cura di Carlida Steffan, online <https:// www.treccani.it/enciclopedia/saverio-mercadante_%28Dizionario-Biografico%29/>, ultima consultazione 21 settembre 2021). Essa ricorre in tutti i ritratti biografici del compositore stesi negli ultimi decenni che si è avuto modo di consultare, ed è oggetto di specifici studi specialistici. Il presente contributo, concepito e steso in tempo di pandemia, non si è potuto avvalere di una consultazione sistematica delle fonti bibliografiche, ma si è dovuto principal mente fondare su fonti reperibili online o già a mani dellʼautore, e sugli studi svolti in occa sione della tesi di dottorato mArCo leo, I libretti di Salvadore Cammarano, Università degli Studi di Torino, 2013.
2 Lettera di Saverio Mercadante a Francesco Florimo del 1° [gennaio] 1838, cit. in SANTo pAler mo, Saverio Mercadante. Biografia. Epistolario, Fasano, Schena, 1985, p. 179.
di quegli anni sia stata rilevata tanto dalle cronache delle prime rappresentazioni, quanto dai critici che assistettero alle rare riprese novecentesche.3 I prodromi di questa riforma si possono ravvisare in diverse partiture del compositore, già nella prima metà degli anni ʼ30, ma il suo fulcro, stando alle stesse parole di Merca dante, va fatto coincidere con la porzione di catalogo che si apre con Il giuramento (1837), e comprende Le due illustri rivali (1838), Elena da Feltre (1838), Il bravo (1839), La vestale (1840). Mentre, nei successivi titoli composti per la piazza napoletana, lʼevidenza di questi progetti di riforma si attenuò, a favore di una maggiore ade renza alle convenzioni formali del melodramma coevo che potrebbe sembrare una sorta di involuzione stilistica. Non è questa la sede per definire e approfondire le caratteristiche della riforma di Mercadante;4 mi limiterò a rammentare uno dei suoi tratti essenziali, che è bene tener presente nel prosieguo della lettura. Pur non rinnegando la concezione del melodramma come successione di numeri musicali, il compositore si allontanò da quella che era la loro struttura formale di prassi nellʼopera italiana del suo tempo, oggi conosciuta come ʼsolita formaʼ. 5 Questa, secondo una convenzione che si era affermata nel tardo periodo rossiniano e pre dominò nei decenni del melodramma romantico italiano, prevedeva che il singolo numero musicale si articolasse in una scena (talvolta definita, con vocabolo ormai anacronistico, «recitativo»), un eventuale tempo dʼattacco, un cantabile, un tempo di mezzo e una cabaletta (ripetuta con variazioni), posti pressoché invariabilmente in questʼordine. Mercadante, nelle opere della propria riforma, con frequenza omise alcune parti della ʼsolita formaʼ o ne alterò la successione, nellʼintento di plasmare il piú possibile lʼintonazione musicale sulla dimensione psicologica dei personaggi.
La collaborazione tra Mercadante e Cammarano
In occasione di Elena da Feltre, cioè dellʼopera comunemente riconosciuta come emblema della riforma di Mercadante, iniziò la collaborazione tra il musicista di Altamura e Salvadore Cammarano (1801-1852). Il sodalizio con il poeta napoletano – che usciva da un triennio di cooperazione quasi esclusiva con Donizetti, durante il quale erano nate sette opere – avrebbe accompagnato entrambi gli artisti sino
3 Ivi, pp. 31ss.
4 Tra gli studi che hanno affrontato lʼargomento, si ricorda kAreN m. BryAN, An Experiment in Form. The Reform Operas of Saverio Mercadante (1795-1870), Ann Arbor, umI, 1994. Diversi con tributi che trattano, piú o meno direttamente, il tema della riforma mercadantiana si trovano in Saggi su Saverio Mercadante, a cura di Gian-Luca Petrucci e Giacinto Moramarco, Cassano delle Murge, Messaggi, 1992.
5 Questa felice locuzione, coniata piú o meno casualmente da Abramo Basevi scrivendo dei duetti verdiani nel 1859, è tornata in auge negli ultimi decenni a seguito di uno studio di Harold S. Powers, ed è oggi abitualmente usata non solo dagli studiosi, ma anche dai melomani. Cfr. ABrAmo BASeVI, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Firenze, Tofani, 1859; HArold S. poWerS, “La solita forma” and “The Uses of Convention”, «Acta Musicologica» lIX, 1987, pp. 65-90.
alla morte, dando vita a otto titoli: alle già citate Elena da Feltre e La vestale segui rono Il proscritto (1842), Il reggente (1843), Il vascello De Gama (1845), Orazi e Curiazi (1846), Medea (1851), Virginia (1850, ma rappresentata solo nel 1866 per ragioni di censura). E, anche negli ultimi mesi di vita, il compositore lavorava su un vecchio libretto di Cammarano, del quale riuscí a terminare solo poche scene (Lʼorfana di Brono). Durante gli anni della loro collaborazione, Mercadante fu il compositore per cui Cammarano scrisse piú versi, e Cammarano fu il librettista alla cui mano Mercadante affidò la stesura della maggior parte dei propri melodrammi.
Come implicitamente riconobbe John Black quando scelse di intitolare la propria monografia su Cammarano The Italian Romantic Libretto, 6 il poeta napoletano può essere considerato lʼincarnazione per antonomasia del librettista romantico, per come seppe assimilare e sublimare con la massima raffinatezza stilistica quei tratti del genere letterario che erano richiesti dai compositori dʼopera e dal pubblico dei suoi anni: enfasi, immediatezza del sentimento, regolarità della metrica, musicalità del verso. Ne è testimonianza la stima che gli era riconosciuta dai musicisti coevi – Verdi in primis – e che gli è stata restituita negli ultimi decenni, a dispetto di alcuni fraintendimenti critici novecenteschi. Lʼinsieme dei libretti di Cammarano, stesi in un arco di tempo inferiore ai due decenni, si presenta al lettore come un corpus unitario, nel quale minute evoluzioni stilistiche si innestano sulla convinta adesione alle caratteristiche del melodramma romantico italiano, e in particolar modo alla sua suddivisione in numeri musicali articolati secondo la ʼsolita formaʼ.7 Si potrebbe affermare, con un paradosso solo apparente, che Cammarano seppe realizzare, con perfezione formale classica, il prototipo del libretto romantico ita liano. Mercadante trovò certamente in lui un vero poeta in grado di fornirgli i versi torniti e limati e le equilibrate architetture strofiche che non era affatto scontato rinvenire presso altri librettisti di quegli anni. Ma come si conciliarono la poetica di un librettista cosí legato alla struttura formale, e i progetti di un musicista che proprio allora voleva superare le forme convenzionali? Quale evoluzione ebbe il loro sodalizio artistico? Senza alcuna pretesa di esaustività e senza svolgere una trattazione sistematica, proverò, attraverso alcuni esempi, a illustrare come la forma e la riforma si incontrarono, o scontrarono, nelle opere intonate da Mercadante su versi di Salvadore Cammarano.
6
7 Benché la ʼsolita formaʼ sia definita nelle sue segmentazioni sulla base di caratteristiche musi cali, la sua presenza è perfettamente percepibile nellʼarticolazione metrica del libretto, che i poeti strutturavano in funzione dellʼintonazione che sarebbe seguita, conoscendo le richieste, o le generiche attese, dei compositori e del pubblico. Questo non significa, come si vedrà, che lʼarticolazione formale pensata dal librettista coincidesse sempre con quella effettivamente realizzata dai compositori; ma, nella gran parte dei casi, la coincidenza si verificava.
Elena da Feltre
La collaborazione tra i due artisti, si diceva, iniziò nel cuore della riforma di Mercadante. E non stupisce che proprio Elena da Feltre sia il titolo nel quale maggiormente si apprezza il contrasto tra le loro poetiche. Chi ne leggesse il libretto ignorando la partitura, avrebbe lʼimpressione di trovarsi davanti a unʼopera perfettamente costruita secondo le convenzioni della ʼsolita formaʼ, e tale avrebbe verosimilmente dovuto essere, nelle aspettative di Cammarano. Tuttavia, Mercadante sistematica mente alterò la struttura del testo che gli era stato fornito, per ricostruirlo in forme nuove e inattese. 8 Sicché sembra ironico il compositore quando, in una lettera indirizzata al librettista, afferma:
LʼElena da Feltre per la mia parte è stata compiuta e consegnata. Non saprei a chi raccomandarla meglio che allʼautore del dramma. Piú che me ne occupai, piú fui soddisfatto della buona condotta, misura, poesia, energia. Siate indulgente verso di me se ho malʼinterpretato qualche cosa, e persuadetemi che ho fatto quanto ho saputo e potuto per meritarmi la vostra particolare stima.9 Rispetto alla struttura formale di Cammarano, infatti, Mercadante aveva «malʼinterpretato» quasi tutto; anche se lo aveva fatto con lʼintenzione di perse guire una maggiore fedeltà alla verità drammatica e psicologica. Il numero musicale che piú emblematicamente mostra le forzature apportate da Mercadante alla ʼsolita formaʼ del libretto è il n. 8, Scena e aria di Ubaldo, che occupa la terza e la quarta scena del III atto. Ubaldo ha saputo che il tiranno Boemondo ha fatto uccidere il padre di Elena, rendendo vana la trama da lui tessuta per sposare la donna, di cui si era invaghito senza essere corrisposto. La rabbia, lʼorrore, lʼaffanno, il rimorso e il desiderio di vendetta si succedono nelle riflessioni di Ubaldo, al quale a un certo punto si unisce il coro dei seguaci. Questo il testo approntato da Cammarano:10
8 Elena da Feltre, riconosciuta come opera-simbolo della riforma mercadantiana, è stata ogget to di diversi studi. Si ricorda kAreN m. BryAN, Mercadanteʼs Experiment in Form: the Cabalet tas of Elena da Feltre, «Donizetti Society Journal» 6, 1988, pp. 37-56 . In tempi piú recenti, Giovanni Cassanelli ha dedicato allʼopera unʼintera monografia, nella quale analizza, numero per numero, libretto e partitura, individuando le divergenze tra le strutture formali immagi nate da Cammarano e quelle realizzate da Mercadante; anche se, a onor del vero, non sempre mi trovo dʼaccordo con Cassanelli circa le suddivisioni formali individuate. Cfr. GIoVANNI CASSANellI, Mercadante e la sua riforma. Elena da Feltre, Bari, Mario Adda Editore, 2012.
9 Lettera di Saverio Mercadante a Salvadore Cammarano del 1° gennaio 1838, cit. in pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 178. Nel prosieguo, Mercadante raccomanda di non permettere «alterazioni, tagli, mutilazioni» in sede esecutiva, e afferma di aver «tenuto un genere decla mato ed espressivo».
10 I testi dei libretti citati nel presente saggio, con la relativa numerazione dei versi, sono tratti da leo, I libretti di Salvadore Cammarano cit. Dal suddetto studio è ripresa anche lʼimpaginazione
SCeNA III
Appartamenti di Ubaldo, come allʼatto I. uBAldo
Ubaldo 540 545 550
Egli si avanza a passi rapidi, incerti, vacillanti: è coperto di pallore, le sue membra sono tremanti, inorriditi gli sguardi. Oh inaudita perfidia!… Oh sanguinoso orribil tradimento!… Nella profonda sotterranea volta, in cui fu tratto Sigifredo, io mossi, onde affrettar lʼistante che i lacci suoi scioglier dovea… Ma quale, ahi! qual sʼofferse a me vista ferale!
Al chiarore di lugubri tede vidi un palco di sangue bagnato!… E balzar del carnefice al piede il suo capo dal busto troncato!... Quella cruda, terribile scena ho presente al pensiero tuttor!…
Ed un gel mi ricerca ogni vena!… I capelli mi drizza lʼorror! Si getta a sedere. Un momento di silenzio. del testo (ad eccezione di un piccolo dettaglio relativo allʼallineamento delle didascalie in corsivo, qui modificato per ragioni tipografiche), sulla quale merita richiamare lʼattenzione. Si osserverà, infatti, che i testi sono disposti mettendo in evidenza, con uno spazio interline are bianco, la successione delle sezioni della ʼsolita formaʼ nel testo del libretto. Per la preci sione, è messa in evidenza lʼarticolazione formale concepita dal librettista, anche nei casi in cui, come il presente contributo mette in luce, essa non coincide con lʼarticolazione realizza ta dal musicista in partitura. Infatti, con il conforto degli studi di discussione metodologica degli ultimi decenni (cfr. La filologia dei libretti. Tavola rotonda coordinata e introdotta da Lorenzo Bianconi, in Lʼedizione critica tra testo musicale e testo letterario. Atti del Convegno internazionale (Cremona, 4-8 ottobre 1992), a cura di Renato Borghi e Pietro Zappalà, Lucca, lIm, 1995, pp. 421-482. A seguito di tale convegno, la riflessione metodologica e le sue appli cazioni hanno accompagnato ogni edizione filologicamente curata di libretti dʼopera italiani), ho ritenuto che unʼedizione librettistica debba restituire il libretto come testo a sé stante, cosí come uscito dalla penna del poeta, anche nella sua articolazione formale. Porre in evidenza la struttura formale realizzata dal musicista equivarrebbe difatti a contaminare fonti libret tistiche e fonti musicali.
555 560
Quando fia noto lʼorrido inganno, qual della figlia sarà lʼaffanno!… Ahimè! ché prezzo della sua mano Sorgendo. era la vita del genitore! Dunque io la perdo!… ho dunque invano Di grave colpa macchiato il core!… Or che mi resta? – Che? Vendicarmi. Olà?
SCeNA IV uBAldo e la sua gente.
Miei prodi, sorgete allʼarmi… Lo sdegno guelfo che in sen vi cova, sbocchi a vendetta di molte offese… –Elena ancora veder mi giova… Ma sʼella nega… ma sʼella apprese… O Boemondo, dellʼempio eccesso ragion col ferro ti chiederò. Lʼardir sopito, lʼodio represso, un sol tuo grido in noi destò.
Se deggio perdere lʼamato oggetto, la vita un peso divien per me; siccome al reprobo, al maledetto, che la speranza del Ciel perdé… –Ma trema, infame, ho brando e core… Fiumi di sangue scorrer farò…. Giuro commettere qualunque orrore… Piú scellerato di te sarò. Giunse il momento vendicatore!… E Cielo e terra colui stancò. Partono.
Si tratta, con ogni evidenza, di unʼaria con interventi corali articolata in una ʼsolita formaʼ di limpidezza cristallina. A una scena in endecasillabi e settenari sciolti («Oh inaudita perfidia!... Oh sanguinoso») segue, al v. 547, una strofa in decasillabi anapestici per il cantabile («Al chiarore di lugubri tede»). Terminata questa stasi narrativo-meditativa, si apre il tempo di mezzo in doppi quinari (dal v. 555, «Quando fia noto lʼorrido inganno»), nel corso del quale compie il suo ingresso il coro. La
scena termina con una cabaletta, sempre in doppi quinari, dal v. 571 («Se deggio perdere lʼamato oggetto»).11 Tuttavia, mettendo in musica la scena, Mercadante la scandisce in modo del tutto differente. Dopo unʼintroduzione orchestrale, attacca il Recitativo12 di Ubaldo, che prosegue fino al v. 556, quindi ben oltre la porzione in endecasillabi e settenari sciolti, arrivando a coprire lʼintera strofa in decasillabi anapestici e il primo distico in doppi quinari. Al v. 557 («Ahimè! ché prezzo della sua mano») si apre unʼoasi meditativa, un Andante sostenuto il cui accompagna mento farebbe presagire lʼinizio del vero cantabile; ma si tratta di un arioso che si esaurisce in poche battute di musica e tre versi di testo, dal momento che al v. 560 riprende il recitativo, che termina con la chiamata del coro. Con il v. 563 («Lo sdegno guelfo che in sen vi cova», e secondo il progetto di Cammarano si sarebbe già dovuti essere a metà del tempo di mezzo) ci si trova in un Allegro giusto dal ritmo marziale e vigoroso, di sapore cabalettistico. Tuttavia, la cabaletta, come si vedrà, viene dopo, e chiamare questa porzione ʼtempo di mezzoʼ sarebbe improprio, non esistendo un cantabile che lo precede. Quindi, per restare alle parti della ʼsolita formaʼ, si potrebbe definire questa sezione una sorta di ʼtempo dʼattaccoʼ (presenza assai rara nelle arie solistiche). A partire dal v. 571, sulla strofa di doppi quinari dove Cammarano aveva immaginato una cabaletta, Mercadante costruisce la vera e propria aria, articolata in due sezioni contrastanti: i primi quattro versi («Se deggio perdere lʼamato oggetto») – un Andante un poco sostenuto su cui si distende il soli sta con un cantabile espressivo legato – costituiscono la sezione cantabile, cui segue, senza tempo di mezzo, la vera e propria cabaletta, «Ma trema, infame, ho brando e core», in Allegro, provvista di intervento corale e regolare ripetizione. Come si può osservare, la scansione musicale ordita da Mercadante vuole rispecchiare non la scansione metrica del libretto, bensí il contenuto drammaturgico del testo. La strofa in decasillabi anapestici non è altro che la prosecuzione di una narrazione iniziata nella scena in versi sciolti, e come tale è trattata dal compositore. I passi in cui la mente di Ubaldo corre a Elena, meditando tra rimorso e angoscia sulle azioni che lo hanno condotto a perderla, sono resi con cantabili di profonda espressività.
11 Lʼomometria di tempo di mezzo e cabaletta può lasciare aperto un dubbio su quale dovesse essere, nella mente del librettista, il vero inizio dellʼultima sezione, che si potrebbe anticipare al v. 563 («Lo sdegno guelfo che in sen vi cova»), immaginando una cabaletta con ripetizione su versi differenti. Tuttavia, questa ipotesi pare da scartare, perché comporterebbe una diver sa lunghezza delle due strofe della cabaletta (sei versi piú due del coro la prima strofa, otto versi piú due del coro la seconda strofa).
12 Cosí definito in partitura, a guisa di indicazione agogico-espressiva. Il numero musicale è invece definito «Scena ed Aria Ubaldo». Cfr. SAVerIo merCAdANTe, Elena da Feltre, partitura manoscritta conservata presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli [dʼora in poi I-N C), consultabile online <https://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu. jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIT%5C%5CICCU %5C%5CMSM%5C%5C0151124&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU> (ultima consultazione 21 settembre 2021), carte 138r-153v.
I momenti in cui prevale il sentimento di vendetta sono appannaggio di melodie assertive e ritmi marziali. Infine, è bene aggiungere che lʼarticolazione formale di questʼaria non si può considerare tout court unʼinvenzione di Mercadante, poiché di fatto riprende lo schema dellʼaria in due parti (tipicamente un Andante e un Allegro) posta al termine di una scena di recitativo, che era in voga nei decenni tra fine XVIII e inizio XIX secolo; ma allʼascoltatore del 1838, assuefatto alla ʼsolita formaʼ, doveva sembrare, tanto piú se teneva tra le mani il libretto di Cammarano, rivoluzionaria.
La vestale
A proposito di Elena da Feltre, Mercadante scriveva a Florimo: «Camerano mi ha spedito unʼargomento [sic] Elena degli Uberti, che mi piace, trovandoci forti passioni, movimento rapido di azione e buona distribuzione generale, benché troppe Arie»,13 mettendo in luce lʼantipatia che in quel momento provava verso una forma statica quale lʼaria solistica. In occasione della sua successiva collaborazione con Cammarano, il compositore ottenne un libretto nel quale i protagonisti non into nano alcuna aria, e, dei tre numeri solistici presenti (riservati a personaggi colla terali), uno solo è strutturato secondo la ʼsolita formaʼ. E non si tratta dellʼunico dettaglio per cui La vestale pare il libretto nel quale Cammarano maggiormente piega la propria scrittura alle esigenze riformistiche di Mercadante. Tuttavia, la volontà di questʼultimo di costruire una partitura aderente al dramma psicologico dei personaggi lo porta ancora in alcuni casi a confliggere con la struttura testuale approntata dal librettista. Ne è un esempio il duetto di Emilia e Giunia che segue immediatamente il coro dʼapertura dellʼopera (seconda e terza scena del I atto). Emilia apprende dallʼamica Giunia che il proprio fidanzato Decio, che credeva morto in battaglia, è invece sopravvissuto e rientra a Roma dopo aver trionfato sui Galli. Poiché, a seguito della falsa notizia della sua morte, Emilia aveva scelto di farsi vestale, alla gioia per il ritorno dellʼamato si sovrappone la disperazione dovuta alla consapevolezza che quella relazione è ormai divenuta impossibile. Giunia cerca di consolare lʼamica, invitandola al contempo alla prudenza.
13 Lettera di Saverio Mercadante a Francesco Florimo senza data (presumibilmente aprile 1837), cit. in pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 173.
Gran Vestale
Emilia Gran Vestale
Emilia Giunia Emilia Gran Vestale
Emilia Giunia Emilia Giunia Emilia Giunia Emilia Giunia Emilia Giunia
10 15 20 25 30
SCeNA II
La GrAN VeSTAle e dette.
Sí, ministre dellʼara, Vesta terrà lʼalta promessa: il brando invitto di Quirino nuovi allori mietea. Decio ritorna, deʼ Galli vincitor.
Decio!… che parli!… Vivamente colpita. E grido non suonò, che spento in campo giacque lʼeroe? La fama il ver mentiva; egli ferito cadde, non estinto fra lʼarmi. Reggimi… Oh Dei!… Sommessamente fra loro. Mancarmi sento il respiro…
Dellʼeterna fronda a noi si aspetta coronar quel prode: alla pompa solenne sʼappresti ognuna. Entra nel tempio, seguita dal coro. Empio destin!… Che avvenne!… Morir potessi…
Qual tremendo arcano chiudi nel petto?… Allʼamistà lo svela. Tremendo, sí! Quel Decio… Ebben? Che sorge vittorïoso dallʼavello… Ah! forse?… Era lʼanima mia… Bugiarda voce la sua morte parlò… Roma, la terra un deserto mi parve, e disperata corsi aʼ piè degli altari. Oh sventurata!… Ben ti compiango. Ma di Vesta or sei!
Emilia
Giunia Emilia Giunia Emilia Giunia
35 40 45
Dal cor profondo svellere ti dei lʼinsidiosa immago, ed obbliarla eternamente.
Ahi! Come?
Se al nome, al solo nome del mio perduto bene tutte mi sento ribollir le vene?
Di conforto un raggio solo non mi avanza in tanto duolo! Non ti resta, o sconoscente, dʼamistade unʼalma ardente? Congiurati aʼ danni miei tutti a gara son gli Dei!… Le mie preci ascolteranno… dí piú lieti sorgeranno. Spento al gaudio è questo core… pianto eterno io spargerò. Fia diviso il tuo dolore, teco almeno io piangerò.
SCeNA III
Il Coro delle VeSTAlI e dette.
Coro Emilia
Giunia Emilia
Coro
50 55
Vestali andiam… di popolo carche le vie già sono, il vincitor annunzia già delle trombe il suono. (O Decio!…)
Con tutta la forza di un cieco trasporto. Insana!… Sommessamente ad Emilia. (Decio, vederti ancor potrò!…)
Che fia! di viva porpora quel volto fiammeggiò! Piano fra esse.
(Perché di stolto giubilo mi balzi, o cor, nel petto?… Vive lʼamato oggetto, ma spento egli è per me!
Condanna questi palpiti il mio dover, la sorte… il palpito di morte meglio sʼaddice a te!)
Andiam… ti frena Emilia, Come sopra. atti componi e volto… che in te non sia rivolto un guardo sol non vʼè!
Pensa che sfidi, incauta, lʼire dʼorrenda sorte… pensa che infamia e morte la Dea minaccia a te.
Ad incontrar quel forte omai si tragga il piè. Partono.
La scena in endecasillabi e settenari sciolti, cui partecipa anche la Gran vestale, è seguita, al v. 38 («Di conforto un raggio solo»), da una strofa di dodici ottonari, articolata in distici (i primi quattro a rima baciata, gli ultimi due a rima alternata) che costituiscono gli interventi alterni di Emila e di Giunia, le quali proseguono il dialogo intrapreso nel ʼrecitativoʼ. La posizione della strofa nel numero musicale è quella occupata dal cantabile, ma la sua struttura dialogica farebbe propendere piú per una funzione di tempo dʼattacco (al quale non seguirebbe, nel libretto, un vero cantabile: una soluzione minoritaria, ma non certo unica, alla quale si ricorreva quando si voleva conferire maggiore brevità al duetto). Nellʼintonazione musicale, da questa strofa di ottonari, unitaria dal punto di vista metrico, Mercadante ricava i due momenti canonici del tempo dʼattacco e del cantabile, facendo coincidere il primo (Andante mosso) con i quattro distici a rima baciata e il secondo (Tempo piú trattenuto, accompagnato dallʼarpa) con i distici conclusivi a rima alternata («Spento al gaudio è questo core»).14 Mercadante potrebbe qui sembrare piú tradizionalista di Cammarano, nel ripristinare le consuete partizioni della ʼsolita formaʼ; ma occorre
14 Cfr. SAVerIo merCAdANTe, La vestale, partitura manoscritta conservata presso I-NC, consul tabile online <https://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww. internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIT%5C%5CICCU%5C%5CMSM%5C%5C 0151126&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU> (ultima consultazione 21 settembre 2021), carte 8r-24r.
considerare che la stasi lirica conclusiva non mira a introdurre un momento marca tamente melodico secondo lo standard dei cantabili coevi, quanto ad assecondare il contenuto psicologico del testo poetico, che, dopo una porzione esplicitamente dialogica, lascia spazio alle riflessioni interiori delle soliste, che si sovrappongono e intrecciano senza che vi sia piú uno scambio di battute. La forma, dunque, viene reintrodotta, rivisitata, a servizio della riforma. Con lʼingresso del coro delle vestali (v. 50, «Vestali andiam… di popolo») inizia il tempo di mezzo, in versi settenari, che conduce alla cabaletta (v. 58, «Perché di stolto giubilo»), sempre in settenari, artico lata in una strofa di otto versi (due quartine) per ciascuna delle due protagoniste, e distico conclusivo del coro. Dal punto di vista testuale, si tratta della struttura piú favorevole per unʼintonazione canonica che preveda una melodia spigliata prima affidata separatamente alle soliste e poi ripresa a due. Tuttavia, proprio nei versi che Cammarano aveva inequivocabilmente pensato come cabaletta, Mercadante riserva – come già era accaduto nellʼesempio che si è tratto da Elena da Feltre – le sorprese piú inattese. Infatti, lʼAllegro agitato dal ritmo pulsante che sembra aprire una tipica cabaletta virtuosistica, non si protrae che per poche battute (coincidenti con la prima quartina di Emilia), e al v. 62 («Condanna questi palpiti») lascia il posto a un Molto trattenuto quasi Andante in cui la voce della protagonista si dispiega in una melodia distesa e legata. In questa oasi meditativa – quasi un cantabile che interrompe a metà il fluire impetuoso della cabaletta – interviene Giunia, come una voce della coscienza, intonando porzioni testuali tratte principalmente dalla seconda quartina della propria strofa. Gli interventi di Giunia hanno una consistenza piú simile al pertichino che alla voce paritaria di un duetto, e la sua strofa non è intonata per intero, dal momento che i primi versi sono anticipati al termine del tempo di mezzo, in una frase raccomandata come un recitativo, declamato, animato e piano ad Emilia, e il seguito è preso a frammenti, senza peraltro che ella intervenga in alcun modo durante lʼAllegro agitato che apre la cabaletta. Terminata lʼoasi meditativa, il duetto scivola in un Allegro assai (nel quale alle due voci si unisce il coro) che, come una rapida stretta, senza che sia prevista una ripetizione integrale, conclude il numero musicale. Dunque, in un duetto che Cammarano aveva pensato come potenzialmente privo di cantabile, Mercadante introduce ben due stasi melodiche, per tradurre in musica il pensiero introspettivo della protagonista.
Orazi e Curiazi
Nelle opere successive alla Vestale si osserva un riavvicinamento di Mercadante alle strutture formali consuete, che è stato talvolta visto come unʼinvoluzione della sua poetica e una rinuncia al progetto di riforma del melodramma. Ma, come scrive Giovanni Cassanelli, le opere tarde di Mercadante sono in realtà «lavori che spesso, lungi dallʼaver dimenticato lʼesigenza di modellare la musica sulla vita emotiva dei personaggi, si pongono idealmente in linea di continuità con i melodrammi della piena maturità, salvo il cedere alla tentazione dellʼutilizzo di formule pienamente
possedute alle quali non si impedisce, tuttavia, di essere in taluni casi plasmate secondo nuovi criteri».15 In altre parole, Mercadante accantonò quella «rivolu zione» dichiarata alcuni anni prima, tornò ad accogliere gli assoli nei concertati e le cabalette «triviali» che voleva bandire dalle proprie partiture; e intonò i libretti di Cammarano senza sconvolgere dalle fondamenta la loro struttura basata sulla ʼsolita formaʼ e senza chiedere al librettista di praticare forzature al suo stile. Tuttavia, non rinunciò alla ricerca di una profonda corrispondenza tra intonazione musicale e drammaturgia, che perseguí nellʼambito di una maggiore adesione alle convenzioni del melodramma. Una via sperimentata da Mercadante in questa fase per coniu gare forma e riforma fu quella della dilatazione: i numeri musicali non sono piú decostruiti alterando la successione delle loro porzioni melodico-drammaturgiche, bensí espansi fino a comprendere al proprio interno scene complesse e variegate. Questa tecnica, già usata in titoli precedenti,16 assume una particolare rilevanza in Orazi e Curiazi, i cui pezzi rispettano le scansioni formali consuete ma, spesso, si rivelano pagine assai lontane dagli standard. Ne è esempio la seconda aria di Camilla, che funge al contempo da finale del II atto (di cui occupa quinta e sesta scena). La giovane romana, fidanzata con il guerriero albano Curiazio, è lacerata a causa dello scontro che si deve tenere tra il proprio fidanzato e i propri fratelli per risolvere la contesa tra Alba Longa e Roma. In una caverna ai piedi dellʼAventino si attende che un oracolo comunichi se la tenzone mortale si debba combattere o meno, e la risposta è affermativa: nel cuore di Camilla la trepidazione orante lascia il posto allʼira e alla disperazione.
15
16
CASSANellI, Mercadante e la sua riforma cit., p. 65.
Un esempio evidente si trova nel Bravo, dove lʼaria di Foscari del I atto vede lʼinterposizione della romanza «A te, mio suolo ligure», cantata fuori scena da Violetta, tra la prima esposi zione della cabaletta «Abbellita da un tuo riso» e la sua ripetizione.
SCeNA V
Orrida caverna a piè dellʼAventino, a cui si discende per lunga serie di scalini incavati nel vivo masso: le dense tenebre che vi regnano son qualche tratto rischiarate appena da incerta luce, che penetra da un forame praticato nellʼalto. In fondo una porta di bronzo chiusa.
Dopo lungo e terribile silenzio, vedesi CAmIllA scendere tutta sola nella misteriosa spelonca.
Camilla 365 370 375 380
Ecco il delubro! Accennando alla porta. Innanzi
al sacro limitar della caverna svenan lʼofferta i sacerdoti… Osai fra queste arcane ombre temute io sola, divo Apollo, venirne… amor mi mosse! E prima giunger volli, ad implorar la tua pietà. Gli Eterni, del par che onnipossenti, giusti son, son clementi; né tu, Nume, vorrai chieder lagrime eterne a questi rai.
La mia prece, il pianto accogli, abbian fine i miei spaventi: regolar tu puoi gli eventi, un tuo detto è lʼavvenir.
Lʼempia pugna tu distogli… in te fida il cor tremante… non costringermi lʼamante o i fratelli a maledir!
I SACerdoTI, gli orAZI, ed i CurIAZI, accompagnati da molti duci delle due armate, SABINA con seguito di nobili romane, e detta.
Tutti Voce Sacerdoti Gli Orazi Curiazio Gli altri Curiazi Curiazio Sabina Donne Sabina
385 390 395 400
O voce del fato, se vietan gli Dei la pugna prescritta, svelar tu ne dei: il santo responso, fraʼ mistici rombi, in questo rimbombi – abisso dʼorror. Odesi un cupo muggito sotterraneo.
Dallʼime latèbre del pallido speco sʼinnalza fremente un murmure, un eco! È lʼaura del Nume, che intorno già mosse, e lʼalme percosse – di sacro terror! Il muggito fa sentirsi piú vicino. Tutti si atterrano. Spalancasi la porta, e lascia vedere parte del febeo delubro, mentre una voce tonante pronunzia la fatidica parola.
Tremate, o genti! A voi deʼ Numi il Nume neʼ miei tremendi oracoli favella! Si pugni: tal sta scritto in quel volume ove sillaba mai non si cancella! La porta si rinchiude: Camilla cade tramortita.
Obbedite. Agli Orazi, ed ai Curiazi. Allʼarmi… Movendosi per uscire. Osservando lo stato di Camilla. Alcuno
fu di me piú sventurato?… Vieni, seguine… opportuno è lʼistante!… Avverso fato!…
Tutti escono, tranne Sabina, e le altre donne rimaste intorno a Camilla. Sposo?… Ahi misera!… Ritornando presso la svenuta. Lʼaita…
Quante vittime la sorte oggi chiese!…
Donne Sabina Camilla Sabina Donne Camilla Donne Sabina Camilla Sabina Donne
405 410 415
Camilla si riscuote. Riede in vita!…
Al supplizio, a lunga morte ella riede!
Quale orrendo vel mi cinge!… Deh!… Fa cor. Riconoscendo gli oggetti a poco a poco. Lʼantro!… il tempio!… Ed essi?… Ah!… intendo!… Con grido acutissimo. Sventurata!… Oh mio terror!…
Nella piú viva disperazione. Arde già lʼatroce guerra!… Gronda il sangue, gronda omai!… E non tʼapri o dura terra?… Cielo, un fulmine non hai?… Se dʼun cor che a morte anela Nume alcun pietà non sente, sia deʼ Numi piú clemente, e mʼuccida il mio dolor. Sol tʼascondi, e lʼempia cela sanguinosa, orrenda scena… Ahi! che piange a tanta pena ogni ciglio, ed ogni cor! Camilla esce qual dissennata; tutte la seguono.
Il testo steso da Cammarano rispecchia la struttura della ʼsolita formaʼ, con una scena in endecasillabi e settenari sciolti, cui segue un cantabile in ottonari («La mia prece, il pianto accogli», v. 374). Balza allʼocchio la portata del tempo di mezzo, che non si risolve nella consueta scena di transizione, ma si articola in tre parti: una strofa corale in doppi senari («O voce del fato, se vietan gli Dei», v. 382), una quartina di endecasillabi che costituisce la voce dellʼoracolo («Tremante, o genti! A voi deʼ Numi il Nume», v. 390) e, infine, la porzione dialogica in ottonari («Obbedite», v. 394) che costituisce il piú convenzionale ponte verso la cabaletta conclusiva della protagonista, ancora in ottonari («Arde già lʼatroce guerra», v. 406). Lʼintonazione di Mercadante rispetta le proposte testuali del libretto, accentuandone gli elementi di espansione rispetto allʼossatura classica del numero musicale, tanto che unʼesecuzione di questʼaria dura circa venticinque minuti. Un lungo preludio a
tinte cupe apre la scena, descrivendo lʼambiente tenebroso e lo stato dʼanimo della protagonista, e conduce al Recitativo17 di Camilla: questo, a dispetto della defini zione, è una profonda scena introspettiva nella quale lo stile declamato tragico si apre a passaggi di virtuosismo drammatico. Il successivo cantabile, un Andante in 12/8 che costituisce la preghiera di Camilla ad Apollo, accompagnato dallʼarpa e dal corno inglese, si pone come il naturale proseguimento della scena introduttiva. La sua struttura, ABAʼ – dove la sezione intermedia B (che è indicata in partitura come poco piú animato e declamato e interrompe la melodia cullante della sezione A) coincide con la seconda quartina della strofa di ottonari, mentre Aʼ è una ripresa variata della prima quartina –, mostra un Mercadante esperto elaboratore di forme, poiché, a ben vedere, egli altro non fa che inserire nella cornice della ʼsolita formaʼ ottocentesca una versione ripensata dellʼaria seria settecentesca. Il lungo tempo di mezzo è una scena articolata che annovera un frequente avvicendarsi di tempi e andamenti: non sono semplicemente distinti la scena dellʼoracolo (Andante mosso) dal tempo di mezzo stricto sensu, ma questʼultimo si presenta prima con un Allegro (partenza dei combattenti, vv. 394-402a) e poi con un recitativo drammatico can giante (vv. 402b-405) nello stile declamatorio della scena introduttiva, che inizia col rinvenimento di Camilla e conduce, senza stacchi e senza introduzione melodica, alla cabaletta (provvista di consueta ripetizione) che conclude lʼatto, un Allegro giusto dal respiro lento che richiede una vocalità drammatica dʼagilità. Ci si trova, quindi, davanti a unʼaria-finale dʼatto (o, si potrebbe quasi dire, a un finale dʼatto inserito in unʼaria solistica) che rispetta formalmente le scansioni consuete del numero musicale coevo, ma ne espande le dimensioni fino a trasformarlo in una grande scena-quadro dotata di profonda coerenza drammaturgica.
Un avvicinamento tra due poetiche?
La tecnica dellʼespansione del numero musicale trova in Orazi e Curiazi lʼapplicazione piú sistematica. In altri frutti tardi della collaborazione tra Cammarano e Mercadante non si può negare che si verifichi talvolta unʼadesione piú stretta alle convenzioni della ʼsolita formaʼ, ma anche in questi casi non manca di emergere qualche scarto che segnala lʼattenzione peculiare riservata dal compositore alla drammaturgia.18
17 Cosí definito in partitura. Cfr. SAVerIo merCAdANTe, Orazi e Curiazi, partitura manoscritta conservata presso I-NC, consultabile online <https://www.internetculturale.it/jmms/iccu viewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIT% 5C%5CICCU%5C%5CMSM%5C%5C0155170&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU> (ultima con sultazione 21 settembre 2021), vol. II, carte 81r-126r.
18 Si farà un solo esempio, tratto da Virginia. Nella cavatina della protagonista (I atto), i versi che Cammarano riserva al coro nel tempo di mezzo sono in parte intonati già come pertichino del cantabile, e in parte ripresi come pertichino della cabaletta, prima della ripetizione di questʼultima. Il distico corale che il poeta aveva scritto come pertichino per la cabaletta «Addio, Virginia, addio, | il giorno declinò» è intonato soltanto dopo la ripetizione della cabaletta
Insomma, parlare di involuzione stilistica, o di rinuncia tout court ai progetti di riforma, pare esagerato. Piuttosto, Mercadante cercò di ricondurre i propri intenti di riforma nellʼalveo della ʼsolita formaʼ, congeniale alla scrittura di Cammarano e attesa dagli ascoltatori del tempo. Quello degli orizzonti di attesa del pubblico coevo è sicuramente un tema da tenere presente quando si analizzino gli sviluppi dello stile mercadantiano negli anni ʼ40: probabilmente, il compositore aveva percepito che gli spettatori italiani in quel momento chiedevano immediatezza, melodia e passione piú che elaborazione intellettuale della partitura. Non è un caso che Verdi – grande conoscitore del mercato del melodramma, che, pochi lustri dopo, avrebbe alla propria maniera riformato il teatro dʼopera, con modalità e obiettivi non dis simili da quelli perseguiti da Mercadante – in quegli anni componesse seguendo la ʼsolita formaʼ nella sua configurazione piú icastica e stringata. In assenza di un carteggio tra Cammarano e Mercadante (che in quel periodo si trovavano a Napoli, e avevano la possibilità di discutere vis-à-vis), si possono avanzare soltanto ipo tesi sul fatto che vi sia stata anche una riflessione poetica tra i due autori che li abbia portati a individuare una cifra stilistica comune. Ma è un dato di fatto che la ʼnuova via alla riformaʼ (cosí mi piace chiamarla, piuttosto che rinuncia alla riforma) percorsa dal compositore altamurano negli anni ʼ40 abbia avvicinato il suo stile a quello del librettista napoletano piú di quanto Cammarano non si fosse accostato alle esigenze riformistiche di Mercadante sul finire degli anni ʼ30; e che titoli come Orazi e Curiazi o Virginia rivelino un connubio particolarmente efficace di libretto e partitura. Se non fosse sopravvenuta la morte di Cammarano, nel 1852, la sua collaborazione con Mercadante avrebbe potuto proseguire, nella comune ricerca della coerenza tra dramma, poesia e musica.
stessa, quando le amiche di Virginia sono effettivamente in procinto di lasciare la scena.
Maria
Stuarda regina
di Scozia di Mercadante in una prospettiva diacronica da Carissimi a Dallapiccola
Lʼimpiego di soggetti storici per la realizzazione di libretti dʼopera o di pièces tea trali è senza dubbio argomento di dibattito trasversale in diversi ambiti di studio: letterario, storico, filosofico e musicale. Se è vero, come dichiara Benedetto Croce sul tema di Maria Stuarda nei suoi Problemi di estetica, che «il poeta non può né guastare né mutilare la storia, perché, in quanto poeta, è sempre fuori dalla cerchia della conoscenza storica» e che «nessun poeta rende mai la storia, né in complesso né in parte»,1 è pur vero che casi come quello della regina scozzese travalicano gli ambiti di competenza, per la vastità degli spunti che forniscono, sia in ambito storico che artistico. Lo scrittore Stefan Zweig nellʼintroduzione alla biografia della sovrana afferma che:
Poche altre donne nella storia hanno ispirato tanta letteratura, drammi, romanzi, biografie e discussioni. Per piú di tre secoli essa ha continuato ad affascinare i poeti e a occupare gli studiosi, e ancor oggi il suo personaggio si impossessa con forza immutata di nuove forme. […] Il segreto di Maria Stuarda è stato però raffigurato e interpretato tanto spesso quanto in maniera contraddittoria. Non esiste forse nessunʼaltra donna che sia stata tratteggiata sotto luce tanto diversa: ora come assassina, ora come martire, ora come sciocca intrigante, ora come santa del cielo.2
Considerate queste premesse è evidente che il lavoro di ricognizione storica e, a seguire, di decifrazione delle varianti poetiche e musicali del mito Stuarda è affare assai complesso. Per riallacciare le fila della storia, e quindi per ricondurre, per
1
Si veda BeNedeTTo CroCe, Il tema “Maria Stuarda”, in Problemi di estetica e contributi alla storia dellʼestetica italiana, Bari, Laterza, 1966, pp. 84-91.
2 Si consulti lʼintroduzione a STeFAN ZWeIG, Vita di Maria Stuarda la rivale di Elisabetta I dʼInghilterra, trad. it. di Lorenza Pampaloni, Milano-Firenze, Giunti Editore, 2019 (1a ed. tede sca Maria Stuart, 1935), pp. 5-8.
Maria Stuarda regina di Scozia quanto possibile, le varie declinazioni operistiche di Maria Stuarda agli archetipi originari presenti nella letteratura europea, è necessario operare una prima grande classificazione. Sono due, infatti, i filoni letterari principali ai quali possiamo ascrivere rispettivamente sia il noto capolavoro donizettiano che la poco conosciuta Maria Stuarda regina di Scozia musicata da Saverio Mercadante. Cosí come sono stati principalmente due i momenti della vita della regina che hanno trovato riscon tro nella librettistica ottocentesca, ovvero il primo incentrato sulla sua condanna, sulla confessione finale e lʼesecuzione capitale e il secondo risalente ad unʼepoca precedente, in cui la regina fu costretta a lottare per mantenere la propria autorità e sottrarsi alle prepotenti ambizioni dei nobili scozzesi. Il primo filone può essere ricondotto idealmente ad un archetipo letterario seicentesco, ovvero il capolavoro di Federico Della Valle La Reina di Scozia pubblicato nel 1628,3 mentre il secondo trova un riferimento rilevante nella tragedia Maria Stuarda di Vittorio Alfieri del 1778.4 Da questa sostanziale premessa possiamo analizzare alcuni aspetti di quelle che sono state le principali declinazioni musicali sul tema Stuarda dal Seicento in avanti, in relazione ai due filoni letterari e quindi ai rispettivi momenti della vita della regina presi in considerazione.
Le prime testimonianze sul personaggio di Maria Stuarda presenti nella cultura italiana risalgono già alla fine del Cinquecento, quando le vicende biografiche della sovrana si intrecciano con le dispute politico-religiose che tormentano il secolo, creando un connubio indissolubile fra storia e letteratura. La notizia della sua morte suscita varie reazioni e nei paesi cattolici si impone subito una lettura in chiave religiosa degli avvenimenti, dando vita ad un considerevole corpus letterario che comprende opere storiche, relazioni, pamphlets, testi teatrali, lirici e narrativi, in cui spesso lʼelemento romanzesco e sentimentale prevale anche su quello storico e teologico.5 Sullʼonda di questo interesse poetico per la morte di Maria si colloca una prima considerevole declinazione musicale del tema, ovvero il Lamento di Maria Stuarda, la cantata che Giacomo Carissimi compone intorno al 1620 su un testo attribuito a Giovanni Filippo Apolloni. La composizione, appartenente al genere della cantata profana seicentesca, manifesta pienamente il bisogno del tempo di introdurre elementi drammatici e narrativi nella lirica da concerto, e trova proprio nella formula del lamento la sua massima espressione, laddove la regina esprime
3
4
FederICo dellA VAlle, La reina di Scozia. Tragedia di Federigo della Valle al Sommo Pontefice et Sig. Nostro Urbano VIII, Milano, per gli eredi di Melchior Malatesta, 1628.
VITTorIo AlFIerI, Tutte le tragedie, Milano, Rizzoli, 1956.
5 Per una prima ricognizione sul mito letterario di Maria Stuarda si consulti: STeFANo VIllANI, La scozia come simbolo della persecuzione cattolica nel mondo protestante: Maria Stuarda nella letteratura italiana del Seicento, in Storie inglesi. LʼInghilterra vista dallʼItalia tra storia e roman zo (XVI-XVII secolo), a cura di Clizia Carminati e Stefano Villani, Pisa, Edizioni della Normale, 2011, pp. 11-34. Si veda anche la tesi dottorale di VeroNICA CArTA, Alle origini del mito lettera rio di Maria Stuarda in Italia, Università degli Studi di Cagliari, 2011.
tutta la sua condizione di martire illuminata, prima di essere decapitata. La sua ʼvilipesa innocenzaʼ diventa quindi il simbolo di quelle persecuzioni religiose subite dalla Chiesa Romana da parte dellʼanglicanesimo puritano. Il brano è citato anche nella History of music del Burney, che definisce le parti della cantata «belle, sem plici e patetiche».6 Carissimi infonde al pietoso lamento quella potenza di accento caratteristico del suo stile: «non falsa pena, dunque, né orpello decorativo di un genere di maniera, ma grido profondo e sincero di umano dolore, pronunciato dallʼangoscioso appello con il quale sʼinizia la cantata “Ferma, lascia chʼio parli, sacrilego Ministro”».7 Lo schema formale applicato dal compositore è rispondente alle esigenze strofiche del testo: la cantata si apre con un ampio recitativo al quale segue lʼaria «A morire, a morire», un Adagio bipartito in tempo ternario. A chiu sura un secondo recitativo arioso conduce al finale tragico «Qui tacque, e forte e invitta al suo destin sʼarrese la regina scozzese».8 La protagonista sottolinea il suo lignaggio regale in punto di morte «Vissi e moro innocente. Son di sangue stuardo, e son Regina»9, rivolgendosi al suo interlocutore: potrebbe trattarsi del primo ministro di Elisabetta, Lord William Cecil Burleigh, responsabile dei negoziati per lʼimprigionamento e la condanna di Maria. Il momento di massima concitazione della cantata si raggiunge nel secondo recitativo con una vera e propria invettiva «Mira Londra, et impara le vicende mondane, e tu, chʼallʼanglicane schiere dai legge, o Jezabelle altera, di giustizia severa aspetta i colpi»10, laddove il canto diventa concitato attraverso repentini salti melodici e progressioni vocalizzate ed esprime pienamente lʼira e lo sdegno di Stuarda. Un anatema che lascia presagire la nota scena del confronto fra Maria ed Elisabetta nella Maria Stuarda di Donizetti. Ma è già nella tragedia di Della Valle, quasi dimenticata fino ai primi del Novecento, che lʼordito drammatico veniva scandito dalla contrapposizione fra Maria, che incarna il Bene, ed Isabella/Elisabetta, che incarna il Male, attraverso descrizioni differenti dei loro modi di vivere la propria dignità regale.11 Compiendo un salto cronologico di quasi due secoli, dal Lamento di Carissimi fino ai primi libretti ottocenteschi che affrontano il tema di Stuarda, troviamo a fine Settecento la tragedia di Alfieri dal titolo Maria Stuarda, un antecedente letterario
6
7
Cfr. CHArleS BurNey, A general history of music, from the earliest ages to the present period, 4, Londra, Payne and Son, 1789, pp. 142-145.
Cfr. FederICo GHISI, Il lamento in morte di Maria Stuarda di Carissimi, «La Rassegna musica le» 1, gennaio 1951, pp. 43-47.
8 Si veda la copia del manoscritto conservato a Londra: GIAComo CArISSImI, Lamento di Maria Stuarda, Londra, The British Library, Harley mS 1265, cc. 1r-12v. 9
Ibidem. 10 Ibidem.
11
Per unʼanalisi approfondita della tragedia di Della Valle si consulti mATTeo durANTe, La Maria Stuarda delavalliana, in In assenza del re. Le reggenti dal XIV al XVII secolo (Piemonte ed Europa), a cura di Franca Varallo, Firenze, Olschki Editore, 2008, pp. 343-366.
Maria Stuarda regina di Scozia interessante per la prospettiva drammaturgica che offre. In questo caso lʼautore nel suo Parere sulle presenti tragedie dichiara che la morte dellʼʼinfelicissima reginaʼ non sia un argomento ʼtragediabileʼ poiché ritiene che fra le due rivali non vi siano né legami di parentela né contrasti di passioni tali da poterne produrre una tragedia.12 «Io credo, quanto alla morte di essa, che non se ne possa assolutamente fare tragedia […]. Quanto a questʼaltro accidente, della morte del marito di Maria, di cui ella venne incolpata, se avessi pienamente creduto che tragedia non se ne potesse veramente comporre, non avrei tentato di farla».13 Alfieri si concentra dunque sullʼassassinio di Lord Darnley, secondo marito di Maria Stuarda, e sul contrasto esistente fra i due coniugi.
In questo filone letterario, che prende in considerazione gli anni giovanili della regina scozzese, possiamo collocare anche due libretti di inizio Ottocento, ovvero Maria Stuarda ossia I carbonari di Scozia di Pasquale Sogner, musicato da lui stesso per Venezia, e Maria Stuarda regina di Scozia, di Francesco Gonella, musicato nel 1812 da Pietro Casella.14 Questo libretto, in parte rimaneggiato, è lo stesso su cui anche Mercadante scrive la sua Maria Stuarda. Sullʼedizione a stampa utilizzata per la prima messa in scena dellʼopera nel 1821 a Bologna non risulta il nome dellʼautore del testo, ma solo lʼindicazione «La musica è nuova, ed espressamente scritta dal Signor Maestro Saverio Mercadante».15 Le rielaborazioni testuali di questo libretto sono state quindi variamente attribuite sia ad un certo Giusti16 sia al piú noto Gae tano Rossi, che in quegli anni produsse oltre un centinaio di lavori per compositori come Zingarelli, Mayr, Pacini, Rossini e Donizetti. Si tratta dunque di un libretto la cui autorialità non è di semplice collocazione e in cui anche i personaggi non sono facilmente identificabili a livello storico.
A parte la protagonista che rimane ovviamente Stuarda, Olfredo conte di Lenox potrebbe essere identificato con Lord Darnley, il secondo marito di Maria, anche se il personaggio tratteggiato nel libretto, ovvero un soldato coraggioso e devoto,
12
13
Si veda ArNAldo dI BeNedeTTo, Appunti sulla Maria Stuarda di Vittorio Alfieri, in Due storie inglesi, due miti europei: Maria Stuarda e il conte di Essex sulle scene teatrali, a cura di Daniela Della Valle e Monica Pavesio, Alessandria, Edizioni dellʼOrso, 2007, pp. 181-185.
Cfr. VITTorIo AlFIerI, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di Morena Pagliai, Asti, Casa dʼAlfieri, 1978, pp. 109-111.
14
FrANCeSCo GoNellA, Maria Stuarda regina di Scozia. Dramma serio per musica da rappresen tarsi nellʼimperial Teatro di via della Pergola nella primavera del 1812 sotto la protezione di sua maestà Napoleone I imperatore dei Francesi re dʼItalia e protettore della confederazione del Reno, Firenze, Giuseppe Fantosini e figlio, 1812.
15
16
Cfr. Maria Stuarda regina di Scozia. Dramma serio per musica in due atti da rappresentarsi nel Teatro della Comune di Bologna la primavera del 1821, Bologna, Annesio Nobili, 1821.
Si veda a tal proposito GIuSeppe de NApolI, La triade melodrammatica altamurana: Giacomo Tritto (1733-1824), Vincenzo Lavigna (1776-1836), Saverio Mercadante (1795-1870), Milano, Indu strie grafiche Rosio & Fabe, 1931.
non corrisponde alla descrizione di Darnley che la storia ci ha consegnato, ovvero un uomo debole, facilmente corruttibile e dedito ai piaceri. Anche nel caso del principale antagonista, Ormondo, lʼidentificazione con un personaggio realmente esistito non è lineare: potrebbe trattarsi del conte Moray, ma anche in questo caso sarebbe parecchio distante dalla realtà. Nella prima versione del libretto, datata 1812, cosí come in quella successiva utilizzata da Mercadante nel 1821, siamo di fronte ad un tipico melodramma preromantico in cui lʼintreccio drammatico non ha bisogno di un particolare sostegno storico o poetico, in quanto gran parte del valore dellʼopera è rimandato allʼinvenzione musicale e alla performance vocale. La Maria Stuarda musicata da Casella vanta nella prima rappresentazione fiorentina un cast di primʼordine, con autentiche stelle dellʼepoca, fra cui Francesca Riccardi Paër, Adelaide Malanotte e Giovanni David. Anche Mercadante aderisce al prototipo del melodramma preromantico di inizio Ottocento e per questa giovanile Maria Stuarda raccoglie per la sua prima bolognese un cast considerevole, fra cui spiccano i nomi di Elisabeth Ferron e Carolina Bassi. Dalla cronaca della prima rappresen tazione, riportata sulla «Gazzetta di Bologna», poco ci viene detto a proposito del famigerato libretto. Lʼautore dellʼarticolo, utilizzando una locuzione latina tratta da Giovenale, sentenzia: «Non si parla del libro. Rara avis in terris, Nigroque simil lima Cygno. Parliamo della musica, e comʼè nostro costume, parliamone, non come dʼun giudizio nostro esclusivo, ma dopo la opinione manifesta intorno ad essa da questo pubblico».17
Ciò che emerge dalla recensione della serata, come avveniva di consueto per gli articoli dellʼepoca, è soprattutto lʼinteresse nei confronti degli interpreti, oltre che per la qualità musicale della partitura.
Questa musica offre campo a molta lode. […] Il Maestro Mercadante ha diritto ad un applauso anche maggiore per essi, e mal soffrono le Muse, chʼegli ne sia frodato. Piú che in ogni altro suo pezzo, egli fa vedere in questi che la sua musica non è parto della sola memoria, ma del suo genio. In sí verdi anni tanto merito è raro, e noi lo incitiamo di non dimettere gli studi, e le meditazioni sullʼarte bella, che professa, onde aspirar possa alla fama dei Paisielli, dei Cimarosa, dei Guglielmi illustri suoi Concittadini.18
A proposito dei cantanti, vengono tessute le lodi delle due protagoniste. Della Ferron, interprete del ruolo di Stuarda, si scrive:
La signora Ferron batte un arduo sentiero. Pare che la sorpresa degli Ascoltanti sia il suo scopo principale. Ella seconda in ciò il genio della età nostra. Piuttosto che al diletto i Popoli inclinano ad essere scossi da cose rare, e stupende. La signora 17 Cfr. «Gazzetta di Bologna» 2 giugno 1821. 18 Ibidem.
Ferron ne ha i mezzi neʼ suoi delicati flautini; la economia però, che è lʼanima dʼogni ben ordinato metodo, le sia di scorta, onde nʼabbia Ella costante, e compiuto il trionfo.19
E del contralto Carolina Bassi, interprete del valoroso Olfredo, si scrive:
Qui viene Olfredo, personaggio sostenuto dalla signora Bassi, che canta un Rondò fatto con tutti i principj dellʼarte (dicono i Professori) ed allʼOrecchio gratissimo (dicono i dilettantisi di musica.) Fu detto altra volta che la Bassi è la Signora dellʼaltissimo Canto; ora bisognerà compiere il Concetto di Dante, e soggiungere: che sovra gli altri come Aquila Vola. 20
Una coppia di primedonne assolute, chiamate ad affrontare rispettivamente due ruoli di notevole impegno vocale, sia in termini di estensione che di virtuosismo. Per il personaggio di Maria Stuarda Mercadante scrive una parte da soprano sfogato, di notevole impeto drammatico, con una tessitura impervia che si spinge fino al Mi5. La grande scena del I atto con violino concertante, dopo la breve e mirabile aria di esperta elevazione lirica «Come a tal segno fingere», presenta una cabaletta agguerrita «Sento che amore ancora», di fiammeggiante coloratura e con vertiginosi salti discendenti di diciassettesima21. Un vero e proprio catalogo di abilità vocali ed interpretative che, come riportato dalla ʼGazzettaʼ, sortiva un effetto stupefacente sul pubblico nellʼesecuzione della Ferron. Anche per la parte di Olfredo Mercadante fa ricorso ad un connubio magistrale fra ispirazione melodica e virtuosismo. Nella grande scena del II atto, questa volta con oboe concertante, lo slancio lirico del valoroso e leale Olfredo si incarna in una melodia ipnotica «Ah! Lʼidol mio dovʼè?» per sfociare in una cabaletta variata «Qual mai piú cara speme».22 Si tratta di una tipica parte da ʼcontralto musicoʼ: un ruolo en travesti di guerriero eroico, che prece dentemente sarebbe stato affidato ad un castrato, ma che secondo la consuetudine di quegli anni viene ormai scritto per una voce naturale di contralto.
Allʼinterno dellʼopera vi sono diversi numeri di preziosa fattura musicale, come ad esempio il ʼsuperbo e belloʼ23 quintetto del I atto «Chi mai temer potea», o il duetto del II atto fra Stuarda e Carlo «Non chieggo pietà, o Carlo per me».
Maria Stuarda regina di Scozia è intrisa del vocalismo belcantistico distintivo dellʼepoca e Mercadante raccoglie a piene mani lʼeredità rossiniana che aleggia nei 19 Ibidem 20 Ibidem
21
Cfr. SAVerIo merCAdANTe, Maria Stuarda, partitura ed. OperaRara. a cura di Ian Schofield, Londra, 2005. 22 Ibidem
23
Cfr. «Gazzetta di Bologna» 2 giugno 1821.
teatri in quel periodo, delineando unʼopera con considerevoli slanci compositivi nei crescendo e nei concertati. Lʼinvenzione melodica non è da meno, cosí come la sapiente orchestrazione, un tratto che contraddistingue il compositore fin dalla sua produzione giovanile. Se da un lato è vero, come scrive Fabrizio Della Seta, che nei suoi primi anni di lavoro «Mercadante sembra ripercorrere lʼitinerario tipico dei compositori piú giovani di qualche anno di Rossini: un lungo apprendistato sulle tracce del grande modello, indi una faticosa ricerca di uno stile piú personale ade guato al gusto che si stava affermando»,24 è pur vero che nella sua Maria Stuarda il giovane compositore da prova di un sapiente mestiere ormai consolidato e di un certa ricerca individuale, in particolar modo nellʼuso degli strumenti concertanti e nel dispiegamento di quella rinomata soavità melodica di scuola napoletana.25 Non dimentichiamo che lo stesso Rossini aveva espresso nel corso della sua vita notevoli apprezzamenti nei confronti di Mercadante. Fin dallʼetà degli studi del compositore altamurano a Napoli, Rossini in visita al Conservatorio si congratulò con Zingarelli dicendogli: «Caro maestro vi faccio i miei complimenti per questo vostro caro allievo. Le sue due composizioni mi danno seriamente a pensare, e vedo bene che i vostri giovani alunni cominciano dove noi terminiamo».26
Nel suo Cenno storico sulla scuola musicale di Napoli Florimo afferma che Maria Stuarda ebbe ʼpoca fortunaʼ,27 ma considerando la recensione encomiastica della «Gazzetta di Bologna» possiamo interpretare questo giudizio solo in relazione alla diffusione che ebbe lʼopera rispetto ai lavori piú noti di Mercadante, e non come un reale insuccesso. Lʼopera viene riproposta poi nel gennaio del 1821 a Pisa, nel 1824 al Teatro Comunale di Ferrara e nellʼautunno del 1825 al Teatro Grande di Trieste. Da allora seguirà un silenzio di quasi due secoli, fino a quando nel 2005 vengono registrati degli estratti per lʼetichetta inglese Opera Rara.
Il mito Stuarda sortisce un certo interesse nei letterati e nei compositori italiani di inizio Ottocento e allʼopera di Mercadante seguono altri tre lavori musicali aventi come protagonista la regina scozzese: il ballo tragico Maria Stuarda di Giovanni Galzerani su musica di Vincenzo Schira andato in scena al Teatro alla Scala di Milano nel 1826, lʼopera Maria Stuarda regina di Scozia musicata da Carlo Coccia,
24
25
Si veda FABrIZIo dellA SeTA, Italia e Francia nellʼOttocento, Torino, edT, 1993, p. 178.
Per una prima ricognizione sulla vita e lʼopera di Mercadante si consulti: GIoVANNI CArlI BAllolA, Saverio Mercadante, in Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musici sti. Le biografie, V, Torino, uTeT, 1988, pp. 46-48; SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biogra fia, epistolario, Fasano, Schena Editore, 1985; CArlIdA STeFFAN, Saverio Mercadante, in Dizio nario Biografico degli italiani, 73, Roma, Treccani, 2009 consultabile online allʼindirizzo: <https://www.treccani.it/enciclopedia/saverio-mercadante_%28Dizionario-Biografico%29/> (ultima consultazione 24 agosto 2021).
26
27
Si veda FrANCeSCo FlorImo, Cenno storico sulla scuola musicale di Napoli, I, Napoli, Tipogra fia di Lorenzo Rocco, 1869, p. 642.
Ivi, p. 643.
Maria Stuarda regina di Scozia
rappresentata a Londra nel 1827 e la celebre Maria Stuarda di Donizetti del 1835. Questi titoli possono essere tutti e tre ricondotti a quel filone di cui si è detto, inau gurato idealmente da Della Valle, in cui il centro del dramma è lo scontro fra Maria ed Elisabetta, fino alla tragica morte di Stuarda. E di questo stesso filone fa parte anche il noto dramma di Schiller Maria Stuart, andato in scena per la prima volta a Weimar nel 1800 e poi diffuso in Italia nei primi anni ʼ20 attraverso diverse edizioni e traduzioni. In particolare, nel ʼ29 compare la traduzione italiana di Andrea Maffei,28 che costituisce la fonte del libretto donizettiano scritto da Giuseppe Bardari,29 un giovane studente napoletano alla sua prima e unica prova in veste di librettista. Come ricorda William Ashbrook «Fu Donizetti stesso, nella sua ricerca di soggetti forti, a scegliere il dramma di Schiller, che conosceva nella traduzione di Maffei del 1830 [sic], anziché la piú classica tragedia di Alfieri (1778), la quale non tratta della morte di Maria bensí delle sue tribolazioni in Scozia».30
Comʼè noto, la messa in scena della Maria Stuarda donizettiana ha una storia piuttosto travagliata: composta per il Teatro San Carlo di Napoli nel 1834, viene censurata alla vigilia della prima rappresentazione, per ragioni non ancora chiare. Donizetti è quindi costretto in pochissimo tempo ad adattare la musica ad un nuovo libretto, approntato da Pietro Salatino, dal titolo Buondelmonte;31 un lavoro che il compositore considera in ogni caso un rimedio temporaneo. Quando finalmente lʼanno seguente si presenta di nuovo lʼopportunità di eseguire lʼopera a Milano al Teatro alla Scala, viene ripristinato il titolo originale Maria Stuarda e per lʼoccasione Donizetti compie delle modifiche sulla partitura, in particolar modo interviene sul ruolo di Stuarda, per adattarlo alle particolari capacità vocali dellʼinterprete, Maria Malibran.32
Se nella tragedia schilleriana lʼelemento centrale è la contrapposizione dialettica fra le due regine, «nel melodramma donizettiano lʼaccento si sposta inevitabilmente sullʼinteriorità della protagonista, sul momento lirico e patetico del suo ʼsacrificioʼ sul patibolo, col quale estingue le colpe commesse ed acquista una superiorità morale».33 Lʼopera, modellata attorno alla sua primadonna, eleva ulteriormente
28 Cfr. FrIderICH SCHIller, Maria Stuarda. Tragedia di F. Schiller traduzione del cav. A. Maffei, Milano, Editori degli annali universali, 1829.
29 Cfr. GIuSeppe BArdArI, Maria Stuarda, Tragedia in quattro parti da rappresentarsi nellʼImp. Reg. Teatro alla Scala il carnevale 1835-36, Milano, Luigi di Giacomo Pirola, 1835.
30 Cfr. WIllIAm ASHBrook, Donizetti. Le opere, Torino, edT, 1987, pp. 130-136.
31 Cfr. pIeTro SAlATINo, Buondelmonte. Tragedia lirica in due atti da rappresentarsi nel real Tea tro S. Carlo nellʼautunno 1834, Napoli, Tipografia Flautina, 1834.
32 elIZABeTH HudSoN, Introduzione storica, in Maria Stuarda, di Gaetano Donizetti, ed. critica a cura di Gabriele Dotto e Roger Parker, Milano, Ricordi, 1989.
33 rICCArdo morello, Maria Stuarda da Schiller a Donizetti, in Due storie inglesi, due miti euro pei: Maria Stuarda e il conte di Essex sulle scene teatrali, Atti del Convegno di studi comparati (Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lingue e Letterature straniere, 19-20 maggio 2005),
il personaggio di Maria attraverso momenti musicali di estremo trasporto, come ad esempio la scena finale «Deh! Tu di unʼumile preghiera il suono», che culmina nellʼesecuzione capitale di Stuarda e porta a compimento la sua catarsi spirituale.34 Nonostante questo spostamento del focus drammaturgico su Stuarda, rispetto allʼimpianto originale fissato da Schiller, nel melodramma donizettiano rimane tuttʼora emblematica la scena del confronto con Elisabetta «Figlia impura di Bolena», un momento di straordinaria concitazione drammatica e sorprendente modernità. Nel corso dellʼOttocento, anche in ambiente tedesco il mito Stuarda diventa fonte di ispirazione per noti compositori, i quali riconducono le vicende umane e spirituali della regina scozzese nel genere cameristico. Se già Wagner negli anni ʼ40 componeva una lirica per soprano e pianoforte dal titolo Les Adieux de Marie Stuart, sarà poi Schumann a comporre un ciclo di cinque Lieder per voce e pianoforte su testi attribuiti alla stessa Maria Stuarda.35 In Italia il velo della Regina riappare nel 1938, quando Luigi Dallapiccola inizia a scrivere i suoi Canti di prigionia: una serie di tre brani su testo latino per coro, 2 pianoforti, 2 arpe e percussioni, ascrivibili al genere della protest-music, elaborati in anni in cui Mussolini indice la campagna razziale in appoggio a quella promossa dalla Germania hitleriana. Lʼindignazione per tali decisioni politiche spinge Dallapiccola ad avviare la composizione dei Canti come atto di protesta e di impegno dellʼarte di fronte agli eventi della storia con temporanea. Il primo di questi tre brani si intitola Preghiera di Maria Stuarda, su un testo a lei attribuito, trovato dal compositore nella biografia precedentemente citata, quella pubblicata da Stefan Zweig nel 1835 e apparsa in traduzione italiana lʼanno seguente.
Per Zweig, questi versi dimostrano che la regina quarantenne e da tanto tempo incarcerata avesse già un vagheggiamento della morte, che non volesse piú lottare, ma sperasse nella redenzione di Gesú Cristo, cioè nella liberazione nellʼaldilà. […] Lʼintensità emotiva del testo risiede ovviamente tanto nellʼardore religioso quanto nelle immagini di sofferenza.36
Dallapiccola tratteggia con questa sua descrizione la genesi della Preghiera:
Avevo letto da poco la biografia di Maria Stuarda di Stefan Zweig. Debbo a questo libro la conoscenza di una breve preghiera scritta dalla regina di Scozia in uno degli a cura di Daniela Della Valle e Monica Pavesio, Alessandria, Edizioni dellʼOrso, 2007, pp. 199205.
34 Cfr. Maria Stuarda cit.
35 Si tratta del ciclo di Lieder Gedichte der Königin Maria Stuart, composto da Schumann nel 1852 e pubblicato a Lipsia nel 1855.
36 Cfr. CHrISTopH FlAmm, ʼLiberaʼ chi? Alcune domande sul significato dei ʼCanti di prigioniaʼ di Luigi Dallapiccola, «Rivista Italiana di Musicologia» 43/45, 2008/2010, pp. 381-393.
ultimi anni della sua prigionia:
O Domine Deus! Speravi in Te.
O care mi Jesu! nunc libera me.
In dura catena, in misera poena, desidero Te. Languendo, gemendo et genu flectendo, Adoro, imploro, ut liberas me.
Mi sembrò che questi versi, vecchi di secoli, rispecchiassero una condizione umana di ogni tempo e quindi anche di quello in cui si viveva. […] Era, perciò, mia intenzione trasformare la preghiera individuale della regina in un canto collettivo.37
Intriso di una atonalità sospesa e lineare, la Preghiera si distacca dalle tendenze neoclassiche coeve e approda ad una dodecafonia individuale e ricercata. A livello strutturale Dallapiccola utilizza una serie di dodici suoni ai quali contrappunta simbolicamente un frammento dellʼantico canto ecclesiastico «Dies ire, dies illa» a moʼ di cantus firmus, unʼallegoria nascosta del Giudizio universale, riferita pro prio ai tempi bui che stava vivendo. Maria Stuarda si fa quindi portavoce di una suprema richiesta di liberazione, «a metà tra il lamento e la preghiera»,38 incarna una trasfigurazione trascendentale della condizione umana e raggiunge una delle sue glorificazioni musicali piú alte.
Al termine di questo percorso attraverso le principali declinazioni musicali sul tema Stuarda, è doveroso compiere una riflessione per sottolineare come la regina scozzese sia stata materia di grande ispirazione per i compositori per oltre tre secoli. Un accento va posto in particolar modo sui generi affrontati: dalla cantata-lamento, al melodramma, dai balli alle composizioni vocali cameristiche. Ogni autore ha declinato il tema nel modello formale caratteristico del suo tempo e su questa scia anche Mercadante ha aderito pienamente al prototipo di melodramma dei primi anni dellʼOttocento diviso in numeri, in cui lʼinterprete è per certi aspetti anche co-autore. Non dimentichiamo infatti che la componente di variazione ed improvvisazione da parte dei cantanti ha in quegli anni ancora unʼincidenza consi derevole sulla veste finale dellʼopera e sulla sua riuscita complessiva. In questʼottica una rivalutazione moderna di Maria Stuarda regina di Scozia può avvenire laddove la produzione potesse contare su artisti dotati di particolari doti vocali, dovendo sopperire alla progressiva perdita della scuola di canto ottocentesca, che permet teva a quasi tutti i cantanti di poter affrontare con spavalda abilità le difficili parti
37 Si veda luIGI dAllApICColA, Genesi dei canti di Prigionia e del Prigioniero (1950-1953) (fram mento autobiografico), in Parole e musica, a cura di Fiamma Nicolodi, Milano, ilSaggiatore, 1980, pp. 408-409.
38 Cfr. ZWeIG, Vita di Maria Stuarda cit., pp. 315-316.
scritte per loro. Una prospettiva che permetterebbe non solo la riconsiderazione di un titolo mercadantiano degno di nota, ma che offrirebbe anche unʼalternativa interessante al noto capolavoro donizettiano, oggi abbastanza consueto nei cartelloni dei teatri dʼopera. Maria Stuarda continua a far parlare di sé ed il suo mito, spogliato dai significati politico-religiosi, rimane vivo e attuale anche nella cultura odierna. Donna, madre, regina, sempre in lotta fra la sua ambizione personale e un destino difficile da fronteggiare, un esempio di coraggio e dignità regale che avrebbe ancora molto da insegnare.
Unʼopera ʼfantasticaʼ per La Scala: Ismalia di Saverio Mercadante
Tra le opere di Mercadante che furono inghiottite dallʼobblio, Ismalia, ossia Morte ed amore è, forse, la piú curiosa. Composta per la stagione scaligera autunnale del 1832, un anno dopo il suo debutto era definita Zauberoper da un giornalista dellʼ«Allgemeine Musikalische Zeitung».1 Il lavoro, infatti, non solo si inserisce in quel fortunato filone di opere di ambientazione medievale e di gusto goticonotturno-cimiteriale, ma porta quel gusto a un livello superiore poiché conferisce realtà scenica a streghe e fantasmi.
Il successo dellʼopera fu piuttosto modesto, forse anche a causa della bizzarria del suo soggetto: dopo essere stata rappresentata una dozzina di volte, fu tolta dal cartellone e la sua partitura entrò negli archivi Ricordi per non uscirvi piú. Contro ogni previsione però, per alcuni decenni, il ricordo di questʼopera rimase vivo: almeno uno dei suoi numeri, il Coro delle maliarde, continuò ad essere eseguito e, come cercherò di dimostrare, lʼopera può aver offerto qualche spunto a Verdi sia per Macbeth sia per Giovanna dʼArco. Studiare Ismalia, dunque, non significa soltanto riportare alla luce un lavoro insolito, ma anche dare un contributo a un fenomeno poco studiato: la circolazione del fantastico nel panorama operistico italiano dei primi decenni dellʼOttocento.
Ismalia come alternativa al ʼfantastico temperatoʼ
Prima degli anni Quaranta dellʼOttocento, quando dal Teatro La Pergola di Firenze partí unʼeffimera moda per le opere fantastiche dopo lʼallestimento di Robert le diable di Meyerbeer nel 1840, di Der Freischütz di Weber nel 1842 e di Macbeth di Verdi nel 1847, nei teatri dʼopera italiani fate, streghe, fantasmi, folletti e altre crea ture magiche erano confinati quasi esclusivamente nella sfera della danza. I critici,
1 Cfr. Fortsetzung der Herbst-Stagione und Anfang der Carnevals-Opern u.s.w. in Italien. 1832 u. 1833, «Allgemeine Musikalische Zeitung» 10, 6 marzo 1833, p. 156.
Un’opera ‘fantastica’ per La scaLa come dimostra il caso dʼIsmalia e come confermano ad esempio la Giovanna dʼArco e il Macbeth verdiani, ritenevano che il fantastico potesse fare presa soprattutto su individui ingenui o di limitato livello culturale, mentre le persone adulte e di buon senso dovevano considerarlo di cattivo gusto.2
Il teatro dʼopera, come anche la letteratura italiana, preferí accogliere un fanta stico temperato, che trovava un illustre promotore in Walter Scott, scrittore ama tissimo in Italia, sia dai lettori sia dai librettisti, e autore dellʼinteressante saggio Del soprannaturale nel romanzo fantastico. 3 Tale interpretazione del fantastico trovò spazio persino nellʼambito del balletto, come dimostra lʼAvvertimento anteposto dal coreografo Louis Henry al soggetto del suo balletto Macbetto, andato in scena alla Scala solo due anni prima di Ismalia:
E siccome non siamo piú in queʼ tempi neʼ quali davasi credenza alle malíe, e non interessandosi il cuore umano che di avvenimenti verosimili, credetti opportuna cosa allontanarmi dal meraviglioso, senza però alterare il fondamento del soggetto. – Conservai le Streghe perché esse servono allo sviluppo dellʼazione, ed evitai le apparizioni e le visioni, ché, se avessi voluto conservarle, avrei piuttosto presentato le Streghe di Walter-Scott anziché quelle di Shakespeare, e sʼio sembrassi in certo modo colpevole verso questʼultimo, valga a mia giustificazione la brama che nutro di cattivarmi la benevolenza del Pubblico che sembra non aggradire un simil genere di spettacoli e del quale deggio piú che mai reclamare lʼindulgenza.4
Per citare un esempio di ʼfantastico temperatoʼ in ambito operistico, si può ricordare la scena 4 atto I di Lucia di Lammermoor, una creazione di Donizetti e Cammarano dʼispirazione scottiana. Qui, attraverso lʼaria Regnava nel silenzio, la protagonista ricorda lʼincontro con lʼombra di una sua ava: il fantasma non compare in scena, lo spettatore non lo vede, ne sente solo parlare e dunque può legittima mente sospettare che si tratti di unʼallucinazione di Lucia. Allo stesso tempo, il fatto che la scena si svolga allʼimbrunire, nei pressi di una fontana gotica diroccata, restituisce in parte al pubblico quel senso di tenebroso e di perturbante che poteva trovare in tanta letteratura coeva.
Tuttʼaltro che temperato è il fantastico in Ismalia: basta confrontare lʼepisodio appena citato della Lucia con la scena 3 atto II dellʼopera di Mercadante. Qui le didascalie indicano «Giardini del castello, le cui torri sʼinnalzano in lontano attra
2 Al riguardo, cfr. A N dre A C H e GAI , Musica fantastica. Coordinate di un paradigma estetico nellʼOttocento musicale italiano, «Analecta musicologica» XVI/37, 2005, pp. 327-384, p. 351.
3 Sul fantastico nella letteratura italiana, cfr. leoNArdo lATTArulo, “Antica storia narra cosí”. Considerazioni sul fantastico italiano ottocentesco, in Geografia storia e poetiche del fantastico, a cura di Monica Farnetti, Firenze, Olschki, 1995, pp. 121-133.
4 louIS HeNry, Macbetto, ballo mimico in cinque atti, Milano, Antonio Fontana, 1830, senza n. di p.
verso le folte piante. Sul dinanzi bosco e rovine» «Un mausoleo in mezzo, recente sepolcro dʼOscar» «È notte, a poco a poco sorge la luna».5 In questo ambiente gotico e notturno, simile a quello del lavoro di Donizetti, la protagonista incontra veramente un fantasma, quello del suo amato Oscar. Allʼinterno della finzione drammatica, il fantasma di Oscar ha una consistenza reale, condizione che manca allʼombra dellʼava di Lucia.
Lʼautore del libretto di Ismalia, Felice Romani, allʼepoca in cui si dedicò a questo lavoro era un poeta conteso dai piú grandi compositori e, a Milano, il pubblico lo aveva potuto apprezzare per i suoi versi in Anna Bolena, La sonnambula, Norma e Lʼelisir dʼamore. Egli era un autore di grande esperienza e, proprio per questo, sapeva che il soggetto da lui trattato era del tutto insolito e poteva suscitare disap provazione. Anticipando le critiche, egli scrisse unʼinteressante Avvertimento in cui spiega la sua scelta:
Delle ragioni che mi spinsero a siffatta scelta, dirò sol questa che me unicamente riguarda. Ho voluto ridonare allʼItalia un genere di spettacolo che rapito le avevano soverchia timidezza, o lunga abitudine. Il Fausto per tacere del Convitato di Pietra, il Bersagliere, Roberto il Diavolo e tantʼaltre fantastiche produzioni Germaniche, Francesi ed Inglesi di sommo effetto in Teatro, giustificano il mio intendimento. Io sono dʼopinione col Voltaire esser patrimonio dellʼOpera tutto ciò che lʼimmaginazione può creare e la passione suggerire. Ma se il saggio Pubblico non favorisce il mio tentativo a nulla varranno e il mio debole parere e lʼautorità del Voltaire.6
Come risulta da queste righe, lʼobiettivo ambizioso di Romani era riportare sulla scena italiana il fantastico, genere che raccoglieva consensi in molte altre nazioni. Per giustificarsi, il poeta si riferisce ad alcuni illustri precedenti: il Faust (quello di Goethe oppure quello di Marlowe?), il Freischütz di Weber e infine il Robert le Diable di Meyerbeer. Allʼepoca della redazione dellʼAvvertimento, Freischütz e Robert le Dia ble erano due opere piuttosto recenti, avendo debuttato lʼuna nel 1821 e lʼaltra nel 1831; come si ricordava allʼinizio, esse saranno rappresentate per la prima volta in Italia negli anni Quaranta, ma nel 1832 erano tuttʼaltro che sconosciute: le notizie sul loro successo circolavano, cosí come circolava qualche trascrizione edita da Ricordi.7 Romani sembra quindi associare il fantastico a un piano di rinnovamento e di apertura verso lʼesterno dellʼopera italiana.
5 FelICe romANI, Ismalia, ossia morte ed amore, Milano, Pirola, 1832, p. 19 e pp. 27-28.
6 Ivi, senza n. di p.
7 Del Freischütz, fra il 1822 e il 1823, erano uscite una selezione di pezzi per pianoforte, un paio di arie per canto e pianoforte e una quantità di trascrizioni per due flauti; del Robert le diable, invece, Ricordi aveva pubblicato la prima versione italiana per canto e pianoforte nel 1832.
Dal ʼroman-poëmeʼ di DʼArlincourt al libretto di Romani
NellʼAvvertimento, oltre a quella sorta di dichiarazione dʼintenti, il librettista segnala la sua fonte letteraria: il ʼroman-poëmeʼ Ismalie ou La mort et lʼamour di DʼArlincourt, un lavoro pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1828 e subito ristampato altre due volte grazie allʼenorme successo ottenuto. Il suo autore, dʼaltronde, faceva furore in tutta Europa con i suoi romanzi gotici, amati dal pubblico quanto denigrati dalla critica. Questi lavori, per lo piú ambientati nel Medioevo, erano contraddistinti da trame complicate e inverosimili fino al ridicolo, dallo stile ampolloso e dalla presenza di qualche elemento inquietante. Fabrizio Della Seta, facendo un suc cinto ritratto di DʼArlincourt, riassume cosí il suo profilo artistico: «Although his productivity owed much to the Romantic ethos gathering momentum at the time, DʼArlincourt made a point of distinguishing himself from the young frénétiques, whose passionate and stylistic excesses he condemned, advocating a moderate and edifying Romanticism».8
A imitazione di Scott, DʼArlincourt nei suoi romanzi cerca di ricreare unʼatmosfera storica accurata, resa piú verosimile dalle frequenti note e citazioni di fonti e docu menti. Per mantenere alta lʼattenzione del suo pubblico, le sue pagine traboccano di colpi di scena e di coincidenze; tale abbondanza di fatti e di azione è in un qual che modo bilanciata dalle oasi liriche, in cui sʼintroducono descrizioni di paesaggi oppure vere e proprie canzoni. Ne risulta unʼestetica vicina a quella melodramma tica, come i critici francesi non mancarono di sottolineare:
Les romans de M. dʼArlincourt sont pour les faiseurs de mélodrames une excellente mine à exploiter et dans laquelle ils ont déjà puisé des motifs pour attendrir ou effrayer la multitude: cʼest un des triomphes réservés aux écrivains romantiques, et à lʼaide desquels ils nʼiront cependant pas bien loin dans la postérité.9
In Italia, effettivamente, la scena musicale, sia operistica sia ballettistica, accolse a braccia aperte la produzione di DʼArlincourt.10 Lo stesso Romani, nel 1829, aveva tratto da Lʼétrangère il soggetto per La straniera di Bellini e, subito dopo, per lo stesso compositore avrebbe voluto adattare Le solitaire, ma il progetto non andò in porto.
8
FABrIZIo dellA SeTA, From Romance to Drama and Opera: LʼÉtrangère and La Straniera, «Acta Musicologica» 8/2, 2011, pp. 261-280: 267.
9 Supplément à la Galerie historique des contemporains vol. 9, Mons, Leroux, 1826, p. 30; cit. in mArIe-ANNe mAršálek, La réinvention du Moyen âge sur les scènes lyriques parisiennes entre 1810 et 1830: genèse, contours et circulation vers lʼItalie et lʼAllemagne dʼun imaginaire français, tesi di dottorato in musicologia, facoltà di Musique, musicologie et arts de la scène, Université Rennes 2, 2016.
10 Per un elenco delle opere e i balletti tratti dai romanzi di DʼArlincourt, cfr. ivi, allegato 2, pp. 427-435.
Nel caso specifico dʼIsmalie, risulta oltre allʼopera di Mercadante e Romani, un «melodramma tragico diviso in tre quadri» dal titolo La sibilla composto da Pietro Torrigiani su versi di Michele Cuciniello. La sibilla andò in scena al Teatro Comunitativo di Bologna nellʼautunno del 1842 e, a differenza dʼIsmalia, il suo libretto non è tratto direttamente dal poema di DʼArlincourt, bensí da un suo adattamento teatrale: il dramma Ismalia di Giovanni Carlo Cosenza del 1830. Vale la pena sof fermarsi brevemente su questo lavoro teatrale che testimonia una ricezione molto diversa della fonte letteraria. Nellʼadattamento di Cosenza, tutti gli eventi fantastici o vagamente misteriosi dʼIsmalie sono purgati dal loro alone tenebroso attraverso spiegazioni razionali inventate dal drammaturgo. Al contrario, nel libretto di Romani si amplifica lʼelemento fantastico anche attraverso aggiunte originali.
Fiasco e oblio?
Scrivere unʼopera cosí apertamente fantastica era un rischio al quale Romani e Mercadante sapevano di andare incontro. La loro scommessa non ebbe un esito del tutto negativo, infatti lʼopera non fece fiasco, come dimostrano le sue dodici recite in unʼepoca in cui i nuovi melodrammi si succedevano a ritmo febbrile e solo pochi riuscivano a restare in circolazione. In piú, secondo quanto testimonia la Cronologia di tutti gli spettacoli rappresentati alla Scala, compilata nel 1862, lʼesito fu buono, mentre Donna Caritea, andata in scena alcune settimane prima nella stessa stagione autunnale, «non piacque».11
La critica accolse benevolmente la creazione di Romani e Mercadante, nono stante i difetti e il soggetto insolito. Si possono citare ad esempio le recensioni uscite su «La Gazzetta privilegiata di Milano» e su «Il censore universale dei teatri» che convergono su molti punti, tra cui la condanna del libretto per la sua totale irrazionalità. Il giornalista de «La Gazzetta…», ad esempio, osservava che «un sub bietto opportuno per un ballo, potrebbe non esserlo per una commedia o per un dramma da vestirsi di note musicali»,12 mentre quello de «Il censore…» proponeva un ragionamento piú articolato: «Questi traviamenti, anzi abusi, dellʼingegno offrir possono una lettura dilettevole, ed anche una dilettevole scenica rappresentazione; ma per rinunziare alla ragione in grazia del diletto, grandissimo devʼessere questo, presentarci un effetto straordinario».13
Con «effetto straordinario» mi sembra che il giornalista si riferisse in modo par ticolare allʼallestimento scenico: questo punto è interessante perché nei suoi saggi sul fantastico e sul Macbeth verdiano Andrea Chegai ha sottolineato lʼimportanza
11
12
13
luIGI romANI, Teatro alla Scala. Cronologia di tutti gli spettacoli rappresentati in questo teatro dal giorno del solenne suo aprimento sino ad oggi, Milano, Giacomo Pirola, 1862, p. 133.
«Gazzetta privilegiata di Milano» 29 ottobre 1832, p. 497.
«Il Censore Universale dei Teatri» 31 ottobre 1832, p. 345.
Un’opera ‘fantastica’ per La scaLa della seduzione visiva per il buon esito di unʼopera fantastica in Italia. 14 Forse, dun que, uno dei motivi per cui Ismalia non ottenne un successo maggiore è da cercare nella mediocrità delle scene, delle macchine e persino dei costumi. Ne danno conto diverse recensioni, tra cui quella de «La gazzetta…»: «il macchinismo risguardante la mutazione di un sasso in un altare inghirlandato di fiori ed una scena di nuvole, non poteva esser peggiore, né piú male eseguito».15
Anche il giornalista dellʼ«Allgemeine musikalische Zeitung», che scrisse la sua recensione nel marzo del 1833, sottolineava le carenze dellʼallestimento, accennando al malfunzionamento dei macchinismi e al fatto che nel II atto lʼinterprete di Oscar non sembrasse un fantasma. Questo particolare è ulteriormente approfondito in un articolo pubblicato sul «Corriere delle dame» del marzo 1847: «Or sapete perché cadde irreparabilmente lʼIsmalia? Perché il tenore, che nel secondʼatto dovea figu rare un essere incorporeo, una specie di spirito reduce dallʼEliso, comparve paffuto, panciuto e tondo come una botte. Il pubblico rise e lʼopera cadde».16
Questʼultima citazione conferma ancora una volta il peso che aveva lʼaspetto visivo nel determinare lʼesito di unʼopera fantastica: il pubblico pretendeva da queste opere grandi effetti scenici e quando questi non riuscivano si cadeva nel ridicolo. Ma lʼarticolo del «Corriere delle dame» è di particolare interesse perché risale al 1847 ed è inserito in un articolo dedicato a Eugenia Tadolini, soprano che non faceva parte del cast di Ismalia: si tratta quindi di una digressione che conferma come lʼopera potesse essere ancora nella memoria dei lettori nonostante non fosse piú stata rappresentata da quindici anni.
Nellʼarticolo, inoltre si giudicava il libretto uno «tra i piú felici di Felice Romani» e «la musica delle piú fresche di Mercadante». Per ultimo si aggiungeva: «Parecchi pezzi di essa, e in ispecialità alcuni cori, sono tali che basterebbero a garantire il successo dellʼopera intiera. Quanti li hanno uditi in qualche privata accademia, certo ne converranno con me».17 Tale giudizio estremamente positivo sui cori è condiviso da tutti i commentatori dellʼopera. Furono quindi le pagine corali e la sinfonia, anchʼessa molto ammirata, che, risuonando in concerti pubblici e privati, mantennero in vita la fama dʼIsmalia.
14
Cfr. ANdreA CHeGAI, Musica fantastica. cit., e Id., Seduzione scenica e ragione drammatica: Verdi e il “Macbeth” fiorentino del 1847, «Studi verdiani» II, Parma, 1996, pp. 40-74.
15 «Gazzetta privilegiata di Milano» 29 ottobre 1832, p. 497.
16 Aldo, Galleria di celebri artiste italiane contemporanee III: Eugenia Tadolini, «Corriere delle dame, giornale di mode, letteratura, belle arti e teatri» XlVII/15 13 marzo 1847, p. 115. 17 Ibidem.
Il soggetto
Poiché oggi sia lʼopera di Mercadante sia il poema di DʼArlincourt sono pressoché sconosciuti, sembra opportuno offrire un breve riassunto del soggetto dʼIsmalia. Come indica il libretto, «La scena è in Normandia nel castello di San Pari. Lʼepoca è del XII secolo».18 Lʼopera inizia il giorno delle nozze di Ismalia, figlia di Ulrico barone di San Peri, con Oscar di Romelia, un cavaliere da poco tornato dalle Cro ciate. I due giovani si amano teneramente, ma Ismalia teme che i sentimenti di Oscar non siano genuini poiché egli si mostra ritroso allʼora di parlare dʼamore. La ragazza, ancora piú insospettita dalle rivelazioni fatte dalla veggente Argea, costringe il promesso sposo a dichiararle i suoi sentimenti apertamente. Oscar, pronunciando le parole ʼTi amoʼ, cade a terra folgorato e, prima di morire, spiega che in Terra Santa, per liberarsi dalla fascinazione per la maliarda Azila, aveva fatto un voto: non avrebbe mai detto ʼTi amoʼ ad alcuna donna prima di averla sposata. Nellʼatto II si scopre che Argea è in realtà Azila e che ha tramato contro la feli cità di Oscar portandolo alla morte. Parallelamente, Ulrico pretende che sua figlia dimentichi il fidanzato ormai scomparso e sposi Blondello, il famoso menestrello amico di Riccardo Cuor di Leone; ma Ismalia rifiuta perché ama ancora Oscar, il cui spirito viene spesso a visitarla. Lo spirito di Oscar, infatti, propone alla ragazza di dimostrare il suo amore rinunciando alla propria vita e sposandolo, poiché solo il suo sacrificio potrà redimerlo impedendo la sua condanna allʼInferno. Isma lia, inizialmente incerta, accetta di partecipare a una bizzarra cerimonia nuziale e finalmente la sua anima si ricongiunge a quella di Oscar per raggiungere insieme il Paradiso.
Questa trama, cosí complessa e cosí ricca di colpi di scena, prende spunto da fiabe e leggende diverse, anticipando molti temi delle opere wagneriane, da Der fliegende Holländer, a Lohengrin, a Tristan und Isolde.
È opportuno segnalare che Romani restò il piú possibile vicino al lavoro di DʼArlincourt e, in talune occasioni, inserí nel suo testo delle citazioni dallʼoriginale. Naturalmente egli dovette applicare i tagli, le semplificazioni e gli adattamenti indi spensabili per trasformare il poema in libretto. Ad esempio, nella fonte letteraria, Ismalie è orfana di padre e si trova sottomessa allʼautorità materna; nel libretto, al contrario, la protagonista ha perso la madre e vive con il padre, condizione abituale delle eroine nelle opere italiane.19
18
19
romANI, Ismalia cit., senza n. di p.
A questo proposito, Susan Rutherford ha spiegato che: «While fathers were prominent in much early nineteenth-century Italian opera, mothers are often absent – even when they had a vital part in the source material. (…) Disputes between father and daughter therefore acqui red greater dramatic potency because the difference in age, experience, power and gender were so marked». (SuSAN ruTHerFord, Verdi, Opera, Women, Cambridge, Cambridge Univer sity Press, 2016.)
Struttura dellʼopera
Lʼopera di Mercadante e Romani è composta dai seguenti numeri:
Atto I Sinfonia
Introduzione - Coro e sortita Azila (Al suon deʼ liuti) per soprano (Azila/Argea), con interventi della banda e del coro maschile fuori scena, e del coro femminile in scena
Scena e duetto (Deh! Un sol priego a me concedi) per tenore (Blondello) e basso (Ulrico)
Coro e romanza (Sempre pensoso e torbido) per soprano (Ismalia) e coro femminile Duetto (Per fuggente e vano suono) per soprano (Ismalia) e tenore (Oscar) con interventi fuori scena del secondo soprano (Azila/Argea) e del coro
Coro (Noi pure alla festa)
Scena e sortita Argea (Detestarti, abborrirti dovrei) per soprano (Azila/Argea) con interventi del primo soprano (Ismalia) in scena e del coro femminile “sotto il palco” Scena e duetto (Inorridisci! Spiegati) per soprano (Ismalia) e tenore (Oscar)
Finale I° (In Soria dʼamor fui preso) per tenore (Oscar), con interventi del primo soprano (Ismalia), secondo tenore (Blondello), basso (Ulrico) e coro
Atto II
Introduzione atto II° per coro
Scena e duetto (Accogli o freddo sasso) per soprano (Ismalia) e tenore (Oscar) Coro (Ebben? DellʼIndovina) per coro e basso (Ulrico)
Aria (Per me non temo, o prodi) per basso (Ulrico) con interventi del coro Scena e terzetto (Deh! Pochi di concedile) per soprano (Ismalia), tenore (Blondello) e basso (Ulrico) con interventi del coro Coro di maliarde (Di nuovʼesca si alimenti) per coro femminile Finale II - Romanza (Sgombra i miei dubbi) per soprano (Ismalia)
Seguito del finale II - Scena e duetto (Odi, mia vita) per soprano (Ismalia) e tenore (Oscar), con interventi del coro fuori scena, tenore secondo (Blondello), basso (Ulrico) e coro
Dallʼelenco dei numeri, risulta evidente che Ismalia ha le caratteristiche dei lavori piú grandiosi di Mercadante poiché è ampio, ricco di eventi e di cori.20 Le scene sono lunghe e articolate: spesso un numero confluisce in quello successivo senza soluzione di continuità. In molti momenti lo spazio sonoro si allarga con interventi
20
Cfr. pIero mIolI, Saverio Mercadante: un florilegio melodrammatico, in Saggi su Saverio Mer cadante, a cura di Gianluca Petrucci e Giacinto Moramarco, Cassano delle Murge, Messaggi, 1992, pp. 53-75: 55.
della banda, singoli strumenti o il coro posizionati fuori scena o, addirittura, sotto il palco. Il coro, in particolare, in molte occasioni si presenta diviso: una parte è visibile al pubblico, mentre unʼaltra è nascosta.
Allʼopulenza generale che contraddistingue il lavoro si oppone la scarsità di arie tradizionali: vi è una sola grande aria con la solita forma, affidata al basso Ulrico nellʼatto II. Gli altri numeri solistici sono le due romanze dʼIsmalia, di cui la seconda si configura come una preghiera, e le due sortite di Azila: pezzi, dunque, dallʼestensione piú contenuta e dalla struttura meno articolata. Il personaggio di Oscar non ha unʼaria tradizionale, ma partecipa a ben quattro duetti insieme a Ismalia ed è il protagonista del Finale I, che ricorda moltissimo un finale dʼopera in cui il protagonista muore tra lo sgomento e la pietà degli altri personaggi. Questa bizzarria formale poteva avvenire solo in unʼopera fantastica, perché unicamente in questo contesto il personaggio principale morto nel I atto può tornare a cantare nel II sotto forma di fantasma.
Una spiegazione dellʼinsolita scarsità di arie tradizionali si può dedurre dalla lettura delle recensioni. Risulta, infatti, che lʼinterprete di Ulrico, il basso-cantante Giovanni Giordani, fosse un artista esperto e molto apprezzato e che abbia raccolto molti applausi alla prima di Ismalia. Gli interpreti della coppia dei protagonisti, Teresa Melas e Giuseppe Binaghi, erano invece stati a lungo malati e si trovavano ancora in convalescenza nei giorni del debutto dellʼopera: è quindi plausibile che Mercadante non abbia voluto esporli eccessivamente.
Da un punto di vista piú generale, si può associare il numero ristretto di momenti solistici al fatto che in questʼopera ci sono molti eventi da commentare, per cui è necessario che i personaggi si confrontino. Ci sono anche tanti racconti: in questi casi la presenza del coro è importante per dare un pretesto al personaggio per esporre la sua storia. Un fenomeno simile si osserva ne Il trovatore di Verdi, un altro lavoro contraddistinto dallʼaffastellarsi di eventi e di racconti.
Lʼamplificazione del fantastico
Al di là di queste peculiarità formali, lʼaspetto piú originale dellʼopera resta il fantastico, che talvolta si presenta aggrovigliato al meraviglioso: se le maliarde apparten gono di diritto alla sfera del fantastico e il coro angelico a quella del meraviglioso, il fantasma di Oscar rivestito di una corazza dorata è difficile da inquadrare. Tale mescolanza non sorprende, perché si registra in molta letteratura coeva,21 semmai può sorprendere che la censura ecclesiastica non sia intervenuta! Come si è già anticipato, Romani seguí fedelmente la sua fonte letteraria ma
21 Per lʼinquadramento del concetto di fantastico e il suo rapporto con il meraviglioso, ringrazio la Professoressa Elisabetta Fava per aver condiviso con me il suo studio Il fantastico nella musica tedesca del primo Ottocento, tesi dottorale discussa presso lʼUniversità di Berna, Insti tut für Musikwissenschaft, 2017 (tutor Anselm Gerhard e Cristina Urchueguia).
Un’opera ‘fantastica’ per La scaLa
amplificò lʼelemento fantastico: questo è particolarmente evidente nel personaggio di Azila/Argea, che nel libretto è presentata come una maliarda a capo di un gruppo di maliarde, mentre nel poema di DʼArlincourt non è chiara quale sia la sua identità, né quali siano i suoi poteri.
A proposito di rapporti intertestuali, si può considerare la scena 1 dellʼatto I come caso esemplare. La didascalia del libretto recita:
Argea circondata dalle sue Maliarde è nel parco sovra il piedestallo di una statua spezzata, intenta alla musica interna. È avvolta in un verde mantello stellato: un tessuto rosso è intrecciato aʼ suoi capelli che, prolissi, le cadono sugli omeri. Ha in testa un nero pennacchio. Le altre Maliarde sono coperte di bruni manti.22
La descrizione della maliarda deriva chiaramente dal poema francese, dove il personaggio è presentato in questi termini: «Sinistre est son accent, lugubre est son silence. / Son manteau vert est étoilé; / Et sur le tissu rouge en ses cheveux roulé, / Un noir panache se balance.»23 Una delle differenze principali fra il libretto e il poema è che in questʼultimo la donna si palesa di fronte a un paggio nel folto del bosco per pronunciare una profezia. Tale situazione sarebbe stata difficile da ripro porre in unʼopera che, a questʼepoca, per tradizione iniziava con un coro: Romani, da librettista consumato, modifica lʼepisodio per adattarlo alle convenzioni e Mer cadante ne ricava una scena molto articolata e originale.
Allʼalzarsi del sipario si ascolta un coro maschile che intona, da dietro le quinte, un brindisi vivace. In scena, come spiega la didascalia, appare Azila con le altre maliarde accompagnate da una musica tenebrosa. La struttura della scena è la seguente:
1. Allegretto, 3/4, Si♭ maggiore: marcetta giubilante del coro maschile interno con interventi di Azila
2. Andante mosso, 12/8, Re minore: Sortita Azila con interventi del coro delle maliarde
3. Allegro, 4/4, Re minore/Sol minore: Temporale
4. Allegro, 4/4, Sol minore: coro delle maliarde con brevi interventi del coro maschile interno
5. Allegro, 4/4, Sol maggiore: coro maschile interno e coro in scena delle maliarde con Azila
Come si può osservare da questo schema, Ismalia si apre con una scena com plessa, ricca di effetti teatrali, che gioca con la spazializzazione dei suoni poiché non
22
23
romANI, Ismalia cit., p. 9.
CHArleS VICTor préVoST dʼArlINCourT, Ismalie, où la mort et lʼamour, I, Paris, Ponthieu et cie., 1828, p. 9.
solo cʼé un coro in scena e un coro fuori scena, ma addirittura, verso il finale, i cori si spostano: quello femminile si allontana mentre quello maschile si avvicina. La pagina orchestrale collocata nel cuore della scena, evocando un temporale, recupera un elemento già presente in DʼArlincourt, dove il personaggio della veggente viene introdotto nel corso di una tempesta.
Già nella scena dʼapertura si possono apprezzare alcune caratteristiche tipiche della musica di Azila/Argea e delle maliarde: essa è sempre misteriosa e oscura, come confermano le indicazioni «marcato con voce misteriosa» e piú avanti «cupo». Nei loro pezzi prevale lʼuso dello staccato, il modo minore e i tremoli. Inoltre, la linea vocale di Azila/Argea è contraddistinta da intervalli ampi e discendenti.
Figura 1:
Introduzione allʼAtto I, Sortita Azila, batt. 90-102.24
24
Si notino le indicazioni «marcato con voce misteriosa» e «cupo», si noti anche lʼaccompagnamento percussivo con improvvisi cambiamenti dinamici. Tutti gli esempi musicali sono tratti da SAVerIo merCAdANTe, Ismalia, ossia Morte ed amore, riduzione per canto e pianoforte, Mila no, Ricordi, 1832; ringrazio il Prof. Anselm Gerhard per avermi procurato questo spartito cosí difficile da reperire
Un’opera
‘fantastica’ per La scaLaUnʼaltra scena dellʼatto I che merita di essere confrontata con la fonte letteraria per verificare lʼespansione del fantastico è la 4, che coincide con il primo duetto di Oscar e Ismalia. Lʼepisodio deriva dal canto VI del poema, in cui i due protagonisti si trovano da soli a bearsi del loro amore: anche qui si registra qualche prestito testuale (si confrontino ad esempio «Sempre per me fia muto / Il cor dʼOscarre»25 e «Le cœur dʼOscar toujours sera muet pour moi?»26) nonché qualche cambiamento dettato dalle esigenze melodrammatiche. Nello specifico, nellʼoriginale Oscar è parco di parole: il suo voto non solo gli impedisce di pronunciare la frase ʼTi amoʼ ma, piú in generale, di indugiare in effusioni romantiche e di trattenersi troppo a lungo con la persona amata; in unʼopera, un protagonista taciturno non può trovare spazio, per questo Oscar si mostra loquace quanto la maggior parte dei tenori innamorati. Come nel poema, anche nellʼopera lʼincontro amoroso è interrotto da unʼinvettiva di Azila, della quale i personaggi ignorano la provenienza. Nellʼopera resta il mistero sullʼintervento della maliarda e addirittura sʼinsinua il sospetto che esso sia di origine sovrannaturale; nel poema, invece, lʼenigma della voce minacciosa viene sciolto già allʼinizio del canto successivo, quando si spiega che la veggente è stata vista entrare nel castello: «Lʼhorrible accent parti des murs du vieux castel, / Nʼavait rien de surnaturel : / Cétait la voix de la pythie».27 In questo caso, la spiegazione razionale dellʼintrusione di Azila annulla la sua dimensione fantastica, che permane invece nellʼopera.
Anche sotto il profilo musicale è evidente lʼintenzione di esprimere la natura straordinaria dellʼintervento di Azila. A questo punto del duetto, infatti, si è raggiunto il climax: Oscar e Ismalia si scambiano parole dʼaffetto in modo serrato avvolti da raffiche di semicrome in fortissimo che scendono e salgono, finché non irrompe da dietro le quinte la voce della maliarda accompagnata da lunghi tremoli orchestrali.
25 romANI, Ismalia cit., p. 16. 26 dʼArlINCourT, Ismalie cit., p. 113.
27 Ivi, p. 121.
Figura 2:
Duetto Per fuggente e vanto suono, batt. 132-156: irruzione di Azila.28
In generale, uno dei tratti tipici del fantastico è quello di irrompere nella norma lità suscitando sconcerto. Come si è visto negli esempi precedenti, ad ogni comparsa delle maliarde Mercadante cerca di sorprendere lʼascoltatore creando una rottura nellʼandamento della musica: nella scena 1 il coro festante sʼinterrompe improv visamente con le prime parole della maliarda, nella scena 4 sʼinterrompe il duetto. Nella scena 7 dellʼatto I, la comparsa di Azila/Argea sconcerta sia dal punto di vista scenico, sia dal punto di vista delle attese dellʼascoltatore. Lʼepisodio prende avvio con un recitativo di Ismalia, la quale si aggira da sola nel bosco interrogan dosi sui suoi sentimenti: la situazione sembra preludere a unʼaria del soprano, ma ecco che la maliarda compare «improvvisamente dalle rovine»29 per poi dare avvio alla sua ʼsortitaʼ. La breve didascalia sottolinea la capacità del personaggio di disorientare e ribadisce la predilezione per le atmosfere gotiche e notturne che contraddistingue lʼopera.
28
Si notino, nella linea vocale di Azila, gli intervalli discendenti molto ampi e i tremoli nellʼaccompagnamento. Si noti anche la frase troncata di Ismalia dallʼintervento di Azila.
29 romANI, Ismalia cit., p. 20.
Un’opera ‘fantastica’ per La scaLa
Non appena la donna si presenta in scena, lʼorchestra tace repentinamente. Essa allora pronuncia le parole «É tardo» su un tema di tre note che comprende un drammatico salto discendente di ottava: questo tema è associato alla fatalità ed è di grande importanza nellʼopera perché si trova spessissimo, talvolta leggermente variato nei valori delle note.
Figura 3: Scena e sortita Argea, batt. 39-42: tema della fatalità.
Nelle battute finali della Sortita Argea, Mercadante esalta lʼaspetto inquietante del canto della maliarda raddoppiando la sua linea vocale con un coro femminile posto sotto il palco e mai sentito prima nel corso del pezzo.
Lʼepisodio dellʼopera che si distanzia maggiormente dallʼoriginale francese è il Coro delle maliarde nella scena 6 dellʼatto II. Qui le megere si presentano fra le rovine di unʼabbazia intente a preparare una pozione: elencano i bizzarri ingredienti, incitano la mistura a bollire e infine si ritirano sconfitte, consapevoli che il loro incantesimo non andrà a buon fine. Nel poema di DʼArlincourt non cʼé alcun episodio simile, per cui la fonte dʼispirazione piú probabile sembra essere il Macbeth di Shakespeare. Dello stesso parere era già un commentatore dellʼepoca: «quasi tutti [i cori] sono scritti con mirabile artificio, quasi tutti furono applauditi, quello delle Maliarde nel secondo atto (che Romani imitò dalla famosa scena del Macbeth) eccitò entusiasmo, e procurò a tutte le Coriste lʼonore della chiamata.»30
A questʼepoca Macbeth era un dramma abbastanza noto in Italia, soprattutto per i balli che aveva ispirato ma anche per le riduzioni teatrali, tutte intitolate La caduta di Macbeth, che circolarono fra il 1827 e il 1837.31 Nello specifico, Mercadante
30 «Cenni storici intorno alle lettere, invenzioni, arti, commercio e spettacoli teatrali per lʼanno 1832 al 1833» XVII, Bologna, Sassi, 1833, p. 96.
31 Cfr. la nota bibliografica di Agostino Lombardo in WIllIAm SHAkeSpeAre, Macbeth, trad. di Agostino Lombardo, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 208.
avrebbe potuto conoscere il soggetto del dramma shakespeariano mentre risie deva a Napoli e collaborava con il Teatro San Carlo come compositore di balletti: nel 1818, infatti, Vestris creò per il teatro partenopeo Macbeth «Gran ballo istorico in cinque atti, imitato da Shakespeare», che includeva nel IV atto una danza delle streghe. Romani, a sua volta, era un lettore di Shakespeare: aveva scritto Amleto per Mercadante nel 1822, e scriverà per lo stesso compositore La gioventú di Enrico V nel 1834; inoltre, quasi sicuramente conosceva quel Macbetto di Henry precedentemente citato. Questo ballo mimico, andato in scena alla Scala nel 1830, ebbe un successo mediocre ma un «settimino danzante», che potrebbe corrispondere a una danza delle streghe nella loro caverna, «ebbe il favore del plauso unanime e prolungato».32
Non si possono evocare le streghe di Shakespeare senza ricordare quelle del Macbeth verdiano. In particolare, la situazione presentata nel Coro delle maliarde di Ismalia è molto simile a quella del Coro dʼintroduzione e Incantesimo posto in aper tura dellʼatto III della creazione verdiana. Anche in questo caso, un contemporaneo di Mercadante e di Verdi aveva notato la somiglianza fra le due scene: si tratta del drammaturgo Pietro Beltrame, il quale, in una lettera al settimanale «Il caffè Pedroc chi» di Padova, apparsa nellʼaprile del 1847, commentava piuttosto negativamente il Macbeth e stabiliva un confronto letterario fra il Coro delle maliarde e quello delle Streghe; confronto dal quale usciva vincitore indiscusso il testo di Romani.
Qui mi cade in acconcio il parallelo che promisi dʼistruirvi fra il coro delle streghe del Macbeth nellʼatto III ed un simile di maliarde nellʼIsmalia di Felice Romani. In questi due cori egualmente, si descrivono le misture e glʼingredienti onde si forma il sortilegio. (…) Chi esprime [come Romani] tali idee con tal dicitura ha diritto dʼintrodurre delle eccentricità in qualche dramma - Lʼanonimo non ha neppure quello di far ridere, che troppo desta lʼindignazione chi manomette in siffatta guisa la Italiana poesia.33
Da un punto di vista musicale non mancano le somiglianze, benché siano piutto sto generiche: si tratta di due cori in 6/8, in tonalità minore (il coro di Mercadante è in Si minore, quello di Verdi in Mi minore) e dallʼandamento Allegro. Dʼaltronde, questi stessi elementi ritornano in unʼaltra pagina magica di Mercadante: lʼEvocazione della fattucchiera Meg ne Il Reggente del 1843 (6/8, Si bemolle minore, Allegro moderato).34
32 Macbeth – Nuovo ballo mimico composto da Henry, «Gazzetta privilegiata di Milano» 53, 22 febbraio 1830, p. 209.
33 pIeTro BelTrAmI, “Sul Macbeth” Agli editori del Caffé Pedrocchi, «Il caffè Pedrocchi» 11 aprile 1847, p. 123.
34 Rispetto al Coro delle Maliarde, lʼEvocazione di Meg sembra addirittura piú vicina al Coro delle streghe del Macbeth, anche da un punto di vista librettistico: Piave, come mi è stato segnalato dal Dott. Marco Leo, rielaborò molte tessere testuali dalla poesia di Cammarano per il suo coro.
Un’opera ‘fantastica’ per La scaLa
Abramo Basevi, nel suo Studio sulle opere di Verdi del 1859, propone invece un confronto fra il Coro delle maliarde e il coro delle streghe dellʼIntroduzione di Macbeth. Basevi spiega: «[con] il primo tempo del coro delle streghe nellʼintroduzione, ci formiamo una giusta idea del come il Verdi comprendesse cotali esseri immaginari. (…) Il Verdi non ebbe in mente che il famoso coro delle maliarde del Mercadante, nel quale modello si notano le stesse pecche».35
Secondo Basevi, la pecca principale dei due cori, entrambi in minore, sarebbe che in essi le creature fantastiche appaiono piú bizzarre e «pazzarelle» che non tremende e malefiche. Lʼeffetto bizzarro è ottenuto, nella linea del canto, con lʼuso dello staccato e di qualche acciaccatura. A creare lʼeffetto filastrocca, inoltre, contri buiscono le ripetizioni nel testo e nella melodia, che a tratti è costruita con gruppi di due note ripetute. Nel suo coro, Verdi accentuò molto di piú lʼeffetto dello stac cato e delle ripetizioni ritraendo cosí le streghe come creature malvagie e infantili; Mercadante invece cercò di non eccedere nella bizzarria donando cosí un contegno piú sobrio e piú cupo alle sue maliarde.
Figura 4: Coro di Maliarde, batt. 29-56. É legittimo chiedersi se Verdi conoscesse Ismalia, opera che, come si ricordava,
35
BASeVI, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Firenze, Tofani, 1859, p. 102.
ebbe una vita brevissima. La risposta è affermativa. La prova si trova in una lettera del dicembre 1880 del compositore a Giulio Ricordi: «[Lʼalmanacco Paloschi] dice che lʼIsmalia di Mercadante fu rappresentata la prima volta in autunno del 1832 e Lucrezia Borgia (…) nello stesso anno: e siccome io, dal loggione, ho assistito a tutte due queste prime sere, cosí è supponibile che io fossi in quel tempo a Milano».36
Oltre Ismalia
Per introdurre le ultime considerazioni, conviene citare ancora un passo dello studio di Basevi, sempre riguardante Ismalia, ma in questo caso in relazione a Giovanna dʼArco: «Il coro di Borghigiani che fanno un racconto di streghe e demoni nelle prime battute di un 6/8 allegro vivace, rammenta per il carattere, se non per la melodia, il coro delle maliarde nellʼIsmalia del Mercadante, uno traʼ migliori pezzi di questo autore, e che si allega meritamente come modello nel suo genere».37
La citazione sembra importante perché Basevi segnala il Coro delle maliarde come «modello nel suo genere». La frase conferma una considerazione già proposta: Ismalia non fu unʼopera di successo, ma non fu neanche un fiasco. Fu piuttosto unʼopera sperimentale che gettò dei semi sia nel panorama operistico italiano, offrendo un modello locale di musica fantastica e tenebrosa, sia nella produzione stessa di Mercadante. Qui Mercadante mise in pratica delle soluzioni originali, come i numeri dalla forma meno tradizionale e piú compatta per assecondare lʼandamento del dramma e la quasi totale rinuncia allʼostentazione vocale. Il soggetto insolito di questʼopera fu quindi di stimolo per la ricerca di strade nuove.
36
1988, p. 92.
datata 18 dicembre 1880, in
37 BASeVI, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi cit., p. 77.
Giovanna dʼArco al palo. Storia inedita di un viaggio mai compiuto1
Prima che Schiller desse alle stampe Die Jungfrau von Orleans (1801), un dramma per musica dal titolo Giovanna dʼArco composto da Gaetano Andreozzi su libretto di Simone Antonio Sografi era apparso sulle scene italiane, prima a Vicenza (Eretenio, 1789) e poi, in versione ideologicamente corretta, a Venezia durante lʼoccupazione francese (Fenice, 1797). Nei primi ventʼanni della sua fortuna la tragedia di Schiller non fu oggetto di speciali attenzioni da parte dei compositori, eccezion fatta per le musiche di scena scritte in occasione di alcune rappresentazioni nei paesi di lin gua tedesca. Allʼindomani della prima, inaccurata traduzione di Pompeo Ferrario (Milano, 1819), il successo italiano della Jungfrau fu decretato dallʼultimo coreo dramma creato da Salvatore Viganò con la collaborazione di Giulio Ferrario, andato in scena alla Scala nel marzo del 1821 e replicato per un decennio in vari centri della Penisola. Su di esso si basano infatti il libretto approntato da Gaetano Rossi per il ʼmelodramma romanticoʼ di Nicola Vaccai (Venezia, Fenice, 1827; poi adattato per Napoli, San Carlo, 1828) e, con minor evidenza, quello scritto da Solera per il ʼdramma liricoʼ di Verdi (Milano, Scala, 1845).
Tra queste ʼGiovanneʼ ce ne stanno altre due: una, fallimentare, composta di fretta da Giovanni Pacini su un libretto pletorico di Gaetano Barbieri (Milano, Scala, 1830); lʼaltra, magnifica, concepita tre anni dopo da Felice Romani e mai giunta sul tavolo di Saverio Mercadante. Le circostanze finora ignote della mancata intonazione di questa Giovanna dʼArco sono lʼoggetto della presente indagine.
1 Corredato dallʼedizione del libretto manoscritto di Felice Romani esaminato al suo interno, questo studio è apparso in «Accademia delle Scienze di Torino – Memorie di Scienze Morali» 27, 2003, pp. 43-129. I curatori del presente volume ringraziano lʼAccademia delle Scienze di Torino per la gentile concessione del diritto di riproduzione.
1. Niet
Avrà pure saputo aver io consegnato al tempo voluto dalla mia scrittura un melodramma al Sig.r Rossi intitolato Giovanna dʼArco, da lui ricusato come argomento già trattato in Venezia, quasi io fossi in dovere di conoscere tutti i melodrammi recitati in quei teatri, e non avessi la libertà di appigliarmi a qualunque soggetto che piú mi convenga.2
Quando scrisse queste righe, Romani era furioso. Il 1833 era stato il suo annus terribilis, tutto passato in casa a comporre versi per onorare gli impegni presi e a scrivere lettere per giustificare i ritardi accumulati. Oltre che uno smacco, il rifiuto di un libretto già ultimato era un danno economicamente grave. Le ragioni addotte da Giovanni Rossi, un agente milanese in quel momento deliberatario dellʼimpresa del teatro veneziano, erano per lui prive di fondamento. Un gran numero di novità, prime fra tutte i capolavori di Bellini e Donizetti, erano sfilate negli ultimi tempi sul palcoscenico della Fenice: era improbabile che, a sei anni dal debutto della Giovanna di Vaccai, una nuova Pulzella potesse spiacere a un pubblico abituato non meno di altri a soggetti ricorrenti.3 Il rifiuto aveva infatti altre ragioni. Non era la prima volta che Venezia respingeva Giovanna dʼArco, ma lʼartista che reclamava il diritto di scegliere liberamente i propri soggetti era allʼoscuro del progetto, naufragato qualche anno prima, di portare fra i canali la Pulzella silenziosa di Ferrario e Viganò.
2. Un passo indietro
Il 21 agosto 1828 lʼimpresario Giuseppe Crivelli spedí al Presidente del teatro la sinossi del coreodramma scelto per lʼapertura del Carnevale.4 Nove giorni dopo la Direzione fece sapere di non ritenere Giovanna dʼArco adatta al palco né al pubblico
2 Felice Romani a Gian Francesco Avesani, Presidente del Teatro La Fenice, Milano, 22 ottobre 1833, I-VT, Busta n. 5, ʼLibrettistiʼ, trascrizione in AleSSANdro roCCATAGlIATI, Felice Romani librettista, «Quaderni di “Musica / Realtà”» XXXVII, 1996, doc. n. 84.
3 Anche se Venezia non era una nicchia metastasiana tipo Torino, Modena o Napoli (cfr. mArCo emANuele, Lʼultima ʼDidoneʼ. Il Metastasio nellʼOttocento, in Musica e Storia VI/2, 1998, pp. 369400), analogia o identità di soggetto non erano un problema per nessuno. Oltre a ospitare varie riprese di balletti e opere di soggetto uguale (Tottola/Pacini, Alessandro nelle Indie, 19 gennaio 1828 e Viganò, Alessandro nellʼIndie, 27 dicembre 1828: Viganò, Otello ossia il moro di Venezia, 3 febbraio 1829 e Tottola/Rossini, Otello, ossia lʼAfricano di Venezia, 20 gennaio 1833), dopo il debutto della Giovanna di Vaccai la Fenice aveva mandato in scena due opere basate su un identico libretto di Romani: I saraceni in Sicilia, ovvero Eufemio di Messina di Morlacchi (28 febbraio 1828, prima rappresentazione assoluta) ed Eufemio di Messina, ossia la distruzio ne di Catania di Persiani (19 gennaio 1833).
4 Le lettere esaminate in questo paragrafo sono tutte in I-VT, ʼSpettacoli 1818-27ʼ (sic, quindi nella Busta sbagliata).
della Fenice; Crivelli fu esortato a fare altre proposte, possibilmente evitando inter ferenze storiche con Francesca da Rimini, lʼopera commissionata per lʼoccasione a Pietro Generali.
Sul programma di Giovanna dʼArco devo far presente che fu stabilito di presenza in Milano di dare tal ballo per primo, mentre è di un tal spettacolo che non si può desiderar di piú. Io in buona fede ho dato tutte le ordinazioni opportune, ed ho formato la Compagnia espressamente, per cui non posso decampare da ciò che, ripeto, fu di presenza qui stabilito. Se mai però i dubbj che ora mi fa la Nobile Presidenza fossero prodotti da qualche osservazione del poeta S.r Pola pel carattere, questo ho già rimediato dʼintelligenza con Pola e col vestiarista.5
Il 4 settembre il Presidente confermò lʼesistenza dellʼaccordo verbale. Tuttavia, la lettura della sinossi aveva fatto temere un esito modesto per Giovanna dʼArco, causa la sua intrinseca scarsezza di eventi spettacolari. Inoltre, le limitate dimen sioni del palco avevano sempre tenuto lontani i soggetti militareschi dalla Fenice. Di conseguenza, Crivelli fu invitato a concludere nuovi accordi con Giulio Viganò o a mandare in scena Alessandro nellʼIndie, lavoro che aveva tra lʼaltro il vantaggio di non interferire con Francesca da Rimini.
La risposta dellʼimpresario arrivò il 10, con lʼallegato di una lettera scrittagli da Giulio poco prima. Il coreografo, allora a Vercelli, osservava che Alessandro non poteva essere rappresentato alla Fenice e che Otello poneva seri problemi di spet tacolarità.6 Aborrendo qualsivoglia alterazione nei lavori del fratello, Giulio lasciava scarsi margini ai negoziati; la decisione finale era comunque rinviata allʼindomani del suo rientro a Milano.
Chiosando lʼallegato, Crivelli sottolineò che Giulio era in grado di allestire sol tanto alcuni fra i balletti di Salvatore, due dei quali – La vestale e Psammi, re dʼEgitto – già rappresentati alla Fenice; in caso di rifiuto di Giovanna dʼArco, sarebbero rimasti solo Alessandro e Otello, con tutte le loro difficoltà.7
Il soggetto della Giovanna era a piena nozione della Nobile Presidenza, essendo lʼopera di Vaccaj tracciata sul programma di detto ballo; e perciò parmi ora stranissima lʼopposizione che mi si fa, tanto piú che il gusto di un pubblico non
5 Crivelli alla Presidenza del Teatro La Fenice, Milano, 30 agosto 1828.
6 Giulio Viganò era stato ingaggiato dal Teatro Civico di Vercelli per allestirvi un divertissement aulico in onore di Carlo Felice, da rappresentarsi fra un atto e lʼaltro della Zelmira di Rossini. Lo scenario di questo “ballo allegorico” privo di titolo si trova in 50 anni di ballo al Teatro Civico di Vercelli, a cura di Luigi Rossi, s.i.l., Edizioni della Danza, s.a.
7 Crivelli aggiunge una terza possibilità, Gli zingari, lavoro oggi assente nellʼelenco delle opere di Salvatore. Produzione originale di Giulio, un balletto dal titolo Gli zingari di Sicilia esordí alla Fenice il 9 aprile 1836.
Giovanna d’arco al palo
si può preconizzare cosí facilmente, e che sorvegliando la Nobile Presidenza alle prove, può ordinare quelle modificazioni che credesse ai combattimenti militari.8
Crivelli conclude manifestando il desiderio di non tornare sullʼargomento fino al nuovo incontro con Giulio. In mancanza della risposta, perduta, lʼinoppugnabilità delle ragioni addotte dal Presidente si può cogliere nella rassegnazione spirante dalla replica dellʼimpresario: «Rapporto al ballo della Giovanna, dietro i riflessi che Ella mi fa, ne depongo tosto il pensiero, e farò di tutto con Viganò per concertare lʼOtello per primo».9 Il 27 settembre le sinossi di Alessandro e di Otello furono cosí spedite a Venezia, dove ottennero approvazione immediata.
il che intese con sommo rammarico il sottoscritto la produzione di tali argomenti, il primo deʼ quali siccome scarsissimo dʼinteresse, scemo di danze, e dʼargomento pessimamente accolto dal pubblico nella prodotta opera dellʼanno scorso è da prevenirsi da sí giusti riflessi una caduta, o per meglio dire, un fiasco certissimo e irreparabile [...]. LʼOtello poi, il di cui argomento presta tuttʼaltro che grandiosità di spettacolo, e che termina in una stanza con alcova a mezzo palco scenico, non corrisponde punto alla magnificenza dei balli sempre mai prodotti e sempre aspettati dal pubblico veneto nel Gran Teatro la Fenice in apertura di S. Stefano. e però si lusinga che vorranno aggraziarlo quanto prima di renderlo incaricato dʼaltre loro deliberazioni onde allestirne le dovute ordinazioni.10
Lʼirremovibilità di Avesani deluse presto le speranze di Viganò. Ci sarebbero voluti Verdi, Solera e ventʼanni di tempo affinché la Pulzella riapprodasse alla Fenice. Romani non era in grado di prevedere una cosa del genere: ma quandʼanche fosse stato al corrente dei guai del balletto, nulla avrebbe potuto contro la tempesta che si andava addensando sulla sua Giovanna dʼArco. 11
8
Crivelli alla Presidenza del Teatro La Fenice, Milano, 10 settembre 1828.
9 Crivelli alla Presidenza, 20 settembre 1828, in risposta alla lettera non conservata scritta da Avesani il giorno 16. Un confronto tra le frasi anteposte dallʼimpresario allʼimmutabile for mula di saluto («con la piú alta venerazione mi rassegno...») dà unʼidea del graduale ammor bidimento di tono nelle sue lettere: 30 agosto: «Tanto di norma...»: 10 settembre: nulla; 20 settembre: «Sempre piú La ringrazio della bontà che ha per me...».
10 Viganò alla Presidenza, Milano, 8 ottobre 1828.
11 I balletti rappresentati nel carnevale 1829 suscitarono scarsi entusiasmi nei veneziani. Il 29 dicembre 1828 il critico della «Gazzetta Privilegiata di Venezia» lodò Francesca da Rimini ma affermò che Alessandro nellʼIndie non aveva soddisfatto il pubblico, freddo dinanzi alla sua natura sperimentale. Lavorando su un soggetto metastasiano Salvatore aveva inteso dimo strare che lʼazione drammatica poteva essere interamente sostenuta dallʼarte mimica, senza lʼausilio di numeri danzati. In occasione del debutto (Milano, Scala, 24 febbraio 1819) il suc cesso era stato reso possibile dalle doti straordinarie di Antonia Pallerini; il livello non piú che ordinario dei tersicorei veneziani non poteva garantire esiti analogamente lusinghieri. Lʼarticolo
3. Due passi falsi
Fra le due bocciature intercorre un quinquennio. Vertendo sopra un oggetto noto, nel primo caso la discussione poté concernere questioni intrinseche a struttura e azione: facendo invece perno su uno in corso dʼopera, nel secondo essa restò sempre ancorata ad aspetti esterni: fino al plateale e tardo sfogo del poeta, il titolo Giovanna dʼArco non compare mai nella corrispondenza fra Rossi, Avesani, Romani e Mercadante.
Le due ricusazioni si produssero a cavallo della Rivoluzione di luglio, evento la cui repressione ebbe effetti sensibili sulla vita teatrale, inibendo a lungo i soggetti patriottici. Gli avvenimenti cardine della svolta autoritaria furono in Italia il falli mento dellʼimpresa di Ciro Menotti, il rifiuto opposto da Carlo Alberto alla proposta di Mazzini di mettersi a capo del Risorgimento e la repressione dei moti da questi ispirati, culminata con le esecuzioni del giugno 1833.12 Bellini trionfava infatti intonando libretti scevri dʼimplicazioni tendenziose, e Donizetti faceva altrettanto incentrando le sue attenzioni sul dramma individuale anche in casi ʼrischiosiʼ tipo Anna Bolena. In un clima del genere e in una città come Venezia la proposta di un ritorno della Pulzella non poteva avere, pur provenendo da un autore come Romani, grandi chances di successo.
Dopo il varo dei Capuleti e Montecchi Crivelli aveva lasciato. Nel carnevale 1831 lʼimpresa della Fenice era stata assunta direttamente dalla Direzione, mentre per quello seguente era stato ingaggiato – sulla base di un contratto quinquennale – Alessandro Lanari. Primo compositore incaricato di unʼopera nuova (Ivanhoe), Pacini aveva potuto trarre partito da una compagnia in cui spiccava Giuditta Grisi, il ʼmusicoʼ sul cui profilo Romani e Bellini avevano cesellato il personaggio di Romeo.13
Il cartellone del Carnevale 1833 fu costruito intorno al desiderio di Bellini di presentare Norma con Giuditta Pasta protagonista e di scrivere unʼaltra opera per la Fenice. Questa avrebbe dovuto essere Cristina di Svezia ma, per la prima volta
si chiude con unʼosservazione maliziosa: «In somma nel ballo non vʼha che un male: la scelta. Ma anche questa non fu di libero arbitrio». La citazione è tratta dallʼAppendice della «Gazzet ta di Venezia». Prose scelte di Tommaso Locatelli, 14 voll., Venezia, Plet, 1837, 1, p. 317. La recen sione di Otello apparve sulla «Gazzetta» del 7 febbraio 1829, e riferí come nel primo caso un esito mediocre: «Il palco era troppo piccolo. Se ne perdette lʼillusione, e gran parte del diletto. Pessime le scenografie». Anche Il noce di Benevento, altro ballo viganoviano rappresentato verso fine stagione, non ottenne giudizi favorevoli (cfr. Lʼappendice cit., I, 7 marzo 1829, pp. 324-327).
12 Appena insediato – non senza il mugugno di alcuni nobili ad appena dieci anni dallʼappoggio fornito alla rivolta costituzionalistica – sul trono sabaudo, Carlo Alberto non aveva nulla da guadagnare da una guerra con lʼAustria: per questo non aveva raccolto lʼappello contenuto nella famosa lettera aperta scrittagli da Mazzini.
13 Scritto su libretto di Gaetano Rossi, Ivanhoe fu rappresentato per la prima volta il 19 marzo 1832: la Grisi vi apparve di nuovo in un ruolo ʼamorosoʼ, quello di Wilfredo.
Giovanna d’arco al palo
dallʼinizio del rapporto con Romani, il compositore pretese di mettere becco nella scelta del soggetto. Lʼentusiasmo della Pasta per un balletto a cui aveva assistito in autunno indusse Bellini a insistere con Romani affinché ricavasse un libretto dalla medesima fonte letteraria.14
Bellini arrivò in laguna lʼ8 dicembre. Oppresso dalla consegna di cinque libretti, Romani non vi giunse che ad inizio 1833. Le recite di Norma, la lentezza del compo sitore e alcune difficoltà impreviste congiurarono contro Beatrice. A metà febbraio il secondo atto era ancora in alto mare; tre pezzi dovettero essere adattati alla voce di Orazio Cartagenova, inopinato assegnatario del ruolo di Filippo; infine, la situa zione era aggravata dalla disistima di Bellini per alcuni membri della compagnia. Temendo il peggio, Romani licenziò il libretto definendo lʼopera “un frammento”. Il 12 marzo Lanari annunciò le dimissioni. Il fiasco arrivò puntuale il 16, innescando un violento scaricabarile: dopo un mese di scontri pubblici, Bellini e Romani tron carono i loro rapporti.15 Quando le nubi si diradarono Lanari aveva lasciato da un pezzo Venezia, attratto a Napoli da unʼofferta del San Carlo. Lʼimpresario lagunare Natale Fabrici era pronto a subentrargli, ma Giovanni Rossi dichiarò la sua disponibilità a fungere da delibera tario per un impresario da nominarsi a cura del direttore amministrativo in pectore, il nobile genovese Rodolfo Pallavicini. Lʼesistenza di due proposte, entrambe inde finite, era conseguenza di una norma draconiana: la Direzione fenicea si riservava sia il diritto di scritturare in modo autonomo un cantante di suo gradimento sia quello di protestarne uno a lei sgradito già ingaggiato dallʼimpresa. La circostanza spiega sia la cautela degli impresari nellʼassumere lʼincarico sia le loro dimissioni sovente con mesi, e talvolta con anni dʼanticipo sulla scadenza dei contratti.16
Il 24 marzo Fabrici presentò la sua lista di artisti. Nel Carnevale 1834 la prima donna avrebbe dovuto essere Giuditta Pasta o Giuditta Grisi; la seconda Brigida Lorenzani o una cantante da scegliersi fra Giulietta Grisi, Eugenia Tadolini, Elisa Orlandi e Lina Roser Balfe; il tenore Domenico Donzelli o Francesco Pedrazzi; il
14 CArlo TedAldI-ForeS, Beatrice Tenda, Milano, Società tipografica deʼ classici italiani, 1825: il coreografo del balletto scaligero che aveva incendiato la fantasia della Pasta era Antonio Monticini. Le quattro scene di Cristina di Svezia schizzate da Romani sono pubblicate in mAr Co mAuCerI, Inediti di Felice Romani. La carriera del librettista attraverso nuovi documenti dagli archivi milanesi, «Nuova Rivista Musicale Italiana» XXVI, 1992, pp. 397-403; sullʼinadeguatezza di Cristina allo status di eroina romantica cfr. GIoVANNI morellI, Come Cristina, regina e amante, non fu accolta nel regno delle eroine dellʼopera romantica, in Cristina di Svezia e la musi ca, Atti del Convegno internazionale (Roma, 5-6 dicembre 1996), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1998 (Atti dei convegni lincei, 138), pp. 239-309.
15 Questa celebre baruffa è documentata in Vincenzo Bellini. Epistolario, a cura di Luisa Cambi, Milano, Mondadori, 1943, pp. 338-361.
16
JoHN roSSellI, Il sistema produttivo. 1780-1880, in Storia dellʼopera italiana, a cura di Lorenzo Bianconi e Giorgio Pestelli, 6 voll., Torino, edT, 1987, 4: Il sistema produttivo e le sue competen ze, pp. 77-165: 104-105.
basso Orazio Cartagenova o Carlo Moncada. Gli autori delle opere – due nuove e due nuove per Venezia – avrebbero dovuto essere Romani, Gaetano Rossi, Ferretti e Car nisio fra i librettisti, e Bellini, Donizetti, Luigi Ricci e Mercadante fra i compositori.17 I problemi piú grossi erano i compensi delle prime donne. Per mettere in cartel lone il nome della Pasta, della Malibran o della Grisi gli impresari erano costretti a scritturare musici, tenori e bassi di secondo rango, formando cosí compagnie squilibrate. Il pubblico di alcune città era disposto a tollerare questo stato di cose: piú saggiamente, quello di altre preferiva ignorare i capricci delle stelle e vedere il budget ripartito in modo equo fra professionisti in grado di garantire uno spettacolo complessivamente decoroso. La perversità del meccanismo emerge con chiarezza da alcune lettere scritte da Lanari durante la tormentata gestazione di Beatrice di Tenda. Applaudita in quel momento a Parigi, la Grisi aveva avviato trattative con la Scala. Quando seppe della sua richiesta (30.000 franchi), Lanari cercò di ingaggiarla alla Fenice allettandola con un ruolo da musico in unʼopera nuova. La speranza era che lʼobbligo di cantare quattro e non sette sere a settimana inducesse la Grisi –angosciata dal deterioramento di una voce forzata per anni nel registro sopranile – a scegliere Venezia nonostante il compenso inferiore.18 Sapendo però che la Pasta non accettava mai di esibirsi per meno di 40.000 franchi, la Grisi rifiutò. Messo alle corde, Lanari non poté far altro che ammonirla con una lezione di management:
combina degli affari fuori dʼItalia, giacché in Italia le paghe che pretendi sono sogni. A Parigi in sei mesi che comprendono Autunno e Carnevale ài avuto 24 mila franchi, ed ài il corag<g>io di pretenderne 30 mila per un Carnevale ? La Pasta a Londra per la sola Primavera va a prendere cento mila franchi. Vedi in proporzione quanto è piú discreta di te verso lʼItalia.19
La Grisi ignorò il consiglio e richiese 30.500 franchi. Quando Lanari aveva lasciato da quasi tre mesi, la cantante firmò un pre-contratto in cui accettava di esibirsi a Venezia a condizione che la Fenice le garantisse il compenso entro fine giugno.20
17 Salvo diversa indicazione tutti i documenti dellʼArchivio del Teatro La Fenice (I-VT) presi in esame dʼora in poi si trovano nella Busta ʼSpettacoli 1833-35ʼ.
18 Alessandro Lanari a Giuditta Grisi, Venezia, 20 febbraio 1833, I-mS, C.A. 3259. In occasione di alcune rappresentazioni bolognesi della Straniera e di Norma nellʼautunno successivo, le parti di Alaide e di Norma destinate alla Grisi dovettero essere abbassate di una terza. Sui problemi vocali della cantante cfr. Enciclopedia dello Spettacolo, fondata da Silvio DʼAmico, 9 voll. + 2 di supplemento, Roma, Le Maschere, 1954-68, s.v., col. 1786.
19 Lanari a Grisi, Venezia, 27 febbraio 1833, I-mS, C.A. 3286. La Fenice non poteva pagare nessu na prima donna piú di 18.000 franchi, altrimenti non sarebbe stata in grado di scritturare gli altri cantanti necessari per formare la compagnia, professionisti il cui compenso si aggirava intorno ai 3.000 franchi.
20 Le informazioni sulle trattative fra la Grisi e la Fenice provengono da una memoria compila ta nel 1835 dal suo avvocato (I-mS, C.A. 3265/1).
4. Giuditte
In attesa di sistemare la faccenda dellʼimpresario, La Fenice aveva incaricato Giovanni Rossi di trattare con gli artisti. Il 13 aprile lʼagente aveva informato la Direzione che un accordo pregresso obbligava Mercadante a comporre lʼopera inaugurale del Carnevale scaligero. Malgrado il virtuale completamento del lavoro da parte di Romani, questo comportava il rinvio di Giovanna dʼArco alla seconda parte della stagione.21
Nel frattempo, accogliendo il desiderio della Pasta di apparire nei panni di Semi ramide o in quelli di Anna Bolena, Rossi aveva imbastito il suo cartellone: inaugura zione con titolo da destinarsi, Anna Bolena, lʼopera nuova di Romani e Mercadante e unʼaltra, nuova a sua volta, affidata a Michael Balfe; il tutto nobilitato da un cast strepitoso, comprendente entrambe le Giuditte.22
Il 21 giugno Rossi sollecitò Avesani ad approvare tutti i contratti entro la fine del mese, scadenza oltre la quale Romani e Mercadante avevano facoltà di rescindere i loro. Malgrado il preavviso, la Direzione impiegò quasi un mese per ufficializzare le sue scelte. Lʼeffetto fu il seguente:
Il corrispondente teatrale Sig.r Rossi per cui mezzo mi obbligai, mesi sono, di comporre il Melodramma che il Sig.r M° Mercadante porrà in musica il carnevale venturo al Gran Teatro della Fenice, communicandomi la nota della compagnia chʼio debbo adoperare, mi assicura che per una delle due prime donne sia scritturata la Sig.ra Grisi. Ma da varii giorni è sparsa voce che in luogo di quella abbia ad essere la Sig.ra Pasta. Cotesto cambiamento influirebbe troppo sul mio lavoro. perchʼio prosegua nel medesimo, senza curare chʼei debba servire piú per una che per lʼaltra. Mi rivolgo pertanto alla S.V. Ill.ma affinché si degni rassicurarmi con nota piú precisa. Una Sua lettera mi è tanto piú necessaria, quanto che si vocifera che alcune scritture del Sig.r Rossi non siano approvate dalla nobile Direzione: né io ho tanta fiducia nel mio valore per esser certo che la mia scrittura non possa soffrire eccezione. Prego la S.V. Ill.ma dʼaver la bontà di rispondermi a posta corrente, poiché il tempo preme; e di perdonarmi la libertà che mi prendo in grazia del motivo che mi vi spinge.23
21 Rossi ad Avesani, 12 aprile 1833, I-VT: «Spero a giorni spedirLe il libro della nuova opera, se il Poeta mi mantiene la parola, avendolo pressoché ultimato». Lʼinformazione relativa allʼimpegno di Mercadante con La Scala proviene da unʼaltra lettera conservata in I-VT (Rossi ad Avesani, 13 aprile 1833). Lʼassoluta incidentalità della circostanza è confermata dal sollecito invio a Venezia dei contratti degli autori e dalla loro immediata approvazione.
22 Rossi ad Avesani, 18 aprile, 21 aprile e 8 giugno 1833; Avesani a Rossi, 18 e 28 aprile 1833. Anche Lina Roser, moglie del compositore e cantante irlandese, sarebbe stata parte della compagnia, cfr. la lettera scritta da Balfe alla Direzione il 27 giugno 1833 (documenti tutti in I-VT).
23 Romani ad Avesani, Milano, 20 luglio 1833, I-VT, in roCCATAGlIATI, Felice Romani cit., doc. n. 77.
5. Cambio
Lʼesistenza di quattro manoscritti completi dimostra che il progetto di Giovanna dʼArco naufragò in una fase ormai avanzata.24 Le copie restituiscono il lavoro in tre versioni le cui leggere differenze sono imputabili soltanto alla trasformazione dellʼoriginario ʼmelodrammaʼ in due atti nella definitiva ʼtragedia liricaʼ in quattro parti.25
Lʼautografo di Romani è perduto. Opera tutti di un unico copista, i ventidue fogli del manoscritto seriore (ms. 17/1, dʼora in poi A) contengono un lavoro in due atti. Formato da diciassette fogli opera anchʼessi di unʼunica mano, il ms. 17/2 (dʼora in poi B) manca sia del frontespizio sia della lista dei personaggi, e presenta la bipar tizione dei due atti. Formato da quattordici scene, il primo è diviso in due Parti rispettivamente di cinque e di otto (ancora presente, la sesta scena è barrata per togliere alla Parte unʼinopportuna conclusione dialogica); le quindici del secondo atto sono invece separate senza tagli: sette formano la Parte III e otto la Parte IV.
Scritto tutto da una terza mano, ms. 7 (dʼora in poi C) è una copia fedele di B. Redatto in un momento posteriore, ms. 17/3 (dʼora in poi D), il documento trascritto ed editato in appendice) conta diciannove fogli. Ogni Parte vi risulta copiata da una mano diversa. Romani effettuò la revisione della quarta, introducendovi alcune varianti. Inoltre, egli redasse un frontespizio, una lista di personaggi incompleta, un nuovo frontespizio e una seconda lista, stavolta completa.26 Nellʼaprile del 1833 il musico assegnatario del ruolo di Giovanna era Giuditta Grisi, i soprani (Agnese e Isabella) Lina Roser Balfe e Carolina Lussanti,27 i tenori (Leonello e La Hire) Domenico Donzelli e Giacomo Roppa, il ʼtenore o basso bravoʼ (Carlo) Orazio Cartagenova e il basso (Dunois) Gaetano Nerozzi. Romani aveva scelto il soggetto della Pulzella dʼOrleans contando sulla dispo nibilità di Giuditta Grisi. Lʼagitazione dinanzi alle voci dʼingaggio di Giuditta Pasta prova lʼimprescindibilità da parte sua di una cantante con grandi doti attoriali e con la voce brunita del musico. Avesani rassicurò subito Romani, ma fu egualmente
24 I-mAS, ʼAutografi Gallettiʼ, mss. 7 e 17/1-2-3. La collezione è descritta nelle linee generali da mAuCerI, Inediti di Felice Romani cit. Venendo a Giovanna dʼArco, lʼautore non decifra corret tamente la data sul frontespizio del ms. 17/1 (aprile 1833, non 1826; una lettura corretta è tuttavia impossibile senza un esame della corrispondenza romaniana con Avesani, Mercadan te e Rossi).
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Lʼoperazione comportò il taglio di una scena alla fine di quella che divenne la Parte 1 e alcune varianti nelle didascalie della Parte IV.
26
Ambedue i frontespizi recitano semplicemente Giovanna dʼArco / Tragedia Lirica / in 4. Parti.
27 Il nome della Lussanti sostituisce quello, barrato, di una certa Ansani. Benché nessuna can tante con questo nome sia stata sinora identificata, la persona inclusa nella lista potrebbe essere stata un membro della famiglia di Giovanni Ansani, un tenore fiorentino maestro fra gli altri di Luigi Lablache e Manuel García.
Giovanna d’arco al palo
chiaro riguardo alla Pasta: già approvato da Lanari, il suo contratto era stato uffi cialmente trasmesso alla nuova amministrazione.
Il Rossi fino dal 12 aprile mi scriveva cosí: ʼspero a giorni di spedirLe il libretto della nuova opera, se il Poeta mi mantiene la parola, avendolo egli pressoché ultimatoʼ.
Io ci ebbi molta compiacenza, perché non si rinnovassero i ritardi e le dispiacenze dellʼanno scorso; e sono sicuro che la Sua lettera non tende a questo fine mentre siamo al fine di luglio, entro il quale Ella deve dare il primo atto. Del resto la Pasta è la prima donna, e non la Grisi, checché dica e speri il Rossi, che non può per le sue mire di guadagno come sensale e di risparmio, come deliberatario dellʼimpresa per persona da dichiarare, farsi giuoco del contratto nel quale la Presidenza, temendo appunto simili giochi, ha voluto riservare a sé di trattare la Pasta, e lʼha impegnata. Di Donzelli e Cartagenova non occorre dire che sono già da gran tempo scritturati. Mi raccomando di nuovo a Lei, onde non sia ritardato il dramma: e mi pregio di protestarLe la distinta mia stima.28
La Direzione sʼera infatti giovata dellʼesclusivo diritto allʼorigine di tante tensioni con gli impresari. Lʼestromissione della Grisi fu la causa scatenante dellʼuragano.
6. Drammaturgia
Ritenuta talvolta un difetto, la natura librettistica della Jungfrau apparve a Romani un pregio, nellʼeconomia della riduzione del testo di Schiller al rango di pre-testo. Il rispetto per una tragedia la cui popolarità era stata recentemente accresciuta dalla bella traduzione di Andrea Maffei può essere unʼaltra, parziale spiegazione della fedeltà di Romani nei suoi confronti.29 Una terza potrebbe essere la personalità artistica di Mercadante, un compositore il cui stile ricco ma severo sollecitava la concezione di un libretto focalizzato essenzialmente sul dramma.30
La riconfigurazione è sintetizzabile in questi termini. Ripudiate da Schiller, le unità di spazio e tempo rimangono ignorate: la vicenda si svolge a Chinon, nellʼaccampamento alle porte di Orléans, a Reims e in un castello occupato dagli
28
Avesani a Romani, Venezia, 24 luglio 1833, minuta in I-VT, in roCCATAGlIATI, Felice Romani cit., doc. n. 78.
29
30
F[rIedrICH] SCHIller, La vergine dʼOrleans, Milano, Editori degli Annali Universali, 1830.
Prima opera di Mercadante su libretto appositamente scritto da Romani, I Normanni a Parigi (Torino, Regio, 7 febbraio 1832) possono essere considerati il momento inaugurale di una nuova fase nella creatività mercadantiana, marcata dallʼabbandono del dramma metastasia no, da una graduale emancipazione dal canone rossiniano e da un recupero deliberato di tratti spontiniani e cherubiniani (cfr. GIoVANNI CArlI BAllolA, Mercadante e il ʼBravoʼ, in Il melodramma italiano dellʼOttocento. Studi e ricerche per Massimo Mila, a cura di Giorgio Pestel li, Torino, Einaudi, 1977, pp. 365-401: 371-373.
inglesi in un arco temporale indefinito. Lʼunità dʼazione è rafforzata dallʼesclusione in blocco dei personaggi secondari e da un accorto dosaggio di opportunità sceniche per quelli principali.
Tralasciando il Prologo, Romani nega lo status di dramatis personae a sorelle, fidanzato e padre di Giovanna.31 Desideroso di andare al cuore del dramma inda gando a fondo quello della Pulzella, Romani rinuncia a unʼoasi lirica di grande effetto come lʼaddio al villaggio natio e a un coup de théâtre altrettanto sicuro come lʼaccusa di stregoneria rovesciata da Thibaut sulle spalle della figlia. A parte ciò, la trama di Schiller non va soggetta ad alterazioni sostanziali. Come Barbieri, Romani mantiene la successione originale di duello e processo, invertita da Viganò e Gae tano Rossi; inoltre, accoglie nel suo lavoro Agnés Sorel, figura sacrificata sovente dai suoi predecessori.32
Oltre ad affidare a vari personaggi la descrizione dei trionfi di Johanna, Schiller fa duellare la sua eroina con quattro avversari, Montgomery e Filippo il Buono nel secondo e il Cavaliere Nero e Lionel nel terzo atto. I confronti hanno esiti diversi: Johanna sconfigge e uccide il cavaliere gallese (II, VI VIII) ma non incrocia neppure la spada col duca borgognone, dissuaso da Dunois dal confronto in armi con una donna (II, IX X); il Cavaliere Nero pietrifica Johanna toccandole il braccio e, dopo averle intimato di uccidere solo ciò chʼé mortale, scompare inibendo ogni sua replica (III, IX); Lionel lancia la sfida, perde la spada ed è presso a soccombere quando il suo sguardo incrocia quello della Pulzella bloccandone la furia (III, X).
Determinato a ospitare nelle sue pagine un solo duello, Romani sceglie quello di amore e morte. Lungi dal dissipare la sostanza drammatica degli altri tre, egli fonde in unʼunica scena i confronti con Montgomery e con Lionel (II, IV), contrap ponendo la determinazione omicida dellʼeroina alla sua incapacità di trafiggere il cavaliere inglese nel momento decisivo. Il recitativo di Leonello e il suo scontro verbale con Giovanna derivano dal confronto con Montgomery, mentre il resto proviene dal duello originale. Romani fa incontrare Leonello e Giovanna dopo la sconfitta in cui il cavaliere inglese ha perso la spada; analogamente a quanto fa in Schiller, un attimo dopo la comparsa di Montgomery la Pulzella grida “Sei morto!”. La differenza fra il Montgomery di Schiller e il Leonello di Romani è che il primo ha deposto la spada per affrontare Johanna con le armi della retorica, mentre il secondo non ha dubbi sulla necessità di recuperare per prima cosa il ferro. In Schiller Johanna invita Montgomery a prendere lʼarma e a combattere: scartato il dialogo in cui il Gallese fa invano leva sulla sensibilità del gentil sesso, Romani è costretto
31 Anche Gaetano Rossi omette il Prologo di Schiller nel libretto per Vaccai, ma fa comparire Raimondo piú avanti, nellʼepisodio del vagabondaggio nelle Ardenne (Schiller: V, i-iii). Assen te nei lavori di Rossi/Vaccai e Romani/(Mercadante), il padre di Giovanna è presente invece in quelli di Ferrario/Viganò e Barbieri/Pacini.
32 Lʼunico a conservare il personaggio dellʼamante di Carlo VII, pur limitandone il ruolo alla donazione dei gioielli, è Gaetano Rossi (Schiller: I, iv).
Giovanna d’arco al palo a ricorrere allʼespediente, inelegante ma pur sempre efficace, del deus ex machina: il Destino interviene infatti a restituire a Leonello la spada perduta.
Un altro elemento essenziale della vicenda di Giovanna dʼArco è quello sovrannaturale. Schiller non mostra la Vergine fra i rami della quercia ma fa narrare due volte a Johanna la sua visione (Prologo, IV, addio al villaggio: I, x, autopresentazione a Carlo VII); inoltre, egli aggiunge lʼapparizione del Cavaliere Nero, il rombo del tuono durante il processo e il miracolo della rottura delle catene. Tutti i librettisti italiani cercano di sfruttare il potenziale spettacolare di questi episodi. Viganò fa apparire il Genio della Francia nel primo atto e fa ammonire Giovanna dal Cavaliere Nero nel quarto; Rossi offre a Vaccai la possibilità di creare una memorabile scena di spiriti durante il vagabondaggio, episodio da cui estromette soltanto lʼincontro coi carbonai (III, v);33 Barbieri organizza lʼIntroduzione di Pacini sfruttando solo lʼapprensione di Tebaldo durante lʼinvestitura della figlia.
Dotato di un fiuto superiore, Romani colloca la scena sovrannaturale dopo il Duetto dʼamore e morte (II, VI). In Schiller Johanna sviene fra le braccia di La Hire appena Lionel sʼallontana (III, X XI); Romani la fa fuggire (II, IV) e quindi riempie il palcoscenico con una squadra di soldati francesi (II, V) che scompare un attimo prima del suo rientro (II, VI). Il recitativo e il dialogo di Giovanna con quella che lei crede unʼeco è unʼingegnosa rielaborazione del secondo monologo di Schiller (IV, I). La genialità della scena sta nel modo in cui lo spettatore comprende che lʼinterlocutore della Pulzella non è unʼeco. La prima volta la voce si limita a ripetere lʼultima parola pronunciata da Giovanna («Mai»). La seconda la risposta non arriva da una voce, ma da un coro di voci: il brivido che percorre la schiena di Giovanna non le impedisce di credere di avere a che fare con un interlocutore singolo. La situazione si chiarisce quando allʼaffermazione della Pulzella «Tu mi predici ancor / la mia condanna» le voci rispondono «La tua condanna»: il riorientamento del possessivo è il colpo che stronca Giovanna, facendola crollare svenuta. Efficace in sé, la scena è concepita meglio di quella di Rossi e Vaccai perché il pubblico perce pisce la dannazione come pena per la mancata uccisione di Leonello. Inoltre, essa è collocata in un luogo opportuno perché precede lʼaccusa di stregoneria: i dubbi sul comportamento della Pulzella cominciano a serpeggiare tra i francesi soltanto allʼinizio della Parte III, a seguito dellʼesitazione a proposito del mantenimento della guida dellʼesercito (II, X).
Il retroterra biblico conferisce allʼatto dʼaccusa un potenziale spettacolare sto lidamente ignorato dal solo Barbieri; addirittura Ferrario e Viganò non si fanno
33 Malgrado il suo valore in termini musicali, la “scena oscura” di Vaccai è drammaturgicamen te mal collocata perché ha luogo prima del Duetto dʼamore e morte. Questo fa sí che Giovan na giunga al confronto col suo antagonista già gravata dalla dannazione, circostanza che macchia la sua innocenza prima dellʼinfrazione del voto di castità. Il problema è lʼinserimento da parte di Gaetano Rossi dellʼepisodio sovrannaturale su una trama meccanicamente assun ta dal coreodramma di Ferrario e Viganò, lavoro che introduce la permutazione fra giudizio e duello.
sfuggire lʼoccasione di accogliere il silenzio di Johanna nel loro dramma muto. Lʼunico a escludere il padre di Giovanna era stato Gaetano Rossi, il quale aveva asse gnato il compito di instillare il dubbio nelle menti dei francesi al nemico Fastolfo; scaltramente, Vaccai si guardò dallʼintonare i versi del soldato inglese, riuscendo cosí a non far abbassare la temperatura emotiva del processo. Romani diffonde il sospetto fra i commilitoni di Giovanna, la cui angoscia collide con lʼopposizione recisa di Dunois (II, 1). Difensore della Pulzella, questi ottiene la solidarietà di La Hire in un dialogo (III, II) che prelude al Duetto dʼamor sororale fra Giovanna ed Agnese. Istanza purissima del cosidetto dramma di idee (IV, II), questa opportunità drammatica era stata trascurata da tutti i predecessori. Romani onora la sua fama di principe dei librettisti italiani di primo Ottocento non solo non ignorando una scena cosí toccante, ma anche sfruttandola in funzione del rito dellʼincoronazione. La sequenza drammaturgica di Schiller dopo il duello fra Johanna e Lionel è la seguente: monologo di Johanna (IV, I), suo dialogo con Agnese (II), sua sofferta decisione di guidare il corteo (III) e inizio della cerimonia (IV X), culminante nellʼaccusa di Thibaut (XI). Romani colloca la scena degli spiriti (II, VI VII) prima dellʼesitazione di Giovanna nel farsi portabandiera (VIII); dopo il grande Finale, lʼincredulità di Dunois dinanzi al Coro (III, I) è seguita dalla dichiarazione di solidarietà di La Hire a Leonello (II), dal Duetto fra Giovanna e Agnese (III IV), dal corteo dellʼincoronazione (V), dal bisbiglio dei popolani («Ella è rea», VI) e dallʼatto di autoaccusa della Pulzella (VII). Da questo momento in poi, a parte il taglio del vagabondaggio nelle Ardenne, Romani segue Schiller alla lettera.
7. Caos
Alla fine di giugno, quando Romani aveva ormai finito il suo libretto, La Fenice non era ancora in grado di assicurare alla Grisi il compenso pattuito. Il 14 luglio la cantante pretese un formale annullamento del pre-contratto. Il marchese Pallavicini non si pregiò di risponderle: anche se nei giorni dellʼabbandono di Lanari aveva mostrato un tiepido interesse per lʼassunzione della direzione amministrativa, il nobiluomo non aveva mai ufficializzato la sua scelta. Furibonda, la Grisi passò la pratica al suo avvocato.34
34 Vista lʼaria che tirava, la Grisi aveva nominato suo legale lʼavvocato Alessandro Mozzoni Fra sconi sin dai giorni della lite fra Bellini e Romani (cfr. la sua lettera datata Milano, 18 aprile 1833, I-mS C.A. 3274). Alla fine di settembre la cantante ricevette una lettera in cui Angelo Coen, emissario veneziano di Lanari, la informava del fatto che il teatro stava facendo pressione su Pallavicini per fargli assumere la direzione amministrativa per il Carnevale successivo. Non dimeno, la Grisi non avrebbe potuto trarre vantaggio da questo fatto perché la Direzione aveva ingaggiato autonomamente la Pasta. A quel punto lʼidea di Coen era di indurre Rossi a lasciar libera la Grisi, in modo tale da consentirle di accettare una proposta di Lanari per Roma. Rossi accettò il consiglio di Coen e scrisse la lettera (Coen a Grisi, Venezia, 19 settembre 1833, I-mS, C.A. 3256, con dichiarazione di Rossi in allegato). Il problema era che, credendosi ingag
Giovanna d’arco al palo
Il 24 luglio Avesani confidava ancora nel fatto che, malgrado il cambio della prima donna, Romani avrebbe consegnato ugualmente Giovanna dʼArco. Rossi continuava ad agire sicuro del fatto suo, ribadendo la presenza della Grisiʼ.35 Allʼinizio di agosto il caos raggiunse lʼapice. Il fatto che Rossi non adoprasse piú la carta intestata della Fenice fece temere a Donizetti che questi avesse ormai perso il controllo della situazione.36 Impavido, il 23 settembre Rossi spedí ad Avesani i libretti per la ʼsuaʼ stagione, da inaugurare con Fausta di Donizetti (o con una ripresa dei Capuleti e Montecchi), e da proseguire con Edoardo in Iscozia, lʼopera nuova di Mercadante e una da scegliere fra la Straniera di Bellini, Caterina di Guisa di Coccia, e Parisina di Donizetti.37
Preoccupata dalle voci che circolavano in città, la Direzione Generale di Polizia chiese al teatro di sintetizzare per iscritto le trattative in corso per la stagione imminente. Datata primo ottobre, la risposta di Avesani è il documento che mette finalmente le cose in chiaro. Fino a quel momento Rossi non aveva dichiarato il nome dellʼimpresario, sostenendo che lʼatto formale competeva a Pallavicini. Il problema era che Rossi aveva esortato il marchese ad assumere personalmente il ruolo dellʼimpresario, cosa che questi non si era mai sognato di fare. Incurante del rifiuto, Rossi aveva scritturato unʼintera compagnia confidando nelle proprie capacità di convincere in un modo o nellʼaltro Pallavicini. Ribadendo lʼestraneità della Fenice a tali alchimie, Avesani sottolineò che la Direzione era ancora in attesa di conoscere il nome dellʼimpresario.
Il millantato ingaggio della Grisi contravveniva al famoso diritto di prelazione; la condotta di Rossi fu causa inoltre dellʼannullamento delle scritture della Tadolini e della Roser Balfe. Avesani continuava puntualizzando il decadimento dei contratti per le seconde parti e per il coreografo, e biasimando la perdurante vacanza di numerose posizioni tecniche (illuminatore, attrezzista, ecc.). Infine, cosa piú grave,
giata a Venezia, la Grisi aveva rinunciato allʼofferta romana. consentendo cosí a Lanari di scritturare unʼaltra cantante. Profilandosi una stagione di inattività forzata, la Grisi pretese un indennizzo corrispondente (Cristoforo Barni – futuro marito della cantante – a Mazzoni Frasconi, Bologna, 21 settembre 1833, I-mS, C.A. 3258). La rinuncia formale di Pallavicini arri vò solo il 5 ottobre, e la Grisi ne venne a conoscenza solo venti giorni dopo, di nuovo grazie a una lettera di Coen (Venezia, 24 ottobre 1833, I-mS. C.A. 3262).
35 Rossi ad Avesani, Milano, 26 luglio 1833, I-VT. Rossi vi delinea compagnia e cartellone: prime donne Grisi e Roser Balfe; tenori Donzelli e Nerozzi; basso Cartagenova. Librettista e compo sitore della nuova opera Romani e Mercadante. Inoltre, tre opere nuove per Venezia: la prima avrebbe dovuto essere Edoardo in Iscozia (Gilardoni/Coccia, Napoli, San Carlo, 8 maggio 1831): le altre due avrebbero dovuto essere scelte al piú presto da un gruppo di dieci.
36
Donizetti a Ricordi, Roma, 6 agosto 1833, in GuIdo ZAVAdINI, Donizetti. Vita, Musiche Episto lario, Bergamo, Istituto Italiano dʼArti Grafiche, 1948, lettera n. 111: «Rossi passa di qui, mi avvisò il figlio, - ma le sue lettere non han piú la tiritera stampata in cima e... ohimé... che sarà. Dice di combinare... cosa poi?»
37
Rossi ad Avesani, Milano, 23 settembre 1833, I-VT.
mancava ancora «il libretto dellʼopera nuova, appositamente scritta, che doveva essere assoggettato allʼapprovazione in Settembre».38
8. Attesa
Intento a programmare le sue nuove attività di maestro di cappella, Mercadante non aveva il piú lontano sentore delle trame veneziane.39 Il desiderio di onorare il suo impegno con Novara lo indusse a declinare ogni offerta teatrale per lʼautunno. Spe rando ancora di riuscire a conciliare le incombenze, undici giorni dopo il debutto del Conte dʼEssex Mercadante aveva firmato un contratto con la Scala per lʼinaugurazione del Carnevale 1834 e aveva accettato di comporre unʼopera da mandare in scena alla Fenice nella seconda parte della stagione.40 Candidato a fornirgli i due libretti, Romani era a sua volta occupatissimo:41 ottobre era arrivato, e il ritardo incomin ciava ad inquietare.
Non risposi a posta corrente alla vs.a del primo di mese, poiché attendevo riscontro da Romani in proposito. Le mie lettere mai furono incoerenti, poiché in esse continuamente vi pregai interessarvi per la consegna del libro. Il detto Romani mi disse verbalmente il giorno 19 agosto che voleva avanzarsi con quello di Milano, quindi occuparsi di Venezia. ed io ero contento purché mi si desse da travagliare. Mi lagnai soltanto passati 45 giorni senza nulla poter fare, per lʼuno e per lʼaltro. Si può esigere che io abbi da comporre lʼopera senza poesia senza tempo?... in che dunque sono incoerente?... Lungi piú di voi dal voler questioni, vi partecipo che il d.o Romani oggi mi scrive dʼinteressarsi, e darmi subito qualche cosa da lavorare, vedetelo, pregatelo, e fate sí che si verifichi quanto dice. Se la cosa si riduce al punto chʼio non possa adempiere allʼimpegni presi compromettendo cosí me e lʼImpresa sono disposto a rinunziare alla scrittura di Milano, dandovi fin dʼora facoltà di
38 Avesani alla Direzione Generale di Polizia, Venezia, 1 ottobre 1833, minuta in I-VT.
39 Mercadante aveva appena sostituito Generali, morto il 3 novembre 1832, nel ruolo di diretto re della Cappella del Duomo di Novara. Il concorso si era svolto nei primi mesi del 1833; il vincitore fu informato il 23 febbraio dellʼobbligo di presentarsi in città a inizio marzo. Cfr. GuIdo BuSTICo, Saverio Mercadante a Novara, «Rivista Musicale Italiana» XXVIII, 1921, pp. [361]-396: 372; GASpAre Nello VeTro, Saverio Mercadante Maestro di Cappella in Novara, in Saggi su Saverio Mercadante, a cura di Gian Luca Petrucci e Giacinto Moramarco, Cassano delle Murge, Messaggi [1992], pp. 147-171.
40 Il conte dʼEssex, Romani, Milano, Scala, 10 marzo 1833; il lavoro progettato per Milano era Saffo; quello per Venezia Giovanna dʼArco.
41 Dopo il suo rientro nel 1831 dalla Penisola Iberica, dove aveva composto alcune opere su libretti romaniani precedenti, Mercadante stabili una cooperazione fissa col poeta, che dopo il successo dei Normanni a Parigi scrisse per lui sei altri libretti. Il rapporto finí solo col ritiro di Romani dal teatro e col tentativo fallito da Mercadante di affermarsi a Parigi (coi Briganti, opera su libretto di Jacopo Crescini, Théâtre des Italiens, 22 marzo 1836).
Giovanna d’arco al palo scioglierla senza sagrifizio delle due parti. Ciò vi proverà la mia onestà, ed impegno di fare il mio dovere da uomo da bene.42
In quei giorni Mercadante fu turbato anche dalla voce secondo cui per compiacere Henriette Méric-Lalande Romani aveva smesso di lavorare a Saffo e, malgrado il suo disprezzo per Victor Hugo, aveva cominciato a scrivere Lucrezia Borgia. Era vero: il 10 ottobre Romani aveva ricevuto una visita di Donizetti, che gli aveva annunciato il suo ingaggio per lʼapertura del Carnevale scaligero e il suo desiderio di comporre unʼopera tratta da Lucréce Borgia. 43 Dopo la lite con Bellini, la prospettiva di un successo alla Scala in unʼinaugurazione con la Méric-Lalande e il compositore piú in voga del momento era allettante. Dʼaltronde, la strategia di Romani era corretta, e persino lungimirante: Donizetti poteva lavorare sul soggetto da lui richiesto, la Méric-Lalande gongolava allʼidea di apparire nei panni di Lucrezia Borgia, e Merca dante poteva dedicare ogni suo sforzo a Giovanna dʼArco. Tutto bene, in apparenza. Ma, a ben guardare, una zona oscura cʼera: quella di competenza di Giovanni Rossi.44
9. Strutture
La conferma definitiva dellʼassenza della Grisi indusse Romani a chiudere il suo manoscritto in un cassetto e ad accordarsi con Mercadante per unʼopera su soggetto diverso.45 Prima dʼabbandonare a nostra volta Giovanna dʼArco. Tuttavia, può essere utile analizzarne la struttura drammatica. Alessandro Roccatagliati conclude la sua indagine sulla morfologia dei numeri musicali romaniani sottolineando lʼabilità
42 Mercadante a Rossi, Novara, 5 ottobre 1833, I-mAS, ʼAutografiʼ 95/11, in roCCATAGlIATI, Felice Romani cit., doc. n. 80.
43 Pubblicata allʼinizio del 1833, la tragedia di Hugo fu rappresentata il 2 febbraio nel teatro parigino della Porte St-Martin (le musiche di scena furono composte da Louis-Alexandre Piccinni, nipote di Niccolò). A proposito della struttura drammaturgica e dellʼimportanza stilistica di Lucrezia Borgia cfr. GAry TomlINSoN, Opera and ʼDrameʼ: Hugo, Donizetti, and Verdi, in Music and Drama (Studies in the History of Music, 2), New York, Broude Brothers, 1988: pp. 171-192. Mercadante aveva posposto il suo contratto con la Scala allʼautunno succes sivo, consentendo cosí al teatro di ricorrere a un altro compositore. In quei giorni Donizetti vi stava ottenendo un grande successo - 36 recite il bilancio finale - col Furioso nellʼisola di Santo Domingo (Jacopo Ferretti, Roma, Valle, 2 gennaio 1833).
44 Romani a Carlo Visconti di Modrone ([Milano, 10 ottobre 1833]) e Mercadante al medesimo destinatario (Novara, 12 ottobre 1833), entrambe le lettere in roCCATAGlIATI, Felice Romani cit., docc. nn. 81 e 82; Donizetti a Ferretti (Milano, 9 ottobre 1833) e a Visconti di Modrone (Milano. 11 ottobre 1833), entrambe in ZAVAdINI, cit.: 336-337.
45 Romani ad Avesani, Milano, 22 ottobre 1833, cit. La conferma ufficiale dellʼingaggio della Pasta e lʼaccettazione della nuova proposta si trovano nella risposta di Avesani (Mira, 26 ottobre 1833, minuta in I-VT, ʼSpettacoli 1833-35ʼ). Il Presidente desiderava che Emma dʼAntiochia non debuttasse piú in là del 20 febbraio 1834, ma lʼandata in scena dovette essere differita sino allʼ8 marzo.
del librettista nellʼuso di forme specifiche in funzione della loro efficacia teatrale. La varietà di soluzioni esperite nel corso di una carriera non mostra unʼevoluzione rettilinea: anche nelle opere in cui confeziona numeri innovativi Romani continua a ricorrere alle vecchie Arie bipartite senza tempo di mezzo. Le poche costanti sono lʼespansione graduale della stanza (dalla quartina tradizionale a otto e perfino a dieci versi con distico finale), il frequente ricorso ad aperture non strofiche nel primo tempo dei Duetti e la comparativa diminuzione di cantabili e cabalette a due.46
Oltre che in rapporto a questi tratti, lʼoriginalità di Giovanna dʼArco può essere accertata mediante unʼindagine diacronica e unʼanalisi sincronica. La prima si con centra sulle opere esplicitamente definite “tragedie liriche”; la seconda sui libretti redatti negli anni intorno al 1833.47
Tutte scritte per compositori di prima grandezza (Bellini, Donizetti, Mercadante), le tragedie liriche di Romani sono di norma in due atti: solo Emma dʼAntiochia è in tre, mentre I Normanni a Parigi, Ugo, conte di Parigi e Giovanna dʼArco sono in quat tro parti.48 Norma ha unʼIntroduzione, cinque numeri individuali e quattro Duetti, uno dei quali sfocia nel Terzetto che conclude il primo atto. Tutti i pezzi mostrano una struttura regolare, salvo il Duetto del secondo atto fra Norma e Pollione in cui
46
roCCATAGlIATI, Felice Romani cit., pp. 201-231.
47 La produzione edita di Romani conta otto “tragedie liriche”, tutte redatte fra il 1829 e il 1834 (sebbene sia impossibile effettuare distinzioni chiare rispetto ai “melodrammi seri” o ai “drammi lirici”, selezionare lavori recanti la medesima dicitura di Giovanna dʼArco può facili tare alcuni raffronti interni alla produzione romaniana): Saul (Vaccai, Napoli, San Carlo, 11 marzo 1829; Ferdinando Ceccherini, Firenze, Filarmonico, 1843), Zaira (Bellini, Parma, Duca le, 16 maggio 1829; Alessandro Gandini, Modena, Corte, 7 novembre 1829; Mercadante, Napo li, San Carlo, 31 agosto 1831; Antonio Mami, Modena, Comunale, 25 gennaio 1845), Anna Bolena (Donizetti, Milano, Carcano, 26 dicembre 1830), Norma (Bellini, Milano, Scala, 26 dicem bre 1831), I Normanni a Parigi (Mercadante, Torino, Regio, 7 febbraio 1832), Ugo, conte di Pari gi (Mercadante, Milano, Scala, 13 marzo 1832; Alberto Mazzucato, Milano, Re, 25 febbraio 1843, col titolo Luigi V re di Francia), Beatrice di Tenda (Bellini, Venezia, Fenice, 16 marzo 1833; Rinaldo Ticci, Siena, Bianchi, Carnevale 1837: Frederico Guimarães, Lisbona, São Carlos, 29 marzo 1882, col titolo Beatriz), Emma dʼAntiochia (Mercadante, Venezia, Fenice, 8 marzo 1834: Giovanni Bracciolini, Bologna, Comunale, 26 novembre 1838, col titolo Emma e Ruggero; Vin cenzo Pontani, Viterbo, Macchi, Primavera 1852, col titolo Emma e Ruggero; Carlo LovatiCozzulani, Alghero, Civico, Carnevale 1866, col titolo Emma; Ercole Cavazza, Bologna, Brunet ti, 6 giugno 1877, col titolo Emma). I libretti romaniani del 1833 passati in rassegna in questa sede sono Il conte dʼEssex (Mercadante, Milano, Scala, 10 marzo), Beatrice di Tenda (Bellini, Venezia, Fenice, 16 marzo), Parisina (Donizetti, Firenze, Pergola, 17 marzo) e Lucrezia Borgia (Donizetti, Milano, Scala, 26 dicembre).
48 Lʼunica, parziale eccezione è Saul, scritto per Vaccai: tuttavia questo lavoro, concepito come unʼʼazione sacraʼ da rappresentare a Napoli durante la Quaresima del 1826 e presentata come tragedia lirica a Milano tre anni dopo, ebbe una gestazione tormentata. Ad ogni modo, nel lasso di tempo in cui scrisse le sue otto “tragedie liriche” Romani produsse anche un ʼmelodramma tragicoʼ, quattro ʼmelodrammi seriʼ, undici ʼmelodrammiʼ, due ʼmelodrammi giocosiʼ, un ʼmelodramma comicoʼ, una ʼcommedia liricaʼ e unʼʼopera buffaʼ.
Giovanna d’arco al palo
lʼandamento del dramma fa dominare il cantabile alla sacerdotessa, comportando in pratica la sparizione del tempo di mezzo. Anche Beatrice di Tenda, seconda trage dia lirica scritta per Bellini, mostra una sostanziale regolarità. La struttura dei suoi pezzi devia di rado dalla forma canonica: lʼunica eccezione è il Duetto del primo atto fra Beatrice e Filippo (settenari nella seconda parte della scena e in tutto il primo tempo, nel dialogo e nel cantabile; senari in un tempo di mezzo che contiene un dialogo e alcune stanze individuali; senari doppi nella cabaletta).49
La grande importanza di Anna Bolena nella storia dellʼopera romantica e quella piú limitata di Ugo, conte di Parigi sono state dimostrate in due studi monografi ci.50 I Normanni a Parigi, tragedia lirica in quattro parti come Giovanna dʼArco, non ha finora suscitato grandi attenzioni. Essa fu la prima opera scritta da Romani per Torino, città la cui corte aveva commissionato a Mercadante le ultime intonazioni metastasiane ospitate dal suo teatro. Sei Arie e cinque Duetti suggeriscono unʼanalogia con la struttura di Norma, varata a Milano sei settimane prima; tuttavia la distribuzione rigidamente gerarchica dei numeri individuali fra i personaggi, la presenza di un ʼamorosoʼ (il giovane cavaliere francese Osvino) assegnatario di unʼAria e protagonista di tre Duetti, lʼassenza di grandi ensembles oltre lʼIntroduzione e il Finale primo e, cosa dirimente, la regolarità al limite del pedantesco di ogni pezzo rivelano la natura intimamente conservatrice di questʼopera. Il corpus drammatico mercadantiano registra altri due titoli – nessuno di essi “tragedia lirica” – fra I Normanni e Giovanna dʼArco. Opera oggi dimenticata, Ismalia (Milano, Scala, 27 ottobre 1832) ha unʼimportanza ragguardevole nella storia del tea tro musicale perché è frutto della prima incursione di due artisti italiani nel dominio dellʼopera fantastica.51 Lo iato fra lʼastrusità della trama, piena di giuramenti solenni,
49 Queste osservazioni danno fondamento alla tesi formulata in TomlINSoN, Italian Romanti cism and Italian Opera cit., pp. 52-54, a proposito del decremento del tasso di sperimentalismo nei libretti approntati per Bellini allʼindomani del progetto, anchʼesso abortito, di Ernani.
50
pHIlIp GoSSeTT, ʼAnna Bolenaʼ and the Artistic Maturitv of Gaetano Donizetti, Oxford, Clarendon Press, 1985: JoHN BlACk - AleXANder WeATHerSoN, ʼUgo, conte di Parigiʼ: Its Source and the Convenienze Teatrali which Led to Its Short Life on the Stage, [London], Donizetti Society, 1985.
51 Nella Nota introduttiva del libretto Romani afferma: «Ho voluto ridonare allʼItalia un genere di spettacolo che rapito le avevano soverchia timidezza, o lunga abitudine. Il Fausto, per tace re del Convitato di Pietra, il Bersagliere [Il franco cacciatore, NdA], Roberto il Diavolo, e tantʼaltre fantastiche produzioni Germaniche, Francesi ed Inglesi di sommo effetto in Teatro giustifi cano il mio intendimento». mICHAel WITTmANN, Meyerbeer und Mercadante? Überlegungen zur italienischen Meyerbeer-Rezeption, in Meyerbeer und das europäische Musiktheater, hrsg. v. Sieghart Döhring u. Arnold Jacobshagen, Laaber, Laaber Verlag, 1999, pp. 352-385: 360-362, cita questo passo e sottolinea che prima del 1832 né Romani né Mercadante avevano avuto modo di assistere a una rappresentazione di Robert le diable; nondimeno, lʼautore sostiene che lʼeco dellʼeccezionale successo riscosso a Parigi dallʼopera di Meyerbeer (Scribe e Delavigne, Paris, Opéra, 21 novembre 1831) potrebbe aver attirato lʼattenzione degli italiani verso il gene re fantastico (la pubblicazione da parte di Ricordi dei pezzi staccati di questʼopera avvenne fra il gennaio e il marzo del 1832).
cavalieri normanni e amanti fantasmi, e il tradizionalismo delle forme poetiche e musicali mostra la distanza del melodramma nostrano dagli orizzonti estetici del teatro europeo contemporaneo. Tutti i pezzi di Ismalia (Introduzione, Finale Primo, un Terzetto, cinque Duetti – quattro dei quali fra la protagonista e il suo amante – e solo tre Arie) mostrano una struttura regolare.52 Anche quando Romani forza gli argini consueti del suo linguaggio, per esempio nel coro di maliarde (II, VI) ispirato al Valzer delle suore in Robert le diable, Mercadante non riesce a compiere un gesto altrettanto deciso.53
Melodramma in tre atti, Il conte dʼEssex (Milano, Scala, 10 marzo 1833) presenta una drastica riduzione nel numero dei pezzi individuali. 54 Lʼunica Aria (rego lare, peraltro) è quella del personaggio eponimo; per il resto, lʼopera consta di unʼIntroduzione, tre Duetti quasi del tutto privi dei rispettivi primi tempi e due Finali, lʼultimo dei quali comincia come unʼAria della Duchessa di Nottingham, diventa un Duetto con lʼintervento del Duca, quindi un Terzetto con quello della Regina Elisabetta e infine un ensemble con lʼarrivo degli altri personaggi. Questa tendenza verso lʼagglutinazione drammatica faceva di Mercadante il compositore ideale per unʼopera basata sulla Jungfrau; di essa sʼipotizza qui una suddivisione in numeri musicali:
52 Lʼunica eccezione è la scena e sortita di Argea (I,VII), considerabile alla stregua di episodio inaugurale del Finale Primo.
53 Radicato nella tonalità di Si minore, il pezzo in 6/8 di Mercadante non denuncia lʼassimilazione degli accenti demonici che intridono gli ottonari di Romani (p. es.: «Di nuovʼesca sʼalimenti, / si nutrisca il focolare. / Agli usati incartamenti / strano inciampo insorger pare: / freddo il vase ancor non fuma, / non gorgoglia il pigro umor». Ritornello in Re maggiore: «Bolli, bolli, spuma, spuma / qual torrente in suo furor. // Vi mischiamo i tassi neri, / le cicute ed i napel li, / le verbene dei misteri. / lʼerbe colte sugli avelli, / ed i rovi in cui la schiuma / lascia il serpe insidiator. / Bolli, bolli, etc. // Aggiungiam lʼimpura bava / del mastino sitibondo: / vi stempriam la spessa lava / chʼeruttò Vulcan profondo, / il bitume che sʼalluma / e lʼasfalto incendiator. / Bolli, bolli etc.»). Neppure il passaggio nella seconda parte ai senari doppi (testo: «Ma pallida, languida, - la fiamma declina / lʼumor si congela, - lʼaltare rovina, / i filtri appre stati, - le magiche note / potere non hanno, - dʼeffetto son vuote; / incognita forza - maggio re dʼArgea / soltanto potea - glʼincanti turbar. / Del freddo sepolcro - fu vano il terrore ... / redento è lo spirto - per opra dʼamore, / siam vinte, siam vinte, - fuggiamo, fuggiamo / la nostra corriamo - vergogna a celar») riesce a introdurre novità di rilievo, tali non essendo il tempo (2/4), lʼindicazione agogica (Allegro) e il leggero incremento dinamico (crescendo).
54 Ambedue tradizionali in termini di forma, gli altri libretti preparati da Romani per la seconda parte del Carnevale 1833 sono Beatrice di Tenda e Parisina, opere andate in scena a un giorno di distanza lʼuna dallʼaltra, rispettivamente il 16 e il 17 marzo. Considerato il debutto del Con te dʼEssex il 10, tre nuove opere su libretto di Romani apparvero nel giro di una settimana in altrettante importanti città italiane (Milano, Venezia e Firenze).
pArTe I
1. Introduzione
1. Scena e Cavatina (Agnese)
3. Finale Primo
pArTe II
4. Scena e Cavatina con cori (Leonello)
5. Aria (Isabella)
6. Scena e Duetto (Giovanna - Leonello)
7. Coro (Soldati francesi)
8. Scena e Aria (Giovanna) (+)
9. Finale Secondo
pArTe III
10. Duettino con coro (Dunois – La Hire)
11. Scena e Duettino (Giovanna - Agnese)
12. Aria con cori (Agnese)
13. Aria con coro (Carlo) (+)
14. Coro (+)
15. Finale Terzo
pArTe IV
16. Gran Scena e Aria (Leonello)
17. Scena e Duetto (Leonello - Giovanna)
18. Scena e Preghiera (Giovanna) (+)
19. Aria Rondò (Giovanna)
La presenza di due grandi ensembles (3, Finale Primo, de facto unʼAria di Giovanna con pertichini in occasione dellʼautopresentazione a Chinon; 15, Finale Terzo, il giudizio pubblico dinanzi alla cattedrale di Reims), in aggiunta allʼIntroduzione (1) e al vasto Finale Secondo (9), è il primo indizio utile per valutare la distanza della tragedia lirica progettata per Venezia (Giovanna) da quella composta a suon di Arie e di Duetti lʼanno prima per Torino (I Normanni). La Pulzella è anche protagonista del Finale Ultimo (19, sua Aria-Rondò) e di tutti i Duetti (6, 11, 17, due con Leonello e uno con Agnese) salvo quello fra Dunois e La Hire allʼinizio della Parte III.
Venendo ai numeri individuali, Giovanna è assegnataria di due Arie, una con pertichini inserita nel Finale Primo (3) e una nella Parte II (8); inoltre, è la protagonista assoluta dellʼultima Parte in cui, dopo il secondo Duetto con Leonello (17), intona
la Preghiera (18) e il Rondò conclusivo (19). Leonello e Agnese hanno due numeri individuali ciascuno (4 e 16; 2 e 12); i due di Carlo corrispondono ai suoi discorsi, uno allʼinizio (episodio interno allʼIntroduzione, 1) e uno al centro dellʼopera, (13); Isabella ne ha invece solo uno (5), e i cavalieri francesi nessuno.
Sorprendentemente, forse, il Duetto piú tradizionale è quello di amore e morte (6). Leonello vi esordisce intonando un buon numero di versi eroici; la scena succes siva con la Pulzella prosegue in ottonari sul dialogo che costituisce il primo tempo. Il cantabile assegna a ciascun contendente una quartina di settenari da cantare da sé. Il tempo di mezzo conserva lo stesso metro e culmina con lo scambio di battute «Ti rivedrò?» – «Mai piú!» su cui scatta, ancora in settenari, la cabaletta.
Il Duettino fra i cavalieri (10) è unʼalternativa raffinata al coro che lʼuso vorrebbe collocato allʼinizio della Parte III. Il Duetto fra le due donne (11) comincia invece con un lungo dialogo seguito dal primo tempo, anchʼesso in ottonari coi personaggi che cantano a turno; dopodiché il pezzo si chiude con una breve cabaletta a due nello stesso metro. Dopo il «breve silenzio» prescritto dalla didascalia si assiste al ritorno allo stile recitativo. Lasciata sola, Agnese canta unʼAria (12) di struttura ordinaria, con un primo tempo in ottonari («Qual favella... Io temo, io gelo»), un intervento corale nel tempo di mezzo («Vieni, te sola attende», settenari) e una cabaletta nello stesso metro («Ella?... Che deggʼio credere?»).
Il secondo Duetto fra Giovanna e Leonello (17) è molto piú interessante. Esso inaugura la serie di tre pezzi che formano il Finale Ultimo. La lunga scena, il primo tempo e il cantabile a due hanno un profilo tradizionale. Il tempo di mezzo include lʼaspro confronto fra i contendenti. Nel successivo passaggio in recitativo Isabella canta in dialogo con Leonello e chiede a un soldato di vedetta sulla torre di descri verle le fasi iniziali della battaglia. Giovanna è impaziente di svincolarsi, trovare una spada e correre al campo. Palesati i suoi sentimenti, la Pulzella comincia una Preghiera in due stanze (18, cantabile I, ottonari, e cantabile II, decasillabi). Appena intuisce lʼavvenuta cattura di Carlo VII Giovanna spezza le catene che la imprigio nano e sʼinvola furibonda. Fungendo da tempo di mezzo, il miracolo fa scattare la cabaletta in ottonari cantata dalla regina. Impegnata in battaglia durante lʼesibizione vocale di Isabella, la Pulzella rientra solo piú tardi, ferita a morte (19, Scena Ultima).
La fedeltà a Schiller può certo essere stata il principio-guida di Romani; nondi meno lʼassegnazione del ruolo di Giovanna a un musico ebbe unʼinfluenza decisiva sulla strutturazione del testo. In un Duetto destinato a voci a distanza dʼottava (p. es. soprano e tenore) il testo della cabaletta prevede a un dato punto un avvicen damento delle voci o un loro appaiamento privo di ripercussioni sul profilo armo nico. Al contrario, due voci non a distanza dʼottava (in Giovanna dʼArco: Giovanna, mezzosoprano, e Agnese, soprano; Giovanna, mezzosoprano, e Leonello, tenore) costringono librettisti e compositori a cercare soluzioni diverse dalla classica caba letta a due o dallʼintonazione parallela di stanze individuali: i due cantanti possono combinare i loro versi o continuare a interagire anche dopo il tempo di mezzo.
Lʼunico numero in cui Romani obbliga il compositore ad affrontare questo pro
Giovanna d’arco al palo
blema è il Duetto di amore e morte (6), pezzo impossibile da concludere senza una cabaletta a due. Questa sarebbe stata, fra lʼaltro, lʼunica occasione in cui la Grisi avrebbe dovuto forzare la voce cantando nel registro superiore; e questo avrebbe potuto essere, insieme alle tre sere di riposo a settimana, uno dei vantaggi dellʼofferta di Lanari.
La Pulzella debutta con unʼAria che lascia spazio ai pertichini in quello che è di fatto il Finale Primo (3). Giovanna appare fin dal suo esordio come il perno dellʼopera: tutti gli ensembles gravitano intorno a lei, e anche i suoi numeri indivi duali si dimostrano affollati. Lʼunico suo numero virtualmente solistico si trova dopo il duello (8).55 Deplorata lʼinfrazione del voto (recitativo accompagnato), la Pulzella si produce in unʼinterrogazione a distanza della campagna natia (cantabile I).56 La replica inattesa degli spiriti (seconda quartina del cantabile I e unica quartina del cantabile II) causa lo svenimento di Giovanna e il collasso della struttura formale del numero: anche se la Pulzella rinviene durante la Stretta (coro, senari), lʼonore e lʼonere della cabaletta le sono preclusi. Infatti, il pezzo fa parte del Finale secondo (9), introdotto dal grido del Coro su cui irrompono Carlo, Dunois, Agnese e La Hire. Il primo numero di Leonello (4) ha una struttura regolare e versi progressi vamente piú brevi: Coro, «Oh! nel campo felici gli estinti», decasillabi; Leonello, primo tempo, «Voi piangete!... ah! questa, amici», ottonari; tempo di mezzo, breve episodio orchestrale; cabaletta con cori, «Queste, o guerrier, si sprezzino», settenari. Anche la Gran Scena (16) ha una struttura regolare, con una Cavatina in ottonari («Perché mai serbarmi in vita»), un recitativo sfociante in un Coro nello stesso metro («È caduta la tremenda»), e un altro recitativo che conduce al cantabile in settenari («Scostati: è mio lʼesercito»). Una breve preparazione (tempo di mezzo) introduce la cabaletta in ottonari, probabilmente destinata a unʼintonazione in due parti contrastanti («La donzella affido a voi»).
Carlo è assegnatario di due numeri leggermente irregolari. Il primo è compreso nellʼIntroduzione (1), mentre il secondo è un pezzo indipendente (13). Struttural mente, questʼultimo mostra un cantabile basato su una sestina di settenari e una cabaletta intessuta su due terzine di quinari doppi.
Agnese e Isabella sono assegnatarie di tre numeri in totale (Agnese, 2 e 12; Isabella, 5). Lʼamante del re esordisce in una Cavatina (2) che ha luogo subito dopo il
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Lʼaltro pezzo solistico di Giovanna è la Scena Finale (19), un dialogo doloroso con gli attoniti compagni dʼarme concluso da due quartine di settenari.
Le due quartine cantate da Giovanna e dagli spiriti sono formate da versi in metro leggermen te ma non trascurabilmente diverso: un settenario piano, due settenari tronchi rimanti e un quinario. Il Tancredi di Rossini contiene un possible antecedente di questo numero ʼin ecoʼ, il Recitativo e Cavatina del protagonista scritti per Adelaide Malanotte («O sospirato lido!... Dolci dʼamor parole»), pubblicato come Appendice II nellʼedizione critica dellʼopera, a cura di Philip Gossett (Pesaro, Fondazione Rossini, 1984): Tancredi: «Dolci dʼamor parole, / io vi rammento ancor: / non sa smarrito il cor / se teme o spera», Eco: «Spera». Tancredi: «Eco, che a me rispondi, / parlami, per pietà. / Dimmi se ancor sarà / fedel comʼera» Eco: «Era».
sacrificio dei gioielli. Commosso (la donazione consente di ricompensare i neghittosi soldati scozzesi), Carlo interviene nel tempo di mezzo insieme a Dunois e al Coro; Agnese replica in una quartina di ottonari per poi passare ai quinari sdruccioli nella cabaletta.57
Il pezzo di Isabella è piú irregolare (5). La regina invoca le Furie (ottonari) dopo un violento alterco con Leonello; quindi viene sconvolta dallʼannuncio dellʼirruzione imminente della Pulzella. Prima di scappare Isabella canta unʼaltra quartina, sempre nello stesso metro. A parte il dialogo iniziale con Leonello, il numero della regina è però troppo breve (tre quartine in totale, la seconda insieme al Coro) e semanti camente unitario per autorizzare il riconoscimento di sezioni distinte.
Per concludere, Romani redasse un libretto le cui unità offrivano a Mercadante svariate opportunità di trattamento drammatico. Lʼequilibrio rispetto alle pure occasioni liriche è perfetto, ed è ugualmente accurata la plasmazione di forme congeniali allo stile del compositore. Dopo il canonico compimento dei Normanni, lʼesperimento fallito di Ismalia e il varo del meno ardito Conte dʼEssex, la nuova tragedia lirica offriva a Mercadante unʼoccasione irripetibile per dar prova del suo talento drammatico. A dispetto del desiderio di intonarla, il compositore non riuscí a leggerne un solo verso, perché sulla sponda sabauda del Ticino Giovanna dʼArco non approdò mai.
10. Emma dʼAntiochia
Il successo di Lucrezia Borgia arrivò due mesi e mezzo dopo la sostituzione di Gio vanna dʼArco con Emma dʼAntiochia. Allʼinizio di gennaio Avesani martellava ancora Romani con insistenti richieste di consegna perché Mercadante, a Venezia dal giorno 2, aveva un bisogno impellente dei versi. Irritato, il librettista replicò: «V.S. Ill. ma saprà che al tempo voluto dalla mia scrittura aveva io presentato al sig. Rossi un libro da me composto a tenore della medesima per le sig.re Grisi e Balfe, e che non era piú tenuto a farne un altro per le signore Pasta e Tadolini. Esigo pertanto che lʼimpresa mi paghi e questo e quel libro».58 Col manoscritto di Emma dʼAntiochia sul tavolo, Avesani rispose il 26:
Devo esprimerLe la mia grande soddisfazione per la bella condotta, per le situazioni eminentemente drammatiche e i bei versi del Suo melodramma, che certamente sarà riguardato come uno dei Suoi capi dʼopera. lo spero che le ispirazioni, che il Maestro deve ricevere da questa bella poesia lo compenseranno del tempo perduto. Io mʼinteresserò con tutto il piacere presso lʼImpresa onde farLe
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Il secondo pezzo di Agnese (12) è stato già descritto in quanto numero che vien dietro al Duet tino con Giovanna.
Romani ad Avesani, Milano, fra il 7 e il 19 gennaio 1834, I-VT (datazione proposta in roCCA TAGlIATI, Felice Romani cit., doc. n. 105).
Giovanna d’arco al palo
ottenere un compenso per lʼaltro libretto da Lei scritto dietro le sollecitazioni del Rossi, e poi dal Rossi ricusato.59
Il tono pacato lascia intendere che il pagamento dei due libretti era un obiettivo alla portata del Presidente, il cui umore aveva tratto benefici evidenti dalla fine della vicenda di Giovanna dʼArco. Incentrata su una storia dʼamore e scevra dʼimplicazioni patriottiche, Emma dʼAntiochia è unʼopera politicamente neutra.60 Meno di un anno dopo la repressione dei moti mazziniani, eventi i cui effetti furono avvertiti in maniera speciale nei territori soggetti al controllo austriaco, il mancato approdo di Giovanna dʼArco alla Fenice non fu rimpianto. Non è facile resistere alla tentazione di considerare il rifiuto opposto nel 1828 al coreodramma di Ferrario e Viganò alla stregua di un precedente istruttivo: se la Pulzella non aveva incontrato favori prima dellʼondata rivoluzionaria, difficilmente ne avrebbe potuto riscuotere a pochi mesi dallʼannegamento nel sangue delle istanze patriottiche.
11. Meyerbeer?
«Vous avez bien fait de refuser de composer un opéra pour le théatre de la Scala, finissez celui qui vous avez commencé et qui toute la France attend avec une si vive
59 Avesani a Romani, Venezia, 26 gennaio 1834, minuta in I-VT, ʼSpettacoli 1833-35ʼ, in roCCATA GlIATI, Felice Romani cit., doc. n. 107.
60 Figlia di Corrado di Monferrato, conte di Tiro, e moglie di suo nipote Ruggiero, Adelia sospet ta che questi abbia cessato di amarla. Lei sa che prima del matrimonio lui ha avuto una rela zione che non ha mai dimenticato. Vedovo da tempo, Corrado torna dalle Crociate insieme a una donna che ha intenzione di sposare: Emma. Appena questa mette piede a corte incontra il suo antico amante. Ruggiero intende avere un ultimo incontro con lei e quindi fuggire. La cerimonia nuziale comincia subito dopo il convegno segreto. Allʼinizio del secondo atto Ala dino, schiavo musulmano di Emma, annuncia lʼavvenuta celebrazione del rito. Emma è agi tata: Ruggiero, prossimo alla partenza, la invita a fuggire con lui. Prigioniera delle sue braccia, Emma sta per decidersi quando irrompe Corrado. Disperata, Adelia invoca la morte. Terzo atto: Corrado entra nella cella in cui è rinchiuso il nipote determinato ad ucciderlo se lui rifiuta di partire per lʼesilio. Ruggiero accetta la proposta dello zio. Rimasta sola con Aladino, Emma gli chiede il veleno, quindi canta il suo addio al mondo e assume la pozione. Dopo un palpitante Duetto con Adelia Emma muore prima della rivale, del mancato marito e dellʼantico amante. La recensione apparsa sulla «Gazzetta di Venezia» (loCATellI, cit., II, pp. 333-334) giustifica il modesto successo di Emma con queste parole: «Ci si vede insomma lʼinfluenza del male che pose a repentaglio i giorni del Maestro quando già stava scrivendo; la Pasta non stava bene, etc.» Nessun altro indizio di una grave infermità di Mercadante emerge dai docu menti; probabilmente, si trattava di una delle solite voci che venivano messe in circolazione quando sul teatro si addensavano nubi. Cfr. la lettera scritta dal compositore a Francesco Florimo il 25 febbraio 1834, pubblicata in SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia. Epistolario, Fasano, Schena [1985], p. 133: «La mia salute è del tutto buona. Il giorno 8 marzo vado in scena con la mia nuova opera Emma dʼAntiochia: si spera bene. Vedremo».
impatience».61 Quando ricevette queste righe dal suo agente parigino, Meyerbeer era a Nizza. Il primo motivo che lo aveva spinto a sud era la necessità di trovare un luogo climaticamente favorevole alla salute di sua moglie; il secondo era il desiderio di mettere un poʼ di miglia fra sé e lʼOpéra, istituzione che aveva appena finito di indennizzare con 30.000 franchi per la mancata consegna degli Ugonotti. I guai fisici di Minna non erano parsi al sovrintendente Louis Véron un motivo valido affinché il compositore si esimesse dal rispettare le scadenze. Scottato, sulle prime Meyerbeer valutò lʼopportunità di ritirare il lavoro dallʼOpéra e di adattarlo per lʼOpéra-Comique, ma poi decise di aspettare e partí.
La lettera di Gouin è la replica a una scritta dal compositore il 5 novembre da Genova, durante una sosta nel viaggio verso la Costa Azzurra. In Liguria i Meyer beer erano arrivati da Milano, città in cui avevano soggiornato per una settimana.62 Subito dopo lʼarrivo in città, il 30 ottobre a tarda ora, Giacomo aveva annotato nel taccuino le seguenti parole: ʼʼDas Buch von // furioso. Tosi - Artaria - BasilyRicordi - Lichtenthal - Cernuschi — Mozart.63 Malgrado o forse grazie al loro stile telegrafico, questi appunti dànno unʼidea dellʼimmediata presa di contatto da parte di Meyerbeer con lʼambiente musicale della città. Il libretto era quello dellʼopera che stava facendo la fortuna di Donizetti; i singoli nomi sono quelli di due editori, del vicedirettore del Conservatorio, del correspondente locale dellʼAllgemeine musika lische Zeitung e dellʼagente milanese di Meyerbeer. La presenza di quelli di Mozart e Tosi è un poʼ meno chiara: il primo potrebbe essere quello di uno dei due figli di Wolfgang, Carl Thomas, residente a Milano da piú di un quarto di secolo; lʼaltro potrebbe identificare Adelaide, prima interprete della Pulzella nellʼopera di Vaccai e protagonista dellʼultimo Carnevale scaligero.
In questa occasione giunse lʼofferta che secondo Gouin Meyerbeer aveva fatto bene a declinare: «Opernbücher von Romani und andern».64 La concisione dellʼappunto impedisce di identificare con sicurezza i soggetti proposti, ma sollecita una ricerca per esclusione. A parte Romani, occupato da Lucrezia e da Emma, i librettisti delle opere nuove rappresentate alla Scala nel 1834-35 sono Jacopo Ferretti, Emanuele Bidera e Gaetano Rossi. Autore del Furioso, il primo avrebbe fornito di lí a poco a Lauro Rossi il libretto per La casa disabitata, unʼopera comica destinata a esordire il 16 agosto 1834; il secondo avrebbe fatto altrettanto per Donizetti con Gemma di Vergy,
61 Louis Gouin a Giacomo Meyerbeer, Parigi, 14 novembre 1833, in Giacomo Meyerbeer, Briefwechsel und Tagebücher, hrsg. v. Heinz Becker, Berlin, de Gruyter, 1960, 2, p. 349.
62 Il calendario tascabile di Giacomo (Taschenkalender) consente di ricostruire lʼitinerario del viaggio sin dalla partenza il primo ottobre da Parigi: Baden, Karlsruhe (presenza in teatro in occasione di un allestimento di Robert le diable), Basilea, Losanna, Martigny, Briga, Sempione, Domodossola.
63 Meyerbeer, Taschenkalender, 30 ottobre 1833, in Briefwechsel cit., 2, p. 343.
64 Ibidem.
Giovanna d’arco al palo
opera inaugurale del Carnevale 1835;65 il terzo lo stesso per Luigi Ricci con Chiara di Montalbano, destinata al debutto il 15 agosto. É difficile credere che lʼautore del Crociato in Egitto potesse considerare lʼopportunità di comporre unʼopera comica per la successiva stagione dʼautunno; a prima vista, lʼidea di inaugurare il Carnevale scaligero del 1835 può apparire verosimile, ma non per un uomo nella condizione professionale e privata di Meyerbeer; è infine da escludersi lʼeventualità che questi meditasse di intonare un libretto di Gaetano Rossi senza un contatto preliminare con lʼamico di una vita. Sebbene il nome di questo compaia nellʼappunto successivo, è difficile pensare che Meyerbeer avrebbe assimilato Rossi agli “altri” distinti da Romani.66 In ogni caso, la menzione esplicita del frustratissimo autore di Giovanna dʼArco induce a considerare la sua produzione per prima.
Lucrezia era assegnata a Donizetti sin da principio, Emma era ancora a uno stadio larvale e Saffo era già stata abbandonata da un pezzo. Tenendo presenti le abitudini lavorative di Romani, sembra improbabile che il libretto della Gioventú di Enrico V, il melodramma che Mercadante avrebbe presentato alla Scala nellʼautunno successivo, fosse stato approntato con tredici mesi dʼanticipo. E comunque, Romani avrebbe fornito a Mercadante un altro libretto nel frattempo.67 Infine, un interesse di Meyerbeer per Unʼavventura di Scaramuccia, lʼopera comica allora in corso di stesura per Luigi Ricci, sembra improbabile.68
Il 22 ottobre, otto giorni prima dellʼarrivo di Meyerbeer, Romani aveva chiesto lumi ad Avesani sulle voci relative ai cambiamenti nella compagnia fenicea e il 26 aveva avuto conferma che la disponibilità della Grisi era una fantasia di Rossi. I quesiti a questo punto sono quattro: 1) con la lettera di Avesani posata accanto al manoscritto ricusato, non sarebbe venuto bene a chiunque proporre Giovanna dʼArco alla Scala? 2) La vasta reputazione di Meyerbeer e la sua condizione di ebreo tedesco sarebbero parsi elementi sufficienti, ai censori asburgici, per mettere da parte le riserve sul contenuto patriottico della tragedia? 3) Poteva il teatro che aveva tenuto a battesimo fra i tumulti di marzo 1821 il coreodramma omonimo di Fer rario e Viganò fare lo stesso con una Giovanna firmata da Meyerbeer a pochi mesi
65 La scelta di Bidera in quanto librettista di Gemma di Vergy non era ancora stata compiuta nellʼottobre del 1833. La sua paternità del libretto di unʼopera per Milano fu conseguenza delle successive trattative di Donizetti col San Carlo, il teatro per cui Bidera lavorava, cfr. WIllIAm ASHBrook, Donizetti and His Operas, Cambridge / Mass., Cambridge University Press, 1982, p. 88; trad. it. di Fulvio Lo Presti col tit. Donizetti, 2 voll., Torino, edT, 1986-87, 1: La vita, p. 80.
66 Meyerbeer, Taschenkalender, 31 ottobre 1833, in Briefwechsel cit., 2, p. 343: «Wann Diligenza von Verona kommt und abgeht. An Rossi». Assente nel carteggio pubblicato, la lettera a Ros si a cui accenna lʼappunto potrebbe avere contenuto la richiesta dʼaiuto per la revisione del testo degli Ugonotti, un lavoro a cui i due attesero nella primavera successiva.
67 Quello di Uggero il Danese (Bergamo, Riccardi, 11 agosto 1834).
68 Milano, Scala, 8 marzo 1834.
dalla repressione dei moti? E infine, 4) come avrebbe accolto, Meyerbeer, lʼinvito a intonare il libretto di Romani?
12. The Unanswerable Question
Allʼultima domanda è impossibile rispondere. I documenti mostrano che lʼunico scrupolo professionale di Meyerbeer era il rapido completamento degli Ugonotti. Prima veniva però la salute di Minna: allʼinizio di novembre, infatti, i Meyerbeer svernarono a Nizza. Giacomo tornò a Milano solo nella seconda settimana di marzo ma proseguí subito per Verona, appunto per lavorare con Gaetano Rossi al libretto degli Ugonotti; poi tornò a Milano, da dove ripartí qualche giorno dopo in direzione dei Ducati.69 Il 25 aprile Giacomo informò da Modena la moglie dellʼesibizione della Malibran, ammirata a Piacenza nei panni di Norma. Il suo interesse per la cantante e per lʼopera era tale che egli non solo assistette alle recite successive della Malibran a Modena e a Bologna, ma andò pure a Firenze ad ascoltare il capolavoro belliniano interpretato da Giuseppina Ronzi de Begnis, e Parisina di Donizetti con Caroline Unger protagonista. Quando tornò a Milano, allʼinizio di maggio, Minna non aveva ancora recuperato; inoltre, la sua depressione era stata aggravata dalla morte improvvisa del padre.
I Meyerbeer soggiornarono a Milano altre due settimane. Prima di lasciare lʼItalia, Giacomo ricevette da uno sconosciuto autore viennese il libretto per unʼopera di soggetto sovrannaturale. Nella sua risposta egli lodò il suo interlocutore per la scelta dellʼargomento e per la qualità dei versi, ma
Allein ich habe eben in Robert auch einen phantastischen Stoff (freilich in cinem anderen Genre) behandelt. Eine der beiden neuen Opern welche ich jetzt für Paris komponire, hat ebenfalls einen phantastischen Stoff, und so gestehe ich, daß ich unmittelbar nachher nicht wieder einen phantastischen Stoff komponiren mögte. Wenn ich, namentlich für Deutschland eine Oper komponiren sollte, (welches natürlich aber nicht früher geschehen kann bis ich diese beiden jetzt unter Handen habenden Französischen Opern beendiget und zur Aufführung gebracht habe) so wünschte ich einen ächt deutschen, und womöglich volksthümlichen Stoff zu komponiren.70
69
La corrispondenza registra un vuoto fra il 13 marzo (lettera di Meyerbeer da Milano al conte Moritz von Dietrichstein a Vienna) e il 21 aprile (lettera di Gouin da Parigi, spedita allʼindirizzo di Meyerbeer a Milano). Questa circostanza induce a ritenere che il soggiorno di Meyerbeer a casa Rossi sia durato allʼincirca un mese, da metà marzo a metà aprile.
70 Meyerbeer a un destinatario viennese sconosciuto, Milano, 14 maggio 1834, in Briefwechsel cit., 2, pp. 374-375. I lavori a cui Meyerbeer allude sono gli Ugonotti e probabilmente Le porte faix, unʼopera su libretto di Scribe cominciata nel 1831 e mai completata.
Giovanna d’arco al palo
Nel futuro Meyerbeer appare deciso a lavorare su temi storici, possibilmente popolari e autenticamente nazionali: non avesse avuto due opere francesi da con cludere, avrebbe accettato di comporre Giovanna dʼArco?71 Un capolavoro nel suo genere, la tragedia di Romani era lirica in termini di stile e storica in termini di contenuto: la traduzione di Maffei aveva accresciuto considerevolmente la popola rità della Jungfrau;72 tedesco al pari di Schiller, Meyerbeer era soprattutto ebreo, e unʼopera di soggetto francese come Giovanna dʼArco avrebbe dovuto debuttare sul palcoscenico di una città italiana soggetta al dominio austriaco. Per quanto si trat tasse della Scala, lʼoperazione era rischiosa: inoltre, le opere per Parigi premevano, e la salute di Minna continuava a preoccupare. Meglio lasciar perdere.
Di lí a poco la carriera di Romani subí una svolta: nel gennaio del 1834 divenne redattore del «Corriere delle Dame» e nel febbraio dello stesso anno alcuni emissari di Carlo Alberto gli offersero lʼopportunità di dirigere la «Gazzetta Piemontese». Sciolte a fine giugno le riserve, il 30 luglio Romani si recò a Torino per ufficializ zare il suo incarico; a metà ottobre si stabilí definitivamente ai piedi delle Alpi e il 3 novembre firmò il suo primo numero. Quando La gioventú di Enrico V debuttò il 25, lʼunico autore presente alla Scala era Mercadante. La collaborazione con Romani, tuttavia, non era finita: ritrovandosi entrambi sudditi di Carlo Alberto, era naturale che poeta-direttore e maestro di cappella destinassero a Torino il loro primo lavoro nuovo. Romani aveva pronta Giovanna dʼArco, ma sapeva che essa non avrebbe entusiasmato un ambiente dichiaratamente ostile ai soggetti patriottici. Astrale, la distanza che separa Giovanna dʼArco da Francesca Donato – lʼopera mandata in scena dai due al Teatro Regio – riesce quindi comprensibile. Logica, forse.
71 Entrambi su libretti di Romani, i due precedenti lavori di Meyerbeer per la Scala erano stati Margherita dʼAnjou (14 novembre 1820) e Lʼesule di Granata (12 marzo 1821: le recite di questʼopera furono associate in piú occasioni a quelle del balletto Giovanna dʼArco di Viganò).
72 La graduale pubblicazione da parte di Maffei di traduzioni schilleriane nel corso degli anni Trenta consentí agli italiani di discutere con maggiore cognizione di causa del grande poeta tedesco. Su questo argomento di veda lʼarticolo Sul dramma storico, pubblicato da Mazzini in due puntate sullʼ«Antologia» fiorentina (XXXIX, 1830, pp. 37-53 e XlII, 1831, pp. 26-55; in GIuSeppe mAZZINI, Scritti. Edizione Nazionale, Imola, Galeati, 94 + 6 voll., 1905-47, 1, 1906, pp. 253-329).
Ernesto Pulignano
Forme drammatico-musicali e forme melodiche nelle «opere della riforma»1
Attivo sul panorama operistico italiano per una quarantina dʼanni, Giuseppe Saverio Mercadante godette in vita di successo e notorietà; ma da piú di centʼanni, se si escludono repliche o riesumazioni sporadiche, è di fatto assente dai cartelloni delle principali stagioni operistiche. Il declino, cominciato attorno al 1860 e prose guito inesorabilmente negli anni successivi, è legato solo in parte al contemporaneo affermarsi di Verdi sulla scena operistica internazionale; già nel periodo di maggiore popolarità – quando, tra il terzo e quarto decennio dellʼOttocento, era diventato un compositore di cartello grazie a titoli come I Normanni a Parigi, Il giuramento, Il bravo e La vestale – i suoi lavori non godettero di fortuna durevole: nei cartelloni delle stagioni operistiche, infatti, il nome di Mercadante compariva soprattutto accanto ai suoi titoli nuovi, mentre con minor frequenza venivano riproposti lavori già rappresentati. In altre parole, nessuna sua opera conquistò mai un posto fisso nel “repertorio”: ciò lo ha condannato allʼoblio. La produzione operistica di Mercadante copre un periodo che va dal 1819 al 1866, e annovera lavori di genere serio (44), comico (6) e semiserio (7).2 La studiosa Karen Bryan indentifica tre periodi distinti per stile compositivo.3
1. gli esordi napoletani fino al ritorno da Spagna e Portogallo nel 1830, in cui è piú manifesta lʼinfluenza dello stile rossiniano;
2. la maturità artistica, che comprende i capolavori del cosiddetto “periodo della
1 Questo contributo riprende e integra alcune parti della mia monografia «Il giuramento» di Rossi e Mercadante, Torino, edT, 2007.
2 Cfr. le ʼvociʼ di mICHAel roSe per The New Grove Dictionary of Opera, ed. by Stanley Sadie, London, Macmillan, 1992, III, pp. 334-339 e di mICHAel WITTmANN per The New Grove Dictio nary of Music and Musicians, ed. by Stanley Sadie, London, Macmillan, 2001, XVI, pp. 438-448.
3 Cfr. kAreN m. BryAN, An Experiment in Form. The Reform Operas of Saverio Mercadante (17951870), Ann Arbor, umI, 1994, pp. 31-48.
riforma”; 3. la parabola discendente, nella quale prevalgono riprese di soggetti già intonati da altri compositori (come La Vestale, Gli Orazi ed i Curiazi, Medea in Corinto).
Il generale mutamento del gusto avvenuto attorno al 1830 indusse Mercadante a sperimentare nuove strade e a percorrere un processo di profondo rinnovamento del proprio stile operistico. In una nota lettera a Francesco Florimo, il 1° gennaio 1838 Mercadante cosí descriveva la sua nuova opera Elena da Feltre, tracciando, in modo discorsivo piuttosto che programmatico, i princípi di una sua “riforma” operistica:
Ho continuata la rivoluzione principiata nel Giuramento: variate le forme – Bando alle Gabalette triviali, esilio aʼ crescendo. Tessitura corta: meno repliche – Qualche novità nelle cadenze – Curata la parte drammatica: lʼorchestra ricca, senza coprire il canto – Tolti i lunghi assoli neʼ pezii concertati, che obbligavano le altre parti ad essere fredde, a danno dellʼazione – Poca gran cassa, e pochissima banda […]4
Si tratta di unʼideale prosecuzione di quanto aveva già confidato pochi mesi prima al medesimo interlocutore:
Non avrei mai creduto che prima di morire potessi avere alla Scala unʼesito piú brillante ancora dellʼElisa e Claudio, pure ciò successe con il Giuramento. Come a ciò ha molto contribuito lʼavere pratticato i consigli che mi dasti quando dovea comporre il Marco Visconti, pezzi brevi, tessitura diversa, qualche stravaganza che rompe il solito andamento e cet. La robbustezza deʼ pezzi concertati e dellʼIstrumentazione ha purʼanco contribuito.5
Mercadante stava dunque sperimentando un rinnovamento del proprio stile compositivo – ispirato a suo dire da Florimo – che denota la sua volontà di allon tanarsi, per quanto possibile, dai modelli convenzionali a tutto vantaggio di una maggiore essenzialità: novità, varietà, maggior cura dellʼazione drammatica, ridi mensionamento degli effetti musicali gratuiti sono i capisaldi di una personale “rivoluzione stilistica” che, innestandosi su quanto già Donizetti andava speri mentando in quegli anni, lascia presagire Verdi. Cominciata con Il giuramento, o forse già con I briganti, sarebbe proseguita nei lavori successivi: Le due illustri rivali (1838); Elena da Feltre (1838); Il bravo (1839); La vestale (1840), le cosiddette “opere della riforma”.
In cosa consiste la tentata “riforma” di Mercadante? quali sono le caratteristiche delle opere del reform period? La letteratura critica – nientʼaffatto cospicua per la
4
SANTo
5 Ivi, p. 172, lettera del 15-20 aprile 1837.
verità6 – ha cercato di definirne le caratteristiche salienti, cominciando proprio dalle indicazioni disseminate da Mercadante nel suo carteggio.
Roland Jackson ha osservato che con il termine ʼformeʼ, Mercadante non intende tipi di numeri – cioè la combinazione di arie, duetti, pezzi dʼinsieme e cori – ma si riferisce piuttosto a deviazioni dal normale modello formale; a riprova egli confronta Il giuramento con lʼopera immediatamente precedente, I briganti – che considera lʼultima nel vecchio stile – e conclude che «lʼunica differenza consiste nellʼesserci, nellʼopera piú recente, due cori in meno, e al loro posto lʼintroduzione di due pezzi dʼinsieme».7 Questo il confronto tra le due opere, cosí comʼè riportato nel saggio di Jackson:
tipi di numeri I briganti Il giuramento arie 5 6 duetti 2 2 (trio, quartetto) pezzi dʼinsieme 0 2 cori 5 3 scena di “preghiera” 1 1
Piú interessanti le argomentazioni di Michael Wittmann: in un successivo con tributo dedicato alla recezione dei modelli del grand opéra da parte del compositore
6 Questi i contributi piú rilevanti sullʼargomento apparsi negli ultimi quarantʼanni (del lavoro di Bryan sʼè detto alla nota 2): GIoVANNI CArlI BAllolA, Incontro con Mercadante, «Chigiana» XXVI XXVII, 1969-70, pp. 465-500; Id., Mercadante e «Il bravo», in Il melodramma italiano dellʼOttocento. Studi e ricerche per Massimo Mila, Torino, Einaudi, 1977, pp. 365-401; pIero mIolI, Tradizione melodrammatica e crisi di forma nelle «Due illustri rivali» di Saverio Merca dante, «Studi musicali» IX/2, 1980, pp. 317-328; rolANd JACkSoN, Mercadanteʼs résumé of opera reform, in Ars musica, musica scientia, Festschrift Heinrich Hüschen zum fünfundsechzigsten Geburstag am 2 März 1980, a cura di Detref Altemburg, Köln, Gitarre und Laute, 1980, pp. 271276; kAreN m. BryAN, Mercadante Experiment in Form: the Cabalettas of «Elena da Feltre», «Donizetti Society Journal» VI, 1988, pp. 37-56; reIN A. ZoNderGeld, Die Wüste des dunklen Lebens: Saverio Mercadante und seine Reformopern, «Neue Zeitschrift für Musik» Cl/9, 1989, pp. 10-15; mICHAel WITTmANN, Meyerbeer and Mercadante? The Reception of Meyerbeer in Italy, «Cambridge Opera Journal» V/2, 1993, pp. 115-132 (riv. e ampl. in Meyerbeer und Mercadante? Überlegungen zur italienischen Meyerbeer-Rezeption, in Meyerbeer und das europäische Musik theater, a cura di Arnold Jacobshagen e Sieghart Dohring, Laaber, Laaber-Verlag 1998, pp. 352-85); rISI ClemeNS, Der funktionale Einsatz konventionalisierter Formen bei Saverio Mercadante am Beispiel von “cantabile” und “cabaletta”, in Musikkonzepte - Konzepte der Musikwis senschaft. Bericht über den Internationalen Kongreß der Gesellschaft für Musikforschung, Halle (Saale) 1998, a cura di Kathrin Eberl e Wolfgang Ruf, Kassel, Bärenreiter 2000, pp. 472-480; Id., Auf dem Weg zu einem italienischen Musikdrama. Konzeption, Inszenierung und Rezeption des melodramma vor 1850 bei Saverio Mercadante und Giovanni Pacini, Tutzing, Schneider, 2004. 7 cfr. JACkSoN, Mercadanteʼs résumé cit., p. 272.
altamurano,8 egli evidenzia lʼoriginalità del suo percorso riformatore, rilevando lʼinfluenza chʼegli ebbe sugli altri compositori dʼopera nel processo di disgregazione delle forme tradizionali; e osservando come le “opere della riforma” costituiscano una fase indipendente nello sviluppo del melodramma italiano, connessa margi nalmente con lʼopera francese, e allo stesso tempo distinta tanto dal menú corrente dei teatri italiani degli anni ʼ30 quanto dal prototipo del grand opéra coevo.
Tra le innovazioni contenute nelle “opere della riforma” Jackson individua lʼimpiego di temi ricorrenti – nellʼIntroduzione del Giuramento «il ʼcanto sicilianoʼ dellʼouverture riappare nel coro di apertura e piú tardi nel corso del primʼatto»9 –e ipotizza che Mercadante possa aver subíto in proposito lʼinflusso di Meyerbeer: durante il precedente soggiorno a Parigi egli aveva infatti assistito alla “prima” degli Huguenots. 10 Wittmann ribadisce e integra questa tesi:
[…] lʼopera inizia con una scena di festa che consente non solo ai personaggi principali — Viscardo, Manfredo, Brunoro ed Elaisa — di apparire insieme senza forzare la verosimiglianza drammatica, ma anche di esporre il conflitto drammatico in modo spontaneo. La caratteristica piú interessante di questa introduzione è lʼintegrazione delle brevi cavatine dei personaggi principali con la festosa musica di danza che continua, virtualmente ininterrotta, come i vari personaggi fanno le loro sortite. Sebbene questa musica festiva non risuoni durante i numeri ʼa soloʼ, essa riappare allʼarrivo di ogni nuovo gruppo di ospiti e danzatori, fornendo cosí una transizione tra i momenti di espressione individuale. Questa sottile combinazione di ʼmusica di scenaʼ e ʼassoliʼ assicura che lʼascoltatore recepisca la scena su due differenti livelli. Da una parte, la scena può essere recepita come parte di un ʼnumeroʼ tradizionale comprendente coro, due cavatine, quartetto e aria con coro; dallʼaltra, è un tableau esteso in forma di rondò dove le sezioni ʼa soloʼ sono separate da ritornelli corali. Non è difficile trovare un modello per tutto ciò: la scena è molto simile allʼatto di apertura di Les Huguenots, anche se, come risultato dellʼambiguità della grande forma, Mercadante fallisce nel dare unità organica al suo modello.11
Dunque questa è per Wittmann la struttura dellʼIntroduzione del Giuramento:12
8
9
Cfr. WITTmANN, Meyerbeer and Mercadante? cit.
JACkSoN, Mercadanteʼs résumé cit., p. 273.
10 cfr. roSe, voce «Mercadante, Saverio» in Grove Opera cit.; pAlermo, Saverio Mercadante cit., pp. 150-165 (lettere dal 27 settembre 1835 al 14 marzo 1836).
11 WITTmANN, Meyerbeer and Mercadante? cit., p. 117 sg.
12 Nella tabella sono riportate in maiuscolo le tonalità maggiori, in minuscolo quelle minori.
Coro dʼintroduzione 6/8 LA/la/DO A Cavatina di Viscardo 2/4 SI♭ B ritornello corale c Si♭/MI♭/(SOL♭)/MI♭? A Cavatina di Manfredo c RE♭ C ritornello corale 6/8 LA/SOL A Quartetto 3/4 DO D Aria di Elaisa con coro 3/4 mi♭/MI♭ ritornello corale 6/8 DO/FA A [stretta] 6/8 - 2/2 FA
Osserviamo in dettaglio come Mercadante integri questo proposito con le forme dellʼopera italiana. (cfr. tab. 113) Dopo un breve preludio, lʼopera inizia con la festosa musica di danza che funge secondo Wittmann da transizione tra i momenti di espressione individuale. Che tale ʼcanto sicilianoʼ (cosí è designato sullo spartito forse per via del ritmo in 6/8) svolga la funzione di musica di scena è palese: è una musica di danza in un quadro di festa e viene eseguita dalla banda sul palcoscenico. Su questa musica si svolge il Coro dʼIntroduzione che precede la prima cavatina di Viscardo, al termine della quale si ripresenterebbe, sempre secondo Wittmann, il «ritornello corale» del rondò; ma questo interludio presenta alcune differenze significative rispetto al “canto siciliano” posto ad apertura dellʼopera: è diverso nel disegno tematico; percorre regioni tonali differenti; da un punto di vista dramma turgico, non svolge la funzione di “musica di scena”: non è infatti in ritmo di danza e viene eseguito dallʼorchestra anziché dalla banda. La breve transizione corale sfocia quindi nella cavatina di Manfredo, anchʼessa seguita da un ritornello corale, questa volta coincidente – dal punto di vista musicale e funzionale – con il “canto siciliano” dʼapertura. In sostanza: lʼascoltatore percepisce il primo “ritornello” (il segmento 2.3 nella tabella) come un tempo di mezzo che sfocia inaspettatamente in una seconda cavatina, piuttosto che nella prevedibile stretta; invece la successiva ripresa del “canto siciliano” (3.3) riconduce al clima festivo fino allora “congelato”, circoscrive la prima parte dellʼintroduzione e allo stesso tempo funge da trait dʼunion
13
La segmentazione adottata nelle tabelle è conforme ai criteri sottesi al progetto rAdAmeS (Repertoriazione e Archiviazione di Documenti Attinenti al Melodramma e allo Spettacolo), coordinato da Lorenzo Bianconi e Angelo Pompilio; cfr. GIorGIo pAGANNoNe, Come si seg menta il testo operistico in “Radames”: prototipo dʼun repertorio per il melodramma, «Il saggia tore musicale» XI/2, 2004, pp. 363-394; Id., Il progetto “RADAMES”: per una segmentazione ragionata delle opere di Verdi, «Studi verdiani» XXI, 2008-09, pp. 73-92 (questʼultimo condotto con la collaborazione mia e di Saverio Lamacchia). Gli schemi morfologico-formali dei «nume ri» (aria/cavatina, duetto, finale centrale) e le «sezioni di numero» interne della «solita forma» fanno pertanto riferimento alle denominazioni codificate dalla letteratura critica: scena, tempo dʼattacco, adagio, tempo di mezzo, stretta, questʼultima in luogo di ʼcabalettaʼ (cfr. mArCo BeGHellI, Alle origini della cabaletta, in “Lʼaere è fosco, il ciel sʼimbruna”. Arti e musica a Venezia dalla fine della Repubblica al Congresso di Vienna, a cura di Francesco Passadore e Franco Rossi, Venezia, Fondazione Levi, 2000, pp. 593-630).
verso la seconda. In altre parole:
• circoscrive un momento riservato alla “dimensione privata” dei personaggi e separa i pezzi a solo dal successivo ensemble;
• enfatizza la sortita del personaggio principale separando la fase “senza Elaisa” (o “nellʼattesa di Elaisa”) da quella “con Elaisa”. È interessante notare che, nel tempo di mezzo che segue la cavatina di Viscardo (2.3), allʼarrivo inaspettato di Manfredo corrisponde una deviazione inaspettata verso la regione tonale della mediante.
La seconda parte dellʼIntroduzione consiste in un ensemble con largo concertato e stretta finale, inframmezzati da un tempo di mezzo di tipo additivo nel quale si susseguono una sezione dialogata, una Romanza-racconto e ancora una volta il ritornello corale, questa volta in preparazione della stretta.
Nelle “opere della riforma” lʼinteresse di Mercadante sembra pertanto concen trarsi sui numeri “lunghi”, cioè su quelle parti del melodramma che gli concedono di sperimentare schemi «complessi» o «multistratificati», come lʼIntroduzione o il Finale centrale; in particolare le fasi che precedono il largo concertato, che egli edifica tramite schemi additivi al fine di preparare adeguatamente, dal punto di vista drammatico-musicale e delle aspettative dellʼascoltatore, il colpo di scena che innescherà il tableaux vivant.
Se il tempo dʼattacco del Finale primo dei Due Figaro è scandito dagli ingressi dei personaggi, talvolta incorniciati da brevi sezioni a due (dapprima Inez e Susanna, poi Figaro e il Conte, poi Cherubino e Susanna, infine tutti coro compreso), e lʼeconomia complessiva del numero tende verso entrambe le sezioni statiche, la lunga fase che precede il largo concertato del Finale centrale del Giuramento – che da solo copre circa la metà del lunghissimo primʼatto dellʼopera – può essere segmentata in sette sezioni e sottosezioni di numero (cfr. tab. 2):
• una scena piuttosto articolata che comprende un dialogo, un piccolo mono logo di Bianca e un breve scambio di battute tra Brunoro e Viscardo;
• una Romanza fuori scena intonata da Viscardo, che pur avendo la struttura musicale di un pezzo chiuso si svolge in tempo reale in quanto musica di scena;
• un duettino che allinea in rapida successione, e senza soluzione di continuità: una sezione in canto simultaneo, tonalmente stabile e con coda; la ripartenza dellʼazione drammatica e dellʼinterazione tra i personaggi, e parlante in versi lirici; canto simultaneo e ulteriore stop. Pur essendo segmentabile, il passo esaminato presenta tuttavia le peculiarità di un “tutto unico”: lʼunico metro adoperato è il settenario, Romanza a parte; le sezioni statiche sono di estrema brevità (lʼadagio consiste esclusivamente in un canto simultaneo per seste, mentre la stretta non ha nulla dello schema formale standard). Inoltre è per
corso per intero da coesione tematica: lʼantecedente tematico della Romanza viene reiterato nella parte di Bianca nonché nella coda dellʼadagio, affidato allʼorchestra nel tempo di mezzo e ancora una volta a Bianca nella stretta. In buona sostanza, Mercadante integra la forma con la verosimiglianza dram matica: le due mini-sezioni statiche delimitano rispettivamente la breve gioia dei due amanti, subito spezzata dalla scoperta di un biglietto minatorio, e la conseguente urgenza di Viscardo di doversi nascondere senza indugi; • il successivo confronto tra Bianca ed Elaisa, e poi Viscardo, in cui si susse guono: una sezione dialogata; due stanze parallele di Elaisa e Bianca rese con due distinte idee tematiche (grosso modo due lyric forms14); un successivo parlante che sfocia nella lyric form già enunciata da Bianca, stavolta punteg giata da Elaisa, indi la coda; la supplica di Viscardo ad Elaisa attraverso la lyric form già esposta da Bianca per due volte; una ulteriore sezione dialogata si conclude con lʼarrivo inaspettato di Manfredo che innesca il largo concertato (cfr. tab. 3).
Il particolare impiego delle lyric forms per un verso interpreta il rapporto di con flitto o di complicità tra i personaggi (la coppia Viscardo/Bianca vs. Elaisa), dallʼaltra gli affetti in gioco (la lyric form di Viscardo/Bianca corrisponde alla supplica dellʼuno o dellʼaltra nei confronti di Elaisa), e rende somigliante ad un pezzo chiuso questo segmento del tempo dʼattacco: lo si confronti, ad esempio, con la stretta del duetto Attila-Ezio tratto dal prologo dellʼAttila (sempre in tab. 3). Si tratta comunque di una somiglianza del tutto esteriore, non confortata dallʼazione drammatica; nel corso del duetto non vʼè sospensione temporale, i personaggi interagiscono (le stanze di Elaisa e Bianca non hanno alcunché di riflessivo e sono rivolte invece a colei che tace di volta in volta).
Nel Finale centrale del Bravo, che copre anchʼesso circa metà del primʼatto, la fase di preparazione al largo è anchʼessa di tipo additivo e allinea in successione cinque segmenti (cfr. tab. 4):
• un coro introduttivo dʼomaggio al doge;
14
Comʼè noto, la letteratura critica designa cosí la forma standard della melodia dellʼopera ita liana ottocentesca. Di seguito i piú recenti contributi sullʼargomento: STeVeN HueBNer, Lyric Form in “Ottocento” Opera, «Journal of the Royal Music Association» CXVII, 1992, pp. 123-147; GIorGIo pAGANNoNe, Mobilità strutturale della “lyric form”. Sintassi verbale e sintassi musica le nel melodramma italiano del primo Ottocento, «Analisi. Rivista di Teoria e Pedagogia musi cale» VII/20, 1996, pp. 2-17; Id., Aspetti della melodia verdiana. ʼPeriodoʼ e ʼBarformʼ a confronto, «Studi verdiani» XII, 1997, p. 48-66). Id., Puccini e la melodia ottocentesca. Lʼeffetto ʼbarformʼ, in «Lʼinsolita forma». Strutture e processi analitici per lʼopera italiana nellʼepoca di Puccini, Atti del Convegno internazionale di studi (Lucca, 20-21 settembre 2001), a cura di Virgilio Bernar doni, Michele Girardi e Arthur Groos, Centro Studi Giacomo Puccini, 2004, pp. 201-223. Un succinto “punto” sullʼargomento è stato tracciato in loreNZo BIANCoNI, La forma musicale come scuola dei sentimenti, in Educazione musicale e formazione, a cura di Giuseppina La Face Bianconi e Franco Frabboni, Milano, FrancoAngeli, 2008, pp. 85-120.
• anche qui lʼazione drammatica ha inizio con un duettino, in cui il Bravo intima a Foscari di star lontano da Violetta; i due “attacchi” del Bravo (pre sentazione iniziale e minaccia diretta) sfociano nel medesimo canto a due: una struttura che potrebbe ricordare tanto un duetto in miniatura quanto una improbabile stretta, con il mini tempo di mezzo a fare da ponte; clima e versi del duettino potrebbero rammentare il piú celebre convegno tra un altro sicario (Sparafucile) e Rigoletto;
• un secondo pezzo corale, al quale viene affidato il racconto dellʼomicidio di Maffeo, attribuito vox populi al Bravo: di pregevole scrittura, tocca tre centri tonali differenti (ciascuno corrispondente a un “fuoco” del racconto: il “fat taccio”, Maffeo, Violetta) ed è incorniciato dal medesimo episodio musicale;
• il cantabile di Violetta, in cui la giovane, sgomenta per lʼassassinio del suo protettore Maffeo, non chiede vendetta al popolo lí radunato ma un ritiro dove passare il resto della vita;
• il colpo di scena (lʼarrivo del Bravo, in realtà Pisani sotto mentite spoglie), al quale non segue immediatamente il largo concertato: lo sgomento dei pre senti è affidato ad unʼulteriore sezione preparatoria, e diviene cosí anchʼesso parte integrante dellʼazione drammatica.
Se nel trattamento delle forme drammatico-musicali la sperimentazione di Mercadante si risolve in una cauta combinazione dʼinnovazione e tradizione, sono invece le forme melodiche a costituire il momento piú sperimentale della “riforma”; proprio questʼaspetto – o questa scelta – deve aver nuociuto non poco alla completa affermazione di Mercadante nel contesto dellʼopera italiana, dove il successo e la popolarità si basavano in misura preponderante, se non esclusiva, sullʼimmediatezza percettiva dellʼinvenzione melodica. Potremmo allora ipotizzare che il “bando” alla “trivialità” delle cabalette espresso a Florimo si riferisca alle loro melodie15 e risiederebbe quindi nella ricerca di procedimenti compositivi meno scontati e formalizzati. Se la stretta di Viscardo nel secondʼatto del Giuramento allinea una “mini-forma Lied” (mini-barform, frase di mezzo e riesposizione variata della prima barform: ogni segmento collima con le figure retoriche del testo), e una frase di mezzo che vira di colpo verso il climax16, in quella di Foscari nel Bravo – tra lʼaltro già sotto posta ad un esperimento formale: il lungo “ponte” tra prima e seconda cabaletta
15
Nel lessico ottocentesco lʼultimo tempo della «solita forma» veniva indicato piú o meno indif ferentemente ʼcabalettaʼ, ʼstrettaʼ, o ʼallegroʼ (cfr. roBerT ANTHoNy moreeN, Integration of Text Forms and Musical Forms in Verdiʼs Early Operas, Ann Arbor, umI, 1975, p. 32). Piú precisamen te sʼintende per ʼcabalettaʼ il periodo melodico principale della ʼstrettaʼ che, per sineddoche, ha finito per affiancare e talvolta sostituire il termine originario: cfr. BeGHellI, Alle origini della cabaletta cit.
16 Per unʼanalisi dettagliata cfr. le pp. 65-67 della monografia citata in premessa.
comprende lʼintera romanza di Violetta – ad un periodo regolare segue una frase di mezzo con coda che vira verso la dominante, e una barform in chiusura. Anche qui Mercadante “adatta” le sezioni della lyric form alla struttura testuale dei versi di Gaetano Rossi, e in ultima analisi agli “stati affettivi” di Foscari: al dubitativo “se” corrisponde la frase di mezzo, al pronostico della propria felicità «lʼatto per formativo» della barform, 17 che abbisogna della reiterazione testuale per potersi dispiegare per intero. Si tratta piú o meno del medesimo procedimento adoperato da Verdi nel cantabile di Manrico “Ah! sí, ben mio, collʼessere”18 poco piú di dieci anni dopo: lí delinea lo slancio accorato di un adagio, qui anima ed eleva la “tri vialità” dʼuna cabaletta (cfr. es. 1).
17 pAGANNoNe, Puccini e la melodia ottocentesca cit., p. 207 sg.: «Nove volte su dieci la melodia operistica (ma non solo operistica) inizia con un periodo e, eventualmente, per concludere si avvale dellʼeffetto barform, secondo un percorso che dal “sentimento riflesso” conduce al “sentimento spontaneo” […] Dunque, generalizzando, il periodo è il luogo del ʼdireʼ, del discor so razionale, dellʼ”atto constativo”; la barform è il luogo del ʼfareʼ, del ʼsentireʼ, dellʼemozione irriflessa, dellʼ”atto performativo”. Nella barform, allʼenunciato verbale si accompagna sempre un gesto, unʼazione, che può essere esteriore o interiore, diretta o simbolica».
18 Cfr. Ivi, p. 58.
Esempio
1: SAVERIO MERCADANTE, Il bravo, atto primo, stretta di Foscari.
Versi Sez. funzionali Art. interne Armonia Abbellita da un tuo riso Fia la terra un paradiso; a a periodo A4+4 LA♭: I——I
Fra mortali il piú felice Per te, o cara, diverrò. b x
Se il tuo cor sperar mi lice, Non invidio aʼ regi il trono b c frase di mezzo B2+2… fa♯ MI♭
Io, beato di tal dono, Quanti beni ha il cielo, avrò. c x barform C2+2+4 LA♭: V-I——I
Sempre nel Bravo, si osservi infine la “cavata” di Violetta nel tempo dʼattacco del Finale centrale. Le parole della giovane (nei versi di Rossi) tratteggiano tre distinti stati dʼanimo: lʼenunciazione del suo terribile stato presente (prima quartina); unʼinvocazione a Teodora (seconda), la richiesta conclusiva (terza). Alla constata zione iniziale corrisponde un periodo, cioè un arco melodico scevro da tensioni interne; una frase di mezzo “lunga” (tre moduli, due dei quali frazionati in gruppi di due misure) conferisce centralità allʼinvocazione; la riesposizione dellʼantecedente del periodo sfocia in una barform che tende verso un climax attenuato: lo sconforto di Violetta sʼinarca verso una tensione composta allʼavvicinarsi della parola “madre”. È interessante che i versi poetici adoperati per la realizzazione musicale siano in parte difformi da quelli pubblicati sul libretto: lʼarco melodico “lungo” necessita di dodici versi (tre quartine) in luogo dei sei originari; inoltre, senso del testo e forme melodiche risultano cosí meglio disposte in coerenza. Tutto ciò inglobato in un tessuto armonico mutevole (cfr. es. 2):
Esempio 2: SAVERIO MERCADANTE, Il bravo, atto primo, cantabile di Violetta.
Libretto Partitura
Deʼ miei giorni sul mattino Senza madre, senza amore
a b
Misteriosa protettrice, Or te invoca unʼinfelice,
Vieni, e madre a me sarai. Sarai nume di pietà.
Che compianga il mio destino Che divida il mio dolore.
a b
periodo A4+4… FA: I–––I
Sez. funzion. Art. int. Armonia Io non chiedo che un ritiro Per morirvi nel martiro.
FA: I–ʼDO: I
Misteriosa protettrice, Tu pietosa di me tanto, c d frase di mezzo B2 Bʼ2+2 DO: II♭ – I LA♭: V-I
Or te invoca unʼinfelice, Tu puoi tergere il suo pianto.
c d Bʼʼ2+2+2 –ʼDO: V
Non ti chiedo che un ritiro Per celarvi i miei sospir
e x
f y
C 2+2+4… LA–ʼFA
antecedente barform Aʼ4 DO: I–ʼLA: V Vieni e madre a me sarai Sarai lʼangiol di pietà.
In conclusione, possiamo includere tra le caratteristiche delle “opere della riforma” una particolare attenzione verso le parti “dinamiche” delle forme, siano esse melodiche o drammatico-musicali: tempi dʼattacco, frasi di mezzo, barform. Aspetti che saranno sviluppati da Verdi con maggiore efficacia.
1 = rimando alla partitura di riferimento secondo il sistema p/s/b = pagina/sistema/ battuta; se la sezione attacca ad inizio pagina, viene indicata solo questʼultima
2 = indicazioni di scena
3 = sottosezioni di numero, con eventuali sottoarticolazioni
4 = personaggi, in forma abbreviata
5 = incipit di testo; trattino piccolo = versi doppi; barra verticale = versi fratti; doppia barra verticale = enjambement
6 = metro poetico, secondo il sistema: 5 = quinari; 5+5 = doppi quinari, v.s. = versi sciolti, ecc.
7 = tempo
8 = metro
9 = tonalità: maiuscolo per tonalità maggiori, minuscolo per le minori; riquadro per pezzo chiuso o tonalmente stabile; la freccia indica una sezione modulante
10 = identificazione morfologica; quando possibile vengono usate le nomenclature della ʼsolita formaʼ, evidenziate usando i numeri in riquadro
Tabella 1: Il giuramento, Introduzione (fonte: spartito Edizioni Economiche Ricordi G 42049 G)
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
1 I coro Odi, ogni intorno echeggiano 7 Allegro 6/8 la/DO coro dʼintroduzione
9/4/1 2.1 Vi. La dea di tutti i cor vs And.te C re SI♭ 0 [scena] 10 2.2 Vi. Bella, adorata incognita 7 And. mosso 2/4 SI♭ 2 [adagio] 12/4/1 2.3 coro Elaísa! Elaísa!... Allegro C SI♭ 3 [tdm] 15/2/4 3.1 Ma. coro | E neppur qui Elaísa! vs Andante SI♭ RE♭ 0 [scena] 16/4/1 3.2 Ma. Fier sospetto, ohimé! si desta 8 Maestoso RE♭ 2 [adagio]
19 3.3 coro Vien regina della festa Allegro 6/8 LASOL rit. corale - sopraggiunge Elaisa20 II 4.1 El. Ma. Br. Vi. Oh mio… german! (Che palpito!) 7 All. mod. C SOL DO 0 [scena]
21 4.2 detti, coro Vicino a chi sʼadora And. mosso 3/4 DO 2 [largo]
32 4.3 El. Vi. Ma. Voi ci spariste | Un raggio di speranza 7/vs All. mod. C SI♭MI♭? 3 [tdm]
33/2/4 4.4 El. (tutti) Di superbo vincitor 8 3/4 mi♭/MI♭ romanza nel tdm 38 4.5 coro Or la danza si riprenda Allegro 6/8 DOFA rit. corale 41/2/6 4.6 El. Vi. Ma. coro Deʼ mortali nume in terra FA 4 [stretta]
Tabella 2: Il giuramento, Finale centrale
73 VII 1 Bi. Is. Già un lustro, Isaura mia vs All. mod. assai c SOL DO 0 [scena] 74/4/1 VIII 1.1 Bi. Preghiamo – Ah! pregai tanto Andante LA♭mi♭ IX Br. Vi. | Entrate. Eccola | Io mi ritiro 76 X 2.1 Bi. Vi. Ah! Lo ripeto ognora 7 And. mosso 3/8 mi♭ 1 [tda] Ti creò per me lʼamor 8 romanza nel tda 77/2/5 2.2 Viscardo!... | Bianca! 7 Allegro c MI♭LA♭ duettino nel tda 84/3/1 XI 2.3 El. Bi. Tutto è tenebre… e si tace… 8 Mod. assai doMI♭ 88/1/4 2.4 Di Viscardo io sono amante And./All. mod. MI♭ - confronto94 XII 2.5 Vis. Bi. El. | Fermate || Cielo! | O perfido Allegro SI(SOL♭) 98/2/1 XIII 3 Vi. Bi. El. Ma. coro Elaísa in queste soglie! And. sost. RE♭ 2 [largo] 106 4 Questo fatal mistero 7 All. mod. si♭DO 3 [tdm] 111/2/1 XIV 5 Deʼ valorosi ecco lʼaccento 5+5 6+6 2/4 DO 4 [stretta]
Tabella 3: Il giuramento, confronto Elaisa-Bianca nel tempo dʼattacco del Finale centrale
El. Bi. Tutto è tenebre recitativo / parlante 8 MI♭/…/ MI♭
El. Di Viscardo io sono amante lyric form 1 MI♭
Bi. Con sí angelico sembiante lyric form 2
El. Bi. Si!...penaste? parlante MI♭/mi♭
El. Bi. Ma se è ver che voi lʼamate lyric form 2 MI♭ El. Bi. Vi. Fermate. Oh istante! recitativo SI/…/MI?
Vi. Ma con lei deh! giusta siate lyric form 2 SOL Vi. El. Bi. E il bel cor tu implori ancora parlante mi?/ …
confronto Elaisa-Bianca
stretta Attila-Ezio
1 stanza di Elaisa – lyric form 1 stanza di Attila
2 stanza di Bianca – lyric form 2 stanza di Ezio
3 dialogo Elaisa-Bianca ponte
4 stanze simultanee Elaisa-Bianca – lyric form 2 stanze simultanee Attila-Ezio
5 coda (interrotta) Elaisa-Bianca coda
Tabella 4: Il Bravo, Finale centrale (fonte: spartito Edizioni Economiche Ricordi c 42048 c)
48 III 1 coro Viva il doge – la memoria 8 6+6 All. spiritoso 2/4 RE 0 [coro] 58 IV 2.1 Br. Libero alfin ti premo, ti saluto vs Recitativo C RE–ʼ 1 [tda] 58/4/4 2.2 Br. Fo. Foscari. | E chi mʼappella? vs/7 All. mod. DO–ʼDO duettino nel tda 64/2/3 2.3 Br. Fo. coro E qual rumor? | Giustizia! 7 Allegro –ʼ 66/2/3 V 2.4 coro, Br., Fo. Mi., Ca., Ma. Si, giustizia, vendetta tremenda 10 All. deciso 2/4 sol–ʼMI♭–ʼSI♭–ʼsol coro nel tda 83/1/3 2.5 Vi. Deʼ miei giorni sul mattino 8 Andante C FA cantabile nel tda 84/5/2 2.6 coro, Br., Fo. Mi., Ca., Ma. Al ritiro che tu chiedi All. mosso FA–ʼ –sgomento generale–91/1/7 2.7 coro, Br., Fo. Mi., Ca., Ma., Pi. Ei si mostra… e ognun tremante And. sost. RE♭–ʼ 97/1/6 3 Tu non sai qual senso io provo SI♭ 2 [largo] 111/1/4 4 Tentate invan resistere 7 All. deciso SI♭–ʼ 3 [tdm] 116/1/2 5 O padre, a me tʼarrendi Piú animato sol♯/SI 4 [stretta]
LʼElena da Feltre e le sue fonti
Introduzione
LʼElena da Feltre è unʼopera centrale non solo per ciò che concerne lʼideologia estetica del compositore ma anche per alcuni eventi e circostanze che hanno contornato la genesi e la sua prima rappresentazione.
Essa è la prima opera che vede il ritorno di Mercadante al Teatro di San Carlo di Napoli, laddove era mancato da quasi otto anni (la Zaira del 1831 era stata la sua ultima opera rappresentata). In quegli anni, il compositore era Direttore della Cappella della Cattedrale di Novara, una carica che manteneva dal 1833, e viaggiava sporadicamente nellʼarea settentrionale (nel 1837 si dava al Teatro alla Scala la sua opera Il Giuramento). LʼElena da Feltre è anche il frutto della prima collaborazione fra il compositore e il librettista del momento Salvatore Cammarano, un sodalizio che durerà circa dodici anni e che produrrà ben otto titoli operistici.
La commissione di Barbaja, al suo ultimo contratto da impresario con il Teatro,1 sopraggiunge in un momento di svolta per la vita del compositore: nel maggio del 1837 (un mese dopo la commissione) muore il Maestro Nicola Zingarelli, compo sitore e direttore del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli. La sua morte apre le porte ad un triennio convulso per la sua successione: lʼaffare Conservatorio (è questa lʼespressione che compare piú volte nelle lettere inviate al suo amico Francesco Florimo) fa riferimento alla questione circa la nomina per il ruolo di direttore dellʼIstituto, un incarico conteso da Mercadante e da Gaetano Donizetti, e che solamente tre anni dopo, precisamente nel 1840, si risolverà, con decreto regio, con la nomina del primo a ricoprire tale carica che manterrà fino al
1 Riguardo al quadriennio conclusivo dellʼimpresario presso il Teatro di San Carlo di Napoli, cfr. pAoloGIoVANNI mAIoNe - FrANCeSCA Seller, Lʼultima stagione napoletana di Domenico Barbaja (1836-1840). Organizzazione e spettacolo, «Rivista Italiana di Musicologia» 27/1-2, 1992, pp. 257-325.
1870, anno della sua morte.2 La questione è trattata esplicitamente in una lettera:
Accluse in questo plico ho rimesso a D. Gennarino la supplica per S.M. che Iddio guardi, con la lettera a S.E.il M. dellʼInterno per lʼaffare del Conservatorio e propriamente nel senso da te indicato. Sarò fortunato se potrò essere utile aʼmiei compatriotti impiegando i miei deboli talenti a pro della gioventú di un Conservatorio che mi glorio di appartenere per tanti titoli. Se il forestiere [Donizetti] dovrà essere preferito, procura tu con i tuoi rapporti dʼimpedire che il mio amor-proprio sia offeso.3
La genesi e la prima rappresentazione dellʼElena da Feltre si inseriscono tem poralmente nellʼarco di questo triennio, e non possono, perciò, apparire disgiunte dalle conseguenze che queste possono comportare ai fini della nomina a direttore dellʼIstituto.4
Non stupiscono, infatti, lʼaccurata meticolosità e lʼeccessivo zelo cui il composi tore si affida in moltissime lettere al Florimo e a Cammarano (riguardo alla messa in scena, al rispetto integrale della partitura, alla qualità degli interpreti, finanche alla precisa intonazione degli strumenti), al primo scrive: «Assisti particolarmente i cantanti – Va a qualche prova del Coro – Bada che le Campane non siano scor date – Lʼorgano che sia ben suonato – Che vada in scena matura – Che le decora zioni, vestiario corrispondi». 5 E al secondo: «Permettete che vi preghi di sorvegliare alla buona esecuzione ed alla messa in scena, non permettendo alterazioni, tagli, mutilazioni, credendo di essere stato breve abbastanza. Avendo tenuto un genere declamato ed espressivo, procurate che i cantanti sʼinteressino alla loro parte». 6
Anche alcuni numeri musicali e specifici ruoli, come la parte del padre di Elena, Sigifredo (figura dalle chiare implicazioni politiche), sono supervisionati dallʼautore: «Bada che la parte del Padre Sigifredo, sia affidata ad un primo Basso, altrimenti sarebbe rovinato il Terzetto che chiude lʼatto primo, e che prepara gli altri»7 e ancora «Raccomando caldamente che il Basso che farà il padre sia buono, essendo
2 SANTo pAlermo - domeNICo deNorA, Saverio Mercadante, biografia, Fasano, Schena Edito re, 2014, p. 138.
3 Lettera senza data ma probabilmente del 7-8 febbraio 1838, spedita al Florimo, cfr. SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario, Fasano, Schena Editore, 1985, pp. 181-182.
4 Scrive il compositore al Florimo: «Lʼesito mi sta sommamente a cuore, per le tante ragioni facili a comprendersi da te. La precisa interpretazione, il tuo zelo, la buona volontà deʼ can tanti, dellʼOrchestra, del Coro, dellʼImpresa, de copisti, possono molto concorrere a seconda re le mie brame e sostenere un patriotta». Lettera del primo gennaio 1838, cfr. ivi, p. 179.
5 Ibidem.
6
Ivi, p. 178.
7 Ivi, p. 179.
impegnatissimo nel Terzetto che termina lʼatto P/mo».8
LʼElena da Feltre non ha un ruolo esclusivamente circostanziale, ma, come ho accennato allʼinizio, essa assume anche la monolitica veste di manifesto estetico di un nuovo modo di concepire lʼevento operistico. Nellʼormai famosa lettera al Flo rimo da cui è stato tratto, negli anni recenti, il sintagma di ʼriforma mercadantianaʼ, risulta esplicita questa rilevanza:
Ho continuata la rivoluzione principiata nel Giuramento: variate le forme, bando alle cabalette triviali, esilio ai crescendo, tessitura corta, meno repliche, qualche novità nelle cadenze, curata la parte drammatica, lʼorchestra ricca senza coprire il canto; tolti i lunghi assoli nei pezzi concertati che obbligavano le altre parti ad essere fredde a danno dellʼazione; poca gran cassa, pochissima banda.9
Lʼopera nuova per Napoli, dunque, vede ricalcare gli stilemi perseguiti nellʼopera precedente del Giuramento se non un loro assestamento qui, come nelle opere successive. Il merito di questa rivoluzione dovrebbe essere parimenti condiviso fra il compositore e il Florimo (questʼultimo aspetto, fra lʼaltro, poco studiato): allʼepoca del Marco Visconti, 10 il bibliotecario del Conservatorio diede a Mercadante dei consigli puramente estetici che il compositore ha saputo far suoi, pur ricono scendone il merito; rimarcando nuovamente lʼapplicazione con cui lʼopera è stata composta, scrive:
giacché ti ripeto che la studiai moltissimo, sia per la Drammatica, che per il canto, lʼinstrumentazione, tessitura, brevità, qualche novità: occupatene e non lasciarmi deluso, poiché avendo in essa praticati i consigli che mi dasti pel Marco-Visconti, desidero la tua critica per il lavoro, lasciando al Pubblico quella dellʼeffetto.11
La genesi
La genesi dellʼElena da Feltre è da racchiudere nellʼarco temporale di otto mesi. Lʼopera viene commissionata da Barbaja nellʼaprile del 1837, dopo una lunga trattativa: «Dopo unʼeterna corrispondenza con Barbaja si combinò la scrittura per unʼOpera senza lʼobbligo di venire alla piazza, posizione molto convenevole per i miei impegni da queste parti ma che mi priva per ora di poterti abbracciare unita
8
Lettera spedita al Florimo del 26 novembre 1838, al ridosso della prima. Cfr. ivi, p. 189. 9 Ivi, p. 179.
10 Siamo nellʼestate del 1835, quando Mercadante lavora a questo nuovo soggetto operistico. Purtroppo, lʼopera non vedrà mai la luce per una serie di motivi. Cfr. ivi, pp.143-144 e 147-148.
11 Cfr. nota 3.
mente al mio D. Gennarino ed amici tutti».12 Mercadante, in quegli anni, era ancora direttore della Cappella della Cattedrale di Novara, un impegno che necessariamente lo teneva lontano dalla piazza napoletana; vien da sé la convenienza dellʼofferta che lo esentava a non presenziare alle prove dellʼopera.13 Sempre allʼinterno della medesima lettera, vengono indicate il soggetto dellʼopera e il librettista: «Camerano mi ha spedito un argomento Elena degli Uberti, che mi piace, trovandoci forti passioni, movimento rapido di azione e buona distribuzione in generale, benché troppe arie».14 Lʼautore si dimostra parzial mente soddisfatto dellʼargomento, trovandovi alcuni degli stilemi caratteristici della sua riforma nonostante la presenza di troppe arie ne rallenterebbe notevolmente quella rapidità dʼazione ricercata.
Lʼopera viene terminata otto mesi dopo nel gennaio del 1838:
LʼElena da Feltre per la mia parte è stata compiuta e consegnata. Non saprei a chi raccomandarla meglio che allʼautore del dramma. Permettete che vi preghi di sorvegliare alla buona esecuzione ed alla messa in scena, non permettendo alterazioni, tagli, mutilazioni, credendo dʼesser stato breve abbastanza.15
Continuano le raccomandazioni al librettista per il rispetto integrale della volontà autoriale, contestualmente il compositore scrive anche al Florimo: «La mia nuova opera Elena da Feltre arriva a Napoli con la presente. Lʼeseguzione della medesima è intieramente affidata alla tua grandʼintelligenza, alla tua amicizia».16 Lʼopera, inizialmente in cartellone per la stagione 1837-38, viene rimandata a quella successiva 1838-39 a causa della persistente malattia della Toldi, colei che era stata scritturata come interprete della protagonista Elena. Già nella lettera dellʼ8 gennaio 1838, una settimana dopo che la partitura era stata completata e consegnata, Mercadante constata questa problematica in prima persona: «Sento con sommo dispiacere che la Toldi è ammalata. Non vorrei che Barbaja facesse qualche pasticcio sostituendo altra prima Donna non acconcia, da dove nascerebbe la necessità di alzare, sbassare, puntare e, per tutto dire, rovinare».17 Lʼufficialità del rinvio della
12
13
La lettera, spedita al Florimo, è priva di data ma può essere stata inviata intorno alla metà di aprile. Cfr. pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario cit., pp. 172-173.
È già stato fatto notare come il Florimo, e in minor misura Cammarano, interpretassero i voleri demandategli dallʼautore.
14 Cfr. pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario cit., p. 173.
15 Lettera spedita a Cammarano il primo gennaio del 1838, cfr. ivi, p.178.
16 Ivi. pp. 178-179. Il compositore conferma di aver spedito la partitura anche al Barbaja nella lettera dellʼ8 gennaio 1838: «Consegnai in Milano lo spartito completo al Sig. Gius. Villa da rimettere a Barbaja». Cfr. ivi, p. 180.
17 Ibidem.
prima avviene in una lettera successiva: «Barbaja mi ha scritto, che in grazia della malattia della Toldi, la darà lʼanno venturo».18
La preoccupazione profetica del compositore si avvera nella lettera successiva, quando lʼautore esplicita il suo disappunto per il rinvio dellʼopera, insinuando anche la volontà di voler favorire Donizetti nella nomina a direttore del Conservatorio:
LʼElena poteva rappresentarsi con la Palazzesi, il Reina e Barroilhet. Si è voluto favorire il socio, Cav. Donizetti e cosí, si è fatto scorrere inutilmente il tempo. Reina parte, gli altri Tenori che lo rimpiazzano sono di diverso genere, come non vedo Donne Soprano, come la Toldi o la Palazzesi. Al solito mi rovineranno il mio solito Spartito che ti assicuro di avere studiato moltissimo e curato in ogni sua parte.19
Ufficialmente rinviata, dunque, lʼopera scompare dalla corrispondenza, per ricomparire solo un mese prima dalla rappresentazione. Infatti, nella lettera del 26 novembre 1838, Mercadante riporta di aver trattato personalmente con il soprano Giuseppina Ronzi De Begnis per convincerla a interpretare il ruolo di Elena, parte che alla fine accetterà:
Col medesimo corriere di oggi ho scritto a Barbaja ed alla Peppina, ma con quella moderazione e circospezione necessaria in cosa tanto delicata. Questʼultima mi ha scritta una lunga lettera piena di amicizia e mostrandosi interessatissima per lʼaffare del Conservatorio e della citata Opera.20
Nella stessa lettera, vengono menzionati anche alcuni degli interpreti princi pali del cast: il famoso baritono Paul Barroilhet (nelle vesti di Guido) ed il celebre tenore Adolphe Nourrit (in quelle di Ubaldo). È utile qui notare come la classica disposizione dei registri vocali (Tenore/amoroso e Basso/antagonista) sia com pletamente sovvertito: Barroilhet interpreta il ruolo dellʼamante buono, mentre Nourrit quello di amante antagonista. La difficoltà nel bilanciare un siffatto cast vocale, a cui si aggiunge un pezzo da novanta come la De Begnis, è stato rimarcato anche dallʼautore nella stessa lettera: «il difetto di avere fatto amante il Basso Barroilhet ed il traditore al Tenore, lo rimarcai prima di comporre a Camerano, ma in quellʼepoca conveniva, trattandosi di Reina».21
Prima che lʼopera fosse rimandata alla stagione successiva, il tenore Domenico Reina avrebbe dovuto interpretare il ruolo di Guido, mentre il Barroilhet quello di
18
Ivi, p. 182.
19 Ivi, p. 186.
20 Ivi, p. 188.
21 Ivi, p. 189.
Ubaldo. Una volta rinviata lʼopera, con il Reina che andò via da Napoli22 e con lʼarrivo al suo posto di Nourrit,23 i ruoli furono ribaltati, evidentemente per favorirne una disposizione piú omogenea.
La prima e le successive rappresentazioni
Riguardo al luogo della prima rappresentazione, essa andò in scena al Teatro di San Carlo di Napoli. La stessa certezza non è rinvenibile nelle fonti dellʼepoca e in quelle attuali per ciò che concerne il giorno esatto della prima rappresentazione. Soprattutto le fonti moderne sono molto precarie nello stabilirlo vertendo su due ipotetiche date con una discrepanza di cinque giorni: il 26 dicembre del 1838 e il primo gennaio del 1839.24
Scrutando fra le notizie musicali dei periodici del tempo, ne «LʼOmnibus» ho trovato una piccola recensione riguardo la possibile prima: «vi furono applausi di convenienza alla fine del I atto, di compiacenza alla fine del II atto, di amabilità nel duetto tra la donna (sig. Ronzi) e il basso (sig. Bariolhet), sinceri nella scena ed aria del tenore (Nourrit) con chiamata di costui sulla scena, e di cortesia alla fine dellʼOpera». 25
La recensione è stata pubblicata nel periodico del giorno 29 dicembre del 1838 e quindi tre giorni dopo la data del 26. Appare, dunque, abbastanza presumibile confermare questʼultima come data della prima rappresentazione in quanto, se prendessimo in considerazione la data del primo gennaio 1839, il periodico su citato offrirebbe una recensione di uno spettacolo la cui prima si sarebbe dovuta rappresentare tre giorni dopo. Per completezza, riporto gli altri interpreti (con i relativi ruoli) che presero parte alla prima: Pietro Gianni, Sigifredo; Teofilo Rossi, Boemondo; Giuseppe Benedetti, Gualtiero.26 22 Cfr. nota 18.
23
Nourrit giunse al Teatro di San Carlo successivamente alla definizione del primo cast e pre sumibilmente nellʼestate del 1838, ossia a ridosso della prima dellʼopera di Donizetti, il Poliu to.
24
Le varie fonti analizzate sono discordanti: GIoVANNI CASSANellI, Mercadante e la sua riforma. Elena da Feltre, Bari, Mario Adda Editore, 2012, p. 88; JoHN BlACk, The italian romantic libret to: a study of Salvatore Cammarano, Edinburgh, The University Press, 1984; CArlo mArINel lI roSCIoNI, Il Teatro di San Carlo. La cronologia 1737-1987, Napoli, Guida editore, 1988, p. 257; «Il Lucifero» I, 1838-1839, riportano il primo gennaio 1839 come data della prima. Le fonti che riportano, invece, la data del 1838 come anno della prima sono: kAreN m. BryAN, An experiment in form: the reform operas of Saverio Mercadante 1795-1870, PhD diss., Indiana University, 1996 e pAlermo - deNorA, Saverio Mercadante, biografia cit.; anche il libretto della prima (cfr. nota 41) e alcune fonti manoscritte musicali (cfr. paragrafo Fonti musicali) riportano lʼautunno 1838 come periodo della prima rappresentazione.
25
26
«LʼOmnibus» VI, 35, 29 dicembre 1838, p. 140.
In mArINellI roSCIoNI, Il Teatro di San Carlo cit., gli ultimi due ruoli non vengono elencati.
Lʼopera sarà replicata solamente unʼaltra volta nella stagione corrente, evento abbastanza inusuale per un titolo nuovo nel panorama operistico dellʼOttocento. Le cause di questo insuccesso sono reperibili in tre circostanze. La prima è dovuta alla malattia di un cantante del cast; la notizia è data allʼinterno del periodico «LʼOmnibus»:
LʼElena da Feltre del maestro Mercadante che ci dava molto a sperare, dopo la prima sera di dubbio successo, non si è potuta piú riprodurre. Barrohillet, il bravo artista che solo per tre anni ha sostenuto tutte le fatiche che il Teatro S. Carlo presenta ad un primo basso cantante, per sua e pubblica sventura si è gravemente ammalato, ed ecco, che lʼElena non si è potuta piú riprodurre.27
Anche il ruolo della critica, da sempre poco clemente nei confronti delle prime rappresentazioni, ha avuto un peso non indifferente; da «Il Lucifero» leggiamo una pungente recensione:
Per quanto voglia accordarsi a questa sua musica, essa potrà contendere con la precedente in sapienza non in beltà. Nel Giuramento la solenne maestria del concento è pareggiata dalla leggiadria e spontaneità persuasiva deʼ motivi; laddove nellʼElena da Feltre queste due ultime cedono tutto il luogo alla prima. […] Del Giuramento, uditolo una volta appena, scrivemmo tutto quel bene che per noi si seppe; e se dovessimo riscriverne, ciò non sarebbe che per aggiungervi poche altre lodi. Siamo certi che tornando ad ascoltar lʼElena, nulla vi troveremo che non sia una lezione di contro-punto; ma non tutto ciò che giova nel Conservatorio diletta in teatro.28
In ultimo, rileviamo lʼattività della censura che avrebbe potuto contribuire, in parte, allʼinsuccesso dellʼopera. È risaputo, soprattutto nei decenni successivi al concilio di Trento e con particolare riferimento alla città di Napoli, come lʼattività censoria prediliga un oscurantismo che coinvolge non solo la stesura del libretto, ma anche la sua successiva diffusione. Lʼorgano censorio borbonico era particolarmente incline a vagliare i libretti nelle loro sfumature filo-cattoliche al fine di favorirne, invece, una loro laicizzazione. Nel caso dellʼElena da Feltre, per esempio, il giorno dopo la prima rappresentazione, il censore Ruffa ha richiamato, e mul tato, il librettista Cammarano, costringendolo a modificare alcuni versi del libretto proprio in direzione di questa prospettiva: i versi «Qual mi presto innanzi a Dio, Qui mʼatterro aʼ piedi tuoi» e altri di questo genere sono stati additati come il corpo
Lo sono invece in mAIoNe - Seller, Lʼultima stagione napoletana di Domenico Barbaja cit., pp. 257-325.
27
28
«LʼOmnibus» VI, 38, 19 gennaio 1839, p. 152.
«Il Lucifero» I, 49, 9 gennaio 1839, p. 196.
del reato e costretti alla rimozione. Riporto la lettera di richiamo del censore Ruffa al librettista: «Al signor Barbaja. Cammarano multato di tot ducati per essere stato richiamato al cospetto del Sig. Ruffa per il cambiamento dei versi della Elena da Feltre».29
Nonostante il dubbio successo della prima, Mercadante sembra molto compia ciuto del suo esito. Proprio dalla cittadina, scrive una lunga lettera in cui dispensa lodi e gratitudine ai protagonisti che hanno accompagnato le fasi delle prove e la prima assoluta, la riporto integralmente:
Approvo moltissimo la condotta tenuta da te e D. Gennarino riguardo a Festa… Era necessario dʼinteressarlo e procurare che la mia Opera fosse in ogni sua parte eseguita bene onde fare che il giudizio del Pubblico sia piú giusto ed il Compositore abbia a lusingarsi di essere meglio inteso. Mille baci per esserti opposto alla giunta di cadenza nellʼaria di Bariolet… questi benedetti cantanti non vogliono rischiare, come si farebbe a trovare nuovi effetti?... Sʼio non avessi seguito i tuoi consigli, starei ancora colle maledette cabalette, ripetizioni, lungaggini, e cet… Questa mia nuova carriera la devo a te, che mi hai scosso dal mio letargo ridonandomi a nuova musical vita. Le tue riflessioni sulla Ronzi sono giustissime, ma come aver da fare?... con qual coraggio mettere in carta, non la voglio?... Essa, da quanto mi dici, è sempre gran cantante ed io ho lusinga che saprà superare gli ostacoli degli anni, della pinguedine col suo merito e con la tua cooperazione. In una parola, io mi chiamo soddisfatto che un lavoro da me tanto curato, sia daglʼintelligenti stato inteso, e dagli esegutori preso con amore, con zelo. Qualunque ne sia lʼesito ti prego di esternare la piú viva gratitudine alla Ronzi, a Nourit, a Bariolet, Gianni: mi ha consolato in rimarcarmi i due finali e la sinfonia poiché i pezzi da me piú accarezzati ed amati.
Ringrazia tanto il bravo Camarano per le pene che si è date per la messa in scena, cosa essenzialissima in questʼOpera di tanto interesse. Lo stesso fa collʼamico M.tro Cordella per il quanto si è prestato per lʼOpera in generale e in particolare per lʼaria di Nourit, che convengo nellʼimpossibilità di cantarla comʼera scritta e nella necessità di puntarla.30
Soprattutto nei confronti di Cammarano, Mercadante dimostra la sua piú viva gratitudine e soddisfazione per il libretto, contenente, a suo dire, quelle caratteri
29 BlACk, The italian romantic libretto cit., p. 54; gli interventi di laicizzazione del libretto hanno interessato anche lʼaltra opera di Mercadante, nella ripresa napoletana del Giuramento qualche mese prima. Le modifiche sono riportate in mAIoNe - Seller, Lʼultima stagione napoletana di Domenico Barbaja cit., pp. 284-291.
30
Lettera da Novara del 7 gennaio 1839, successiva di poco alla prima rappresentazione. Cfr. pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario cit., pp. 191-192.
stiche che lui ricercava nei soggetti operistici attinenti al periodo della riforma. È proprio il compositore che di suo pugno tesse le lodi per il lavoro testè compiuto allʼinterno di una lettera che ha per oggetto la stesura della nuova opera Monaldeschi, ossia Cristina di Svezia, in cui si dimostra molto critico riguardo alla prima bozza:
Quando io prego e pongo per patto di scrittura che il bravo Cammarano deve compormi il libro, intendo che sia composto espressamente per me, poiché Cammarano sa ciò che mi conviene, ciò che desidero, e mi contenta come fece con lʼElena. […] Io voglio da voi unʼOpera che abbia a girare tutta Italia, come lʼElena, che mʼabbia a dare campo allʼimmaginazione, alle novità.31
Trascorsi alcuni giorni e comparse le prime recensioni sui giornali, Mercadante deve raffreddare la sua contentezza e constatare che la prima non ha ottenuto i risultati sperati. Punta il dito contro la De Begnis, anagraficamente non piú in forma come prima: «LʼElena è lʼOpera che in giornata gira piú di ogni altra, mi da del lucro e della gloria, mentre il Paese [Napoli] dove fu data la prima volta ancora non lʼha apprezzata e ciò per la sola prima Donna, poiché ci vuole una giovane e non una vecchia».32
Lʼopera ritornerà sempre al Teatro di San Carlo nella stagione successiva 183940, questa volta con ben otto repliche e con il favor di critica.33
Da «LʼOmnibus» del 12 Ottobre 1839 è riportata questa recensione: «LʼElena del Mercadante è tal musica che ridata qui mostra e conferma sempre il gran valore del maestro»,34 ed in quello del 26 ottobre «lʼElena da Feltre che torna di sera in sera piú gradita, e ad onor del vero dobbiam far lode a Basadonna che cantò lʼaltra sera con moltʼanima sua».35
Il periodico, oltre a fornirci una recensione di tuttʼaltro favore se paragonata a quella immediatamente successiva alla prima, loda la prestazione di Giovanni Basadonna che ha sostituito il Nourrit morto suicida pochi mesi dopo la prima dellʼElena dellʼanno precedente. Quello del tenore non è stato lʼunico ruolo a subire un cambio di interprete, anche la De Begnis è stata sostituita da Matilde Palazzesi, fra le papabili a ricoprire il ruolo di Elena nella prima assoluta e con la contentezza dellʼautore.36
Dopo che lʼopera è stata rappresentata per il secondo anno di fila al Teatro di San Carlo e con la dovuta rivalutazione della critica, lʼElena da Feltre inizia la sua
31
Lettera da Novara a Cammarano, cfr. ivi, p. 203. 32
Lettera spedita da Novara il 14 giugno 1839. Cfr. ivi, p. 199. 33
Il numero di repliche è riportato in mArINellI roSCIoNI, Il Teatro di San Carlo cit., p. 261. 34
«LʼOmnibus» VII, 24, 12 ottobre 1839, p. 96. 35
Ivi, 26, 26 ottobre 1839, p. 104. 36
Cfr. mArINellI roSCIoNI, Il Teatro di San Carlo cit., p. 261.
carriera operistica. Già John Black sostiene che lʼopera rimase nei cartelloni ita liani per almeno cinque anni, per poi essere rappresentata solo sporadicamente fino al 1857.37 Grazie alla consultazione della corrispondenza, si può constatare la diffusione che lʼopera ebbe negli anni successivi alla seconda rappresentazione napoletana, solcando i palcoscenici di alcuni dei teatri piú importanti già sei mesi dopo: «Fui in Reggio in occasione della gran fiera per dirigere lʼElena da Feltre, che ottenne il piú strepitoso successo, che si possa immaginare: ti basti che già in Padova, Venezia, Genova, Bologna Verona, Ravenna, Siena si è deciso di riprodurre d/ta Opera, corrente anno»38 e ancora «Rapporto allʼElena, già ti dissi che mi affidavo a te. QuestʼOpera continua a far furore da per tutto: in Pisa ha rivoltato; sabato 20 corr. si darà qui e spero bene assai».39
Fra le repliche in palcoscenici principali non possiamo non menzionare quella scaligera nellʼagosto del 1843, oltre a quelle avvenute al di fuori dei confini italiani: Lisbona, Teatro de São Carlos, 1840; Londra, Covent Garden, 1841; Madrid, Teatro de la Cruz, 1841 e infine Corfú, Teatro di San Giacomo, stagione operistica 1842-43.40
Le fonti poetiche e il libretto
Lʼazione si svolge nella città di Feltre intorno al 1250. A fare da sfondo al dissidio interiore di Elena vi è la contesa politica fra guelfi e ghibellini, rappresentati in scena rispettivamente da Boemondo, Ubaldo ed Imberga e da Sigifredo, Gualtiero ed Elena.41
Non è facile ricostruire le fonti poetiche e letterarie da cui il soggetto operi stico ha attinto. Già John Black aveva rilevato che «le fonti dellʼElena da Feltre
37 BlACk, The italian romantic libretto cit., p. 59.
38 Lettera da Novara al Florimo, 3 giugno 1839. Cfr. pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario cit., p. 196.
39 Ivi, p. 202.
40
Lʼelenco completo di tutte le rappresentazioni dellʼopera è consultabile su: <http://corago. unibo.it/opera/Z000053381> (ultima consultazione 13 luglio 2021).
41 Prendo in considerazione il primo libretto stampato a Napoli nel 1838 e consultabile online: <https://books.google.it/books?id=VI8prxcwXAoC&printsec=frontcover&hl=it&source=g bs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false>, p. 4 (ultima consultazione 13 luglio 2021). Segnalo, inoltre, unʼincongruenza storica: la famiglia Uberti è notoriamente appartenuta alla fazione ghibellina (basti considerare lʼesponente piú di spicco nella persona di Farinata degli Uberti) ma, nel testo operistico, Sigifredo e la figlia appartengono alla fazione opposta, quel la dei guelfi. Fra le possibili cause di questa distorsione sicuramente può essere annessa quella della censura ma è pur vero che fra le risme delle varie correnti familiari, vi possa essere qualche esponente che non avalli incondizionatamente posizioni esplicite familiari, percorrendo binari diversi. Anche Bianchino da Camino, in questo senso, ne è una lampante testimonianza: rimase fedele alla fazione guelfa nonostante alcuni esponenti della sua fami glia passarono alla fazione opposta.
sono sconosciute».42 Una constatazione figlia indubbiamente della mancanza dellʼargomento allʼinterno della struttura del libretto operistico. Questa sezione preliminare, alla quale lʼautore del testo si affida per chiarire le fonti letterarie alla base della trama operistica, è alle volte indispensabile per ricostruire le fonti stesse. È una mancanza abbastanza inusuale per lʼepoca: basti confrontare due libretti musicati da Mercadante, uno precedente e lʼaltro successivo allʼElena da Feltre, ossia il Giuramento (1837) e il Bravo (1839). Entrambi i testi di Gaetano Rossi riportano lʼargomento, nel quale lʼautore indica da quali fonti letterarie si è ispirato per la stesura del libretto.43
A questa mancanza bisogna, inoltre, aggiungere lʼirreperibilità di rappresen tazioni nel panorama europeo, soprattutto di pièce teatrali, che possano avere un qualcosa di familiare con il soggetto di Cammarano. Un documento assolutamente inedito (Appendice 1), autografo del librettista napoletano e conservato allʼinterno di una miscellanea, viene in mio soccorso, restringendo il campo di ricerca nellʼindividuare le fonti letterarie del libretto, lo riporto integralmente:
I fatti di Eccelino III da Romano occupano la pagina piú sanguinosa del medio-evo: son purtroppo note le atrocità di questo scellerato usurpatore e di quelle piú anco di chi lo rappresentava nelle terre da lui depredate. Sotto il torneo giogo dʼuno di questi suoi luogotenenti (di lui piú vili, barbari non meno) ha luogo lʼavvenimento che io svolgo nel mio Dramma: esso è parte imitato da Schiller.44
Pur senza menzionare esplicitamente il titolo dellʼopera, Cammarano certamente fa riferimento allʼElena da Feltre. Lo si deduce facilmente dallʼambientazione storica che fa da sfondo al dissidio interiore della protagonista (I fatti di Eccelino III riman dano alla contesa fra Guelfi e Ghibellini materializzati in scena); il riferimento ad uno dei suoi “luogotenenti” come rappresentante di un potere autocratico (Ezzelino III non è un personaggio dellʼopera, ma agisce indirettamente nelle vesti di un suo luogotenente, Boemondo).
Veniamo ora alla novità principale, lʼ“avvenimento” a cui lʼautore fa riferimento (ossia lo strazio interiore di Elena combattuta fra lʼamore paterno e quello coniu gale, e che rappresenta il perno necessario dellʼopera) è «parte imitato da Schiller».
Con la stessa cautela di Cammarano nellʼindicare la materia poetica del suo “Dramma”, avanzo una possibile ipotesi al riguardo.
Ritengo, innanzitutto, che lʼinfluenza schilleriana abbia solo in parte suggestio nato la fantasia di Cammarano, il quale ha tratto ispirazione, per la stesura del suo
42
43
BlACk, The italian romantic libretto cit., p. 59.
I libretti hanno attinto rispettivamente da Angelo, tyran de Padoue di Victor Hugo e La Vèni tienne di Auguste Anicet-Bourgeois e The Bravo di James Fenimore Cooper.
44
Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III, Miscellanea, Mss. B. XII, 153.
dramma, da un singolo evento, da una specifica situazione cavata dalle pièce teatrali di Schiller. Fra i titoli del drammaturgo tedesco, infatti, non vi sono trasposizioni facilmente e immediatamente riconducibili allʼElena da Feltre, quanto, invece, un argomento specifico, ossia quello della donna divisa fra lʼamore paterno e quello coniugale contrastato da intrighi di corte e soprusi di un governo assolutistico.
È quanto, in sostanza, accade nella Luise Miller schilleriana, lʼamore ostacolato da un potere autocratico fra Luise, figlia di un maestro di musica, e Ferdinand, figlio di un ministro di un piccolo stato tedesco. Il padre della protagonista viene incar cerato e sfruttato come pedina di ricatto nei confronti della figlia, che per salvarlo deve rinunciare al sentimento dʼamore che lega i due giovani.45
La disparità di casta dei due amanti (causa dellʼinconciliabilità del loro amore in Schiller) è assente in Cammarano: fra lʼamore di Elena e Guido si contrappone un puro capriccio, ossia quello di far sposare questʼultimo con Imberga, la figlia del luogotenente Boemondo. Anche in questo caso, il potere assolutistico della corte sfrutta il sentimento paterno di Elena, rinchiudendo il padre in carcere e impo nendole di rinunciare al suo amore per Guido, pena la condanna a morte del padre. Cammarano conosceva probabilmente la pièce di Schiller già prima della tradu zione italiana a cura di Andrea Maffei del 1852 (quella da lui utilizzata successiva mente per la trasposizione operistica verdiana dellʼomonima tragedia).46 Già prima di quella data, infatti, esistevano almeno due traduzioni di Kabala und Liebe che, verosimilmente, Cammarano poteva conoscere: la prima del 1817 dal titolo Amore e raggiro a cura del letterato parmense Michele Leoni,47 la seconda del 1834, con identico titolo del precedente, pubblicata a Milano dallʼeditore Placido Maria Visaj.48
Se da un lato, dunque, il richiamo schilleriano nella fattispecie della trama e delle compagini agenti sulla scena sia evidente, dallʼaltro il contesto storico che sottende la vicenda non ha nulla di familiare con le tragedie del drammaturgo tedesco (fatto salvo il potere assolutistico che incombe sulle scelte dei personaggi). Cammarano sceglie di localizzare il dramma in Italia nel 1250, quando la contesa politica era divisa fra guelfi e ghibellini e quando gli eventi sanguinosi di Ezzelino III imperversavano il settentrione. Il condottiero ghibellino, proprio negli anni di genesi dellʼopera, era sotto una rivalutazione critica e censurabile della sua figura da parte di tutto il mondo intellettuale. Pochissimi mesi dopo la prima dellʼElena, per esempio, al Teatro alla Scala di Milano va in scena lʼOberto verdiano (testo di Temistocle Solera) la cui ambientazione storica ha luogo proprio nellʼItalia medie vale del XIII sec; oppure la tragedia di Carlo Marenco del 1832 il cui titolo riprende
45
46
47
48
FrIedrICH SCHIller, Teatro, prefazione di Hans Mayer, trad. it. di Barbara Allason e Maria Donatella Ponti, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1969, pp. 235-329.
Cabala ed amore, dramma di Federico Schiller, trad. it. di Andrea Maffei, Milano, Ed. Pirola, 1852.
Amore e raggiro, dramma di Schiller, trad. it. di Michele Leoni, Firenze, Leonardo Ciardetti, 1817.
Amore e raggiro: dramma in cinque atti in prosa di F. Schiller, Milano, P.M.Visaj, 1834.
il nome del famoso condottiero.49
Non è un caso, dunque, che Cammarano decida di trasporre la vicenda di Luise/ Elena nel periodo storico in cui non vigevano regole, o meglio solo quelle promulgate da un solo uomo al potere. E non è neanche un caso che in quegli anni la rivalutazione storica di Ezzelino trovi il suo culmine proprio nella decade ʼ20-ʼ30, in cui la miccia del moto risorgimentale scuote nuovamente le potenze assoluti stiche europee.
Ricercare le fonti storiche che Cammarano può aver consultato per imbastire il suo dramma è molto complesso. A lui erano sicuramente note le gesta poco nobili del condottiero e il documento che ho sopra riportato ne è una prova lampante. Tuttavia, ritengo che un testo in particolare possa aver fornito le basi storiche necessarie a Cammarano, se non altro per la fama di cui gode questa fonte fra gli intellettuali dellʼepoca.
Mi riferisco al testo di Pietro Gerardo del XVII sec., che riporta alcune gesta con dotte da Ezzelino III da Romano a discapito proprio del signore di Feltre, Bianchino da Camino:
Ezzelino posto ad ordine un grosso essercito si partì di Padoa, e andò per soggiogare Feltre, e Belluno, le qual città erano di Bianchino da Camino [...]. I Feltrini, vedendosi il campo a torno la città vennero subito a patti con Ezzelino di darla allʼImperatore con conditione che Bianchino da Camino potesse uscire con tutte le sue famiglie, il qual uscito andò a Belluno. [...] Lʼanno seguente 1249, Ezzelino tornò con le sue genti alla città di Bellon, e quella finalmente hebbe, e Bianchino da Camino salvassi suʼl fiume di Livenza.50
Nellʼopera di Mercadante, Sigifredo (il padre della protagonista) compie le stesse gesta di Bianchino da Camino descritte nel testo di Pietro Gerardo; ciò farebbe supporre la presenza di un contesto storico effettivamente esistito che faccia da sfondo alla trama del libretto tratto da Schiller e la conseguente associazione del personaggio storico di Bianchino da Camino con quello di Sigifredo.51
Se confrontiamo le duplici gesta, infatti, si nota che entrambi hanno dovuto esiliare dalla città di Feltre perché caduta sotto il potere di Ezzelino (ciò accade nellʼopera nellʼantefatto); entrambi si sono rifugiati nella città vicina di Belluno; infine, entrambi sono stati costretti ad abbandonarla perché questʼultima è caduta
49
50
51
CArlo
pIeTro GerArdo, Historia dʼEzzelino terzo da Romano, nella quale non solo si contiene la vita, ma anco lʼorigine, e fine della sua famiglia. Con le guerre, e successi notabili, occorsi nella Marca Triuisana dal 1100 finʼal 1262. Raccolta da diverse antiche historie, Vicenza, Francesco Groffi, 1610, pp. 70v-r.
Fra lʼaltro, il tema dellʼesilio (presente nel dramma ma non nella pièce schilleriana) può esse re stata tratta proprio dal testo di Gerardo.
sotto il potere del condottiero.
Se questʼassociazione può sembrare bizzarra, a mio favore cito le parole di Elena Randi, desunte dal suo libro Il teatro romantico, in cui si può riscontrare come non sia la prima volta che poeti e drammaturghi si rifanno al testo di Gerardo: «Le gesta di Angelo sembrano tratte, almeno in parte, da quelle di Ezzelino III da Romano, […] sul quale senza dubbio Hugo ha letto Vita e gesti di Ezzelino III da Romano di Pietro Gerardo». 52
Esiste, però, unʼipotesi leggermente contraria a quella proposta sinora, ossia rite nere il libretto di Cammarano una trasposizione operistica di un testo preesistente (come avveniva per la maggior parte dei libretti), e non una semplice suggestione commista ad una cospicua dose di fantasia e ricerca storica (come ho fin qui pro posto). Questa ipotesi si concentra in particolar modo sullʼesistenza di una pièce teatrale dal titolo Elena degli Uberti, una tragedia di Enrico Franceschi rappresentata la prima volta al Teatro Nuovo di Firenze il 9 febbraio 1852 ed indi stampata nello stesso anno. Le differenze fra il testo della pièce e quello del libretto sono minime: differiscono nella suddivisione in atti (cinque contro tre) e per i nomi differenti di alcuni personaggi, ma la sostanza è la stessa. Alla luce di questo raffronto, John Black sostiene che vi sia una stessa matrice genetica alla base dei due testi, anziché una trasposizione teatrale successiva del libretto di Cammarano.53 A fronte di quanto sinora ho proposto, ritengo, invece, che la tragedia di Franceschi sia in realtà una semplice trasposizione inversa del dramma di Cammarano.
Le fonti musicali
La partitura autografa dellʼElena da Feltre è tuttʼoggi irreperibile. Vi è traccia nella corrispondenza di due copie autografe; la prima fu spedita sicuramente allʼamico Florimo affinché questʼultimo potesse esprimersi in un giudizio. Infatti, nella lettera del primo gennaio 1838, Mercadante scrive: «La mia nuova Opera Elena da Feltre arriva in Napoli con la presente».54 La seconda, invece, è stata spedita allʼimpresario Barbaja; sempre al Florimo scrive una settimana dopo la prima lettera: «Consegnai in Milano lo spartito completo al Sig. Gius. Villa da rimettere a Barbaja».55 Queste sono state le uniche copie autografe in possesso dellʼautore; ne abbiamo certezza perché, in occasione di una richiesta di modifica della parte del tenore Nourrit, il compositore si giustifica nellʼimpossibilità di puntarla in quanto non possiede piú una partitura dellʼopera:
52
53
54
eleNA rANdI, Il teatro romantico, Urbino, Editori Laenza, 2016, pp. 174-175.
Lʼipotesi è sostenuta anche da BlACk, The italian romantic libretto cit., p. 59.
Lettera inviata al Florimo, cfr. pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario cit., p. 178.
55 Ivi, p. 180.
Ti dissi che mi fu impossibile contentare lʼimmenso Nourrit, atteso che dellʼElena nulla conservai ed anco i primi schizzi furono lacerati nel cambiamento di casa che feci lo scorso 7bre - Come aggiustare e rifare unʼAria senza ricordarsi di ciò che la precede, di ciò che la segue? Le stesse ragioni dovevano servire per la frase del Terzetto, che somiglia alla Norma, e che ti autorizzai amplamente per mascherarla e fare ciò che meglio stimavi per il meglio.56
Per fortuna non sono poche le fonti primarie che possono sopperire alla man canza della partitura autografa; Karen Bryan ne riporta tre (di cui due solamente riscontrate) dellʼElena da Feltre: la prima è quella conservata presso la Biblioteca del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli; la seconda si trova presso la Biblioteca del Conservatorio di Musica Luigi Cherubini di Firenze (questʼultima è una fonte non manoscritta, bensí edita a stampa dallʼeditore Francesco Lucca); la terza allʼinterno dellʼArchivio Storico di Ricordi.57
Le copie manoscritte complete dellʼopera sono due: la prima è quella napoletana, conservata nella Biblioteca del Conservatorio e riportata da Bryan; la seconda, invece, si trova presso il Fondo Musicale “Giuseppe Greggiati” di Ostiglia in pro vincia di Mantova.
La fonte napoletana, con collocazione 3.5.11, è costituita da cc. 368. La c. 1r, di cui ne allego lʼimmagine (figura 1), riporta la seguente didascalia, non uniforme, scritta con tipi di inchiostro differenti e calligrafie diverse: Elena da Feltre | Dramma tragico in tre atti di Salvatore Cammarano | Musica | Del Maestro Saverio Mercadante | Rappresentato al Real Teatro S. Carlo lʼanno 1838 | Atto primo, secondo, e terzo. La segnatura del secondo e terzo atto, a cui si aggiunge quella che attesta lʼautore del libretto e lʼanno ed il luogo della prima rappresentazione, sono successivi rispetto alla segnatura dellʼatto primo, al titolo dellʼopera e al suo autore, oltre che scritti con un inchiostro nero differente. Questa disomogeneità calligrafica farebbe supporre che la fase di copiatura sia stata frutto di piú mani e realizzata in tempi differenti. La fonte è datata ca. 1860, di molto successiva alla prima rappresentazione ma circoscrivibile al periodo in cui lʼautore era al culmine della sua esperienza di diret tore del Conservatorio di Napoli. Questo dato, di per sé molto significativo, attesta che questa partitura manoscritta fosse nota al compositore, aumentandone cosí la valenza autoriale.
56 Ivi, p. 191.
57
BryAN, An experiment in form cit., p. 199. Purtroppo, a seguito di una ricerca nellʼArchivio Storico di Ricordi, non è stata riscontrata nessuna partitura né manoscritta né edita a stampa.
1r (Biblioteca
Sempre allʼinterno della Biblioteca del Conservatorio di Napoli sono custodite altre due partiture manoscritte: si tratta dellʼAtto I dellʼopera di cc. 172 – con segna tura 0(A).7.0(11) e databile fra il 1861 e il 1890, quindi successiva alla fonte prece dentemente descritta – e la sinfonia dʼapertura dellʼopera – segnatura 26.7.1(1-56) e databile fra il 1811-1840 – con annesse parti staccate degli strumenti per un totale di cc. 202.
La seconda partitura completa, ossia quella conservata presso il Fondo Musicale “Giuseppe Greggiati”58 di Ostiglia con segnatura Mss. Mus. B 141, è antecedente alla fonte napoletana e databile fra il 1838 e il 1840. Nonostante la partitura manoscritta
58 Era un sacerdote nato a fine Settecento a Ostiglia con la passione per la musica tanto da diventare un collezionista di manoscritti e di edizioni a stampa.
non sia autografa del sacerdote Greggiati, ad essa è anteposto un frontespizio (figura 2) scritto di suo pugno con le informazioni a lui note circa lʼopera. Il sacerdote, infatti, era solito preporre alle fonti manoscritte un generico frontespizio in cui riassumeva tutte le informazioni riferibili alla composizione.
Oltre alla partitura completa, nel Fondo sono conservate anche altre sei partiture di numeri musicali specifici. Quattro di queste (ossia la cavatina «Parmi che alfin dimentica», la romanza e duetto «Madre che in ciel», il duetto «Ardon già le sacre faci» e la romanza «Ah si? del tenero amor mio») sono autografe del sacerdote e riportano la data di agosto 1843. Le altre due, non autografe e databili successiva mente fra il 1841 e il 1860, sono il coro dʼintroduzione «Ti scuoti Ubaldo» e la scena «Miei prodi sorgete allʼarmi».
Giova ricordare che lʼopera, nel corso delle sue repliche italiane, fu rappresentata anche al Teatro Sociale di Mantova nel carnevale del 1840. È presumibile ritenere, dunque, che queste partiture autografe del sacerdote, e le copie, siano state prodotte successivamente alla replica mantovana.
Concludo riportando le cospicue fonti a stampa, segno tangibile non solo della discreta diffusione dellʼopera a cavallo degli anni ʼ30-ʼ40, ma anche della fattiva collaborazione fra il compositore e i maggiori editori del tempo, vale a dire Giovanni Ricordi e Francesco Lucca.
I rapporti epistolari con i due editori denotano lʼinteresse nei confronti della nuova opera; il 17 gennaio del 1839, poche settimane dopo la prima, il compositore scrive allʼeditore Francesco Lucca:
LʼElena da Feltre, Melodramma in tre atti, è del Sig. Cammarano. Io non dimentico i doveri che ho con te per le varie partizioni in stampa che gentilmente mi hai procurato, e ti prego di pazientare sino alla Primavera ondʼio possa di concerto con te, farti cosa grata, che se non in tutto, almeno in parte di compensi deʼtanti sacrifizj, giacché ora mi trovo occupatissimo della nuova Opera [il Bravo].59
Meno frequenti nella corrispondenza sono i rapporti epistolari con lʼeditore Ricordi; lʼElena da Feltre viene citata solamente allʼinterno di una lettera, nel cui corpo Mercadante informa lʼeditore della spedizione della nuova cavatina di Elena.60
Le fonti a stampa, indispensabili per una futura collazione in vista di unʼedizione critica, sono tutte disponibili nei duplici esemplari pubblicati dalle due case editrici: una riduzione per pianoforte solo, una riduzione per pianoforte e voce ed una terza a cui si aggiunge anche la parte corale.
59
pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 193.
60 «Col vetturino Riva, ti ho spedito la nuova cavatina dellʼElena ridotta», ivi, p. 206.
Figura 3: SAlVATORE CAMMARANO, appunto su Elena da Feltre (Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo © Biblioteca Nazionale di Napoli, Miscellanea, Mss. B. XII, 153).
Saverio Lamacchia
«Un ghiribizzo stranissimo è quello modernamente creato di adoprare in unʼopera due primi soprani». Primedonne e regine ne Le due illustri rivali
Preambolo: unʼopera importante e di successo
Le due illustri rivali di Saverio Mercadante andarono in scena per la prima volta il 10 marzo 1838 al teatro La Fenice di Venezia, su libretto del veterano Gaetano Rossi. Il successo fu notevole, come rivelano recensioni e cronache dei giorni seguenti: finisce lʼopera, seguita da un furore di acclamazioni e di molte e molte evocazioni sul palco scenico. In pieno si contano almeno venti evocazioni che vollero sul proscenio il maestro o solo o coʼ suoi cantanti: insomma tutto fu un fanatismo dal principio al fine […] Dopo la terza rappresentazione Mercadante fu accompagnato dal teatro alla sua abitazione fra il chiaror delle faci e gli evviva della moltitudine.1 Piú compiuto trionfo non si ottenne mai da maestro, e il Mercadante, fin allʼultima rappresentazione, dovette mostrarsi piú volte, fino a quattordici in una sera, sul palco.2
Della musica […] attestano concordi voci essere questa un nuovo e prezioso dono, un capolavoro da gire al paro del Giuramento; notansi in essa magniloquenza dʼarmonie, soavi melodie, intreccio artistico di parti, andanti e larghi pieni di
1
2
«Il corriere dei teatri» 25, 28 marzo 1838, pp. 98 e 99.
«Gazzetta privilegiata di Venezia», 22 marzo 1838: cfr. <http://www.artmus.it/public/om/ indice/articoli/idgiornali/1/anno/1838> (ultima consultazione 23 luglio 2021). Cit. anche in ClemeNS rISI, Auf dem Weg zu einem italienischen Musikdrama: Konzeption, Inszenierung und Rezeption des “melodramma” vor 1850 bei Saverio Mercadante und Giovanni Pacini, Tutzing, Schneider, 2004, pp. 8-9 (pure questa recensione attesta che il compositore «fu accompagna to a casa con torcie accese, al suono di musicali strumenti e da un immenso corteggio dʼammiratori e dʼamici»).
ghiribizzo stranissimo è qUello modernamente creato
sentimento e dʼeffetto, istrumentale vigoroso ed eguale, novità negli accordi, finalmente drammatica verità nellʼespressione del concetto poetico. Forse il minore fra tanti pregi è lʼispirazione nelle cabalette e nelle strette; ma lʼarte compensa in pieno il difetto.3
La vide e lʼapprezzò il giovane e già celebre Franz Liszt: «Cʼest une partition écrite avec habileté et conscience; plusieurs morceaux dʼensemble en sont vraiment remarquables: aussi le succès a-t-il été complet. Les derniers ouvrages de Merca dante sont sans contredit les mieux écrits pensées et les mieux pensés du répertoire actuel».4 Lʼopera circolò per almeno dieci anni, come attestano i numerosi libretti a stampa a noi noti. Fu un melodramma di rilievo in una fase importante della carriera di Mercadante: esattamente un anno prima (11 marzo 1837) era andato in scena per la prima volta alla Scala Il giuramento, il piú grande successo della sua carriera; esattamente un anno dopo (9 marzo 1839), di nuovo alla Scala, nacque Il bravo. Le due illustri rivali sono una delle non molte opere di Mercadante riprese a teatro ai nostri tempi: nel dicembre 1970, in occasione del centenario della morte e nello stesso teatro La Fenice dove nacque; il duetto finale de Le due rivali fu inciso in un disco antologico nel 1978 da due star come Renata Scotto e Mirella Freni.5 Questo contributo sʼincentrerà sulla drammaturgia de Le due illustri rivali, deter minata in buona parte dal cast a disposizione di Mercadante: come sempre, del resto, ma con alcune particolarità che si metteranno in rilievo.
Un soggetto comune, una drammaturgia singolare
Il soggetto de Le due illustri rivali è comunissimo, basandosi sulla rivalità in amore di due donne («La loro rivalità, come ben sʼimmagina, trattandosi di libretto dʼopera, non è altra cosa che rivalità dʼamore»),6 come tante altre opere coeve. Piú nello spe cifico, ne Le due illustri rivali una primadonna/regina ama il primo tenore, il quale “osa” amare unʼaltra, con lʼeffetto di scatenare la gelosia furente della regina: un
3 «Il Figaro. Giornale di Letteratura, Belle Arti, Critica, Varietà e Teatri» 6/22, 17 marzo 1838, p. 88.
4 Lettre dʼun bachelier ès-musique à M. le directeur de la “Gazette Musicale”. De lʼétat de la musique en Italie, in FrANZ lISZT, Sämtliche Schriften, I (Frühe Schriften), a cura di Rainer Kleinertz e Serge Gut, Wiesbaden, Breitkopf & Härtel, 2000, p. 280 (scritto pubblicato originariamente nella «Revue musicale. Journal des artistes, des amateurs et des théâtres» 6/13, 28 marzo 1839, pp. 101-105).
5 Registrazione effettuata a Londra presso la Walthamstow Assembly Hall, luglio 1978 (Decca). Per quanto riguarda la bibliografia specifica sullʼopera, cfr. pIero mIolI, Tradizione melodram matica e crisi di forme nelle “Due illustri rivali” di Saverio Mercadante, «Studi musicali» 9/2, 1980, pp. 317-328 e rISI Auf dem Weg zu einem italienischen Musikdrama cit., ad ind.
6 «Teatri, Arti e Letteratura» 16/735, t. 29, 29 marzo 1838, p. 36.
carattere veemente questʼultimo, contrapposto a quello dʼuna rivale in stato di sog gezione, debole e indifesa (almeno in apparenza). Bianca regina di Navarra (inter pretata da Carolina Ungher) ama il figlio dʼun profugo francese, Armando di Foix (Napoleone Moriani) che ama, riamato, Elvira (Eugenia Tadolini), figlia di Gusmano, principe di Pardos (Ignazio Marini). Ungher e Tadolini (soprani), Moriani (tenore) e Marini (basso) furono, comʼè noto, tutti interpreti al massimo livello, in quegli anni.7 È una fabula frequente, con minimi aggiustamenti, almeno dallʼElisabetta, regina dʼInghilterra di Rossini (1815), fino a buona parte delle “opere delle regine inglesi” di Donizetti: Il castello di Kenilworth (1829),8 Anna Bolena (1830),9 Maria Stuarda (1834),10 Rosmonda dʼInghilterra (1834),11 Roberto Devereux (1837);12 e Il conte di Essex13 di Mercadante (1833), tratto dalla medesima fonte di Roberto Devereux, Élisabeth dʼAngleterre di Jacques-François Ancelot (1829). In queste opere le rivali possono essere due soprani (come nelle Due illustri rivali), o anche un soprano e un mezzosoprano/contralto: negli anni 1830 non si era ancora standardizzata la differenziazione vocale tra le due, come sarà negli anni verdiani (soprano, amorosa vs mezzosoprano, rivale). Lo attesta, ad esempio, Il giuramento: Bianca, contralto (prima interprete, Marietta Brambilla), è la consorte dolce e timorosa del tenore Viscardo (Francesco Pedrazzi); Elaísa, soprano, è la rivale (ovvero la consorte man cata: Sofia Schoberlechner), con un carattere opposto, forte, risoluto, vendicativo. Tantʼè vero che alla fine Elaísa avvelena Bianca.
Quasi sempre la regina è combattuta, e deve scegliere, tra amore e dovere (tra Amore e maestà, volendo richiamare il fortunatissimo libretto di Antonio Salvi del secolo precedente),14 cioè tra le ragioni del cuore, spesso in contrasto con la ragion
7 Si vedano le recenti o recentissime voci nel «Dizionario biografico degli Italiani», anche onli ne (<https://www.treccani.it/biografico/elenco_voci/a> – ultima consultazione 23 luglio 2021): Marini (2008) e Savorani Tadolini (2018) a cura dello scrivente, Moriani e Ungher a cura rispettivamente di Francesco Lora (2012) e Ruben Vernazza (2020). Come sempre i nomi degli interpreti compaiono nel libretto a stampa: le due | IlluSTrI rIVAlI | melodrAmmA IN Tre ATTI | dA rAppreSeNTArSI | Nel NuoVo | GrAN TeATro lA FeNICe | Nel CArNoVAle e QuA drAGeSImA 1837-38 | [fregio] | Venezia | TIpoGrAFIA molINArI edITrICe | 1838.
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Elisabetta (interpretata da Adelaide Tosi, soprano) vs Amelia (Luigia Boccabadati, soprano).
In questo caso però le due donne, Anna (Giuditta Pasta, soprano) e Giovanna Seymour (Elisa Orlandi, mezzosoprano) amano il basso (Enrico VIII, Filippo Galli) e non il tenore.
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Maria Stuarda (Giuseppina Ronzi De Begnis, soprano) vs Elisabetta I (Anna Del Sere, mezzo soprano).
Rosmonda (Fanny Tacchinardi Persiani, soprano) vs Leonora (Anna Del Sere); la primadonna in questo caso è la “rivale” (lʼamante del re) vs la regina.
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Elisabetta I (Ronzi De Begnis) vs la duchessa Sara (Almerilda Granchi, mezzosoprano).
Altro caso in cui la primadonna è la rivale della regina: Adelaide Tosi, la duchessa, vs Elisa betta I (Matilde Palazzesi, soprano)
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A dimostrazione appunto di quanto fosse antico tale soggetto, che rinverdí negli anni della
ghiribizzo stranissimo è qUello modernamente
di stato. E può capitare, in questi anni di accesa e focosa temperie romantica, che la regina trascuri i doveri del trono a causa degli affetti privati: il che può essere un problema, anche dal punto di vista della occhiuta censura coeva (lo vedremo alla fine).
Se ne Le due illustri rivali il soggetto non è affatto singolare, la drammaturgia lo è senzʼaltro. Lo è perché non cʼè una sola protagonista femminile (la regina), ma ce ne sono due, di pari importanza e di pari spessore drammatico (anzi, come vedremo, se cʼè una che primeggia è la rivale della regina). Anche il titolo è singo lare ed eloquente, proprio perché le due nobildonne vi sono affiancate. La rivalità è immediatamente tematizzata, a differenza delle ʼopere delle regine inglesiʼ, e piú in generale delle opere con due rivali in amore; in queste ultime normalmente cʼè una protagonista indiscussa: quella che sta nel titolo. Ancor piú rilevante, quanto alla drammaturgia: la tipica conclusione di tali opere è il rondò della primadonna eponima, mentre Le due illustri rivali, coerentemente, si concludono con un ampio duetto delle due primedonne.
Le peculiarità de Le due illustri rivali furono rilevate, in buona parte, dalla stampa coeva; particolarmente interessante la cronaca apparsa nel «Corriere dei teatri» del 28 marzo 1838. Il recensore sottolinea esattamente quanto ho evidenziato, come anche il problema concreto che deve affrontare il compositore con due primedonne di eguale importanza nel cast.
Un ghiribizzo stranissimo, che osta precisamente alle risorse dellʼarte, e che spesso diventa causa dʼimbarazzi e discrepanze assai dispiacevoli, è quello modernamente creato di adoprare in unʼopera due primi soprani: due primi soprani ebbe per la sua anche Mercadante. Una premura non condannabile pel proprio credito è ben naturale che desti in due primedonne, poste cosí lʼuna dirimpetto allʼaltra, un fervido senso di gelosia sulla maggiore o minore importanza delle rispettive parti, sulla sospettata predilezione o dal poeta sentita, o dal maestro, o da entrambi, sullʼinteresse infine di non far lʼinferiore delle due figure; ed una tal gelosia deve con effervescenza straordinaria svilupparsi in una virtuosa che sorgere si veda in faccia la gigantesca, la potenza magica della Ungher. Se condotta ad un tale conflitto nessun mezzo trascurasse per difendervisi la Tadolini, chi sarà che le faccia carico? […] Il titolo dellʼopera era Bianca di Navarra; Bianca è dunque la protagonista, la vera prima donna, e lʼaltra? Lʼaltra sarà un personaggio subalterno per certo, e se tale anche non fosse, il solo titolo qualifica da sé stesso la preminenza; dove sono due prime donne questo titolo non è tollerabile. Il titolo tollerabile sarà perciò le
Restaurazione. Amore e maestà fu messo in musica per la prima volta nel 1715 da Giuseppe Maria Orlandini, si segnala come uno dei pochi drammi per musica settecenteschi con finale tragico ed ebbe poi unʼenorme fortuna per tutto il secolo XVIII. Cfr. reINHArd STro Hm, Dramma per musica. Italian Opera Seria of the Eighteenth Century Music, New Haven, Yale Uni versity Press, 1997, pp. 164-198 (“Amore e maestà” and the “Funesto Fine”).
Due rivali, perché Bianca in concorso con Elvira dedica i suoi affetti allo stesso Armando. Il mutamento si accetta, ma non cosí semplice: Due Rivali! Qui ci vuole qualche epiteto dignitoso, perché due rivali possono essere anche due serve, due villanelle, due cittadine. [...] Bianca è una... regina. Ed Elvira? Una... Principessa. –Bella rivalità! La regina è tutto, senza dubbio, la regina fa tutto, e la principessa è la vittima. Già pur troppo cosí deve essere, ma la vittima sia almeno una regina ancor essa. – Cosí non è, anzi è tutto il contrario, perché quanto è Bianca in condizione superiore ad Elvira, questa è alla rivale tanto superiore in amore. Bianca è regina disprezzata, Elvira è principessa amata, e cosí una prerogativa compensa lʼaltra. [...] [Ne discende che] Il maestro ha la bilancia sul cembalo; le sue note sono come le palline da schioppo, tante in un piatto, tante nellʼaltro. Ma che razza di note, dove, come collocate? Chi canta il gran duetto col tenore? – Tutte e due. – Come tutte e due? Dunque vi è soltanto un terzetto, dunque non vi è duetto fra soprano e tenore? - Nessuno di questi dunque; Bianca ed Elvira hanno ciascuna un gran duetto con Armando. E lʼultimo pezzo qual è dei soprani che lo canta? Tutti e due [...] né lʼuna né lʼaltra canta il solito rondò, lʼopera finisce con un duetto delle due donne. E quale delle due ha il maggior numero di pezzi? Di entrambe i pezzi sono eguali in numero, in lunghezza, in quantità di note pesate sulla bilancia, comprese quelle degli strumenti; non vi è da questa o da quella parte né una botta di tamburlano, né unʼoscillazione di piatti, né uno scroscio di trombetta di piú, tutto è misurato ed equilibrato allo scrupolo: il poeta ha preso la stessa misura per le parole, se non isbaglio perfin per le sillabe.15
Ci sono qui tanti spunti che meritano di essere approfonditi; partendo dal fondo, il numero dei pezzi affidato ai due soprani in realtà non è lo stesso, cosí come non è proprio vero che lʼopera finisce col loro duetto. Lo vedremo; ma prima di tutto è utile indagare sul come si arrivò – e per opera di chi – al singolare affiancamento di due prime donne del calibro di Ungher e Tadolini.
La genesi della stagione,
la scelta del cast, la rivalità con Donizetti
Comʼè ben noto, e come confermano le vicende di cui qui si parla, alcune scelte di fondo riguardanti la drammaturgia operistica non erano di esclusiva pertinenza del compositore e del librettista, ma coinvolgevano altre parti in causa, come i can tanti e chi li sceglieva, ovvero lʼimpresario e i responsabili del teatro committente. Mercadante a Venezia si trovò a lavorare col cast ingaggiato da Alessandro Lanari, lʼimpresario che ebbe lʼappalto della stagione da parte della Presidenza del Gran Teatro La Fenice.
Invero, tanto lʼappalto a Lanari quanto la definizione del cast si realizzarono in seguito a vicende altalenanti, che conviene qui riassumere; ci si basa sulle lettere
15 «Corriere dei teatri» cit., pp. 97-98.
dellʼimpresario scambiate con Mercadante (relativamente poche in nostro possesso) e con Donizetti (molte di piú, e piú utili per comprendere anche lʼopera nuova di Mercadante).16 Donizetti era presente anchʼegli alla Fenice: compose per lʼoccasione Maria de Rudenz, che andò in scena il 30 gennaio 1838. Proprio la compresenza di Mercadante e Donizetti costituí uno dei punti di maggiore interesse: erano “due illustri rivali”, nel senso che in quel periodo si contendevano la palma del primo compositore dʼItalia, in particolare dopo il 1835 (anno della morte di Bellini e, secondariamente, della momentanea battuta dʼarresto della carriera di Giovanni Pacini).17 Se il piú giovane Donizetti vinse la guerra per il primato assoluto, questa battaglia veneziana la vinse Mercadante: esattamente allʼopposto de Le due illustri rivali, Maria de Rudenz fu un insuccesso cocente e segnò una svolta nella biografia artistica del bergamasco; fu infatti lʼultima sua opera scritta per La Fenice, lʼultima per Lanari, lʼultima per la Ungher.18 Mercadante si mise in viaggio per Venezia il 2 gennaio 1838, come sappiamo da una lettera a Salvadore Cammarano del giorno prima.19 Ma le trattative con Lanari risalivano allʼestate del 1836, ben prima che questʼultimo avesse la certezza di essere lʼimpresario di quella stagione;20 tantʼè vero che Mercadante, piú dʼun anno dopo (9 ottobre 1837) scrisse al conte Giuseppe Boldú, podestà di Venezia e presidente della Fenice, per avere conferma della nomina di Lanari e, di conseguenza, dellʼobbligo di comporre lʼopera nuova per i cantanti ingaggiati dallʼimpresario: Ungher, Tadolini, Moriani, Marini e Giorgio Ronconi (baritono, che poi fu impiegato nella Maria de Rudenz ma non ne Le due illustri rivali; tutti furono messi a contratto per lʼintera stagione). Ebbe immediata risposta positiva da Boldú.21 Dunque – va sottolineato
16 Cfr. Jeremy CommoNS, Una corrispondenza tra Alessandro Lanari e Donizetti, «Studi donizet tiani» 3, 1978. Altre lettere di rilievo sono contenute nellʼ“Archivio dellʼimpresa teatrale Lana ri” della Biblioteca nazionale centrale di Firenze: cfr. mA rC ello de A NG el IS , Le carte dellʼimpresario. Melodramma e costume teatrale nellʼOttocento, Firenze, Sansoni, 1982, in parti colare le pp. 199-206 (Vertenza Mercadante).
17 Cfr. la ʼvoceʼ dello scrivente nel «Dizionario biografico degli Italiani» online (<https://www. treccani.it/enciclopedia/giovanni-pacini_%28Dizionario-Biografico%29/> – ultima consulta zione 23 luglio 2021).
18 Sulla rivalità tra Mercadante e Donizetti rimando al contributo di Paolo Fabbri in questo volume. Subito dopo la caduta di Maria de Rudenz Mercadante si lasciò andare anche a con siderazioni ben poco amichevoli nei confronti di Donizetti: cfr. la lettera a Francesco Florimo, non datata, in SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia, epistolario, Fasano, Schena, 1985, pp. 181-184.
19 È la ben nota missiva nella quale afferma, a proposito dellʼElena da Feltre, che vedrà la luce il 1° gennaio 1839 al San Carlo, «ho continuato la rivoluzione principiata nel Giuramento: varia te le forme, – bando alle Gabalette triviali, esilio aʼ crescendo» (pAlermo, Saverio Mercadante, cit., p. 179).
20 de ANGelIS, Le carte dellʼimpresario cit., pp. 199-206: 200-201.
21 Ivi, pp. 205-206, dove Boldú diventa erroneamente “Bolchi”: si veda online, <http://archivio
– Mercadante seppe con congruo anticipo di dover comporre lʼopera nuova per Ungher e Tadolini insieme.
Le opere di Mercadante nella stagione avrebbero potuto essere due: fu Mercadante stesso a proporre una ripresa del Giuramento come inaugurazione per la serata di gala del 26 dicembre 1837, un giorno importante e agognato, piú del solito, perché sancí la riapertura del teatro dopo lʼincendio che lʼaveva distrutto un anno prima (la notte tra il 12 e il 13 dicembre 1836). Ma il progetto non andò in porto.22 La vicenda del Giuramento sʼintrecciò con la rivalità tra lui e Donizetti e con il pos sibile ingaggio di Giuditta Pasta. Il 25 marzo 1837 Mercadante precisò a Lanari di volere «le stesse condizioni di Donizzetti per comporre la sua Opera nuova».23 Il 10 aprile scrisse al marito della diva, Giuseppe Pasta: «tutto è accordato a Doniz zetti piú di me fortunato».24 Negli stessi giorni a Florimo: «Grandi difficultà per la conclusione per lʼapertura del gran Teatro La Fenice di Venezia, atteso che S.E. il Podestà protegge Donizetti – La mia domanda è stata di 10 mila fr. per comporre la 2/da Opera nuova [di fatto sarà la terza], ma sinʼora nulla di deciso, anzi ci spero poco essendoci dellʼintrico fra la Pasta, Donizetti, Lanari, e queʼ Signori».25 Il 10 maggio Mercadante comunicò al conte Boldú la rinuncia al Giuramento per lʼinaugurazione, forsʼanche perché la Pasta sembrò non apprezzare la parte di Elaísa.26 Saltò la ripresa del Giuramento e saltò anche lʼingaggio della Pasta. Le
storico.teatrolafenice.it/scheda_documento.php?ID=470> (ultima consultazione 23 luglio 2021). Nel medesimo archivio della Fenice online si legge il contratto del 14 marzo 1837 (di fatto, un precontratto, in attesa della conferma di Lanari come impresario) «per comporre una grandʼopera seria». (<http://archiviostorico.teatrolafenice.it/scheda_documento.php?ID=467> – ultima consultazione 23 luglio 2021).
22 «Questo Teatro è riescito il piú elegante dʼItalia, armonico, magnifico», scrive Mercadante a Florimo lʼ8 gennaio 1838 (pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 181). Lʼoccasione era cosí impor tante che Lanari aveva vagheggiato di poter scritturare addirittura Rossini: essendo impossi bile avere da lui unʼopera nuova, gli chiese la disponibilità a mettere in scena di persona il Guglielmo Tell; ma Rossini rifiutò. Cfr. le lettere di Lanari a Rossini del 26 febbraio 1837 e la risposta del 5 marzo, in Gioachino Rossini. Lettere e documenti, V, Pesaro, Fondazione Rossini, in corso di pubblicazione (ringrazio Reto Müller per avermene consentito la lettura in ante prima; dette lettere sono riassunte in de ANGelIS, Le carte dellʼimpresario cit., pp. 60-61). Ma Lanari aveva interpellato anche Donizetti, sollevando nel contempo una questione sul cast e sulla drammaturgia di grande interesse nel presente studio: «Tu dovresti scrivere al Sr Con te Boldú Potestà che se avesti il piacere di scrivere in occasione dellʼapertura, preferiresti sempre di avere una compagnia alla moderna, cioè 1a Donna, 1o Tenore, 1o Baritono, ed una buona Donna di spalla soprano, invece di due prime Donne, essendovi di queste troppa scar sità» (lettera del 25 febbraio 1837, in CommoNS, Una corrispondenza cit., p. 42).
23 de ANGelIS, Le carte dellʼimpresario cit., p. 201.
24 Ivi, pp. 202-203. È la lettera nella quale propone Il giuramento per «principiare la stagione».
25 pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 173.
26 de ANGelIS, Le carte dellʼimpresario, cit., p. 205.
lettere di Lanari attestano che ci fu un confronto acceso tra di lui, che preferiva la Ungher (beniamina del pubblico veneziano dopo il trionfo del Belisario nel febbraio 1836) e la Presidenza della Fenice, che avrebbe voluto appunto la Pasta, ormai a fine carriera ma pur sempre con una fama ineguagliabile («Egli [Boldú] ha esternato di voler la Pasta, ed io invece che voglio la Ungher, che ho fatto tanto per averla perché ritengo che possa fare il mio interesse al di sopra dʼogni altra»). 27 Il 30 agosto Lanari raccontò a Donizetti di un tentativo di mediazione: «ho proposto di contentare i due partiti, cioè gli Ungheresi, che è tutto il pubblico, e i Pastisti che sono pochi Nobili, ma potenti».28 In questa mediazione erano contemplate nella stagione tanto la Ungher (per 30 recite) quanto la Pasta (per 20): la Pasta avrebbe dovuto cantare le due di Mercadante (evidentemente Lanari non sapeva che il 10 maggio Mercadante aveva rinunciato al Giuramento; oppure lʼannunciata rinuncia non era definitiva), la Ungher le opere nuove di Lillo e Donizetti.
In ogni caso mai era stato previsto che Pasta e Ungher avessero potuto cantare insieme nella stessa opera. Oltretutto erano due soprani drammatici (diremmo oggi), versati allʼincirca nelle stesse tipologie di parti, i “caratteri forti”. Al contrario, la Tadolini – la cui presenza era prevista solo in caso di rifiuto della Pasta: come poi fu – prediligeva un «diverso genere di canto»; era un tipo di soprano dal “carattere dolce”, compatibile ad affiancare la Ungher, come sottolineò Lanari nella lettera del 25 febbraio 1837 a Donizetti («Le Donne dunque ove la scelta potrebbe cadere anche per un diverso genere di canto della Ungher, sarebbero sulla Tadolini, Tac cani, e Palazzesi»).29 Dunque, se Ungher e Tadolini erano difficilmente compatibili
27 Lanari a Donizetti, 12 luglio 1837, in CommoNS, Una corrispondenza cit., p. 54. Il trionfo di Belisario del 1836 aveva consolidato il rapporto tra Lanari e Ungher. La ventenne Ungher era stata scelta da Beethoven per le prime esecuzioni della Nona sinfonia e della Missa solemnis come contralto (Vienna, 7 maggio 1824). In realtà era una voce anfibia: per alcuni «mezzosoprano» («Lʼeco», 14 aprile 1828, p. 180), per altri «partecipa del soprano e del contralto» («I teatri. Giornale drammatico, musicale e coreografico», I/1, 1827, p. 212). In ogni caso era eccel lente attrice: tra le numerose attestazioni coeve significative, la seguente si riferisce a una ripresa de Le due illustri rivali alla Fenice (Elvira fu Giuseppina Strepponi): «La Ungher e nel canto e nellʼazione fu quale doveva essere unʼattrice che non ha forse or rivali in Italia. La perfezione con cui e per espressione e per arte cantò la sua romanza, non si potrebbe signi ficare; il Pubblico lʼinterruppe ogni volta alla cadenza, dʼun effetto soavissimo, per non so quale delicatezza con cui filava la voce smorzando. La sua parte è bellissima, piena di passio ne» («Il Figaro. Giornale di Letteratura, Belle Arti, Critica, Varietà e Teatri» 7/23, 20 marzo 1839, che riprende un articolo della «Gazzetta di Venezia»).
28 CommoNS, Una corrispondenza cit., p. 57.
29 È la lettera già citata alla nota 22. Quanto allʼopposizione tra “carattere forte” e “carattere dolce”, e al loro affiancamento quasi dʼobbligo se la scelta del cast prevedeva due donne, cfr. anche la lettera a Donizetti del Presidente agli spettacoli della Fenice, Giuseppe Berti, in GIor GIo pAGANNoNe, La “Pia deʼ Tolomei di Salvadore Cammarano. Edizione genetico-evolutiva, Firenze, Leo S. Olschki, 2006, p. 35 («il carattere dolce della Persiani avrebbe bisogno del contrasto di un carattere forte col quale si potrebbe vestire lʼaltra Donna», 21 giugno 1836).
nella stessa opera a causa dellʼalto rango di entrambe, non lo erano per le attitudini drammatiche.
Primedonne assolute e primedonne di spalla: Maria de Rudenz vs Le due illustri rivali
Un confronto con la drammaturgia di Maria de Rudenz è istruttiva per comprendere quella, diversa, delle Due illustri rivali, sebbene anche lʼopera di Donizetti si basi su un modello analogo: due donne, Maria (Ungher) e Matilde (Isabella Casali) si con tendono lʼamore dello stesso uomo, Corrado (Giorgio Ronconi); Enrico (Napoleone Moriani) è lʼinnamorato non corrisposto di Maria. Ma in Maria de Rudenz manca la regina; e soprattutto la rivale in amore della protagonista eponima, Matilde, è una seconda donna, un personaggio drammaticamente insignificante: dunque unʼopera “a tre” con «compagnia alla moderna».30
E lo fu per scelta di Donizetti (e Cammarano), come apprendiamo dallo scambio epistolare con Lanari, che il 31 maggio 1837 scrisse al Bergamasco, prospettandogli la compresenza Ungher/Tadolini: «Spero che avrai scelto un buon soggetto che Cammarano tratterà da suo pari. Sembra che Mercadante voglia servirsi del Poeta Rossi, nulladimeno digli che mi tenga in pronto un altro buon soggetto, prevenen dolo però che tanto il tuo che questo deve essere a quattro parti reali, dovendo essere eseguiti dalla Ungher, Tadolini, Moriani e Ronconi».31 Il 25 agosto Lanari lo ribadí, specificando che la scelta di affiancare o meno la Ungher e la Tadolini dipendeva dalla Presidenza della Fenice: «Spero intanto che tu avrai pensato al soggetto p[er] lʼopera da scrivere, e che Camerano ne avrà preparati due cioè uno a tre soggetti p[er] la Ungher, Moriani, e Ronconi, e lʼaltro a quattro vale a dire p[er] la Ungher, Tadolini, Moriani e Marini a seconda di come vorrà essere servita quella Nob[ile] Presidenza».32 Donizetti e Cammarano scelsero La nonne sanglante di Auguste Ani
Chiaro in ogni caso che i responsabili della Fenice auspicavano due donne di rilievo nel cast, forse prima di tutto per ragioni di prestigio, comʼè chiaro che la Tadolini, soprano sfogato (ma pure dotata di bassi sonori), prediligeva le parti sentimentali (secondo Felice Romani aveva voce «soave, fiorita, è fatta per la gioia, per lʼamore che si può consolare, per afflizioni rasse renate dalla speranza, non per gli strazii dʼun cuore in tempesta, non pei delirii di unʼanima angosciata, non per le grida della disperazione»: Miscellanee del Cavaliere Felice Romani tratte dalla Gazzetta Piemontese, Torino, Favale, 1837, p. 407), mentre la Ungher era «inarrivabile» nella manifestazione di «passioni esagerate», cosí frequenti nei soggetti seri coevi (lettera di Girolamo Viezzoli a Vaccaj, 24 ottobre 1838, in Il carteggio personale di Nicola Vaccaj, I, a cura di Jeremy Commons, Torino, Zedde, 2008, p. 957). Cfr. le ʼvociʼ di Vernazza sulla Ungher e dello scrivente sulla Savorani Tadolini nel «Dizionario biografico degli italiani» cit.
30 Cfr. la nota 22. Una singolarità della Maria de Rudenz è che la prima donna ama il baritono e non il tenore.
31 CommoNS, Una corrispondenza cit., p. 49.
32 Ivi, pp. 56-63.
cet Bourgeois e Julien de Mallian (1835), fonte della Maria de Rudenz; inviarono il «programma» (cioè una sceneggiatura preliminare) a Lanari, che allora chiese al compositore quale rilievo avesse immaginato per il personaggio di Matilde:
Fra i diversi Personaggi che vi ho trovato, veggo una Matilde, che parmi debba sul genere dellʼAdalgisa:33 non saperò se tu avesti mai immaginato di dare questa parte alla Tadolini: in questo caso devo rammentarti, che la Tadolini è scritturata 1a Donna assoluta ancor Lei come la Ungher, e che tanto la quantità della parte, quanto lʼinteresse dovrebbe essere uguale. Se io, come credo, mʼingannassi in questo mio supposto, è indispensabile mi dica subito se p[er] la Matilde è sufficiente una seconda donna, o sia vero vi voglia una cosí detta P[ri]ma Donna di Spalla, che in questo caso dovrei provvedere.34
Donizetti si orientò su Matilde come seconda donna. Non abbiamo la sua lettera ma la risposta di Lanari del 12 novembre: «Siamo intesi p[er] la seconda donna, e lʼavrai quale ci vuole». Ovviamente non poteva essere la Tadolini, alla quale sarebbe stato stretto persino il ruolo di «prima donna di spalla». Dunque, la semplice scelta di un soggetto come La nonne sanglante, che non poteva annoverare due primedonne assolute, escluse ipso facto la compresenza di Ungher e Tadolini. Lanari in effetti si preoccupò piú e piú volte di specificare a Donizetti che la Tadolini era scritturata come prima donna assoluta al pari della Ungher. Il 30 agosto 1837: «osservandoti che la Tadolini è scritturata come prima donna assoluta anche Lei, e in conseguenza la sua parte deve essere eguale a quella della Ungher». Il 4 settembre: «Tu potrai giovarti della Tadolini, e Marini, se ti accomoda, rammen tandoti sempre che la Tadolini è anche P[ri]ma Donna assoluta». Dopo la lettera del 13 ottobre citata, il 20 ottobre Lanari spiegò a cosa fu dovuta la compresenza della Ungher e della Tadolini a Venezia: a uno «sbaglio» involontario.
Sul proposito rendere interessante la parte di Matilde si vede che è nellʼopinione che questa parte sia assegnata alla Tadolini, e qui mi giova confermarti che la Tadolini, se te ne vuoi servire[,] deve avere una parte eguale allʼUngher, essendo anchʼEssa scritturata come prima Donna assoluta. Non creder già che abbia fatto un tale sbaglio, e che abbia fatta questa scrittura dopo che sapevo di avere lʼImpresa di Venezia. La Tadolini fu scritturata due anni sono p[er] Teatri di competenza e ritenevo metterla a Firenze ove non avrebbe avuto competitrici, ma quando sono stato p[er] stringere il Contratto del Teatro la Fenice ho dovuto
33
Il riferimento ovviamente è a Norma.
34 CommoNS, Una corrispondenza cit., pp. 61-62 (13 ottobre 1837): con «prima donna di spalla» intende unʼinterprete in grado di cantare bene i numeri dʼassieme (vedi anche la lettera del 30 agosto 1837, pp. 57-58).
obbligarla, né ho potuto toglierle lʼassoluzione.35
Le lettere di Lanari a Donizetti, dunque, ci fanno capire indirettamente perché Mercadante dovette preoccuparsi di bilanciare le parti della Ungher e della Tadolini. Le lettere di Mercadante in nostro possesso, invece, nulla ci dicono sui suoi desideri o sulle sue scelte, riguardo al soggetto (di cui ignoriamo la fonte) e riguardo al cast della sua opera nuova. Se ignoriamo i dettagli (ad esempio: Mercadante accettò di buon grado lo «sbaglio» di Lanari, oppure per lui fu un ripiego?), è nei fatti che nelle Due illustri rivali Mercadante accettò ciò che Donizetti rifiutò (o evitò scientemente): scrivere lʼopera per due primedonne assolute.
Per quanto riguarda Donizetti, non sappiamo se abbia prevalso in lui il deside rio di mettere in musica proprio il soggetto sanguinario di Maria de Rudenz, che per sua natura non poteva contemplare due primedonne assolute o, viceversa, se abbia scelto Maria de Rudenz proprio per non trovarsi nella scomoda situazione di dover mettere in competizione due primedonne assolute. Del resto lʼesperienza di Maria Stuarda Donizetti doveva ricordarsela ancora bene. Comʼè noto, al di là dei problemi della censura, Donizetti dovette sopportare pure lʼaccesa rivalità tra Giuseppina Ronzi De Begnis (Maria Stuarda) e Anna Del Sere (Elisabetta I), le quali si accapigliarono durante le prove della mancata rappresentazione napoletana del 1834: nel punto culminante del Finale dellʼatto I, la lite tra le due regine (con la Stuarda che dà della «vil bastarda» ad Elisabetta) si trasformò in una zuffa tra le due primedonne.36
Ma non si trattava di due prime donne assolute, come Ungher e Tadolini: sta qui la differenza tra Le due illustri rivali e le altre opere con due primedonne rivali in amore, regine o non regine che siano, come sʼè accennato. Normalmente costoro non sono dello stesso rango, in quanto la “rivale”, che magari sul palcoscenico sta spesso al fianco della protagonista eponima, le sta al di sotto come importanza dram matica, e quindi nelle “convenienze teatrali”: è questa la “regola” cui Le due illustri rivali fanno eccezione. Riproponendo la terminologia di Lanari, la contrapposizione consueta è tra una «primadonna assoluta» (Norma) e una «primadonna di spalla» (Adalgisa); nella Maria Stuarda tra la star Ronzi de Begnis e la piú modesta Del Sere, un rapporto sbilanciato che permane nella rappresentazione dellʼopera alla Scala nel 1835, dove Maria Malibran/Stuarda sovrasta Giacinta Puzzi-Toso/Elisabetta.37 Ma analogamente sbilanciato è il rapporto tra lʼeponima Anna Bolena (Giuditta
35
Ivi, pp. 57-63: 63.
36 Cfr. ANNAlISA BINI – Jeremy CommoNS, Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, Roma, Accademia nazionale di S. Cecilia, 1997, pp. 407-417: 413.
37 Tantʼè vero che a Milano il soprano designato per Elisabetta era Sofia dellʼOca-Schoberlechner, che però rifiutò proprio perché riteneva la parte troppo misera, come scrisse in una lettera alla Malibran, lasciando la parte alla meno quotata Puzzi-Toso; a proposito di questʼultima il «Cosmorama teatrale» del 2 gennaio 1836 scrisse esplicitamente: «questa parte [Elisabetta] non le procurerà certamente allori» (in ivi, pp. 534, 547, 549).
Pasta) e Giovanna Seymour (sua “spalla”, Elisa Orlandi), nel Roberto Devereux tra Elisabetta (pur non eponima: Ronzi de Begnis) e Sara (Almerinda Granchi)38 e, risa lendo allʼElisabetta regina dʼInghilterra di Rossini, tra Elisabetta (Isabella Colbran) e Matilde (Girolama Dardanelli).
La ʼrivaleʼ in amore della prima donna assoluta dunque è improbabile tanto come altra primadonna assoluta, tanto come seconda donna (che sarà invece unʼancella o damigella, al servizio ora dellʼuna ora dellʼaltra; Maria de Rudenz in questo senso fa eccezione); tra le due donne rivali in amore deve “esserci partita”: il che vuol dire che la rivale devʼessere primadonna di spalla, in grado di cantare non solo (eventualmente) nei concertati o nei pertichini di numeri altrui (come la seconda donna), ma anche in importanti numeri musicali, che nel complesso comunque devono essere in misura inferiore rispetto alla primadonna assoluta.
Che non fosse facile far coesistere due primedonne assolute come Ungher e Tadolini lo dimostra anche la circostanza che Le due illustri rivali sono lʼunica opera della stagione di carnevale e quaresima 1837-38 nella quale le due dive cantarono affiancate; una stagione particolarmente densa, con ben sei opere andate in scena tra il dicembre 1837 e il marzo 1838, tre nuove (Rosmunda in Ravenna, Maria de Rudenz, Le due illustri rivali) e tre di repertorio (I puritani, Parisina, Beatrice di Tenda). Lʼimpegno della Ungher e della Tadolini nella stagione fu molto diverso: la Ungher cantò in cinque opere su sei (saltò i soli Puritani), a conferma che era lei la prima scelta di Lanari; la Tadolini solo in due, nei Puritani e ne Le due illustri rivali. Unʼulteriore conferma indiretta del “problema dei due soprani”, e dei vari tentativi di soluzione, è data dalla vicenda della mancata ripresa della Rosmonda dʼInghilterra di Donizetti, che era andata in scena per la prima volta a Firenze nella quaresima del 1834, con Fanny Tacchinardi Persiani protagonista eponima “a danno”, ancora una volta, di Anna del Sere come Leonora (rispettivamente 6 pezzi contro 4). Donizetti in seguito bilanciò le parti delle due primedonne, rafforzando quella di Leonora con una cavatina e una cabaletta come finale del dramma: col nuovo titolo di Eleonora di Guienna sarebbe dovuta andare in scena già a Napoli nel 1837; nelle intenzioni di Lanari la partitura cosí revisionata poteva tornar utile anche per le recite veneziane di qualche mese dopo con Ungher e Tadolini, tantʼè vero che il 25 settembre 1837 suggerí a Donizetti di portarla con sé a Venezia («avrai la compiacenza di portarmela a Venezia, avendo intenzione di darla colla Ungher, la Tadolini, Moriani e Marini»). 39 Tutto ciò detto, e a maggior ragione, nellʼopera nuova scritta appositamente da Mercadante la parte della Tadolini doveva essere, per forza di cose, non inferiore
38 Nella lettera di Donizetti al conte Ottavio Tasca del 29 gennaio 1838 si fa cenno alla grande differenza dei compensi delle due: Ronzi 800/1000 ducati al mese, Granchi 200 (cfr. GuIdo ZAVAdINI, Donizetti. Vita - musiche - epistolario, Bergamo, Istituto italiano dʼarti grafiche, 1948, p. 465).
39 CommoNS, Una corrispondenza cit., p. 61; alle pp. 48-49 si legge la lettera del 31 maggio 1837 che attesta come la medesima rinnovata versione dellʼopera era in progetto per Napoli.
a quella della Ungher, altrimenti la prima sarebbe stata alquanto sfavorita e di fatto sottoimpiegata. Al contrario, ne Le due illustri rivali la Tadolini ebbe la sua rivincita, come ora andiamo a vedere, osservando piú da vicino lʼopera quanto alla drammaturgia e alle convenienze teatrali.
Lettura de Le due illustri rivali: la rivincita della Tadolini40
Il confronto-scontro tra le due rivali inizia presto, già nellʼIntroduzione, che rap presenta la fastosa cerimonia di omaggio per lʼascesa al trono della neo-regina Bianca («il pezzo migliore di tutta lʼopera, quindi applausi infiniti»):41 si tratta di un quintetto statico (ciascuno canta tra sé) con coro e banda sul palco, innescato da un gioco di sguardi furtivi che Rossi prescrive in una didascalia: «Ella [Bianca] scorge gli sguardi dʼElvira ed Armando, che poi la mira con affetto e si turba». Il tenore Armando dunque fissa il suo sguardo fatale su entrambe, dʼamore per Elvira e dʼaffetto per Bianca. Sembra fatto apposta per suscitare equivoci: e infatti ciascuna delle due donne sospetta che Armando ami lʼaltra (i primi due versi della doppia quartina di Bianca: «Quali sguardi... fier sospetto!... | Fur dʼamor... temer dovrei»; i primi due versi della doppia quartina di Elvira: «Quali sguardi... quale ardore!... | Ei potria!... rivale in lei!»). Ma gli ultimi due versi di Armando sono «Dolce spiro di mia vita | mʼè dʼElvira il fido amor»: se equivoci sono i suoi sguardi, non lo sono le sue parole e i suoi sentimenti. In ogni caso anche Gusmano e Alvaro (secondo tenore, Achille Ballestracci) notano lʼinsidioso incrocio di sguardi, e persino il coro. Mercadante è attento a tenere sullo stesso piano le due rivali, in modo che nes suna prevalga sullʼaltra dal punto di vista musicale e vocale. Lo attesta la scrittura complessiva del pezzo non meno che la distribuzione degli acuti, un indicatore rilevante, a maggior ragione, in unʼopera con due soprani: tanto il largo concertato quanto la stretta si concludono con un Do5 allʼunisono di Bianca ed Elvira. Succes sivamente Gusmano intende imporre alla figlia di sposare Alvaro (Terzetto Elvira/ Alvaro/Gusmano «A quel sangue un dí giurai»), Bianca ha la conferma di avere Elvira come rivale proprio dallʼingenuo Armando, che glielo confessa (Duetto «Dal ciel disceso un angelo», preceduto dalla romanza di Bianca «Sorte avversa, in suo rigor»). Nel Finale primo «Nel tuo core io già discesi» Bianca avalla il matrimonio tra Elvira e Alvaro; si vuole sbarazzare di Elvira, ovviamente, che tenta di ribellarsi
40 Ho consultato le seguenti fonti musicali (lʼautografo è disperso): la copia manoscritta della partitura in I-VT; altra in I-NC, 29.6.4-5, digitalizzata (<http://www.internetculturale.it/jmms/ iccuviewer/iccu.jsp?teca=MagTeca+-+ICCU&id=oai:www.internetculturale.sbn.it/ Teca:20:NT0000:IT\\ICCU\\MSM\\0150910> – ultima consultazione 21 luglio 2021), che riflet te la versione dellʼopera data a Napoli nel 1840 (sulla quale cfr. rISI cit., p. 13); lo spartito Scena e Duetto «Leggo già nel vostro cor», Novara, F. Artaria & C., s.d., nn. edit. 457 e 266; lo spartito Scena e Duettino «Là dal cielo in cui volasti», Napoli, B. Girard & C., s.d., n. edit. 5363.
41 «Corriere dei teatri» cit., p. 98.
ma senza successo, tanto che, sopraffatta dal dolore e dallʼangoscia, sviene. Queste le eloquenti didascalie di Rossi, tipiche delle opere romantiche coeve (degne di Cammarano, si direbbe): Elvira «vacilla pallida, fuor di sé, convulsa, singhiozza, soffocata grida e cadendo sviene fra le braccia delle Dame». Ma tutti credono sia morta, e cosí si chiude il sipario.
Nel secondo atto, tutti, uno alla volta, vengono a sapere che non lo è. Armando, «in abito di lutto», si reca a darle lʼultimo saluto nelle tombe sotterranee, dovʼè ambientato lʼintero atto: per prima cosa canta unʼaria elegiaca “alla Moriani” («Quel celeste tuo sembiante»). Scoperto che Elvira è viva, sʼunisce con lei in un duetto dʼamore («Ah sí tua cara voce», preceduto e direttamente connesso alla romanza di Elvira «Io là sognai lʼimmagine»). Va via Armando, e arriva nel sotterraneo Bianca, in preda ai rimorsi per aver indirettamente causato – ella crede – la morte di Elvira, rimorso tanto piú lacerante perché le due donne sono state amiche dʼinfanzia (ed è da sottolineare, perché frequente, il rapporto affetto vs odio tra le due rivali).
Segue un duettino, «Là dal cielo a cui volasti», tra Bianca ed Elvira, piuttosto originale se non bizzarro: a differenza di Armando, Bianca, per lʼintera durata del pezzo, non sʼaccorge che Elvira è viva.42 Ciò perché Bianca resta in una stanza attigua a quella dellʼamica/rivale: quindi Elvira ascolta (e vede) Bianca, ma non il contrario; per cosí dire, si tratta dʼuna sorta di monologo/romanza di Bianca, “origliato” da Elvira, che commenta tra sé, intessendo con lei il canonico a 2 di un duettino. E ciò che ascolta Elvira è compromettente per la regina: per prima cosa Bianca prova vergogna di sé stessa per aver gioito della morte di lei, a causa del suo «fatale amore | Per Armando!...»; amore che lʼha indotta a sentimenti e disposizioni dʼanimo ben poco regali: «Questʼamor che mi strascina... | che mi perde... che spietata43 | già mi rese... falsa... ingrata... | e capace di ogni eccesso | nel geloso mio furor». (Detto tra parentesi, Rossi non spiega mai nel libretto perché la regina non può amare Armando, perché il suo è un amore fatale e colpevole; sappiamo solo che Armando
42 «Una specie di duettino» («Corriere dei teatri» cit., p. 98); «un duetto singolare perché mentre Elvira sente tutto quel che dice Bianca, questa non si accorge nemmeno della presenza dʼElvira, che però canta abbastanza forte per farsi udire da tutta la platea» («Glissons, nʼappuyons pas. Giornale di Scienze, Lettere, Arti, Varietà, Mode e Teatri» 6/104, 28 dicembre 1839, p. 415, che si riferisce a una ripresa dellʼopera alla Scala); «lʼeffetto [del duettino] è maraviglioso» («Il Figaro» 6/22 del 17 marzo 1838); «e vogliamo notare unʼaltra novità che fu bellamente intro dotta dal M. Mercadante nel nostro teatro; e questa è dʼuna scena che i Francesi chiamano musicale, in cui due voci, senza che lʼuna sappia dellʼaltra, con non so quale inusitato artifizio, si maritano insieme nel canto» («Il vaglio» 3/12, 24 marzo 1838, p. 99); una recensione invero interessante questʼultima, non tanto per la lode sperticata alle Due illustri rivali (addirittura «tra le piú celebrate produzioni musicali del secolo»: p. 98), quanto per una precoce descri zione della cosiddetta «solita forma»: «il procedimento musicale dei pezzi prescritto cosí, che al primo tempo debba senza remissione succeder lʼadagio e a questo imperiosamente sʼappicchi la stretta; in una parola accordar tutto alle cosí dette convenienze e poco alla ragione, e quasi nulla alla poesia».
43 «Con passione e fremito di se stessa crescente», la didascalia corrispondente di Rossi.
è figlio di un esule, ma nulla viene spiegato dellʼantefatto, ed è una del non poche incongruenze del libretto, rilevate dalla stampa coeva).44
Le parole di Bianca colpiscono Elvira, la quale ignora che la regina sia sua rivale in amore: ella pensa bene che non è proprio il momento di “farsi viva” («Ah! Si taccia... Il cor è oppresso | dallʼangoscia e dal terror»). Dal punto di vista musicale e della scrittura vocale si ha la conferma di quanto Mercadante abbia davvero lavorato con la «bilancia sul cembalo»:45 frasi musicali corrispondenti, una scrittura vocale ana loga, e se ha un acuto una, lo ha pure lʼaltra (nellʼa 2 conclusivo, sfoggiano entrambe, di nuovo, uno smagliante Do5, pur a distanza di una battuta una dallʼaltra: prima tocca alla Tadolini, poi alla Ungher; il che può essere significativo: prima spetta al soprano sfogato, poi al soprano nato contralto, beniamina della Fenice, la quale non doveva essere da meno).
Nel Finale II (un altro grande finale con sezioni concertate: a dimostrazione che si tratta di una sontuosa “grandʼopera”) vengono a sapere che Elvira è viva prima il padre Gusmano e poi la regina Bianca, la cui reazione emotiva è significativa della sua doppiezza e dei suoi sentimenti contrastanti (lʼamore per Armando, che rende impossibile lʼaffetto per lʼamica Elvira, ora rivale). Rossi illustra i moti dellʼanimo della regina attraverso le didascalie. Appena Bianca ha la sorpresa di vedere Elvira viva, «con trasporto si slancia verso di lei aprendo le braccia [...] restano abbracciate. Bianca, nel girar lo sguardo vede Armando, nʼè colpita, lascia cader le braccia, e si stacca lentamente da Elvira». Bianca esclama «O con lui [Armando] morir felice... | o morire nel dolor», stesse parole ripetute da Elvira nel medesimo concertato. Resta da stabilire se il contratto di nozze tra Elvira e Alvaro è valido; Bianca demanda la decisione a unʼalta corte di giudici. Giudizio che avviene nellʼatto III (cosí, dopo la scena dello svenimento, indi del sotterraneo, cʼè pure la scena del giudizio a com pletare i topoi drammatici dellʼepoca): i giudici decidono che il contratto è valido, e dunque di fatto rimandano la decisione alla regina.
Nel Duetto finale cʼè la resa dei conti tra le due illustri rivali. Elvira chiede a Bianca di scioglierla dal legame con Alvaro. Dapprima con le buone: «dopo averla fissata con dolcezza», dice «Sciogliete | questo nodo fatale | che mi trasse alla tomba». Ma dato che Bianca rifiuta, Elvira passa alle maniere cattive, cioè alle minacce e al ricatto. Quel che accade è sorprendente: la “debole” Elvira – che durante lʼopera ha piú volte implorato padre e regina, è svenuta ed è quasi morta, sembrava insomma avere
44 Esso si meritò la seguente stroncatura: «Il libretto, parole del signor Gaetano Rossi, è uno dei soliti pasticci che la prolifica penna di questo antico poeta sa impastare ad ogni richiesta di un compositore di musica. Qualche situazione drammatica e cattivi versi costituiscono la fisionomia particolare di tutti i suoi lavori [...] Come al solito le innumerevoli reticenze ren dono inintelligibili moltissime idee del poeta, ed è sí grande il numero dei puntini che forma no parte integrante del melodramma, ed il signor Gaetano Rossi potrebbe sottosegnare i suoi libretti scrivendo parole e puntini di G.R.» («Il Figaro. Giornale di Letteratura, Belle Arti, Cri tica, Varietà e Teatri» 7/104, 28 dicembre 1839, p. 416).
45 Cfr. la recensione sul «Corriere dei teatri» citata supra.
tutte le caratteristiche della vittima designata – ora si trasforma in una leonessa e mette alle strette la regina, tornando su quanto aveva “origliato” nel duettino del secondo atto. Nel tempo dʼattacco Elvira accusa apertamente la regina di amare segretamente Armando («Leggo già nel vostro petto46 | verità crudel, fatale». E poi: «Dʼardente affetto | lʼinteresse vi prevale | [...] Invan piú simulate. | Per Armando [...] Voi lʼamate».); la regina prima nega («E tu ardisci! qual calunnia»), poi cede e ammette il suo amore colpevole: «Ah! nascoso al mondo intero | ti volea, fatal mistero. | Da tantʼanni che già peno | a celar mie fiamme in seno! | Questo cor che mʼha tradito | dal mio sen vorrei strappar». Nel cantabile («Dolce e primo mio sospiro») le due donne ribadiscono il loro amore assoluto per Armando, e il pro posito, comune a entrambe, di non volervi rinunciare.
Nel tempo di mezzo Elvira arriva a sfidare la regina («Vendicarmi io saprei... | Vostro arcano sta in mia mano», marcata), che nella cabaletta risponde a tono, fremente: il duetto si conclude con minacce reciproche. Ma sono quelle di Elvira a colpire nel segno: rientrata tutta la corte (coro e personaggi principali), nella scena ultima, in recitativo, la regina capitola: «ella va al tavolino, è già pallida, quasi convulsa, e si conosce il vivissimo interno contrasto che prova, e che cerca nascon dere e superare». Indi esclama: «Elvira!... Il nodo... è... sciolto», parole declamate largamente e accompagnate nel libretto da questa significativa didascalia: «nel pronunziar queste parole le va mancando la voce, vacilla, e si gitta sulla sedia»; la musica asseconda il libretto e crea un effetto di suspense, con armonie dissonanti e incerte, fin quando Bianca decide, suo malgrado e a suo danno: scioglie il nodo di Elvira, e pure quello del dramma. Alla fine è la regina che vacilla e cade, non la sua antagonista Elvira: a dimostrazione del rovesciamento dei rapporti di forza. Che Elvira alla fine sia la vincitrice lo sottolinea anche la musica di Mercadante, specie la scrittura vocale: se nei numeri precedenti le due rivali erano state asso lutamente alla pari, nel duetto conclusivo è Elvira/Tadolini a prevalere. Già nel tempo dʼattacco, dopo una sezione declamata, segue una melodia chiusa, uguale per entrambe, ma in Re maggiore per Elvira, in Re♭ maggiore per Bianca. Elvira tocca il Si4, Bianca il Si♭♭ 4. Il cantabile si conclude con un a 2 in terze parallele: anche qui Elvira ha la parte piú acuta, arriva al Do♭5, mentre a Bianca tocca un La♭4. Nello scambio di minacce della cabaletta Elvira tocca il Re♭5, Bianca il Do5. Il dato che a me pare significativo – lo ripeto – è che solo nel decisivo duetto finale Mercadante differenzia la scrittura vocale delle due, piú acuta quella di Elvira/Tadolini, vincitrice, piú grave quella di Bianca/Ungher, sconfitta. Anche le “convenienze teatrali” pro vano la supremazia di Elvira: Bianca/Ungher canta in tutto 7 pezzi (1 aria, 3 duetti, 1 quintetto, il finale I e II), Elvira/Tadolini 8 (1 aria, 3 duetti, 1 terzetto, 1 quintetto, finale I e II), 8 anche Armando/Moriani (Gusmano 6, Alvaro 5).
Una regina sconfitta, dunque, Bianca di Navarra? sí e no. Si può rispondere: no, perché lʼopera un lieto fine “formale” pure ce lʼha: dopo essersi accasciata
46 «Nel vostro cor», nelle fonti musicali consultate.
sulla sedia (dove lʼavevamo lasciata), Bianca «si volge al cielo e sospira»: «Io! – Io regnerò».47 Lʼopera si conclude con un coro encomiastico, che tuttavia in partitura viene alquanto scorciato rispetto al libretto: vengono messi in musica solo gli ultimi due («Bianca gloria ognor del soglio | qual delizia è dʼogni cor») dei sei versi previsti. Dʼaltro canto si può rispondere: sí, la regina esce sconfitta, perché, in fondo, regnerà suo malgrado. È evidente che sceglie di regnare perché non può piú amare (come avrebbe di gran lunga preferito).
Può essere utile, per contrasto, un confronto con il finale dellʼElisabetta regina dʼInghilterra di Rossini, dove la scelta del regno è lucida e razionale, e sancita chia ramente dalla drammaturgia musicale: avviene nel lungo rondò finale con coro, dove nel tempo dʼattacco («Fellon, la pena avrai») Elisabetta punisce il traditore Norfolc, nel cantabile («Bellʼalme generose») abbraccia e augura piena felicità alla rivale in amore, nel tempo di mezzo perdona i ribelli valorosi, nella cabaletta («Fuggi amor da questo seno») dichiara di preferire la gloria pubblica del regno alle gioie private dellʼamore. Tutto ruota attorno a lei, che decide tutto, in una grande aria in quattro tempi dove gli altri sono sullo sfondo: la convenzione del finale con un gran rondò della primadonna trova una sua “regale” applicazione. Invece, per Bianca di Navarra la scelta, e la peripezia, decisive si hanno nel recitativo dopo il duetto. Inutile stare a sottolineare quanto è sensibilmente piú importante una risoluzione affettiva che avviene dentro un pezzo chiuso rispetto a una che avviene in recita tivo. Intendo dire che per Bianca di Navarra il regno è un ripiego anche quanto alla drammaturgia musicale, e il breve coro celebrativo conclusivo può essere percepito come qualcosa di posticcio.
La
regina e la censura da
Roberto
Devereux a Le
due illustri rivali Che una regina preferisca lʼamore al regno, la felicità privata al dovere pubblico, non è un messaggio propriamente edificante (quasi inutile ricordare che siamo negli anni della Restaurazione); ma neanche una novità. Con riferimento al Mercadante degli anni ʼ30, si può (ri)citare Il conte di Essex; nel quale però la regina Elisabetta non è la protagonista, come detto (prima interprete, Matilde Palazzesi); Lanari lʼavrebbe definita primadonna di spalla, mentre la sua rivale, la duchessa di Nottingham (Adelaide Tosi), è primadonna assoluta (per dire, la Tosi tocca il Do5 nel Terzetto finale, la Palazzesi no).48 Lʼopera inoltre non ebbe fortuna, al contrario di Roberto Devereux, nato al San Carlo di Napoli pochi mesi prima rispetto a Le due illustri rivali (ottobre 1837). È impossibile non far riferimento al capolavoro di Donizetti se si parla di regine sconfitte e della sensibilità romantica che arriva a sovvertire il
47 Nella partitura veneziana si legge «Io regno» (pp. 785-786); nella partitura napoletana si legge la sola prima sillaba del verbo (c. 177r), ma in corrispondenza cʼè una sola nota, non due come sarebbe stato con “regnerò”.
48 Ho consultato lʼautografo in I-mr.
ghiribizzo stranissimo è qUello modernamente creato
canone di un soggetto piú che collaudato. Mi riferisco alle opere celebrative della regalità, soggetto ben conosciuto sin dal secolo precedente, largamente in voga anche nel primo Ottocento, anzi favorito nelle rappresentazioni in date festive di genetliaci o onomastici regali. Un soggetto che per sua natura prevede il lieto fine, che poi tendenzialmente è sempre lo stesso: il sovrano (o la sovrana) mette da parte gli affetti privati e sceglie il bene pubblico, cioè sceglie di amare tutti i suoi sudditi e non uno solo. Come nella fortunatissima e già citata Elisabetta rossiniana, capostipite ottocentesco del genere.49 Al contrario, nel Roberto Devereux la regina Elisabetta, dopo lo shock dovuto alla morte del suo innamorato Roberto (indiret tamente ucciso da lei), arriva addirittura a rinunciare al trono, ad abdicare, non prima di aver cantato un rondò finale assimilabile per molti aspetti a unʼ“aria di follia” (cosí di moda in quegli anni: ma certo non in bocca a una regina).50 Lʼesatto contrario di quanto fa Bianca di Navarra.
Roberto Devereux mostra come la felicità individuale sia incompatibile con i meccanismi della politica e del potere. Problemi con la censura, attestati da alcune fonti, possono aggiungere qualcosa in proposito. La censura allʼepoca è un com promesso tra la repressione politico/morale (certe parole non si possono tollerare) e lʼesigenza spettacolare (lʼopera comunque va fatta e deve piacere ed emozionare), secondo regole che vengono di volta in volta adattate da librettisti e compositori alla realtà in evoluzione: e non cʼè dubbio che negli anni 1830 si era ormai affermata una sensibilità diversa, e piú audace, rispetto a qualche decennio prima. Intendo dire che la censura evidentemente poco poteva fare contro la marea crescente della emotività romantica sopra le righe e la sua naturale tendenza al finale tragico e sanguinoso, che arrivò a rappresentare le esistenze sconvolte dei monarchi (specie delle donne, ritenute deboli per natura). Un gusto al quale erano sensibili sia Mer cadante, sia Donizetti. Ma qualcosa i censori tentavano di fare, emendando singole parole ritenute sconvenienti. Proprio alcune fonti napoletane del Roberto Devereux e de Le due illustri rivali lo possono provare.
Nella biblioteca di San Pietro a Majella si conservano il «Progetto dʼuna Trage dia lirica in 2. atti» (cioè una prima sceneggiatura in prosa dellʼopera, numero per numero) e il libretto autografo di Cammarano del Roberto Devereux, 51 che presenta
49 Cfr. mAry ANN SmArT, Waiting for Verdi. Opera and Political Opinion in Nineteenth-Century Italy, 1815-1848, Oakland, University of California Press, 2018, in particolare il capitolo 3 (Eli zabeth I, Mary Stuart, and the Limits of Allegory), pp. 60-101. Sul lieto fine delle opere e delle cantate napoletane negli anni di Rossini cfr. anche la mia introduzione a Zelmira, Pesaro, Fondazione Rossini, 2006, in particolare il paragrafo Lʼomaggio al monarca e il monito allʼusurpatore, pp. lVII-lXXX.
50 Cfr. mArTIN deASy, Bare Interiors, «Cambridge Opera Journal» 18, 2006/2, pp. 125-149.
51 I-NC, 18.1.11; ho consultato il facsimile contenuto nel programma di sala del Roberto Devereux, Teatro dellʼopera di Roma, stagione 1987-88 (si veda anche lʼintroduzione che lo precede: GIoVANNI pATerNollI, Gli autografi di Salvatore Cammarano, che emenda qualche errore di trascrizione di JoHN BlACk, Librettist, Composer and Censor: the Text of “Roberto Devereux”,
alcune cancellature, dovute alla censura borbonica, e dunque alcune divergenze significative col libretto a stampa. Nel cantabile della cavatina di Elisabetta (I.2), tanto nellʼautografo di Cammarano quanto nellʼautografo di Donizetti, si legge: «Per questʼalma innamorata | era un ben maggior del trono» (si riferisce a Devereux, naturalmente); non ci sono cancellature ma comunque nel libretto a stampa diventa «e a questʼalma innamorata | ei rendea piú caro il trono». Meglio non esplicitare a parole che per la regina un innamorato (ritenuto traditore dello stato, tra lʼaltro, come Devereux) possa essere piú importante del trono, deve aver pensato il censore.
Altro esempio significativo nel recitativo che precede la grande aria finale di Elisabetta, denominata da Donizetti semplicemente «Ultima scena». Elisabetta, che in precedenza ha scatenato il suo furore, ha un momento di sconforto, quasi rassegnata al fatto che Devereux non la ami. Si abbandona allora a un pensiero sulla sua debolezza femminile. Già nel «Progetto» (ʼAria finale di Elisabettaʼ) si legge: «Credei esser regina, e non sono che una donna! – Si estinse il foco della mia collera». Nel libretto manoscritto diventa (III.6): «Son donne le regine – il foco è spento | del mio furor…».
Ma è unʼammissione che crea problemi alla censura: una mano cancellò le regine (tra lʼaltro al plurale, non sta parlando solo di sé stessa). Tanto lʼautografo di Doni zetti quanto il libretto a stampa tengono conto dellʼintervento della censura, sebbene con qualche differenza: lʼautografo di Donizetti legge «Io sono donna alfine – il foco è spento | del mio furor»; il libretto a stampa: «Son donna! Il foco è spento | del mio furor». Meglio non accostare la parola regina alla parola donna, se si sta parlando della debolezza muliebre.
Ma non dissimile devʼessere stata la considerazione del censore che esaminò il libretto per la rappresentazione de Le due illustri rivali al San Carlo nel carnevale 1840 (a dimostrazione di come la censura napoletana fosse particolarmente attenta a tali questioni, piú di altre in Italia). Alla fine del tempo dʼattacco del duetto finale, nel libretto di Venezia 1838, Bianca si lascia andare ad uno sconsolato «Ma vʼè un core | infelice piú del mio!». Al che Elvira ribatte: «Voi... Regina!». Bianca allora sbotta con grandʼimpeto: «E che mi parli | tu di regno! Armando!». Cioè: mʼimporta di Armando, poco o nulla del regno. Come si evince dalla partitura riconducibile a quella rappresentazione, questʼultima battuta cosí enfatica della regina viene
«Bergomum. Bollettino della Civica biblioteca Angelo Mai di Bergamo» 92/1, 1997, pp. 65-74).
Sulla censura napoletana negli anni di Donizetti (e Mercadante) è ancora indispensabile Jeremy CommoNS, Un contributo ad uno studio su Donizetti e la censura napoletana, (1975), Bergamo, Azienda autonoma di turismo, 1983, pp. 65-106.
espunta nella versione napoletana del 1840: «E che mi parli | tu di regno! Armando!» diventa «Ah cosí il fossi | del mio core! Armando!».52
Nella versione censurata la regina ammette di non essere arbitra/regina del suo cuore, ma almeno omette di dire che nulla le importa del regno: dichiarazione ben piú grave, specie se detta con grandʼimpeto. Che sia una regina inglese (protestante) o una regina di Navarra (cattolica), non è il caso di enfatizzarne le debolezze, deve aver pensato il censore napoletano.
In conclusione, unʼopera come Le due illustri rivali è interessante dal punto di vista musicale e drammatico, e anche per il significato storico, perché si pone in una posizione singolare rispetto al lieto fine delle opere celebrative delle regine. Credo che Mercadante abbia scelto un modo sottile per rappresentare la sconfitta della regina, con solo una parvenza di lieto fine. Se Roberto Devereux arriva a rovesciare, in modo traumatico, il solito lieto fine delle opere monarchiche, Le due illustri rivali lo mette abilmente e sottilmente in discussione.
52 Cosí nella partitura in I-NC, 29.6.5, c. 157v. Nel libretto a stampa (le due | IlluSTrI rIVAlI, | melodrAmmA IN Tre ATTI, | dA rAppreSeNTArSI | Nel / reAl TeATro S. CArlo | Nel CAr NeVAle del 1840. | [fregio] | NApolI | Dalla Tipografia Flautina | 1840.) salta «del mio core!», forse per un mero errore tipografico: «Ah cosí il fossi! Armando» non ha molto senso, né dal punto di vista drammatico né metrico, rompendo la regolarità degli ottonari.
Venezia, estate 1843. Il conte Alvise Mocenigo, Presidente degli Spettacoli della Fenice, ordina si risponda a Verdi che i due soggetti da lui presentati in previsione dʼun suo impegno col teatro nella successiva stagione di carnevale, erano stati respinti: «il primo cioè la Catterina Howard [da Alexandre Dumas] per soverchia atrocità; il secondo, cioè i Due Foscari [da lord Byron], perché involgono riguardi dovuti a famiglie viventi in Venezia quali sono le famiglie Loredano, e Barbarigo che potrebbero dolersi della figura odiosa che vi si farebbe fare ai loro antenati». 1 Dunque, il patriziato veneziano e per forza di cose austriacante che gestiva la Fenice, blocca la messa in cantiere di unʼopera ispirata ai Two Foscari accampando ragioni di opportunità cittadina. Si rifiutava cosí di finanziare lʼennesima riproposi zione della leggenda “tenebrosa” di Venezia. Non che lʼopzione preferita in seguito per Verdi fosse meno arrischiata; un altro soggetto controverso, che comprendeva tra lʼaltro un complotto regicida: lʼHernani di Victor Hugo.2 Quanto poi ai Foscari, Verdi non abbandonò il progetto perché il libretto era «già commesso, e, si può dire, quasi fatto». Ne affiderà la finitura a Francesco Maria Piave e lʼopera debutterà allʼArgentina di Roma con lʼimpresa Lanari, nel novembre dellʼanno successivo.3 Insomma: a Roma sí, a Venezia no. Questo a dire che Verdi si sbagliava di grosso quando, a tre settimane dal rifiuto, presumeva ancora che in quanto «fatto vene
1
Lettera di Guglielmo Brenna a Giuseppe Verdi, da Venezia, 26 luglio 1843, in mArCello CoNA TI, La bottega della musica. Verdi e la Fenice, Milano, ilSaggiatore, 1983, p. 62.
2 Sulla vicenda di censura dellʼErnani di Verdi ancora Ibidem, pp. 33-140; piú in generale sul dramma di Hugo cfr. eVelyN BleWer, Le campagne dʼHernani. Édition du manuscrit du souf fleur, s.l., Eurédit, 2002, nonché odIle krAkoVITC, Hugo censuré. La Liberté au théâtre au XIXe siècle, Paris, Calmann-Lévy, 1985.
3
Lettera di Verdi al conte Mocenigo, da Senigallia, 26 luglio 1843, cit. in CoNATI, La bottega cit., p. 61; cfr. inoltre ANdreAS GIGer, Notes on Verdiʼs «I due Foscari», «Cambridge Opera Journal» 24, 2012, pp. 99-126.
Mercadante, Venezia, «The Bravo» di Fenimore Cooper e le implicazioni politiche e patriottiche della “leggenda nera”
ziano» la vicenda dei Foscari «pot[esse] interessare moltissimo a Venezia».4 Ben al contrario: soggetti e opere teatrali di quel tipo ebbero sempre vita dura in città. Non passa alla Fenice, né in nessun altro dei teatri di Venezia, Bianca e Falliero o sia Il Consiglio dei Tre di Rossini: opera che portava in scena, con tutto lʼapparato del caso, un giudizio notturno reso nella camera nera dagli Inquisitori di Stato.5 Unʼaltra celebre declinazione della leggenda nera, il Marin Faliero di Donizetti, si affaccia una sola volta alla Fenice, nel 1840. In genere questo tipo di teatro entrava a Venezia passando per la sala vicaria, di fatto secondaria, del teatro San Benedetto. Anche i Due Foscari di Verdi approdarono da lí in città, per poi passare alla Fenice un paio di anni dopo. Ma peggior sorte ancora toccò a Venezia al Bravo di Saverio Mercadante.
Il debutto di Milano, alla Scala nella stagione di carnevale del 1839, era stato un trionfo, e cosí nelle altre piazze dʼItalia. A Venezia passò invece quasi di soppiatto nel 1840, per una sala minore – lʼApollo, cioè il vecchio teatro San Luca – e per un solo ciclo di recite. Poi, piú niente.
1. A parte la contabilità, è chiaro che per quanto possibile, a Venezia il teatro massimo resisteva a fronte di vicende ritenute oltraggiose per il patriziato e la memoria della Serenissima. Narrazioni presentate al pubblico come controprova storica della leg genda “tenebrosa”: il mito della Venezia rinascimentale delle congiure e dei sicari; stiletti, veleni, esecuzioni segrete e sommarie, annegamenti notturni. Fu questa lʼimmagine teatrale e letteraria della città prevalente nel pieno Ottocento europeo. 6 Una Repubblica in balía delle fazioni e di un patriziato in perenne stato di faida; città invasa di spie, il potere del doge paralizzato da una istituzione sinistra e piú potente di lui, il Consiglio dei Dieci. Pietra angolare dello Stato, era lʼistituzione che a rotazione esprimeva un terzetto di Inquisitori di Stato che fondavano la loro azione giuridica, inappellabile e del tutto arbitraria, sul segreto, la delazione anonima, lʼassassinio.
4 Lettera di Verdi a Brenna, da Milano, 4 luglio 1843, cit. in CoNATI, La bottega cit., p. 58.
5
Al secondo atto, «Sala ove si raduna il Consiglio dei Tre addobbata in nero»; «I Giudici», reci ta lʼAvvertimento «si univano a qualunque ora e in qualunque luogo che si trovassero: le sen tenze dovevano essere pronunziate allʼunanimità, ed allora si eseguivano immediatamente» (FelICe romANI, Bianca e Falliero o sia Il Consiglio dei Tre. Melodramma da rappresentarsi nellʼImperiale Regio Teatro alla Scala il Carnevale dellʼanno 1820, Milano, Pirola, s.d., pp. 34 e 35).
6 Nello specifico cfr. GerArdo ToCCHINI, Melodramma, storiografia, paleoturismo. Le stanze dei «Due Foscari» e il mito della Venezia “tenebrosa”, «VerdiPerspektiven» 3, 2018, pp. 29-87; mArIo INFelISe, Intorno alla leggenda nera di Venezia nella prima metà dellʼOttocento, in Venezia e lʼAustria, a cura di Gino Benzoni e Gaetano Cozzi, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 309-321 e Id., Venezia e il suo passato: storie, miti, “fole”, in Storia di Venezia. LʼOttocento e il Novecento, a cura di Mario Isnenghi e Stuart Woolf, Roma, Istituto dellʼEnciclopedia Italiana, 2002, II, pp. 967988; dAVId BArNeS, The Venice Myth: Culture, Literature, politics, 1800 to the Present, London, Pickering & Chatto, 2014.
Il Bravo di Mercadante non racconta niente di diverso: il protagonista è un sicario al soldo della Repubblica, una specie di casellario criminale vivente e lo «schiavo | Del Consiglio» e degli Inquisitori.7 Non certo un assassino per vocazione, ma la vittima di una macchinazione: il padre, ingiustamente processato, condannato a morte, è nelle loro mani. Ricattato, il Bravo si era trasformato per amor filiale in un criminale.
Un simile personaggio è pura invenzione; storicamente un falso,8 ricreato di sana pianta del romanziere americano James Fenimore Cooper, già celebre in Europa come autore di The Pioneer (1823), The Prairie (1827) e a in particolare di The Last of the Mohicans (1826). Con The Bravo, A Venetian Story (1831), subito tradotto in italiano, Cooper sfruttava mito negativo e atmosfera silenziosa e notturna della città per disegnare il misterioso Bravo dei Dieci, mascherato in permanenza eppure noto a tutti, e che sosta minaccioso, a monito perenne per il popolo, nel luogo stesso dove si svolgevano le pubbliche esecuzioni capitali.9
Era la Venezia delle guide turistiche e del Grand Tour; del carnevale e del chiaro di luna, dellʼindustria dei piaceri, leciti e illeciti. Ancora a metà Settecento, il presi dente de Brosses avvertiva il viaggiatore diretto a Venezia con queste parole: «ne vous mêlez pas du gouvernement, et faites dʼailleurs tout ce que vous voudrez».10 Da Byron in poi fu la versione che tenne banco dappertutto in Europa, mischiando invenzione, storiografia e politica. Un impiego romanzesco e insieme politico della storia nella specie nota come «invenzione di tradizione».11 In questo caso unʼinvenzione negativa per lʼopzione repubblicana, ma anche per lʼimmagine di
7 GAeTANo roSSI, Il Bravo, melodramma in tre atti posto in musica dal maestro Saverio Merca dante, da rappresentarsi nellʼI. R. Teatro alla Scala la quaresima 1839, Milano, Truffi, 1839, p. 15 [I, II].
8 Sulla pratica dellʼassassinio politico segreto, limitata a rari casi e a una definita tipologia di obiettivi (condottieri, principi, re e perturbatori ai confini; banditi; spie nemiche; nemici interni e traditori; rinnegati), cfr. pAolo preTo, I servizi segreti di Venezia. Spionaggio e con trospionaggio ai tempi della Serenissima, Milano, ilSaggiatore, 1994, pp. 329-59; mIlA mANZAT To, Il Bravo tra storia e letteratura, «Acta Histriae» 12/1, 2007, pp 155-78.
9 «[T]he council had a short manner of making a sinner give up his misdeeds […]. This Jacopo is one that should not go at large in an honest city, and yet is he seen paging the square with as much ease as a noble in the Broglio!»; egli è «the boldest hand and surest stiletto in Veni ce […]. Not a Christian loses his life in Venice without warning, and the number is not few, to say nothing of those who die with state fevers, but men see the work of his sure hand in the blow. […] [C]anals are convenient graves for sudden deaths!» (JAmeS FeNImore Cooper, The Bravo. A Venetian Story, London, Colburn and Bentley, 1831, I, pp. 195-96); cfr. JAmeS WoodreSS, The Fortunes of Cooper in Italy, «Americanistica» 11, 1965, pp. 53-76.
10 CHArleS de BroSSeS, Lettres familières écrites dʼItalie en 1739 et 1740, édition annotée par Romain Colomb, Paris, Didier, 1869, I, pp. 156-157.
11 Sul tema, The Invention of Tradition, edited by Eric J. Hobsbawm and Terence Ranger, Cam bridge, Cambridge University Press, 1983.
Venezia – di fatto lesiva dellʼonore dellʼItalia. In pieno Risorgimento questa nar razione “infamante” e straniera prevalse incredibilmente anche in tutto il teatro italiano e nel melodramma, benché generasse qua e là resistenze di storici e patrioti. Unʼimmagine di Venezia che prevarrà a lungo in Italia, almeno fino alla Gioconda di Arrigo Boito per Amilcare Ponchielli, e persino oltre.12
Non fu certo Byron a inventare la Venezia “tenebrosa”; ne ricevette anchʼegli il modello, elaborato in tutte le sue parti già a fine XVII secolo. Seppe però rilanciarlo attraverso il dramma. Drammaturgia e letteratura funzionarono da moltiplicatori della leggenda; la diffusero, conferendole una popolarità difficile da immaginare altrimenti. Erano tutte vicende e episodi della storia veneziana chʼerano state rie sumati per conferire consistenza di fatto a tesi che rispondevano invece a precise intenzioni, a retroterra politici e conflittuali ben definiti. Prima ancora della caduta dellʼancien régime il tema della instabilità degli antichi ordinamenti repubblicani, della totale assenza di garanzie per le famiglie e per i singoli – specie per la nobiltà – era stato uno dei cavalli di battaglia degli apologeti del regime monarchico. Era esplicita rivendicazione nelle due Histoires della Repubblica di Venezia di Nicolas Amelot de la Houssaye e di Alexandre de Saint-Didier, pubblicate in Francia nel 1676 e nel 1680.13 Entrambi sudditi e funzionari di un monarca assoluto, i due furono gli iniziatori del mito della Venezia “tenebrosa”. Loro scopo era raccontare ai lettori francesi, sudditi di un re, le ragioni della sopravvivenza del modello repubblicano nellʼantico regime europeo del principato. La loro tesi di fondo fu che la Serenissima si era retta nei secoli e si reggeva ancora, grazie ad un regime di terrore legale ammi nistrato con implacabile rigore dai Dieci e dai tre Inquisitori di Stato. I due francesi lasciavano intendere poi che tanta severità “repubblicana” altro non era che una finzione, utile solo a procrastinare il dominio degli oligarchi. Unʼimpostura retorica, compromessa da una realtà di vendette e di inconfessati interessi fazionari. I Dieci, ma ancor piú i Tre, non avevano solo potere di vita e di morte sul doge, ma anche sugli stessi oligarchi; talché a Venezia «la grande réputation est dangereuse», «les grands services sont odieux, et se payent du bannissement et de la mort». Grado, lignaggio, nobiltà, legami parentali non valgono a salvaguardia contro lʼarbitrio del potere pubblico. A questi patti, la nobiltà era da considerarsi piú una calamità che un privilegio: la messa al bando, «la prison, la dégradation de la Noblesse et la mort» erano lʼesito piú frequente delle faide interne al patriziato. Un fatto cui i due aristocratici francesi guardavano con un misto di orrore e sconcerto.14
12
13
Cfr., ad es. mArIo INFelISe, Sangue a Caʼ Foscari. Lʼantimito di Venezia Serenissima nel cinema, in Lʼimmagine di Venezia nel cinema del Novecento, a cura di Gian Piero Brunetta e Alessandro Faccioli, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, 2004, pp. 205-214.
ABrAHAm-NIColAS AmeloT de lA HouSSAye, Histoire du gouvernement de Venise, Paris, chez Fréderic Leonard, 1676; AleXANdre-TouSSAINT de lImoJoN de SAINT dIdIer, La Ville et la République de Venise, Paris, Barbin, 1680.
14
AmeloT de lA HouSSAye, Histoire du gouvernement de Venise, cit, p. 196 e 202; per unʼidea
La leggenda sopravvisse alla caduta della Serenissima e venne consolidata dalla Histoire de la République de Venise del napoleonide conte Pierre Daru, apparsa in sei volumi nel 1819. La rievocazione di istituzioni tanto sanguinarie serviva stavolta a giustificare la spallata finale assestata alla Serenissima dal governo del Direttorio nel 1797, mitigando cosí lʼimbarazzo per il tradimento di Campoformido.15 Al terrore, Daru aggiungeva poi un alone di machiavellico mistero che piacque immensamente ai romantici. Nella Venezia tenebrosa «plus les coups de lʼautorité étaient inattendus, inexplicables», spiega il conte, non nascondendo una punta di sadica ammirazione, «plus ils produisaient dʼeffet; il nʼen résultait pas, à dire vrai, la conviction que lʼhomme frappé fût coupable, mais il en résultait cette conviction bien autrement importante: que la République nʼignorait rien et ne pardonnait jamais...».16
LʼHistoire del Daru forniva al mito negativo un retroterra storico apparentemente solido, cui tutti attinsero a piene mani: romanzieri, poeti, pittori, teatranti e Byron per primo. Lʼopera storica confermava gli aspetti piú raccapriccianti della leggenda nella loro bizantina crudeltà. Cosa piuttosto singolare, il fatto che caduta la Serenis sima molti scrittori e patrioti italiani della Restaurazione dessero la tesi per scon tata, e la ritenessero storicamente attendibile. Tanto i moderati che i democratici, riaccreditano la leggenda al solo scopo di impiegarla a proprio uso, attribuendole significati ritenuti utili alla causa patriottica. Il ché valeva in due forme: condannare lʼarbitrio degli Inquisitori di Stato, in quanto tribunale politico speciale; da parte democratica, censurare la lenta e progressiva deriva oligarchica delle istituzioni repubblicane di Venezia.17
2. Anche Fenimore Cooper aveva ottime ragioni per abbracciare senza riserve la leg genda nella versione Daru, comprese le arbitrarie sentenze «enforced with a fearful ness of mystery, and a suddenness of execution, that resembled the blows of fate»,18 dello sconcerto provato da questi due aristocratici di nobiltà feudale di fronte ai costumi del patriziato, cfr. SAINT dIdIer, La Ville et la République de Venise cit., pp. 284-328.
15 Sulla questione cfr. FrANCo VeNTurI, LʼItalia fuori dʼItalia, in Storia dʼItalia, Dal primo Sette cento allʼUnità, a cura di Ruggero Romano e Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1973, III, pp. 1120-1244.
16 pIerre dAru, Histoire de la République de Venise, Paris, Didot, 1819, II, p. 301.
17 Si veda il caso illustre di uGo FoSColo, Della costituzione della Repubblica di Venezia [1826], in Id., Opere edite e postume, IV. Prose letterarie, Firenze, Le Monnier, 1850, pp. 339-77, nonché le posizioni di Silvio Pellico e del conte Tullio Dandolo, riassunte in ToCCHINI, Melodramma, storiografia cit., pp. 55-57.
18 «There is still in existence a long list of the state maxims which this secret tribunal recognized as its rule of conduct, and it is not saying too much to affirm, that they set at defiance every other consideration but expediency, – all the recognized laws of God, and every principle of justice, which is esteemed among men» (Cooper, The Bravo cit., II, p. 25). Faceva esplicito riferimento proprio al famigerato Status des inquisiteurs, pilastro della dimostrazione del Daru, e che si rivelò essere un falso di fine Seicento: cfr. dAru, Histoire de la République de Venise cit.,
la cui messa in opera egli affida proprio al protagonista del suo romanzo. In quella che considerò provocatoriamente come la piú ʼamericanaʼ delle sue opere, Cooper stigmatizza lʼesempio di una rappresentanza popolare degenerata in dispotismo di pochi.19 Era una messa in guardia dalle derive oligarchiche indirizzata ai lettori e allʼestablishment stesso della giovane federazione degli Stati Uniti dʼAmerica. Tale è il senso del suo appello allʼopinione pubblica, perché tenesse alta la vigilanza circa sempre possibili atti dʼarbitrio e di corruzione in seno alle magistrature e al governo federale, poiché «in no country has this substitution, of a soulless corporation for an elective representation, been made, in which system of rule has not been establi shed, that sets at nought the laws of natural justice and the rights of the citizen».20
Si può ben immaginare che a Venezia di questo tipo di monito davvero non sapessero cosa farsene. A maggior ragione se fondato a spese della gloriosa memoria della Serenissima. Da decenni ormai, la città era divenuta quinta dʼelezione del gothic di intrigo e di cospirazione, subendo il fuoco incrociato dei romanzieri, della moda e dʼun folclore scriteriatamente alimentato dalla locale industria del turismo21 . Nella prima confutazione del romanzo di Cooper apparsa nel 1835 sullʼ«Indicatore lombardo» e subito rilanciata in opuscolo, lʼanonimo autore, il patrizio veneto Pie tro Zorzi, chiamava dapprima in causa i francesi Amelot de La Houssaye e Daru, per poi puntare il dito sui ciceroni del palazzo ducale: ripetitori seriali di leggende prive di fondamento,
i quali ai forestieri, che prima dʼammirare i portentosi dipinti dei Tiziani, dei Paoli, dei Bellini, prima dʼammirare le moli maravigliose erette sui pali piantati nel mare dai Palladj, dai Sansovini, dagli Scamozzi, corrono a visitare le prigioni dei pozzi e dei
VI, pp. 70-195; preTo, I servizi segreti cit., p. 598.
19 Cfr. Cooper, The Bravo cit., II, pp. 15-16). «The Bravo is perhaps, in spirit, the most American book I ever wrote» (lettera di Cooper a Rufus Wilmot Griswold, 27 maggio [o giugno] 1844, in JAmeS FeNImore Cooper, Letters and journals, edited by James Franklin Beard, Cambridge (Mass.), Belknap and Harvard University Press, 1960-1968, IV, pp. 461-62, il corsivo è dʼautore).
20 Cooper, The Bravo cit., II, p. 25; cfr. JAmeS STepHAN dIemer, The European Novels of James Fenimore Cooper: A Study in the Evolution of Cooperʼs Social Criticism. 1820-1833, diss., Nortwest University (Ill.), 1949; pATrICIA Joy roylANCe, International Nationalism: World History as Usable Past in Ninetheenth-Century U.S. Culture, diss., Stanford University (Ca.), 2005, pp. 28-34 e 52-60 nonché, sullʼeffettivo impatto del Cooper ʼpoliticoʼ, BrAdley ANdreW leNZ, James Fenimore Cooper 1920-1852: Book, History, Bibliography and Political Novel, diss., Florida State University (Fl.), 2017, pp. 119-37.
21 Cfr. GerArdo ToCCHINI, Les mystères de Venise. Magie, espions, ésotérisme, cercles sectaires (XVIe-XVIIIe siècle), in Venise. Histoire, promenades, anthologie et dictionnaire, sous la direction de Delphine Gachet et Alessandro Scarsella, Paris, Éditions Robert Laffont, 2016, pp. 441-53. Archetipo del Bravo di Cooper è The Bravo of Venice di Matthew Gregory Lewis (1804), dal racconto di Heinrich Zschokke Abällino, der grosse Bandit (1793), drammatizzato come schau spiel in cinque atti nel 1794.
piombi, e il famoso ponte dei Sospiri, van raccontando mille bizzarre storielle della crudeltà dei patrizj, perchè sperano di renderli in tal modo più liberali, mentrʼessi le vanno annotando nel portafoglio, per poi spacciarle ai creduli loro compatriotti.22
Il tutto era fatto, insomma, per confortare le brame di turisti, felici di veder riconfermati in loco i loro piú vieti pregiudizi romanzeschi, assecondati con solerte compiacenza da tutta una popolazione di ciceroni, affittacamere, gondolieri, caffet tieri. Nove anni dopo, in una conferenza accademica letta allʼAteneo di Treviso, un altro erudito e nobiluomo veneziano, Giambattista Alvise Semenzi, rinnovò a Cooper lʼaccusa dʼessersi fatto mallevadore di racconti inventati per spaventare gli scemi e impressionare i bambini a veglia: fiabe della nonna, chiacchiericci di basso popolo.23 Proprio sul versante dellʼattendibilità storica della leggenda, e ben prima che la polemica approdasse a giornali e riviste, unʼoffensiva a confutazione si era sca tenata su iniziativa delle società veneziane di Storia Patria, in particolare lʼAteneo Veneto. Un socio onorario dellʼistituto e membro di una delle piú illustri casate patrizie della Serenissima, aveva licenziato nel 1828 quasi mille pagine di «Ret tificazioni di alcuni equivoci riscontrati» nella Histoire del Daru. Lʼautore, conte Giandomenico Almorò Tiepolo, sʼera impegnato, documenti alla mano, a demolire il mito negativo dei Dieci e degli Inquisitori di Stato. Ispirato da un «doveroso patrio sentimento» che glʼimpediva «di trascurare ciò che recar [poteva] danno alla nostra madre patria», dimostrò che il cosiddetto Capitolare degli inquisitori di Stato sul quale Daru aveva confermato la leggenda, non era che un falso.24 Altre conferme giunsero poi dagli spogli archivistici effettuati a cavaliere del Quarantotto da un altro socio dellʼAteneo, lo storico e patriota Samuele Romanin, che nella sua monumentale Storia documentata di Venezia decise di dare alle stampe lʼautentico
22
[pIeTro ZorZI] Osservazioni sul Bravo, romanzo storico del Sig. James Fenimore Cooper, in Indi catore ossia Raccolta periodica di scelti articoli, t. I, s. V, Milano, Pirotta, 1835, pp. 143-51: 144; poi come Osservazioni sul Bravo, storia veneziana di J. F. Cooper , Venezia, Milesi, 1835; per lʼattribuzione a «Pietro Zorzi p[atrizio] v[eneto]», cfr. emmANuele ANToNIo CICoGNA, Saggi di bibliografia veneziana, Venezia, Merlo, 1847, p. 293 [n. 2098]; sulla polemica cfr. anche emI lIo GoGGIo, Cooperʼs Bravo in Italy, «The Romantic Reviev» 20/3, 1929, pp. 222-30.
23 GIAmBATTISTA AlVISe SemeNZI, Osservazioni critiche intorno ad alcune taccie di cui venne accagionato il Veneto Governo e in particolare intorno al romanzo intitolato Il Bravo Storia Vene ziana, Venezia, Merlo, 1846, p. 24.
24 Cfr. GIANdomeNICo Almorò TIepolo, Discorsi sulla storia veneta, cioè Rettificazioni di alcuni equivoci riscontrati nella Storia di Venezia del Sig. Daru, 2 voll., Udine, Mattiuzzi, 1828, I, p. 9; si vedano le Rettificazioni II, III e part. IV, pp. 67-118; sulle benemerenze del Tiepolo, che aveva assolto al «piú santo ufficio cittadino, quello di proteggere la sua patria contro le accuse del la straniera malignità», cfr. Discorso di S. E. il conte Daniele Renier, presidente, letto nel Veneto Ateneo il giorno 28 maggio 1843, in Esercitazioni scientifiche e letterarie dellʼAteneo Veneto, Vene zia, Cecchini, 1846, p. 7, e su tutto il dibattito GIAmpIeTro BerTI, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia, Deputazione di Storia Patria per le Venezie, 1989, pp. 251-69.
«Capitular delli Inquisitori», e dimostrare come al contrario, la magistratura molto avesse giovato «alla conservazione dellʼeguaglianza, alla protezione del popolo, alla quiete delle famiglie, alla salvezza della Repubblica».25 Altre ricerche dʼarchivio esclusero lʼ«azione indipendente, arbitraria, assoluta degli Inquisitori di Stato», dunque il ricorso allʼassassinio segreto come espediente intimidatorio corrente per il mantenimento della quiete interna: «una favola, con cui possono baloccarsi quei soli che in cosiffatto argomento giurano ancora sullʼautorità del Daru».26 Dunque, con buona pace di Fenimore Cooper, nessun “bravo” in servizio pubblico e al soldo dei Dieci aveva mai funestato le notti veneziane dei tempi della Sere nissima. Anzi, era piú che plausibile che in una città come Venezia neppure quei sicari prezzolati noti appunto come bravi, avessero avuto vita facile. Piú che altro in ragione dʼuna legislazione severissima nel reprimere le violenze private: lʼuso improprio della forza e delle armi, il duello e perciò anche lʼingaggio di sicari da parte di chiunque, plebei o patrizi.27 Se per il delinquente erano previsto il bando per ventʼanni e in caso di recidiva il taglio del naso e delle orecchie, il remo con catene ai piedi per i primi cinque anni di galea, per il mandante, specie se suddito, cʼerano lʼesilio, il carcere, il sequestro dei beni e nel caso dei nobili la temporanea privazione della rappresentanza politica.28 Zorzi, primo in ordine di tempo a con futare Cooper, insiste proprio sulla severità della vigilanza esercitata sui patrizi dalle magistrature. Controllo saggio e opportuno, considerato che proprio costoro, «assistiti da ricchezze, da autorità, da clientele, erano piú in grado dʼogni altro di attentare alla pubblica libertà». Era pur vero, insomma, che tra Cinque e Seicento la «iniqua razza» dei bravi avesse allignato «in Lombardia e in altri paesi dʼItalia»;
25
26
SAmuele
documentata di Venezia, Venezia, Naratovich, 1857, pp. 93-197: 108.
rINAldo FulIN, Errori vecchi e documenti nuovi, a proposito di una recente pubblicazione del co[nte] Luigi di Mas Lettrie, Venezia, Antonelli, 1882, pp. 13, 25, 31. Sacerdote e docente di Caʼ Foscari, socio dellʼAteneo Veneto e dellʼIstituto Veneto di scienze lettere e arti, il padre Fulin reagiva ad una ripresa, ancora di parte francese, della vecchia disputa sullʼassassinio politico come pratica ordinaria della diplomazia segreta veneziana. Sul discredito caduto sulla tesiDaru, cfr. GIuSeppe CAdorIN, I miei studi negli archivi, in Esercitazioni scientifiche cit., pp. 273-74; sulla polemica preTo, I servizi segreti cit., pp. 329-30.
27 È quel che sosterrà romANIN, trattando delle Leggi per la sicurezza e la prosperità dello Stato, in particolare della tutela dei cittadini (Storia documentata cit., vol. III [1855], pp. 70-71); una conferma in ArmANd BASCHeT, Souvenirs dʼune mission. Les archives de la Sérénissime Répu blique de Venise, Paris et Venise, Amyot-Münster, 1857, pp. 93-97, che tratta la leggenda dei bravi in Venezia come «une de ces mille erreur dramaturgiques et romancières que le nombre des exemplaires [a] popularisé de son mieux dans lʼesprit des masses» (p. 94). La tenace resistenza della tesi opposta è attestabile in domeNICo urBANI de GHelToF, I Bravi veneziani, s.l. [Venezia], s.e., 1877.
28 Se «Nobili Nostri […] sʼintenderanno privi di Maggior Consegio per anni cinque continui dopo la loro liberatione, dalla qual condanna non possono esser liberati se non con le 9 Balle deʼ Consiglieri e Capi, e 5 sesti di questo Consegio» (cit. in SemeNZI, Osservazioni critiche cit., pp. 38-43).
ma in Venezia, appunto per lʼindole e la fermezza di quel governo che non voleva che nessuno, e fosse pur patrizio, senatore e anche doge, acquistasse una preponderanza sugli altri, era cosa impossibile che questi scellerati servi si tollerassero, e noi sfidiamo il signor Cooper e tutti gli autori, siano americani o di tutte le altre parti del mondo, a citare un solo esempio che uno di questi stipendiati assassini abbia mai esistito in Venezia.29
Eredi morali e materiali di quellʼantico patriziato che per secoli aveva retto le magistrature della Serenissima, è facile intuire perché i due nobiluomini veneziani facessero della confutazione del romanzo non solamente un dovere di patria, ma anche una difesa dellʼonore dʼun ceto e della sua storia. Semenzi dichiarava «obbligo di patrio amore», dimostrare «la falsità di molte dicerie che si spargono a carico deʼ nostri Veneti Aristocratici, alla classe deʼ quali la combinazione fortuita mi feʼ appartenere». Lamenta in particolare che in teatro, produzioni «parte appoggiate al probabile, parte prodotto dʼingegnose invenzioni», si compiacessero di far vestire sempre ai patrizi veneziani «il carattere di superbi, di inesorabili, di crudeli»; sicu ramente con lʼintenzione «di dimostrare la forza di conculcare e di opprimere stare in man di chi regge». A detta loro, la ragione di tale denigrazione andava cercata nel pregiudizio di casta, ma anche nella «manifesta antipatia nazionale».30
Stando cosí le cose, «scopo morale» del Bravo dellʼamericano e democratico Cooper non poteva essere che denigrare lʼaristocrazia rendendo «odioso ed infame il Governo di Venezia, dipingendolo coi più neri colori; crudele, misterioso, vendi cativo, interessato, perfido». Assunti che andavano confutati e arginati per quanto possibile, anche se ormai era come cercar di fermare un fiume in piena.31 Impresa disperata, contrastare la potenza di fuoco delle mode e della fiction impugnando il fioretto della filologia testuale, in punta di scienza diplomatica, archivistica, giu ridica. Inutile prendersi gioco delle clamorose sviste topografiche dellʼamericano (la fondamenta transitabile sotto il Ponte dei Sospiri!), del continuo travisamento dei costumi (i veneziani tutti e sempre in maschera, per tutto lʼanno!). Opporsi al teatro e al melodramma, era compito piú disperato ancora di quanto non lo fosse
29 «Che se gli Inquisitori o il Consiglio dei Dieci usavano di severità, contro i patrizj piuttosto che contro i sudditi la esercitavano. A contener quelli in effetto furono istituiti quei tribunali» (Osservazioni sul Bravo, romanzo storico cit., pp. 150 e 145-46).
30 SemeNZI, Osservazioni critiche cit., pp. 10-11 e 15-17. Infatti, riferendosi ironicamente a «queʼ fertili ingegni che ci diedero i Foscari, il Foscarini, i Malipieri, il Carmagnola», il nobiluomo veneto ha nel bersaglio autori toscani, lombardi, piemontesi (Giovanni Battista Niccolini, Alessandro Manzoni, Giacinto Battaglia, Carlo Marenco, etc.).
31 A chi gli avesse obiettato che «le baje di un romanzo non merita[va]no lʼonore di una seria discussione», Zorzi rispondeva che si trattava di «un romanzo Storico, un romanzo dellʼemulo di Walter Scott, di Cooper, che si fa leggere dalla metà del mondo incivilito, e colla compassione che ispirano i casi con finissimo accorgimento intrecciati si insinua il veleno della calunnia» (Osservazioni sul Bravo, romanzo storico cit., p. 151, corsivo nostro).
Venezia, «the BraVo»
FeniMore
confutare il retroterra storico-politico di un romanzo.32 Non solamente era neces sario rintuzzare la «troppo esaltata immaginazione» degli autori»: adesso anche la nuova «mania di far palesi se non colpe, delitti ed atrocità», tipica del «pur troppo accarezzato romanticismo del tempo nostro».
Sono parole di Niccolò Erizzo, lʼennesimo patrizio veneziano sceso nellʼagone per difendere contro le calunnie del romanziere le magistrature rette fino a mezzo secolo prima con rigore e onestà dai suoi stessi antenati.33 A dar loro man forte, si mostrò allora in campo anche la stampa locale. In una recensione dellʼopuscolo di Zorzi apparsa sul «Gondoliere», anche Luigi Carrer, dopo aver censurato La Houssaye e Daru come inventori della leggenda nera, accusava un gusto del tempo che niente piú apprezzava ormai «fuorché il terribile e il tenebroso», e in Venezia stessa il culto turistico per le carceri ed il gotico in rovina.34 Piú virulento ancora, un annunzio che pubblicizzava la confutazione su un giornale veneziano di varietà e teatri, e che giungeva ad invocare per Cooper i rigori di legge:
In esso si mostra nemico a Venezia e mette nel piú vivo risalto le vituperevoli tradizioni che sono nel volgo intorno a questa meravigliosa repubblica, spacciandole per verità. Peggiore ancora dello schifoso insetto che col ronzio fastidisce il signore della foresta: e piú vile perché qui palpeggia un cadavero. Il Bravo è una storia falsa, ingiusta, scipita. […] [A]nche chi non sente amore per questa città, avrà molto a sdegnarsi, veggendo come gli stranieri, nulla conoscendoci, vogliono straziarci con tanto beffarda e manifesta ingiustizia. Finché il Romanziero si presterà a siffatti uffici dee riguardarsi pel piú funesto seguace delle lettere. E le leggi dovrebbero punirlo.35
3. Accanto alle società di Storia patria, ai discendenti del patriziato, giornalisti e a qualche istitutore di collegio con al seguito la falange dei reazionari nostalgici
32
«E quello che abbiam detto del Romanzo ci converrebbe e del Dramma e del Melodramma ripetere e indicare le incongruenze degli episodii, le offese al pudore, la degradazione dei caratteri, la disunione della tessitura, gli anacronismi, la protrazione dello sviluppo a carico del verisimile» (SemeNZI, Osservazioni critiche cit., pp. 58-59).
33
[NICColò erIZZo] Rettifica di un errore di fatto riscontratosi nelle Osservazioni sul Bravo, Vene zia, Milesi, 1837, p. 28; per lʼidentificazione dellʼautore cfr. ancora CICoGNA, Saggi di bibliogra fia veneziana cit., p. 293 [n. 2098]; Semenzi cita come esempio di questo teatro lʼAngélo tyran de Padoue di Victor Hugo (SemeNZI, Osservazioni critiche cit., p. 89), vedi infra.
34
[luIGI CArrer] Critica. Osservazioni sul Bravo, Storia Veneziana di J. F. Cooper. Venezia presso il librajo Pietro Milesi al ponte di S. Moisé 1835, «Il Gondoliere» III/35, 9 maggio 1835; poi in Id., Prose, Firenze, Le Monnier, 1855, vol. II, pp. 486-91; su questi aspetti cfr. ancora ToCCHINI, Melodramma, storiografia cit.
35 Annunzio tipografico, «LʼApatista» a. II/16, 23 aprile 1835.
dellʼancien régime,36 qualche classicista inorridito dal romanticismo ʼpatibolareʼ, tra i difensori della gloriosa memoria di Venezia vʼerano anche i patrioti democra tici: gli apologeti degli antichi ordinamenti repubblicani – romantici, il piú delle volte – che si facevano forti della tesi argomentata dal Sismondi nella sua Histoire des Républiques italiennes du moyen-âge. Ovvero dellʼidea che pur se attraversate da conflittualità perenni e da lotte intestine, le antiche repubbliche comunali del medioevo erano state un faro di prosperità e di civiltà, ma soprattutto di libertà, in unʼEuropa altrimenti immersa nelle tenebre della servitú feudale.37
A dire il vero, già i confutatori veneziani del Cooper avevano impugnato lʼargomento del primato culturale dellʼItalia rinascimentale e umanistica. Semenzi dichiarò che tutti coloro che «menan rombazzo dei disordini e delle imperfezioni degli antichi nostri sistemi politici», non lo facevano che per «invidia, perciocché nello incivilimento li abbiamo preceduti». Insisteva poi che la Serenissima aveva sostenuto anche sul piano militare e «con tanto decoro la gloria del nome italiano» da aver conservato la propria indipendenza per oltre due secoli dopo le Guerre dʼItalia. Ma il luogo dove i due patrizi piú si accostavano alla tesi-Sismondi era la condanna dellʼorrore feudale, con annessa riesumazione di temi ad effetto come il «droit de couchage» e la corvée.38 Si trattava però di una pura strategia del contrattacco: rinfacciare ai francesi e al Daru la ʼinvenzioneʼ della servitú feudale, e en passant le efferatezze del Terrore giacobino; agli americani e a Cooper lo schiavismo negriero, scandalosamente tollerato da una «libera patria che si regge a governo di popolo».39 Detto ciò però, i due aristocratici veneti oscuravano a bella posta la critica che Sismondi aveva mosso ai patriziati cittadini: non il perdurare delle lotte intestine
36
Un esempio, nella condanna inappellabile del Bravo di Cooper apparsa senza firma su «LʼAmico della gioventú» di Modena, uno tra i piú virulenti organi della reazione cattolica (n. 59, 1° apri le 1835, p. 129); si noti che il numero precedente conteneva una demolizione degli ordinamen ti politici, religiosi e giudiziari degli Stati Uniti dʼAmerica (n. 58, 15 marzo 1835, p. 125).
37 Sullʼimpatto dellʼopera di Sismondi sulla cultura patriottica del Risorgimento cfr. pIerANGe lo SCHIerA, Presentazione, in JeAN-CHArleS léoNArd SImoNde de SISmoNdI, Storia delle repubbliche italiane, Torino, Bollati Boringhieri, 1996 pp. IX XCVI, nonché mArIA IolANdA pAlAZZolo, Le censure e la «Storia delle repubbliche» di Sismondi, in Id., I libri, il trono e lʼaltare. La censura nellʼItalia della Restaurazione, Milano, Angeli, 2003, pp. 71-84.
38 Qui e sopra SemeNZI, Osservazioni critiche cit., pp. 13-14, 19, 33, 36-37: fuorché a Venezia «il dispotismo feudale cosí dominava, che lecito facendo del libito era la bassa plebe riguardata sic come una mandra di vili animali, e siffattamente sagrificata ella era ai piaceri ed ai capricci deʼ despoti da ceder loro il diritto di deflorazione, e da servire perfino allʼuso della caccia coi mastini adempiendo le veci dei cervi»; cfr. anche romANIN, Storia documentata cit., III, pp. 70-71; sul tema, AlAIN BoureAu, Le droit de cuissage. La fabrication dʼun mythe. XIIIe-XXe siècle, Paris, Albin Michel, 1995.
39 «[S]enza ricorrere aʼ tempi antichi di barbarie, le schiavitú e i marirj di tante migliaja di infe lici, diversi soltanto pel color della pelle, la quale schiavitú nel moderno incivilimento, nel nostro secolo medesimo è tollerata nella sua libera patria che si regge a governo di popolo» (Osservazioni sul Bravo, romanzo storico cit., p. 148).
aveva causato il declino economico, militare, culturale delle antiche repubbliche cittadine, quanto piuttosto la progressiva trasformazione delle classi dirigenti in una oligarchia chiusa; la loro metamorfosi da ceti produttivi, dediti alla manifattura, al prestito e al grande commercio in una nobiltà terriera, convertita alla rendita e al tanto deprecato feudo.40 Appunto in linea col Sismondi, il teatro e la poesia dei patrioti di tendenza democratica ripercorreva la storia di Venezia guardando proprio al processo di annichilimento della «volontà popolare» e allo svuotamento progressivo del potere del doge a esclusivo vantaggio dei Dieci e del patriziato. Un autore teatrale di culto come Giovanni Battista Niccolini confessò che lʼintenzione di fondo della sua tragedia veneziana Antonio Foscarini, del 1823, era proprio la messa in guardia dei patrioti contro la «oppressione domestica»; lʼegoismo di casta, la rapacità, gli intrighi e il secolare rapporto di connivenza con lo straniero delle nobiltà locali italiane. Niccolini sapeva bene, e lo ammise nel 1835 di fronte alle contestazioni di un patriota, «che dinnanzi al governo straniero debbono tacere tutte le miserie».
Ma siccome – proseguiva – ho fede che lʼItalia sia prossima a risorgere, voglio che nella sua risurrezione ella sappia che la sua libertà fu sempre manomessa daʼ suoi patrizii, che i suoi guai le vennero sempre daʼ suoi patrizii, che se ella, svegliandosi, non saprà guardarsi daʼ suoi patrizii dovrà cadere, appena risorta, senza gloria e senza pianto.41
Tra lʼaltro, era stata proprio la convinzione che la «democrazia in Venezia degene rasse gradatamente in unʼaristocrazia ereditaria, e questa in una oligarchia misteriosis sima, inesorabile» a persuadere il Foscolo della bontà della tesi storiografica Daru.42 Sullʼimbarazzo che una tattica tanto rischiosa per lʼonore dellʼItalia finiva per creare allʼinterno stesso del campo liberale e democratico, getterà luce una disputa giornalistica accesasi nel Piemonte sabaudo di fine anni Trenta tra due autori tea
40 Zorzi citava espressamente «il signor Sismondi» solo per affermare «che i nobili in Venezia andarono a grado a grado ascendendo al potere a forza di dolcezza e di liberalità […] cosí che il dominio supremo che giunsero ad ottenere fu piuttosto una tacita concessione del popolo, che una usurpazione» (ibidem, p. 149).
41 «In questi giorni stessi sarebbe possibile in Italia il doppio giogo di Roma e di Vienna senza i Signorotti Italiani che vestiti da Re, da Duchi, da Cardinali, da Magistrati, da Cortigiani di ogni risma e di ogni calibro formano una immensa legione di schiavi per adorare il padrone e regnare su altri schiavi piú vili di essi? Credetemi, combattendo le codardie italiane si scalza la tirannide straniera con piú saldo braccio e con piú sicuri colpi» (propositi raccolti ANGelo BroFFerIo, I miei tempi. Memorie, Torino, Biancardi, 1861, XIX, pp. 313-14).
42 FoSColo, Della costituzione della Repubblica di Venezia cit., p. 347, ma cfr. Avvertenza, ivi, pp. 263-64: «senza la Storia recente di Daru, a noi sarebbe stata malagevole impresa di appurare i fatti capitali e le date […]; a lui insieme dobbiamo la collezione piú ricca deʼ documenti secre ti che siano stati pubblicati nellʼetà nostra sullʼInquisizione di Stato» (ivi, p. 351).
trali, entrambi avvocati: il conte Carlo Marenco e lʼattivista politico e giornalista Angelo Brofferio. Piú tardi deputato, Brofferio fu figura di spicco della sinistra estrema di piena età risorgimentale. Durante il «decennio di preparazione» allʼUnità fu fiero avversario di Cavour, che lo considerava il «capo dellʼopposizione democratica»; da giovane invece, negli anni Trenta, era stato il battagliero redattore nel «Messaggiere torinese». Quanto a Marenco, poi sindaco di Ceva nel cuneese, in gioventú collaboratore di testate liberali come il «Subalpino» e le «Letture popolari» di Lorenzo Valerio, questi si dedicò soprattutto al teatro patriottico militante, seppure con qualche periodica oscillazione. 43
Messosi sulle orme di Byron col dramma La famiglia Foscari, Marenco si era adeguato alla leggenda nera, riaffermando la tesi storica dellʼonnipotenza dei Dieci, del prevalere sul bene pubblico delle private faide e degli interessi fazionari.44 Brofferio, che pure avrebbe difeso Marenco dalle imboscate dei comuni avversari poli tici, sia sulla scena che sui giornali, era invece assai piú rigido propugnatore della concezione mazziniana e ʼromanticaʼ di un teatro inteso come «insegnamento dei popoli»; utile piuttosto alla causa, che al bene dellʼarte. Per Brofferio nei Foscari Marenco aveva commesso lʼerrore di strappare «la chioma maestosa» al Leon di Venezia. Nella tragedia «lʼimpotenza del Doge, la tirannide del Senato, la crudeltà dei Dieci, lʼinquisizione dei Tre, [facevano] maledire quella antica città, per cui lʼItalia era Regina dei mari». Un inutile scempio di onor di patria, non esibire altro che «odii privati [e] vendette di parte», specie considerando che «quei tempi sono quegli stessi che il Sismondi ci ha rivelati grandissimi».45 Marenco rispose alle critiche facendosi scudo di uno dei temi-chiave del canone patriottico: quello della sciagura e del lutto; della sconfitta fomite di sicuro riscatto, foriera di redenzione. Ciò che piú interessa al nostro discorso, è che nel farlo egli
43 Cfr. FerdINANdo mArTINI, Due dellʼEstrema: il Guerrazzi e il Brofferio. Carteggi inediti (18591866), Firenze, Le Monnier 1920, p. 5. Su questi ambienti luIGI BulFereTTI, Socialismo risor gimentale, Torino, Einaudi, 1949, pp. 26-72 e GIuSeppe TAlAmo, Società segrete e gruppi poli tici liberali sino al 1848, in Storia di Torino, VI La città del Risorgimento (1798-1864), a cura di Umberto Levra, Torino, Einaudi, 2000, pp. 461-91; sui giornali piemontesi AleSSANdro GAlAN Te GArroNe, I giornali della Restaurazione. 1815-1847, in GAlANTe GArroNe - FrANCo dellA peruTA, La stampa italiana del Risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 175-86 e 212-28; di una deviazione di Marenco «dalla buona via» per approdare «alla tragedia cortigiana» scrive nel 1840 Lorenzo Valerio al Tommaseo (lettera di Valerio a Niccolò Tommaseo, da Aglié 15 luglio 1840, in loreNZo VAlerIo, Carteggio, raccolto da Luigi Firpo, Guido Quazza, Franco Venturi, Torino, Fondazione Einaudi, 1991, I, pp. 321-22 [n. 148]).
44 CArlo mAreNCo, La Famiglia Foscari [1835], in Tragedie di Carlo Marenco da Ceva, II, Torino, Reviglio, 1839; cfr. Tocchini, Melodramma, storiografia, paleoturismo cit.
45 ANGelo BroFFerIo, Tragedie di Carlo Marenco, «Il Messaggiere del Commercio», 24 ottobre 1835; poi ristampato in Id., Il Messaggiere torinese, prose scelte, Alessandria, Capriolo, 1839, I, p. 81 e 91; «Marenco è ormai il solo che in Italia calzi lodevolmente il coturno […]. Gli strilli, gli urli, i sibili, gli schiamazzi non convengono a chi giudica», Id., Teatro dʼAngennes. La Pia, tragedia di Carlo Marenco, ivi, 28 gennaio 1837, rist. in Ibidem, II, p. 48.
esibiva lʼapprezzamento personale e diretto di un Sismondi chʼera divenuto ormai autorità e unico metro di paragone di tutta questa discussione sul teatro, sostenendo che se lice al poema esser tessuto di trionfi e di glorie, al coturno, che calcar deve una via dolorosa, è fatale piú assai che le glorie il celebrar le sventure. Per altro delle glorie italiane nessune delle mie tragedie è immemore a chi ben guata: e quel Sismondi, la cui storia delle repubbliche nostre fu la prima mia musa, quel valoroso Sismondi congratulandosi meco del Bondelmonte, si rallegrava nel tempo stesso collʼItalia che può̀ (diceva egli) render oggi cosi fedelmente e profondamente lʼimagine della sua antica grandezza.46
Fervente ammiratore anchʼesso dellʼopera dello storico ginevrino, Brofferio era riuscito a ricavarne asserti di proselitismo politico ben piú espliciti e radicali di ciò che gettava lí, quasi a scusante, il Marenco. 47 Proclamava perciò incoercibile alle scene e persino nocivo il discorso su Venezia del Sismondi; di certo contro producente ai fini del teatro – per lo meno, sʼintenda, ai fini dʼun teatro patriottico di propaganda. E benché Brofferio condividesse la condanna del ruolo storico dei patriziati, causa prima del decadimento dei regimi comunali, era pure certo che una cosa fosse condannarne lʼazione dalle pagine di un libro di storia o di un articolo di rivista; tuttʼaltro affare, era veder trionfare dalle scene tanta scandalosa avidità di particulare. Proprio non era il caso, mostrare in un teatro la congiura e lʼarbitrio vittoriose della morale pubblica e dellʼamor di patria. Insomma, se la tragedia doveva essere per davvero «insegnatrice deʼ popoli, ed aprire colle inspirazioni del passato le soglie dellʼavvenire», mal si comprendeva che tipo di ammaestramento il pubblico potesse trarre dallo «scoraggiante spetta colo di popoli discordi, di leggi calpestate, di città turbolente, di fazioni rivoltose,
46 Cit. in BroFFerIo, Tragedie di Carlo Marenco da Ceva, ivi, 23 dicembre 1837, rist. in Ibidem, II, pp. 320-21. Sul tema rimandiamo ad AlBerTo mArIo BANTI, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore allʼorigine dellʼItalia unita, Torino, Einaudi, 2000.
47 Cfr. BroFFerIo, Discorso sullʼitaliano incivilimento in relazione alla giurisprudenza di G. D. Romagnosi, «Il Messaggiere del Commercio», 24 ottobre 1835, dove sostiene che «pace, equi tà, sicurezza» non sono che «condizioni al quieto vivere dei popoli», specchio dello spirito pubblico nellʼetà della Restaurazione e della servitú. Brofferio impugnava qui la tesi di Sismon di, la deriva dispotica, per confutare lʼultimo Romagnosi, per il quale «la salute dellʼItalia neʼ mezzi tempi aspettar non si poteva che da un forte politico ordinamento collʼunione dellʼItalia sotto la signoria di uno solo». Brofferio risponde che non già affidandosi ad un despota, «ma piuttosto col mantenere le sue istituzioni municipali poteva sperare lʼItalia di salvare la sua indipendenza», e che un vincolo federativo tra gli antichi stati sarebbe bastato a preservare «gli italiani dai traviamenti della propria ambizione non meno che dalle offese nemiche» (rist. in Id., Il Messaggiere torinese cit., I, pp. 97-104). Le affinità di Brofferio con Cattaneo gli valsero attacchi da parte moderata e dai fautori dellʼunitarismo sabaudo, come ad es. eNrICo lAVel lI – pIeTro pereGo, I misteri repubblicani e la ditta Brofferio, Cattaneo, Cernuschi e Ferrari, Torino, Ferrero e Franco, 1851, pp. 19-39.
di repubbliche avvilite»48 . Brofferio rimaneva attaccato ad un altro modello, quello alfieriano: lʼunivoca, unilaterale esaltazione dellʼeroismo romano della Virginia e del Bruto primo. Ma «se noi guardiamo alle tragedie del Marenco per tanti altri pregi di encomio degnissime», ammetteva, «non so come potremo in esse trovare quella fedele immagine dellʼitalica grandezza da Sismondi desiderata».49 Traviamenti di falsa virtú, trionfo degli interessi privati e di casta. Lʼostacolo era unicamente la leggenda tenebrosa, che rendeva Venezia del tutto inservibile ai fini patriottici, e in piú era oltraggiosa del modello repubblicano. Era stato appunto Brofferio a contestare personalmente a Niccolini, due anni prima, la sconvenienza ʼpoliticaʼ dellʼAntonio Foscarini, argomentando che «[s]e quella tragedia fosse venuta in luce quando i Tre, i Dieci, i Quaranta governavano coi Pozzi e coi Piombi sarebbe stato atto di opportunità e di coraggio; stampata in vece e rappresentata quando Venezia stava sotto i piedi di Vienna non poteva sembrare per avventura una giustificazione croata, un applauso allʼAquila che incatena il Leone?».50 Molto meglio volgersi ad altre vicende storiche, e però prive di simili controindicazioni, ammesse già a pieno titolo nel cosiddetto «canone» risorgimentale: Legnano, i Vespri, lʼassedio di Firenze. Scrive infatti Brofferio:
Volete ritrarci voi fedelmente lʼantica grandezza? La storia ve ne addita la via. Mostrateci Milano che acconsente a veder rovinate le sue mura anziché sottoporsi a Federico Barbarossa; mostrateci Firenze che con disperato coraggio difende le sue leggi contro la schiera di Carlo V e di Clemente VII; mostrateci finalmente una città di Sicilia che alla voce di Procida sorge come le fiamme dellʼEtna contro lʼinvasione di Francia. Cosí con la sventura insegnerete la gloria.51
4. È evidente adesso che Mercadante e i suoi quattro librettisti non stessero maneggiando una vicenda politicamente neutra – né in verità alcun soggetto poteva esserlo per davvero, a petto del pubblico dei teatri lirici e di declamazione dellʼetà del Risorgimento.52 Già presentando ai lettori la prima edizione italiana di The
48
BroFFerIo, Teatro dʼAngennes. Adelisa, tragedia di Carlo Marenco, «Il Messaggiere del Com mercio» 20 febbraio 1836.
49
«[Q]uestioni di famiglie nelle quali non havvi neppur ombra di italico affetto [né] può avere fonte alcun sentimento che muova ad ossequio verso lʼItalia deʼ mezzi tempi» (Id., Tragedie di Carlo Marenco da Ceva cit.).
50
Id., I miei tempi. Memorie cit., XIX, p. 312-13: «La fama di Niccolini non era mai salita a tanta altezza come in quei giorni per le cento rappresentazioni del Foscarini, in cui la Repubblica di Venezia era flagellata a sangue. Dirò apertamente […] che nella parte politica non poteva rassegnarmi a veder malmenata Venezia in tempo che la malmenavano assai peggio degli antichi patrizi i proconsoli dellʼAustria».
51
Id., Tragedie di Carlo Marenco da Ceva, cit.
52 Rimandiamo a CArloTTA SorBA, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nellʼetà del
Bravo, il traduttore aveva posto lʼaccento sul valore politico e sociale del narrato di Cooper, ben piú che sul semplice merito letterario.53 La scelta cadeva dunque su un romanzo di gran voga in Italia e che in Francia aveva già prodotto del teatro e un primo libretto dʼopera,54 ma che costringeva a riformulare una materia controversa, dibattuta da giornali e riviste. La discussione che ne era derivata già aveva tracimato dal campo storiografico, letterario ed erudito al proclama patriottico, e non toccava piú unicamente le glorie locali di Venezia ma lʼamor di patria e un tema altamente sensibile in pieno Risorgimento come quello dellʼopzione repubblicana. Ciò apriva anche una serie di questioni pratiche: non tanto come pensare di presentarlo sulla piazza di Venezia, ma anche solo come far digerire un simile soggetto alla censura del Lombardo-Veneto; considerando che questa già ostacolava la circolazione del Daru, per tema che nelle teste dei lettori piú malevoli potesse accendersi un «para gone fra il regime politico marciano e quello dellʼImperial Regio Governo».55
Abbiamo fatto cenno a quattro librettisti, numero che andrà inteso come con suntivo finale: non una collaborazione a otto mani; piuttosto un avvicendamento a scalare, scandito da sommari passaggi di consegna. La genesi dellʼopera fu perciò alquanto intricata, benché poi tutto si svolgesse piuttosto rapidamente, nellʼarco di quattro o cinque mesi: tra inizio autunno del 1838 e il 9 marzo dellʼanno successivo, data del debutto scaligero.
A quanto ne sappiamo, Mercadante fu convinto a mettere in musica proprio quel soggetto da Antonio Bindocci, un avvocato che in quegli anni godeva di una discreta fama come poeta estemporaneo, esibendo le proprie abilità di versifica tore allʼimprovviso nelle accademie ma anche nei teatri. Bindocci stese il piano del libretto scena per scena e lo consegnò al musicista. A fine settembre Mercadante accetta la selva;56 poi però il poeta si dilegua. Dirà che si era recato in Sardegna, Risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 2015, ma soprattutto a eAd., Il 1848 e la melodrammatizza zione della politica, in Storia dʼItalia, Annali 22. Il Risorgimento, a cura di Alberto Mario Banti e Paul Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007, pp. 481-508.
53
A detta di costui, nel romanzo di Cooper «la politica è la molla principale di tutti gli avveni menti»; e perciò «[p]oche letture, ardisco asserirlo, esser ponno di questa piú utili a chi brami acquistare idee chiare e giuste sulla politica» ([pAolo olmy] Prefazione del traduttore, in Il Bravo, storia veneziana di James Fenimore Cooper tradotto per la prima volta in italiano da Pao lo Olmy, 3 voll. Milano, Truffi, 1832, vol. I, pp. 3 e 5).
54
Il Bravo, libretto di Arcangelo Berrettoni e musica del conte Marco Aurelio Marliani, andato in scena in prima al Théâtre-Italien di Parigi il 1° febbraio 1834 con Rubini e la Grisi nei primi ruoli. Nei successivi otto anni lʼopera, la cui trama segue piuttosto fedelmente quella del romanzo di Cooper, conobbe una sufficiente circolazione in Italia (Napoli, Genova, Firenze, Livorno, Roma) e riuscí a mettere piede anche nella terraferma veneta (Vicenza, 1836 e Pado va, 1841).
55
BerTI, Censura e circolazione delle idee cit., p. 252; su Milano in particolare cfr. mArINo BereN Go, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi, 1980.
56 «Gli proposi io stesso il Bravo […] formandogliene un piano affatto nuovo, scena per scena e
dovʼera rimasto bloccato per aver perso il battello del ritorno. Peccato che fosse in parola per consegnare a Mercadante il libretto, rifinito in tutte le sue parti, già a fine ottobre. Bindocci viene perciò sostituito su iniziativa dellʼimpresario della Scala, Bartolomeo Merelli. Quando si rifà vivo da Genova, con un mese di ritardo ma forse col libretto finito, lʼincarico è già passato nelle mani di un veterano della poesia per musica con oltre quarantʼanni di carriera alle spalle: Gaetano Rossi, classe 1774, il librettista del debutto di Rossini, ma anche del suo Tancredi e di Semiramide. Ne nascerà una polemica giornalistica con la direzione della Scala, che produrrà la provvidenziale pubblicazione del libretto intempestivo e non piú musicato.57 La mancata dispersione del libretto del Bindocci permette infatti di accertare che, arruolato in tutta fretta, Rossi lavorò sulla base della selva origina riamente approntata dal primo assegnatario della commessa e che era rimasta nelle mani di Mercadante.
Tutto perciò si sposta in Piemonte, a Novara, dove il musicista era maestro di cappella. Rossi è con lui, ma Mercadante riesce ad ottenere un aiuto ulteriore nien temeno che dal «principe dei librettisti», il cavaliere Felice Romani. Si trattò forse di un risarcimento a posteriori di Romani, che nellʼanno del debutto parigino di Mercadante lo aveva lasciato senza un libretto da musicare. Probabile che a fine dicembre Romani li avesse raggiunti per qualche giorno e aiutati a rimettere in sesto il libretto, quasi certamente senza contribuire alla scrittura diretta dei versi. 58 Né era finita: in corso dʼopera Rossi si ammalò; intervenne allora, per rifinire il
situazione per situazione. Soltanto alla fine del passato settembre egli si decise per questo soggetto, talché io non potei cominciare il mio lavoro se non ai primi di ottobre» (ANToNIo BINdoCCI, Avvertimento, in Id., Il Bravo, tragedia lirica, Torino, Gianini e Fiore, 1839, p.n.n [3]).
57 Ibidem. Iniziava cosí un valzer delle omissioni e forse delle bugie, sia dallʼuna che dallʼaltra parte: è sospetto il fatto che Bindocci inviasse a Mercadante solo «il primo atto dellʼopera, acciò potesse incominciare la sua musica, riserbando[si] a mandargli il rimanente allorché egli avesse tutto sistemato» con Merelli. Mercadante, che aveva scaricato sullʼimpresa la responsabilità della sostituzione, in una lettera a Romani quasi ammette di aver preso lui stesso lʼiniziativa: «Bindocci mi piantò e scomparve. Fui obbligato per assicurare il servizio del mio impegno, di prendere il poeta Rossi, il quale è già qui fin dal 29 dello scorso mese» (Lette ra di Mercadante a Felice Romani, da Novara, 5 dicembre 1838, cit. in emIlIA BrANCA, Felice Romani e i piú riputati maestri di musica del suo tempo. Cenni biografici e aneddotici, Torino, Loescher, 1882, p. 249, corsivi nostri).
58 Questa la richiesta di Mercadante: «Vieni immancabilmente questo Natale a passare le feste con noi, affin di permetterci di sottometterti quanto si sarà stabilito e fatto intorno al dramma Il Bravo che si stà componendo, e sii tu, te ne prego, prodigo deʼ tuoi consigli a noi! – Rossi ti venera, io ti adoro, dunque assistici; una occhiata tua, anche di volo, vale piú che mesi di nostre riflessioni… Non mi negare questo favore, te ne scongiuro… te ne scongiura il tuo Mercadan te!» (ibidem, pp. 248-49). Su Romani cfr. AleSSANdro roCCATAGlIATI, Felice Romani libretti sta, Lucca, lIm, 1996; per la vicenda di Parigi, cfr. le pp. 391-403, nonché FrANCeSCA plACA NICA, Mercadante in Paris (1835-36). The Critical View, «Revue Belge de Musicologie» 66, 2012, pp. 151-65.
Mercadante, Venezia, «the BraVo» di FeniMore cooper
tutto, un allievo di Mercadante, Marco Marcelliano Marcello, giornalista e in seguito librettista, poi fondatore del giornale musicale «Il Trovatore».59
Tale la nuda e accidentata sequenza dei fatti. Sbaglierebbe però chi pensasse di poter riconoscere qualcosa della trama originaria del romanzo di Cooper nel Bravo di Mercadante. La vicenda è interamente tratta da un testo mediatore, scelto da Bindocci e dichiarato da Rossi a fianco del romanzo: un drame in cinque atti in prosa di Auguste Anicet-Bourgeois, La Vénitienne; una pièce scampata alla censura per una fortuita combinazione di circostanze e andata in scena a Parigi alla Porte-Saint-Martin nel marzo 1834. Proibita in Francia già a partire dallʼanno successivo, La Vénitienne cir colò assai presto nei teatri dʼItalia in traduzione, e persino a Venezia. Fu proprio lí, o forse a Treviso, che il Semenzi la vide in teatro – lo sdegno e la notizia che quella villana profanazione «del Veneto Governo» era tratta «da un romanzo straniero» di cui ancora niente sapeva, lo avrebbe indotto a procurarsi il Bravo di Cooper.60
Si trattava di un drame nel genere tenebroso, ai limiti del mélodrame e conforme in tutto agli spettacoli che si davano alla Porte-Saint-Martin. Secondo la critica di poco posteriore, tutto il teatro di Anicet-Bourgois correva «sur un fil électrique dʼune éxtrémité à lʼautre du boulevard du Crime», benché di tutte la Vénitienne fosse considerata la sua pièce migliore perché «la plus littéraire».61 Dunque un teatro dalle tonalità scure, che ben si concilia coi tenebrosi misteri evocati dal Daru. Dʼaltra parte la successiva storiografia francese su Venezia avrebbe confer mato senza troppi scrupoli di revisione lʼantica narrazione seicentesca sui ʼbraviʼ veneziani del Saint-Didier. LʼHistoire de la République de Venise di Léon Galibert
59 Cfr. GAeTANo roSSI, Alcuni cenni sul Bravo, in Id., Il Bravo, melodramma in tre atti posto in musica dal maestro Saverio Mercadante, da rappresentarsi nellʼI. R. Teatro alla Scala la quaresima 1839, Milano, Truffi, 1839, p.n.n. [4]); la vicenda è rievocata in m[ArCo] mArCello, Rassegna musicale, «Rivista contemporanea», 5/9, 1857, p. 129.
60 Fu, appunto, «[a]llorché per la prima volta io vidi sulle nostre scene rappresentarsi il dramma intitolato il Bravo di Venezia […], mentre la ciurma degli spettatori senza por mente allʼingiustizia che là si compieva […], concordemente applaudiva» (Semenzi, Osservazioni critiche cit., p. 9); con quel titolo circolò sui teatri dʼItalia la traduzione, La Veneziana o Il Bravo di Venezia, dram ma di Aniceto Bourgeois, ridotto pel teatro italiano in due parti con libera versione del professore Francesco Rossi piacentino, Milano, Visaj, 1836.
61 euGèNe de mIreCourT, Émile Augier, Theodore Barrère, Anicet Bourgeois, Paris, Librairie des Contemporaines, 1870, pp. 47-51. Che le premesse del suo teatro fossero tutte nel mélodrame à la Pixérecourt, lo confermerebbe una «inqualifiable» sua versione del Macbeth, «où le fanta stique et le terrible sont portés au-delà de toutes les bornes»; su questo tipo di teatro cfr. mArIepIerre le HIr, Le romantisme aux enchère. Ducange, Pixerécourt, Hugo, Amsterdam-Philadelphia, Benjamins co., 1992, in generale JAmeS SmITH AlleN, Il Romanticismo popolare. Autori, lettori e libri in Francia nel XIX secolo (trad. it.), Bologna, il Mulino, 1990. Nel 1835, in occasione del ripristino della censura teatrale preventiva, venne interdetta la circolazione della Vénitienne: divieto confermato anche sotto lʼImpero e revocato solo nel 1882 (cfr. odIle krAkoVITC, La Censure théâtrale (1835-1849). Édition des procès verbaux, Paris, Garnier 2016, pp. 66-68, 658 e 662).
avrebbe ripreso da lí la leggenda, e Armand Dubarry, in un pittoresco Le Brigandage en Italie, a sua volta, direttamente da Galibert. In particolare Dubarry, certificava la sopravvivenza dei ʼbraviʼ fino alle soglie della Rivoluzione francese, sottintendendo con ciò che il ʼsalutareʼ intervento militare francese del 1796 su Venezia e sullʼItalia avesse contribuito a far piazza pulita di un costume delinquenziale antichissimo, iscritto da secoli nel carattere italiano – e veneziano.62
È evidente perciò che in Francia le proteste di storici veneziani e patrioti italiani fossero rimaste lettera morta. Sul piano dellʼattendibilità storica la tesi Daru dettava legge Oltralpe; ma ancor piú che per lei, la leggenda nera era passata al grande pubblico attraverso la fiction, tramite Byron e anche lo stesso Cooper. Le prime recensioni delle traduzioni francesi del romanzo non contestano affatto lʼautenticità storica della ricostruzione del romanziere americano; avallano le numerose inesat tezze topografiche delle descrizioni; confermano come dato di fatto la presenza in città di ʼbraviʼ a tassametro, a disposizione del migliore offerente, sia per le vendette pubbliche che per quelle private, e che il governo della Serenissima era stato per secoli nelle mani di una minuscola corporazione di tirannelli irresponsabili e cor rotti, il cui agire dissennato ne aveva causato alla lunga la fine ignominiosa.63 Solo qualche sostenitore del costituzionalismo monarchico aveva rilevato con biasimo la strategia intessuta dal Cooper per «prouver que la république des États-Unis est la meilleure des républiques possibles»; e che per sostenerlo aveva fatto «de la république de Venise la plus odieuse des institutions humaines», raffrontandola in piena perdita e «sans cesse à la constitution de son pays».64
Anicet-Bourgeios aveva tratto dal romanzo unicamente le atmosfere e il pro tagonista. Per un curioso paradosso, il suo dramma fu giudicato poco verisimile perché non sufficientemente conforme alla leggenda nera: eccessivamente in con traddizione rispetto quanto pontificato dal Daru circa le dinamiche ʼmisterioseʼ della tirannide veneziana. E in effetti per un regime fondato terroristicamente sullʼimponderabile e sullʼignoto, il comportamento del Bravo, antieroe mascherato in servizio effettivo ed in sosta permanente nella Piazzetta, risultava davvero poco “misterioso”, tuttʼaltro che terrorizzante, persino ridicolo. «Si cela ne sʼest jamais vu à Venise, ville au gouvernement mystérieux, dont les sicaires glissent dans lʼombre
62
In questa sequenza: SAINT dIdIer, La Ville et la République de Venise cit., pp. 284-85; léoN GAlIBerT, Histoire de la République de Venise, Paris, Furne 1847, pp. 500-01; ArmANd duBAr ry, Le Brigandage en Italie depuis les temps les plus reculés jusquʼà nos jours, Paris, Plon, 1875, pp. 130-33.
63
N., Variétés. Le Bravo, histoire vénitienne, par J. F. Cooper, américain, «Journal des débats politi ques et littéraires», 14 novembre 1831: «une douzaine de petits tyrans […] qui ont si bien énervé Venise à la fin que des Allemands quʼon mène avec la schlague ont suffi pour la coucher à tout jamais dans la poussière»; il ché, ancora una volta, sgravava la Francia della memoria e della responsabilità di Campoformio.
64
Amedée pICHoT, Styles et sentiments du drame moderne, «Revue de Paris», 1843, p. 255.
Venezia, «the BraVo» di FeniMore
et ne portent pas dʼuniformes», si scrisse, era tuttavia ciò che si vedeva «dans la Vénitienne, à la Porte-Saint-Martin».65
Attorno al personaggio, Anicet-Bourgeois sviluppava poi una nuova controstoria, del tutto estranea al romanzo, ma che aveva il vantaggio di unire ad un classico del romanticismo patetico a venatura sociale un altro pezzo forte della Venezia corrotta: la Cortigiana veneziana.
Théodora, donna perduta «qui fait en public la courtisanne et la bonne mère en secret»66, è lʼex sposa del Bravo, chʼegli era convinto dʼavere uccisa in un accesso di gelosia, ma che gli ha dato una figlia pura siccome un angelo, cresciuta ignara dʼessere il risultato dellʼamore tra questi due mostri nonché erede biologica di un tale concentrato di leggenda nera. Quanto alla fonte di tale ispirazione, Daru si occupava di politica e di storia, e non di prostituzione, né in verità comparivano cortigiane nemmeno in Cooper. Ne scrisse invece, e piuttosto diffusamente, il SaintDidier, ed è certo che da lí fu ricavata Théodora.67
La «veneziana» che dà il titolo al dramma è perciò la prostituta redenta dallʼamore materno, che sconta il proprio peccato col sacrifico della vita. Un tipo che comincia ad affacciarsi allora anche sulle scene italiane e piú che altro in lettura, grazie alle prime traduzioni da Dumas père, quanto soprattutto alla Lucrèce Borgia di Hugo. In Théodora la critica parigina riconobbe subito una «pâle copie de Lucrèce Borgia», ma anche nellʼalterco alla festa con lʼincendio finale, una scena «dans le genre de celle des seigneurs à Lucrèce Borgia». 68 Quanto al resto, ci si chiedeva solo «où jamais a-t-on vu de telles mœurs? Dans quelle société a-t-on agi de telle sorte?».69 Caratteri già visti, uno sviluppo di trama scontato, punteggiato da «tous les inci dens des vieilles pièces du boulevard». A differenza di quelle, «au lieu dʼenfermer ses personnages dans un souterrain, dans une caverne» Anicet-Bourgeois aveva provveduto a “les mettre à Venise”: “[à] habiller ses voleurs, ses assassins véritables, en nobles Vénitiens […] Je le demande à lʼauteur lui-même: sa ville des lagunes estelle autre chose quʼune vaste retraite de bandits dont le capitaine et les lieutenans sont les membres du conseil des Dix…»?
65
é[douArd] m[oNNAIS], Théâtre de la Porte-Saint-Martin. Première représentation de la Véni tienne, “Le Courrier français”, 25 mars 1834); personaggio inverosimile, considerando «quʼà Venise le mystère des vengeances politiques était le plus grand moyen de terreur», che la politica veneziana «reposait principalement sur lʼespionnage»; paradossalmente, è la non conformità al Daru a fare del dramma un «perpetuel mensonge de lʼhistoire, à la verité, aux mœurs» (R., Théâtre de la Porte-Saint-Martin. Première représentation de la Vénitienne, «Journal des débats politiques et littéraires», 25 mars 1834).
66 pICHoT, Styles et sentiments cit., p. 250.
67 Cfr. in particolare SAINT dIdIer, La Ville et la République de Venise cit., pp. 330-339.
68 Rispettivamente Théâtre de la Porte-Saint-Martin. Première représentation de la Vénitienne, «Le Charivari», 20 mars 1834, m[oNNAIS], Théâtre de la Porte-Saint-Martin cit.
69 R., Théâtre de la Porte-Saint-Martin cit.
In definitiva, la Vénitienne non fu giudicata diversamente da un mélodrame di genere banditesco spacciato però come dramma storico, dove lʼeroe della vicenda reggeva la consueta parte del «voleur innocent de la bande».70
5. Questo il gusto, oppure semplicemente lʼazzardo del Bindocci – personaggio del quale non è agevole comprendere gli orientamenti politici.71 Intanto però gli altri tre librettisti erano inchiodati a quel soggetto controverso che pure non avevano scelto, con verosimile repulsa della personalità che era stata chiamata a salvare tutta lʼimpresa, e che sicuramente giocò un ruolo importante nellʼinstradare il libretto sul giusto binario: Felice Romani.
Molti anni dopo, la vedova del letterato ricorderà la viva gratitudine di Merca dante per esser stato «di molto incoraggiato dai buoni uffici che gli prestò Romani, mentre la scriveva, ed in grazia dei preziosi suggerimenti che si compiacque di elargire al poeta Gaetano Rossi, uomo modesto, gioviale, dʼindole buonissima e di cuore riconoscente».72 Forte è perciò lʼimpressione che a Novara fossero poco meno che alla disperazione. La selva era quella lí, né sapevano cosa farne. Chiamato allʼultimo minuto, Rossi non discute su nulla e si mette nelle mani di Romani. Questi si presta a dare un aiuto: quasi certamente non scrive un solo verso, ma intanto dà consigli, instrada, emenda. Non vuol metterci il nome né partecipare alla pole mica, anche perché il Bindocci era un suo protetto. Questi tra lʼaltro gli dedicherà il libretto polemicamente stampato, che Romani recensí sulla «Gazzetta piemontese», avendo cura di far ricadere la responsabilità dellʼinutile disputa sulle storture del sistema produttivo – dunque su Merelli e lʼamministrazione della Scala – ma anche di strigliare garbatamente lʼallievo per aver scelto un soggetto di quella specie.73
70
pICHoT, Styles et sentiments cit., p. 252; «Les mélodrames de M. Pixérécourt, si vous les com parez à de telles absurdités, sont des chefs-dʼoeuvre de sens commun» (R., Théâtre de la Porte-Saint-Martin cit.).
71 Nelle sue esibizioni pubbliche il Bindocci si compiaceva di improvvisare su temi del canone patriottico: «Lʼaddio di quei di Parga alla patria in endecasillabi con intercalare e la Disfida di Barletta in ottave» (TommASo loCATellI, Teatro Apollo. Accademia di poesia estemporanea, «Gazzetta di Venezia», 22 gennaio 1840); mentre una sua raccolta di Versi estemporanei è dedicata allʼimperatore Francesco I dʼAustria e la gran parte delle singole poesie ad aristocra tici alti funzionari dellʼImperial Regio governo (Napoli, Fernandes, 1835); scelta altamente apprezzata da romANI (Poesia. Versi dellʼAvvocato Antonio Bindocci da Siena, «Gazzetta pie montese», 7 ottobre 1843). Bindocci sembra piuttosto un tipo disposto a giocare indifferente mente su tutti i tavoli che aveva a disposizione, né forse è casuale che un democratico come il Brofferio lo detestasse caldamente considerandolo un cialtrone e un impostore (cfr. ANGe lo BroFFerIo, Lʼappendice della Gazzetta di Venezia. Prose scelte di Tommaso Locatelli, «Il Messaggiere torinese», 10 novembre 1838).
72 BrANCA, Felice Romani cit., p. 249.
73 Cfr. [FelICe] R[omANI], Drammatica. Il Bravo, Tragedia lirica dellʼavvocato Antonio Bindocci, «Gazzetta piemontese», 1° febbraio 1839); sulla polemica, anche BrANCA, Felice Romani cit.,
Come librettista, Romani era di fatto in pensione. Dal 1834 era direttore della Gazzetta ufficiale del Regno di Sardegna: incarico lucroso, di prestigio, che impo neva una condotta prudente e un sostegno senza tentennamenti al piú scontato moderatismo conservatore, tanto in politica che in letteratura.74 Non stupisce perciò che uno come Brofferio lo detestasse caldamente, perché esponente di spicco di quello stesso establishment letterario del vecchio Piemonte per combattere il quale si era deciso a scendere nellʼarena giornalistica, «veglia[re] le notti a combattere colla penna i superbi che ci calpestavano, [ed] impiega[re] i giorni ad assistere con la parola i miseri, gli oppressi, i calpestati» come avvocato.75 Romani gli appariva insomma come un perpetuo incensatore delle accademie; sicofante al servizio di una inamovibile camarilla di letterati classicisti, in gran parte dilettanti aristocratici, tutti conservatori, spesso autentici reazionari: tutta gente che Brofferio teneva per i massimi responsabili del ritardo sociale e culturale in cui versava il Piemonte. È chiaro che la battaglia combattuta da Brofferio in letteratura fosse anzitutto poli tica, che scopo finale fosse risvegliare «dal silenzio degli oppressi un sentimento di universale giustizia».76 Ma era appunto quel miscuglio di arte e di propaganda che proprio Romani non ammetteva, anzi abborriva.
Pare assodato che negli anni di Milano, Romani si fosse legato a circoli classicisti «fra i piú chiusi e bellicosi».77 A Torino, dallʼalto del suo nuovo ruolo di direttore della «Gazzetta», non si esimerà dal fustigare «lʼestrema sfrenatezza degli ultra romantici»; la loro arte fastidiosamente ʼpoliticaʼ, sfrontatamente contestataria, «inorpellata coi pretesti di progresso, di bisogni del secolo e di utile umanitario»; pericolosa «lusingatrice degli animi inquieti e ardenti», i malcontenti che erano il flagello di quella che Romani considerava una «età di scompiglio morale».78 Ora, separare la politica dallʼarte in nome del Bello ideale era da sempre strategia, non solo delle accademie, ma anche dei conservatori di tutte le gradazioni. Romani giunse persino ad accusare retrospettivamente il primo romanticismo italiano, dʼimpronta moderatamente liberale, dʼessere stata una corrente letteraria «venuta pp. 249-52.
74 Cfr. VITTorIo BerSeZIo, Felice Romani critico, in FelICe romANI, Critica letteraria, a cura di Emilia Branca, Torino, Loescher, 1883, I, p. xii e ancora GAlANTe GArroNe, I giornali della Restaurazione cit., pp. 178-81.
75 ANGelo BroFFerIo, Allʼocculto scrittore del Folletto, «Il Messaggiere torinese», 11 marzo 1837; cfr. inoltre FederICo puGNo, Angelo Brofferio, Torino, Audisio, 1868, pp. 125-141.
76 Cfr. BroFFerIo, Polemica, «Il Messaggiere torinese», 26 agosto 1837; cfr. anche Id., Prefazione. Come sono diventato giornalista, in Id., Il Messagiere torinese. Prose scelte cit., I, pp. XXXIX Xl.
77 roCCATAGlIATI, Felice Romani librettista cit., pp. 19-57: 43.
78 «Vorrei che mi spiegassero chiaramente da quali altri fonti deriva la poesia, se non son essi la religione, la patria, e lʼamore, da cui deriva la poesia deʼ nostri padri, Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso» (FelICe romANI, Critica. Voto di chi non è classico né romantico, né antico né moderno, «Gazzetta piemontese», 21 settembre 1839, corsivi in testo nostri).
fra noi coi Croati», propagatrice dʼidee e di sentimenti antipatriottici.79 Premesso ciò per tornare alla sua opera di consigliere e di supervisione del libretto per Mercadante, è bene far presente che la repulsa di cui dicevamo pocʼanzi riguardava anche lʼimpiego in teatro della leggenda nera. Pochi anni prima, trat tando della Venezia tenebrosa in una recensione dei Foscari del Marenco, tutta del resto argomentata come suo solito in punta di poetiche, Romani concludeva invocando a gran voce che
la patria carità tiri un velo sui fatti atroci di cui pur troppo abbondano ogni età ed ogni popolo, e ponga in luce i tratti di virtú che rendono onorando il nome italiano: lasciamo agli stranieri il misero vanto di insultare ad una regina, come Venezia, caduta sotto lʼonnipotenza del tempo: noi rammentiamo la giornata di Lepanto: ogni vituperio è cancellato da quella gloria immortale.80
Lepanto, per lʼappunto. Venezia era stata per secoli il baluardo del Cristianesimo nel Mediterraneo. Ciò lʼaveva resa grande, persino a dispetto dello scellerato sistema che lʼaveva retta. In piú occasioni Romani mostrò credere fondata la tesi-Daru e dare per inconfutabile il peccato originale della Serenissima: che le sue istituzioni politiche fossero destinate ad ergersi a perenne monumento «dellʼastuta politica, del vile timore e della crudeltà calcolatrice della Repubblica».81 Meccanismo istitu zionale perverso, rievocato per lui in tutta la sua deprimente ʼesattezzaʼ storica dal Byron, da lí passato nella tragedia del Marenco. Sia lʼuno che lʼaltro mostravano il doge soccombere alle trame di un «potere nemico, sitibondo di vendetta», incarnato dal capo «di un formidabile tribunale che tutto governa col terrore del suo nome». Ma, appunto: dando Romani per certo che tutto ciò fosse storicamente esatto, pro
79 «[N]on sono ancora quarantʼanni», scriverà nel 1855, «una confraternita di piagnoloni che si chiamarono Romantici, venuta fra noi coi Croati, cogli spettri e coi lemuri, intimò guerra ai Padri nostri, e alla bella e limpida natura Italiana pretese sostituire il misticismo Germanico e la metafisicheria Settentrionale» (FelICe romANI, La consorteria letteraria, in Id., Critica letteraria cit., p. 330, corsivo nostro). Un altro esponente del moderatismo sabaudo come il Bersezio, confermò che del romanticismo, Romani condannava la «bizzarra confusione di termini e dʼidee fra il movimento letterario e quello politico e sociale», intravedendovi «una nuova minaccia di barbarie, unʼoffesa alla nostra nazionalità̀» (BerSeZIo, Felice Romani criti co cit., pp. vii-viii); il riferimento era però tuttʼaltro che innocente: in maggioranza croata era la bassa truppa incaricata a Milano della repressione dei disordini patriottici sia prima che dopo le Cinque giornate; compito che assolsero con leggendaria perversione e crudeltà. Su questo genere di argomenti, rimandiamo ad AleSSANdro GAlANTe GArroNe, Aspetti politi ci del romanticismo italiano, in Id., Lʼalbero della libertà. Dai giacobini a Garibaldi, Firenze, Le Monnier, 1987, pp. 98-122.
80 FelICe romANI, Letteratura. La Famiglia Foscari di Carlo Marenco, «Gazzetta piemontese», 20 gennaio 1835.
81 Id., Storia. La morte del Conte di Carmagnola illustrata con documenti inediti dal conte Luigi Cibrario, ivi, 25 novembre 1834.
prio per questo occorreva escludere dalle scene un tale scempio delle regole della poetica. Per quanto incredibile, era tutto lí il problema a detta di Romani: che «la tragedia aborre qualunque sia personaggio, o storico o immaginato, quandʼesso è debole o vile»; dunque i Foscari non era «soggetto tragediabile».82
Genovese di nascita, ancora adolescente durante le convulse ultime fasi di vita della Superba, Romani adesso era fedele suddito del re di Sardegna. Il suo amore per lʼItalia era quello del letterato laureato, non certo del militante attivo, «ché di passioni politiche e di civili ribollimenti aveva visto abbastanza nella sua giovi nezza». Parole della vedova, che per attestare lʼimpegno patriottico del marito non trovò niente da citare di piú scomposto che una Canzone in gloria del «re codino» Vittorio Emanuele I, «liberatore dʼItalia», scritta nel 1815.
Quello del poeta fu un lealismo dinastico sabaudista a prova di bomba, che in pubblico lo portava ad adeguarsi prontamente a qualsiasi deliberazione presa dalla monarchia, comprese quelle che in privato gli parevano pericolosamente ardite, come fu il caso, nel 1848, della «magnanima» concessione dello Statuto Albertino. 83 Fu proprio questo facile accomodamento allʼordine politico e sociale della Santa Alleanza che il radicale Brofferio detestava in lui: la «prodigiosa pieghevolezza di stile» di Romani, intessuta di compiacenti omissioni e autocensure; il perbenismo letterario e quel perpetuo ossequiare accademici e titolati; la sua continua deroga ai doveri della critica “nel merito” per rifugiarsi sempre al riparo delle regole e degli assiomi delle poetiche.84
E tuttavia, per curiosa eterogenesi dei fini, i due giunsero a identica conclusione riguardo al tema della Venezia “tenebrosa”. Vale a dire che la carità di patria impo neva che la leggenda nera venisse bandita dalle scene. Lʼintesa tra i due finiva lí, dato che le rispettive visioni di fondo sulla missione del teatro erano inconciliabili. Lʼuno pensava allʼutile ed al vero; lʼaltro alla difesa del Bello ideale – entrambi, benché da posizioni contrapposte e confliggenti, proclamavano voler difendere lʼonor di patria. Per Romani, dunque, nei Foscari del Marenco «il vizio [era] nel soggetto», né di ciò incolpava Byron, che ammirò e che a quanto pare aveva conosciuto personal
82 Qui e sopra, Id., Letteratura. La Famiglia Foscari cit.: «in esso non sono, né vizii che lo rendano mirabile, né virtú che lo facciano venerando, né sventure che vi spremano le lagrime»; quan to al figlio, Jacopo Foscari, «è ancor piú nullo, o per ispiegar con piú moderazione, è men tragico del padre. […] La nostalgia, poiché tale è lʼamor suo per Venezia, non è una passione, ma una malattia; e le malattie non vogliono porsi in tragedia»; cfr. invece ToCCHINI, Melo dramma, storiografia cit., pp. 73-79.
83 Qui e sopra cfr. BrANCA, Felice Romani cit., pp. 28-31.
84 «[Q]ualunque sia la vostra opinione, [negli articoli di Romani] voi trovate pur sempre un periodo che può servirvi per sostenere il pro e il contro in qualunque buona occasione» (ANGelo BroFFerIo, Miscellanee del Cav. Felice Romani, «Il Messaggiere torinese», 21 agosto 1837). Nello stesso articolo, accusava Romani di aver demolito le tragedie di Marenco per pregiudizio sociale, nel tempo in cui «era solo avvocato», per poi portarle alle stelle non appe na «divenne cavaliere»; cfr. anche Id., Episodio drammatico. Atto unico, ivi, 30 luglio 1836.
mente. In caso ne detestava gli epigoni ed i maldestri imitatori.85 Nello specifico, la colpa era tutta da accollare alle esecrate contro-poetiche da battaglia degli ultraromantici. Romani era sicuro che Marenco fosse stato «tratto in errore dal sistema dei moderni»,
i quali sostengono che il nudo vero sia lʼunico pregio voluto nelle produzioni dellʼintelletto, per discostarsi dagli antichi, amor dei quali era piuttosto il bello ideale: sistema che si giova di qualunque strambezza ritrova nella storia; che non si cura né di scelta, né di convenienza, né di caratteri, né di costumi, purché si possa dire: cotesto fatto si legge tal quale in una cronaca antica.86
Argomenti che tornano nella penna di Romani in una celebre stroncatura dellʼAngélo tyran de Padoue di Hugo. Anche sorvolando sullʼimmoralità patente di un simile teatro, egli protestava qui contro lʼoffesa alle itale glorie; in particolare lo scempio perpetrato da Hugo della memoria dalla Serenissima:
La scena è in Italia, poiché tutto ciò che vi ha di peggio quaggiú deve sempre accadere in Italia: lʼazione è nel dominio di Venezia, perché Venezia devʼessere accusata dʼogni nefandità: lʼepoca è il sedicesimo secolo, poiché nel sedicesimo secolo, a detta deʼ nostri filosofi, dessi specchiare il decimonono […]. Nel secolo decimosesto Venezia era grande, potente, rispettata dai principi europei, temuta dai Musulmani: era asilo a tutte le sventure, era ospizio alle scienze ed alle arti, era finalmente la Roma dellʼOceano, come Lord Byron si piacque nobilmente appellarla. Ora è caduta, ed alcuni nellʼetà presente insultano allʼillustre città, e si scagliano sovrʼessa come gli avoltoi sul leone giacente… e la dipingono sentina di tutti i vizii, ostello dʼogni tirannide, stanza di vituperi, di paure, dʼorrori… E noi italiani facciamo eco a costoro! E soffriamo siffatte nequizie sulle nostre scene! e non una volta, ma due, ma tre, forsʼanche quattro!... e vi ha chi applaudisce!!
Ma appunto: al perverso re magio del romanticismo patibolare occorreva una quinta qualsiasi, purché esotica e terribile, per servire come fondale di «adulterii, assassinamenti a sangue freddo: vigliaccherie da ogni parte; il vizio in tutta la sua laidezza; né virtú pubblica, né privata».87
85 «[N]é vale a nobilitare siffatto personaggio il prestigio del poeta di cui lʼha cinto lʼautore» (romANI, Letteratura. La Famiglia Foscari cit.); cfr. inoltre Id., Teatro dʼAngennes. Lord Byron in Venezia, «Gazzetta piemontese», 24 settembre 1835, nonché Id., Di una traduzione del poema di Lord Byron, ivi, 10 dicembre 1836.
86 romANI, Letteratura. La Famiglia Foscari cit.
87 Id., Letteratura Drammatica. Angelo Tiranno di Padova, dramma di Vittor Hugo, «Gazzetta pie montese», 27 maggio 1836, poi ristampato in «Il Vaglio. Antologia della letteratura periodica», 4 giugno 1836 e «Rivista teatrale. Giornale Drammatico, Coreografico e Musicale», 5 luglio
Si tratta di un articolo piuttosto famoso, poi rilanciato da altre testate delle Peni sola come la «Rivista teatrale» di Roma e «Il Vaglio» di Venezia. Romani ometteva qui di menzionare – né si dà pena di confutare – una leggenda nera cui tuttavia credeva. Non è detto che alla lunga avesse capito quanto potesse essere rischioso continuare a calcare sul mito della Venezia tenebrosa, fossʼanche solo per gettare unʼombra sinistra sullʼopzione politica repubblicana. Lʼanno prima, sulla «Gazzetta piemontese», Romani aveva assai favorevolmente recensito le Osservazioni sul Bravo dello Zorzi. Ne aveva riportati ampi stralci senza virgolettarli, ed era stata per lui occasione di condividere col nobiluomo veneziano «il suo magnanimo risenti mento» e «per far fede che in Italia non son muti per anco i cuori generosi che riguardano come proprie le miserie fraterne».88 Identità di sentimenti che a Vene zia non era passata inosservata. Ancora dieci anni dopo, nelle Osservazioni critiche sul Bravo, Semenzi recuperava la chiusa della stroncatura dellʼAngélo di Hugo per rimarcare le molte colpe del teatro ed affermare, sullʼautorità di Romani, che sulla storia della Serenissima «né la turba degli avidi leggitori deʼ romanzi, né la massa degli spettatori del teatro» appartenevano alla classe «dei ricercatori del vero».89
6. Poco piú di tre anni dopo lʼaccorata recensione allʼopuscolo dello Zorzi, Romani si trovò invece nellʼinglorioso imbarazzo di dover contraddire il vero ed anche sé stesso, aiutando Rossi a riaggiustare per le scene lʼesecrata e antipatriottica misti ficazione romanzesca del Bravo di Venezia.
Come abbiamo visto, piú che altro in ragione dei tempi stretti, Rossi fu costretto a seguire piuttosto fedelmente il palinsesto originario tracciato dal Bindocci. Appare piú che probabile, a questo punto, che fosse stato Romani a suggerire che si depo tenziassero al massimo grado consentivo le copiose invettive antiveneziane presenti nel dramma di Anicet-Bourgois e replicate invece con disinvoltura dal Bindocci, senza grandi états dʼâme nel libretto parallelo.90 Spariva del pari qualsiasi accenno
1836. Opposta lʼopinione di Brofferio: «Si corre dietro ad Ugo?… E perciò? Ugo è cosí grande che non ha confronti, e gli errori suoi sono gli errori della grandezza» (ANGelo BroFFerIo, Due lettere sulle poesie estemporanee di Amarilli Etrusca, «Il Messaggiere del Commercio», 9 gennaio 1836); anni dopo Brofferio avrebbe confessato ad Hugo «Vos ouvrages ont fait le charme de ma jeunesse; cʼest vous qui avez formé mon cœur et mon intelligence» (lettera di Brofferio a Hugo, da Torino 12 febbraio 1850, cit. in BArBArA INNoCeNTI, Il sogno dellʼEuropa Unita nella corrispondenza fra Victor Hugo e Angelo Brofferio. Con una lettera inedita e un auto grafo, «Antologia Viesseux», 16 n.s., 46-47, 2010, p. 11); quanto al caso specifico, «LʼAngelo di Vittore Hugo lo vedeste denominato “uno scheletro brutto e deforme, una turpitudine, una sozzura” […] e vedeste celebrato il cavaliere Cibrario per un cenno storico sul conte Rosso, e celebratissimo lʼAmmonitore piemontese» (BroFFerIo, Miscellanee del Cav. Felice Romani cit.).
88 FelICe romANI, Critica. Osservazioni sul Bravo. Storia Veneziana, «Gazzetta piemontese», 16 giugno 1835.
89 SemeNZI, Osservazioni critiche cit., p. 59.
90 Un esempio in queste poche battute di Théodora: «Venise, cette reine au manteau sanglant,
a civili tensioni e ad un latente conflitto tra i popolani e il patriziato veneziano. Nel libretto infine musicato da Mercadante sarà tutto un peana di popolo per il doge, per la maestà di Venezia e la giustizia del Leone.91 Quanto al resto poi, la cornice era data; né cʼera molto da fare per rimediarvi, a meno che non si decidesse di rinunciare a Venezia ed ambientare la storia altrove. Nel libretto definitivo, la repubblica rimaneva perciò un modello politico perico loso per i singoli, retto con insensato, terroristico rigore. Unʼistituzione che poteva facilmente degenerare in un continuato caos di arbitraria violenza e di privata anarchia – ma ciò unicamente per responsabilità di pochi manigoldi incistati nel patriziato, quindi nelle magistrature. Ricordiamo allora come nella narrazione di Cooper tutto il sistema fosse marcio a partire dalla testa: il doge stesso, espressione della casta e perciò complice consapevole delle malefatte dei Dieci.92 Eludere per quanto possibile la questione storica e politica controversa, scottante, e calcare sul colore locale e sul mistero, era il massimo consentito nella situazione data. Certo serviva ad agevolare un piú rapido passaggio dellʼesame di censura; ma questa propensione ad evitare intoppi e difficoltà, a prevenire la censura con lʼautocensura, fu inclinazione comune nei librettisti italiani delle due generazioni che vissero cette mère dénaturée qui dévore ses fils... […]; Oui … mais ainsi est faite Venise, mon enfant... ville maudite, ville de plaisir, de pleurs et de sang. Oh! Réjouis toi, ma fille, nous allons la quitter» (AuGuSTe ANICeT-BourGeoIS, La Vénitienne, drame en cinq actes, Paris, Marchant, 1834, p. 29 [V, VI VII]); in Bindocci la Serenissima è «una terra, | Da cui respinti sono | La spe ranza, il perdono», ed «Orgogliosa Regina, | A cui di sangue gronda | Lo scettro, il manto e la corona: o madre | Che divori i tuoi figli» (BINdoCCI, Il Bravo cit., p. 54 [III, V VI])
91 Si veda in particolare la scena di massa dellʼatto primo e la sincera fiducia di popolo nella giustizia del doge, nel coro: «Sí giustizia, vendetta tremenda; | Nʼoda il Doge, il Senato ne intenda: | Che quellʼempio non fugga allo scempio, | Troppo sangue in Venezia versò» (roSSI, Il Bravo cit. pp. 19-20 e 22 [I, III e V]). Al contrario, nel libretto di Bindocci, scena corrisponden te, una minacciosa rivendicazione di popolo contro la tirannia del patriziato: «Lʼira giusta che in petto divampa | Parli al Doge, favelli al Senato; […] | Tutti al paro dellʼAdria siam figli: | Il Lion non addestra conigli, | Ma con ali spiegate sul tergo| Schiude un libro, ove legge ogni cor. […] Lʼoltraggio, lʼinsulto | Che sul popol tradito ripiomba, […] | Schiavi sempre, depressi, tra diti..., | Solo dʼonta coperti, avviliti... | Dei patrizi ludibrio? Oh furor!»; giurista, è possibile che Bindocci si sentisse portato a discettare piú del solito di politica e di diritto; in ogni caso, evidente è qui il richiamo alla originaria costituzione democratica della Repubblica a censu ra dellʼalterigia del patriziato: «O Patrizi, un giogo indegno | Non è base a stabil regno | Dove un patto insiem ci uní» (BINdoCCI, Il Bravo cit., pp. 19-20 [I, V]).
92 Cosí ancora nel Bravo parigino di Berrettoni-Marliani, che circolò anche in Italia e il cui libret to era ben piú fedele al romanzo; lʼopera riproduceva da Cooper lʼalterco tra il doge e il pesca tore Antonio che conclude il capitolo della regata: «osi mentir sensi e parole | Onde insegnar aʼ popoli adunati | A dispregiar le leggi?»; cosí il doge, e il pescatore ammetteva «Lo so, che i franchi accenti | Mal si perdonan qui dove il pensiero | Pria del delitto si punisce» (ArCANGe lo BerreTToNI, Il Bravo, dramma tragico in tre atti, Napoli, Tipografia Flautina, 1836, pp. 6-8 [I, I, II]).
a cavaliere tra età napoleonica e Restaurazione.93 E tale era il caso anagrafico di Romani, e ancor piú di Rossi.
Era nellʼordine delle cose e del mestiere aggirare qualsiasi argomento controverso riguardante la religione, la politica e gli assetti sociali (passati e presenti), e ovvia mente la morale comune. Quanto in particolare alla politica, bastava conservarne quel poco che fosse utile per tenere in piedi una trama – anche perché, lo abbiamo visto, le poetiche insegnavano che lʼeccesso di politica nuoceva alla poesia, dunque al Bello ideale. Meglio perciò ammorbidire, smussare gli angoli e tenersi sul vago. Era proprio ciò che Romani aveva fatto dʼufficio al culmine della carriera, aggiu stando unʼaltra trama dʼorigine straniera che si appoggiava proprio sulla leggenda tenebrosa degli Inquisitori di Stato. È il caso della già ricordata Bianca e Falliero di Rossini, il cui libretto infatti era suo. Rappresentata in prima alla Scala di Milano nella stagione di carnevale del 1820, lʼopera non fu mai montata in una Venezia dove tuttavia quasi tutto il Rossini ʼserioʼ aveva ingombrato i cartelloni dei teatri lirici di città negli anni che ne precedettero di poco il trionfale ritorno alla Fenice con Semiramide.94 Allʼalba degli anni Venti, Cooper, Anicet-Bourgeois ma anche tutto il teatro di Hugo erano ben di là da venire. Eppure il mito negativo si reggeva già su tutta la tradizione anti-veneziana inau gurata nel Seicento, confermata da ciceroni e viaggiatori, infine rinverdita lʼanno prima dalla pubblicazione dellʼHistoire de la République de Venise del Daru. In Bianca e Falliero di Romani è invece la Venezia trionfante, agiografica e vittoriosa a prevalere sul tenebroso errore giudiziario che aveva ispirato la pièce teatrale francese da cui era tratto il libretto: il lamentevole caso di Antonio Foscarini, giustiziato su ordine del tribunale, che poi ne aveva riconosciuto lʼinnocenza a esecuzione avvenuta.95 Nellʼopera di Rossini il ʼtradimentoʼ di Falliero si consumava per un incidente e al solo scopo di salvare lʼonore di Bianca. «Il tribunal temuto» è in verità giusto, severo ma paterno e «della patria custode». La legge ʼterribileʼ, infranta per errore, è perciò saggia e necessaria alla conservazione della patria.96 Tra tutti, lʼunico personaggio
93
Sul tema cfr. dAVId CHAIllou, Napoléon et lʼOpéra. La politique sur la scène 1810-1815, Paris, Fayard, 2004, pp. 229-236.
94
Cfr. ANNA lAurA BellINA, I bagliori dellʼantico regime, in BellINA - mICHele GIrArdI, La Fenice 1792-1996. Il teatro, la musica, il pubblico, lʼimpresa, ricerca iconografica di Maria Ida Biggi, Venezia, Marsilio, 2003, p. 41.
95
Cfr. SAINT dIdIer, La Ville et la République de Venise cit., pp. 234-239, nonché lʼAvvertimento in romANI, Bianca e Falliero cit., p. 3. Da questa vicenda la tragedia omonima di Giovanni Batti sta Niccolini (1823); sul fatto storico cfr. murrAy BroWN, The Myth of Antonio Foscariniʼs Exoneration, «Renaissance and Reformation/Renaissance et Réforme», 25/3 2021, pp. 25-42.
96 Si vedano solamente le prime tre scene dellʼopera: romANI, Bianca e Falliero cit., pp. 9-14 [I, I III]; quanto alla legge «che puniva con la pena di morte qualsivoglia nobile veneziano che avesse avuto corrispondenza con gli Ambasciatori o ministri delle estere Potenze» (Avverti mento, p. 3) era giustificata dalle circostanze: lʼappena sventata congiura di Bedmar («accorti i padri | Del passato periglio | Han segnato la legge in pien consiglio | […] a prevenire | Nuovi
inteso a perseguire una vendetta illegittima per utile privato è lʼaccusatore di Falliero e padre di Bianca, il giudice Contareno. Epperò la sua trama viene sventata proprio grazie alla probità di uno dei Tre giudici – Capellio, genero designato di Contareno e virtuoso rivale in amore di Falliero – e alla rigorosa, incorruttibile imparzialità del Senato. Insomma, lʼunanimità non raggiunta eppur richiesta agli Inquisitori di Stato, produceva un lieto fine che risparmiava sí la testa di Falliero, ma che al contempo salvava lʼonore e la storia delle istituzioni veneziane.
Altro che tribunale di sangue: ne risultava, alla fine, che con i tre Inquisitori di Stato la Repubblica Serenissima era stata capace di escogitare un meccanismo giudiziario perfetto, a prova di errore, ma soprattutto al riparo da vendette private e strumentalizzazioni fazionarie. Si consideri solo che base di partenza per Romani era stata Blanche et Montcassin di Antoine-Vincent Arnault, tragedia rappresentata negli ultimi mesi del Direttorio con dedica al generale Bonaparte. La Venezia di Arnault era ancora quella delle sentenze arbitrarie, delle esecuzioni sommarie e segrete – una vibrata condanna dei tribunali rivoluzionari dellʼanno II, formulata allʼindomani di Campoformio proprio utilizzando lʼanti-mito della Serenissima.97 Ventʼanni dopo, ai librettisti della vecchia generazione riuscí impossibile neu tralizzare con tanta disinvoltura la leggenda nera, dandosi unicamente la pena di cambiare tutte le carte in tavola. A fine anni Trenta lʼanti-mito non era piú solo affare di storici stranieri e di eruditi locali, di turisti romantici e di ciceroni avidi di mance: era tornato in Italia a cavallo di un famoso e controverso romanzo dʼOltreoceano e di molto teatro dʼOltralpe, accompagnato da un vociante codazzo di polemiche giorna listiche. A differenza del pur innocuo Bianca e Falliero, Il Bravo di Mercadante arrivò persino a mettere piede a Venezia nellʼautunno del ʼ40, senza tuttavia espugnarla. Ricordiamo che nello stesso anno lʼopera era stata successo di stagione a Milano, Napoli, Trieste. Esclusa da una Fenice dove pure Mercadante era da tempo di casa, ma anche dal San Benedetto,98 Il Bravo si ridusse a passare per una misera manciata
attentati», p. 11, I, III); si veda in proposito la scena del giudizio (p. 35-44 [II, VIII]), con questo risultato: «BIANCA Qual Dio ti rende a me? FAllIero Cappellio, o cara, | Il Principe, il Senato CAppellIo Allʼira ingiusta | Del padre tuo voglion sottrarti i padri» (p. 43 [II, Ultima]).
97 Va da sé che «une action fondée sur les institutions politiques de la plus oppressive et de la plus opprimée des oligarchies» escludesse la possibilità di un lieto fine, poi escogitato da Romani per Bianca e Falliero (ANToINe-VINCeNT ArNAulT, Préface. De quelques institutions politiques de la République de Venise, in Id., Blanche et Montcassin ou Les Vénitiens [1799], in Id., Œuvres, Théâtre, t. II, Paris, Bossange, 1824, pp. 4-5 e 12; cfr. anche le note alla tragedia, pp. 117-23). Sulla dedica a Bonaparte cfr. CArlA TASSArA, Dal Terrore a Napoleone: «Blanche et Montcassin» di A.-V. Arnault, «Franconia» 27, 1994, pp. 107-116. La tesi in ogni caso era sempli ce: al Direttorio il merito del Termidoro e della caduta de Comitato di Salute Pubblica; a Bonaparte quello di aver dato il colpo di grazia alla tenebrosa Repubblica.
98 Su questa presenza cfr. Teatri di Venezia collʼelenco delle opere e dei balli dati alla Fenice dalla sua prima apertura al 1869, Milano, Civelli, 1869 e GIuSeppe pAVAN, Teatri musicali veneziani. Il teatro San Benedetto (ora Rossini), Venezia, Ateneo Veneto, 1916, passim.
Mercadante, Venezia, «the BraVo» di FeniMore cooper
di recite allʼApollo; non prima però di aver subíto opportuni aggiustamenti. Cassato il finale, si ometteva il sacrificio in scena di Teodora, la circostanza che confermava che le sentenze dei Dieci fossero nella privata disponibilità dellʼ«empio» e corrotto patrizio Foscari. Comʼera uso, furono poi aggiustati qua e là nel libretto e alleggeriti epiteti particolarmente ingiuriosi per la città e le sue antiche istituzioni.99 Non fu certo un successo, ma sarebbe potuta andare parecchio peggio. La musica dotta e “difficile” di Mercadante fu apprezzata quanto meritava.100 Nel caso, le per plessità e le ironie di un critico garbato ma sincero quale lo fu Tommaso Locatelli della «Gazzetta di Venezia», riguardarono quella storia talmente ʼvenezianaʼ che sembrava discendere dalla Luna:
Il sig. Carlo Ansaldi, detto il bravo, è un carnefice bello e buono; un carnefice, se si vuole, molto civile, di buona compagnia, che veste di velluto, ed abita una casa assai confortabile, ma che veramente è il giustiziere, «lʼesecutore fedele ed ardito dei segreti ordini di morte e delle vendette» dei Dieci della Serenissima Repubblica di Venezia; poiché il signor Finimore [sic] Cooper fece in America questa importante scoperta nella nostra storia, e ci regalò questi Dieci e questo Ansaldi. Questo personaggio ci vien dunque propriamente dal mondo nuovo, e il sig. Gaetano Rossi ha fatto benissimo a ricoverarlo tra noi in un libretto alla sua foggia; acciocché non avessimo a perder nulla di quanto sanno inventare sul nostro conto di qua e di là delle acque: vero amor patrio! […] Questo carnefice è in sé un buon galantuomo […]; è infame per eroismo […]; colla vita dei suoi simili compera quella del padre suo, che a tal patto campava da una sentenza ingiusta, sʼintende, di «quel tetro tribunale», i Dieci, come il sig. Rossi li chiama. […] La Repubblica di Venezia, secondo le scoperte del sig. Gaetano Rossi, sulle tracce del suo autore dellʼaltro mondo, è poi uno stato cosí civile e ordinato, che i suoi patrizi, quasi avessero acquistato, nascendo, coi diritti del libro dʼoro, anche quello di prelibazione su tutte le fanciulle del Dogato, vogliono entrar nelle loro case per forza […]. Qui non entrerò in tutte le altre particolarità di questa fiaba, nata sotto il cielo dellʼultimo
99
Lʼopera si arresta alla scena quinta del III atto, sulla didascalia «Pisani e Violetta montano nella gondola. Il Bravo e Teodora rimangono soli» (Il Bravo, melodramma in tre atti da rappre sentarsi a nel Teatro Apollo di Venezia nellʼautunno dellʼanno 1840, Verona, Bisesti, 1840, p. 37); per gli aggiustamenti, ad es.: «a far ritorno | in questa gran cittade» in sostituzione di «questa rea cittade», oppure «Quei giudici ingiusti segnar la sentenza» in luogo di «Quei giudici infa mi» (pp. 10 e 23 [I, II e II, II]).
100 «Tale è il parto mostruoso, che come la piú vezzosa creatura il maestro Mercadante dovette accarezzare al suo seno, e che nulladimeno allevò con tanta cura, e sí grandʼamore, che ne riuscí una cosa, sto per dire, perfetta. Si discorre dei prodigi delle musiche dʼOrfeo, di Lino, dʼAnfione: ma quale prodigio maggiore di questo? Il maestro Mercadante trovò il bello nel brutto, e fece un capolavoro del Bravo!» (TommASo loCATellI, Teatro Apollo. Il Bravo, «Gaz zetta di Venezia», 10 novembre 1840).
dei Mohicani e del Pirato.101
Si comprende meglio perché Romani non avesse voluto comparire neppure nei ringraziamenti di quel libretto, e lasciarne tutto il merito (si fa per dire) a Rossi. Chiusa la carriera, dopo aver preso posizione in pubblico su quel tipo di teatro, gli toccava pure dare una mano per sdoganarlo nel teatro lirico. Amicizia, altruismo, superiore grado di professionalità, certo: ma era un poʼ quel che già gli era toccato di fare per mestiere nel 1833, quando aveva ridotto a libretto per Donizetti la Lucrezia Borgia del tanto esecrato Victor Hugo.
La vedova di Romani raccontò che aveva accettato «solo per compiacere il Mae stro». Aggiunge che Donizetti si era «incocciato di voler musicare quellʼargomento sin da quando venne alla luce in Francia» perché convinto di riuscire, grazie a un soggetto simile, a «destare un effetto nuovo di emozioni da far rabbrividire»102 . Anche perché, a parte le solite grane di censura, Romani sembrò ribellarsi allʼidea di assecondare lʼennesima ʼinvenzioneʼ di tradizione: stavolta non piú solo con tro lʼItalia, ma contro la Chiesa e il Santo Padre. «[L]e ricerche degli ultimi anni», sostenne la vedova del poeta, «diedero ragione al suo acume critico»103 .
Il fatto è che ormai il mestiere non permetteva piú di formare un argine stabile a simili aberrazioni, neppure nel melodramma. Tanto in Lucrezia come piú tardi nel Bravo, Romani dovette assecondare la controversa parabola romantica della dissoluta infine redenta dallʼamore materno. Tema tuttʼaltro che innocuo e banale, e che già si era attirato i fulmini di tutti gli avversatori del romanticismo ʼsocialeʼ: 101 Ibidem.
102
BrANCA, Felice Romani cit., pp. 211-214: per Lucrezia «durò fatica come in nessun altro melo dramma»; tra lʼaltro «per la vigile ed irrequieta censura che voleva delle modificazioni al dramma, e dei cambiamenti motivati da ragioni politiche […]. Questa celebre opera per qual che tempo non fu riprodotta in altri teatri, perché dalla censura dei vari Stati italiani veniva escluso lʼargomento. Convenne cambiare affatto il libretto con nomi e luoghi diversi, adattan do variata poesia alla musica dellʼeccellente spartito»; cfr. WIllIAm ASHBrook, Donizetti and Romani, «Italica» 64/4, 1987, pp. 606-631; AleSSANdro roCCATAGlIATI, Romani rifà Hugo: sopralluoghi nella fucina poetica di «Lucrezia Borgia», in Lucrezia Borgia. Storia e mito, a cura di Michele Bordin e Paolo Trovato, Firenze, Olschki, 2006, pp. 269-84.
103 «Il nostro poeta lo scrisse malvolentieri essendo convinto altresí, per avervi a lungo meditato, che la protagonista non era meritevole dello sprezzo di cui lʼaveva macchiata la storia» (BrAN CA, Felice Romani cit., p. 212). A motivare ulteriormente la ripugnanza a trattare la ʼstoriacciaʼ dʼuna donna accusata dʼincesto con un padre chʼera anche pontefice di Santa Romana Chiesa, e a prestarsi per tal via ad assecondarne i risvolti politici del caso, forse basterebbe la fede di Romani; subito allʼindomani dellʼapparizione del Primato del Gioberti, fu tra coloro che abbrac ciarono con entusiasmo il neoguelfismo: «No, Italiani, non fu mai morta lʼItalia. Poiché ebbe perduta la corona dei Cesari, ellʼebbe la tiara dei Pontefici; al poter della spada supplí con la virtù della parola; se lasciò fuggirsi di mano il freno della terra, strinse sul Vaticano le chiavi del Cielo» (FelICe romANI, Storia del Risorgimento italiano [1843], in Id., Critica letteraria cit. II, pp. 253-257: 254).
i censori della tesi hugolienne sulla donna vittima del proprio ruolo in società104 . In un articolo apparso sullʼ«Indicatore lombardo» intitolato Romanzi e drammi francesi, lʼautore «C. C.» (ossia Cesare Cantú) faceva qualche calcolo:
Fra le donne che figurano in dieci drammi, che Vittore Hugo ed Alessandro Dumas, i piú insigni drammatici della Francia, composero da quattro anni a questa parte, e vennero ripetuti a furia in tutti i teatri, abbiamo contato otto adultere, cinque prostitute di diversa condizione, e sei sedotte, due delle quali partoriscono quasi sulla scena; quattro madri amoreggiano i loro propri figli o generi, e tre consumano il delitto; undici persone sono ammazzate direttamente od indirettamente dai loro amanti; ed in sei dʼessi drammi i protagonisti sono trovatelli o bastardi.105
Non cʼè bisogno di appellarsi ad un cattolico-conservatore come Cantú per com prendere quanto, in linea generale e in quel particolare momento, un tema simile potesse essere estraneo alla morale condivisa del grande pubblico, anche sul ver sante patriottico.106 Nel Bravo per Mercadante, il personaggio di Teodora aveva sí il merito di spostare il baricentro dellʼopera dalla leggenda nera verso una personale parabola di pentimento e redenzione femminile ottenuta col sacrificio della vita; ma in unʼottica classicista e moderato-conservatrice era come cadere dalla padella della politica nella brace della depravazione morale e dellʼabiezione. Ma era già tutto nella Vénitienne di Anicet-Bourgeois, e non cʼera modo di cambiare granché. La traiettoria della cortigiana veneziana Théodora, poggia su uno schema dimo strativo noto ai censori e piuttosto ben rodato sulle scene francesi, risalente addi rittura allʼAlzire di Voltaire e al teatro politico dellʼetà dei Lumi. Un vecchio trucco davvero: la difesa dʼuna causa morale controversa – apparentemente indifendibile, a rigore di pregiudizio – perorata appellandosi a tradimento alla morale evangelica del perdono.107 Caduto lʼancien régime, in molto di questo teatro del romanticismo
104
«[D]ans votre monstre mettez une mère; et le monstre intéressera, et le monstre fera pleurer, et cette créature qui faisait peur fera pitié, et cette âme difforme deviendra presque belle à vos yeux. […] [L]a maternité purifiant la difformité morale, voilà Lucrèce Borgia» (VICTor HuGo, Préface in Lucrèce Borgia, Id., Théâtre complet, notices et notes par Jean-Jacques Thierry et Josette Mélèze, Paris, Gallimard, 1969, II, p. 288).
105 Ne concludeva, perciò: «Non vi sentite inclinati ad esclamare: O Pamela, o Clarissa, o Sofia, chi vi rende, chi vi rende alla moderna letteratura?» (C. C[ANTú], Romanzi e drammi francesi, in «Indicatore lombardo» IV/2, 1835); cfr. anche Id., Di Vittore Hugo e del Romanticismo in Francia, Milano, Truffi, 1834; sulla sua evoluzione politica nel corso degli anni Trenta, cfr. FrANCo dellA peruTA, Cesare Cantú e il mondo popolare, in Cesare Cantú nella vita italiana dellʼOttocento, a cura di Franco della Peruta, Carlo Marcora ed Ernesto Travi, Milano, Mazzot ta, 1985, pp. 35-66.
106 Sul tema, imprescindibile è, di roBerTo BIZZoCCHI, Una nuova morale per la donna e la fami glia, in Storia dʼItalia, Annali 25. Il Risorgimento cit., pp. 69-96.
107 Cfr. ad es. réNé pomeAu, La réligion de Voltaire, Paris, Nizet, 1969, pp. 139-145.
barricadiero come La Vénitienne, la causa per cui combattere non era certo piú quella della libertà religiosa (deismo, emancipazione dal giogo confessionale, tol leranza), quanto una battaglia ʼsocialeʼ, e perciò stesso ʼpoliticaʼ in senso piú largo. Era il tema, cruciale in tutto Hugo, della rimessa in valore della natura umana e della esaltazione dellʼinnocenza che può essere in chiunque, specie nel marginale, nel reprobo, persino nel deforme e nel mostruoso. È ciò che racconteranno le para bole di Jean Valjean, Ursus, ma poi anche di creature storpiate come Quasimodo, Tribolet, Gwynplaine.
Come noto, lungo tutto lʼOttocento la radicale rivalutazione della natura umana, maschile e femminile, fu predicata sulla scena in nome dei «droits de humanité», ma facendo sempre larga – e spesso strumentale – esibizione del sentimento religioso. Nel caso della Vénitienne la parte piú malevola della critica notò subito con fastidio il maldestro tentativo dellʼautore di spacciarsi per «bon chrétien»; di come lo avesse tentato a buon mercato, solo perché la «courtisane a un prie-Dieu chez elle, et sʼy agenouille sous un Christ au tombeau, admirable peinture» e «on invoque dix fois le ciel, les anges et les saints dans la pièce».108
Anche in Italia, la Teodora del Bravo di Mercadante partecipava a questo contra stato processo di redenzione, esibendo, a fianco al pentimento, un necessario sovrap piú di virtú cristiane: in particolare il costante esercizio di carità. NellʼAvvertenza al libretto Gaetano Rossi terrà ad informare il pubblico che la donna era «uno stra ordinario complesso di leggerezze e virtú. Diffamata dal pregiudizio e dallʼinvidia, era benedetta dagli infelici cui di soccorsi e conforti largiva».109
Sappiamo che una dozzina dʼanni piú tardi, a Venezia cadeva (alla Fenice) per poi risorgere (al San Benedetto) la parabola della prostituta dal cuore casto; redenta non piú dallʼamor materno, bensí dallʼamore passionale. Donna dedita anchʼessa a cristiana carità, fin nel momento dellʼestrema indigenza e ad un passo dalla morte per malattia. Prima, la fede nel Dio dei sofferenti:
doTTore Or, come vi sentite? (le tocca il polso)
VIoleTTA Soffre il mio corpo, ma tranquilla ho lʼalma.
108 pICHoT, Styles et sentiments du drame moderne cit., p. 255; non sfugga che per Théodore il perdono della figlia ritrovata è prioritario rispetto a quello di Dio: «Enfin, jʼai foulé aux pieds le passé qui est au néant et au démon!... et jʼai tendu les bras vers lʼavenir qui est à moi et à Dieu! […] Tu peux me pardonner.... et alors... riche de ton pardon... jʼoserai demander celui du ciel!» (ANICeT-BourGeoIS, La Vénitienne cit., p. 25 [IV, II]).
109 roSSI, Alcuni cenni sul Bravo, in Il Bravo cit., p.n.n. [p. 4]: va da sé che non vi fosse niente di simile nella Vénitienne; assai piú impervio e funestato da rimorsi il percorso di redenzione della gemella italiana di Théodore: «TeodorA Nellʼorrore trascinata | Da un destino onnipos sente, | Fui dal mondo affascinata, | Ho perduto e core e mente | […] Io per te divengo pura, | Tu mi schiudi ancor il ciel | […] VIoleTTA Prega e spera | TeodorA Le mie colpe fan barriera | Tra me e il ciel. VIoleTTA Sei tanto rea? | TeodorA Cui non giunge umana idea» (ivi, pp. 42-43 [III, I]).
Mi confortò jer sera un pio ministro. Religione è sollievo aʼ sofferenti».
Poi, fino allʼultimo istante, la carità:
ANNINA Tutta Parigi impazza… è carnovale…
VIoleTTA Oh nel comun tripudio, sallo Iddio…
Quanti infelici gemon! … Qual somma Vʼha in quello stipo? (indicandolo)
ANNINA (apre e conta) Venti luigi.
VIoleTTA Dieci ne reca ai poveri tu stessa.
ANNINA Poco rimanvi allora…
VIoleTTA Oh, mi sarà bastante! (sospirando) 110
Si consideri allora che la metabolizzazione del tema e la sua finale accettazione da parte del pubblico storico furono il frutto di un dibattito piuttosto acceso, ini ziato nei pieni anni Trenta, cui il successo italiano del Bravo di Mercadante dovette contribuire in modo tuttʼaltro che marginale.111
Quanto poi alla parte politica del Bravo, lʼopera in musica si conferma anche qui come materia plastica, soggetta a molteplici condizionamenti, capace di dirci molto piú delle mentalità, della storia, dei luoghi e del tempo in cui venne prodotta, di quanto non avessero inteso fare gli autori stessi.
110
111
FrANCeSCo mArIA pIAVe, La Traviata, Milano, Ricordi, 1853, p. 32 [III, II III].
Un tema che i librettisti si guardano bene dal raccogliere sarà quello dellʼincredulità del Bra vo, che nella Vénitienne «il ne croit pas en Dieu»: «il le dit très-franchement à une jeune personne de quinze ans, quʼil va enfermer dans un monastère, et comme celle-ci sʼen étonne, le bravo, qui tient à être un athée conséquent, lui dit le pourquoi de ses doutes. Seulement, autant que jʼai pu le comprendre, ce philosophe anti-providentiel les plus habile “à trouver un fourreau pour sa dague dans un cœur dʼhomme” quʼa manier lʼarme de la logique: car pour nier la justice de Dieu, il nous prouve lʼinjustice des hommes. Son raisonnement se réduit à peu près à ceci: Le gouvernement de Venise est un gouvernement tyrannique, oppresseur, etc., ergo Dieu, qui permet ce gouvernement, nʼexiste pas!» (pICHoT, Styles et sentiments du drame moderne cit., p. 255). Niente di simile, a quanto ne sappiamo, in alcun libretto dʼopera italiano almeno fino al Credo di Jago nellʼOtello di Arrigo Boito per Verdi.
Mariano Rivas
Las dos
óperas asturianas de
Saverio Mercadante: Pelagio y La Solitaria delle Asturie
La actual presentación en el Symposium mercadantiano de Viena pretende rescatar del olvido de la historia la ópera La Solitaria delle Asturie ossia La Spagna ricupe rata de Saverio Mercadante (1795-1870), con el fin de que pueda ser interpretada y disfrutada por el público actual; no sólamente ilustrando al lector la desconocida figura del compositor, sino también ayudándole a comprender las circunstancias que propiciaron la composición de la ópera La solitaria delle Asturie. Incluye una descripción del proceso de búsqueda de todas las fuentes manuscritas de la parti tura de la ópera, información sobre el libretista, un esquema de números musicales reconstruído a partir de los manuscritos y la edición práctica de uno de los mismos, Preghiera della Solitaria: «Una fatale immagine».
La Solitaria delle Asturie se estrenó el 12 de Marzo de 1840 para el Teatro de la Fenice en Venecia. Se trata de un melodrama en cinco actos.
Gráfico 1:
Cartel del estreno de La solitaria delle Asturie.
asturianas de saverio
El autor del libreto es nada menos que Felice Romani (1788-1865), libretista de las principales óperas italianas del s.XIX: Lʼelisir dʼamore de Donizetti, La Sonnambula y Norma de Bellini. Este trabajo de recuperación patrimonial de la ópera nace de la motivación personal del autor, que hace ya trece años realizó la edición práctica de otra ópera del mismo compositor, Pelagio, también de temática asturiana. Tras haber disfrutado del privilegio de dirigir el re-estreno de la misma en 2005 en versión concierto en el Teatro Jovellanos de Gijón y en 2008 en el Festival della Valle dʼItria en Martina Franca, el autor es plenamente consciente de lo que ya decía Franz Liszt:
La excepción siempre debe hacerse para Mercadante. Tiene la sabiduría para escribir despacio y revisa sus composiciones con cuidado. Varias de sus piezas de conjunto son realmente notables. Los últimos trabajos de Mercadante son sin duda los más interesantes del repertorio contemporáneo.1
En efecto, parece ser que En 1840, Mercadante era la figura más respetada del panorama operístico italiano. Nos encontramos pues, frente a la obra de un compositor muy valorado en su época.2
Por otro lado, la amistad del autor con Michael Wittmann, probablemente el mayor estudioso vivo de la figura de Saverio Mercadante, ha sido clave en el desarrollo del trabajo; ya que fue él quién le facilitó la información acerca de las fuentes existentes. Es la persona que se ha ocupado de la entrada Mercadante en las últimas ediciones del Die Musik in Geschichte und Gegenwart y en el New Grove Dictionary of Music and Musicians.3
El director italiano Giuliano Carella también insistió al autor sobre la calidad musical incuestionable del compositor italiano, haciendo hincapié en la gran influencia francesa de Mercadante tras su viaje a Paris en 1835. Michael Wittmann también hizo referencia a la deuda de Mercadante con la Grand Opéra y Meyerbeer en su estudio Meyerbeer and Mercadante? The reception of Meyerbeer in Italy.4
1 Siempre se debe hacer una excepción con Mercadante. Tiene la sabiduría de escribir lenta mente y revisa sus composiciones con esmero. Muchas de sus piezas de conjunto son real mente notables. Las últimas obras de Mercadante son sin duda las más seriamente elaboradas fuera del repertorio contemporáneo. SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia. Episto lari, Schena, Fasano, 1985, p. 175.
2 GeorG predoTA, Verdi´s Footstool, 2013 Disponible en linea: <http://www.interlude.hk/front/ verdis-footstool/> (consultado el 20 de diciembre de 2018).
3 pAolo CASCIo, Estudio y edición crítica de la ópera Francesca da Rimini de Saverio Mercadante, Tesis doctoral, Madrid, Universidad Complutense de Madrid, 2014.
4 mICHAel WITTmANN - TeWArT SpeNCer, Meyerbeer and Mercadante? The Reception of Meyer beer in Italy, Cambridge Opera Journal 5/2, 1993, disponible en linea: <http://www.jstor.org/
El trabajo ofrece una documentación completa sobre todo lo que rodeó a la composición de la ópera: el estilo renovado de Mercadante tras su viaje a París, la relación de Mercadante con España, país en el que vivió tres años, los manuscritos de la partitura de la ópera y dónde encontrarlos; y por supuesto, sobre el libreto de Romani, de temática hispano-astur. Además, el autor ha realizado, a partir de los manuscritos, una reconstrucción completa de la estructura de los números musicales de la ópera y una edición práctica del número Scena ed Preghiera (La solitaria). En los Anexos se incluyen el libreto original, una narración del autor sobre su edición mercadantiana anterior (Pelagio) y un interesante epígrafe sobre Mercadante y Verdi. Con respecto a la ópera La Solitaria delle Asturie o La Spagna ricuperata, decir que nadie ha editado la ópera recientemente para su ulterior representación. Tampoco se ha analizado musicalmente ni se ha hecho ningún estudio de investigación sobre ella. Sobre la figura de Mercadante. En palabras de Paolo Cascio:
(…) los estudios sobre Mercadante son esporádicos y no homogéneos. Varios investigadores han estudiado diferentes aspectos del compositor, cada uno movido por sus intereses personales. No ha habido hasta ahora una voluntad coordinada que haya sistemáticamente investigado por lo menos los aspectos fundamentales de la obra y de la biografía del compositor. Ni siquiera existe un catálogo temático oficial de su obra. Mirando esta situación bibliográfica parece que Mercadante siga siendo catalogado, por los musicólogos, como uno de los compositores menores dellʼOttocento5 .
De gran importancia son las cartas que el compositor envió a su amigo de con fianza Florimo y que actualmente se encuentran en el Conservatorio “S. Pietro a Majella” de Nápoles. Mercadante le confesaba todo tipo de juicios, perplejidad, rabia o aprobación acerca de artistas, compositores o nuevos títulos que iban saliendo. De esta correspondencia emerge la figura de un hombre con una conducta moral casi irreprochable y de artista siempre atento a las últimas tendencias. Fueron recopiladas y publicadas por Santo Palermo.
En cuanto a las óperas de Mercadante, debo decir que existe un catálogo cro nológico de las representaciones de las óperas de Mercadante en su época, con los repartos de cada estreno realizado por Thomas Kaufman, que fue ofrecido por el propio Kaufman al autor tras el estreno de Pelagio.
La Tesis de Paolo Cascio, Estudio y edición crítica de la ópera Francesca da Rimini de Saverio Mercadante ha resultado de gran referencia para el autor. En ella se habla de algunas aportaciones recientes relevantes:
stable/823798> (consultado el 12 de diciembre de 2017).
5 CASCIo, Estudio y edición cit., pp. 12-13.
asturianas de saverio
[…] destaca un pequeño pero denso estudio de Ernesto Pulignano sobre Il Giuramento, que analiza los aspectos textuales de la opera, y su peculiaridades musicales. […] análisis de la ópera de Mercadante basado sobre la estructura de los numeri musicales y sucesivamente sobre la organización y caracterización melódica de cada personaje. Pulignano demuestra al final cómo la búsqueda de nuevas soluciones formales y la construcción de melodías experimentales han perjudicado una completa afirmación de Mercadante en los últimos años de su carrera.6
La realidad que concierne al público es que en los últimos quince años se han programado óperas de Mercadante en varios teatros y festivales por el mundo: Il Giuramento, Il Bravo, Caritea Regina di Spagna, y Pelagio se han visto en el Festival della Valle dʼItria,7 en Martina Franca. El Festival de Wexford ha puesto en escena Virginia y el Bad Wildbad festival programó en el 2011 I Briganti. Además se pueden encontrar las grabaciones de I normanni a Parigi, Emma dʼAntiochia, Maria Stuarda, Zaira, Pelagio y Orazi e Curiazi. 8
La acción tiene lugar en Gijón (Gione para el texto italiano) y alrededores, oportunidad para que aparezca un mensajero gijonés, como suele ocurrir, con malas noticias para los protagonistas. Esta localización geográfica propició que en 2005 la ciudad asturiana de Gijón, con mucha afición a la ópera pero sin temporada fija (bueno, a tiro de piedra tiene la de la capital Oviedo), se ocupara en su Teatro Jovellanos de traer a la actualidad este título “local” mercadantiano. Lo cantaron Carlos Álvarez, Tatiana Anisimova y el tenor gijonés Alejandro Roy, bajo la dirección del asimismo gijonés Mariano Rivas. Rivas, por lógica, fue invitado a Martina Franca tres años después cuando el festival italiano tuvo a bien ocuparse de nuevo de esta muestra del talento de Mercadante.9
Sobre la edición crítica de obras de Mercadante, cabe señalar que de toda su producción sólo han sido publicados en edición crítica unos conciertos para flauta
6
7
CASCIo, Estudio y edición cit., p. 11.
Dirección musical: Mariano Rivas. Dirección escénica: Jean Louis Pichon. El re-estreno tuvo lugar en versión concierto en el 2005 en el Teatro Jovellanos de Gijón. En cuanto a las óperas de Mercadante de temática hispánico – asturiana, destacar el hecho de que La Solitaria delle Asturie no es ni mucho menos la única ópera de temática española de Mercadante, ya que el autor conocía bien el país (Consultar epígrafe 6.3 La Temática hispano-asturiana en las ópe ras de Saverio Mercadante); y tampoco es la única ópera del compositor que usa como mate rial dramatúrgico el tema de la Reconquista asturiana: la última ópera completa de Merca dante, Pelagio (1857), se desarrolla en Asturias.
8 Cfr. CASCIo, Estudio y edición cit.
9
FerNANdo FrAGA, Pelagio. Saverio Mercadante, 2010. Disponible en <http://laquintademahler. com/shop/detalle.aspx?id=42046> (consultado el 10 de noviembre de 2017).
y orquesta y una ópera sola, I due Figaro. Esta ópera ha sido dirigida por el Mtro. Riccardo Muti en el Festival de Salzburgo y en el Ravenna Festival (2011), así como en el Teatro Real de Madrid y en el Teatro Colón de Buenos Aires (2012).10
El autor de este trabajo es una de las personas que con su trabajo está contri buyendo a la difusión de las óperas olvidadas de este compositor. No sólo dirigió la interpretación, como señala Fraga, sino que hizo posible la misma gracias a la realización de la edición práctica de esta ópera.
Ha sido un proceso de años, a partir de unos microfilms sobre el único material en forma de copia que sobrevivió de la ópera, en 1857, hallado en Nápoles y Lisboa, comenta. De este modo, tras representarse en su tiempo en Milán, Bérgamo, Barcelona y Portugal, «Pelagio», estrenada en el teatro San Carlo de Nápoles el 12 de febrero de 1857, vuelve a ver la luz 144 años más tarde.11
Recordando una conversación con el Dr. Michael Wittmann, probablemente el especialista vivo más importante sobre la figura de Saverio Mercadante. Además de Pelagio, la ópera editada y estrenada por Rivas, Mercadante había compuesto otra ópera de temática asturiana: La solitaria delle Asturie. En 2004, el autor había estado visitando el manuscrito del primer acto en la Biblioteca Nacional Austriaca (en adelante, ÖNB), que estaba en muy buen estado.
Es entonces cuando decido retomar el contacto con el doctor para consultarle acerca de bibliografía de interés sobre la otra ópera del díptico asturiano. Witt mann me informa de que además del manuscrito de Viena existe otro de la ópera completa en Venecia.
Decidido a recuperar la ópera para el público, y convencido de que es posible, en Noviembre de 2017 solicita una copia digitalizada a la ÖNB del manuscrito del Primer Acto. El número de la Ficha del primer acto de la ópera en la ÖNB tiene el siguiente registro: “Signatur Mus.Hs.4177”. Obtiene permiso para acceder a la misma mediante una notificación de email para poder acceder a un enlace virtual y poder descargar 296 imágenes con la correspondiente información técnica “Stu dienscans (JpeG, 150 dpi)”. El conocimiento del manuscrito autógrafo del Pelagio de 1857, fuente primaria; permite al autor afirmar que el archivo recibido de Viena era claramente de un copista.
Para la realización del corpus teórico del trabajo se ha recurrido al método musicológico: estudio de las fuentes y contextualización histórico- artística- esté tica-estilística. Para ello, se ha realizado una exhaustiva búsqueda documental. Se han encontrado nuevas fuentes manuscritas: en la ÖNB, en el Archivo de La
10 Cfr. CASCIo, Estudio y edición cit.
11 dIANA dÍAZ, La ópera “Pelayo” vuelve a la escena italiana 144 años después, 2008, disponible en <http://www.lne.es/sociedad-cultura/2008/07/29/opera-pelayo-vuelve-escena-italiana144-anos-despues estreno/660830.html> (consultado el 12 de noviembre de 2017).
asturianas de saverio
Fenice, en la Biblioteca Nazionale Marziana di Venezia (en adelante, SNB), y en una colección particular (Consultar apartado 6.4.4 Fuentes).
Saverio Mercadante, Felice Romani y La solitaria delle Asturie
El operista Saverio Mercadante fue un prolífico compositor del siglo XIX, y un gran influyente en sus días debido a sus óperas “reformadas” de 1840. En reacción frente a la masividad del estilo belcantista y al efectismo de la grand ópera francesa, Saverio de desmarcaría decididamente de estas dos tendencias para conseguir un drama escénico mucho más impresionante. Estas reformas fueron clave para el tipo de óperas que Verdi ejerció a comienzos de su carrera.12
Se le bautizó como Giuseppe Saverio Raffaele en 17 de Septiembre de 1795 (fecha exacta de su nacimiento no se conoce); nació en Altamura, cerca de Bari. Se ha falseado su fecha de nacimiento como 26.6.1797 en Nápoles.13
Como cuenta Zucker, en 1808 para poder estudiar de forma gratuita en el Con servatorio San Sebastián de Nápoles, afirmó que su primer nombre era Francesco y que nació napolitano en 1797, mentira piadosa que mantuvo durante gran parte de su vida.14 Allí estudió solfeo, violín y flauta; bajo continuo y armonía con Furno y contrapunto con Tritto.
Entre 1816 a 1820 se convirtió en el mejor estudiante de Zingarelli, el director del Conservatorio, que después sería maestro de Bellini. Sus primeros trabajos, en mayoría, fueron para conjuntos instrumentales, pero ya hacia 1819 comenzó a componer algunas óperas. Saverio se hizo conocer en toda Italia por su séptima ópera titulada, Elisa e Claudio; esta era una ópera buffa al estilo de Rossini. Zingarelli pensaba que la influencia musical de Rossini era tan perniciosa que había prohi bido a los compositores de San Sebastián incluso leer las partituras de sus óperas, prohibición que tuvo que rescindir a finales de 1815 por orden del rey Fernando. En 1820 escribió dos óperas para Nápoles y dos para Roma. Elisa e Claudio, con la que hizo su debut en La Scala, funcionó por 30 noches consecutivas y seis meses más tarde por 28 más. Rossini, entonces director del Teatro San Carlo, le escribió a Zingarelli: «Mis felicitaciones: su joven alumno Mercadante comienza donde lo dejamos». «En las primeras óperas de Mercadante las líneas vocales rara vez con sisten en coloratura que carece de núcleo melódico, como sucede en Rossini. Para
12 JAmeS ZyCHoWICZ, Artist Biography – Mercadante, disponible en <https://www.allmusic.com/ artist/saverio-mercadante-mn0001436135/biography> (consultado el 24 de febrero de 2021).
13
14
THomAS lINder, Donizettiana et alia musicológica. Scripta minora, Wien, Ed. Praesens Verlag, 2011 (Primo Ottocento. Studien zum italienischen Musiktheater des (frühen) 19. Jahrhunderts, 4).
STeFAN ZuCker, Liszt though him Italy´s best composer, 2015 disponible en <https://www. belcantosociety.org/saverio-mercadante/> (consultado el 18 de enero de 2018).
mí, sin embargo, su primer gran éxito, su séptima ópera, la Elisa y Claudio de 1821, parece ser rossiniana pero aburrida».15
Su siguiente trabajo para La Scala fue el de 1822 melodramma semiserio Il posto abbandonato, ossia Adele ed Emerico, el cual pensó lo suficiente como para revisar algunas representaciones españolas seis años después. Se hizo cargo del estreno en Viena de Elisa e Claudio, en 1823, quedándose para escribir tres óperas, mal recibidas. Su siguiente gran éxito fue Caritea, regina di Spagna, 1826, en Venecia.
Durante los siguientes cinco años, las actividades de Mercadante se centraron en España y Portugal. En 1830 fue director de la ópera italiana de Madrid. En 1831 decidió volver a Italia, y en 1832 se casó con Sofía Gambaro, viuda, en Génova, engendrando una hija y dos hijos. Tres años después de su regreso aceptó el cargo de maestro di capella en la Catedral de Novara (puesto que ocupó hasta 1840), y fue entonces cuando el autor reconsideró encaminarse hacia el mundo de la ópera.
En 1833 sucedió a Pietro Generali como maestro di cappella en la catedral de Novara, para lo cual durante los siguientes siete años escribió una cantidad sus tancial de música sacra. En 1835 viajó a París a invitación de Rossini para escri bir una ópera para el Théâtre-Italien. Romani no proporcionó un libreto según lo programado, por lo que Mercadante compuso rápidamente uno proporcionado por Crescini. El resultado, I briganti, falló, aunque los cantantes principales eran el cuarteto que estrenó I Puritani, de Bellini. Sin embargo, este viaje, en el que el italiano quedó deslumbrado por Les Huguenots de Meyerbeer (Febrero 1836) propi ciaría importantes cambios en su forma de componer, inspirados por que se verían reflejados en sus obras posteriores. En palabras de W. Desniou:
[…] él romperá con cierta tradición italiana toda al servicio de la vocalidad. Durante su viaje a Paris, estará indudablemente influido por Halevy y Meyerbeer, con las óperas de La Juive en 1835 y Les Hugonotes (sic!) en 1836, respectivamente. Mercadante inspirado por el modelo francés, une el sentimiento en la acción, y busca un compromiso entre la voz y la orquesta, entre la melodía y la instrumentación.16
Estas palabras están escritas a propósito de su ópera Il Giuramento, su obra más famosa y probablemente la más influyente. Estrenado en “La Scala” en noviembre
15
«In Mercadanteʼs first operas the vocal lines seldom consist of coloratura lacking in melodic nucleus, as is sometimes true in Rossini. To my ears, however, his first major success, his seventh opera, the 1821 Elisa e Claudio, seems Rossinian but boringg». ZuCker, Liszt though cit.
16 WIllIAm deSNIou, Saverio Mercadante, Il Giuramento, opéra en trois actes et six tableau, livret du Gaetano Rossi. Nantes, Théâtrelh, représentation du 14 novembre 1993, disponible en <http:// www.donizettisociety.com/Newsletters/articles1994/Donizetti_Society_Newsletter_ No_61_1_1994_p_10-12.pdf> (consultado el 05 de diciembre de 2017).
Las dos óperas asturianas de saverio Mercadante
de 1837, Il Giuramento se separó de su anterior estilo compositivo de proporcionar entretenimiento teatral ligero y genuinamente trató de abordar el libreto como drama. Existen muchas referencias a este conato de cambio, incluso una carta del propio autor a su amigo Florimo (01.01.1838):
Las formas son variadas, las cavaletas triviales son desterradas, el crescendo desterrado, las tesituras menos extendidas y hay menos repeticiones. Hay algo de novedad en las cadencias, el aspecto dramático se maneja mejor, la orquestación es rica, pero sin cubrir las voces. Se han eliminado largos pasajes en solitario de las piezas concertadas, ya que obligaron a las otras partes a permanecer allí frías, en detrimento de la acción. Poco uso del bombo y muy poco de la banda.17
Scudo escribió en 1858, «Uno encuentra en [Il Giuramento] los elementos sobre los que Verdi basó su propio estilo».18 Don White, en su crítica de la ópera Il lucifero para Opera Rara, ensalzó la «majestuosa simplicidad» de la orquestación, llamando a la obra «una mezcla perfecta de declamación francesa, armonía alemana y melodía italiana».19 «En este trabajo evitó cualquier efecto que no enriqueciera directamente al drama, y con gran determinación, varió las formas empleadas en dichas piezas. Tales restricciones autoimpuestas, formaron parte del estilo de Mercadante durante el resto de su carrera».20
Sobre su estilo tras esta reforma encontramos diversas opiniones. El musicólogo alemán Friedrich Lippmann sostiene que Mercadante fue el mejor en ensembles, diálogo entre personajes, colorido fondo armónico y slancio (oleada, vehemencia, a veces ferocidad) pero en general promedio como un melodista y por lo tanto poco convincente como un reformador. Según el musicólogo británico Michael Rose, «pueden ser impresionantes, hermosos, apasionados y físicamente emocionantes, pero rara vez espontáneos o directamente personales».21
En 1839 Saverio se convirtió en director del Liceo Musicale de Bologna gracias al ofrecimiento de Rossini y en 1840 se le ofreció el puesto que había estado ocupando en Nápoles en el Conservatorio su maestro Zingarelli. Aceptó la oferta y permaneció allí por el resto de su vida
Las siguientes óperas de Mercadante consolidaron su fama, Le due illustre rivali, Elena da Feltre, Il bravo – un brillante triunfo en La Scala en 1839 – y La Vestale. Durante la composición de Elena da Feltre, escribió a su amigo Florimo.
He continuado la revolución iniciada con Il giuramento: varío las formas, cabalettas
17
18
pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 179.
ZuCker, Liszt though cit. 19 Ibidem
20
21
ZyCHoWICZ, Artist Biography cit.
ZuCker, Liszt though cit.
triviales desterradas, crescendos exiliados [rosinianos], tesitura corta, menos repeti ciones, alguna novedad en las cadencias, cuidado con la parte dramática, orquesta rica sin cubrir el canto, no solos largos en los conjuntos, que obligan a las otras partes a estar frías en detrimento de la acción; pequeño bombo y aún menos banda de metal.22
Entre las óperas posteriores más notables de Mercadante se encuentran La solitaria delle asturie, Orazi e Curiazi, una sensación en San Carlo en 1846, Pelagio, un éxito allí en 1857, y Virginia, compuesta en 1850, proscrita por los censores debido a su tema de corrupción política y finalmente otorgada con música revisada en el San Carlo en 1866, con un éxito clamoroso. Por esta época, Mercadante perdió la vista de un ojo. Se volvió totalmente ciego en 1862, después de lo cual dictó sus muchas composi ciones. Su carácter debió verse resentido por su estado de salud. Rossini declaró en 1862, «No puedo decir más que eso [Mercadante] hace buena música, pero no me importa en absoluto su carácter rudo o sus modales, que a veces son casi groseros».23
Mercadante murió en Nápoles, el 17 de diciembre de 1870, muy venerado. Su producción totalizó alrededor de 60 óperas, 4 ballets, mucha música de cámara, 21 misas y una gran cantidad de otras obras sagradas, fantasías orquestales, sinfonías funerarias para Donizetti, Bellini, Pacini y Rossini, selecciones para violín y piano, solfegios y un sustancial efusión de canciones.
Felice Romani (1788-1865)
Giuseppe Felice Romani (1788-1865) nació el primero de doce hijos en una familia acomodada en Génova el 31 enero 1788. Se mudó a Pisa, donde acudió por un tiempo a la facultad de jurisprudencia para contentar a su familia; pero su gran interés por la cultura clásica y la literatura le llevó a cambiar las leyes por la Facultad de Letras, donde estudió Literatura Francesa. Entre sus maestros había muchos hombres de gran prestigio. como el profesor Giuseppe Solari. Se licenció en muy poco tiempo, obteniendo una plaza de profesor sustituto. En seguida se le ofreció la plaza de Profesor de literatura griega, sustituyendo a Solari, pero la rechazó alegando que «no quería ser cómplice del desplazamiento y de la ofensa al honor de un gran hombre y afligir a aquel quien profería reconocimiento y afecto5».24 Continuó manifestando el reconocimiento y afecto del amado maestro,
22 He continuado la revolución iniciada con Il giuramento: he variado las formas, desterrado “cabalettas” triviales, he exiliado los crescendi [rossinianos], tesitura corta, pocas repeticiones, alguna novedad en las cadencias, cuidado con la parte dramática, orquestación rica sin tapar el canto, no hay solos largos en los conjuntos que obligan a las otras partes a ser frías en detrimento de la acción; menos bombo y menos banda de música. pAlermo, Saverio Merca dante cit., p. 179.
23
ZuCker, Liszt though cit.
24 «Non volendo essere complice di recata offesa allʼonore di un grandʼuomo ed affliggere colui verso il quale nutriva riconoscenza e affetto». emIlIA BrANCA, Felice Romani ed i piú riputati
dos óperas asturianas de saverio
muerto en 1814, dedicándole ocho sonetos en los cuales expresa su disgusto por la injusticia y las envidias que Solari había sufrido.
Abandonada la universidad, emprendió un largo viaje por Europa, visitando España, Grecia o Alemania. Allí conoció a Meyerbeer con el que enseguida colaboró para algunas obras teatrales. Residió también en París, donde tuvo la fortuna de conocer personajes famosos que le tuvieron en alta estima. Frecuentar los ambien tes literarios y musicales le sería de gran utilidad para su trabajo como libretista. Le encantaba la música y si ya de estudiante había escrito textos anónimos para melodramas, se sentía no sólo dispuesto sino capaz de renovar el género. Compartió su convicción acerca de esta reforma con muchos amigos que frecuentó en Milan, donde vivió. Entre ellos Vicenzo Monti, Lamberti, Perticari e Perracchi; y fueron ellos los que le incitaron a comenzar tal aventura con el encargo de Sinome Mayr, La rosa bianca e la rosa rossa.
Estrenada en Génova en 1813, fue un éxito discreto, pero fue clave para su carrera al despertar el interés de Rossini, que le encargó los libretos para Aureliano in Pal mira, Bianca e Faliero y Il turco in Italia. La colaboración con Rossini le dio tanta fama que operistas mayores como Donizetti, comenzaron a solicitar sus servicios.. Para Donizetti escribió los libretos de Anna Bolena, Parisina, Lucrezia Borgia, Elisir dʼamore. Muy importante y prolífico fue para Romani el encuentro con Vincenzo Bellini, colaboración de la cual nacerían grandes obras maestras como Il Pirata, La Stra niera, Beatrice di Tenda, I Capuletti e i Montecchi e soprattutto Sonnambula e Norma.
Se le ofreció un puesto de poeta en la corte de Viena, que había ocupado Metasta sio, pero caído el reino de Italia e instaurada la dominación austriaca en la Lombardía, rechazó el cargo por patriotismo. Permaneció así a Milán, cumpliendo con su con trato con Francesco Ricci, empresario del Teatro alla Scala, de elaborar seis libretos al año de todos los géneros: serio, semiserio, buffo, según las exigencias del teatro.
La fama de Romani como hombre culto se extendió, y no dejó indiferente a nadie; ni siquiera al rey Carlo Alberto que, en un intento de impulsar las letras, las artes y las ciencias, le ofreció, al inicio de su reinado en 1834, el puesto de director de la «Gazzetta Ufficiale Piemontese», una revista que se convertiría en un modelo de buen gusto y punto de referencia para jóvenes literatos. Romani aceptó de buen grado el encargo y puso en él todo su empeño.
Pasó los últimos años de su vida en Moneglia, rodeado del afecto de sus fami liares pero profundamente apenado por la trágica muerte de Gina, una niña, hija de una criada; y por el traslado de la capital de Turín a Florencia.
Murió en Moneglia por una apoplejía el 29 de enero de 1865. Todos los periódicos le dedicaron artículos de despedida. También en su Gazzetta, V. Bersezio, literato y periodista, escribió: «Los que le hemos conocido y amado, no sólo como una gloria
maestri del suo tempo, 1882, p. 17; citado en rICCArdo VIAGrANde, Il dante del melodrama. Felice Romani a 150 anni dalla morte, disponible en <http://www.gbopera.it/2015/01/il-dantedel-melodramma-felice-romani-a-150-anni-dalla-morte/> (consultado el 15.03.2018).
de aquella italiana literatura que ve con tanto daño caer una a una las hojas de su todavía y no por mucho rica corona […] Quién no recuerda los versos dulcísimos de sus melodramas? Quién no recuerda las estrofas de sus canciones […]?»25
Las temática hispano–astur en las óperas de Saverio Mercadante
Además del Contexto Histórico de la Unificación Italiana o Risorgimento, para enten der el interés de Mercadante por la historia española como material dramático, es necesario recordar que el compositor italiano vivió casi tres años en nuestro país: entre Abril u Diciembre de 1826 fue Director General de Música del Teatro del Prín cipe (actualmente teatro español). De 1829 a 1830 fue Director de la Ópera Italiana en Cádiz; y en 1831 regresó a Madrid, donde trabajaría, además de como composi tor, como director de orquesta, estrenando sus propias composiciones. Mercadante parecía tener alguna extraña fijación por la región cantábrica: en 1840 estrenó La Solitaria delle Asturie o La Spagna Ricuperata, donde hace aparecer por vez primera al personaje de Pelayo, ahora con voz de tenor. Tuvo más relaciones hispánicas: Donna Caritea de 1826 transcurre en Toledo y en torno al Tajo ocurre Le due illustri rivali, quién lo imaginaría, en Pamplona. Segunda apostilla: una de las frases más destacadas del aria principal del tenor, antes citada, dice Lʼamai qual ama un Arabo (la amaba como ama un árabe) refiriéndose a la íbera Blanca. Que cada lector extraiga su propia consecuencia de esta afirmación quizás algo más que inquietante.26
Gráfico 2: Primera grabación mundial de la ópera Pelagio en Martina Franca.
25
«[…] Noi che lʼabbiamo conosciuto ed amato, non solo come una gloria di quella italiana let teratura che vede con tanto danno cadere ad una ad una le frondi della sua oggi dí purtroppo non ricca corona […]. Chi non ricorda i versi dolcissimi dei suoi Melodrammi? Chi non ram menta le strofe delle sue Canzoni […]?»
26 FerNANdo FrAGA, Pelagio cit.
Pero no sólo él se interesó por la temática hispánica-astur. También existe hay una ópera de Spontini sobre el tema de Don Pelayo (Pelage) cuya trama se localiza e la capital de Asturias: Oviedo. El paralelo entre Luis XVIII y Napoleón con el rey Rodrigo y Don Pelayo es incuestionable.
Fue Mercadante quien, tras la prohibición de 1798 de representar ópera italiana seria en España dirigió la primera función de la ópera rossiniana Zelmira el 13 de junio de 1826. Fue Mercadante quien además consiguió que por primera vez en España se representaran óperas italianas en el idioma original. De hecho todas las representaciones de las óperas bufas desde 1816 eran traducidas al español y los recitativos eran hablados y no «cantados».27
Si me permiten un paralelismo en la biografía mercadantiana en su marco bio gráfico valorando una comparación con la vida de su coetáneo Verdi: igual que su coetáneo Verdi después de sus “años de galera”, no volvió a escribir más después de su Pelagio, en 1857. Moriría 14 años más tarde, en 1870 ciego completamente perdiendo la visión completa en los últimos años de su vida.
La Solitaria delle Asturie ossia la Spagna ricuperata
Personajes:
La Solitaria – Cava – hija del Conde Giuliano Elvira – hija de Rodrigo, rey muerto Gusmano – jefe del ejército moro. (El Conde Giuliano)
Munuzi – otro moro Montañeses y montañesas asturianos - Coro y comparsa
Trama: la acción se desarrolla en Asturias, en el año 716
Acto I. España está bajo dominación musulmana. En un remoto valle asturiano, la población se cree a salvo de la invasión. En un momento de desaliento, rezan y piden consejo a una misteriosa dama, la Solitaria, que vive apartada entre las montañas. Pelagio ha sido curado y salvado por ella tras ser herido por una flecha enemiga. Le confiesa su amor y le dice que estaba prometido aunque sin conocerla, con la hija del conde Giuliano, un líder español que ha traicionado a la patria cambiándose de bando; y que por eso había rechazado él el compromiso. La Solitaria turbada, rechaza su cortejo y pide a Pelagio que no maldiga a la esposa perdida, pues seguro que ella también ha sufrido. Los habitantes anuncian la llegada de los moros. La Solitaria toma las armas y las entrega a Pelagio, diciéndole que él será el salvador y que el cielo lo protege.
27 Cfr. CASCIo, Estudio y edición cit.
Acto II. En el campo, los Moros, con Gusmano al frente, traen algunas jóvenes esclavas.. Entre ellas está Elvira, que capta la atención del líder y que dice no saber nada de sí: huérfana, ha sido criada por una misteriosa mujer que vive en el monte. Por la narración, Gusmano intuye que se trata de la Solitaria. La Solitaria llega al campo de batalla, acompañando a Pelagio, con la intención de liberar a Elvira. La Solitaria se ofrece a intercambiarse por la joven; y aunque Gusmano al principio no cede, cuando ella se quita el velo, se la entrega y les deja marchar a los tres.
Acto III. Los militares enviados por Pelagio están derrotando a los Moros. Elvira, que llama madre a la Solitaria por los cuidados recibidos, se entera finalmente de la verdad: es la hija del rey Rodrigo, que reinaba en Asturias antes de la invasión musulmana. Cuando se confirme derrota, la Solitaria dice que el trono de Elvira debe ser restituido y que su esposo será Pelagio, pese a la reticencia inicial de éste.
Acto IV. La Solitaria consigue entrar en el campamento musulmán justo antes de la derrota definitiva y en su diálogo con Gusmano se descubre la verdad: La Solitaria es Florinda, la hija de Gusmano, que es en realidad el Conde Giuliano. Gusmano trata de justificar su traición a los cristianos recordándole a su hija la deshonra del rey Rodrigo, pero ella dice que lo único que puede aliviar su deshonor es cumplir su juramento de salvar España y le pide a su padre que huya.
Acto V. Mientras los españoles se alegran por la victoria final, la Solitaria es conducida entre ellos, herida y moribunda. En su lecho de muerte, revela a Pelagio y Elvira su verdadera identidad: ella, la Solitaria, Cava, es en realidad Florinda, la hija del conde Giuliano. Les narra su intento de devolver a Gusmano a su anterior fe cristiana y muere feliz de hacerlo por su patria, fiel a su fe y recibiendo el perdón de la nación (y del cielo) por la ocultación de su verdadera identidad.
Comentarios personales. En el prólogo del libreto, el propio Romani pone al lector en situación: Florinda, la hija del conde Giuliano, ante la conversión de éste, finge su muerte para huir de la casa paterna y no traicionar sus ideales. Huye a las montañas, donde será conocida como Cava (apelativo negativo, malvada).
Así, nos encontramos no tanto con la confrontación directa de islámicos y cris tianos, sino con un tema mucho más profundo que no hace sino engrandecer a Romani: el enfrentamiento entre los cristianos que han permanecido fieles a sus creencias y aquellos que se han alejado de su fe cristiana. Así, la Solitaria aparece como heroína de la resistencia, como líder espiritual de todo un pueblo, como cris tiana fiel que prefiere apartarse hasta de su propia identidad antes que traicionar a su patria y a su religión. En palabras de Saglia: «En la batalla final de la ópera Florinda se convierte en una especie de Agustina de Aragón, es herida de muerte y
dos óperas asturianas de saverio Mercadante
se convierte en una especie de figura santa del nuevo Estado».28
El libreto de Romani nos enfrenta con temas como la culpa y la expiación, el arrepentimiento, el perdón y la misericordia.
Las fuentes Fuentes en forma de partitura manuscrita
F1 F2 F3
Denominación Manuscrito de Viena Manuscrito de Venecia Manuscrito de Milán Contenido Acto I Ópera Completa Actos II- V Estado Perfectamente legible Perfectamente legible – sólo para fines de estudio
Ubicación VienaÖsterreich Nationalbibliothek
Desconocido para el autor
Venecia – Fundación Levi Milán – Casa Ricordi
Referencia A-WN: S. M. 4177 I-V:Levi: Part.Completa I-Part.Incomp. [A. 2-5]
Tabla 1. Fuentes 1, 2 y 3.
F4 F5 F6
Denominación Una fatale immagine (Preghiera della Solitaria)
Finale nel secondo atto dellʼopera La solitaria delle Asturie
Manuscrito anónimo Contenido Extracto del número 9, Preghiera. Reducción para soprano y piano.
Final del Acto II en versión para piano a cuatro manos. Arreglo de A. Fanna.
Biblioteca Nazionale Marciana Venecia Anónimo
Ópera completa Estado Perfectamente legible Desconocido para el autor Legible con alguna dificultad Ubicación VienaÖsterreich Nationalbibliothek
Referencia A-WN: muS.HS 30.602 SBN - muS 0120082 An-An. Part.Completa.
Tabla 2. Fuentes 4, 5 y 6.
La comunicación con el gran estudioso Michael Wittmann ha sido clave para esta investigación, especialmente en lo que a las fuentes se refiere. No existe una reducción de la partitura de orquesta o un arreglo para canto y piano propiamente dicho para la Solitaria. De la partitura orquestal, existen cuatro fuentes.
La denominada, F1 es una partitura orquestal del primer acto. Se conserva en la Biblioteca Nacional austríaca (Österreichische Nationalbibliothek). [A-WN: S. m.
28 eduArdo SAGlIA GArCÍA, En Italia hay ocho óperas y tres ballets sobre Pelayo, disponible en: <http://www.lne.es/sociedad-cultura/2013/11/16/saglia-italia-hay-ocho-operas/1500340.html> (consultado el 2 de mayo 2018).
4177 (Partitura inc. [Atto 1])] El autor dispone ya de las 296 microfichas, descargadas de un enlace facilitado por la ÖNB
F1: Manuscrito de Viena.
La denominada F2 es una partitura orquestal de la ópera completa, que se encuentra en el Archivo histórico del Teatro de La Fenice (Archivio storico della Fondazione Teatro la Fenice di Venezia) [I-V.Levi: (Partitura completa)].
La denominada F3 es una partitura orquestal del Acto 2 al Acto conservada por Ricordi. I mr [Part.incompl: A. 2-5]
En formato reducido existe un canto y piano (F4) con el Título: Cantabile nellʼOpera La Solitaria delle Asturie. Están dedicadas a Ernestina Piezoli. con la siguiente numeración de ficha: A WN*: muS.HS. 30.602 (Albumblatt = kA Nr. 9: Preghiera] («Una fatale immagine» S,pF). La obra data del 29 de marzo de 1840 y posee una dedicatoria: «A Madama Ernestina Piezoli. In attestate di stima ed amicizia Venezia, 29. Marzo 1840 Saverio Mercadante» son solamente y además de manera gratuita y accesible online, cuatro hojas sueltas manuscritas y autógrafas para voz y piano en tinta negra con el siguiente formato: 26,2 x 20,2 cm, para canto y piano con el título: Metodología).
F2, F3: Canto-piano de la Preghiera de la Solitaria. Dedicatoria.
Disponemos en el Servicio Bibliotecario Nacional en Venecia (SBN) online de la denominada F5: una reducción para piano a 4 manos realizada por el compositor Antonio Fanna fechada aproximadamente en 1839-1840 con el título Finale nel secondo atto dellʼopera La solitaria delle Asturie del Maestro Mercadante;ridotto per piano forte a quattro mani da Antonio Fanna. El manuscrito se encuentra en la Biblioteca Nazionale Marciana de Venecia Milano. Datos: F. Lucca, [circa 1839] 9 p., 36 cm.
La denominada F6 es un manuscrito de una colección privada cuyos dueños prefieren mantenerse en el anonimato. Es la fuente gracias a la cual se ha podido realizar el esquema de la estructura de la Ópera.
Por otra parte, una conversación paralela buscando fuentes, llevó al autor a la Fundación Levi en Venecia, donde según la correspondencia mantenida con la señora Claudia Canela, encargada de la Biblioteca, se confirma la ausencia de la ópera buscada. No obstante, informa al autor de que disponen solamente de un retrato a carboncillo de Mercadante (Dis. 192) y dos libretos de la ópera en cuestión (ed. Venezia, Molinari, 1840; Dramm. 394 y Dramm. 356). La señora Canela hace referencia de nuevo al manuscrito que se encuentra en el Archivo histórico Ricordi en Milán en la Biblioteca Nacional Braidense.
Además de las fuentes en forma de partitura, otra fuente importante es el libreto. Disponemos del libreto completo, de 1838. Encontramos una interesante mención al mismo en el artículo Felice Romani, librettist by trade. Carlo Coccia, compositor que
utilizó el mismo libreto de Romani que Mercadante para una ópera suya (La Solitaria delle Asturie) escribe al libretista: «Te pido que al revisar tu trabajo lo abrevies lo más posible en los recitativos … porque temo que la ópera pueda resultar larga».29
Características y estructura
Se trata de un melodrama en cinco actos con libreto de Felice Romani, compuesta para el teatro “La Fenice” de Venecia en Italia, el 12 marzo de 1840.
Mercadante, a finales de 1839, dudaba de qué tema utilizar para su nueva ópera en La Fenice, Venecia. Dudaba entre Virginia, Nabucco y la Solitaria delle Asturie. Se decidió por esta última porque creía que este tema era más apropiado para el teatro moderno (Fondazione Teatro La Fenice, 1839).
Artistas participantes en la premiére
Dirección musical: Mares Gaetano
Cantantes solistas:
La solitaria [MezzoSoprano] A. Schütz
Pelagio [Tenor] F. Pedrazzi
Elvira [Soprano] A. Moltini
Gusmano [Bajo] P. Balzar Ramiro N. N. Manuza A. Razzanelli
Músicos de la Orquesta: se pueden consultar los jefes de sección y los instrumentistas solistas de viento en el ANeXo I. El Libreto. 2Fl+Piccolo, 2Ob+Corno, 2Clar+Serpentone/Cimbasso, 2Fg, 4Tpas, 2Trptas, 3Trb, Timbales, Triángulo, Banda sobre la escena, Arpa, Órgano, Cuerdas. Coro del Teatro La Fenice.
Escenografía: Franceso Borlotti y Luigi Martinelli
Vestuario: Luigi Perelli.
Actos y Escenas
Acto I
a) Pastorale e Coro dʼIntroduzione b) Scena e Preghiera (Solitaria) [mS]
29 «Ti prego però nel rivedere il tuo lavoro abbreviare se è possibile qualche cosa ne´recitativi… perche temo che lʼopera possa riuscire lunga». AleSSANdro roCCATAGlIATI - kAreN HeNSoN, Felice Romani, librettist by trade, «Cambridge Opera Journal» 8/2, Jul., 1996, pp. 113-145: 139, disponible en <http://www.jstor.org/stable/823664 > (consultado el 25 de abril de 2018).
c) Scena e Duetto (Solitaria, Pelagio) [mS,T] d) Coro finale
Acto II a) Coro di Donzelle b) Scena e Duetto (Elvira, Gusmano) [S,B] c) Scena d) Coro e) Scena, Largo e Stretta
Acto III a) Coro b) Scena e Romanza (Elvira) [S] c) Scena e Duetto (Elvira, Solitaria) [S,mS] d) Scena e Terzetto con Coro religioso (Elvira, Solitaria, Pelagio) [S,mS,T]
Acto IV
a) Coro b) Scena e Preghiera (Gusmano) [B] c) Scena e Duetto (Solitaria, Gusmano) [mS,B]
Acto V a) Coro b) Scena c) Scena ed Aria finale (Solitaria) [mS]
Tabla 3. Acto I.
ACTo I
Figli dʼAsturia 6/8 Fa M Moderato Assai
Baldi e protervi 6/8 Fa M Allegretto
Giú alle valli 6/8 Re M
Pastorale e Coro dʼIntroduzione
Giú alle valli 4/4 Re M Pace ad unʼanima 3/4 Mi♭ M Andante mosso Basti dʼun popolo 3/4 Mi♭ M Basti dʼun popolo 6/8 Do M Allegro
Scena e Preghiera (Solitaria)
Sí, deʼ miei preghi ardenti Rec.acc Una fatale immagine 2/4 Sol♭ M Andante delicato
Mirala Rec.acc. Qual soffrí supplizio atroce 4/4 La♭ M Allegro
Scena e Duetto (Solitaria, Pelagio)
Poiché tu sí santa e pia (a 2) 4/4 Si M Marcato
Scorre a rivi il sangue 4/4 Do M Andante Odimi ancora 4/4 Do M Allegro
Il tuo sembiante 4/4 Sol M Meno mosso Donna adorata 4/4 Si♭ M
I Mori! …avanzano 4/4 Si♭ M Piú animato
Coro finale
Sí, dato è a voi Rec.acc Viva Pelagio 2/4 Sol M Allegro
Tabla 4. Acto II
ACTo II
Coro di Donzelle
Dellʼanimal tributo Rec. acc.
Dove siam tratte? 6/8 Do M Andante mosso Addio per sempre 6/8 La M Scena e Duetto (Elvira, Gusmano)
Ah! se la sua bellʼanima (a2) 3/8 Sol M Andantino Scena Allʼarmi 4/4 Allegro animato Coro Essa in campo? La donna dʼAusena Mi♭ M
La vedeste? la fronte ravvolta 2/4 Do M Scena, Largo e Stretta Libero, qual chiedesti, Rec. acc.
Tergi il pianto 4/4 Re M Meno mosso Verrà stagion piú lieta 4/4 Fa M È un innocente cara al Dio 4/4 Re M
Pegno tu hai che valga Elvira? Rec. acc.
Vedi? Le morte vittime Mi♭ m/M Andante sostenuto Scelto hai tu? 4/4 Mi♭ M Allegro Oh furor! segnal dʼassalto 2/4 Mi♭ M Allegro vivace Ti allontana pria chʼio mʼabbi 2/4 Re M Piú animato
Tabla 5. Acto III
Coro
Scena e Romanza (Elvira)
ACTo III
Lieto dí! la vittoria fu piena 3/4 Mi♭ M Allegro moderato
Non giunse ancora Rec. acc.
Il mio cor turbato 3/8 La♭ M Andante grazioso Al mio sguardo si dipinge 3/8 La♭ M Piú animato
Scena e duetto (Elvira, Solitaria) Elvira!... O madre! Rec. acc.
Dʼun guerrier hai tu parlato 4/4 Mi♭ M Allegro giusto –meno piú mosso
Nel mio sen deponi (a2) 9/8 Mi♭ M Andante
Scena e terzetto con Coro religioso (Elvira, Solitaria, Pelagio)
Vieni, Pelagio, apressati d) 4/4 Do M Allegro moderato
Ah! qual mestizia (a3) 9/8 Sol M Andante agitato Non piú indugi 4/4 Sol M Andante
Poi che il vuoi 4/4 Sol M Piú mosso Rendi, o ciel, questi nodi 2/4 Mi M Andante
Tabla 6. Acto IV
ACTo IV
Coro Ebben? vedesti? 3/8 Mi♭ M Andante mosso Scena e Preghiera (Gusmano)
Lungo le rupi Rec. acc. Poiché a temer lʼinsidia 4/4 Es Andante giusto 4/4 Mi♭ M Andante giusto Mentía lʼavviso Rec. acc.
Ah! chi geme? 2/4 As Andante 2/4 La♭ M Andante
In questʼombra oscura 2/4 F” 2/4 Fa M Scena e Duetto (Solitaria, Gusmano)
Tabla 7. Acto V.
Conte Giulian! Rec. acc.
Il padre mio mel dava 4/4 Re♭ M Andante
Tu stesso, tu che infame 4/4 Si♭ M Moderato
Piangi? 4/4 La♭ M Moderato
Vieni meco (a2) 4/4 Sol♭ M Andante cantabile
Lʼora inoltra 4/4 Sol♭ M Allegro
Contro te per noi congiura 4/4 Do M Allegro
Ti allontana, sciagurata (a2) 4/4 Re M Allegro
Se vittoria ancor mi è data 4/4 Re M Piú stretto
ACTo V
Coro Vittoria! Vittoria! 3/4 Si♭ M Allegro spiritoso Scena Vincemmo, o prodi Rec. Acc.
Scena ed Aria finale (Solitaria) Ma qual da lunge ascoltasi Rec. Acc.
Del mio duol la trista voce 3/4 Do M Andante
In questo giovin Principe 4/4 Fa M Moderato Questa ti copra e avvolgati 4/4 Fa M Allegro deciso
Preghiera della Solitaria
La edición práctica de este número responde a la necesidad del autor de justificar la realización de todo este trabajo. Se ha creído que la mejor manera de probar la calidad de la música de Mercadante era facilitar en la medida de lo posible la interpretación de su música.
La edición no ha estado exenta de problemas musicológicos relevantes a la ins trumentación, ya que el original Glicibarifono ya no existe, y hay que decidir qué instrumento usar en su lugar. En esta edición, Rivas propone el uso del clarinete bajo como instrumento sustituto.
La mujer que cantó el rol de La Solitaria delle Asturie, en la misma temporada
Las dos óperas asturianas de saverio Mercadante
había cantado el rol de Romeo de Capuleti e Montecchi de Bellini, por lo que su tesi tura era de Mezzosoprano. El acompañamiento del arpa es típico del Romanticismo.
Gráfico 3. Edición práctica. Preghiera de la Solitaria.
Sobre la edición de Pelagio
En el año 2004 el autor tuvo el placer de trabajar como asistente de dirección de orquesta del maestro Giuliano Carella en el Teatro Real. Ya había trabajado con él en varias ocasiones en Italia, y había tenido el privilegio de presenciar su estreno de la ópera Il giuramento de Mercadante en el Festival de Martina Franca, así que es en este momento cuando decide comunicarle una idea: la de revisar personal mente los manuscritos autógrafos de la ópera Pelagio de Saverio Mercadante que se encontraban en el archivo del Trato San Carlo de Lisboa, para realizar una edición práctica de la ópera. Recién licenciado en Viena como Mag. Artium en Dirección de Orquesta y trabajando como director asistente del Gran Teatre del Liceu de Barce lona en 2001, Jaume Tribó, Maestro Suggeritore, le había mostrado una reducción de canto y piano de esta ópera. Las primeras palabras del libreto, de Lucca Marco DʼArienzo, eran:
«O sospirata Gione, io ti saluto (…)”. “Oh anhelada Gijón, yo te saludo...»
Se trata de las palabras que Pelayo, rey astur olvidado, pronuncia recordando su añorada tierra mientras regresa a ella. Y son las palabras que convencieron definitivamente a Rivas a emprender la edición.
Mto. Carella animó al autor a llevar a cabo la misma, insistiendo en la calidad musical incuestionable del compositor y mencionando la gran influencia francesa de Mercadante tras su viaje a Paris en 1835.
Por aquel entonces el propio Maestro Carella estaba preparando la grabación de la ópera de G. Donizetti Il diluvio universal. El director de la productora se llamaba Patrick Schmidt, el director por aquella época de la discográfica operA rArA. Sería el mismo que diría lo siguiente sobre Mercadante y Verdi:
Además del maestro Carella, otra de las personas clave para que el autor se decidiera a llevar a cabo esta primera edición mercadantiana fue el Dr. Michael Wittmann, profesor de la Universidad de Berlín, toda una eminencia en la inves tigación sobre la figura de Mercadante. Gracias a Jaume Tribó, Souffleur del Gran Teatre del Liceu de Barcelona, el autor tuvo la suerte de conocerle. Estuvo presente en el estreno absoluto moderno del Pelagio y no tuvo más que elogios para la
dos óperas asturianas de saverio
interpretación del maestro Rivas.
Como podrán comprobar en el apartado de Fuentes, la comunicación con este gran estudioso ha sido clave, trece años después, para esta segunda investigación.
Descubrí que existían varias fuentes: el canto y piano, unos manuscritos autó grafos en el antiguo archivo del teatro San Carlo de Lisboa y otra copia manuscrita en el conservatorio de Nápoles. Usé las dos primeras para transcribir en dos años y medio casi una adaptación nueva de un canto y piano para el estudio de las voces solistas y coro, nuevas partes de los instrumentos de orquesta y una partitura de dirección general de orquesta.
La ópera Pelagio de Saverio Mercadante de 1857, fue estrenada mundialmente después de 144 años en septiembre del 2005 en el teatro Jovellanos de Gijón con la edición práctica nueva a través de los manuscritos autógrafos del propio compo sitor de 1857, después de 144 años, con un elenco de lujo: Carlos Álvarez en el rol principal de Pelagio, Alejandro Roy en el papel de Abdel-Por y Tatiana Anisimova en el rol de Bianca.
Tres años después, en 2008, tuvo lugar su reestreno moderno con puesta en escena en en el festival de Martina Franca, Italia con otro tipo de cantantes y fue grabado por Dynamics.
Gráfico 4: Detalle del festival Valle del Itria sobre la interpretación de Pelagio, de Saverio Mercadante, bajo la dirección musical del autor de este trabajo.
Resultados y Discusión
En resumen, esta ponencia no deja de ser un complemento de mis estudios empe zados hace ya 13 años, realizando una edición práctica del Pelagio, una ópera de Mercadante desconocida hasta el momento con su consiguiente estreno mundial a nivel musical, primero en 2005 y posteriormente en Italia en 2008, y que han visto un primero gran resultado con la publicación de su edición práctica en el 2005 y de su estreno mundial moderno en el Teatro Jovellanos de Gijón, en España en su
versión de concierto; y posteriormente de manera escénica bajo la dirección de Jean Louis Pichon en el Festival della Valle´d Itria en Italia en 2008.
Se presenta ahora las fuentes y comentarios que me llevarán a justificar el valor patrimonial y la consiguiente valoración de su segunda ópera de contenido astu riano, esta vez, 14 años anterior en el tiempo al Pelagio (1857), La solitaria delle asturie de 1840, natural complemento a aquella última ópera del compositor de Altamura para Italia. Abriendo así un camino de investigación para mi próximo trabajo, siendo este el de la edición crítica y práctica de esta ópera y ofreciéndola no solo a la comunidad científica sino a todos aquellos musicólogos, estudiosos de la obra de Mercadante y de cantantes que puedan descubrir en él el valor no solo patrimonial, sino musical en la ópera italiana a mediados del siglo XIX.
Con este trabajo, tengo que reconocer que los resultados partiendo de la edición de la partitura y de su transcripción me llevaron y usándolos métodos tradiciona les filológico-musicológicos, tengo que decir que los resultados esperados se me complicaron.
Con respecto al estilo de Mercadante, creo que el contacto con Meyerbeer y la grand opèra francesa tuvo sus repercusiones en el estilo del músico,30 y que el encuentro con nuevas formas y patrones musicales conocidos en Francia queda patente en la Preghiera della Solitaria, acompañada por dos instrumentos tan pura mente románticos como el arpa y el glicibarifono (clarinete bajo). 30
La Virginia e il Mercadante ʼpoliticoʼ
La Virginia, tragedia lirica in tre atti di Salvatore Cammarano, è il settimo libretto scritto dal poeta napoletano per lʼoperista altamurano.1 Lʼopera doveva andare in scena al teatro San Carlo nella stagione di Carnevale del 1850, ma la censura ne bloccò la rappresentazione sino al 7 aprile 1866, quando finalmente fu messa in scena nel medesimo teatro, pochi anni prima della morte di Mercadante.2 In questo contributo intendo delineare la genesi storico-letteraria dellʼopera, lʼindiscussa ascendenza alfieriana nella scelta del soggetto da parte di Cammarano, e provare a indagare, a livello drammatico e musicale, e poi in una piú ampia prospettiva storico-culturale, le ragioni e le cause del provvedimento censorio che impedí alla Virginia per ben sedici anni di solcare le scene di un teatro lirico.
Il libretto di Cammarano trae ispirazione dallʼomonima tragedia di Vittorio Alfieri, composta tra il 1777 e il 1778. Il poeta astigiano aveva allʼepoca ventottʼanni,
1 Gli altri libretti approntati da Cammarano per Mercadante sono, in ordine cronologico: Elena da Feltre (1838), La Vestale (1840), Il Proscritto (1841), Il Reggente (1843), Il vascello da Gama (1845), Orazi e Curiazi (1846), cui va aggiunta Medea, scritta a quattro mani con Felice Romani e anda ta in scena nel 1851. È interessante notare come tutte le opere composte su testo di Camma rano appartengano al periodo successivo alla cosiddetta riforma di Mercadante, il cui piú celebre enunciato fu affidato ad una lettera inviata a Francesco Florimo, il cui oggetto era proprio Elena da Feltre. Tutte le opere hanno avuto la loro prima rappresentazione al Teatro San Carlo di Napoli.
2 Nella biblioteca del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli sono conservate le partiture autografe delle due versioni dellʼopera. La stesura piú antica è racchiusa in due tomi, e non presenta un vero e proprio frontespizio. Nel primo tomo, che contiene due atti su tre, si legge soltanto: Virginia | Introduzione | e cavatina di Appio | Carnevale del 1850 | Napoli. Nella riscrit tura (molto parziale) del 1866 – in cui Mercadante, già privo della vista, si limitò ad un sem plice lavoro di supervisione – il frontespizio recita: Atto Primo | Tragedia Lirica in tre atti Poesia di | Salvatore Cammarano | Virginia | Musica del M° C° S° Mercadante | scritta sin dallʼanno 1851 [sic] | Rappresentata in Napoli nel Real Teatro S. Carlo | nella Primavera del 1866. Per la stesura di questo contributo ho fatto riferimento allʼautografo della prima versione.
e dopo un lungo peregrinare in Europa, era tornato in Italia con lʼanimo acceso da un forte amor di patria e da un desiderio di libertà, contro ogni forma di tirannia. Sono gli stessi anni del trattato in due volumi Della tirannide, e della nuova ideologia tragica di Alfieri, secondo cui, a muovere lʼazione drammatica doveva essere lo scontro tra due passioni politiche contrapposte e inconciliabili, come il dispotismo assoluto da un lato e lʼamore per la libertà dallʼaltro.3 È lo stesso Alfieri, nella sua celebre autobiografia, a raccontare il suo primo incontro con lʼepisodio storicoleggendario della cittadina romana Virginia, giovane fanciulla plebea oggetto delle bramose attenzioni del decemviro Appio Claudio. Egli era in viaggio da Genova verso la Toscana, e rimase bloccato a Sarzana a causa del mare grosso che ritardava lʼarrivo di una piccola imbarcazione con tutti i suoi bagagli ed effetti personali; per trascorrere al meglio questa attesa logorante, il poeta si rivolse ad un prete del posto, e alla sua biblioteca personale:
[…] mi feci prestare un Tito Livio, autore che (dalle scuole in poi, dove non lʼavea né inteso né gustato) non mʼera piú capitato alle mani. Ancorché io smoderatamente mi fossi appassionato della brevità sallustiana, pure la sublimità dei soggetti, e la maestà delle concioni di Livio mi colpirono assai. Lettovi il fatto di Virginia, e gli infiammati discorsi dʼIcilio, mi trasportai talmente per essi, che tosto ne ideai la tragedia; e lʼavrei stesa dʼun fiato, se non fossi stato sturbato dalla continua espettativa di quella maledetta filucca, il di cui arrivo mi avrebbe interrotto la composizione.4
Quando la tanto attesa feluca giunse a Sarzana, il poeta poté riprendere il suo viaggio verso la Toscana. Giunto a Siena, stese rapidamente il canovaccio di alcune delle sue piú importanti tragedie, Agamennone, Oreste, e la stessa Virginia (cfr. Vita, IV/5); ciò avveniva nellʼautunno del 1777, mentre negli ultimi mesi dellʼanno si dedicò a verseggiare lʼopera dedicata alla fanciulla romana, che vide la luce nellʼaprile del 1778 (cfr. Vita, IV/7). Lʼautore non era però soddisfatto della versificazione effet tuata in quegli anni, e rimaneggiò il dramma giungendo alla versione definitiva soltanto nel 1781. Lʼanno seguente, a Roma, ne diede una prima lettura nella casa della nobildonna romana Maria Pizzelli, una dama intellettuale dalle forti convin zioni illuministiche, il cui salotto era frequentato da importanti scrittori e artisti del tempo quali Monti, Baretti, Canova, Alessandro Verri. Di questa lettura lʼAlfieri fa un rapido accenno nella sua autobiografia (cfr. Vita, IV/9), ma un racconto piú
3 Cfr. VITTorIo AlFIerI, Della tirannide, Milano, Rizzoli, 19502. Sono anche gli stessi anni in cui il poeta astigiano aveva iniziato la stesura dellʼEtruria vendicata, in cui esaltò lʼomicidio del duca Alessandro deʼMedici ad opera del cugino Lorenzino, nonché dei tre libri Del Principe e delle Lettere e delle prime Satire.
4 VITTorIo AlFIerI, Vita, introduzione e note di Marco Cerruti, Milano, Bur, 2007, Epoca Quar ta, Virilità, Cap. 4, p. 202.
dettagliato della serata è tramandato in un vecchio libro dello storico e prefetto David Silvagni:
In casa della Pizzelli lesse una sera lʼAlfieri la sua Virginia, la quale fece tanta impressione sopra Vincenzo Monti, presente alla riunione, che si pose a scrivere lʼAristodemo, che è invero uno dei suoi migliori lavori ed una delle piú belle tragedie del teatro italiano. […] È difficile descrivere lʼimpressione che fece sullʼuditorio […] la lettura della Virginia. I metastasiani, abituati ai placidi melodrammi, alle idee pacifiche, alla cadenza melodica di quei versi, rimasero sorpresi alle severe espressioni, al robusto verseggiare e alle massime di libertà della nuova tragedia, nella quale ad ogni punto traspare lʼindole indomita e generosa e la natura fierissima dello scrittore.5
Questa affermazione, seppur priva di testimoni diretti, ci aiuterà a comprendere meglio le motivazioni che indussero Mercadante alla scelta di questo soggetto, e, in parte, a immaginare le reali motivazioni censorie della monarchia borbonica, che bloccarono la messinscena nel 1850.
Lʼepisodio storico di Virginia, come riportato dallo stesso Alfieri, è raccontato in Tito Livio, nella sua opera storiografica giuntaci mutila, e che originariamente comprendeva 142 libri.6 Lo storico racconta come nellʼanno 302 dopo la fondazione di Roma venne creato lʼistituto decemvirale, composto da dieci magistrati con poteri di consoli che ebbero il compito di promulgare un nuovo codice legislativo. Lʼattività di ogni altra magistratura, come ad esempio quella dei tribuni del popolo, concepita ai primordi della Repubblica, venne pertanto sospesa. Secondo la testimonianza di Livio, lʼambigua figura di Appio Claudio, uno dei decemviri con maggiore seguito nel patriziato romano, riuscí a farsi rieleggere nel secondo Decemvirato, insieme a molti suoi fedelissimi, con il pretesto di completare le tavole delle leggi. Ma le sue intenzioni erano le piú turpi: Appio Claudio si trasformò ben presto in un tiranno senza scrupoli, accentrando ogni potere nelle sue mani e depredando la classe plebea di ogni diritto, comprandosi il silenzio dei patrizi con favori e corruzione. Inoltre, approfittando del disordine e del degrado che regnava a Roma, i popoli confinanti con lʼUrbe dichiararono guerra alla Repubblica, costringendo i plebei a prendere le armi, permettendo cosí al Decemviro di portare avanti tranquillamente i propri disegni dispotici. Nella tragedia di Alfieri, come nel libretto di Camma rano, la guerra è la motivazione per cui Virginio, il padre di Virginia, è lontano da Roma, impegnato nel campo di battaglia, ed offre lo spunto per lʼallontanamento
5 dAVId SIlVAGNI, La Corte e la Società romana nei secoli XVIII e XIX, Roma, Forzani e C., Tipo grafi del Senato, 1884, I, pp. 391-392. Lʼintera opera è disponibile in versione digitale al seguen te link: «https://archive.org/details/lacorteesocietar01silv/page/n8/mode/1up» (ultima con sultazione 30 giugno 2021).
6 Nello specifico cfr. TITo lIVIo, Ab urbe condita, III, 44-48.
di Icilio, promesso sposo di Virginia, già tribuno della plebe e fiero oppositore di Appio. Inoltre, un valoroso soldato di nome Lucio Siccio Dentato, sostenitore delle magistrature plebee, venne ucciso a tradimento su ordine dei Dieci, a suggellare le modalità sanguinarie e tiranniche dei nuovi despoti di Roma. Le ceneri di questo soldato sono portate in scena allʼinizio dellʼopera di Mercadante, accompagnate da una marcia funebre scura e solenne che interrompe il banchetto dei patrizi e che pare fu suonata nellʼaccompagnare il feretro del compositore. Di seguito riporto lo schema riassuntivo dellʼopera di Cammarano/Mercadante:
ATTo I: Nella sala del Palazzo Decemvirale è in corso un sontuoso banchetto. Il coro di uomini e donne appartenenti al patriziato romano è festoso e inneggiante a Bacco, e si interrompe soltanto per un istante al passaggio di un corteo funebre, per poi riprendere. Segue scena e cavatina di Appio, il capo dei decemviri, che definisce il patriziato un branco di servi utili solo per raggiungere il potere. Appio attende lʼamico fidato Marco, e non si capacita di come una donna plebea possa averlo sedotto. Marco riferisce del fallimento della propria missione, che consisteva nel corrompere la nutrice di Virginia. Ma esorta il capo dei magistrati a non perdersi dʼanimo, e a procedere con il piano concordato. Il coro dei patrizi richiama Appio al banchetto; segue dunque la cabaletta finale con la promessa che Virginia si piegherà al suo volere. Virginia rientra nelle mura della casa paterna circondata da un coro di donne plebee e dalla fida Tullia; sono appena state a rendere omaggio alla madre morta. Le fanciulle consolano Virginia ricordandole la profondità del sentimento amoroso che lega lei e Icilio, ex tribuno della plebe. Virginia invia Tullia al campo di battaglia dove si trova il padre perché teme le insidie di Appio, e che possa scaricare la sua rabbia proprio su Icilio. Appena lʼancella è uscita, Appio in persona entra nellʼumile dimora e dichiara appassionatamente il proprio amore a Virginia. La fanciulla gli ricorda come un patrizio non possa sposare una plebea, e il decemviro le ricorda che lui ha il potere di cambiare le leggi in ogni momento, a proprio piacimento. Quando Virginia palesa il fatto che non cederà mai al suo amore, Appio inizia ad infervorarsi, e le chiede se ci sia un rivale, un altro uomo cui lei ha giurato amore. Di fronte alla sua esitazione Appio la incalza e ne chiede lʼidentità, quando ad un tratto entra Icilio presentandosi come lʼodiato rivale. Segue terzetto finale che chiude lʼatto, in cui le passate ruggini di Appio e Icilio si rinnovano in un bruciante confronto dialettico sul destino dellʼinfelice Virginia, la quale giura al Cielo e al decemviro che se mai sarà tra le sue braccia, sarà solo un corpo inerte senza vita.
ATTo II: Virginio rientra a Roma dal campo di battaglia, e riabbraccia sua figlia Virginia che gli racconta dellʼinsidioso corteggiamento e della volontà di Appio di sposarla a tutti i costi. Segue un duetto padre-figlia, che si conclude con un ignoto presagio di sventura ad offuscare le menti di entrambi. Entra Icilio, cui Virginio rivela di avere un solo giorno di licenza accordatogli dal suo generale,
esortandolo a non temere il futuro e dando agli amanti la benedizione come sposi, ordinando di predisporre il prima possibile la cerimonia nuziale. Tullia e un coro di donzelle accompagnano Virginia e Icilio, in estasi, alle sacre are. Davanti al Tempio dʼImene i sacerdoti invocano la benedizione sui novelli sposi, ma Marco, che si trova a passare di lí, osserva ogni dettaglio nascosto. Mentre il corteo nuziale sale le gradinate del tempio, arriva Marco con un gruppo di schiavi e ordina che Virginia venga portata nei suoi appartamenti, in quanto sua schiava, dichiarando di essere pronto a chiarire tutto in tribunale. Mentre la situazione sta per degenerare in seguito alla reazione di Icilio, sopraggiunge Appio. Marco, seguendo il piano, rivela che Virginia era figlia di una sua schiava, e che fu sottratta con lʼinganno dalla consorte di Virginio. Appio chiede che Marco porti delle prove di questa frode, ma ecco che fa il suo ingresso Virginio, furente. Segue un ampio concertato, tra Appio che reprime a stento la sua rabbia per il ritorno di Virginio, Icilio che medita vendetta, Virginio che invoca la rabbia dei padri contro chi mette in dubbio i propri figli, Virginia che teme per la sorte dei suoi cari, Marco che cerca di non cedere al rimorso per lʼinganno ordito, e il coro che commenta sgomento. Icilio svela il piano dei due rapitori, accusando Marco di essere complice di Appio, per portare Virginia nella casa del decemviro. Lo scontro sembra imminente, ma Appio, fingendosi magnanimo, concede a Virginia un altro giorno, e la convoca la mattina dopo in tribunale per dirimere la questione in sede processuale. Ma Marco pretende che la sua schiava lo segua in casa. Icilio e Virginio non credono allʼesistenza di una legge che permetta ciò, e sono pronti comunque ad infrangerla in nome della giustizia e della dignità. Marco fa cenno agli schiavi di trascinare via Virginia ma Icilio si oppone, pronto a morire per la sua sposa. Segue un esplosivo finale dʼatto in cui alla giustizia decemvirale, al diritto romano in materia di schiavitú, si oppone il diritto paterno, la pietà filiale, una sorta di diritto morale, che, come in Antigone, si oppone alla giurisprudenza umana.
ATTo III: Nellʼappartamento di Appio, il decemviro e Marco attendono Icilio per congedarlo con un obbligo di leva militare. Se Icilio si rifiutasse, allora Marco dovrà ucciderlo. Giunge Icilio, e Appio gli comunica che lo attendono come pretore sul campo: un diritto, spiega il decemviro, che non spetterebbe a un plebeo, ma talvolta la legge può essere infranta da chi lʼamministra per seguire la virtú. Icilio, con orgoglio plebeo e in qualità di tribuno, getta a terra il papiro di convocazione, denunciando la frode di Appio. Segue duetto con velate promesse di morte e la certezza da parte di entrambi di riuscire ad avere Virginia. Nella casa di famiglia, Tullia e Virginia attendono lʼalba. Arriva Virginio ed insieme si dirigono mestamente al tribunale. Durante il cammino, giunge la notizia del ritrovamento del cadavere di Icilio, trucidato sulla pubblica via. La sentenza che pronuncerà Appio è già chiara per tutti, ed è stata vergata con il sangue del giovane tribuno. La scena al Foro si apre con due cori contrapposti, quello dei plebei che piange la misera sorte di padre e figlia, e quello dei Littori che ricorda come la giustizia regni
in quel luogo e non vi è pianto o dolore che possa mutarne lʼesito. Appio pronuncia la sentenza: Virginia è figlia di schiavi, sottratta in casa di Marco dalla sposa di Virginio, per accudirla come figlia al posto di quella perduta da piccola. Virginio protesta e viene circondato dai Littori, mentre Marco e i suoi seguaci, chiamati come testimoni, giurano che si tratta della verità. Appio non ha dubbi, dichiara Virginia schiava di Marco: dovrà abbandonare la famiglia. La sentenza lascia tutti nello sgomento piú totale, mentre Virginio comincia ad accarezzare un tragico piano. Dichiara di non sapere con certezza se sua moglie gli abbia mentito, e chiede di poter abbracciare unʼultima volta la figlia. Appio, fregiandosi di magnanimità, permette al padre di salutare la figlia. Segue un duetto dʼaddio tra Virginio e Virginia, mentre Appio pregusta il suo trionfo. Quando i Littori intervengono per separare padre e figlia, Virginio affonda la sua lama nel petto di Virginia, la quale muore con la certezza di essere davvero sua figlia, e che non sarà mai schiava. Virginio maledice Appio con la lama insanguinata, ed immediatamente scoppia la rivolta popolare che segnerà il tramonto definitivo dellʼistituto decemvirale.
Il nodo dirimente di questo episodio storico-politico – che esercitò un ascendente cosí forte sul poeta astigiano – è chiaramente la rivolta popolare che chiude sia la tragedia che lʼopera. Tale sommossa non chiedeva infatti soltanto giustizia per la plebea Virginia, ma lʼintero sovvertimento di un ordine politico-istituzionale marcio e corrotto, che era prosperato a seguito della scellerata abolizione del tribunato. Lʼopera di Cammarano-Mercadante segue pressoché fedelmente la tragedia alfieriana, eliminando il personaggio della madre Numitoria e concentrando lo scontro in due opposte polarità: il tiranno Appio Claudio con le sue brame oligar chiche e i suoi appetiti sessuali, e il valore libertario incarnato dai due campioni della Repubblica, rispettivamente il padre e lo sposo di Virginia. La fanciulla, che non svolge alcun ruolo attivo nella vicenda, riveste dunque la funzione di vittima espiatoria, epicentro di uno scontro politico che la riguarda solo indirettamente. Senza dubbio, la scelta di questo soggetto negli anni piú caldi del Risorgimento non poteva incontrare lʼassenso della censura borbonica.
Eppure, lʼopera, non presentava alcun elemento sovversivo nel suo impianto drammaturgico tale da differenziarsi rispetto a lavori coevi o già presentati sulle scene dal medesimo sodalizio artistico. Cammarano stese infatti i tre atti con pedissequa attenzione nella distribuzione dei pezzi chiusi: due cavatine rispetti vamente per i personaggi di Appio e Virginia, un duetto padre-figlia e quello cano nico, dʼamore, tra la fanciulla e Icilio, e un ampio concertato alla fine del secondo atto, quando durante la cerimonia nuziale viene riportata da Marco la falsa notizia che Virginia non sia una donna libera, bensí figlia di schiavi. Il coro è presente in tutti gli atti, seguendo in questo lʼimpianto classicistico della tragedia alfieriana, ma non sempre dà voce al popolo romano tradito dai decemviri: il coro dei patrizi apre infatti lʼopera, mentre nella scena in tribunale che chiude lʼopera troviamo il coro dei plebei che oppone al diritto romano in materia di schiavitú il diritto
paterno, la pietà filiale, mentre il coro dei Littori ricorda come solo la giustizia abbia diritto allʼultima parola. A livello musicale Mercadante curò tutti i personaggi allo stesso modo, non differenziando a livello espressivo – con colorature, virtuosismi, ampiezza melodica – i membri del popolo da quelli dellʼoligarchia patrizia.
Per ragioni di spazio, ho deciso di limitare la mia analisi al personaggio di Appio, il crudele ed ambizioso capo dei magistrati romani: questo perché la sua figura dispotica si prestava ad una maggiore esposizione allʼocchio del censore, il cui principale obiettivo era limitare ogni possibile identificazione tra la monarchia borbonica regnante a Napoli e lʼuso spregiudicato e tirannico del potere da parte dellʼautorità – anche in remoti precedenti storici – per perseguire trame ed obiet tivi personali. Lʼopera, inoltre, si conclude con la supposta uccisione di Appio da parte dei plebei in rivolta, la quale, anche se non viene mostrata esplicitamente in scena, è facilmente presumibile: è dunque molto probabile che uno spettacolo culminante con un tirannicidio da parte del popolo, e con lʼesplicita richiesta di un cambiamento nellʼordine politico-istituzionale – e il ritorno, si badi bene, alle glorie della Repubblica contro ogni forma oligarchica di potere – venisse percepito come un pericolo troppo grande per gli equilibri dinastici del Regno di Napoli, a soli due anni di distanza dai moti del 1848 e dalla conseguente concessione degli Statuti. Per comprendere meglio come lʼantagonista della tragedia fosse stato tratteggiato dalla penna di Cammarano e dalla musica di Mercadante, può essere utile soffer marsi sulla cavatina di Appio, «Ah! tantʼoltre non credea», tratta dal monologo del decemviro che apre il secondo atto della Virginia di Alfieri. Riporto qui sia il testo del libretto che quello della tragedia:
VIrGINIA-CAmmArANo-merCAdANTe VIrGINIA AlFIerI (I/2) (II/1)Ah! tantʼoltre non credea Appio, che fai? Dʼamor tu insano?... Allʼalto Che il mio foco ormai giungesse! Desio di regno ignobil voglia accoppi Che unʼoscura e vil plebea Di donzella plebea?... Sí; Poi chʼellʼosa Trionfar di me potesse! Non sʼarrendere ai preghi, a forza trarla Oh! Che fia se ancor colei Ai voler miei, parte or mi fia di regno. Osa opporsi ai voti miei!... […] A me stesso tento invano Lʼonta mia dissimular… Questo amor mi rende insano!... Appio in me non so trovar.
Nella versione censurata – lʼopera composta per il Carnevale del 1850 – lʼaria presenta una scorrevole linearità melodica nella linea vocale, e una compiutezza formale sia a livello espressivo che fraseologico. La voce tenorile di Appio si estende in tutta la sua ampiezza, sia nel cantabile – in cui medita sullʼinsana passione nei
confronti della plebea che lo divora e consuma – che nella cabaletta.7 Lʼorchestrazione segue i princípi esposti nella già citata lettera allʼamico Florimo: una piccola progressione armonica affidata ai legni introduce il Cantabile, in cui Appio espone tutto il suo agitato stupore per un amore insano che lo avvinghia ad una plebea. Egli è pur sempre il capo dei Decemviri, e pertanto il monologo è strutturato in frasi regolari di quattro misure: il clarinetto e il flauto rinforzano la linea vocale, mentre il tumulto interiore che scuote il tiranno è simboleggiato dallʼincalzante formula dʼaccompagnamento degli archi, con i ribattuti delle quar tine di biscrome (vedi esempio musicale n. 1).
7 Nella cavatina di Appio sono davvero minime le modifiche apportate da Mercadante nel 1866. Egli mantenne immutata anche la conclusione ʼteatraleʼ della cabaletta – rigorosamente col «da capo», nonostante i proclami riformatori relativi allʼeliminazione di ogni elemento ʼtrivialeʼ in queste sezioni delle arie – con una cadenza evitata nelle battute finali [si tratta di una cadenza evitata su una dominante secondaria della dominante, vale a dire una settima dimi nuita sul quarto grado alterato (Re♯-Fa♯-La-Do) che spezza la cadenza perfetta V-I (Mi mag giore-La maggiore)]. È interessante notare, quindi, come questo numero non fu eliminato o stravolto nella riproposizione del titolo sulle scene napoletane.
Esempio musicale 1: «Ah! Tantʼoltre non credea», Virginia, I.2
Il dissidio di Appio raggiunge lʼapice nei versi del distico finale, in cui egli stenta a riconoscere sé stesso a causa di questo amore malsano. Il tormento di un uomo che alla sua prima apparizione in scena non presenta gli attributi musicali di un tiranno, quanto piuttosto quelli di un amante in ambasce, è espresso anche qui dalla progressione ascendente su ritmo puntato, rinforzata dai legni, che ha come contraltare il rapido disegno discendente degli archi scuri (vedi esempio musicale n. 2).
Esempio musicale 2: «Ah! Tantʼoltre non credea», Virginia, I.2
Alla luce di questi esempi mi sembra di poter affermare che nellʼaria di presen tazione di Appio né il contenuto dei versi, né tantomeno la musica composta per esaltare la figura negativa dellʼantagonista, presentavano un cosí alto ed evidente grado di infrazione stilistica da rendere inevitabile il ricorso alla censura. Né la scena si prestava a qualsivoglia lettura politico-propagandistica. Si tratta, invero, soltanto della prima apparizione del tiranno, e al centro della scena non vi sono – o meglio,
non vi sono soltanto – le sue ambiziose trame di potere sullʼUrbe, ma lʼossessione nei confronti di Virginia, e la rabbia per le sue sdegnose e continue resistenze.
Per comprendere altre possibili motivazioni alla base del provvedimento censorio, spostiamo lo sguardo al terzo atto dellʼopera: qui troviamo il serrato confronto tra Appio e Icilio, e di conseguenza la contrapposizione tra due opposte visioni di Roma, una tirannica e una libertaria. Tale duetto esponeva dunque lʼoperista altamurano ad un rischio elevato, poiché gli elementi scenico-musicali in gioco – linee vocali dei cantanti, sovrapposizioni, formule ritmiche, il ruolo timbrico dellʼorchestra, ma anche gestualità, mimica, movimento corporeo – avrebbero inevitabilmente stabilito una differenza tra i due interlocutori, pur senza voler dichiarare la propensione degli autori stessi verso il tribuno o il Decemviro. La censura borbonica non era di certo indulgente quando si trattava di spettacoli e rappresentazioni a cosí ampio impatto popolare e di rapida diffusione, pertanto la macchina censoria poteva intervenire anche per una sola scena, o per una frase eccessivamente ʼschierataʼ e pericolosa.
Allʼinizio del terzo atto, Appio ha convocato a sé il giovane Icilio – promesso sposo di Virginia – per eliminarlo dalla circolazione, con il pretesto di spedirlo in guerra. Icilio disvela immediatamente lʼinganno, opponendo il suo valore alle meschine macchinazioni di Appio. Un accompagnamento scarno ed essenziale, quasi fune reo, sostiene la medesima linea vocale, articolata in brevi semifrasi. Quando Icilio risponde ad Appio, la simbiosi tra i due personaggi appare completa sia dal punto di vista drammatico che sotto lʼaspetto musicale. Il duetto si presenta fraseologi camente identico nel botta e risposta dei due antagonisti, non producendo alcuna frattura armonica o ritmica – Appio non scardina né la pulsazione fondamentale, né il movimento armonico del canto di Icilio – neanche nei rari momenti di sovrap posizione (vedi esempi musicali 3-4).
Esempio musicale 3: Duetto Appio-Icilio, Virginia, III.2
Esempio musicale 4: Duetto Appio-Icilio, Virginia, III.2
Mi sembra dunque lecito affermare, nel caso di Virginia, che la censura borbonica non sia legata in alcun modo ad elementi di autorialità. Non era intenzione né del librettista né del compositore creare un ʼdoppioʼ teatrale dei moti risorgimentali del 1848 nella loro tragedia lirica. Tuttavia, un Mercadante ʼpoliticoʼ esiste eccome, ma va appunto inserito nel piú ampio quadro storico-istituzionale di questi anni. Se di fatto neanche il censore piú intransigente poteva cogliere nella figura di Appio Claudio un riferimento allʼautoritarismo di Ferdinando II di Borbone, la figura
di Icilio, magistrato democratico, poteva invece alludere ad un personaggio cruciale nella storia risorgimentale napoletana, quella del riformatore e poi rivoluzionario Aurelio Saliceti (1804-1862).8 Figlio di un magistrato con note simpatie mazziniane, Aurelio seguí le orme del padre, divenendo avvocato e occupando la cattedra di diritto allʼuniversità di Napoli dal 1836 al 1848. Come già evidenziato da Giuseppe Foscari, la professione di studioso e docente di diritto portò inevitabilmente Saliceti ad occuparsi della possibile evoluzione costituzionale della monarchia borbonica. Il 29 gennaio 1848, poche settimane dopo lo scoppio della rivolta palermitana capeg giata da Rosolino Pilo – iniziata il 12 gennaio 1848, la prima scintilla di un incendio che sarebbe divampato in quellʼanno cruciale – lʼatto sovrano di Ferdinando II concesse la Costituzione, stabilendone le basi e promulgandola concretamente il 10 di febbraio.
Riporto qui soltanto alcuni stralci, che possono essere utili alla nostra riflessione, tratti dalle «Disposizioni Generali» e dalla sezione relativa alla nuova Camera dei Pari, una delle due nuove assemblee legislative del Regno, insieme alla Camera dei Deputati:
Disposizioni generali:
Art. 1 – Il reame delle Due Sicilie verrà dʼoggi innanzi retto da temperata monarchia ereditaria costituzionale sotto forme rappresentative.
Art. 2 – La circoscrizione territoriale del reame rimane qual trovasi attualmente stabilita; e non potrà in seguito apportarvisi alcun cangiamento se non in forza di una legge.
Art. 3 – Lʼunica religione dello stato sarà sempre la cristiana cattolica apostolica romana, senza che possa mai essere permesso lʼesercizio di alcunʼaltra religione.
Art. 4 – Il potere legislativo risiede complessivamente nel re, ed in un parlamento nazionale, composto di due camere, lʼuna di pari, lʼaltra di deputati.
Art. 5 – Il potere esecutivo appartiene esclusivamente al re. Art. 6 – Lʼiniziativa per la proposizione delle leggi si appartiene indistintamente al re, ed a ciascuna delle due camere legislative. […]
8 Giurista, magistrato, costituente, politico, ma anche letterato e scrittore, la figura di Aurelio Saliceti attraversa come un filo rosso il dibattito politico-istituzionale attorno alle forme e alle sorti della monarchia borbonica nel biennio caldo 1848-1850. Riformatore radicale, sosteni tore delle piú avanzate istanze liberali, Saliceti fu funzionario e ministro inizialmente molto vicino alla figura del Re; fuggito da Napoli anche per timori legati alla propria incolumità, incrociò le sorti del Triumvirato mazziniano che stava dando vita allʼesperimento repubbli cano nella capitale pontificia. Sulla figura di Saliceti si vedano: AurelIo SAlICeTI, Scritti editi e inediti. Il costituente, il politico, a cura di Primo Di Attilio, Roma, Edizioni Spes, 2004; AlFoNSo SCIroCCo, Aurelio Saliceti da Teramo a Napoli, da avvocato a ministro, «Clio» XXV/1, 1989, pp. 123-146; GIuSeppe FoSCArI, Aurelio Saliceti: funzionario e ʼrivoluzionarioʼ?, in Stato e Società nel Regno delle due Sicilie alla vigilia del 1848: personaggi e problemi, a cura di Renata De Lorenzo, Napoli, Arte Tipografica, 2001, pp. 193-233.
Capo II Camera deʼ Pari
Art. 43 – I pari sono eletti a vita dal re, il quale nomina fra i pari medesimi il presidente ed il vice-presidente della camera, per quel tempo che giudica opportuno.
Art. 44 – Il numero deʼ pari è illimitato.
Art. 45 – Per esser pari si richiede aver la qualità di cittadino e lʼetà compiuta di trentʼanni.
Art. 46 – I principi del sangue sono pari di diritto, e prendono posto immediatamente appresso il presidente. Essi possono entrare nella camera alla età di anni venticinque, ma non dare voto che allʼetà compiuta di trentʼanni. […] Art. 48 – La camera deʼ pari si costituisce in alta corte di giustizia per conoscere dei reati di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello stato, di cui possano essere imputati i componenti di ambedue le camere legislative. […].9
Saliceti venne nominato Intendente della provincia di Salerno quasi contestual mente alla concessione dello Statuto, e tale scelta fu avallata da Ferdinando in persona, per inviare in provincia autorevoli sostenitori del progetto costituzionale. A questʼaltezza cronologica, Saliceti era un convinto realista e sostenitore del prin cipio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; egli non avrebbe potuto immaginare che di lí a pochi mesi, con il pretesto dei gravi tumulti e della rivolta cittadina del 15 maggio 1848 – data in cui si sarebbe dovuto inaugurare il nuovo Parlamento – con uno squallido voltafaccia il monarca avrebbe sciolto la Camera dei Deputati e indetto nuove elezioni. Si trattò di fatto di una manovra dispotica per bloccare lʼesperimento costituzionale e ripristinare il governo assoluto: alla vigilia dellʼinsediamento del Parlamento, il sovrano aveva anche provveduto alla nomina di cinquanta membri della Camera dei Pari, la quale, assieme alla formula di giu ramento imposta ai deputati, fu causa del malcontento popolare e delle agitazioni di piazza.10 Nei pochi mesi intercorsi tra la promulgazione della Costituzione e la rivolta di maggio, Saliceti fece in tempo a diventare ministro della Giustizia nel secondo governo del duca di Serracapriola, venendo però subito allontanato per le sue posizioni radicali.
I liberali piú avanzati – nelle cui fila egli si ascriveva – intendevano infatti provare a limitare i poteri del sovrano, battendosi per lʼabolizione della Camera dei Pari. Come riportato sopra, la Costituzione prevedeva che i membri di questa assemblea fossero eletti dal Re, e scelti tra i segmenti sociali, professionali e militari, tradizio nalmente piú fedeli al sovrano. Saliceti fu tra i piú attivi a proporre lʼabolizione di questa istituzione. Il suo programma politico, proposto al governo presieduto da Carlo Troya – che sarebbe caduto il 15 maggio – frutto di un compromesso tra le posizioni repubblicane piú radicali e le tendenze piú moderate che non intendevano
9 Costituzione del Regno delle due Sicilie, Napoli, 10 febbraio 1848.
10 Su questo vedi FoSCArI, Aurelio Saliceti: funzionario e ʼrivoluzionarioʼ? cit., pp. 223-227.
rinunciare in toto allʼistituto monarchico, prevedeva misure quali il suffragio univer sale e i pieni poteri alla Camera dei Deputati, abolendo unʼistituzione considerata antidemocratica, conservatrice e lontana dalle esigenze popolari.
La fine di questo ambizioso programma politico è purtroppo nota: il magi strato democratico, lʼacuto riformatore che riteneva possibile la trasformazione dellʼordinamento istituzionale senza dover per forza ricorrere alle violenze di piazza, in seguito ai fatti del 15 maggio prese la via dellʼesilio; quel giorno, inoltre, scampò a ben tre attentati, poiché si diffuse la voce che la sua testa sarebbe stata un gradito omaggio per il Re borbonico. Temendo quindi anche per la propria vita, Saliceti giunse a Roma, appena in tempo per coadiuvare lʼesperimento della Repubblica Romana grazie alle competenze giuridiche e allʼesperienza politica accumulata a Napoli.
Il tentativo di abolizione della Camera dei Pari da parte di un magistrato vicino al popolo credo si inserisca perfettamente in un orizzonte analogico, o quantomeno pertinente con le vicende del crollo del Decemvirato allʼepoca di Appio Claudio. La corrispondenza tra i rivoluzionari coevi, come Saliceti, e quelli di ieri, come il tribuno Icilio, era assai piú pericolosa di ogni adesione stilistica o drammatur gica allʼideologia alfieriana. È possibile che i fatti del maggio 1848 – e la battaglia riformatrice di un ex ministro della Giustizia del Regno di Napoli – fossero ancora cosí freschi nella memoria collettiva da far scattare il provvedimento censorio nei confronti dellʼopera di Mercadante? Non possiamo avere una risposta certa, questo è ovvio, tuttavia il quadro storico-politico in cui ambedue gli episodi si inseriscono presenta notevoli continuità e somiglianze.
Lʼesperienza della Repubblica Romana ci porta inoltre ad unʼultima riflessione, con la quale vorrei concludere il mio ragionamento. Comʼè noto, lʼopera che battezzò lʼesperienza mazziniana nella città capitolina fu La Battaglia di Legnano, andata in scena il 27 gennaio del 1849 al Teatro Argentina su versi di Cammarano e musica di Giuseppe Verdi. Sin dalla rivoluzione di primavera, Verdi aveva meditato su un soggetto operistico che presentasse la figura di un ʼtribuno dʼItaliaʼ, interessandosi alla vicenda di Cola di Rienzo; la scelta ricadde poi sulla Lega Lombarda e la scon fitta di Federico Barbarossa nel 1175.
Cosa sarebbe accaduto se il librettista napoletano avesse proposto a Verdi – e non a Mercadante – la storia della plebea Virginia, da rappresentarsi per di piú nella città romana, festeggiando la nascita di una nuova Repubblica? Uno studioso francese di fantasaggistica, Pierre Bayard, qualche anno fa ha pubblicato un libro dal titolo Et si le œuvres changeaient dʼauteur?.11 La tesi alla base del libro è indagare cosa accadrebbe attribuendo unʼopera – e il suo intero portato storico-artistico – ad un autore diverso, esplorando nuovi itinerari di ricerca. Egli propone diversi esempi,
11
Cfr. pIerre BAyArd, Et si le œuvres changeaient dʼauteur?, Paris, Les Éditions de Minuit, 2010. Devo il suggerimento di questa lettura al collega Tommaso Sabbatini, che ne ha parlato in un suo recente contributo relativo al Mefistofele di Arrigo Boito letto come opera francese.
come Via col vento di Lev Tolstoj, o la Corazzata Potëmkin di Alfred Hitchcock. Cosa sarebbe dunque accaduto se Cammarano avesse invertito le collaborazioni, scam biando i libretti approntati per i due compositori?
Mercadante non avrebbe incontrato grandi difficoltà nellʼadattare la tragedia del poeta francese Joseph Méry, fonte della Battaglia di Legnano, ponendo in evi denza il triangolo amoroso che lega i due amici combattenti per la medesima causa alla donna che entrambi hanno amato. Lʼimpianto formale dellʼopera, denso di duetti, terzetti, concertati in finale dʼatto, avrebbe garantito allʼoperista altamu rano un largo impiego delle masse corali, della tavolozza timbrica dellʼorchestra, e ovviamente di raffinate linee vocali, piú coincise, aderenti alla verità drammatica, secondo i dettàmi dellʼormai celebre ʼriformaʼ. Le vicende storiche della vittoriosa Lega Lombarda avrebbero probabilmente messo in allarme la censura borbonica, eppure anche nelle aree piú moderate del governo di Ferdinando II si parlava da tempo della necessità di allearsi al Piemonte contro lʼinvasore straniero. Il sovrano non avrebbe potuto leggere la sconfitta di Federico Barbarossa – ad opera di un popolo unito contro un invasore, e non contro un monarca – come un pericoloso riferimento al necessario cambio di passo politico-istituzionale.
Il libretto di Virginia nelle mani di Verdi, dʼaltro canto, sarebbe divenuto un gio iello di rara bellezza; del resto, lo è anche La Battaglia di Legnano, pur cosí raramente eseguita nei teatri italiani e non solo. Il mito della fanciulla sacrificata dal padre, come ultimo tributo da pagare alla libertà repubblicana, sarebbe stato accolto da un vero e proprio trionfo, in una città che stava diventando il laboratorio politico di una delle Costituzioni piú avanzate dʼEuropa. Mercadante si sarebbe dunque cimentato in una diversa prova operistica, costretto ugualmente – in virtú del sog getto rappresentato – alla misurazione della sua temperatura ʼpoliticaʼ; avrebbe forse evitato la censura, e la messinscena napoletana della Battaglia di Legnano avrebbe molto probabilmente innescato una riedizione dei moti del 15 maggio 1848.
A Roma, dʼaltro canto, il futuro collaboratore del Triumvirato, il giurista e rivolu zionario Aurelio Saliceti, in esilio da Napoli, si sarebbe accomodato in un palchetto del Teatro Argentina, per godersi uno dei piú emblematici – seppur dimenticati –melodrammi italiani del Risorgimento.
Paologiovanni Maione
Da Vienna a Napoli: da Il podestà di Burgos a Il signore del villaggio
Nel panorama europeo della prima metà dellʼOttocento si assiste a una riformula zione dellʼindustria teatrale costretta a rivedere lʼorganizzazione dellʼofferta spet tacolare in virtú di un mercato ormai diventato esigente e bulimico.1 A dettare le regole e a costruire una nuova idea della macchina “ludica” è Domenico Barbaja che dalla sua specola partenopea gestisce con disinvoltura una fitto commercio “ope ristico” in uno scacchiere internazionale ancora tutto da svelare: il suo ascendente sulle sorti delle scene musicali, da Lisbona a San Pietroburgo, resta sorprendente quanto inquietante. Non sempre lʼimprenditore, milanese di nascita ma napoletano di elezione, compare in prima persona nei traffici delle maestranze e dei repertori o nelle gestioni delle sale nazionali e dʼoltralpe.2
Spesso, questi uffici, sono affidati a valenti emissari come nel caso della direzione del Kärntnertortheater di Vienna dove la sua ingerenza “segreta” è ad appannaggio, dopo il periodo 1821-25 retto in prima persona, di Luigi Duport (1825-28), Wenzel Robert von Gallenberg (1828-30) e infine di nuovo di Duport dal 1830 al ʼ36.3 La sua longa manus si proietta comunque ben oltre le fasi in cui è possibile certificare il suo lungo impero, periodo durante il quale promosse sia i propri affiliati – basta pensare
1
2
Un panorama del fenomeno è offerto da JoHN roSSellI, Lʼimpresario dʼopera, Torino, edT, 1985.
Per la figura di Domenico Barbaja si vedano pAoloGIoVANNI mAIoNe - FrANCeSCA Seller, I Reali Teatri di Napoli nella prima metà dellʼOttocento. Studi su Domenico Barbaja, Bellona (Ce), Santabarbara, 1995; Idd., Lʼultima stagione napoletana di Domenico Barbaja (1836-1840): orga nizzazione e spettacolo, «Rivista Italiana di Musicologia» XXVII/1-2, 1992, pp. 257-325; Idd., Domenico Barbaja a Napoli (1809-1840): meccanismi di gestione teatrale, in Gioachino Rossini 1792-1992 il testo e la scena, a cura di Paolo Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini Pesaro, 1994, pp. 403-429; Idd., Gioco dʼazzardo e teatro a Napoli dallʼetà napoleonica alla Restaurazione bor bonica, «Musica/Realtà» aprile 1994, pp. 23-40; Idd., Da Napoli a Vienna: Barbaja e lʼesportazione di un nuovo modello impresariale, «Römische Historische Mitteilungen» 44, 2002, pp. 493-508; pHIlIp eISeNBeISS, Domenico Barbaja. Il padrino del belcanto, Torino, edT, 2015.
3 Cfr. mAIoNe - Seller, Da Napoli a Vienna cit.
alla trionfale “invasione” della compagnia sancarliana capeggiata dallʼabbagliante astro di Rossini –4 che le eccellenze “locali” come Carl Maria von Weber, che nel ʼ23 scrisse per lʼimpresa di Barbaja lʼEuryanthe, o Franz Schubert, che nello stesso anno compose Fierrabras. 5
Nel 1822, dopo la partenza del pesarese con le gloriose stelle della sua lunga stagione partenopea, Barbaja affidò al giovane Mercadante il ruolo di compositore del teatro, onere sino a quella altezza affidato a Gioachino Rossini: un compito non irrilevante e di grande responsabilità che lo porta, dopo pochi anni dal suo debutto nel Massimo cittadino, ad assumere una carica prestigiosa.6 In effetti il giovane pugliese già da tempo aveva ottenuto ampi consensi negli ambienti musicali e il suo debutto sulla maggiore scena capitolina, nel 1818 nel genere coreutico, aveva destato lʼinteresse della stampa che aveva sottolineato che la «musica piena di verità, di estro» del «primo allievo del nostro Real Collegio di Musica» era «scritta con parità di stile e con sobrietà di ornamenti» che “accrescevano” «i pregi di que sto Flauto magico» o sia le Convulsioni Musicali – balletto in un atto di Salvatore Taglioni – e facevano «desiderare che il giovine autore, abbandonando le sterili sinfonie» producesse «piú splendidi saggi del suo ingegno con musiche vocali».7
Con Lʼapoteosi di Ercole su libretto di Giovanni Schmidt, rappresentato il 19 agosto del 1819, Mercadante conquistò il pubblico sancarliano in una serata di gala che si rivelò propizia per il talentuoso allievo del Collegio di Musica di San Sebastiano:
La direzione deʼ Reali Teatri avea destinata per iersera la prima rappresentazione dellʼApoteosi di Ercole, composizione del maestro Mercadante, alunno del Real Collegio di Musica. La scelta non potea essere né piú felice, né piú opportuna. Mercadante, in giovine età, unisce forza dʼingegno, sapere, gusto, immaginazione, e quellʼarte la quale è frutto di lungo esercizio e di profondo studio deʼ classici. Nudrito alla scuola di questi, egli compí iersera le speranza che avea fatto concepire fin da quando cominciò a farsi conoscere con le sue musiche strumentali. […] Oggi ci limiteremo a congratularci col nostro Real Collegio di Musica, perché ci dona per la prima volta un allievo, il quale ci rammemora le glorie degli antichi nostri Conservatorii di Musica8 .
4
5
Cfr. ClAudIo VelluTINI, Rossiniʼs operas in Vienna and the politics of translation, 1816-1822, in Gioacchino Rossini 1868-2018. La musica e il mondo, a cura di Ilaria Narici, Emilio Sala, Ema nuele Senici e Benjamin Walton, Pesaro, Fondazione G. Rossini, 2018, pp. 337-356.
Cfr. mAIoNe - Seller, Da Napoli a Vienna cit., passim; FrANZ HAdAmoVSky, Wien: Theaterge schichte, Wien, Dachsverlag, 2. Auflage, 1994, pp. 343-344; ClemeNS HÖSlINGer, Geschichte der Oper in Wien, a cura di Dominique Meyer et al., 2 voll., Wien, Molden Verlag, 2019, I, p. 212.
6 Si veda a tal proposito SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia epistolario, Fasano, Schena Editore, 1985, p. 18.
7
8
«Giornale del Regno delle Due Sicilie» 277, 20 novembre 1818.
«Giornale del Regno delle Due Sicilie» 198, 20 agosto 1819.
La mansione di compositore del teatro comportava varie incombenze come quella di accomodare le partiture preesistenti alle necessità delle maestranze impe gnate nonché alle esigenze della platea cittadina, ormai i cartelloni presentavano, oltre le produzioni commissionate, opere inedite per la piazza, ma che avevano ottenuto ampio consenso altrove, e partiture ormai care agli ascoltatori. Non man cava di occuparsi anche della confezione delle musiche per i balli, altra voce non secondaria nellʼofferta teatrale ottocentesca.9
A favorirlo nel nuovo incarico erano stati i successi ottenuti nei teatri italiani, gli impegni bolognesi, romani, veneziani, milanesi, torinesi erano stati il giusto viatico per assurgere a un ruolo di tutto rispetto ma soprattutto a entrare nellʼentourage di un raffinato uomo dʼaffari.10 Quando nel ʼ24 Barbaja decise di non rinnovare il suo contratto con i Reali Teatri di Napoli, in virtú di una serie di nuove ordinanze che vietavano tra lʼaltro la pratica del gioco dʼazzardo nel ridotto sancarliano, immaginò di spostare i suoi interessi nella capitale dellʼimpero asburgico portando con sé il promettente musicista.11
A Vienna, il compositore di Altamura, diresse nel giugno del ʼ24 lʼopera Elisa e Claudio e fu invitato a scrivere le opere Doralice, Le nozze di Telemaco ed Antilope e Il podestà di Burgos rappresentate rispettivamente il 18 settembre e il 5 e 20 novem bre.12 Questʼultima fu accolta tiepidamente mentre le altre due non ebbero lʼesito sperato13 e Barbaja lʼanno successivo decise di allestire a Napoli il «melodramma giocoso», su testo di Calisto Bassi, contando sulla presenza di due celebri cantanti, la Joséphine Fodor-Mainvielle e Luigi Lablache, che lʼavevano tenuto a battesimo:
9 Per le incombenze gestionali si rinvia a pAoloGIoVANNI mAIoNe - FrANCeSCA Seller, Uno spettacolo a misura dei tempi: Barbaja reinventa il teatro, in Napoli e Rossini: «Di questa luce un raggio», in Rossini & Napoli: di questa luce un raggio, a cura di Antonio Caroccia, Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione, Napoli, Edizioni San Pietro a Majella, 2020, pp. 63-72.
10
Cfr. pAlermo, Saverio Mercadante cit., pp. 15-18. Per il profilo mercadantiano si veda anche CArlIdA STeFFAN, Mercadante, Saverio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 73 (2009), <https://www.treccani.it/enciclopedia/saverio-mercadante_(Dizionario-Biografico)> (ultima consultazione 12 aprile 2021) e SANTo pAlermo - domeNICo deNorA, Saverio Mercadante. Biografia, Fasano, Schena Editore, 2014.
11 Cfr. mAIoNe - Seller, Da Napoli a Vienna cit., pp. 493-508.
12 Cfr. pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 19.
13 Su questa stagione si veda il contributo di Livio Marcaletti in questo volume.
D. Agapito Corcillo, podestà di Burgos. E zio di.
Signor Bassi. Angelica promessa sposa a Signora Fodor-Mainvielle.
D. Panfilio Vildrega, Cancelliere. Signor Ambrogi. Edoardo de Isunza, amante segreto dʼAngelica.
Signor Rubini. Sinforiano, Segretario di D. Agapito. Signor Lablache.
Rebecca, cameriera dʼAngelica. Signora Unger.
Tiburzio, Lacché del Podestà. Signor Di Franco.
ATTorI.15
d. AGApITo CorCIllo, signore di un villaggio, e zio di signor Casaccia. ANGelICA, promessa sposa a Signora Fodor Mainvielle. d pANFIlIo, Cancelliere, Signor Fioravanti. edoArdo, amante segreto di Angelica, Signor Monelli. SINForIANo, segretario di D. Agapito, Signor Lablache. TIBurZIo, lacché di D. Agapito, Signor Pace. reBeCCA, cameriera di Angelica, Signora Manzocchi.
Nel prospetto dʼappalto lʼopera in causa veniva denominata con il suo titolo viennese:
Napoli = Lʼamministrazione dei reali teatri pubblica un Prospetto di appalto pel real teatro del Fondo, di trenta rap presentazioni dʼopere e balli, da incominciare dopo decorsi i giorni della presente chiusura de teatri, e da darsi non meno di due in ogni settimana, salvo qualche caso impreveduto. Le opere promesse sono: Il podestà di Burgos, opera nuova per Napoli, musica del maestro Mercadante; Il matrimonio segreto del Cimarosa; Il barbiere di Siviglia, del maestro Rossini; Amor tutto vince, del maestro Guglielmi; ed unʼOpera nuova in un atto del maestro Kreutzer. In esse canteranno le signore Fodor, Tosi e Unger; e i signori David, Monelli, Lablache, Fioravanti e Casaccia. La signora Fodor canterà essenzialmente nei tre primi spartiti. I balli saranno: Le amazzoni, ballo in tre atti del signor Henry;
14 Cfr. Il podeSTà dI BurGoS. | melodrAmmA GIoCoSo. | poeSIA | dI CAlISTo BASSI. | muSICA | dI SAVerIo merCAdANTe | VIeNNA 1825. | Presso Giov. Batta. Wallishausser. Il libretto vien nese è visibile al link <http://digital.onb.ac.at/OnbViewer/viewer.faces?doc=ABO_%2BZ227865309> (ultima con sultazione 12 aprile 2021).
15 Cfr. Il SIGNore | del VIllAGGIo | melo-drAmmA GIoCoSo | dA rAppreSeNTArSI | Nel r.l TeATro del FoNdo | La Primavera del corrente | anno 1825. | NApolI | dAllA TIpoGrAFIA FlAuTINA, | 1825. Il libretto napoletano è visibile al link <http://corago.unibo.it/esempla re/0000552618/0000504751> (ultima consultazione 12 aprile 2021).
e un ballo nuovo del signor Hus. In essi agiranno tutte le signore ballerine e i signori ballerini deʼ reali teatri.16
In corso dʼopera si rese necessario cambiare il titolo e adeguare lʼazione alle modalità del genere buffo napoletano. Nella capitale borbonica lʼofferta comica prevedeva due strutture: una era scandita da recitativi parlati – ed era praticata in tutti i teatri cittadini come il Nuovo, i Fiorentini, la Fenice – lʼaltra prevedeva invece i recitativi cantati ed era agita esclusivamente nei teatri reali – San Carlo e Fondo (lʼattuale Mercadante).17 In ambedue si annoverava la presenza di alcuni personaggi buffi che si esprimevano in napoletano, ruoli affidati a professionisti del genere come i Casaccia o i Luzio. Queste due categorie erano adoperate da lungo tempo sulle tavole partenopee e non solo dagli inizi dellʼOttocento e pertanto il Podestà di Burgos, dovendo comparire al Fondo, necessitava di quelle modifiche in grado di renderlo idoneo al gusto del pubblico. Si rammenta che qualsiasi titolo comico importato veniva sottoposto a queste modifiche, ad esempio le opere buffe ros siniane erano stravolte con lʼintroduzione dei recitativi parlati e la traduzione di alcune parti nella “lingua nazionale” mentre erano salvaguardati i recitativi cantati solo quando offerte nelle sale maggiori.18
Il libretto di Bassi, incentrato su unʼesile trama costruita su ingranaggi seriali, racconta la “solita storia” della giovane ragazza, innamorata segretamente, costretta dallʼautorità paterna a compiere il grande passo con un uomo, da lui scelto, che non incontra il consenso della fanciulla. Intorno a questo plot si costruiscono una serie di azioni con lettere intercettate e missive finte che cercano di stravolgere lʼazione gettando dubbi e ombre sulla condotta dello sposo imposto.
Nellʼorbita della bella Angelica si succedono contrastanti episodi allʼinsegna di fiducia malriposta o di vessazioni insopportabili, come da copione lʼamorosa conosce
16
«Teatri Arti e Letteratura» 56, 19 maggio 1825.
17 Si vedano pAoloGIoVANNI mAIoNe, Pulcinella in musica nellʼOttocento napoletano, in Quante storie per Pulcinella / Combien dʼhistoires pour Polichinelle, a cura di Franco Carmelo Greco, Napoli, eSI, 1988, pp. 143-186; Id., Lʼopera buffa con Pulcinella in età borbonica, in Pulcinella: una maschera tra gli specchi, a cura di Franco Carmelo Greco, Napoli, eSI, 1990, pp. 391-426; Id., La drammaturgia minore di Andrea Leone Tottola: recupero di una identità teatrale parteno pea, in Festival Belliniano 1992, Catania, Teatro Bellini, 1992, pp. 51-63; Id., Adelaide e Comingio: vicissitudini di unʼidea teatrale, in Lʼofficina del teatro europeo, a cura di Alessandro Grilli e Anita Simon, 2 voll., Pisa, Edizioni Plus, 2001, II (Il teatro musicale), pp. 13-31; ArNold JACoBSHA GeN, The origins of the recitativi in prosa in Neapolitan opera, «Acta musicologica» lXXIV/2, 2002, pp. 107-128 e mArCo mArICA, La prima versione dellʼ“Adelson e Salvini” e la tradizione napoletana dellʼopera buffa ʼalla franceseʼ, in Vincenzo Bellini nel secondo centenario della nasci ta, a cura di Graziella Seminara e Anna Tedesco, 2 tt., Firenze, Olschki, 2004, I, pp. 77-95.
18 Cfr. almeno pASQuAle pIroNTI, Il “Barbiere di Siviglia” in dialetto napoletano, Napoli, Pironti, 1974; GIoACHINo roSSINI, La gazzetta, a cura di Philip Gossett e Fabrizio Scipioni, Pesaro, Fondazione Rossini, 2002 e Id., Il barbiere di Siviglia, a cura di Patricia B. Brauner, Kassel, Bärenreiter, 2008.
le proprie tecniche “performative” e le adopera copiosamente sia nel tratteggiare il proprio animo, aggiornato al nuovo sentire, sia nellʼescogitare un piano strategico finalizzato a far cascare i suoi interlocutori. Lentamente acquista i favori del parvenu Sinforiano, attaché del “podestà” e poi del “signore del villaggio”, facendone un valido alleato non privo di ombre tese a favorire soprattutto sé stesso. Angelica da subito, appresa la decisione paterna, mostra il proprio essere sciorinando tratti caratteriali poco docili:
Lʼha sbagliata il signor zio Voglio un uomo a modo mio, E il marito che ha trovato Può tenerselo per sé.
Fosse un Principe, un Visconte
Un Marchese, un Duca, un Conte: Quellʼoggetto io sposar voglio
A cui diedi la mia fé; Ma se quindi Sinforiano
Fosse ingiusto... oh Dio!.. con me?
Pria cerco vincerlo Colle preghiere: Poi saprò coglierlo Colle maniere
Lʼarte di femmina Mʼasisterà.
Con quattro lagrime, Con due smorfiette, Lo vedrò cedere, Cascar dovrà. (I.5, Vienna e Napoli)
Non mancano i cedimenti allorquando sembra ormai persa nelle spire della decisione paterna, è qui che viene fuori lʼanimo sensibile proiettato in spossatezze ormai registrate dalle cartelle cliniche ottocentesche, il preludio a un delirio senza scampo si annuncia al cospetto delle compassionevoli “amiche”:
ANGelICA Invan mi lusingate – io piú speranza
Di vederlo non ho! – Crudel destino
A me lo toglie, ed io misera intanto Verso dal ciglio infruttuoso il pianto. Edoardo mio bene... Ah se tu serbi;
Per me nel seno, un qualche affetto ancora E se a pietà ti muove
Il dolente mio cor dal fato oppresso
Vieni a darmi o ben mio lʼestremo amplesso!
Vieni bellʼidol mio, A confortar questʼalma: La sospirata calma Deh tu ritorna al cor.
Vieni ed in queste braccia Cauto ti guidi amor.
Coro. Spera; che i nostri mali
Fa impietosire (NA: Rendon pietoso) amor.
ANGelICA. Se di speme un raggio amico, Mi sorride in tal momento:
Pari, o cielo, al mio contento Non può unʼanima gustar. Ah che angusto il cor mi balza Per la gioia non attesa; E dʼamor questʼalma accesa Non può lʼestasi calmar.
Coro. Spera; che i nostri mali. Fa impietosire (NA: Rendon pietoso) amor. (Tutte partono.) (Vienna I.12 - Napoli I.6)
La successione di situazioni “amorose” è incorniciata in una quotidianità di anime semplici la cui condotta sconfina spesso in eccessi risibili, Bassi non va oltre un tenue “sorriso” tratteggiando timidamente il buffo Agapito che solo a Napoli riesce a mostrare la propria vervé grazie ai “numeri” di Casaccia: per lʼartista, il librettista chiamato a tradurre le parti in italiano in napoletano costruisce anche dei nuovi recitativi tesi a mettere in mostra il grande talento dellʼattore-cantante. La traduzione napoletana è abbastanza attenta a restituire il senso letterario e la costruzione metrica finalizzate a combaciare con la musica originaria:
Vienna
AGApITo.
Perdonate mio buon cancelliere
Se vi feci aspettare alcun poco; Ma i digesti, le leggi, il dovere
Tanti impegni, gli affari del loco...
Già ognun sa, che pel mio vassalaggio
Io tralascio persin da mangiar Caro amico chi veste una carica
Sotto quella si dee sprofondar.
Napoli
AGApITo.
Me scusate, mio buon Cancelliere, Si mʼho fatto aspettare no poco: Io mʼaccido pè fa il mio dovere
Le facenne, lʼaffare del luoco... Già se sa, che pel mio vassallaggio
Io non penzo a dormire, e a magnà. Caro amico, chi nasce signore, Dal dovere se fa scamazzà.
Molto spesso si scosta dal tessuto narrativo viennese per dar libero spazio a numeri piú vivaci, ad esempio, nella scena del contratto da stipulare per le nozze, Agapito interpola la scena con un lazzo sulla discendenza che gli deve assicurare Panfilio, una clausola che lo obbliga a dargli un nipote nel giro di nove mesi:
Vienna Napoli
Scena VIII. Agapito e Panfilio.
Agapito. Tutto abbiam combinato. Panfilio. Cinquanta mila duri, ed alla morte...
Agapito. Che spero non verrà cosí per tempo, Tutti avrete i miei beni. Panfilio. Con Angelica adesso come fare?
Agapito. Bisognerà, lo sposo palesare. Panfilio. Ma politica, prego.
Agapito. Eh!... in questi affari So ben io che si fa; ma voi frattanto Convien che andiate a porvi in eleganza! Panfilio. Oh! il sono a sufficienza; E poi... qui in confidenza Non tengo altri vestiti Che piú lordi di questo, e piú sdrusciti. Agapito. (Viva la guardarobbe!) La toga per lo men cancelleresca Indossarvi dovete!
Panfilio. E voi cosí credete, Che far breccia io potrò?
Agapito. Senza alcun dubbio, Vi vuol dellʼillusione in un connubbio! Panfilio. Vado, e torno in un ora.
Agapito. Andate dunque e lavatevi bene; Che vi voʼ presentar come conviene. (parte)
Panfilio. Cinquanta mila duri in buon contante, E alla morte del vecchio Tutti i stabili, i mobili col resto
Scena VIII. Agapito e Panfilio. Agapito. Te pozzo dà no vaso, Moʼ che il niozio avimmo combinato? Panfilio. Quanti baci volete: ma intendiamoci, CINQuANTAmIlA scudi alla nipote In dote assegnerete? Agapito. E quanta vote? Panfilio. E allor che creperete... Agapito. A cca a cientʼanne! Panfilio. (Vorrei, che succedesse fra tre giorni!) Agapito. I miei stabili, mobili, Quadrupedi, bestiami, e semoventi Tutte jarranno a te. Panfilio. (Che bellʼaffare!) Agapito. Ma doppo nove mise Mʼaje da sbuccià un rampollo bello assaje, Degno del sangue mio, E della dotta lopa de zizio. Panfilio. Or convien che ad Angelica Il tutto si palesi Agapito. Ce penzo io: La voglio fa abballà pe lo piacere! Viʼ ca la poverella Sʼera stracquata de restà zetella Frattanto nguarnascione va te miette; Ca te voglio ammorbare de confiette. Panfilio. Questa pompa a che serve? E poi... qui... in confidenza,
Verranno a me... che negozione è questo! (parte)
Non tengo altri vestiti, Che piú lordi di questo, e piú sdruciti. Agapito. (No... lʼamico sta bene equipaggiato!)
La persiana almen cancellaresca Te potarrisse mettere. Panfilio. Credete, Che sembrerò piú bello? Agapito. Cchiú bello no, ma un poʼ chiú ripulito, Pararraje no mandrillo ben vestito... Panfilio. Vado e torno in un ora. Agapito. E io tʼaspetto, Mo vaco da nepotema de lotto; E sentennose sposa a chisto fusto, Na goccia ha di afferrarle pe lo gusto. (esce.) Panfilio. Cinquantanila scudi in buon contante, E alla morte del vecchio Tutti i stabili, i mobili col resto Verranno a me... che negozione è questo! (esce.)
La scena quarta del secondo atto de Il signore del villaggio è poi completamente nuova e si inserisce nellʼinedito percorso che prende la storia tracciata da Bassi nel presente atto (a chiusura della scena si trova il quartetto):
Scena IV.
Sinforiano, Edoardo e i detti in ascolto.
Sinforiano. Vi dico, non è tempo
Di restar qui; Panfilio in brusca ciera
Pocanzi mi ha guardato
E par che il nostro intrico abbia appurato.
Edoardo. Ma che Angelica io lasci in tante pene...
Sinforiano. Lasciarla vi conviene...
Voi qui ritornerete allor che annotta.
Panfilio. (Ah! non vi dissi il ver?)
Agapito. (Viʼ che arma cotta!)
Sinforiano. Orsú se piú restate, io vi abbandono,
E piú nel vostro affar parte non prendo.
Edoardo. Abbi pietade, amico, Del mio dolor!
Sinforiano. Pietade
Abbiate di voi stesso e dellʼamante...
Agapito. (Viʼ che portapollaste marranchino!)
Edoardo. Vado… ah non posso! oh mio crudel destino!
Sinforiano. Andate, o non andate ?
Che smorfie mai son queste?
Per bacco! mi fareste Un turco diventar!
Edoardo. Ah! nel lasciar colei, Chʼè deʼ miei voti oggetto, Il mesto cor dal petto Mi sento... oh Dio! strappar!
Agapito. (Mmalora! e biʼ che mbroglia! Ah Segretario guitto!
Moʼ affè qual manechitto Te voglio revotà!)
Panfilio. (Or piú non è un mistero, Il corbellato io sono: Finora un candeliero Mi ha fatto smoccolar!)
Edoardo. Ma se lo zio crudele
La sposa al mio rivale?
Sinforiano. Lo zio è un animale, Chʼio valgo a raggirar.
Agapito. (Gnorsí, soʼ stato tale Per mia bestialità!)
Sinforiano. Ma per pietà partite...
Sentite, o non sentite?...
Per voi cʼè Sinforiano, Che a tutto penserà.
Edoardo. Mura felici! addio!
Chi sa se a voi ritorno!
Chi sa, se lʼidol mio Rapito a me sarà?
Agapito. (Ajemmè! già nnanze allʼuocchie Na nuvola me scenne!
Me sento a le denocchie No triemmolo afferrà!)
Panfilio. (Or me li avvento addosso!
Mi lascio al piú non posso!
Oimè! la testa io sento
In aria già balzar!) (Agapito e Panfilio si fanno innanzi.)
Agapito. Non ve movite, Ca vʼaggio ntiso…
Faccia dʼacciso!
Birbo! mbroglione! (a Sinforiano.)
Cheste cofecchie
Me stive a fa?
Sinforiano. (Peggio! diavolo!)
Edoardo. (Ah! son perduto!)
Panfilio. Corpo di Pluto!
Che tradimento!
Ma il Segretario
La pagherà
Sinforiano. Signori miei, Non vi adirate... Se zitti state
Con pace e quiete, Or sentirete
La verità. Questo Signore...
Edoardo. Son uom di onore, Sono incapace Di una viltà!
Sinforiano. Io li diceva...
Agapito. Ca no stivale, Ca nʼanimale
Io songo già.
Sinforiano. Ei qui voleva...
Panfilio. Volea beccarmi, Volea rubarmi
La mia metà.
Sinforiano. Ma che maniera
Di sopraffarmi?
Di assassinarmi
Con tante ingiurie!
Eh andate al diavolo!
Non sono un cavolo, Ma un segretario Di qualità!
Agapito. Si cchiú me stuzzeche, Si cchiú mʼappriette, Te do doje punia A li feliette... Moʼ affè te smosso Senza pietà!
a 4. Fra lʼincudine e ʼl martello È battuto il mio cervello Ed un mantice nel petto Mi sta il core a tormentar. Ah! la rabbia ed il dispetto Già mi fanno delirar! (viano.)
Il nuovo quartetto scritto da Mercadante – da non farsi ingannare dalla sezione a quattro «Fra lʼincudine e ʼl martello» perché non cʼè alcun ammiccamento ai con certati onomatopeici rossiniani – rivela anche le nuove strategie intraprese, lʼassetto dei numeri musicali cambia decisamente nel secondo atto per i diversi tagli operati:
Vienna Napoli
ATTo I
ATTo I Sinfonia
Sinfonia
N. 1 - Introduzione «Don Tiburzio!» (Coro, Tiburzio, Sinforiano, Panfilio, Agapito, Rebecca)
N. 2 - Cavatina di Angelica «Lʼha sbagliata il signor zio»
N. 3 - Duetto fra Angelica e Sinforiano «Io vorrei, che il tuo bel cuore»
N. 4 - Cavatina di Edoardo «Pensar, che in questi luoghi»
N. 5 - Terzetto fra Angelica, Sinforiano e Agapito «Mio marito? oh ciel! che intesi?...»
N. 6 - Finale I «È pur ver chʼio ti riveggo» (Angelica, Edoardo, Sinforiano, Tiburzio, Coro, Panfilio, Rebecca)
N. 1 - Introduzione «Don Tiburzio!» (Coro, Tiburzio, Sinforiano, Panfilio, Agapito, Rebecca)
N. 2 - Cavatina di Angelica «Lʼha sbagliata il signor zio»
N. 3 - Duetto fra Angelica e Sinforiano «Io vorrei, che il tuo bel cuore»
N. 4 - Cavatina di Edoardo «Pensar, che in questi luoghi»
N. 5 - Terzetto fra Angelica, Sinforiano e Agapito «Mio marito? oh ciel! che intesi?...»
N. 6 - Finale I «È pur ver chʼio ti riveggo» (Angelica, Edoardo, Sinforiano, Tiburzio, Coro, Panfilio, Rebecca)
ATTo II ATTo II
N.7 - Duetto Sinforiano e Panfilio «Se il prendeste rettamente
N. 8 - Coro e Aria di Agapito «Questa chiamata insolita - Uno scandalo solenne»
N.9 - Duetto Angelica e Edoardo «Lungi da te mio bene»
N. 10 - Quintetto Angelica, Edoardo, Agapito, Panfilio e Sinforiano «Oh Cielo!... | Gli ho sorpresi»
N. 11 - Coro e Aria di Angelica «Lʼaffanno sgombrate - Vieni, bellʼidol mio»
N. 12 - Finale «Dissiparmi un dubbio solo - Frenar non posso il giubilo» (Angelica, Edoardo, Agapito, Panfilio, Sinforiano e Coro)
N. 7 - Aria di Agapito con Coro «Un affare cancrenoso»
N. 8 - Quartetto «Andate, o non andate?» (Sinforiano, Edoardo, Agapito, Panfilio)
N. 9 - Coro e Aria di Angelica «Lʼaffanno sgombrate - Vieni, bellʼidol mio»
N. 10 - Finaletto «Frenar non posso il giubilo» (Edoardo, Angelica, Rebecca, Agapito, Sinforiano, Panfilio)
Nellʼedizione napoletana nel secondo atto sono eliminate le scene seconda, terza, quinta, sesta, settima, ottava, nona, decima, tredicesima, quindicesima, ultima – di cui si salva solo il coro finale – e buona parte della quattordicesima. Nella biblioteca del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli sono custoditi due esemplari de Il signore del villaggio il primo con collocazione 29.6.2425 sul primo frontespizio si legge:
[in alto a sinistra] Il Signore del Villaggio Rappresentato al Fondo nella Primavera del 1825 il lib.° nel vol: 4 let.s S.
[in alto a destra] Scritta a Vienna Nel 1824 col titolo Il Podestà di Burgos
[al centro]
Dramma Giocoso in 2 atti Poesia Anonimo Musica
Del Sig.r Saverio Mercadante Atto Primo
Sulla guardia superiore si riporta invece:
Il Signore del Villaggio: è un rifacimento del Podestà di Burgos, o viceversa: al primo atto vi è differenza soltanto neʼ recitativi, e nella Sinfonia mutati interamente. Il 2° atto è tutto mutato, tranne lʼAria di Angelica è eguale in ambedue le opere.
Va da sé che questʼultima informazione non corrisponde esattamente a quanto si verifica da unʼattenta collazione tra le due lezioni.
Il secondo testimone, con collocazione H .2.7-8, è anchʼesso in due volumi e presenta varie scene del Podestà sottoposte a una serie di modifiche, non ci sono informazioni di sorta ma si tratta di materiale preparatorio non a caso si trovano quelle scene poi confluite nel Signore con alcuni tagli e soprattutto con la riscrittura testuale dei recitativi di Agapito.
Agli originali passaggi destinati a questʼultimo, puntualmente barrati, sono aggiunti i testi in napoletano con unʼoperazione di aggiusto assai puntuale che non porta alla riscrittura della musica ma allʼadeguamento dei versi in vernacolo a quella traccia già segnata.
Si aggiustano i luoghi dove compare la parola «podestà» con «padrone» o «signore» e si compiono i tagli richiesti dal nuovo assetto, dopo il terzetto del primo atto, ad esempio, è necessario far cadere il lemma “podestà” per apporre il piú opportuno «padron» e viene eliminata la lettura della lettera con piccoli cam biamenti nel recitativo che la precedeva:
Questo manoscritto è capace di illuminare un inedito lavoro preparatorio destinato alla ripresa di un allestimento che esigeva altre modalità rappresenta tive rispetto a quella viennese, anche i tempi del secondo atto vengono abbreviati tramite unʼoperazione di tagli che snelliscono lʼazione e la durata. Anche nelle rare incursioni nel genere comico Mercadante riesce a dare un suo contributo originale anche quando è alle prese con un rimaneggiamento è foriero di informazioni che arricchiscono la conoscenza sulle convenienze e le inconvenienze teatrali che con tinuavano, e continueranno, a persistere ancora per molto tempo.
APPENDICE
IL PODESTÀ DI BURGOS. melodrAmmA GIoCoSo. poeSIA
dI CAlISTo BASSI muSICA
dI SAVerIo merCAdANTe
VIeNNA 1825
Presso Giov. Batta. Wallishausser.
IL SIGNORE DEL VILLAGGIO
melo-drAmmA GIoCoSo dA rAppreSeNTArSI Nel r.l TeATro del FoNdo
La Primavera del corrente Anno 1825.
NApolI, dAllA TIpoGrAFIA FlAuTINA, 1825.
La Musica è del Sig. Saverio Mercadante, Maestro di Cappella Napoletano. Architetto deʼ Reali Teatri, e direttore delle decorazioni, Sig. Cav. Niccolini. Le scene di architettura sono eseguite daʼ Signori Vincenzo Sacchetti, ed Antonio Pelandi; e quelle di paesaggio dal Sig. Raffaele Trifora. Macchinisti Signori Giuseppe, e Domenico Pappalardo.
perSoNAGGI
D. Agapito Corcillo, podestà di Burgos. E zio di.
Signor Bassi. Angelica promessa sposa a Signora Fodor-Mainvielle.
D. Panfilio Vildrega, Cancelliere. Signor Ambrogi. Edoardo de Isunza, amante segreto dʼAngelica.
Signor Rubini. Sinforiano, Segretario di D. Agapito. Signor Lablache. Rebecca, cameriera dʼAngelica.
Signora Unger. Tiburzio, Lacchè del Podestà. Signor Di Franco.
Coro e comparse di Villani dʼambo i sessi, di servitori, di Giudici etc. Lʼazione ha luogo in Burgos. Nella Castiglia.
ATTorI d. AGApITo CorCIllo, signore di un villaggio, e zio di signor Casaccia. ANGelICA, promessa sposa a Signora Fodor Mainvielle. d. pANFIlIo, Cancelliere, Signor Fioravanti. edoArdo, amante segreto di Angelica, Signor Monelli. SINForIANo, segretario di D. Agapito, Signor Lablache. TIBurZIo, lacchè di D. Agapito, Signor Pace. reBeCCA, cameriera di Angelica, Signora Manzocchi.
Coro, e comparse di Villani dʼambi i sessi e di servitori. Lʼazione ha luogo in un villaggio del Regno di Napoli.
Atto Primo. Scena Prima. Sala terrena corrispondente ad un cortilé. – Quattro porte laterali mettono a diversi appartamenti: in prospetto la porta comune; tavolini, e sedie. Allʼalzarsi della tela Tiburzio è intento ad assettare la stanza. Dalla porta, e dalle finestre si vede il cortile ingombro di villani, alcuni dei quali affacciandovisi, dicono:
Coro. Don Tiburzio! Tiburz. Cosa è stato? Che si vuol?... cosʼè successo? Coro. Noi vogliam con suo permesso. (entrando) Inchinare il Podestà. Tiburz. Eh inchinate il vostro diavolo Via, canaglia, via di qua. Coro. Badi ben Signor garbato (incalzandolo)
Come parla, ed a qual gente: Benché serva un Magistrato; Se con noi fa il prepotente: Abbiam forza, abbiam coraggio, E il sapremo bastonar. Tib. Per lo meno il mio vestito (inginocchiandosi) Deh vi piaccia rispettar.
Scena II. Sinforiano e detti.
Sinfor. Alto là, Signori miei! Cosa fate?... Eterni Dei! Incalzar con tal veemenza, Un lacchè di sua Eccellenza?
Miserabili tremate: Stà già il fulmin per piombar. Coro. Ah Signor!... Tiburz. Dirò!... Sinfor. Parlate: Io son pronto ad ascoltar. Coro. Per un atto di creanza, Siam venuti in questa stanza; E insultandoci il briccone, Ci voleva allontanar. Sinfor. Quando è alzato il Magistrato Per voi tutti io vo parlar.
Atto Primo. Scena Prima. Sala terrena corrispondente ad un cortilé. – Quattro porte laterali mettono a diversi appartamenti: in prospetto la porta comune. Tavolini, e sedie. Allʼalzarsi della tela Tiburzio è intento ad assettare la stanza. Dalla porta, e dalle finestre si vede il cortile ingombro di villani, alcuni dei quali affacciandovisi, dicono:
Coro. Don Tiburzio! Tiburz. Cosa è stato? Che si vuol?... cosʼè successo? Coro. Noi vogliam con suo permesso. (entrando) Don Agapito inchinar. Tiburz. Eh inchinate il vostro diavolo Via, canaglia, via di qua. Coro. Badi ben Signor garbato (incalzandolo) Come parla, ed a qual gente: Benché serva un titolato; Se con noi fa il prepotente: Abbiam forza, abbiam coraggio, E il sapremo bastonar. Tib. Per lo meno il mio vestito (inginocchiandosi) Deh vi piaccia rispettar.
Scena II. Sinforiano e detti.
Sinfor. Alto là, Signori miei! Cosa fate?... Eterni Dei! Incalzar con tal veemenza, Un lacchè di sua Eccellenza? Miserabili tremate: Stà già il fulmin per piombar. Coro. Ah Signor!... Tiburz. Dirò!... Sinfor. Parlate: Io son pronto ad ascoltar. Coro. Per un atto di creanza, Siam venuti in questa stanza; E insultandoci il briccone, Ci voleva allontanar. Sinfor. Quando è alzato si è il padrone Per voi tutti io vo parlar.
Ma ora andate nel cortile Poiché viene il Cancelliere. Don Tiburzio, è suo dovere Dʼavvertirne il Podestà. (Ho decisa la questione. Da eccellente Magistrato: Quel meschin mortificato Senza fiato restò là) Coro. Crepa; schiatta... a tuo dispetto, Il padron sʼinchinerà Tiburz. Maledetta la mia sorte, Ma il padron deciderà. (Tiburzio entra per una porta laterale; il coro per la porta comune. – Sinforiano va ad un tavolino e si pone a scrivere.)
Scena III. Panfilio e Sinforiano.
Panfil. È ver chʼio sono schiavo Un poco del danaro: Ma poi si vede chiaro, Diffetto alcun non ho. Dunque ragazza, e dote Questʼoggi io prenderò.
II Podestà?
Sinfor. Signore, (alzandosi) Or or sarà da voi!
Panfil. Vanne peʼ fatti tuoi Con lui deggʼio parlar. Sinfor. Perdoni; ma non posso (torna a sedere.)
Gli affari miei lasciar. Panfil. (Quando verrà mio suocero, Ne lo farò cacciar.)
Sinfor. (Non lascio questa camera; Se credo di crepar.) Sinfor. Lʼamico va pensando Qui vʼè del contrabando! Son piú che persuaso, E ci scommetto il naso Che il Podestà, e lʼamico Concertan qualche intrico Chʼio come secretario Doveva suggellar; Ma me lo messo in testa; E il voglio penetrar. Panfil. Lʼaffar devʼesser fatto! (passeggiando e discorrendo fra sé.)
Ma ora andate nel cortile Poiché viene il Cancelliere. Don Tiburzio, è suo dovere Il padrone di avvisar (Ho decisa la questione. Da eccellente letterato: Quel meschin mortificato Senza fiato restò là) Coro. Crepa; schiatta... a tuo dispetto, Il padron sʼinchinerà Tiburz. Maledetta la mia sorte, Ma il padron deciderà. (Tiburzio entra per una porta laterale per la comune col Coro. – Sinforiano va ad un tavolino e si pone a scrivere.)
Scena III. Panfilio e Sinforiano. Panfil. È ver chʼio sono schiavo Un poco del danaro: Ma poi si vede chiaro, Difetto alcun non ho. Dunque ragazza, e dote Questʼoggi io prenderò. Agapito? Sinfor. Signore, (alzandosi) Or or sarà da voi! Panfil. Vanne peʼ fatti tuoi Con lui deggʼio parlar. Sinfor. Perdoni; ma non posso (torna a sedere.)
Gli affari miei lasciar. Panfil. (Quando verrà mio suocero, Ne lo farò cacciar.) Sinfor. (Non lascio questa camera; Se credo di crepar.) Sinfor. (Lʼamico va pensando Qui vʼè del contrabbando! Son piú che persuaso, E ci scommetto il naso Che Agapito, e lʼamico Concertan qualche intrico Chʼio come segretario Doveva suggellar. Ma me lʼho messo in testa E il voglio penetrar.) Panfil. (Lʼaffar devʼesser fatto! (passeggiando e discorrendo fra sé.)
Si firmirà il contratto! Settanta mila duri Coi redditi futuri Che dona a sua nipote In titolo di dote Può al mio non parco errario Lʼaumento agevolar; Ma se non vengon subito, Io deggio ognor tremar.
Scena IV.
Agapito, gli anzidetti. Poi Rebecca, ed il coro. A suo tempo Tiburzio.
Agapit. Perdonate mio buon cancelliere Se vi feci aspettare alcun poco; Ma i digesti, le leggi, il dovere Tanti impegni, gli affari del loco... Già ognun sa, che pel mio vassalaggio Io tralascio persin da mangiar Caro amico chi veste una carica Sotto quella si dee sprofondar. Sinf. Quando è questo; guardate Eccellenza: Tutti chiedon la vostra presenza. Agapit. Ma che vonno?... (a Rebecca, che entra.) Rebec. È il suo giorno onomastico; E i lor fiori vorrian presentar. Agapito. Or non posso! Sinforian. Correte Correte. Il padrone venite a inchinar. Coro. Viver possa avventurato Lʼincorrotto Magistrato Che ci regge – ci prottegge Qual pietoso genitor. Agapito. Mille grazie… mille grazie!... Reb. e Cor. Questi fior... Agapito. Bene obligato! Reb. e Cor. Allʼinsigne Magistrato Gloria eterna, eterno onor. Agapito. Basta basta. Reb. e Cor. Gli auguriamo Mille giorni come questo… Agapito. Basta basta… Reb. e Cor. Niun molesto… Agapito. Basta basta per pietà. Reb. e Cor. Viva sempre!... Agapito. Eh ! andate al diavolo.
Si firmerà il contratto! Cinquanta mila duri Coi redditi futuri Che dona a sua nipote In titolo di dote Può al mio non parco erario Lʼaumento agevolar. Ma se non vengon subito, Io deggio ognor tremar.)
Scena IV. Agapito, gli anzidetti, poi Rebecca ed il coro; a suo tempo Tiburzio.
Agapit. Me scusate, mio buon Cancelliere, Si mʼho fatto aspettare no poco: Io mʼaccido pè fa il mio dovere Le facenne, lʼaffare del luoco... Già se sa, che pel mio vassallaggio Io non penzo a dormire, e a magnà. Caro amico, chi nasce signore, Dal dovere se fa scamazzà . Sinf. Quando è questo; guardate Eccellenza: Tutti chiedon la vostra presenza. Agapit. Ma che bonno?... (a Rebecca, che entra.) Rebec. È il suo giorno onomastico; E i lor fiori vorrian presentar. Agapito. Mo non pozzo! Sinforian. Correte Correte, Il padrone venite a inchinar. Coro. Viver possa avventurato Un padron chʼè tanto amato, Che ci regge – ci protegge Qual pietoso genitor. Agapito. Mille grazie! mille grazie! Reb. e Coro. Questi fior... Agapito. Tantʼobbligato! Reb. e Cor. Allʼinsigne titolato Gloria eterna, eterno onor. Agapito. Basta basta. Reb. e Cor. Gli auguriamo Mille giorni come questo… Agapito. Basta basta… Reb. e Cor. Niun molesto… Agapito. Ma no cchiú pè carità! Reb. e Cor. Viva sempre!... Agapito. E ghiate a cancaro! Moʼ ve manno a fa squartà!
416
Sono stanco in verità. Tutti.
Agap. Vi sia di regola – che se non chiamo, Non voglio visite, – gente non bramo; Che la mia carica, – le mie facende, Col ben del Pubblico – da me dipende; Che riscaldandomi – qualche polmone, Potria sorprendermi – lʼinfiamazione, Ed il mio popolo – lasciar cosi..)
Sinf. Via via non sʼalteri – cara Eccellenza, Quando si han sudditi –vi vuol pazienza! Ciascuno è memore – del suo gran core, E di mostrarglielo – si dan lʼonore; Ma se la carica – glielo vietasse; Se tanto strepito – lei non bramasse, Senza ripeterlo – basta cosi.
Panf. Tutto lo scandalo – vien dal briccone: Mi vuol opprimere – quel mascalzone; Ma se di vincerla – quindi mʼimpegno, Non servon chiacchere, nulla è lʼingegno Se metto in opera – qualche artifizio: Colla politica – col mio giudizio, Lo farò piangere – la notte e il dí. Reb. Lʼincorruttibile – gran Magistrato, Par che sia in collera sembra sdegnato... Facciam silenzio – facciam silenzio; Che se piú sʼaltera – non và cosí. Agap. Orsú: mʼavete inteso? Sinf. Conosco dʼaver torto e mi rimetto. (va al tavolino.) Panf. (È piú dʼunʼora podestà, che aspetto.) (sotto voce ad Agapito.) Agap. (Ho capito!) (a Panfilio) Tiburzio! A suoi comandi! Agap. Dal mio privato errario Fate loro esborsar cinquanta duri, Cosí ognun del mio amor si rassicuri. Risparmiatemi i vostri complimenti. Andate... andate... e siate alfin contenti. (Tiburzio ed il coro partono.) Cancellier son da voi. Panf. (Ma non vedete, Che ancor ei sta Rebecca, e Sinforiano.) Agap. (Aspettate chʼentrambi ora allontano.) Rebecca!
Reb. Mio padrone! Agap. (le dice sotto voce.) In segretezza Direte a mia nipote Che il suo cattivo umor sarà finito Poiché le ho procurato un bel marito!
Mmalora accidele! non mʼaffocate! Co tanta chiacchiare vuje me stonate! Non so quaʼ smorfia, quaʼ strafalario, Ma del villaggio soʼ proprietario... Co boje nfocannome, pe lo dispietto, Me potria rompere na vena mpietto, Ed il mio fisico potria fení. Sinf. Via via non sʼalteri, cara Eccellenza, Quando si han sudditi, vi vuol pazienza! Ciascuno è memore del suo gran core, E di mostrarglielo si dà lʼonore; Ma se il suo umore glielo vietasse; Se tanto strepito lei non bramasse, Senza ripeterlo basta cosi. Panf. (Tutto lo scandalo. vien dal briccone: Mi vuol opprimere quel mascalzone; Ma se di vincerla quindi mʼimpegno, Non servon chiacchiere, nulla è lʼingegno Se metto in opera qualche artifizio: Colla politica, col mio giudizio, Lo farò piangere la notte e il dí. Aga. E ancora stanno cca? che sangozuche! Ma viʼ che seccatori! Son castighi del cielo anche gli onori! Segretaʼ, mannannille, Si no ne manno a te. Sin. Ma non capite, Che la speranza di una grossa mancia Ancor quí li riduce? Aga. Ah! tuttʼoro non è chello, che luce? Tribú, della mia cascia Falle dà sei carrine. Tib. Oh che miseria! Aga. E che buò che le faccio na sciammeria? Va, dalle sei ducate, e bonanotte. Padroni! buommiaggio! a gamme rotte! (Tiburzio seco conduce i villani.) Panf. (È piú dʼunʼora, amico mio che aspetto.) Agap. (Moʼ quanto lesto lesto Spiccio quatto ricorsi, e so cottico.) Sin. (Ha di confabular fretta lʼamico!) Aga. Segretaʼ, va spiccianno i tuoi rapporti: Quanti soʼ stati i vivi e quanti i morti? Sin. Abbiam rapporto netto. Aga. Male pe le bammane! Sin. Un Faenzaro, Si duol, che fracassata, Ha la sua mercanzia Il somaro del Sindaco. Aga. E ha ragione:
Reb. Un marito?...
Agap. Sicuro! andate presto Segretezza però. Reb. (a parte.) (Che imbroglio è questo!) (via)
Sinf. (a parte) (Vogliono restar soli, io li ho capiti Ma di qua non mi muovo.) Agap. Sinforiano!... Sinf. Eccellenza! Agap. Presso il mastro di posta Dovrebbe qualche plicco Esser giunto per me. Sinf. Vi sono stato; E gli ho raccomandato, Che appena qualche lettera arrivasse, Senza punto tardar ve la mandasse. Agap. Potreste andar dal mio veterinario Onde aver qualche nuova Dellʼarabo cavallo Che gli ho raccomandato. Sinf. Allʼistante! (per partire poi fermandosi ad un tratto.) Oh che bestia!... vi son stato E mi disse che va di meglio in meglio Anzi fra pochi giorni Se il suo giudizio non andrà fallito Spera darvelo alfin ristabilito. Panf. Sentite podestà: qui vedo chiaro Che quel briccon non vuol lasciarci soli Adunque se il volete Chiudiamci in una stanza, Ed ivi stipuliam questo contratto. Sinf. (Un contratto?) (a parte e con sorpresa.) Agap. Va bene!... Ehi Secretario?... Sinf. Mi comandi Eccellenza!... Agap. È vietata a Ciascun oggi lʼudienza. (parte con Panfilio.) Sinf. Un contratto?... che fosse? oibò... è impossibile; Ma per altro... i segreti abboccamenti... Quel voler restar soli... Eh!... senza dubbio Vʼè sotto qualche imbroglio, Che a costo di morir penetrar voglio! (parte.)
Che sia puosto lo ciuccio in criminale, E con ceppi, e manette giorno e notte Nziʼ a che non paga le faenze rotte. Sin. (Che asino!) Pan. (Spicciatevi che ho fretta!) (ad Agap.) Sin. Agata Spaccarelli ha querelato Il Dottor Sfrattainfermi, Perché con violenti medicine Ha spedito il consorte allʼaltro mondo. Aga. Illico il Sfrattainfermi Rimpiazzi lo marito, che ave acciso. Sin. Ma questi è maritato. Aga. E cʼè il rimedio: Che dia na paparotta a la mogliera: Cosí restato vedovo anche luie, Potranno annozzolarsi tutte duje. Reb. (Oh che saggia sentenza!) Pan. (O vi sbrigate O vi lascio altrimenti.) Aga. Orsú chiudiam la bocca ai ricorrenti; Chʼio debbo combinare Fra me, e lo Cancelliere un grosso affare. Sin. Va bene. (va a sedere al tavolino.) Aga. (Eccome cca.) Pan. (Ma non vedete Che vi son là Rebecca, e Sinforiano?) Aga. (Mo lesto co na scusa lʼallontano.) Rebecca! Reb. Che comanda ? Aga. (Va da Angelica, E dille ca Zizio, che le voʼ bene, Le stace apparecchianno no marito, Che affè alleccare le farà lo dito.) Reb. (Un marito?) Aga. (Va priesto: Acqua mmocca però! Reb. (Che imbroglio è questo!) (esce.) Sin. (Vogliono restar soli: io li ho capito, Ma di qua non mi muovo. Aga. Segretario ! Sin. Adesso... non volete Chʼio distenda le vostre provvidenze? Aga. E provide cchiú tardo: va a la posta, E bí si soʼ benute
Le lettere pe me. Sin. Vi sono stato, Ma per voi nessun plico è capitato. Aga. Va da Monsú Picchè lo cosetore,
Scena V. Rebecca ed Angelica agitatissima.
Angel. Egli è impossibilissimo, Io non voglio mariti; e se non giungo Ad esser sposa dʼEdoardo, io giuro Che nol sarò dʼalcuno. Rebec. Per altro don Agapito Ha risolto cosí! Voi ben sapete... Angel. Io so, che vo parlar con Sinforiano; E che subito subito Devi condurlo qua. Sʼei non mʼassiste, Io mi vado a gettar nella riviera. Rebec. Ih! Ih!... Se lo potrà, Credete pure, chʼei vʼassisterà. (parte.) Angel. Lʼha sbagliata il signor zio Voglio un uomo a modo mio, E il marito che ha trovato Può tenerselo per sé. Fosse un Principe, un Visconte Un Marchese, un Duca, un Conte: Quellʼoggetto io sposar voglio
E bide, si mʼha fatto Lʼabito allasagnato, E lo gilè de lastra. Sin. Sono andato, E lʼavrete piú tardi. Aga. Al marescalco Valle a raccomannà chella jommenta, Che so tre ghiuorne che non pò figliare. Sin. Allʼistante... oh che bestia! vi son stato, E mi ha detto che allʼalba ha partorito. Aga. (Mmalora falle rompere La noce de lo cuollo!) Pan. (Quel briccone Non vuol lasciarci soli. Andiamo altrove A combinar fra noi questo contratto.) Sin. (Un contratto!) Aga. (Va buono) Ehi! segretario: Sia scassato dal nostro calannario, Chʼoggi è ghiuorno dʼudienza. Sin. Sarà servita appien vostra Eccellenza. (escono Aga. e Pan.) Un contratto che fosse oibò… è impossibile… Ma per altro i segreti abboccamenti... Quel voler restar soli... eh... senza dubbio Vʼè sotto qualche imbroglio, Che a costo di morir penetrar voglio. (via.)
Scena V. Rebecca ed Angelica agitatissima.
Angel. Egli è impossibilissimo; Io non voglio mariti, e se non giungo Ad esser sposa dʼEdoardo, io giuro Che nol sarò dʼalcuno. Rebec. Per altro don Agapito Ha deciso cosí! Voi ben sapete... Angel. Io so, che vo parlar con Sinforiano; E che subito subito Devi condurlo qua. Sʼei non mʼassiste, Io mi vado a gettar nella riviera. Rebec. Ih! Ih!... Se lo potrà, Credete pure, chʼei vʼassisterà. (parte.) Angel. Lʼha sbagliata il signor zio Voglio un uomo a modo mio, E il marito che ha trovato Può tenerselo per sé. Fosse un Principe, un Visconte Un Marchese, un Duca, un Conte: Quellʼoggetto io sposar voglio
A cui diedi la mia fé; Ma se quindi Sinforiano Fosse ingiusto... oh Dio!.. con me?
Pria cerco vincerlo Colle preghiere: Poi saprò coglierlo Colle maniere Lʼarte di femmina Mʼasisterà. Con quattro lagrime, Con due smorfiette, Lo vedrò cedere, Cascar dovrà.
Scena V. Rebecca ed Angelica agitatissima.
Angel. Egli è impossibilissimo, Io non voglio mariti; e se non giungo Ad esser sposa dʼEdoardo, io giuro Che nol sarò dʼalcuno. Rebec. Per altro don Agapito Ha risolto cosí! Voi ben sapete... Angel. Io so, che vo parlar con Sinforiano; E che subito subito Devi condurlo qua. Sʼei non mʼassiste, Io mi vado a gettar nella riviera. Rebec. Ih! Ih!... Se lo potrà, Credete pure, chʼei vʼassisterà. (parte.) Angel. Lʼha sbagliata il signor zio Voglio un uomo a modo mio, E il marito che ha trovato Può tenerselo per sé. Fosse un Principe, un Visconte Un Marchese, un Duca, un Conte: Quellʼoggetto io sposar voglio A cui diedi la mia fé; Ma se quindi Sinforiano Fosse ingiusto... oh Dio!.. con me?
Pria cerco vincerlo Colle preghiere: Poi saprò coglierlo Colle maniere Lʼarte di femmina Mʼasisterà.
Con quattro lagrime, Con due smorfiette, Lo vedrò cedere, Cascar dovrà.
A cui diedi la mia fé; Ma se quindi Sinforiano Fosse ingiusto... oh Dio!.. con me?
Pria cerco vincerlo Colle preghiere: Poi saprò coglierlo Colle maniere Lʼarte di femmina Mʼassisterà. Con quattro lagrime, Con due smorfiette, Lo vedrò cedere, Cascar dovrà.
Scena V. Rebecca ed Angelica agitatissima.
Angel. Egli è impossibilissimo; Io non voglio mariti, e se non giungo Ad esser sposa dʼEdoardo, io giuro Che nol sarò dʼalcuno. Rebec. Per altro don Agapito Ha deciso cosí! Voi ben sapete... Angel. Io so, che vo parlar con Sinforiano; E che subito subito Devi condurlo qua. Sʼei non mʼassiste, Io mi vado a gettar nella riviera. Rebec. Ih! Ih!... Se lo potrà, Credete pure, chʼei vʼassisterà. (parte.) Angel. Lʼha sbagliata il signor zio Voglio un uomo a modo mio, E il marito che ha trovato Può tenerselo per sé. Fosse un Principe, un Visconte Un Marchese, un Duca, un Conte: Quellʼoggetto io sposar voglio A cui diedi la mia fé; Ma se quindi Sinforiano Fosse ingiusto... oh Dio!.. con me?
Pria cerco vincerlo Colle preghiere: Poi saprò coglierlo Colle maniere Lʼarte di femmina Mʼassisterà.
Con quattro lagrime, Con due smorfiette, Lo vedrò cedere, Cascar dovrà.
Scena VI
Angelica, Rebecca, a Sinforiano.
Rebec. Eccovi Sinforiano. Io gli ho già detto, Che il vostro signor zio Vi vuol dare marito: ed egli è pronto A far ciò che vi piace. Angel. Aggiungi, o cara, Alle tue tante cure, Anche questa per oggi. In questa sala Potremmo esser sorpresi... Rebec. Eh!... vi capisco Mi porrò alla vedetta; E se qualcuno viene. Avvisarvelo subito. (a Sinf.) Va bene? Sinf. Sí, mia vita, benone! Rebec. Ogni sua speme essa in te sol ripone Servila come merita, o Rebecca, Si fa sposa ad un Turco della Mecca. (Parte.)
Scena VII. Angelica, e Sinforiano.
Sinf. A un turco addiritura? – Bagatella! Angel. Chiudiamo queste porte. (Eseguisce.) Sinf. (È un consiglio segreto!) Angel. Sinforiano!... Sinf. Signora! Angel. Ebben?... sentisti?... Sinf. Ho inteso?... Angel. E che ti pare? Sinf. Eh!... se il marito Fosse un uomo passabile Il partito sarebbe anche accettabile; Ma credo invece, e raramente io sbaglio, Che Panfilio, del nodo oggi è il fermaglio. Angel. Povera me!.. Panfilio? Sinf. Eh! quando il vuole Quel buon original di vostro zio Accettar e star zitta è il parer mio. Angel. Ma se mai... Sinf. Cosʼè stato? Angel. Io fossi accesa Per un altro?... che far?... Sinf. La mia sentenza, E quello dʼobbliarlo, e aver pazienza. Angel. Il mio cuor nol potrebbe! Sinf. Eh! il vostro cuore
Scena VI Angelica, Rebecca, a Sinforiano.
Rebec. Eccovi Sinforiano. Io gli ho già detto, Che il vostro signor zio Vi vuol dare marito: ed egli è pronto A far ciò che vi piace. Angel. Aggiungi, o cara, Alle tue tante cure, Anche questa per oggi. In questa sala Potremmo esser sorpresi... Rebec. Eh!... vi capisco Mi porrò alla vedetta; E se qualcuno viene. Avvisarvelo subito. (a Sinf.) Va bene? Sinf. Sí, mia vita, benone! Rebec. Ogni sua speme essa in te sol ripone Servila come merita, o Rebecca, Si fa sposa ad un Turco della Mecca. (Parte.)
Scena VII. Angelica, e Sinforiano.
Sinf. A un turco addirittura? – Bagattella! Angel. Chiudiamo queste porte. (Eseguisce.) Sinf. (È un consiglio segreto!) Angel. Sinforiano!... Sinf. Signora! Angel. Ebben?... sentisti?... Sinf. Ho inteso?... Angel. E che ti pare? Sinf. Eh!... se il marito Fosse un uomo passabile Il partito sarebbe anche accettabile; Ma credo invece, e raramente io sbaglio, Che Panfilio, del nodo oggi è il fermaglio. Angel. Povera me!.. Panfilio? Sinf. È quando il vuole Quel buon original di vostro zio Accettar e star zitta è il parer mio. Angel. Ma se mai... Sinf. Cosʼè stato? Angel. Io fossi accesa Per un altro?... che far?... Sinf. La mia sentenza È quella dʼobbliarlo, e aver pazienza. Angel. Il mio cuor nol potrebbe! Sinf. Eh! il vostro
Farà come fa il mio. Oggi Rebecca, Domani Antonia, posdomani Elisa; E cosí discorrendo. Angel. Il mio Edoardo. Sí crudelmente esser non può trattato. Sinf. Dunque Edoardo, è un vostro innamorato? Angel. Certamente!... Sinf. Da dove è scaturito? Angel. Ti dirò!... Sinf. Via sentiam! Angel. Sai, che già un mese: Io fui presso mia zia... Sinf. Lo so! Angel. Che in casa... Sinf. Ha unʼadunanza di persone oneste, Che ogni sera si giuoca, Si mormora, si canta e qualche volta Vi si balla il fandango ed il Bolero. Mi sbaglio forse? Angel. Oh non ti sbagli, è vero! Sinf. Avanti. Angel. Un giovinetto Di non oscura nascita... mi vede... Mi si avvicina... Sinf. Avanti... Angel. Oh se il vedesti! Sinf. Eh! mel figuro. Bello... un poʼ bassotto… Grassolino... occhi neri... capei neri… Naso lunghetto... avanti… Angel. Ebben... mi dice, Con una tal modestia, e un tal contegno... Sinf. Io tʼamo. Angel. È vero! Sinf. E poi? Angel. Io! Sinf. Su corraggio Vi faceste un poʼ rossa, e allʼindomani Voi pur diceste io tʼamo, ed ecco fatto. Angel. Non è ancor tutto. Sinf. No? Angel. Coglie il momento, In cui mia zia non era in casa... Sinf. Ebbene? Angel. Nelle mie stanze ei viene Io stava là cosí come mi vedi Travagliando... Sinf. E si getta ai vostri piedi. Angel. Allora poi...
cuore
Farà come fa il mio. Oggi Rebecca, Domani Antonia, posdomani Elisa; E cosí discorrendo. Angel. Il mio Edoardo. Sí crudelmente esser non può trattato. Sinf. Dunque Edoardo, è un vostro innamorato? Angel. Certamente!... Sinf. Da dove è scaturito? Angel. Ti dirò!... Sinf. Via sentiam! Angel. Sai, che già un mese: Io fui presso mia zia... Sinf. Lo so! Angel. Che in casa... Sinf. Ha unʼadunanza di persone oneste, Che ogni sera si giuoca, Si mormora, si canta e qualche volta Il walser vi si balla e la gavotta. Mi sbaglio forse? Angel. Oh non ti sbagli, è vero! Sinf. Avanti. Angel. Un giovinetto Di non oscura nascita... mi vede... Mi si avvicina... Sinf. Avanti... Angel. Oh se il vedesti! Sinf. Eh! mel figuro. Bello... un poʼ bassotto… Grassolino... occhi neri... capei neri… Naso lunghetto... avanti… Angel. Ebben... mi dice, Con una tal modestia, e un tal contegno... Sinf. Io tʼamo. Angel. È vero! Sinf. E poi? Angel. Io! Sinf. Su coraggio Vi faceste un poʼ rossa, e allʼindomani Voi pur diceste io tʼamo, ed ecco fatto. Angel. Non è ancor tutto. Sinf. No? Angel. Coglie il momento, In cui mia zia non era in casa... Sinf. Ebbene? Angel. Nelle mie stanze ei viene Io stava là cosí come mi vedi Travagliando... Sinf. E si getta ai vostri piedi.
422
Sinf. Mio bene, mia speranza Se tu mʼami puoi rendermi felice, Tu diverrai mia moglie, Ti chiederò a tuo zio Piange, prega, sospira… ardo… oh Dio moro! Mia vita, mio tesoro... Voi mentite… il labbro è veritiero Mi sbaglio forse?... Angel. Ah che purtroppo è vero. Sinf. Voi partiste; e lʼamico venne dietro: Vi vede, e parte. Angel. Oh qui poi prendi sbaglio. Mi vede, mi saluta, Mi scrive, e mi fa noto, Che viene ad abitar dʼincontro a noi. Tutti i giorni io lo vedo... alcuna volta Quando Rebecca il vuol gli parlo... Sinf. Evviva!... E vostro zio suppone... Eh!... donne donne... Siete peggio del diavolo!... Or sentiamo, Se giusto almen vi pare, Ciò che per consolarvi, io dovrei fare. Angel. Io vorrei che il tuo bel core Si piegasse a mio favore! Se proteggi il caro bene La mia vita a te dovrò. Sinf. Mai non feci il turcimano, Signorina e far nol voglio. A scampar qualunque imbroglio, La prudenza mʼinsegnò. Angel. Io lʼadoro!... Sinf. E a me, che importa? Angel. Egli mʼama. Sinf. Buon per voi. Angel. Dunque assistermi non vuoi? Sinf. No vʼho detto, e no sarà. Angel. Non ti credo. Sinf. Ve lo giuro. Angel. Tu sei buono! Sinf. (Parla al muro.) Angel. Quattro lacrime, e lʼamico Senza dubbio cascherà. Sinf. Non mi sposto – dal proposto Glielʼho detto, e lo vedrà. a 2 Angel. Se il suon delle mie preci, Su te non ha alcun vanto: Il supplice mio pianto Almen ti scenda al cor. Sinf. Oibò!... non è possibile Vel dice Sinforiano
Angel. Allora poi... Sinf. Mio bene, mia speranza Se tu mʼami puoi rendermi felice, Tu diverrai mia moglie, Ti chiederò a tuo zio Piange, prega, sospira… ardo! oh Dio! moro! Mia vita, mio tesoro... Voi mentite… il labbro è veridiero Mi sbaglio forse?... Angel. Ah che purtroppo è vero. Sinf. Voi partiste; e lʼamico venne dietro: Vi vede, e parte. Angel. Oh qui poi prendi sbaglio. Mi vede, mi saluta, Mi scrive, e mi fa noto, Che viene ad abitar dʼincontro a noi. Tutti i giorni io lo vedo... alcuna volta Quando Rebecca il vuol li parlo... Sinf. Evviva!... E vostro zio suppone... Eh!... donne donne... Siete peggio del diavolo!... Or sentiamo, Se giusto almen vi pare, Ciò che per consolarvi, io dovrei fare? Angel. Io vorrei che il tuo bel core Si piegasse a mio favore! Se proteggi il caro bene La mia vita a te dovrò. Sinf. Mai non feci il turcimano, Signorina e far nol voglio. A scampar qualunque imbroglio, La prudenza mʼinsegnò. Angel. Io lʼadoro!... Sinf. E a me, che importa? Angel. Egli mʼama. Sinf. Buon per voi. Angel. Dunque assistermi non vuoi? Sinf. No vʼho detto, e no sarà. Angel. Non ti credo. Sinf. Ve lo giuro. Angel. Tu sei buono! Sinf. (Parla al muro.) Angel. (Quattro lacrime, e lʼamico Senza dubbio cascherà.) Sinf. (Non mi sposto – dal proposto Glielʼho detto, e lo vedrà.) Angel. Se il suon delle mie preci, Su te non ha alcun vanto: Il supplice mio pianto Almen ti scenda al cor. Sinf. Oibò!... non è possibile
Con me piangete invano
Di ferro ho in petto il cor. E inutile non posso!... Che diavol?... Parlo schietto. Di no signora ho detto, E no vi dico ancor. Angel. No? Sinf. No! Angel. Dunque? Sinf. È deciso! Angel. Non sai chʼio son capace. Sinf. Di far, quel che vi piace! Angel. Ebben... vado a morir!... Sinf. Fermate!... Siete pazza? Alngel. Mʼassisterai? Sinf. Vedremo! Angel. Rispondi!... Sinf. Parleremo. Angel. No adesso il devi dir. Sinf. Ma si può dar di peggio?... Sentiam: cosa far deggio? Angel. Dei dirgli, chʼio lʼadoro, Chʼei solo è il mio tesoro, Che lʼho aspettato assai, Che si risolva omai... E poi segretamente La condurrai da me!... Sinf. Condurlo?... Angel. Sí carino; (Accarrezzandolo.) Lo so tu sei buonino Va dunque vanne presto Lʼimpresa affido a te. a 2 Angel. Se viene il caro bene Sarò felice appieno E palpitarmi in seno Dovrà di gioia il cor. Quallʼestasi celeste Lo spirto il cor mʼinvade La facil tua pietade Io riconosco amor. Sinf. Di qual superbo impiego Mi veggo oggi onorato. Del mio secretariato Sʼoscura lo splendor. Ma voi; ma voi dottori Venite al posto mio E quello che faccʼio Di far negate allor. (Angelica parte) Sinf. »E poi segretamente »Lo condurrai da me…
Vel dice Sinforiano Con me piangete invano Di ferro ho in petto il cor. È inutile non posso!... Che diavol? Parlo schietto. Di no signora ho detto, E no vi dico ancor. Angel. No? Sinf. No! Angel. Dunque? Sinf. È deciso! Angel. Non sai chʼio son capace. Sinf. Di far, quel che vi piace? Angel. Ebben... vado a morir!... Sinf. Fermate!... Siete pazza? Alngel. Mʼassisterai? Sinf. Vedremo! Angel. Rispondi!... Sinf. Parleremo. Angel. No adesso il devi dir. Sinf. Ma si può dar di peggio?... Sentiam: cosa far deggio? Angel. Dei dirgli, chʼio lʼadoro, Chʼei solo è il mio tesoro, Che lʼho aspettato assai, Che si risolva omai... E poi segretamente La condurrai da me!... Sinf. Condurlo?... Angel. Sí carino; (Accarrezzandolo.) Lo so tu sei buonino Va dunque vanne presto Lʼimpresa affido a te. Se viene il caro bene Sarò felice appieno E palpitarmi in seno Dovrà di gioia il cor. Quallʼestasi celeste Lo spirto il cor mʼinvade La facil tua pietade Io riconosco amor. Sinf. Di qual superbo impiego Mi veggo oggi onorato? Del mio segretariato Sʼoscura lo splendor. Ma voi; ma voi dottori Venite al posto mio E quello che faccʼio Di far negate allor. (viano.)
Povero Sinforiano... Eh! già ci siamo, Lʼimpiego mi fu dato, Né se ne parli piú. – (Chiamando) Tibur... no; è meglio, Che vadi io stesso... almen se un qualche imbroglio Avesse ad accader, io me lo sbroglio. (parte).
Scena VIII. Agapito e Panfilio.
Agap. Tutto abbiam combinato.
Panf. Cinquanta mila duri, ed alla morte... Agap. Che spero non verrà cosí per tempo, Tutti avrete i miei beni. Panf. Con Angelica adesso come fare? Agap. Bisognerà, lo sposo palesare. Panf. Ma politica, prego. Agap. Eh!... in questi affari So ben io che si fa; ma voi frattanto Convien che andiate a porvi in eleganza!
Panf. Oh! il sono a sufficienza; E poi... qui in confidenza Non tengo altri vestiti Che piú lordi di questo, e piú sdrusciti. Agap. (Viva la guardarobbe!) La toga per lo men cancelleresca Indossarvi dovete! Panf. E voi cosí credete, Che far breccia io potrò? Agap. Senza alcun dubbio, Vi vuol dellʼillusione in un connubbio! Panf. Vado, e torno in unʼora. Agap. Andate dunque e lavatevi bene; Che vi voʼ presentar come conviene. (parte) Panf. Cinquanta mila duri in buon contante, E alla morte del vecchio Tutti i stabili, i mobili col resto Verranno a me... che negozione è questo! (parte.)
Scena VIII Agapito e Panfilio.
Aga. Te pozzo dà no vaso, Moʼ che il niozio avimmo combinato? Pan. Quanti baci volete: ma intendiamoci, Cinquantamila scudi alla nipote
In dote assegnerete? Aga. E quanta vote? Pan. E allor che creperete... Aga. A cca a cientʼanne! Pan (Vorrei, che succedesse fra tre giorni!) Aga. I miei stabili, mobili, Quadrupedi, bestiami, e semoventi Tutte jarranno a te. Pan. (Che bellʼaffare!) Aga. Ma doppo nove mise Mʼaje da sbuccià un rampollo bello assaje, Degno del sangue mio, E della dotta lopa de zizio. Pan. Or convien che ad Angelica Il tutto si palesi. Aga. Ce penzo io: La voglio fa abballà pe lo piacere! Viʼ ca la poverella Sʼera stracquata de restà zetella Frattanto nguarnascione va te miette; Ca te voglio ammorbare de confiette. Pan. Questa pompa a che serve? E poi... qui... in confidenza, Non tengo altri vestiti, Che piú lordi di questo, e piú sdruciti. Aga. (No... lʼamico sta bene equipaggiato!) La persiana almen cancellaresca Te potarrisse mettere. Pan. Credete, Che sembrerò piú bello? Aga. Cchiú bello no, ma un poʼ chiú ripulito, Pararraje no mandrillo ben vestito... Pan. Vado e torno in unʼora. Aga. E io tʼaspetto,
Scena IX.
Giardino. – Dalla picciola parte situata in prospetto entra Sinforiano e dopo aver osservato dʼintorno introduce Edoardo quindi parte dalla porta medesima a suo tempo Sinforiano ritorna.
Edoardo. Ad ogni passo il piè vacilla! Oh Cielo! Se mai sorpreso io fossi: Angelica, il mio bene. Forse piú non vedrei!... Deh ! risparmiate o Dei, Tanta pena al mio core, Ed Angelica mia, mi guidi amore, Pensar, che in questi luoghi Ella ogni dí verrà Che mi sospirerà Con dolce accento: Di mia gradita calma Non posso dubitar; Né lʼestasi calmar Del mio contento! Quando al seno palpitante Idol mio ti stringerò Credil pure, in quellʼistante Di piacere io morirò. Non piú agli usati palpiti Questʼalma mia ritorni, Che avventurosi giorni, Forse ottener potrò. Sinf. Presto, presto... Edoardo. Cosʼè?... Sinf. Ma presto, andate. Edoardo. E dove se vi piace? Sinf. Il zio della ragazza Mi segue, e se vi vede... andate via. Della picciola porta del giardino, Eccovi qua la chiave Aprite adagio, escite;
Mo vaco da nepotema de lotto; E sentennose sposa a chisto fusto, Na goccia ha di afferrarle pe lo gusto. (esce.) Pan. Cinquantanila scudi in buon contante, E alla morte del vecchio Tutti i stabili, i mobili col resto Verranno a me... che negozione è questo! (esce.)
Scena IX. Giardino. Dalla picciola parte situata in prospetto entra Sinforiano e dopo aver osservato dʼintorno introduce Edoardo quindi parte dalla porta medesima a suo tempo Sinforiano.
Edoardo. Ad ogni passo il piè vacilla! Oh cielo! Se mai sorpreso io fossi: Angelica, il mio bene. Forse piú non vedrei!... Deh ! risparmiate o Dei, Tanta pena al mio core, Ed Angelica mia, mi guidi amore, Pensar, che in questi luoghi Ella ogni dí verrà Che mi sospirerà Con dolce accento: Di mia gradita calma Non posso dubitar; Né lʼestasi calmar Del mio contento!... Quando al seno palpitante Idol mio ti stringerò Credil pure, in quellʼistante Di piacere io morirò! Non piú agli usati palpiti Questʼalma mia ritorni, Che avventurosi giorni, Forse ottener potrò. Sinf. Presto, presto... Edoardo. Cosʼè?... Sinf. Ma presto, andate. Edoardo. E dove se vi piace? Sinf. Il zio della ragazza Mi segue, e se vi vede... andate via. Della picciola porta del giardino, Eccovi qua la chiave Aprite adagio, escite, E poi fra una mezzʼora a me venite.
E poi fra una mezzʼora a me venite. Edoardo. Ma non potrei saper... Sinf. Nulla per ora. Andate, e state zitto. Combineremo poi Quel che si deve fare in fra di noi. Edoardo. Salutatemi Angelica. (dopo aver aperto.) Sinf. Va bene! Edoardo. Ditele le mie pene – il mio tormento. Sinf. Andate via, che già venir lo sento. (Edoardo parte e chiude la porta.)
Scena X.
Agapito e Sinforiano.
Agapito. Sinforiano! Sinforiano. Oh!... Eccellenza!... Agapito. Che fate in questo loco? Sinforiano. Sono venuto a respirare un poco tanti affari! Agapito. Capisco! Venite qua. Voi siete un galantuomo, Un buon amico, un secretario infine Degno di tutto lʼamor mio!... Sentite Oggi è giorno di festa! Sinforiano. Perché mai? Agapito. In confidenza amico... Marito mia nipote. Sinforiano. E con chi? Agapito. Segretezza. Il Cancelliere Nʼè innamorato pazzo. Sinforiano. E voi vorreste ? Agapito. Concluso è già il contratto Questa sera si firma e tutto è fatto! Sinforiano. La ragazza lo sa? Agapito. No, ma fra poco Essa pure il saprà. Le ho fatto dire, Che nel giardin lʼaspetto. Sinforiano. Ma se vostra nipote Ama lo stato nubile! Silenzio Agapito. Mia nipote già viene Assistimi e vedrai che andrà arcibene!
Edoardo. Ma non potrei saper... Sinf. Nulla per ora. Andate, e state zitto. Combineremo poi Quel che si deve fare in fra di noi. Edoardo. Salutatemi Angelica. (dopo aver aperto.) Sinf. Va bene! Edoardo. Ditele le mie pene – il mio tormento. Sinf. Andate via, che già venir lo sento. (Edoardo parte e chiude.)
Scena X. Agapito e Sinforiano.
Agapito. (Co chisto trafechino Moʼ cosere me voglio a filo duppio, Pe fa cadere Angelica al mineo, Che lʼaggio preparato: Chisto a fa lo mezzano affè cʼè nato.) Segretario? Sinforiano. Oh!... Eccellenza!... Agapito. E tu cca bascio Che baje ncappanno mosche? Sinforiano. Son qua venuto a respirare un poco tanti affari! Agapito. È lo vero: Ti compiato! tu siʼ nʼommo dʼannore! E te voglio pʼamico! Sin. Oh! servitore ! Aga. Comme stammo a denare? Sin. Eh! un poco scarso: Sapete, è tanto modico il salario! Aga. Aje ragione: tʼabbusche poco o niente: Cca i miei vassalli so tutte pezziente. Te, pigliate sta vorza, E fatte no vestito de picugno. Sin. Mille grazie, Eccellenza! (Mai tanto generoso!) Aga. Tu non piglie Tabbacco maje? Sin. Ancor non ho tal vizio. Aga. Miettete in esercizio: Piglia sta tabacchera. Sin. Oh! mi confonde
Scena XI. Angelica e detti.
Angel. Signor zio, che mi vuole? Agapit. Io tʼho chiamata, Perché... (Diglielo tu!) (a Sinforiano.) Sinf. Voi siete giunta, Signorina garbata, ad unʼetà... (Rifiutate) per cui prender dovreste... Uno stato... un marito... Angel. Oh mille grazie:
La vostra cortesia! Aga. Dal dono impara il donator qual sia1 . Sin. Non saprei che far debba per mostrarvi La mia riconoscenza. Aga. Mi hai da fare un piacer. Sin. Dica, Eccellenza. Aga. Cca ogge cʼè gran festa... Ce sarrà un matrimonio. Sin. Bagattella! Prendete moglie? e chi? forse la bella Venditrice di pomi, Cui fate ognor la caccia? Mi consolo davver! buon prò vi faccia. Aga. Gnernò, è mia nipotima, Che oggi sʼincaserà. Sin. Vostra nipote? E con chi? Aga. Segretezza! Le do lo Cancelliero. Sin. Oh! cosí brutto? Aga. È ommo, e il matrimmonio agghiusta tutto. Sin. E Angelica lo sa? Aga. Pe direncello Lʼaggio chiammata cca. Tu co na nzorbia, Io co lʼautorità... tu co na botta, Io co nʼauta lʼavimmo da fa molla. Sin. Ma se vostra nipote Ama lo stato nubile? Aga. Quaʼ nuvole? Trovame chella femmena, Che allʼodor maritale non se mena Comme a na funa fraceta! Sin. Vedremo Dunque di persuaderla. Aga. E da llà vene! Mo stordirla de chiacchiare commene.
Scena XI. Angelica e detti. Angel. Signor zio, che mi vuole? Agapit. Io ti ho chiamata, Pe dirte che a sto munno
1 Da pIeTro meTASTASIo, Didone abbando nata, I.5, <http://www.progettometastasio. it/public/> (consultato il 12 aprile 2021).
Ma non prendo mariti. Sinf. (Sentite?... Non lo prende!) È ver che un giorno
Mel diceste, ma poi... io supponeva... Angel. È inutile!... Sinf. (Sentite?...) Agap. Orsú carina Senza tante nojose filastrocche Sappi che questa sera, e sia finito Questa sera Panfilio è tuo marito. a 3
Ang. Mio marito?... Oh ciel!... che intesi?... Don Panfilio?... Oh me meschina Inesperta... semplicina Il dolor mʼucciderà Ah Signor, se ancor mʼamate Non lo fate – per pietà. Sinf. La vedete?... La sentite? Cosa far pensate adesso? A dir ver dʼun buon successo Temo molto in verità. (La ragazza la sa lunga Te lo serve come va.) Agap. Sí la vedo: Sí la sento: Non saprei son già confuso! Se il negozio è già concluso Chi il negozio romperà?... Ah la carica in periglio Se ricusa io vedo già. Agapit. Un qualche mezzo termine Ritrova o segretario Per impedir lo scandalo Ricerca un formulario; Chʼil caso in semitragico Potrebbe terminar. Angel. Consigli, arguzie e cabale Sentir oggi non posso: Un vecchio brutto e sordido, Pien di malanni addosso: Ti dico che nol voglio, Nol voglio e il sosterrò. Sinfor. Senza voler riflettere Se fate male, o bene: Panfilio accettar subito Signora mia conviene; Perché in qualunque imbroglio, Son qua per riparar. Agap. Che le hai detto?... Sinfor. Poverina!... Che buon cuor!... Che colombina!
Pe morí sʼha da nascere: e pecchesto º Voglio, che i nostri secoli futuri Han da vedere i tuoi gran nascituri. Ang. Non comprendo. Aga. Me spiego... io te vorria... Cioè... (dincello tu!) (a Sinfo.) Sin. Di vostro zio È volontà... che se mai foste, o pure Vorreste esser nel caso... Ang. Ma qual caso? Aga. Caso! caso piccante, anzi è quel caso. Videlicet, tu adesso sei scasata. E il tuo zizio, pe farte consolare, Ti vuol con un bel caso moʼ accoppiare. Ang. Chiaro parlar bisogna. Aga. Mʼaje no buffo... (La poverella non capesce ancora Il parlare in metafora.) (a Sin.) Sin. Sentite... Da una terra fertile... Aga. Quanno sarrà zappata Da un guappo agricoltore... Sin. Attende il suo padron col frutto il fiore. Ang. Ma qual frutto? qual fiore? voi mi fate Perder la testa! Aga. Dimme... Tu che numero siʼ? numero sparo? E io te voglio apparà. Sin. Voi siete giunta, Signorina garbata, ad unʼetà... (Rifiutate) per cui prender dovreste... Uno stato... un marito... Ang. Oh mille grazie: Ma non prendo mariti. Aga. E pecchè chesto? Non fa passà cchiú tiempo, Si no se sfronna lʼalbero, E po addeviente cippo pe lo fuoco. Ang. È inutile... nol voglio Sin. (Sentite, non lo vuole?) Aga. (Lʼha da volè... mmalora! o crepa, o schiatta!)
Orsú... mbrevis arazio, Ti voglio madre onusta, E pecchesto stasera ho stabilito De darte D. Panfilio pe marito. Ang. Mio marito? Oh ciel! che intesi?... Don Panfilio?... Oh me meschina! Inesperta... sempliciona… Il dolor mʼucciderà.
Il pensier dʼabbandonarvi La faceva titubar. Agap. Ma per altro!... Angel. Al secretario Chi mostrarsi può contrario? Certi mezzi... certi modi Non si ponno ricusar. Agap. Dunque accetti?... Angel. Accetto!... Agap. Evviva. Ang. Tʼho servito come va! Sinf. Lʼha servito come va! Agap. Mʼha servito come va! a 3
Agap. A parte del mio giubilo Si ponga il cancelliere Non posso le mie lagrime Dal gusto trattenere Voʼ far di dritto pubblico La mia felicità. Ang. - Sin. Nella sua gioia estatico Il podestà dimora Ma quel che dee succedere Non sa lʼamico ancora Oh quanto avrem da ridere Se il gioco riuscirà. (partono.)
Ah Signor, se ancor mi amate Non lo fate – per pietà! Sin. La vedete? La sentite? Cosa far pensate adesso? A dir ver dʼun buon successo Temo molto in verità. (La ragazza la sa lunga Te lo serve come va.) Aga. Sí la vedo, sí la sento; Ma pe Bacco io soʼ confuso, Se il connubio sʼè conchiuso, Come cancaro se fa! Ah! la cosa cca se mbroglia, Ed a monte il tutto va Penza no miezo termine Agghiusta, Segretario... Pe allontanà nʼappicceco Trova no formolario, Si no potría ntragedia Sta cosa terminà. Ang. Consigli, arguzie e cabale Sentir oggi non posso: Un vecchio brutto e sordido, Pien di malanni addosso, Ti dico che nol voglio, Nol voglio e il sosterrò. Sin. Senza voler riflettere Se fate male, o bene, Panfilio accettar subito Signora mia conviene; Perché in qualunque imbroglio, Son qua per riparar. Aga. Che tʼha ditto ?.. Sin. Poverina!... Che buon cuor! che colombina! Il pensier dʼabbandonarvi La faceva titubar… Aga. E pecchesto?... Ang. Al segretario Chi mostrar si può contrario? Certi mezzi, certi modi Non si posson ricusar. Aga. Nzomma acciette? Ang. Accetto. Aga. Ebbiva! Ang. Tʼho servito come va. Sinf. Lʼha servito come va. Aga. (Mʼha rispuosto comme va.) Illico sta notizia La dongo al Cancelliere...
Scena XII.
Tiburzio solo.
Ho veduto ronzare qui dʼintorno Un certo giovinotto, e non vorrei Che fosse un spasimante di Rebecca!... Vuò andar fuor del giardino E voglio assicurarmen da vicino! (parte.)
Scena XIII. Sala. Tavolini e Sedie. Sinforiano, Edoardo e poi Tiburzio.
Sinf. Venite qua, venite qua da bravo Dunque voi siete pronto... Edoardo. A far quel che ti pare Onde poter lo stato mio cangiare... Sinfor. E vi sentite in grado?... Edoardo. Giacché esser vuole il podestà lodato
Di subisarlo a via di lodi. Sinfor. Bravo!... Qui convien presentarsi. Edoardo. È quel che dico. Sinf. Se si potesse... a voi.. qua qua... scrivete! Edoardo. Sei pazzo adesso? Sinfor. Meno cerimonie. Scrivete chʼio vi detto, E dʼun felice incontro io mi prometto. Vengo dʼaver pensato al caso vostro. Vedete che si sta?... (mostrandogli una lettera.) qui vʼè una lettera, Che romperà le gambe al cancelliere Impedirà le nozze, e allora voi... Scrivete adesso, e parlerem di poi! (Sinforiano detta la seguente lettera ad Edoardo che scrive.) «Carissimo collega. – tʼavrei scritto di mio
Ah! ca me vene a chiagnere Pe gusto! pe piacere! Voʼ diffamare al pubblico La mia felicità. Ang. - Sin. (Nella sua gioja estatico Il credulo dimora Ma quel che dee succedere Non sa lʼamico ancora: Oh quanto avrem da ridere Se il gioco riuscirà!) (partono.)
Scena XII. Tiburzio solo.
Ho veduto ronzare qui dʼintorno Un certo giovinotto, e non vorrei Che fosse un spasimante di Rebecca!... Vuò andar fuor del giardino E voglio assicurarmen da vicino. (parte.)
Scena XIII. Sala. Tavolini e Sedie. Sinforiano, Edoardo e poi Tiburzio. Sinf. Venite qua, venite qua da bravo Dunque voi siete pronto... Edoardo. A far quel che ti pare Onde poter lo stato mio cangiare. Sinfor. E vi sentite in grado? Edoardo. Giacché esser vuole il padron lodato Di subisarlo a via di lodi. Sinfor. Bravo! Qui convien presentarvi. Edoardo. È quel che dico. Sinf. Vengo dʼaver pensato al caso vostro: Vedete questa lettera, Ben romperà le gambe al cancelliere Impedirà le nozze, e questa poi Serve per presentarvi: adesso a noi. Ehi Tiburzio (chiamando.) Tiburzio. Comandate! Sinfor. Il padrone? Tiburzio. Sta in cucina. Sinfor. Reccali questa lettera. Tiburzio. Va bene. Sinfor. E digli che il Signor, che lʼha portata Lo aspetta in questa sala. Tiburzio. Va benissimo. (parte.)
proprio pugno, se non me lo impedisse con una maledettissima sciatica anche la gotta, per cui sono costretto di dettare queste due righe al mio secretario. Il Signore che ti presenterà questa mia è un ricco Messicano, viaggia per suo diporto, ed è diretto allʼIndie setttentrionali. In un anno chʼ egli è in mia casa ebbe occasione di sentirmi lodare le tue moltissime, e non comuni qualità per cui è divenuto appassionatissimo entusiasta de tuoi talenti, ed a sua istigazione passo a raccomandartelo. I tuoi vecchi amici ti desiderano ardentemente vienili a vedere. Proteggi il mio raccomandato: assistilo in quello di che può abbisognare, e credimi a tutte prove lʼaffezionatissimo tuo – Saverio Sberlungos podestà di Toledo, e suo circondario».
Pieghiamo adesso il foglio!... A voi la soprascritta, «Al molto stimatissimo (dettando.) Padron mio colendissimo Il Signor D. Agapito Corcillo Gran Podestà di Burgos». – Ehi Tiburzio (chiamando.) Tiburzio. Comandate! Sinfor. Il padrone? Tiburzio. Sta in cucina. Sinfor. Reccagli questa lettera. Tiburzio. Va bene. Sinfor. E digli che il Signor, che lʼha portata Lo aspetta in questa sala. Tiburzio. Va benissimo. (parte.) Sinfor. Adesso a noi!... Edoardo. Ma non è quella?... Sinfor. È lei, Fate presto però, poche parole.
Scena XIV. Angelica, e detti.
Angelica. Idol mio! Edoard. Mio tesoro!... Sinfor. Facciam curto, vel prego, il concistoro. Angel. È pur ver chʼio ti riveggo Dolce speme di questʼalma Edoard. Dimmi almen se la sua calma Il mio cuor goder potrà.
Sinfor. Adesso a noi! Edoardo. Ma non è quella?... Sinfor. È lei… Fate presto però… poche parole.
Scena XIV. Angelica, e detti.
Angelica. Idol mio! Edoard. Mio tesoro!... Sinfor. Facciam corto, vel prego, il concistoro. Angel. È pur ver chʼio ti riveggo Dolce speme di questʼalma? Edoard. Dimmi almen se la sua calma Il mio cuor goder potrà?
Sinfor. Deh! non tanti complimenti Ve lo prego in carità. Angel. Noi sarem felici appieno Se ci arride il ciel pietoso. Edoard. Col bel nome di tuo sposo Questo cor giubilerà. Edoar.- Angel. Dammi o cara/o un altro amplesso. Dolce pegno del tuo affetto. Eguagliare il mio diletto No possibile non è. Sinfor. Io vi avverto che non voglio Riparar verun imbroglio Che se ancor non tralasciate Vʼabbandono per mia fé. a 2 Non lasciarci!... Sinfor. Andiamo via!... a 2 Ah mio bene! Sinfor. Or sia finita a 2 Se ti è dolce la mia vita (separandosi) Pensa o cara/o pensa a me ! Meno mal che lʼhan capita Voi restate e voi con me. Edoard. Dunque addio! (ad Angelica che sʼavvia con Sinfor.) Angel. Mio bene addio!... Vivi certo ognor di me! (mentre è per entrare si stacca da Sinforiano e corre ad Edoardo.) a 3 Dammi o Cara/o un altro amplesso Angel. - Edoar. Dolce pegno del tuo affetto Eguagliare il mio diletto No possibile non è. Sinfor. Vi ripeto chʼio non voglio Riparar verun imbroglio Che se ancor non tralasciate Vʼabbandono per mia fé. (allʼultime cadenze del terzettino arriva ansante e frettoloso Tiburzio.)
Tiburzio. Il padron Signori miei Il padron vien dietro a me. (parte.) Sinfor. Il padron?... misericordia! (parte.) Angel. Pensa o caro pensa a me. (parte.) Edoard. Su coraggio or tocca a me.
Scena XV Agapito ed Edoardo.
Agapito. La prego a perdonarmi Se prima dʼor non venni;
Sinfor. Deh! non tanti complimenti Ve lo prego in carità. Angel. Noi sarem felici appieno Se ci arride il ciel pietoso. Edoard. Col bel nome di tuo sposo Questo cor giubilerà. Edoar.- Angel. Dammi o cara/o un altro amplesso. Dolce pegno del tuo affetto. Eguagliare il mio diletto No possibile non è. Sinfor. Io vi avverto che non voglio Riparar verun imbroglio Che se ancor non tralasciate, Vʼabbandono per mia fé. a 2 Non lasciarci!... Sinfor. Andiamo via!... a 2 Ah mio bene! Sinfor. Or sia finita! a 2 Se ti è dolce la mia vita (separandosi) Pensa o cara/o pensa a me ! Meno mal che lʼhan capita Voi restate e voi con me. Edoard. Dunque addio! (ad Ang.) Angel. Mio bene addio!... Vivi certo ognor di me! (mentre è per entrare si stacca da Sinforiano e corre da Edoardo.) a 3 Dammi o Cara/o un altro amplesso Angel. - Edoar. Dolce pegno del tuo affetto Eguagliare il mio diletto No possibile non è. Sinfor. Vi ripeto chʼio non voglio Riparar verun imbroglio Che se ancor non tralasciate Vʼabbandono per mia fé. (arriva affannoso Tiburzio.) Tiburzio. Il padron Signori miei Il padron vien dietro a me. (parte.) Sinfor. Il padron?... misericordia! (parte.) Angel. Pensa o caro pensa a me. (parte.) Edoard. Su coraggio or tocca a me. Scena XV. Agapito ed Edoardo.
Aga. È uscia lʼamico Cesare, Che mʼha cercato udienza?
Ma pronto a di lei cenni Mi vede adesso qua Se valgo mi comandi Con tutta libertà. Edoard. Lʼincauta mia franchezza Non vʼalteri o sgomenti; Ma tanti complimenti Non posso tollerar. Agapito. Son fatto giú alla buona Né mi saprei cangiar Quando cosí gli piaccia. Non giova replicar. Edoard. Intesi in tutta Spagna, E un poco in Alemagna Lodar come un portento Il vostro gran talento Agapito. Per cui sbalorditissimo Vi volli avvicinar. Talento?... Oh cosa dice Le lodi io non so amar. Edoard. Si esalta col contegno Il vostro arguto ingegno Dellʼarti lʼinfluenza; Dellʼuom la conoscenza Del che dovrà sorprendersi Il secol che verrà. Agap. Oh grazie... troppo buono... La prego… sua bontà. Gli dirò... non fa per dire; Ma... è un impiego da morire… So ben io quel che ci vuole Per portar questa gran mole. Un ingegno una tal tattica Una certa qual prammatica, Che non tutti del mio rango Glielo possono vantar; E poi veda... vʼè anche questo: Nel mio impiego son modesto. Non voʼ lodi, e chi mi loda Non lo posso sopportar. Edoardo. Ciascheduno sa benissimo Come, e quanto è modestissimo Tutti dicono è un grandʼuomo, Eccellence galantuomo: Pien dʼingegno, pien di foco, E di spirito non poco, Uomo infin che in tutto il mondo Il secondo – non si dà. Ma se alcuno nel trattarlo Sʼattentasse di lodarlo
Edo. Di un uomo tanto celebre Vo far la conoscenza. Aga. Chi è lei? Edo. Un viaggiatore, Che viene ad inchinarvi. Aga. Oh! lei mi fa favore! È tutta sua bontà! Edo. Io fo giustizia al merito... Aga. Uscia è il meritorio... Edo. Un astro brillantissimo Avete sulla fronte. Aga. Non cʼè di che... mi umilio! Edo. Dico la verità... Aga. (Chisto è no bravo giovene, Me tratta comme va!) Edo. (Mi par che la sua grazia Abbia incontrato già.)
Agapito. Quanto è grande nellʼingegno Tanto bestia allor si fa Bravo bravo amico degno, Dʼun modesto podestà. a 2 Edoardo. Eh mi par che fino ad ora La facenda vadi bene Non vuol lodi e se le tiene Questa è nuova in verità. Agapit. Tutta Spagna ed Alemagna È occupata del mio ingegno: Bravo bravo amico degno Dʼun medesto podestà.
Scena XVI
Gli Anzidetti Sinforiano, poi D. Panfilio e coro.
Sinfor. Festivo – giulivo Lo sposo già viene A coglier dʼImene La gioia il favor. I sudditi vostri Gli fanno corona; E il cielo risuona Degli inni dʼamor. Coro. In grembo al diletto Lʼamore vi guida Chi in esso sʼaffida Giammai languirà. È ver che talvolta Ci oscura la calma; Ma spesso dʼunʼalma Pur sente pietà. Panfil. Ma grazie obbligato Che serve ho capito Mʼavete stordito Via basta cosí. Agapit. Qua qua Cancelliere, Qua dico un abbraccio. Sinfor. (Or ora di ghiaccio Restar dovrà lí.)
Panfil. Chi è dunque quellʼuomo, (additando Edo.)
Che venne a far qui? Agapit. Egli è un forestiere Un uomo eccellente Dʼunʼottima mente, Dʼun ottimo cuor. Edoard. Suo amico se il vuole, Suo buon servitor.
Scena XVI
Gli Anzidetti Sinforiano, poi D. Panfilio e coro.
Sinfor. Festivo – giulivo Lo sposo già viene A coglier dʼImene La gioja il favor. I sudditi vostri Li fanno corona; E il cielo risuona Deglʼinni dʼamor. Coro. In grembo al diletto Lʼamore vi guida Chi in esso sʼaffida Giammai languirà. È ver che talvolta Ci oscura la calma; Ma spesso di unʼalma Pur sente pietà. Panfil. Ma grazie! obbligato Che serve? ho capito, Mi avete stordito Via basta cosí. Agapit. Cca… cca… Cancelliere, Cca dico… nʼabbraccio! Sinfor. (Or ora di ghiaccio Restar dovrà lí.) Panfil. Chi è dunque quellʼuomo, (additando Edo.) Che venne a far qui? Agapit. Stʼamico che bide È un gran viaggiatore, Buonʼommo de core Che annore me fa. Edoard. Suo amico se il vuole, Suo buon servitor.
Agapit. Ma ovʼè la nipote: La sposa ove sta? Coro. Già viene... guardate La sposa ecco qua. Sinfor. (Tiburzio, per bacco! Che tarda. Che fa?)
Scena XVI.
Gli Anzidetti Sinforiano, poi D. Panfilio e coro.
Sinfor. Festivo – giulivo Lo sposo già viene A coglier dʼImene La gioia il favor. I sudditi vostri Gli fanno corona; E il cielo risuona Degli inni dʼamor. Coro. In grembo al diletto Lʼamore vi guida Chi in esso sʼaffida Giammai languirà. È ver che talvolta Ci oscura la calma; Ma spesso dʼunʼalma Pur sente pietà. Panfil. Ma grazie obbligato Che serve ho capito Mʼavete stordito Via basta cosí. Agapit. Qua qua Cancelliere, Qua dico un abbraccio. Sinfor. (Or ora di ghiaccio Restar dovrà lí.)
Panfil. Chi è dunque quellʼuomo, (additando Edo.)
Che venne a far qui?
Agapit. Egli è un forestiere Un uomo eccellente Dʼunʼottima mente, Dʼun ottimo cuor. Edoard. Suo amico se il vuole, Suo buon servitor. Agapit. Ma ovʼè la nipote: La sposa ove sta? Coro. Già viene... guardate La sposa ecco qua. Sinfor. (Tiburzio, per bacco! Che tarda. Che fa?)
Agapit. Ma Angelica vene?
La sposa addò sta? Coro. Già viene... guardate…
La sposa ecco qua. Sinfor. (Tiburzio, per bacco! Che tarda. che fa?)
Scena XVI
Gli Anzidetti Sinforiano, poi D. Panfilio e coro.
Sinfor. Festivo – giulivo Lo sposo già viene A coglier dʼImene La gioja il favor. I sudditi vostri Li fanno corona; E il cielo risuona Deglʼinni dʼamor. Coro. In grembo al diletto Lʼamore vi guida Chi in esso sʼaffida Giammai languirà. È ver che talvolta Ci oscura la calma; Ma spesso di unʼalma Pur sente pietà. Panfil. Ma grazie! obbligato Che serve? ho capito, Mi avete stordito Via basta cosí. Agapit. Cca… cca… Cancelliere, Cca dico… nʼabbraccio! Sinfor. (Or ora di ghiaccio Restar dovrà lí.) Panfil. Chi è dunque quellʼuomo, (additando Edo.) Che venne a far qui? Agapit. Stʼamico che bide È un gran viaggiatore, Buonʼommo de core Che annore me fa. Edoard. Suo amico se il vuole, Suo buon servitor. Agapit. Ma Angelica vene?
La sposa addò sta? Coro. Già viene... guardate… La sposa ecco qua. Sinfor. (Tiburzio, per bacco! Che tarda. che fa?)
Scena XVII.
Gli Anzidetti, Angelica e Rebecca poi Tiburzio.
Coro. Evviva la sposa!
Agapit. Ringrazia mia cara! Coro. Unione si farà Invidia farà.
Tiburz. Signore signore Venuto è un espresso; Mʼha un foglio rimesso, E tosto partí. Sinfor. Che fosse un dispaccio? Leggete eccellenza! Agapit. Non è convenienza Sinfor. Si serva! che fa?
Angel. - Edoard. Cosʼè Sinforiano? Sinfor. Ridete gioite Le nozze impedite Quel foglio farà. Agapit. Scusatemi adunque?
Tutti. Con sua libertà. Agapito (Legge.) «Signor Podestà. – Spero di giungere in tempo ancora per prevenire uno scandalo e per farmi rendere dalla vostra anima grande, e compasionevole quella giustizia dovuta alla mia disperazione! –Sento che vostra nipote sia per isposare, il Sig. Panfilio cancelliere di Burgos: questʼuomo scellerato mi sposò segretamente. Frutto del nostro matrimonio furono due innocenti creature vittime della sua perfidia che egli abbandonò insieme alla madre infelice. – Salvate vostra nipote dalle mani dello snaturato, e difendete con una povera madre due fanciulli innocenti. Essi hanno dʼuopo della vostra giustizia nella troppo barbara loro situazione. – Petronilla Idelfredos.» (pausa.)
Angel. Che fu?... Edoard. Signor!... Agapit. Tacete! Pansil. A me però… Agap. Va via!... Sinf. La mia segreteria?... Agap. Tu pur va via di qua. Tutti. Stordito – Sbalordito Restato è il podestà. Tutti. Angel. - Edoar. Seconda o Ciel propizio La meditata impresa
Scena XVII. Detti, Angelica e Rebecca poi Tiburzio.
Coro. Evviva la sposa! Agapit. Ringrazia mia cara! Coro. Unione sí cara Invidia farà. Tiburz. Signore signore Venuto è un espresso; Mʼha un foglio rimesso, E tosto partí. Sinfor. Che fosse un dispaccio? Leggete eccellenza! Agapit. Non è commenienza… Sinfor. Si serva! che fa? Angel. - Edoard. (Cosʼè Sinforiano?) Sinfor. (Ridete, gioite, Le nozze impedite Quel foglio farà.) Agapit. Ve cerco licienza… Tutti. Con sua libertà. Agapito (Legge.) «Signor Podestà. – Spero di giungere in tempo ancora per prevenire uno scandalo e per farmi rendere dalla vostra anima grande, e compasionevole quella giustizia dovuta alla mia disperazione! –Sento che vostra nipote sia per isposare, il Sig. Panfilio cancelliere di cotesto villaggio. Questʼuomo scellerato mi sposò segretamente. Frutto del nostro matrimonio furono due innocenti creature vittime della sua perfidia che egli abbandonò insieme alla madre infelice. Salvate vostra nipote dalle mani dello snaturato, e difendete con una povera madre due fanciulli innocenti. Essi hanno dʼuopo della vostra giustizia nella troppo barbara loro situazione. – Petronilla Ildegrado.» (pausa.) Angel. Che fu?... Edoard. Signor!... Agapit. Ma zitto! Panfil. A me però… Agap. Va uscia!... Sinf. La mia segreteria?... Agap. Oh! Non nce sta a seccà! Tutti. Stordito, Sbalordito Restato egli è di già. Tutti. Angel. - Edoar. (Seconda o Ciel propizio La meditata impresa
A sollevare intesa Un contrastato amor. Sinfor. Ma bravo Sinforiano Che colpo da maestro!... Finché mi serve lʼestro Del fato io son maggior! Agap. Chi mai poteva credere Quellʼuom di tal carattere? Eh qui convien procedere Bisogna il birbo abbattere; Ma poi se il caso è pubblico Ne può soffrir la carica... Adunque usiam politica, Né se ne parli ancor… Panfil. Qui non ci vedo chiaro, Saper il tutto io voglio; Che il birbo dellʼimbroglio Puol esser lʼinventor! Rebec. - Tib. – Coro. Pensa riflette e mormora Il nostro podestà!
Chi sa da quella lettera, Che diavol nascerà. Agap. Non si parli piú di festa Sia sospeso il matrimonio!
Tutti. Questa è inver di nuovo conio; Ma si sappia almen perché? Agap. Citerò quellʼanimale Dietro e avanti il tribunale Egli è doppio delinquente, Doppia causa si farà. Sinf. Reo due volte?... cosa sento! Agap. Reo dʼun grande tradimento! Panf. Ma spiegatevi Signore... Agap. Taci... taci... seduttore. Tutti. Seduttore?
Agap. (Mʼè scappata Ecco fatta la frittata.)
Sinf. E venia poi con quel muso Le sue frodi a porre in uso Per buscarsi quella dote, Per tradir vostra nipote... Sia scacciato... bastonato...
Presto presto. Agap. Fermi olà... Tutti. Sorta sorta. Agap. Ma prudenza. Insieme Tutti. Pronunziata è la sentenza Sia scacciato il seduttore, |Poi la legge il punirà.
A sollevare intesa Un contrastato amor.) Sinfor. (Ma bravo Sinforiano Che colpo da maestro!... Finché mi serve lʼestro Del fato io son maggior.) Agap. (Chi lo poteva credere Ommo de sto carattere? Ma ca sʼha da procedere… Lo birbo sʼha da vattere…; Ma il fatto si se sbommeca, Ne nasce no disordine... Bisogna avè politica, Prudenza ce vorrà.) Panfil. (Qui non ci vedo chiaro, Saper il tutto io voglio, Qual birbo dellʼimbroglio Puol esser lʼinventor!) Rebec. - Tib. – Coro. Pensa riflette e mormora Il nostro amico là! Chi sa da quella lettera, Che diavol nascerà? Agap. Chiú de festa non se parla È sospeso il matrimonio. Tutti. Questa è inver di nuovo conio; Ma si sappia almen perché? Agap. Venarrà chillo briccone Nanze a me che soʼ padrone, Contra al duppio malandrino Doppia causa se farrà. Sinf. Reo due volte? cosa sento! Panf. Ma spiegatevi Signore... Agap. Zitto zitto... seduttore. Tutti. Seduttore? Agap. (Mʼè scappata Aggio fatta la frittata.) Sinf. E venia poi con quel muso Le sue frodi a porre in uso Per buscarsi quella dote, Per tradir vostra nipote? Sia scacciato... bastonato... Presto presto. Agap. Chiano olà... Tutti. Sorta sorta. Agap. Chiú prudenza. Insieme Tutti. Pronunziata è la sentenza Sia scacciato il seduttore, |Poi la legge il punirà. Agap. Zitti aguè!... viʼ che nzolenza!
Agap. Zitto zitto!... che insolenza!... Io chi sono?... un servitore!...
Fermi dico!... zitti là. Panf. Cosa far? Ci vuol pazienza. Evitiamo il lor furore; Che di poi si parlerà. Tutti.
Come nave in gran tempesta Sconcertata è la mia/lor testa, Combattuta – irresoluta, Già è vicina a naufragar!
Freme, palpita, vaneggia: Dubbia, incerta ogni alma ondeggia; Romoreggia – il tuono intorno, Sta già il fulmin per piombar!
ATTo SeCoNdo. Scena Prima. Sala come la Scena XIII. dellʼatto primo. Tiburzio seguito da Panfilio.
Tib. Non ho tempo; vi dico, non ho tempo! Panf. Ma perché?
Tib. Non vedete? Ho qui la toga: Oggi sono il bidello del consiglio; E se mi perdo in chiacchiere; Se non mi metto allʼordine, Può accader, Signor mio, qualche disordine. Panf. Dimmi soltanto... Tib. E quante volte, e quante Lo volete saper? – Don Sinforiano Devʼessere il fautor di questo impiccio. Panf. Ma tu, come il sapesti?...
Tib. Da qualche paroluccia, Che ei disse con Rebecca a mezzo tuono, Mi faccio a sospettar... ed io chi sono? Quando mi promettiate Un qualche regaluccio, Mi metto nellʼimpegno; e innanzi sera Vi posso dir la cosa vera vera. Panf. Questo te lo prometto. Tib. Ebbene!... Allora Pieno di tutto il fuoco, Che produce lʼidea dellʼinteresse Terminato il consiglio, Mi porrò, se vi piace, a far la spia; Ma il consiglio or mʼaspetta, io vado via. (parte.)
Io che sono un servitore? Chiano io dico!... zitti olà. Panf. Cosa far? Ci vuol prudenza. Evitiamo il lor furore; Che di poi si parlerà. Tutti.
Come nave in gran tempesta Sconcertata è la mia/lor testa, Combattuta – irresoluta, Già è vicina a naufragar! Freme, palpita, vaneggia: Dubbia, incerta ogni alma ondeggia; Romoreggia – il tuono intorno, Sta già il fulmin per piombar!
ATTo SeCoNdo. Scena Prima. Sala come nel primo atto. Panfilio e Tiburzio. Tib. Non ho tempo vi dico, è presso lʼora Oggi sono il bidello del consiglio. Panf. Dimmi soltanto. Tib. Ve lo dissi e il replico, Il nostro segretario Devʼessere il fautor di questo intrico. Panf. Ma donde lʼargomenti. Tib. Da qualche paroluccia, Che egli disse con Rebecca a mezza voce, Mi faccio a sospettarlo; un regaluccio, Se voi mi promettete innanzi sera Vi potrò dir la cosa vera vera. Panf. Questo te lo prometto. Tib. Ebbene Allora Mi porrò per servirvi a far la spia; Ma il consiglio è già pronto, io vado via. Pan. Evviva Sinforiano! Ma si sveli ad Agapito lʼarcano. (esce.)
Scena II. Sinforiano e Panfilio.
Sinf. Oh! caro cancelliere!.. Appunto in traccia Fin or di voi son stato, E gira, e gira, alfin vʼho ritrovato, Panf. (Vi mancava questʼaltro!) Ebben sentiamo:
In che valgo a servivi?... Danari, non ne tengo. Sinf. (melanconico.) Eh!.. caro amico Non vengo per denari!... altro ben altro Or mi conduce a voi.
Panf. (Lʼamico è scaltro, Giova mettersi in guardia!) Sinf. (come parlando solo.) Poverʼuomo ! Chi lʼavrebbe creduto!... Vilmente calunniato Da tutti abbandonato Là... cosí... come un cane... auf... e fra poco Per compir meglio il gioco Condotto entro dʼun carcere, e costretto A perdervi il bel fior degli anni suoi!... Panf. Di chi parlate?
Sinf. Ah!... Cancellier di voi!... Panf. Di me? Sinf. Certo!... Panf. E perché? Sinf. Dopo quel foglio Che reo vi fa di meditato imbroglio Il podestà raccolse A un consiglio coperto I giudici del luogo; Si stenderà il processo; Sarete carcerato; E forse... Oh idea dʼorror!... quindi impalato!.. (piangendo.)
Panf. Da vero?... (sorridendo freddamente.) Sinf. (singhiozzando) Un cuor... siccome... il mio... può solo... Sentir il peso di sí grande affanno... (dà in un dirotto pianto.)
Povero cancellier... Fato tiranno!... Panf. (Eh briccon ti conosco!...)
Sinf. (In men dʼun ora Io lo faccio sloggiar!) (piange) ih! ih! oh! oh!
Panf. Ma questo vostro lungo piagnolio, Mi par che a nulla giovi. Sinf. (calmandosi a poco a poco.) A questo core. Dʼun funesto avvenir presago tanto,
Gli giova o cancelliere ancora il pianto! Io però sono qua tutto disposto
A giovarvi, ad assistervi, a provarvi, Che un uom quale io mi vanto, e vostro amico Può sottrarvi se il vuol da questo intrico. Se il prendeste rettamente
Vorrei darvi un mio consiglio!
Panf. Perche no?... quando eccellente, Volontier da voi lo piglio. Sinf. Lʼamicizia mi vi spinge Senza unʼombra dʼinteresse!
Panf. Con lʼamico non si finge, Si sostengon le promesse.
Sinf. Dunque attento meditate Ascoltate – il mio pensier. Panf. Dite dite favellate Dʼascoltarvi ho gran piacer. Sinf. Se riesco nellʼintento Potrò dirmi appien contento E il model degli imbroglioni In me ognuno ammirerà. Panf. Ti conosco buona lana La tua frode meco è vana: Egli crede dʼimbrogliarmi; Ma imbrogliato resterà. Sinf. Dirò sol per vostro bene, (Incalzando, a poco a poco.)
Che partire vi conviene; Che se ancor qui vi fermate, Molto mal ve la passate: Quella scritta che vʼaccusa Ogni testa ha già confusa. Ciaschedun vi fa la caccia (precipitando.) Si borbotta, si minaccia Vi si crede un seduttore Senza unʼombra di rossore Accettate il mio consiglio, E partite per pietà!
Panf. Senza tanti complimenti, (incalzando a poco a poco.)
Vi rispondo in brevi accenti Che lʼautor di questʼimbroglio, Io pretendo e scoprir voglio. Già col sano mio giudizio Potei trarne qualche indizio; E ho scoperto che il briccone (precipitando.) Va spacciando protezione Che se ancor piú a lungo ei brama. Sostener cotesta trama Posso dirvi apertamente
Che assai mal la passerà.
Sinf. Non mi burla?... (estremamente sorpreso.)
Panf. Dico il vero!
Sinf. Ha scoperto!
Panf. Il menzognero. Sinf. E il consiglio che vʼho dato?
Panf. A voi solo può giovar! Sinf. (Vé che impiccio!)
Panf. Se per caso Conosceste quellʼamico... Sinf. Quale in grazia...
Panf. Quel che seppe Maneggiar sí bellʼintrico. Avvisatelo per bene Chʼei sen vada via di qua. Sinf. Ah!... capisco ottimamente (sorridendo.) Sí lʼamico... ho inteso già. a 2 Vedo benissimo – che ella già crede Chʼio non son facile – a prestar fede Delle sue chiacchiere – non faccio conto Però la supplico – si tenghi in pronto, Che forse forse – viaggiar dovrà.
Sinf. (Sʼegli lʼimbroglio – scoperto avesse, Chi sa che diavolo – ne nascerà.
Panf. Rimase estatico – non ha piú fiato Povero diavolo – rider mi fa. (Partono.)
Scena III.
Camera preparata per un Consiglio. Gran tavolino in mezzo, e gran seggioloni allʼintorno.
Don Agapito poi Tiburzio.
Agap. Oh Tiburzio! Tiburzio! Tib. (di dentro.) – Comandate!
Agap. Il diavol che ti porti; Ma fa presto. Tib. (sortendo.) Son qua. Agap. Che tʼè avvenuto?... Tib. Inciampai nella toga, e son caduto! Agap. Se tu avessi osservato Il cosí detto punto gravitante Non saresti caduto a parer mio.
Tib. Dopo che fui per terra il vidi anchʼio! Agap. Hai preparato tutto?
Tib. E che? vi pare? Le penne il calamaro I seggioloni, il campanel dʼargento;
E ho spogliata la vostra libreria Acciò il consiglio piú imponente sia!...
Agap. Bravissimo per bacco!... Unʼaltra cosa! Tib. Dite! dite!... Agap. Tu pure assister devi, Siccome sei bidello al podestà, Al consiglio segreto che si fa. Tib. Diavolo!... ci sʼintende!... Agap. E se per caso, Comʼè naturalissimo Nel discorso che son per spifferare Vi trovi qualche cosa singolare: Agapito ten prega – anzi scongiura Bravo – ponti a gridar senza paura! Mi capisci?... Tib. Capisco!.. Agap. Oh! vien qualcuno!... Tib. Saranno senza dubbio glʼinvitati. Agap. Frattanto io me ne vado Nella prossima stanza Ondʼabbia il minister qualche importanza. Tu procura di farti un poʼ dʼonore; E senza alcun disordine, Vienmi a chiamar quando saranno allʼordine. (Si ritira.)
Scena IV
Entrano gravemente i Giudici in scena; e Tiburzio inchinandosi mostra a ciascuno il posto, che gli è destinato, poi parte. - Appena escito tutti sʼalzano, poi sorte nuovamente Tiburzio infine Don Agapito
Coro. Questa chiamata insolita, Che diavolo sarà? In toga, ed al consiglio Ci volle il Podestà. Questʼè singolarissima Vedrem quel che avverrà Ciascun di noi non dubita Che rider si dovrà. (sorte Tiburzio, e fermandosi sul limitare.) Tib. Il podestà!... (Parte.)
Coro. Silenzio: Poniamci in gravità Siam gente di consiglio Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! (Siedono tutti – Al sortire di Don Agapito, il quale è preceduto da Tiburzio tutti sʼalzano; e dopo averlo
Scena II. Entrano alcuni villani. Tiburzio inchinandoli mostra a ciascuno il posto, che li è destinato, indi parte: appena escito tutti si alzano: indi nuovamente Tiburzio infine Agapito.
Coro. Questa chiamata insolita, Che diavolo sarà? Uniti, ed al consiglio Noi siam chiamati qua. Questa è singolarissima Vedrem quel che avverrà Ciascun di noi non dubita Che rider si dovrà. (viene fuora Tiburzio, e fermandosi sul limitare.) Tib. Viene il padron. (Parte.) Coro. Silenzio: Poniamci in gravità Siam gente di consiglio Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! (Siedono tutti: al sortire di Agapito, preceduto da Tiburzio, tutti si alzano, e dopo averlo inchinato, occupano
inchinato occupano nuovamente i loro posti.)
Agap. Padri Coscritti!... Tib. Bravo!... Agap. (Aspetta non è tempo!) Padri Coscritti!... A insolito consiglio Oggi adunarvi volle il Podestà, Per dar pena a unʼenorme atrocità. Io tralascio lʼaccusa, Che parmi indifferente Il saper di qual colpa, o qual errore Sia il delinquente presso che fornito: Basta per me, e per voi, chʼei sia punito. Tibur. Bravissimo! Agap. E siccome La colpa è di tal tempra, Che non ammette genere nessuno, Cosí prego ciascuno Dei qui presenti giudici accettanti A voler pormi avanti Una qualunque pena Onde porre al disordin la catena; Che se quindi passiam sotto silenzio Queste colpe massiccie Domani, o posdomani ancora noi Sarem sedotti... e che ne avviene poi? –Uno scandalo solenne, E che ancora non avvenne: Dalla nostra inerzia crassa Miei signori accader può! Evitiamo adunque il tutto Giacché tempo ci restò. Coro. Dice bene; dice bene; Giacché tempo ci restò Agap. Io mi trovo un poʼ imbrogliato Nel punire lʼaccusato. Scorso ho il codice di Nino Scritto in barbaro latino; Ma siccome egli è un linguaggio, Chʼio con voi non troppo assaggio: Ho trovato necessario Di doverlo abbandonar; Perché il reo possa capire Quel che diavol deve far. Coro. Dice bene; dice bene; Quel che diavol deve far. Agap. Col francese non ci ho gusto: Questa lingua porta il busto; Né vorrei che il reo credesse Che a salvarlo sʼimprendesse; E che invece di punirlo,
nuovamente i loro posti.) Agap. Padri zampitti! o lampe luminose Della Basilicata! Alla mia padronal circonferenza Io vi ho chiamati qua, Per onorar la vostra asinità. Tib. Bravo!... Agap. (Nʼè tiempo ancora, animalone! Non biʼ ca stongo allʼintroduzione?) Voi meco nosco, e seco vosco anchʼio Dobbiamo fecozzare un plebiscito: Dunque conciasia cosa fusse che, Anzi quantunque che, Precipitevolissimevolmente Prepariamoci a far taglia, chʼè russo: Cosí col nostro inusitato zero
Noi faremo intronare lʼEmisfero. Tibur. Bravissimo! (or co cape?) Agap. (Mo scassea!) E per farmi da capo Dopo il punto finale, io non ve dico Qual sia lʼaccusa. Sarria troppo incomodo De sapè pe quaʼ causa lʼommo è reo: Basta che si punisca il delinquente, Di quel che ha fatto non ci preme niente. Tib. Ma bravo! arcibravissimo! Agap. Col talento sfasciato, che vi guida A scippare dal suol le zolle impure, Suggerite al mio seggio orizzontale Che si ha da far per dar riparo al male. E con queste lucerne io son sicuro Di non rompermi il collo infra lo scuro.
Un affare cancrenoso Ci minaccia un forte aggrisso: Ed un taglio strepitoso Nuje ce avimmo da dà moʼ.
Si punisca il nozzoloso, Giacché il tempo ci restò! Coro. Dice bene; dice bene; Giacché tempo ci restò. Agap. Della legge la semenza Io non trovo a sta sentenza: Letto ho Sorece e Cepolla, Codadaccio e Gocciafredda, Ma de stʼuommene valente Io non ho capito niente: Sto mmalora de latino Chiú dʼun savio fa mbroglià. Mai perzò lo calapino Non conviene di studiar.
Si volesse amoreggiar. Coro. Dice bene; dice bene; Si volesse amoreggiar Agap. Ma col vostro dice bene Mi volete far crepar!... Ed è questo il mezzo termine, Che sʼadopra a giudicar? Coro. Ma spiegatevi, signore, Dite quel che si dee far Agap. Ed io bestia vʼho onorati, Di quei posti segnalati? Or vi spoglio di una carica, Che il giudizio mi prevarica; E se far dovrò un consiglio Da me solo lo farò. Coro. Dice bene; dice bene; Da lui solo lo farà. Agap. Partite subito – bestie ignoranti; Che se piú ancora – mi state avanti: Questa mia carica – questo mio impiego Quantunque meriti – sano sussiego Col bastonarvi – saprò avvilir.
Coro. Sappiam benissimo – quanto è bestiale, Per cui solleciti – Vogliam partir. Tib. Sanno benissimo – quanto è bestiale, Per cui solleciti – Dovran partir. (tutti partono.)
Coro. Dice bene; dice bene; Non conviene di studiar. Agap. Io non ntenno lo franzese, E po chesta è lengua molla: Non borria, che lʼaccusato Mmece dʼesser subbissato Se credesse ca potria Co na nenna amoreggià. Coro. Dice bene; dice bene, Si credesse amoreggiar. Aga. Ma co tanta dice bene Me volite fa crepà! Coro. Ma spiegatevi, signore, Dite quel che si ha da far. Agap. E io ciuccio massíato Cca ste bcstie aggio chiammato! De li sciocche site cuonsole, Jate a cogliere rapuonzole, E si voglio quaʼ consiglio, Da me sulo lo farrò. Coro. Dice bene; dice bene; Da lui solo lo farà. Agap. Sfrattate subeto, ciucce mmardate! Ca si chiú nnanze vuje me restate, Io manno a cancaro la mia pacienzia, Co ponia, e cauce sta mpertinenzia, E tanta nzorbia faccio fení! Coro. (Sappiam benissimo quanto è bestiale, Per cui solleciti vogliam partir. Tib. (Sanno benissimo quanto è bestiale, Per cui solleciti dovran partir. (viano.)
Scena V. Sinforiano, poi Angelica ed Edoardo, infine Tiburzio.
Sinf. (Dopo aver osservato) Il Consiglio è finito!
Venite pur, venite. (chiamando Angel. ed Edo. alla porta da dove è uscito.) Qui bisogna alla fin capacitarsi. (ad Angel.) Conviene chʼegli parta. Il Cancelliere Ha penetrato non so come il tutto, E giova porsi in guardia. In ogni caso Io son qua per servirvi. Angel. Caro Edoardo! Edoardo. Angelica mia cara. Angel. Io ti perdo! Sinf. Ma via datevi pace!
Lʼaffare poi non merita Un sí grande riflesso; e col mio ingegno Di rendervi felici, io prendo impegno. (comparisce Tiburzio, e sta in ascolto.) Ed anzi incominciamo. – Io vado tosto A prendervi un calesse, e voi frattando Andate nella stanza Tutto presso la nuova Galleria: Voi già la conoscete... Chiudetevi là dentro; e quando chiamo Apritemi... intendete… Tib. (Or vi servo bricconi quanti siete!) (Parte.) Sinf. Ma piangere perché?... queste a dir vero Si chiamano solenni ragazzate!... Pianger per cosí poco!... Eh via coraggio!... Alla ragion diam loco! Io vado – state attenti alla chiamata; E fra due giorni io la farò spuntata!
Scena VI
Angelica, ed Edoardo restano immobili, e guardandosi tutti due senza parlare poi.
Angel. Lunge da te ben mio Qual vita ohimè... vivrò? Ognor ti chiamerò; Ma sempre invano. Ed. Perché questʼalma oh Dio! Brami straziar cosí?... Forse di pace il dí, Non è lontano.
Angel. Questa infelice speme Conforta il mio martir. Ed. Amor ci crebbe insieme Amor ci deve unir. a 2. Oh Nume pietoso Sorridi cortese Ondʼabbian riposo Questʼanime accese Che supplici invocano Un tanto favor.
Angel. Come potrei resistere Aʼ tuoi soavi detti; Se ne miei dolci affetti Sol pace io so bramar. Ed Io non so qual ridestami Piacer gli accenti tuoi: Piacer, che sola puoi Anima mia destar.
Angel. Ma forse il ciel nemico La speme annullerà. Ed. Non paventar che amico Le preci accoglierà. a 2 Quel di sollecita – pietoso amor: Da fine ai palpiti – del nostro cor. (Partono.)
Scena VII
Camera con due porte – lʼuna in prospetto, e lʼaltra laterale. Agapito, Panfilio e Tiburzio.
Tib. Vi assicuro illustrissima Eccellenza Che queste orrecchie mie lunghe abbastanza Hanno inteso lʼaffare del calesse; E poi raccomandava alla nipote, Ed allʼaltro signore Di fermarsi qui dentro. E affinché possa Vostra eccellenza sincerarsi meglio Feci credere a tutti Che occupato nel vostro gabinetto, Lʼingresso a ognun vietate. (va sulla porta in prospetto ad osservare.) Agap. Essa è una cosa, Che mi fa sbalordir. Panf. Io ve lʼho detto: Che questo Sinforiano maledetto È il primo manigoldo della terra. Agap. Sarà, ma non lo credo. Pan. Ma questa è una solenne ostinazione. Avete pur inteso del calesse… Che so... del nascondiglio; e non volete Ancor capacitarvi; e nol credete? Agap. Ma no, vi dico no!... Pan. No?... Agap. Certamente Tiburzio sarà stato un maldicente. Pan. Ma se lʼho regalato. Agap. Tanto meglio! Certe tali persone A forza di danaro Sturban lʼonore altrui collega caro, Per cui… Tib. Signori miei Nascondetevi presto, Che gli amici son qua. (parte.)
Agap. Bene... Benissimo!... Pan. Entriamo in questa stanza; e a tempo debito Mi renderete, io spero bene, il credito!
Scena III Panfilio, indi Tiburzio, poi Agapito.
Pan. Il Consiglio è finito e pien di bile Entrato è nelle stanze D. Agapito. Intanto io non so come regolarmi, Non vorrei che Tiburzio Mi avesse detto una corbelleria, E pria che con Agapito Vada a giustificarmi, Voglio ben della cosa assicurarmi. Tib. Signor Panfilio, or piú non vʼè alcun dubbio. Veduto ho il Segretario Con Angelica e ʼl giovin forestiere, Che parlavan fra loro e a quel che ho inteso, Fra poco il turcimanno in questo luogo Condurrà il signorino, Per farlo uscir di fretta dal giardino. Pan. Ma avresti trasentito? Tib. Oh cospettone! Mi fate rabbia! attento! ecco il padrone. (esce.) Pan. Mano a ferri! mi dia soddisfazione Agapito di questa bricconata. Aga. Una cammisa zuppa mi ho cagnata! Aggio perduto co li caulicchiume No cantaro de belle eruziune! Pan. Vendetta, mio padrone! Aga. Oh! cca sta il quellito! Pan. Voglio vendetta, dico! Corbellati noi siam: noto è lʼintrico. Aga. Io non parlo co reprobi... Pan. Che reprobo! I reprobi... e le pruove son già note, Sono Sinforiano e la nipote. Aga. Non me ntaccà la stima de sti duje, Che soʼ doje goccie dʼacqua antiscorbutica. Pan. Quel foglio fu inventato Dal Segretario, che nascostamente
(entrano nella stanza contigua.)
Favorisce gli amori
Di Angelica col giovine Edoardo. Aga. Vattenne, tʼaggio ditto... mia nipote È na pasta de mele, E chillʼauto è no milo cannamele. Pan. Voi mi fate crepar! zitto! celiamoci. Vengono qui Edoardo, e Sinforiano: Restiam di quella stanza sulla soglia. Aga. Moʼ te faccio a bedè quanto si nnoglia? (si celano.)
Scena VIII.
Gli anzidetti nascosti dopo breve pausa Angelica ed Edoardo in fine Sinforiano di dentro.
Edoard. Accertati mia cara, Che il ciel seconderà le nostre mire. Angel. Chiudiamo questa porta; Affinché alcun non venga A farci una sorpresa! Panfil. Ottima precauzione. Agapit. Lasciatemi sentire. Angel. Dunque tu… Edoard. Fra due giorni; Se nulla Sinforiano Potrà imprender per noi Volo a rapirti; e il giuro agli occhi tuoi. Panfil. Lo sentite?... Agapit. Pur troppo!... Angel. Oh pienamente Felice ora son io! Agapit. Tenetemi, o gli ammazzo! Edoard. Ma se poi si scoprisse lʼinnocenza, Del signor cancelliere Agapit. Quello che allor farà vorrei sapere!... a 2 Oh cielo!... Agapit. Gli ho sorpresi! a 2 Che impiccio!... che sciagura!... Agapit. Bricconi! (Hanno paura.) Sinfor. Aprite. (di dentro.) Agapit. Fermi là! (Ad Angelica ed Edoardo che fanno un movimento.) Se ardite mover passo, La fo da podestà. (va per aprire e si ferma alla voce di Sinforiano.) Sinfor. Siam fuori di pericolo Non vʼè di che temere.
Scena IV. Sinforiano, Edoardo e i detti in ascolto.
Sin. Vi dico, non è tempo Di restar qui; Panfilio in brusca ciera Pocanzi mi ha guardato E par che il nostro intrico abbia appurato. Edo. Ma che Angelica io lasci in tante pene... Sin. Lasciarla vi conviene... Voi qui ritornerete allor che annotta. Pan. (Ah! non vi dissi il ver?) Aga. (Viʼ che arma cotta!)
Sin. Orsú se piú restate, io vi abbandono, E piú nel vostro affar parte non prendo. Edo. Abbi pietade, amico, Del mio dolor! Sin. Pietade Abbiate di voi stesso e dellʼamante... Aga. (Viʼ che portapollaste marranchino!) Edo. Vado… ah non posso! oh mio crudel destino! Sin. Andate, o non andate ? Che smorfie mai son queste? Per bacco! mi fareste Un turco diventar! Edo. Ah! nel lasciar colei, Chʼè deʼ miei voti oggetto, Il mesto cor dal petto Mi sento... oh Dio! strappar! Aga. (Mmalora! e biʼ che mbroglia! Ah Segretario guitto! Moʼ affè qual manechitto Te voglio revotà!) Pan. (Or piú non è un mistero, Il corbellato io sono: Finora un candeliero Mi ha fatto smoccolar!)
Quellʼasin, quel ridicolo, Quel sciocco cancelliere Se lʼha portato il diavolo Aprite presto qua. Agapit. Amico il vostro Elogio (ridendo.) Sta componendo già. a 2 Chi sa se un tal pericolo Ei riparar saprà. Panfil. Contaminato è il carico Pagarmela dovrà. Sinfor. Aprite omai! che diamine! Ma presto!... Io vi ricordo, Che il nostro Don Agapito Essendo un poʼ balordo Può far delle sue solite Stupende asinità. Panfil. Amico il vostro elogio (ridendo.) Sta componendo già. a 2 Chi sa se un tal pericolo Ei riparar saprà. Agapit. Contaminato è il carico Pagarmela dovrà. (va ad aprire.)
Edo. Ma se lo zio crudele La sposa al mio rivale? Sin. Lo zio è un animale, Chʼio valgo a raggirar. Aga. (Gnorsí, soʼ stato tale Per mia bestialità!) Sin. Ma per pietà partite... Sentite, o non sentite?... Per voi cʼè Sinforiano, Che a tutto penserà. Edo. Mura felici! addio! Chi sa se a voi ritorno! Chi sa, se lʼidol mio Rapito a me sarà? Aga. (Ajemmè! già nnanze allʼuocchie Na nuvola me scenne! Me sento a le denocchie No triemmolo afferrà!) Pan. (Or me li avvento addosso! Mi lascio al piú non posso! Oimè! la testa io sento In aria già balzar!) (Agapito e Panfilio si fanno innanzi.) Aga. Non ve movite, Ca vʼaggio ntiso… Faccia dʼacciso! Birbo! mbroglione! (a Sin.) Cheste cofecchie Me stive a fa? Sin. (Peggio! diavolo!) Edo. (Ah! son perduto!) Pan. Corpo di Pluto! Che tradimento! Ma il Segretario La pagherà Sin. Signori miei, Non vi adirate... Se zitti state Con pace e quiete, Or sentirete La verità. Questo Signore... Edo. Son uom di onore, Sono incapace Di una viltà! Sin. Io li diceva... Aga. Ca no stivale, Ca nʼanimale Io songo già. Sin. Ei qui voleva...
Scena IX Sinforiano e detti. Sinfor. Che vedo!... a 2 Oh noi perduti!... Agapit. Ecco il balordo!... lʼasino... Pansil. Il sciocco ecco e il ridicolo… Sinfor. (Ed or come si fa?) Tutti. Confuso, sbalordito Sorpreso, ed avvilito: Parlare io posso/ei puole appena Negato è il respirar. Sinfor. Ma qui convien risolversi Bisogna riparar. Agap. - Pans. Il fatto è omai chiarissimo. a 2 Bisogna processar Chi sa se un tal pericolo Ei sappia riparar. (breve pausa – Mentre il podestà è per inveire contro di Sinforiano, questi.)
Sinfor. Senza rispondermi – senza far motto (ad Edoardo.) Ella dee subito – partir di trotto
Pan. Volea beccarmi, Volea rubarmi La mia metà. Sin. Ma che maniera Di sopraffarmi? Di assassinarmi Con tante ingiurie! Eh andate al diavolo! Non sono un cavolo, Ma un segretario Di qualità!
Aga. Si cchiú me stuzzeche, Si cchiú mʼappriette, Te do doje punia A li feliette... Moʼ affè te smosso Senza pietà! a 4 Fra lʼincudine e ʼl martello È battuto il mio cervello Ed un mantice nel petto Mi sta il core a tormentar. Ah! la rabbia ed il dispetto Già mi fanno delirar! (viano.)
O dentro un carcere – chiuso e legato Farò che il codice – del Magistrato Punisca un perfido – un seduttor. Agap. - Panf. Ehi! segretario: – Che avvenne?... Sinfor. Eh nulla
Lʼinnocentissima – buona fanciulla Vuol farsi lecito – farsi un dovere Di sottomettere – Quel cavaliere. Ai voti illeciti – dʼun uom dʼonor Agapit. Ma cosa diavolo ti salta in testa?... Sinfor. Stupisca il giudice – lʼaccusa è questa! Lui della lettera – fu lʼinventore; E meditavano – oh idea dʼorrore!... La notte prossima – di galoppar. Agap. - Panf. Che sento? Edoard. Io supplico – vostra eccellenza... Sinfor. Non vi son suppliche. Agapit. Zitto!... pazienza!... Edoar. Della mia nascita – vo darvi un pronto, Un esattissimo – dovuto conto Affinché Angelica – Sia sposa a me! Sinfor. Singolarissimo – è il suo pensiere! Questa è già moglie – del cancelliere, Onde la supplico. Agapit. Che porcheria!... Di chi è la carica – è vostra, o è mia?...
Io sono il giudice – Io vo parlar. Sinfor. Ma un secretario – quale io mi vanto Non può resistere – a oltraggio tanto Ei vuol sorprendervi – chiede sedurvi Per forza a cedere – ei vuole indurvi; Ma parti subito – parti di qua. (gridando.) Ag. - Pa. Se si fa pubblico – questʼaccidente Chi sa che diavolo – dirà la gente Non facciam strepito – non facciam chiasso Quel foco modera – parla piú basso Maledettissimo – senti una volta Abbi politica – per carità. Sin. Fate malissimo a disperarvi (piano ad Edoardo.)
Io son prontissimo – ad aiutarvi. Se non fo strepito – se non fo chiasso (a Panfilio ed Agapito.)
Potrebbe il giovane – far da gradasso Dunque lasciatemi – so quel che faccio Sen vada subito – fuori di qua. (ad Edoardo gridando.)
Ag. - Ed. Ah di noi miseri – che sarà mai!... Gli affanni piovono – piovono i guai Venne ad opprimerci – questo accidente; E tu lo tolleri – cielo inclemente? Alfine arrenditi – ai nostri voti; Dei nostri spasimi – senti pietà. (Incalzato da Sinforiano Edoardo parte. – Angelica si ritira piangendo nella stanza contigua.)
Scena X. Sinforiano, Agapito, e Panfilio.
Sinforiano. (Se adesso mʼabandonan le bugie Son fritto senza dubbio !) Agap. Ebben briccone?... Che vuol significar questa commedia? Sinfor. Vi posso dir, che sʼio non mʼadoprava: Voi, senza la nipote restavate; E lui, senza la sposa. Panfilio. E come?... Sinfor. Oh bella!... Mentre che sua eccellenza Stava al consiglio, io andava meditando Come mai pervenir poté quel foglio, E chi fosse lʼautor di questo imbroglio. Quando tutto ad un tratto Angelica, ed il giovin forestiere Vengono dove io stava: Rebecca li guidava. Io mi nascondo; e sotto il tavolino Scopro tutto il complotto, ed era quello
Di voler fuggir via; E andar... dove Signori?... in Barberia... Agap. Ma perché fino là?... Sinf. Credo che il piano, Fosse quel di servire il gran Sultano. Agap. Ma tu birbante, poi Perche darmi dellʼasino?... Panfil. Perché dirmi ridicolo Sinf. Perché di questi titoli Il Signor forestiere, Il podestà onorava, e il cancelliere; Ondʼio per meglio raggirar la cosa, A suoi detti io facea lʼeco pietosa. Ma qui giova esigliar quel giovinastro, E fare il matrimonio questa sera. Panfil. Dice ben Sinforiano, questa sera; Perché… Sinf. Venite meco
Diam lʼordine a Tiburzio
Dʼinvigilar dʼognun sugli andamenti Andiamo dal notaro Concludiamo e firmiam questo contratto Firmato chʼegli venga... il colpo è fatto. (partono.)
Scena XI
Rebecca ed alcune villane.
Reb. Vi assicuro mie care, Chʼella merita proprio compassione!... È innamorata dʼuno; e il Signor Zio. Vuol maritarla a forza al cancelliere Per cui la poveretta Tranquillamente il suo supplizio aspetta!... Guardatela ella viene Cercate a sollevar le di lei pene; Chʼio se posso, vedrò con senno ed arte Di farla lieta per un altra parte. (Rebecca parte.)
Scena XII. Angelica e dette.
Coro. Lʼaffanno sgombrate Quel pianto tergete: Ragion non avete Di pianger cosí. Non sempre lʼamore Tiranno è del cuore; E taciti inganni Talor suggerí. Ang. Invan mi lusingate – io piú speranza Di vederlo non ho! – Crudel destino A me lo toglie, ed io misera intanto Verso dal ciglio infruttuoso il pianto. Edoardo mio bene... Ah se tu serbi; Per me nel seno, un qualche affetto ancora E se a pietà ti muove Il dolente mio cor dal fato oppresso Vieni a darmi o ben mio lʼestremo amplesso! Vieni bellʼidol mio, A confortar questʼalma: La sospirata calma Deh tu ritorna al cor. Vieni ed in queste braccia Cauto ti guidi amor.
Scena V. Rebecca ed alcune villane.
Reb. Vi assicuro mie care, Chʼella merita proprio compassione, È innamorata di uno e ʼl signor zio Vuol maritarla a forza al cancelliere: Guardatela ella viene… Cercate a sollevar le di lei pene. (esce.)
Scena VI. Angelica e dette.
Coro. Lʼaffanno sgombrate Quel pianto tergete: Ragion non avete Di pianger cosí. Non sempre lʼamore Tiranno è del core, E taciti inganni Talor suggerí. Ang. Invan mi lusingate, io piú speranza Di vederlo non ho: crudel destino A me lo toglie, ed io misera! intanto Verso dal ciglio infruttuoso il pianto! Edoardo! mio bene! ah se tu serbi Per me nel seno un qualche affetto ancora E se a pietà ti muove Il dolente mio cor dal fato oppresso Vieni a darmi o ben mio lʼestremo amplesso! Vieni bellʼidol mio, A confortar questʼalma! La sospirata calma Deh tu ritorna al cor. Vieni ed in queste braccia Cauto ti guidi amor.
Coro. Spera; che i nostri mali Fa impietosire amor.
Ang. Se di speme un raggio amico, Mi sorride in tal momento: Pari, o cielo, al mio contento Non può unʼanima gustar. Ah che angusto il cor mi balza Per la gioia non attesa; E dʼamor questʼalma accesa Non può lʼestasi calmar. Coro. Spera; che i nostri mali. Fa impietosire amor. (Tutte partono.)
Scena XIII
Edoardo, Rebecca, poi Angelica.
Reb. Non abbiate timor dʼalcun disastro. Venite a consolar la vostra amante. Ed. E dovʼè?
Reb. Chi lo sa?... Signora Angelica?... Signora padroncina! Ed. Non gridar tanto che se alcun ti sente... Reb. In casa non vʼè alcun... Signora Angelica!...
Ang. Rebecca: cosa vuoi?... Reb. Non son io che vi vuole... è quel Signore!... Ang. Edoardo sei tu?... Per qual prodigio Ti torno a riveder?... Reb. Parliamo poco!... Ed. Se tu acconsenti: questa notte... Ang. Oh cielo!... Che mi proponi... Ed. Il solo mezzo, il solo Che ci possa giovar. Reb. Fuggiam signora!... Ang. E il mondo che dirà?... Reb. Dica che vuole. Fuggiamo, e non facciam tante parole. Ang. Ohimè!... non siam piú a tempo Viene mio Zio!...
Ed. Per bacco!... ed or che fare?... Reb. E con lui Sinforiano!... Ed. E dove posso Nascondermi?
Reb. Là... entrate in quella stanza: Abbiate sofferenza; E speriam tutto dalla provvidenza! (Edoardo vien introdotto nella stanza ovʼera Angelica.)
Coro. Spera… che i nostri mali Rendon pietoso amor. Ang. Se di speme un raggio amico, Mi sorride in tal momento: Pari, o cielo, al mio contento Non può un anima gustar! Ah! che angusto il cor mi balza Per la gioia non attesa! E di amor questʼalma accesa Non può lʼestasi calmar. Coro. Spera; che i nostri mali. Rendon pietoso amor. (partono le villane.)
Scena Ultima. Edoardo ed Angelica, indi tutti come sono indicati.
Edo. Angelica! idol mio! Ecco ritorno a te. Ang. Che veggo! oh Dio ! Edo. Piú perigli non curo; a te dappresso Vengo a sfidar del fato Tutto il rigor. Ang. E Sinforiano? Edo. Ei volle Farmi partir, ma Amore Qua di nuovo mi trasse. Ang. Oh qual timore! Reb. Fuggite... vostro zio... Ang. Me sventurata! Edo. Dove celarmi? Ang. Egli già arriva! Reb. Presto... In quella stanza... Edo. Ah! qual momento è questo! (entra in una stanza.)
Scena XIV. Agapito, Sinforiano e Panfilio, Rebecca ed Angelica.
Panf. Chi potea figurarsi, Che il notar fosse andato a Molorido! Sinf. (Io il sapea da tre giorni.) Agap. Osserva Sinforiano! (additandogli Angelica e Rebecca.) Sinf. Eh! le ho vedute!... (Rebecca gli fa dei segni.) (Cosa sono quei segni?) Agap. Ed or, come facciamo?... Sinf. Lasciatemi pensare! (passeggiando va vicino a Rebecca e le dice.) (Io non capisco niente.) Reb. Il forestiere. È là…
Sinf. Ma dove?... Ang. Là!... Reb. Là in quella camera. Sinf. (Ho capito!) Eccellenza!... Agap. Che cʼè?... Sinf. Vorrei proporvi Un piano! Agap. Or via sentiamolo. Sinf. Ma quelle donne!... Agap. È vero colle donne Non si ponno far piani. Sinf. Facciamle allontanar. Panf. E questo è giusto Allontaniamle. Agap. E come?... Sinf. Or ci pensʼio, Signore gentilissime. Qui si deve parlar dʼaffari topici, Né vi si ammetton femmine; Per cui potranno andarsene Reb. Come vuole signor! Ang. Come comanda! Panf. E come vanno presto. Sin. E son capaci andar dal forestiere! Agap. No no signore mie: vadin là dentro! (additando loro la camera ovʼè Edoardo.) Ang. Come la dentro?... Sinf. Là!... Agap. Non vʼè risposta Reb. Ma noi... Sinf. Là dentro!... Panf. Usiamole violenza!...
Aga. Nzomma non siʼ briccone Comme tʼaggio creduto? Sin. Io son fedele, E finta ho quella scena Perché appena ho scoverto, Che di colui vostra nipote è amante, Volea di qua bandirlo in su lʼistante. Aga. Scusame, Segretaʼ si quacche bota Non conosco la mia bestialità. (Cancellieʼ! che te pare?) Pan. (Io veramente Non ne son persuaso interamente.) (Rebecca fa deʼ segni a Sinforiano.) Sin. (Rebecca! a che queʼ segni?) Reb. Il forestiere È là.) Sin. (Ma dove?) Reb. (Là!.. ) Ang. (Là in quella camera…) Sin. (Ho capito.) Signore gentilissime, Qui dobbiamo parlar di affari topici, Che non ammetton femine; Per cui potranno andarsene. Reb. Come vuole, signor… Aga. Come comanda... Pan. E come vanno presto! Sin. Là chiudetele, Son capace di andar dal forestiere. Aga. Dice buono! addò site? Nzerrateve! llà dinto... Ang. Come là dentro!... Sin. Là in quella camera... Aga. E da llà tutte doje non ve movite... Ang. Ma io... Aga. Zitto!... Reb. Ma lei... Aga. Zitto! Sin. Obbedite. (entrano Angelica e Rebecca nella stanza, ovʼè entrato Edoardo.) Aga. E le chiudo porzí. Sin. (Va ben la cosa!)
Sinf. Là dentro signorine... abbian pazienza! (spingono Angelica e Rebecca ovʼè Edoardo.) Agap. E le chiudo. (chiude a chiave la porta.) Sinf. E va bene! Panf. Or che si fa?... Sinf. Chiamiam Tiburzio. Agap. E poi? Sinf. Può servire con me da testimonio Per concludere alfine il matrimonio. Agap. Ed il terzo?... Sinf. A suo tempo il troveremo! Agap. Se Angelica non vuole? Sinf. Li chiuderemo entrambi in una stanza; E quando saran chiusi Chiamerem tutto il popolo di Burgos, E mostrerem che il cancelliere è il reo: Dietro questo, si forma lʼimeneo... Panf. Che bel piano!... Agap. Ma poi?... Sinf. State sicuro! Ehi Tiburzio!... Tiburzio!...
Scena XV. Tiburzio e detti.
Tib. A suoi comandi! Agap. È venuto nessuno?
Tib. Nessunissimo, Sinf. Senzʼaltra dilazione, E di comun volere: Las bodas concludiam del cancelliere! Agap. Dissipare un dubbio solo Mi dovresti, o segretario. Sinf. Di carattere non vario, E ogni dubbio annullerò. Agap. Non vorrei che mia nipote Mi facesse unʼinsolenza; Che di usare la violenza Ogni codice vietò. Panf. La violenza che le usiamo Non può farle, che piacere: Ve lo accerta un cancelliere Che piú volte amor sentí. Sinf. È costume inveterato Dʼogni astuta giovinetta: Dir di no con bocca stretta; Ma col cuore dir di sí. Agap. Voi credete?...
Sinf. - Panf. Che ogni cosa
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Pan. Direi, per farla presto, A togliere di mezzo ogni altro intoppo, Angelica obbligate ad impalmarmi E dopo potrà estendersi il contratto. Aga. Sí, dice buono, quanno è fatto è fatto. Sin. (Adesso viene il bello!) Aga. Angeʼ, jesce cca fora nʼauta vota. (escono Edo., Angelica, e Rebecca.)
Con onor terminerà. a 4. Al venire della sposa Quel che accade si vedrà. (Agapito va ad aprire.) Agap. Vieni Angelica!
Scena Ultima. Tutti i personaggi a suo tempo il coro.
Ang. Comandi. Sinf. - Agap. - Panf. - Tib. Ah! Agap. Lo vedi? Sinf. Il vedo! Panf. Oh bello! Agap. Quel del foglio! Panf. È quello è quello! Sinf. Con due donne! Panf. Ehi!... podestà!... Agap. Or lo servo come va Qual è il diavol, che vi muove A sturbar la pace altrui?... Sinf. Io vʼho detto, che colui Si doveva allontanar. Agap. Gli so dir, che in pertinacia Ella eccede, o mio signore. Edoard. Io mi vanto un uom dʼonore; E provarvelo saprò. È palese alla Castiglia Degli Isunzi la famiglia. Agap. Degli Isunzi?... Cosa dite? Edoar. Degli Isunzi: Signor sí. Agap. Io conobbi don Rodrigo. Edoar. Questi è appunto il padre mio! Agap. Vostro padre? Angel. Signor Zio, Deh! movetevi a pietà!... Agap. Vostro Padre era mio amico; Ma di voi piú saggio assai. Edoar. Sʼegli amato avesse mai, Avria fatto come me. Sinf. E mi par che dica bene, Da risponder qui non vʼè! a 2. Perdonate dallʼamore Nacque solo il nostro errore; Accogliete i nostri voti, E vi piaccia perdonar. Sinf. Don Agapito coraggio, Fu suo padre vostro amico,
Ang. Qui siamo... Edo. A suoi comandi... Aga. Ah! Pan. Oh! che miro? Sin. (Che bel quadro!) Aga. E llà dinto che facive? Edo. Ci era... vedete... per combinazione. Aga. Ah! lʼaggio fatto gruosso lo marrone! Nepota bricconissima! Forastiere fauzario! Edo. Orsú... signore... Vostra nipote adoro... Ang. Perdonatelo... Edo. Essa giammai sarà del Cancelliere... Ang. Perdonatemi... Edo. Io sono Un cavalier... mi chiamo... Edoardo Malvezzi... Ang. - Reb. Perdonate... Aga. E co sto perdonà cchiú me zucate! Pan. Signore, questo affronto... Aga. E tu siʼ figlio A Rodrico Marvizzo, amico mio? Edo. Appunto... Pan. A chi parlo io? Signore! Sin. (A quellʼavaro (ad Edo.) Gran moneta esibite...) Edo. Se Angelica cedete allʼamor mio, Tremila scudi in dono da me avrete. Pan. Tremila scudi? vengan le monete, E vi cedo la sposa... Aga. E moʼ faje buono... Te lieve da no guajo, e faje puragna. Ang. Oh qual contento ? Sin. Adesso tocca a voi. (ad Aga.) Aga. Che aggio da fa? fenimmola sta baja: Ecco i bastoni della mia vecchiaja. (sposa Ang. ed Edo.) Tutti. Frenar non posso il giubilo, La gioja del mio cor! Ah! dopo immensi palpiti
È palese omai lʼintrico, E bisogna perdonar.
Panf. Fanno i conti senza lʼoste Con me poi dovran parlar. Agap. Cosa serve, il caso è fatto! Non mi oppongo niente affatto; Ma lʼAmico cancelliere
Non so poi quel che dirà.
Panf. Ei dei giudici al cospetto I suoi dritti sosterrà.
Sinf. Esibitegli dellʼoro, E la furia passerà.
Agap. Son per voi tremila duri; Se non fate piú schiamazzo.
Panf. Me li prendo non son pazzo: La parola date qua.
Agap. Tutti a parte oggi pretendo Della mia felicità.
Sinf. - Reb. - Tib. Su correte… su venite Che concluso il tutto è già.
Coro. Viva i sposi!... Viva i sposi!... Ed il nostro podestà.
Angel. Caro Zio! Edoard. Signor! Agap. Tacete: Voi ficcata me lʼavete. Bricconacci!... vi perdono, Ma non fatelo mai piú. Tutti.
Frenar non sanno/posso il giubilo La gioia del suo/mio cuor Che dopo immensi palpiti, Piú dolce arride amor.
Piú dolce arride amor.
Livio Marcaletti
Il
giuramento alla tedesca, ovvero Das Gelübde di Saverio Mercadante (Vienna 1841)
Nei primi decenni del diciannovesimo secolo, il teatro di corte di Vienna (detto Kärtnertortheater perché situato nei pressi della Porta Carinzia che portava a sud)1 proponeva stagioni che mescolavano opera italiana e tedesca. Dopo il congresso di Vienna, la riacquisizione di alcuni Stati italiani da parte dellʼimpero austriaco resti tuiva alla musica italiana una posizione di spicco allʼinterno della politica culturale viennese, dopo che nellʼepoca napoleonica gli artisti italiani erano stati considerati pericolosamente vicini allʼimperatore francese.2 La scelta della corte di privilegiare lʼopera italiana a scapito del tedesco fu però contestata da piú parti come una strana eccezione delle terre germanofone:
La città imperiale di Vienna è la sola in Germania alla quale, per cosí dire, spetti il possesso di unʼopera italiana, dal momento che lo Stato austriaco possiede province italiane tanto estese; altrove ciò costituirebbe una sorta di mortificazione della nazionalità. Seppure le belle arti non siano niente piú che una bagatella nella vita politica, nemmeno in termini di bagatelle gli italiani dovrebbero essere preferiti ai tedeschi. È finito il tempo in cui i cantanti italiani erano spietatamente considerati parte integrante del decoro e dello splendore di una corte al pari di turchi e nani.3
1 Nelle locandine teatrali dalla fine degli anni Venti dellʼOttocento era chiamato «Teatro della Porta Carinthia» (vedi ClemeNS HÖSlINGer, Geschichte der Oper in Wien, a cura di Dominique Meyer et al., Wien, Molden Verlag, I, p. 211)
2 ClAudIo VelluTINI, Rossiniʼs operas in Vienna and the politics of translation, 1816-1822, in Gioachino Rossini 1868-2018. La musica e il mondo, a cura di Ilaria Narici, Emilio Sala, Ema nuele Senici, Benjamin Walton, Pesaro, Fondazione Rossini, 2018 (Saggi e fonti, 5), pp. 337-356.
3 «Wiener Theater-Zeitung», 29 marzo 1817, p. 452 (dove non specificato altrimenti, le tradu zioni in italiano sono dellʼautore dellʼarticolo): «[N]ur der Kaiserstadt Wien allein in Deutschland gebühre es gleichsam, noch eine italienische Oper zu besitzen; da der österreichische Staat
Tale eccezione era senzʼaltro ad ascrivere alla secolare predilezione per lʼopera italiana che la corte asburgica coltivava dai tempi di Leopoldo I. Al di là dei gusti personali dei singoli imperatori (Francesco I non era certo un grande ammiratore dellʼopera italiana), la riaffermazione dellʼopera italiana dopo il Congresso di Vienna rappresentava simbolicamente la restaurazione del potere imperiale.4 La febbre rossiniana imperante negli anni Venti, con la gestione del Teatro di Porta Carinzia da parte di Domenico Barbaja, non costituiva certo lo sfondo ideale per un rilancio dellʼopera tedesca. Nondimeno, Barbaja stesso istituí un apposito comitato per lʼopera tedesca,5 che alternava picchi qualitativi – si pensi al Freischütz di Carl Maria von Weber (1822) – e momenti deludenti, come lʼaccoglienza fredda riservata lʼanno seguente a Euryanthe dello stesso Weber, sonoramente bocciata da Franz Grillparzer come unʼopera che poteva piacere solo a «malati di mente», «sciocchi», o ancora a «eruditi, ladri di strada e assassini».6
La stagione tedesca non ospitava solamente opere originariamente scritte in tedesco, ma anche traduzioni di opere italiane e soprattutto francesi. Queste ultime, che non avevano altrimenti altro spazio nel cartellone del Teatro di Porta Carinzia,7 dominarono il periodo di gestione dellʼimpresario francese Louis Duport tra il 1830 e il 1836. Questo interregno ʼfilofranceseʼ, che occupava uno spazio lasciato libero dallʼeliminazione della stagione italiana,8 vide la messinscena in traduzione tedesca di melodrammi francesi di Rossini (Moses, Die Bestürmung von Corinth), Herold (Zampa), Meyerbeer (Robert der Teufel), Auber (Die Ballnacht), Halévy (Die Judin), Cherubini (Medea), e Spontini (Fernand Cortez). A Duport succedettero i due impresari italiani Balocchino e Merelli, che riportarono in auge lʼopera italiana. 9 Su un centinaio di produzioni della gestione Balocchino-Merelli, circa la metà erano opere italiane (in lingua originale o in traduzione), a cui si sommano una trentina di opere tedesche e quattordici francesi.10
Il ruolo che lʼoperato di Saverio Mercadante giocò nelle stagioni operistiche del
so große italienische Provinzen hat. An jedem andern Ort scheine es gewissermaßen eine Kränkung der Nationalität. Die schönen Künste sind freylich nur der Scherz im politischen Leben, aber auch im Scherz sollten die Italiener den Deutschen nicht vorgezogen werden. Die Zeit ist vorüber, in welcher italienische Sänger, wie Hoftürken und Hofzwerge unnachläßlich zum anständigen Glanze gehörten». Vedi VelluTINI, Rossiniʼs operas in Vienna cit., p. 343.
4
5
VelluTINI, Rossiniʼs operas in Vienna cit., p. 344.
FrANZ HAdAmoVSky, Wien: Theatergeschichte, Wien, Dachsverlag, 2. Auflage, 1994, pp. 343-344.
6
7
8
HÖSlINGer, Geschichte der Oper in Wien cit., p. 212.
mICHAel JAHN, Die Wiener Hofoper von 1836 bis 1848: Die Ära Balocchino/Merelli, Wien, Verlag der Apfel, 2004, p. 15.
HÖSlINGer, Geschichte der Oper in Wien cit., p. 213.
9 JAHN, Die Wiener Hofoper von 1836 bis 1848 cit., p. 11.
10
HAdAmoWSky, Wien: Theatergeschichte cit., pp. 362-3.
Teatro di Porta Carinzia fu tuttʼaltro che secondario, pur con alterne fortune. Il soggiorno del compositore di Altamura nel 1824 su invito di Barbaja non sortí gli effetti sperati. Al successo iniziale della ripresa di Elisa e Claudio (première 10 luglio 1824) fece seguito il fallimento di Doralice, scritta ad hoc per il teatro di corte e caduta dopo due sole rappresentazioni.11 Lʼinsuccesso non è certo da imputare alla qualità dellʼesecuzione, garantita dalla presenza di interpreti del calibro dei tenori Rubini e Donzelli: pubblico e critica giudicarono il libretto noioso e la musica mal strutturata e disomogenea («Sie ist voll Reminiscenzen, die Tonstücke sind sehr gedehnt und so zerrissen durch häufige Einschnitte, daß sich aller Effekt auslöset»).12 Non ebbe miglior sorte il melodramma giocoso Il podestà di Burgos (première 20 novembre 1824), su libretto di Calisto Bassi, considerato una «farsa triviale» in cui Mercadante avrebbe messo tutto in musica in parlando e non avrebbe sufficientemente curato lʼaspetto melodico.13
La stella di Mercadante a Vienna brillò piú fulgida nel decennio seguente, quando le cosiddette opere ʼriformateʼ ricevettero tuttʼaltra accoglienza da parte del pubblico viennese. Particolarmente celebrate furono Il Giuramento (1838), Elena da Feltre (1840), Il Bravo (1841), La Vestale (1842) e I Normanni a Parigi (1844). Al successo di queste opere potrebbe aver contribuito lʼatteggiamento severo di Mercadante nei confronti del canto fiorito, tenuto sotto controllo per evitare arbitri eccessivi da parte dei cantanti. Cosí si esprimeva il recensore della Allgemeine musikalische Zeitung in merito a unʼesecuzione de Il giuramento nel 1838:
Noi, amici tedeschi del teatro, siamo altamente grati al compositore che ci risparmia la solita comoda aria di bravura in una situazione drammaturgica di tale serietà. Egli non lascia affondare lo spirito della sua eroina tra i flutti di un profluvio di colorature e scale cromatiche, pur rischiando cosí che i suoi connazionali, deprecabilmente avidi di un vano titillamento dei sensi, gli rinfaccino di volersi rinnegare col sacrificio volontario del canto di coloratura. Proprio questa scelta giovò alla primadonna, la signora Schoberlechner dellʼOcca, che, rinunciando a bagatelle mistificatorie, riuscí perfettamente a risvegliare il sommo interesse del pubblico con lʼaiuto di unʼarte ben concepita e adeguatamente sostenuta dallʼarte mimica.14
11
mICHAel JAHN, «Di tanti palpiti…». Italiener in Wien, Wien, Verlag der Apfel, 2006 (Schriften zur Wiener Operngeschichte, 3), p. 127.
12
«Allgemeine Theaterzeitung und Unterhaltungsblatt für Freunde der Kunst, Literatur und des geselligen Lebens» XVII/115, 23 settembre 1824, p. 459 e sgg., vedi JAHN, «Di tanti palpiti…» cit., p. 129.
13
14
«Allgemeine musikalische Zeitung» XXVI, 23 dicembre 1824, col. 856, vedi JAHN, «Di tanti palpiti…» cit., p. 139.
«Allgemeine musikalische Zeitung» Xl, 1838, coll. 539 e sgg., vedi ClemeNS rISI, Auf dem Weg zu einem italienischen Musikdrama: Konzeption, Inszenierung und Rezeption des melodramma
Se negli anni Venti le opere di Mercadante furono sempre eseguite in italiano, nel decennio successivo iniziarono tentativi infelici di messinscena in lingua tedesca in un altro teatro viennese, il Theater in der Josefstadt, con Elise und Claudio (1833) e Die Normannen in Paris (1834). 15
Piú fortuna ebbe, nel Teatro di Porta Carinzia, la produzione tedesca de Il Giu ramento del 1841, che fece seguito alle rappresentazioni in italiano del 1838 e nel 1840. Il cast di Das Gelübde (questo il titolo tedesco) era quasi integralmente ger manofono, con lʼeccezione del tenore napoletano Giovanni Basadonna. Allievo di Andrea Nozzari, Basadonna si era affermato al San Carlo prima di spostarsi a Vienna e debuttare al Teatro di Porta Carinzia il 4 gennaio 1841 nella Norma in traduzione.16 Può sorprendere che un cantante italiano si specializzasse con successo nel reper torio di lingua tedesca,17 eppure la critica del tempo lo lodava per la sua pronuncia impeccabile, nonch lʼespressività e il gusto nellʼuso dellʼornamentazione. Unica pecca, la sua voce sembrava essere invecchiata anzitempo:
La sua esecuzione è sempre corretta, ricca di espressività ed efficacia drammatica; la pronuncia dellʼidioma straniero è estremamente pulita; gli abbellimenti apportati con parsimonia e sempre al posto giusto sono frutto del gusto piú puro e non sono mai in contraddizione con la situazione drammatica […] Se il tempo impietoso non avesse fatto valere le sue ragioni, e Basadonna – forse affaticato dalle sue imprese artistiche – non avesse parzialmente perso in tempi recentissimi il metallo della sua voce (ancora intatto in alcune corde del registro centrale), egli avrebbe senza ombra di dubbio un posto dʼonore tra tutti i tenori viventi e tra i rivali piú celebrati, come Rubini o Duprez, e forse li supererebbe addirittura in
vor 1850 bei Saverio Mercadante und Giovanni Pacini, Italienisches Musikdrama vor 1850, Tutzing, Schneider, 2004 (Mainzer Studien zur Musikwissenschaft, 42), p. 254: «Wir teutsche Thea terfreunde wissen es dem Tondichter aufrichtig Dank, dass er uns in solch ernster Situazion mit einer gewöhnlichen, bequemen Bravour-Arie verschont und die Seele seiner Heldin nicht unter einem Schwalle von Rouladen und chromatischen Läufen entfliehen lässt; obwohl ihm vielleicht gerade eben diese freiwillige, selbstverläugnende Aufopferung von seinen, nach schnöder Sinnenlust geizenden Landsleuten zum unverzeihlichen Vorwurf gemacht werden dürfte. Auf die Prima Donna, Signora Schoberlechner dellʼOcca wirft es desgleichen das vor theilhafteste Licht, dass sie sich mit einer Aufgabe begnügte, welche, obschon des täuschend mystifizirenden Flittertandes entbehrend, dennoch vollkommen befähigt ist, bei richtiger Auffassung, unterstützt durch mimische Kunst, das höchste Interesse zu erwecken».
15 JAHN, «Di tanti palpiti…» cit., p. 140.
16
JAHN, Die Wiener Hofoper von 1836 bis 1848 cit., p. 161.
17 Non era dʼaltronde una novità assoluta che cantanti di madrelingua italiana prendessero parte alla stagione tedesca con ottimi risultati: si pensi tra gli altri a Giulio Radicchi, interpre te di Florestan in Fidelio al Teatro di Porta Carinzia nel 1814, o a Giuseppe Siboni nel ruolo di Licinio nella versione tedesca de La Vestale di Spontini del 1810. Vedi ClemeNS HÖSlINGer, Geschichte der Oper in Wien cit., pp. 202-206.
termini di classica dignità.18
Lʼinvecchiamento precoce della voce di Basadonna potrebbe essere la ragione per alcune modifiche apportate allʼadattamento tedesco de Il Giuramento che saranno esaminate piú avanti. Tale adattamento riguarda però in prima linea il testo cantato, tradotto in una forma cantabile sulla musica originale, operazione estremamente complessa per il cui studio disponiamo fortunatamente di diverse fonti conservate nella Musiksammlung della Österreichische Nationalbibliothek.
Libretto e problemi di traduzione
La fonte piú ovvia in cui cercare il testo della traduzione è il libretto a stampa della produzione de Il Giuramento nella versione del 1841, che reca il seguente fronte spizio:
Das Gelübde. | Oper in drei Aufzügen. | Aus dem Italienischen (il giuramento). | Für das k. k. Hoftheater nächst dem Kärnthnerthore frei bearbeitet. | Musik von Mercadante. | WIeN. | Gedruckt bei Anton Benko.19
Oltre a specificare che si tratta di unʼopera per il Teatro di Porta Carinzia, si afferma che si tratta di una traduzione «dallʼitaliano» («aus dem Italienischen») ma che questa è «liberamente rielaborata» («frei bearbeitet»). Una traduzione di unʼopera comporta sempre un processo di adattamento piú o meno sostanziale. Proprio per dirimere problemi terminologici relativi alla definizione dei diversi gradi di adattamento, il comparatista belga André Lefevere ha suggerito di adottare in questi casi il concetto di «riscrittura» («rewriting») quale comprensivo delle diverse sfumature che vanno tra una traduzione piuttosto fedele al testo di partenza fino a una modifica radicale dello stesso.20
18
«Allgemeine musikalische Zeitung» XVIII, 1841, col. 366: «Sein Vortrag ist streng korrekt, voll Ausdruck und dramatischer Wirksamkeit; die Aussprache des fremdartigen Idioms höchst deutlich; seine sparsam und stets am rechten Orte angebrachten Verzierungen sind Früchten des reinsten Geschmacks und stehen niemals in Widerspruche mit der Situazion […] Hätte die schonungslos um sich greifende Zeit nicht ihr Recht geltend gemacht, und Basadonna vielleicht wohl auch durch angestrengte Kunstleistungen in jüngst verflossener Epoche den Metallklang seines Stimmorgans nicht parziell eingebüsst, wofür selbst jetzt noch einige Chorden der Mittelregion Bürgschaft leisten, - er müsste unbestritten unter allen lebenden Tenoristen den Ehrenplatz einnehmen und gefeierte Rivalen, wie Rubini oder Duprez, in Beziehung klassischer Gediegenheit sogar übertreffen».
19 Österreichische Nationalbibliothek, segnatura 987574-B muS mAG.
20 ANdré leFeVere, Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame, London et al., Routledge, 1992, p. 36: «the term rewriting absolves us of the necessity to draw borderlines between various forms of rewriting, such as “translation”, “adaptation”, “emulation”».
Limitandoci allʼambito ristretto delle traduzioni operistiche dallʼitaliano al tede sco nella Vienna della prima metà dellʼOttocento, è possibile verificare lʼesistenza di diverse tipologie di riscrittura. La traduzione in tedesco di opere rossiniane comportava nella norma la sostituzione dei recitativi semplici in dialoghi, secondo la tradizione del Singspiel tedesco, o addirittura la loro totale eliminazione. Le opere buffe, a causa del loro carattere troppo vicino alla farsa e troppo lontano dal tono morale e didattico dei Singspiele coevi, potevano essere soggette a sostanziali modifiche della trama ispirate a ragioni ideologiche. Notevole è il caso de Lʼitaliana in Algeri, con pesanti censure alla cavatina di Isabella del primo atto e al successivo duetto con Taddeo, rei di allusioni a costumi sessuali inaccettabili per la pruderie della Vienna postnapoleonica; per non menzionare la riscrittura completa del finale, orbato della scena dei «pappataci» (forsʼanche per la difficoltà di rendere il gioco di parole in tedesco, ma principalmente per il carattere farsesco della scena) e risolto con lʼarrivo di una nave inglese a salvare gli schiavi italiani.21
Queste modifiche sono parte dei problemi di traduzione culturale relativi allʼopera, che da questo punto di vista necessita unʼanalisi che tenga conto delle cor relazioni tra i diversi elementi che costituiscono unʼesecuzione operistica: libretto, musica, messa in scena. Come evidenziato dallo studioso di teorie della traduzione Klaus Kaindl,
se la musica o la forma musicale del testo di partenza rappresenta un fenomeno specifico di una data cultura, un adattamento del testo parlato alle convenzioni operistiche della cultura di arrivo della traduzione che punti al mantenimento dello stile compositivo della cultura di partenza porta automaticamente a una differenza tra rappresentazione linguistica ed espressione musicale, differenza che porta a una rottura dellʼunità linguistico-musicale dellʼopera originale.22
Nel caso di Das Gelübde non sono ravvisabili tentativi di riscrittura radicale ispirata a criteri politici o ideologici. Lo studio di questa traduzione è però esem plare dal punto di vista metrico. Ci si aspetterebbe infatti di trovare nel libretto una traduzione ritmica, che si adatti cioè alla musica originale dellʼopera italiana con eventuali piccoli aggiustamenti della lunghezza delle note, ad esempio dividendone una in due o raggruppandone due parigrado in una. Ciò comporta che il testo di
21
22
VelluTINI, Rossiniʼs operas in Vienna cit., pp. 347-350.
klAuS kAINdl, Oper als Textgestalt. Perspektiven einer interdisziplinären Übersetzungswis senschaft, Tübingen, Stauffenberg Verlag, 1995, p. 56: «Wenn Musik bzw. die musikalische Gestaltung einer sprachlichen Vorlage ein kulturspezifisches Phänomen darstellt, so würde eine Anpassung des sprachlichen Textes an die zielkulturellen Operngestaltungskonventionen unter Beibehaltung des ausgangskulturellen Kompositionsstils automatisch zu einer Differenz zwischen sprachlicher Darstellung und musikalischem Ausdruck führen, durch welche die musikalisch-sprachliche Ganzheit des Originals aufgebrochen würde».
partenza e quello di arrivo debbano avere in comune una struttura metrica analoga, in cui le sillabe accentate siano il piú possibile sovrapponibili e corrispondano ai tempi forti della battuta o a picchi melodici, e questo ad onta delle profonde differenze prosodiche tra le due lingue. Una traduzione ritmica richiede perciò notevoli cambiamenti a livello lessicale e semantico per ottenere ad esempio una determinata lunghezza del verso o un medesimo schema di rime. Oltre al rapporto metrico-semantico tra testo di partenza e testo di arrivo, la traduzione deve tenere conto anche delle differenze culturali e di tradizioni nazionali operistiche, come già menzionato in riferimento agli adattamenti rossiniani.
In lingua tedesca ciò ha portato allo sviluppo di uno stile di traduzione operi stica, il cosiddetto Operndeutsch, aspramente criticato nel ventesimo secolo da piú musicologi tedeschi, tra cui Siegfried Anheisser:
Il tedesco operistico (Operndeutsch) è una costruzione che aspira al rango di lingua tedesca, ma non ne è che la caricatura, con la sua ampollosità, le sue espressioni sgraziate e confuse, le sue soluzioni dʼemergenza insoddisfacenti, i suoi giri di parole e le sue strutture sintattiche intrecciate.23
Qualche decennio dopo, Kurt Honolka definiva nella sua Kulturgeschichte des Librettos (1979) lʼOperndeutsch un «sacrilegio» basato su «inversioni ridicole» e «orribile pseudo-poesia».24
Unʼalternativa alla traduzione ritmica che possa mantenere il piú fedelmente pos sibile gli aspetti stilistici, sintattici e semantici dellʼoriginale deve spesso rinunciare alla somiglianza metrico-prosodica, e quindi allʼeseguibilità sulla musica originale. È il caso delle traduzioni di sola lettura, che di norma accompagnano unʼesecuzione in lingua originale. Questo tipo di traduzioni, tradizionalmente stampate nei pro grammi di sala in vendita a teatro o sul mercato librario – molto noti in ambito germanofono sono per esempio i pratici volumetti in copertina gialla della casa editrice Reclam. In tempi recenti, il libretto stampato è sempre piú frequentemente sostituito dai piú tecnologici sopratitoli, proiettati vicino al palcoscenico (sopra o su entrambi i lati) o visualizzati in schermi elettronici di cui i piú moderni sedili dei teatri dʼopera possono essere dotati.
La tendenza piú recente delle traduzioni di servizio per una esecuzione in lingua
23 SIeGFrIed ANHeISSer, Für den deutschen Mozart. Das Ringen um gültige deutsche Sprachform der italienischen Opern Mozarts, «Die Schaubühne. Quellen und Forschungen zur Theaterge schichte», hrsg. von Carl Niessen, Emsdetten, Lechte XXVI, 1938, p. 140: «Das Operndeutsch ist ein Gebilde, das zwar beansprucht, als deutsche Sprache zu gelten, doch erscheint es mit seinem Schwilst, mit seiner unbeholfenen und verwaschenen Ausdrucksweise, seinen unbe friedigenden Notlösungen, den Wortverdrehungen und Verschachtelungen nur als ihr Zerr bild».
24 kurT HoNolkA, Kulturgeschichte des Librettos, Wilhelmshaven, Heinrichhofenʼs Verlag, 1979, p. 234.
originale è di impiegare una prosa piuttosto semplice, che in forma scritta può talora essere una traduzione linea per linea senza cercare di riprodurre qualsivoglia struttura metrica in versi. Le traduzioni per sopratitoli devono sottostare a ulteriori limitazioni legate alla sincronizzazione con il canto (particolarmente problematica nei pezzi dʼinsieme), allo spazio limitato sullo schermo, alla preparazione talora inadeguata dei traduttori. Ne risulta spesso una prosa modernizzante, povera e omogenizzante, che annulla le differenze di registro linguistico e ostacola la com prensione delle scene comiche.25
Nel caso specifico di Das Gelübde, lʼanonimo traduttore ottocentesco sembra aver agito in maniera non del tutto coerente. La traduzione stampata sul libretto è infatti, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, solo parzialmente ritmica. Si prenda a moʼ di esempio la prima aria dellʼopera, una delle piú note, la cavatina di Viscardo «Bella, adorata incognita», con la quale il cavaliere beneventano esprime il suo amore per Bianca, di cui egli va in traccia:
VISCArdo. Bella, adorata incognita, A me chi ti rapí?
Il tuo Viscardo, misero!
Te cerca da quel dí. Trovarti… rivederti
Un solo istante ancora… Udir, io tʼamo… dirtelo! E morrò lieto allora. Privo di te, piú vivere Non posso omai cosí.
Si tratta di unʼaria in settenari misti (sdruccioli, piani e tronchi), che quindi presentano un diverso numero di sillabe ma con lʼultimo accento sempre sulla sesta sillaba. Il traduttore mantiene questa struttura sia dal punto di vista metrico che delle rime:
VISCArdo. Du meiner Sehnsucht fernes Bild, Ach wer entzog Dich mir?
25 Vedi HuGH mACdoNAld, Opera Translation in the 21st Century, «Librettoübersetzung. Interkul turalität im europäischen Musiktheater», a cura di Herbert Schneider e Rainer Schmusch, Hildesheim, Olms, 2009, pp. 35-42 e ASTrId BerNICke, Die deutsche Übertitelung italienischer Opern. Ein musikwissenschaftlicher Ansatz dargestellt am Beispiel von Giuseppe Verdis Aida, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2006, pp. 9-19. Recentemente si è posto lʼaccento anche sui vantaggi che le limitazioni tecniche dei sopratitoli possono comportare, riducendo già dal principio le possibilità di traduzione e rendendo quindi tale scelta piú agevole, vedi ANNA rędZIoCH korkuZ, Constraints on Opera Surtitling: Hindrance or Help?, «Meta» 63/1, 2018, pp. 216-234.
Dich sucht umsonst mein Thränenblick, Mein Seufzer frägt nach Dir. Dich finden, wiedersehen –Wann werdʼ ich es erreichen?
Sprichʼ nur die Wortʼ: Ich liebʼ Dich; Dann will ich gern erbleichen. Ach ohne Dich, Bianca,Blüht keine Freude mir.
(VISCArdo. Tu lontana immagine della mia nostalgia, Ah, chi ti rapí a me?
Te cerca invano il mio sguardo pieno di lacrime, I miei sospiri chiedono di te. Trovarti, rivederti, Quando mi sarà possibile?
Diʼ solo le parole: io tʼamo, E allora potrò spirar felice. Ah senza te, Bianca, non ho piú gioia al cor.)
Il traduttore riesce addirittura a riprodurre in maniera credibile i settenari sdruccioli, in particolare con lʼuso della parola proparossitona «Thränenblick» a chiusura del terzo verso. Certo, dal punto di vista semantico il testo cambia legger mente, attingendo prevalentemente al campo semantico del pianto («Thränenblick», «Seufzer») con una tinta larmoyante assente nellʼoriginale italiano. Per contro, la risoluzione alla morte in assenza dellʼamata Bianca (il cui nome è pronunciato peraltro solo nella traduzione tedesca) è piú evidente in italiano con «morrò» e «piú vivere / non posso», che è invece piú blando in tedesco con «erbleichen» (letteralmente «impallidire», eufemistico rispetto a «sterben», «morire») e «blüht keine Freude mir», che indica una vita senza gioia piú che unʼimpossibilità di vivere. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe però, in altri punti la traduzione non è ritmica. Si prenda ad esempio il coro iniziale dellʼopera, fatto interamente di settenari, perlopiú piani, talora sdruccioli o tronchi:
Coro. Odi: ogni intorno echeggiano Suoni giulivi e canti.
Vedi sparir, succedersi Festevoli danzanti.
Qui di piacer, di gioja Tutto è sorriso, ardor.
Tra vaghi incanti è questa La reggia dellʼamor.
La traduzione nel libretto non imita la struttura metrica originale, che diviene talora irriconoscibile (tra parentesi il numero totale di sillabe):
CHor. Höret! (2)
Gesang erschallet, von Hand zu Hand, (9)
Es kreisen die Pokale. (7) Sehet! (2)
Sie nahʼn und fleihʼn, (5) Tanzende Reihʼn in Saale. (7)
Hier walten Liebʼ und Wonne, (7)
Hier thronet edler Frauensinn. (8)
(Coro: Ascoltate!
Canti echeggiano, e da mano a mano si passano i calici.
Guardate! Si avvicinano e si allontanano
File danzanti nella sala.
Qui regnano amore e gioia, Qui domina la leggerezza.)
Come è possibile cantare un tale testo sulla musica originale cucita ad hoc sui settenari? La partitura completa26 è priva di traduzione tedesca in questo punto, il che spinge a ipotizzare che essa rappresenti uno stadio di lavoro intermedio tra le esecuzioni in italiano del 1838/1840 e quella tedesca del 1841. Questo problema specifico può essere però risolto grazie alla partitura del maestro suggeritore,27 che riporta la traduzione tedesca per intero. Sia il testo italiano che quello tedesco ven gono leggermente modificati: il primo verso italiano diviene «Odi: in ogni intorno | echeggiano» (versione confermata anche dalla partitura generale) in modo da aggiungere una sillaba e da avere una dialefe tra «intorno» e «echeggiano», mentre il testo tedesco viene riscritto come segue:
CHor. Höret! Gesang erschallet, von Hand zu Hand Kreisen die gold Pokalʼ Sehet! Sie nahʼn und fleihʼn Tanzende Reihʼn in Saale.
Hier walten Liebʼ und Wonne, Hier thronet edler Frauensinn.
Questa nuova versificazione risulta anomala per il sistema metrico tedesco
26
27
Österreichische Nationalbibliothek, segnatura oA.3 muS mAG
Österreichische Nationalbibliothek, segnatura oA.3/2 muS mAG.
basato su piedi analoghi a quelli classici: si possono intravedere versi che mesco lano dattili e trochei (come il terzo e il quarto) o fatti di giambi (quinto e sesto). La priorità in questo caso non è però lʼassimilazione a modelli metrici tedeschi, ma il tentativo di ricalcare i versi italiani per adattare il nuovo testo alla musica originale. Il primo verso italiano cosí cambiato ha undici sillabe, ma non corrisponde in alcun modo a un endecasillabo tradizionale; consente però di sovrapporci il primo verso tedesco, che conta anchʼesso undici sillabe (con lʼultima accentata). Gli altri versi tedeschi, con una piccola modifica che consente di avere unʼaccentazione vicina allʼitaliano («Es kreisen die Pokale» diviene «Kreisen die gold Pokalʼ»), corrispon dono ora a dei settenari; pur non essendo sempre della stessa natura dei settenari italiani (piani, sdruccioli, o tronchi), lʼadattamento ritmico della melodia originale è ora possibile con minimi aggiustamenti:
Figura 1:
SAVERIO MERCADANTE, Das Gelübde 1841, I,1, «Höret, Gesang erschallet».
Un caso ancora piú complesso è quello del recitativo in I,4. Trascrivendo il testo dalla partitura del maestro suggeritore, il testo italiano e tedesco vengono cosí modificati (le aggiunte sono sottolineate e le dialefi introdotte sono indicate con il segno | ):
VISCArdo. Brunoro… | o tu, lʼantico (7+1 per dialefe=8)
Neglʼanni di mia gloria fido | amico, (11+1 per dialefe=12)
Vieni al mio seno ancora. Torna fortuna (11+1=12)
A sorridermi omai.
BruNoro. Ed a me pur. (10=endecasillabo tronco)
VISCArdo. E tu conosci… sai (7)
Dunque | ove sta celato (7+1 per dialefe=8)
Questʼidolo adorato, (7)
Di cui mi sorprendesti (7)
Lʼimmago qui a bacciar quando giungesti? (11)
VISCArdo. Brunoro, du Freund des Herzens, (8)
Du meines Waffenruhmes treuer Gefährte, (12)
Laß an mein Herz dich schließen, dich hab ich wieder! (12)
Mir lacht das Glück aufʼs Neue. (7)
BruNoro. Es lacht auch mir.
VISCArdo. Du kennst sie also? Du (12)
Weißt, wo sie verborgen weilet, (8)
Die meinen Herzen theuer, (7)
Die du – mich überraschend (7)
Im Bilde küssen sahst, als wir uns fanden? (11)
Il processo di trasformazione sfrutta la flessibilità prosodica dellʼitaliano, il cui conteggio delle sillabe può essere spesso modificato grazie a processi fonologici cosiddetti di sandhi, come sinalefe, dialefe, sineresi e dieresi, elisioni, troncamenti ecc.28 Gli esempi qui apportati mostrano come uno studio approfondito della tra duzione operistica non possa basarsi, almeno per questo ambito cronologico e geografico, solo sul confronto dei libretti, ma debba prendere in considerazione anche fonti musicali, sulle quali si tornerà piú avanti.
Indicazioni di regia
Il libretto conservato alla Biblioteca Nazionale di Vienna non è solo interessante per lo studio della traduzione linguistica del testo poetico, ma anche per quanto con cerne la traduzione in forma scenica del dramma per musica. Lʼesemplare contiene infatti una copiosa messe di annotazioni manoscritte in Kurrentschrift29 riguardanti aspetti di messa in scena. Sulle note a margine del testo poetico stampato ritorne remo piú tardi. Le annotazioni piú interessanti sono invece presenti in un fascicolo di carte di grandezza inferiore a quella del libretto stampato e inserito intorno alla metà dello stesso. Le annotazioni concernono una pluralità di aspetti della mise en scène: la disposizione degli elementi scenografici sul palco e la descrizione delle scene; un elenco dei cantanti coinvolti nella produzione; una lista delle comparse e degli oggetti impiegati per ogni scena. Una sorta di ʼdisposizioni scenicheʼ che, certo non paragonabili a quelle stampate in quegli anni per i teatri francesi,30 costi
28 elmAr SCHAFroTH, Sprache und Musik. Zur Analyse gesungener Sprachen anhand von Operna rien, <https://www.yumpu.com/de/document/read/6745106/sprache-und-musik-zur-analysegesungener-sprachen-anhand-von-> (ultima consultazione 25 giugno 2021), p. 11.
29 Ringrazio Andrea Sommer-Mathis per lʼaiuto fornitomi nella decifrazione di alcune annota zioni di non facile lettura.
30 Per una disamina sullʼuso odierno delle disposizioni sceniche per il Grand Opéra francese, vedi ArNold JACoBSHAGeN, Staging Grand Opéra – Historically Informed?, «Bild und Bewegung im Musiktheater. Interdisziplinäre Studien im Umfeld der Grand Opéra», a cura di Roman
tuivano la base del lavoro del direttore di scena di quei tempi, che poco aveva a che spartire con il moderno regista affermatosi nel Novecento. Nel Teatro di Porta Carinzia questo ruolo era perlopiú assolto da cantanti attempati, che si occupavano di controllare le entrate e le uscite dei cantanti, la corretta disposizione degli elementi scenici e in generale il regolare svolgimento della serata.31
Dai nomi dei cantanti si evince che risalivano alla produzione italiana del 1838 e, nel caso gli interpreti fossero nel frattempo cambiati, alla ripresa del 1840:
Manfred. Graf von Sirakusa | Sig. Cartagen[ov]a | R[onconi]
Bianca. Seine Gemahlin | Brambilla
Elaisa. Eine fremde Dame | Schoberlechner | U[nger] Viscardo, von Benevent | Pedrazzi | Mo[riani]
Bruno, Secretair des Grafen | Bengrolini Isaura. Begleiterin der Bianca | Tuczek
Verso la fine del fascicolo aggiunto si trova anche in calce alla pagina una firma (Hoffmann) e una data, 27 marzo 1838. Se ne può desumere che queste ʼdisposizioni scenicheʼ fossero state redatte per la prima produzione italiana, successivamente reimpiegate per la ripresa del 1840 con le modifiche aggiunte dei nuovi nomi, e infine inserite nel libretto del 1841 per la versione tedesca. La loro struttura ripete in forma ciclica la successione di atti e scene per ogni sezione. Nella parte iniziale sono disegnati dei prospetti delle scene di ogni atto, come ad esempio la scena che apre lʼopera e che mostra il mare sullo sfondo con alcune barche, un giardino sulla destra, la casa di Elaisa sulla sinistra. In generale si indica per ogni scena la dispo sizione delle porte di uscita e la presenza di elementi scenografici rilevanti, come ad esempio il mausoleo nel cimitero del secondo atto. Segue poi una lista di tutte le comparse impiegate nellʼopera, lista che è poi ripresa separatamente per ogni scena in cui compaiono. Lʼultima sezione delle ʼdisposizioni scenicheʼ infatti, quella preponderante, è costituita da una descrizione scena per scena della scenografia, cambi di scena, personaggi e oggetti in scena, eventuali azioni dei cantanti che hanno una conseguenza negli spostamenti, nella produzione di particolari suoni ecc. Si prenda ad esempio la pagina relativa allʼapertura del primo atto:
Actus 1: Schirmnacht:
/: Beleuchteter Garten, Links der Pallast, | mit Stuffen (beleuchtet) Rechts Alleen – | in Vordergrund Recht ein Pavillon. - | Im hintergrunde die Meeres Cüste: / |
La didascalia traduce quella presente nel libretto italiano stampato per Milano:
Brotbeck et al., Schliengen, Argus Verlag, 2018, pp. 241-262.
31 JAHN, Die Wiener Hofoper von 1836 bis 1848 cit., p. 54.
Atto primo | Scena I. | Palazzo dʼElaisa, a sinistra, con scalinata. Lʼatrio, e i superiori appartamenti si scorgono disposti a festa notturna. Viali alla destra. Lʼavanti della scena presenta un padiglione. Nel fondo spiaggia del mare.
Nel caso della scena quinta del primo atto, che rappresenta le stanze di Bianca, la lista degli oggetti di scena è integrata da un disegno esplicativo:
Figura 2: rappresentazione grafica della disposizione degli oggetti in atto I,5.
Anche le sezioni che descrivono ciò che avviene sulla scena sembrano essere riprese quasi letteralmente dalle didascalie del libretto italiano (perlopiú assenti nel libretto stampato tedesco). A fine secondo atto, dopo il terzetto, Bianca beve il veleno:
/: Am Schluß trinkt Bianca Gift, | wirf das Flächschen weg, und fällt Elisa an den Stuffen des Grab= | mahls in die Arme. – Manfred | entfernt sich mit wilder freude:/
Ancora una volta, questa indicazione deriva direttamente dal libretto italiano:
(Bia. Bee dallʼampolla che le porse Ela., la gitta, freme, vacilla, e cade in braccio di Ela. sui gradini del monumento. Man. parte con gioia feroce).
I contenuti sono gli stessi, la traduzione tedesca è però piú secca e pragmatica: manca ad esempio il riferimento al fremere e vacillare, in tedesco Bianca cade diret tamente nelle braccia di Elaisa. Le disposizioni sceniche tedesche contengono però qualche elemento in piú corrispondente a ciò che le maestranze teatrali dietro la scena devono compiere. Nella scena precedente, la scena 7 del secondo atto, deve sentirsi un «colpo duro» da fuori:
Scena 7. Vorige. Bianca B: S: Grabmahl
Was? – der Tod! Che? Morde [sic] – Ah!
/: Harter Schlag, Thur B:S: auf (colpo pesante, si apre la porta sul lato dei bastioni)
La frase cantata dopo la quale deve essere sentito il colpo è scritta sia in tra duzione tedesca che in originale italiano, benché con un errore, «morde» anziché «morte» (probabilmente per associazione con il tedesco «Mord» per «assassinio»).
Nella parte restante del libretto si trovano annotazioni fatte a matita a margine del testo poetico. Queste indicazioni sono perlopiú relative ad elementi come le entrate in scena dal lato sinistro o destro, rappresentate dalle sigle S. S. e B. S. («Stadt seite» e «Basteiseite»);32 i cambi di scena («Verwandlung») e lʼilluminazione («Tag» o «Nacht», giorno o notte); la lista degli stessi oggetti elencati nelle ʼdisposizioni scenicheʼ, qui integrate a margine del testo; non mancano indicazioni di carattere musicale con la presenza e i movimenti della banda in scena, indicazioni di forme musicali («terzetto») o di metri («6/8 Takt») o Sulla base di queste considerazioni si può concludere che questo esemplare era destinato a fornire tutte le indicazioni necessarie alla messinscena della versione tedesca del 1841, indicazioni non create ex novo ma basate sulla produzione in lingua italiana del 1838. Se la messinscena della stagione tedesca sembra quindi sostanzialmente riprendere fedelmente quella italiana, la musica presenta non poche differenze tra le produzioni italiane del 1838 e 1840 e quella tedesca del 1841.
Adattamento musicale: tagli, cambi di tonalità e di organico
Nella Österreichische Nationalbibliothek è conservata una partitura manoscritta in tre volumi, appartenente al fondo Opern-Archiv. Questa partitura sembra essere la base di partenza per lʼadattamento tedesco: essa contiene lʼintera musica eseguita nelle produzioni della stagione italiana, ma al testo italiano è sottoposto uno in tedesco e vi sono numerosi interventi in matita rossa o nera. Tale sostituzione comporta, comʼè uso, tutta una serie di aggiustamenti ritmici secondo i quali alcune note vengono divise in due per dar spazio a due sillabe o, al contrario, due note diverse vengono legate per portare la stessa sillaba. Gli interventi piú frequenti sono tagli, a volte di poche battute, a volte di decine di battute. In parecchi casi ci sono dei ripensamenti, indicati con «gilt» («vale») scritto
32 Ringrazio Till Gerrit Waidelich per una comunicazione orale nellʼambito del convegno in cui mi ha informato della plausibile ipotesi secondo cui S. S. sarebbe «Stadtseite» (lato della città) e B. S. «Basteiseite» (lato dei bastioni). Lʼorientamento geografico del Teatro di Porta Carinzia, situato nei pressi dellʼodierno Hotel Sacher nel centro di Vienna, sarebbe quindi stato impiegato per denotare il lato sinistro e destro della scena. Di norma venivano altrimen ti impiegate altre convenzioni. La piú comune, di origine francese, era chiamare il lato destro della scena visto dalla platea «corte» (in francese cour) e il lato sinistro «giardino» (in france se jardin). In alcuni teatri italiani si usano ancora riferimenti urbanistici, come al Teatro alla Scala con il lato Corte a sinistra e il lato Strada a destra.
a margine di una sezione cassata per ripristinarla. Unʼanalisi dettagliata di tutti i tagli, che necessiterebbe anche di un confronto con i tagli nel libretto, meriterebbe unʼanalisi a sé che esula dai limiti del presente contributo. Ci si limiterà qui alle altre tipologie di adattamento della musica, in particolare dellʼimpianto tonale e dellʼorganico. Per quanto riguarda il primo, si può sospettare che lʼabbassamento della tonalità delle arie cantate da Basadonna, il tenore interprete della parte di Viscardo, siano da ascrivere ai limiti vocali evidenziati nella sopracitata critica della «Allgemeine Musikalische Zeitung». Una voce tenorile invecchiata anzitempo poteva avere difficoltà nel registro acuto, difficoltà a cui si cercò probabilmente di venire incontro con una trasposizione di semitono. La trasposizione a cui si allude in occasione della prima aria, «Du meiner Sehnsucht fernes Bild» («Bella adorata incognita» nellʼoriginale italiana) inizia però a metà del recitativo precedente, e se presa alla lettera porterebbe a un improvviso e un poco bizzarro cambio di tonalità:
Figura 3: SAVERIO MERCADANTE, Das Gelübde 1841, I,1, «Du meiner Sehnsucht fernes Bild».
Le cancellazioni lasciano intuire che la trasposizione dovesse inizialmente aver luogo allʼinizio del recitativo e fosse poi stata spostata qualche battuta piú avanti, costringendo però a muovere improvvisamente in regioni affini a do diesis minore per mezzo dellʼaccordo di settima diminuita precedente.
Anche lʼaria del secondo atto «Fu celeste quel contento» e il recitativo precedente «Compita è omai la giusta» sono abbassati di mezzo tono, ma fin dal principio perché la scena inizia direttamente col recitativo, mentre nel primo atto si arrivava da un coro la cui tonalità non poteva evidentemente essere cambiata.
I cambi di tonalità dovettero creare in alcuni casi veri e propri grattacapi allʼarrangiatore: nel caso dellʼaria di Bianca «Or là sullʼonda» (I,6), scritta in sol maggiore, sono indicate in matita rossa diverse tonalità (fa, sol, la bemolle), con una scritta «rimane tutto» («bleibt Alles») che lascia intuire una decisione finale a favore della tonalità originale, benché in contraddizione con lʼannotazione «1/2 Ton tiefer» («mezzo tono sotto») in matita sul recitativo precedente.
Altri interventi strutturali possono riguardare la sostituzione di uno strumento solista con un altro. Nella sopracitata aria di Viscardo dal primo atto «Bella ado rata, incognita», il terzo violoncello dovrebbe suonare il solo iniziale della melodia ripresa dal tenore. Nella partitura viennese sta scritto in italiano e in inchiostro nero «N. B. viola invece del 3. violoncello», confermata dalla parola viola in matita rossa. Ciò significherebbe che già nella versione italiana del 1838 o del 1840 questa sostituzione sarebbe stata adottata e confermata poi nella revisione tedesca.
Un caso diverso è quello del corno inglese, che nel terzo atto è accostato con la voce di Elaisa già nel recitativo accompagnato e aria «Là posa, bella ancora», «Ma negli estremi istanti», e di nuovo nella scena finale con la sua morte. Nella Filosofia della musica, Raimondo Bucheron cita questo come esempio di impiego estrema mente felice del corno inglese: «Ad Elaïsa spirante manca a poco a poco la voce; ma lʼaffetto non tace, ed il maestro lo personificò in quella cara melodia di corno inglese, la quale non poteva essere né meglio scelta, né affidata ad istromento piú acconcio».33 Anche un recensore della «Allgemeine musikalische Zeitung» esal tava il solo di corno inglese come uno dei «momenti clou» («Glanzpunkte») nella scena finale dellʼopera (III,2): il corno inglese esegue una «melodia lamentosa» che «avvolge per cosí dire la voce rotta» di Elaisa morente.34 La scelta del corno inglese è quindi salutata da piú parti come una scelta musicalmente e drammaturgicamente molto efficace. Stupisce quindi ancor piú che lʼadattamento tedesco del 1841 pre veda lʼuso dellʼoboe in luogo del corno inglese, come testimoniano le annotazioni in matita rossa nella partitura. Per quale ragione si opti per un accostamento piú tradizionale della voce morente allʼoboe, non è dato saperlo dalla sola partitura.
33
34
rAImoNdo
p. 97.
«Allgemeine Musikalische Zeitung» Xl, 1838, coll. 539 e seguenti. Vedi anche ClemeNS rISI, Auf dem Weg zu einem italienischen Musikdrama cit., p. 133.
Possiamo ipotizzare solo ragioni contingenti, come lʼassenza di un cornista inglese per quella produzione, o il gusto personale del direttore.
In conclusione, il presente contributo mostra, attraverso il caso di studio di Das Gelübde di Mercadante solamente la punta dellʼiceberg di un vasto campo di studi tuttora da scoprire, quello delle traduzioni operistiche nella Vienna ottocentesca. Spesso lasciate in secondo piano, forsʼanche a causa della cattiva fama del cosidetto Operndeutsch, il loro studio si gioverebbe senzʼaltro di uno sguardo interdisciplinare che coinvolgesse studi operistici, storia della prassi esecutiva e dellʼinterpretazione, ma anche librettologia, comparatistica e translation studies. Lo studio approfon dito della partitura viennese, congiunto con quello della partitura per il maestro suggeritore e il libretto, potrebbe portare a risultati di notevole interesse anche per quanto concerne la prassi esecutiva, dal momento che molte altre annotazioni in rosso riguardano tempo e altri aspetti interpretativi. Per derivarne elementi utili a certificare una differenza di prassi esecutiva tra la stagione italiana e quella tedesca, o forsʼanche solo differenze individuali nellʼinterpretazione tra direttore e diret tore, sarebbe necessario approntare unʼedizione critica della partitura. A questo si potrebbe aggiungere una ricerca sugli schizzi o altro materiale preparato dai due scenografi che in quegli anni lavoravano al Teatro di Porta Carinzia, gli italiani Antonio De Pian e Carlo Brioschi,35 per poter immaginare la messa in scena della produzione tedesca del 1841 sulla base delle indicazioni nel libretto conservato alla Österreichische Nationalbibliothek, e illuminare cosí un capitolo ancora oscuro della storia dellʼopera viennese.
35
HAdAmoWSky, Wien: Theatergeschichte cit., pp. 370-371.
Víctor Sánchez Sánchez
Mercadante a Madrid: due sfortunati soggiorni (1826-1831)
Saverio Mercadante soggiornò due volte a Madrid, allʼinizio della sua carriera. A 30 anni era considerato una delle principali promesse dellʼopera italiana, dopo il successo dei suoi primi titoli come Elisa e Claudio (Scala di Milano, 1821), Il posto abbandonato (Scala di Milano, 1822), Didone abbandonata (Regio di Torino, 1823) e Caritea Regina di Spagna (Fenice di Venezia, febbraio 1826). Tali opere furono presto conosciute a Madrid con grande successo, soprattutto Elisa e Claudio, presentata per la prima volta nel febbraio 1824 e ripresa quasi ininterrottamente fino al 1832. Secondo Francesco Florimo fu proprio questa «lʼopera che doveva collocarlo sulla scranna di gran maestro, dove la spontaneità delle melodie messe bellamente, lʼaccurata tessitura dei pezzi, ed unʼelegante strumentazione piena di brio e di viva cità, specialmente nei parlanti trattati con isveltezza, con maestria e con bellʼeffetto, produssero il piú felice risultato, chʼegli stesso era lungi dallʼaspettare».1
Lʼopera italiana godeva di straordinario interesse in Spagna, non solo a Madrid ma anche a Barcellona, Cadice, Valencia, Palma di Maiorca, Mahón e altre città. Dal 1815 i successi rossiniani avevano reso il teatro lirico di moda nella società spagno la.2 Lo scrittore Mesonero Romanos ricordava nel 1833 questa passione per lʼopera come un vero furore filarmonico:
Siguió así la ópera, más o menos boyante, hasta que en 1825 se ajustó la compañía Montresor, desde cuya época no fue una afición la del público, sino un furor filarmónico. El mérito de los cantantes, la nueva pompa con que se exornó el espectáculo, lo escogido de las funciones que se presentaron, fueron cosas de trastornar todas las cabezas, y llegó a tal punto el entusiasmo, que no solamente se les imitaba en el canto, sino en gestos y modales; se vestía a la Montresor, se peinaba
1
FrANCeSCo FlorImo, Cenno storico sulla scuola musicale di Napoli, Napoli, Rocco, 1869, p. 643.
2 emIlIo CASAreS rodICIo, Rossini: la recepción de su obra en España, «Cuadernos de Música Iberoamericana» 10, 2005, pp. 35-70.
a la Cortessi, y las mujeres varoniles a la Fabrica causaron furor todo aquel año. Tan poderoso es el prestigio de la novedad, y tan dominantes los preceptos de la moda. La exigencia del público, creciendo desproporcionadamente, no se contentaba ya con artistas medianos. Fue preciso presentarle los de primer orden; y las célebres Corri, Cesari, Albini, Lorenzani, Tosi y Meric Lalande, y los señores Maggioroti, Piermarini, Galli, Inchindi, Pasini y Trezzini, con tantos otros como, siempre ascendiendo, hemos visto después, han necesitado toda la extensión de sus talentos y, la perfecta ejecución de las obras más clásicas de Rossini, Pacini, Meyerbeer, Mercadante, Morlacchi, Carnicer, Donizetti y Bellini, para sostener la afición del público y excitar su entusiasmo hasta el punto que, al concluirse el año cómico de 1831 con la despedida de la señora Adelaida Tosi, faltó poco para que los partidos encontrados de Tossistas y Lalandistas consiguiesen sembrar una eterna discordia en nuestra sociedad madrileña.3
A Madrid la compagnia lirica condivideva lʼattività con la compagnia drammatica nei due teatri della città, il Príncipe e il Teatro de la Cruz; entrambi dipendevano dal Comune, che nominava un impresario per gestire la stagione. Cʼera una certa rivalità tra il teatro musicale e il drammatico, principalmente a causa dellʼeccessivo costo delle rappresentazioni liriche. Il pubblico madrileno andava a teatro quasi ogni giorno, secondo la moda borghese dellʼOttocento.
Mercadante a Madrid nel 1826
Dopo il ritorno dellʼassolutismo nel 1823 e la conseguente crisi economica, i teatri ridussero la loro attività ma, nonostante ciò, i successi degli anni precedenti non furono dimenticati. In questo contesto, nellʼaprile del 1826 i direttori del teatro Prín cipe inviarono a Milano un agente per contrattare la migliore compagnia dʼopera da portare a Madrid. Paolo Cascio ha studiato questa negoziazione e pubblicato le lettere dellʼimpresario Cristóbal Fernández de la Cuesta, agente dei teatri di Madrid a Milano.4 In una lettera datata 3 aprile 1826, questo informava i suoi direttori di aver concluso le trattative con i principali cantanti della compagnia e il «célebre Mercadante» in qualità di maestro direttore:
Tengo escriturada a la Cortesi y tambien al basso Maggiorotti, y por Maestro, al célebre Mercadante autor de Elisa e Claudio y otras muchas óperas. Regularmente
3 rAmóN meSoNero romANoS, La filarmonía, in Panorama matritense (Cuadros de costumbres de la capital, observados y descritos por el curioso parlante), Madrid, Imprenta de Repullés, 1835, II, pp. 80-81.
4 pAolo CASCIo, Un modelo de temporada de ópera italiana en el Teatro del Príncipe. La correspon dencia desde Milán del empresario D. Cristóbal Fernández de la Cuesta en 1826, «Cuadernos de Música Iberoamericana» 17, 2009, pp. 61-78.
irá Vaccani para cantar en serio y en bufo, mañana quedaré conforme con él pues marcho a Pavía. En cuanto al tenor Verger que es primero en la Scala y uno de los de más reputación en Italia tiene ya hecho un compromiso conmigo pero hasta ahora no tiene la licencia por escrito; si este no va, irá un joven gran cantante, uno que ha estado también en La Scala llamado Sirleti. Yo a ninguno de estos cantantes [que] hay aquí les dejo quietos [hasta que tengan] unas escrituras.5
Secondo Florimo «lʼimpresario del teatro italiano di Madrid scritturò Mercadante per sette anni, con lʼassegno di duemila colonnati, a condizione però che dovesse scrivergli due opere ogni anno».6 Negli archivi madrileni non vi è traccia della scrittura teatrale di Mercadante, ma possiamo dedurre gli obblighi del compositore dal contratto che il teatro stipulò lʼanno successivo con Ramón Carnicer, sostituto di Mercadante dopo la sua partenza. Gli impegni musicali erano numerosi, come si può leggere in questo documento:
En calidad de Maestro Director y Compositor de la ópera italiana que ha de actuar en los Teatros de Cruz y Príncipe de esta corte […] tendrá la obligación de ensayar y dirigir todas las óperas, tanto nuevas como ya ejecutadas, sean serias, semiserias, bufas, como así mismo farsas, oratorios, cantatas, o cualquier otro espectáculo de canto que disponga la dirección. También será de su obligación, examinar, corregir y arreglar los espartidos [spartiti], como igualmente el apuntar o transportar para las voces de los cantores las piezas que ocurran, y componerlas nuevas si así conviniera para el mejor lucimiento y desempeño de la función. Asimismo será de su obligación asistir al piano de la orquesta para dirigir la ópera, los seis días primeros de su ejecución, o hasta tanto que su presencia no lo sea necesaria. […] Estando a cargo de otro Maestro los coros, a los coristas deberá examinarles antes de empezar los ensayos con la orquesta, por si lo tienen bien sabidos.7
In aggiunta alle vantaggiose clausole economiche, anche lʼaltissimo livello artistico della compagnia – che annoverava cantanti del calibro di Isabella Fabbrica, Letizia Cortesi o il tenore Giovanni Battista Montresor – influí sullʼaccettazione della proposta da parte del compositore. Cosí, nel maggio 1826, il maestro altamurano viaggiò in Spagna con un gruppo di importanti cantanti per quello che prometteva
5 Lettera di Cristóbal Fernández de la Cuesta, Milano, 3 aprile 1826. Madrid, Archivo de la Villa, Secretaría, sig. 3.477.18.1. Citato in CASCIo, Un modelo de temporada cit., p. 71.
6 FlorImo, Cenno storico cit., p. 645.
7 Madrid, Archivo de la Villa, Secretaría, sig: 3.478.22, Citato in pAolo CASCIo, Estudio y edición crítica de la ópera Francesca da Rimini de Mercadante (1830), tesi di dottorato, Universidad Complutense de Madrid, 2014, pp. 42-43.
di essere lʼinizio di una serie di eccellenti stagioni operistiche.
Ai primi di maggio del 1826 la compagnia italiana era dunque arrivata a Madrid, presentandosi al pubblico il 13 giugno con la Zelmira di Rossini. Un annuncio nel Diario de Avisos de Madrid testimonia lʼinteresse per lʼinizio della nuova stagione operistica:
Teatros. En el del Príncipe a las 8 de la noche, la primera representación de Zelmira, ópera seria en dos actos, cuya música se conceptúa por una de las obras maestras del célebre Rossini. Para poner en escena la citada ópera no se ha perdonado cuantos gastos han sido necesarios, a fin de presentar a este respetable público con toda la pompa y aparato correspondiente un espectáculo digno de su ilustración, así en decoraciones como en vestuario, tanto de las primeras partes como de los coristas, comparsas etc. Actrices: Sras. Cortesi y C. Lledó. Actores: Sres. Montresor, Maggiorotti, Munné, Ruiz, Llord y coristas. Nota. Los libros de la ópera en italiano, y el argumento con la traducción al castellano, se hallarán en el despacho de billetes a 4 reales cada ejemplar.8
Interpretata per la prima volta da Isabella Colbran a Napoli nel 1822, Zelmira fu una scelta del soprano Letizia Cortesi, come riferito da Fernández de la Cuesta, che fornisce tutti i dettagli sulla sua distribuzione e prove in una lettera da Milano:
La ópera de la Zelmira que será para primera salida de la Sra. Cortesi: Ustedes pueden disponer el que empiecen los coristas a aprender los coros, que el Sr. Munné aprenda el primer tenor que es el papel de Ilo; y el papel de Emma que es un medio contralto, que lo aprenda una de las segundas: los demás papeles están aquí repartidos: en vista del libro también Ustedes podrán ver si les parece que hay que disponer alguna cosa sobre decoraciones: al hablar a Ustedes de esto no es querer meterme en lo que no me importa, es prevenir por el solo deseo de adelantar tiempo y que empiece a ganar esta gente que cuesta tanto.9
La compagnia comprendeva come cantanti principali il soprano Letizia Cortesi, i contralti Isabella Fabbrica e Fanny Corri-Paltoni, Montresor come primo tenore, il basso cantante Luigi Maggiorotti e il basso buffo Domenico Vaccani. Ne facevano parte anche alcuni artisti locali come il soprano Josepha Spontoni, il mezzoso prano Concepción Lledó e il tenore Juan Munné (annunciato come «tenor de medio carácter»), e altri per ruoli secondari, come il mezzo María Navarro, il basso José María Ruiz e il secondo tenore Antonio Llord.
Lʼunico tenore principale era il giovane Giovanni Battista Montresor, allʼepoca appena ventenne, allʼinizio della sua carriera. Non avendo trovato notizie prece
8 «Diario de Avisos de Madrid» 164, 13 giugno 1826, p. 656.
9 Lettera di Cristóbal Fernández de la Cuesta, Milano, 5 aprile 1826. Madrid, Archivo de la Villa, Secretaría, sig. 3.477.18.2. Citato in CASCIo, Un modelo de temporada cit., p. 73.
denti, possiamo supporre che la stagione di Madrid sia il suo primo contratto importante. In realtà Montresor non era stato la prima scelta dellʼimpresario, come si può evincere da una lettera di Fernández de la Cuesta: «En cuanto al tenor Verger que es primero en la Scala y uno de los de más reputación en Italia tiene ya hecho un compromiso conmigo pero hasta ahora no tiene la licencia por escrito; si este no va, irá un joven gran cantante, uno que ha estado también en La Scala llamado Sirleti».10 In quel periodo Verger trionfava alla Scala come uno dei tenori rossiniani del momento; nonostante la cifra offerta dallʼimpresa madrilena fosse probabilmente piú alta del suo cachet scaligero, alla fine non ottenne il permesso per recarsi a Madrid. Due giorni dopo lʼagente spagnolo riportava la trattativa finale: «el contrato con el tenor de la Scala el Sr. Verger no puede tener efecto pues la empresa no le da su licencia hasta el 15 o el 20 de mayo, y no pudiendo estar en Madrid tanto tiempo sin este tenor he ajustado al Sr. Montresor joven de excelente figura, hermosa voz y gran cantante».11
Montresor era il figlio della celebre Adelaide Malanotte (il primo Tancredi per Rossini nel 1813), un tenore leggero radicato nella tradizione dei cosiddetti «teno rini», dalla voce chiara, timbro brillante, facilità per le fioriture, con registro acuto in falsetto, una voce che poco tempo dopo avrebbe perso interesse a favore del tenore di grazia, voce lirica piú ampia ma meno agile. 12 Nei suoi pochi anni di attività non fece una grande carriera, pur essendosi esibito a Milano e Venezia13. Nel suo Dizionario Regli ha ricordato i trionfi del tenore in America, commentando cosí il suo precoce ritiro, probabilmente dovuto al decadimento del repertorio rossiniano:
[Adelaide Malanotte] lasciò un figlio al paro di essa chiarissimo nella musica, G. B. Montresor, tenore che batté una trionfale carriera, e che forse ha il torto dʼessersi ritirato troppo presto dalle scene, riparandosi in Bukarest, ove insegna il bel canto. Egli era soprannominato il Rubini dellʼAmerica. Nessun tenore lo ha ancor fatto dimenticare allʼAvana, soprattutto nellʼ Otello e nel Belisario. 14
Le recite andarono avanti per tutta lʼestate, fatto non usuale a Madrid, dove i tea tri di solito chiudevano a causa della fuga del pubblico dalla città per il forte caldo. Tuttavia il ritmo delle rappresentazioni fu mantenuto, con sei esibizioni di Zelmira
10
11
Lettera di Cristóbal Fernández de la Cuesta, Milano, 3 aprile 1826. CASCIo, Un modelo de tem porada cit., p. 71.
Lettera di Cristóbal Fernández de la Cuesta, Milano, 5 aprile 1826. CASCIo, Un modelo de tem porada cit., p. 71.
12
JoHN poTTer, Tenor. History of a voice, New Haven and London, Yale University Press, 2009.
13 Nel 1829 fu protagonista a Milano di Otello con Gilbert Duprez come Rodrigo; nel 1840 lo vediamo a Venezia in Elisa e Claudio con Teresa Brambilla.
14
FrANCeSCo reGlI, Dizionario biográfico, Torino, Enrico Dalmazo, 1860, p. 288.
in due settimane. Poco dopo, vennero messe in scena Elisa e Claudio di Mercadante, già conosciuta nella capitale, come presentazione del basso buffo Domenico Vaccani, ed Eduardo e Cristina di Rossini, per il debutto madrileno del mezzosoprano Fanny Corri-Paltoni. Lʼinglese era stata scritturata allʼultimo momento per coprire il ritardo della Fabbrica. Mercadante non avrebbe avuto una buona opinione della Corri-Pal toni, quando anni dopo fu costretto a includerla come protagonista a Bergamo della prima di Uggero il danese, a causa della sostituzione inaspettata del soprano previsto; in quellʼoccasione affermò che «la Corri la rimpiazza peggio che [andar] di notte».15 La rivalità con la Cortesi avrebbe generato inoltre il primo conflitto della stagione, in merito allʼinterpretazione del ruolo principale de La Cenerentola in una beneficiata. Entrambe cercarono di forzare la compagnia, minacciando di lasciare la stagione. Alla fine il ruolo fu affidato alla Cortesi, mentre Corri-Paltoni cantò ne La pietra del paragone. «Alla fine tra i due rivali ha vinto il piú forte», come commenta nel suo studio Paolo Cascio, che cita anche una lettera della Cortesi.16
Alla fine di luglio arrivò finalmente Isabella Fabbrica, uno dei piú apprezzati contralto, capace, secondo i commentatori dellʼepoca, di «una voz de volumen prodigioso en su primera octava», artista dalle spiccate doti sceniche, soprattutto nei panni di ruoli en travesti, messe in risalto dalla «elegancia con que se vestía de hombre (para lo cual estaba contorneada como en un molde)»17. Apparve sulla scena con Il posto abbandonato, unʼopera che conosceva bene perché aveva recitato nella prima (Scala, 1822) la parte del Capitano Emerico Palmer. Per Madrid Merca dante rimaneggiò la partitura, con nuove scene realizzate apposta per la Fabbrica. Il compositore aveva preparato con anticipo questa prima, concepita come vero inizio della stagione lirica dopo lʼestate, nonché come presentazione della compagnia; per questo motivo comunicò agli impresari la necessità di organizzare la programma zione del mese di agosto in maniera tale da lasciare ai cantanti principali il tempo sufficiente sia per riposare, sia per le prove della nuova opera:
Contesto a la apreciable carta de Usted diciendo que a mi parecer pueden ponerse en escena en todo el mes próximo de agosto en el Teatro Príncipe dos óperas; la una deberá ser Il posto abbandonato para la primera salida de la señora Isabella Fabbrica, primera dama contralto, y como esta ópera es de mucho aparato y necesitan estudiarla todas las partes cantantes podría buscarse otra ópera que se haya hecho por los cantantes sin que se detengan ahora a hacer un nuevo estudio, es menester también que en ella no salgan la Señora Cortesi ni el Señor Montresor tanto para darles algún descanso cuanto para que no se interrumpan las representaciones en caso de caer enfermo alguno de ellos; por esto y porque
15 Lettera a Luigi Camoletti, Bergamo, 31 luglio 1834. SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Bio grafia, epistolario, Fasano, Schena Editore, 1985, p. 135.
16 CASCIo, Un modelo de temporada cit., pp. 73-74.
17 Ópera italiana: Los dos Fígaros, «La Revista Española» 463, Madrid, 29 gennaio 1835, p. 1.
he oído a Usted decir alguna vez que el Barbero ha gustado siempre mucho y que la han hecho el Señor Munné y el Señor Ruiz podría hacerse esta ópera. Considero que para esta ópera tiene el teatro hechas las decoraciones y en cuanto a las del Posto abbandonato y su vestuario he entregado ya al Señor Cuesta las notas correspondientes. No puedo decir a Usted los días fijos que podrá trabajar la compañía italiana pero en el mes de agosto el trabajo podrá hacerse muy bien, pues con la Zelmira y Elisa e Claudio podrán cubrirse los días que no trabaje la compañía de verso.18
Il rapporto tra Mercadante e la Fabbrica era molto stretto: per lei il compositore aveva scritto i ruoli principali de Il posto abbandonato e Amleto, opere che rappresen tarono il suo esordio alla Scala nel 1822. Nel teatro milanese trionfò nei primi anni della sua carriera, interpretando in prima assoluta il ruolo di Romeo nellʼacclamata Giulietta e Romeo di Vaccaj, poco prima della sua partenza per Madrid. Nel suo dizionario Regli commenta che Mercadante pensava a una proposta di matrimonio alla cantante, la quale, tuttavia, alla fine avrebbe sposato Montresor: «Ella percorse una carriera gloriosa e brillante, e si guadagnò fama tra i piú celebrati contralti dellʼepoca sua. Valentissimi Maestri affidaronle i loro spartiti, incominciando da Mercadante, che doveva essere suo sposo; ma invece ella sʼuni in matrimonio con G. B. Montresor, figlio della celebre Malanotte, e tenore di valentia non comune».19 Possiamo supporre che la tensione emotiva nella compagnia lirica di Madrid nel 1826 fosse molto forte, visti questi rapporti incrociati. Mercadante conobbe a Madrid anche un attivo gruppo di musicisti napoletani che lo introdussero nel mondo della musica spagnola. Il principale fu Federico Moretti (1769-1838), famoso professore di chitarra ed autore di numerosi boleri, nato a Napoli, in una famiglia con un importante bagaglio musicale, dovuto soprattutto a sua madre, Rosa Cascone Moretti. Dopo lʼinvasione napoleonica, nel 1794 Moretti si esiliò in Spagna dove trascorse il resto della sua vita. Si arruolò nellʼesercito spa gnolo partecipando attivamente alla Guerra de la Independencia ed inventando un complesso sistema cifrato musicale per poter inviare messaggi in codice. Nel 1817 si installò a Madrid e fece da intermediario tra la Casa Reale e il tedesco Bartolomé Wirmbs per lʼapertura della prima tipografia musicale, presso la quale pubblicò molti dei suoi boleri e pezzi caratteristici spagnoli.20
La relazione di Federico Moretti con Mercadante fu abbastanza stretta, come testimonia la pubblicazione nel 1826 di Boleras Ytalianadas extractadas de la cava tina de los dos Fígaros, un arrangiamento del bolero di Susanna (n. 3) dellʼopera di
18 Lettera 4 luglio 1826. Madrid, Archivo de la Villa, Secretaría, sig: 3.477.27. Citato in CASCIo, Estudio y edición cit., pp. 44.
19 reGlI, Dizionario cit., p. 189.
20 CArloS JoSé GoSálVeZ lArA, La edición musical española hasta 1936, Madrid, Asociación Española de Documentación Musical, 1995, p. 189.
Mercadante, con testo in spagnolo e accompagnamento di chitarra o pianoforte. Lo stesso anno venne pubblicata a Madrid anche Boleras del sonsonete «tratta dalla sinfonia caratteristica spagnola del Maestro Mercadante» che aggiungeva un testo in spagnolo sotto il tema del bolero della sinfonia dellʼopera; pochi mesi dopo apparve una versione dello stesso tema per flauto. Tutto ciò dimostra la conoscenza che Moretti aveva della nuova opera di Mercadante, nonostante, come vedremo, fosse stata proibita. Sicuramente fu questa vicinanza che consentí al compositore di familiarizzare con le sonorità spagnole che introdusse nelle sue partiture.
Boleras Ytalianadas è dedicata alla signora Felicia Castellanos de Inzenga, can tante molto apprezzata nei salotti madrileni dellʼepoca e moglie di Angelo Inzenga, un altro musicista napoletano che lavorava a Madrid.21 Professore nel Conservatorio di Napoli, era arrivato nella capitale spagnola nel 1818 cercando di ottenere, senza successo, il posto di Maestro della Cappella Reale. A partire dal 1827 si convertí nel maestro di pianoforte della Duchessa di Benavente e Osuna, una delle princi pali casate nobiliari di Spagna. Fu di fatto Inzenga che introdusse Mercadante nel circolo della Duchessa, che gli commissionò una messa; un documento dimostra il pagamento a Inzenga per il lavoro di copiatura delle parti per lʼesecuzione di questa pagina. Tuttavia lʼappoggio non ebbe i risultati sperati considerato che la Duchessa non aveva molti contatti con lʼimpresa dei teatri dʼopera; cosí nel 1829 la nobildonna si scusava con Mercadante per non poter essere dʼaiuto per portare la compagnia da Cadice a Madrid: «Io avrei un piacere di rivedervi in questa Capitale [Madrid], e voi dovete essere persuaso chʼio agirò sempre con tutta sollecitudine per contribuire alla vostra brama, ma mi dispiace adesso di non vedermi in grado di conoscere lʼimpresario, né nessuno di quelli che possono agire in questo affare.»22
I due Figaro, unʼopera buffa alla spagnola
Tra gli obblighi di Mercadante cʼera la composizione di una nuova opera per la sta gione; pertanto, quando arrivò a Madrid nel 1826 cercò un libretto per presentarsi al pubblico spagnolo. Tra prove e rappresentazioni iniziò a comporre la nuova opera, come da contratto. La scelta de I due Figaro, libretto di Felice Romani, gli consentiva di proporre luoghi, situazioni e personaggi ben noti al pubblico spagnolo: Figaro, infatti, era molto caro ai frequentatori di teatro grazie allʼenorme successo de Il barbiere di Siviglia di Rossini. Inoltre il tema di Figaro era molto legato a quello spagnolo, con
21 Angelo Inzenga era il padre del famoso compositore spagnolo José Inzenga, uno dei creatori della zarzuela ottocentesca e fautore dei primi studi sul folklore spagnolo. INmACulAdA mATÍA polo, José Inzenga: La diversidad de acción de un músico español del siglo XIX (1828-1891), Madrid, Sociedad Española de Musicología, 2010, pp. 26-30.
22 Lettera della Duchessa a Mercadante, Madrid, 10 novembre 1829, in NIColáS SolAr QuINTeS, Saverio Mercadante en España y Portugal. Su correspondencia con la Condesa de Benavente, «Anuario Musical» 7, 1952, p. 206.
siderando che lʼazione si sviluppava nei pressi di Siviglia, cosa che permise a Merca dante di includere qualche elemento musicale locale per caratterizzare i personaggi.
I due Figaro si inscrive chiaramente nella tradizione dellʼopera buffa, genere che viveva i suoi ultimi splendori ottocenteschi sulla scia degli impulsi innovatori di Rossini. Tuttavia, a differenza di molti altri suoi contemporanei, Mercadante mantenne viva la tradizione della scuola napoletana, con il suo interesse per lo stile classico e unʼattenta orchestrazione. Un critico nel 1827 fece notare che «non era un servile imitatore del cigno di Pesaro a causa della sua fedeltà alla scuola napoletana».23 Mercadante rimarrà sempre legato ad un rispetto ed un gusto per la forma, ad una nitidezza nellʼorchestrazione che indussero ad indicarlo come lʼultimo grande compositore della cosiddetta Scuola napoletana.
I due Figaro rivela fino a che punto Mercadante fosse legato al gusto del suo tempo; ciò è evidente in particolare nel trattamento della vocalità. Il nostro composi tore conosceva alla perfezione lʼantica e consolidata arte del canto, come dimostrano i suoi Esercizi di Canto pubblicati a Vienna nel 1829, nei quali vengono valorizzate le tessiture di grande estensione, i passaggi regolari tra i diversi registri, il controllo del fiato e le melodie abbellite da fioriture.24 Cosí i ruoli vocali rimandavano a modelli belcantistici rossiniani, in primo luogo lʼimpiego di un contralto en travesti come protagonista. Queste scelte offrivano «la possibilità di far rivivere i prodigi vocali dei castrati»25, il che spiega lo sviluppo del personaggio di Cherubino rispetto ai piú dimessi interventi che ha nella commedia francese originale. Mercadante aggiunse anche una grande scena finale (n.14), che non era nel libretto che Romani scrisse per Michele Carafa nel 1820 [Esempio 1].
Esempio 1:
Mercadante, I due Figaro, n. 14 Scena ed Aria Cherubino, bb. 70-75.
23 «Mercadante is not so servile an imitator of the master of Pesaro as the bareface Pacini; he possesses some of the characteristics of the Neapolitan school». Milan, Teatro alla Scala, «The Harmonicon, A journal of Music» 5, 1827, p. 234.
24 merCAdANTe, Studi di canto, edizione critica a cura di P. Pisa, Milano, Edizioni Curci, 2005.
25 rodolFo CelleTTI, Storia del belcanto, Firenze, La Nuova Italia, 1983, p. 180.
I ruoli di Susanna e Figaro seguono la tradizione dellʼopera comica, «il soprano è prima buffa, e alterna, a tratti di dolcezza e di languore, momenti di vivacità, di mali zia, di volubilità» e Figaro ricalca il modello di basso buffo rossiniano, delineando una sorta di baritono brillante «che agisce da deus ex machina, ordendo intrighi e fungendo, se occorre, da mezzano».26 La presenza di voci di prima grandezza in quella stagione determinò, comʼera frequente, il processo creativo dellʼopera che Mercadante portò a termine confezionando caratteri musicali ben definiti e funzionali.
È particolarmente interessante lʼinclusione di elementi spagnoli per caratteriz zare alcuni personaggi e situazioni, soprattutto nelle parti dei due servi del castello, Susanna e Figaro.27 Un buon esempio si trova nella presentazione di Susanna, che canta un bolero (n. 3) in cui emerge la sua indole di donna astuta, capace di manovrare a suo vantaggio i piani altrui, uno «spirito folletto» come dirà Figaro. Il bolero, in quanto danza, divenne di moda verso la fine del Settecento; ben presto si convertí in un ballo lascivo e provocante, ragion per cui non venne piú praticato nei salotti. Secondo Fernando Sor, il famoso chitarrista che compose numerosi boleros, «quando il bolero raggiunse questo punto, il numero di signore e signorine che lo ballavano diminuí molto; le nuove posture avevano molta grazia, però questa grazia non poteva essere interpretata senza che il pudore non ne risentisse».28
Di fatto a partire dal 1820 ritornò di moda, ma come canzone. La melodia divenne piú complessa con «abbondanza di vocalizzi e abbellimenti (fioriture, mordenti, gruppetti) e, in definitiva, nel disegno melodico, richiedeva maggior agilità al cantante».29 Questo virtuosismo vocale è assimilato da Mercadante soprattutto nella linea melodica (come si può vedere nelle ricche cadenze che concludono ogni strofa [Esempio 2]) che riesce cosí a riflettere il carattere del personaggio di Susanna, insinuante e seducente, senza rinunciare al suo virtuosismo vocale. Musica popolare spagnola e opera italiana trovavano cosí un forte punto in comune.
26
27
CelleTTI, Storia cit., p. 190.
VÍCTor SáNCHeZ SáNCHeZ, Operisti italiani alla ricerca di un tocco spagnolo per le proprie opere da Mercadante a Verdi, in Intercambios musicales entre España e Italia en los siglos XVIII y XIX / Gli scambi musicali fra Spagna e Italia nei secoli XVIII e XIX, a cura di VÍCTor SáNCHeZ SáNCHeZ, Bologna, Ut Orpheus Edizioni, 2019, pp. 3-24 (Ad Parnasum Stuudies, 11).
28
29
FerNANdo Sor, «Le Bolero», in Encyclopédie pittoresque de la musique, Paris, 1835.
CelSA AloNSo GoNZáleZ, La canción lírica española en el siglo XIX, Madrid, Instituto Complu tense de Ciencias Musicales, 1998, p. 50.
2:
Ne I due Figaro Mercadante utilizzò anche una famosa melodia popolare: la canzone castigliana Las habas verdes, in modo minore ed in un tempo allegro in 2/4. Si intitolava cosí per il piccolo ritornello (Toma las habas verdes / dalas a quien quisieres) che faceva riferimento a un gioco di corteggiamento tra contadini nel quale le giovani innamorate mettevano delle fave verdi sotto il materasso; se, dopo 30 giorni, queste rimanevano intatte, lʼamore del giovane pretendente era garantito. Fu quasi sicuramente Federico Moretti che fece conoscere questo tema a Mercadante, considerato che nel 1826 pubblicò Boleras de las habas verdes, con dedica a Merca dante stesso. Il compositore lo introduce ne I due Figaro nel coro della grande scena di Cherubino (n. 14), quando i contadini tornano, verso il crepuscolo, dal lavoro nei campi, ed incontrano Cherubino quasi impazzito. Un canto popolare sicuramente riconosciuto dal pubblico, caratterizzato da un giro frigio di sonorità spagnola che dà un tocco nostalgico alla situazione drammatica.
Certamente la parte piú interessante risiede nella Sinfonia caratteristica spagnola. Mercadante fin da giovanissimo aveva dato prova di fervido interesse e grande mae stria nella musica strumentale e per I due Figaro compose una originale sinfonia, concepita come un brillante florilegio di danze spagnole, in un susseguirsi di temi e ritmi scintillanti ben riconoscibili dal pubblico madrileno dellʼepoca. La sinfonia offre una selezione di conosciuti temi e ritmi di danze spagnole: fandango, bolero, tirana e cachucha. Ebbe, infatti, ampia diffusione e numerosi furono gli arrangia menti. Fu pubblicata da Ricordi in una riduzione per pianoforte solo e ne esiste anche unʼedizione spagnola realizzata dal suo amico José Sobejano. Nonostante la censura sullʼopera, la Sinfonia venne eseguita per la prima volta nel dicembre del 1826, riscuotendo un successo immediato che si sarebbe ripetuto nei successivi decenni, quando fu continuamente usata come musica da ballo.
Il manoscritto della partitura de I due Figaro è firmato «Madrid, 24 ottobre 1826». Poco dopo iniziarono le prove, come dimostrano le parti staccate per i can tanti, denominate «suggerire» e conservate nella Biblioteca Histórica Municipal di Madrid. Poco prima della prima, arrivò lʼordine di sospensione delle rappresenta
zioni: lʼopera era stata improvvisamente proibita dalle autorità. Michael Wittmann sottolinea che il libretto ebbe in effetti problemi con la censura, in un periodo di rigido controllo dovuto allʼassolutismo monarchico durante la cosiddetta Década Ominosa. 30 Tuttavia il soggetto di Figaro non era problematico in quel momento, come testimonia la fortuna de Il barbiere rossiniano e altri sequel come Il nuovo Figaro, rappresentato a Barcellona un anno prima. Adela Presas ha analizzato lo scambio di lettere tra lʼimpresa del teatro e il Comune di Madrid, nelle quali si chie deva la rettifica del divieto.31 In realtà non fu la censura a decretare lʼinterruzione dellʼopera, bensí ragioni dʼonore e dʼinvidia scaturite dalla profonda rivalità tra le due primedonne della compagnia: Letizia Cortesi e Isabella Fabbrica. La Cortesi, nel ruolo di Susanna, non solo dovette rinunciare alla beneficiata dellʼopera ma addi rittura sopportare la presenza di un ruolo per la Fabbrica (Cherubino) che, seppur minore rispetto al suo, poteva contare su una grandiosa scena (n. 14), aggiunta al libretto di Romani. La signora Cortesi chiese ed ottenne riparazione ricorrendo ai favori di Ignacio Martínez de Villela, nuovo presidente del Consejo de Castilla, primo organo di sostegno allʼassolutismo, uomo molto potente, in grado di influenzare direttamente il re Fernando VII. Nella prima del 1835, dopo la fine dellʼassolutismo e la nuova libertà di stampa, un articolo di La Revista Española ricordava questo episodio di proibizione:
¿Quién no sabe que esta ópera fue escrita en el año 1826 para una compañía determinada, cuyas partes principales eran la Cortesi (tiple), la Fabbrica (contralto), Montresor (tenor) y Maggioratti (bufo)? Sabido es también que su representación fue prohibida cuando estaba a punto de ser puesta en escena. No sé qué hubieron de meterle en la cabeza al señor Villela, a la sazón gobernador del Consejo; no sé qué intrigas mediaron de parte de la Cortesi, favorita de S. E. [Su Excelencia]; no sé qué trapisondas teatrales hubieron de moverse…: ello es que el anatema de la irrevocable prohibición cayó sobre el libreto, sobre la representación, y por rechazo sobre la música. El maestro Mercadante que a propósito para la Fabbrica había compuesto la parte del segundo Fígaro [sic: Cherubino], bulló; se movió, hizo cuanto pudo, y lo mismo sus apasionados; pero tiempo perdido. El señor Villela no era hombre que a dos tiranos se daba partido: estiró las cejas, frunció el gesto, dijo que nones, y no hubo escape. ¡Buenos tiempos eran aquellos para que un consejerazo de calibre se volviese atrás!32
30
mICHAel WITTmANN, «Mercadante, Saverio», in The New Grove Dictionary of Music and Musi cians, 29 voll, edited by Stanley Sadie, London, Macmillan, 2001, XVI, pp. 438-448.
31 AdelA preSAS, Creación y vida de Saverio Mercadante en España. Don Chisciotte alle nozze di Gamaccio (Cádiz, 1830), Madrid, Universidad Autónoma de Madrid, 2018, pp. 66-72.
32 Ópera Italiana: Los dos Fígaros, «La Revista Española» 463, Madrid, 29 gennaio 1835, p. 1.
Lʼopera fu cosí accantonata nel dicembre del 1826 negli archivi del teatro e Merca dante lasciò Madrid. Il 26 gennaio 1835, con lʼascesa al potere di una nuova monar chia liberale, lʼopera venne messa in scena per la prima volta al teatro Príncipe di Madrid, recuperando tutto il materiale dʼuso già predisposto nel 1826. Cosí lʼopera del famoso Mercadante ebbe il suo riscatto. Interpreti di quella prima esecuzione furono: Emma Albertazzi (Cherubino), Almerinda Manzocchi (Susanna), Giovanni Battista Genero (Conte), Felice Bottelli (Figaro), Antonia Campos (Inez), Leonor Serrano (Contessa) e Francisco Salas (Plagio). Tuttavia gusto ed estetica dellʼopera avevano subíto profondi cambiamenti in quei nove anni. Sempre meno interessa vano i drammi buffi, le abbondanti fioriture canore ed i contralto en travesti, tanto che il ruolo di Cherubino fu profondamente modificato per essere adattato ad una voce sopranile. Nonostante le trasformazioni, lʼopera fu accolta con una certa freddezza nelle scarse rappresentazioni prima della fine della stagione. Nel Correo de las Damas si commentava con spirito caustico: «italianos vestidos a la andaluza y gallegos vestidos a la francesa; un coronel muy majo y una dama coronel; caer el telón y marcharnos todos; he aquí la ópera».33
Nel 2011 I due Figaro è stata recuperata e proposta sotto la direzione musicale di Riccardo Muti per chiudere il ciclo Napoli e lʼEuropa, che il maestro curava dal 2007 con il Pfingstfestspiele (Festival di Pentecoste) di Salisburgo in collaborazione con Ravenna Festival. Muti voleva mostrare lʼinflusso della scuola napoletana, portando opere sconosciute nella città natale di Mozart. Mercadante era considerato lʼultimo grande compositore della grande scuola napoletana e lʼopera buffa I due Figaro era lʼideale per Salisburgo, poiché la sua trama è basata sugli stessi personaggi de Le nozze di Figaro: Figaro, Susanna, i conti e Cherubino si incontrano anni dopo e vivono nuovi imbrogli come lʼinnamoramento di Cherubino per la figlia dei Conti (Inez). Inoltre, lʼatmosfera spagnola della partitura di Mercadante consentiva di portare lʼopera al teatro Real di Madrid e attraversare lʼoceano per essere vista al teatro Colón di Buenos Aires. Lʼedizione critica, realizzata con i materiali degli archivi di Madrid, è stata pubblicata da Ut Orpheus.34
1830, nuovo ritorno e nuovi conflitti
Il divieto di rappresentazione de I due Figaro causò la fuga di Mercadante da Madrid. Il contratto di vari anni fu ridotto a pochi mesi e il compositore ritornò in Italia. Nel febbraio del 1827 diresse la prima di Ezio a Torino e in aprile Il montanaro alla Scala di Milano. Nel 1828 Mercadante lavorò a Lisbona, dove presentò con grande successo due nuove opere, Adriano in Siria e Gabriella di Vergy. Ma non erano tempi buoni per la musica nella capitale portoghese, perché scoppiò la guerra civile per
33
Teatros: Príncipe, «El Correo de las Damas» III/4, Madrid, 28 gennaio 1835, p. 4.
34 SAVerIo merCAdANTe, I due Figaro, edizione critica a cura di VÍCTor SáNCHeZ SáNCHeZ e pAolo CASCIo, Bologna, Ut Orpheus Edizioni, 2011 (Napoli lʼEuropa, 6).
la disputa sulla successione della corona. Cosí Mercadante andò a Cadice, fiorente cittadina nel sud della Spagna, arricchitasi negli anni grazie ai cospicui commerci con le colonie americane. A Cadice era attivo un teatro dʼopera italiana, per il quale il compositore scrisse nel 1829 la farsa Don Chisciotte alle nozze di Gamaccio35 e il melodramma buffo La rappresaglia. Di passaggio in quella città, proveniente da Lisbona, dovette sentirsi a suo agio nella gradevole capitale andalusa, poiché di fatto vi rimase fino al febbraio del 1830 senza un contratto ufficiale. Mercadante portò cantanti da Milano, per organizzare una delle migliori stagioni dellʼopera ita liana a Cadice, come ha studiato Cristina Díez nella sua tesi di dottorato sullʼopera a Cadice.36
Da Cadice Mercadante scrive alla duchessa di Benavente, esprimendo il suo desi derio di tornare a Madrid: «In mezzo a tutto ciò, e non avendo niente da lagnarmi della mia situazione, pure il mio pensiero e sempre alla Capitale, e mi chiamerei fortunato se potessi ciò effettuare tanto piú ora che il Teatro Italiano prenderà un aspetto piú grandioso: A me è toccato seminare, e gli altri a raccogliere».37 Poco dopo si presenta lʼopportunità con il matrimonio del re Fernando VII con Maria Cristina di Borbone-Due Sicilie, figlia del re di Napoli, celebrato lʼ11 novembre 1829. I teatri di Madrid vengono riorganizzati per poter assumere una buona compagnia dʼopera per la stagione di Pasqua. Mercadante condivide la posizione di Maestro Direttore con Ramón Carnicer, uno dei piú validi compositori dʼopera spagnoli della sua generazione, impegnato nei teatri di Madrid dal 1827, dopo la partenza di Mercadante.38
Lʼitaliano portò da Cadice i suoi migliori cantanti: il tenore Ignazio Pasini, il bari tono Orazio Cartagenova, il basso Domenico Vaccani e come «dama segunda» Teresa Zapucci. Vennero riconfermati altri artisti della precedente stagione di Madrid, come il contralto Brigida Lorenzani, il soprano De Meric Glossop e il basso Giovanni Inchindi; dallʼItalia venne a rinforzare le parti principali il tenore Carlo Trezzini. Mancava lʼassunzione di una grande star per completare il cast nelle parti femminili.
La stagione cominciò il 20 aprile 1830 con Donna Caritea, regina di Spagna di Mercadante, applaudita con successo. La novità fu però Il Pirata, il primo titolo di Bellini rappresentato a Madrid. Il critico di El Correo sottolineava che la difficoltà di questʼopera era «casi espantosa», osservando che «su música es en general animada,
35
36
preSAS, Creación y vida cit., pp. 177-269.
CrISTINA dÍeZ rodrÍGueZ, Il soggiorno di Saverio Mercadante a Cadice (1829-1830). Stagione operistica e attività compositiva, in Intercambios musicales cit., pp. 351-381. Vedere anche: Cádiz, centro operístico peninsular en la España de los siglos XVIII y XIX (1761-1830), tesi di dottorato, Universidad Complutense de Madrid, 2016.
37 Lettera di Mercadante, Cadice, 28 ottobre 1829. SolAr QuINTeS, Mercadante cit., p. 205.
38
oCTAVIo lAFourCAde SeñoreT, Ramón Carnicer en Madrid, su actividad como músico, gestor y pedagogo en el Madrid de la primera mitad del siglo XIX, tesi di dottorato, Universidad Autóno ma de Madrid, 2004.
expresiva, dramática muchas veces profunda […] y en ocasiones un estilo un poco amanerado».39 Mesi dopo, Mercadante volle consolidare la presenza di Bellini nella programmazione con La Straniera, operazione che confermò il riconoscimento da parte del pubblico del nuovo grande operista italiano. Un critico di Madrid scrisse con entusiasmo:
La música de esta ópera contiene tan bellas cosas, que sería difícil enumerarlas todas. Hay en ella mucha frescura, coros admirables, y un gran fondo de afectos dramáticos. Es toda lo que se llama de veras original; está desnuda de plagios, y se halla en todas circunstancias en perfecta analogía con las palabras. Reina la mayor sencillez en sus motivos, muy inteligibles, y van directamente al corazón, excitando de un modo irresistible la sensibilidad de los espectadores. Se encuentran pasajes que conmueven los sentidos. Elevación, sublimidad, romanticismo, todo esto y más en la Straniera. 40
La compagnia aveva però dei problemi e mancava qualche grande voce, come Marietta Albini, che aveva trionfato a Madrid negli anni precedenti. Inoltre, il soprano De Meric era incinta e dovette interrompere presto le sue esibizioni. Mer cadante fu mandato in Italia per scritturare con urgenza un paio di brave cantanti e Carnicer rimase come direttore, riproponendo celebri titoli rossiniani. A fine luglio intanto arrivò il mezzosoprano Fanny Corri-Paltoni, che si presentò a Madrid con Il barbiere di Siviglia e La donna del lago. Per le trattative in Italia Mercadante incon trò lʼimpresario Barbaja, che gli propose il soprano Adelaide Tosi. Il compositore altamurano non poteva rifiutarlo perché la compagnia di Madrid aveva urgente bisogno di incorporare un cantante famoso. Tutta questa vicenda può essere seguita in un articolo pubblicato sul quotidiano Il censore universale dei teatri, nel quale si discute della difficile posizione di Mercadante e dellʼautorizzazione di Barbaja per la partenza della Tosi a Madrid:
Di due prime donne indispensabili al servicio di quel teatro, lʼuna mancava affatto, lʼaltra era prossima a mancare per lʼavanzata sua gravidanza. Che cosa fare di un sí numeroso complesso dʼartisti, che si rendevano per tale emergenza inoperosi, o come supplire ad una deficienza sí desolante? [...] In sí critiche circostanze ecco non pertanto il nostro Mercadante improvvisamente presentarsi fra noi, ed animato dal suo sapere e dalla sua avvedutezza raddoppia negli incontrati ostacoli di coraggio. [...] Ove dunque rivolgersi? Ove ad ogni altro infruttuoso sarebbe sembrato qualunque passo, a Napoli, e precisamente al sig. Barbaja, di cui lʼimponente
39 Teatros. Coliseo de la Cruz, «El Correo. Periódico Literario y Mercantil» 287, 12 maggio 1830, pp. 2-3.
40 Teatros. Coliseo del Príncipe, «El Correo. Periódico Literario y Mercantil» 376, 6 dicembre 1830, p. 2.
servizio fa necessario un numeroso complesso deʼ piú scelti virtuosi. Scope alle mire di Mercadante era colà appunto quella Tosi, che il primo sostegno essendo ed il piú decoroso ornamento di quelle scene, il levarla da quel suo posto.41
La presenza della Tosi a Madrid era una spiacevole circostanza per Mercadante; il compositore conosceva bene la cantante perché aveva avuto con lei una relazione sentimentale cinque anni prima, secondo quanto riferisce Santo Palermo nella sua biografia, deducendolo da alcuni riferimenti nelle lettere a Florimo42. I due si erano incontrati durante la ripresa della Didone abbandonata a Napoli nellʼestate del 1825, profondamente rimaneggiata per far emergere le qualità vocali del soprano. La relazione non finí bene, forse a causa del carattere capriccioso della primadonna e Mercadante continuò la sua carriera lontano da lei. Lʼinaspettato ricongiungimento a Madrid produsse una situazione difficile nella compagnia. In tre lettere a Florimo il compositore esprimeva duramente tutto il suo risentimento verso la cantante che gli aveva reso impossibile la vita in teatro:
Da questo giorno in poi vʼè stato lʼinferno a questo Teatro, poiché nessuno della compagnia la tratta, come faccio purʼio ed essendosi dichiarata la guerra, cominciò madama Crescentini a provarne subito gli effetti, poiché essendo andata in scena il Ladro ed Astartea [Zadig ed Astartea di Vaccaj, pubblicato a Madrid come Osmir e Netzarea] fu la meno applaudita di tutta la compagnia, e piena rabbia di veleno fece sortire ed avvisare al Pubblico che si trovava indisposta, però nessuno le crede e tutti incominciarono a conoscere la cantatrice nel suo vero aspetto. [...] La sua rabbia furore è tale che si sfoga andando tutto il giorno in carrozza nelle case dove è raccomandata dicendo orrori di tutti in particolare di me, accusandomi di non capire bene i tempi, però io mi son difeso con provare, che nessuno trovarà il tempo che lei canta poiché, avvezza a slargare sul letto, slarga pure in Teatro senza necessità.43
Mercadante raccontava inoltre dei rapporti tesi con altri membri come il tenore Trezzini, con cui «trovò unʼoccasione dʼinsultarlo, e scaldondosi diventò una furia, dicendo in una prova dellʼAstartea, che eravamo tutti una compagnia di galiotti, avanzi dʼItalia, e che lei avrebbe dati deʼschiaffi ad ogni uno che non lʼavesse abba stanza rispettata».44 Quattro settimane dopo scrisse unʼaltra lettera in cui riportava i problemi dellʼimpresa, che si dimetteva dallʼappalto, accusandolo di aver portato la Tosi a Madrid. Il musicista ne approfitta per descrivere con pungente sarcasmo
41 Notizie italiane: Napoli, «Il censore universale dei Teatri» 61, 31 luglio 1830, p. 242.
42 pAlermo, Mercadante cit., pp. 22-23.
43 Lettera 9, Mercadante a Florimo, Madrid, 2 novembre 1830. pAlermo, Mercadante cit., pp. 90-91.
44 Ibidem.
la decadenza vocale della Tosi:
Questa ex cantante è andata sempre da male in peggio [...] Se fosse posibile, bisogna dire chʼè diventata piú magra al segno che i vestiti li cascano da dosso. La sua voce è ridotta del tutto misteriosa, poiché bassi non ne ha mai avuti, le corde di mezzo sono sparite, e gli acuti può appena darli piano e senza pronunziarvi, vedendosi in questo stato ha fatto la gran pensata di servirsi deʼ doni che la madre natura è stata tanto con lei prodiga, cioè volate, che sembrano quelle che fanno i tromboni, trilli che imitano i carri che portano il canape al Lago dʼAgnano, mordenti a guisa dʼun mordere di cane arrabbiato, e gruppetti piú intrecciati del gruppo di Salomone. In quello che ha molto guadagnato è lʼazione, poiché dovendo immensamente faticarsi per tirare fuori la voce, si muove continuamente, con la testa, le gambe, bracci e cet., da quali continui gesti ne risulta un vantaggio per lei ed è che chi sente principiare un passo, non lo sente finire, e si figura che doveva essere buono […] I tempi sono sempre Gravi, Sostenuti, Lenti, con commodo e commodi, e lʼilluminatore bestemmia che lʼOpere finiscono unʼora dopo e gli fa perdere 10 colonnati per sera […] i soli negozianti di Rossetto e Bianchetto la benedicono, poiché ne consuma due ogni sera, piú vasetti. Per disgrazia del nostro comune amico Maestro Bellini, ha voluto fare la Straniera, e fortuna che qui non lʼhanno intesa poiché la punta tutta, cioè gli acuti li sbassa ed i bassi li alza.45
Alla fine la situazione divenne insostenibile ed informava Florimo della sua decisione di lasciare Madrid e accettare unʼofferta dallʼItalia. Inoltre attaccava ancora la Tosi per la disastrosa recitazione ne La Straniera:
Nelle due sue grandʼArie faceva veramente compassione, poiché non erano per le sue forze (non ostante dʼavere dovuto puntare tutto ciò che fosse acuto di slancio, o di declamazione che tu sai che d.ta Opera abbonda) e solo si sentiva una voce cupa, paga, semipaga, aeropaga, velata e rauca: Lʼultimo Rondò non lo poté finire, ed essendo del tutto estenuata di forze pensò bene di raddopiare il tempo nelle ultime cadenze, di modo che lei andava dʼuna parte, lʼOrchestra da altra, ed il Coro si tacque. [...] La terza recita fu veramente scandalosa, poiché lʼinfelice Straniera non poteva aprir la bocca, e gesticolando tanto senza cantare, faceva lʼeffetto dʼun Telegrafo... Il Pubblico sʼindispettí, e lʼangoscia della prima donna crebbe al punto, che dopo il citato Quartettino, si dové calare il sipario – Fischi, applausi, dicerie e cose simili misero fine allo spettacolo.46
In questʼultima lettera Mercadante spiegava come la Tosi avesse conquistato il favore del critico José María Carnerero, tanto da indurlo a pubblicare straordinari
45
46
Lettera 10, Mercadante a Florimo, Madrid, 30 novembre 1830. pAlermo, Mercadante cit., p. 95.
Lettera 11, Mercadante a Florimo, Madrid, 10 dicembre 1830. pAlermo, Mercadante cit., p. 98.
elogi nei suoi confronti sul quotidiano El Correo; il compositore riferiva addirittura che una di queste critiche fu letta durante una cena il giorno prima dello spettacolo. Alla fine la difficile relazione con la Tosi costrinse Mercadante a lasciare ancora una volta la capitale spagnola dopo pochi mesi.
Cosʼera successo veramente? Conosciamo questa storia solo nella versione di Mercadante. Adelaide Tosi non era una cantante cosí disastrosa, anche se allʼepoca delle vicende di Madrid non era nel momento migliore della sua carriera. In un periodo di grandi primedonne dovette competere con cantanti importanti come Giuditta Pasta, Henriette Méric-Lalande o Carolina Ungher. Il cronista spagnolo Mesonero Romanos parla della rivalità a Madrid tra «Tossistas e Lalandistas», una buona testimonianza dellʼinteresse del pubblico per i divi del momento nei teatri dʼopera. Regli nel suo dizionario sottolinea che «la sua carriera, se trovò qualche contrasto, ebbe pure i suoi grandi trionfi, ed ella fu a buon dritto lʼammirazione e la delizia di molti pubblici. Ebbe voce soavissima di soprano, e sapeva modularla con quellʼespressione e quellʼanima, che aggiunge al canto tanta voluttà e tanto fascino».47 Aveva studiato con Crescentini, lʼultimo grande castrato, e si era esibita con successo in teatri come il San Carlo di Napoli, dove cantò dal 1824 fino alla sua partenza per Madrid nel 1831, partecipando a importanti prime come Alessandro nelle Indie (1824) e Lʼultimo giorno di Pompei di Pacini (1825) e cantando da protago nista in Elisabetta al castello di Kenilworth di Donizetti (1829).48 Nelle sue memorie Pacini ricordava lʼentusiasmo del Re di Napoli che interruppe una recita con bravi e applausi e commentò che «la Tosi è assai buona cantante, ha una bella voce e scolpisce bene le parole».49
Adelaide Tosi partecipò alla seconda versione di Bianca e Fernando di Bellini a Genova nellʼaprile 1828. Il compositore catanese commentò cosí il buon rapporto con il soprano e la sua soddisfazione per il ottimo esito delle recite:
La Tosi dice la sua scena benone e di sera in sera migliora. [...] La Tosi piace assai assai per la sua bella voce ed azione, e in questo teatro, essendo molto armonico, dice Donizetti che la Tosi sembra con doppia voce. Ha fatto furore con la romanza e niente ti dico del duetto con [il tenore] David. Dopo il recitativo, dopo i primi tempi, dopo lʼadagio e quattro repliche di cabalette gli applausi erano eclatanti. Dopo il duetto poi è inesprimibile il chiasso.50
47
reGlI, Dizionario cit., p. 541.
48 CArlo mArINellI roSCIoNI, Il Teatro di San Carlo. La cronologia 1737-1987, Napoli, Guida Editori, 1987, pp. 190-218.
49 GIoVANNI pACINI, Le mie memorie artistiche, Firenze, Guidi, 1865, p. 47.
50 Lettera di Bellini a Florimo, Genova, 13 aprile 1828. FrANCeSCo FlorImo, Bellini: Memorie e Lettere, Firenze, Barbera Editore, 1882, pp. 324-325
Tuttavia non era una cantante molto affidabile, in quanto indisposta di fre quente, come testimoniano notizie di varie sospensioni e problemi. Lo stesso Bel lini, tre giorni dopo le lodi suddette, riferiva che la sua nuova opera non poteva essere eseguita perché «la Tosi seguita ad essere incomodata con la gola e si spera almeno domani canti».51 Qualcosa di simile accadde con Elisabetta di Donizetti, la cui seconda recita fu posticipata per malattia della Tosi, come scriveva in una let tera a Mayr: «Lʼopera finí né troppo bene eseguita, né troppo bene ascoltata. Dipoi sʼammalò la Tossi e soltanto ai 12 si riprodusse».52 Dobbiamo dunque essere cauti nel valutare le affermazioni dure che Merca dante condivide con Florimo. Certamente il rapporto con la Tosi non era buono, ma tuttavia la donna non era poi cosí problematica come cantante. La migliore dimostrazione di ciò sta nel fatto che il compositore altamurano avrebbe scritto per la Tosi in due delle sue prime successive: I normanni a Parigi (Regio di Torino, 7 febbraio 1832) e Il conte di Essex (Scala di Milano, 10 marzo 1833). Logicamente la situazione non era per niente agevole e nuovi disaccordi sorsero come a Madrid; ancora una volta disse a Florimo:
La Tosi arrivò in questa [Torino] il giorno 4 corrente, proveniente dalla Capitale delle Spagne carica di sonetti, ritratti, articoli, scimie, pappagalli, Perichetti, Galli, Cani (chʼè lʼanimale favorito) e Topi, anzi vi ha acquistata pure lʼagilità, poiché essendosi cominciate il giorno 9 le prove della Straniera, lʼho intesa volare a guisa del leggerissimo Cavallo Troiano. QuestʼArpia ha intrigato tanto in quella città che la Laland fu fischiata, però dopo qualche recita svaní la cabala ed il vero merito fu conosciuto. Parlando del P. suo, quellʼinsolente dopo (per grazia dʼIddio) che era partito per Parigi ebbe lʼardire di ritornare, ma io lo misi alla porta, poiché non mi sentiva piú in caso di mantenerlo come avevo fatto per vari mesi (scusate se è poco). Qui ha tentato ora di mettere disordine però credo che non vi riuscirà, attesa la fermezza di questa Direzione.53
Questʼultimo riferimento può chiarire i motivi per cui la Tosi insistette per recarsi a Madrid, nonostante Mercadante fosse il direttore della compagnia. Il misterioso P., che il compositore cita anche nelle sue lettere da Madrid come il «Principino» com pagno della Tosi, è il conte Ferdinando Lucchesi-Palli, appartenente a una famiglia principesca siciliana con potere a Napoli.54 Sposò Adelaide Tosi nel maggio 1823 a
51
52
Lettera di Bellini a Florimo, Genova, 13 aprile 1828. FlorImo, Bellini cit., p. 326.
Lettera di Donizetti a Mayr, 24 luglio 1829. WIllIAm ASHBrook, Donizetti: La vita, Torino, edT, 1986, p. 49.
53
54
Lettera 20, Mercadante a Florimo, Torino, 12 dicembre 1831. pAlermo, Mercadante cit., p. 120.
roSArIA BorrellI, La Lucchesi Palli, storia di una biblioteca napoletana, «Quaderni di Archivi di Teatro Napoli», ottobre 2010
Milano, quando la cantante aveva 23 anni e iniziava la sua carriera debuttando alla Scala. Nonostante il matrimonio, la relazione non sarebbe stata formalizzata fino al suo ritiro dal palcoscenico negli anniʼ30 dellʼOttocento, quando la Tosi aveva due figli che avrebbero ereditato il titolo di nobiltà: Clotilde (1835) ed Edoardo (1837). Possiamo ipotizzare che allʼinizio il rapporto non sia stato ben visto dalla famiglia, unendo una cantante a una potente casata nobiliare. Il soggiorno a Madrid avrebbe dato loro lʼopportunità di stare insieme, lontano dai commenti della capitale del regno delle Due Sicilie.
Il conte Ferdinando Luchessi-Palli visse in Spagna dal 1829, dove operò come segretario dellʼambasciatore e dal 1831 come ministro plenipotenziario.55 La sua nomina è testimoniata da una notizia del Diario balear: «Madrid, 11 de octubre. El Rey nuestro Señor se dignó admitir el día 8 por la noche en audiencia privada al Sr. Conde de Luchessi, para la presentación de las credenciales de su soberano el Rey de las Dos Sicilias por las cuales queda acreditado como su Enviado extraordinario y Ministro plenipotenciario en esta corte».56 Dal 15 ottobre 1830 appare anche come cavaliere di Gran Croce dellʼOrdine di Carlos Tercero, incluso nellʼelenco dello stesso calendario negli anni successivi.
La presenza a Madrid del suo nobile compagno era la scusa perfetta per la Tosi per accettare il contratto e spiega anche lʼinfluenza che ebbe sulla società madri lena. Il soprano rimase per circa un anno e mezzo, dallʼestate del 1830 alla fine del 1831. La sorpresa di Mercadante fu notevole e cosí scriveva a Florimo, in modo sprezzante e offensivo:
Da quanto ho potuto capire la Sig.ra si era messa dʼaccordo con il Principino sino da Napoli, poiché neʼ primi di settembre già stava qui, dicendo chʼera diretto a Parigi, però che le presenti circostanze di quel paese lʼavevano indotto a veder la Spagna. Il fatto è che si è messo qui di casa e bottega, poiché mangia, dorme, piscia, ecc. ecc. in casa della Sig.ra Adelaide. La D.ta che si era affaticata tanto di persuadere tutti sulla sua onestà, verginità, deʼ 7 anni di Napoli, ha tutto perduto in un momento, poiché sapendosi generalmente chʼera una vacca tutti si sono allontanati da lei, ed attualmente si parla in Madrid, comʼella merita cioè chʼè una Paretona de punto scuro.
[...] La detta farebbe qualunque sacrifizio per restare qui il venturo anno, onde godersela col Principino, lontano da tutti i rumori ed in santa pace, però ne dubbito
55 «Embajadores al Rey nuestro señor de varias Cortes de Europa […] De las Dos Sicilias: Exc. Sr. Duque de Floridia, Príncipe de Partana, calle del Florín. Sr. Conde de Luchessi-Palli, Secreta rio», Calendario manual y Guía de forasteros en Madrid para el año de 1829, Madrid, Imprenta Real, 1829, p. 76. Nellʼedizione del 1830 di questa guida lo stesso dato è ripetuto e nel 1831 compare da solo; nel 1832 il posto dellʼambasciata fu dichiarato vacante e è citato solo un Incaricato dʼaffari.
56 España, «Diario balear» 30, 30 octubre 1830, p. 2.
molto, poiché entrambi sono la favola di Madrid, e tutti ridono alle loro spalle. Come ti dissi, invece della madre, è qui venuta per custodirla la sorella chiamata Nice, la quale non potendo impedire che lʼAdelaide si facesse secare tutta la notte dal P. ha preso partito di farsi secare dal Cuoco il quale per riescire meglio nel suo intento mʼè stato assicurato che carica tutti i piatti di pepe, carofalo canella, sale, ed ogni eccitante che li somministra la sua arte. – Spero che per ora ti basteranno queste notizie, però ti ripeto di no farmene autore, ma bensí spargerle e ridere con tutti i nostri senza compromettermi con questa strega di Benevento 57
Questa sfortunata stagione a Madrid fu tuttavia interessante a livello artistico. Mercadante vi eseguí la sua opera La rappresaglia, già rappresentata a Cadice nella stagione precedente, utilizzando gli stessi cantanti come la Corri-Paltoni; non ebbe molto successo e furono realizzate solo cinque recite. Il compositore organizzò anche le prime rappresentazioni di opere di Bellini a Madrid, che diedero inizio alla moda romantica: un autentico furore belliniano, che prese il posto del precedente furore rossiniano. Questo intenso lavoro con le partiture di Bellini influenzò indub biamente la maturazione dello stile musicale di Mercadante e si riflette nellʼopera composta a Madrid, Francesca da Rimini. Il manoscritto autografo, conservato a Bologna, è firmato «Madrid, 24 novembre 1830». Cʼè anche una copia manoscritta della partitura nella Biblioteca Municipal di Madrid, tra i materiali del teatro del Príncipe, che sembra essere stata autorizzata dallo stesso compositore prima della sua partenza. Ci sono anche parti vocali e strumentali, in vista di una rappresen tazione programmata, ma mai portata a termine.
La rivalità tra le due primedonne nel 1826 e lʼincontro inaspettato con la Tosi nel 1830 resero particolarmente difficili i soggiorni di Mercadante a Madrid. Furono senza dubbio circostanze poco felici per il compositore di Altamura, circostanze che tuttavia gli consentirono di maturare il suo stile musicale, componendo due titoli interessanti: lʼopera buffa I due Figaro e il dramma per musica Francesca da Rimini. La prima sintetizza lo stile rossiniano, come nel Finale primo o nella grande scena finale di Cherubino; la seconda si apre già al melodramma romantico, con Bellini come riferimento. Questi due brevi soggiorni a Madrid, pieni di problemi, permisero a Mercadante di ampliare la sua esperienza sul palcoscenico con la conoscenza delle convenienze ed inconvenienze teatrali, ma anche di maturare il suo stile musicale. Su queste basi Mercadante iniziò il grande periodo del decennio 1830.
57 Lettera 9, Mercadante a Florimo, Madrid, 2 novembre 1830. pAlermo, Mercadante cit., pp. 91-92.