Itinerari della provincia di Reggio Calabria

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itinerari della provincia

Cultura e Archeologia di reggio calabria


tura e ArcheologiaMari e fondali stronomia Trekking Cultura e cheologiaMari e fondali Gastronomia ekking Cultura e ArcheologiaMari e dali Gastronomia Trekking Cultura e cheologiaMari e fondali Gastronomia ekking Cultura e ArcheologiaMari ndali Gastronomia Trekking Cultura e cheologiaMari e fondali Gastronomia ekking Cultura e ArcheologiaMari e dali Gastronomia Trekking Cultura e cheologiaMari e fondali Gastronomia ekking Cultura e ArcheologiaMari e dali Gastronomia Trekking Cultura ArcheologiaMari e fondali Gastronomia kking Cultura e ArcheologiaMari e dali Gastronomia Trekking Cultura e cheologiaMari e fondali Gastronomia ekking Cultura e ArcheologiaMari e dali Gastronomia Trekking Cultura e guide monotematiche della provincia di Reggio Calabria


itinerari della provincia

di reggio calabria

Cultura e Archeologia


Testi Luigi Bilotto Redazione e consulenza editoriale creativi associati Progetto grafico Enrico Iaria Immagini Antonio Sollazzo Francesco Turano Archivio Iiriti

Š 2009 Iiriti Editore 89125 Reggio Calabria Via del Torrione, 31 Tel. 0965 811278 Fax 0965 338385 www.iiritieditore.com ISBN 978-88-89955-93-2


Indice

Reggio Calabria

Storia della città........................................................................................................ 5

Itinerario della città ............................................................................................. 7

I dintorni di Reggio

Da Reggio a Cataforio e Cardeto .......................................................... 26 Da Reggio a Scilla e Gambarie ............................................................... 28 Da Reggio a Melito di Porto Salvo...................................................... 34

Versante tirrenico

Da Rosarno a Bagnara................................................................................... 40

Dal tirreno verso l’interno

Da Seminara a Molochio............................................................................... 44 Da Gioia Tauro allo Zomaro..................................................................... 49 Da Rosarno a Mammola. ............................................................................. 50

Esplorando l’interno

Da San Pietro di Caridà a San Giorgio Morgeto.................... 52

Versante ionico

Da Monasterace a Canolo. .............................................................................. 8 Da Locri a Gerace................................................................................................... 8 Da Portigliola a Bova......................................................................................... 8



Storia della città

Reggio Calabria

Fondata da coloni greci provenienti dall’isola greca di Eubea poco dopo la metà dell’VIII sec. a.C., Reghion divenne presto una città ricca e potente grazie alla sua strategica posizione che le consentiva di essere crocevia delle più importanti rotte marittime e dei traffici commerciali dell’epoca. Gli stretti rapporti con Zancle (l’odierna Messina), fondata dalle stesse genti, assicuravano il controllo dell’intera area dello Stretto, di enorme importanza per la navigazione nel Mediterraneo. Dal III sec. a.C. Reggio conobbe la dominazione romana e nell’89 a.C. divenne municipium con il nome di Rhegium Iulium. Dopo l’occupazione, tra V e VI sec. d.C., di Visigoti e Ostrogoti, la città fu conquistata dai Bizantini, subendo poi le dominazioni normanna (XI sec.), sveva (XII-XIII sec.), angioina (XIIIXV sec.), aragonese (XV sec.) e spagnola (XVI sec.). Divenuta parte del Regno borbonico di Napoli, fu colpita dal terremoto del 1783, cui seguì una ricostru-

zione. Occupata dai Francesi nel 1808, tornò poi ai Borboni, contro cui insorse nel 1847, e nel 1860 fu occupata dai garibaldini, entrando così a far parte del Regno d’Italia. Il 28 dicembre 1908 fu nuovamente colpita da un catastrofico terremoto. Il piano di ricostruzione dell’ingegnere Pietro De Nava prevedeva una rigorosa sistemazione urbanistica che rese necessaria la demolizione di strutture dal profondo significato storico, quali il castello, lasciato indenne solo in un limitato settore, e la chiesa bizantina degli Ottimati, preservata in qualche elemento poi traslato nel nuovo edificio. La Cattedrale, danneggiata, fu ricostruita ex-novo. In epoca fascista furono realizzate importanti infrastrutture ed edifici quali il Museo Nazionale, progettato dall’architetto Marcello Piacentini. Nel 1970 la città fu teatro di una rivolta contro l’attribuzione a Catanzaro del titolo di capoluogo della regione, che si concluse con l’assegnazione a Reggio della sede del Consiglio regionale.

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Reggio Calabria

Da Reggio a Cataforio Itinerario edella Cardeto città

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a visita alla città ha inizio da piazza Giuseppe de Nava, statista reggino al quale è dedicata una statua realizzata da Francesco Jerace nel 1936. Affaccia su questa piazza il Museo Nazionale, tra i più importanti e ricchi d’Europa per quanto riguarda i reperti relativi alla Magna Grecia. Nella sezione di archeologia subacquea sono esposti i celebri Bronzi, le due statue ritrovate nel 1972 nel mare antistante Riace, straordinario esempio dell’arte scultorea greca del V sec. a.C. Si tratta di statue alte circa due metri che raffigurano due uomini nudi originariamente provvisti di elmo, scudo e lancia, identificati come guerrieri, atleti oppure eroi. Alcuni studiosi attribuiscono le statue all’ambiente attico gravitante intorno al famoso scultore greco Fidia, mentre di recente è stata avanzata l’ipotesi che i Bronzi siano opera di Agelada di Argo e Alcamene il Vecchio, che rappresentino Tideo e Anfiarao e appartengano al gruppo statuario dei Sette a Tebe posto nella piazza maggiore di Argo in Messenia. Al relitto scoperto nel 1969 a Porticello, presso l’imboccatura settentrionale dello Stretto, appartengono invece la bellissima Testa

Gruppo scultoreo dei Dioscuri

di filosofo in bronzo e la Testa di Basilea, che raffigura forse un sovrano, entrambe databili attorno alla metà del V sec. a.C. La sezione preistorica e protostorica documenta gli insediamenti in Calabria dal Paleolitico alla prima età del Ferro, mentre le sale dedicate a Locri permettono di ricostruire la civiltà fiorita in una delle principali colonie della Magna Grecia. Al secondo piano sono esposti numerosi reperti provenienti dalla città, fra cui Testa del filosofo Statua di Giuseppe De Nava

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Itinerario della città il Kouros di Reggio, una statua in marmo di giovane nudo caratterizzato da una capigliatura particolarmente raffinata (fine VI sec. a.C.). Seguono le testimonianze relative a Matauros (Gioia Tauro), Medma (Rosarno), Hipponion (Vibo Valentia), Kaulonia, Krimisa (Cirò), Laos (S. maria del Cedro) e dai siti dell’alto Tirreno cosentino. Completano il percorso museale una Sezione epigrafica e una Sezione numismatica. A monte della piazza, sulla via Demetrio Tripepi, vi è la Biblioteca comuna-

le Pietro De Nava, istituita nel 1818 da Ferdinando I di Borbone. Dalla piazza si può proseguire lungo il corso Garibaldi o sul Lungomare, realizzato all’indomani del terremoto del 1908, in seguito ampliato e riorganizzato. Lungo questo itinerario che si snoda tra il felice connubio di piante esotiche ed edifici tardo-liberty e classicheggianti, sullo sfondo suggestivo dello Stretto, s’incontrano il monumento a Corrado Alvaro, opera di Alessandro Monteleone del 1965, e più avanti, di fronte a palazzo Barbera, una tomba di età ellenistica pertinente alla necropoli greca Il Museo Nazionale e Piazza De Nava Panorama dal Lungomare

Biblioteca comunale De Nava Kouros Stele a F. S. Alessio

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I dintorni di Reggio Da Reggio a Cataforio e Cardeto Da Reggio a Scilla e Gambarie Da Reggio a Melito di Porto Salvo


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I DINTORNI DI REGGIO

REGGIO CALABRIA

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Cardeto, chiesa Matrice, Madonna degli Afflitti e S. Michele

Da Reggio a Cataforio e Cardeto

L’itinerario congiunge Reggio con i comuni limitrofi ricchi di significative testimonianze artistiche. 1 Partendo dal rione Modena si raggiunge il piccolo centro di Cataforio, nella cui chiesa parrocchiale si conserva una statua marmorea di San Basilio scolpita da Giovan Battista e Gian Domenico Mazzolo nel 1535. 2 Si raggiunge poi Cardeto, centro di tradizioni grecaniche, la cui chiesa di SS. Pietro e Paolo conserva argenteria e paramenti sacri dell’800 e quella di San Sebastiano il dipinto settecentesco della Madonna degli Afflitti e la statua del Titolare. Nel santuario dell’Assunta, fuori dal paese, su un altare marmoreo del ’700 è collocata una notevole statua in marmo

della Vergine di stile gaginiano. Interessante anche la statua lignea ottocentesca dell’Assunta. Lungo la strada che collega Terreti a Gambarie, un bivio conduce a Ortì,

Cardeto, santuario dell’Assunta, statua della Vergine Cataforio, chiesa di S. Antonio da Padova


Da Reggio a Cataforio e Cardeto

Panorama da Ortì

Ortì, cisterna

fondata intorno al X sec. Sul monte Chiarello, resti delle fortificazioni dell’antica Motta Anomèri e a Ortì Superiore i ruderi dell’antica chiesa di Santa Maria Lauretana. Meritano una visita la chiesa di Ortì Inferiore, con una Madonna col Bambino probabilmente di Pietro di Bonitate; nei dintorni la chiesa di San Rocco, con bei dipinti e un altare cinquecentesco in marmo, la chiesetta de Curtis e la chiesa di San Nicola del Campo. Monte Venere Cardeto

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I DINTORNI DI REGGIO

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REGGIO CALABRIA

Da Reggio a Gambarie e Scilla Il percorso parte dalla zona nord di Reggio Calabria costeggiando la parte centro-settentrionale dello Stretto di Messina. 1 Si può uscire dalla città lungo il raccordo portuale che immette sull’autostrada A3, percorrere la strada parallela al litorale fino a Catona, oppure la vecchia Statale 18. Sulla collina di Pentimele si trovano i fortini che facevano parte del sistema di strutture militari realizzato a fine ’800 per la difesa dello Stretto. Catona, il lungomare

Gallico S., santuario Maria SS. delle Grazie, Madonna delle Grazie

2 Ritornando sulla statale, si raggiunge Gallico Marina, da cui si può imboccare la strada per Gambarie d’Aspromonte. A Gallico Superiore si può visitare il santuario di Maria SS. delle Grazie con un bel dipinto della Madonna delle Grazie degli inizi del ’600. Non lontano, i ruderi dell’antico monastero basiliano di Santa Domenica del Dromo. Proseguendo sulla statale, la tappa successiva è Catona, antico punto d’imbarco per Messina e luogo da cui pare che San Francesco di Paola abbia attraversato lo Stretto sul suo mantello, un avvenimento ricordato dalla scultura in tufo posta sul litorale, opera di fra’ Felice Griso (1722) e da una più recente opera


Da Reggio a Gambarie e Scilla

Calanna

dello scultore calabrese Polimeni. Restando a Gallico Superiore invece, una deviazione consente di imboccare la statale 184 e dopo poco più di 10 km una stradina sulla destra porta alla frazione di San Giovanni di Sambatello, nella cui chiesa parrocchiale è custodita un’ importante statua marmorea del 1591 raffigurante la Madonna col Bambino attribuita a Michengelo Naccherino. 3 Sulla stessa strada, dopo qualche chilometro una deviazione porta a Calanna, la cui origine bizantino-normanna è documentata dai resti del castello e da alcuni elementi architettonici custoditi nella chiesa matrice. Si consiglia la visita alla necropoli indigena della prima età del Ferro in contrada Ronzo, i cui corredi sono conservati al Museo Nazionale di Reggio Calabria. Tornando sulla statale 184 si è a Laganadi, fondato intorno al X-XI sec., nella cui chiesa di Santa Maria delle Grazie si segnalano una statua e un dipinto settecenteschi raffiguranti la Titolare. Continuando, dopo pochi chilometri si giunge a Sant’Alessio d’Aspromonte, nella cui chiesa dell’Annunziata si ammirano l’importante tela del messinese Antonio Catalano il Vecchio raffigurante l’Annunciazione (1598) e un crocifisso ligneo sei-settecentesco. Si consiglia una passeggiata all’abbazia di Sant’An-

Sant’Alessio d’Aspromonte, chiesa dell’Annunziata, l’Annunciazione

na e al Lazzaretto, itinerario che accomuna l’escursione naturalistica alla visita culturale. Continuando lungo la statale 184 si arriva a Santo Stefano d’Aspromonte, centro aspromontano nella cui chiesa matrice sono custoditi una statua seicentesca di Santo Stefano Protomartire, un dipinto raffigurante il Martirio del Santo, una statua della Madonna del Carmine (XIX sec.) e argenteria coeva. Costeggiando la vallata della fiumara del Gallico, sono visibili i ruderi della chiesa di San Silvestro.

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Da Reggio a Cataforio e Cardeto

Il versante tirrenico Da Rosarno a Bagnara

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Dal Tirreno verso l’interno Da Seminara a Molochio

Da Gioia Tauro allo Zomaro Da Rosarno a Mammola

Esplorando l’interno Da San Pietro di Caridà a San Giorgio Morgeto


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IL VERSANTE TIRRENNICO

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Dea fittile da Medma

Litorale di Palmi

Da Rosarno a Bagnara 1 Rosarno sorge sul sito dell’antica Medma, fondata come subcolonia dai Locresi intorno al 600 a.C. Dalle indagini archeologiche si è visto che la città era organizzata secondo un preciso piano urbanistico, di cui si sono intercettati alcuni importanti assi viari e molte aree sacre che hanno restituito numerosi exvoto, soprattutto statuette in terracotta prodotte dal fiorente artigianato locale. I reperti di Medma sono esposti al Museo Nazionale di Reggio, ma è in allestimento una struttura espositiva in loco, a supporto di un percorso per la fruizione dei settori lasciati a vista. Il terremoto del 1783 ha distrutto la città; si può solo segnalare, nella chiesa di San Giovanni Battista, un’importante tavola cinquecentesca raffigurante la Sacra Famiglia con San Giovannino attribuibile a Deodato Guinaccia. La chiesa del Rosario presenta la volta affrescata nel 1926 dai pittori Carmelo Zimatore e Diego Grillo da Pizzo Calabro. 2 Da Rosarno la provinciale verso ovest porta a San Ferdinando, borgo edificato nel 1831, mentre proce-


Da Rosarno a Bagnara

Porto di Gioia Tauro

Palmi, Casa della Cultura Rosarno, Torre dell’Orologio

dendo sulla SS 18 in direzione sud si giunge a Gioia Tauro, corrispondente all’antica Metauros, fondata verso la metà del VII sec. a.C. dagli abitanti di Zancle (Messina) e oggetto di un declino precoce entro la fine del secolo successivo, come dimostra la cronologia dei corredi della necropoli intercettata presso la fascia costiera ed esposti al Museo di Reggio. 3 La meta successiva è Palmi dove, in piazza Pentimalli, si trova il monumento a Francesco Cilea (1951), insigne compositore palmense di scuola verista (1866-

1950), opera di Michele Guerrisi, cui si deve anche il monumento ai Caduti di tutte le guerre (1928) posto davanti al Palazzo Municipale. Alle spalle, la Cattedrale in stile neo-romanico custodisce argenti di gusto barocco, come la Manta in argento della Madonna della Lettera del 1774 di fabbrica messinese, posta sull’altare maggiore.

Palmi, Monumento a Cilea

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IL VERSANTE TIRRENNICO Taureana, torre di Pietre Nere Palmi, San Rocco

Il corso Garibaldi presenta bei palazzi liberty, mentre nei pressi di villa Mazzini vi è la seicentesca chiesa del Crocefisso, al cui interno è il coevo crocifisso ligneo ascrivibile a Fra’ Umile da Petralia. Il santuario della Madonna del Carmelo, che prospetta sulla piazza dov’é posta una colonna marmorea dall’antica Tauriana, presenta Stazioni della Via Crucis modellate da Fortunato Messina e la statua lignea settecentesca della Madonna del Carmine. Sulla strada per il monte Sant’Elia, è d’obbligo sostare alla Casa della Cultura, una delle più importanti strutture museali calabresi intitolata allo scrittore palmese Leonida Repaci. Al suo interno la Gipsoteca “Michele Guerrisi”, la Pinacoteca “Leonida e Albertina Repaci”, il Museo “Francesco Cilea”, il Museo di etnografia e Bagnara, santuario della Madonna del Carmine e statua della Vergine

folklore, la sezione archeologica “Nicola de Rosa” e una ricca biblioteca. Scendendo sulla costa in direzione nord, il terrazzo di Taureana rappresenta la zona di maggior interesse del comprensorio palmense dal punto di vista archeologico: corrisponde infatti al centro di Taureanum, sede degli Italici Taureani, e al successivo municipium romano di Tauriana. Alle spalle del promontorio con la cinquecentesca Torre di Pietre Nere, è emerso un settore urbano riconducibile ai Taureani, mentre all’occupazione romana risalgono il basamento di un edificio di età tardo repubblicana-prima età imperiale, forse il podio di un tempio di tipo italico (c.d. Palazzo di Donna Canfora) e una strada basolata. Un’altra emergenza monumentale romana è inglobata all’interno della chiesa di S. Fantino, riedificata nel 1857, con resti dell’originario luogo di culto a tre absidi di età altomedioevale. La cripta, che ospita la sepoltura di San Fantino (†336 d.C.), preesisteva come aula mosaicata di un ninfeo del III sec. d.C.


Da Rosarno a Bagnara

Panorama di Bagnara Chiesa del Rosario, Giuditta e Oloferne

4 Da Palmi, lungo la SS. 18 ci si dirige verso Bagnara Calabra, sulla cui rupe di Martorano furono edificati in età normanna l’abbazia di Santa Maria e dei Dodici Apostoli e il castello. Della prima restano strutture in fondazione e un frammento del XII sec., reimpiegato come base dell’acquasantiera all’ingresso della chiesa del SS. Rosario; il secondo ha subito nel corso dei secoli varie ricostruzioni a seguito dei terremoti del 1783 e 1908. L’attuale chiesa Madre (fine ’800) conserva testimonianze del ’600-’700: le tele della Madonna del Rosario e della

Vergine e le statue lignee di San Domenico e San Vincenzo. Nel cuore del vecchio centro sorge il santuario della Madonna del Carmine (fine ’700), con stucchi del catanese Gioachino Gianforma, un’icona in stile tardo bizantino della Vergine col Bambino e la statua processionale della Vergine del 1836. Nella chiesa del Rosario spicca una tela seicentesca raffigurante Giuditta e Oloferne attribuita al pittore cilentano Paolo de Matteis. Bagnara, Monumento a Garibaldi

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Il versante ionico Da Monasterace a Canolo Da Locri a Gerace Da Portigliola a Bova


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il versante ionico

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Da Monasterace a Canolo 1 Questo itinerario parte da Punta Stilo, corrispondente all’antica Kaulon, colonia magnogreca fondata dagli Achei alla fine dell’VIII sec. a.C. Il Parco Archeologico di Kaulonia comprende un Monasterace, basamento del tempio dorico

settore dell’abitato antico, ove si segnalano una casa particolarmente lussuosa, detta Casa del Drago dal drago marino di uno dei mosaici pavimentali (ora al Museo di Reggio), e un altro edificio. Nei pressi della spiaggia è visibile il basamento di un grande tempio dorico (430-420 a.C.), mentre l’Antiquarium


Da Monasterace a Canolo

Mosaico di Casa del Drago, conservato al Museo Nazionale di Reggio Calabria Caulonia, Parco archeologico Stilo, la Cattolica

di Kaulonia, in fase di allestimento, è destinato a ospitare i reperti subacquei rinvenuti nel tratto di mare antistante la città antica. Procedendo in direzione sud, una deviazione verso l’interno conduce a Monasterace, con i resti delle fortificazioni e del castello di origine bizantina pesantemente rimaneggiato. 2 Risalendo verso l’interno lungo la SS 110 è Stilo, fondato nel VII-VIII sec. come epicentro del monachesimo basiliano, importante avamposto prima bizantino e poi normanno. Al centro del paese si erge la Cattedrale, eretta nel ‘300 sul sito di una chiesa paleocristiana e quasi del tutto rifatta in stile barocco nel ‘700. L’interno custodisce la Madonna d’Ognissanti, pala d’altare di Battistello Caracciolo, un busto-reliquiario ligneo di San Vito, un crocifisso del ‘700

e l’altare del SS. Sacramento con intarsi in marmi policromi (1742). Nei pressi della chiesa di San Domenico, il cui convento ospitò il filosofo Tommaso Campanella (1568-1639), si conserva intatta la medioevale Porta Stefanina. Nella chiesa barocca di San Francesco sono conservate la tavola cinquecentesca della Madonna del Borgo, attribuita a Salvo d’Antonio o a un seguace di

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Trekking

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Testi Francesco Turano Consulenza editoriale creativi associati Progetto grafico Enrico Iaria Immagini Antonio Sollazzo Francesco Turano Archivio Iiriti Š 2009 Iiriti Editore 89125 Reggio Calabria Via del Torrione, 31 Tel. 0965 811278 Fax 0965 338385 www.iiritieditore.com ISBN 978-88-89955-93-2

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Indice Per un turismo diverso........................................ 4 Aspromonte occidentale e litorale tirrenico Galatro e il Metramo........................................... 8 Oppido antica......................................................... 10 Gambarie, monte Scirocco e Montalto....... 12 L’Aspromonte...................................................... 15 Cascate del Menta............................................... 16 Il Tracciolino o Sentiero azzurro.............. 18 Da Favazzina a Solano ................................ 20 Area dello Stretto Percorsi in collina.............................................. 25 Calanna e la necropoli...................................... 26 La collina di Pentimele.................................... 28 Ortì e monte Chiarello..................................... 30 Monte Gonì e il Pertuso d’oro..................... 32 Motta Sant’Agata............................................... 34 Motta Sant’Aniceto............................................ 36 Perlupo e la fiumara Annunziata. ........... 38 Aspromonte orientale e litorale jonico L’area grecanica. ................................................. 43 Pentidattilo e le Rocche di Prastarà............. 44 La grande fiumara di Amendolea................ 46 Da Bova a Delianuova................................... 48 Brancaleone antica.............................................. 50 Bruzzano e Rocca d’Armenia..................... 52 Il Bonamico e il lago Costantino............... 54 La vallata delle Grandi Pietre................... 56 Cànolo e le Dolomiti del sud. ....................... 58 Le gole della Laverde......................................... 60 Monte Consolino, monte Stella e Vallata dello Stilaro............................................ 62


Per un turismo diverso L’uomo può agire nell’ambiente in cui vive per trarne il massimo utile, a patto che conosca e distingua i delicati equilibri dai quali dipende la sua esistenza. Troppo spesso ci si dimentica dell’ambiente che ci circonda e a cui apparteniamo, non considerandolo come depositario della nostra stessa sopravvivenza. Camminare a piedi, sentire la terra, fare escursioni in ambito locale, esplorare realtà tra natura e storia, diventano

pratiche utili per conoscere se stessi e i luoghi di cui si è parte, ambienti diversi quali mare, bosco, coste, fiumi, ma anche paesi abbandonati e vecchie marinerie. Il trekking è di conseguenza non solo una disciplina sana, ma anche una modalità di turismo culturale e consapevole, dove ogni ambiente si trasforma in un’aula a cielo aperto e l’escursionista diventa biologo, geologo, storico, naturalista. Capire che la salute della terra e delle sue creature dipende fondamentalmente dal rispetto della natura e percepirequest’ultima come luogo di benessere psicofisico, non è

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Legenda ITINERARI

Difficoltà

Natura

Storia


facile all’inizio, ma ci si può arrivare riscoprendo queste verità. In quest’ottica, la proposta di itinerari di trekking semplici e ricchi di fascino, che portino alla scoperta di angoli suggestivi della provincia di Reggio Calabria, nasce spontanea. Questa guida intende proporre una modalità di approccio al territorio nuova e diversa, più vicina ai canoni dell’ecoturismo, l’unico possibile per non devastare completamente il patrimonio immenso - ma non infinito - che la natura ci ha donato e che è nostro compito proteggere perché le future generazioni possano goderne. La geografia della provincia di Reggio

Calabria è molto varia e spazia dagli ambienti montani di alta quota del Parco Nazionale d’Aspromonte ad ambienti collinari con affascinanti vedute panoramiche, luoghi e realtà dimenticate con testimonianze storiche e sentieri che costeggiano il mare o seguono il corso delle caratteristiche fiumare. Percorrendo in senso orario la provincia, abbiamo individuato alcuni semplici itinerari da proporre al lettore che vorrà cogliere l’essenza di una terra selvaggia e intrigante, ricca e misteriosa, che saprà svelarsi nella sua splendida unicità.


Aspromonte occidentale e litorale tirrenico

Oppido antica L’abitato di Oppido Mamertina si trova nella Piana di Gioia Tauro, alle falde dell’Aspromonte settentrionale a circa 340 m di altitudine. Un luogo circondato da ulivi immensi e agrumeti, un angolo incantato del versante tirrenico della provincia. L’attuale Oppido è una città di nuova fondazione, progettata e ricostruita ex-novo dopo il terremoto del 1783 che distrusse quasi completamente l’antica Oppido, un tempo nota come Mamertum. Per arrivare al vecchio borgo bisogna partire da piazza Chiesa di Oppido Mamertina e proseguire lungo la strada a destra dell’edificio per circa un chilometro e mezzo. Si incrocia quindi un bivio, si svolta a sinistra e si percorrono circa 3 km prima di giungere all’arco d’ingresso della città di Mamertum. È questa la meta del nostro trekking: una passeggiata tra i ruderi di un’antica città fondata dai Bizantini prima del 1044 con il nome di Sant’Agata, conquistata nel 1056 da Ruggero

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il Normanno e a lungo contesa da Angioini e Aragonesi. Oggi di questo antico borgo rimangono le mura di cinta, le due porte di accesso, il castello con le due torri, la cattedrale, il convento dei padri minori di S. Francesco d’Assisi e un’edicola votiva. Ritrovandosi tra le testimonianze del passato, si respira un’atmosfera magica, qui esaltata dalla presenza di ulivi secolari che competono in altezza con le torri del castello del XV secolo. Ai due lati del sentiero, non sarà difficile individuare gli avanzi delle antiche abitazioni nascoste dai tronchi degli ulivi o ricoperte dalla vegetazione: ancora una volta, la natura conserva e protegge le tracce della storia in un legame inscindibile. In un paio d’ore o poco più, con le opportune soste per la contemplazione dei diversi scorci, si può percorrere l’intero sentiero e le vie secondarie senza grande fatica, visto che ci si muove sempre alla stessa quota con sporadici dislivelli.


Aspromonte occidentale e litorale tirrenico

Cascate del Menta Partendo da Gambarie d’Aspromonte e percorrendo in auto circa 13 km fino alla diga del torrente Menta, è possibile affrontare un percorso di un paio d’ore, di media difficoltà, per raggiungere le cascate del Menta o Schicciu da Spana, forse le più famose dell’intero massiccio aspromontano, erroneamente note come cascate Maesano. Il percorso di avvicinamento, da affrontare poi a ritroso per tornare alla base, è per lo più semplice, salvo un dislivello dell’ultimo tratto per scendere alla base della cascata e al laghetto che lì si crea. Le verticali pareti rocciose che caratterizzano il Menta, che va ad affluire sulla fiumara Amendolea, producono tre suggestivi salti di quota, dando vita a una caduta d’acqua del tutto particolare. Il sentiero classico, che conduce alla base dei tre salti, presenta a mezza via un punto panoramico notevole. Scendendo nel vallone osserveremo invece da vicino solo il laghetto e l’ultimo salto, ma avremo modo, volendo, di allungare il percorso

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facendo alcuni metri verso sud seguendo il corso del torrente. Qui la fiumara Amendolea prende il via con le sue acque limpide circondate da pareti di roccia bianca e grandi macigni, in un paesaggio selvaggio dove con un po’ di attenzione si osserverà una discreta fauna acquatica (anfibi, pesci, rettili) e molte specie di uccelli. Un sentiero alternativo, da imboccare però all’inizio del percorso immergendo i piedi nel greto del


Menta, ci porta invece ad affrontare un breve tratto di canyon molto suggestivo, percorrendo la gola che a monte convoglia l’acqua della cascata. Troveremo incantevoli pozze d’acqua limpidissima (localmente chiamate gurnali) e piscine naturali che meritano una sosta per godere della natura circostante (il sentiero in acqua è consigliabile in estate). Inutile dire che a valle delle cascate sull’Amendolea, verso Roghudi, sono celati altri notevoli salti d’acqua non meno suggestivi, ma i percorsi sono estremamente impegnativi e non accessibili se non agli esperti di trekking e torrentismo di un certo livello.


Area dello Stretto

Ortì e monte Chiarello Situato a a 650 m slm a 20 km dal centro storico di Reggio e in linea d’aria a meno di 4 km dalla costa, con uno spettacolare panorama sullo Stretto, l’abitato di Ortì era posto anticamente sul monte Chiarello e prendeva il nome di Motta Anomèri (dal greco anomeris, dalla parte di sopra). Di questa rimane oggi solo una pregevole cisterna affrescata per la raccolta delle acque piovane, visibile ormai solo accedendo ai campi da golf adiacenti. Per il trekking è consigliabile percorrere il sentiero natura ideato all’interno della suddetta struttura, che compie il periplo del rilievo passando dalla vecchia cisterna. Al di fuori del rilievo, un bel sentiero ci può portare, anche se con un certo impegno, da Archi verso Ortì passando dai piani di San Nicola, con splendidi affacci sul torrente Torbido e suoi affluenti, sullo sfondo costante del mare. Le sabbie di questo territorio nascondono numerose tracce fossili; nel 1993 è stato ritrovato lo scheletro fossile di un cetaceo, una balena di circa

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12 metri del Pliocene, che attesta il luogo come uno fra i più interessanti della provincia dal punto di vista paleontologico.



Area dello Stretto

Motta Sant’Aniceto Una volta raggiunto in auto il paese di Motta San Giovanni, si segue la segnaletica e si procede fin dove è possibile parcheggiare, a monte dei ruderi del vecchio maniero. Inizia così l’itinerario a piedi e in breve ci si ritrova alla base della rocca sormontata dai ruderi, oggi ripresi con un recente restauro. È possibile accedere dalla porta principale e visitare ciò che resta

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di questa fortificazione, realizzata in splendida posizione sul sommo di un rilievo roccioso a guisa di tronco di cono, dominante su tutto lo Stretto meridionale e sulla Sicilia, tra Taormina e il vulcano Etna. I camminatori più temerari possono affrontare, dopo la visita degli ambienti interni del castello, un sentiero che parte dal borgo di Paterriti, piccolo borgo sul torrente


Valanidi, anziché da Motta San Giovanni. Anche in questo caso il paesaggio sarà incantevole, con l’Etna che domina incontrastato. Un terzo percorso piuttosto tortuoso, ma molto stimolante, si snoda poi lungo una mulattiera che compie il periplo dello sperone di roccia bianca. In questo caso avremo l’opportunità di osservare altri ruderi ben mimetizzati, a testimonianza degli antichi insediamenti, con sullo sfondo il fedele e suggestivo azzurro del mare.


Aspromonte orientale e litorale jonico

Pentidattilo e le Rocche di Prastarà

Una mano di pietra: ecco cosa si scorge dalla SS 106 jonica una volta giunti alle porte di Melito Porto Salvo. Una mano rivolta al mare che accoglie, alla base del suo palmo, il gruppo di case dirute che forma il paese di Pentidattilo o Pentedattilo (dal greco Pentadaktylos, cinque dita). Abbandonato negli anni ‘50 in seguito alle alluvioni, è oggi uno dei borghi più belli d’Italia, meta di turisti alla ricerca di silenzio, storia e natura. Solitamente si raggiunge lasciando la SS 106 ad Annà e dirigendosi verso il paese

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nuovo, dal quale a piedi si raggiunge il borgo in pochi minuti, ma è vivamente consigliabile uscire a Montebello Jonico e salire fino al belvedere posto a nord-ovest della rupe, dove una stele al viaggiatore inglese Edward Lear segna l’inizio di un itinerario a piedi. Da qui si accede infatti alla fiumara attraverso una breve mulattiera in discesa e, una volta sul letto del torrente, lo si attraversa avvicinandosi all’imponente e caratteristico conglomerato dal basso, in modo molto suggestivo. Secondo i periodi, sarà necessario il guado del torrente, che in questo tratto prende il nome dal borgo che lo sovrasta; si inizierà poi un avventuroso percorso in salita, tra ruderi di antichi casali in stato di abbandono, ripresi solo parzialmente da alcuni amanti del luogo nella parte più alta del paese. Recentemente sono partiti numerosi progetti di riqualificazione del paese e sembra che stia rinascendo un discreto interesse verso un luogo che definire magico non è esagerato. Con un po’ di fatica ma con diverse pause per osservare i vicoli, si raggiunge il


paese e il sommo dove restano pochi pezzi del vecchio castello, detto delle trecento porte. Da qui si può osservare la vallata dall’alto, rivolgendo lo sguardo a nord, sui monti, o a sud, sul mare di Saline Joniche e l’Etna all’orizzonte. Tornando al punto di partenza, sarà poi possibile affrontare, nelle immediate vicinanze, un altro percorso, meno impegnativo, intorno a una serie di strane rocce chiamate Rocche di Prastarà. Si tratta di bianchi calcari di scogliera, probabilmente ciò che oggi rimane di antiche barriere coralline, tangibile testimonianza storica del fatto che il Mediterraneo sia stato tropicale per un periodo della sua vita. Il calcare di tali formazioni, generato dai resti

di organismi fissatori del calcio, è anche frutto della costruzione attiva di coralli e madrepore, responsabili della realizzazione di strutture a volte imponenti (cosa che accade tutt’oggi sul pianeta). Camminando tra queste pietre, specie con il sibilare dei venti settentrionali, si ha la sensazione di essere su un’isola in mezzo a un mare verde. Il contrasto delle rocce chiare con i grandi prati verdi circostanti è emozionante; il percorso a piedi è libero e va affrontato a vista, in totale relax. Tra queste pietre vivono bene molte specie di rettili e qualche mammifero.


Aspromonte orientale e litorale jonico

Bruzzano e Rocca d’Armenia L’antica Bruzzano fu fondata dai Bruzi che si ritirarono nell’entroterra perché costretti dai Locresi sbarcati sul litorale jonico nell’VIII secolo a.C. Raggiungerne i resti è semplice, basta arrivare al bivio segnalato sulla SS106 jonica e poi farsi indicare il percorso dai locali. Una volta giunti nel borgo, in minima parte restaurato nei pressi del castello, si può perlustrare a fondo ogni angolo tornando con la mente al suo passato, immersi nel silenzio di una natura ancora intatta. Simbolo del borgo è l’Arco di Trionfo dedicato ai Carafa, principi di Roccella che qui dimorarono per lungo tempo. L’arco, i cui affreschi sono ormai quasi perduti, fu costruito nel XVII secolo all’estremità orientale del paese, con la

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facciata principale rivolta a est, lo stesso orientamento della Porta dei Vescovi di Gerace, tipico delle porte urbiche delle cittadine medievali. Le viuzze, talvolta create con vere e proprie escavazioni nella roccia di arenaria compatta tipica del sito, permettono di ripercorrere le vie di comunicazione tra le abitazioni vicine, le cui mura perimetrali ne suggeriscono le caratteristiche. Spostandosi verso la rocca, appaiono i pochi ruderi dell’antico castello di Rocca d’Armenia a quota 139 m slm, edificato dai Saraceni tra il finire del X e gli inizi dell’XI secolo. Dopo varie dominazioni, il castello subì gravi danni col sisma del 1783 e fu quindi ridotto a rudere dai terremoti del 1905 e 1908; dopo quest’ultimo, il paese venne definitivamente abbandonato.


Aspromonte occidentale e litorale tirrenico

Le gole della La Verde Una volta raggiunto il paese di Samo, sul versante jonico orientale del massiccio, si scende in auto fino al letto della fiumara La Verde e si inizia una risalita a piedi. È opportuno scegliere il periodo giusto per questa escursione, visto che ci si muove lungo il letto di un torrente e i periodi di piena potrebbero compromettere l’escursione. Detto ciò, sarà necessario guadare più volte il corso d’acqua, per risalire quel tanto che basta a godere dello spettacolo offertoci dalle strette gole. Lo spettacolo ripagherà degli sforzi richiesti e la suggestione di questi ambienti rocciosi lascerà un ricordo indelebile, dando solo un’idea delle tortuose gole che si possono trovare lungo i torrenti dell’Aspromonte.

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Lungo il percorso, abbastanza facile se affrontato nel periodo estivo, si aprono profondi canaloni con pareti che in alcuni punti sfiorano i 300 metri di altezza; canyon minori si congiungono al greto del torrente, con coni di detriti strappati ai monti quando le piogge si fanno piÚ intense. In alcune aree ben nascoste tra la vegetazione, si scorgono diverse sorgenti che alimentano il corso d’acqua: sono affluenze minori che a volte generano brevi cascate.


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itinerari della provincia

Enogastronomia di reggio calabria



itinerari della provincia

di reggio calabria

Enogastronomia


Testi Carlo Baccellieri Redazione e consulenza editoriale creativi associati Progetto grafico Enrico Iaria Immagini Antonio Sollazzo Archivio Iiriti

Š 2009 Iiriti Editore 89125 Reggio Calabria Via del Torrione, 31 Tel. 0965 811278 Fax 0965 338385 www.iiritieditore.com ISBN 978-88-89955-93-2 Si ringraziano per la gentile disponibilità Gastronomia Gambrinus, Pasticceria Malavenda, laboratorio di pasticceria Orlando, gelateria Sottozero e i negozianti del mercato centrale di Reggio Calabria


Indice

Introduzione Le origini Le tipicitĂ Il peperoncino Area del reggino Versante tirrenico Aspromonte Versante ionico e area grecanica Come nasce il dolce della tradizione Glossario

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Introduzione La Calabria è sempre stata considerata una regione povera e certamente lo è, ma in misura minore di quanto al di fuori del suo territorio si possa credere. Naturalmente la sua cucina ha risentito in passato di questa situazione oggettiva, ma ciò non vuol dire che non sia esistita e non esista una gastronomia tradizionale, ricca e appetitosa, piena si fantasia, che è riuscita faticosamente ad affermarsi in ambito nazionale. Fino a qualche anno addietro erano rari i libri di arte culinaria che riportavano ricette con l’aggettivazione calabrese. La maggior parte delle pietanze erano invariabilmente milanesi, alla romana, bolognese, veneta, e quando si discendeva la penisola verso sud, tutto ciò che non era napoletano era sicuramente siciliano. In realtà, anche in questo campo la suddivisione politico-amministrativa faceva sentire la sua decisiva influenza. Occorre tenere a mente, infatti, che il regno del sud era distinto, fino all’Unità, nelle province napoletane e nella Sicilia, che godeva di ampia autonomia, per cui nella terminologia, non solo dei meridionali, ma in generale degli italiani da Roma in su, l’unica distinzione che si faceva era tra napoletani e siciliani, laddove napoletani venivano chiamati gli abitanti di tutta l’Italia meridionale. Logico quindi che napoletane venissero aggettivate le loro produzioni culturali, folkloristiche e gastronomiche. Ecco perché tra tante ricette presenti nei vecchi libri di cucina, quasi nessuna sembrava

appartenere alla tradizione calabrese, lucana, pugliese, abruzzese. Sebbene la Calabria rimanesse in qualche modo isolata dal contesto delle altre regioni, i suoi contatti con Napoli e la Sicilia furono assidui e persistenti, per cui l’incidenza di questi due grandi poli d’influenza fu, anche nel campo che qui interessa, notevole e determinante, specie nei centri maggiori e nelle marine. La Calabria rappresenta il punto di congiunzione e di mediazione della


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INTRODUZIONE

grande tradizione gastronomica napoletana e siciliana, di cui ha reinterpretato ed elaborato molti piatti che, senza nulla togliere alla gradevolezza originaria, ne completano ed affinano il sapore, stemperando nella moderazione napoletana quanto vi è di troppo aspro e deciso nel gusto siciliano. L’Artusi, al quale si attribuisce il merito di avere unificato la cucina italiana, aveva raccolto nel suo celebrato libro La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene edito alla fine del XIX secolo, circa 800 ricette, per lo più appartenenti alla tradizione culinaria dell’Italia centro settentrionale: nemmeno una pietanza alla calabrese. Orbene, la Calabria era sì una regione povera, ma tanto povera da non avere nella sua tradizione una sola pietanza degna d’essere riferita? Possibile che i nostri avi mangiassero soltanto pane e cipolla?

Neppure il più moderno Cucchiaio d’argento riportava, fino alle più recenti edizioni, alcuna ricetta calabrese; soltanto da qualche tempo ci si è accorti che esiste una cucina calabrese che merita a tutti gli effetti di essere annoverata al pari delle altre cucine regionali. Il merito di questa scoperta spetta innanzitutto a due grandi esperti di settore: Luigi Carnacina e Luigi Veronelli, soprattutto quest’ultimo, del quale è a tutti nota l’appassionata competenza e la serietà della ricerca, ha riservato in numerose pubblicazioni il giusto posto alla nostra tradizione gastronomica. Un altro notevole contributo alla cucina regionale, e a quella calabrese in particolare, lo ha dato Anna Gosetti della Salda con il suo fondamentale libro Le ricette regionali italiane, dove finalmente la cucina calabrese ritrova la sua meritata dignità. Anche la rigogliosa fioritura delle pubblicazioni locali e nazionali ha contribuito non poco alla diffusione della gastronomia calabrese in Italia e nel mondo, anche se è lecito esprimere qualche riserva circa l’attribuzione delle pietanze. La gastronomia è parte fondante del complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale che formano la cultura di un popolo, in relazione alle varie fasi del suo processo evolutivo, ai diversi periodi storici e alle diverse realtà ambientali. In ciò rientrano usi e costumi popolari legati a un territorio, tramandati nei secoli e legati indissolubilmente alle vicende storiche e alle influenze


7 delle diverse culture con le quali è venuto a contatto. In questo senso, la gastronomia può raccontare la storia dei popoli. È questa la valenza culturale della gastronomia tradizionale, che si manifesta nella conoscenza e tutela del patrimonio gastronomico regionale, cioè la cucina tipica dei luoghi. Ma qual è la cosiddetta cucina tipica? Consiste in quelle pietanze che vengono riproposte da sempre, preparate con ingredienti autoctoni e secondo le abitudini locali, che a volte traggono origine da eventi storici, più spesso religiosi. Essa fa parte della tradizione di quei luoghi, che per essere tale deve essere generale, uniforme e costante, quasi fosse una legge consuetudinaria, e tale veniva e viene intesa nelle famiglie dove permane l’abitudine di onorare le festività con un menù della tradizione. Esiste una sostanziale unicità della cucina meridionale in quanto il sud d’Italia ha goduto per quasi quattordici secoli, con rare interruzioni, di un’effettiva unità che ha comportato necessariamente un’organica contiguità delle sue produzioni, anche gastronomiche, così come è avvenuto nella lingua dialettale, sostanzialmente uguale in tutte le regioni del sud. Tuttavia, l’unità di base della gastronomia meridionale, conduce alla tipicità locale dovuta al fatto che ogni paese ha conservato le sue

specifiche tradizioni. È questa tipicità regionale, così differenziata e sfaccettata, che a mio parere costituisce la ricchezza della cucina italiana. E quella calabrese, della provincia di Reggio nello specifico, ne costituisce una ragguardevole parte.



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Le origini

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e influenze della cucina di questa provincia sono riferibili alle produzioni culinarie dei popoli con i quali è venuta in contatto: gli arabi attraverso la mediazione siciliana (da cui la caponatina e la copeta), gli spagnoli (tortiere, parmigiane), i francesi (ragù, nduja). Ma la cucina calabrese in generale, e reggina in particolare, vanta origini molto più remote che affondano le radici nella Magna Grecia. Mi piace ricordare come, partendo dal lessico, si sia attribuita all’epoca delle colonie greche l’origine della pasta. Al tempo era in uso confezionare una sfoglia di pasta ricavata da un impasto di farina e acqua, che poi veniva tagliata a strisce che prendevano il nome di làgane, da cui deriva il vocabolo italiano lasagne. La medesima origine hanno i maccheroni, eredi dei macaroi (dal vocabolo greco makares, beati), sorta di cilindretti di pasta che all’epoca si usavano offrire in occasione dei funerali in onore dei beati defunti, quello che nel nostro dialetto era detto u cunsolu. Particolare rilevanza assumono alcune preparazioni culinarie che accompagnano le festività e conservano un preciso significato di commemorazione religiosa. Così le pietanze rigorosamente a base di pesce in occasione della cena della vigilia di Natale, insieme ai 13 frutti come augurio di prosperità; così i crispeddi o zippuli, immancabili sulla tavola del santo Natale, così il soffritto di capretto il sabato

di Pasqua e il capretto della Domenica di Pasqua, a ricordo della ricetta dettata dall’Angelo del Signore in occasione della fuga d’Egitto; così le frittole di maiale, il cui consumo annuale, secondo la tradizione reggina, coincide con la festa della Madonna della Consolazione, Patrona di Reggio. Il sabato, durante la veglia che precede questa festa, si offrono i pizzati ‘i paniculu, cioè pizzette di granoturco passate al forno e imbottite con i curcuci (ciccioli). La Calabria, regione povera a economia agricola, ha sviluppato col tempo una gastronomia legata ai prodotti dell’orto e alle carni degli animali che si allevavano nell’ambito della famiglia contadina, come maiale, capra, polli (che però venivano riservati ai gnuri, cioè ai signori), conigli e, nelle marine, il pesce del nostro mare, come il pesce spada, i surici, a nnannata, le costardelle, il tonno, la spatola, le alici.



Le tipicità

Le tipicità


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LE TIPICITà

N

on è facile stabilire quale sia il contributo autonomo e originale della cucina calabrese e reggina alla tradizione culinaria meridionale; possiamo però ritenere che questo contributo sia stato notevole, a giudicare dalla varietà e ricchezza (certamente insospettabile ai più) della cucina popolare, che pone a base delle sue ricette i prodotti tipici del luogo. L’isolamento dei paesi d’alta collina e di montagna ha generato, fino al secolo scorso, una cucina autoctona e originale, tuttora in gran parte ignorata dagli stessi calabresi. Ancora oggi infatti, in tempo di globalizzazione, esistono in Calabria e nelle sue cinque province modi diversi di cucinare le stesse pietanze; il ragù che si cucina a Reggio è diverso da quello di Bova, il pesce stocco di Mammola è diverso da quello di

Cittanova, il murseddu di Catanzaro è diverso dal soffritto di Reggio, i salumi della provincia reggina sono diversi da quelli del catanzarese o del cosentino, e così via. Esiste quindi una tipicità calabrese e una tipicità reggina, che si manifesta soprattutto nelle pietanze a base di ortaggi e nel trattamento del maiale. Per restare nell’ambito della tipicità della nostra cucina, esaminiamo le varie pietanze che ancora oggi costituiscono i nostri principali punti di forza. La cucina di questa provincia non conosce l’antipasto: era già difficile avere un pasto, figuriamoci l’antipasto! Esiste però una quantità di prodotti conservati, consumati come piattinu ‘i rinforzu, ossia per rinforzare un pasto scarno e frugale, che oggi vengono serviti come antipasto: così le melanzane, i pomodori secchi e le conserve sott’olio di verdure


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miste, i funghi, le olive condite in una varietà quasi infinita di modi, il piccantino (miscuglio di peperoncino e verdure varie spezzettate), la sardella o rosamarina (neonata conservata con un robusto condimento di peperoncino), la nduja di chiara origine francese, ‘u biscottu a’capunata di origine ligure, ‘a cucuzza c’a gghiata, (zucchine fritte condite con pangrattato, aglio e aceto). Tra i formaggi ‘u Musulupu di origine grecobizantina, la ricotta infornata, quella salata da grattugiare sulle pietanze e una straordinaria varietà di pecorini, particolarmente apprezzati quelli d’alta collina dei dintorni di Reggio e quelli d’Aspromonte. I primi piatti, quasi sempre piatti unici perché il contadino non si poteva permettere i cosiddetti secondi, sono abbastanza vari e basati sui legumi, con i fagioli (la suriaca, detta la carne dei poveri per l’alto contenuto di proteine) in primo piano, oltre a lenticchie, fave, piselli (questi

ultimi sempre freschi e mai secchi), ceci. Ecco quindi la tradizione delle minestre e dei minestroni a base di fagioli, patate, broccoli e pasta, le fave secche a’ mmaccu (cotte fino a sfaldarsi come una purea), fave e pi-



ea del reggin

Area del reggino


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AREA DEL REGGINO

L

a zona limitrofa alla città si caratterizza per la vicinanza alla Sicilia e la presenza di un porto e di approdi che hanno favorito il commercio dei prodotti agricoli del luogo come l’olio e il vino, facilitato i contatti con altre popolazioni e l’acquisizione, con le ovvie trasformazioni e adattamenti, delle loro produzioni culinarie. In quest’area quindi, l’influenza delle cucine siciliana e napoletana è rilevante, con qualche apporto anche della cucina ligure, in quanto era verso Genova che si indirizzava buona parte delle esportazioni dei prodotti agricoli. Si riscontra anche una decisa influenza della cucina francese, che possiamo far risalire in parte al decennio francese (1806-1815), ai tempi di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat, ma che dobbiamo attribuire anche ai contatti con il porto di Marsiglia, capolinea delle esportazioni vinicole e delle essenze di bergamotto qui prodotte dirette verso la Francia. Non trascurabili l’influenza spagnola, dovuta alla lunga dominazione, e araba, proveniente dalla vicina Sicilia e con la sua mediazione. La gastronomia della zona è quindi molto varia, in linea di massima semplice ma comprende anche elabo-

razioni di una certa complessità. Contrariamente al resto della provincia e dell’intera regione, non è una cucina contadina poiché il suo riferimento è una città, l’unica vera città della Calabria, almeno fino agli anni cinquanta del Novecento. Piatti forti di questa cucina non sono soltanto i primi, ma anche i secondi e i dolci. Un posto d’onore è occupato dalla pasta ’ncasciata, un timballo di maccheroni o paccheri arricchiti con polpettine fritte, provola, uovo sodo, soppressata, conditi con abbondante sugo di ragù, sistemati in una teglia su di un letto di melanzane fritte, ricoperto da altre melanzane e messo al forno. È il piatto tradizionale di ferragosto, quando in epoca pagana si celebrava la “Grande Madre Terra” alla conclusione del ciclo agricolo, festività poi passata in epoca cristiana alla devozione della Madonna. Il 15 agosto era infatti la data originaria della Festa di Madonna di Reggio, poi trasferita al primo sabato di settembre successivo all’8 del mese. Altro posto d’onore spetta al sartù di riso, piatto d’origine napoletana importato dalla Francia, che consiste in un timballo di riso condito con ragù di carne, piselli, polpettine fritte, for-


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maggio, uovo sodo e messo in forno: una pietanza divenuta tradizionale per la domenica di Carnevale. Il martedì grasso, la tradizione dei maccarruni ‘i casa si estende da Reggio a tutta la provincia: una preparazione che prevede questo particolare tipo di maccheroni, confezionati possibilmente con farina di grano duro, cavati col ferro da calza (originariamente un sottile stelo di giunco) e conditi con ragù nel quale si fanno bollire polpette di carne di maiale. La sera della vigilia di Natale è tradizione, oltre all’abbondanza di pesce cucinato in svariati modi, portare in tavola i vermicelli a’ gghiotta, vale a dire conditi con un ragù fatto a base di pesce cipolla, murena, gronco. Come nel resto della provincia, anche in città è molto diffusa la pasta c’a muddica e alici, vale a dire vermicelli o linguine condite con aglio, olio, acciughe e pangrattato leggermente tostato, che presso le famiglie meno abbienti sostituiva nel cenone della

vigilia di Natale la più costosa gghiotta. Un primo molto semplice e apprezzato è quello che si prepara con i vermicelli o linguine conditi con zucchine fritte a rondelle, l’olio di cottura delle zucchine e ricottella salata grattugiata al momento. Riguardo al pesce, molto in auge anche a Reggio lo stoccafisso, comunemente chiamato pesce stocco, da non confondersi con il baccalà, che è merluzzo conservato sotto sale, mentre il


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AREA DEL REGGINO

primo è merluzzo seccato al sole e al vento del nord Europa, e ha un sapore completamente diverso. La maniera più nota di cucinarlo, una volta ammollato nell’acqua di sorgente è, come si è detto, alla trappitara. Il pesce spada, di gran lunga il preferito dai reggini, si prepara alla riggitana, un modo semplice e leggero che ne lascia intatto il delicato sapore. Altra preparazione molto diffusa è quella a braciolette,

involtini a base di pangrattato accomodato con spezie e formaggio, che va fatta con una parte particolare del pesce detta surra. Tra le carni, alla riggitana si prepara anche il fegato di vitella, con abbondante cipolla e patate fritte sfumato con aceto, e alla riggitana si dicono gli spaghetti conditi con pomodorini di schjocca (ciliegina o Pachino), olio, aglio, capperi, basilico, origano. Una pietanza non casalinga che non si trova nei ristoranti e che ha nel reggino probabilmente la sua patria d’origine, sicuramente il suo principale centro di consumo, è quella delle frittuli, che consiste nelle parti del maiale non destinate alla conservazione come la pancia, il muso le orecchie, i gamboncelli, la milza, il cuore, una parte di cotenne sgrassate e alcune costine, il tutto cotto, o meglio sobbollito in una caldaia di rame a fuoco di brace di carbone tenuto molto basso per almeno sei o sette ore, nel grasso del maiale. Oggi, solo in alcuni paesini e frazioni dell’entroterra si cucinano nel modo tradizionale, ma il consumo è molto diffuso anche in città, dove i macellai più esperti le preparano in una grande caldaia in acciaio


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inossidabile messa su di un proporzionato fornello a gas. Un altro reperto dell’antichità classica è ‘u suffrittu, fatto a base di cipolla, trippa, polmone e altre interiora di manzo, stracotto in una salsa di pomodoro con olio e dosi massicce di peperoncino rosso calabrese. Altro suffrittu tipico è quello che comprende tutte le interiora di capretto, che si cucinano per tradizione il sabato che precede la Pasqua e viene offerto innanzitutto al primogenito maschio in ricordo della fuga d’Egitto del popolo ebraico. La Domenica di Pasqua si mangia il capretto all’usu i Riggiu, cioè cucinato al forno nella sugna con patate, cipolle, peperoni e come primo làgane condite con questo sugo. Il lunedì di Pasqua invece, è

d’obbligo preparare la pitta china, una pizza chiusa ripiena di ricotta, curcuci, uova sode e sbattute. Un posto d’onore è occupato dalle verdure, rappresentate innanzitutto da una discreta quantità di insalate da prepararsi secondo le stagioni: pomo-



rsante tirreni

Versante tirrenico


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VERSANTE TIRRENICO

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nche quest’area è ricca di primi piatti e molto meno di secondi. Il piatto forte è costituito dai maccheroni di pasta fresca fatti in casa e cavati con il ferretto da calza, che nel rosarnese prendono il nome di fileja e saranno immancabilmente conditi con il tradizionale ragù di maiale e con qualche altro sugo a base di selvaggina. Rosarno, l’antica colonia locrese Medma, è il punto di convergenza di una

vasta area caratterizzata da boschi di ulivi ed agrumeti, quindi vi è in auge l’olio d’oliva e l’agrumicultura di arance e clementine (DOP), nel dialetto locale chiamate madaranciu perché frutto di un’ibridazione tra arancio e mandarino. Gioia Tauro è nata come scalo commerciale per l’imbarco dei prodotti della Piana, soprattutto olio e vino, con destinazione Genova e Marsiglia. Probabilmente è qui che i marinai genovesi introdussero i contadini calabresi al biscottu a’ capunata. La capponata era ed è una pietanza della cucina genovese a base di cappone, consumata soprattutto a Natale. Avvenne che i marinai genovesi, costretti nei lunghi viaggi a mangiare gallette ammorbidite con acqua e condite con olio e aceto, chiamarono ironicamente capponata questo cibo povero e insignificante. Sempre ironicamente, trasmisero il nome ai calabresi dello scalo i quali, non cogliendo l’ironia, chiamarono il biscotto di grano bagnato e condito con olio, aceto e origano biscottu a’ capunata. A Gioia troviamo anche la struncatura, in origine una pasta di scarto dei pastifici che residuava dalle trafilerie in bronzo. Dal tipico colore scuro,


37 conferito probabilmente dai residui di metallo, era riservata all’alimentazione animale e vietata alla vendita per usi alimentari. Oggi, si condisce con una salsetta di olio, aglio e acciughe sotto sale con una spolverata di pangrattato abbrustolito. Sulla Piana, che si dice di Rosarno o di Gioia Tauro, incontriamo paesi importanti nell’economia della provincia, qui basata soprattutto sulla coltura dell’ulivo. Nell’area si conoscono tanti modi per preparare le olive: salate con quelle che si raccolgono a ottobre; carolei o galatresi della Piana o tamborelli di Rosarno, che si conservano in una speciale salamoia; olive mature, scaldate, salate e condite con olio, origano, peperone e finocchio; olive infornate, olive schiacciate, che si raccolgono a settembre-ottobre e si lasciano addolcire per qualche giorno in acqua; olive cumbitè di Grotteria, che si conservano in aceto; olive morte, cadute dall’albero naturalmente e che si apprezzano senz’altra preparazione; olive appassite al sole (‘mpassuluti); olive zunzifarichi, diffuse anche nella zona jonica; olive nere, tagliate, scaldate, lasciate per qualche giorno a dolcificare e poi condite con sale, origano, aglio e peperoncino. Taurianova è famosa anche per la pasticceria poiché proprio negli anni Venti del secolo scorso poté avvalersi

di un’ottima scuola che lasciò tracce indelebili in tutta la zona. Ottimi i torroni di mandorla e miele, quelli all’ostia, con il naspro (glassa), al cioccolato. A Polistena, molti gli incontri con la cucina locale, sempre basata sui prodotti del territorio; pregiatissimi i torroni e le susumelle al cioccolato, pitte (focacce ripiene) e pietanze a base di funghi. Notevole, nella gastronomia della zona, la pitta chianota, impastata con strutto e ripiena di scarola, pomodoro, formaggio, uovo sodo, olive nere e sarde salate. Se da Polistena ci spostiamo di pochi chilometri, giungiamo a Cittanova, famosa per la preparazione dello stoccafisso (pesce stocco) ammollato nelle acque dello Zomaro. La qualità di questo merluzzo essiccato proveniente dai mari del nord, dipende, oltre che dalla qualità originaria del pesce, anche dalle acque con le quali si pratica l’ammollo, che devono essere pure e prive di calcio. Cittanova disputa con Mammola, sul versante jonico, la cultura del pesce stocco ed entrambi rappresentano i due poli di eccellenza per questo alimento. Lo stoccafisso (secondo alcuni dal norvegese stokkfisk o dall’olandese antico stocvisch, ovvero pesce bastone, secondo altri dall’inglese stockfish,


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VERSANTE TIRRENICO

ovvero pesce legno), è la parte più pregiata del merluzzo che si pesca nei mari del Nord. Il pescato è accuratamente selezionato e i pesci di media grandezza, che sono anche i migliori per qualità, vengono appesi in apposite impalcature ed esposti all’aria gelida dell’Artico e al tiepido sole del nord. Diverso è quello salato, che prende il nome di baccalà, dal portoghese bacalao, merluzzo, forse perché in origine veniva importato dal Portogallo. Da noi il baccalà è molto meno apprezzato dello stoccafisso, che invece trova la massima diffusione in questa provincia, una delle località italiane dove se ne registra il maggior consumo. A Cittanova le preparazioni più comuni sono: stocco e patate, crudo in insalata, ventriceddhi (ossia ventresche) di stocco con funghi o ripiene di pangrattato accomodato con pecorino, capperi ed aromi vari; frittelle di stocco con patate e peperoni. Nell’ambito dell’economia locale, la produzione dell’olio d’oliva ha sempre rivestito un ruolo di tutto rispetto nel settore. La raccolta viene ancora oggi eseguita parzialmente a mano dalle raccoglitrici di olive, quando i

frutti ormai maturi cadono sul terreno. Nella Piana, le grandi estensioni di ulivi secolari sollecita varie iniziative incentrate sull’olio d’oliva, e in molti paesi, come San Giorgio Morgeto, Oppido Mamertina, Cosoleto, Castellace, Cittanova e Palmi, si organizzano annualmente sagre durante le quali viene offerta la degustazione dell’olio extravergine appena estratto. San Giorgio Morgeto è pure la patria di Annunziato Tedesco, produttore, oltre che del profumo Calabresella, anche dei liquori Pietro Micca e Caffè Sport, purtroppo oggi scomparsi. San Giorgio Morgeto e Giffone sono anche noti per la conservazione dei funghi essiccati. A Melicucco, il piatto tipico per eccellenza sono i maccarruni conditi con il sugo di capra, cui seguono le patate fritte con peperoni e melanzane, le salsicce, la nduja melicucchese e la soppressata. Il dolce caratteristico è rappresentato dalle nnacátuli, sottili listarelle di pasta a base di uova, strutto e liquore, fritte nell’olio bollente. Spiccano nella cucina locale la preparazione di diversi prodotti in salamoia o sott’olio, quali le olive, i peperoncini piccanti, le melanzane, i peperoni, le sardine e le verdure in giardiniera. Con un po’ di fortuna, qui si possono gustare i sucameli ossia maccheroni freschi fatti in casa, cotti nel latte e conditi con il miele. In Calabria vi è una antica tradizione nella lavorazione del miele che risale ai tempi della colonizzazione greca, e che lo vede usato nella confezione dei dolci tradizionali quali ‘nzuddhi, pignolata e crispeddhi. Ancora numerosi gli alveari nelle nostre campagne e si distinguono, a seconda dei fiori di cui si nutrono le api, in un’infinità di diverse qualità: di arancio, di corbezzolo, di eucalipto, di sulla, di agrumi vari (clementine, mandarini, bergamotti), di erica multiflora. Particolare è il


miele di fichi che non è un miele d’api come gli altri ma si prepara mediante la spremitura di fichi bolliti condensando poi al fuoco lo sciroppo ottenuto. Non è molto comune e si usa per la preparazione di dolci e delle scirubette, ossia granite ottenute con la neve in bicchiere. L’allevamento del maiale si è sempre praticato in ogni casa di contadini; allevato in tutte le famiglie, costituiva la cassaforte della povera gente, perché le sue carni si prestavano alla conservazione sotto forma di soppressate, capocolli, salsicce, sugna, lardo, da consumarsi secondo i bisogni durante l’inverno. Quando le risorse sono poche e occorre utilizzare tutto al

meglio, nasce la necessità d’ingegnarsi; da qui la sapienza dei contadini nel preparare le carni per la conservazione, e non stupisce che la Calabria abbia ottenuto dall’Unione Europea un lusinghiero riconoscimento in questo campo. Dall’arte della macellazione derivano i salumi tipici della regione: capocollo di Calabria (D.O.P.), pancetta (D.O.P.), salsiccia (D.O.P.), e la celebre soppressata (D.O.P.). Ai primi dell’800 la produzione di insaccati è attestata da statistiche dall’epoca di Gioacchino Murat, in cui si evidenzia l’utilizzo di spezie e aromi estratti da piante locali per dare maggior sapore alle carni. La bontà dei salami di Calabria venne attestata anche da Giacomo Casanova, che ebbe modo di apprezzarli in un suo viaggio in Calabria nel 1700, definendoli come i migliori che avesse mai assaggiato. Molto diffusa l’abitudine alla conservazione di vari prodotti dell’orto mediante l’utilizzo prevalente dell’olio



romonte

Aspromonte


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ASPROMONTE

L

asciamo il mare e prendiamo la strada che ci conduce verso il cuore dell’Aspromonte. A Seminara, antico borgo e tappa dell’antica via Popilia, che lasciando la via Appia collegava Capua a Reggio, troviamo ancora i ‘nzuddhi, biscotti al miele che oggi si confezionano soprattutto a Soriano ma che per antica

nostra consuetudine si dicono di Seminara perché venivano portate nelle festività locali dai venditori seminaresi in caratteristiche casse di legno di abete, insieme alle ceramiche che gli artigiani del posto producono tutt’ora e di cui sovente riprendevano temi e forme. L’Aspromonte è anche il luogo di produzione del miglior formaggio pecorino della provincia, che nulla ha da invidiare a quelli più rinomati. Nel cuore dell’Aspromonte non possiamo mancare all’appuntamento con i funghi, che troviamo a Sant’Eufemia, a Santa Cristina, Santo Stefano, Gam-


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ante jonico e

Versante jonico e area grecanica


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VERSANTE JONICO E AREA GRECANICA

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iscendendo verso il mare Jonio arriviamo a Melito di Porto Salvo, centro della pesca di costardelle, un pesce azzurro simile all’aguglia ma più grasso, poco noto altrove ma che da noi conta molti estimatori. Si prepara infarinato e fritto oppure in umido col pomodoro. Nella stagione giusta troviamo ‘a nnannata (neonata, bianchetto), a frittelle oppure lessa condita con olio e limone. Nella zona sono diffuse le cosiddette patati carcioffuli, meglio conosciute come patate di Gerusalemme o topinambur, simili a grosse margherite gialle prodotte da un tubero bitorzoluto dal sapore leggermente acidulo che ricorda quello del carciofo. Questi tuberi vengono cucinati alla maschisc,

che nel dialetto indica una preparazione a base di pangrattato insaporito con succo di limone. Superato Condofuri entriamo nel cuore della Bovesia. A Bova, l’antica Chora tu Vua di origine grecanica, gusteremo il ragù di capra nella versione originale, ossia preparato con cipolla, pomodori, aromi e sugna. A proposito di ragù, è opportuno rilevare che quello della zona jonica è diverso da quello di Reggio: su questo versante si utilizza la carne tagliata a pezzi (di regola di capra) e si mettono in tegame tutti gli ingredienti insieme, mentre a Reggio si utilizza un taglio di carne grasso e magro, che si pone in casseruola dopo aver rosolato la cipolla nell’olio d’oliva e sempre con l’aggiunta di strutto. La gastronomia e i cibi tradizionali di Bova e dell’area grecanica in generale sono molto semplici. Ricordiamo il caratonfolo, una sorta di tartufo viola che si produce un po’ dappertutto ma è utilizzato solo in alcune zone; i fichi d’india infornati detti ascadia, la polenta condita con il latte (curcudia), le ciambelle con speziate bollite e poi infornate (anevamena), le pitte con la ricotta e un’ottima varietà di formaggi. E ancorai dolci di Natale (protali o pretali) e quelli di Pasqua (‘nguti) e la gustosa ricotta di Bova abbinata al miele. La Calabria greca si connota per l’uso generalizzato della carne di capra, che può essere una lastra (animale di circa un anno che non ha conosciuto il maschio, altrimenti acquisisce sapore bestinu, selvatico e quindi sgradevole), ovvero un capretto di pochi mesi. Oltre al ragù, due le tipiche preparazioni della zona: ‘nte filici (nelle felci), dove il capretto, previamente aromatizzato, viene avvolto nelle felci, calato in una buca


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scavata nel terreno, ricoperto con altre felci e terra e cotto al fuoco di legna acceso sopra; e crapettu o gneddu muratu a lu furnu ove l’animale, sventrato ma lasciato intero, viene riempito con un soffritto della sua coratella, insaporito con rosamarina e basilico, aglio, pepe rosso e lardo, ‘ncrapettatu, ossia legato ben bene comprese le zampe, e messo al forno di campagna, che verrà murato con la creta fino ad avvenuta cottura. Ad Africo scopriremo i cacocciuli (boccioli di cardo selvatico), utilizzati per condire la pasta oppure con-

servati sott’olio. Da non trascurare ‘u mmaccu, fave secche sbucciate e ridotte a una purea dopo lunga bollitura in un tegame di coccio. A Bianco, Bovalino e Ardore potremo gustare specialità come i cucuzzeddhi c’a trimma (zucchine con l’uovo), la pasta con uovo battuto e ricotta, una specialità per i carbonai che lavoravano nei boschi di querce della zona; melanzane alla jonica con acciughe e pomodori freschi; la tortiera di carciofi; i sammartini, pizzette dolci ripiene di fichi secchi, noci, mandorle e uva passa; zippuli ‘a ventu, sgute o ‘nguti di


La gastronomia della provincia di Reggio Calabria, è con ogni evidenza, tutt’altro che povera, almeno sul piano della varietà delle ricette e della fantasia.

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na cucina che conserva le sue tradizioni e quegli usi che hanno radici nella memoria, quasi sempre inconsapevole, della sua storia, molto spesso congiunta con avvenimenti religiosi non solo dell’identità cristiana ma spesso risalenti al periodo magnogreco. Anche per questi fattori, in quanto parte della cultura di un popolo, la tradizione gastronomica locale va custodita e tutelata, certamente valorizzata, ma prima di ogni cosa conosciuta nella sua profonda essenza.


Ricca di fantasia e di ingegnosità, cui le donne della nostra provincia dovettero ricorrere molto spesso per sopperire alla povertà dei luoghi e all’esiguità di risorse, la nostra cucina resta legata alla valorizzazione dei prodotti e delle preparazioni locali, che ancora oggi suggeriscono i sapori e i profumi di un tempo. Una cucina tipica che è un tassello della più vasta cucina mediterranea,

nella quale il consumo dell’olio d’oliva, degli ortaggi e del pesce sono indici di una precisa identità. Una cucina, come un esperto del ramo ha di recente dichiarato, che “non è seconda a nessun’altra”, gustosa e al tempo stesso semplice, fatta di tradizioni proprie e di apporti provenienti da altre culture che qui hanno trovato terreno fertile per una perfetta integrazione.


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itinerari della provincia

Mari e Fondali di reggio calabria


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di reggio calabria

Mari e Fondali


Testi Francesco Turano Redazione e consulenza editoriale creativi associati Progetto grafico Enrico Iaria Immagini Antonio Sollazzo Francesco Turano Archivio Iiriti

Š 2009 Iiriti Editore 89125 Reggio Calabria Via del Torrione, 31 Tel. 0965 811278 Fax 0965 338385 www.iiritieditore.com ISBN 978-88-89955-93-2


Indice Caratteristiche generali ................... 6 una terra fra due mari ........................ 7 Versante jonico .................................................. 11 La Costa dei Gelsomini ....................................... 13 Capo Bruzzano ................................................................... 14 Brancaleone ............................................................................ 16 Palizzi .................................................................................................. 18 Il Panettone Bova Marina ........................................................................... 20 La Madonna del Mare Area dello Stretto ..................................... 23 Capo dell’Armi .................................................................... 24 Orlata del chiosco Grotta della Castelluccia Punta Pellaro ......................................................................... 26 Secca di Pellaro Reggio Calabria ................................................................ 30 Lungomare Baia di Pentimele Costa Viola ................................................................................ 37 Secche di Scilla La Montagna Torre Cavallo .......................................................................... 38 San Gregorio .......................................................................... 40 Scogli di San Grioli Punta Pacì .................................................................................. 44 Versante tirrenico ..................................... 47 Scilla ..................................................................................................... 48 Il Pesce spada ....................................................................... 53 Bagnara .......................................................................................... 54 Capo Rocchi Grotta del monaco Grotta delle rondini Secca di Gramà Pietra grande Torre del porto Grotta delle corvine Palmi .................................................................................................... 58 Cala della sirena Grotta delle sirene Cala della Motta I relitti ........................................................................................ 62



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ivere il mare nella sua forma più pura, contemplare le diversità del paesaggio costiero, conoscere il mondo emerso e sommerso e imparare ad accostarsi a questi paesaggi ed ecosistemi in maniera diversa, significa acquisire quella consapevolezza necessaria per migliorare sensibilmente il proprio rapporto con la natura, oggi invero poco rispettoso. Immergersi, magari armati di fotocamera, per fermare tutta l’incredibile bellezza che il blu custodisce, vuol dire addentrarsi in un mondo magico e perfetto che sa regalare indicibili emozioni. Non è necessario essere esperti subacquei per godere di tutte le sue meraviglie: con lo snorkeling si possono osservare tratti di costa e mondo sommerso dalla superficie con maschera e boccaglio, e vedere grandi cose in pochi metri d’acqua. Nonostante l’evidente depauperamento della fauna marina e il repentino degrado degli ambienti sommersi, della qualità dell’acqua e delle spiagge, il mare e le

coste del ricco e variegato territorio della provincia di Reggio Calabria testimoniano ancora una notevole biodiversità da conoscere e proteggere. Ognuno di noi può dare un contributo alla diffusione della cultura del mare, e una guida alle coste e alle bellezze dei fondali, diventa un utile strumento per comprendere che un approccio diverso è possibile.


Caratteristiche generali Il territorio della provincia è nettamente diviso in tre aree, completamente diverse per caratteristiche morfologiche e ambientali: versante jonico, versante tirrenico, e area dello Stretto, con ecosistemi e biodiversità differenti sia sulla terraferma che sott’acqua. Come in pochi altri posti del Mediterraneo, la punta dello stivale si tuffa negli abissi con violenza, dando la grande opportunità ai subacquei di immergersi partendo direttamente da terra. L’enorme variabilità del paesaggio consente inoltre di spaziare tra arenili vastissimi e massicciate o grandi scogliere, persino un tratto con pareti a picco e mare blu violaceo molto intenso, come nel caso della Costa Viola. La forza delle correnti dello Stretto si fa sentire, anche se in misura minore, su entrambi i versanti, anche quando si è ormai lontani dal canale che separa la Calabria dalla Sicilia. Ciò potrebbe rappresentare un ostacolo di non poco conto sia alla navigazione che al nuoto,

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specie se non si è abituati a fare i conti con ingenti spostamenti di masse d’acqua e moti diretti in ogni direzione, dal fondo verso la superficie e viceversa, ora in un senso ora nell’altro, secondo l’ora del giorno e della notte. Da qui l’eccezionalità degli ambienti subacquei, ricchi di vita ma talvolta impegnativi.


Una terra fra due mari Iniziamo un itinerario ideale in senso orario, dall’estremo Jonio che lambisce la Locride, al Tirreno, che invece bagna la Costa Viola, Scilla, Bagnara e Palmi, passando attraverso quella che viene definita area dello Stretto, i cui confini sono Capo dell’Armi a sud e Punta Pacì a nord. Le differenze del paesaggio costiero e sommerso, con brevi distanze tra siti con peculiarità opposte, è una caratteristica del territorio, mai uguale e rapidamente cangiante. La Locride presenta ampie spiagge e fondali prevalentemente sabbiosi, salvo qualche eccezione. Il paesaggio emerso è caratterizzato da rocce sedimentarie e grandi torrenti, detti fiumare, dove scorrono acqua, fango e pietre levigate portate al mare, frammenti che nella parte alta dell’Aspromonte si staccano con le frequenti frane conducendo a valle la testimonianza delle grandi formazioni rocciose metamorfiche, tipiche del massiccio in alta quota. Lungo la costa, promontori come Capo Bruzzano, le cui ampie spiagge lasciano spazio a una scogliera bianca molto particolare dal punto di vista morfologico, e fondali costituiti da rocce tondeggianti isolate sulla sabbia alternate a praterie di posidonia. Poco distante dal Capo, un ampio tavolato roccioso affiorante con grandi piscine naturali e fondali rocciosi, suggestivi per la forma delle lunghe lingue di roccia. Altri interessanti siti dove la sabbia lascia il posto a scogli e posidonia, che rappresentano egregiamente questo lembo di Mediterraneo, si trovano in prossimità di paesi rivieraschi quali Brancaleone e Palizzi, con importanti massicciate costiere in prossimità di Capo Spartivento. Lo Jonio inizia poi a mutare fisionomia tra Bova, Condofuri e Melito di Porto

Salvo, dove litorali ampi di fine sabbia grigiastra lasciano il passo, sott’acqua, a distese sabbiose e fangosee cigliate di roccia che sprofondano rapidamente a quote vertiginose, segno che stiamo avvicinandoci allo Stretto. Il mare di Saline Joniche, di Capo dell’Armi e Lazzaro presenta ambienti ormai parte effettiva dell’area del canale. Roccia e sabbia, pareti e fango, una vita esuberante, sono dettagli che descrivono questo tratto dello Jonio, mare selvaggio e intrigante come pochi. Entriamo nello Stretto, alla periferia



Costa dei gelsomini

Nota anche come Riviera dei Gelsomini, è quell’area della provincia bagnata dal mare Jonio celebre per la coltivazione della pianta di gelsomino, i cui fiori venivano raccolti, venduti a peso ed esportati per la preparazione di profumi. Si caratterizza per le spiagge, belle e ampie come poche in Italia, a volte deserte persino in alta stagione. È il cuore selvaggio della provincia, caratterizzato da lingue di sabbia nate dall’incessante lavorìo delle fiumare, caratteristici torrenti aspromontani che in questo tratto di costa sfociano numerosi, e da una vegetazione autoctona spontanea di grande impatto. La Costa dei Gelsomini rappresenta, insieme ad altri litorali dell’alto Jonio calabrese, un porto sicuro per le ultime tartarughe marine (Caretta caretta), che hanno trovato nella sabbia di queste spiagge l’ambiente ideale per deporre le uova. In primavera, numerosi esemplari giungono sulla costa e, al riparo dalle luci del litorale, scavano le buche per depositare le uova, che in media vi restano 50 giorni. Numerosi i nidi di questa specie in via di rarefazione, soprattutto a partire dal 2000, che ha segnato un notevole incremento di nidificazione lungo le coste tra Capo dell’Armi e Brancaleone. A tutela della tartaruga, da qualche anno è attivo a Brancaleone Marina il centro Tartanet che si occupa di accogliere esemplari in difficoltà e reinserli in natura dopo le cure del caso.


Il litorale che si distende dal promontorio di Capo Bruzzano o Capo Zefirio, è stato annoverato da Legambiente come una delle undici spiagge più belle d’Italia.

Capo Bruzzano Percorrendo la S.S. jonica 106 in senso antiorario, il promontorio apparirà come unica interruzione della splendida sequenza delle sconfinate spiagge della Locride. Ci troviamo al cospetto di due punte: la prima prepotente e alta sul mare, con una scogliera bianca dall’insolita morfologia; la seconda più morbida, con la spiaggia che sfuma in una bassa scogliera a pelo d’acqua con lastroni e grandi pozze di marea. Tra le due punte, una spiaggia bellissima e poco frequentata persino in piena estate.

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Il turista amante della quiete apprezzerà di certo questo angolo di natura selvaggia, invitante per passeggiate poco impegnative fino in cima al promontorio o per osservare i bassi fondali antistanti con maschera e pinne. Difficile scegliere tra l’immersione con l’autorespiratore e il più rilassante snorkeling con qualche apnea poco impegnativa lungo le scogliere adiacenti il promontorio. Se optiamo per la prima ipotesi, avremo necessità di un natante per raggiungere


la secca di macigni tondeggianti coperti di alghe che si alternano alla prateria di posidonia dislocata a qualche centinaio di metri da riva, tra i 15 e i 25 m di profonditĂ . Se invece decidiamo di immergerci con attrezzature leggere partendo da terra, avremo la possibilitĂ di godere degli aspetti geomorfologici di un fondale dove la roccia crea quinte molto interessanti, specie con acqua limpida e il mare calmo di fine estate. Tra le rocce bianche, dove si mescolano sfumature di grigi e di verdi interrotte dalla chiazze nere dei ricci, nuotano molti rappresentanti di sparidi con riflessi argentei e labridi dai vividi colori. Quando si guarda il fondo dalla superficie, si ha la sensazione di entrare in un mondo sconosciuto, di godere di

visioni magiche, ambientazioni che a Capo Bruzzano raggiungono una delle massime espressioni tipiche dei fondali del Mediterraneo. Azzurri e verdi avvolgono rocce modellate in forme stravaganti, quasi sculture naturali, creando paesaggi che, con la giusta luce, sono da soli sufficienti a saziare il piĂš ingordo dei subacquei.


Confine fisico dello Stretto di Messina sul versante meridionale sponda calabra, il promontorio anticamente noto come Leucopetra promontorium, è uno sperone di roccia che da un centinaio di metri di altezza si tuffa nel mare blu cobalto, profondo già a pochi passi da riva.

Capo dell’Armi Nei dintorni del paese di Lazzàro, adiacente il Capo, si segnala la presenza di un oppidum grecum (fortificazione) e numerosi ritrovamenti archeologici denunciano la presenza di un luogo di culto. Sull’alta scogliera del capo sorge il faro, che sancisce il limite sud-orientale dello Stretto. Attivato nel 1867 e rinnovato nel 1959, è costituito da una torre bianca ottagonale su un fabbricato a due piani. Prospiciente il Capo, una fascia di bassofondo separa il promontorio emerso da una successiva scarpata di roccia confinante con la sabbia, una sorta di lingua compatta perpendicolare al profilo costiero che raggiunge in breve i –50 m.

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Le immersioni più interessanti non riguardano esattamente i fondali del Capo, ma quelli del vicino paese di Lazzàro, il cui lungomare è punto di partenza per interessanti esplorazioni profonde su cigliate che, a tratti, si snodano lungo un percorso parallelo alla spiaggia. Due sono gli itinerari subacquei suggeriti: uno è quello dell’orlata più


grande e imponente, che ha come riferimento un piccolo bar ricavato in un chiosco (l’Orlata del chiosco), l’altro è quello cosiddetto della Castelluccia, dal nome di un vecchio edificio che rimane comunque un riferimento certo. In quest’ultimo caso troveremo una grande grotta con apertura semicircolare rivolta al mare: la Grotta della Castelluccia. Praticare immersioni nel mare di Lazzaro non è certo una cosa facile. Se si tralascia la scogliera litoranea, che giunge al massimo, e solo in prossimità del ristorante prospiciente, profondità dell’ordine dei 15-18 m (ma che in media si arresta sulla sabbia tra 8 e 10 m di profondità), il rimanente substrato roccioso riprende a svilupparsi al di sotto dei 37-40 m, dopo un lungo intervallo di sabbia in discesa ripida. Da qui procede a scaloni fino a 70-80 m, dove va a morire sul fango compatto.

Questi straordinari salti di quota, con dislivelli anche di 8-10 m, danno origine a cigli imponenti, belli da osservare soprattutto di notte. L’itinerario soffre qualcosa di speciale, a volte anche molto speciale, come l’incontro, rarissimo e del tutto fortuito, con lo squaletto di profondità Oxinothus centrina, detto squalo porco.


Dalla propaggine sabbiosa di Punta Pellaro, dove la spiaggia si spinge in mare come una lingua protesa verso l’Etna maestoso, la Calabria si tuffa negli abissi con vertiginosi pendii spazzati da correnti imprevedibili.

Punta Pellaro In un ambiente di straordinario valore paesaggistico e ambientale, dove negli anni, con grandi opere di bonifica, sono stati prosciugati gli stagni retrodunali (ambiente fondamentale per la sosta e la riproduzione degli uccelli migratori), per lungo tempo sono rimaste intatte le grandi dune di sabbia con straordinarie

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specie vegetali, tra cui la prateria di gigli di mare. L’ambiente costiero è ampiamente antropizzato, ma il fascino di Punta Pellaro animata dal vento con lo sfondo dell’Etna resiste, anche se la spiaggia si assottiglia via via che ci si sposta a ridosso del torrente Fiumarella, poco più a nord. Il


posto è meta prescelta dagli appassionati di windsurf e kitesurf. Molte le immersioni possibili lungo questi arenili sabbiosi, ma due le proposte importanti. La prima prevede una partenza da terra di fronte al torrente Fiumarella; la seconda invece, sempre con ingresso in mare dalla spiaggia, ci porta sul sommo di una secca vicina alla riva, che da soli 3 m di profondità sprofonda nel blu con una franata di massi che si diradano intorno ai 65 m: la Secca di Pellaro. Torniamo alla foce del torrente, dove c’è una prima scogliera di pietre quadrangolari sparse tra 2 e 5 m di profondità. Sembrano delle mura accatastate sul fondo, e, dall’alto, appaiono come i pezzi di un puzzle. Il risultato è un vero reef, con numerosi rifugi per piccoli pesci e una moltitudine di invertebrati. Un tempo questi scogli erano tappezzati da spirografi e popolati da incantevoli esemplari di cavalluccio marino. Superata questa zona di bassofondo, si segue il pendio di fine sedimento: presto ha inizio la discesa verso le profondità dello Jonio ma quasi

subito, a soli 18 m dalla superficie, un muro di pietra sembra sbarrarci la strada. Il bastione di roccia fuoriesce dal fondo e si estende per una cinquantina di metri parallelo al litorale. Il lato esterno, con una caduta di una decina di metri, offre rifugio a qualche murena, a giovani esemplari di cernia bruna e soprattutto cernia dorata, alle prime popolazioni di castagnole rosa e piccoli saraghi fasciati; polpi e diverse specie di molluschi nudibranchi sfuggono alla vista degli osservatori superficiali. Questa parete, che poggia di nuovo sul fondo intorno ai 25 m, rappresenta da sola un percorso interessante per un’intera immersione. Se invece si vuole esplorare la scogliera più profonda, è necessario passare rapidamente sopra la murata e scendere verso i 40 m di profondità, dove troveremo un altro agglomerato di grandi macigni, il più grande e il più ricco di tutti, popolato da una discreta fauna bentonica. Dai 40 ai 60 m, nuvole di luccicanti pesci trombetta scivolano nel corridoio tra i due blocchi rocciosi principali, grandi spirografi e una moltitudine di tunicati e poriferi ricoprono il substrato. Sovente si incontrano grossi saraghi fasciati che nuotano molto alti dal fondo che, se ben


Alcune delle principali fiumare d’Aspromonte sfociano in mare attraversando il territorio oggi occupato dalla città di Reggio, in uno specchio d’acqua di un blu intenso, limpido e trasparente tutto l’anno.

Reggio Calabria I contrafforti del massiccio aspromontano, fatto di crinali e valloni che si dipartono a raggiera verso il mare, si tuffano negli abissi dello Stretto dando vita a suggestivi fondali marini colorati dalla vita che esplode, alimentata oltremisura dalle

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impetuose e mitiche correnti. Il mare è ovunque, con lo Jonio e il Tirreno che si incontrano fondendo le loro acque di diversa densità; il suo fascino, i suoi colori, le sue luci, rendono Reggio città di mare, nonostante la cultura prevalente veda i reggini per lo più legati a tradizioni montanare e solo da poco aperti a un nuovo rapporto con le coste. Il lungomare della città, punto d’incontro tra terra e mare, offre la possibilità di vivere la particolare atmosfera che il microclima dello Stretto crea giorno per giorno, e permette di godere di inverni tiepidi, primavere magiche e dei colori di un autunno interminabile, passeggiando lungo il litorale o sfruttando il vento da nord particolarmente adatto a velisti e surfisti. Paradiso dai subacquei amanti soprattutto delle immersioni notturne, il mare di Reggio Calabria ha fondali sabbiosi, fangosi o detritici, ma molto interessanti. Nella Baia di Pentimele, dove il Torbido, uno dei torrenti che attraversano la città, segna il confine del centro


cittadino con il quartiere di Archi, esiste uno degli ambienti sommersi più interessanti. L’incontro del torrente con il mare dello Stretto dà vita a un fondale dove la corrente alimenta una vita varia e mutevole di stagione in stagione. Sulla sabbia del fondo, subito scosceso e cangiante, sono sparsi ciottoli, qualche macigno, relitti di cime aggrovigliate, grandi radici a volte interi alberi che costituiscono vere e proprie dimore a più piani per una ricca fauna bentonica. L’acqua, limpida anche in inverno, permette di vivere splendide immersioni, correnti permettendo; gli incontri con la fauna e la flora sono tali da non farci condizionare dal fondale poco attraente che caratterizza la foce, e di osservare il contesto pensando a come incredibilmente la natura, con la sua forza, riesca ad accogliere ciò di cui l’uomo si disfa trasformandolo in substrato per la nascita della vita. Numerosi gli splendidi e grandi spirografi, diffusi a partire da pochi metri già sulle prime pietre, concentrati in particolare sulle funi aggrovigliate e i lembi di rete abbandonati. Lasciando la porzione di fondale

prettamente rocciosa dei primi metri, percorriamo il fondo sabbioso e ciottoloso e dirigiamo verso i 25-30 m lungo il ripido pendio che ci porta subito a grandi profondità, dove osserviamo una smisurata quantità di alghe: verdi, rosse e brune, d’ogni forma e dimensione. All’inizio dell’estate si assiste a una vera metamorfosi del fondo: la lattuga di mare ricopre tutto a tappeto, e tra i 30 e i 45 m si possono osservare alghe giganti come le laminarie. Solo con una fonte di luce bianca di buona potenza si riesce a vedere la fantasmagorica varietà di sfumature apparentemente invisibili, legate alla presenza, sulla roccia e le pietre, di alghe calcaree dalla forma ricciuta mescolate




a popolazioni di tunicati, piccoli anellidi, briozoi e ancora alghe. Dal fondo spuntano numerose le grandi valve di notevoli esemplari di Pinna nobilis e Pinna rudis, le cui superfici esterne sono un microcosmo di piccole e colorate forme di vita. Non dimentichiamoci di essere immersi in uno degli ambienti prediletti da polpi, seppie e polpesse, più facili da incontrare col buio, quando sono a caccia. Tra i pesci, piccoli pagri, pagelli, saraghi, salpe, boghe, sciarrani, perchie, piccole cernie, molte murene, gronghi delle Baleari, re di triglie e castagnole quelli più comunemente osservabili. In autunno non manca il pesce di passo: ricciole, palamite e qualche piccolo tonno fanno la loro occasionale comparsa anche a profondità modeste. Di notte è garantito l’incontro ravvicinato con splendidi tordi pavone, triglie di scoglio dai colori sgargianti e giovani cernie dorate a riposo. Numerosissimi gli scorfanetti e qualche scorfano rosso, ma quel che più intriga, specie se armati di fotocamera, è la presenza di scorfani particolarissimi dalle livree multicolore. Ai pesci si accompagna una discreta presenza di celenterati: numerosi cerianti di sabbia, molte attinie di diverse specie e qualche notevole Alicia mirabilis.

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Tra i crostacei, sorprende sempre la presenza di grandi paguri: il paguro rosso che porta a spasso il carico di “tentacoli” sulla conchiglia prescelta come tana è sì comune, ma sempre attraente. Colpiscono le lunghe foglie di laminarie che ondeggiano mosse dalla corrente, a volte sostenuta e piuttosto pericolosa al punto che, quando ci si trova acquattati sul fondo, a 40 m dalla superficie, con l’intento di non offrire molta resistenza al potente movimento di grandi masse d’acqua, le vibrazioni delle lunghe foglie nastriformi incutono un tale timore e rispetto per l’ambiente da spingerci alla rapida risalita.



Perla del Tirreno fin da tempi remoti per l’invidiabile posizione e il fascino, che hanno contribuito ad annoverarla tra i borghi più belli d’Italia, è nota sin dai tempi di Ulisse per l’ammaliante canto delle sirene che ne abitavano gli anfratti sommersi.

Scilla Luogo del mito di Scilla e Cariddi, mostri sulle opposte sponde simbolo del pericolo delle correnti per i naviganti, per l’invidiabile posizione e il suo innegabile fascino è annoverato tra i borghi più belli d’Italia. La rupe col castello dei Ruffo divide il paese in due parti nella sua porzione più bassa, mentre unica è la parte alta. Incantevoli gli scorci che ne ricordano le origini: vicoli e antiche abitazioni

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rimandano ad abitudini e mestieri del passato, a scene di una vita che scorre ancora tranquilla, lontana dai rumori della città. E poi il mare, protagonista indiscusso per la pesca tradizionale e per i suoi celebri fondali, tra i più suggestivi dell’intero Mediterraneo. Partendo dalla spiaggia di Marina Grande, dove la sabbia lascia il posto alla roccia ai piedi della rupe sormontata dall’antico maniero, si entra in acqua da terra e ci si avvicina facilmente verso uno dei siti sommersi più noti dell’area dello Stretto. I fondali rocciosi presentano imponenti guglie che svettano verso la superficie con base tra i 40 e i 70 m e sommo tra i 35 e i 20 m sotto il pelo dell’acqua. Le chiamano Secche di Scilla e sono cattedrali di roccia animate dalle correnti: tra queste il più noto è la Montagna, uno dei pinnacoli più belli, l’unico raggiungibile da terra. Si può iniziare l’immersione prendendo come punti di riferimento i primi archi della galleria sotto la rupe. Il punto si raggiunge nuotando in superficie, quando si è sufficientemente al largo da vedere un fondale di almeno una ventina di metri. Una volta scesi in immersione, si lascia la franata di pietre che poggia sul fondale di detrito a circa 25 m e si prosegue verso i -35 in direzione nord; dopo una breve pinneggiata, corrente permettendo avremo di fronte, in tutta la sua maestosità, il bastione roccioso con pareti verticali. Iniziando dalla parte più profonda (4045 m), s’incontrano subito numerosi massi sparpagliati nella zona antistante la parete che si affaccia nel blu; i massi e la parete sono tappezzati da gorgonie rosse e gialle, oltre che da tunicati,



briozoi, poriferi e altri celenterati. Questi invertebrati marini coloniali, hanno colorato i fondali al punto da renderli paragonabili a quelli tropicali; spicca inevitabilmente una gorgonia, la Paramuricea clavata creatura solitamente rossa che ha colonizzato ogni centimetro di roccia, qui in un’anomala varietà che sfuma verso il giallo intenso. Ramificazioni rosse, gialle e giallo-rosse creano una foresta colorata a partire dai 30-35 m di profondità: un habitat densamente popolato anche da pesci, anellidi, tunicati, poriferi e qualche crostaceo. Arrivando alla Montagna da terra, ci troviamo di fronte la parete sud del grande pinnacolo, ricoperta da gorgonie prevalentemente gialle che si diradano a circa metà altezza della secca, lasciando spazio all’insediamento di gruppetti di madrepore arancioni e altre specie di gorgonie; poco più su, tra i 26 m e il cappello, troviamo alghe e roccia nuda. Alla base di questa prima parete, sul

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pianoro sabbioso che la precede, enormi cerianti secolari (invertebrati longevi) sfoggiano tentacoli bianchi con gli sgargianti apici luminescenti. Proseguendo verso nord troveremo alla nostra destra la parete più alta della Montagna, affacciata verso l’abisso, anch’essa coperta da gorgonie. Si giunge alla terza faccia di questo sorprendente macigno sommerso, quella rivolta a nord, dove le gorgonie sono più rade e conviene dedicare l’attenzione ai massi intorno, con anfratti abitati da polpi o murene. Sui fondali di Scilla sono stati individuati diversi esemplari di un raro echinoderma, la stella gorgone o stella arbusto, rinvenuta a profondità per lo più


accessibili, tra i 40 e i 60 m: un’anomalia, in quanto solitamente si trova a quote inaccessibili al subacqueo. Tra gli altri echinodermi presenti nel fitto bosco creato dalle gorgonie bicolore, stelle rosse e ricci viola, ricci dalle lunghe spine e molte varietà di oloturie. Non mancano i briozoi, mentre i crostacei, maggiormente visibili in immersioni notturne, sono rappresentati da paguri e qualche occasionale granseola, galatee e qualche gamberetto solitario. Tra i pesci, cernie e saraghi guardinghi, tordi, sciarrani e pesci pappagallo rallegrano l’atmosfera, con le fitte nuvole di castagnole e zerri argentei e, in primavera, raggruppamenti di boghe.

Da gennaio ad aprile-maggio si registra la presenza di splendidi pesci san pietro e grosse rane pescatrici: molto ben mimetizzati (il primo tra le gorgonie, la seconda sul fondo), una volta individuati sono disponibili a un approccio tranquillo con il subacqueo. Da ottobre a dicembre è probabile l’incontro con i pelagici: branchi di ricciole, tonnetti o palamiti compaiono dal blu come per incanto, per poi sparire allo stesso modo. Stanziali e sornioni, grossi scorfani rossi sono immobili sul fondo, mentre qualche timida musdea si lascia osservare tra le buie fenditure della roccia.


relitti

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Il mare e i fondali della provincia


I relitti Oltre le spiagge abbaglianti, le cale segrete e gli innumerevoli punti d’immersione finora descritti, la costa della provincia nasconde nelle profondità delle sue acque alcuni relitti, più o meno antichi, ognuno dei quali rappresenta un’oasi di vita sommersa. Le strutture dei relitti sono infatti colonizzate da numerose specie di invertebrati e popolate da una gran quantità di pesci, che trovano validi rifugi e molto di cui nutrirsi. Iniziando dal versante jonico, sui fondali di Palizzi giace una torpediniera capovolta poggiato su sabbia a 24 m di profondità, a circa un miglio dalla costa. Al confine meridionale del canale, subito dopo Capo dell’Armi, troviamo uno tra i relitti più belli e importanti: il piroscafo Laura C., affondato durante la seconda guerra mondiale a Saline Joniche. Oggi, quel che rimane di questa splendida nave giace tra i 20 e i 50 metri di profondità, con la prua rivolta a riva e la poppa verso il fondo, su un fondale fortemente scosceso e subito profondo. Procedendo verso l’interno dello Stretto prospiciente l’abitato di Lazzaro, su un fondo di sabbia e fango parallelo alla riva tra i 36 e i 48 m di profondità, giace il relitto di una bettolina tedesca sconosciuta. Giunti a Reggio, si segnala il relitto di una barca in legno di recente affondamento, fino a qualche tempo fa interessante per la concentrazione di biodiversità e per la particolare atmosfera creatasi sui fondali sabbiosi di fronte la baia di Pentimele. Tra Catona e Gallico, poco a nord della città, i resti del vecchio traghetto Cariddi giacciono su un fondale la cui profondità supera i cento metri in una zona lambita da forti correnti. Al confine settentrionale del canale, in località Cannitello, troviamo invece il relitto di un mercantile sconosciuto, che giace con prua verso riva e poppa verso il fondo tra 25 e 52 metri di profondità, capovolto e leggermente inclinato su un lato. Nel contesto del turismo subacqueo, i relitti non rappresentano solo luoghi ricchi di fascino e mistero intriganti da esplorare, ma anche e soprattutto importanti aree di ripopolamento, determinanti per la salvaguardia della biodiversità nel mare. Di recente alcune zone interessate da relitti sono state vietate alle immersioni in seguito al rinvenimento di munizioni e pani di tritolo nelle stive ancora accessibili: ciò comporta purtroppo la perdita di importanti itinerari subacquei legati all’osservazione e all’esplorazione di un mondo sempre sorprendente e appassionante, una dimensione a parte da cui l’uomo ha tanto da imparare.


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