Memoria, Storia e Profumi di Sicilia - foto Giulio Lettica -
si è detto, scritto e sentito da più parti che la Sicilia è “Isola per natura, Autonoma per cultura”. Interpretare questo slogan inventato o realistico, polemico o metaforico, storico o politico, ci porterebbe molto lontano. Per i nostri affezionati lettori e sostenitori basta affermare che in questo secondo numero del 2011 i contenuti argomentano del nostro territorio, delle sue eccellenze, delle sue memorie per assimilare sempre di più la bellezza unica in cui viviamo. Per essere dentro la realtà che ci circonda affronteremo la tematica della nostra storia recente e contemporanea, come l’ultima guerra mondiale e la immigrazione sulle nostre coste di disperati africani che fuggono dalle nazioni non democratiche del Nord Africa. E per seguire la scia patriottica dei 150 anni dall’Unità d’Italia, che tutta la Penisola ricorda e festeggia, riportiamo una breve analisi di alcuni fatti accaduti nel febbraiomarzo del 1861 che contribuirono, anche se non in modo eclatante, alla sofferta unità d’Italia. L’autore della ricerca è Armando Donato che sintetizza, come un moderno reporter sul fronte di guerra, gli avvenimenti accaduti nella città dello Stretto in quei giorni cruciali, descrivendo la drammatica caduta dell’ultimo presidio borbonico del Regno delle due Sicilie e la gloria della Piazza di Messina che aprì quella strada verso l’unificazione sofferta dell’Italia. La conseguenza fu che un generale dei Mille riuscì ad entrare a Messina due ore prima di Garibaldi. Un fatto esaltante, eroico, poco conosciuto. Anche in questo numero continua il percorso narrativo dei castelli, con lo speciale dedicato al Castello di Caccamo, che sta appassionando lettori e curatori i quali mostrano un vivace interessamento verso un racconto fresco, puntuale, accompagnato da splendide foto che mettono il lettore in condizione di vivere dentro questi luoghi del passato custodi della nostra storia e della nostra cultura. Così come una panoramica inedita sui costumi di Casa Grimaldi, tratta dalle ricerche d’archivio di Giovanna Giallongo e Giovanni Portelli, svela i riflessi di un mondo gattopardiano, un mondo che ancora oggi è possibile vivere passeggiando in un susseguirsi di emozioni all’interno del parco del Castello di Donnafugata. Tanto altro ancora, curiosità, interviste, eventi come “A tutto Volume”che si svolgerà a Ragusa, e per finire alcune eccellenze di Sicilia. Giuseppe Aloisio
EDITORIALE
Lo
N. 11 - APRILE - MAGGIO 2011 Tribunale di Siracusa 20/07/2009 Registro della Stampa n. 13/09
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Testi
Giuseppe Aloisio, Arpocrate, Lisa Bachis, Giovanni Bellina, Francesca Bocchieri, Anna Alessia Cascio Gioia, Corrado Cataldi, Sergio Cilea, Santino Alessandro Cugno, Armando Donato, Giuseppe Firrincieli, Giovanna Giallongo, Giovanni Iacono, Giuseppe Nuccio Iacono, Salvatore Marino, Paolo Meli, Gianni Morando, Giovanni Portelli, Elisa Rizza Moncada. Foto di copertina: Il Castello di Caccamo di Giulio Lettica
Stampa Tipolitografia Priulla srl - Palermo
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STORIA E TRADIZIONI Prestigio e stupore nel parco di Donnafugata Messina, luglio 1860 - marzo 1861: la caduta dell’ultimo presidio borbonico in Sicilia La guerra ad Acate - 10 luglio 1943 Case Camemi - L’ultimo respiro siciliano del tenente piemontese Chiaramonte Gulfi - L’evoluzione dei quartieri La fontana di Piazza Pretoria “osé” per bellezza La nascita del primo Museo Civico a Siracusa e la scoperta della Venere Landolina ATTUALITÀ Turismo a Taormina, l’ospitalità al passo coi tempi I luoghi dimenticati: la Villa Daniele-Modica e il suo giardino segreto Nel III Concorso Letterario “Franca Maria Gianni” contenuti moderni e attuali La Provincia Regionale di Ragusa per il Parco degli Iblei Il Museo di Adrano L’ambizioso progetto della Autonomia Statutaria Siciliana Intervista all’assessore regionale all’economia, Gaetano Armao Lo sbarco dei... mille volti dell’immigrazione musulmana a Santa Croce Camerina A tutto successo... L’arte di creare eventi culturali di qualità - Intervista ad Alessandro Di Salvo La guerra del pomodoro si combatte a Pachino
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CURIOSITÀ Gnomonica e quadranti solari Chiesa di Santa Sofia - Presenze templari ed esoterismo a Sortino? Gusti e moda del Settecento in casa Grimaldi
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L’ISOLA DEI SAPORI Ricordo di casa Moncada
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SPECIALE Il pittoresco Castello di Caccamo, dove è possibile entrare in una storia di otto secoli NATURAMICA Ribes Nihrum e... le allergie stagionali
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Prestigio e stupore nel Donnafugata dall’alto
Testo di Giuseppe Nuccio Iacono - Foto di Giancarlo Tribuni Silvestri -
dei diamanti che compongono la lunghissima collana di bellezze architettoniche del patrimonio ragusano è certamente costituito dal castello di Donnafugata. Una apoteosi di magnificenza dove l’opera d’arte (il Castello) ha come cornice un’altra opera d’arte (il paesaggio ibleo). In effetti, già da lontano, la torre e le mura merlate appaiono con grazia, immerse in un paesaggio collinare incantevole. Un quadro firmato dalla fluente chioma di tanti carrubi. Un paesaggio già bello per creazione e che l’uomo ha esaltato con i segni del proprio lavoro. La rete di muri a secco che cattura oggi i colori e le
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sfumature della campagna, fu tra i “protagonisti” del progresso storico, che con l’avvento dell’enfiteusi, distrussero il latifondo per riscrivere “pietra su pietra” la storia di una Contea operosa, ricca, nobile, aperta. L’area rigogliosa e lussureggiante del parco contrasta con l’ambiente circostante ma ne fa parte! Il parco ha un senso più ampio che va oltre le mura che lo racchiudono. La gradinata monumentale che collega il giardino all’ampio terrazzo della facciata porta verso sud, là dove si apre una vista panoramica che si perde nel mare Mediterraneo.
Torre sud-ovest veduta sul Mediterraneo
Comune di Ragusa Assessorato alla Cultura
“In questa dimora regale e incantevole siete invitati a venire, o popoli della terra, o curiosi e sapienti. Ammirate l’abilità, il sapere, la condotta e la delicatezza.”. (MONSIEUR DE COMBES)
Parco di Donnafugata Quel mare è luogo storico, mitico. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Luogo attraversato da navi cariche di quella cultura che fu poi assorbita nella costa. Qui approdarono i Greci che edificarono Kamarina; qui fiorì l’ancoraggio di Kaucana. Passarono Bizantini, Arabi, Normanni, Aragonesi, Spagnoli e Borboni. Ed da questo scontrarsi e incontrarsi di civiltà differenti nacque “l’Uomo Siciliano”. Questo crogiuolo culturale ben si prestava a dare energia e linfa allo stile eclettico tanto amato dal Barone Corrado Arezzo, il principale artefice del mondo Donnafugata. Attorno ad una torre cinquecentesca, dove poi si era strutturata una “masseria fortificata” e successivamente una “casina di villeggiatura”, prendeva forma nel corso del XIX sec. una “villa di delizie” con le sembianze di castello. Il parco del Castello fu un lungo cantiere: il Barone Corrado Arezzo oltre a progettare la sistemazione del giardino, si interessò della distribuzione delle varie piante, grazie alla sua vasta conoscenza nel campo della botanica. In questa ricerca incentrata sui principi dell’arte dei giardini, poté contare anche nella complicità di gusto e passione artistica della figlia Vincenzina. Quest’ultima, in giro per l’Italia alla ricerca di una cura per la sua malattia, manteneva viva l’attenzione per il
giardino Donnafugata e nelle lettere inviate al padre non mancava di illustrare modelli di grotte, colline artificiali, tempietti o laghetti presenti in alcune ville italiane. La ricerca trovava un certo slancio anche nella botanica e nel collezionismo di piante e fiori. Il fiore preferito dalle baronesse Arezzo di Donnafugata pare essere sempre stato il garofano. Un amico descrivendo Vincenzina affermava: “Sul petto un mazzolino di garofani, il suo fiore prediletto. Il fiore dell’amore. Me ne rammento ancora: - Portami dei garofani - mi diceva sovente con una voce lenta e pura un po’ stanca un po’ velata. Amava del resto tutti i fiori e ne possedeva una estesa raccolta e spesse volte io l’assistetti nel prodigar loro le cure più affettuose”. E sarà “Il Garofano”, il titolo del manuale che Nené Bocchieri Floridia, direttore del Parco Donnafugata, volle dedicare alla Duchessa Ignazia Arezzo (sorella del barone Corrado). Agli inizi del ‘900, Gaetan Combes de Lestrade, il Visconte francese che aveva sposato Clementina (nipote di Corrado Arezzo e figlia di Vincenzina), diede un nuovo impulso ai lavori di sistemazione del parco. A lui si attribuisce la realizzazione del Parterre e di alcune aiuole ricche di iris, rose, violette, giunchiglie. Migliorò il sistema di irrigazione e restaurò alcuni settori del parco.
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Come in altri giardini della nobiltà europea, non mancavano simboli, allegorie, segni esoterici e motivi iniziatici. Questi segni tuttora visibili si fondavano su convincimenti massonici ma anche sul gusto “esteticoculturale”. Chi passeggia prestando attenzione allo spazio metterà in gioco la propria sensibilità, cultura e capacità di vedere.
La realtà sensibile del parco
Veduta castello dal lato parterre
Per certi versi, passeggiare per il parco, equivale a sfogliare le verdi pagine di un libro che narra dei suoi artefici. Ma percorrere i viali e i sentieri significa anche attraversare una natura costruita e pensata per trasmettere emozioni: effetti sorpresa, scenari inconsueti e vedute inaspettate. Fonte di orgoglio non meno delle splendide sale del castello, l’immenso spazio verde doveva essere prestigioso e sorprendente. Non era sufficiente ammirare Donnafugata…. bisognava creare stupore con una serie di spazi “inattesi”. Il “potere del barone” si manifestava attraverso il sapiente e totale controllo della curiosità degli ospiti. Il giardino era anche un teatro della vanità. Quando a Donnafugata arrivavano ospiti di un certo prestigio (e non furono pochi) era consuetudine “predisporre una passeggiata” con l’accompagnamento di una piccola banda musicale. E come ogni monumento anche il giardino aveva la sua cartolina, anzi la produceva da sé. Una cartolina che doveva stupire chi la spediva e chi la riceveva. Il barone Corrado Arezzo era riuscito ad ottenere una particolare concessione: le foglie dei ficus del parco potevano essere utilizzate come cartolina e spedite da Donnafugata.
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Il parco abbraccia tre lati del castello e si divide in tre zone differenti: L’area rustica, il parterre e il giardino inglese. L’area rustica, la più vasta, era destinata a ortofrutteto. Qui era collocato un agrumeto e si trovavano olivi, mandorli e carrubi; mentre a nord, tra piante di rosmarino e timo, vi erano le arnie per la produzione di miele. Come era prassi nell’arte dei giardini, più ci si allontanava dall’edificio più la composizione diventava “selvaggia”, informale e apparentemente libera. Nello spazio attorno al castello si estendono i giardini alla francese. Qui la ragione dell’uomo domina la natura e la piega alle leggi geometriche. Sul lato ovest si trova il giardino delle Palme: un’area disegnata da bordure di rosmarino di varie forme che racchiudono palme delle Canarie e da dattero. Lungo la facciata nord del castello invece si apre il Parterre; un complesso di aiuole simmetriche a disegno geometrico che includono anche stelle e mezze lune. Nel Parterre le siepi di lavanda sono “tagliate basse” per dare maggior risalto alle forme e alle macchie di colori generate dai fiori. Al centro del Parterre un vialetto centrale portava ad un cancello situato in fondo al parco e sfiorava l’area dei cenotafi sottolineata da due semicerchi di cipressi. A est del Parterre si sviluppa il grande giardino all’inglese. Qui è l’uomo ad essere dominato dalla natura. Qui non può imporre il proprio volere. Si vuole sottolineare che nell’uomo, oltre alla ragione, esiste un universo emotivo che si lascia sedurre da ciò che nasconde e svela una sorpresa. Ma gli spazi ingannano: fanno sembrare naturale e casuale ciò che invece è frutto dello studio attento del progettista. Il Pittoresco viaggia attorno ad una griglia regolare di viali che attraversano il parco e si sovrappongono agli spazi svincolati da ogni ordine geometrico. Lungo il primo viale, che dalla scalinata del parco conduce al Coffe-house, si scorge tra la vegetazione la statua di un monaco che legge un breviario. A poca distanza una vasca animata al centro da tre putti in terracotta segna il punto d’arrivo al Coffe-house: un tempietto neoclassico con loggiato a 6 colonne ioniche su una facciata rosso pompeiano che nasconde un edificio romanico. Questo edificio serviva per dare ristoro agli ospiti
Parterre
durante le afose giornate estive. Qui venivano serviti gelati e bevante fresche. Nel 1896 la Duchessa Ignazia chiese al Vicario capitolare di Siracusa l’autorizzazione per “farne una Chiesa rurale” perché “nella villa di questo Castello vi ha un tempietto con un portico a colonne, dove ho fatto seppellire, forse provvisoriamente, mio fratello, il fu Barone Arezzo di Donnafugata”. A sinistra del Coffe-house, un sentiero porta al viale delle Casaurine. Un percorso di rappresentanza per le carrozze che collega l’ingresso principale del parco (a est) con il cortile del castello. Lungo questo asse, si erge una collina con una grotte che accoglie un ninfeo. Continuando, un piccolo sentiero tortuoso conduce in cima alla collina sulla quale trionfa un grazioso Tempietto circolare di gusto classico che presenta all’interno della cupola un cielo blu stellato. Scendendo si può arriva al Viale del tramonto (il più lungo dei viali est-ovest). Nei pressi si trova il famoso labirinto, una delle più suggestive attrazioni del parco. Di forma trapezoidale e costruito in muratura, riprende fedelmente il tracciato di quello inglese di Hampton Court (quest’ultimo però è realizzato con siepi). Proseguendo, si incontra il Romitorio. Dietro la parvenza
Il romitorio Tempio coffee house
di una chiesetta nasconde uno scherzo. Chi cercava di entrare, poggiando il piede su uno dei tre gradini, innescava un sistema idraulico che apriva improvvisamente la porta e spingeva fuori un monaco che a braccia aperte correva verso l’incauto ospite. Purtroppo il meccanismo non è più funzionante: durante una perquisizione del parco da parte degli Alleati, un soldato cadde nel tranello e sparò all’impazzata sul povero monaco. Non lontano da questa chiesetta si trova un’altra curiosità: una vasca dalla originale forma di Sicilia capovolta (o meglio riflessa). Le curiosità continuano a stupirci. 100 anni fa, una lettera (1911) lodava la “cortesissima ed ospitale” Duchessa Ignazia Arezzo che viveva nel “turrito Castello lungi dai rumori del mondo dalle miserie della vita, e con la pace tranquilla del cuore”. A Donnafugata dove lei amava circondarsi di “Molte persone per bene…non vi manca la vita, la compagnia. Si vive come in un piccolo mondo e con le attrattive di esso. Nulla vi manca”. In quel mondo affermava l’autore: “si passeggia pei viali ameni e fioriti del giardino, da dove, verso sera si vedono dei tramonti incantevoli e per quella splendida terrazza da dove si scorge un orizzonte purissimo e terso ed il mare glauco di Terranova”. Il Mare! Natura e architettura
Il labirinto di pietra
Cenotafio Arezzo
Il romantico sedile, uno degli scherzi d'acqua del parco
Scultura vegetale
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MESSINA LUGLIO 1860 - MARZO 1861: la caduta dell’ultimo presidio borbonico di Sicilia
Un accordo fra truppe
borboniche
e garibaldine permise
al generale
Medici di entrare a Messina
a mezzogiorno
del 27 luglio 1860, due ore prima
di Garibaldi
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di Armando Donato opo la sanguinosa battaglia di Milazzo, il 27 luglio 1860 i reparti garibaldini entrarono a Messina senza combattimenti. Il disimpegno borbonico era già in atto grazie a varie direttive del ministro della guerra Pianell, il quale il 16 luglio aveva intimato al maresciallo di campo Clary (comandante di Messina con 20.000 uomini) di stare sulla difensiva. Il 24 luglio gli avamposti collinari di Messina furono ritirati verso la zona falcata (porto). Il giorno 26 fu ordinato al Clary di stabilire una tregua, giustificata da una presunta alleanza col Piemonte. Fu dunque stipulato l’accordo tra il Clary e il generale garibaldino Medici, il quale a mezzogiorno del 27 entrò a Messina, due ore prima di Garibaldi. Di conseguenza il corpo di esercito borbonico di Messina fu sciolto e imbarcato per la Calabria, Napoli o trasferito nei presidi della zona falcata di: don Blasco, lunetta Carolina, Cittadella, batteria della Lanterna e SS. Salvatore. Giorno 8 agosto il Clary lascerà il comando al brigadiere, poi maresciallo di campo, Fergola. Dunque dalla fine di luglio del 1860 la situazione vedeva da una parte l’esercito garibaldino intento a studiare le mosse per passare in continente, dall’altra i soldati dell’esercito borbonico asserragliati nei presidi del porto, decisi alla resistenza ad oltranza, conclusasi otto mesi dopo. Nel febbraio-marzo 1861 le uniche Piazze del regno duosiciliano erano ormai solo quelle di Messina e Civitella, mentre Gaeta era caduta a metà febbraio. Messina era da mesi in mano agli eserciti garibaldino e piemontese e solo le fortificazioni del porto falcato erano presidiate dall’esercito borbonico (4500 uomini), il cui punto di forza era la Cittadella (brig. De Martino). Il giorno 25 febbraio 1861 l’esercito piemontese giunse a Messina (già presidiata dalla brigata Pistoia del Maggiore Generale Chiabrera), per la ricognizione del territorio e lo studio delle difese nemiche. Risultando impossibile un’azione per via di terra, si optò per un attacco con le artiglierie. Il 26 febbraio tre navi provenienti da Gaeta sbarcarono a sud della città il corpo di spedizione composto da: 4 battaglioni di fanteria, 3 di bersaglieri, 7 compagnie di artiglieria e 6 di genieri, che iniziarono i lavori di sistemazione delle batterie e l’organizzazione del piano di fuoco. Ciò provocò le proteste del Fergola circa il mancato rispetto dello stato di tregua deciso nel luglio 1860, ma non fu raggiunto un accordo e il primo marzo fu dichiarato lo stato di guerra, mentre i piemontesi sistemavano a sud-sud ovest della città 59 vari pezzi di artiglieria suddivisi in 6 batterie.
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Messina, l’ubicazione delle batterie piemontesi e borboniche nel febbraio-marzo 1861 (mappa da L. Gaeta, Nove mesi a Messina e la sua cittadella, Napoli 1862)
Il comando supremo spettava al generale di armata Cialdini (IV C.A.), delle artiglierie al luogoten. gen. Valfrè, del Genio al luogoten. col. Belli, del parco di assedio al magg. Mattei, della fanteria al magg. gen. Avenati. Il parco di assedio era composto da: 23 cannoni in ferro da 40 libbre rigati e 6 lisci, 10 cannoni da 16 in bronzo da campagna rigati e 6 da muro rigati, 12 mortai da 27 cm in ferro e 4 da 15 cm in bronzo. Nel frattempo la difesa borbonica era diretta dal giovane e abile ten. col. Guillamat, in qualità di direttore delle artiglierie e capo di SM della Cittadella. Egli dal giorno 4 marzo si occupò dell’organizzazione delle batterie, nonostante la palese inferiorità rispetto ai pezzi rigati piemontesi. Il Guillamat dunque armò sul fronte sud della Cittadella tre batterie per un totale di 42 pezzi lisci di cui: 16 cannoni-obici da 80 libbre (Paixhans), 13 da 36 libbre e 13 da 24. Per colpire le posizioni nemiche poste fuori tiro utile, il Guillamat tolse l’affusto ai pezzi bloccandoli al suolo con massima
Pianta del Real Cittadella, imponente fortificazione bastionata di fine Seicento, progettata dal colonnello Grunenbergh. Essa fu luogo di vari assedi sino a quello del luglio 1860 - marzo 1861. Oggi dopo oltre 70 anni di mutilazioni, abbandono e degrado, rimangono ancora importanti e imponenti resti del versante sud (F. Riccobono, A. Berdar, C. La Fauci, La Real Cittadella di Messina, Messina 1988)
Le opere del fronte sud della Cittadella come si presentano oggi. L’avanticortina e il rivellino Santare Teresa visti dal bastione Santo Stefano
elevazione di 42 gradi e inumidì le spolette delle granate estendendo l’attivazione al momento utile. Il 5 marzo le tre batterie borboniche modificate fecero fuoco contro gli appostamenti e le navi nemiche. L’8 marzo, dopo un’ultima vana intimazione del Fergola, tutte le batterie borboniche, al suono dell’inno nazionale, aprirono il fuoco. Tra il 10 e 12 marzo tre batterie piemontesi furono danneggiate con morti e feriti, nel frattempo fu stabilito il fuoco continuativo diurno e notturno. Alle ore 12 del giorno 12 marzo, sfruttando un periodo di relativa pausa nemica, i piemontesi iniziarono all’improvviso un preciso fuoco di neutralizzazione, mentre la squadra navale sarda tirava sulla Cittadella. Le batterie piemontesi scaricarono sulle posizioni nemiche ben 4239 granate. Il tiro durò 5 ore e fece saltare in aria alcuni depositi munizioni con conseguenti incendi che a causa del vento minacciavano la cittadella, con grave rischio di esplosione e serie conseguenze per gli occupanti, compresi i mille civili presenti. Alle ore 17, a causa degli incendi e sotto
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l’incessante fuoco piemontese, il Fergola chiese una tregua di 24 ore decidendo la resa a discrezione per il giorno 13 stabilita dal Cialdini, da comunicare entro le 21 dello stesso giorno, onde evitare la ripresa del tiro piemontese. Il giorno 13 marzo del 1861, spenti quasi tutti gli incendi, i soldati borbonici che lamentarono 47 morti, si arresero al gen. Cialdini andando incontro al loro destino. La Piazza di Messina fu dunque l’ultimo presidio di Sicilia e il penultimo del regno duosiciliano. Dopo la fine delle ostilità, nella Piazza fu conteggiato un totale di 455 artiglierie varie, insieme a 267.000 chili di polvere sciolta e altro vario materiale. Nello stesso anno, dopo la proclamazione ufficiale del regno d’Italia, i parlamentari La Farina e Plutino chiesero la demolizione della Cittadella, protagonista di ben 4 assedi in un secolo e mezzo. Richiesta per fortuna mai posta in essere. Questa formidabile fortificazione è infatti ancora visibile nonostante le menomazioni e lo stato di grave abbandono e degrado causato da oltre 60 anni di incuria e disinteresse.
TURISMO A TAORMINA L’ospitalità al passo con i tempi
foto Gnuckx
di Lisa Bachis pensa a Taormina, e immediata s’affaccia alla mente l’immagine di una località suggestiva, ricca di storia, tradizioni e splendori paesaggistici. Mare che cattura lo sguardo e fa disorientare, luoghi dal fascino sorprendente, sui quali, poeti, filosofi e cultori del Bello non hanno lesinato le parole, che da sole, non bastano a dire “tutto”; e ciò che resta da riproporre in versi o in prosa non è abbastanza, tanto è ancora l’indicibile di questo luogo. Eppure, si dirà, che ciò può senz’altro esser valido per ogni angolo della Sicilia: montagne e anfratti, piane arse dal sole o mandorli fioriti tra antiche rovine; spiagge affollate e rade a cui è concesso il percorso solo agli iniziati. L’Isola non manca mai di stupirci, sviarci, confonderci, sorprendentemente Nuova ad ogni nostro passo, difficile da leggere e decifrare. Questa Terra, pertanto, ha in sé una vocazione turistica innegabile, vocazione di cui Taormina è stata la fondatrice; eletta a luogo di soggiorno e ristoro a partire dalla metà del XVIII secolo, nominata nei Diari di Viaggio di menti eccellenti.
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Stranieri alla ricerca della perduta Magna Grecia e delle radici della civiltà occidentale, consapevoli che l’itinerario seguito per la ricerca, non poteva prescindere in alcun modo dal “far tappa a Taormina”. La Città, che da lungo tempo è sinonimo di accoglienza ed ospitalità, ha operatori del settore, i quali conoscono bene le esigenze dei loro ospiti e sanno che il turista è un critico attento. In semplici parole: il cliente pago e soddisfatto tornerà e farà buona pubblicità, l’insoddisfatto orienterà le sue e le altrui scelte verso altre mete. Allora, qual è la ricetta vincente per far sì che in un periodo di crisi economica globale, di mercati sempre più competitivi, Taormina continui ad essere “sulla cresta dell’onda del Mare Siculo?”. Lo abbiamo chiesto all’Assessore al Turismo e Spettacolo, Mario Italo Mennella, il quale sin dall’inizio del suo mandato ha avuto ben chiare le idee su ciò che si deve fare, affinché Taormina continui ad esser definita località turistica d’eccellenza. Mennella, da imprenditore del settore turistico-alberghiero con una consolidata esperienza, è andato dritto al cuore della questione.
L’Assessore afferma che è innegabile che la Città sia un “Luogo dalla spiccata vocazione turistica” ma nel tempo, il turismo ha cambiato volto e ciò vale per i servizi richiesti, sempre più precisi per clienti sempre più esigenti. Un esempio tra tutti, è l’affermazione del Turismo Congressuale in cui Taormina non è ancora al Top delle sue potenzialità. Oltre alle strutture ricettive che in città offrono questo servizio, è vitale che vi sia il funzionamento a pieno regime del Palazzo Dei Congressi, perché Taormina, nel presente, non ha una struttura congressuale per eventi ad alto livello che possa garantire questo particolare segmento, nel periodo che va da ottobre ad aprile, su standard elevati. Una scelta efficace, secondo l’Amministratore, è quella del Project Financing, con l’affido della struttura a partner qualificati. In questo modo, potrà davvero aver un senso parlare di “destagionalizzazione dell’offerta turistica”, di alberghi e ristoranti aperti tutto l’anno. Un altro segmento in crescita è legato al desiderio di organizzare le proprie Nozze a Taormina. In questo settore, si sta lavorando molto bene, perché la cittadina è considerata uno dei luoghi più romantici al mondo. Ma è necessario potenziare l’offerta con proposte sempre più allettanti. E per ciò che concerne il settore della ricettività, Mennella conferma che gli Albergatori si stanno organizzando in Consorzio, per puntare le forze imprenditoriali in un’unica direzione che mira al pieno sostegno del Turismo, dove foto Silvia and Juan la parola d’ordine è: sinergia e spirito di squadra. per far sì che questo importante sito viva in Sinergia presente anche alla sintonia con la vita della Città. Ed è già allo studio base dell’intesa raggiunta una serie di eventi ed attività legati ad un luogo tra Taormina e le Isole Eolie. di grande prestigio, che insieme alla Biblioteca In effetti, si è svolto di Civica, posta al piano superiore, è culla della recente nella cittadina Cultura e della Memoria Taorminese. Anche in ionica, un incontro che ha questo caso, Mennella ha scelto la via del dialogo visto protagonisti il Sindaco e della collaborazione, insieme all’Assessore alla di Taormina Mauro Cultura Antonella Garipoli. E poi ci sono gli eventi L’assessore al Turismo e Spettacolo, Passalacqua ed il Sindaco di alla Villa Comunale, tornata agli antichi splendori Mario Italo Mennella Lipari Mariano Bruno, e location per il “Taormina Jazz Festival” e per il insieme al Presidente di “Federalberghi Isole Eolie”, “Settembre in Villa” con gli spettacoli teatrali, con l’Opera Christian Del Bono, e all’Assessore Mennella. Obbiettivo dei Pupi e la messa in scena del Folklore Siciliano. primario: reagire alla concorrenza internazionale, Ma Mennella, sa che non è tempo per il riposo e per mettendo da parte l’idea di un turismo settario e godere dei successi perché la sua ricetta deve ancora provinciale, proponendo pacchetti turistici più ampi, essere perfezionata e la strada da percorrere è lunga. appetibili per il mercato e che comprendano l’opportunità Così, al momento di congedarci, gli chiediamo un’ultima di creare un filo diretto Taormina-Isole Eolie. battuta, che serva da messaggio per tutti gli addetti ai Il concetto di squadra, l’esigenza di avvalersi di lavori e che fornisca nuovi spunti di riflessione. competenze specifiche per specifici settori, è uno dei Ci accontenta e in modo diretto afferma: “Il mio più punti cardine della strategia Mennella. grande rammarico è quello di non esser ancora riuscito Ed è questa sua forte convinzione che gli ha permesso di a creare accordo pieno tra tutte le forze produttive metter a segno alcuni dei punti, presenti nel suo taorminesi, affinché non solo si dica, ma si faccia il Bene programma amministrativo. Tra questi, l’inaugurazione Reale della Città. L’unica strada percorribile è infatti dell’Archivio Storico nei locali dell’Ex Convento di S. quella che faremo insieme e che permetterà a Taormina Agostino. L’amministratore sta lavorando a pieno ritmo di continuare ad esistere”.
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I luoghi dimenticati
La villa Daniele-Modica e il suo giardino segreto Alla scoperta dei luoghi di villeggiatura dei nobili siracusani in epoca barocca di Sergio Cilea icerone la definì “la più grande e bella di tutte le città greche”. Scrisse di lei nella seconda metà dell’anno mille il geografo arabo Edrisi «Siracusa è delle città celeberrime e dei più nobili paesi del mondo. Cittadini e foresi d’ogni banda cavalcano alla volta di lei: a lei si indirizzano i mercanti, viaggiatori di tutte le regioni. Superfluo sarebbe descrivere largamente questo luogo sì famoso, questa illustre metropoli e rinomata fortezza». Fazello ben cinquecento anni dopo dirà “La città di Siracusa è quattro miglia lontana da Tapso, giù per la riviera, la quale fu già metropoli di Sicilia, secondo Valerio nel primo libro, e Solino la chiama Principessa delle città di Sicilia; ma ella è tanto conosciuta, ch’ella non ha bisogno di molti titoli, né di molte parole per essere celebrata”. Altri viaggiatori conobbero la mitica città di Siracusa ed altri fogli di carta vennero inchiostrati per celebrarne l’incomparabile bellezza. Ancora oggi, la gloriosa Siracusa, pur essendo stata sottoposta alla furia distruttrice dei signori del cemento ad iniziare dalla seconda metà del secolo scorso, dispone di un considerevole patrimonio monumentale in gran parte ancora da scoprire e valorizzare. La settecentesca villa, edificata su progetto del magister Luciano Alì tra il 1766 ed il 1772 per il Marchese Giuseppe
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Maria Daniele, rappresenta l’unico esempio integro di costruzione nobiliare di campagna sopravvissuta allo scempio edilizio perpetrato a Siracusa nell’antico feudo Teracati. Il Toponimo del feudo su cui fu edificata la dimora deriverebbe, secondo Cornelio Schrevelii, dal vocabolo greco tarcati il cui significato è riferibile al mantello nero indossato dalle donne greche nei periodi di lutto. Il ritrovamento in questa contrada di un congruo numero di tombe del periodo ellenistico venute alla luce a seguito di scavi archeologici, confermerebbe questa interpretazione.
Le origini Assieme alle costruzioni tipiche delle nostre campagne legate allo sfruttamento dei fondi agricoli, come stalle, magazzini, fienili, era in uso edificare nell’agglomerato un ambiente da destinare ai ricchi proprietari in modo da garantirgli un’agiata permanenza nei periodi di intensa attività lavorativa o più semplicemente, per superare lontani dalla città i mesi della canicola estiva. Come già scritto, fu Giuseppe Maria Daniele, ad acquistare nel 1756 la “cinta et cinticella” di terreno nella contrada Teracati, avviando dieci anni dopo, nel 1766, la costruzione della villa-masseria. Per più di un secolo rimase proprietà dei Daniele ma subito dopo l’Unità d’Italia, a seguito di un grave dissesto
finanziario della famiglia, il podere fu venduto alla famiglia Moscuzza che ne detenne la proprietà fino al 1935, anno in cui venne acquistato alla famiglia Di Natale. Requisita nel 1943 dall’esercito inglese per essere utilizzata come residenza di ufficiali operanti nella zona nord della città, ritornò in uso alla famiglia dopo che furono cessate le ostilità belliche. Per successione nel 1976 venne intestata a Maria Modica ed oggi ultimo erede e proprietario è il figlio di Maria, Paolo Pupillo.
La villa e gli edifici di servizio Nel 1968 dovendo ampliare la Strada Statale 114 fu abbattuto l’artistico portale barocco, con impegno dei progettisti di ricostruirlo in posizione più arretrata subito dopo la fine dei lavori. Dopo più di cinquanta anni le pietre giacciono ancora ai lati del viale. Varcato l’attuale cancello, attraverso un vialetto alberato arricchito da due artistiche fontane barocche scolpite in pietra da taglio e posizionate Vis-à-vis, ci avviamo alla scoperta della settecentesca villa. Giunti alla fine del viale un ampio slargo ci permette di ammirare in tutta la sua magica bellezza l’edificio il cui schema planimetrico è costituito da un blocco rettan-
golare e da due corpi laterali avanzati che, oltre ad accogliere il visitatore con un forte impatto scenografico, hanno la funzione di filtro fra la villa ed i circostanti ambienti di servizio al fondo. Il prospetto richiama i temi della tradizione stilistica settecentesca meridionale sullo stile delle rinomate ville palermitane, anche se in maniera nettamente ridimensionata. Alcune statue a mezzobusto arricchiscono il frontespizio ma risultano essere chiaramente sovrapposizioni ottocentesche. La villa costituiva parte integrante di un più vasto agglomerato di edifici il cui insieme era organizzato per essere un centro agricolo autosufficiente con competenza su decine di ettari di terreno e la conseguente presenza di una popolazione stabile di contadini e pastori. Gli abitanti potevano anche raddoppiare in periodi che richiedevano maggior impegno lavorativo come la mietitura, la raccolta delle olive delle mandorle e dell’uva. Gli edifici principali che componevano questo insediamento rurale erano le stalle, i fienili, i magazzini, il palmento, il forno e le abitazioni dei contadini. Una piccola cappella, oggi abitazione del custode, permetteva agli abitanti del luogo di poter partecipare anche se lontani dalla città, alle funzioni religiose.
Il Giardino segreto Il vero gioiello della villa è rappresentato dal giardino realizzato alle spalle dell’immobile che conserva ancora integralmente l’originaria struttura barocca. Edificato sullo stile del tradizionale hortus conclusus claustrale con il classico impianto cruciforme, era definito giardino segreto perché proteggeva, grazie alle alte mura che lo circondavano, l’intimità di chi lo abitava dal mondo esterno. Suddiviso originariamente in otto riquadri simmetrici nel corso del XX secolo questi furono ridotti a quattro colmando con la terra i viottoli perpendicolari all’ingresso. Due grandi fontane, alimentate da un geniale sistema di ingegneria idraulica ed arricchite da pregevoli sculture raffiguranti rispettivamente Giano bifronte e Pallade, allietavano i fortunati villeggianti con il loro costante scrosciare, trasformando il luogo in un piccolo paradisiaco Eden. Un’alta torre su uno dei lati oltre ad avere scopi di avvistamento contro possibili incursioni piratesche, contribuiva ad abbellire con la sua linea slanciata il giardino. All’interno della stessa, un sistema composto da una condotta d’acqua scavata nel pavimento abbinata ad un’apertura su una grande cisterna, permetteva di ottenere nella stagione estiva una temperatura inferiore a quella dell’ambiente esterno. Questo locale, tipico delle case nobiliari siciliane, prendeva il nome di stanza dello scirocco. “La stanza dello scirocco quasi una leggenda, quasi una metafora - è una particolarità dell’architettura diciamo nobiliare della
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Sicilia: la stanza in cui trovare riparo e ricreazione nelle ore in cui il vento di sud-est dissecca, come dice l’antico poeta, la mente e le ginocchia”. (Domenico Campana – La stanza dello scirocco – Sellerio Editore) Oggi il giardino è purtroppo in uno stato di semi-abbandono, ma ci sono i presupposti perchè possa presto tornare al suo antico splendore. Per il momento accontentiamoci solo di immaginare quale doveva essere il suo aspetto ricordando gli scritti di Giovanni Boccaccio il quale, nel suo premio alla terza giornata del Decameròn, dà la descrizione di un tipico giardino rappresentandolo con un impianto geometrico ad aiuole quadrate ricche di fiori, a loro volta chiuse da verdi e vivaci alberi di arancio e cedro.
UN EPISODIO POCO CONOSCIUTO DELLA II GUERRA MONDIALE
La guerra ad Acate di Giovanni Iacono -
Responsabile per la provincia di Ragusa dell'Associazione culturale Lamba Doria
luglio del 1943 la Sicilia fu al centro, suo malgrado, di un avvenimento epocale che avrebbe provocato una svolta decisiva nel corso del secondo conflitto mondiale. Già dal mese di maggio, dopo la caduta della Tunisia, si era diffusa nel Comando italiano dell’isola la consapevolezza di trovarsi esposti all’offesa nemica. Infatti già dal gennaio del 1943 gli Alleati stavano mettendo a punto un piano d’invasione dell’Italia. Il piano venne denominato “Operazione Husky”; la data e l’ora per lo sbarco vennero fissate per il 10 luglio alle ore 02.45. La notte tra il 9 ed il 10 luglio del 1943, gli angloamericani effettuarono un nutrito lancio di paracadutisti in tutta la zona costiera. Subito dopo la flotta sbarcava i soldati a Gela e lungo la costa verso Scoglitti. La reazione dei Comandi italiani fu immediata, ma tutti i primi contrattacchi furono respinti dagli americani. Ad Acate quella notte un civile si recò presso il Convento
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dei Padri Cappuccini, dove erano dislocati i soldati del Nucleo Anti Paracadutisti (NAP) n. 457, per avvisare i soldati italiani che le campagne vicino alla contrada “Canale”, erano piene di paracadutisti americani. Il Ten. Orazio Dauccia, reduce dalla campagna di Russia, comandante del NAP, apprese queste notizie e fedele al suo giuramento, si mise alla testa dei suoi uomini e all’alba partì, accompagnato dal civile che lo aveva avvisato, in direzione della contrada Canale. Qui però, nascosti dietro i muretti a secco, lo aspettavano i paracadutisti americani che gli tesero un’imboscata. Nello scontro a fuoco il Ten. Dauccia morì sul colpo, colpito alla testa, assieme al Sergente Currò, mentre il Caporale Galletta morì dopo una lunga agonia per le ferite riportate all’addome; nell’occasione venne ferito al braccio anche il civile che li accompagnava. Il Tenente Dauccia venne sepolto nella fossa comune presso il cimitero di Acate, e solo verso la
Acate - Corso Indipendenza. Carro armato tedesco Tigre distrutto
fine della guerra, a seguito dell’interessamento di una famiglia acatese che aveva comunicato l’accaduto ai familiari del Tenente, il corpo fu recuperato dalla sua famiglia e trasferito presso il cimitero di Barcellona Pozzo di Gotto, suo paese di origine dove trovasi tutt’ora. Degli altri soldati morti in questa azione non si hanno notizie certe circa la loro sepoltura. Intanto per tutto il 10 e l’11 luglio si susseguirono aspri i combattimenti in tutta la zona costiera della provincia e soprattutto nella piana di Gela; le perdite delle truppe italo-tedesche furono notevoli. La Div. Livorno era stata quasi completamente distrutta, le unità della XVIII Brigata e della 206ª Divisione costiera erano state sopraffatte, e gli americani avevano già occupato Scoglitti, Vittoria, Comiso, Marina di Ragusa e Ragusa. Il 12 luglio quindi la Divisione tedesca Goering continuava la ritirata da Gela verso Caltagirone, combattendo lungo la valle del fiume Dirillo, fino ad arrivare alle porte di Acate. Proprio quel giorno ad Acate si accesero aspri combattimenti tra i tedeschi e gli americani che nel frattempo sopraggiungevano anche da Vittoria. I tedeschi piazzarono quindi un carro armato Tigre ai “Quattro Canti”, punto d’incrocio della strada proveniente da Gela e da Vittoria. Questo carro, unitamente ad alcuni soldati tedeschi, tenne in scacco gli americani, avanzanti sia dalla strada statale 115 che da Vittoria, per diverse ore. Gli Americani allora piazzarono la loro artiglieria su Monte Calvo, a metà strada tra Acate e Vittoria, ed iniziarono a bombardare il paese. I tedeschi, non riuscendo ad arrestare l’avanzata delle truppe americane,
Piano di difesa e schieramento unità XVIII Brigata costiera al 10 luglio 1943
piazzarono il Tigre al centro dei Quattro Canti e gli versarono sopra della benzina dandogli fuoco. Le fiamme facevano esplodere le bombe contenute nella santa barbara del carro armato, dando l’impressione che all’interno del paese ci fosse ancora una nutrita schiera di difensori tedeschi. Gli americani continuarono quindi a bombardare il paese, causando ulteriori vittime tra la popolazione civile. Alcuni cittadini, per porre fine al bombardamento, andarono incontro agli Americani dicendo loro di smettere di bombardare il paese e spiegando che i tedeschi si erano quasi del tutto ritirati. Entrati ad Acate gli americani incontrarono ancora resistenza da parte di una sparuta retroguardia tedesca; infatti alcuni testimoni raccontano di scontri a fuoco avvenuti nei pressi della chiesa del Carmelo, in Piazza Libertà e nei sobborghi sul lato di Vittoria. Occupata Acate, gli Americani continuarono l’inseguimento dei soldati tedeschi ed italiani sulla strada verso Santo Pietro. I tedeschi, con l’aiuto di soldati del genio guastatori italiani, per rallentarli fecero saltare in aria il ponte sul fiume Dirillo, ma gli americani grazie ai bulldozer che avevano al seguito, riuscirono comunque a passare ed a continuare l’inseguimento, fino ad arrivare a conquistare dopo altri due giorni di combattimenti anche l’aeroporto di Santo Pietro, il 14 luglio 1943. Proprio in questi ultimi giorni i soldati americani commisero dei gravissimi crimini di guerra, uccidendo dei civili inermi e dei prigionieri di guerra italiani e tedeschi. La guerra era ormai passata da Acate e si allontanava verso il centro della Sicilia. Gli alleati riuscirono a conquistare l’isola solo dopo altri 34 giorni di aspri combattimenti.
Foto di gruppo dei soldati italiani del N.A.P. n. 457 di stanza ad Acate
Tenente Dauccia affacciato dal balcone della casa dove alloggiava tra corso Indipendenza e via Roma
di Salvatore Marino trascorso gli spensierati anni della gioventù in contrada Camemi, bellissima zona alle porte di Marina di Ragusa dove il paesaggio naturale, costituito da una sterminata serie di carrubi secolari e da una ragnatela di muri a secco, non è stato ancora travolto dall’edificazione selvaggia. Per la posizione elevata del luogo si gode un panorama affascinante sul mare blu del Canale di Sicilia e sul golfo di Gela. Nelle limpide giornate estive è possibile ammirare in lontananza anche l’isola di Malta. Proprio per questo motivo, negli anni ’40 del secolo scorso, fu scelta per la costruzione delle casematte, postazioni militari per mitragliatrice, in cemento armato, con compiti di vigilanza antisbarco. Insieme ai bambini di quarant’anni fa mi chiedevo cosa fossero queste strane strutture a forma di cupola, rivestite di pietre e con le feritoie. Le osservavamo incuriositi ed allo stesso tempo affascinati per l’alone di mistero che le circondava. Ingenuamente animati dai continui ritrovamenti di ogive e bossoli, che puntualmente venivano alla luce al termine di ogni pioggia dal suolo sterrato della mulattiera adiacente alla casamatta, ai nostri occhi di bambini quelle costruzioni apparivano come fortezze inespugnabili. Nei caldi pomeriggi d’estate sovente ci soffermavamo all’ombra del grande carrubo che sovrastava la casamatta più facilmente accessibile, che era diventata meta dei nostri giochi. Il tempo trascorreva, con esso giunse l’età adulta e, finalmente, seppi a cosa realmente servivano quelle costruzioni. Come tanti, ero erroneamente convinto che la seconda guerra mondiale non aveva interessato il territorio ragusano, fino a quando non ebbi il piacere di leggere il libro del Prof. Giuseppe Micciché. Appresi che a Camemi erano di stanza 15 soldati comandati dal Ten. Giunio Sella, che costituivano il “Caposaldo di Case Camemi”.
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Tenente Giunio Sella Comandante del Caposaldo di Case Camemi
Case Camemi. In una di queste case rurali trovò la morte il tenente Sella - foto Giancarlo Tribuni Silvestri
Che sensazione strana, mi sentii gelare il sangue venendo a conoscenza che le casematte dove giocavo da bambino erano state silenziose testimoni di morte, di sacrificio, di vite tragicamente spezzate dall’assurda crudeltà della guerra! Un pomeriggio mio padre mi fece notare alcuni segni sulle pietre che rivestono tuttora l’esterno della casamatta dove giocavo da bambino: erano le scheggiature provocate da proiettili. Da qui la mia appassionata ed impegnativa ricerca che mi ha portato a rintracciare persone che, all’epoca ragazzini, abitanti delle fattorie del luogo, avevano vissuto quei tragici giorni. Da uno di questi anziani signori, mentre per il doloroso ricordo una lacrima gli solcava il viso, ho saputo che uno dei soldati caduti a Camemi era stato seppellito sul posto, in un orto. Continuando nella mia ricerca,
ascoltando le testimonianze di altre persone, sono riuscito a risalire al nome di chi era stato sepolto dalla gente del posto sul campo di battaglia: era il Tenente Sella. Una storia che ho ricostruito e che fino ad ora era nota soltanto a chi l’aveva vissuta. Un contingente di quindici soldati, al comando del Tenente Giunio Sella, dei Mitraglieri Guardiacoste, costituiva la guarnigione del Caposaldo di Case Camemi. Il reparto aveva compiti di sorveglianza antisbarco nelle casematte di quella contrada. Durante la notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 numerosi paracadutisti U.S.A. sferrarono l’attacco ai militari italiani del “Posto di Blocco 452”, istituito all’intersezione tra le strade provinciali RagusaMarina di Ragusa e Santa Croce Camerina-Scicli, delle
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Foto di gruppo. Il Tenente Sella, al centro, con i suoi soldati
casematte e della sede del comando, allestito in una vicina abitazione rurale. Aspri furono i combattimenti e la mattina seguente tutte le postazioni della zona furono sopraffatte dalla preponderanza delle forze nemiche. Il presidio di Case Camemi cadde insieme al suo comandante alle ore 8, dopo aver eroicamente contrastato il passo al nemico. Il Tenente Sella, appostatosi ad una finestra al primo piano di un vicino edificio per rendersi conto della consistenza dei reparti nemici, notata la presenza dei paracadutisti nei dintorni, aprì il fuoco e questi risposero colpendolo al petto. L’Ufficiale morì poco dopo innanzi agli occhi esterrefatti degli abitanti di quella casa, tra i quali anche alcuni bambini, tutti ormai affezionati a quel giovane proveniente dal lontano Piemonte. Le campagne erano ricoperte da un immenso tappeto di paracaduti lasciati dai soldati americani e non era difficile imbattersi in resti di soldati dilaniati dalle esplosioni. I cadaveri rimasero abbandonati sul suolo per alcuni giorni. Merita di essere citato un episodio che testimonia l’innata bontà della gente del posto, la quale avvolse la salma del Tenente in un lenzuolo e la seppellì in un campo lì vicino, ai piedi di un muro a secco, ove collocò una lapide. Da qui il mio progetto di collocare all’interno del villaggio Camemi su una casamatta, tra le pietre che ancora mostrano le scheggiature provocate dai proiettili una lapide per ricordare quanti sacrificarono la vita in quella contrada per la nostra amata Patria, e per far sì che
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Casematta di Contrada Camemi - foto Giancarlo Tribuni Silvestri
Lapide murata su una delle Casematte - foto Giancarlo Tribuni Silvestri
quel luogo sia il monito per le future generazioni sulla crudeltà della guerra. Così con l’aiuto dell’Amministrazione Comunale e di tanti abitanti di Camemi dopo aver recuperato una casamatta (da decenni ridotta ad una discarica) si scoprì (il 27 novembre 2010) la lapide “Alla memoria del Tenente Giunio Sella e dei Soldati del Caposaldo di Case Camemi, che il 10 luglio 1943 immolarono la vita in questi luoghi per la difesa del patrio suolo”. Un evento emozionante che “in situ” faceva riecheggiare le emozioni del convegno che si era tenuto il giorno precedente nell’Aula Consiliare del Comune di Ragusa alla presenza dei discendenti del Tenente Sella. Quanta emozione suscita oggi vedere il Tricolore che per sempre sventolerà sul pennone del monumento di Camemi! Il mio lavoro non è ancora concluso, perché tale potrà ritenersi soltanto quando avrò riportato alla luce i nomi di tutti i Caduti del Caposaldo di Case Camemi… a questo sto già lavorando.
Tricolore in memoria dei fatti di Camemi - foto Giancarlo Tribuni Silvestri
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NEL 3° CONCORSO LETTERARIO “FRANCA MARIA GIANNI”
Contenuti moderni e attuali Unanimi consensi per una donna di carattere che ha lasciato il segno
cerimonia del premio si è aperta col saluto del primo cittadino di Siracusa, Roberto Visentin, la cui presenza ha quest’anno assunto un valore particolare per la comunità siracusana: il sindaco ha infatti annunciato la volontà dell’Amministrazione cittadina di intitolare, “come migliaia di concittadini hanno chiesto in questi anni”, una strada a Franca Maria Gianni. Il Presidente del Consiglio provinciale, Michele Mangiafico, figlio della giornalista ed editrice scomparsa nel 2007, non ha fatto mancare né la sua presenza né un’appassionata testimonianza dell’impegno civile e sociale della madre. Il 1° premio del concorso è andato a Lorenzo Gelardi del liceo scientifico “Corbino” di Siracusa con il racconto “Il cielo in frantumi”. La cerimonia di premiazione, condotta dal giornalista Pino Nucifora, ha avuto luogo il 21 marzo scorso in una gremita sala “Costanza Bruno” della Provincia Regionale di Siracusa alla presenza della titolare della casa editrice Verbavolant edizioni, Fausta Di Falco, organizzatrice del concorso letterario giunto alla sua terza edizione. Un pomeriggio segnato dalla presenza femminile, coronata dall’intervento del direttore generale dell’ente, Clelia Corsico, incentrato in particolare sull’impegno della Provincia regionale a
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2001 - Franca Maria Gianni dietro la sua scrivania con il figlio Michele Mangiafico, oggi presidente del Consiglio provinciale di Siracusa
Provincia Regionale di Siracusa, sala “Costanza Bruno”, l’intervento del sindaco Roberto Visentin
Il vincitore del premio Lorenzo Gelardi durante la lettura del racconto
sostegno delle attività culturali nelle strutture carcerarie, file rouge con il concorso letterario in quanto proprio quest’anno tra i partecipanti c’erano anche gli studenti della casa circondariale di Cavadonna, rappresentati in sala dalla loro insegnante e dalla direttrice della struttura, Angela Gianì. La seconda piazza è andata a Sebastian Petrolito, che studia nel liceo di Canicattini Bagni, sezione distaccata dello scientifico di Floridia, con il racconto “Helene”, che toccava il tema della prostituzione minorile. Terza Anna Aglianò che con il suo “Giorno di pioggia in un ospedale” ha affrontato nel rispetto del tema proposto la questione delle ragazze madri, toccando peraltro, all’interno della giuria, in modo particolare il cuore della presidente, anche quest’anno la scrittrice Giuseppina Torregrossa. “Anche quest’anno - ha affermato l’editrice Fausta Di Falco - la giuria ha dovuto faticare per scegliere i lavori da premiare a causa della loro qualità e quantità”. Un toccante ricordo di Franca Maria Gianni, prima che terminasse la manifestazione, è stato affidato alle parole del fratello, Pippo Gianni, che ha colto l’occasione per invitare a raccogliere nella nostra comunità il forte messaggio culturale da lei lasciato.
Chiaramonte Gulfi Evoluzione dei Quartieri
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di Gianni Morando - foto Giancarlo Tribuni Silvestri 1299, dopo la distruzione di Gulfi e la strage degli abitanti ad opera degli Angioini, gli scampati si rifugiarono nelle grotte del monte sul quale fu fondato in seguito il nuovo centro abitato: Chiaramonte. Fu Manfredi Chiaramonte, primo conte di Modica, che nel 1310 fece costruire le mura del nuovo paese e il castello all’interno di una spianata fortificata (Baglio). Il territorio, estesissimo, arrivava fino alla marina. Le fortificazioni, la presenza di una importante cavalleria ed il pedaggio che si pagava nel “Passo dilu valluni dili tandi”, dimostravano il fondamentale ruolo di roccaforte svolto dal paese per secoli, a nord della Contea. Nel 1366, la cinta muraria accoglieva già 200 famiglie e in quel periodo fu consacrata la prima chiesa (poi intitolata all’Annunziata). Nel XV sec., Chiaramonte si estendeva fuori dalle mura con il quartiere detto Burgo (gli agglomerati edilizi che si formavano all’esterno delle cinte murarie erano noti come “Borghi”) e successivamente sorsero tutti gli altri quartieri. Nel Cinquecento oltre le mura si formarono i quartieri S. Silvestro, Balati, Balatella, Cuba, S. Lorenzo, Bucheria, S. Filippo, S. Maria. Esistono le chiese di S. Giovanni, S. Silvestro, S. Lorenzo (attuale S. Vito), S. Sofia (scomparsa), S. Filippo, S. Maria la Nova (attuale chiesa madre), nonché il convento di S. Francesco (sorto nel 1452).
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Chiaramonte - Porta di la Chaza Vista parziale della Chiesa dell’Annunziata e dell’antica piazza del paese. Con la sacralizzazione la porta ha assunto il nome di Porta dell’Annunziata.
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Nei pressi della piazza principale, dove si trovava la prima chiesa madre, si apriva una delle porte principali del paese… la cosiddetta “Porta di la Chaza”, ancora oggi esistente e nota come “Porta dell’Annunziata”. Col passare del tempo la piazza fu invasa da alcune costruzioni e perse la sua originaria funzione urbana, riducendosi ad un semplice slargo. A sud della cinta muraria esisteva un’altra porta, detta Porta di Ragusa, che permetteva di accedere all’antico percorso Gulfi-Ragusa. Il Melfi tramanda l’esistenza di un’altra porta, detta della guardia, che forse permetteva l’ingresso al Baglio del castello. Il castello, aveva un’uscita sotterranea segreta, la cui porta esterna detta Pusterna, era rivolta verso il Furriere, fontana in basso a sud del paese. Oggi, dell’antico sistema difensivo rimane soltanto la Porta di la Chaza e la memoria tramandata dal toponimo di una strada: via della muraglia, che confina con case costruite lungo le antiche mura del paese. Alla metà del XVI sec. la cittadina iblea raddoppiò estendendosi con i quartieri S. Francesco, S. Filippo, Curso e Salvatore. Per lo spostamento baricentrico dell’abitato, l’antica Chaza fu soppiantata dalla nuova grande piazza dove vi era una fontana (oggi inesistente) e, sul lato nord, la chiesa di Santa Caterina, distrutta nel secolo scorso, per costruire prima un cinema e successivamente un supermercato! Nel 1593, vi erano oltre 1.420 case con 5.711 abitanti e il paese assunse l’aspetto che
C h i a r a m o n t a n i d ’ a lt r i t e m p i Nel 1593, esistevano a Chiaramonte ben 113 famiglie Mulè, il cui nome ha etimologia araba (muley = mio signore). Nei manoscritti del ’500 e del ’600 si trovano numerosi schiavi, elencati fra i beni mobili dei ricchi con età e prezzo. I figli che le schiave partorivano erano frutto di relazioni con il padrone. Non solo le schiave dovevano subirne la violenza ma dovevano rassegnarsi alla terribile realtà di generare a loro volta degli schiavi. Infatti secondo la prassi di quel tempo questi figli non potevano rivendicare alcun legame con il padre naturale. L’età media della popolazione prevalentemente maschile era di circa 23 anni. I bambini dei poveri erano affidati alle famiglie dei ricchi come servi e “citelle”, spesso con un trattamento molto simile a quello degli schiavi. Ignoranza, credenze e pregiudizi erano diffusissimi. La particolare economia, il comune ambiente di arretratezza culturale, il libertinaggio dei ricchi e la lotta per la sopravvivenza dei poveri rappresentano le radici genetiche e culturali di un paese della Sicilia che è indispensabile conoscere se si vuol capire quali immensi sacrifici collettivi, anche in termini di vite umane, siano stati necessari per arrivare alle nostre vite ed alla comoda esistenza dei giorni nostri. La Porta vista dall'interno della cinta muraria
mantenne poi fino alla prima metà del sec. XX. La mappa dei quartieri di Chiaramonte del 1593, ricostruita con sofisticate procedure informatiche ha permesso di comprendere gran parte dell’evoluzione del paese fin dalla sua nascita… oltre a localizzare anche i quartieri Buccheria e Jo:Longo, sconosciuti agli storici del paese. Il paese semidistrutto dal terribile terremoto del 1693, venne ricostruito seguendo l’impianto originario
e crebbe a tal punto che nel 1748 contò 6.171 abitanti. Tuttavia quasi la metà dell’intera ricchezza del paese era concentrata nelle mani di 176 religiosi, senza contare i patrimoni delle chiese e dei monasteri che ospitavano 71 monaci e monache! I poveri morivano spesso per fame, freddo e fatica, come ci racconta il famoso scrittore chiaramontano Serafino Amabile Guastella.
Fronte esterno della porta dell’Annunziata. Accesso alla antica piazza
Š foto Giancarlo Tribuni Silvestri
di Giuseppe Nuccio Iacono Palermo, non lontano dai Quattro Canti, in pieno centro storico, si apre una delle più originali e scenografiche piazze d’Europa. È la monumentale piazza Pretoria, uno spazio urbano leggermente trapezoidale, limitato su tre lati da edifici di notevole valore storico e architettonico. Oltre alle due chiese contrapposte (Santa Caterina e San Giuseppe dei Teatini) fanno da quinta il raffinato Palazzo Senatorio chiamato anche Palazzo Pretorio (oggi sede del Comune) e due palazzi baronali: quello dei Bonocore e dei Bordonari. Il terzo lato della piazza è invece aperto su Via Maqueda, l’asse viario che ha anche la funzione di essere il luogo privilegiato per cogliere nel suo insieme la bellezza di questo “teatro urbano”, dove al centro trionfa la spettacolare fontana cinquecentesca. La particolarità che rende unica questa piazza è tutta concentrata nella originalità della sua composizione, dove gli elementi decorativi e compositivi di una fontana nata per magnificare un giardino fiorentino cinquecentesco furono poi destinati a ornare una piazza. Da spazio privato di un giardino a spazio pubblico di una piazza. Il segreto di tanta bellezza è quindi ampliato anche da questo trapianto artistico ben riuscito! Una bellezza che non passa inosservata neanche all’osservatore più frettoloso e distratto. Come non restare colpiti dall’inconsueta identità della piazza? In nessun altro luogo troveremo un felice connubio tra lo spazio urbano contenitore (la piazza) e l’arredo urbano contenuto (la fontana). Le due realtà si confondono per fondersi: come per miracolo la fontana va oltre se stessa. Non è più solamente un elemento scultoreo e di arredo per la piazza. Diventa essa stessa piazza. Diventa luogo. Si distingue così da tutte le altre fontane perché non è solo “qualcosa da osservare” ma è “qualcosa da attraversare”; uno spazio urbano dunque da ammirare e percorrere. La Piazza Pretoria fu in effetti il risultato di un importante progetto urbanistico cinquecentesco che si legava strettamente e in maniera originale alla storia della fontana. Realizzata, tra il 1552 e il 1555, dallo scultore fiorentino Francesco Camilliani (allievo di Baccio Bandinelli), con l’aiuto di Michelangelo Naccherino e altri collaboratori per lo splendido giardino del palazzo di Luigi di Toledo a Firenze (figlio di Pietro di Toledo e fratello di Garçia e di Eleonora moglie di Cosimo I de’ Medici), l’opera non restò a lungo in Toscana.
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Fonte stupendissima che non ha pari… in Italia…..” (GIORGIO VASARI)
LA FONTANA DI PIAZZA PRETORIA “OSÉ” PER BELLEZZA
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Particolari della “fontana della Piazza della Vergogna” - foto Gnucx
I proprietari, per necessità economica, pensarono di venderla. Dell’operazione se ne occupò direttamente don Garçia de Toledo che, l’8 gennaio 1573, riuscì a concludere un buon affare con il Senato palermitano per 20.000 scudi. E così, l’opera, che servì anche ad esternare il prestigio dell’autorità comunale, giunse nel 1574 a Palermo “smontata” in 644 pezzi. Per sistemare la fontana, ideata per uno spazio molto più ampio rispetto alla piazza, fu necessario demolire alcune abitazioni. Fu richiesto anche l’intervento di Camillo, figlio di Francesco Camilliani, che diresse per molti anni, insieme al Naccherino il cantiere. Per adeguare la fontana, si dovette per certi versi anche “ripensare” e integrare il modello originario con l’aggiunta di nuovi pezzi e con alcune modifiche compositive. Camillo Camilliani dovette ricorrere ad una disposizione piramidale dell’insieme e ad ultimazione dei lavori, nel 1581, i palermitani si trovarono davanti una meraviglia!
Foto Giuseppe Romano
Dalle “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e archi tettori” di Vasari: «Avendo io scritto in fin qui le vite et opere de’ pittori, scultori et architetti più eccellenti che sono da Cimabue insino a oggi passati a miglior vita, e con l’occasioni che mi sono venute favellato di molti vivi, rimane ora che io dica alcune cose degl’artefici della nostra Accademia di Firenze, de’ quali non mi è occorso in sin qui parlare a bastanza. Francesco Camilliani, scultore fiorentino et accademico, il quale fu discepolo di Baccio Bandinelli, dopo aver dato in molte cose saggio di essere buono scultore, ha consumato quindici anni negl’ornamenti delle fonti, dove n’è una stupendissima, che ha fatto fare il signor don Luigi di Tolledo al suo giardino di Fiorenza. I quali ornamenti intorno a ciò sono diverse statue d’uomini e d’animali in diverse maniere, ma tutti ricchi e veramente reali e fatti senza risparmio di spesa. Ma in fra l’altre statue che ha fatto Francesco in quel luogo, due maggiori del vivo, che rappresentano Arno e Mugnone fiumi, sono di somma bellezza, e particolarmente il Mugnone, che può stare al paragone di qual si voglia statua di maestro eccellente. Insomma tutta l’architettura et ornamenti di quel giardino sono opera di Francesco il quale l’ha fatto per ricchezza di diverse varie fontane sì fatto, che non ha pari in Fiorenza, né forse in Italia. E la fonte principale, che si va tuttavia conducendo a fine, sarà la più ricca e sontuosa che si possa in alcun luogo vedere, per tutti quelli ornamenti che più ricchi e maggiori possono immaginarsi e per gran copia d’acque, che vi saranno abbondantissime d’ogni tempo». In effetti l’opera è un vero tripudio scultoreo dove tra rampe di scale, balaustre, vasche e getti di acqua si alternano divinità, ninfe, allegorie, animali, erme ecc… Rialzata su gradini e cinta da balaustrata, è a pianta ellittica disposta su due piani concentrici separati da un anello d’acqua, attraversato da quattro ponti a gradini. Secondo la tradizione dei “maestri fontanieri toscani” anche qui ritroviamo la parte centrale a “Candelabra” (Kykix) nella cui sommità la figura di Bacco da inizio al gioco d’acqua che nel susseguirsi di tre tazze d’acqua disposte attorno allo stelo si riversa nella grande vasca centrale. Tra la vasca centrale e quella ad anello del livello inferiore (detta peschiera) fanno da corona una serie di teste di animali fuoriuscenti da nicchie dal grande effetto decorativo da dove sgorgano abbondanti getti d’acqua. Ai lati delle rampe sono poste le statue di alcune divinità, e tra esse ammiriamo Cerere, la dea protettrice della Sicilia, con spighe di grano e cornucopia. La peschiera suddivisa in quattro settori dalle rampe
gradinate è inoltre ritmata dalla presenza di quattro vasche ovali con statue giacenti, personificazioni dei fiumi di Palermo (Oreto, Papireto, Maredolce e Gabriele). La balaustra che circonda tutta la composizione, si interrompe in corrispondenza dei ponti “ascendenti” per permettere l’accesso alla fontana. Ed è tramite queste quattro aperture inquadrate ciascuna da due Erme che aveva ed ha ancora oggi inizio una passeggiata suggestiva, unica e irripetibile. Una passeggiata in un mondo profano, dove il trionfo della nudità delle statue fu anche motivo di scandalo per una società spesso benpensante (fuori casa) e priva di vizi (in pubblico). Uno scandalo che per alcuni era il segno tangibile della corrotta municipalità cittadina. Un fontana indecente che solo i palermitani più “libertini” e “scostumati” potevano apprezzare. Per questo, quella che fu definita dal Vasari come la “Fonte stupendissima che non ha pari… in Italia” fu poi soprannominata anche come la “fontana della Piazza della Vergogna”.
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L’uomo misu r
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GNOMONICA E QUADRANTI SOLARI
Il Sole è il grande orologio del mondo (VOLTAIRE)
di Giovanni Bellina gnomonica è la scienza che studia le variazioni delle ombre solari e la costruzione di strumenti capaci di ricavarne misure. Essa ha attraversato tutta la storia dell’umanità fin da tempi remoti. Ne sono testimoni Stonehenge, i menhir, i cromlech e alcuni resti preistorici di Malta, della Sardegna e della Sicilia. Fin dagli inizi si studiò la regolarità ciclica delle ombre generate dal Sole. Si osservò che mutavano direzione con l’andamento del giorno ed estensione e forma in accordo con le stagioni. Si pensò che bastasse tracciare dei riferimenti su una superficie con generatore d’ombra fisso per determinare con precisione il trascorrere dell’anno, delle stagioni e dei giorni. Nacquero così i primi orologi solari che nel corso del tempo presero forme diverse e cambiarono i sistemi orari in funzione delle necessità del momento. Le civiltà antiche, legate alle ore di luce solare e prive di efficaci
La
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Mezzodì del solstizio invernale sulla meridiana a camera oscura di San Giorgio a Modica
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Mezzodì dell’equinozio di Primavera sulla meridiana a camera oscura di San Giorgio a Modica
Il tracciato della meridiana a camera oscura di San Giorgio a Modica visto dall’alto
strumenti d’illuminazione, adottarono il sistema temporario: tutti i giorni, quelli brevi dell’inverno e quelli lunghi dell’estate, divisi in dodici parti con l’ora prima che iniziava all’alba e la dodicesima che terminava col tramonto. Le notti erano divise in vigilie misurate con orologi ad acqua o a polvere. Con l’avvento degli orologi meccanici fu necessario usare ore tutte uguali per i diversi giorni dell’anno comprese le notti. Furono scelte le ventiquattro ore dei giorni equinoziali e poiché persistevano, nelle ore notturne, i problemi d’illuminazione, si pensò di legare la numerazione ai tramonti del sole; l’ora una iniziava al tramonto e la fine dell’ora ventiquattro segnava il tramonto del giorno successivo. Nasceva così il sistema italico capace di predire le ore di luce residua prima del tramonto del Sole. Con l’avvento delle comunicazioni veloci e dei sistemi d’illuminazione efficienti si passò dapprima all’ora media e in seguito al sistema dei fusi orari.
Fra il XVII e il XVIII secolo si celebrò l’apoteosi della gnomonica Si pubblicarono trattati fondamentali, s’inventarono nuove forme di quadranti, si migliorò la precisione dei tracciati e aumentò il numero delle indicazioni. La gnomonica entrò a far parte dell’arte militare e s’insegnava come branca delle geometrie e dell’astronomia. Alcuni orologi solari si rivestirono di significati esoterici e furono posti in giardini similmente organizzati per custodire messaggi celati. Contemporaneamente, per portare a termine la riforma del calendario e per avere precise misure dei movimenti della Terra, si costruirono le vere e proprie “Meridiane” basate sul fenomeno della “Camera oscura”. Un meridiano era tracciato con cura sul pavimento di una chiesa per ricevere, al mezzodì, l’immagine solare proiettata da un foro stenopeico, detto “foro gnomonico”, praticato sulla copertura o su una parete rivolta a sud. La precisione poteva raggiungere, con opportuni accorgimenti, le frazioni di secondo e dipendeva: dall’altezza e dal calibro del foro, dall’abilità del progettista e dalla maestria dei costruttori. Famose sono le meridiane di Santa Maria del Fiore a Firenze, di San Petronio a Bologna, di Santa Maria degli Angeli a Roma. In Sicilia ne restano almeno otto, la maggior parte realizzate nel corso del XIX secolo. Le più conosciute sono negli interni della Cattedrale di Palermo, di San Sebastiano ad Acireale, di San Nicola a Catania e di San Giorgio a Modica. Quest’ultima, a tempo vero a tempo medio e tempo italiano, fu realizzata, alla fine del
XIX secolo, da Armando Perini di Portoferraio, vissuto a Modica e autore durante la sua vita di eleganti e originali quadranti solari sparsi nell’abitato e nelle campagne degli Iblei. Con l’adozione generalizzata del tempo medio e dell’ora dei fusi la gnomonica subisce un arresto. Diversi tentativi cercarono di adeguarla alle nuove esigenze, ma restarono senza seguito. I quadranti solari non furono più il
I due quadranti solari sulla facciata della cattedrale di San Giovanni a Ragusa. Quello a sinistra col sistema all’italiana, quello a destra con il sistema alla francese
Quadranti a ore medie realizzati dall’ing. Gaetano Angelotti nel 1890 a Palazzolo Acreide
Complesso quadrante solare realizzato a Petralia Sottana dal Cappuccino Fedele Bencivinni nel 1882
Quadrante verticale occidentale ad ore italiane San Vincenzo Ferreri Ragusa Ibla
riferimento per la determinazione precisa del tempo e padroni della misura oraria diventarono gli orologi meccanici. Tra gli anni ’80 del secolo scorso e fino ai nostri giorni, sull’onda della nuova sensibilità ecologica, la gnomonica viene riscoperta come possibilità di una misura di tempo legata a ritmi naturali e contrapposta a quella del mercato e dei consumi. Da questo rinnovato interesse sono nati molti quadranti solari nuovi, sia per l’arredo urbano sia per il decoro di abitazioni private. Hanno visto la luce diverse pubblicazioni sulla tecnica e sulla storia della gnomonica. Sono stati elaborati programmi che fanno uso del personal computer. Sono iniziati lavori di censimento, di restauro e di tutela del patrimonio gnomonico antico ancora esistente. Di recente la gnomonica ha nuovamente interessato gli architetti e i tecnici per progettare e proporre bioarchitetture e apparati fotovoltaici per la produzione di energie rinnovabili. Se qualcuno dei lettori decide di realizzare un quadrante solare potrà servirsi di facili scorciatoie offerte dagli ausili informatici o dovrà acquisire conoscenze astronomiche, geometriche, matematiche e grafiche. A queste azioni tecnico-scientifiche ne dovrà affiancare altre dettate dall’intuizione e dalla creatività per aggiungere motti, simboli, forme, immagini di buon augurio o d’invito alla meditazione sul rapporto tra l’uomo e il tempo. È bene in ogni caso tener conto che su un qualsiasi quadrante solare, anche semplice e privo di ornamenti, è presente il respiro dell’Universo e che le sue indicazioni
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Quadrante solare realizzato da G.B. Donati Pisano nel 1870 sul prospetto del Municipio di Augusta
Quadrante solare verticale a ore italiane con meridiana e segni zodiacali. Mineo, Convento Cappuccini
provengono da eventi che ci sovrastano. Il meridianista Lucio Maria Morra ha scritto: “Le meridiane custodiscono il senso del tempo, hanno l’estensione del Cielo, sono spazi liberi e profondi, simboli benefici che pacificano l’animo di chi le frequenta”.
IL PITTORESCO CASTELLO DI CACCAMO, dove è possibile entrare in una storia di otto secoli! di Giuseppe Nuccio Iacono - foto Giulio Lettica -
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Stolto colui che crede al perdono di un principe contro il quale ha snudato la spada (UGO FALCANDO)
”
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10 km da Termini Imerese e a 520 mt. s.l.m. sorge Caccamo. La città abbarbicata sul declivio di uno sperone roccioso domina la vallata dove il fiume San Leonardo, incontrando la diga, forma un lago dal nome romantico: Rosamarina. Il bacino artificiale, non è antico e non ha un passato. Le sue acque riflettono il paesaggio del quale hanno osato sottrarne una parte di storia quando hanno sommerso e inghiottito il ponte che Manfredi I Chiaramonte fece costruire nel 1307 lungo la via che conduceva a Palermo. Sul periodo di fondazione e sull’etimo toponomastico sono state avanzate varie interpretazioni. Ma l’interpretazione non è certezza! Secondo lo storico Agostino Inveges, Caccamo sarebbe stata fondata da un gruppo di soldati cartaginesi scampati alla disfatta di Himera del 480 a.C. La mitica cittadina fu chiamata “Kaccabe” che significa “testa di cavallo” (immagine che troviamo tuttora nello stemma posto nell’androne del castello). Secondo altri, Caccamo potrebbe derivare dal greco “Kakkabe” (pernice), “Kakbe” (calderone) oppure dal latino “Cacabus” (grande pentola) o dall’arabo “Kùkum” (marmitta). In questi ultimi casi incuriosisce il comune riferimento a pentoloni. Le prime citazioni che attestano l’esistenza di Caccamo (periodo normanno) sono contenute nelle opere del geografo arabo Edrisi (Qaqabus) e del cronista Ugo Falcando (Caccami oppi dum). Entrando oggi nella città si respira ancora tutta la “fragranza storica” di un impianto urbanistico medievale ben conservato. È possibile percepire tra le viuzze acciottolate dell’antico borgo l’anima duecentesca dei quartieri Terravecchia e Rabbato. La città non delude le aspettative di chi sogna di entrare nella storia almeno per un giorno. Già da lontano la città, tra rupi, boschi e prati, fa capolino con una invitante tentazione: il suo pittoresco e grandioso castello.
A
I vari corpi di fabbrica del castello - Pianta
Veduta dal castello. Sullo sfondo il lago Rosamarina
Una delle particolari vedute del castello Il castello
Veduta dal castello. Sullo sfondo il lago Rosamarina
Città, castello e paesaggio, una triade di bellezza Da qualsiasi versante li si guardi e in ogni stagione, si presenteranno come dei quadri sempre diversi, sorprendenti e suggestivi. La rupe dove poggia Caccamo contribuisce a diversificare lo scenario: le pareti a strapiombo trovano una tregua nella dolce e costante inclinazione del versante meridionale. Su tutto domina il castello con le bianche mura merlate, le imponenti torri e i vari terrazzamenti panoramici. L’edificio ha alcuni primati: quello di non essere stato mai espugnato, quello di essere annoverato tra i manieri feudali meglio conservati dell’Isola e quello di contendersi con Mussomeli il primato per l’estensione. La forma architettonica attuale è il risultato dei rimaneggiamenti e ampliamenti che si sono susseguiti nel tempo sotto varie signorie: ben 15 famiglie si sono avvicendate nell’arco di ben otto secoli. Impostato sulle diverse quote altimetriche, l’edificio presenta una serie di volumi, cortili e terrazzamenti concatenati in un percorso a spirale e collegati da rampe che si aprono scenograficamente sul paesaggio. Attorno ad una torre di avvistamento originaria si
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Scorcio medievale
impostò il primo nucleo fortificato: una torre mastra e baglio con ampia cinta muraria per proteggere il piccolo “Borgo di terra vecchia”. Le strutture avevano per certi versi anche la funzione di “caravanserraglio” e costituivano un luogo sicuro lungo la via commerciale per ospitare gli armenti e le carovane. Bisognerà attendere il XII sec. per assistere alla graduale trasformazione in vero e proprio castello. La prima testimonianza storica si fa risalire a un documento del 1093 che dichiara le località di Caccamo e Brucato come già appartenenti alla diocesi di Agrigento per concessione del Conte Ruggero. Nel 1094, però, i possedimenti del castello innalzati da Ruggero Altavilla a rango di baronia furono concessi al condottiero normanno Goffredo Sageyo e alla consorte Adelasia e come risulta dal diploma di fondazione del monastero di S. Bartolomeo a Lipari, “Goffredo de Sageyo donò tre villani (servi ecclesiastici) a Caccamo con il consenso di Adelasia, sua moglie”. Alla metà del XII secolo, Matteo Bonello, signore di Caccamo, fu protagonista dei drammatici eventi che macchiarono di sangue la Sicilia. Ugo Falcando descrive il barone come un “giovane bello, valoroso, magnanimo, imparentato alla più alta nobiltà calabrese, stimatissimo
Scorcio sull’Ala Chiaramonte. XIV sec.
Il grande cortile con pavimento a tela di ragno
nell’isola e fuori, che Maione aveva saputo attirare a sé, fidanzandolo con sua figlia”. In realtà il legame con Maione, Gran Cancelliere del Regno, non ebbe fortuna. Matteo Bonello si opponeva sia alla politica accentratrice del re sia alle mire emergenti del “popolano o borghese” Maione. Nel 1160 ordisce e capeggia la congiura dei baroni siciliani. Nel novembre di quell’anno, dopo aver ucciso l’ammiraglio Maione, si rifugia nel castello di Caccamo insieme ai nobili ribelli. L’elsa della spada del delitto, secondo una credenza popolare, si può ancora vedere su uno dei battenti del portone del palazzo arcivescovile di fronte alla cattedrale di Palermo. Matteo Bonello continuò a congiurare contro Guglielmo il Malo finché non inciampò sull’imprudenza! Re Guglielmo promise di perdonarlo ma ben presto il barone dovette imparare quanto “sia stolto colui che
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crede al perdono di un principe contro il quale ha snudato la spada”. Catturato e imprigionato fu sottoposto ad atroci supplizi: all’infelice furono cavati gli occhi e tagliati i nervi sopra i talloni e gettato in una prigione dove implorò strisciando la morte. La baronia e il castello di Caccamo vennero tolti ai Bonello per essere assegnati nel 1166 al francese Giovanni Lavardino. Tuttavia la prepotenza di quest’ultimo causò una sommossa popolare che lo costrinse a rifugiarsi nella fortezza per poi arrendersi. Dopo la sua espulsione, Caccamo fu dichiarata città demaniale (1169) e potè fregiarsi dell’appellativo “Urbs generosissima”. Nel 1203 il castello fu assegnato al nobile genovese Paolo Cicala… Essendo morto senza eredi nel 1215, il re (Federico) concesse Caccamo a Bernardo del Castagno, arcivescovo di Palermo che la tenne fino al 1267, anno in cui passò a Fulcone Podio Riccardi e poi al di lui genero,
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La rampa che collega i vari corpi di fabbrica
Stemma dei Principi Amato
Scorcio sul cortile dove prospetta il portale manieristico dell'Ala Amato
Stemma di Caccamo con testa di cavallo e trinacria
Lapide che ricorda il ritrovamento di antichi orci di olio
Una delle tante lapidi murate Affresco riproducente lo stemma Amato
il cavaliere francese Galas Estendard che fu però cacciato a furor di popolo. Nel 1282, con la rivolta dei Vespri, alcuni arcieri di Caccamo cinsero d’assedio il vicino castello di Vicari e uccisero il Gran Giustiziere di Val di Mazara, Giovanni di Saint Remy, il tiranno al soldo di Carlo d’Angiò che qui si era rifugiato. Con l’avvento degli Aragonesi, la signoria di Caccamo fu assegnata alla famiglia Chiaramonte che aprì un secolo di splendore. Manfredi I Chiaramonte, già conte di Modica, diede avvio a importanti lavori per ampliare il castello e potenziarne il carattere difensivo: venne costruita l’ala nord-est e innalzate alcune torri. Nell’architettura e nei suoi decori erano inconfondibili le linee caratteristiche dello “stile chiaramontano”. Ma anche la gloria Chiaramonte era destinata al declino. La loro storia si concluse il 1° giugno 1392 con la decapitazione dell’ultimo erede Andrea. I loro beni furono confiscati e assegnati a vari signori fedeli al re. Caccamo, fu assegnata al catalano Gueraldo di Queralto. Ma i caccamesi, nostalgici del buon governo chiaramontano, non accettarono mai il nuovo signore e ribellandosi riuscirono a cacciarlo dalla rocca con tutto il presidio regio. L’ostilità degli abitanti non cessò neanche quando nel 1397 la signoria fu concessa a don Giaimo De Prades. Per premunirsi dalla mai sopita ostilità dei caccamesi, fortificò ulteriormente il castello, aggiunse alcune torri e Veduta sulla città da una bifora
Rampa monumentale di accesso
Particolare scorcio medievale
Le bifore dell'Ala De Prades. XV sec.
Fusione tra architettura e roccia
cambiò la disposizione degli accessi. Fu costruita una nuova ala ricavando delle ampie scuderie sotto il piano nobile dove il salone delle udienze era ingentilito da tre bifore. Alla morte di Don Giaimo (1420), la figlia Violante trasmise la signoria della città al marito Bernardo Cabrera, conte di Modica. Nel 1477, Anna Cabrera ereditava tutti i possedimenti per estinzione del ramo maschile e tre anni dopo sposava (per volontà di re Ferdinando) Federico Henriquez, ammiraglio di Castiglia e la contea di Caccamo rimase sotto la sua signoria Henriquez-Cabrera per 166 anni, fino al 1646. Nel 1641, Giovanni Alfonso Henriquez Cabrera, fu nominato viceré di Sicilia e due anni dopo elevò la sua Caccamo a rango di città aggiungendo all’antico stemma l’immagine della trinacria. Lo stato feudale fu venduto nel 1646 da Giovan Gaspare Henriquez a Filippo Amato principe di Galati per la somma considerevole di 25.000 scudi. Alla morte di Filippo (1653), il figlio Antonio intraprese una serie di importanti lavori per dare all’edificio un carattere più residenziale. Fu rimaneggiata l’ala meridionale dove si aprirono ampie finestre con balconi; la corte interna dalla particolare pavimentazione a rete di ragno fu ingentilita con un portale manieristico sormontato dallo stemma Amato; a ovest fu impostata la grande loggia. Nel 1813 la signoria fu tramandata per linea femminile ai De Spuches. Tra i membri della famiglia si distinse per la profonda cultura umanistica, Giuseppe de Spuches, marito della poetessa Giuseppina Turrisi Colonna. I principi trasformarono il castello in un importante salotto letterario dove convenivano i più noti esponenti della cultura del tempo. Nonostante gli sforzi per mantenere integra la struttura, il castello compromesso da una frana e indebolito dal terremoto del 1823, manifestava i preoccupanti segni di cedimenti e inevitabili crolli. I De Spuches alla fine dovettero abbandonarlo per poi venderlo nel 1963 alla Regione Siciliana. Da allora l’edificio è stato sottoposto ad una serie di interventi conservativi e di consolidamento. Restaurato nei suoi 130 vani, questo tesoro di inestimabile valore appartiene ora ai nuovi signori di Caccamo: ossia a tutti i visitatori che amano il bello.
Terrazzamento panoramico e luogo di supplizi
L'ala Chiaramonte. XIV sec.
Un percorso ricco di emozioni e contrasti Superato il primo cancello d’ingresso si giunge alla suggestiva rampa, delimitata da un lato da un parapetto merlato e dall’altro dalla quattrocentesca Ala De Prades dove le tre bifore del salone delle udienze sovrastano le tre monofore delle scuderie e altrettante caditoie. Nelle vicinanze un bassorilievo raffigurante una mano che
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Bifora quattrocentesca
sostiene una bilancia in equilibrio e una frase latina che ammonisce: “Amate la giustizia voi che giudicate in terra”. E da qui inizia un percorso di visita dove tra mille sensazioni tutto è da scoprire. Non mancano i sotterranei e le prigioni dove languivano i prigionieri. Tra le celle, la più grande poteva accogliere sei prigionieri mentre la più piccola e terribile, della dimensione di un metro quadrato, era destinata al condannato che veniva qui murato vivo. E non poteva mancare il tetro ambiente destinato alle torture. La visita farà fiorire altri angoli certamente meno tristi e farà toccare il bello e sfiorare il sublime. Si può ammirare il salone delle udienze dei De Prades che poi nell’800 i De Spuches trasformarono in un teatro. La grande sala delle Armi, detta anche della Congiura, continua a ricordare le gesta eroiche e la triste fine del ribelle Matteo Bonello. La curiosità accompagna il visitatore nella sala del camino e l’attigua camera da letto dal grazioso pavimento maiolicato. Nell’ampia terrazza dove spiccano due grandi archi, il visitatore sarà toccato dal bene e dal male: il bene che si concretizza nell’ammirare la meraviglia di un panorama infinito e… il male che il luogo timidamente svela. Qui infatti venivano condotti i condannati a morte e qui venivano esposti i corpi impiccati o le teste mozzate; un monito che dall’alto del castello era tristemente visibile e intimoriva la gente del paese. Percorrere gli spazi che continuano a snodarsi uno dietro l’altro in una sequenza di scorci indescrivibili. Che dire degli stemmi che dominano le pareti e che ricordano le varie famiglie? Tutto qui sembra pensato per catturare l’attenzione. Persino il più frettoloso degli osservatori sarà “trattenuto” dalla “rete di ragno”, ossia dalla decorazione pavimentale del grande cortile dell’ala Amato.
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Suggestivo gioco di volumi del castello
Il castello e la rupe
Il salone delle armi
Il luogo delle pene
Le scuderie
La Provincia Regionale di Ragusa per il Parco degli Iblei
Provincia Regionale di Ragusa è sempre stata ed è a favore dell’Istituzione del Parco degli Iblei. Vorrei che questo fosse ben chiaro”: con queste parole l’Assessore Provinciale al Territorio, Ambiente e Protezione Civile, Salvo Mallia, fuga tutti i dubbi e tutte le polemiche sorte attorno a tale istituzione e chiarisce una volta per tutte il ruolo dell’Ente. Ruolo di certo non semplice e che spesso è stato anche aspramente criticato ma che l’amministratore provinciale ha svolto puntando soprattutto sulla necessità di accogliere le istanze provenienti dal territorio. “Contrariamente a quanto apparso sulla stampa locale - continua Mallia - l’iter avviato e che ci ha portati alla definitiva proposta di perimetrazione che attualmente si trova al vaglio del governo regionale e nazionale, è stato sempre incentrato sulla concertazione. A confermarlo la documentazione depositata presso gli uffici di questo Ente”. Ma procediamo con ordine. Con la Legge 29 Novembre 2007 n. 222, art. 26 recante “Disposizioni in materia ambientale” al comma 4 septies, sono stati istituiti i seguenti Parchi nazionali: Parco delle Egadi e del litorale trapanese, Parco delle Eolie, Parco dell’isola di Pantelleria e Parco degli Iblei, quest’ultimo ricadente nei territori delle Province di Ragusa, Catania e Siracusa. Al fine di rendere partecipe il territorio interessato, il Ministero dell’Ambiente e la Regione Siciliana hanno deciso di avviare un ampio processo partecipativo con gli Enti Locali coinvolti, affidando alle Provincie interessate (Siracusa, Ragusa e Catania), ed ai comuni capoluogo, le funzioni di coordinamento e raccordo territoriale. È il 26 Gennaio 2010 quando una delegazione provinciale, guidata
“La
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Provincia Regionale di Ragusa
L’Assessore Provinciale al Territorio, Ambiente e Protezione Civile, Salvo Mallia
Zonazione della provincia
dall’Assessore Mallia, partecipa ad una incontro a Roma presso il Ministero dell’Ambiente, indetto dal Ministro all’Ambiente, On. Stefania Prestigiacomo. All’incontro farà seguito, l’11 febbraio 2011 presso la sede della Provincia Regionale di Ragusa, una conferenza pubblica finalizzata a concretizzare la più ampia partecipazione concertativa sulla tematica. La prima ipotesi di perimetrazione, da sottoporre alla concertazione con il territorio, viene presentata il 3 marzo 2010 nel corso di un incontro tenutosi presso l’Assessorato Regionale al Territorio e Ambiente, alla presenza dei rappresentanti del Ministero. Tale proposta, che investe buona parte degli altipiani del ragusano e del modicano, e ricomprende a meridione quasi tutta la vallata del fiume Irminio, con esclusione della foce, peraltro già protetta da una Riserva Regionale, viene presentata ai Sindaci in data 19 marzo 2010. Contemporaneamente, l’Assessore Provinciale al Territorio e Ambiente, attraverso una nota, invita tutte le rappresentanze associative (Associazioni di categoria, Ambientaliste, Venatorie, di Volontariato, di Protezione Civile, culturali, ecc.) a visionare l’ipotesi di perimetrazione redatta dalla Regione Siciliana e a fornire utili contributi. Da quest’azione scaturirà la presentazione di ben 9 ipotesi di perimetrazione presentate da: “Coordinamento Associazioni Naturalistiche ed Ambientaliste della Provincia di Ragusa”, “W.W.F.”, “AIPIN”, “C.A.I. Ragusa”, “Ass. Esplorambiente”, “Gruppi Scouts”, “A.N.U.U.” e “UNSIC”. Proposte queste che spaziano da una maggiore propensione all’estensione territoriale del parco, sostenute soprattutto dagli Ambientalisti, ad una riduzione della stessa appannaggio delle realtà imprenditoriali, sostenute, per lo più, dagli attori socioeconomici e dagli Amministratori degli Enti Locali. Dall’analisi e sintesi di queste proposte, ad opera degli amministratori dei comuni interessati, si è giunti di comune accordo alla proposta definitiva che, seppur fortemente criticata da alcune associazioni ambientaliste e da pochissime forze politiche, ha riscontrato l’approvazione della stragrande maggioranza del mondo politico, sociale ed economico ibleo. “Come Provincia – afferma Mallia – abbiamo svolto il compito affidatoci ovvero quello di coordinatore. La proposta di perimetrazione scaturita è frutto di un’azione concertata e condivisa dai Consigli Comunali, di colore politico diverso, che si sono espressi attraverso le loro delibere. La Provincia attenendo al proprio ruolo non ha fatto altro che recepire tali atti e trasmetterli alla Regione”. “A mio avviso - continua Mallia - tale proposta rispecchia la volontà di un territorio che è pronto ad accettare il cambiamento ma in maniera graduale, com’è giusto che sia. A chi rimprovera il mancato inserimento di alcune aree rispondo che non può esserci valorizzazione e tutela di un territorio a discapito dello sviluppo socio-economico
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Cava d’Ispica
dello stesso. Il Parco rappresenta di certo un’ulteriore opportunità di sviluppo, ma non l’unica. A questo si aggiunga, come nel caso dell’esclusione del territorio del Comune di Scicli, che pur riconoscendo il valore inestimabile di alcune zone, un Parco non può essere a macchia di leopardo e pertanto non essendo stato raggiunto un accordo tra gli amministratori locali queste aree sono state escluse dalla perimetrazione. Ciò non toglie, in ogni caso, che, successivamente e riconosciuta la valenza socio–economica, le aree escluse in questa fase possano essere integrate all’attuale perimetrazione”. “Infine – conclude Mallia – vorrei ricordare che l’Istituzione di un Parco, la cui decisione definitiva sulla perimetrazione spetterà a Stato e Regione, sebbene saremo vigili affinché non vengano prese decisioni che possano in qualche modo contrastare gli interessi del nostro territorio, è l’inizio e non l’arrivo di un percorso. Ed è proprio in questa fase che siamo chiamati tutti, amministratori e cittadini, ad avviare quel processo necessario al cambiamento”.
a Città di Caltagirone con la sua Ceramica
d’Italia essa contribuisce con un'espressione d'arte
artistica
che nel processo geografico dell'unificazione vuole
L
celebra
i
valori
dell'Unità
e
dell'Identità nazionale.
rappresentare le venti Regioni attraverso il valore
Una ceramica millenaria che ha sempre avuto
delle loro differenze e peculiarità, le stesse che
generazioni di artigiani ma anche di artisti, che
hanno costruito la storia d'Italia nell'orgogliosa
hanno
consapevolezza che tali differenze nell'Unità della
interpretato
in
modo
originale la capacità di
Nazione rappresentando la vera grande ricchezza
creare forme
dell'intero popolo.
e colori. Nell'anno del 150°
E per questo siamo contenti che una mostra possa celebrare i momenti fondamentali grazie all'impegno artistico degli artigiani calatini.
dell'Unità
n occasione delle mostre e delle manife-
I
diversità della nostra penisola e
stazioni culturali organizzate per celebrare il
la
150° Anniversario dell'Unità d'Italia, la ceramica di
Unita.
Caltagirone è protagonista a Torino negli spazi delle
ventunesima
simboleggia
l'Italia
Le opere sono collocate in uno spazio
Officine Grandi Riparazioni nell'ambito della mostra
appositamente
allestito
dedicato
alla
grande
“Il futuro nelle mani: Artieri Domani” a cura di Enzo
tradizione della ceramica di Caltagirone che ha
Biffi Gentili con un progetto di Ugo La Pietra
saputo nel tempo conservare e rinnovare la
dedicato alle venti Regioni d'Italia: venti “teste
propria tradizione.
portavaso”, realizzate da una rappresentanza dei
La partecipazione alle manifestazioni di “Esperienza
più abili artigiani ceramisti di Caltagirone. Giuseppe
Italia” con questo progetto è promossa dal Comune
Branciforti, Alessandro Iudici, Nicolò Morales,
di Caltagirone con la partecipazione dell'Istituto
Riccardo Varsallona, incarnano le tipicità e le
Statale d'Arte per la ceramica “Luigi Sturzo”.
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Tutto il Museo dentro un i-Pod touch: chi visita il museo regionale archeologico di Adrano, d’ora in poi può avvalersi di una modernissima videoguida
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razie ad un co-finanziamento Regione Siciliana, Assessorato ai Beni Culturali - Comune di Adrano inerenti l’istituzione, il potenziamento e la gestione di strutture museali, il Museo Regionale di Adrano ha di recente scelto di rendere fruibili in maniera moderna e innovativa, storia e origini dei beni archeologici esposti dentro il Castello Normanno, sede del Museo Regionale di Adrano. La struttura museale espone, in un articolato percorso conoscitivo, i ritrovamenti archeologici del territorio adranita e del territorio etneo. Sia il Museo che la struttura che lo ospita (il castello normanno ndr) rappresentano una risorsa preziosa ed imprescindibile dell’offerta turistica e culturale che il territorio offre. La riapertura delle sale al pubblico ha significato un nuovo e rinnovato impulso al rilancio turistico del territorio. Un progetto fortemente voluto dall’avv. Alessandro Di Gloria, Assessore ai Beni Culturali del Comune di Adrano e nato dalla sinergica collaborazione tra il funzionario responsabile del Comune stesso, dott.ssa Vincenza Inzerilli e il neo-istituito Parco archeologico “Valle del Simeto”, nelle persone del Direttore, dott.ssa Gioconda Lamagna, del Responsabile dell’U.O. III del Museo, arch. Nello Caruso e della dott.ssa Angela Merendino. La parte tecnologica è stata invece curata e realizzata dalla ditta GISAT di Adrano su piattaforma Apple per dispositivi portatili iPod Touch di quarta generazione. Le nuove tecnologie informatiche, affiancandosi ai supporti tradizionali di tipo cartaceo e di guida assistita, hanno aperto nuovi e promettenti scenari nei processi di fruizione delle sale del museo da parte dei visitatori e fornendo un grande impulso alle attività di comunicazione. La realizzazione delle videoguide mira a migliorare e potenziare il momento di acquisizione delle conoscenze del visitatore rendendo l’esperienza di visita del museo molto personale e soprattutto più ricca e significativa. La videoguida si prefigge di accompagnare il visitatore all’interno del museo, introducendolo alla visita e guidandolo attraverso i percorsi culturali di maggiore rilievo. Permette al visitatore di seguire un percorso proposto o di personalizzare la propria visita: si possono visitare tutte le sezioni del museo, oppure scegliere solo quelle che più interessano. Questa guida museale unisce le competenze tecnologiche multimediali con quelle della comunicazione e della produzione audiovisiva. Le finalità del progetto possono essere così riassunte: - ampliamento e potenziamento della capacità comunicativa della struttura museale; - crescita dell’interesse per il Museo e per i beni culturali ad esso collegati; - valorizzazione dei contenuti di alta valenza storica e archeologica del museo; - migliorata presentazione e fruizione dei beni grazie all’ausilio di nuove tecnologie; - aumento del flusso turistico; positiva ricaduta sull’indotto turistico.
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La nascita del primo Museo Civico a Siracusa e la scoperta della Venere Landolina CON IL GRAN TOUR ARTISTI, ERUDITI, ANTIQUARI E VIAGGIATORI INVASERO LA PATRIA DI ARCHIMEDE ALLA RICERCA DEL GLORIOSO PASSATO
La Venere Landolina - dal vecchio allestimento nel Museo di Piazza Duomo - foto archivio del Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi, Siracusa -
di Santino Alessandro Cugno
attirarono studiosi e visitatori da tutta Europa e resero più urgenti i problemi partire dal Seicento, e in misura di tutela e conservazione. maggiore nel secolo successivo, la La statua di Afrodite, città di Siracusa era diventata raffigurata mentre sta per una delle mete principali del Grand denudarsi prima del Tour, il viaggio di istruzione e bagno, è una copia formazione che ogni giovane romana (II sec. d.C. aristocratico europeo del tempo secondo le più recenti doveva compiere, per via del suo analisi) di un originale enorme patrimonio architetellenistico realizzato da tonico e delle bellezze naturali scultori greci della del territorio circostante. scuola rodio-asiatica o Decine di eruditi, artisti, da maestranze antiquari, viaggiatori e greche operanti nella scienziati invasero l’antica stessa città di metropoli aretusea alla Siracusa: la scultura è ricerca delle sopravvivenze di acefala, priva luoghi e situazioni del suo dell’avambraccio straordinario passato greco, destro che alimentando allo stesso tempo originariamente copriva il traffico internazionale di il seno, e a sinistra opere d’arte verso musei e presenta un delfino collezioni private di tutto il mondo acefalo che evoca le acque e gli scavi archeologici abusivi. marine da cui nacque la A Siracusa molto rinomate erano le dea. Il nudo femminile di raccolte di oggetti antichi delVenere, rappresentato per la l’archeologo Vincenzo Mirabella (1570– prima volta dal celebre scultore 1624), del vescovo Giambattista Alagona greco Prassitele nel IV secolo a.C. e Giustiniani (1726–1802) e di Cesare con la Afrodite cnidia, divenne in epoca Gaetani conte della Torre (1718–1805), uno dei ellenistica uno dei temi preferiti dagli artisti, protagonisti nel campo della gestione dei beni culturali i quali rielaborarono soprattutto il soggetto dell’Afrodite nella Sicilia della seconda metà del Settecento. al bagno, interamente nuda o con un mantello che copriva Il marchese Tommaso Gargallo di Castel Lentini (1760– soltanto una parte del corpo come nel caso della statua 1843), illustre letterato, poeta e storico siracusano, fu siracusana. uno dei primi uomini di cultura a mettere in rilievo, nelle Il cavaliere Landolina riteneva che solo con una istituzione sue celebri Memorie Patrie del 1791, l’assoluta necessità museale civica fosse possibile salvaguardare sia la Venere di tutelare e valorizzare le cospicue testimonianze e tutti i reperti provenienti dalle nuove esplorazioni storico-artistiche siracusane attraverso l’istituzione di archeologiche che il prezioso materiale conservato nelle un “museo civico” con tante collezioni private gabinetto di storia naturale cittadine. Ciò doveva pure da affidare agli eruditi locali. servire ad evitare l’esporL’idea della creazione di un tazione illegale delle opere museo pubblico, tuttavia, d’arte a Palermo o adcominciò ad essere oggetto dirittura al di fuori dei confini di concrete discussioni solo del regno borbonico. Soltanto dopo l’eccezionale scoperta nel settembre 1809 il negli orti Bonavìa delle Landolina fu in grado di celebri statue dell’Esculapio tradurre nella pratica il suo (dicembre 1803) e della ambizioso progetto culturale Venere Anadiomene e politico, poiché mons. (gennaio 1804) per opera di Filippo Maria Trigona, vescovo Saverio Landolina Nava di Siracusa e grande (1743 - 1814), il Regio appassionato di antiquaria, si Custode delle Antichità dimostrò favorevole nel della Val di Noto, che mettere a disposizione alcuni Il Museo Archeologico Nazionale di Siracusa “Paolo Orsi”
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ambienti del Seminario in via Minerva, donando nel contempo le antichità del piccolo ma molto interessante Museo del Vescovile Seminario dei Chierici. Il sovrano approvò la nuova istituzione e il Museo Civico di Siracusa fu inaugurato in forma ufficiale il 20 aprile 1811. Il ritrovamento del sarcofago di Adelfia il 12 giugno 1872, durante le indagini che Francesco Saverio Cavallari conduceva nella catacomba di S. Giovanni, diede nuovo impulso affinché si pensasse di collocare le eccezionali testimonianze del passato siracusano in un luogo più degno della vecchia palazzina appartenente all’Arcivescovado: questo auspicio fu presto realizzato in Piazza Duomo dove, per decreto regio del 17 giugno 1878, viene sancita la nascita del Museo Archeologico Nazionale di Siracusa, inaugurato però solo nel 1886. Il primo direttore fu l’ing. Cavallari, al quale subentrò nel 1891 il giovane Paolo Orsi, le cui celebri campagne di scavo in tutta la Sicilia orientale resero il museo siracusano uno dei più importanti a livello internazionale. Il 16 gennaio 1988 venne infine inaugurata la nuova sede nel giardino di Villa Landolina con un innovativo progetto museologico e museografico, fortemente voluto e realizzato dall’ex soprintendente Giuseppe Voza e dall’architetto Franco Minissi, che espone i reperti archeologici della storia della Sicilia sud-orientale dalla Preistoria all’epoca bizantina secondo un criterio cronologico e topografico. Una struttura tutta da conoscere, da vivere, da gustare non solo con gli occhi ma con i sensi.
La Venere Landolina collocata nel settore D del Museo “Paolo Orsi”, dedicato alla Siracusa ellenistico-romana. Foto “Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi - Siracusa”.
Sicilia dei misteri CHIESA DI SANTA SOFIA: Presenze templari ed esoterismo a Sortino? di Arpocrate questi anni si è fatto un gran parlare di Templari, Santo Graal, Maddalena etc..., grazie a bestsellers come “Il Codice da Vinci” di Dan Brown e il conseguente proliferare di libri analoghi. Tali argomenti, pur suscitando una valanga di polemiche, hanno permesso a mio parere di allargare lo sguardo su argomenti che appena qualche secolo fa sarebbero stati motivo di roghi. Durante una mia escursione a Sortino per la sagra annuale del miele, girovagando per il paese, sono entrato nella chiesa di Santa Sofia. L’imponenza dell’edificio, la sua par-
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ticolare architettura e decorazione hanno stimolato riflessioni ed osservazioni. Se, infatti, le chiese sono da considerarsi veri e propri libri di pietra, è proprio grazie ad esse che i committenti e le maestranze hanno da sempre trasmesso significati a più livelli: per il popolo, per i fedeli, per gli studiosi. Guardando la facciata della chiesa, si rende visibile la raffigurazione in bassorilievo di un bambino e di un calice sormontato da una croce nel frontone a sinistra del portone principale, a sua volta sormontato da un volto dal quale partono dei raggi.
Calice sormontato da una croce con volto incorniciato da raggi
Le raffigurazioni lasciano trasparire contenuti di sapore vagamente eterodossi con elementi gnostici e templari, legati alla leggenda del Santo Graal. La presenza di questi simboli conduce a porsi domande sulla storia di Sortino e sul suo “particolare” ambiente culturale. La storia di Sortino è collegata a quella di Pantalica, una delle più grandi necropoli europee, abitata sin dai tempi preistorici. Pantalica conobbe la presenza di Sicani, di Siculi, diventando un centro importantissimo, i Greci in seguito la resero una fortificazione creando delle mura. Sempre in periodo greco il luogo finì per acquisire un aspetto sacrale. I greci erano usi delimitare i luoghi che avevano esaurito la loro funzione di polis piantando cinque pietre confinarie, nacquero così le cosiddette pentelite con forte carattere sacrale. Da qui forse l’origine del nome di Pantalica. Il territorio in periodo bizantino fu sede di nuclei abitativi, organizzati in piccoli villaggi. Durante le incursioni arabe furono abbandonati e gli abitanti si rifugiarono nelle grotte. Con l’arrivo dei normanni nell’XI secolo, Pantalica emerse
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Rappresentazione di un “bambino”
nella storia con il nome di Pentargia, collegato ad un Castello conquistato dal conte Ruggero. Dopo questo avvenimento, scompare il toponimo di Pentargia. Nel XII secolo Ruggero II eletto re, nel riorganizzare il regno fonda il Castello di Xortino o Xuthinum. Diventato feudo, Sortino passò nelle mani di numerose famiglie nobili, seguendo le vicende siciliane, dai Modica ai Moncada, ai D’Eredia sino alla famiglia Gaetani o Caetani. Distrutto dai due terremoti del 1542 e del 1693 Sortino venne ricostruito un po’ più a valle secondo gli stili e i criteri architettonici del barocco siciliano. Due sono gli avvenimenti importanti che emergono dalla sintetica narrazione storica: primo, i rapporti che Ruggero
II (nonno di Federico II) ebbe con i templari e come il più famoso nipote, Stupor Mundi, ebbe un atteggiamento molto tollerante nei confronti delle altre fedi religiose; secondo, la presenza nella storia di Sortino di un ramo della nobile famiglia Caetani o Gaetani, che pare acquistò il feudo nel XV secolo. La famiglia Caetani ebbe come antenato papa Bonifazio VIII, successore di Celestino V (il papa del gran rifiuto di dantesca memoria, unico papa nella storia ad abdicare), accusato, all’inizio del turbolento XIV secolo, di eresia e magia dal re francese Filippo il Bello. Questi diede fine ai Templari (1314) nel tentativo di impossessarsi delle loro ricchezze.
Scultura lignea rappresentante la crocifissione e presenza di Maddalena
La famiglia Caetani, inoltre, appartiene con il ramo romano alla “nobiltà nera” della Chiesa (i nobili romani, che restarono fedeli al papa dopo l’unità d’Italia) e tale nobiltà è sempre stata addentro ai cosiddetti segreti del Vaticano. Rivolgiamo attenzione, ora a Santa Sofia. Il nome stesso di Sofia, la santa patrona di Sortino a cui è dedicata la chiesa, stimola alcune riflessioni. Intanto il termine Santa Sofia indica diverse sante cristiane: una martire romana sotto l’imperatore Traiano, un’altra martire a Fermo, in Egitto, in Sardegna. Oggetto del nostro studio è la martire siciliana che, come tutte le altre, appartiene al periodo paleocristiano. Spesso le chiese dedicate a Santa Sofia fanno riferimento alla santa conoscenza o gnosi (sofia=conoscenza) e, ampliando il raggio di indagine, ai pregressi culti della dea Madre per i quali la presenza dell’acqua è il segno distintivo. Guarda caso nella leggenda della nostra siciliana Santa Sofia si racconta, che la Santa, per dissetare i soldati che la conducevano al martirio, si tagliò una treccia, gettandola a terra. Ne scaturì una sorgente, che sembra esistere tutt’ora nel sito religioso, in considerazione della sua riconosciuta miracolosità almeno fino agli inizi del XX secolo. Anche per i Templari la presenza dell’acqua era fondamentale e ogni chiesa templare possedeva una pozza d’acqua di natura sacrale.
Inoltre è accertato che i templari avessero un forte culto del lato femminile del divino. La leggenda del loro fondatore, Bernardo di Chiaravalle, narra come il santo durante la sua vita, fosse stato miracolosamente allattato da tre gocce di latte uscite dal seno di una statua della Madonna. Nel medioevo a Santa Sofia, nel significato di Divina Conoscenza, si associava la figura della Maddalena che pare avesse portato in Francia, dopo la morte e resurrezione di Cristo, il santo Graal: il calice utilizzato nell’Ultima Cena, per raccogliere il sangue di Gesù dalla Croce. La figura di Maddalena è sempre stata vista dalla Chiesa con una particolare preoccupazione, pur diventando la figura centrale per molte sette eretiche, come i Catari, e per testi gnostici, come “Pistis Sophia”. In campo letterario, la figura della Maddalena attraversa con simboli e riferimenti più o meno velati, i romanzi del ciclo di re Artù e del Santo Graal. Dopo queste riflessioni, mi è sembrato naturale trovare nella chiesa di Santa Sofia la rappresentazione di Maddalena. Con mia sorpresa, nella navata di destra è presente la scultura lignea rappresentante la Crocifissione con Maddalena, con il segno iconografico caratteristico del calice, inginocchiata ai piedi del Crocefisso, con dietro le spalle l’Addolorata, completa il quadro un San Giovanni Evangelista. A questo punto la presenza del calice nel frontone a destra del portone principale della chiesa è giustificata attraverso il legame simbolico con la statua lignea. È presente anche una testa dalla quale irradiano dei raggi. Tale immagine potrebbe forse rappresentare in modo simbolico il Sole, richiamando antichi riti mitraici. Nella stessa foto possiamo notare una conchiglia proprio sotto l’ovale del calice. La conchiglia rimanda all’iconografia di San Giacomo, che nel cristianesimo eretico svolge un ruolo importantissimo, essendo considerato fratello di Gesù. San Giacomo fu il fondatore della prima comunità cristiana, prima ancora che prevalesse il pensiero paolino. Fu un’autentica sorpresa, scoprire che la chiesa di Santa Sofia è dedicata pure a San Giacomo, a cui è dedicato in Spagna il mistico pellegrinaggio di Santiago de Compostela, lungo una via tempestata di costruzioni templari. Rimane il mistero di quella figura di bambino nel frontone principale. Probabilmente rappresenta l’anima dell’uomo perché lo scopo della conoscenza, o meglio della Sofia è scoprire e raggiungere il divino che è in ciascuno di noi, del resto Dio Padre ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Per concludere non posso non considerare una caratteristica di Sortino. Esso è uno dei paesi in cui è presente l’apicoltura e le api sin dai tempi antichi egizi sono state considerate simbolo del sole, rivestendo un grande valore esoterico. Il paese di Sortino rappresenta forse un unicum poco conosciuto, dove la Sofia è custodita nel suo aspetto femminile della Santa e nel suo aspetto maschile di San Giacomo uniti dalle api del Sole Divino.
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L’AMBIZIOSO PROGETTO DELLA AUTONOMIA STATUTARIA SICILIANA di Anna Alessia Cascio Gioia rgomentare intorno all’autonomia siciliana e alla Magna Carta, cioè allo Statuto che ad essa dà forma, non è facile. Il rischio è quello, infatti, di cadere in discussioni “politicistiche”, che oltre a sfiancare l’animo dei lettori, perdono il punto di vista: analizzare l’autonomia speciale della Sicilia alla luce delle peculiarità territoriali, ambientali, culturali e anche sociali. Sicuramente, tale progetto diventa più ambizioso, allorquando, ci si pone l’obiettivo di considerare l’autonomia siciliana in riferimento all’unità nazionale: così facendo, infatti, si corre il rischio di apparire federalistici o addirittura secessionisti. È opinione radicata in chi scrive che, tutto va letto avendo come punto di riferimento le trascorse vicende storiche, recenti e non solo. Certo, il pericolo è quello di essere anacronistici, se si afferma che è opportuno risalire, addirittura, a Federico II di Svevia, per illustrare la materia de qua. Ed è appunto l’ampio panorama delle varie civiltà e dominazioni che si sono susseguite in Sicilia che avvia ad una tematica che, mutando il contesto storico sociale, si pone come obiettivo l’analisi della decisione fondamentale della comunità politica italiana: coniugare le esigenze inderogabili dell’Unità e della indivisibilità dell’ordinamento con le aspirazioni autonomistiche delle popolazioni siciliane. Tale necessità si presentò nel 1866, infatti, poiché non si raggiunse un accordo che definisse i rapporti tra Stato unitario e spinta regionalistica, in quell’anno si arrivò ai moti insurrezionali di Palermo, scaturiti da un profondo disagio sociale e da insoddisfazione
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RICORDIAMO CHE LO STATUTO REGIONALE (15 MAGGIO 1946) NACQUE PRIMA DELLA CARTA ISTITUZIONALE (1948)
politica oltre che dalle ancora della Carta insofferenze del ParCostituzionale, cioè tito Autonomista. l’Assemblea Costituente Le inappagate aspirazioni si trova da vanti un autonomistiche delle documento, elaborato in popolazioni siciliane, sede regionale, da un soprattutto nei confronti apposito organismo della politica dello Stato, composto da soggetti si collocarono alla base politici siciliani e del della nascita del Moviquale non può fare a mento separatistico meno di prendere atto; del 1943 che si pose sin anche la forma di Stato dal primo momento regionale, individuata come forza centrifuga, in dalla Costituzione, origrado di indurre lo Stato gina dalle scelte operate italiano ad adottare dai costituenti siciliani. strumenti idonei per Tutto ciò manifesta una soddisfare le esigenze di prevalenza, almeno fino a autogoverno siciliano, quel momento delle comprendendole nel forze autonomistiche contesto statale italiano. siciliane, che riuscirono Sono questi gli anni in cui a influenzare le prerosull’Isola, anche in seguito gative statutarie, tanto alla presenza dell’eserciche la nostra Carta to di occupazione angloFondamentale ha una americana, si sente la origine pattizia e non necessità di elaborare ottriata, cioè non è un programma che, stata concessa dall’alto, rispettoso delle necesbensì, concordata con lo sità dei siciliani ne ribaStato. disse l’estraneità alle L’art. 1 dello Statuto vicende nazionali in nome della Regione Siciliana dell’antica “questione così dispone: “La Sicilia siciliana”. Con il R.D.Lgs. con le isole Eolie, Egadi, 18 marzo 1944 n. 91 Pelagie, Ustica e veniva, finalmente, ricoPantelleria, è costituita nosciuto dal Governo in regione autonoma, italiano un ampio decenfornita di personalità Il decreto dell’autonomia siciliana tramento ammini giuridica, entro l’unità strativo: veniva nomi nato, infatti, quale organo politica dello Stato italiano, sulla base dei principi democratici che ispirano la vita della Nazione. La città provvisorio l’Alto Commissario Civile per la Sicilia; il D.L.lgt 28 dicembre 1944 n. 91, invece, ampliò i poteri di Palermo è il capoluogo della Regione”. dell’Alto Commissario ed istituì la Consulta regionale. L’analisi testuale e giuridica di tale disposizione è Sulla base del progetto elaborato da una commissione piuttosto ampia, l’auspicio è quello di aprire uno spazio di studio nominata dall’Alto Commissario, con decreto editoriale entro il quale discutere sulla importanza del del 1° settembre 1945 e composta da rappresentanti lavoro fatto dai costituenti siciliani, soprattutto sulla dei politici e tecnici, la Consulta regionale, approvava, in importanza dello Statuto Siciliano. data 23 dicembre 1945 lo Statuto, che veniva I venti riformisti spirano con forza, ad essi vanno aperte, trasmesso al Governo italiano per essere approvato, sicuramente le finestre del dialogo istituzionale, non previo parere della Consulta nazionale, con R.D.Lgs 15 dimenticando che la Sicilia vive all’interno dello Stato Italia maggio 1946, n. 455, stabilendo che lo Statuto sarebbe e dell’ente sovranazionale Europa. Costituisce, comunque, dovuto essere sottoposto all’esame dell’Assemblea dovere giuridico, non adombrare la considerazione che costituente per essere coordinato con la nuova lo Statuto è anche espressione della cultura, delle Costituzione dello Stato. tradizioni del popolo siciliano, oltre che soprattutto Lo Statuto della Sicilia, pertanto, nasce prima materiale giuridico su cui dissertare.
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Sul tavolo dei siciliani un problema scottante “Federalismo e Piano per il Sud”
Nostra intervista all’assessore regionale all’economia Gaetano Armao urante la partecipazione ad un convegno politico-economico a Siracusa abbiamo avuto il piacere di ascoltare un autorevole e competente membro del Governo siciliano, l’assessore all’economia avvocato Gaetano Armao. Ci ha concesso una intervista spiegando le sue idee e le sue motivazioni in merito a scottanti e attuali problematiche regionali poste sul tappeto e riguardanti alcuni temi caldi, come il federalismo, il Piano per il Sud, le piccole e medie imprese, il lavoro, la burocrazia…
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Assessore Armao come procede il confronto tra il Governo siciliano e quello nazionale in merito al federalismo fiscale. Il federalismo fiscale, insieme a quello municipale, è una delle due gambe su cui si reggerà l’attuazione della legge delega sul federalismo. Il testo che era stato presentato all’inizio era meritevole di attenzione. Ma le numerose modifiche apportate in corso d’opera ne rendono problematica l’applicazione. Tuttavia siamo riusciti ad ottenere, insieme alle altre regioni a Statuto speciale, una corsia preferenziale che nel nostro specifico caso ci consentirà di affrontare tutti gli aspetti che ci riguardano nella Conferenza Stato-Regione. Come giudica il Piano per il Sud sbandierato dall’attuate Governo nazionale? Il Piano per il Sud rientra nel più grande disegno sul federalismo perché avrebbe dovuto unificare le risorse disponibili per spenderle in grandi progetti finalizzati a recuperare il ritardo infrastrutturale del Mezzogiorno. Purtroppo non è così perché attraverso il Piano si intende coprire spese fatte al Sud che nel resto d’Italia si fanno con finanziamenti ordinari, cioè nazionali. Questo è il motivo per il quale esprimiamo forti perplessità. Nelle prossime settimane vigileremo perché questo strumento non si traduca in una beffa soprattutto per la Sicilia. Allora secondo lei cosa serve perchè questo nostro Sud non sia dimenticato? È tempo di attuare una nuova “questione meridionale” che realizzi un federalismo equo e solidale, che sia cioè accompagnato da una perequazione infrastrutturale, in grado di farci recuperare il ritardo accumulato in questi anni e che purtroppo tende ad aumentare. Questo intendimento deve essere sostenuto innanzitutto dall’impegno di tutti i parlamentari, siano di destra, di sinistra, o di qualsiasi orientamento. Come intendete sostenere la piccola e media industria, il credito, la mala burocrazia e tutto il sistema imprenditoriale? Il Governo regionale ha avviato importanti riforme nei settori della sanità, dei rifiuti, della riorganizzazione dell’amministrazione, della legalità, che occorre adesso
«CON LE CARTE E I CONTI IN REGOLA DAREMO CERTEZZE E PROSPETTIVE DI SVILUPPO ALLA NOSTRA SICILIA» SOTTOLINEA L’ASSESSORE REGIONALE GAETANO ARMAO
completare con il risanamento finanziario, la semplificazione amministrativa e la riduzione degli enti (consorzi Asi, Iacp, etc) e delle società regionali. La recentissima approvazione della legge sulla semplificazione amministrativa, attesa da tanti anni, costituisce un nuovo punto di forza per i siciliani. Potranno avere tempi certi e rapidi nel rapporto con l’amministrazione, che saranno messi al riparo da infiltrazioni mafiose. Per le società regionali è stato varato il piano di riduzione da trentasei a dodici che abbiano già presentato all’Ars per l’approvazione, con un massiccio contenimento dei costi ed un aumento dell’efficacia. Al Parlamento regionale il compito di far presto e dimostrare che la Sicilia, soprattutto perché ne accetta le conseguenze, si prepara al federalismo fiscale, avviando riforme divenute non più rinviabili. Ma, al contempo, intende continuare a rivendicare che il federalismo assuma i caratteri di equità e solidarietà senza i quali sarà la causa di un aggravamento del divario tra Nord e Sud. Sul tappeto vi è anche lo sblocco dei fondi Fas per le infrastrutture che servono per lo sviluppo. Certo i criteri di ripartizione del Fondo sanitario nazionale, il problema delle accise della raffinazione del petrolio ed altri collegati, porteranno a una auspicabile detassazione per i cittadini con evidenti vantaggi per tutti. Ma occorre continuare a battersi perchè si passi dalle affermazioni alle decisioni. Ma come fare? Proseguendo nella strada intrapresa. Presentandoci innanzitutto con le carte e i conti in regola, e accompagnando tutto ciò con strumenti legislativi e amministrativi in grado di dare certezze e prospettive. La legge sulla semplificazione amministrativa approvata il 23 marzo è un’altra tangibile prova.
Due abiti maschili
Gusti e moda del Settecento in casa Grimaldi di Giovanni Portelli / Giovanna Giallongo ricostruire la storia del costume di un territorio è necessario ricorrere a fonti diverse. Essenziale è, dove possibile, l’esame diretto di abiti o accessori d’epoca. Notizie, sebbene frammentarie, possono essere tratte, pure, dall’esame di opere d’arte o letterarie dell’epoca. La più ricca fonte di informazione è comunque rappresentata dagli archivi storici (di grande utilità sono gli inventari post mortem, i libri contabili, le fatture, la corrispondenza di una famiglia). Tenteremo di ricostruire parte della storia del costume di un’epoca, il Settecento, nell’area iblea, attraverso l’analisi
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di alcune informazioni tratte dallo studio del fondo dei Grimaldi. Il fondo va dal 1484 al 1843 ed è costituito da 231 volumi, custoditi presso l’A.S. Ragusa, nella sezione di Modica. Il 23 aprile del 1743, Don Ignazio Ascenzo, cugino dei Grimaldi che vive a Palermo, intrattiene un lungo carteggio con Donna Anna Grimaldi Vassallo per informarla su alcune cause che la riguardano e, allo stesso tempo, su una commissione che le stava molto a cuore: l’allestimento degli abiti per i figli, tra cui uno di gala per Don Michele da indossare in occasione della cerimonia di matrimonio di un cugino. Per volontà di Donna Anna, le stoffe vengono commissionate a Napoli, ma una serie di difficoltà faranno
allungare oltremodo i tempi di consegna, nonostante più volte Don Ignazio abbia rassicurato la cugina che gli abiti sono stati già allestiti dal “sartore”. Il 25 maggio Don Ignazio scrive, soddisfatto, di aver finalmente in casa l’abito di campagna di Don Giuseppe. Consegna, subito, al Bordonaro l’abito, non senza aver scritto, prima, una nuova lettera in cui esprime il suo rammarico se le misure dell’abito non dovessero risultare esatte dato che il sarto ha lavorato sulle informazioni ricevute da lontano, “veramente manchevoli e difettosi nelle cose più principali”. Ma, un tremendo episodio, doveva allungare ancora i tempi di consegna degli altri abiti: la peste, s’era abbattuta sulla pacifica e laboriosa città di Messina colpendo molte altre città e casali del Regno. Il 25 giugno gli abiti sono finalmente a casa, ma, non trovando il modo per inviarli, chiede a Donna Anna di prodigarsi per mandare qualcuno a ritirarli. Gli ultimi pezzi mancanti, “un giammerghino e li calzi” saranno finalmente pronti, per la consegna, a settembre dell’anno successivo! Dalla sequenza di lettere viene fuori, di riflesso, il tratteggio di una società che, sebbene posta alla periferia del Regno, non è lontana dai gusti e dalla moda che dominano la corte e i salotti della Palermo aristocratica dell’epoca. Gli abiti vengono ordinati ad un sarto della capitale, mentre le stoffe sono fatte pervenire direttamente da Napoli. Il 1759 è un anno pieno di grandi preparativi per la famiglia Grimaldi: l’anno successivo, Don Michele dovrà sposare Antonia Nicolaci, principessa di Noto. Vengono comprate stoffe di vari colori e pregi per confezionare nuovi abiti. Ad aprile il sarto Bartolomeo Vassallo da Palermo farà pervenire, tramite il bordonaro Giovanni Cannella, un abito di panno del buffo per Don Michele. A maggio dello stesso anno, alla fiera della Vergine Santissima delle Grazie, a Modica, viene acquistato un cappello per Don Giuseppe, due calzette e quindi diverse stoffe di differenti colori. Tra le spese ci sono anche quelle per fare un mantò, sopraveste di rappresentanza del secolo passato ma che, nel Settecento, continuava ancora a dominare nell’uso ufficiale contrapponendosi al più moderno andrienne. A giugno, vengono pagati una veste da camera e un giamberghino di panno di color moscato, fatti cucire a Modica, sempre per Don Michele. Il 10 novembre, però, un grave lutto funesta la famiglia: muore Don Giuseppe. Questo improvviso e inatteso avvenimento impone alcune spese anche per l’abbigliamento e l’abito di lutto di Don Michele viene commissionato al sarto, mastro Ignazio La Monica. Sono trascorsi appena due anni e, nel frattempo, Don Michele ha sposato Donna Antonia. Nel mese di maggio del 1761 vengono affrontate nuove spese per aggiungere altri capi d’abbigliamento al guardaroba di famiglia e viene comprata la stoffa necessaria alla fiera della Vergine Santissima delle Grazie a Modica. Nel 1766 il guardaroba di Donna Antonia si arricchisce di un nuovo e importante capo. Viene fatto arrivare, da Palermo, un andrienne di druattino di color fastuca, preparato dal sarto Antonio Di Castro. L’andrienne si era imposto come la veste più importante indossata dalla nobiltà femminile. Il suo nome derivò dalla protagonista di un’opera teatrale (adattamento de “La fanciulla di Andro” di Terenzio) che l’attrice Therèse Dancourt seppe interpretare con successo indossando appunto questa nuova foggia. Il taglio era attillato al busto, lo scollo quadrato, le maniche al gomito guarnite da pizzo
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chantilly e la gonna ampia, sorretta ai fianchi da una struttura in stecche di balena, e corredato da fichu e scarpe della stessa stoffa dell’abito. Per questo capo, Don Michele, anima timorosa e pia, e forse anche superstiziosa, versa, pure, un tarì al reverendo Don Giovanni Zocco perché celebri una messa alle Anime Sante del Purgatorio per “esser sarcito giusto nelle misure l’andriè della mia Donna Antonia”. Nel mese di maggio dello stesso anno vengono comprate varie stoffe alla fiera della Vergine Santissima delle Grazie a Modica per far cucire altri abiti: un gilecco per Don Michele; due cantusci per le figlie Anna e Girolama; una veste per la piccola Agnese; calzoni e giamberghe per due paggi, confezionati sempre dallo stesso sarto La Monica. Nel 1770 Don Michele si fa preparare una “veste da camera con li sottocorpetti”, una delle vesti gentilizie il cui uso era molto in voga all’epoca. Nello stesso anno sono annotate le spese per il monacato delle figlie Anna, Concetta e Girolama, le prime ad essere iniziate alla vita monacale. A partire da questo momento, le spese per le figlie monache, in tutto sette, saranno costantemente presenti sul libro contabile di casa. Facevano parte della spesa di famiglia anche le divise per i paggi, per i volanti (vulanti) e per gli staffieri. Bottoni piccoli e grandi erano abbondantemente presenti sulle divise, molto spesso per ornamento (in una divisa del volante Gaetano Garofalo, del 1792, furono utilizzati ben 48 bottoni). Tutto il materiale occorrente per il personale di servizio veniva acquistato nelle fiere locali di Modica e di Scicli. Di origine locale era anche la stoffa e il materiale occorrente per vestire le figlie monache, così come per gran parte dell’abbigliamento di Don Michele. Alle maestranze locali era affidata la lavorazione sartoriale di questi capi. Gli abiti più importanti per Don Michele o la maggior parte di quelli per Donna Antonia erano realizzati,
Adrienne
Giamberghina
invece, da sarti di Palermo o, se affidati a maestranze locali, con stoffa fatta arrivare da lontano. In molti casi, comunque, non è indicata la provenienza della lavorazione. Tra le maestranze locali al servizio della famiglia Grimaldi va, infine, ricordato il parrucchiere Gioacchino Ventura. Tra le spese pure quelle per il “battocchio”, complemento per l’acconciatura femminile allestita da tal “Madama Clementina Romana degente qui in Modica”. Il fatto non stupisce se si pensa che nel Settecento, particolare attenzione veniva data alla cura dell’acconciatura femminile considerata, non solo
complemento dell’abbigliamento, ma vera e propria attrazione capace di suscitare meraviglia negli altri. Nel 1792, Agnese sposa il cugino Emanuele Grimaldi. Tre anni prima, il 13 giugno del 1789, vengono spesi 14 onze e 14 tarì per l’acquisto di accessori e stoffe per le occasioni mondane della giovane ed elegante signorina. È un piccolo repertorio di finesse che ci dimostra, ancora una volta, quanto i Grimaldi, nonostante vivessero lontano dai clamori della capitale, fossero influenzati dalla moda che, allora, impazzava tra la nobiltà del regno borbonico.
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LO SBARCO DEI… MILLE volti dell’immigrazione musulmana a Santa Croce Camerina
Nuove sfide per il futuro dell’accoglienza di Francesca Bocchieri ripresa massiccia degli sbarchi lungo le coste del ragusano, a seguito della situazione di pericolo venutasi a creare in Libia, ha riacceso i riflettori sull’impossibilità di gestire un fenomeno tanto complesso quanto esasperante qual è quello dell’immigrazione. A risentirne maggiormente è Santa Croce Camerina, piccolo comune ibleo noto alle cronache per l’alta concentrazione di extracomunitari che supera di gran lunga la media nazionale. Un primato questo che se sotto il profilo dell’accoglienza potrebbe far guadagnare punti di merito alla cittadina, dall’altro lato però fa emergere le difficoltà insite nella convivenza tra popoli e culture diverse. Il destino o forse proprio lo zampino di una mano divina, quasi a farsi beffa e a dispetto delle dicerie legate alle credenze religiose, ha fatto si che proprio nell’unico paesino il cui nome ricorda il simbolo cristiano per eccellenza, migliaia e migliaia di musulmani decidessero di radicarsi. Un cambiamento, quello vissuto dalla comunità santacrocese, repentino ed immediato e che, forse anche perché sottovalutato in passato, oggi si presenta come uno stravolgimento della vita di una comunità che si sente rubata della propria identità. Per meglio comprendere in che modo e misura si è giunti alla situazione attuale bisogna fare un salto nel passato. Santa Croce diviene meta della comunità musulmana intorno alla metà degli anni ’80. Il fenomeno, ancora agli albori, comportò l’arrivo di intere famiglie, a volte con donne
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Foto Prestianni
e bambini a seguito, regolarmente presenti sul territorio e il cui unico obiettivo era guadagnare il necessario che permettesse loro di crearsi una posizione socio–economica nella propria terra d’origine. Una fase, anche questa, in cui difficilmente si può parlare di integrazione ma perlomeno il grado di tollerabilità acquisito, derivato anche da una forma di rispetto per il paese ospitante da parte dei pionieri musulmani, portò ad una civile convivenza. Sorvoliamo sui luoghi comuni secondo cui gli extracomunitari hanno rubato il lavoro agli italiani, alibi tirato fuori ad hoc per giustificare in maniera semplicistica e comodista un’intolleranza che in realtà porta con sé strascichi ben diversi. Questa gente, che piaccia o no, ha contribuito ad accrescere l’economia senza nulla togliere alla popolazione locale. Le cose iniziano a peggiorare nella metà degli anni ’90 con l’arrivo di giovani ragazzi che fuggono dalla loro terra d’origine alla ricerca di luoghi migliori in cui vivere.
In questo modo il flusso migratorio assume un significato diverso e la piccola cittadina si trova a dover accogliere ragazzi privi di punti di riferimento e proiettati alla conquista di un mondo ben lontano dalle regole e dalle abitudini proprie della loro terra d’origine. Inizia così quel processo che porterà Santa Croce ad essere additata
come la Tunisi della Sicilia. Con il presentarsi di atti vandalici, delle liti tra connazionali e della mancanza di rispetto per il vivere civile, che iniziano a generare paura e ansia nella popolazione residente, nonché con la dipartita di molti giovani locali per motivi di lavoro o studio, i luoghi, simbolo
Alcune immagini di Santa Croce Camerina con gli immigrati che fanno ormai parte di questa “Tunisi” della Sicilia
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della vita cittadina, iniziano lentamente a svuotarsi. A ricordare gli antichi fasti le celebrazioni religiose ancora molto sentite e che negli ultimi anni cominciano a coinvolgere anche le nuove generazioni alla ricerca della propria identità. È bene e giusto precisare che a far degenerare la situazione è stata la presenza massiccia di clandestini, molti senza fissa dimora e alla ricerca disperata di sostentamento, pronti ad inveire anche contro i propri connazionali per sopravvivere. Una situazione in cui l’istinto di sopravvivenza prevaricando sulla ragione ha annientato i presupposti morali del vivere civile che contraddistingue la nostra società. A questo si aggiunga un’errata lettura del processo di integrazione che ha portato a creare sempre più un divario tra “noi” e “loro”. Conseguenza, la presenza di due comunità a sé stanti: quella locale e quella musulmana. Due realtà parallele che non riescono ad incontrarsi. E pensare che il 25% dell’economia locale è rappresentato proprio dalla comunità musulmana che negli anni ha avviato attività commerciali in grado di rispondere alle proprie esigenze. Facendo cerchio attorno a loro hanno trovato il modo di conquistarsi i propri spazi, mentre la popolazione indigena ha via via perso quelli che
da sempre sono stati i propri punti di riferimento. Ed ecco quindi che, oggi, una nuova possibile ondata in arrivo genera ansia e preoccupazione. Provocatoria ma di certo simbolo di uno stato di disagio, non più tollerabile, l’esternazione del primo cittadino, Lucio Schembari, all’alba dei nuovi flussi migratori, di apporre all’entrata del paese la scritta “Tutto esaurito”. Disagio, questo, vissuto sia dalla popolazione residente che dai profughi a cui, per carenza di strutture e aiuti, non è possibile garantire condizioni dignitose per periodi lunghi. Allo stato attuale, sebbene si registri uno spiraglio di luce nella possibilità di apertura tra queste due realtà, il processo d’integrazione sembra essere ancora molto lontano anche se l’esigenza di individuare un percorso risolutivo è sempre più sentita. Ed è dalle parole di Benedetto XVI, pronunciate in occasione dell’udienza ai membri dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (Anci), che potrebbe partire questo percorso: “Di fronte al fenomeno dell’immigrazione, bisogna saper coniugare solidarietà e rispetto delle leggi, affinché non venga stravolta la convivenza sociale e si tenga conto dei principi di diritto e della tradizione culturale e anche religiosa da cui trae origine la Nazione italiana”.
Santa Croce Camerina, la spiaggia di Punta Secca - foto Giancarlo Tribuni Silvestri
A TUTTO SUCCESSO... L’ARTE DI CREARE EVENTI CULTURALI DI QUALITÀ
Intervista ad Alessandro Di Salvo
onsiderato, a ragione, come uno dei migliori organizzatori di eventi culturali, Alessandro di Salvo continua a ideare eventi di qualità che in un crescente virtuosismo creativo fanno muovere l’economia del territorio. Sempre pronto a nuove sfide per raccogliere nuovi successi, lo abbiamo intervistato per voi. • Quando e come nasce questa tua passione nell’organizzare eventi? In effetti dovrei dire che ho organizzato eventi da sempre. Già da piccolo mi davo da fare: non ero bravissimo a giocare a calcio però organizzavo i tornei; non ero certo un grande musicista ma alla fine organizzavo concerti… e via di seguito. Poi, affinando il gusto aumentava in me il desiderio di far vedere alla gente le cose che io avrei voluto vedere. Inizialmente, l’opportunità mi fu data dall’Istituzione Fiume di Comiso che tra le varie attività culturali gestisce il Teatro Naselli. Nominato consigliere d’amministrazione, ho avuto modo di inventare la rassegna “Loft, - spazi contemporanei”. L’idea era di creare una “nicchia” di teatro contemporaneo dove portare “cose strane”, diciamo insolite. Una rassegna teatrale dedicata alla innovazione con un calendario di
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artisti di altissimo prestigio nazionale e internazionale, mai visti o poco noti al grande pubblico (quello stordito dalla TV per intenderci!). • Stiamo parlando di un rassegna che ha fatto scuola in Sicilia. Sì. 7 anni che hanno visto passare da Comiso un sacco di artisti. Ha fatto veramente scuola se si pensa che la rassegna di teatro contemporaneo (Nuovo Teatro) del teatro stabile di Catania nasce dopo la seconda edizione comisana di LOFT. E Catania è indubbiamente la capitale del teatro in Sicilia e non solo! Fatto sta che sono riuscito a portare a Comiso un tipo di teatro diverso dal solito “teatro di giro” delle consuete compagnie legate a Molière, Shakespeare ecc… Spesso pagavamo più di viaggio che di cachet per artisti stranieri che come unica tappa italiana si recavano a Comiso… ma era entusiasmante vedere tanta gente venire da fuori. Ripeto il mio desiderio era quello di far vedere cose nuove, realtà particolari. • Realtà particolari che poi hai portato anche nel Settembre Kasmeneo. Con il tempo crescevano le mie conoscenze nell’ambiente del teatro, dello spettacolo e delle agenzie finché tre anni fa mi fu affidata la direzione artistica del Settembre Kasmeneo. Altra esperienza, altro pubblico. Un evento più di massa, rivolto ad un pubblico più ampio rispetto alle rassegne che facevo al Naselli. Fin dal 1994, avevo già collaborato in maniera sporadica per singoli concerti o spettacoli di cabaret. Settembre Kasmeneo ha 20 anni di storia. Bella e importante manifestazione… grandi nomi. Però era conosciuto fuori? no! Per niente. Per questo evento potevo contare su un budget limitato e allora sono andato a Roma per instaurare rapporti con la Rai. E negli ultimi due anni grazie all’accordo con Radio Rai e, in particolare, con la trasmissione Demo di Radio Uno si sono aperte le porte a grossi nomi con prezzi molto vantaggiosi. E non è poco aver ottenuto uno speciale su Comiso su Radio Uno. Non avevamo certamente le possibilità economiche per una tale pubblicità e per raggiungere 8 milioni di radio-ascoltatori. • Altro evento di successo, è il Festival letterario “A Tutto Volume” che da due anni proietta una luce culturale importante sul capoluogo di provincia. Perché hai scelto Ragusa? Avevo già da tempo una grossa idea su un festival letterario da concretizzare a Ragusa. Ho presentato poi questo progetto ed è stato ben accolto. Ho scelto Ragusa perché tra le città della provincia mi sembrava la città adatta per numero e per tipo di abitanti e per altro. Ed in effetti il successo della prima edizione l’ha confermato. A Vittoria, Comiso, Scicli o Chiaramonte non potrebbe radicare con successo. Ragusa mi piaceva moltissimo anche per la sua stessa conformazione urbana e per il fatto che vi sono 4 librerie vicine. Mi piaceva l’idea della circuitazione, del pubblico che si sposta in un ambiente scenografico e di rara bellezza, tra vicoli, piazzette, palazzi e chiese. La presunzione che ho sul festival del libro “A tutto volume” è che ci sarà sempre un pubblico consapevole che segue un programma: ci sarà chi uscirà alle 21 per sentire l’autore che gli interessa e magari salterà l’incontro con lo scrittore delle 19 che appassionerà altri. • Altre sfide altre città: Modica e il ChocoBarocco visti da te: qualche anticipazione? Modica mi affascina per il contesto e per la sua peculiarità: il brand cioccolata modicana, il brand cucina modicana e il brand barocco modicano sono insuperabili! Qui è necessario intervenire poiché stridono alcuni elementi da fiera tra i picchi registrati dai convegni tenuti dai massimi esperti del cioccolato. Non ho nulla contro le fiere (ci vogliono anche quelle) ma ChocoBarocco è qualcosa di più e di diverso. Lo scorso anno quando sono stato contattato per dare un tocco di incontri culturali penso di aver dato un buon contributo. Dalle ultime riu-
nioni per organizzare la prossima edizione emerge la necessità di puntare molto sulla qualità, sul culturale. Sto già pensando a grandi installazioni, mostre e performances, a illuminazioni artistiche di palazzi e probabilmente anche ad una CowParade tutta modicana dove saranno disposte lungo il Corso principale quelle sculture coloratissime raffiguranti mucche a grandezza naturale. • Grandi eventi equivale a dire grande ritorno economico per il territorio. La cultura ripaga gli investimenti sostenuti? Certamente. La formula è semplice: grandi eventi generano spostamento di gente da varie località che a loro volta generano un ottimo ritorno economico sul territorio. Tremonti nell’affermare che non possiamo mangiare “panini e Divina Commedia”, sbaglia perché attorno alla cultura e allo spettacolo gira una economia incredibile. Parliamo di un giro virtuoso anche per ristoranti, alberghi, bar, attività commerciali e via di seguito. Uno studio della Bocconi sul rapporto festival culturali e territorio ha dimostrato che alcuni festival riescono a far rendere un euro investito in 1,70 o 2 euro. Parto da questo presupposto: se un messinese o catanese giunge a Ragusa per assistere ad uno spettacolo che ha inizio alle 21, dovrà cenare e dormire e magari fermarsi per un buon fine settimana. Quando penso a Ragusa penso all’esperienza di Mantova. Due città che si possono sovrapporre per varie caratteristiche. A Mantova sono riusciti a creare una economia attorno ad un festival che dura quasi tutto l’anno, tra laboratori e iniziative varie. Se ci fosse una programmazione simile per Ragusa, possiamo ben immaginare l’impatto positivo tra i cittadini e soprattutto per le attività commerciali, ad esempio di via Roma.
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Il nostro futuro sta nel bene irripetibile che non può essere trasportato altrove e che tutto il mondo ci invidia: ossia il paesaggio, le campagne, i muri a secco, la gastronomia e gli edifici barocchi. Un patrimonio unico che deve essere tutelato e che ha un potere di attrazione immenso, specialmente se sappiamo usare i media. • Quali sono gli aspetti del tuo lavoro che ti piacciono di più? Il mio vero lavoro è un altro, sono un farmacista. Organizzare eventi per me è un hobby e mi ritengo fortunato nel poter far cose che mi piacciono. Per certi versi potrei considerarmi un piccolo mecenate: il mio lavoro non viene pagato e alcune volte posso anche perderci personalmente. Io non sono un impresario; non vendo spettacoli ma mi piace organizzarli. Mi piace inoltre ideare eventi che abbiano una loro durata nel tempo. Bello pensare alle edizioni dei prossimi anni. È una grande soddisfazione sapere che ci sono persone che seguono il mio lavoro. Mi piace confrontarmi con loro alla fine di ogni spettacolo per sapere come è andato. Mi piace avere uno zoccolo di critici sul campo. Mi piace vedere l’entusiasmo del pubblico.
La guerra del Pom si combatte a Pac
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Breve storia di una difficile sfida combattuta sui media nazionali, dove la caccia allo scoop a tutti i costi prevale sui principi elementari di correttezza dell’informazione di Paolo Meli non ha sentito parlare almeno una volta del “pomodoro di Pachino”? Presente nei menù di tutti i ristoranti e pizzerie italiane, citato in televisione durante i programmi di cucina, esaltato da esperti dell’agroalimentare o decantato nelle guide gastronomiche italiane, ha assunto negli ultimi dieci anni le dimensioni di una vera e propria “leggenda metropolitana”, buona per fare bella figura quando si parla di prodotti tipici e specialità regionali italiane. Sarà per questo che a qualche intrepido personaggio televisivo in cerca di visibilità deve essere venuto in mente di tentare il colpaccio dello scoop a tutti i costi, facendolo diventare il vessillo di improbabili e sgangherate guerre mediatiche alla criminalità organizzata nei mercati agroalimentari, complice una informazione sciattona e in malafede, portata avanti a suon di luoghi comuni e di parole dette a sproposito. Il Consorzio di Tutela IGP Pomodoro di Pachino ha intentato recentemente una causa legale di risarcimento contro la RAI, per avere diffamato ingiustamente la reputazione di un prodotto che tale ente ha invece il compito istituzionale di proteggere e difendere. Ma su questo argomento avremo modo di parlarne ancora. Il rumore mediatico generatosi attorno al pomodoro di Pachino negli ultimi mesi dovrebbe far riflettere molti nostri conterranei circa le straordinarie potenzialità di cui è dotato il nostro territorio e la nostra economia. Nulla da invidiare al mitologico “nord-est” d’Italia: è in un piccolo paese del siracusano che negli anni Novanta è stato effettuato un vero e proprio miracolo imprenditoriale, del quale solo ora, a decenni di distanza, si riesce a comprenderne bene l’eco e le dimensioni. Un fenomeno che non passò inosservato quindici anni fa circa ai tanti osservatori del comparto ortofrutticolo, italiani e stranieri, che venivano proprio a Pachino a cercare di imparare il segreto per produrre il pomodoro più saporito d’Italia. Il più croccante, il più bello a vedersi, ma anche il più sapientemente confezionato, adagiato com’era da mani esperte in cassette come tanti piccoli gioielli, addobbato in contenitori con nomi e colori ben visibili, che spiccavano nell’oceano di cassette anonime di legno e di ortaggi ammassati alla rinfusa di quel periodo. Una storia di creatività di impresa che una politica agricola nazionale distratta e pasticciona (di destra e di sinistra) è riuscita ad offuscare, complice l’apertura delle porte ai mercati ortofrutticoli esteri ed extracomunitari. Una politica agricola che non ha saputo proteggere e valorizzare le proprie punte di diamante, facendone fare scempio agli imitatori, agli speculatori e ad una logica di mercato impietosa, dove vince il prodotto meno caro, e proprio per questo a volte più scadente. Il Consorzio di Tutela IGP Pomodoro di Pachino oggi riunisce tutte le aziende e gli imprenditori che all’epoca hanno scritto quella bella pagina di storia locale, e oggi sono impegnati sul fronte della tutela istituzionale del proprio prodotto, utilizzando gli strumenti che la normativa europea mette loro a
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disposizione in fatto di valorizzazione delle specialità tipiche legate al territorio di produzione, quale appunto il pomodoro di Pachino è. Da qualche anno il pomodoro di Pachino viene venduto accompagnato da un marchio di Indicazione Geografica Protetta (IGP) rilasciato dal Ministero delle Politiche Agricole. Un distintivo che serve a certificarne l’autenticità e a proteggerlo dagli infiniti tentativi di imitazione sul mercato. Quei piccoli imprenditori agricoli che ieri agivano in modo spontaneo e disordinato oggi hanno deciso di fare fronte comune per dare corpo e voce unica ad un prodotto che ha segnato le sorti dell’economia locale. Pachino si è raccolta attorno al proprio pomodoro nella consapevolezza che quella che è in gioco è la sopravvivenza stessa di un sistema microeconomico che oggi viene minacciato seriamente dalla crisi, dalla concorrenza estera e dai mille ostacoli di carattere burocratico e logistico che sfiancano il meridione italiano. Il Consorzio di Tutela IGP Pomdoro di Pachino, che oggi vede Sebastiano Fortunato Presidente e Salvatore Chiaramida Direttore, è ad oggi uno tra i pochi Consorzi di Tutela italani che è riuscito a consolidare una reputazione e a guadagnarsi la stima delle istituzioni e della politica nazionale. Negli ultimi due anni è riuscito ad avviare una campagna pubblicitaria di dimensioni nazionali (una telepromozione televisiva con Pippo Baudo sulla rete RAI, presenze in fiere di settore nazionali ed internazionali a Cesena, Berlino e Parigi, pubblicità su una quarantina di riviste dedicate al target femminile del gruppo Rizzoli e Mondadori). Ha tessuto le fila di una fitta tela di relazioni pubbliche, dalla Camera di Commercio di Siracusa (recente la partecipazione del Consorzio alal vertenza degli autotrasportatori), delle associazioni di categoria (varato
un protocollo di intesa per garantire maggiore remunerazione ai produttori di pomodoro di Pachino IGP), dell’ente locale (firmata la prima storica convenzione tra l’amministrazione comunale di Pachino e il consorzio, finanziando una campagna per la riqualificazione delle piccole aziende locali), fino a giungere agli studi RAI (presenti in importanti trasmissioni su RAI1, RAI2 e RAI3) e alle redazioni di Milano del gruppo Rizzoli e del Gruppo Mondadori. Ancora una volta quello storico gruppo di imprenditori, oggi riuniti sotto l’ombrello comune del marchio IGP, stanno lanciando un segnale forte al mondo agricolo regionale e nazionale. A seguito della polemica RAI accennata in apertura, si sono precipitati a Pachino nientemeno che il Ministro dell’Agricoltura Gancarlo Galan e il Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, per prendere le difese e stigmatizzare pubblicamente la campagna di disinformazione che la televisione di stato stava compiendo ai danni di un prodotto la cui provenienza e qualità vengono certificati da precisi protocolli di lavorazione, garantiti da appositi enti certificatori. La sfida alle minacce del mercato globale è ancora in corso, e Pachino ha deciso di giocare le proprie carte fino in fondo. È una sfida giocata spesso in solitudine, senza grandi aiuti finanziari e con una sostanziale disattenzione della politica regionale e nazionale, che davvero poco ha fatto in questi decenni per agevolare questi imprenditori nel loro faticosissimo lavoro di affermazione sui mercati europei. Ma merita tutta la nostra simpatia e attenzione, perché ci racconta di una Sicilia intenzionata ad alzare la testa, consapevole delle proprie risorse umane e naturali. Foto tratte dall'archivo dello Studio di Comunicazione e Marketing di Paolo Meli
Foto Giancarlo Tribuni Silvestri
L’isola dei Sapori di Elisa Rizza Moncada
Ricordo di casa Moncada atmosfera del giorno di Pasqua si percepiva già dalle prime ore del mattino. I suoni dall’esterno della casa erano più rari rispetto agli altri giorni, si sentivano solo rumori di passi svelti che presto svanivano in lontananza, poche auto, tutta la città sembrava assorbita dai preparativi della festa. Anche in casa i suoni erano differenti, erano più agitati, convulsi: bisbigli, un parlare fitto fitto, qualche brontolio che veniva, non si sa se dalla pentola o da mia nonna che sovraintendeva con piglio severo le faccende di cottura, preparazione, assemblaggio delle pietanze del sontuoso pranzo di Pasqua. Alle dieci in punto sentivamo i suoi passi, era il momento in cui la nonna apriva la porta della nostra camera e portava con sé l’odore di “cose buone” che avremmo mangiato di lì a poco: l’agnello, ricco ripieno delle ’mpanate, la ricotta, lavorata con il miele di zagara e la cannella, ripieno delle cassatelle. Mentre le campane della chiesa, ahinoi troppo vicina, suonavano i rintocchi dell’ora, la nonna da un cestino rivestito di stoffa ricamata tirava fuori i pupi cu’l’ova, ognuno avvolto nel suo tovagliolo di mussolina bianco. Questi pani, con un uovo sodo dentro, raffiguravano un ometto, una donnina o una colomba (palummedda), la mia preferita. Quando diventammo più grandi lei continuò a prepararli. Ce li faceva trovare come segnaposto sulla candida tavola, rigorosamente apparecchiata, e che accoglieva al centro, disteso per lungo, un ramo di calicanto. Sul mobile buffet svettavano le alzate con i loro coperchi di cristallo: da una parte quelle contenenti il cibo salato pastieri, focaccine e arancinetti - e dall’altra quelle contenenti il cibo dolce - cassatelle, biscotti di
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mandorle, piccole uova di cioccolato; nel mezzo trionfavano i piatti di portata con le ’mpanate di agnello già tagliate a quarti accompagnate dalle verdure novelle: carciofi, zucchine, cipollotto, piselli, fave, carote. Oggi continuo a preparare i pupi cu’ l’ova ma belli come i suoi non sono mai riuscita a farli, li utilizzo anch’io come segnaposto. La nonna diceva che non era Pasqua se non c’era l’uovo e in effetti, senza saperlo, credendo nella tradizione, confermava nell’uovo il simbolo vitale, di rinascita, di vita nuova, riconosciuto in tutti continenti e nelle tradizioni più antiche in quanto, prima della Pasqua cristiana, era utilizzato per festeggiare l’arrivo della Primavera.
Pupi cu’ l’ova Ingredienti: • 500 gr di farina di semola • 15 gr di lievito di birra fresco • Acqua q.b. • 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva • Sale • 4 uova Sciogliere il lievito in un po’ d’acqua tiepida. In una ciotola mettere la farina e aggiungere il lievito cominciando a impastare. Aggiungere acqua sufficiente per avere un impasto sodo ma non troppo. Sciogliere il sale in un po’ d’acqua, aggiungere all’impasto e, continuando a impastare, unire i due cucchiai d’olio, lavorare ancora un po’. Coprire la ciotola con un canovaccio e lasciare lievitare per circa 2 ore. Prendere l’impasto, sgonfiarlo un po’ e dividere in 4 parti. Stendere ogni pezzo a uno spessore di circa 1cm e cercare di dare la forma che più piace. Al centro introdurre l’uovo avendo l’accortezza di fissarlo con 2 pezzi di pasta messi a croce. Lasciare riposare ancora un’oretta e, una volta spennellati con un po’ d’olio, infornare a 200°C per circa 20 minuti (dipende dal forno). Varianti: nell’impasto si possono aggiungere del formaggio a pezzi e della salsiccia o del pomodoro secco tritato, origano, basilico e maggiorana.
Con questo viaggio tra i ricordi, dal passato al presente, vi auguro Buona Pasqua!
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natur a mica
Rubrica a cura del dottor Corrado Cataldi, farma cista titolare dell’omonima farmacia www.farmaciacataldi.com
Ribes Nigrum e... le allergie stagionali
rascorso il periodo T freddo, ci troviamo ad accogliere le tem-
perature miti del tempo primaverile, a svestire quanto ci risulta troppo ingombrante e caldo e a far posto a ciò che sa di fresco e di leggero. Le giornate, ora più lunghe, sembrano portarsi via tutti i fastidi invernali. Ora, sembra che nulla possa sostituire le seccanti patologie legate al freddo e alle umide giornate d’inverno. Ma… come sempre, vi è un “ma”, dispettoso ed insolente. È ormai risaputo e noto a tutti che la primavera porta con sé temperature più miti, coloratissime fioriture ma anche fastidiosi disturbi come le allergie da polline, quali rinite, dermatite, prurito al palato e agli occhi, orticaria, etc... Patologie allergiche stagionali e in costante aumento, grazie anche al progressivo peggioramento della qualità dell’aria nelle nostre città. Terapie antistaminiche e cortisoniche sembrano essere la soluzione più rapida ed efficace da un punto vista “allopatico” ma, volgendo il nostro sguardo verso soluzioni fitoterapiche, troviamo il “naturale” Ribes Nigrum, in soluzione idrogliceroalcolica o “macerato glicerico”, che grazie ai suoi principi attivi, contenute nelle sue gemme, và a stimolare la corteccia surrenalica che è pronta a rilasciare sostanze ad azione spiccatamente antinfiammatoria e antiallergica, comportandosi quasi come un cortisone naturale (effetto cortisonlike), senza dare però gli stessi problemi di tossicità. È infatti provato sperimentalmente che il Ribes aumenti il tasso di corticosteroidi endogeni, svolgenti un ruolo importante nella risposta ai processi infiammatori di qualsiasi origine, sia essa meccanica, immunologica o infettiva; inoltre esso riduce la produzione di IgE (immunoglobuline E), coinvolte nella risposta allergica, e modula la risposta immunitaria attraverso l’azione sui granulociti eosinofili e frenando copiosamente il rilascio di Istamina da parte dei mastociti. Si consiglia la posologia del macerato glicerico 1DH, in fase acuta, di circa 80-100 gocce nell’arco della giornata, di solito suddivise in due somministrazioni da 40-50 gocce ciascuna, una al mattino ed una nel primo pomeriggio; è consigliabile evitare la somministrazione serale in quanto, in soggetti predisposti, può dare origine, per la sua azione tonica a lievi problemi di insonnia iniziale (difficoltà di addormentamento). Nel trattamento delle patologie allergiche potrebbe risultare utile l’impiego in associazione di un altro macerato glicerico, quello di Tilia Tomentosa, ansiolitico naturale di cui abbiamo parlato diffusamente in un altro articolo. La Tilia, infatti, può essere d’aiuto nel contrastare la componente ansiosa, spesso presente in questo tipo di disturbi. E... godiamoci la primavera!!!