Mentre la società… perde valori Inside Sicilia… conquista nuovi lettori rima del titolo non è voluta, è solo casuale. L’importante è invece l’essenza del nostro vivere quotidiano, ormai sotto gli occhi di tutti. La società italiana, siciliana, provinciale sta perdendo larghe fette del suo involucro tradizionale e sociale. Si stanno staccando, forse irrimediabilmente, tanti valori che per secoli ne hanno rappresentato l’essenza caratteristica. E oggi, dagli anni Ottanta in poi, quasi tutto appare sbiadito, opaco, senza radici forti: rispetto reciproco, educazione familiare, coesione sociale, matrimonio, amicizia, rapporti interpersonali, tendenza al risparmio, cultura della vita. Con annessi e connessi. Alcuni di questi valori, forse, sono del tutto perduti, soppiantati da altri più aderenti alle nuove esigenze dell’attuale “sentire”, come interessi, arrivismo, invidie, politica vuota e non lungimirante, superficialità sociale, consumismo, culto del “business”, disprezzo per l’ambiente, assenza di cultura. “Questa è la vita!”, commenterebbe qualcuno. Ma bisogna andare avanti. Come la nostra rivista. “Inside Sicilia” in controtendenza con l’attuale società e ad appena un anno e mezzo dal suo primo vagito, si rende sempre più leggibile, più interessante come forma e come contenuti. Non siamo noi a dirlo, ma i lettori che chiedono un suo potenziamento perché hanno “scoperto” la sua validità culturale e sociale. Con tanta modestia, diciamo che siamo consapevoli di svelare le tante facce nascoste del nostro territorio e dei nostri gioielli siciliani per farli conoscere ed apprezzare ad un pubblico di lettori sempre più assetato di verità positive, di eleganza, di stile, di quei valori eterni di vita, cioè, che non si possono mai offuscare o perdere. Ed ecco dove ci siamo tuffati: • Feste e tradizioni Caltagirone, ‘U pisci a mari, Palazzolo, S. Agata, Opera dei pupi, Il palio di Acate, Il mandorlo in fiore, la Pasqua in Sicilia, Il Natale nella Cappella Palatina, Le tradizioni natalizie delle 4 province del Sud Est (Ragusa, Siracusa, Catania e Messina).
EDITORIALE
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• I Castelli Donnafugata, Nelson, Acate, Castelmola, Noto, Maniace, Mussomeli, Naro. • Le città scomparse Occhiolà (Grammichele), Macalube (Agrigento), Alesa (Messina), Caucana (Ragusa), Montallegro (Agrigento), Noto Antica. Ma oltre alle curiosità come il Castagno dei 100 cavalli e la mappa del Birdwatching, ci siamo interessati di musei, mostre, eventi, biblioteche storiche. Abbiamo squarciato il velo di tanti personaggi siciliani davvero unici, come Mariannina Coffa, Quasimodo, la Baronessa di Carini, Orazio Nelson, Donna Franca Florio, Maria Paternò Arezzo, I Beati Paoli, Cagliostro, Giorgio La Pira, Elio Vittorini, Alessandrina Starrabba di Rudinì, Peppa ‘a cannunèra, non tralasciando misteri ancora affascinanti, come L’uomo-cane di Mazara, I Dolmen di Sicilia, Le mummie di Comiso, il Fantasma del Teatro Massimo di Palermo o l’Isola Ferdinandea. Sfogliando i dieci numeri di Inside Sicilia abbiamo parlato di natura, fiori, piante, olive, carrube, salute, joga, tatuaggi, fitness, computer e inchieste che hanno interessato i più giovani, proiettando la rivista nella realtà contemporanea. Ma i punti coinvolgenti e veramente forti, a detta dei lettori, sono stati quelli che presentano il territorio siciliano, i paesaggi, gli itinerari, la storia: le Isole Eolie, Eloro, numero Tellaro, Vendicari, La scala dei turchi, le Gole dell’Alcantara, Marzamemi, l’Aeroporto di Comiso, Il monastero dei Benedettini, la Costa barocca iblea, La riviera dei ciclopi, il Ponte dei saraceni, le Cave d’Ispica e del Cassibile, Ragusa Ibla, gli Acquedotti iblei, i Mulini ad acqua,… In pratica la nostra essenza, la nostra cultura e tutto ciò che di buono vi sta dentro. Credeteci, cari lettori, vi è tanto di eccellenze, prospettive imprenditoriali e produttive, realtà sociali positive da lasciare tutti col desiderio di sapere, conoscere, scoprire, sognare ancora. Ecco. Noi vogliamo darvi tutto questo. Vi regaliamo la nostra rivista per invitarvi a sognare ancora. Ma con gli occhi aperti! Giuseppe Aloisio
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78 N. 10 - FEBBRAIO - MARZO 2011 Tribunale di Siracusa 20/07/2009 Registro della Stampa n. 13/09 Editore - Pegaso & C. sas Siracusa - Tel. 0931 35068 www.insidesicilia.com info@insidesicilia.com
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Testi
Maria Ala, Giuseppe Aloisio, Salvatore Brancati, Corrado Cataldi, Sergio Cilea, Vera Corso, Giovanni Criscione, Giuseppe Firrincieli, Giuseppe Nuccio Iacono, Gianni Morando, Alice Pepi, Giovanni Portelli, Alessandra Romano, Giancarlo Tribuni Silvestri.
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Foto di copertina: Duomo di Siracusa di Vincenzo Di Nuzzo
Stampa Tipolitografia Priulla srl - Palermo
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L’Editore si dichiara disponibile a regolare gli eventuali diritti di pubblicazione per le immagini di cui non è stato possibile reperire la fonte.
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STORIA E TRADIZIONI A Caltagirone una Pasqua nel segno delle tradizioni Acireale, il più bel Carnevale di Sicilia
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ATTUALITÀ Il futuro del turismo è Travelnostop A Ragusa Ibla un vecchio mulino ad acqua al servizio della tutela e dei ripopolamenti di trota macrostigma L’archivio di Taormina Al Castello Ursino tutti in estasi per i “Ritratti dell’anima” La Sicilia si “arricchisce” dei propri siti storico-archeologici
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CURIOSITÀ Oltre lo sguardo di Trinacria Giovanna Bonanno: la strega avvelenatrice di Palermo Padroni e schiavi Il cimitero eterodosso del cavaliere Saverio Landolina Nava Il latino: morto che parla Vincenzo Bellini: un uomo fuori “norma”
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IL PERSONAGGIO Federico Borrometi: il genio dimenticato Il modicano Tommaso Campailla, cartesiano, filosofo, teologo, poeta, medico e ricercatore sommo Francesco Patania, in musica cantò la sua “Sicilia”
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ITINERARI Il giardino della Kolymbetra Città del Mendolito Ispica, passeggiata in una città d’arte Acate: cittadina del ragusano dove si vive bene
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SPECIALE Unesco: Siracusa e la necropoli rupestre di Pantalica Sperlinga: la fortezza che sfidò la storia
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CITTÀ SCOMPARSE Poggioreale - La suggestione di una storia interrotta
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NATURAMICA Melato di licheni
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CASA E DINTORNI Camelia: la rosa del Giappone
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IL GIARDINO DELLA KOLYMBETRA: un esempio di tutela, valorizzazione e fruizione di un paesaggio culturale Sei ettari l'antico giardino di agrumi della Valle dei Templi
di Maria Ala - responsabile servizi educativi nel Giardino della Kolymbetra -
Giardino della Kolymbetra è coltivato all’estremità occidentale della collina dei Templi di Agrigento, in una piccola valle incisa tra alte pareti di calcarenite tra il Tempio dei Dioscuri e il tempio di Vulcano, nel sito identificato con quello della piscina greca (κολυµβήθρα = piscina, bagno, cisterna, peschiera) di cui scrive Diodoro Siculo nel I sec. d.C. Il tiranno Terone vi fece realizzare dagli schiavi cartaginesi presi come bottino di guerra in seguito alla battaglia di Himera (480 a.C.), una “sontuosa piscina popolata da pesci per l’alimentazione e per il gusto e da cigni”. In seguito non più utilizzata come piscina, una volta interrata divenne, per l’abbondanza delle acque e la fertilità del suolo, un orto e un frutteto tra i più fertili della Valle dei Templi. Quando all’orto ed alle piante da frutto si aggiunsero gli agrumi, prese la denominazione di “giardino”, così come si usa chiamare in Sicilia gli agrumeti tradizionali per sottolinearne l’utilità e la bellezza che essi racchiudono. Il senso di benessere fondato sul piacere estetico e sensoriale che deriva dalla forma degli alberi, dal colore e dal sapore dei frutti, dall’appariscente e profumata fioritura della zàgara, dall’ombra e dalla frescura assicurata dalla chioma sempreverde degli agrumi, è ricordato nelle pagine dei diari dei viaggiatori del Grand Tour e in tanti altri racconti e immagini pittoriche. L’abate di Saint Non, nel 1785, rimane affascinato dal giardino coltivato nella “piccola valle che, per la sua sorprendente fertilità, somiglia alla valle dell’Eden, o a un angolo della terra promessa”. Del senso di benessere regalato dal giardino scrive anche Gaston Vuillier, nel 1896: “Gli antichi templi mostrano le loro colonne attraverso gli alberi di arancio e al di là si scopre il mare infinito. Vi sono rimasto a lungo, debole per il caldo, con lo sguardo perso tra le foglie che tremano e luccicano ai soffi irregolari della brezza marina e il mio pensiero errante ha preso a risalire il corso degli anni... Nessun rumore turbava quella solitudine”. A esprimere il fascino del luogo impareggiabile è però Pirandello che ne “I vecchi e i giovani” da della Kolymbetra una descrizione prevalentemente morfologica “nel punto più basso del pianoro, dove tre vallette si uniscono e le rocce si dividono e la linea dell’aspro ciglione cui sorgono i Templi è interrotta da una larga apertura” per riprendere le suggestioni del suo paesaggio scrivendo della tenuta di Valsanìa che “restava di qua, scendeva con gli ultimi ulivi in quel burrone, gola d’ombra cinerulea, nel cui fondo sornuotano i gelsi, i carrubi, gli aranci, i limoni lieti d’un rivo d’acqua che vi scorre da una vena aperta laggiù infondo, nella grotta misteriosa di San Calogero”. Dagli anni ‘80 non più coltivato, il giardino rischiava di scomparire e con esso, una cultura materiale, un paesaggio e un’antica biodiversità, ogni giorno sempre più minacciati. Finché nel 1998 il FAI firma una convenzione con la Regione Sicilia, che concede l’area per 25 anni in cambio dell’intervento di recupero ambientale e paesaggistico del “giardino”. Portato a termine il progetto la Kolymbetra è stata aperta al pubblico nel 2001 con l’obiettivo di restituire ai visitatori un paesaggio agrario e culturale di inestimabile valore. L’abbandono nascondeva, tra innumerevoli rifiuti di varia natura, una lunga storia produttiva fondata sulla fertilità del suolo alluvionale, sull’abbondanza delle acque e su un microclima che le pareti di calcarenite assicurano mite per l’intero anno. La macchia mediterranea si presentava con esemplari di mirto e terebinto di dimensioni eccezionali, mentre il degrado nascondeva, fino a soffocare, ciò che restava di un antico giardino di agrumi e nelle zone non irrigue, l’arboreto asciutto del mandorlo e dell’olivo. L’intervento di recupero, considerato il giardino come parte di un
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Grande ulivo monumentale - foto di Antonietta Abissi
Vista dall’alto del giardino della Kolymbetra
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Zagara - foto di Maria Ala Le alte bancate di calcarenite che proteggono il Giardino
Fiore di melo cotogno - foto di Antonietta Abissi
Fiori di mirto - foto di Antonietta Abissi
paesaggio agrario storico, è stato volto a conservare l’uso del suolo, le specie, le antiche varietà, le tecniche dell’agricoltura tradizionale, la macchia mediterranea e la vegetazione che segue il corso del fiume, per poi offrirlo alla visita di chi è attento alla storia ed alla natura del paesaggio mediterraneo. Oggi la Kolymbetra riassume in sei ettari il paesaggio agrario e naturale della Valle dei Templi. Nelle zone più scoscese, le piante della macchia mediterranea, al di là del piccolo fiume alimentato dalle gallerie drenanti ancora perfettamente funzionanti, uno degli ultimi “giardini” siciliani con limoni, mandarini e aranci rappresentati da antiche varietà e irrigato secondo le tecniche improntate sul risparmio della risorsa idrica ereditate dalla civiltà islamica: dalla gebbia, vasca di accumulo, l’acqua passa nei cunnutti, condotti in terra realizzati con un sapiente lavoro di zappa e da questi nelle casedde, conche realizzate attorno a ogni singola pianta e tra i vattali, arginelli di terra che aumentano l’efficienza d’irrigazione. Dove l’acqua non arriva, gelsi, carrubi, fichidindia, mandorli e giganteschi olivi “saraceni”. Nonostante il gruppo più rappresentato, tra le specie coltivate, sia quello degli agrumi, numerose altre specie da frutto sono presenti a testimoniare un’elevata biodiversità specifica: azzeruolo, banano, carrubo, cotogno, fico, ficodindia, gelso bianco, gelso nero, kaki, melograno, nespolo del Giappone, nespolo d’inverno, pistacchio, sorbo. In generale ogni specie è rappresentata da antiche varietà in gran parte non più in coltura nei sistemi frutticoli moderni. L’arancio Sanguigno, il Sanguigno doppio, il Sanguinello moscato, l’Ovale, il Belladonna, il Brasiliano, il Vaniglia apireno e il Vaniglia Sanguigno e ancora il limone Femminello comune e il mandarino Avana, individuati all’interno di Kolymbetra e rappresentati da alberi centenari, testimoniano una antica ricchezza genetica che ha rischiato di scomparire per decenni di abbandono e incuria.
Fiore di cappero - foto di Antonietta Abissi
Fiori di sorbo domestico - foto di Maria Ala
Fiori di melograno - foto di Maria Ala
Il giardino visto dall'interno dell'ipogeo - foto di Maria Ala Il giardino della Kolymbetra e il tempio dei Dioscuri sullo sfondo - foto di Maria Ala
Nei sistemi agrumicoli dell’Isola, queste varietà, insieme purtroppo a tante altre, non essendosi adeguate alle dominanti necessità del mercato globale e ormai superate a seguito di un sempre più dinamico aggiornamento varietale, sono rinvenibili solo come piante sparse in aree di vecchia agrumicoltura o in giardini amatoriali o in collezioni tenute presso istituzioni pubbliche. Ai quasi 30.000 visitatori l’anno della Kolymbetra, soprattutto studenti per i quali sono stati creati diversi percorsi didattici, si potrà allora meglio spiegare l’importanza della salvaguardia e della tutela della biodiversità del giardino che lo pone in antitesi con i moderni impianti da frutto monoculturali intensivi, magari più produttivi ed efficienti, ma privi di tutti quegli odori, sapori, colori e forme che solo i paesaggi dell’agricoltura tradizionale riescono a conservare, perché depositari di biodiversità, di antichi saperi, di valori produttivi, ambientali e culturali e di una cultura materiale in via di scomparsa. La Kolymbetra è un esempio di salvaguardia attiva di un paesaggio agrario tradizionale, riconoscendone il carattere della multifunzionalità, includendo in essa non solo le funzioni produttive, ma anche quelle ambientali, culturali, etiche ed estetiche. Alla Kolymbetra va riconosciuto, non in ultimo, il valore delle bellezza; una
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Il sistema irriguo tradizionale con i termini dialettali
bellezza legata al fascino che deriva dal fenomeno della rifiorenza, per cui meravigliosi frutti e profumatissimi fiori si susseguono ininterrottamente nel corso delle stagioni, regalando un inesprimibile senso di benessere. Jünger, in un viaggio siciliano del 1929, passeggia “in un giardino, un folto boschetto di limoni” e sperimenta “quella sensazione che ci afferra quando vediamo crescere e maturare quella frutta esotica che conosciamo fin da bambini. C’è in questo il presagio dei giardini del paradiso”.
Aranci in frutto e gli ipogei sullo sfondo
Il futuro del turismo è Travelnostop ltre 500 operatori turistici hanno preso parte alla II edizione di Travelexpoin, Salone dell’offerta turistica siciliana d’eccellenza. In quest’edizione grande interesse è stato manifestato per “La bozza per il progetto per uno sviluppo turistico possibile”, elaborata da Toti Piscopo. Il documento indica proposte e progetti per rilanciare il comparto siciliano a breve termine; il restyling del pacchetto turistico tradizionale è un esempio di quelle attività che richiedono un investimento economico nullo ma notevole sul piano della professionalità e della sinergia tra i soggetti coinvolti. Non si tratta di vendere trasporti e pernottamenti, ma di assemblare un’esperienza di viaggio a 360° gradi, secondo un programma predisposto da agenti di viaggio e tour operator che valorizzi le iniziative calendarizzate da Comuni, Province e Regione. Creatività, motivazione ed emozioni i fattori chiave su cui insistere insieme ad un’oculata politica tariffaria che non si traduca in un indiscriminato ribasso delle tariffe, come avviene sul web. Esiste un esempio vincente: le compagnie di crociera usano il web come vetrina, ma vendono esclusivamente tramite agenzia, perché vendere un viaggio significa vendere un set di emozioni e la presenza sul territorio non sostituisce altre forme di promozione ma ne moltiplica l’efficacia. Il documento punta l’attenzione anche sul turismo come settore economico trasversale. I problemi del segmento non possono essere risolti solo dall’assessore al ramo, ma dal governo nella sua interezza. La soddisfazione del turista si fonda sui medesimi servizi e sulla stessa qualità del territorio che sono alla base della soddisfazione del cittadino che quel territorio vive. E poi un Osservatorio turistico regionale che crei maggiori occasioni di partnership pubblico-privato e calcoli previsioni attendibili per il futuro, l’organizzazione dei siti di rilievo turistico, la card turistica regionale, la promozione di prodotti tipici in alberghi e agenzie, percorsi per dializzati e turismo accessibile. “Questo documento - conclude Piscopo - vuol essere un atto di fiducia e una verifica nei confronti della classe imprenditoriale e politica di questa terra, che manifestano la volontà di concorrere alla gestione produttiva della cosa pubblica”.
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Turismo culturale, nuove tecnologie e valorizzazione dei territori a bassa competitività turistica le linee guida a cui si sono ispirati i protagonisti de La Vetrina dei Progetti, il concorso di idee dedicato ai giovani tra i 18 e i 35 anni. Sette le idee arrivate in finale. Giuliana Narbone con “CreativityLoop - Il riscatto del bene confiscato alla mafia ed il programma di residenza per artisti”, che riguarda un immobile confiscato alla mafia a Ciaculli da destinare all’accoglienza di artisti; Giuseppe Italiano, Giuseppe Cuffaro, Marcello Calogero Blanda, Salvatore Riela, Salvuccio Cavallo, Sebastiano Muratore, Maria Stella Piccione, Alessia Cacace, Salvatore Luca Longo, Pietro Bellone, Dario Cusimano, Alfonso Riccio, Danilo Scannella, Alessia Virzì, Teresa Arena, Sabina Lo Forte presentano “La valle del Platani: percorsi di eccellenza per la rivalutazione d ei territori a bassa competitività turistica” che punta all’utilizzo di tecnologie Gis per la promozione di percorsi d’eccellenza; Laura Bertuglia con l’idea del centro multifunzionale “Origine - Spazio d’arte cultura e turismo” che mira al coinvolgimento plurisensoriale e interattivo del cliente attraverso l’uso delle nuove tecnologie; Giuseppe Pisasale e Loredana Amenta con “Beni minori, periferie, persone e nuove tecnologie a basso costo per il rilancio del territorio” guardano all’utilizzo di dispositivi o software da scaricare su cellulare o notebook per interagire con le diverse realtà del territorio; Gabriele Mulè e Alessia Aliffi presentano l’idea di una fondazione, “Muma: il passato è rosa”, in grado di gestire la rete museale di Mazara del Vallo; Daniela Sirna, Alessia Merlino, Valentina Mancuso, Federica Bombaci, Monia Geraci con l’itinerario “Passatum Sicanae: Leggendaria Sicilia”, che ripercorre le denominazioni susseguitesi in Sicilia attraverso una storia del gusto e della cultura, sullo sfondo di antiche leggende; Loredana Valoroso con “Ri-misurare il paesaggio”.
Città del Mendolito I forestieri entrando dalla Porta urbica trovavano una iscrizione in lingua non greca, graffita da destra a sinistra. La “scriptio continua” è l’unica epigrafe in lingua sicula di carattere pubblico finora nota
contrada Mendolito, alle pendici sud-occidentali dell’Etna e ad 8 km dall’odierna città di Adrano, in età storica nasce uno dei più importanti centri siculi della Sicilia. L’insediamento si sviluppa su un terrazzo basaltico presso la riva orientale del Simeto, su una superficie di circa ottanta ettari. Le eccellenti possibilità di approvvigionamento idrico e la fertilità dei suoli vulcanici giustificano la scelta e l’occupazione del sito nell’antichità. La sua grande estensione sembrerebbe deporre a favore di una occupazione territoriale di tipo paganico (dal termine latino pagus: “villaggio”), cioè per gruppi sparsi di case tra i quali sono da immaginare ampi spazi di terreno utilizzati dalla comunità indigena per scopi legati alla sussistenza, destinati al pascolo e alla coltivazione. L’insediamento indigeno è stato da alcuni identificato con la città di Piakos, in base al rinvenimento di alcune rare monete; l’ipotesi tuttavia, benchè suggestiva, necessita di conferme ed approfondimenti.
In
Porta sud Mendolito
La cinta muraria Intorno agli anni Sessanta del secolo scorso la Soprintendenza di Siracusa esplorò un tratto meridionale della fortificazione. L’imponente muro di difesa risultò costruito con pietre laviche di grosse dimensioni non lavorate e presentava due paramenti con riempimento interno a sacco costituito da pietrame più minuto. La fortificazione doveva circondare la città sui lati Nord, Sud ed Est, lasciando sguarnito il lato occidentale, difeso naturalmente da alte pareti rocciose. Durante gli scavi si rinvenne la porta urbica meridionale fiancheggiata da due torri con pianta a ferro di cavallo databile alla seconda metà del VI sec. a.C. Il ritrovamento nel vano della porta, compreso tra le due torri, di uno strato di tegole di copertura cadute fa ipotizzare la presenza di una sorta di tettoia al di sopra dell’apertura tra i due bastioni. Nello stipite orientale della porta era inserito il famoso blocco in arenaria, oggi conservato presso il Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi” di Siracusa, recante un’importante iscrizione in lingua anellenica (non greca). Si tratta di una scriptio continua graffita da destra a sinistra sulla faccia esterna del blocco. La lettura ed il significato dell’iscrizione sono stati ripetutamente tentati e diversamente interpretati, ma con risultati ad oggi scarsamente convincenti. Pur non essendo sicura l’interpretazione dell’iscrizione è chiaro che essa, rivolta a coloro che giungevano alla città del Mendolito entrando dalla porta urbica meridionale, dovesse avere carattere autocelebrativo per la comunità indigena. L’epigrafe, è inoltre l’unica iscrizione in lingua sicula di carattere pubblico finora nota (se ne conoscono altre, sia nello stesso territorio di Adrano sia in centri della Sicilia orientale e centrale, ma sempre solo di carattere privato e funerario).
Le case e gli edifici pubblici Resti di abitazioni, databili tra il VI ed il V sec. a.C., furono scoperti dalla Soprintendenza di Siracusa nell’ambito delle campagne di scavo del 1962-1963. Altri dati si possono desumere dagli scavi condotti dalla Soprintendenza di Catania nel 1988-1989, durante i quali si sono messe in luce nuove porzioni di abitato. In un caso è stato individuato un grande edificio allungato a pianta rettangolare, disposto in senso Nord-Sud e diviso in quattro ambienti di diversa estensione, separati da tre muri divisori interni. I muri erano realizzati completamente a secco con impiego di pietre laviche di diverse dimensioni. L’edificio doveva essere coperto da un tetto rivestito da tegole di terracotta. L’adozione della pianta rettilinea e l’utilizzo di un tipo di copertura stabile dimostrano l’acquisizione in età arcaica, da parte di questo e di altri centri indigeni
Edificio scavo Mendolito - 1989
della Sicilia, di tecniche edilizie di tipo greco, più idonee a garantire l’isolamento delle abitazioni dagli agenti atmosferici esterni. Prima dell’arrivo dei Greci, infatti, le popolazioni indigene erano solite abitare in capanne a pianta ovale o circolare, provviste di coperture fatte in materiale deperibile (paglia e fango). Quasi nulla purtroppo si conosce degli edifici di culto e di carattere pubblico, nonostante al Museo siano esposti alcuni importanti elementi architettonici in pietra lavica. Si tratta di tre capitelli, di cui uno ispirato allo stile dorico e due a quello ionico, e di alcune porzioni di colonne a sezione ottagonale. Inoltre da ritrovamenti di superficie sono noti vari tipi di antefisse. Le più numerose sono quelle a testa femminile, ma non mancano esemplari a protome leonina e gorgonica. Sulla localizzazione di questi edifici all’interno dell’insediamento poco si può affermare, anche se Paola Pelagatti riferisce di avere Antefisse a testa femminile rinvenuto nello scavo del 1962
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alcuni dei resti architettonici sopra menzionati nell’“interno della porta”. Tale indicazione permetterebbe di ipotizzare la presenza di qualche edificio di culto o di carattere pubblico nel settore meridionale della città antica all’interno della cinta muraria, in prossimità della porta urbica.
Le necropoli e i corredi funebri A sud della città del Mendolito, in località Sciare Manganelli, si conservano i resti di alcune tombe con una struttura a pianta circolare o ovale interpretate come "tholoi" da Paolo Orsi che, dopo averle viste e disegnate, ne propose un elevato in pietre laviche non lavorate disposte in filari concentrici, gradualmente sporgenti l’uno sull’altro, in modo da formare un’elementare pseudocupola. Paola Pelagatti condusse nella medesima area una campagna di scavo negli anni 1962-1963. Durante tali ricerche furono individuate 15 tombe simili a quelle viste da Orsi, costituite da un unico ambiente di forma circolare o ovale al quale si accedeva attraverso un breve dromos (corridoio). Le tombe erano costruite direttamente sul banco lavico e risultavano destinate ad accogliere più individui appartenenti quasi certamente alla stessa famiglia. Per tale motivo gli oggetti rinvenuti al loro interno appartenevano a diversi corredi, composti da ceramiche di produzione locale dello stile di Licodia Eubea, associate con esemplari di importazione greca, numerosi oggetti di bronzo ed alcuni scarabei pseudo-egizi in faïence. I materiali permettono di affermare che la necropoli era in uso tra la seconda metà del VII ed il V sec. a.C. Importante è il rinvenimento dei materiali egittizzanti perché testimonia una certa vivacità del centro coinvolto in scambi commerciali con il mondo orientale. Resta aperto il problema delle origini di queste tombe, la cui forma a tholos, spesso collegata a modelli funerari egeo-micenei, è stata recentemente messa in dubbio per la mancanza di dati certi sull'elevato, conservatosi solo nei filari più bassi. Le cosiddette tombe a tholos non sono gli unici tipi di sepolture presenti al Mendolito. In proprietà Stissi è stata rinvenuta una deposizione alla “cappuccina” di tipo greco della prima metà del V sec. a.C. Al VII sec. a.C. sono invece da assegnare alcune sepolture di bambini molto piccoli rinvenuti all’interno di contenitori di terracotta, deposti al di sotto dei pavimenti delle abitazioni. L’usanza di seppellire neonati nell’abitato e non nella necropoli potrebbe indicare che in questo centro indigeno l'infante fosse ritenuto privo di individualità sociale e giuridica. Per tale motivo la sua morte riguardava solo la famiglia e non l’intera comunità.
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IL TEATRO BELLINI DI ADRANO Il “Teatro di Adernò” venne costruito nel lontano 1779 per volere del Viceré che ordinò di erigerlo su una struttura preesistente. Esso sarebbe stato costruito a somiglianza del famoso Teatro di Parma, eretto nel 1618. Negli anni il “Teatro Bellini” di Adrano ha rappresentato una sorta di prolungamento ideale del “cugino” catanese. Le compagnie di canto che esordivano al Bellini di Catania si spostavano ad Adrano per le repliche degli spettacoli.
Per l'inaugurazione del 1846, Giuseppe Rapisardi – uno degli artisti catanesi più rappresentativi del periodo – dipinse il sipario che raffigura il democratico Timoleonte nell'atto di recarsi al tempio per rendere omaggio al dio Adranos. La facciata del Teatro, in stile Liberty, è stata realizzata tra il 1909 e il 1914 dal palermitano Gaspare Silvestri Amari, ammiratore e seguace di Ernesto Basile, riferimento artistico in Italia dell'Art Nouveau. Il bel gruppo allegorico, raffigurante la Tragedia, la Musica e la Commedia, fu eseguito dallo scultore catanese Giulio Moschetti cui si deve, tra l'altro, la grandiosa e scenografica fontana di piazza Giovanni XXIII a Catania. Nel 1961, all'interno del Teatro Bellini di Adrano il regista Pietro Germi vi girò alcune scene del film “Divorzio all’Italiana” con Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli, premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale. Rimasto chiuso per quasi 25 anni, il Teatro Bellini è stato riaperto al pubblico il 13 dicembre del 2004, dopo una lunga e laboriosa opera di restauro curata dall’architetto Nino Giuttari. A tenere a battesimo il ‘nuovo’ Teatro Bellini è stato l’allora presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini. La sala del teatro è stata intitolata al grande attore siciliano Turi Ferro.
di Giuseppe Nuccio Iacono ella Conferenza Generale dell’UNESCO del 1972 fu adottata la Convenzione internazionale per la protezione del patrimonio mondiale (The World Heritage Convention). Si sanciva così l’inalienabilità della cultura e della natura, intesi come elementi necessari per lo sviluppo della società di tutto il pianeta. Espressione concreta di questa Convenzione è l’istituzione di una lista dei siti che per il loro eccezionale valore culturale e naturale costituiscono un patrimonio universale (WHL- World Heritage List). I siti considerati Patrimonio Mondiale (al di là dei territori in cui sono collocati) appartengono quindi a tutte le popolazioni e costituiscono l’eredità del passato da tutelare e trasmettere alle future generazioni. Attualmente la Lista Unesco include 890 siti (relativi a 148 paesi) comprendendo 689 beni culturali, 176 naturali e 25 misti. Per patrimonio culturale si intende un monumento, un gruppo di edifici o un sito di valore storico, estetico, archeologico, scientifico, etnologico o antropologico. Il patrimonio naturale, invece, indica dei beni dalle rilevanti caratteristiche fisiche, biologiche e geologiche, nonché l’habitat di specie animali e vegetali in pericolo e aree di particolare valore scientifico ed estetico. Dal 2003, con la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale” l’Unesco pone l’attenzione anche su cinque ambiti dell’attività umana: le tradizioni e le espressioni orali (incluso il linguaggio); le arti dello spettacolo; le pratiche sociali, riti e feste; la conoscenza e le pratiche che riguardano la natura e l’universo; l’artigianato tradizionale. In Sicilia, l’Opera dei Pupi ha ottenuto il riconoscimento e l’inserimento nella WHL della tradizione. A livello mondiale, l’Italia detiene il primato per il numero di siti inscritti nella Lista e la Sicilia figura tra le regioni italiane che detengono il maggior numero di siti Unesco con La Valle dei Templi di Agrigento (1997), La Villa Romana di Piazza Armerina (1997), Le Isole Eolie (2000), Le Città barocche del Val di Noto (2002), Siracusa e la Necropoli Rupestre di Pantalica (2005). Nel 2005, i siti e i monumenti che formano l’insieme Siracusa e Pantalica sono stati inseriti nell’elenco dei Beni dell’Umanità dell’Unesco perché rappresentano una realtà eccezionale e unica. Nello stesso luogo, per oltre 3 millenni si sono sviluppate e succedute varie civiltà mediterranee che per la loro diversità culturali costituiscono un patrimonio di importanza universale.
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Siracusa e la Necropoli Nel 2005, i siti e i monumenti che formano l’insieme Siracusa e Pantalica sono stati inseriti nell’elenco dei Beni dell’Umanità dell’Unesco perché rappresentano una realtà eccezionale e unica. Nello stesso luogo, per oltre 3 millenni si sono sviluppate e succedute varie civiltà mediterranee che per la loro diversità culturali costituiscono un patrimonio di importanza universale. di Giancarlo Tribuni Silvestri riconoscimento al prestigio storico per una città che è stata per molto tempo una delle capitali del Mediterraneo e che del proprio passato conserva importanti vestigia. Un riconoscimento che sottolinea anche la volontà di una città che vuole riacquistare oggi un ruolo di primo piano e che desidera valorizzare e promuovere la potenza culturale del passato. Passato che non è solo grandezza della Magna Grecia ma anche eccellenza di idee e forme artistiche legate al mondo svevo, barocco, tardo barocco, neoclassico, liberty e moderno. Fu fondata nel 734 a.C. da un gruppo di coloni di Corinto guidati da Archia. Questi si stabilirono nell’isola di Ortigia (“isola delle quaglie”), dove diedero vita al primo nucleo abitativo che ben presto si diffuse sulla costa siciliana, a quel tempo piuttosto paludosa (Sirako in greco = Palude).
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Rupestre di Pantalica “Oh Siracusa, la più grande delle città, soggiorno caro dell’indomabile Ares, oh divina nutrice di generose menti e d’alati destrieri nel campo ardenti” Pindaro, < Pitiche>.
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Il Duomo di Siracusa
Resti del Tempio di Apollo in Ortigia - foto Alan Whitaker
Il Teatro Greco di Siracusa - foto Cristina De Fontao
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La colonizzazione dell’entroterra, i virtuosi commerci, la politica e la cultura furono la linfa vitale che per secoli fecero di Siracusa uno dei più preziosi fari della civiltà mediterranea. E la grandezza della civiltà fece superba e bella la città che Cicerone definiva come “la più grande e la più bella tra le città greche”. La sua estensione fu il segno della potenza e della ricchezza che animava i suoi 5 immensi quartieri (Ortigia, Acradina, Tiche, Neapolis ed Epipolis) che formavano la famosa Pentapoli. Il Console romano Marcello conquistò nel 212 a.C. Siracusa e fu durante il celebre assedio che trovò la morte Archimede. E, come afferma Tito Livio, con la presa della città e il trasferimento delle opere d’arte a Roma dove si diffuse il gusto e si raffinò l’arte a discapito di Siracusa. Con l’occupazione bizantina (535 d.C), si aprì una altro periodo di splendore che giunse all’apice quando, nel 663, l’imperatore Costante II vi trasferì la sua corte: per 5 anni, fino al 668 Siracusa fu capitale dell’Impero Romano
Pantalica - foto CC. Pietro Columba
d’Oriente. Caduta nel 878 d.C. sotto l’egida degli Arabi, la città continuerà ad essere un centro importante sotto le varie dominazioni (normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Borboni…). Monumenti di epoche e stili diversi, testimoniano un passato glorioso che si apre al presente. Unica in tutto, anche per le testimonianze artistiche che vi abbondano. Ad Ortigia diversi primati: il più antico tempio dorico esistente in Sicilia e, in Piazza Duomo, i resti del tempio di Athena inseriti armonicamente nella struttura della Cattedrale la cui facciata (ricostruita nel 1693) è un capolavoro tardo barocco. Inoltre, il Teatro Greco ritenuto come uno dei più belli e scenografici teatri dell’antichità. Che dire poi della leggendaria Fonte Aretusa? Delle Latomie e del-
Pantalica - foto Giuseppe Sortino
l’Orecchio di Dionisio cantato da Caravaggio? E delle Grotte dei Cordari? Sono solo delle perle di un patrimonio universale che continua a svelarsi con la colossale Ara di Ierone II (costruita tra il 241 e 215 a.C.) dove, scrive Diodoro Siculo, si sacrificavano, in onore di Zeus Liberatore, fino a 450 buoi per volta. Secondo per dimensioni al mondo (il maggiore è quello di Verona) è invece l’Anfiteatro Romano. Altre eccellenze sono poi il tempio di Demetra e Kore, il Castello Eurialo (8 km da Siracusa), le Catacombe, il castello Maniace, le tante chiese e i conventi e il miqwe ebraico (bagni ebraici) più antico d’Europa. E così, per secoli e secoli, Siracusa continuò ad illuminarsi con l’immensità della cultura e dell’arte.
Sortino - I resti dell’Anaktoron, il castello del principe - foto CC. Carlo Columba
Sei secoli prima dell'arrivo dei Greci una popolazione siciliana viveva e moriva nella Valle dell'Anapo costruendo un’immensa necropoli di 5.000 tombe scavate nella roccia di Pantalica - foto CC. Carlo Columba
Una delle tombe Pantalica - foto Dalton Rooney
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PANTALICA Da Siracusa, passando da Floridia e Ferla, si raggiunge la Necropoli rupestre di Pantalica (Pantalica deriverebbe secondo alcuni studiosi dall’arabo Buntarigah, che significa grotte). Un luogo carico di suggestioni, alla confluenza fra il fiume Anapo e il Calcinara, dove la natura selvaggia avvolge i costoni rocciosi di una profonda vallata scavata nei millenni dai corsi d’acqua. Un sito che emerge non solo per la sua importanza naturalistica e paesaggistica ma anche per il suo valore archeologico. La natura diventa anche preludio di un viaggio che conduce il presente nella protostoria. Qui, sulla sommità di una collina, nel XII secolo a.C., i Siculi fondarono un grande villaggio formato da capanne circolari. Sono ancora visibili i resti dell’Anaktoron (residenza del principe) edificio megalitico a pianta rettangolare (38X12m). I Siculi scavarono lungo i versanti rocciosi oltre 5000 tombe, una grande necropoli che l’archeologo Bernabò Brea paragonò ad un immenso alveare. Con l’avvento della colonizzazione greca (VIII sec. a.C.), gli abitanti lasciarono il luogo e “sparirono” inghiottiti dalla storia. Pantalica divenne rifugio per i cristiani perseguitati. Le grotte ospitarono alcuni eremiti bizantini e alcune furono trasformate in piccole chiese. Gli Arabi e i Normanni utilizzarono molte grotte come abitazioni… ma pian piano il sito fu abbandonato e su di esso calò il silenzio.
Oltre lo sguardo di Trinacria di Alice Pepi esta con due ali, circondata da capelli di serpenti, e tre gambe umane che partono da questa, sono gli elementi principali che compongono il simbolo della Trinacria: l’antico nome della Sicilia, il più misterioso e affascinante che una regione abbia mai avuto. Il significato geografico del simbolo vuole che le tre gambe indichino la caratteristica forma triangolare dell’isola, che si disegna sulla linea che congiunge i tre promontori, Pachino, Peloro e Lilibeo. Ma è il volto, il cuore di questo simbolo che contiene il vero mistero: Medusa. La Sicilia, terra di contrasti, non poteva avere rappresentante più degna. Unica mortale tra le tre Gorgoni, figlie del Dio marino Forco, il suo nome, Medusa, significa sovrana (mentre il nome delle gorgoni deriva dal greco, “spaventoso”). Secondo le testimonianze più antiche, ella era mostruosa come le sorelle, creature dalle ali d’oro ma dotate di zanne di cinghiale, con una grande bocca dalla quale pendeva la lingua come per suggellare un malefico sorriso, su un viso incorniciato da serpenti al posto dei capelli, mentre, secondo altre tradizioni, sembrerebbe essere stata talmente bella da incutere timore. Quel che è certo è che, chiunque la guardasse in viso, rimaneva pietrificato sull’istante. Sicuramente la sua “mostruosa bellezza” piacque al dio del mare Poseidone, che, trasformatosi in uccello, la rapì e la sedusse nel tempio di Atena. La dea, furiosa perché era stato violato il suo tempio e perché Medusa aveva osato paragonarsi a lei (definendo i suoi capelli più belli), la trasformò in un mostro con occhi di fuoco, lingua penzolante e serpenti come capelli. Questa terribile punizione non le bastò per riparare l’affronto subito. Atena desiderò la morte di Medusa e per soddisfare quest’odio fece di tutto per aiutare il giovane Perseo. Entra in gioco dunque, un personaggio che non è visibile ad occhio nudo nell’immagine del “simbolo siciliano”, ma che rappresenta, non solo il mezzo attraverso il quale si realizzerà il piano della dea Atena, ma, anche la chiave fondamentale per la scoperta del suo valore simbolico. Perseo, figlio di Zeus, per proteggere la madre Danae dalle lusinghe del re Polidette, promise a quest’ultimo, in occasione delle nozze del re con
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Perseo tiene in mano la testa recisa di Medusa. Antonio Canova - Musei Vaticani, Roma
Ippodamia, che gli avrebbe portato qualsiasi cosa desiderasse, se avesse lasciato in pace la madre. Il re, che non aveva comunque intenzione di desistere dalle vecchie abitudini, pensò di eliminare Perseo con l’inganno e richiese la testa di Medusa, convinto che il giovane sarebbe rimasto pietrificato dallo sguardo della Gorgone. Perseo, giovane e sprezzante del pericolo, come tutti gli eroi, accettò, ma non fu lasciato solo a compiere ciò che il destino aveva già scritto. Furono accanto a lui altri personaggi che calcano il palcoscenico triangolare costruito sulla linea immaginaria che congiunge le tre gambe piegate che incorniciano Medusa. Il Dio Hermes gli regalò una spada, un elmo che lo rendeva invisibile, calzari alati e lo condusse dalle Graie, che erano sorelle delle Gorgoni e loro custodi. Le Graie erano tre vecchie dai capelli grigi e avevano un solo occhio. Perseo rubò loro l’occhio, e lo usò come arma di ricatto per conoscere il luogo in cui si trovavano le Ninfe dello Stige, che a detta di Hermes lo avrebbero aiutato. Le Ninfe diedero al nostro eroe una bisaccia per riporre la testa di Medusa, e gli rivelarono dove abitavano le tre Gorgoni. Perseo trovò le tre sorelle addormentate e si avvicinò a loro, con la testa voltata per evitare di rimanere pietrificato. Usando lo scudo di Atena come uno specchio fece sì che si riflettesse su di esso lo sguardo mortale (pietrificatore), Medusa fu così vittima di se stessa e Perseo le tagliò con la spada la testa. Dal sangue del collo di Medusa uscirono Pegaso il cavallo alato e Crisaore un gigante armato di spada d’oro. Perseo con la testa di Medusa sanguinante, sorvolò le coste della Libia e le gocce che caddero nel deserto si trasformarono in vipere, quelle che caddero in mare in corallo. Inoltre, dalla testa di Medusa sgorgarono due tipi di sangue, uno velenoso che provocava morte e l’altro capace di resuscitare i morti. Medusa, anche da morta, aveva il potere di pietrificare chiunque guardasse la sua testa. Perseo, in questo modo, uccise Atlante, che sorreggeva la volta celeste, trasformandolo in una catena montuosa, quella del Nord’Africa; uccise inoltre, il mostro marino che stava per divorare quella che poi sarebbe diventata sua moglie: Andromeda. Questi, gli attori principali in una scena mitologica che sembra scorrere davanti al simbolo della Trinacria, oggi la Sicilia. Questi, gli elementi di quello che è fisso ormai nella dimensione del mito, che in Sicilia è una dimensione esistente, dimostrata da un territorio che da infernale diventa paradisiaco, che genera la bellezza del cavallo alato Pegaso insieme alla forza del gigante Crisaore dalla spada d’oro; che tiene nelle sue terre le vipere dalle quali si difende. Nel mare di Trinacria si cerca e si trova il corallo rosso che dopo essere lavorato con perizia viene
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“La nascita di Pegaso e Crisaore dal sangue di Medusa”, 1885 - Edward Coley
messo al collo degli uomini, come augurio di prosperità. Sicilia, Trinacria, Medusa… tre nomi che racchiudono una realtà capace di uccidere Atlante ma pronta ancora a tenere la volta del cielo creando una catena montuosa, trasformando il veleno in unguento e soprattutto il limite in risorsa. Anche per questi motivi Medusa è la Sicilia, perché in Sicilia tutto ha più significato e più significati, perché si passa forse con facilità e sempre più spesso con superficialità in mezzo alla terra che ci ha generati, perché, per i siciliani, è normale passare dal fuoco del vulcano all’acqua del mare, dal freddo delle sue alture ai campi di grano asciugati dal sole. Medusa è eterna, ed è la Sicilia perché l’identità di un siciliano va al di là di una data di nascita; è radice di un albero di ulivo e nello stesso tempo ancora in mezzo al mare, profumo di limoni e di arance e brezza marina. È qualcosa che attraversa varie fasi, che si trasforma, che si adatta ma che non muore mai, che soffre perché sa che è diversa, ma non vuole cambiare, tranne che per migliorarsi, che porta con orgoglio i segni delle antiche battaglie, combattute in mezzo al mare e sulle coste, dalle varie dominazioni che si sono susseguite nei secoli e che hanno considerato la Sicilia la terra delle meraviglie, ma sente dentro un forte senso di riscatto per un destino spesso troppo duro, che non le ha mai risparmiato o ridotto dolori, ma che le ha sempre riservato un posto centrale non solo nel Mediterraneo ma nell’intera costruzione del mondo, quasi come se la vita cominci da qui, perché è qui che hanno inizio e mai fine i misteri del mondo.
A Ragusa Ibla un vecchio Mulino ad acqua al servizio della tutela e dei ripopolamenti di trota macrostigma Il successo di un Progetto sostenuto dall’Assessorato Provinciale al Territorio e Ambiente di Ragusa mmersa nel verde, alle pendici di Ragusa Ibla, in prossimità del Torrente San Leonardo, sorge un’antica costruzione, di proprietà della Provincia Regionale di Ragusa, che un tempo ospitava un mulino ad acqua e che oggi è stata interamente ristrutturata e ed attrezzata per svolgere attività di produzione ittica. La struttura, comunemente conosciuta come ex Mulino San Rocco, oggi è infatti sede dell’incubatoio di valle all’interno del quale, grazie ad una convenzione tra l’Assessorato Provinciale al Territorio e Ambiente, settore Ecologia, diretto dal dott. Gaetano Abela, e il Dipartimento di Biologia Animale dell’Università di Palermo è stato avviato un progetto finalizzato alla salvaguardia, tutela e gestione dei ripopolamenti ragusani di trota macrostigma.
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Provincia Regionale di Ragusa
Nelle foto, dall’alto: - un riproduttore; - vasca californiana; - piastre petri; - riproduttori
Il progetto nasce dalla constatazione che negli ultimi cento anni, il ripopolamento dei fiumi siciliani è avvenuto senza rispetto per la natura: trote non sicule, carpe e tinche hanno predominato la scena in un ambiente che prima era esclusivo della trota sicula macrostigma. Un’attività, questa, che ha compiuto uno scempio naturalistico e che ha portato alla formazione di individui ibridi. Al fine quindi di arginare il pericolo di estinzione della trota autoctona, è stata posta in essere un’attività volta ad ampliare, innanzi tutto, le conoscenze sullo stato di fatto delle alterazioni presenti nell’ambiente acquatico popolato dalla trota autoctona, valutare lo stato di inquinamento genetico della popolazione e mitigare il fenomeno di ibridismo tra specie affini. Al progetto hanno inoltre aderito esperti di settore e volontari, in particolare quelli della FIPAS, che non solo hanno contribuito alla cattura dei riproduttori ma forniscono un servizio di guardia pesca e prestano servizio giornalmente presso la struttura al fine di garantire il corretto funzionamento del flusso idrico, delle temperature e del sistema di sterilizzazione, assicurando la buona riuscita dell’attività riproduttiva. Vediamo allora nel dettaglio in cosa consiste questa attività. All’interno dell’incubatoio si trovano grandi vasche circolari che ospitano i riproduttori, specie accuratamente selezionate da cui vengono prelevate le uova. Il processo di ripopolamento artificiale comincia con la cosiddetta spremitura, pratica questa che consiste in particolari manipolazioni che si effettuano sulle femmine con le uova mature. L’operazione consiste in massaggi medio-ventrali per accompagnare l’uscita delle uova in particolari contenitori chiamati “vasche californiane”. Il periodo di incubazione si suddivide in due fasi: “periodo di uovo fecondato” e “periodo di uovo embrionale”. Nel primo periodo le uova dovranno rimanere immobili e non possono subire manipolazioni anche se è indispensabile intervenire sulle uova morte per evitare che compromettano lo sviluppo di quelle
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L'Assessore Mallia (al centro) in visita all'incubatoio
vive; nella seconda fase, invece, vengono sospese le disinfezioni e si procede alla pulizia delle uova mediante l’aumento del flusso d’acqua in entrata. Tale pratica provoca un lento rimescolamento delle uova con la conseguente risalita in superficie di quelle morte che in questo modo possono essere facilmente tolte. Terminato il periodo di incubazione si procede o alla liberazione degli avannotti mediante la costruzione di nidi artificiali o vengono trasferiti nelle cosiddette vasche di accrescimento e in un secondo momento liberati attraverso operazioni di immissione nei corsi d’acqua. Grazie all’impegno dell’ittiologo, dott. Antonino Duchi, inoltre, attualmente, si sta portando avanti una nuova sperimentazione di riproduzione artificiale che consiste in una prima incubazione in piastre petri che permettono di seguire le uova delle singole femmine. Tipologia di riproduzione artificiale, questa, che a quanto pare viene sperimentata per la prima volta su tutto il territorio nazionale. “Le attività poste in essere – afferma l’Assessore Provinciale al Territorio, Ambiente e Protezione Civile Salvo Mallia - hanno contribuito, in questi anni, a ripopolare notevolmente corsi d’acqua come il Torrente
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San Leonardo e il Fiume Irminio che alimentano il bacino di Santa Rosalia in cui oggi è possibile trovare con facilità esemplari adulti di trota macrostigna perfettamente ambientati. Al fine quindi di non vanificare l’operato svolto fin oggi che ha permesso ad una specie tanto preziosa quanto rara di tornare nuovamente a ripopolare le nostre acque, invito i pescatori sportivi ad attenersi a quanto previsto dal regolamento provinciale e a dotarsi dell’apposito tesserino su cui dovranno tempestivamente annotare le trote catturate e le cui quantità sono fissate in 5 giornaliere e 15 settimanali. Il mio auspicio è quello di una collaborazione fattiva che veda anche i pescatori promotori di azioni di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio ambientale”. Inoltre, con l’intento di promuovere un’educazione ambientale che, attraverso la conoscenza del proprio patrimonio naturale, permetta di accrescere sempre più, soprattutto tra i giovani, il rispetto dell’ambiente che ci circonda e delle specie presenti in esso, l’Assessorato Provinciale al Territorio, Ambiente e Protezione Civile, mette al servizio delle scolaresche, per la realizzazione di visite guidate e percorsi formativi, previa richiesta, la struttura e il personale in esso operante.
Federico Borrometi il genio dimenticato di Giovanni Portelli uest’anno ricorre il 160° anniversario della nascita di Federico Borrometi, un personaggio tanto geniale quanto riservato, autore musicale prolifico, onorato in vita dai notabili dell’epoca e presto dimenticato dopo la morte. La sua opera è, oggi, ricordata all’interno del Museo del Costume di Scicli, dove sono esposti anche il violino e la bacchetta direttoriale, ultime testimonianze di quella fervida passione che il Maestro portò con sé, per tutta la vita. Nato a Modica il 3 gennaio 1851, Federico Borrometi visse a Scicli dove, nel 1877, sposò Bartolomea Piazza da cui ebbe tredici figli. Iniziò a comporre sin dall’età di sette anni, quando, si racconta, scriveva musica sotto il bancone della falegnameria paterna. Suo fervido ammiratore fu il nobile Ottavio Penna, cultore anch’egli di musica, che lo avviò negli studi e lo incoraggiò a comporre musica. Partecipò a numerosi concorsi nazionali di composizione ricevendo riconoscimenti con diplomi e medaglie; tra questi, nel 1899, vinse a Palermo la Medaglia d’Argento con la romanza Amore e odio e, nel 1913 a Napoli, ottenne la Croce per Merito Artistico e la Medaglia d’oro. Dal 1900, diresse la banda musicale di Scicli succedendo nell’incarico ad Ottavio Penna, morto nel 1895. Continuò a dirigere la banda sino al 1928, quando, raggiunta l’età di 77 anni, andò in pensione. Morì a Donnalucata il 18 settembre 1940. Sull’epigrafe funeraria così fu scritto: “Dai sette ai novant’anni trovò le sue delizie nel dare sfogo al suo genio in un volontario nascondimento, superando lotte ed amarezze con alto spirito di sacrificio”. Personaggio di indole schiva, Federico Borrometi amò vivere e scrivere le sue opere in un volontario nascondimento, come fu scritto sulla lapide della sua tomba. Questo suo carattere probabilmente impedì che la sua opera riuscisse a valicare i confini locali e ad essere considerata per il reale valore artistico che possedeva. A distanza di 160 anni dalla nascita, il Maestro rimane ancora figura in disparte nel panorama culturale e musicale, dimenticato, a torto, anche da chi, oggi, avrebbe il compito di farlo conoscere e onorarlo. Le poche immagini fotografiche che di lui ci sono pervenute lo ritraggono in disparte, tradendo, il più delle volte, uno stato
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d’animo triste ed assorto, solitario anche quando si trattava di essere in comitiva. Questo carattere forse è anche alla base di quello spirito di sacrificio che gli è stato necessario per superare lotte ed amarezze, riprendendo ancora parte dell’epigrafe posta sulla sua tomba. Uomo legato alla borghesia e alla nobiltà locale, Federico Borrometi fu, in realtà, artista che seppe interpretare il sentire e la religiosità del popolo. Questo suo doppio e, per certi versi, contrastante legame, ha segnato la sua produzione artistica, apparentemente divisa tra le composizioni dedicate alle feste dei salotti nobiliari e quelle dedicate al grande pubblico delle feste in piazza, come nel caso del ballabile composto in occasione del Carnevale di Scicli. Per anni, la figura di Borrometi è stata relegata a quella di esecutore e direttore, sia pure colto e prolifico, minimizzando o portando in secondo piano l’aspetto artistico e storico della sua varia produzione musicale. Borrometi merita, oggi, di essere riscoperto non solo come compositore musicale ma anche come interprete genuino della cultura legata al popolo nelle sue varie manifestazioni, dalla religiosità alle marce, dai ballabili per salotti ai balli in piazza. Diffuse la cultura musicale dell’epoca, scrivendo e reinterpretando molti ballabili, dalla mazurka alla polka, dai valzer al tango, dal passo doppio allo scortis e alla quadriglia, rendendoli accessibili e popolari. Il continuo riferimento per la sua produzione artistica rimase il contesto storico e sociale in cui visse, ne sono testimonianza le numerose opere dedicate ad avvenimenti storici del suo tempo. Scrisse una marcia funebre in occasione della morte di Giuseppe Garibaldi (Una lagrima a Giuseppe Garibaldi), l’eroe che a Scicli, come nel resto della Sicilia, poté contare sul sostegno del popolo ed ebbe tra le fila del suo esercito, assieme ad alcuni aristocratici ribelli, moltissimi dei contadini oppressi, i senza terra che nella venuta dell’eroe riponevano molte speranze. Dedicò alcune delle sue musiche ad avvenimenti e personaggi della vita politica e civile locale di allora: per l’inaugurazione del monumento al benefattore Pietro Di Lorenzo Busacca, ma anche marce che si ispirarono al podestà del Comune di Scicli o ai Penna, famiglia a cui era molto legato. Ma la sua produzione più nota resta quella legata alla tradizione religiosa. La sua musica scandisce ancora i lenti passi di alcune processioni a Scicli. Radicate nella religiosità
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popolare sono Le Canzoncine per Santa Maria la Nuova e quelle per l’Immacolata di San Bartolomeo, scritte rispettivamente nel 1887 e nel 1890. Recentemente, le canzoncine popolari sono state inserite nel Registro delle Eredità Immateriali in Sicilia (R.E.I.) quali beni immateriali da tutelare. Su queste note la folla di fedeli, in processione lenta per le strade dei quartieri del paese, ogni anno intona l’inno alla Madonna Immacolata nel giorno che precede la festa. Per le antiche rivalità tra le due Chiese, Santa Maria La Nuova e San Bartolomeo, le canzoncine vengono tuttora eseguite dal coro di gente in giorni diversi, con le musiche che Borrometi aveva composto sul finire dell’Ottocento. Notevole e varia fu la produzione musicale e, quando era ormai in tarda età, il Maestro amava ripetere che, in testa, non ci potevano mai essere tanti capelli quanto numerosi erano stati gli spartiti da lui scritti. La frase riportata dal nipote, Gabriele Borrometi, descrive l’animo dell’artista in età avanzata e la consapevolezza della sua immensa voga di scrivere, lasciando trapelare, forse, una pacata rassegnazione al pensiero che molte opere non fossero mai state composte. Pensò persino alla marcia funebre per il suo funerale (Dopo la mia morte) ma, essendo stata scritta per orchestra, non venne mai eseguita. Oltre 400 sono le opere pervenute sino a noi, ma più numerosa è stata la produzione complessiva. Pare, infatti, che il Maestro usasse regalare i suoi manoscritti ai direttori
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delle bande musicali dei paesi vicini e che molti spartiti andarono distrutti o semplicemente dimenticati e dispersi dopo la sua morte. Il catalogo generale, ricomposto dal Prof. Paolo Militello, comprende 10 tipologie di opere musicali, a testimonianza della varietà compositiva su cui Federico Borrometi amò confrontarsi. Tutta l’opera è oggi custodita dal nipote, il Prof. Gabriele Borrometi che, in passato, ha anche curato la realizzazione di due CD con brani musicali del Maestro.
cittĂ scom POGGIOREALE La suggestione di una storia interrotta Dove le case si trasformano in voce narrante
Foto Pina Sozio
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Foto Paolo Alfieri
di Giuseppe Nuccio Iacono provincia di Trapani, su un territorio collinare, a 30 metri sul livello del mare sorge Poggioreale antica, un paese fantasma, una cittadina senza anima, una luogo costruito dagli uomini, violato da una terra matrigna e abbandonato al silenzio. Poggioreale un nome altisonante (deriva da Podus regalis = Poggio del re) che contrasta con le strade deserte, i vicoli desolati, le scalinate ricoperte da vegetazione e la piazza inanimata. Tutto è silenzio. Tutto è sfuggente. Tutto è avvolto o, meglio, velato da una patina di antico dolore sopito che ricopre non solo le pietre ma anche l’aria. Le case decrepite, dalle porte divelte e dalle finestre che illuminano stanze inesistenti, si susseguono mostrando facciate ferite. Il visitatore qui scopre un mondo che nessuna cronaca o racconto potrà illustrare. Il bianco e il nero, la vita e la morte, la gioia e il dolore: Poggioreale non conobbe mai la via di mezzo. E il miele divenne fiele se si pensa che la felice e fiorente storia di questo centro agricolo, fondato nel 1642 dal marchese Francesco Morso, fu impietosamente cancellato nel 1968 dal terremoto che spazzò tutta la Valle del Belice. Il centro abbandonato emana un fascino surreale del tutto particolare. Indescrivibile è l’atmosfera che insiste nell’invitare a scoprire il luogo dove ogni pietra si trasforma in voce narrante per raccontare gli ultimi momenti di Poggioreale. Fu la prima grande catastrofe nazionale del dopoguerra!
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Dalle 13:29 di domenica 14 gennaio 1968 alle 23:20 del giorno successivo, una serie di violente scosse di terremoto colpì una vasta area della Sicilia occidentale. La massima intensità raggiunse il nono grado della scala Mercalli. Fu devastante e accompagnata per 40 lunghissimi secondi da un tremendo boato che Leonardo Cangelosi paragonò “a un fracasso, come se cento carretti siciliani attraversassero di gran carriera un strada piena di ciottoli”. Tra lo sgomento, il terrore e la morte crollarono case, palazzi e chiese. Dopo il boato seguì un indescrivibile silenzio che fu poi rotto dalle urla disperate dei sopravvissuti che brancolavano nell’oscurità e si aggiravano, tra la polvere e le macerie invocando santi e chiamando parenti. Molti anni dopo, Leonardo Sciascia ricorderà quei momenti e “le macerie, l’oscurità, il battere della pioggia sulle tende, la febbre che era negli occhi dei sopravvissuti”. Nella valle del Belice, divenuta “valle delle Lacrime” le vittime furono quasi 400, un migliaio di feriti e circa 90.000 i senza tetto. Fu un vero flagello che si schiantò su un già critico disagio sociale: le vittime furono in gran parte donne, vecchi e bambini poiché i giovani e gli uomini erano lontani, emigrati in cerca di lavoro.
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Foto Vincenzo Cammarata
Pare di sentire ancora quell’urlo di giubilo che si alzò quando la piccola Cuccureddu, unica superstite di una famiglia fu tratta in salvo dopo 60 ore. Tra le macerie resta ancora indelebile la presenza di tanti soccorritori e di quei gruppi di giovani “capelloni” che anche i più “conformisti e benpensanti” chiamarono “angeli delle macerie”. Alla tragedia seguì l’inferno: il 20 gennaio, lo Stato era ancora impacciato nel coordinamento dei soccorsi che
Foto Ultimo re
Ruderi di Salaparuta
Una calzatura testimone dell’abbandono della città che aspetta ancora da 43 anni - foto Vincenzo Cammarata
Il punto più alto del paese vecchio - foto Vincenzo Cammarata
assunsero spesso lo stile del “fai da te”; una pioggia torrenziale e fiumi di fango si riversarono sulle rovine; altre 65 scosse di assestamento si susseguirono. Sorse come un sudario… una tendopoli che poi divenne baraccopoli e si tramutò in un agglomerato di case prefabbricate. Fu deciso di non ricostruire sul posto il paese per rifondarlo in una contrada vicina. Lo stesso destino spettò agli altri paesi del Belice totalmente rasi al suolo dal terremoto e trasferiti in altri luoghi. Furono ricostruite Gibellina, Montevago e Salaparuta; le nuove e funzionali cittadine, simbolo e orgoglio della voglia di rinascita. Gli stanziamenti per la ricostruzione diedero vita ad opere faraoniche. Come fu nel caso della
Cretto di Burri ex Gibellina foto CC. Carlo Columba
nuova Gibellina dove operarono tanti famosi architetti. Una città d’avanguardia a livello architettonico che qualcuno osò criticare perché poco idonea alle esigenze concrete di una popolazione che preferiva una occupazione lavorativa. Purtroppo l’emigrazione sarà l’emorragia sociale che continuerà a colpire gli abitanti di quell’angolo di Paradiso perduto. Un argomento tormentato sul quale spesso si preferì mettere una pietra sopra… E non fu pietra ma colata di cemento che il grande artista Burri gettò sulle macerie di Gibellina “vecchia”: un Cretto di 12 ettari, percorribile a piedi nelle “trincee” che corrispondono all’antico tracciato viario. Dicasi Opera d’arte. Per Poggioreale antica, il destino fu diverso. Nessuna gettata di cemento… solo una gettata di totale abbandono che permette ancora la lettura dell’impianto urbano a scacchiera e il tracciato viario. Resistono ancora, benché fatiscenti, le case, i palazzi, le chiese e gli edifici pubblici. Si potrà percorrere Corso Umberto I (la strata di la cursa) dove si proiettano le ombre del Municipio, dell’edificio scolastico, dell’Ufficio postale, del teatro e della Chiesa di S. Antonio da Padova. Dalla grande piazza si apre la prospettica gradinata che conduce alla Chiesa Madre e ciò che resta del campanile, simbolo di Poggioreale.
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Un centinaio di metri verso la parte bassa del paese si possono ancora vedere le macchine del frantoio salvaggio - foto Vincenzo Cammarata
Ed è di pochi anni (2008) il crollo del campanile (e di una parte del muro occidentale della Chiesa Madre). Un crollo prevedibile che dopo 41 anni fa riflettere e che preferiamo ignorare negli scatti fotografici. Lasciando la città fantasma, porteremo con noi quel sapore oscuro, misterioso e sfuggente che genera la suggestione delle storie interrotte. Non dimenticheremo come il paesaggio meraviglioso che circonda Poggioreale appartenga a quella splendida ma tanto temibile terra. Forte il desiderio di vedere quella muta Poggioreale restituita alla dignità. Non certamente una ricostruzione materiale ma una ricostruzione di memoria magari agevolata da semplici pannelli didascalici situati lungo percorsi progettati. Un auspicabile processo di recupero rivolto a custodire la memoria di un passato che non va lasciato cadere nella peggiore delle bestemmie sociali: ossia l’ignoranza della superficialità.
Il campanile prima dell’ultimo crollo
L’Archivio di Taormina Leggere il Passato per comprendere il Presente
Sabato 8 gennaio 2011, il Sindaco della Città di Taormina, Mauro Passalacqua, l’Assessore all’Archivio Storico Italo Mennella ed il Critico d’Arte nonché Sindaco di Salemi, il Prof. Vittorio Sgarbi, hanno ufficialmente inaugurato l’Archivio Storico Comunale, sito nell’antico complesso dell’ex Convento di S. Agostino, a pochi passi dalla centralissima Piazza IX Aprile ed ubicato al piano sottostante della Biblioteca Civica.
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gioiello architettonico risalente al XVI secolo, sapientemente recuperato da uno staff di architetti e di tecnici, tra i quali è doveroso citare: l’Architetto Giovanni Manzella (direttore dei Lavori) l’Architetto Lidia Signorino (funzionario della Sovrintendenza di Messina) e l’Architetto Lucia Calandruccio, (responsabile Unico del Procedimento per il Comune di Taormina). Senza dimenticare di menzionare l’Ingegner Carmelo Trimarchi, funzionario per il PIT 13. A questi eccellenti tecnici ed a tutte le maestranze coinvolte, si deve la piena riuscita del progetto di recupero e di conservazione dell’ex Convento. Così come alla ferrea volontà di tutta l’Amministrazione Cittadina – in particolare al Sindaco Mauro Passalacqua ed all’Assessore all’Archivio Storico Italo Mennella – ma anche all’instancabile lavoro dei suoi funzionari, la Dott.ssa Antonina Pinto e il sig. Giovanni Coco e di tutti i dipendenti degli uffici preposti, si deve il raggiungimento di un obbiettivo, che è un successo per l’intera comunità taorminese. L’inaugurazione dell’Archivio Storico si è svolta innanzi ad un bagno di folla, a suggello delle festività natalizie e di buon auspicio per il Neonato Anno Nuovo. La sala conferenze, i corridoi, le sale di studio, ed il terrazzo che si apre sullo scenario mozzafiato della baia di Naxos, sono state letteralmente invase dalla gente: comuni cittadini, studiosi, tecnici, addetti ai lavori e vacanzieri. Tutti spinti dalla voglia d’esser protagonisti di un duplice evento: l’apertura a visitare i locali del Convento di S. Agostino e l’inaugurazione dell’Archivio Storico.
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La sala conferenze dell'Archivo Comunale, l'antico Convento di Sant'Agostino
Al tavolo, da destra, Vittorio Sgarbi, il sindaco di Taormina, Mauro Passalaqua e l'assessore al turismo Italo Mennella
Vittorio Sgarbi e il sindaco di Taormina, Mauro Passalaqua
Il via, all’apertura dei lavori inaugurali, è stato dato dall’intervento del Primo Cittadino, a cui sono seguiti i saluti ed i ringraziamenti dell’Assessore all’Archivio Storico, Italo Mennella e dell’Assessore ai Beni Culturali, l’Architetto Antonella Garipoli. Entrambi gli Amministratori hanno posto l’accento sull’importanza dell’unicità del patrimonio storico ed architettonico della Città, e sul dovere alla tutela ed alla corretta fruizione dello stesso. L’incontro inaugurale inoltre ha previsto un momento dedicato all’intervento inerente i lavori di recupero del sito, da parte degli Architetti coinvolti nel progetto; ed una relazione fatta dal Direttore dell’Archivio di Stato di Messina, il Dott. Alfio Seminara – con il quale il Comune ha un’intesa di collaborazione – volta ad esplicare le modalità di recupero degli atti d’archivio e che ha visto fattivamente impegnati, in qualità di archivisti, un dipendente dell’Archivio di Stato di Messina, il sig. Michelangelo D’Allura ed una volontaria presso il medesimo Ente, la Dott.ssa Marzia Moschella. Sono loro, con la loro professionalità ed in stretta sinergia con l’Amministrazione cittadina – che si è anche avvalsa della consulenza di un Esperto Storico, la Dott.ssa Lisa Bachis – che materialmente hanno sottratto la memoria della Città al rischio di una fine ingloriosa. Perché è su questo risultato che si concentra il progetto “Archivio Storico”: sulla conservazione della Memoria e dell’Identità di un’intera comunità, con documenti d’archivio che risalgono alla seconda metà del XV secolo e ripercorrono le orme storiche di Taormina, delle sue antiche terre e dei luoghi limitrofi, ricongiungendo la storia della Città con quella dell’Isola. Un Ponte sul Mediterraneo, che collega la Sicilia al resto d’Italia e che per questo, fa parte della sua storia, dei suoi cambiamenti, delle sue guerre e delle sue rinascite, sino al tempo attuale.
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E sull’importanza del ruolo di Taormina e del saper leggere correttamente tra le pieghe del suo passato per comprendere meglio il presente, si è soffermato anche il Prof. Andrea Romano, Preside della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Messina. Un suo appassionato excursus sulla Cittadina Ionica e sulla scoperta della sua vocazione ad esser luogo di cultura e di turismo, hanno offerto al prof. Sgarbi l’occasione per condurre un’intelligente riflessione sullo stato dei beni architettonici in Italia, sulla ricchezza del nostro patrimonio e sul ruolo fondamentale giocato da Taormina e dalla Sicilia intera, che proprio attraverso la custodia degli archivi, rappresenta un modello da seguire. Sgarbi ha, difatti, sottolineato come nel nostro paese, oramai da anni non si inaugurino Archivi di Stato e che l’apertura dell’Archivio Storico di Taormina – “ottenuta senza utilizzare un solo euro dei finanziamenti speciali per il Centocinquantesimo Anniversario dell’Unità d’Italia” – è la vittoria di una scommessa per cui con impegno, perseveranza e voglia di fare, anche i progetti più complessi possono trovar piena realizzazione.
La Chiesa di S. Agostino, attuale sede della Biblioteca Comunale della città
Documenti storici presenti nell’Archivio Storico
Brevi cenni sulla Chiesa e il Convento di S. Agostino (a cura di Lisa Bachis)
Città di Taormina - ASSESSORATO AL TURISMO Promozione Piano Strategico ed Innovazione Turistica Sport e Spettacolo - Marketing Territoriale Memoria e Archivio Storico - Sviluppo Economico Verde Pubblico e Arredo Urbano
L’ex Chiesa di S. Agostino, si trova al primo piano dell’edificio sito in Piazza IX Aprile – un tempo Piano S. Agostino – a Taormina, ed è l’attuale sede della Biblioteca Comunale della Città. L’edificio, la cui fondazione risale al 1486, fu dedicato a S. Sebastiano in virtù di un voto fatto dai taorminesi che a seguito delle preghiere rivolte al Santo per liberarli dalla pestilenza che funesta, imperversava a quel tempo, grati, gli titolarono la chiesa. Lo stile è quello del tardogotico siciliano, sebbene la porta maggiore e il campanile rispecchino un’architettura tardo trecentesca. A partire dal 1530, la chiesa fu concessa ai Padri Eremiti di S. Agostino ed inaugurata il 16 settembre di quell’anno. I religiosi decisero di fissarvi la loro dimora, costruendo un convento e nel 1700, quest’ultimo insieme alla chiesa furono sottoposti a nuovi interventi di restauro ed ampliamento, tanto che un portale con architrave in marmo di Taormina, sostituì l’originale in stile gotico, mentre furono preservati il campanile dalla forma di torre merlata, la porta maggiore e il rosone. La maggior parte delle opere d’arte ritrovate nell’edificio risalgono alla scuola messinese e in particolare è stata rinvenuta una tavola a tempera raffigurante S. Sebastiano, della scuola di Antonello da Messina. In seguito alla soppressione degli ordini religiosi, avvenuta dopo l’Unità d’Italia, nel 1866, questo ed altri edifici furono espropriati ed entrarono a far parte del pubblico demanio. All’inizio, si volle individuare quale destinazione d’uso della chiesa, quella di pinacoteca: per porre sotto la diretta tutela del Comune, le opere d’arte rinvenute nei vari edifici, un tempo di proprietà ecclesiastica. Ma già, verso la fine del XIX secolo, si provò a destinare l’edificio ad uso Biblioteca per ospitare il patrimonio librario degli ex conventi di S. Agostino, S. Domenico e parte di quello dei Cappuccini. Tuttavia, ciò trovò piena realizzazione solo nei primi anni trenta del ’900. Per ciò che invece concerne la parte dell’edificio posta al secondo piano – dove aveva sede il convento – nel tempo ebbe varie destinazioni, tra cui quella di Scuole Elementari, ivi collocate agli inizi del secolo XX, sino a quella attuale: l’Archivio Storico della Città.
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ISPICA, PASSEGGIATA IN UNA CITTÀ D’ARTE Testo e foto di Salvatore Brancati
avrete a disposizione due o tre ore potrete visitare il centro storico di Ispica, la città iblea che vi riserverà emozioni e sorprese. Ricostruita nel colle della Calandra dopo il disastroso terremoto del 1693, dove già aveva iniziato ad espandersi, è caratterizzata da strade larghe e diritte, da bei palazzi e da monumentali chiese. E proprio dal centro della collina, che ospita il Palazzo Bruno di Belmonte, emblema del liberty isolano, inizia la nostra visita della città. Il Palazzo che si impone con la maestosità di un castello dall’imponente volume e dalle possenti torri angolari è un’opera dei primi anni del novecento del famoso architetto palermitano Ernesto Basile. Da Palazzo Bruno di Belmonte, scendendo per il corso Umberto, il salotto della città, si giunge alla Chiesa Madre di San Bartolomeo. La semplice facciata si sviluppa su due ordini, coniugando elementi barocchi e neoclassici e domina il grande spazio della piazza principale. Il portone centrale è sormontato dallo stemma degli Statella, divenuto in seguito stemma della città. All’interno della chiesa, che è la più grande della città, nella navata destra, dietro la facciata, il mausoleo seicentesco di Don Giovanni Statella e Caruso, morto nel 1638. Nella nicchia della terza cappella di destra (detta del Crocefisso) si ammira un bel crocefisso dipinto su tavola. L’opera tardobizantina, pare proveniente da Trapani , fu donata dalla famiglia Statella. La pregevole tela ad olio di San Francesco di Paola in estasi davanti alla SS. Trinità, è probabile opera del pittore palermitano Francesco Manno. Dalla Chiesa Madre, attraversata la piazza principale, da via XX Settembre si giunge alla Basilica di Santa Maria Maggiore edificata, dopo il crollo dell’antica chiesa del Santissimo Crocifisso della Cava per il terrificante terremoto del 1693, per ospitare la statua del Cristo alla Colonna, scampato alla distruzione. È un unicum barocco nel Val di Noto per gli affreschi, gli stucchi, e le dorature, realizzati tutti nel Settecento nell’arco di qualche decennio.
Se
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Veduta di Ispica
S. Maria Maggiore, facciata
Il loggiato antistante la chiesa è unico in Sicilia: alla metà del Settecento, quando la chiesa era quasi ultimata, l’architetto netino, Vincenzo Sinatra, portava a termine il progetto del loggiato. Gli stucchi che ornano la chiesa sono di Giuseppe Gianforma. La Basilica fu dichiarata monumento nazionale, il 24 febbraio 1908, per gli affreschi del pittore catanese Olivio Sozzi, che qui operò, tra il 1763 e 1765, e per la tela dell’altare maggiore di Vito D’Anna (marito di Luisa, figlia del Sozzi), la Madonna della Cava col bambino e i Santi (1768).
Ambedue sono considerati i più rappresentativi pittori del settecento nell’isola. La bella recinzione del sagrato con dodici pilastri, sovrastati da grandi vasi è opera ottocentesca del capomastro e scalpellino di origine modicana Carlo di Gregorio. Il loggiato antistante la chiesa è unico in Sicilia: alla metà del settecento, quando la chiesa era quasi ultimata, l’architetto netino, Vincenzo Sinatra, portava a termine il progetto del loggiato. l’opera del Sinatra è costituita da un impianto semiellittico scandito da tre grandi arcate centrali e dieci più piccole per lato. Nella volta della Sacrestia vi è il grande affresco, raffigurante Mosé che riceve le tavole della Legge, dipinto nel 1783 dal palermitano Giuseppe Crestadoro e copia di un’opera del Giaquinto affrescata nella Cappella Ruffo in San Lorenzo in Damaso a Roma. Nella cappella sinistra del transetto è custodito il venerato e vetusto simulacro del Cristo alla Colonna, oggetto di grande venerazione legato alla storia della città, viene portato in processione il Giovedì Santo. La cappella destra conserva l’immagine della Madonna Assunta, proveniente dall’antica chiesa della cava e datata 1598. Dalla piazza Principale proseguendo per il corso Garibaldi, si raggiunge la chiesa della SS. Annunziata. Qui, l’elemento artistico predominante è costituito dai 13 grandi quadri in bassorilievo di stucco, che decorano la navata centrale, il transetto con la cupola e l’abside centrale. Sono databili alla seconda metà del 1700 e sono opera di Gioacchino Gianforma e del figlio Giuseppe, nipote
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S. Maria Maggiore, interno con pulpito
dell’omonimo, che lavorò oltre che negli altari dell’Annunziata, anche a S. Maria Maggiore e in tutta l’area degli Iblei, specie in città come Scicli, Noto e Ferla. Nella cappella di destra è custodita la più importante opera di argenteria sacra della città: un’urna reliquaria, riportante il punzone di argentieri messinesi e ornata con statuette di santi martiri e protomartiri poste all’interno di nicchie. Sopra la porta della sacrestia c’è un’altra grande tela settecentesca, di fine fattura, non firmata, che rappresenta l’Adorazione dei Magi. È una copia di una quadro ad olio di autore ignoto che si trova a Catania a Palazzo Biscari e il cui bozzetto si trova ad Acireale nella pinacoteca Zelantea. All’interno della sagrestia, altre opere di pregio, tra cui la grande tavola cinquecentesca dell’Annunciazione, proveniente dall’altare maggiore dell’antica chiesa dell’Annunziata, attigua al castello nella Cava. Dal corso Vittorio Emanuele, si raggiunge la secentesca chiesa di S. Antonio Abate, che custodisce una bella statua lignea di Santa Lucia, opera dello scultore napoletano Francesco Biangardi e il Santuario e Convento della Madonna del Carmelo. Da vedere in quest’ultimo, tra l’altro, il mausoleo del venerabile Andrea Statella, adornato con stucchi dei Gianforma e la statua lignea della Madonna del Carmelo, opera del palermitano Girolamo Bagnasco datata 1861. Al termine di questa passeggiata scandita da capolavori, il visitatore comprenderà perché Ispica è proiettata ai vertici delle città d’arte del Val di Noto. Santuario del Carmine
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Chiesa dell’Annunziata, facciata
Chiesa Madre di San Bartolomeo
SPERLINGA LA FORTEZZA CHE SFIDÒ LA STORIA “Quod siculis placuit sola Sperlinga negavit” di Giuseppe Nuccio Iacono - foto Giulio Lettica -
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- Li Francisi eranu patruni dâ&#x20AC;&#x2122;ogni cosa, e li muglieri nun eranu di li propria mariti. Li Siciliani si dettiru li baretti pri tutti li cittĂ , e sulu Sprilinga si nigau. Allâ&#x20AC;&#x2122;ura giusta, quannu li campani sunaru, si fici stragi di li Francisi pri tutta la Sicilia, e sulu a Spriliinga li lassaru vivi!
Spazi del livello che precede la parte sommitale
Gradinata consumata dai secoli che conduce all'ultimo livello della fortezza
Suggestiva veduta del paese dallo spiazzo dell'ultimo livello
on queste parole si tramanda un episodio del Vespro Siciliano (1282): quando Sperlinga divenne leggendaria per non aver aderito all’insurrezione della Sicilia contro la tirannia angioina. Quella “mala” Signoria che sempre accora/ Li popoli suggetti non avesse / Mosso Palermo a gridar: “Mora, mora”, ricorderà Dante nel Purgatorio. Sperlinga non si chinò, resistette per circa un anno all’assedio degli aragonesi e volle scrivere con orgoglio un brano della storia dei vinti, offrendo rifugio ai francesi tra le mura inviolabili del suo castello. “O di Sperlingo, al fin pietoso a’ Franchi” scriverà Torquato Tasso nella sua “Gerusalemme Conquistata (II, 70). I fatti storici sembrarono incredibili. La cronaca dell’assedio, avvenimento in controtendenza con la storia dominante, fu presto considerata come un racconto fantastico. Una leggenda che si scioglierà per diventare nuovamente verità storica grazie agli studi di Michele Amari. Se per Sperlinga fu un atto di orgoglio e fierezza, per tutti i siciliani fu invece un tradimento da condannare, una infamia da bollare. Opposte sensazioni concentrate in un motto, nel famosissimo esametro latino scolpito su due pietre del castello: “Quod siculis placuit sola Sperlinga negavit” ossia “Ciò che piacque ai Siculi soltanto Sperlinga negò”. I tempi cambiano gli uomini e anche le nomee… e dopo
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Particolare esterno
500 anni anche quel motto sembrò strano al francese Déodat Dolomieu, il celebre geologo che durante il suo viaggio in Sicilia giunse a Sperlinga nel 1781. Questa volta Sperlinga “negavit” l’ospitalità al francese che nel suo diario di viaggio scrisse: “Gli abitanti di Sperlinga in nessun posto mi hanno dato la possibilità di cuocere un pollo acquistato per via. Mi hanno fatto pagare pure l’acqua da bere che avevo chiesto come favore. Lo stesso governatore del forte mi vide due volte seduto in strada sotto il sole cocente senza neppure offrirmi un riparo. Eppure ero andato a trovarlo mostrandomi rispettoso verso il suo cappello bordato d’argento e il suo bastone con il pomo di rame….”.
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Panorama di Sperlinga
“Giardino della civiltà e sollazzo dell’anima” A 50 Km da Enna, nel cuore della Sicilia. Tutto contribuisce all’armonia totale che i secoli hanno saputo plasmare con la spada, l’aratro, la poesia e l’arte. Qui il Genius Siciliae accoglie il visitatore, lo prende per mano e lo conduce nelle mille scoperte di un territorio infinito dove il paesaggio diventa la scena di un quadro che potrà essere firmato con il sorriso. In questo paradiso, sorge su un colle, a 750 s.l.m, Sperlinga. Un tempo era una giovane fanciulla povera e vestita di cenci. La sua bellezza era indescrivibile e tutti gli Dei la contemplavano. Ma per paura di vederla sfiorire con il passar degli anni, decisero di pietrificarla per eternare la sua bellezza. Da quel giorno la fanciulla divenne un luogo incantato: una cittadina sdraiata con un castello per diadema e un antico borgo per mantello… i buchi e gli strappi dei poveri cenci di cui era vestita si trasformarono in quella miriade di grotte che ancora oggi caratterizzano il territorio. Da Sperlinga si apre un ampio paesaggio che include le
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Madonie e i Nebrodi e svela quel tipico territorio “increspato” che Giuseppe Tomasi di Lampedusa descrisse come “un mare che si fosse pietrificato in un attimo in cui un cambiamento di vento, avesse reso dementi le onde”. Il toponimo Sperlinga deriva da “spelunca”, cioè spelonca, antro, grotta e trova una corrispondenza nel territorio ricco di grotte naturali o scavate dagli uomini e adibite in passato ad abitazioni. Il paese nasce il 30 novembre nel 1597 quando Filippo II concesse a Giovanni Forti Natoli il privilegio di “potervi fabbricare terre”. Tuttavia, un primo e modestissimo nucleo era già costituito da alcune casupole poste ai piedi della fortezza. Si trattava di quel borgo che El Edrisi nel suo “Libro di Ruggero” descriveva come “Giardino della civiltà e sollazzo dell’anima”. Il castello di Sperlinga è una fortezza rupestre, tipologia rara e modello esemplare tra i più originali. È una mirabile composizione dove le opere murarie penetrano e si fondono nella rupe. La roccia sorregge le strutture difensive e nel contempo “regala” aggrottati per completare la distribuzione funzionale degli ambienti (stalle, sale di guardia, depositi, prigioni ecc…).
Gli aggrottati
Gli aggrottati
La grotta dalle 12 nicchie
Una veduta
Ambiente domestico
I signori di Sperlinga Molto probabilmente i primi a “sfruttare” le qualità difensive del sito furono i Siculi. Seguirono poi bizantini e arabi. Pare che il sito assunse dignità di fortezza a partire dall’XI sec. grazie ad un diploma del Conte Ruggero. Il primo signore di Sperlinga di cui si hanno notizie (1132) fu il barone Russo Rubeo (Rosso). I Rosso perderanno la fortuna e l’investitura dopo i Vespri Siciliani con la fine del dominio angioino. Nel 1283, dopo aver espugnato la fortezza dove si era asserragliata la famosa guarnigione angioina, re Pietro d’Aragona ordinò di distruggere il castello (cosa che avvenne solo in parte) e assegnò la baronia a Francesco Scaglione. Dopo pochi anni, nel 1296, il castello e la terra di Sperlinga passarono alla famiglia Ventimiglia che ne mantenne ogni diritto per circa tre secoli. Nel 1597, Giovanni Ventimiglia vendette castello e feudo (30.830 scudi) a Giovanni Forti Natoli, che ottenne da re Filippo II il titolo di principe di Sperlinga e, cosa molto importante, la “licentia populandi” che diede vita al centro abitato e alla fondazione della chiesa madre. Francesco Natoli, vendette la Fortezza di Sperlinga a Giovanni Stefano Oneto che ottenne da re Carlo II il titolo ducale. A partire dalla seconda metà del XIX sec. il castello non più abitato e abbandonato a se stesso cominciò ad andare in rovina… e fu tale la gravità dello stato di degrado
che nel 1914 si ricorse persino a demolire gran parte delle fabbriche (pericolanti), interrando con il materiale di risulta i sottostanti ipogei (pozzi e grotte). L’ultimo Duca di Sperlinga, Giuseppe Oneto e Lanza, lo diede nel 1852 in enfiteusi al barone Nunzio Nicosia, i cui discendenti lo donarono al Comune di Sperlinga nel 1973. A partire dagli anni ’80 del XX sec. tutto il castello fu sottoposto ad imponenti lavori di restauro: furono svuotati gli ipogei, rinforzati gli ambienti d’ingresso, restaurate le strutture murarie in elevazione ed eseguite coperture. Nel 1995, fu ricostruita la chiesa sui ruderi preesistenti. Con il nuovo millennio fu prevista la copertura delle ampie stanze baronali del corpo principale. Il visitatore che oggi si reca al Castello non potrà fare altro che apprezzare lo stato di conservazione e l’attenta gestione di uno dei più importanti gioielli architettonici di Sicilia.
Tra sale, scuderie, prigioni e misteriosi aggrottati Quando si giunge nella piazza del paese, lo sguardo è subito catturato dalla parete del castello rupestre dove emerge la trecentesca bifora dal capitello composito con decorazione fitomorfa a foglie uncinate e dagli archetti con cornice a motivi zigzaganti. Accanto due finestre e il portale di un balcone con stipiti e mensole in pietra. La bifora trecentesca
Ricordano la presenza dellâ&#x20AC;&#x2122;antico ponte levatoio le mensole poste sotto l'arcone murato
Merli a coda di rondine
Resti di una finestrella trilobata
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Una rampa gradonata conduce all’ingresso del castello. Il portale medievale è stato murato e ridotto e dell’antico ponte levatoio (sostituito con l’attuale passerella in calcestruzzo) sono ancora visibili in facciata le mensole di sostegno e le due feritoie (murate) dove scorrevano gli argani. Oltrepassato il portale ogivale si incontrano due vani con pavimentazione ricavata nella roccia e si raggiunge uno spazio all’aperto. Non può che suscitare curiosità il susseguirsi di spazi costruiti o scavati nella roccia che compongono la pianta irregolare del castello. Su una superficie di circa 200 mt. di lunghezza e 15 mt. di larghezza si dispongono liberamente e su varie quote numerosi ambienti. In un susseguirsi di sorprese si possono ammirare cisterne per la raccolta delle acque piovane servite da rudimentali (forse) ma molto efficaci canalette scavate nella roccia. Interessanti le scuderie dove i cavalli potevano accedere tramite un percorso particolare collegato ad una porta (detta “Porta Falsa”) situata a nord del castello. Vicino alle scuderie si trovano una fucina con grande cappa, per la fabbricazione delle armi e un insieme di piccoli vani che servivano da prigioni. Poi, meritano una certa attenzione la residenza baronale, la cosidetta “Sala del Principe” e la chiesa di San Luca. Nel piano di calpestio, nei pressi della chiesa si notano dei fori (protetti da ringhiere) che lasciano intravedere i sottostanti vani rupestri. Tra gli aggrottati alcuni spazi lasciano nel mistero la loro originaria funzione. Incerta ancora la finalità delle 12 piccole nicchie scavate nella parete rocciosa di uno di questi ambienti circolari e a cupola (luogo di culto legato ad una sorta di orologio solare? i raggi passando da un foro illuminavano le nicchie?) Meta agognata per ogni visitatore è la cima della rupe (alta 70 mt. da piazza Castello) dove si sviluppa la parte alta della fortezza (40 mt. X 8 mt). Una lunga e stretta scala scavata nella roccia e alquanto consumata dai secoli conduce alla torre di avvistamento (della quale rimane soltanto la base). Si dice che lungo questo percorso fosse presente un falso gradino, un trabocchetto (oggi murato) che faceva precipitare gli “indesiderati” in un pozzo sottostante. Di sicuro sappiamo che quella scala conduce in un luogo magico dove il visitatore scoprirà un panorama che supera il tempo e lo spazio di ogni immaginazione.
La stanza della bifora
La porta falsa
Il museo della civiltà contadina
La cappella
Oggetti della tradizione contadina conservati nel museo Particolare unione di elementi costruiti e ricavati dalla roccia
Per gli storici quello di Sperlinga non fu tradimento ma un atto di orgoglio e di fierezza.
Spazi del livello che precede la parte sommitale
«Lu rebellamentu di Sichilia» Scoppiò a Palermo il martedì di Pasqua 1282 all’ora del Vespro (da qui deriva il nome dell’episodio storico: Vespri Siciliani). Un soldato francese, che con arroganza e senza ritegno aveva osato perquisire una ragazza, fu ucciso dal fidanzato di quest’ultima. Da lì divampò, in tutta la Sicilia, la rivolta contro la dominazione angioina. I Francesi che non riuscirono a fuggire furono massacrati. A Sperlinga, invece, la guarnigione francese, dopo aver appreso la notizia della ribellione si asserragliò nel castello dove poté godere della complicità dei signorotti e dell’aiuto della popolazione che procurava loro il necessario approvvigionamento. Dopo aver appreso la notizia, Pietro d’Aragona diede l’ordine di assediare il castello. Era il 19 gennaio 1283. Re Pietro scrive a Russimanno di Nicosia e lo incita a continuare l’assedio e nello stesso tempo lo invita a prendere seri provvedimenti contro i Nicosani che riforniscono di viveri gli assediati. La resa della guarnigione avvenne dopo molti mesi (forse nel maggio 1283) grazie ad un accordo: i francesi lasciavano Sperlinga e si imbarcarono a Messina per essere accolti da re Carlo con tutti gli onori e anche con alcune concessioni di terre. La parte sommitale del castello
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Il vestibolo
Ambienti rupestri del castello
Tradizionale telaio sperlinghese - Museo civiltà contadina
Il Borgo Rupestre A sud del castello si trova il caratteristico “Borgo rupestre”, il quartiere del Balzo, una cinquantina di grotte disposte in file sovrapposte e abitate fino agli anni ’60. Composte da uno o due vani questi ipogei ospitavano in origine le famiglie al servizio del barone. Oggi sono per lo più adibite a depositi. In alcune di queste grotte, acquistate dal comune di Sperlinga è allestito un pregevole museo etnoantropologico. Interessanti la raccolta di oggetti della civiltà contadina sperlinghese e il telaio che mantiene vivo il ricordo dei tappeti realizzati con strisce di stoffa.
Il calice dell’aceto
e dell’arsenico che generava
vedove felici
GIOVANNA BONANNO:
la strega avvelenatrice di Palermo di Giuseppe Nuccio Iacono lba del 30 luglio 1789. È da poco sorto il sole su Palermo. Le prime ombre si proiettano cupe sulle strade affollate dalle quali risale il vocio tumultuoso di una tragedia. Un corteo avanza lentamente. Il passo è cadenzato da un ritmo lugubre e severo. La processione è preceduta da uno stendardo rosso che preannuncia sangue. Sul tessuto dove campeggia la scritta: “Discite iustitiam populi” soffia un vento leggero ma insistente, quasi a voler eliminare quelle lettere e, con esse, cancellare l’onta che da lì a poco si doveva celebrare sul patibolo. Apre il corteo, la Conpagnia d’Arme Reale, composta da cavalieri vestiti di rosso. Poi sfilano, su cavalli bardati di nero, gli Araldi della Gran Corte di Giustizia. Seguono i rappresentanti incappucciati di alcune confraternite e alla fine, la Compagnia dei Bianchi, cavalieri della nobiltà palermitana, con cappuccio e ampia mantella bianca il cui arduo compito è quello di preparare e assistere i condannati a morte. Dietro di loro, un gruppo di uomini armati tiene lontana la folla dal Trittico della Morte: un boia che trascina un mulo sul quale stava una vecchia in catene. Inutile negarlo. L’esecuzione capitale per la folla non è altro che uno spettacolo da non perdere e da raccontare. L’organizzazione riesce a soddisfare la brama di curiosità della folla che segue e circonda il corteo e di coloro che da ore hanno occupato i primi posti, nel luogo dove troneggia il patibolo. E per chi non ha avuto la “fortuna” di occupare i primi posti si era già deciso di impiccare la vecchia “in furcis
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altioribus”, nella forca più alta. Da qualsiasi angolo della piazza Vigliena il popolo può seguire le varie fasi dello “spettacolo”. Gli occhi puntano su quella vecchia; una donna di ottanta anni, dall’esile corporatura, sdentata e dal capo rasato che scesa dal mulo è spinta senza ritegno da due sgherri. Sale lentamente gli scalini del patibolo dove il boia è già in attesa. Il palco scricchiola come la vita sotto gli ultimi passi. La condannata sale sullo sgabello e il cappio le è posizionato attorno al collo. Il boia da un calcio allo sgabello e la vittima comincia a penzolare mostrando sul viso tutte le espressioni del terrore e del dolore. Per un intoppo qualcosa non ha funzionato e la povera vecchia appesa in quella corda oscillante non è morta. Dalla folla si alza un urlo di sgomento… ma nessuna pietà! Il boia salta dunque con tutto il suo peso sul corpo della vittima tirandola verso il basso finchè la vecchia non muore strozzata. In quell’istante inizia il suono lugubre delle campane e muore anche la Pietà e il senso cristiano. Ogni segno di croce diventa ipocrisia! La scena cruenta è interpretata in vari modi; e se fosse un presagio nefasto per il sacrificio di una martire? Tra la folla molti sono colpiti da isterismo: alcuni si gettano tremanti a terra; altri urlano frasi sconnesse; altri, spinti da selvaggio feticismo cercano di salire sul patibolo per prendere qualche lembo di tessuto. Il corpo straziato che continuava a pendere è quello di una fattucchiera conosciuta da tutti con il nome di Anna. Una avvelenatrice che passerà alla storia come la “Vecchia dell’Aceto” per aver venduto un “aceto speciale” ad alcune donne insoddisfatte della loro vita coniugale. Un aceto velenoso che era un elisir di lunga vita per le mogli che desideravano sbarazzarsi di mariti e salire al rango di vedove allegre. Ma chi era Anna? Anna Pantò era nata agli inizi del ’700 in un quartiere della Zisa, tra i più poveri e degradati di Palermo. Dai primi anni dell’infanzia visse di accattonaggio e crebbe tra meretrici, ruffiani, malfattori e delinquenti di ogni sorta. Anna (che nelle carte processuali sarà citata con il nome Giovanna) sposò nel 1744 un certo Vincenzo Bonanno. Per allievare la povertà e per “campare” Giovanna si dedicò saltuariamente al mondo delle pozioni e dei filtri magici; toglieva e applicava malocchi per una clientela in cerca di illusioni. Secondo gli atti giudiziari del processo per veneficio e stregoneria, la professione “altamente umanitaria” di Giovanna (come lei stessa dichiarava) entrò nel vortice del male, nel 1786; quando iniziò a propinare l’ampolla con il miracoloso veleno per risolvere i “patemi d’amore”.
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Piazza Vigliena - stampa del 1890
Tutto ebbe inizio quando le giunse la notizia di bambina morta per aver ingerito casualmente un liquido che serviva a combattere i pidocchi. La notizia divenne una macabra ispirazione: andò dal droghiere che vendeva quel liquido e apprese la composizione di quell’intruglio: una miscela di acqua, aceto di vino bianco e arsenico. Ingerire quel prodotto scatenava terribili convulsioni ma non lasciava tracce evidenti di avvelenamento né restavano segni delle spasmodiche contrazioni. Omicidio perfetto! La fattucchiera decise quindi di sperimentare il veleno su un cane che morì in poco tempo tra atroci dolori. Il sapore d’aceto camuffava bene il micidiale veleno e le clienti potevano utilizzarlo tranquillamente nel piatto di insalata del proprio uomo o, come si consigliava… in un bicchiere di limonata (per dissetare) . La prima cliente fu Angelina la Fata che, stanca del solito marito, decise di eliminarlo e sostituirlo con il più aitante amante, Giuseppe Billotta. L’esperimento era ancora da perfezionare se si pensa che la pozione non fu sufficiente. Fra terribili spasmi il marito fu condotto in ospedale… ma bastò un’altra dose per ottenere il risultato sperato. La seconda vittima fu il fornaio Ferdinando Lo Piccolo,
Uno scorcio sulla piazza dove era sistemato il patibolo di Palermo - foto Jeff Kevin
marito della “promessa vedova” Emanuela Molinari. In breve tempo si sparse la notizia dell’esistenza di questo nuovo “servizio” che si poteva ottenere tramite la mediazione di alcune meretrici. E fu la fine. Un giorno Giovanna consegnò alla sua aiutante Maria Albergheria, il quartiere dove visse Giovanna Bonanno
Pitarra, un flacone di veleno senza chiedere informazioni sul destinatario. Quando scoprì che si trattava del figlio della sua amica Giovanna Lombardo… era troppo tardi. La vendetta della Lombardo invece non tardò: finse di voler comperare l’aceto e nel giorno stabilito si presentò insieme a quattro testimoni. Nell’ottobre del 1788, la Vecchia dell’Aceto fu arrestata e processata per stregoneria. Sottoposta alla tortura della corda confessò e non rinnegò l’utilità di quell’aceto misterioso. Aceto veramente mortale che come monito era contenuto nei due fiaschi sul patibolo, accanto al libro nero del processo. Di lei resta oggi un busto conservato nel museo Etnografico Giuseppe Pitrè e come affermano alcuni palermitani è ancora viva la sua memoria nei quartieri dell’Albergheria dove resiste il suo nome in un cortile di vicolo Colluzio.
ACATE Cittadina del Ragusano dove si vive bene Foto gentilmente concesse dal Comune di Acate
cate (199 metri sul livello del mare; 8360 abitanti) sorge al limite dell’altopiano ibleo, laddove esso digrada verso il mare ed è posizionata su una fertile vallata dove scorre il fiume Dirillo. Il territorio, per le sue caratteristiche di fertilità ed irrigabilità, reca tracce di un diffuso processo di colonizzazione in età romana, con persistenze negli stessi siti in età araba. Importante ed assai significativa è inoltre la presenza di un imponente rudere in contrada Casale, identificabile con i resti della città di Odogrillo del periodo svevo, normanno e aragonese (XI-XIV sec.)
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Se si scandaglia nei suoi 600 anni di esistenza si trova tutto o quasi tutto per essere appagati: fertilità del territorio, archeologia, enogastronomia, feste, Palio, mare vicino, fiori, vini, ricettività, ma soprattutto cultura e accoglienza. Veduta dei bambini dall'alto del castello
LA STORIA Gli studi e le ricerche su queste testimonianze del passato sono ancora in corso, ma tuttavia appare inequivocabile come l’intero territorio possa essere per gli studiosi e per gli archeologi fonte di inesauribili sorprese. La fondazione di Acate, chiamata Biscari fino al 1938, nel sito attuale risale alla fine del XV secolo, ad opera di Guglielmo Raimondo Castello, che fondò il primitivo borgo (odierno quartiere San Vincenzo) e il Castello. Verso la metà del Seicento circa, Agatino Paternò Castello, Principe di Biscari, ristrutturò ampiamente il Castello e ne ribaltò la fronte principale, a riguardare il nuovo centro da lui rifondato secondo un impianto urbanistico ortogonale. Egli dotò la città di chiese: Chiesa Madre, dedicata a San Nicolò, riedificata nel 1859, dopo i terremoti del 1693 e del 1846, chiesa di Sant’Antonio, oggi del Carmelo e Chiesa dell’Abbazia di San Giuseppe. Un nuovo impulso edilizio si ebbe nel settecento col Principe Vincenzo Paternò Castello, che realizzò diversi basilari interventi di ristrutturazione del Castello, danneggiato dal terremoto del 1693 e fece edificare il Collegio di Maria, il Convento dei Frati Cappuccini e la Chiesa di San Vincenzo - nelle forme odierne - in cui è
custodito il corpo del Santo Martire, Santo Protettore della Città, in onore del quale si svolge ogni anno, la terza domenica dopo Pasqua, il tradizionale Palio, una corsa di cavalli con fantini nel centrale Corso Indipendenza. Questo palio è di grande richiamo turistico sia per lo spettacolo offerto che per le manifestazioni di contorno promosse dagli organizzatori.
LE TRADIZIONI Altri eventi di interesse folkloristico sono le celebrazioni della Settimana Santa, ed in particolare le processioni e la Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo, la Cena di San Giuseppe, mentre da diversi anni a questa parte ha assunto notevole rilievo il Carnevale con la sfilata di carri allegorici, realizzati da valenti artigiani locali, e il Settembre a Biscari, una serie di manifestazioni volte alla riscoperta e alla valorizzazione delle tradizioni contadine ed all’approfondimento degli studi di storia locale. A circa 13 km dal centro urbano sorge il villaggio a mare di Macconi, che trae il nome dalle caratteristiche alte dune sabbiose, tipiche di questo tratto di costa, su cui nasce ancora la ormai rara retama, una sorta di ginestra bianca dall’intenso profumo, che cresce soltanto sulle coste settentrionali dell’Africa, testimoniandone l’antichissimo legame geologico con la nostra isola.
L’economia è in crescita: agricoltura, primaticci, enogastronomia di eccellenza, aziende leader in Europa L’economia di Acate si fonda essenzialmente sull’agricoltura, con prevalenza delle colture agrumicole e vitivinicole, nonchè dei primaticci in serra e floricole. Le aziende, per lo più medio-piccole offrono una produzione di alta qualità sia dal punto di vista organolettico, che estetico; tuttavia la crisi che grava su questo settore produttivo impedisce in atto una proficua commercializzazione, provocando serie difficoltà ai produttori, anche alle aziende di una certa entità, ed
Chiesa del Carmelo
impedendo i reinvestimenti nel settore. Discorso a parte merita il settore floro-vivaistico, che vede presenti sul territorio grandi aziende che utilizzano tecnologie avanzate e che vantano una produzione leader sul mercato europeo. Negli ultimi decenni si è andata affermando inoltre una produzione vitivinicola che dall’antica tradizione ha saputo realizzare e proporre al mercato, anche internazionale, vini di pregio. Dal punto di vista della fruizione turistica, il territorio si presenta ricco di potenzialità, non solo per lo splendido sviluppo della costa e per il nascente agriturismo, che offre già alcune valide strutture ricettive, ma anche per il suo patrimonio storico-artistico, che a giusto titolo fa includere Acate in alcuni itinerari interprovinciali, in corso di studio e attuazione.
Al Castello Ursino tutti in estasi per i “Ritratti dell’anima” Una marea di visitatori per la prima volta siciliana di Amedeo Modigliani ltre 24 mila visitatori in meno di due mesi. Parliamo di “Modigliani, ritratti dell’anima”, la mostra ospitata al Castello Ursino di Catania dall’11 dicembre all’11 febbraio voluta dall’assessore comunale alla cultura e ai grandi eventi Marella Ferrera e organizzata in collaborazione con gli Archivi Modigliani di Roma e Parigi e con la Galleria Side A di Giovanni Gibiino, coordinatore dei collezionisti siciliani del grande maestro toscano. Mentre chiudiamo questo numero di Inside la mostra è ancora in corso e gli organizzatori fanno intendere che i dati, già straordinariamente positivi, saranno ulteriormente “ritoccati” al rialzo entro la chiusura, prorogata in via eccezionale di altri due giorni. In due mesi di esposizione l’affluenza del pubblico è stata costante, con punte di 1400 visitatori domenica 2 gennaio. Comitive entusiaste che, al termine del tour attraverso l’infanzia, le prime opere della gioventù e quelle della pur breve maturità di Modigliani (morto a 36 anni), applaudivano commosse al termine del percorso le loro guide, i professionisti di Federagit-Confesercenti preparati a raccontare e illustrare il percorso espositivo di Catania dal presidente degli Archivi, Chri-stian Parisot. Proprio le guide turistiche sono state il “valore aggiunto” della mostra di Catania, un alle-stimento dalle grandi potenzialità divulgative grazie alla presenza di una sezione documentale (foto, lettere e il diario della madre di Amedeo) di proprietà degli Archivi che affiancava la raccolta di opere del maestro di Livorno: 25 disegni, 3 oli, 5 sculture, 7 disegni appartenenti a collezionisti siciliani, esposti in diverse mostre all’estero ma mai nell’isola oltre a una quarantina di opere di artisti contemporanei vissuti a Parigi nel primo Novecento: Picasso, Jacob, Toulouse Lautrec e molti altri ancora. Nei due mesi della mostra di Modigliani al Castello Ursino, Catania ha assistito all’accendersi di un
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Donna con occhi blu - olio su tela - 1917
Cariatide rossa - tempera su carta - 1913
nuovo entusiasmo per il mondo dell’arte avvicinando al circuito delle mostre – cui per ragioni geografiche e culturali la Sicilia è spesso ingiustamente emarginata – settori di pubblico che solitamente non vi accedono per disinteresse o per (presunta) impreparazione. La presenza e la disponibilità delle guide Federagit ha invece contribuito a “mediare” – adeguando di volta in volta il linguaggio - i contenuti della mostra, rendere trasversale l’offerta del prodotto culturale e dunque comprensibile e piacevole anche a chi non è abituato a frequentare musei, gallerie e fondazioni. Dalle scolaresche di tutta la Sicilia alle comitive di professionisti, dai liceali agli studenti delle accademie e delle università, dalle associazioni culturali fino ai gruppi di audiolesi, disabili e perfino a un gruppetto di ragazzini “difficili”, gli ospiti della Comunità Penale Minorile di Caltanissetta giunti a Catania con i loro educatori per conoscere la città e i suoi monumenti ma anche per curiosare dentro il Castello Ursino, fra le tele e i disegni di Modigliani: un progetto di educazione alla legalità, promosso dall’Assessorato Regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro per il quale le guide hanno offerto gratuitamente il loro servizio. Così è stato anche per i gruppi di audiolesi. Grazie alla collaborazione delle associazioni Afae ed Ens hanno Modigliani nel suo atelier potuto conoscere la foto di Paul Guillaume - Parigi, 1915 vicenda umana e l’avventura artistica di Modigliani con il supporto di tre interpreti del linguaggio LIS (lingua italiani dei segni) che hanno affiancato le guide Federagit. A guidare il gruppo di Catania è Giusy Belfiore, professionista appassionata e trascinante che non di rado, al termine del tour al Castello Ursino si ritrovava senza voce ma circondata dall’abbraccio affettuoso degli occasionali compagni di viaggio, ancora entusiasti del percorso e generosi di sorrisi grati e strette di mano. “La più grande soddisfazione – ci racconta la Belfiore – è stato il commento di due docenti della Facoltà di Lettere che si compiacevano di aver fatto la visita guidata con noi perché avevano potuto capire fino in fondo l’esposizione”. Con la Belfiore hanno lavorato al Castello Ursino anche Antonio Scalisi, Patrizia Miuccio, Patrizia Calabrò, Angela Arnò e Tatiana Salmè. Senza contare il contributo, a titolo gratuito, di studiosi dell’arte prestati all’operazione Modigliani come Margherita Saccà, Lea Mirone e Marilisa Spironello. Vera Corso
«Modica, la città della contea che contava più schiavi»
PADRONI & SCHIAVI di Gianni Morando pirateria, fenomeno che si perde nella notte dei tempi, ha avuto un grande palcoscenico su tutte le coste siciliane. Dal secolo VIII in poi scompare una gran parte dei villaggi delle zone costiere e dell’immediato entroterra, dove i pirati trovavano popolazioni indifese e potevano razziare beni e persone da immettere nel mercato degli schiavi. Per difendersi da questa grave sciagura i paesi si arroccarono sulle montagne. Fu organizzata una rete di torri costiere, per l’avvistamento di navi sospette, con il compito di contrastare con le armi gli attacchi dei pirati ed avvertire la gente. Erano tempi terribili. Il mar Mediterraneo brulicava di pirati “turchi” e cristiani che, con la complicità di alcuni Stati, trovavano, in alcuni porti, tutte le infrastrutture necessarie alla loro attività. In Algeri c’era un mercato molto attivo, dove i pirati potevano vendere tranquillamente i beni razziati e le prede umane. A Tunisi il commercio corsaro era così fiorente che vi risiedevano mercanti d’ogni parte del mondo. La merce predata era inviata in Europa, tramite Livorno,
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dove non si pagavano gabelle e per un anno la “mercanzia” in sosta era esente da ogni tassa. La Sicilia fu una delle terre che più d’ogni altra patì assalti improvvisi e devastazioni, con maggiore offesa sulla costa occidentale, più vicina a Tunisi ed Algeri. Nell’entroterra della contea di Modica la situazione era più tranquilla, ma i contadini vivevano con il pericolo, sempre incombente, d’essere presi, nella solitudine del lavoro dei campi, da un’improvvisa carica di predoni. Gli sventurati che incappavano in queste retate erano trascinati in catene, a gruppi di quattro o cinque persone: condotti verso porti sconosciuti erano destinati a morire, quasi tutti, lontano dalla propria casa. La pirateria cristiana, da parte sua, operò in oriente ed a volte sulla riva africana, portando in patria gli schiavi, una merce preziosa e diffusa in tutto il mondo antico.
Gli schiavi potevano essere venduti nelle fiere come gli animali e con la formula “pro sacculo ossibus pleno”, paragonandoli ad un sacco pieno d’ossa... Anche il cardinale di Montelupo possedette una schiava che vendette poi a mastro Ruggiero di Polizzi per tre onze e 15 tarì. In un contratto datato 12 agosto 1344, Andrea Lombardo, nobile palermitano, vende al milite Matteo di Maida una serva olivastra di circa 30 anni, dichiarando che la predetta serva non è ubriacona, fuggitiva, ladra, mentitrice, sciarrera (litigiosa), linguacciuta, malinconica, sofferente... fa solo riserva di due infermità: morbo caduco, vizio mingendi lectum. Nel cartulario della famiglia Alagona si trova che nel 1347 Nicolao de Vulpono, cittadino di Catania vende a Blasco Alagona conte di Mistretta una serva con due figli per 14 onze d’oro. Gli schiavi utilizzati per i lavori nei campi o per i lavori domestici, davano prestigio a chi li possedeva, ma soprattutto erano “oggetto” dei passatempi erotici del padrone. Dai documenti del 1593 della contea di Modica si rileva come la presenza di schiave fosse associata a
piccoli schiavi. Questo dimostra “l’utilizzazione” cui andavano soggette le belle e giovani schiave. Un mondo di storie e tragedie divenuto alla distanza di 400 anni quasi incomprensibile così come oggi appare mostruoso che i padri considerassero schiavi i propri figli nati per disgrazia da una madre schiava, e che potessero addirittura venderli ad altri padroni. Nei riveli siciliani gli schiavi sono annotati fra i beni mobili, in quelli ragusani addirittura dopo le bestie... Gli schiavi non avevano un cognome, ma quando erano lasciati liberi, prendevano di solito cognomi come Liberto(di), Franco(di), Resalibra, Nigro, Scavo, Maurigi, Lo Bianco, Fortunato, Salvo ... o il cognome del padrone. Se si trattava di una schiava “verna” (nata nella casa dei padroni), assumeva il cognome della madre: D’Anna, Di Maria, Di Chiara... Con questo non si vuole affermare che “tutti” coloro che portano questi cognomi abbiano origine da schiavi. L’origine di uno stesso cognome può avere infatti le più svariate origini sia etimologiche che geografiche. I rilevi ragusani del 1569 attestano che nel paese esistevano 99 schiavi dichiarati, di cui 57 “femmine di ogni età”.
Nella Contea, Modica era la città che contava più schiavi. Qui viveva la schiava più costosa e certamente più bella della Contea. Si chiamava Diamante (per valore e bellezza!), valeva 80 onze, era di pelle nera e di proprietà Pietro Ricza.
Il mercato degli schiavi - Jean Leon Gerome
Nella Contea, Modica era la città che contava più schiavi. Qui viveva la schiava più costosa e certamente più bella della Contea. Si chiamava Diamante (per valore e bellezza!), valeva 80 onze, era nera di pelle e di proprietà di Pietro Ricza. Per dare l’idea della consistenza del fenomeno, ecco un cenno, un brevissimo elenco di “padroni di schiavi” presenti a Ragusa. Nel 1593, Paulo La Restia (con la moglie Isabella e 6 figli) oltre ad avere tre servitori (di 40, 20 e 12 anni) e due citelle (= zitelle)… possedeva lo schiavo Vincenzo (30 anni, 40 onze) e la schiava Joanna (50 onze). Blasi di Gaspano, possedeva due schiavi di 20 e 30 anni. Vincenzo Pichiunj (Piccione) con moglie e tre figli aveva una schiava e due schiavi di 16 e 3 anni. Nel 1624, Ascanio Castilletti possedeva tre schiavi: Giorgio Castilletti di 24 anni (40 onze), probabile suo figlio, Gioanna (30 onze) e Caterina (40 onze); Giovanni d’Arezzi aveva due schiavi: Leonardo di 13 anni (30 onze)
e Maria (30 onze); Vincenzo d’Arizzi, dichiarava una schiava di nome Barbara della quale però non conosciamo il prezzo. In quell’anno, Natalitio La Rocca era ricordato per le sue grandi ricchezze. Il figlio Mariano di 16 anni, sposato con una certa Margherita, viveva nella casa paterna, con la madre, la sorella ed uno stuolo di servi e di schiavi. Dieci anni prima, Natalizio La Rocca aveva dichiarato “una scava figliata” (Magdalena) con la figlia Agata di mesi tre, entrambe valutate 50 onze, Margarita (40 onze) e la figlia, “scavotta” di anni 4 (15 onze), Francesco (40 onze) e Joseppi (40 onze). I riveli di Ragusa del 1748 non riportano più “apparentemente” il fenomeno della schiavitù, non essendo stato dichiarato alcun schiavo. Rimasero immutati, invece, il trattamento e le regole riservate alla servitù, molto vicini a quelli degli schiavi domestici. Di certo scomparve il mercato degli schiavi che aveva sostenuto l’immorale fenomeno.
I luoghi dimenticati
Il Cimitero Eterodosso del Cavaliere Saverio Landolina Nava di Sergio Cilea arcato il cancello del Museo Archeologico Paolo Orsi di Siracusa, il visitatore viene immediatamente accolto dall’atmosfera quasi irreale di serenità trasmessa dalla lussureggiante vegetazione, ricca di profumi e colori che regna all’ombra dei maestosi alberi secolari. La vista spazia attratta da enormi giare, da raffinati sarcofagi scavati nel vivo masso e da infiniti conci di pietra, scolpiti da mani sapienti e che oggi giacciono sparsi orfani della loro originaria collocazione. La meta è già prefissata, il moderno museo archeologico contenente i tesori lasciati in eredità dal popolo appartenuto a quella che fu in epoca classica, al pari della mitica Atene, la più importante città del Mediterraneo. Ma l’ignaro visitatore, giunto all’interno del museo, non può sapere che nello stesso parco, a pochi metri di distanza, celate tra la fitta vegetazione, da più di due secoli riposano le spoglie di eroi di altri tempi, di avventurosi poeti, di coraggiosi uomini venuti da lontano, sepolti in un piccolo cimitero che proprio per la peculiarità degli ospiti viene definito cimitero eterodosso. La parola eterodosso, deriva dal greco ἑτερόδοξος, ed è composta da ἑτερο «etero-» e δόξα «opinione», il cui significato è riferito a persone che, specificatamente in materia di religione, professano dottrine o opinioni diverse da quelle più largamente accolte nell’ambito della società in cui vivono, ritenute vere in forza dell’autorità che le ha definite. Un cimitero quindi dove vennero sepolti uomini e donne che nella loro vita, avendo professato una religione diversa dalla cattolica e che trovandosi sfortunatamente a morire nel cattolicissimo Regno delle Due Sicilie, non avrebbero potuto essere ospitati nei cimiteri pubblici. Artefice di questa antesignana e lodevole iniziativa fu l’erudito siracusano Saverio Landolina Nava (1743-1814), sul quale molti storici si sono spesi in ricerche d’archivio, senza riuscire a delineare un profilo completo di questo enigmatico personaggio. Nominato nel 1803 Regio Custode delle antichità delle due Valli di Demone e Noto, riscoprì dopo impegnativi studi
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Saverio Landolina Nava in una incisione del Morghen
l’antico sistema per la fabbricazione della carta da papiro. Dedicò inoltre una monografia al mitico vino Pollio o Biblino, ottenuto secondo la tradizione da uve odorose e soavi di una vite che il Re Pollio portò con sé dalla Tracia, atta a dimostrare la discendenza diretta del pregiato moscato di Siracusa dagli antichi vini greci. Ma il suo nome è principalmente legato alla scoperta archeologica avvenuta fortuitamente nei terreni di sua proprietà vicino la basilica di San Giovanni alle Catacombe nel 1804, dove rinvenne la statua di una Venere Anadiomene (che sorge dalle acque), popolarmente conosciuta come Venere Landolina. Molto produsse la mente di questo poliedrico personaggio, che con le sue iniziative dovette preoccupare non poco le attente e sospettose autorità civili e religiose dei suoi tempi. Ma cosa spinse l’Equitis Xaverii Landolina Nava, così come amava definirsi, a dedicare parte del giardino della villa, costruita per essere destinata a luogo di sollazzo estivo, all’accoglienza dei resti mortali di uomini non cattolici. Le cronache del tempo raccontano del Landolina come di un uomo attento alle sofferenze umane e mosso da grande carità cristiana, ma soprattutto ne riconoscono il pregio di essere un grande conoscitore della storia patria. Era il principale riferimento dei viaggiatori La venere Landolina in una incisione che giungevano a Siracusa di Giuseppe Politi - 1835 nell’ambito del tradizionale Grand Tour, i quali si presentavano al suo cospetto muniti di lettera di raccomandazione fornita da conoscenti comuni. Era obbligo dell’ospitante accoglierli nelle sue dimore e accompagnarli alla visita dei resti archeologici chiamati allora anticaglie. Sarà stata la frequentazione di queste erudite menti, provenienti non solo dall’Europa ma anche da paesi oltreoceano ad aprire il suo animo alla tolleranza e all’accoglienza Cristiana nei confronti di chi professava una fede religiosa diversa, anche perché ciò che veramente accomunava questi personaggi assetati di conoscenza, era l’amore per l’arte e la cultura. Con la stessa riverenza con cui riceveva gli importanti ospiti nelle sue dimore, accoglieva caritativamente le spoglie mortali nel giardino della villa facendo realizzare a sue spese da validi artigiani locali i monumenti funebri con cui tumulare gli sfortunati viaggiatori. Dopo la morte del Landolina, il figlio Mario volle continuare a mettere in pratica l’insegnamento paterno fin quando, con l’Unità d’ Italia, vennero vietati i cimiteri privati. Attraverso un ripido ed insicuro sentiero ci avviamo alla scoperta di questo insolito luogo dove, dopo un breve percorso, incontriamo corrosi sepolcri su cui nomi quasi illeggibili ci raccontano storie di uomini, di guerre e di tragici eventi. Joseph Maxevell e Seth Cartee comandanti di navi bombardiere, erano giunti da Washington nel Mediterraneo per combattere contro la pirateria libica nella prima Guerra Barbaresca. Da eroi trovarono la morte nel 1806.
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Il monumento ad August von Platen
Il Piano Regolatore proposto da L. Mauceri nel 1910. La villa doveva essere circondata da un ampio parco archeologico
Nel 1832 il giovane assistente medico navale William Tyller a seguito di un rimprovero impartitogli dal suo comandante Perry, non riuscendo a superare il disonore ricevuto si ritirò nel suo camerino dove fu trovato morto per avvelenamento. William Brooking Dolling morì nel 1836 nell’ultima fase della battaglia di Navarino nel Peloponneso a bordo del Vascello Edimburgo, ed alcuni passi più avanti una
costruzione a forma di piramide, opera del giovane scultore Puglisi di Catania, accoglie le spoglie dello statunitense James S. Deblois morto nel 1806. E così altre tombe e altre storie fino ad arrivare nel punto più alto del cimitero, dove sopra una terrapieno si trova l’ospite più illustre, August von Platen – Hallermunde, poeta bavarese morto il 3 dicembre 1835 all’età di 39 anni. Nel 1853 venne in visita per onorare la memoria del
La tomba di August von Platen, progettata da Mario Landolina Nava
La sepoltura di William Brooking Dolling
L’artistica sepoltura di Joseph Maxevell con il particolare della lapide
poeta il Re Massimiliano di Baviera, il quale si fece promotore, insieme ad un comitato di illustri personaggi tedeschi ed italiani, affinché fosse fatto innalzare sullo stesso luogo un mausoleo dedicato a Von Platen. Il monumento venne inaugurato il 24 ottobre 1869. Decine di lettere autografe conservate nell’archivio della famiglia Interlandi Pizzuti, ultimi eredi e proprietari della villa, testimoniano che negli anni seguenti la villa fu costantemente meta di viaggiatori soprattutto tedeschi ed americani che qui si recavano per onorare le spoglie mortali dei loro concittadini. Nel 1929 avendo ricevuto richiesta di chiarimento sullo stato delle tombe, Rosario Interlandi Pizzuti rispondeva così in forma epistolare all’Incaricato d’Affari presso l’Ambasciata degli Stati Uniti d’America a Roma, Alexander Kirte, “...le loro tombe hanno sempre avuto le cure che ci impongono un senso elementare di civiltà ed
il rispetto dovuto a degli stranieri che giacciono così lontano dalla loro patria...”. Anche Winston Churchill nel 1955 in visita a Siracusa, volle recarsi al cimitero per rendere omaggio ai caduti. Alcuni anni dopo venne attuato l’esproprio forzoso del sito, perché si individuò nella parte centrale del giardino, che in origine era una latomia, la sede “idonea” per l’edificazione del nuovo museo archeologico, il quale fu inaugurato esattamente trenta anni dopo nel 1988. Furono anni di abbandono e di incuria in cui venne messa a serio rischio la sopravvivenza dell’intero complesso Landoliniano. L’area cimiteriale, trovandosi lungo il lato nord–est della proprietà non venne interessata dall’edificazione delle nuove strutture museali, rimanendo miracolosamente dimenticata. Una notizia positiva giunge dalla dirigenza del museo che ha previsto nell’ambito della ristrutturazione complessiva
Il monumento funebre a forma di piramide di James S. Deblois, opera dello scultore Puglisi
del parco, il restauro dell’intera area cimiteriale con la creazione di un percorso pedonale destinato alla fruizione pubblica. Sarà così che il piccolo cimitero eterodosso voluto da Saverio Landolina Nava continuerà ad essere, ancora oggi dopo due secoli, muto testimone della possibile pacifica convivenza tra popoli professanti religioni diverse. “...Ma cipressi e cedri di puri effluvi i zefiri impregnando perenne verde protendean su l’urne per memoria perenne e preziosi vasi accogliean le lacrime votive,..” da I Sepolcri di Ugo Foscolo. Si ringraziano Anna e Maria Interlandi Pizzuti, Rita Corbino e Manlio Perotti per la collaborazione offerta durante le ricerche nel loro archivio.
La tomba del giovane William Tyler, morto suicida a 23 anni
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La Sicilia “si arricchisce” dei propri siti storico-archeologici È l’occasione unica per un rilancio mondiale
Il Castello Ursino di Catania - foto Bill Anderson
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Da circa due mesi è stato pubblicato un accurato elenco dei beni storico-archeologici che, se valorizzati senza orpelli e interessi di parte, porteranno turismo, soldi e risorse notevoli alla Sicilia, invischiata come altre regioni un una crisi economica senza precedenti. Un patrimonio di oltre 150 tra castelli, templi, musei, chiese, palazzi e siti di immenso valore sta per cambiare padrone: dallo Stato alla Regione siciliana. Certo, vi sono ancora molte inesattezze o dimenticanze, come ad esempio il Castello Ursino di Catania, ma tutto sarà in ordine quanto prima. Lo speriamo come siciliani. Il maggior numero di beni li ha la provincia di Siracusa, ben 47, seguita da Agrigento con 42. Terza è Messina (17), quarta Ragusa (12) e quinta Marsala (11). Chiudono Palermo con circa 12 e Caltanissetta con due. Per Catania non sono stati citati incomprensibilmente l’anfiteatro antico e le terme dell’Indirizzo, oltre al federiciano Castello Ursino. Chi conosce il territorio sa che questi numeri sono indicativi e suscettibili di correzioni, ma al di là del rigore statistico o numerico vi è la realtà: questi beni finalmente appartengono ai siciliani, fanno parte della loro vita e vanno gestiti unicamente per farli risplendere, valorizzarli, farli amare a noi siciliani e a tutti i visitatori. Proporli come fiore all’occhiello della nostra isola, mostrandoli al mondo come testimonianze uniche che ancora palpitano ed emozionano. Non ci vorrà tanto per realizzare tutto ciò. Solo un po’ di imprenditoria turistica e tanta cultura. Nient’altro. G.A.
A Caltagirone una Pasqua nel segno delle tradizioni ede, folclore e tradizioni gli ingredienti fondamentali della Pasqua Calatina, elementi che si fondono per dare vita ad un susseguirsi di manifestazioni sacre che da decenni si verificano quasi invariate. Il primo appuntamento pasquale coincide con la Festa dell’Addolorata, la domenica di Passione, quando tutta la popolazione calatina si ritrova presso il rione Cappuccini per venerare le statue dell’Addolorata e del Cristo morto, momento che culmina nel solenne inno in dialetto “Diu Vi Salvi o Regina”. Durante la giornata, nel viale antistante l’ingresso della chiesa trionfano bancarelle piene di colorati “fischietti” in terracotta raffiguranti i simboli della Passione, mentre i “cubbaltari” vendono gli antichi dolci a bastoncino; le vetrine di tutte le pasticcerie si riempiono delle tradizionali uova di pasqua in cioccolato e di “agnelli” in pasta di mandorla, assieme ai “palumeddi” di zucchero ed albume d’uovo, i “cannuleri cu l’ovo”, un uovo sodo dal guscio colorato steso su di una base di pasta dolce friabile e i “panareddi”, fatti di pasta, zucchero e strutto che rappresentano un paniere pieno di uova sode, diavolina colorata e frutta di pasta. A tutt’oggi una delle funzioni religiose che richiama una moltitudine di visitatori e partecipanti per tutte le strade di Caltagirone rimane comunque la “Via Crucis” nel venerdì di Quaresima che, incorniciata dallo scenario architettonico di piazza Municipio e dell’adiacente scalinata di Santa Maria del Monte, richiama gli ultimi momenti della vita terrena del Cristo, dal processo dinanzi a Pilato alla morte sul Golgota, passando per i quattordici momenti liturgici che al sopraggiungere della sera diventano anche spettacolo di luci, suoni e colori. Il Giovedì Santo è dedicato alla “Celebrazione eucaristica”, con la visita ai “Sepolcri” che vengono realizzati in ogni parrocchia per ricordare la ricorrenza dell’Ultima Cena e dove si pregherà fino al mattino successivo. Il Venerdì Santo è giorno di lutto e solamente al tramonto prenderà avvio dalla Cattedrale la processione. Portate a spalla, il “Cataletto” del Cristo morto, una scultura lignea riposta nell’urna di legno e vetri verniciata in oro zecchino, e la statua della Vergine Addolorata percorrono le antiche vie calatine al risuonare delle drammatiche note dello “Stabat mater” e del “Diu Vi salvi o Regina”.
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Il pomeriggio della Domenica di Resurrezione, un corteo con tre statue, S. Pietro, il Cristo risorto e la Madonna si dà appuntamento nell’affollata piazza Municipio per la “Giunta”. La figura in cartapesta e legno di S. Pietro, si lancia alla ricerca del Cristo risorto; lo sguardo fisso del Santo scruta ogni angolo della piazza fino al Suo avvistamento, quando parte alla ricerca della Madonna per darle la lieta novella, mentre la folla si allarga o si restringe per consentire il passaggio del “nuncio”. L’incontro avviene all’angolo fra la Piazza e la via L. Sturzo. La Vergine, alla vista del Figlio, lascia cadere il manto nero del lutto e veste di bianco e azzurro, simboli di felicità. Poi, allargando le braccia, abbassa la testa tre volte per rendergli omaggio, accompagnata da una folla entusiasta che grida “Evviva Maria” e si dispone a seguire il corteo per le vie del centro. Alla fine del corteo, dopo tanta gioia, il doloroso momento del distacco, “a spartenza”, che avviene con la stessa gestualità della “Giunta”, in Piazza Marconi. Mentre comincia a calare la sera, le sacre figure si congedano dai fedeli e rientrano nelle loro abituali sedi, lasciando agli astanti il sapore di una fede che ancora oggi diventa tripudio di popolo.
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di Giovanni Criscione 7 febbraio 1740 «all’ore 9 della notte in età d’anni 72» si spegneva nella sua casa di Modica il poeta, filosofo, medico e scienziato Tommaso Campailla. Era nato nella città dei Conti il 7 aprile 1668, a pochi metri dalla casa che due secoli dopo avrebbe dato i natali al Nobel Salvatore Quasimodo. Campailla giunse alla filosofia dopo un’infanzia svogliata e un tortuoso percorso di studi. Nella sua vita si compirono tre rivoluzioni. La prima, intorno ai dodici anni, lo condusse dal disinteresse per gli studi alla bramosia del sapere. La seconda, nel 1693, lo spinse ad abbandonare le scienze occulte per abbracciare la filosofia dei moderni. La terza, intorno alla metà degli anni Trenta del Settecento, lo portò dalla filosofia alla teologia. Nel suo curriculum di studi figurano dapprima le lezioni di mediocri maestri locali. Poi nel 1684 il trasferimento a Catania per frequentare giurisprudenza nel Siculorum gymnasium. Quindi il ritorno a Modica e l’infaticabile applicazione da autodidatta alla filosofia peripatetica, all’ermetismo, all’alchimia, all’astrologia giudiziaria. Nel 1693, la svolta. Discutendo con un viaggiatore delle cause dei terremoti (l’argomento era di stretta attualità dopo il sisma che l’11 gennaio aveva scosso il Val di Noto), Campailla apprese l’esistenza della “moderna filosofia”, cioè del pensiero cartesiano. La filosofia di Cartesio offriva la chiave per penetrare i fenomeni della realtà sensibile e spirituale. Folgorato dalle potenzialità euristiche e dal rigore della nuova filosofia, il modicano si tuffò nello studio delle opere di Descartes, divenendo in breve tempo uno dei massimi esponenti del cartesianesimo in Sicilia. La distinzione tra sostanza pensante (res cogitans) ed estesa (res extensa), cioè tra spirito e materia, se per un verso liberava le scienze naturali dal secolare vassallaggio alle cause occulte a vantaggio di una mentalità e d’una metodologia sperimentale, dall’altro rendeva problematica la comprensione dei rapporti tra l’anima e il corpo. Campailla si chiuse nella sua casa dalla torretta merlata e si immerse nello studio di quei problemi, dando alle stampe una vasta produzione scientifica. Nel 1709 vide la luce la prima stesura del poema filosofico L’Adamo ovvero il mondo creato, in sei canti, che il Cartesiano di Modica continuò a rielaborare fino agli ultimi anni di vita (ampliato a dieci canti e poi a venti nelle successive edizioni del 1723, 1728 e 1737). L’opera era una summa di oltre ventimila versi sulla natura, gli animali, l’uomo e dio. Le parti didascaliche erano inserite in una cornice narrativa: il “viaggio” nel creato del primo uomo, Adamo, guidato dall’arcangelo Raffaele. La situazione psicologica e gnoseologica di Adamo, tra l’altro, era speculare a quella dell’uomo moderno nato dalla rivoluzione cartesiana del cogito e costretto a fare tabula rasa delle proprie credenze per fondare l’edificio della scienza sui criteri
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Il modicano TOMMASO CAMPAILLA cartesiano, filosofo, teologo, poeta, medico e ricercatore sommo
Agli inizi del 1700 divenne famoso per la cura della sifilide e, debellata solo nel 1900 dagli antibiotici
dell’evidenza e della chiarezza. Nel poema Campailla trasferì i concetti chiave su cui si basavano i suoi trattati scientifici: la centralità della fermentazione nella fisiologia umana e animale (Discorso sopra la sentenza della fermentazione, 1709; Del moto degli animali, 1710), l’azione dei vortici e la forma dei corpuscoli come chiavi di volta della fisica e della chimica (Problemi naturali, 1727). Negli Opuscoli filosofici (1738), inoltre, studiò le eruzioni dell’Etna e le cause dei terremoti, il magnetismo, l’eco, le illusioni ottiche e svolse delle considerazioni critiche sulla fisica di Newton. Una parte consistente delle sue opere è dedicata, infine, a fenomeni quali la natura dei sogni e del delirio (Del disordinato discorso dell’uomo e Come la mente umana è delusa a sentire, discorrere, giudicare pazzamente). Destava meraviglia tra i savants d’Europa, che in un remoto angolo della Sicilia fiorisse un intellettuale autodidatta, un uomo-biblioteca che padroneggiava l’intero ambito delle scienze naturali. Il modicano tenne carteggi con illustri filosofi italiani e stranieri. Del suo epistolario restano oggi una lettera alla Royal Society di Londra, due epistole inviategli dal folosofo irlandese George Berkeley (che aveva consociuto il nostro durante un viaggio in Sicilia) e varie missive dell’erudito modenese Ludovico Antonio Muratori. Verso la seconda metà degli anni Trenta, pur senza abbandonare la scienza
e filosofia (è di questo periodo la stesura di Filosofia per principi e cavalieri, nata nell’atmosfera mecenatesca di casa Grimaldi, rimasta incompleta e pubblicata postuma nel 1841), Campailla inclinò al misticismo e alla teologia. Il poema sacro Apocalisse dell’Apostolo san Paulo (1738), in sette canti, racconta il viaggio spirituale dell’apostolo di Tarso, guidato al terzo cielo dall’arcangelo Uriele. Alla raffinatezza stilistica e formale dell’opera, non corrispondono però la sincerità e il calore dell’ispirazione, tanto da far pensare a una “professione di fede” scritta per allontanare da sé i sospetti dell’Inquisizione sull’ortodossia di alcune sue tesi scientifiche. A margine della sua produzione scientifica, si colloca quella letteraria. I Vagiti della Penna (inediti), gli Emblemi (1716), le rime di corrispondenza raccolte in varie antologie poetiche e le decine di sonetti inviati alle accademie del Buon Gusto, dei Geniali, degli Ereini di Palermo, degli Assorditi di Urbino e all’Arcadia di Roma, di cui era socio, rappresentano il suo trascurabile contributo alla letteratura seicentista e baroccheggiante dell’epoca. Ma ciò che valse a Campailla una fama durevole fu l’invenzione delle botti per la cura della sifilide. Quell’invenzione, che utilizzava il mercurio e un legno “santo” per curare la lue, rimase in uso fino all’avvento degli antibiotici nel Novecento.
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Curiosità Sulla breccia da 2.500 anni
Il Latino: morto che parla di Giuseppe Firrincieli trano ma vero. Il latino, lingua “morta”. Da tempo emarginato dalla Chiesa e dalla Scuola gode sempre… di ottima salute. Sopravvive dopo quasi 2.500 anni ed è largamente presente nei linguaggi di burocrazia, politica, economia, pubblicità, sport, comunicazione, cronaca e nei modi di dire in genere. Con il telecomando accendiamo il video regolando l’audio. Ogni giorno ci dicono che il deficit pubblico aumenta, il reddito pro capite diminuisce e sempre più gente si rivolge alla Caritas, mentre il presidente del Consiglio viene accusato di volere leggi ad personam, il presidente della Camera di non essere super partes e le opposizioni pongono veto, ultimatum, aut aut e conditio sine qua non. Si dice che un referendum o una votazione sono validi se viene raggiunto il quorum del 50% dei votanti; e poi che è utile avere sempre un vademecum, un’agenda, un pro memoria, un fac simile, un raptus, un rebus. La polizza RC auto contempla il Bonus-Malus, la pratica o il progetto segue il suo iter in attesa del placet, anche se è in itinere. Vi sono sia l’Aula magna e la laurea Honoris causa che la Pro loco, sia l’ auditorium, che il terremoto del 1990 in Sicilia di magnitudo 5.4; ma attenti al virus dell’influenza e ai qui pro quo (equivoco, malinteso), specie se si presenta un curriculum, anche una tantum o pro forma. Et cetera, et cetera… Nel settore pubblicitario imperversano parole latine come: bis, gratis, super, extra, optimum, maximum, non plus ultra. Nello sport troviamo: ex di turno, tandem d’attacco, formazioni juniores e seniores, salvataggio in extremis, il mea culpa del portiere, il risultato sub judice o l’ex aequo in classifica in attesa del transfert; negli anni ’50 la Pro Patria giocava in serie A con la Juventus di Torino, mentre precisiamo che inter nos non vuol dire, come sostiene qualche tifoso interista “noi dell’Inter”, bensì fra di noi, in confidenza. Si comincia con l’incipit o con in primis e con un a priori, si può finire con un giudice a làtere o con un àlibi! Ma vi sono anche: locanda, lavabo, libido e in politica ad interim che sono parole latine molto comuni. Ce ne sarebbero tante altre. Ne abbiamo sottolineate una sessantina. Ma perché oggi tutti questi termini in latino?
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Non certo per snobismo, ma per l’esigenza di esprimerci in modo chiaro, semplice, sintetico. Non a caso noi siciliani cosa diciamo a chi ci parla in modo criptato e allusivo? Lo invitiamo con un eloquente, “senti beddu, cerca ri parràri latinu!”, ad esprimersi cioè in modo chiaro e comprensibile. Se gli italiani siamo un po’ tutti latinisti, noi siciliani lo siamo ancora di più, anche per la dominazione romana dal 264 a.C. al 535 d.C. Fra quelle tutt’oggi usate ricordiamo: iddu da illum, quello; nuddu da nullus nessuno; tannu da ante annum un anno prima, allora; antùra da ante horam un’ora fa, poco fa; annunca da an nunquam non forse mai; accamòra da hac mora in questo momento; malu da malus cattivo; iri da ire andare; trasiri da transire andare oltre; caputa da capere contenere; trappitu da trapetum frantoio; panaru da panarium cesto; virrina da veruina trapano; auriccia da auricula orecchia; cutìccia da cuticula, diminuitivo di coscotis pietra dura; suoru o soru da soror sorella; mugghieri da mulierem moglie; frati da frater fratello; màsculu da masculus mschio; Emblematico è cchi nicchi e nacchi? recepito e metabolizzato dai nostri antenati da quid hic quid hac?: letteralmente che cosa qui che cosa là? Che potrebbe essere l’equivalente del “Dipietrese” dei giorni nostri: ma che ci azzecca!
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IL PIÙ BEL
CARNEVALE DI SICILIA
orna la grande festa popolare de “Il Più Bel Carnevale di Sicilia” si rinnova di anno in anno, confermando i canoni che hanno decretato il successo della grande manifestazione acese. Al centro del nutrito programma le sfilate dei carri allegorico grotteschi, ideati e creati dai maestri acesi, campioni della satira e ineguagliati artigiani della cartapesta; i carri infiorati che, unici nel contesto carnascialesco italiano, hanno saputo unire la gioia e l’irriverenza del Carnevale alla gentilezza dei fiori; i gruppi in maschera dai fantastici e pomposi costumi. Poi il pubblico, il grande pubblico del Carnevale di Acireale, “sale” insostituibile del gioioso appuntamento: una marea umana, se è vero come è vero che anno dopo anno ad Acireale (nel complesso delle sfilate) si riversano circa un milione di visitatori provenienti da tutta Italia, ma anche dall’estero, grazie alle iniziative di promozione mitrata (agenzie di viaggio, tour operator, network turistici) avviate da alcuni anni. Sono questi i tratti somatici che rendono unico “Il Più Bel Carnevale di Sicilia” (il conosciuto “claim”, sta ormai stretto alla kermesse etnea), inimitabile anche per le esclusive parate allegoriche in notturna: colorite e sfrenate, si snodano nel monumentale scenario barocco, tra la pietra bianca di chiese e palazzi seicenteschi e settecenteschi, e il caldo colore nero del selciato lavico. Su tutto e tutti, quindi, dal prossimo 19 febbraio, ad Acireale andrà in scena re Burlone: dalla rinnovata piazza barocca - illuminata da luci, impreziosita dai coriandoli e resa unica dagli sfarzosi carri in cartapesta ed infiorati – il sovrano dell’allegria e della spensieratezza detterà i ritmi del grande evento turistico siciliano, in un crescendo di sincere emozioni popolari “dove tutti si è uguali e dove a tutti è permesso di indossare la maschera di Carnevale per dimenticare (almeno per un po’) la maschera che si è costretti ad indossare nella vita”.
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CARRI ALLEGORICI Sono nove i carri in cartapesta e cartone romano dalle dimensioni sempre più “esagerate”. Durante l’esibizione, le grandi macchine allegoriche hanno una lunghezza di 18 metri, una ampiezza di 9 metri mentre l’altezza supera i 20 metri. Tutti i movimenti delle diverse maschere che compongono il singolo carro, così come gli effetti scenici (Acireale ha abbandonato da tempo le vecchie, statiche luminarie per votarsi alla spettacolarizzazione massima del carro) sono gestiti da potenti computer radiocomandati. I giganti della cartapesta sfileranno il 20 e 27 febbraio, poi ancora il 3, 5, 6, e martedì 8 marzo. Satira, politica, problemi sociali, il mondo dello spettacolo, della tv e del calcio alcuni tra gli argomenti scelti dai carristi per portare in piazza “tematiche da prima pagina”, sicuramente gettonati e graditi al grande pubblico del carnevale acese.
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CARRI INFIORATI Sono dieci e rappresentano la vera peculiarità del Carnevale acese. Anticamente si trattava di autovetture addobbate con fiori ed agrumi: vecchie Fiat 500, 1100, 850… Oggi i carri infiorati non hanno nulla da invidiare ai “cugini” in cartapesta: anche in questo caso si tratta di soggetti esclusivi, dallo scheletro in tubolari ferroso e la pelle di fiori. Alcuni carri, quelli più grandi (6x12x15 metri) sono ricoperti da circa 40 mila garofani… Un tocco di classe nella festa più pazza che ci sia. I carri infiorati sfileranno il 5, 6, 7, 8 marzo. I temi, anche in questo caso, satira politica e attualità, oltre alla magia dei cartoons. GRUPPI IN MASCHERA Hanno il compito di animare i corsi in maschera e trascinare la folla in scorribande lungo i corsi barocchi. I gruppi in maschera accreditati nel concorso sono quattro (sino ad un massimo di cinquanta figuranti ciascuno), ma c’è da scommettere che durante il Carnevale – come accade ogni anno – altri se ne creeranno spontaneamente… Perché la festa lascia spazio ad ogni fantasia e alla creatività di ciascun partecipante… (un milione di visitatori!). I gruppi in maschera saranno parte integrante di tutte le sfilate del Carnevale (19, 20, 27 febbraio, 3, 5, 6, 7, 8 marzo). LA REGINA DEL CARNEVALE Il 19 febbraio, durante la parata iniziale, sarà svelato il volto della Regina del Carnevale 2011. Si tratta di…: avrà per corte bande musicali provenienti da diverse regioni italiane ed europee. Aprirà il corteo la Regina: una vera miss a cui il sindaco Nino Garozzo consegnerà le chiavi (ovviamente in cartapesta) della Città. Nel 2008 la regina fu Miriam Leone (nella foto),
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studentessa acese dagli occhi verdi e dai capelli color rosso-rame, pochi mesi dopo eletta Miss Italia e oggi conduttrice televisiva. Nel 2009 toccò a Enza Leonardi, poche settimane prima eletta “Venere dell’Etna 2009”; nel 2010 la corona fu indossata da Elisabetta Di Nunzio, testimonial e attrice. INOLTRE... Il concorso “Bambini in maschera”, i “Gruppi mascherati scolastici”, Le “Scuole in festa”, il concorso “Carri in miniatura”, la pubblicazione “Numero Unico di Carnevale”, il “Campionato di scacchi”, la mostra sul Carnevale “Lezioni di culinaria”, l’annullo postale del Carnevale di Poste Italiane, il “Trofeo rotellistico”, le scuole di danza in “Ballando a Carnevale”, la rassegna musicale per band emergenti “Rumori Barocchi”, la “Bottega della cartapesta”…. e gli spettacoli musicali in piazza Duomo con artisti ai primi posti delle classifiche di vendita. Insomma, un grande, ricco, colorato, caldo contenitore di allegria, al 100%. - a cura dell’addetto stampa del Comune di Acireale -
Il Carnevale di Acireale, si ricorda, è stato inserito nella Lotteria Nazionale del Festival di Sanremo e del Carnevale negli anni 1996, 1999, 2006, 2010. Lo scorso anno, inoltre, Poste Italiane emise un francobollo dedicato al Più Bel Carnevale di Sicilia: un veicolo promozionale importante ed esclusivo, che certificò – qualora ve ne fosse stato il bisogno – l’attenzione ai massimi livelli verso il Carnevale più bello di Sicilia… e non solo! La serie tematica fu quella denomina “Il Folclore”, particolarmente curata nel disegno e vera delizia per i collezionisti. La distribuzione: 4 milioni di copie.
il personaggio
FRANCESCO PATANIA In musica cantò la sua “Sicilia” oltre settant’anni le sue melodie fanno parte della musica folk siciliana. A pieno titolo. Ormai da decenni sono esportate, ascoltate e suonate in tutti i continenti. A marzo 2011 Francesco Patania avrebbe compiuto 102 anni, essendo nato a Siracusa il 28 marzo 1909; ma nel 1996, all’età di 87 anni, la morte gli portò via il suo estro creativo musicale. Era un innamorato della sua Sicilia, studioso Il compositore Francesco Patania al lavoro nella sua casa di Siracusa instancabile e compositore originale che ha firmato alcune delle più belle e note canzoni siciliane popolari e folcloristiche diffuse in tutto il mondo, perché le comunità siciliane sono in tutto il mondo. E la musica le unisce tutte. Francesco Patania, innamorato pazzo della sua isola con le sue delicate, realistiche e originali creazioni musicali ha saputo far conoscere luoghi, aspetti e personaggi senza tempo della sua realtà popolare che egli viveva intensamente. La sua verve musicale ha prodotto tanti capolavori, come Mari mari, Bianca vela, Anapo, Cummari unni iti ‘a matinata. Ma la più celebre del maestro è “Sicilia”, un classico del nostro folk, eseguito da tutte le band, complessi e cori pop anche non siciliani. Emblematici i versi della prima delle tre strofe del poeta Salvatore Grillo: Li furasteri ca ‘n Sicilia sunnu la guardunu cu’ granni meravigghia dicìunu ca nun c’è na tutt’u munnu ‘n’isula c’ha la nostra s’assimigghia: La Conca d’oru è chista ca straluci! Sutta la nivi Mungibeddu riri! Spanni lu faru la so jànca luci! L’Anapu scurri ‘n menzu li papìri… E poi il celebre ritornello: Sicilia, Sicilia, canta na pasturedda, Sicilia Sicilia, joca na funtanedda: L’aria e lu suli jnchinu l’arma di puisìa Sicilia, Sicilia tu si’ la terra mia! Ma è la musica travolgente di Patania che ti prende il cuore, ti fa vibrare i sensi, ti coinvolge totalmente, ti emoziona. Per queste sensazioni che suscita è diventata una melodia immortale del nostro folk ed una delle colonne della Lo spartito della canzone folk nostra tradizione musicale siciliana. Sicilia Giuseppe Aloisio
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Curiosità
VINCENZO BELLINI: un uomo fuori norma! la ricetta
di Alessandra Romano vete mai sentito parlare del binomio musica-cucina? No, non ci stiamo riferendo a quanto sia piacevole mettersi ai fornelli con un sottofondo musicale che ci accompagni! L’intento è piuttosto quello di legare una delle più gustose e rinomate preparazioni culinarie siciliane ad uno dei più discussi e ricercati musicisti dell’800: la pasta alla norma e Vincenzo Bellini. Nato a Catania nel 1801, il celebre compositore compì i suoi primi studi musicali con il padre, organista, compositore e maestro di cappella, ed il nonno Vincenzo Tobia, dimostrando a soli cinque anni di saper suonare il pianoforte “in modo degno d’ammirazione”. Grazie al successo di alcune sue musiche da salotto e sinfonie da camera, il giovane e già ammirato Bellini ottenne la protezione dei duchi Santomartino che lo aiutarono, nel 1819, ad ottenere una borsa di studio comunale presso il Conservatorio unificato di Napoli. Fu proprio all’ombra del Vesuvio che il musicista catanese raccolse i suoi primi successi con le opere “Adelson e Salvini” e “Bianca e Fernando” che gli valsero la commissione del suo primo lavoro per il Teatro alla Scala di Milano: “Il Pirata”. La conferma del genio compositivo di Bellini arrivò con l’opera “I Capuleti e i Montecchi”, rifacimento della storia di Giulietta e Romeo con l’innovativo ed alquanto singolare affidamento del ruolo di Romeo al mezzosoprano Giulietta Grisi ma raggiunse il suo zenit con “Norma” nel 1831, una tragedia con evidenti richiami alla Medea di Euripide e alla Vestale di Spontini. Da allora, il compositore divenne una delle personalità più ricercate di tutta Italia ed al titolo della sua “Norma” si deve anche un detto tipicamente catanese: “Pari ‘na norma” ovvero “Sembri una norma”, un termine di paragone, un complimento per magnificare tutto ciò che si amava e si ammirava. A questo punto vi chiederete: cosa c’entra allora la celebre portata con Vincenzo Bellini? Per capirlo dobbiamo prima compiere un salto temporale fino al 1920 e trasferirci a Catania, in via Etnea, presso l’abitazione Musco-Pandolfini, dove il famoso attore comico Angelo Musco viveva assieme alla nota famiglia Pandolfini, cui la sorella Angela era legata. Una sera d’autunno, la famiglia Pandolfini riunì attorno alla loro tavola i commediografi Nino Martoglio, Pippo Marchese e Peppino Fazio; Donna Saridda, nuora di Angela Musco, offrì ai commensali un gustosissimo piatto di spaghetti con salsa, basilico, melanzane fritte e ricotta salata che, già dopo le prime forchettate, stuzzicò i palati degli invitati tanto da indurre Nino Martoglio ad esclamare: “Signura, chista è ‘na vera norma”! La frase piacque talmente tanto ai presenti, da indurli a parlarne in tutta Catania, fino ad innalzare questo semplice modo di dire a Nome Proprio della pasta così condita. La pasta alla Norma è quindi un indiretto ma sentito omaggio all’arte musicale di Vincenzo Bellini.
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LA PASTA ALLA NORMA Ingredienti per 4 persone: • • • • • • •
350 g di spaghetti 2 melanzane 800 g di pomodori S. Marzano 2 spicchi di aglio 100 g di ricotta stagionata Olio extra vergine di oliva Basilico, sale e pepe
Preparazione Mondate e lavate le melanzane quindi, senza sbucciarle, tagliatele a fettine sottili, cospargetele di sale fino e lasciatele spurgare per un'oretta disposte su un colapasta o su una griglia. Tuffate per un attimo i pomodori in acqua in ebollizione quindi passateli in acqua fredda e pelateli. Divideteli in due, privateli dei semi e tritateli finemente. Fate scaldare due cucchiai d'olio in una larga padella e fatevi imbiondire gli spicchi d'aglio leggermente schiacciati, quindi versatevi i pomodori e un paio di rametti di basilico (sia il basilico che l'aglio andranno scartati una volta che il sugo sarà pronto). Salate, pepate e lasciate cuocere a fuoco vivace per una decina di minuti. Sciacquate le melanzane e asciugatele bene con un canovaccio o con carta da cucina quindi fate scaldare abbondante olio nella padella dei fritti. Mettete a cuocere la pasta e, mentre cuoce, friggete le fettine di melanzane. Appena la pasta è cotta, scolatela, versatela nella padella con il sugo caldo, spolveratela con la ricotta e con qualche foglia di basilico spezzettata e mescolate bene. Dividete la pasta in quattro piatti e cospargete la superficie di ogni porzione con la restante ricotta e con le fettine di melanzane fritte.
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Rubrica a cura del dottor Corrado Cataldi, farmacista titolare dell’omonima farma cia www.farmaciacataldi.com
Volendo solo considerare, quanto si riesce a fare esperienza dei malori stagionali e di quanti ne abbiamo fastidiosi strascichi, sono convinto che anche questa stagione ne ha fatto una delle sue. Sicuramente uno dei fastidi che più ci sfinisce è quello degli attacchi di tosse, specialmodo quando ci mettiamo a letto. Uno dei rimedi che può essere utilizzato, in questi casi, è il buono e classico, Melato di Licheni.
Costituito da miele, dall’azione espettorante, grazie alla componente zuccherina e da licheni (Cetraria islandica, Cladonia, Usnea, Lobaria) i cui principali componenti sono un principio amaro, e un gluco-polimero, la lichenina. Attualmente sono 22 le farmacopee che includono i vari licheni nelle loro monografie. In Italia sono prescritti l’infuso e il decotto di Cetraria: il decotto al 5%, in cui prevale la sostanza mucillaginosa, è usato come protettivo emolliente nelle infiammazioni gastroenteriche; l’infuso al 5%, in cui prevale la sostanza amara, è usato più raramente come tonico amaro. I preparati attualmente più diffusi in farmacia sono le pasticche e gli sciroppi dalle proprietà espettoranti e antitosse. I Licheni sono organismi singolari poiché composti da due organismi diversi (un fungo e un’alga) che vivono in simbiosi. Il lichene islandico o “muschio d´Islanda” o “lichene artico” si sviluppa spontaneamente nei paesi nordici sulla corteccia di alcuni alberi, sul suolo tra muschio ed erba o sulle rocce. Ignorato dai Latini, esso era invece assai conosciuto dai Lapponi e dagli Islandesi che lo usavano durante le carestie come nutriente e ne conoscevano le proprietà terapeutiche di emolliente, espettorante, calmante la tosse (secca) e le pirosi gastriche. Oggi la fitoterapia moderna ne riconosce a pieno titolo le proprietà nella prevenzione dei problemi invernali di gola e polmoni, proprietà confermate da ricerche scientifiche. Nei paesi nordici è diffuso il suo utilizzo anche come alimento dopo opportuni trattamenti che eliminano e sostanze medicamentose ed il sapore amaro.
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Casa e dintorni GIARDINAGGIO
osi si credere di uscirne impunito. Sai che il profumo dei fiori mi fa star male”. Questa è una citazione tratta dal famoso romanzo di Alexander Dumas “La signora delle Camelie”; la protagonista apostrofa il suo pretendente per averle regalato un bouquet di fiori molto profumato che la fa tossire, quando ella invece amava ornare i suoi vestiti con fiori di Camelie, della stessa bellezza di una rosa ma finanche senza profumo. La Camelia, originaria della Cina e del Giappone, venne importata in Europa dal botanico Georg Joseph Kamel (da cui appunto ha preso il nome) durante il 1700, fino ad imporsi nella prima metà del 1900 come immancabile pianta ornamentale nei giardini tardo-romantici dell’intero continente. Divenuta, nel linguaggio dei fiori, sinonimo di bellezza e superiorità non esibita nonché segno di stima, la Camelia è stata anche inserita a pieno titolo nella lista delle piante con particolari proprietà depurative per l’ambiente: assorbe una grande quantità di metalli pesanti e gas
“Non
altamente nocivi per la nostra salute, svolgendo quindi un’azione di “filtro naturale”. Quello della Camelia è un arbusto sempreverde che può raggiungere anche i 10 mt di altezza e ben si presta ad ornare giardini, terrazzi e balconi, potendo contare su una varietà di circa 70 specie diverse che, tra l’altro, fioriscono in differenti periodi dell’anno. La specie più coltivata è la Camellia japonica, che fiorisce da gennaio fino all’inizio della primavera, e presenta foglie alterne lucide di colore verde scuro con fiori della stessa forma di una rosa, ma aperta e appiattita, nelle sfumature che vanno dal bianco al rosso cupo. Predilige estati piovose ed inverni asciutti (resistendo tuttavia fino a –15°C) ma è nemica giurata del vento freddo e dei ristagni di acqua. Altrettanto diffusa la Camellia Sasanqua dalle foglie di colore verde chiaro e piccoli fiori rosa o bianchi. Ama essere esposta in pieno sole, pur non temendo le basse temperature. Notevolmente famosa, seppur per tutt’altro motivo, la Camellia sinensis, dalle cui foglie si ricava il the verde, sostanza anticancerogena efficacissima nel combattere i radicali liberi. Questa varietà arbustiva esplode con piccoli fiori bianchi molto profumati, ideale per ornare con stile qualsiasi spazio verde.
esposizione
La Camelia si adatta bene ad ogni condizione climatica, pur preferendo zone non particolarmente ventilate.
annaffiature
Nel periodo della fioritura la Camelia richiede molta acqua, ma attenzione ai ristagni che potrebbero esserle fatali.
potatura
Deve essere eseguita subito dopo la fioritura e, comunque, mai in autunno. Si consiglia di eliminare i rami secchi e/o malformati.
moltiplicazione
Avviene per talea, innesto o propaggine. Le talee si ottengono dai rami apicali in fase di lignificazione e devono essere poste a radicare in vasi di torba e sabbia. Per propaggine bisogna lasciare interrati i rami più bassi della pianta per circa due anni e, una volta verificatane la radicazione, si procederà al distacco dalla pianta madre. Gli innesti devono essere effettuati in agosto a marza, a spacco o a corona.
malattie
In primavera le Camelie possono essere attaccate dagli afidi; per ovviare al problema basta spruzzare le foglie con acqua saponata.
una leggenda asiatica
Camelia sinensis
In un antico libro giapponese si narrano le vicende di Susanowo, dio del vento e della pioggia. Costui viveva in un paese oppresso da un malvagio serpente a otto teste che ogni anno chiedeva in sacrificio la più bella fanciulla del villaggio. Deciso a sconfiggere una volta per tutte il mostro, Susanowo forgiò una nuova spada imprigionandovi un raggio di luce; si recò all’ingresso della grotta dove viveva il serpente ed attese pazientemente che ne venisse fuori per consumare il sacrificio della principessa “Campo di Riso”, scelta quell’anno come vittima. Susanowo ingaggiò allora una terribile lotta con il malvagio serpente e, quando il sole era ormai alto, riuscì a sconfiggerlo. Chiese allora subito in sposa la principessa e, appoggiata la spada sanguinante sull’erba, come per magia ecco apparire un arbusto dai bellissimi fiori bianchi chiazzati porpora. I fiori vennero chiamati “rose del Giappone” e la loro peculiarità di non sfogliarsi, ma di cadere interi dalla pianta, venne assurta a simbolo del sacrificio di ogni giovane donna vittima della crudeltà del serpente.
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