- foto Giancarlo Tribuni Silvestri -
EDITORIALE
Un bel panino... con la Divina Commedia frase di un noto Ministro dell’Economia è entrata ormai nella “storia”. Convinto dell’opportunità di ridurre gli investimenti nel settore culturale e, volendo dimostrare che con la cultura non si mangia, preparò una insolita ricetta e esclamò: “Fatevi un bel panino con la Divina Commedia”. Non immaginava di far rigirare nella tomba uno dei tantissimi Geni che diedero e danno tuttora lustro all’Italia. Proprio Dante! La Divina Commedia inserita come condimento in quel panino ministeriale lancia per fortuna l’invettiva del canto XXVI dell’Inferno: “Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e conoscenza”. Chiarissima l’antifona! Come sempre il Sommo Poeta ha una risposta a tutto e per ogni tempo! Ma l’utilità della cultura non è solamente sociale… è anche economica. È risaputo che ogni euro investito in cultura ne produce 5 per il sistema paese. Investire sulla cultura genera ricchezza e produce anche turismo. Le città dove si fa una seria politica culturale lo testimoniano in benessere e soldoni! In Italia l’industria culturale si lega al turismo culturale e produce una ricchezza pari a 6% del prodotto interno lordo. Nel 2002 in Italia si investiva lo 0,35% del prodotto interno lordo nel settore culturale, nel 2010 si è investito lo 0,21%. Gli ultimi dati ufficiali forniti dall’Unione Europea dicono che la Francia investe in cultura 8,4 miliardi di euro; la Germania 8 miliardi; la Gran Bretagna 5 miliardi e l’Italia solo 1,8 miliardi di Euro. Non ci sono dubbi sulle capacità di intendere e di volere di Francia, Germania e Gran Bretagna… Sanno bene che la cultura è l’ossigeno per un paese avanzato e civile che punta sul futuro. Perché non investire in maniera consistente in Italia, nel paese considerato universalmente come il paese della cultura e della creatività...? Tutti i governi (di ogni colore) che si sono susseguiti negli anni hanno considerato, chi più chi meno, questo tema con una
La
certa debolezza. Tra pressapochismo e passione della propaganda… si annuncia e si promette tutto e in compenso non si fa nulla… o si fa troppo poco. Eppure, come ha detto Claudio Abbado “la cultura è un bene comune primario come l’acqua. E i teatri, le biblioteche, i musei, i cinema sono come tanti acquedotti”. La competizione mondiale è fatta di tipicità e singolarità; i cinesi hanno la loro specialità, gli americani hanno la loro, quale è la nostra? Senza dubbio la cultura e la produzione di cultura… Un patrimonio che non ha pari altrove! L’Italia è dunque grande e ricca di risorse. Perché non siamo allora in grado di gestire al meglio una eredità così straordinaria? Si parla di carenza dei fondi; a volte, non si sa come spenderli; spesso si sprecano nei mille rivoli dell’assurdità. Purtroppo la pubblica amministrazione affida spesso le cariche legate alla cultura a persone dai dubbi requisiti (magari capacissime ad esercitare altri incarichi). Non stupisce se in Italia, per i grandi lavori di ammodernamento di uno dei maggiori musei nazionali è stato nominato come direttore dei lavori, una persona che ha competenze (citando testualmente) “nella preparazione dei terreni per erbe e piante officinali e per l’attività di parrucchiere per donna, uomo o bambino, di manicure e pedicure”. Competenza discutibile? No. È una delle possibilità italiane. Siamo comunque un grande Paese di speranza. L’ottimismo non deve mancare. La cultura può illuminare ancora il futuro perché geneticamente ognuno di noi possiede dentro di sé una scintilla di Dante, Michelangelo, Galileo, Bellini, Verdi, Pirandello, Guttuso ecc… Possiamo ancora confidare nella formazione di una grande alleanza di uomini di cultura pronti a ripristinare l’interesse per un Grande Paese… Per questo nostro Bel Paese… e non stiamo parlando del marchio di un noto formaggio da spalmare nel famoso panino! Giuseppe Nuccio Iacono
N. 12 - GIUGNO - LUGLIO 2011 Tribunale di Siracusa 20/07/2009 Registro della Stampa n. 13/09
Editore - Pegaso & C. sas Siracusa - Tel. 0931 35068 www.insidesicilia.com info@insidesicilia.com
Direttore Responsabile Giuseppe Aloisio
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Testi
Nino Arena, Lisa Bachis, Corrado Cataldi, Sergio Cilea, Giuseppe Firrincieli, Giuseppe Nuccio Iacono, Gianni Morando, Antonino Navanzino, Giovanni Portelli, Elisa Rizza Moncada, Alice Pepi, Alessandra Romano, Giancarlo Tribuni Silvestri.
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Foto di copertina: Particolare del cortile del Castello di Carini di Giulio Lettica
Stampa Tipolitografia Priulla srl - Palermo
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L’Editore si dichiara disponibile a regolare gli eventuali diritti di pubblicazione per le immagini di cui non è stato possibile reperire la fonte.
Nel numero 11, nel testo a pag 63, dedicato alla mostra tenutasi a Torino per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, non è stato riportato il nome del noto ceramista di Caltagirone Francesco Navanzino tra i cinque autori delle pregevoli “teste portavaso” rappresentanti le varie regioni italiane.
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sommario 64 74 76 81
STORIA E TRADIZIONI Gammazita di Catania ll pozzo dove si attinge ancora storia e leggenda In viaggio tra cale, scari e grotte. La toponomastica del litorale siracusane nel XVI secolo In Sicilia pulsa il cuore vivo della storia mediterranea Le milizie di Ragusa (1569) e Chiaramonte (1614) Testa di turco, il dolce di Sicilia... tradizioni e identità territoriale Ceramiche e ceramisti di Caltagirone ai tempi dell’Unità d’Italia
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ITINERARI Diario di viaggio: Marzamemi 2-5 giugno 2011 Taormina. S’apre il sipario sulla stagione estiva Le meravigliose stanze del mondo dei Donnafugata Caltagirone - Il corteo storico del Senato civico Spettacolare e coinvolgente festa di popolo: la Vara
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ATTUALITÀ Un progetto culturale vincente Finalmente... libera informazione - Intervista a Davide La Rosa Le piste ciclabili per valorizzare territorio e ambiente della provincia di Ragusa Economia & sviluppo La Provincia di Siracusa a fianco delle imprese Libri in recensione: “Manna e miele, ferro e fuoco”
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CURIOSITÀ Triade di leggende ragusane Talè talè! La storia della “testa del moro” La “lettera del diavolo...” aldilà del mistero
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DI RICORDI E DI RICETTE L’arrivo dell’estate e la parmigiana di melanzane
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SPECIALE Castello di Carini, preziosità del tempo, scrigno di storia e infinita leggenda
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NATURAMICA 94
Al tramontar del sol...
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La vecchia tonnara abbandonata - foto Claus Moser
Diario di viaggio Marzamemi 2-5 giugno 2011 di Alessandra Romano La valigia è sul letto… e rimane giusto uno spazietto per infilare costume e caricabatteria di cellulare e macchina fotografica. Voglio immortalare ogni angolo, ogni colore ed ogni profumo di quel paradiso terrestre che domani mi spalancherà le sue porte! …caspita, domani mattina non devo dimenticare di mettere in valigia lo spazzolino da denti.
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Giovedì 02 giugno - ore 06:30 Chissà perché quando la sveglia suona per andare a lavoro sembra la più terribile delle torture cinesi mentre stamattina mi è parso udir il cinguettìo di un fringuello! Balzo giù dal letto e in men che non si dica, quasi fossi Superman dentro una cabina telefonica, sono pronta e scalpitante sulla soglia di casa. L’adrenalina mi pervade tutta… finalmente si parte! Ore 12:15 - Ci siamo… Marzamemi. Il turchese del cielo sposa con armonia il blu cobalto del mare ed il colore ocra delle costruzioni in pietra arenaria; il profumo frizzante del Mediterraneo mi inebria. Mi guardo intorno ed ogni singola pietra del piccolo borgo trasuda storia e si erge a muta testimone di una
dominazione araba che ha lasciato tracce indelebili. Una breve telefonata ci guida per le strade accarezzate dalle onde, fino a raggiungere il dammuso che abbiamo prenotato qualche giorno fa… una deliziosa e caratteristica casa ottocentesca un tempo utilizzata dai pescatori locali. E già… Marzamemi rappresenta un interessante esempio di villaggio voluto e nato per espansione di una tonnara, testimone di un’epoca ormai conclusa. L’origine della tonnara di Marzamemi risale al dominio arabo. Nel 1630 fu proprietà della nobile famiglia dei Villadorata che ne incrementò la produzione, spingendo pescatori, operai e manovali, provenienti soprattutto da Avola e Siracusa, a trasferirsi e quindi fare casa nel nascente borgo. Risale invece al 1752 l’ammodernamento dell’intero complesso che fu dotato di una residenza signorile, locali di ricovero per i grossi e tipici barconi di legno e per le attrezzature da pesca, di cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, di una chiesa e di ampi spazi aperti per la pulizia e la manutenzione delle reti (l’attuale p.zza Regina Margherita). Ore 13:30 - Il sole è così cocente che nemmeno il mio cappellino riesce a darmi ristoro. E il mio stomaco brontola! Durante il nostro girovagare, notiamo un edificio in pietra che ospita un’azienda a conduzione familiare produttrice di prelibatezze locali quali tonno, bottarga, ventresca, pomodori di Pachino. Il proprietario ci spiega che la bottarga di tonno rosso viene tutt’oggi lavorata artigianalmente con antichi sistemi di essiccazione importati dalla cultura arabo-fenicia e che il primo stabilimento per la lavorazione del tonno salato e sott’olio risalente al 1912 rimase attivo fino al secondo dopoguerra. E’ deciso. Compriamo il necessario per un ottimo, fugace e “creativo” pranzo a sacco in riva al mare e ci incamminiamo verso la spiaggia. Che il sole mi baci! Ore 18:30 - Adesso che la luce del sole sembra essere meno audace, una doccia rigenerante è proprio quello che ci vuole dopo ore passate a dedicarmi alla difficile arte dell’abbronzatura! La spiaggia? Fantastica! Il mare? Superlativo orizzonte di flutti blu. Basterebbe soltanto questo a Marzamemi per attirare migliaia di turisti durante la stagione estiva. Ore 21:00 - Dopo uno strategico pisolino e 10 minuti di trucco davanti lo specchio del piccolo bagno, attrezzata di comode scarpe e tanta voglia di divertirmi, ci dirigiamo verso la piazzetta principale, che si è intanto vestita di tavoli e sedie colorati, ansiosi di cenare nel ristorante che abbiamo adocchiato questa mattina. E degno compagno di una squisita e casereccia cena a base di pesce, non poteva che essere un buon bicchiere di vino! A tal proposito il ristoratore tiene a farci sapere che il microclima marzamese favorisce la coltivazione della vite, tant’è vero che molti fanno risalire l’origine del nome della vicina Pachino al greco Pakus-òinos, la terra del vino buono, appunto. E quel vino è talmente buono, da non farci nemmeno avvertire la piacevole brezza che sfiora la nostra pelle e arruffa i nostri capelli: è il Suruq, un vento caldo proveniente dall’Africa che attraversando il mar
Foto Jacopo18041968
Mediterraneo si arricchisce di umidità. Finita la cena, ci guardiamo bene attorno: da dove sono venuti fuori tutti questi localini? E questa moltitudine di persone di ogni età e vari accenti dove era nascosta? Il borgo sembra quasi essersi trasformato alla sera… immutato è però rimasto il fascino di questa piazza. Venerdì 03 giugno - ore 12:45 Come era ben prevedibile, dopo una notte passata tra musica e belle risate, mezza giornata è andata sprecata… ci prepariamo il più velocemente possibile e di corsa giù per i viottoli… ci attende una colazione regale a base di granita di mandorle e brioches… e poi si continua a correre verso il porto vecchio, la Balata, con nel cuore la speranza di incontrare i pescatori, anziani con il viso segnato dal sole e le mani intente a rammendare le reti.
Foto François de Nodrest
Foto Jacopo18041968
...Molti fanno risalire l’origine del nome della vicina Pachino al greco Pakus-òinos, la terra del vino buono...
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Eccoli. Se chiudo gli occhi per un istante riesco anche a sentire la Cialoma, il canto della mattanza che i vecchi tonnaroti intonavano all’unisono per accompagnare le operazioni di pesca, il ritiro delle reti e che si concludeva con la cattura dei pesci. Ore 16:20 - dopo l’ennesimo pasto luculliano, è d’obbligo una passeggiata digestivo-culturale. Partendo proprio da p.zza regina Margherita, come non ammirare le due chiese dedicate a S. Francesco di Paola? E non è mica finita qui… alla sinistra della chiesa sconsacrata parte un vicolo che ci conduce all’interno di un Cortile Arabo, splendidamente conservato nonostante i bombardamenti della guerra ed il terribile terremoto del 1693, e si snoda fino ad uno spiazzale poggiato su di una piccola scogliera da dove è possibile ammirare il panorama mozzafiato di Capo Passero. Tornando verso p.zza regina Margherita, ci fermiamo e ci ammutoliamo dinanzi l’elegante cortile di Palazzo Villadorata, sede prestigiosa ormai da anni (assieme alla p.zza principale, il Cortile Arabo, piazzale Balata ed il Palmento Rudinì) del “Festival del Cinema di Frontiera”, con proiezioni di film e cortometraggi di registi provenienti da tutto il mondo. Il Festival ha da sempre solleticato ed incontrato il favore della critica e la partecipazione di personaggi molto famosi. Vorrei tanto riuscire a tornare a Marzamemi per godermi lo spettacolo di cotanta chiacchierata kermesse. Ecco. Questo sarà il primo obiettivo del mio rientro a casa: trovare date, luoghi e orari del Festival del Cinema di Frontiera. Obiettivo successivo? Riprenotare il dammuso per quelle date! Sabato 04 giugno - ore 10:05 Questa mattina sono riuscita a scendere dal letto ad un orario decente! Voglio dedicare tutto il pomeriggio alla tintarella, per cui rimane soltanto la mattina a mia disposizione per visitare il vecchio Stabilimento Rudinì che, assieme al Museo della Cantina Nobile, è una testimonianza senza tempo dell’importanza che l’industria enologica pachinese ha assunto durante tutta la prima metà del 1900. Chiuso purtroppo agli inizi degli anni ’60, lo stabilimento Rudinì fu concepito e realizzato diviso in vari reparti: il Palmento, dove venivano conservati i grappoli dell’uva prima della lavorazione; la Sala di fermentazione, dotata di grandi vasche che permettevano la fermentazione del mosto; la Sala Torchi, dove l’uva veniva pigiata; la Sala Macchine; il Vinodotto, che permetteva alle navi attraccate nel porto di Marzamemi di caricare vino o mosto attraverso apposite tubature. Domenica 05 giugno - ore 11:30 la valigia è di nuovo sul letto… ma stavolta si torna a casa. Una profonda amarezza mi pervade al solo pensiero di dover uscire da un mondo quasi fiabesco… come “Alice nel paese delle meraviglie” quando si sveglia dal sogno ed è felice di ritrovarsi a casa… soltanto al contrario, perché il mio non è stato un sogno ma una tangibile realtà… e lo dimostrano le 237 fotografie che porto via con me.
Un progetto culturale vincente Villa Malfitano - Fondazione Whitaker
A Palermo musei letterari, di musicisti e Case della memoria sotto i riflettori di un futuro di sviluppo foto e testo di Giancarlo Tribuni Silvestri appuntamento culturale di altissimo valore il 6 e il 7 maggio 2011: due giornate internazionali di studio sui musei letterari, di musicisti e case della memoria che saranno ricordate per l’importanza delle tematiche trattate. La prima sessione si è svolta a Palermo in due prestigiose sedi: l’Assemblea Regionale Siciliana (la Sala Gialla) e la Fondazione Whitaker (Villa Malfitano); mentre, la seconda ha avuto luogo a Trapani nel Museo Interdisciplinare Regionale “A. Pepoli”. Luoghi di eccellenza per un evento che ha avuto il patrocinio di ICOM ITALIA, della Provincia Regionale di Trapani, degli Amici del Museo “A Pepoli” di Trapani e della Fondazione Whitaker di Palermo e che è stato sostenuto dalla preziosa collaborazione de l’International Committee for Literary Museums (ICLM) rappresentata in Italia da Maria Gregorio. Un evento che si è distinto per l’ottima organizzazione e la cura di Valeria Patrizia Li Vigni (responsabile del coordinamento Regionale ICOM) che ha seguito i vari momenti del convegno con un calore culturale tutto siciliano. L’obiettivo è evidente quanto strategico per il futuro: sviluppare un sistema di reti di collegamento tra musei letterari russi e i nostri musei letterari e di musicisti, Case della Memoria, Università, Comuni, Provincie Regionali, Associazioni, Fondazioni, Centri culturali e simili. Nelle due giornate di lavoro, inoltre, è stata puntata l’attenzione sull’importanza di potenziare e promuovere le reti museali e, in particolar modo la necessità di dare un maggior impulso alle case-museo, luoghi di memoria legati a personaggi illustri. Hanno partecipato all’evento personalità del mondo culturale ed accademico, i rappresentanti dei musei letterari regionali, nazionali ed europei, i responsabili, direttori, presidenti, coordinatori, operatori culturali, dei musei siciliani, case della memoria e parchi letterari. Parentesi particolarmente interessanti sono state aperte nel corso della manifestazione: apprezzati l’intervento di Galina Alekseeva del Museo Tolstoj, la
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testimonianza del prof. Valerio Massimo Manfredi, storico del mondo antico, archeologo, scrittore, e documentarista e coinvolgenti le visite guidate da autorevoli esperti nei due luoghi significativi per la storia e la cultura dell’Isola: la Cappella Palatina e l’Isola di Mozia. Degna di nota è stata la grande partecipazione dei rappresentanti di case-museo siciliane. Direttori e responsabili che ci auspichiamo potranno al più presto mettere in atto i suggerimenti di Adriano Rigoli, presidente dell’Associazione Case della Memoria, che sull’onda del grande successo ottenuto dalle case associate ha invitato a considerare l’ingresso delle case-museo siciliane nella rete nazionale. La lungimiranza culturale che si esprime nella messa in rete delle case della memoria siciliane all’interno di una associazione a respiro nazionale è un segnale forte e significativo anche per onorare i 150 anni dell’Unità d’Italia. Questo progetto che onora i Grandi geni della nostra cultura in maniera più articolata e incisiva merita quindi l’attenzione di ognuno di noi. Inside Sicilia seguirà con attenzione l’evolversi della situazione. Un’attenzione che vuole essere anche una ulteriore conferma di interesse verso le “iniziative importanti e notevoli” della nostra Isola.
Da sinistra Galina Alekseeva, Adriano Rigoli, Maria Gregorio, Giuseppe Nuccio Iacono
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L’Associazione Nazionale Case della Memoria Riportiamo una parte del discorso di Adriano Rigoli, presidente dell’“Associazione Case della Memoria” per comprendere l’importanza della rete museale nazionale (6 maggio 2011 nella struttura della Fondazione “Giuseppe Whitaker”) “Nella prossima assemblea generale che si svolgerà a Vinci nella casa natale di Giotto, l’Associazione Case della Memoria (ACM) cambierà nome, o meglio nella sua denominazione sarà aggiunto l’aggettivo “Nazionale”. Così dopo circa 6 anni dalla sua costituzione si avvia a divenire e a proporsi come polo di aggregazione per le case museo dei grandi personaggi della storia a livello nazionale. Con l’ingresso di 2 case della regione Emilia Romagna, la ACM è ora presente in 3 regioni italiane Toscana dove è nata, Marche e Emilia Romagna. Non solo… l’Associazione ha preso contatto a Milano con la casa museo della scrittrice Lalla Romano al fine di una collaborazione e di un futuro ingresso… sarebbe la quarta Regione. Ma anche in Toscana si consolida la presenza. È notizia di questi ultimi giorni, la richiesta di ingresso nell’ACM di altre 4 importanti case toscane. Una di queste è prestigiosissima. Si tratta infatti della casa di Giovanni Pascoli a Castelvecchio di Barga acquistata dal poeta nel 1902 con il ricavato della vendita delle medaglie d’oro vinte ai certami di poesia latina di Amsterdam. In futuro, con l’accresciuto numero dei soci e delle regioni italiane (nelle quali saremo eventualmente presenti)… noi non vogliamo dare alla nostra associazione una struttura monolitica. Tutt’altro… Il nostro intento è quello di sollecitare in ogni regione italiana quel processo di conoscenza
Valerio Massimo Manfredi tra Maria Gregosio e Valeria Li Vigni
Villa Malfitano - Fondazione Whitaker
L’intervento di Galina Alekseeva
Un momento del convegno presso la Fondazione Whitaker
Un momento del convegno nella Sala Gialla dell’ARS
reciproca e di messa in rete delle casemuseo così come è avvenuto in Toscana. Auspichiamo la formazione di tante reti regionali che godano di libertà di azione ma che si ritrovino in un coordinamento nazionale: l’“Associazione Nazionale Case della Memoria”, in cui scambiarsi le esperienze e fare rete a livello nazionale oltre che avere un organo di rappresentanza a livello internazionale nei confronti delle altre associazioni straniere e Icom. ACM è nata in seguito ad un censimento promosso dalla regione Toscana e affidata all’ente nazionale Giovanni Boccaccio di Certaldo. La ricerca ha individuato su tutto il territorio regionale ben 54 case di personaggi che con la loro vita e le loro opere hanno illustrato la terra toscana. Ovviamente il numero delle case legate al numero di personaggi sarebbe stato ben maggiore perché un requisito fondamentale era che queste abitazioni avessero un minimo di allestimento e soprattutto, seppure con modalità diverse, fossero aperte al pubblico. La ACM non si limita solo alla abitazione museo di letterati o musicisti come prevede il Comitato internazionale di ICOM e ICLM ma include anche le abitazioni dove sono vissuti personaggi illustri in ogni campo del sapere anche dell’arte, della politica e della storia. Si propone di far conoscere e valorizzare queste significative dimore storiche con la consapevolezza che non è possibile studiare le opere immortali dei grandi scrittori, ammirare i dipinti e le sculture di artisti geniali… in definitiva non è possibile conoscere la storia senza incontrare i suoi protagonisti, il loro vissuto, il forte legame con il territorio. Le case-museo le case della memoria o case di artista ci consentono di conoscere le dimensioni quotidiane dei grandi del passato, di incontrarli nel loro vissuto e sentirli quasi presenti”. Foto di Gruppo sull’isola di Mozia: Luca Baldin (Segretario Generale ICOM Italia), Adriano Rigoli, Stanislao De Marsanich, Galina Alekseeva, Maria Gregorio, Valeria Li Vigni, archeologo di Mozia, Lina Novara (Amici del Museo Pepoli)
La leggenda dei Centi Pozzi A circa 7 km da Ragusa si trova una località denominata “Cento Pozzi” per la presenza di numerosi pozzi scavati in piena campagna nella roccia viva. Sembra che la loro distribuzione sia ordinata su tre linee parallele. I pozzi dalla profondità di 6 metri, comunicavano tra loro a mezzo di canali di derivazione e di beveratori intermedi. Resta ancora un velo di mistero sia sull’epoca di realizzazione sia sul perché di un numero così consistente di pozzi. Il sistema di pozzi, essendo anche un caso unico oltre che misterioso, sollecitò la fantasia dei contadini dell’agro ragusano e diede origine alla leggenda che qui trascriviamo così come ci è stata tramandata. eremita che viveva in una grotta nei pressi di Ragusa Ibla, possedeva una tabacchiera dove erano rinchiusi molti diavoli al suo servizio. Richiestagli una volta la tabacchiera da un altro eremita suo amico, gliela inviava con un garzone “fidato”, raccomandandogli di non aprirla per non aver guai. Cammin facendo, appena giunto in una campagna aperta e isolata, il giovane non resistette alla grande curiosità e aprì la tabacchiera. All’improvviso uscì una moltitudine di diavoli che gridavano: “Comanda! Comanda!” e il povero giovane, sorpreso e spaventato, disse: “Scavatemi cinquanta
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pozzi”. Appena i diavoli si misero all’opera, il garzone convinto che il tempo era sufficiente per fuggire da quell’incantesimo iniziò a correre. Ma fu tutto inutile perché nel giro di pochissimi minuti l’esercito di diavoli fu al suo cospetto rinnovandogli con insistenza la domanda: “Comanda! Comanda!”. Il giovane non trovò sul momento altra risposta che ripetere: “Scavatemi altri cinquanta pozzi”. Neanche il tempo di fare venti passi e i pozzi furono scavati. I diavoli si ripresentarono con la solita domanda. A quel punto il giovane che si era fatto più scaltro e sagace gridò: “Ora
che i pozzi sono cento, fatemi cento corde di sabbia per poter attingere l’acqua con i secchi”. I diavoli corsero in riva al mare, ma non riuscirono ad eseguire il lavoro, perché la sabbia non poteva essere intrecciata. Erano trascorsi diversi minuti e il giovane era ormai convinto di essersi liberato dei diavoli. Invece, stanchi e umiliati fecero ritorno e dopo aver riferito il vano tentativo, aggiunsero: “Comandaci altro!”. Ma il giovane, aperta la tabacchiera, disse: “tornate al vostro posto”, La legione dei diavoli rientrò così nella tabacchiera, che fu immediatamente chiusa e gettata dal giovane in un baratro.
L’acqua santa Tramandata dai contadini del luogo
La capra d’oro Dagli appunti “usi e costumi della contea di Modica” di Ester La Rocca, baronessa di San Germano. grotta della Capra è così detta perché la sua entrata – nel cozzo Girgentano- ha la forma di una capra. All’interno vi è custodito un tesoro. Per poterlo prendere, ci si deve recare alla mezzanotte sul monte, entrare nella grotta ed accendere due candele nere; poi si lasciano volare diverse api di San Nicola, tenute prigioniere in un fazzoletto e la prima che si posa indica dove si trova il tesoro. Mentre le api volano si devono recitare appositi scongiuri affinché la capra d’oro, che dicono trovasi in fondo alla grotta, si degni lasciarlo prendere. Dei poveri illusi che vollero tentare la prova, dicono di aver veduto quel tesoro, consistente in mucchi d’oro, di pietre preziose e scintillanti, ma che affascinati da tanto splendore sospesero gli scongiuri. Allora tremò la montagna, un lungo e lamentevole belato s’intese per la caverna, i lumi improvvisamente si spensero, lasciandoli inebetiti tra lo sconforto ed il terrore”. Il tesoro è ancora oggi in quella grotta!
“La
elle vicinanze di Ibla, nella località detta appunto “Acqua Santa”, una sorgente acquistava estrema sensibilità in un determinato giorno dell’anno: per l’Ascensione. Le donne leggere, le infedeli del talamo coniugale, le fanciulle impure, che in quel giorno andavano per rinfrescarsi le labbra, ricevevano istantaneamente la condanna alle proprie colpe: il limpido zampillo per incanto si assottigliava e s’intorbidiva assumendo colorazioni diverse, come se venisse contaminato dalle impurità di chi vi attingeva. Una leggenda identica si tramanda per le fresche sorgenti d’acqua di Comiso, sacre a Diana; qui però, la Dea puniva in tutti i momenti le profanatrici delle sue purissime acque.
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Modi di dire
Talè talè! di Giuseppe Firrincieli
esprimere con maggiore forza ed efficacia dei concetti ben precisi il dialetto siciliano e in particolare quello che si parla nel Sud Est ricorre spesso alla figura linguistica della reduplicazione, cioè al raddoppiamento di aggettivi, verbi, avverbi o semplici parole. Ciò conferisce alla nostra parlata un fascino ed un colore particolari, in pratica una maggiore efficacia a ciò che si vuole esprimere. In particolare il raddoppiamento di un aggettivo è un modo, per noi siciliani, di rappresentare il superlativo assoluto. Talè talè, vediamo alcuni esempi: nnicu nnicu, ranni ranni, luongu luongu, iautu iautu, curtu curtu, siccu siccu, ruossu ruossu, strittu strittu, laricu laricu, lientu lientu, lestu lestu, vicinu vicinu, luntanu luntanu. Il gironzolare senza una meta in luoghi comuni ha come riscontri: peri peri o pieri pieri, chiazza chiazza o ciazza ciazza (a seconda delle province siciliane), o casa casa, mari mari (i pescatori), ciusi ciusi o vignala vignala (i cacciatori o cercatori di asparagi), chiesi chiesi (le pie donne), tetta tetta (i gatti randagi). La mucca pronta al parto è para para, l’ubriaco è paru paru, se le nuvole sono niuri niuri la pioggia sarà ’ncutta ’ncutta, il pane appena sfornato è cauru cauru, il pesce fresco è vivu vivu e i cibi appetitosi sono cala cala. Un facile ostacolo viene superato cantannu cantannu o
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foto Massimo Piazzi
rririennu rririennu, mentre di un moribondo si dice che se ne sta andando ’nsuppilu ’nsuppilu. Nella vita sociale c’è chi agisce ’mprescia ’mprescia o curriennu curriennu, chi a muta a muta e chi a viso aperto ri facci a facci. Un tempo i bambini giocavano per le vie strata strata a nascondino ammuccia ammuccia o a rincorrersi acchiappa acchiappa. Oggi non più. Altri modi di dire sono: con una sberla ti faccio girare tunnu tunnu (più volte su te stesso), bbonè bbonè (alla meno peggio), allappa allappa (chi arraffa qualcosa), a quannu a quannu (proprio quando), ammutta ammutta (chi spinge tra la folla) ammucca ammucca (riferito al credulone) o sanu sanu (riferito all’ingenuo). Il fatto avvenne ri notti e nnotti (nottetempo) mentre due amici stavano scherzando babbiannu babbiannu e male che vada (tintu tintu) prendono una multa! E mentre la corda è ruppa ruppa (ingarbugliata con vari nodi) il ferry boat, come dicono nel palermitano, arrivau uora uora! Poi c’è chi se la vede malamente petri petri o chi di una cosa ne ha molto poco picca picca, mentre un vaso si è frantumato piezzi piezzi. Infine c’è chi cade scali scali e chi cammina muru muru, ma per la Pasqua c’è il rito della paci paci e a Modica c’è la Madonna vasa vasa. Quindi tutto raddoppiato, anche nelle tradizioni religiose che sono figlie delle tradizioni popolari.
Finalmente.... Libera informazione Un giornale online che fa notizia dando notizie Intervista a Davide La Rosa, direttore responsabile del Web TG www.newsinprovincia.com di Giulio Tribastone
Il buon giornalismo esiste ancora e può trovare spazio su Internet. È il caso del Web TG che su www.newsinprovincia.com si distingue per stile e per una scommessa: puntare sulla libera informazione! Una informazione dove i fatti sono raccontati così come si presentano, senza aggiungere, come consigliava Indro Montanelli, “né sale né zucchero”. E diciamolo pure… la cosa assume un grande valore in questi tempi dove è uso e costume piegare l’informazione alla politica o all’interesse di questo o di quell’altro personaggio. Inside Sicilia, da sempre attenta alle differenti e molteplici realtà che danno lustro alla nostra isola, ha seguito, fin dal suo esordio, il quotidiano online “newsinprovincia”. È giunto ora il momento di intervistare Davide La Rosa, il direttore responsabile, che ci ha accolto in redazione con la sua consueta disponibilità.
• Perché scegliere un progetto di “libera informazione?” Faccio il giornalista (anche se sarcasticamente preferisco definirmi “Giornalaio”) da otto anni. Sono giovane professionalmente, ma diciamo che ho avuto a che fare durante la mia gavetta con i diversi organi di informazione; tv, radio, giornali etc. etc. e mai ho avuto la concreta possibilità di raccontare quello che era giusto raccontare, perchè quando arrivavo a farlo, piombavano convenzioni e rapporti commerciali. Ho grande rispetto per questi ultimi, ma credo che bisogna scindere gli aspetti. L’informazione è informazione; la pubblicità è pubblicità. Per questo motivo ho deciso di creare un quotidiano web (www.newsinprovincia.com), nato nel 2009 che con le mie sole forze ho “pensato” e “partorito”. Dopo due anni di esperienza sul campo, ho deciso insieme al mio socio d’avventura, Fulvio Amarù, di creare una web tv. Siamo orgogliosi di aver dato vita al primo WEB TG, che ad oggi conta migliaia di accessi. Questo è il bello di essere liberi! • A quali difficoltà si va incontro vista la forte concorrenza in provincia di Ragusa? Non siamo in concorrenza con alcuno, ma solo con noi stessi. Il motivo è semplice.
1) Non abbiamo a disposizione i mezzi e le forze economiche di chi oggi fa informazione “on line” in provincia di Ragusa: questo è un dato di fatto. 2) Riteniamo di essere diversi, per il semplice motivo che abbiamo scelto di inculcare alla gente, al lettore, che è possibile raccontare in maniera asettica. Con questo non intendo dire che gli altri non riescano a farlo, ma noi da questo punto di vista abbiamo scelto come “convenzionati” solo ed esclusivamente le aziende del territorio ragusano che annualmente investono nel nostro progetto. Solo ed esclusivamente da questo, giungono i nostri proventi. Una scelta che ritengo coraggiosa, che ad oggi ci premia e che ci permette di regalare un’informazione libera. • Quali sono gli obiettivi di news in provincia e del suo staff? L’obiettivo primario è rimanere una forza libera da qualsiasi tipo di condizionamento e contestualmente continuare a crescere. Veda, ad oggi contiamo circa 2000 accessi giornalieri, che per noi rappresentano l’indiscusso punto di forza. Questo ci da la spinta per continuare, perché significa che siamo sulla strada giusta. Le diverse mail di appoggio al progetto che arrivano quotidianamente sono la prova provata che non siamo da soli. L’informazione deve partire dal “basso”. Ritengo non ci sia bisogno di un grande staff per coprire un territorio, ma solo la volontà da parte della gente di raccontare ciò che accade. Siamo vicini a questo obiettivo. • Il rapporto tra il suo quotidiano e la politica... esistono delle conflittualità o meglio chiamate ingerenze? La politica? Personalmente c’è un conflitto di “catulliana memoria” un odi et amo. Quando scrivo ciò che scrivo penso solo ed esclusivamente al mio lettore. Il bianco deve essere raccontato per bianco ed il nero per nero. In questi due anni di attività non ho mai ceduto a pressioni
politiche, anche perché le stesse non sono giunte. Sono stato molto chiaro all’inizio. Ringrazio comunque la politica perché è il motore delle mie giornate. In base agli avvenimenti, mi regala diversi sorrisi. Comunque rimaniamo due mondi diametralmente opposti. Io faccio il “giornalaio” non il “politicante”. Aggiungo, come nonostante collabori nell’ufficio stampa di un ente comunale, alle dirette dipendenze di un Sindaco, debbo riconoscere allo stesso capo dell’amministrazione, Giuseppe Alfano, la correttezza dei rapporti. Le assicuro che ad oggi è difficile da trovare. • Quale il messaggio che vuole lanciare ai suoi lettori? Ai miei lettori voglio intanto dedicare il mio più sentito ringraziamento, come d’altronde voglio girare lo stesso alle tante aziende che hanno deciso di sposare il mio quotidiano e di sostenerlo, sponsorizzandosi al suo interno. Quale messaggio? Vorrei portarli a riflettere che fare libera informazione è possibile; che raccontare ciò che accade senza togliere o aggiungere nulla è possibile e poi voglio affidare la conclusione alle parole del grande Indro Montanelli, che mi permetto di disturbare: “L’idea di uno vale più della convinzione della massa”. Dopo queste 5 risposte capiamo il perché siano sempre di più le persone che seguono questo quotidiano online. Non c’è dubbio. La sicurezza e la determinazione di Davide La Rosa, nel difendere i principi e la pratica di una libera informazione, offre certamente quel valore aggiunto che traspare in tutta chiarezza sul monitor del lettore (il vero protagonista della notizia). L’obiettivo che per tanti è considerato ambizioso e irrealizzabile viene invece raggiunto. E certe mete si conquistano solo se c’è onestà intellettuale nel giornalismo!
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TAORMINA. S’APRE IL SIPAR
di Lisa Bachis nche quest’anno, nel rispetto di una tradizione che coniuga arte, bello e divertimento, all’interno di originali cornici storico architettoniche, Taormina e la sua bellezza regaleranno esclusive suggestioni a quanti trascorreranno momenti di svago e relax nella notissima località turistica. La Stagione Eventi 2011 si è aperta l’11 giugno con il 57° Taormina FilmFest e per il quinto anno consecutivo, la rassegna cinematografica si è avvalsa dell’eccellente direzione artistica di Deborah Young. Il Festival, mantenendo l’impronta delle precedenti edizioni, ha portato alla ribalta alcuni paesi dell’area mediterranea, e nello specifico, i tre paesi del Maghreb: Tunisia, Algeria e Marocco. E come di consueto, le proiezioni e gli appuntamenti collegati all’importante evento sono stati ospitati nel PalaCongressi e nel Teatro Antico. Il 25 giugno, sempre al Teatro Antico, si è terrà un altro evento di prim’ordine: la Cerimonia di Consegna dei Nastri D’Argento con la presenza del Presidente SNGCI Laura Delli Colli. Ma il ricco cartellone di appuntamenti, offerto da Taormina Arte – che collabora in stretta sinergia con l’Assessorato Turismo e Spettacolo
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Città di Taormina - ASSESSORATO AL TURISMO Promozione Piano Strategico ed Innovazione Turistica Sport e Spettacolo - Marketing Territoriale Memoria e Archivio Storico - Sviluppo Economico Verde Pubblico e Arredo Urbano
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IO SULLA STAGIONE ESTIVA
della cittadina ionica – continuerà a stupirci perché a luglio, “lo spettacolo va avanti!” Dall’1 al 15 luglio, all’interno del Parco Duchi di Cesarò, circondati dai penetranti profumi delle innumerevoli specie botaniche in esso presenti, e rapiti dalle suggestioni offerte dal paesaggio, si svolgerà il Taormina Book Festival, Festival Internazionale del Libro ed a seguire ci sarà il Taormina Jazz Festival che giunto alla sua seconda edizione e forte del successo dell’anno precedente, dal 18 al 24 luglio libererà vibranti energie all’insegna della Cultura con la “C” maiuscola. Il Taormina Jazz Festival – il cui ingresso è gratuito – sotto la direzione artistica di Toti Cannistraro, ha affidato l’apertura al sassofonista siciliano Stefano D’Anna. Ma la ricchissima offerta di spettacoli, prosegue con due momenti davvero irripetibili, al Teatro Antico. il 16 luglio, andrà in scena la Messa Da Requiem di Giuseppe Verdi, eseguita dalla University Symphony Orchestra of London, diretta da Daniel Capps. L’opera fa parte del prestigioso cartellone della sezione Musica e Danza di TaoArte, sotto l’attenta regia del Maestro Enrico Castiglione. Il 22 luglio, è invece atteso Carlos Santana, nella terza tappa del Guitar Heaven European Tour. E siamo certi, che uno dei miti
della musica internazionale, non mancherà di sorprendere ed emozionare tutti i suoi fans! Infine, il programma degli eventi previsti per giugno e luglio, comprende un altro irrinunciabile appuntamento, unico ed originale: il Festival Internazionale delle Orchestre a Plettro. Il Festival si svolgerà dal 24 al 28 luglio, nelle due splendide location del Teatro Antico e del Parco Duca di Cesarò e vedrà coinvolte alcune delle più note ed antiche formazioni a plettro italiane ed europee. Aprirà la kermesse, il 24 luglio al Teatro Antico, l’Orchestra a Plettro Città di Taormina, diretta dal maestro Antonino Pellitteri, che quest’anno festeggia il centenario della sua nascita. L’Orchestra eseguirà musiche di Emanuel Calì e Vincenzo Bellini, in omaggio allo spirito della sicilianità. Il Festival inoltre si propone quale esperienza di scambio e condivisione per le formazioni a plettro presenti nel mondo ed ha tra i suoi obiettivi, la rivalutazione della tradizione mandolinistica italiana.
INFO Per informazioni sugli eventi in programma, visitate il sito www.taormina-arte.com Se desiderate trascorrere a Taormina un fine settimana indimenticabile e godere della possibilità di assistere alla Cerimonia di Consegna dei Nastri D’Argento il 25 giugno, potete usufruire di prezzi agevolati, prenotando il soggiorno tramite l’Associazione Albergatori di Taormina. La lista degli Hotels convenzionati, e tutte le informazioni sui pacchetti soggiorno, sul sito www.taohotels.com Sezione Eventi
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La Villa Comunale di Taormina
Il magico Teatro Antico
Le Meravigliose stanze del mondo dei Donnafugata Sfiorare il passato per sentirne il respiro di Giuseppe Nuccio Iacono - foto Giancarlo Tribuni Silvestri - foto ufficio centri storici del Comune di Ragusa Raggiungere Donnafugata è come sfiorare il passato per sentirne il respiro. Le prime sensazioni vengono percepite già dal percorso che conduce allo spiazzo antistante il Castello. Un percorso fiancheggiato da basse costruzioni rurali che accoglievano sia le abitazioni dei contadini che i locali adibiti alla necessità dell’azienda agricola. Dalla piazzetta si può apprezzare il prospetto in tutta la sua estensione. La superba facciata svelerà il suo segreto: dietro le orgogliose e ingannevoli sembianze di un castello si cela in effetti una maestosa villa patrizia. Un espediente stilistico dove gli elementi di difesa hanno solo un chiaro valore simbolico: il Potere! All’immagine architettonica del “Potere politico” si unisce quindi quella della sontuosa residenza di campagna, espressione dell’“Essere nobile”. E tutto è sottolineato dalle distese a perdita d’occhio del latifondo: un bel panorama che includeva il segno dell’“Avere” dei Donnafugata! La Villa occupa una superficie di 2500 mq e si sviluppa su tre piani. Il piano terra costituito da un basamento terrazzato è inquadrato da due piccole torri circolari e presenta una balaustra ritmata da otto vasi. La superficie è interrotta da due portali neorinascimentali: quello di destra conduce agli ambienti residenziali mentre l’altro era riservato agli spazi
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Comune di Ragusa Assessorato alla Cultura
di servizio. Il volume della terrazza mette in risalto un imponente prospetto merlato che viene alleggerito da bifore e impreziosito da una loggia neogotica di ascendenza veneta ma di radice stilistica viterbese. Oltrepassato il portone si passa nell’androne voltato che ospitava la guardiola e nel quale si apre la chiesetta. Si accede poi al cortile principale; uno spazio quadrato attorno al quale si aprivano vari ambienti: un teatro, una cappella funeraria, depositi, cucine ecc… Di fronte un grande vestibolo, un tempo adibito anche al ricovero delle carrozze e dei cavalli, conduce allo scalone d’onore. L’ampia scala illuminata da finestroni si snoda su tre rampe di pietra pece ritmate dalla presenza di alcune statue classiche e da interessanti vasi ornamentali e colonnine di pietra pece: questo tipico materiale ragusano (molto in uso nel ‘700 e ‘800) è una costante della pavimentazione delle stanze del castello. Giunti alla sommità, si entra nella “stanza blu del Lucernario”, arredata con mobili stile Luigi XVI e con alcuni quadri: un ritratto di Santa Cecilia, un “Ufficiale” e un nobiluomo con bambino (secondo alcuni il Principe Pignatelli con il piccolo barone Corrado Arezzo). Da qui si passa alla “Sala dei Pavoni” detta “Sala dei fumatori”. Entrambi i nomi derivano da riferimenti alle pitture: Pavoni agli angolari della volta o pipe e sigari alle pareti. Altre allusioni dipinte (carte da gioco) ricordano come in questo modesto spazio, oltre a fumare si potevano “mandare in fumo” intere fortune con il gioco d’azzardo. Accanto si trova la cosiddetta “Sala del Camino”, meglio conosciuta come “Sala delle Donne”. Dominata da un grande lampadario in vetro di Murano che pare sia stato regalato da uno dei prestigiosi ospiti, la stanza era dedicata ai giochi, alle conversazioni e ai vari passatempi con i quali si usava trascorrere le serate. Segue la “Sala del Pianoforte” o “Sala della Musica” dove tra alcuni salottini sono presenti tre interessanti pianoforti meccanici a cilindro e un pianoforte verticale. La funzione della sala si trova un chiaro richiamo nella decorazione del soffitto dove al centro si impongono i simboli di Apollo, dio del canto e della musica. L’ambiente è arioso grazie alle pitture neoclassiche delle pareti dove un trompe-l’oeil riproduce, tra colonne turchesi, dei paesaggi siciliani e una veduta dell’Orto Botanico di Palermo.
Il salottino della stanza dei fumatori
Lo scalone d’onore
La sala del lucernario
Una curiosità: alle estremità delle pareti si notano due riproduzioni di quello che poteva essere la struttura del castello prima delle radicali trasformazioni ottocentesche. Una delle porte immette in una stanza dell’antica torre: è la camera dove secondo la leggenda fu imprigionata la regina Bianca di Navarra. La fuga di questa Donna avrebbe così dato il nome a Donna Fugata (il nome invece deriva dall’arabo ajn as Jafuat = fonte della vitalità). Un’altra porta conduce alla Foresteria, una enfilade di camere da letto che occupa una intera ala laterale e parte della facciata. Di notte le porte delle stanze venivano chiuse e i collegamenti erano affidati a un corridoio accessibile da porte mimetizzate alle pareti. Finalmente si raggiunge la “Quadreria” (quella che impropriamente le guide insistono a chiamare “Pinacoteca”). Contiene una modesta collezione di pitture ad olio con motivi mitologici e scene di martirio cristiano. Il tema predominante farebbe comunque pensare ad un ciclo incompiuto dedicato alle fatiche di Ercole. Dalla Quadreria si arriva alla “Sala del Bigliardo” dove, lungo le pareti, i sedili posti su pedane consentivano agli spettatori una visione più comoda. L’apparato decorativo è dominato dal trompe l’oeil che dà l’illusione di essere in un elegante padiglione, sorretto da 4 pilastri con un La sala del bigliardo Particolare della quadreria
L’appartamento del vescovo
Particolare del loggiato
drappo che svolazza grazie ad un leggero venticello. E tutto attorno sono dipinti paesaggi campestri siciliani e vedute marine orientali. A sinistra si entra nel cosiddetto “Appartamento del Vescovo”. In effetti qui erano ospitati i personaggi di rilievo che godevano dell’amicizia degli Arezzo. E non va sottovalutato che proprio qui, nel salone rosso, si animavano discussioni e si prendevano decisioni sui destini politici di Ragusa e della Sicilia. Non sembrano essere fantasie così gli incontri “clandestini a Donnafugata” dell’agosto 1859 con “Manuel Paseda”, falso nome di Francesco Crispi, diventato primo ministro del Regno d’Italia. Dal salone rosso si accede alla camera da letto impreziosita da splendidi e rari mobili in stile Boulle e che conserva ancora un antico quadro che riproduce la “Casina di villeggiatura di Donna fugata”. Da questi ambienti, attraverso il “corridoio d’inverno” si entra nel fastoso “Salone degli Specchi”. Le tende di pizzo e le mantovane arricchite da zineffe in oro zecchino si alternano agli specchi che amplificano la percezione reale dello spazio. Al centro, un pianoforte viennese a coda riporta alla memoria le feste da ballo. Possiamo immaginare l’eccitazione dei preparativi, l’ansia dei padroni di casa e degli invitati, la rabbia degli esclusi, la raffinatezza delle toilettes delle signore, lo scintillio delle divise dei più giovani in contrasto con l’austerità dei frac neri. In questo salone rivivono le danze, la musica, gli sguardi e le chiacchiere e quella fitta trama sociale di un mondo lontano. Lasciando queste sensazioni, si prosegue la visita entrando nel “salottino” di don
Armature della sala degli stemmi
Sala degli specchi
La biblioteca
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Corrado Arezzo, con un ritratto del barone, commissionato dalla sorella, Ignazia duchessa d’Albafiorita. Seguono gli “Appartamenti della Contessa”; una serie di stanze piuttosto semplici dove risiedevano gli ultimi proprietari del castello. Degna di nota è la “Stanza da letto azzurra” ricavata all’interno della grande torre circolare e che contiene un dipinto (si dice opera di Vincenzina Arezzo) che riproduce una veduta ottocentesca della Villa. Si raggiunge poi il “Salone degli Stemmi” sulle cui pareti sono riprodotti gli stemmi di gran parte della nobiltà siciliana. Queste decorazioni si protrassero nel tempo: iniziate con Corrado Arezzo, si conclusero con la nipote Clementina de Lestrade. Per ottenere una omogeneità si completarono le “parti libere” con stemmi di pura fantasia. Una porta del salone, introduce nell’antibiblioteca dove tra antichi ritratti di famiglia spiccano quelli di Francesco Maria Arezzo e di Corrado Arezzo. L’attigua biblioteca, ricca di manoscritti e libri (anche edizioni in lingua straniera), testimonia l’elevato livello culturale degli Arezzo oltre all’ampio interesse nei vari campi del sapere. Dal salone degli stemmi, un’altra porta funge da collegamento con la scale d’onore e riporta al cortile… lasciando nel visitatore quella piacevole sensazione che solo chi visita Donnafugata può descrivere.
Il “casino di villeggiatura” chiamato castello Il casino di villeggiatura - quadro conservato nella stanza del vescovo
Non si hanno notizie certe sulla data di fondazione del primo nucleo dell’edificio. Nel XVI sec. il feudo sul quale insisteva una torre di avvistamento apparteneva ad un discendente del ramo femminile dei Casa Cabrera. Nel 1647, il nobile Vincenzo Arezzo La Rocca acquistò la tenuta di Donnafugata da Guglielmo Bellio de Cabrera ottenendone regolare investitura l’anno successivo (15 maggio 1648). Con il trascorrere degli anni, attorno alla torre si formò una masseria con relativa casa padronale dove gli Arezzo controllavano le attività agricole del latifondo. Nella prima metà dell’800, Francesco Maria Arezzo Cosentini avviò i lavori di rifacimento per dar vita ad un “casino di villeggiatura”. È comunque al figlio Corrado Arezzo De Spuches che si deve la forma dell’attuale Donnafugata: l’edificio fu ampliato subendo importanti trasformazioni sia stilistiche che compositive e fu avviata la sistemazione del parco. Grazie alla influenza politica, il barone Corrado riuscì a far deviare verso Donnafugata (dove si costruì persino una stazione) la linea ferroviaria Siracusa-Licata. La deviazione fu realizzata anche se risultava “sconveniente” per i costi dovuti al percorso “collinare” (più ripido e articolato). Non solo il percorso ferroviario si allontanava dal territorio pianeggiante della costa dove insisteva maggiormente l’economia agricola. Era dunque una operazione oculata pro-Donnafugata che dava maggior lustro alla villa patrizia e agevolava le operazioni di carico e scarico dei prodotti del latifondo. Altri interventi di una certa importanza furono eseguiti agli inizi del ‘900 dalla nipote Clementina Paternò Arezzo e dal marito francese, il visconte Gaetano Combes de Lestrade. Per dare una continuità nei
collegamenti interni dei due corpi di fabbrica laterali, i de Lestrade demolirono l’immensa bifora centrale che occupava tutta l’altezza della facciata. Si unirono gli ambienti del primo piano mentre nel secondo piano fu riproposta l’interruzione tra le due ali con l’inserimento di una loggia neogotica. Le nozze di Clara (unica figlia del visconte Lestrade) con il conte Vincenzo Testasecca, non diedero origine a lavori di una certa consistenza: fu realizzata la torre quadrata ad est per contenere alcuni cedimenti dell’apparato murario. I Testasecca de Lestrade risiedevano a Parigi e a Tolosa e preferirono trascorrere le vacanze nel loro castello francese: i soggiorni siciliani si fecero sempre più sporadici e la gloriosa Villa si avviò verso uno stato di declino e abbandono. Alla morte di Clara, il castello di Donnafugata fu ereditato dal figlio Gaetano Testasecca (1920-1985). Dopo la morte dell’unico figlio, avuto con Yvette Paulhac, Gaetano si dedicò alla vita mondana di Saint Tropez e raramente raggiunse il suo castello siciliano del quale lamentava la mancanza di comodità per un “bon
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Ritratto di Corrado Arezzo de Spucches
séjours”. Il mantenimento di una struttura così ampia, complessa e lussuosa era naturalmente molto onerosa e nel 1982, per far fronte ai debiti accumulati e per sopperire ad una amministrazione di dubbia efficacia, Gaetano decise di vendere il Castello al Comune di Ragusa per poco più di un miliardo di vecchie lire (1.149.600.000). Dopo una serie di lavori di restauro, il castello e il parco sono stati restituiti al pubblico come testimonianza di un capitolo importante di storia ragusana.
Ritratto di Corrado Arezzo
Ritratto di Francesco Maria Arezzo Cosentini
Foto Gaetano Gambino della Soprintendenza di Catania
GAMMAZITA DI CATANIA Il pozzo dove si attinge ancora storia e leggenda
di Giuseppe Nuccio Iacono Catania, fra il Castello Ursino e Piazza Duomo, una stradina larga appena 3 metri (via san Calogero) conduce al piccolo slargo da cui si accede nel cortile dove si trova la fonte (o pozzo) di Gammazita. Un angolo silenzioso e singolare per la conformazione dello spazio. Un luogo suggestivo che prende il nome da una leggendaria eroina catanese che per secoli ha accompagnato il mondo immaginario dei Catanesi e di tanti viaggiatori. Molti (anche tra i catanesi) sconoscono l’ubicazione della fonte e la leggenda di Gammazita così come sono tanti a passare davanti ad uno dei lampioni a candelabro di piazza dell’Università, dove nel montante è raffigurata la giovane Gammazita che si getta nel pozzo. La fontana di Gammazita non rientra nei rapidi o consueti itinerari turistici della città ma continua ad offrire le sfumature del surreale e del fantastico a chi desidera scoprire sensazioni uniche. La prima impressione che si ha è quella di scendere in uno spazio della “Comedìa” dantesca, in una voragine scavata nel banco lavico. In effetti, le colate laviche che nei secoli avevano più volte minacciato o coinvolto la città modificandone la stratificazione urbana non risparmiarono l’antica fonte di Gammazita: ricoperta dalla lava durante l’eruzione del 1669. Il fiume di fuoco cancellò la sorgente d’acqua per circa un secolo fino a quando alla metà del ’700, i catanesi decisero di scavare per riportarla alla luce e ripristinarne l’antica funzione. Per raggiungere la fonte, posta a 12 metri sotto il livello stradale, bisogna scendere ben 62 gradini disposti su cinque rampe interrotte da modesti pianerottoli. Scendendo si attraverseranno a ritroso alcuni momenti storici della città: lo spazio invaso dalla presenza della “coltre lavica” del 1669, lascia spazio alle tracce cinquecentesche delle mura cittadine volute da Carlo V che a loro volta ci accompagnano verso la vasca dove scorre la leggenda duecentesca, legata ai Vespri.
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Acquerello di Jean Houel. La fonte Gammazita nel 1782
Un riferimento alla fonte si ha negli Atti dei Giurati del Comune di Catania del 1431 dove si concede ad un tale magister Antonio Pulaxtru l’uso delle acque della “Abbiviratura magna”, ossia della fonte “Yamma cita” per alimentare (insieme alle acque di altri rivoli) un mulino che lo stesso si impegnava a costruire entro l’anno successivo. In un altro atto, datato 4 agosto 1491 si accenna ad un terreno posto tra la fonte “Jammacita e
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La leggenda di Gammazita
Incisione inserita nel Picture from Sicily di W. Bartlett - 1869
li Canali” che un ebreo doveva sgomberare dai mucchi di letame per permettere l’uso del campo di tiro delle “bombade” e garantire un decoroso passaggio alla processione “di la gloriosa virgini santa Agata”. Dopo gli scavi settecenteschi il luogo ritornò alla vita quotidiana del quartiere e fu frequentato dalle lavandaie e dalle donne che qui attingevano l’acqua. Per il suo particolare fascino quel luogo divenne presto una delle tappe consigliate per i viaggiatori del “grand tour” che da tutta Europa giungevano a Catania. Alla curiosità archeologica degli scavi delle terme romane seguiva a poca distanza la ricerca del pittoresco nella vicina fonte di Gammazita. Pochi isolati separavano le due attrazioni! Una prima descrizione della fonte Gammazita è attribuita al viaggiatore tedesco Joseph Hermann von Riedesel che in “Reise durch Sicilien und Grosse griechenland” (1771) cita brevemente i resti delle mura che aveva osservato scendendo in quel pozzo. Nessuna citazione sulla vasca dove le donne siciliane attingevano o lavavano i panni. Fu forse distratto da altri suoi pensieri: “le siciliane amano
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Alla mala signoria degli Angioini in Sicilia (1270-1282) si riferisce la leggenda di una bella fanciulla catanese di nome Gammazita. Durante il tragitto che ogni giorno da casa faceva per attingere l’acqua dalla vicina fonte, fu vista da un giovane soldato francese che si invaghì di lei. Più volte cercò di insidiarla e a nulla valse il sapere che la ragazza era fidanzata e promessa sposa ad un giovane della città. Quando giunse il giorno delle nozze Gammazita si trovava alla fonte di buon mattino. Era felice e non vedeva l’ora di recarsi da lì a poco in chiesa per unirsi in matrimonio con il suo amato. Purtroppo fu solo l’ultimo sogno. Lungo la strada le si presentò lo spavaldo angioino che tentò di prenderla con la forza. Gammazita disperata e vistasi preclusa ogni via di scampo, preferì gettarsi nel pozzo anziché cedere alle voglie dell’infame soldato. L’urlo fece accorrere tutti i parenti. Presero il corpo e lo deposero sul letto matrimoniale. Il fidanzato giurò vendetta e si mise a capo della rivolta contro i francesi. La leggenda giustificava anche le tracce rosse che un tempo erano ben visibili sul fondo della vasca. Quelle macchie create dalle acque ferruginose della sorgente furono per la fantasia popolare le macchie di sangue di Gammazita.
sinceramente e con violenza e fan vedere che il loro sesso è capace di costanza e di fedeltà”. Pochi anni dopo Brydone, in “A tour through Sicily and Malta” (1773) puntava la sua attenzione sul carattere pittoresco della vita quotidiana che ruotava attorno alla fonte e manifestava grande ammirazione per i catanesi che avevano scavato per recuperarla: “un lavoro molto originale che merita di essere visto”. Una decina di anni dopo Richard de Saint-Non e Jean Houel, fornivano le prime rappresentazioni iconografiche del luogo. Nell’incisione di Saint-Non e nella china acquerellata di Jean Houel si ha una chiara idea della conformazione della fonte di Gammazita mentre le impressioni per quel luogo “particolare” venivano descritte nei loro appunti di viaggio. L’acqua, la sua limpidezza e la sua abbondanza furono poi esaltate da Dominique Vivant Denon (1788), da Charles Didier (1834) e infine da J. Power (1842).
La fonte in una incisione Deprez dell’opera di Saint-Non
In viaggio tra cale, scari e grotte; la toponomastica del litorale siracusano nel XVI secolo
La costa di Siracusa descritta e illustr di Sergio Cilea Anno ab incarnatione Domini nostri Iesu Christi MDLXXXIV. Un drappello di uomini, dopo aver ormeggiato un elegante brigantino a vela latina nella cala del molinaro nei pressi del capo di Santa Panagia, si avvia a piedi lungo la costa trasportando un pesante teodolite, alcune aste di misurazione ed una cassa contenente numerosi strumenti scientifici. Guida il gruppo l’ingegnere militare fiorentino Camillo Camilliani, al quale l’anno prima il Vicerè Marcantonio Colonna ha affidato l’incarico di verificare lo stato delle numerose e malconce torri di avvistamento sparse lungo il litorale siciliano. In rappresentanza del governo spagnolo è stato inviato Capitan Giovan Battista Fresco, importante esponente della Deputazione del Regno, ufficio questo preposto al mantenimento delle torri di Sicilia. Assieme, in circa due anni, compiranno l’intero periplo dell’isola, e la relazione finale dal titolo Descrittione delle marine di tutto il regno di Sicilia con le guardie necessarie da cavallo e da piedi che vi si tengono,
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diverrà determinante per la progettazione del nuovo sistema difensivo delle coste siciliane contro le sempre più frequenti incursioni di corsari ottomani e barbareschi. Sarà il celebre matematico palermitano Don Carlo Ventimiglia, accompagnato dal poliedrico artista Francesco Negro, alcuni decenni dopo, a tornare sullo stesso itinerario per perfezionare il progetto. Solo a conclusione di questa seconda verifica si darà finalmente avvio al costosissimo piano di innalzamento o restauro delle fortificazioni che terminerà circa un secolo dopo. L’elaborato, ripreso ed arricchito da copiose aggiunte dal gesuita Andrea Massa, fu pubblicato a Palermo nel 1709 dal tipografo Francesco Cichè con il titolo La Sicilia in Prospettiva. La preziosa edizione del Massa, oltre a fornirci importanti notizie sulle fortificazioni, riporta in maniera dettagliata e meticolosa la descrizione della toponomastica dell’intera costa siciliana elencando tutte le insenature, la loro capienza in vascelli, l’eventuale presenza di sorgenti ed i nomi con cui la tradizione popolare individua tali siti. Per accompagnare i toponimi delle insenature venne usato il termine siciliano scaro o quello italiano cala, il cui
significato esprime comunque lo stesso concetto: seno di mare dentro al terreno ove si possa con sicurezza trattenersi alcun tempo qualche vassello o simile. Scorrendo il lungo elenco delle località costiere siracusane, scopriamo che molti dei toponimi oggi in uso sono gli stessi indicati secoli prima dal Camilliani: scogli dei due fratelli, l’isola delli cani, gli scogli di Sant’Antonio (oggi molo Sant’Antonio), il buon servizio, punta e grotta della Pellegrina. Altri invece permettono di identificare antiche attività lavorative insediate lungo il litorale come ad esempio le numerose cale chiamate delle calcarelle, della calcara, riferibili alla produzione di calce e la cala del ciaramiraro, riconducibile alla fabbricazione di tegole. Dalla sequenza delle località scopriamo anche che nei pressi dello scoglio dei due fratelli, tra li Fornelli e lo Scoglio del Ridotto vi era una Spelonca simile alle Grotte di San Giovanni (catacombe) Il litorale di Siracusa nel 1782
ata da prestigiosi geografi del passato
Ortigia vista dallo scaro delli Cappuccini In primo piano il Convento con l’antico muro di recinzione nel 1851 - Collezione Laudani
quantunque presentemente non vi possa più entrare perché il tremuoto del 1693 con le rovine ne turò la bocca. Molte isole, grotte, spiagge, citate dall’autore sono oggi scomparse a causa dell’impetuosità del mare, ma altre di cui si è persa memoria del toponimo grazie a questa descrizione potrebbero essere individuate e rinominate come in origine. Preceduto dal litorale di Avola, per il Massa il litorale siracusano aveva inizio dagli Scogli delle Timpe nei pressi di Cassibile e procedendo da sud verso nord terminava all’Acqua dei Palombi subito dopo la bocca della cava di Santa Panagia, dove si venera in questo luogo un piccolo Oratorio col nome di S. Panagia. A seguire da questa località iniziava il litorale di Melilli. Riportiamo un estratto dell’affascinante descrizione fatta dal Massa cominciando dallo splendido tratto di costa a ridosso della grotta della Pellegrina, per fortuna ancora oggi non aggredita dal cemento e del tutto simile a come la ebbe a vedere Camillo Camilliani all’epoca del suo viaggio, terminando alla punta del Palombo nei pressi del Convento dei Cappuccini. Frontespizio del libro “La Sicilia in prospettiva” del gesuita Andrea Massa stampato nel 1709 Il Porto Grande visto dalla Cala Calda - incisione di Raffaele Politi, 1856
138. Poscia si incontrano la cala del Tufazzo; lo scoglio di Altavilla; Lo scoglio, Grotta, e bocche della Traversa con sua Cala per sette Galeotte; lo scoglio delle Pietre Rizze; la Punta del Mazzamarello, che molto si allunga in mare, e la cala del Mazzamarello, ricettamento di quattro Galeotte. Vicinamente si vede la Grotta della Pellegrina, e la sua Punta; la spiaggia del Pozzillo; la Punta della Calella con le Bocche pure della Calella, ridotti di piccole barche. Vengono poi la Punta e le Rocche della Mola, scogliose e piene di balze, ma non di molto sovrastanti il mare; il Ridotto altresì della Mola; la Punta di Ripe Bianche, o come altri pronunciano delle Cuti Bianche con la cala, anche nominata dello stesso modo; la Grotta della Paglia; la Punta del Falcone; la Grotta del Parrino con uno scoglio del medesimo nome, il quale per la violenza di impetuose tempeste nel novembre del 1707 restò seppellito sotto l’onde. Si tocca poscia il Promontorio di Massa Oliveri, cioè il Plemmyrium di Tucidide, di Plutarco, e di Virgilio. Ha la sua Cala per quattro Galeotte ed in distanza di quasi 60 canne l’ isoletta del Castelluzzo, da alcuni nominata Plemmiria. 139. Qui apre sua bocca in ampiezza di sopra 500 passi il porto famosissimo di Siracusa, a fronte del levante verso il Mare Jonio. Chi s’inoltra nel cennato porto per la parte sinistra si lascia dietro tutti li seguenti luoghi, cioè la Punta dello Scaro; la Grotta di Horatio; la Scalilla; e non guari distante dal lito l’Isola di San Martiano, detta dai Siracusani la Galea; poscia la Grotta, e scaro di Calagrande; la Punta di Mezzo; la spiaggia del Piro; la Punta e Scaro della Spianazza; la spiaggia, Punta, e Punticella della Maddalena; la Punta e spiaggia del Sacramento; li Scogli e Spiaggia di Sgotto con due ridotti non molto grandi, ed il Fonticello di S. Marta che versa acqua dolce nella spiaggia suddetta. 140. Questa conduce alla Punta del Papa, ed a certe Rupi che addimandano li Scogli delli Salarini. Siegue la Cala Calda, che tiene a rimpetto alquante secche; appresso sono le bocche del Pantano delle Colonne, così denominate per alcune maravigliose Colonne, vestigio del Tempio di Giove Olimpico, che ancora si mantengono in piè; poi la foce del fiume Anapo, raccordato da Tucidide, da Teocrito, da Livio, e da Ovidio. Siegue la spiaggia di Anapo; il Rivoletto delli Pantanelli; la spiaggia del Ponte di Mezzo; il Rivoletto della Vanella dell’ acqua; la spiaggia del Ponticello di Pietra; li scogli di S. Antonio; la Foce delli Molini; e finalmente la nobilissima Città di Siracusa, edificata su l’Isola di Ortigia. 141. Girando intorno per lo fianco maritimo e meridionale della città, si lascia la foce del tanto celebre Fonte Aretusa, e poi la punta del Castello Maniace; e seguendo il camino per la banda di tramontana, si vede a fronte della Città l’Isola delli Cani: appresso si entra nel Porto Piccolo, poscia si passa per li scari di Santa Lucia, e delle Spine Sante; per lo scoglio di Pietra Longa; per lo scaro delli Cappuccini; per la Punta di Scoglio Rotondo, o come altri dicono scoglio Grande; per la Tonnarella; per lo scaro della Scalilla; e per la Punta del Palombo (...)
IL CORTEO STORICO DEL SENATO CIVICO Cenni storici L’attuale tradizione del Corteo Storico del Senato Civico di Caltagirone risale a molti secoli addietro, ma è nel periodo barocco tra il XVI e XVII secolo, che ne segnò fondamentalmente caratteristiche e aspetto. Il “corteo”, qui come ovunque, nasce dall’esigenza di volersi rappresentare e di vedere gli altri rappresentati, in ogni cerimonia pubblica. Per un cittadino-spettatore tutto quello che scorre davanti ai suoi occhi diventa rappresentazione: ricorrenza funebre, festa religiosa o civile, manifestazione politica ecc.. Il corteo diventa così uno schema entro il quale si pongono le figure che si autorappresentano e nello stesso tempo dialogano tra loro e lo “spettatore”. Nel loro ambito queste figure si muovono e pertanto insegnano, ammoniscono, esaltano e coinvolgono. Quando però l’evento (ovvero il rito) si conclude resta il “mito” di un corteo rappresentativo che nel tempo si cristallizza, incominciando a “vivere” ed a “tramandarsi” come cosa a sé stante. Nel corso della storia di Caltagirone assistiamo ad una continua “rinascita” economica e politica che dà l’occasione per ridisegnare gli schemi dettati dal potere, ma il momento particolarmente importante è quello in cui seguendo le istanze controriformistiche, provenienti soprattutto dalla scuola dei Padri della Compagnia di Gesù, il Corteo e in generale la Festa si caricano di particolari significati interagendo con il tessuto urbano e con le stesse architetture della Città. Nella “Loggia”, si trova il cuore pulsante della città, con i palazzi della potente nobiltà e le chiese; quella dei Gesuiti e quella di San Giuliano, la Corte Capitaniale ed, accanto, il grande Ponte che congiunge la piazza con il convento dei Padri Francescani. Da questa piazza partono le due grandi arterie viarie che portano alle storiche parrocchie di San Giacomo e di San Giorgio. Dalla piazza della “Loggia” (oggi Piazza Municipio) tutto si muove e tutto ritorna con preciso ordine: solenni cavalcate e processioni partono da essa per diffondersi per le “strade della solennità”, fermandosi nei luoghi più pubblici. C’è dunque a Caltagirone, già agli inizi del sec. XVII, una chiara volontà di creare una immagine-spettacolo della città, che si andrà costruendo lentamente tra il 1500 ed il 1800, nonostante la terribile cesura costituita dal terremoto del 1693. I Gesuiti agiscono di concerto con il potere politico e con
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foto Andrea Annaloro
lo stesso interesse: gli uni per affermare il valore religioso della festa, gli altri per il prestigio dei valori cittadini; il tutto mirato ad un consenso reciproco per celebrare la festa nella legittimità di entrambi. Per volontà delle classi nobili, nasce la concorrenza nell’allestimento di apparati, nell’abbellimento di palazzi, nella magnificenza dei propri abiti e dei loro servitori; tutto ciò doveva dimostrare l’appartenenza al rango privilegiato, al mondo della ricchezza di fronte alle classi inferiori, dando la convinzione di un’aristocrazia “meritevole” di privilegi e cariche pubbliche. Da questo nasce il progetto delle “pompe” che si svilupperà rapidamente. Gli intellettuali partecipano alla festa generalmente con scopi di mediazione tra il potere ed il popolo (stendono programmi ideologici sulle feste), dando atto che il potere aristocratico ha la volontà di affermare in ogni occasione il proprio fasto, i propri lussi, le proprie ricchezze, proclamando il proprio ruolo.
Nel contempo il popolo è considerato nella sua dimensione di comunità cittadina, che si esprime con la partecipazione al rito collettivo, riconoscendo il potere attraverso l’opera di mediazione culturale per mezzo della persuasione, favorendo così la sua partecipazione attiva. Il “Corteo del Senato Civico” di Caltagirone, si è dunque formato nelle sue “figure rappresentative”, arricchendosi, nel corso dei secoli, nella quantità e qualità dei suoi componenti. Un particolare cenno è d’obbligo per quanto riguarda la partecipazione del Corteo Storico del Senato Civico nei Festeggiamenti in onore al Santo Patrono S. Giacomo. Solo in tale occasione il Corteo si completa di n. 3 carrozze, di cui una con un tiro a quattro cavalli e due con un tiro a due cavalli ciascuna. Precisamente la sera del 24 luglio, la mattina e la sera del 25 luglio il Corteo si muove dal Palazzo Municipale in gran completo, figuranti e carrozze, sulle quali vanno le Autorità cittadine. L’immagine del Corteo “completo di carrozze” è particolarmente suggestiva per la storia che rappresenta e per la ricchezza dei colori dei costumi – le cosiddette livree - unitamente ai drappi che ornano il Palazzo Municipale per l’occasione in un clima di massima partecipazione cittadina. Il Corteo, lasciate le carrozze, assiste ai riti religiosi che si svolgono in Basilica e, a seguire, accompagna a piedi tutta la processione dividendosi in parte davanti alla “Cassa argentea” che custodisce la “reliquia del Santo” ed in parte davanti al “Fercolo del Santo”, durante tutto il percorso. La partecipazione del Corteo simboleggia quella di tutta la Città che si stringe attorno al Santo Protettore per rendergli omaggio in ringraziamento della Sua alta protezione.
“La Scala Illuminata” è inserita nel calendario regionale delle manifestazioni di grande richiamo turistico ed è cofinanziata dall'Assessorato Regionale del Turismo, dello Sport e dello Spettacolo
foto Andrea Annaloro
Città di Caltagirone Assessorato Cultura e Turismo
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CASTELLO DI CARINI PreziositĂ del tempo, scrigno di storia e infinita leggenda
Di Giuseppe Nuccio Iacono - Foto di Giulio Lettica ppena 26 km da Palermo e solamente 5 km dalla costa si innalza su una collina a 162 metri s.l.m… In quella posizione pittoresca sui monti ericini, Carini si erge splendida; ricca di fascino, e orgogliosa per la sua storia millenaria e per le tante testimonianze artistiche. Il castello stretto dall’abbraccio delle case riesce a liberarsi ed imporre una parte delle sue mura verso un vasto paesaggio disteso tra mari e monti. Simbolo di potere e di ricchezza, il castello è ancora là, a custodire le sue antiche glorie. Durante la passeggiata che porta al Castello, c’è qualcosa di sorprendente che accompagna il visitatore. I vicoli del paese continuano a parlarci del famoso e altrettanto amaro caso della baronessa di Carini. Storia e leggenda? oppure storia che divenne leggenda? un fatto misterioso. Una vicenda intricata, intrisa di sangue, mai chiarita del tutto. Un delitto che sconvolse tutta la Sicilia del tempo e che i cantastorie ci hanno tramandato. Da 450 anni si proiettano sul castello le ombre e i dubbi sull’omicidio della baronessa Laura Lanza, assassinata insieme all’amante Ludovico Vernagallo.
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Veduta dal castello
L’origine gloriosa di Carini Il nome di Carini deriva da “Hyccara” e farebbe riferimento ad un primo insediamento sicano situato lungo la costa. Tucidite, ricorda Hyccara come un importantissimo emporio marittimo, frequentato da mercanti fenici. La crescita commerciale e sociale dell’abitato seguì poi le vicissitudini politiche dell’isola e fu coinvolta nella guerra tra Atene e Siracusa. Nel 415 a.C., 5000 guerrieri ateniesi al comando di Nicia, occuparono e distrussero Hyccara. Gli abitanti furono uccisi o catturati per essere destinati al mercato degli schiavi. Fra le prigioniere, si distingueva per la bellezza una certa Laide di Hyccara, che il generale Nicia portò con sé ad Atene. I suoi lineamenti e le sue forme erano così perfetti che il paragone con Venere fu inevitabile nei componimenti di alcuni poeti. Gli Iccarini scampati al massacro e alla schiavitù si rifugiarono verso l’interno dove si stabilirono e costruirono la seconda Hyccara. La fertilità del suolo e i favorevoli collegamenti diedero un grande impulso all’agricoltura e al commercio… e la città non tardò a risorgere in ricchezza. La prosperità continuò in età romana. Di questo periodo, Plinio ci ricorda un evento importante per “Carinum”: il soggiorno dell’imperatore Antonino Pio. Tra il VIII ed il IX sec. d.C., dopo varie incursioni, la città fu conquistata dagli Arabi. Nel 909, l’emiro Mulei Almoad concesse agli abitanti di costruire la nuova città (Qarinih) nel sito dove sorge l’attuale Carini.
Prospetto principale del castello
Veduta del cortile dallo scalone d’onore
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Il Castello figlio della storia Con la conquista normanna, il conte Ruggiero assegnò Carini in baronia a Rodolfo Bonello, un suo fidato cavaliere. Questi, fra il 1075 ed il 1090 diede avvio ai primi lavori di costruzione di una fortezza che, in un susseguirsi di secoli, tra adattamenti, rinnovamenti e rifacimenti si consoliderà essenzialmente nei tratti tardo-cinquecenteschi di un castello che subirà gli ultimi sapienti “ritocchi” del recente restauro. Il castello, costruito su strutture murarie di epoche precedenti (araba) e posto sul ciglio di un terrazzamento naturale, garantiva il controllo del territorio circostante e di un ampio tratto di costa. Il geografo Al-Idrisi (1099-1166) lo ricorderà nel suo “Libro di Ruggiero” come “una fortezza di recente costruzione”. Sotto la dominazione sveva, Carini ebbe il privilegio di nominare quattro rappresentanti della locale borghesia e sotto il regno di Costanza d’Aragona la signoria fu affidata a Palmiero Abate. Gli Abate trasformarono parte della struttura difensiva in ambienti ad uso residenziale e detennero la proprietà fino a quando re Martino I confiscò loro tutti i beni, accusandoli di “fellonia” (Gli Abate si erano infatti schierati con i Chiaramonte nella disputa riguardante il possesso della corona) Nel 1397, il re aragonese concesse la “Terra di Carini” con tutti i suoi diritti e pertinenze a Ubertino La Grua, fedele “miles panormitano” e Maestro Razionale del Regno. Lo stesso re Martino presenziò al contratto di matrimonio (1402) tra Ilaria, figlia di Ubertino La Grua, e Gilberto Talamanca (servitore catalano del re). E poiché Ubertino non ebbe figli maschi, agli sposi fu trasferito il privilegio di ereditare titoli e beni. Nacque così la dinastia La Grua-Talamanca che mantenne la baronia (poi principato dal XVII sec.) fino al 1812. Dalla metà del XV sec. si fece sempre più impellente la necessità di modificare il castello in una residenza signorile. Gli atti notarili del 1484 e del 1487, documentano l’esecuzione di alcuni lavori di restauro affidati a mastro Masio de Jammanco che si impegnava con il nobile Guglielmo Talamanca, tutore di Giovan Vincenzo La Grua, barone di Carini, a “dimorare a Carini per eseguire delle fabbriche nel Castello… per un anno continuo e completo, dal 2 ottobre in poi, per 11 onze, e mangiare e dormire per tutto il tempo”. Chi diede avvio a radicali interventi di ammodernamento e ampliamento fu Vincenzo II La Grua, marito della sfortunata baronessa Laura Lanza di Trabia, uccisa nel 1563 per mano del padre Cesare. I lavori furono ricordati nella data “1562” incisa nello stemma del La Grua e nelle scritte, non casuali, “RECEDANT VETERA” e “ET NOVA SINT OMNIA” incise rispettivamente sull’architrave della porta della stanza
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Cortina fortificata e porta del castello
Stemma La Grua
Il retro del castello
della baronessa Laura e del portone di ingresso alla Foresteria. I lavori non si conclusero certamente nel 1562, come potrebbe suggerire la data incisa sullo stemma… ma proseguirono anche dopo il tragico eccidio Lanza-Vernagallo. Secondo la tesi di Gioacchino Lanza Tommasi, le frasi incise sarebbero il segno di un “rinnovamento culturale in campo sociale ed architettonico intrapreso prima dell’assassinio della baronessa”. Secondo Vincenzo Badalamenti, le scritte sono riferibili ad un periodo successivo… quando Vincenzo II La Grua pretese “la cancellazione di ogni presenza che potesse rimanere legata al ricordo della moglie infedele”. Secondo altri i “motti” scolpiti sarebbero addirittura da attribuire al XV sec. In ogni caso i lavori ben si prestavano ad offrire un ambiente rinnovato per una storia rinnovata: dopo pochi mesi il barone convolò a nuove nozze con Ninfa Ruiz. E mentre tutto si rinnovava in casa La Grua Talamanca, il padre assassino della bella Laura, era riuscito a fare archiviare il triste caso. La decadenza iniziò a segnare le strutture del castello a partire della fine del ‘700, di pari passo con il diradarsi dei soggiorni dei La Grua. L’abolizione della feudalità (1812) contribuì a far calare il sipario su quel mondo incantato e consegnò l’antico castello a un secolare abbandono. La sensibilità dei Carinesi per la loro storia non si spense: anzi si unì alla lungimiranza degli amministratori e alla perizia di ottimi restauratori… e dopo i restauri del 2001 il castello, è ritornato a nuova vita e sprigiona ancora oggi il suo antico fascino.
Scalone d’onore
Camminamento
Cortile. A sinistra la loggia e a destra la cortina fortificata con l'accesso
Attraversando le due porte Entrati nella graziosa cittadina, si segue Corso Umberto I e si entra nel Castello dopo aver attraversato due magnifiche porte risalenti al XII secolo. La prima porta di fronte alla chiesa di S. Vincenzo, è quella che si apriva nella possente cinta muraria dell’antico borgo medievale. Proseguendo, il visitatore si trova al cospetto delle maestose mura del castello. Minacciose per i nemici e benigne per gli abitanti del borgo, quelle pietre erano per tutti il segno di un potere feudale incontrastabile. Una rampa curvilinea, pavimentata con ciottoli, conduce all’imponente ingresso del castello. La porta, è inserita in un apparato murario dalle linee arabo-normanne che stupisce per le linee slanciate dell’arcata a sesto acuto. Al suo interno la porta sottolinea il suo carattere difensivo: verso l’alto si nota la temibile botola, la “buca di getto”. Dalla porta si scorge una interessante veduta sul cortile e, avanzando (grazie anche alla complicità della pendenza del suolo, in salita), si apre e si allarga una suggestiva prospettiva sui volumi delle facciate.
Scorcio dalla porta d’accesso
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Cortile
Un tempo intonacate, mostrano oggi le tracce dei rimaneggiamenti che coinvolsero le strutture murarie a partire dal XV secolo. Nonostante l’assenza di un ordine simmetrico generale, le nuove linee rinascimentali e post-rinascimentali si imposero, in particolare, nelle finestre e nei portali. Nuove aperture si sostituirono a quelle precedenti di stile ogivale (una di queste, tamponata, è visibile in facciata). Nel piano terreno, i corpi di fabbrica ospitavano gli ambienti riservati alla servitù, i depositi, le scuderie e si ampliavano, nel sottosuolo, in ulteriori spazi di servizio. Suggestivo è il lavatoio in pietra di Billiemi. Degni di nota, la Cappella affrescata a Trompe l’oeil (XVII-XVIII sec) e la Biblioteca un tempo nota per l’abbondanza di libri pregiati e per accogliere una interessante quadreria. La Cappella e altri spazi ritornano a risplendere anche per il nobile gesto di Salvino Leone, uno degli eredi La Grua, che il 4 dicembre 1999, ha voluto donare al Castello la Madonna del Mancino (XVI sec.) che era posta nella Cappella del Castello, il Puttino della fontana del cortile ed alcuni libri facenti parte della Biblioteca.
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Il grande arco ogivale d'accesso al castello
Particolare del cortile
Sempre dal Cortile, per chi desidera spaziare con lo sguardo sul “mondo di Carini”, una scaletta di pietra (a destra), conduce nei camminamenti di ronda e nelle torri. Chi invece desidera sentire le vibranti sensazioni offerte dagli ambienti di vita quotidiana dei nobili La Grua Talamanca, deve accedere al piano nobile dell’edificio, salendo lo scalone d’onore (a sinistra).
Gradino dopo gradino si avrà la sensazione di raggiungere e conquistare parte di un passato prestigioso e sembrerà di sentire ancora gli appassionati palpiti d’amore della Baronessa Laura Lo scalone in pietra di Billiemi, realizzato dall’architetto Matteo Carnalivari (XV secolo) emana una grazia e armonia rinascimentale. Si arriva al pianerottolo-balcone e da qui si può accedere al piano nobile tramite due portali: il primo dall’elegante architrave marmoreo (con scritta “ET NOVA SINT OMNIA”) Merli a coda di rondine
Intervento di restauro su uno dei corpi di fabbrica
Antica finestra fine XIV sec. murata accanto ad elegante finestra cinquecentesca
Bifora
Architrave con iscrizione
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Particolare del soffitto ligneo dipinto
Porta d'accesso all'antico borgo fortificato
Torre con eleganti mensole
immette nella Foresteria (appartamento degli ospiti) e il secondo portale, dagli interessanti particolari compositivi che tentano (invano) di raccordarsi alle linee delle finestre, introduce nel magnifico Salone delle Feste. L’ampio ambiente svolgeva appieno la funzione di spazio di rappresentanza e dava in occasioni di feste, ricevimenti o incontri un ulteriore segno della potenza e prosperità della famiglia. Non passa inosservato il prezioso soffitto ligneo a cassettoni con elementi “a stalattite” gotico-catalani. La struttura è sorretta al centro da una grande trave con elementi pensili trilobati dipinti e lumeggiati d’oro. In uno di questi settori decorativi centrali incuriosisce l’espressione “IN MEDIO CONSISTIT VIRTUS”, mentre su alcune mensole laterali si leggono altri motti allegorici: “ET IN ESTREMIS LABORA”. Una allusione al comportamento fisico della struttura?!. Le altre due travi, poste in corrispondenza delle pareti lunghe, mostrano belle mensole e alcune pitture raffiguranti motivi floreali e stemmi di famiglia.
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Particolare di struttura muraria difensiva
Da questo salone, inizia un percorso che ha tanto da raccontare: interessante osservare le stanze affrescate (XVII e XVIIII sec.) con scene classiche e mitologiche e vedute archeologiche. Prima di lasciare il castello, un’altra sorpresa ci è riservata dalla torre quadrata.
Il mistero della mano scolpita Il parapetto della torre e i mensoloni sono decorati con rosette. Ma… una eccezione! A sud, la penultima mensola presenta sulla superficie una mano scolpita. Mistero! Fu forse realizzata da una maestranza araba che qui volle lasciare “la mano di Fatima” un tipico simbolo di fortuna di origine orientale?. È forse la firma dell’artista che scolpì le mensole? Abitudine non rara in passato... ma qui un po’ invadente. O forse, nonostante l’oggetto sia precedente al caso della baronessa di Carini, non sia meglio illudersi e immaginare che quella mano sia stata scolpita per ricordare l’impronta lasciata dalla mano insanguinata della baronessa su un muro del castello che da sempre solletica la curiosità dei visitatori?
Sala con soffitto ligneo dipinto
Stanze con decori classici
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Secondo la leggenda, in occasione dell’anniversario del delitto, il 4 dicembre, sul muro di una stanza quella ricomparirebbe impronta. Si dice che la pietra sulla quale la baronessa aveva poggiato la mano fu poi rimossa nel XIX sec. dai proprietari del castello per essere trasferita a Parigi. Ma l’oggetto di una leggenda non può mai trasferirsi in un altro luogo e così resterà sempre a Carini. Così come resteranno vive nel castello le tracce di tanti secoli di una storia infinita.
A destra l'unica mensola con scolpita una mano
Foto Laura Abbate
La storia della “testa del moro” di Giuseppe Nuccio Iacono asseggiando per le vie e i vicoli di molti paesini o penetrando nel silenzio appartato di antichi cortili è possibile ritrovarsi in una dimensione seducente dove ogni particolare, anche il più semplice, trasmette alla nostra fantasia l’energia che trasforma la nostra passeggiata in un viaggio magico. Un viaggio dove il mito, la favola o la leggenda sono il respiro di una realtà “irreale” che tuttavia esiste, vive e risplende davanti agli occhi di ognuno di noi. Ogni oggetto ha una propria vita e contiene un sogno o un racconto. Come non restare incantati dai colori dei vasi di ceramica (le “graste”) dai disegni e decori secolari che come tante sentinelle poste sui balconi accolgono fiori profumati e piante aromatiche. E tra questi non passano mai inosservati i vasi stravaganti che riproducono teste di moro. Si sono liberati dalla loro funzione per assumere il “volto” (è il caso di dirlo) di personaggi dalla pelle scura con tanto di orecchini e turbanti. I loro occhi guardano lontano nel passato e le bocche dalle grosse labbra sono pronte a raccontarci l’origine romantica e tragica della loro esistenza. Queste “Teste di Moro” ci riportano all’anno Mille, al periodo della dominazione araba, quando alla Kalsa, il quartiere musulmano di Palermo viveva una fanciulla dalla bellezza e dalla grazia insuperabili. Trascorreva le sue giornate alternando le faccende domestiche alla cura del suo meraviglioso giardino. Un giorno, lungo la strada che costeggiava il recinto del giardino si trovò a passare un giovane moro che vide la fanciulla e se ne innamorò perdutamente. Il giovane dichiarò il proprio amore alla ragazza che presto ricambiò. I due amanti iniziarono ad incontrarsi ogni notte. Ma la travolgente passione sfociò presto in tragedia. La fanciulla avendo saputo da alcuni mercanti che il moro l’avrebbe lasciata per ritornare nel suo paese d’origine dove l’aspettavano la moglie e i tre figli, si sentì profondamente tradita e meditò la vendetta. Affranta per il destino che negava ogni futuro al suo amore, volle trascorrere insieme al suo “moroso” l’ultima notte di passione. All’alba lo pugnalò e con una spada gli tagliò la testa. Per una sorta di malia la testa si pietrificò e conservò i sereni lineamenti del moro innamorato. La fanciulla quindi seppellì il corpo nel giardino e con la testa ne fece una “grasta” (vaso) in cui piantò del basilico che giornalmente non finiva di innaffiare con le lacrime. Morì di pianto. Questo amore sventurato fu tramandato con un canto popolare e ispirò una novella del Boccaccio: la “patetica e tragica” novella di Isabetta da Messina (Giornata IV e novella V del Decameron). Ancora oggi i ceramisti siciliani plasmano la leggenda con la creta. In quei vasi a forma di testa di moro rivive la triste storia dei due protagonisti… una storia che oggi pochi conoscono e che pian piano si perderà nel tempo.
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“…quella canzone la quale ancora oggi si canta, cioè: qual esso fu lo malo cristiano, che mi furò la grasta, etc…” GIOVANNI BOCCACCIO
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Le Piste ciclabili per valorizzare Territorio e Ambiente della provincia di Ragusa
Quando i progetti diventano realtà e aumentano gli standard qualitativi della vita Provincia Regionale di Ragusa, Assessorato al Territorio e Ambiente, ha già avviato da tempo azioni di riqualificazione del proprio territorio provinciale attraverso la progettazione e formazione di sistemi di mobilità a valenza turistico–ricreativa. In quest’ottica sono stati presentati e finanziati diversi progetti relativi alla mobilità dolce. E proprio nei giorni scorsi finalmente si è concretizzato l’impegno dell’Amministrazione Provinciale con l’inaugurazione della Pista Ciclabile che collega Sampieri a Marina di Modica. Si tratta di un percorso di circa 3,1 km che si sviluppa all’interno dell’area forestale di Sampieri e prosegue lungo la SP 66 Sampieri–Pozzallo. La nuova pista ciclabile riveste peraltro carattere di intervento “pilota”, in quanto costituisce il primo tratto dell’itinerario ciclabile litoraneo che, in accordo al progetto generale “PASSIBLEI” attuativo delle
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Provincia Regionale di Ragusa
previsioni del Piano Territoriale Provinciale nel settore della mobilità non motorizzata, dovrà svilupparsi dal comprensorio di Macconi-Marina di Acate fino a S. Maria del Focallo, all’estremo lembo di levante della provincia, attraversando tutti i borghi marinari del nostro litorale. La realizzazione della pista ciclabile, nello specifico, rientra in un più ampio progetto di ri-qualificazione del comprensorio Sampieri – Punta Pisciotto – Marina di Modica, per il quale sono state destinate risorse finanziare pari a 1.800.000,00 euro, assegnate con il DM 104 del 04/02/2003 a valere sul “Fondo nazionale per la realizzazione di infrastrutture di interesse locale” di cui all’art. 55 della legge 28/12/2001, n. 488. “La creazione di percorsi ciclabili e pedonali – spiega l’Assessore al Territorio e Ambiente Salvo Mallia – è innanzi tutto finalizzata a restituire sicurezza ai vari collegamenti dei centri turistici della nostra fascia costiera, ma non solo. Attraverso la creazione di questi percorsi abbiamo cercato di valorizzare ancor più un’area di grande interesse ambientale qual è quella di Punta Pisciotto. Ad arricchire il progetto inoltre la creazione di un percorso pedonale lungo la scogliera che, attraverso l’utilizzo di una strada interna già esistente permetterà suggestive e panoramiche passeggiate lungo la nostra bellissima costa”. Sebbene la pista sia già pienamente fruibile, è da precisare, inoltre, che l’Assessorato al Territorio e Ambiente ha già predisposto un ulteriore progetto per la realizzazione degli ultimi interventi di arricchimento, quali l’illuminazione pubblica, il verde e la costruzione di muretti ecc.
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Ma la mobilità dolce non interesserà soltanto la fascia costiera, è notizia di questi giorni, infatti, la firma del disciplinare d’incarico per la progettazione esecutiva della nuova pista ciclabile che sorgerà invece nella tratta dell’ex ferrovia secondaria che va dall’antica Stazione di Chiaramonte al Bivio di Giarratana. “L’intento – afferma l’Assessore - è quello di poter riconvertire l’intera tratta dell’ex ferrovia secondaria che, collegando i centri di Ragusa, Siracusa e Vizzini, costituisce il naturale asse portante della viabilità non motorizzata del comprensorio barocco del Val di Noto, ricco dell’incomparabile patrimonio dei suoi centri di riconosciuto interesse storico e architettonico. Sono certo che riqualificare la vecchia rete di sentieri e infrastrutture di cui è intessuta la provincia di Ragusa, anche nelle aree del comprensorio montano, può costituire la risposta più efficace al fabbisogno di fruizione turistico-ricreativa del territorio nelle sue molteplici valenze storico, culturali, naturalistiche, paesaggistiche e ambientali”. “Attraverso questi interventi - conclude Mallia – stiamo cercando di rendere il nostro territorio quanto più vivibile e fruibile. La provincia di Ragusa è caratterizzata da un patrimonio ambientale non indifferente che merita di essere valorizzato e soprattutto riscoperto e apprezzato. È indubbio che la qualità della vita di ognuno di noi sia strettamente legata alle condizioni ambientali in cui si vive. Come soggetto istituzionale mi sto fortemente impegnando affinché si possano raggiungere standard qualitativi alti, senza contare la rilevanza, sotto il profilo dello sviluppo economico e turistico, che questi interventi sono in grado di apportare. Queste opere sono la chiara dimostrazione che uno sviluppo sostenibile del territorio è realmente possibile. Spero che i cittadini apprezzino quello che questa amministrazione sta cercando di realizzare nell’interesse del territorio”.
In Sicilia pulsa il cuore vivo della storia mediterranea di Alice Pepi Sicilia si arrivava solo per mare, e dal mare alle sue coste arrivarono le varie dominazioni che la arricchirono ma allo stesso tempo la soggiogarono. Ricchezza e difficoltà, queste le componenti che, ancora oggi, fanno parte della vita di ogni siciliano, perennemente dibattuto tra ciò che la storia gli ha donato e ciò che gli ha tolto. È una storia lunga quella delle dominazioni in Sicilia, che comincia nel VII secolo, con l’arrivo dei Greci che sbarcarono nel luogo dove poi fondarono, nel 753 a.C., Naxos, la prima colonia. Furono i Greci che determinarono, in modo indelebile, l’indirizzo culturale e artistico dell’isola, basti pensare a Pindaro, Eschilo, Teocrito e Archimede e ai simboli per antonomasia della Grecia in Sicilia come, ad esempio, i templi di Siracusa ed Agrigento. L’isola divenne parte integrante del mondo ellenico, nonché centro delle attività commerciali, grazie ai traffici mercantili che si estendevano dal Mediterraneo fino al Mar Nero. Dopo Naxos sorsero le altre colonie; tra le più importanti, Siracusa (734 a.C.) , Messina (730 a. C.), Catania (729 a.C.), Gela (689 a.C.),
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Una pentecontera, antica nave greca con 50 remi, 25 per lato
Selinunte (650 a.C.), e le subcolonie, fondate e create per assicurare il controllo dei punti strategici militari e commerciali dell’isola, come Agrigento, fondata nel 581 a.C. da Gelesi e Akrai (664), Casmene (643) e Kamarina (598) fondate da Siracusa. Dal 264 a.C. la Sicilia fu assoggettata dai Romani, che coltivarono estensivamente i fondi agricoli siciliani, tant’è vero che la Sicilia fu definita “Granaio di Roma”. Il dominio romano non fu un periodo tranquillo e ne sono una testimonianza le ribellioni degli schiavi. Dopo i Romani, con l’era delle “invasioni barbariche”, entrarono in Sicilia i Vandali (468 d.C.), dopo di loro i Goti. Seguirono i Bizantini. Ma è la dominazione Araba che, anche se cruenta, arricchirà ancora di più l’identità culturale e civile della Sicilia. Introdusse nell’isola le colture di arance, limoni, asparagi, carciofi, riso, pistacchio, melanzane, cotone e carrubo. Portarono gli odori del gelsomino, le spezie come lo zafferano, il garofano e la cannella, rivoluzionando la cucina tipica del luogo attraverso la preparazione di piatti che oggi appartengono alla tradizione come il pane con la “ciuciulena” e il “turruni” di mandorle e zucchero. I Normanni liberarono la Sicilia dal dominio arabo e ne presero il pieno potere dal 1060. Nel 1197, sotto Federico II lo Svevo, detto Stupor Mundi, l’Isola divenne un modello di governo efficiente e tollerante, e Palermo un luogo privilegiato dove si incontravano e si confrontavano felicemente varie culture mediterranee; una città dove si parlava correntemente sia greco, arabo o latino… così come ci racconta Pietro Eboli che la definì “Urbs felix, populi dotata trilingui”. Dopo gli Svevi fu la volta degli Angioini, dominatori odiati dai Siciliani per la loro politica illuminata solo dalla repressione e da vari soprusi. Un periodo che vide crescere il malcontento fino al culmine della ribellione dei famosi “Vespri Siciliani”, che segnarono il passaggio dell’Isola agli Aragonesi che qui regnarono per circa due secoli e mezzo, fino alla Pace di Utrecht, che consegnò il Regno di Sicilia sia pure per breve tempo ai Savoia. Seguirono gli Asburgo d’Austria e i Borboni poi. Dopo i Borboni, l’Unità d’Italia. Oggi, la nostra isola, non è altro che il futuro misto alla storia. Un luogo dove il “bel canto” di Vincenzo Bellini incanta di armonia il tempo di un mondo che guarda nella Sicilia quella terra di speranza. Una terra circondata da un mare attraversato dalla storia e che fa storia!
Oggi nel mar Mediterraneo non ci sono più le pentecònteri, antiche navi greche a cinquanta remi, con a bordo marinai avventurosi che sbarcando orgogliosamente sulle coste fondavano le più belle città siciliane, ma sempre più spesso imbarcazioni fatiscenti in cui si affollano uomini nord-africani, tunisini, simbolo di una fuga di massa che si estenderà ad Egitto, Libia ed Algeria. Fuga verso la Sicilia, in cui passato recente e lontano sembrano tornare, in un presente in cui non è possibile opporre politiche di respingimento del diverso, perché la diversità è parte di noi ma in cui occorre inserire politiche di governo atte a sostenere la nostra isola per l’accoglienza, l’assistenza e la regolarizzazione dei nostri fratelli nord-africani. Nel centocinquantesimo anno dell’Unità d’Italia noi abbiamo il dovere di sentirci cittadini del mondo, di comprendere che diverse etnie, presenti in uno stesso luogo, rappresentano una risorsa. Lo dobbiamo ai nostri padri e alla nostra terra, alla forza che mettiamo per superare le difficoltà di questa isola che ha grandi ostacoli da superare ma ricompense bellissime da offrire, lo dobbiamo al mondo che ci ha regalato questa posizione centrale nelle sue vicende e al quale non possiamo sottrarci. La nostra lunga storia, piena di glorie e di lotte, non deve essere macchiata dall’indifferenza verso le vicende dei popoli vicini e lontani a noi, perché l’indifferenza verso il diverso è indifferenza verso chi si è stati, è l’impedimento definitivo a ciò che sarà domani. Il domani arriverà, e ci troverà di nuovo, come è già successo anni e secoli fa, migranti o colonizzati, con la Sicilia nel cuore o davanti agli occhi non importa, ma pronti, come sempre, ad accogliere il bello delle altre culture nel porto della nostra isola.
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La “lettera del diavolo”
...aldilà del mistero “La lettera del diavolo, così desiderata, era davanti ai nostri occhi: un pasticcio, senza capo né coda, di uncini e di graffi, di linee curve e intrecciate fantasticamente, di quadrati, di arabeschi, tutti sparsi di asterischi e di grandi macchie di inchiostro, un vero accozzamento di segni senza senso, simili a quelli che si veggono talvolta nei libri magici di una indovina o d’una fattucchiera più o meno pazza”.
di Giuseppe Nuccio Iacono queste parole il console Schneegans, descrive la lettera “arcana” che alcuni prelati di Agrigento gli avevano mostrato. Si tratta in effetti di un misterioso documento, che la tradizione afferma essere scritto dal demonio con inchiostro infernale e lanciato con un sasso nella cella di una devotissima suora benedettina. Il monastero dove accade il fatto e la suora che ne fu protagonista riportano all’ambiente mistico della “gattopardiana” Palma di Montechiaro. E qui, in piazza Provenzani, un’ampia scalinata conduce alla chiesa e al convento Benedettino Maria SS. Del Rosario. Il complesso religioso era in origine la residenza ducale. Giulio Tomasi, duca di Palma aveva infatti ceduto il palazzo di famiglia alle figlie, desiderose di prendere i voti, per trasformarlo in monastero. Alla morte del Duca Santo, diventato nel frattempo principe (morto nel 1669, fu sepolto nella Chiesa del Rosario) la moglie Donna Rosalia Traina,
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Monastero Palma Montechiaro foto Archenzo
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si ritirò in convento dove la sua vita di clausura fu tristemente sottolineata dal nuovo nome: suora Maria Sepolta! Nel monastero visse tormentata dal demonio una delle figlie del duca Santo, suor Maria Crocifissa della Concezione, comunemente nota come la Venerabile (morì in odore di santità nel 1699), al secolo Isabella Domenica Tomasi. L’autore del Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, rimase così colpito dalla vita della sua antenata suor Maria Crocifissa che la volle ricordare nel suo romanzo con il nome di “Beata Corbera”. Oggi le suore di clausura continuano a mantenere viva la memoria della Venerabile, il cui sepolcro è meta di tanti devoti, e custodiscono con cura i cimeli della sua santità. Ai visitatori viene mostrata anche la lettera del Diavolo (pare che l’originale sia invece conservato nell’archivio della Cattedrale di Agrigento insieme ad un manoscritto che narra la vita della suora protagonista). Secondo la tradizione, la lettera fu consegnata personalmente dal demonio a Suora Crocifissa (alcuni affermano che la lettera sia stata scagliata dal Maligno con un sasso all’interno della cella). Il Diavolo le chiese di firmare quel documento… ma la religiosa intuendone il contenuto, lo ingannò scrivendo solo la parola “Ohimè”. La lettera del diavolo è stata oggetto di studio per tanti paleografi. Le analisi del testo non hanno portato ad alcuna conclusione utile alla decifrazione. La lingua nella quale è scritta, non risulta tra quelle conosciute e la composizione pare essere formata da caratteri eterogenei anche se si riscontrano segni di tipo greco, latino e arabo. Solo la data “11 agosto 1676” e la parola “ohimè” risaltano nel fitto mistero.
Isabella Domenica Tomasi (Suor Maria Crocifissa) Nata ad Agrigento il 29 maggio 1645, già in tenera età comincia a manifestare una fervida vocazione religiosa; a 14 anni si ritira nel Monastero Benedettino che il padre Giulio Tomasi aveva fondato appositamente per lei, e vi rimane fino alla morte, il 16 ottobre 1699. La scelta del nome “Crocifissa” fu determinata dalla volontà di condurre, nella clausura, una vita di espiazione basata sul sacrificio, sulla meditazione e sulla penitenza. Benché avesse una salute precaria, non smise mai di sottoporsi alle “continue e alterne discipline di autoflagellazione”. Alla sofferenza scelta per vocazione seguì quella imposta dalla tentazione del demonio che quotidianamente cercava di sedurre la sua anima. Tanti furono i devoti e gli amici che da lei trassero la forza per sostenere la propria fede. Tra costoro, la duchessa di Uzeda, moglie dell’allora vicerè di Sicilia, donò nel 1696 la statua raffigurante una Madonna con Bambino meglio conosciuta come la “Madonna di li schietti” perché un tempo era portata in processione da giovani non sposati. Il 15 agosto 1797 il Papa Pio VI la glorifica con il titolo di Venerabile Serva di Dio.
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ECONOMIA & SVILUPPO La Provincia di Siracusa a fianco delle Imprese L’assessorato provinciale allo sviluppo economico di Siracusa, guidato da Nicky Paci, fa un bilancio della propria attività, rappresentando i programmi futuri al fine di incentivare l’iniziativa privata e rafforzare il tessuto economico del territorio
rande impatto ha avuto nelle imprese della provincia, il fondo di co-garanzia posto in essere dalla Provincia Regionale di Siracusa e la Camera di Commercio, per un importo di 470 mila euro. Il fondo ha dato l’opportunità ai Confidi di garantire finanziamenti ad imprese sane, che altrimenti non avrebbero potuto accedere ad alcun fido, finendo con il fallire. In pratica, come si sa, i Confidi possono garantire fino al 50% del credito erogato da una banca ad un proprio associato. Con la crisi economica che ha colpito inesorabilmente anche il tessuto L’assessore allo sviluppo economico della Provincia di Siracusa, Nicky Paci economico provinciale, molte imprese, nonostante fossero sane e con una storia imprenditoriale alle spalle di tutto rispetto, non avrebbero avuto comunque le caratteristiche di bancabilità utili a potersi vedere erogato un’finanziamento. Con il fondo di co-garanzia, i Confidi hanno potuto prestare garanzie fino all’80% delle pratiche di credito erogato alle imprese che hanno chiesto il loro aiuto. In tal senso sono state 106 le pratiche andate a buon fine, mettendo in circolo 4.338.500,00 di euro. Di queste, 28 sono state per
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Provincia Regionale di Siracusa Assessorato Politiche del Lavoro Formazione ed Occupazione Giovanile Politiche Giovanili - Attività Produttive Sviluppo Economico
Presentazione dei progetti nella sala degli stemmi
consolidamento economico, 36 per ristrutturazione finanziaria e 42 per lo start-up di nuove imprese. Lo sportello unico per attività produttive, il Suap, sta vedendo piano piano la luce, avendo come punto di riferimento il VI settore guidato dal dott. Salvatore Mancarella e l’assessorato allo sviluppo economico della Provincia. Si tratta di uno strumento di valore straordinario, perchè permetterà, una volta entrato a
Una delle sfide più importanti per un amministratore pubblico è quella di riuscire a lasciare ai posteri una traccia del lavoro svolto. Non sempre ci si riesce, soprattutto se non si è regolata una corretta programmazione del contesto politico-sociale che si presenterà in futuro. Programmare significa organizzare una società economica che possa dare risposte alle generazioni future; lo sviluppo dell’economia del territorio deve essere il pensiero principe nell’attività di un pubblico amministratore. Il futuro quindi non può che essere affidato alle giovani generazioni. I giovani, svegli, volenterosi, intraprendenti, che certamente sanno più di quanto possano fare intendere. Ci siamo accorti che, se debitamente coinvolti e sollecitati, i nostri studenti apportano innumerevoli idee innovative che concretamente possono fare la differenza. Noi dobbiamo indirizzarli nel modo giusto; dobbiamo concretamente far comprendere loro che nella libera impresa può, anzi c’è, il futuro loro, delle loro famiglie e dell’intero paese. Progetti come Crea l’Impresa, A scuola si fa spot, ed Impresando, rappresentano opportunità che la Provincia Regionale di Siracusa mette in atto per dotare i nostri giovani di utili strumenti e per agevolarli nella scelta del loro futuro. Certamente le energie spese per la redazione di questo Vademecum non saranno vane, confidando nella buona volontà degli studenti di voler contribuire a creare un’economia del nostro territorio variegata e diversificata.
La premiazione del progetto “A scuola si fa spot” nella sala “Costanza Bruno”
pieno regime, di ridimensionare di molto i tempi di attesa per nuove aperture di strutture di vendita. Un occhio anche al domani. Due i progetti importanti dell’assessorato, legati ai giovani e al loro eventuale futuro da imprenditori: a scuola si fa spot e crea l’impresa. Due concorsi annuali rivolti agli studenti degli istituti superiori della provincia: il primo volto a insegnare ai ragazzi cosa sia il marketing e la promozione per una
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“Secondo i dati di Infocamere nel primo trimestre 2011 la provincia di Siracusa, in Sicilia, è al secondo posto dopo Ragusa ad avere avuto un saldo positivo tra imprese nate e cessate. Inoltre, abbiamo attivato ben oltre 4 milioni di euro di credito erogato alle imprese nei settori di commercio, artigianato, agricoltura e servizi”
Strade, ferrovie, porti rappresentano il volano di sviluppo di tutta l’economia siracusana
azienda, il secondo volto a coinvolgere i giovani nella creazione di una nuova impresa e a pensare a nuove strategie di sviluppo. A tutto questo si aggiunga, “Impresando” un vademecum che contiene tutto ciò che serve in termini di normative e consigli utili per aprire una nuova impresa. «Abbiamo la presunzione - ha detto l’assessore Paci - di pensare che lo sviluppo del territorio passa dal mio assessorato. La legge ci impone di organizzare, coordinare e porre in essere le politiche di sviluppo, facendo in modo che non solo si mantenga l‘esistente, ma allo stesso tempo, si tenti di incentivare e rinforzare l’economia del territorio. I dati forniti da Infocamere, relativamente all’andamento delle “condizioni di vita” delle imprese a livello nazionale, nel primo trimestre 2011, ci rallegrano e ci riempiono di orgoglio. Infatti, dai dati si evince che il territorio provinciale di Siracusa, è il secondo in Sicilia, dopo la ricca Ragusa, ad avere avuto il saldo in positivo tra imprese nate e imprese cessate. Questo è il sintomo che piano piano la crisi economica comincia a perdere il suo potere dirompente. Siamo convinti, poi, che i nostri sforzi abbiano contribuito a questo risultato».
La distribuzione degli interventi per settore produttivo Il plafond è stato utilizzato come segue: PLAFOND COMPLESSIVO
euro 470.000,00
GARANZIE ATTIVABILI
euro 5.875.000,00
GARANZIE ATTIVATE
euro 4.338.500,00
CORRIPONDENTE PLAFOND IMPEGNATO
euro 347.080,00
PLAFOND CHE IL COORDINAMENTO RIASSEGNA AI CONFIDI COME DA REGOLAMENTO
euro 122.920,00
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LE MILIZIE DI RAGUSA (1569) E CHIARAMONTE (1614) A piedi o a cavallo... da 18 a 50 anni... importante avere almeno 400 onze di Gianni Morando ome spesso accade nelle ricerche d’archivio, è possibile imbattersi, per pura fortuna, in notizie e documenti inaspettati. È il caso delle liste dei cavalieri di Ragusa e Chiaramonte trovate fra i Riveli di anime e beni del 1569 e del 1614 (manoscritti conservati nell’Archivio di Stato di Palermo). I cavalieri, facenti parte dell’ala più aristocratica dell’esercito e del paese, erano selezionati principalmente tra coloro che potevano dimostrare di possedere un patrimonio non inferiore a 400 onze, cifra oggi oscillante intorno ai 150.000 euro, mentre l’età doveva essere compresa fra 18 e 50 anni. Altri requisiti richiesti erano la prestanza fisica e la mancanza di gravami di famiglia… e per concludere (pur non essendo necessaria una elevata dignità culturale), dovevano sapere leggere e scrivere trattandosi di “persone facoltose co’ll suo alphabeto”. Questa selezione militare permetteva così di raggiungere l’importante livello sociale di “soldato a cavallo di rispetto”. I riveli delle anime e beni di Chiaramonte relativi al 1614, oltre a fornire l’elenco dei cavalieri riportano alcuni interessanti particolari. Così, dal manoscritto apprendiamo che: “l‘alphero della compagnia da cavallo al presente è Alessandro Assenso il quale se retrova cieco d’un occhio e non è persona habile a far il servizio de Sua Maestà”… A tale inconveniente si contrappone subito la soluzione poiché “...nel numero delli cavalli di servizio (ossia “tra i cavalieri”) v’è Cesare de Ventura il quale accetta detto ufficio volentieri...”. Si trattava quindi della proposta del cambio dell’alfiere invalido con uno nuovo “abile” e abbastanza ricco. Nel 1614, Cesare Ventura aveva un patrimonio di 1.163 onze e Alessandro Assenso aveva un patrimonio di 1.765 onze. Il più ricco dei 42 cavalieri di Chiaramonte era però don Ferdinando Spinello, barone della Pirrera, con l’immenso patrimonio di 22.750 onze. Inoltre, il documento seicentesco informa che solo pochissimi cavalieri si erano potuti armare “co’ archabucio e spada” perché non si trovavano “archiabuci e spade”. Non specifica a chi spettasse l’onere di procurare dette armi… ma in compenso conclude spagnolescamente: “Noi non mancheremo co’ ogni vigilanza a far il servizio de Sua Maestà et ordine de Vostra Eccellenza alla quale Dio dia felicissimi anni e gratia dal Cielo come desia, et humilmente gli facciamo la debita reverenza – Claromonte il di 6 de febraro 1614”. E segue l’elenco dei 42 cavalieri, trascritti in ordine decrescente di ricchezza. Altra ricerca, altra sorpresa: nei riveli delle anime e beni che furono compilati 45 anni prima a Ragusa, ossia nel 1569, compaiono i nomi di 47 ragusani; “soldati a cavallo et a piedi” che formarono la nuova milizia della città.
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“Nella militia in terra di Ragusa… sunnu in numero soldati 47” (anno 1569)
Diego Velazquez, ritratto di Cavaliere, 1649
“42 Cavalieri de Claromonte a far il servizio de Sua Maestà” (anno 1614) Bar.ne Ferdinando Spinelli, Mariano Failla, dott. Ottavio Salvo, Jo:Antonio Barbaran, Rogerio Leontini, Gioseppe Failla, Antonino Ventura, Masi di Mole, Sancto di Mole, Alessandro la Cutrera, Epifanio Gurreri, Alessandro d’Assenzo, Masi di Ventura, Marco Alcanata, Cesare Ventura, Petro Carfì, Silvestro Orlanduccio, Gio:Francisco lo Jacono, Jo:Jacobo la Cotrera, Alfio Bonifatio, Gioanni Martino, Mattheo Blanco, Joseph Morando, Laurenzo Chiaula, Petro Paulo Nicoxia, Santo Jallongo, Bartulo Gravina, Libranti Mole Cojro, Salustio Pepi, Philippo de Ventura, Antonino Perivizzini, Gioseppe Minardo, Gaspano Mole Cojro, Antonuzzo Pizzo, Antonuczo di Caro, Francesco Cuximano, Petro Paulo Ventura, Vito di Mole, Martino Carffì, Luca Cugnata, Mattheo Buxemi, dott. Michelangelo Serina.
“Nota come a dì XVIIII di giugno 1569 fu ricevuta la mostra in Ragusa dili soldati a cavallo et a piedi dila nova milicia li quali soldati furo intimati per Joanni di Bona regio algozirio che diviano stari in ordini con loro cavalli et armi juxta la forma contenta in li instruttioni et da poi considerati li facultà et tutto quello che per li instruttioni è stato ordinato si ha reformato la nova milicia in ditta terra di Ragusa nel modo che in li seguenti listi appari: Vincenzo Pichunj, Joan Jacobo Sammito, Bernardo di Zacco, Antonuzo di Pauli Gurrerj, Mariu Cubisino, Cola Incastilletta, Mariano La Rocca, Antonuzo Tagliaferro, Antonuzo Napolino, Joan Battista Incastilletta, Jacopo La Restia, Georgi Cucuza, Vincenco di Petro Grancoyro, Jacopo Salerno, Vincenzo Jummarra, Paulu La Ristia, Petro di Stefano, Vincenco di Antonuzo Incastilletta, Petro Spinachiolu, Alexandro Ja’Pichiulu, Vincenzo di Jacopo Ochipinti, Petro di Muntagna, Vincenzo di Jacobo Incastilletta, Macciu Bernardello, Valencio Dingo, Antonino Incastilletta, Bastiano lu Chino, Petro Scrivano, Vincenco Lu Gulpi, Jacopo Ferrasiti, Mundu Muzzarello, Joan Battista di Antonj Jannizz, Antoni Bernardello, Joannj Guarrasi, Vincenco Spataro, Giuseppi lu Monaco, Micheli di Erizzi, Jacopo Nuzzarello, Micheli Caprera et Billiu, Francesco di Antonino Ochipinti, Petro Mezasalma, Jacopo de Stefano, Juseppi Lu Monaco Pichicari, Bernardo Mazza, Zosimo Bucheri, Vincenco di Battaglia Pannerj, Antonino di Jurato. Sunnu in numero soldati 47.”
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Testa di Turco il dolce di Sicilia… tradizioni e identità territoriale A proposito di tradizioni gastronomiche in occasione di alcune feste
di Giovanni Portelli Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un continuo moltiplicarsi di sforzi per cercare di identificare il territorio con una produzione o una particolare pietanza gastronomica. Spinte di tipo commerciale, commiste ad esigenze politico-amministrative di basse ambizioni, hanno fatto accrescere il numero delle sagre cosiddette enogastronomiche e le richieste di riconoscimento di tipicità, anche tra le più insolite. Al concetto di tradizione alimentare viene sempre associata l’idea di appartenenza geografica, dimenticando che l’identità nasce e si sviluppa, invece, come differenza da “altri” (M. Montanari). La cucina è un continuo confronto e scambio tra culture e territori diversi e non può essere legata ad un concetto esclusivamente geografico. Dallo scambio, commerciale e culturale, nasce quel grande crogiolo di sapori e molteplicità organolettiche che è rappresentato dalla cucina mediterranea, oggi riconosciuta patrimonio culturale dell’umanità. Senza questa possibilità la cucina sarebbe destinata a morire entro rigidi schemi di monotonia. Un prodotto o una preparazione gastronomica può definirsi, quindi, tipico quando supera i confini geografici e si confronta con altre culture alimentari. Persino nel chiuso dei monasteri la cucina non rimase mai isolata. Dentro le mura monastiche si sviluppò la migliore cucina e pasticceria di Sicilia. La provenienza dei religiosi da differenti località consentiva, infatti, un continuo scambio di esperienze e conoscenze gastronomiche che alimentavano la ricerca e affinavano le ricette già note. Secondo una diffusa leggenda le ’mpanatigghie nacquero grazie alla laboriosità delle monache di Modica le quali, impietosite dalle sofferenze del digiuno patito dai monaci predicatori in tempo di quaresima, nascosero, dentro una
Testa di turco
’Mpanatigghi
sfoglia di pasta ritagliata a forma di semiluna, carne macinata e cioccolato. Lo stratagemma serviva a dare un cibo sostanzioso seppure apparentemente considerato di magro e quindi permesso in periodo quaresimale. Pare che le attività delle monache non subissero mai pause. Ogni anno, al monastero di Santa Teresa a Scicli, le festività venivano rispettate e celebrate a tavola, con pietanze diverse e secondo una precisa ritualità: San Martino, Natale, Carnevale, Pasqua, Santa Teresa, Ascensione, erano le principali feste durante le quali le monache compravano ingredienti per preparare dolci quali torrone, giggiulena, mustazzola, cassate e altro. Tra gli ingredienti che più ricorrono tra le pagine dei libri degli esiti ci sono miele, mendoli, maiorca, zuccaro, cioccolata, nocilli, cannella, garofani, zafarana. Per la festa di Santa Teresa era, poi, abitudine far pervenire da Palermo una nutrita provvigione di cioccolatte. Ma, ovviamente, non tutte le feste religiose potevano contare sul conforto di un dolce caratteristico. La festa a Scicli per la Madonna delle Milizie era non solo conosciuta sin da epoca antica per l’insolita rievocazione, la cacciata dei mori invasori da parte di una Madonna a cavallo con la spada in mano, ma rinomata soprattutto per la sua fiera, ricordata non solo tra le pagine dei registri del monastero di Santa Teresa, ma anche tra i fogli degli acquisti della nobile famiglia Grimaldi, la quale per quell’occasione si riforniva di innumerevoli stoffe e accessori vari. Nessun cenno viene fatto alla spesa per ingredienti o al consumo di dolci legati a quella festività. L’acquisto di dolci per la festa delle Milizie viene segnalato per la prima volta il 18 aprile del 1911, quando, secondo un atto di delibera dell’Opera Pia Carpentieri, il dolciere Rosano Antonino di Scicli vende all’orfanotrofio dolci e pasticcini al prezzo unitario di centesimi 25 in occasione della festa delle Milizie prossima passata. La notizia, sebbene sia scarna, è abbastanza significativa e ci aiuta a ricomporre il quadro delle dolcerie presenti in paese agli inizi del Novecento, ma, soprattutto, ci fa comprendere come non ci fosse stata, fino ad allora, alcuna tradizione dolciaria legata a quella festa. L’affermazione che vuole le teste di turco come il dolce tipico per la festa patronale di Scicli sembra, perciò, priva di riscontri con
Scicli - Palazzo Beneventano
Particolare di Palazzo Beneventano, moro con turbante
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la realtà storica e legata, soprattutto, ad una leggenda cittadina. Il Coria riporta l’uso degli ebrei toscani di preparare, per Carnevale, un dolce a base di pasta frolla fritta, le cosiddette “orecchie di Amman”, perché si potessero vendicare, in maniera figurata, dello sterminio ordinato contro di loro, molti secoli prima, dal segretario del re Assuero. Allo stesso modo avviene in Sicilia dove è diffuso l’uso di preparare per Carnevale dolci con il nome di teste di turco quasi per esorcizzare l’atavico pericolo derivante dalle scorrerie dei mori pirati. Nella Contea di Modica le teste di turco venivano preparate, per la domenica di Carnevale, dalle monache per regalarle ai poveri del luogo. La notizia viene riportata da Serafino Amabile Guastella nel suo “Carnevale della Contea di Modica”. A sostenere che le teste di turco siano da reputarsi tra i dolci tipici di Carnevale è anche il Pitrè il quale scrive che “il sustrato, anzi il grosso del piatto è formato da una grande crosta della medesima pasta dei cannoli, a forma di turbante, detta perciò testa di turcu, le cui ripiegature sono ripiene della medesima crema”. Che le teste di turco siano legate al Carnevale sembra, perciò, l’ipotesi più vicina al vero, considerato, anche, che per quella festa è ammesso ogni contrasto e inversione di ruoli. E quale migliore occasione per l’oppresso di addentare, almeno per un giorno l’anno, il morbido e cremoso turbante di una testa di turco? Teste di turco vengono preparate in varie zone della Sicilia, sebbene abbiano forme e ricette talvolta diverse, sfatando il mito che le vuole legate ad un’area geografica ristretta. A Castelbuono è un dolce al cucchiaio ottenuto dalla stratificazione di una sottile sfoglia di pasta fritta ed una delicatissima crema di latte profumata alla cannella ed al limone. A Modica questo dolce viene consumato tuttora anche per il giorno di Pasqua, come testimoniato più volte da diversi dolcieri locali. Mentre a Scicli è invalsa l’abitudine di abbinare le teste di turco alla festa per la Madonna delle Milizie. L’accostamento si sviluppa, comunque, in epoca molto recente, probabilmente a partire dal Novecento, con la nascita delle prime pasticcerie artigiane locali che riescono a produrre un gran quantitativo di dolce per un pubblico ampio, mentre rimane privo di ogni fondamento storico in epoca più remota. La testa di turco a Scicli diventa, così, quasi un esempio di come una tradizione possa essere inventata, costruita sulla base di spinte di mercato. Ancora una volta è, però, lo scambio e non l’appartenenza geografica a definire la tipicità di un prodotto e l’identità di un luogo.
Chiesa di S. Teresa, Scicli
Alcune sequenze della Festa della Madonna delle Milizie, Scicli, 1934
Ceramiche e Ceramisti di Caltagirone ai tempi dell’Unità d’Italia di Antonino Navanzino sembra doveroso, omaggiare i festeggiamenti del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, rimembrando i ceramisti caltagironesi che con le loro opere hanno contribuito a dare il senso a quanto i nostri “padri”, hanno creato per la “patria”! La Città di Caltagirone alla fine del ‘700, registrava un notevole numero di artigiani ceramisti di elevata qualità artistica e, le maioliche plasticate dei vari Blandini o Branciforti, o i rivestimenti di Ventimiglia, tutt’oggi, dimostrano come i tanti creatori di ceramica non avessero nulla da invidiare ai colleghi dell’Italia settentrionale ovvero, del continente. Se, agli albori dell’ottocento, i regnanti borbonici potevano vantare, nei confronti di altre realtà italiane, le pregiate manifatture di Capodimonte, non risultavano affatto inferiori o di minore qualità, le maioliche dei “cannatari” caltagironesi; quelle maioliche che conservavano la retro cultura federiciana, quelle forme che, dopo il terremoto del 1693, avevano subìto un notevole stravolgimento stilistico e mostravano quanto di più bello si potesse plasmare con la creta grazie a quella indiscussa capacità creativa tutta caltagironese. Le maioliche di Caltagirone sfoggiate nei migliori palazzi del regno, non furono solo ammirate ma, addirittura “copiate” e si fecero veicolo di avanguardia stilistica. Ma, dopo la prima metà dell’800, Caltagirone come tante altre realtà del Sud Italia, subirà a passi da gigante un vero e proprio declino. Su richiesta del Governo Borbonico, fu compilato l’elenco delle arti e delle manifatture e, nel 1857, si elaborò una interessante statistica: risulteranno attivi in Caltagirone le “aziende di maiolicari” di Giacomo
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Cannate anni ’60 dell’800
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Arcidiacono, Salvatore Campoccia, Nicolò Campoccia, Salvatore Tardo, Giuseppe Alparone, Celestino Di Bartolo, Giacomo Carfì, Francesco Ventimiglia, Giacomo Failla, Giuseppe Palazzo. Invece, nell’elenco degli “stazzunari e ciaramitari” (produttori di tegole e mattoni laterizi) si registrarono i nomi di Antonio, Francesco, Giacomo e Clemente Sampirisi e quello di produttore di pentole Giuseppe Romano. Come vissero questi produttori il fatidico passaggio dal Regno Borbonico delle due Sicilie al Regno Sabaudo dell’Italia unita? Mentre le aziende produttrici campane, si adeguavano alle nuove fasi dell’evoluzione tecnica e tecnologica, i nostri produttori con l’unificazione italiana dovettero subire le importazioni di maioliche prodotte in serie con tecniche semindustriali, e confrontarsi con una “oggettistica” di bassa qualità ma che si distingueva per l’assoluta economicità e precisione tecnologica. I nostri produttori non reagirono e non progredirono tecnologicamente con l’impianto di mulini a vapore per la raffinazione dello smalto (ancora s’insisteva alla preparazione delle sabbie silicee in modo primitivo) e con decantatori per la purificazione delle argille. La scelta fu tra le più infelici: si preferì usare le materie prime locali, senza alcuna cura di ricerca tecnologica. Per di più, non potevano più esistere differenze stilistiche poiché la tecnica industriale, aveva superato la forma mentis dell’estetica e la convenienza aveva battuto ed abbandonato il gusto per “il fatto a mano”. Ma il dramma si acuì quando gli stessi maiolicari o “cannatari” locali, iniziarono a copiare le maioliche semindustriali (ovvero popolari) provenienti da quei paesi campani che prima avevano visto in noi i maestri produttori di opere d’arte. Ora, adeguandosi ai tempi, erano diventati produttori di stoviglie e, conquistando i mercati nazionali, invadevano anche i nostri territori. Questa fu la pagina più brutta per la dignitosa storia delle nostre ceramiche! Dopo quel periodo, ritornò a Caltagirone il senso di riscatto e ahimè, oggi mi sembra di
I briganti feriti di Bonanno
Lo studio di Giuseppe Verdi ove sono visibili le figurine del bonanno
rivivere quell’oscuro “ottocento stagnato” nelle produzioni attuali; spero che, il tempo, mi darà torto! (n.d.a). Ritornando alle produzioni dei “cannatari” ai tempi dell’unificazione italiana per sottolineare ciò che essi realizzarono, in maniera anacronistica, retrò ovvero Kitch, mi riaffiorano i ricordi dei rigattieri dei mercatini dell’“antiquariato” o delle case dei nostri nonni quando, qua e là, si notavano intere “collezioni” di quartare, fangotti o sciasche, tutti realizzati in quel contesto storico. Oggetti ai quali per errore si da persino “un valore al difetto” della tornitura del pezzo o della colatura dell’invetriatura. Questi oggetti che tanti chiamano “pezzi antichi”, sono la dimostrazione di quella rassegnazione creativa di quei tempi quando si copiavano i decori delle stoviglie italiane. Così quella famosa “rosa antica”, quelle spugnature verde rame sui fangotti, quegli stencil applicati centralmente in blu o la stilizzazione zoomorfa e di paesaggi agresti, sono “copie brutte” di “brutte ceramiche di massa”. Quelle ceramiche non hanno alcun valore storico poiché prive di identità. E non mi permetto di quantificarne il valore economico, forse perché in verità, senza questo periodo, noi ceramisti non saremmo stati figli della rinascita culturale che ribaltò il sistema produttivo a Caltagirone. Nel 1873, le aziende produttrici risulteranno sette ovvero: Salvatore e Nicolò Campoccia, Salvatore Carfì, Giuseppe e Celestino Di Bartolo, Giacomo Arcidiacono e Giacomo Failla ma, non tutto è perduto anzi in questo contesto, nasceranno le figure di valenti maestri figurinai che manterranno la dignità per la ceramica di Caltagirone: Giuseppe e Salvatore Vaccaro, Giacomo Azzolina, Salvatore Morretta e Francesco Bonanno. I ceramisti Caltagironesi non manterranno il pregevole titolo di “cannatari” ma, risulteranno agli atti del tempo, “cretai”. Tuttavia saranno loro che attraverso le capacità d’innovazione creativa e, in segno di continuità con gli antichi cannatari, porteranno alta la bandiera dei ceramisti caltagironesi. Per quanto riguarda alcune opere maiolicate legate all’Unità d’Italia, vengono in aiuto quelle popolari labarette ossia, le formine per la mostarda (anche con immagini a rilievo di Garibaldi, o del Re), la cui maggiore produzione risorgimentale riportava le iscrizioni: W il Re, W Garibaldi, W V.E.R.D.I, W l’Italia, W Savoia. Segni questi “forse” di una ottima accoglienza dell’unità nazionale o di un “arruffianamento” camaleontico e gattopardesco… “virtù” questa che non mancava ai Caltagironesi (e i Nobili della Città erano i primi nella lista) per mantenere le privilegiate posizioni acquisite con i precedenti governi. Un altro segno di omaggio al “Generale conquistatore” o ai suoi seguaci, fu quello di immortalare la sua caricatura nei fischietti in creta cotta. Negli anni successivi all’Unità d’Italia, venne allestito con pregevoli stucchi il Teatro comunale, che per l’occasione fu intitolato a
Opera di G. Di Bartolo 1869 c.a.
Garibaldi, e all’interno del cantiere operarono gli abili plasticatori Vaccaro, Grita, Failla e Bonanno. Per ricordare alcuni tratti peculiari legati ai ceramisti ai tempi dell’Unità, è interessante accennare ai figurinai, nati e formatisi proprio in quel periodo storico. È grazie a loro, se le ceramiche di Caltagirone mantennero la dignità e meritarono posti d’onore nelle esposizioni Universali. E per questi figurinai (pensiamo), l’Unità d’Italia fu un bene poiché diede loro la possibilità di esportare i propri manufatti al di là del Regno delle due Sicilie. Perfino personaggi come Giuseppe Verdi, ebbero modo di apprezzare l’alta qualità manifatturiera. È doveroso ricordare il “capostipite” dei figurinai, ovvero Giacomo Bongiovanni (1770-1859) che lascerà questo mondo prima della reale unificazione della Nazione.
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Seguace del Bongiovanni, è il nipote Giuseppe Vaccaro (1807-1889), traghettatore tra il regno borbonico (nonché autore di figure borboniche) e il sabaudo, e durante la sua carriera di figurinaio, ai tempi dell’unificazione, ricordiamo l’Expo di Londra nel 1862, Vienna 1873, Milano 1881, Vaccaro trarrà spunto prevalentemente da scene di vita quotidiana realizzando alla maniera “verista”, gruppi di figure legati ai temi alla “questione meridionale”. Pare che il figurinaio Francesco Bonanno, ancora prima del Vaccaro, abbia frequentato il Bongiovanni realizzando poi figure di qualità superiori per finezza rispetto a quelle del maestro. Tra i temi trattati dal Bonanno, più di ogni altro figurinaio, si ricordano le rappresentazioni di scene legate al brigantaggio. I “briganti” del Bonanno, dall’aspetto rassicurante, appaiono “buoni” con il popolo e sono spesso accompagnati da donne dai caratteri meridionali e con un vestiario che ricorda il nostro tricolore. Infine, non è poco sapere che le figure esposte sulla scrivania di Verdi a Busseto nella villa S. Agata sono proprio opera del Bonanno (m. 1868). Altro figurinaio formatosi nella bottega Bongiovanni fu Giacomo Morretta (n. 1815). Trasferitosi poi a Napoli ebbe come “seguace figurinaio” il fratello Salvatore (che si stabilì a Parigi). Continuando, ricordiamo Giuseppe Failla (n. 1835) che, a differenza dei figurinai fu un abile plasticatore accademico (nel 1858, sarà a Firenze). Oltre gli stucchi allegorici e i medaglioni di poeti e compositori per il Teatro Garibaldi, a Caltagirone, Failla realizzò i medaglioni per l’Ospedale delle donne. Infine, vogliamo menzionare Padre Benedetto Papale e Salvatore Vaccaro (figlio di Giuseppe e fratello di Giacomo) nati entrambi nel 1837, già operanti ai tempi dell’unificazione, ma formatisi in un periodo postumo rispetto ai maestri citati. Parlando di “Risorgimento” per le ceramiche di Caltagirone viene in mente il percorso intrapreso dai figurinai e plasticatori calatini ai tempi dell’unificazione…. ma, per “risorgere”, la ceramica di Caltagirone, dovrà aspettare il 1918, anno di apertura della “Scuola di Ceramica” voluta da Luigi Sturzo per evitare il declassamento o l’assoluto azzeramento di un mestiere, quello dei “cannatari” che, ai tempi del risorgimento rischiò la definitiva morte. Ci auspichiamo che, nel corso delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, gli enti pubblici deputati, sappiano onorare con esposizioni o pubblicazioni specifiche, quei ceramisti che riuscirono a “resistere” a tutti i “cambiamenti epocali” e alle tante “prese di potere” che, cambiarono l’assetto politico del territorio.
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Particolare del rivestimento maiolicato della Chiesa di San Pietro a Caltagiorone
Rivestimento metà ’800
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L’arrivo dell’estate e la parmigiana di melanzane arrivo dell’estate coincideva con gli ultimi giorni di scuola, l’atmosfera inconfondibile della luce in giugno e l’odore di fritto della melanzana. Quando, fatte le ultime interrogazioni e svolti gli ultimi compiti in classe si trascorrevano le ore in totale serenità con i propri compagni, senza affanni o ansie, quasi dispiaceva lasciarsi per i tre mesi estivi e rompere quella quotidianità che da settembre ci aveva unito nelle gioie e nei dolori. La luce di giugno era particolare, ravvivava i colori, il sole era ancora clemente, non bruciava la visione delle cose, era ancora piacevole sul viso, sembrava un abbraccio quando colpiva le spalle, il caldo era ancora sopportabile e gli odori non erano esasperati, tutto appariva in equilibrio. Era in una di queste giornate magiche che il mio ‘naso’, mentre tornavo da scuola, percepiva già dalle scale di casa quell’odore inconfondibile delle melanzane fritte, che annunciava ufficialmente l’arrivo dell’estate. A casa non si mangiavano melanzane e peperoni prima di giugno, in questo, mia nonna e poi mia mamma, erano rigorose, la stagionalità era rispettata a vantaggio del gusto: “È il sole che dà il sapore alle cose” diceva mia nonna. Appena entrata in casa trovavo la porta della cucina chiusa, guai ad aprirla altrimenti l’odore di fritto si propagava per casa e non tutti gradivano; la mia mamma per l’occasione indossava una cuffietta o cappellino per coprire la testa e sul viso aveva quell’espressione di “donna votata al sacrificio pur di rendere felici i propri cari”: lei detestava quest’operazione e devo dire che la rendeva anche più irascibile. Tutto questo aumentava la sensazione di grande evento che ruotava attorno alla preparazione di Sua Maestà la parmigiana di melanzane. La frittura avveniva quasi sempre di sabato per poi mangiare la parmigiana la domenica a pranzo, perché il segreto della riuscita di questo piatto stava proprio nel riposo. Una volta completate le operazioni di frittura, preparazione dei vari ingredienti e composizione degli strati secondo un ordine
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preciso, capitava che avanzasse qualche fetta di melanzana che arricchiva il sugo di pomodoro e basilico per condire la pasta o farciva un buon panino francese con il sesamo e, a quel punto, io ero la bambina più felice dell’universo. Di versioni di tale ricetta ve ne sono svariate, scrivo di seguito quella che è per me, nei miei ricordi la PARMIGIANA DI MELANZANE Ingredienti • 4 belle melanzane, circa 1,5 kg • 750 gr di passata di pomodoro • 2 spicchi d’aglio • basilico • una provoletta • parmigiano grattugiato • 4 uova sode • olio extra vergine d’oliva
Spuntare le melanzane, affettarle e cospargere ogni fetta con il sale, sistemarle in un colapasta e lasciarle riposare per circa un’ora. Se si utilizzano le melanzane tipo ‘violetta’ non ci sarà bisogno di fare tale operazione. Nel frattempo preparare la salsa di pomodoro: mettere in un tegame un po’ d’olio, con l’aglio, qualche foglia di basilico, aggiungere la passata e un po’ d’acqua, lasciare cuocere a mezzo coperchio per una ventina di minuti, a cottura ultimata, salare e aggiungere una manciata di foglie di basilico. Rassodare le uova. Cominciare l’operazione di frittura. Una volta fritte tamponare le fette con la carta da cucina. Prendere una teglia di 20 cm di diametro, cospargere il fondo con un po’ di sugo, fare il primo strato di melanzane, mettere ancora un po’ di sugo, aggiungere pezzetti di provola, fettine di uova sode e spolverare con il parmigiano. Continuare fino a esaurire gli ingredienti ricordandosi di coprire l’ultimo strato con le fette di melanzana e un po’ di sugo. Mettere in forno a 180°C per circa una ventina di minuti. Lasciare riposare a temperatura ambiente un po’ di ore o nella parte meno fredda del frigo una notte intera.
GIUSEPPINA TORREGROSSA
MANNA E MIELE, FERRO E FUOCO
omilda Gelardi viene alla luce in una notte di tormenta, mentre la neve cade fitta sui boschi delle Madonie. Nel caldo della loro casa, Maricchia e Alfonso si illuminano davanti al miracolo di quella figlia femmina tanto desiderata. Romilda si rivela subito una bambina speciale. Con sgomento, misto a fierezza, suo padre Alfonso si rende conto che, di tutti i figli, forse solo Romilda ha le capacità per ereditare i segreti del suo mestiere. Alfonso è un mannaluoro: uno dei pochissimi depositari dell'arte di estrarre dai frassini la manna, sostanza dalle miracolose virtù nutritive e curative. Romilda cresce così tra gli insegnamenti della madre, che attraverso la cura delle api le insegna la dolcezza e il potere, e quelli del padre, che conosce la natura. Ma è destinata a incontrare presto la violenza: don Francesco, barone di Ventimiglia, la chiede in sposa ancora bambina. Seguire don Francesco significherà lasciare il bosco, conoscere le durezze di una vita più agiata ma profondamente in autentica. E mentre la Sicilia viene investita dal vento che scuote la penisola in lotta per l'unità nazionale, anche per questi sposi si compie un cammino di sofferenza e di prova: le loro nature opposte si incontrano e si scontrano.
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La storia di Romilda, figlia di un “mannaruolo”, e di Francesco Ventimiglia, nobile siciliano, ambientata nella Sicilia che guardava all’unità d’Italia, ha incantato lo scorso 6 giugno il pubblico della sala Costanza Bruno della Provincia Regionale di Siracusa. La presentazione del romanzo “Manna e miele, ferro e fuoco”, organizzata in collaborazione dalla Presidenza del Consiglio provinciale e dalla sezione siracusana della Fidapa è stata – come ha sottolineato il Presidente Michele Mangiafico – «un’occasione per trasmettere e condividere messaggi culturali legati alla storia e alle tradizioni della nostra terra, alle ragioni che ci hanno portato allo stato attuale, alla conoscenza di alcuni tratti tipici e valori del nostro territorio». Tra le eccellenze chiamate a contorno dell’evento, il miele di Sortino, della cui tradizione ha parlato Francesco Filosa, grande conoscitore dell’apicoltura della provincia siracusana. Coinvolgente anche l’intervento del professore Nino Portoghese, che ha voluto ripercorrere gli atteggiamenti della classe dirigente siciliana del tempo. Riflessioni che traevano spunto dalla lettura di alcune pagine particolarmente liriche del romanzo di Giuseppina Torregrossa, che ha colto l’occasione per approfondire gli argomenti toccati da Portoghese, parlando anche del ruolo della donna in quella società arcaica e in quella attuale.
La scrittrice Giuseppina Torregrossa e Michele Mangiafico, presidente del Consiglio provinciale di Siracusa
SPETTACOLARE E COINVOLGENTE FESTA DI POPOLO
LA VARA
IL 15 AGOSTO TUTTA MESSINA LE SI STRINGE INTORNO testo di Nino Arena - foto di Dino Sturiale ola da cinque secoli per le strade del Ferragosto messinese traboccanti di fedeli, turisti, spettatori. Vola sfidando le leggi della fisica, che dovrebbero invece inchiodare a terra quella “machina” maestosa, complessa e imponente. La Vara, uno dei simboli di Messina, è una slitta alta 13 metri e mezzo del peso di 8 tonnellate che vola nel giorno dell’Assunta, spinta dallo slancio animoso di tiratori, vogatori e timonieri, che proprio il 15 agosto - impegnati in una prova di carattere e devozione - sembra vogliano riscattare i peccati di un intero anno e riconquistare la purezza perduta.
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Attraverso la partecipazione corale alla festa della Vara, la città dello Stretto celebra l’Assunzione al cielo della Madonna, vivendo la giornata come se fosse un voto al quale si è vincolati per umiltà e fede e anche in questo modo Messina trasforma in tangibile segno di fede il suo bimillenario e mistico rapporto con la Madonna. Non sono un caso le gigantesche lettere di granito poste proprio sotto la Madonnina del porto, che salutano chi va via e chi arriva in Sicilia: «Vos et ipsam civitatem benedicimus», le parole consegnate da Maria all’ambasceria messinese giunta per porre la città sotto la protezione del suo manto celeste.
la tradizione La tradizione della Vara affonda nella prima metà del XVI secolo, quando l’imponente meccanismo realizzato dall’architetto Radese venne per la prima volta trainato da «turchi e bastasi» fino al Duomo. Allora scivolava su ruote e i personaggi che animavano i suoi piani erano scelti dal clero e dal Senato della città. Il ruolo della Madonna, che sedeva sulla cima della Vara, era affidato a una bambina che non poteva superare i 7 anni, inoltre alla piccola veniva attribuita una ricca dote in gioielli, abiti e denaro e poteva addirittura esercitare la prerogativa di chiedere la grazia per un condannato a morte. Sempre nel corso del Cinquecento, la Vara venne arricchita di figuranti e meccanismi, dapprima a opera di Matteo Giovannello Cortese, più tardi di un non ben identificato Mastro Jacobo. La spettacolare articolazione degli elementi che compongono la Vara ha sempre avuto un che di miracoloso, ma i miracoli veri si verificarono in due occasioni, nel 1681 e nel 1738. In entrambi i casi si ruppe l’asse di ferro che reggeva la parte sommitale e il sole raggiato, in entrambi i casi precipitarono sulla folla pesanti pezzi della «machina» mentre gli stessi figuranti caddero nel vuoto. Tutti, però, rimasero illesi come se la Madonna, nel suo slancio verso il cielo avesse voluto attutire la caduta di uomini e cose che avrebbe potuto essere rovinosa. Dopo l’ultimo incidente si decise di rinunciare, nella parte apicale, alla presenza di bambini e oggi sulla piattaforma della Vara siedono 14 piccoli messinesi, ma l’apparato allegorico non è stato messo da parte, tanto che il movimento fa ruotare 70 angeli di cartapesta, 12 apostoli attorno a una teca che custodisce il corpo della Madonna. Suggestivi anche gli elementi decorativi: le nuvole di colore bianco e argento, la luna dorata con raggi argentati, un sole argentato con raggi dorati e, attorno al satellite e alla stella, 12 angeli avvolti in festoni e ghirlande.
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natur a mica
Rubrica a cura del dottor Corrado Cataldi, farma cista titolare dell’omonima farmacia
Al tramontar del sol...
www.farmaciacataldi.com
tramontar del sole e il venir meno della luce, risultano essere un segnale inequivocabile per il nostro organismo! Come se il dio della notte inviti ognuno di noi, ad attivarsi per produrre, nelle giuste quantità, la melatonina. Un ormone il cui aumento o diminuzione concretizza, sostanzialmente, l’alternanza luce-buio facendosi regolatore del nostro orologio fisiologico interno; infatti, quando la luce del giorno ritorna e le cellule della retina ne sono colpite, ecco che si ha l’eccitazione di alcune componenti retinoipotalamiche che portano all’inibizione della ghiandola pineale, da cui, nelle ore notturne, si attiva il rilascio di melatonina. Il ruolo della melatonina, nell’organismo, ha molteplici effetti: procura un forte riequilibrio del sistema immunitario, sostiene un’importante azione antistress (per via dell’antagonismo all’eccesso di cortisolo), è un buon modulatore del sistema neurovegetativo. L’assuzione di melatonina in dosi fisiologiche favorisce l’induzione e il mantenimento del sonno. La sua formazione oltre che nella ghiandola pineale avviene anche nella retina, nell’intestino tenue, nelle piastrine del sangue, dai linfociti della pelle e dal midollo osseo. Decresce, pian piano, nel corso degli anni e in modo paticolare verso i 45 anni, col diminuire sempre più delle concentrazioni di melatonina prodotta. Questo fenomeno è da attribuirsi anche alla progressiva calcificazione della ghiandola. Una delle funzioni particolarmente efficaci, che si è da poco scoperta, è quella antiossidante. Agisce su diversi tipi di radicali liberi, con una potenza risultante il doppio rispetto a quella della vitamina E e il quintuplo rispetto a quella del Glutatione. Non ci resta che attendere ulteriori notizie e informazioni su questa importante funzione e…. melatonina permettendo, auguriamo una dolce notte a tutti.
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