ANNO IV NUMERO 16 - OTTOBRE / DICEMBRE 2012 - free quality press
PALAZZO ZACCO Ossia dei Baroni Melfi di Sant’Antonino
LA CHIESA BASILIANA DI CASALVECCHIO
Figlia del medioevo, raffinata e gentile LA STORIA NEGATA DI SIRACUSA Il manifesto infame che mietè più vittime del colera
“Solitude� - foto Stefano Frassetto stefanofrassettophotography.weebly.com
Quanto orgoglio siciliano è rimasto?
N
on sono tempi in cui ci si può permettere di fare retorica, o in cui si può sperare in una situazione migliore senza sentire l’urgenza di una propria azione personale; non si può aspettare che le cose cambino senza che ognuno di noi si domandi: ma io che faccio? La mia forza, la mia energia, il mio desiderio di vedere riconosciuto il valore della mia terra, del suo apporto alla storia e al mondo, non passa forse innanzitutto dal mio operato? Quanti di noi siciliani pensiamo in questi termini? Tanti, tutti, a leggere i nostri giornali, i nostri blog o a sentire i nostri rappresentanti nelle Istituzioni. Però le cose non cambiano, e ora che cominciano a prevalere fame, miseria e povertà, non più strettamente locali, ma più ampie e diffuse, ora che il fondo del barile è stato raschiato e non si possono fare neanche promesse, ora più che mai è necessaria tutta la nostra forza, il nostro orgoglio, la nostra creatività, la nostra determinazione a ottenere per la nostra terra rispetto e attenzione. Indipendentemente da chi li amministrerà, i Siciliani dovranno amare la loro terra prima della loro singola causa. E pur di sembrare pazzi ai più navigati che imperterriti ripetono: “Munnu ha statu e Munnu sarà….” rimbocchiamoci le maniche, chiedendo a noi stessi prima che agli altri, una Sicilia diversa, più simile a quella delle poesie che a quella dei telegiornali. In ognuno di noi ci sia così una invocazione, un desiderio di giustizia, la difesa dell’onestà e la ricerca di unità per una terra che ha bisogno di un riscatto storico. In questa nostra isola non bastano il sole, il mare, e l’allegria per far dimenticare le ombre. È necessario il riscatto di un popolo che si “svegli” e “agisca” per un futuro propizio, fecondo e creativo. L’auspicio è dunque quello di vedere diffusa tra noi Siciliani l’urgenza di un’azione che sia generale, ma che impegni ciascun individuo nello sradicare “a mala genti” e “u malu usu” per costruire un futuro con onestà e rispetto per la vita. Spesso leggendo le cronache nazionali, ho l’impressione che la Sicilia sia un mondo a parte, che ciò che vale qui sia diverso che altrove; che il nostro essere isolani sia un alibi anche per noi…. Da grande estimatrice della nostra autonomia e grande innamorata della mia Terra non posso tuttavia dimenticare gli anni trascorsi lontana dalla Sicilia, tra gente che ha un senso di partecipazione vivo alle cose di tutti, e qui … a casa mia, devo aspettare che qualcuno si occupi del cambiamento? O cambio io, o non cambia niente. Vera Corso
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N. 16 – OTTOBRE/DICEMBRE 2012 Editore Kore & C. sas Siracusa – Tel 0931- 35068 Ragusa – Tel 0932- 228326 www.insidesicilia.com info@insidesicilia.com
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Direttore editoriale Giuseppe Nuccio Iacono n.iacono@insidesicilia.com Direttore responsabile Giuseppe Aloisio info@insidesicilia.com Pubblicità e Marketing Siracusa - Vera Corso Tel 320- 2713534 v.corso@insidesicilia.com Ragusa - Giancarlo Tribuni Silvestri Tel 349- 4931363 g.tribuni@insidesicilia.com Account commerciale Ragusa Giovanni Gurrieri info@insidesicilia.com
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Promozione e distribuzione Kore & C. sas Progetto e impaginazione grafica Kubeitalia.it - Gruppo Computerline - Catania Stampa Tipolitografia Priulla srl - Palermo In copertina: Particolare di una casa di campagna nel ragusano- foto di Giulio Lettica
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Hanno collaborato: Monsù Gaetano d’Albafiorita, Pippo Aloisio, Corrado Cataldi, Sergio Cilea, Vera Corso, Antonio Cascone, Aldo Formosa, Stefano Frassetto, Riccardo Lo Giudice, Valentina Gravina, Gianni Iacono, Giulio Lettica, Vincenzo Longo, R.L.G, Gianni Morando, Beppa Orefice, Alice Pepi, Giovanni Portelli, Rosaria Privitera, Saro Sallemi, Giulio Tribastone, Giancarlo Tribuni Silvestri, Enza Trigilia Registrazione: Tribunale di Siracusa 20/07/2009 Registro della Stampa n°3/09 ROC n° 20932 del 28/03/2011 © Kore & C. sas Proprietà letteraria riservata. È vietata ogni riproduzione integrale o parziale di quanto è contenuto in questo numero senza autorizzazione dell’editore. L’editore si dichiara disponibile a regolare gli eventuali diritti di pubblicazione per le immagini di cui non è stato possibile reperire la fonte. Sfoglia la rivista sul Web www.insidesicilia.com Seguici su
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Palazzo Zacco... ossia dei baroni Melfi di Sant’Antonino Il primo polo per la rete museale di Ragusa Taormina e le sue 365 sfumature Scicli delle meraviglie La storia negata di Siracusa Il caso della baronessa Aldonza di Militello Val di Catania Piazza Armerina d’autunno La poesia e la musica di Arione tra mare e stelle La Chiesa basiliana di Casalvecchio Le Pro loco. Una risorsa per il territorio siracusano
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LA CHIESA BASILIANA DI CASALVECCHIO
La figlia del medioevo, raffinata e gentile
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Salvo Bordonaro. I sapori del nostro passato Lentini la grande Buscemi, paese-museo, piccolo scrigno di cultura iblea Artigianato L’inaudita storia della lacrimevole vita dell’afflitta donna Francesca Lucifora della città di Modica
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Proprietà salutistiche di un buon bicchiere di vino L’onza e la sua stabilità Le perle bianche delle bufale Non solo coppola Architettando negli Emirati Arabi La cultura europea mangiò gelato da Procopio Il sapore panato e fritto... InSide Sicilia The Night: unni ta fattu a stati, va fatti u mmiernu Segnalibro Natura amica. Dai vermigli fior...
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Portale di ingresso
La sirena
Mensola figurata
Un mascherone
Palazzo Zacco…
ossia dei baroni Melfi di Sant’Antonino di Giuseppe Nuccio Iacono foto di Giulio Lettica
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a parte della lista dei 18 monumenti ragusani inclusi nei siti UNESCO del Val di Noto.
Rappresenta uno dei primi esempi di architettura signorile tardobarocca realizzati a Ragusa e, nel Val di Noto, costituisce un modello particolarmente importante per eleganza, sfarzosità e qualità stilistica.
Edificato nella seconda metà del ‘700 dal Barone Melfi di Sant’Antonino, il palazzo fu poi venduto, alla fine dell’800, alla famiglia Zacco da cui prese l’attuale nome. Dopo l’acquisto (1989) da parte del Comune di Ragusa è stato sottoposto ad un attento restauro per poi essere destinato a sede museale accogliendo la Raccolta Civica Cappello e il Museo del Tempo Contadino. Anche se ubicato ai margini della maglia settecentesca della nuova Ragusa (costruita ex-novo dopo il
terremoto del 1693), non lontano dalla vallata di Santa Domenica, il palazzo godeva comunque di una posizione urbanistica strategica lungo l’importante asse viario (oggi C.so Vittorio Veneto) parallelo alla via Maestra (oggi C.so Italia). Dominando l’angolo tra Via S. Vito e C.so Vittorio Veneto, si offre a vari punti di osservazione che generano vedute prospettiche dalla vivace teatralità architettonica. In questa dinamica di rappresentanza esteriore dell’edificio, gli ele-
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Palazzo Zacco negli anni ‘70 Famiglia Melfi di Sant’Antonino
...ieri e oggi...
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Veduta prospettica
menti compositivi e decorativi delle facciate si focalizzano e si animano di significato man mano l’osservatore si avvicina. L’architettura è concepita come presenza urbana che oltre ad esternare opulenza e teatralità deve incuriosire il passante. Così le mensole figurate che sorreggono i balconi perdono la loro primaria funzione di sostegno per diventare elementi animati, o meglio, elementi architettonici che si umanizzano per diventare “attori” o “musicisti” di pietra. L’osservatore ne viene coinvolto e diventa spettatore di questa teatralità. Tra sberleffi, espressioni linguacciute, ghigni e sorrisi fossilizzati dei mascheroni si diventa vittima inerme (come rispondere a quelle facce toste?) e tra il suono immaginario dei musicisti pietrificati e le sinuose forme di una sirena si diventa fortunati spettatori.
I caratteri generali.
I caratteri stilistici del palazzo tardobarocco trovano forza nel dialogo tra elementi dotti derivati dalla trattatistica europea e le espressioni della cultura locale dei capimastri. I due prospetti sono delimitati in alto da un cornicione dentellato e ai lati da paraste lisce con capitello tuscanico, leggermente aggettanti e poste su alti plinti. Sul “cantonale di rappresentanza” domina il maestoso stemma gentilizio dei Melfi di Sant’Antonino, retto da due angeli che spiccano tra un trionfo decorativo.
Nelle due facciate sono presenti tre balconi piuttosto articolati e sorretti da preziosi mensoloni figurati che esprimono un carattere ludico, allegorico e apotropaico. I mensoloni sono concepiti su due registri sovrapposti e ben distinti: una fascia superiore più vocata a contenere figure di musici e, una fascia inferiore che accoglie preferibilmente maschere grottesche con motivi fogliacei di ispirazione manieristica.
Facciata su Via S. Vito.
Al centro emerge l’elegante portale d’ingresso con ai lati due colonne corinzie in pietra pece che reggono una trabeazione classicheggiante. Al di sopra, il ballatoio principale cinto dalla ricorrente ringhiera in ferro battuto si conclude con un evanescente timpano spezzato che viene riproposto nei due balconi laterali. I mensoloni figurati dei balconi seguono il repertorio iconografico dei musici e dei mascheroni grotteschi manieristici. Interessante, nella mensola centrale del balcone di destra, l’espressione del mascherone che rivolge ai passanti una smorfia beffarda.
Prospetto su C.so V. Veneto
In corrispondenza della porta centrale (porta secondaria) si trova il grandioso balcone sorretto da cinque mensoloni dalla possente ed evidente teatralità: quello centrale viene esaltato dalla elegante figura di
una sirena che stringe al seno due fantasiosi pesci mentre, in quelli laterali, i personaggi contribuiscono a dar vita alla scena con strumenti musicali. La decorazione profusa nelle modanature degli stipiti si conclude in un timpano spezzato che accoglie la piccola statua di San Michele Arcangelo. L’angelo-guerriero di Dio è qui rappresentato secondo una precisa iconografia che lo pone in perenne lotta contro il Demonio. Il riferimento va oltre il puro senso devozionale per assumere un valore simbolico (più pagano): “allontanare il Male e vivere nel Bene” . Contrariamente a ciò che accade nell’altra facciata, i balconi laterali abbandonano l’uso di mensoloni figurati per sfiorare, quasi accarezzare, le linee rococò espresse dalle volute fogliacee. Persino le finestre abbandonano il gusto dei timpani spezzati per farsi più raccolte con quelli mistilinei a forma di omega.
Spazi interni.
Il palazzo si sviluppa su tre livelli: il piano terra (di servizio), l’ammezzato (ad uso privato) e il piano nobile (di rappresentanza). La disposizione delle stanze mantiene ancora gran parte dell’impianto originario e in alcuni ambienti (specie nell’ammezzato) è possibile ammirare ancora il tipico pavimento settecentesco in calcare tenero e pietra asfaltica.
La teatralità del balcone detto della sirena
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Area dedicata ai primi due mesi dell’annata agraria (settembre – ottobre)
Palazzo Zacco primo polo per la Rete museale di Ragusa
Con il “Museo del Tempo Contadino” nasce il primo nucleo del futuro e più ampio “museo delle arti e mestieri ragusana” di Giancarlo Tribuni Silvestri foto di Giulio Lettica
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prire un museo è come aprire gli occhi di una città verso il passato per guardare al futuro.
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Il Comune di Ragusa ha dato inizio alla realizzazione di una rete museale, intesa e voluta come alta espressione di un servizio pubblico. Una rete sostenuta fermamente dall’assessore alla Cultura Sonia Migliore che ne ha sottolineato anche l’importanza affermando che: “oltre ad essere variegata nelle te-
matiche, la rete dovrà andare oltre il concetto puramente culturale per coinvolgere, con una Museum City Card, anche le realtà economiche e commerciali della città”. Palazzo Zacco con la “Raccolta Civica Carmelo Cappello” (inaugurata a maggio) e il Museo del Tempo Contadino”, inaugurato il
28 agosto, rappresenta la scintilla funzionale di un sistema museale che si estenderà nella città e nel territorio ragusano. Il “Museo del Tempo Contadino” è un nucleo espositivo formalmente indipendente ma concettualmente collegato con il futuro “Museo di Arti e Mestieri ragusani” che sarà allestito nei locali dell’ex biblioteca Civica di Ragusa. Una struttura che per ampiezza potrà ospitare in maniera adeguata e razionale quella ricca collezione di oggetti recuperati dalla storia ragusana, grazie all’impegno e alla felice intuizione dello storico locale Mimì Arezzo, scomparso da circa un anno. Si tratta quindi di un modo di allestire moderno che si rifà ad un filone progettuale dove gli spazi museali si intrecciano e si fondono con il tessuto urbano. Come affermano i progettisti, il museo non deve essere relegato ad un luogo delimitato e gli stessi oggetti devono liberarsi dall’idea di uno spazio che “mummificandoli” li rende feticci. Il Comune di Ragusa si è trovato in sinergia d’azione con il Centro Studi “Feliciano Rossitto” (presidente On. Giorgio Chessari) e con il Centro Servizi Culturali di Ragusa (presidente Prof. Nino Cirnigliaro ) che in varie occasioni e da tempo hanno esternato il loro impegno per la promozione culturale. Una realtà condivisa e importante perché come afferma il museologo: «un museo è per tutti e unisce tutti. I musei non hanno colori politici perché sono la pura espressione della cultura che guarda oltre ogni barriera. Chi ostacola, in qualunque modo la formazione di un museo, ostacola la crescita civile e culturale». Al Comitato Tecnico-Scientifico formato dallo staff di architetti (museologo Giuseppe Nuccio Iacono e due museografi, Fabio Capuano e Andrea Gurrieri), si sono uniti la storica dell’arte dott.ssa Valentina Frasca Caccia e il professore Nino Cirnigliaro. Gli oggetti del “Museo del Tempo contadino” sono stati donati da
Trebbiatura e unità di misure iblee
Particolare dell’esposizione sul mese di Giugno
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collezionisti che hanno dimostrato un lodevole senso civico (Giovanni Ottaviano, Giorgio Polara, Giovanna Attanasio Gurrieri, Salvatore Cannizzo, Andrea Ottaviano, Famiglia La Rosa, Giovanni Tumino, Enzo Criscione e dagli Eredi Migliorisi). Insieme ad altri donatori che si aggiungeranno, in seguito, nella lista del “Museo di Arti e Mestieri” hanno così contribuito a tramandare la cultura e la memoria del territorio ibleo. Non va sottovalutata l’importanza del gesto perché, come ha sottolineato Giuseppe Iacono «le donazioni ai musei hanno un significato profondo perché rappresentano una vera e propria “dote culturale e sociale” che il donatore offre alle nuove generazioni».
Ma vediamo quali sono le caratteristiche che rendono particolare il Museo del Tempo
Contadino e che hanno delineato il percorso progettuale. Un primo dato è costituito dal Genius loci: i due musei, sistemati in spazi significativi del Palazzo, rispettano lo spirito degli ambienti e lo interpretano. In un simbolico percorso verticale, dai locali rustici (depositi) del piano terra alle stanze del piano nobile, si incontra il mondo rurale (del Tempo contadino) con quello più aulico dell’arte ragusana (Civica Raccolta Cappello). «l’inserimento di questo museo all’interno di Palazzo Zacco –afferma l’arch. Giuseppe Iacono– trova una sua giustificazione nella stessa genetica architettonica dell’edificio tardobarocco. A piano terra, i locali rustici del palazzo accolgono l’esposizione sul Tempo Contadino proprio per sottolineare lo stretto legame esistente tra la città barocca e la campagna ragusana. Lo scopo è quello di ricordare che
Interessante fusione dell’allestimento museale con l’ambiente “rustico” del palazzo
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le splendide architetture settecentesche sono il frutto di un investimento edilizio che traeva le proprie risorse economiche proprio dalla terra, lavorata dai contadini secondo un ritmo scandito dalle varie stagioni. Per questo motivo il museo del Tempo Contadino, anche nella limitatezza degli spazi, vuole imporsi come memoria storica all’interno di una architettura tardobarocca (oggi Patrimonio Unesco). Ecco un altro dei valori non tangibili ma espressivi del progetto». Un secondo dato è l’idea di flash museum: un museo di introduzione legato al “Museo di Arti e Mestieri ragusani”. Inoltre, i musei di Palazzo Zacco comunicano anche con l’esterno. Le opere del maestro Cappello rimandano alla città, dove sono presenti altre opere dell’artista: la “Fontana del Delfino” in Piazza Poste ed il bassorilievo di fronte al Palazzo comunale; il Museo del Tempo
Contadino invece si proietterà in seguito anche nel territorio extraurbano (aziende agrituristiche, masserie, ecc..). «Niente è casuale nella museografia- spiega l’arch. Fabio Capuano – nel progetto bisognava parlare al visitatore del tempo e non dello spazio contadino. Così l’oggetto è distaccato dallo spazio e si erge come elemento distintivo di un tempo preciso e caratteristico dell’economia legata al mondo rurale. Ciò che conta non è dunque sottolineare il costume e la vita quotidiana quanto mettere in luce il tempo che li sovrasta. Il museo è concepito come un percorso espositivo temporale (non spaziale) dove gli oggetti sono selezionati per rievocare il ritmo dell’anno agrario». Lo sviluppo narrativo suggerito da oggetti (tangibili) è così riconducibile al valore (intangibile) del Tempo. Lo stile stesso che viene proposto dall’allestimento è particolarmente suggestivo e nasce da una attenzione verso il passato. «Poiché il museo è una forma di comunicazione non verbale che trova negli oggetti esposti le proprie parole per emozionare e coinvolgere il visitatore - afferma l’arch. Andrea Gurrieri – si è operato nella complessa sintassi museografica con il materiale stesso dell’allestimento. Per fare un esempio, il materiale di rivestimento e d’arredo, pur mantenendo la dovuta neutralità si ispira all’antico uso ragusano di proteggere il legno delle porte delle case con una lamiera chiodata»
realtà aperta alle nuove generazioni. Un luogo dove l’amministrazione comunale sarà un tramite, un collaboratore nella formazione scolastica. Ben vengano progetti europei per le scuole che potranno usufruire di una aula didattica fornita di ogni strumento». Il progetto prevede anche l’impiego di tecnologia wi-fi che consentirà agli utenti di collegarsi e scaricare le informazioni sia sul Palazzo che
sui singoli oggetti esposti ma, anche e soprattutto sulla rete museale. Gli utenti potranno collegarsi col proprio smartphone o con iPod e/o similari che il museo vorrà eventualmente dare in noleggio e ricevere informazioni da apposite postazioni mediante iPad e/o similari. Un museo vivo dunque che si apre a Ragusa, un museo pulsante e carico di energia che dovrà espandersi nella futura rete museale di Ragusa.
Al piano terra è collocata l’aula didattica. Fornita di impianto audio, video e materiale utile per poter approfondire nozioni sulla realtà rurale, possiede una preziosa raccolta di oggetti in miniatura tutti legati agli antichi mestieri ragusani. La sala didattica è direttamente collegata al Museo del Tempo Contadino dove una serie di grafici e fotografie illustrano la peculiarità di alcuni oggetti esposti non come “feticci della tradizione rurale” ma come “testimoni” della dura vita contadina. Il percorso prosegue poi nel piano ammezzato dove due stanze sono dedicate al giorno e alla notte. Nella prima sono esposti (a rotazione) alcuni pregiati sfilati ragusani; nella seconda vi è la ricostruzione di una camera da letto.
Ricostruzione di una stanza da letto con tipica alcova
Il terzo elemento è l’aula didattica del Museo. Uno spazio che sottolinea l’importanza fondamentale dell’educazione e formazione del museo. Un luogo che non si limita a “conservare cultura” perché deve anche “fare cultura”. Questo concetto ampiamente condiviso da tutti è stato caldeggiato dall’ass. Sonia Migliore che durante l’inaugurazione ha affermato di “vedere il museo come
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RAGUSA Via Napoleone Colajanni, 45 Modica (RG) Corso Umberto I, 123 Comiso (RG) Viale della Resistenza, 45 CATANIA Piazza Roma, 18 Via A. di San Giuliano, 223 Corso Sicilia, 23 Augusta (SR) Via Principe Umberto, 82 MESSINA Via Garibaldi, 56
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Teatro d’inverno- Foto di Giancarlo Tribuni Silvestri
TAORMINA
e le sue 365 sfumature...
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aormina, da piccolo borgo crocevia di popoli, nei secoli si è trasformata in meta turistica internazionale. La storia, la natura, la mondanità, gli eventi ed un fitto intreccio di relazioni l’hanno consacrata destinazione prescelta da ogni tipo di visitatore, ma c’è ancora qualcuno che non sa che la vera storia di questa cittadina inizia come luogo
di villeggiatura nel periodo invernale a causa del clima sempre temperato. Taormina oltre a collocarsi in un ambiente naturale di particolare bellezza, unico nel suo genere, ha saputo creare una perfetta sintonia fra gli antichi splendori del passato e la contemporaneità. Regala atmosfere suggestive di giorno, di notte ed in ogni periodo dell’anno. D’estate si veste di glamour e charme, dall’autunno all’inverno sveste i
suoi abiti mondani e si dedica a quanto di più tradizionale, accattivante e delizioso si possa offrire a cittadini e visitatori. La magia dell’estate e il brio che contraddistinguono i luoghi, i vicoli e le piazze, con la stagione più fredda si trasformano in siti da scoprire, colori da immortalare ed odori unici da imprimere nella memoria. Passeggiare per le vie principali, grazie al clima mite è sempre un immenso ed esclusivo piacere, fer-
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marsi a guardare il mare blu che si sposa con il cielo terso, l’Etna innevata che ci sovrasta… e ci si chiede quale miracolo sia questo… Taormina è una città d’arte dove si mescolano trame straordinarie di preziosi elementi ricchi di valore monumentale. Durante la stagione invernale, si possono visitare questi magici luoghi e rimanere incantanti alla vista di quello che ci circonda, dal Teatro Greco con l’Etna che troneggia alle spalle, al Giardino pubblico con le sue piante rare e fiorite in tutti i mesi dell’anno. Un’offerta in stile cosmopolita per lo shopping, dall’artigianato alla gioielleria ai marchi di moda esclusivi, in un salotto naturale che è il Corso Umberto. L’enogastronomia è uno dei motivi che fa sì che Taormina sia un crogiolo di piaceri, mix di cucina di tradizione che si miscela a sapori forti e delicati, una delle più varie ed estrose, per una ristorazione creativa di qualità, policroma in ogni stagione e saporita in ogni periodo dell’anno. Le iniziative che offre il territorio durante la stagione autunnale ed invernale sono molto articolate ed appassionanti, coinvolgono l’hotellerie cittadina, i ristoranti e varie location. Vi è un continuo fervere di iniziative culturali, mostre, eventi musicali, poesia e teatro di vario genere.
18 Piazza IX aprile - foto Alfio Finocchiaro
Foto di Giancarlo Tribuni Silvestri
L’icona e l’albero - foto Alfio Finocchiaro
Suggestioni invernali - foto di Andrea Ciravolo
Il programma delle mostre spazia da artisti locali ad internazionali, dai dipinti alla scultura in un contesto incantevole che lascia libero sfogo all’immaginazione, dai temi religiosi all’arte allo stato puro, dagli artisti che con una pennellata ci introducono al mondo delle sensazioni visive fino alla straordinarietà dell’esperienza tattile. Gli eventi musicali si incuneano tra il sacro ed il profano, i concerti di musica religiosa nelle splendide chiese, dal loro diverso stile architettonico, fanno da sfondo alle molteplici esibizioni, dal gospel al canto gregoriano, coinvolgendo trasversalmente un pubblico proveniente da tutte le parti del mondo, per svariati mesi. Gli incontri “dotti”, dove si discute di letteratura, arte e poesia, si alternano ad aperitivi letterari, dove si uniscono generazioni e stili diversi, per esprimere semplicemente la propria arte e di cui tutti possono goderne. La realizzazione di spettacoli creati ad hoc per i bambini, soprattutto nel periodo natalizio, fa sì che possa vivere la Città, gli spazi aperti con divertimento e continuità, regalando appuntamenti cadenzati
ed ogni volta singolari. La menzione obbligatoria è per la quarta edizione di Cioccolart Sicily, con la possibilità di immergersi nel mondo del cioccolato, un evento che da anni segna un appuntamento imperdibile per gli amanti del gusto, delle sensazioni e dei profumi. Il programma di Cioccolart Sicily è talmente ampio e ben strutturato che darne un assaggio è inevitabile. Dalle degustazioni, ai corsi di pasticceria per bambini, alle conferenze di luminari del settore, alla lavorazione dell’alimento più amato da grandi e piccini, alla sbalorditiva
visione di grandi opere realizzate in cioccolato a dimensione naturale, ai percorsi del gusto. Si offre così la possibilità di conoscere posti e location che altrimenti sarebbe difficile scoprire. Una nuova iniziativa sono i mercatini nel periodo natalizio, che offrono lo spunto per gli acquisti e per conoscere i prodotti locali, in un’atmosfera paesaggisticamente splendida. Taormina dà la possibilità di vivere un luogo accogliente ed intimo, per coloro che scelgono di trascorrere il loro tempo qui, senza sentire mai la nostalgia di casa. R. L. G.
19 Jazz band in corso Umberto - foto Alfio Finocchiaro
Chiesa di San Giovanni Evangelista- Foto Fargilli Chiesa rupestre Piedigrotte Foto Giorgio Cardelllini
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Balcone di Palazzo Fava- Foto Giorgio Cardellini
Le case grotte
Panoramica su Santa Maria La Nova- Foto Jacopo
Scicli delle Meraviglie di Giuseppe Nuccio Iacono
COMUNE DI SCICLI
“ Forse è la più bella di tutte le città del mondo. E la gente è contenta nelle città che sono belle... »
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Elio Vittorini - Le Città del Mondo, 1969
hi cerca il Paese delle meraviglie non deve fare altro che recarsi a Scicli, nell’estremità sud-orientale dell’isola. Non sono parole osannanti ma è una pura e semplice verità che è sotto gli occhi di chiunque. La sensazione di meraviglia si prova, già da lontano, appena la città appare al nostro sguardo. Non è un caso se questa cittadina iblea
è stata decantata da storici, letterati e artisti. C’è qualcosa di impalpabile in Scicli che la rende magica e attraente. La stessa luce che accarezza i suoi edifici, illumina le sue piazze e rende pittoresche le sue viuzze ha qualcosa di indescrivibile. Elio Vittorini ne “Le Città del Mondo” offre un perfetta descrizione di questa atmosfera che sprigiona la città che «sorge all’incrocio di tre valloni, con case da ogni parte su per i dirupi, una grande piazza in basso a cavallo del letto d’una fiumara, e
antichi fabbricati ecclesiastici che coronano in più punti, come acropoli barocche» . Le antiche case che si “aggrappano” sui fianchi dei rilievi rocciosi hanno dato vita a un particolare quartiere con la complicità di alcune grotte: Chiafura. Questo quartiere rupestre di per sé merita una visita a Scicli. Ne fu particolarmente colpito Pier Paolo Pasolini, che qui giunse nel 1959 per portare poi con sé l’immagine di una città che racchiudeva l’essenza
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“di quello che si dice …la Sicilia”. L’aria della sua antica tradizione religiosa che vede storia e leggenda fondersi, la ritroviamo anche nel territorio. Proprio nel suggestivo Eremo delle Milizie, a pochi km dalla città, si conserva la memoria “fantastica” di una battaglia che vide contrapporsi, nel 1091, Normanni e Saraceni. Vinsero i primi grazie al provvidenziale intervento della Vergine apparsa su un cavallo bianco e il fatto è ancora ricordato con una rievocazione storico ogni anno a maggio. Sui colli che abbracciano la città dominano tesori di pietra ocra-oro. Emerge la Chiesa del Rosario, costruita sulla sommità del Monte Campagna dal quale si apre un magnifico panorama sul territorio. Risalta la Chiesa e il convento della Croce (sec. XVI) sull’omonimo colle ai cui piedi, presso la cava di S. Bartolomeo, è situata la Chiesa rupestre di Piedigrotta. Nella parte alta del Colle di San Matteo, dove si conservano i ruderi della Scicli antica sorge la Chiesa rupestre di Santo Spirito e, in cima, domina maestosa la Chiesa di San Matteo simbolo di Scicli e chiesa Madre fino al 1874. In basso, si snoda la città con un tripudio di monumenti barocchi. Chiese e Palazzi sono le note di una “sinfonia” artistica che è sta-
ta scritta tra i vicoli e le piazze, il cui basolato sembra essere consumato dalla “meraviglia” dei visitatori. Le chiese e tutti i palazzi storici hanno tante ricchezze da mostrare. Per questo il visitatore potrà ritmare la sua giornata alternando scoperte e ammirazioni. La settecentesca Chiesa di San Guglielmo (chiesa Madre dal 1874) custodisce il simulacro raffigurante la Madonna delle Milizie, la Vergine guerriera con il mantello azzurro e la spada sulla mano destra, seduta sopra un cavallo bianco. Vicino si trova la Chiesa di San Bartolomeo Apostolo, inserita in uno scenario naturale di rara bellezza da essere stata definita dall’architetto Portoghesi “una perla dentro le valve di una conchiglia”. San Giovanni Evangelista, la cui facciata concavo-convessa esterna influssi borrominiani, ci accoglie al centro di uno dei salotti urbani, via Francesco Mormina Penna. A poca distanza si trova l’elegante Palazzo Comunale, realizzato tra il 1902 e il 1906, noto anche per essere divenuto set cinematografico della fiction “Il commissario Montalbano”. In fondo, la via si trasforma visivamente in qualcosa di più teatrale: si assiste all’effetto scenografico generato dal susseguirsi in profondità di quinte architettoniche formate dalle facciate tardobarocche delle
Scalinata d’onore di Palazzo Spadaro - foto Felix
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chiese di San Michele Arcangelo e di Santa Teresa. I Palazzi Storici vanno dagli eccessi barocchi alle linee contenute del primo Novecento. L’esempio più “visionario”, bizzarro, appariscente e fantasioso di tutta la barocca Val di Noto è rappresentato dal Palazzo Beneventano. Invece, l’armonia misurata è espressa da Palazzo Fava (1730) che mostra un balcone con spettacolari mensole raffiguranti due grifi e due cavalli alati con code pisciforme. Ricchezza di dettagli e di ornati è manifesta invece nel fastoso Palazzo Spadaro: la facciata settecentesca è impreziosita da otto balconi e il portale introduce in un atrio dove si sviluppa una elegante scala con decorazioni e pitture del primo ‘900. E per completare, possiamo dar vita, anche se con l’immaginazione, alle persone che vivevano in questa città, visitando il Museo del Costume, un esempio unico per la ricca collezione di abiti e accessori di moda del passato. Scicli è dunque il vero Paese delle Meraviglie. Non è un caso se Scicli, insieme ad altri 7 comuni iblei è stata inserita nel 2002 nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO per il suo barocco. Soprattutto non è un caso che qui gli “esseri sensibili” trovano ispirazione per dipingere, scrivere, o semplicemente per vivere.
Scorcio suggestivo su Scicli da uno dei colli- Foto di Jacopo
Particolare di Palazzo Beneventano- Foto Giorgio Cardellini
Chiesa di San Matteo simbolo di Scicli e chiesa Madre fino al 1874- Foto Zachiro
Pier Paolo Pasolini Nelle “Vie Nuove” ne tracciò uno dei più “artistici” quadri letterari.. “In cima alla valle centrale, Chiafura, c’è un castellaccio diroccato, e una vecchia chiesa, giallo-rosa, barocca, gesuitica, distrutta da un terremoto e piena di erba. Da lassù in alto potei vedere tutta Scicli. Come un vecchio giocattolo, sul calcare, la città di uno scolorito ex voto. [...] Visto così, da lontano e dall’alto, Scicli era quello che si dice la Sicilia. Una comunità di gente ricca di vita, compressa, atterrita, deformata da secoli di dominazione, che troppa intesa a succhiarne il sangue, non ne ha potuto succhiare la vita: e l’ha lasciata viva, e quanto viva, a soffrire, a dibattersi, a uccidere, anziché a operare, a pensare e a amare. [...] La storia italiana e quella siciliana, tutto sommato si equivalgono. C’è una sostanziale differenza tra i Savoia, i Papi e i Borboni? Qui, a una repressione certo più disperata e massiccia corrisponde ora un risveglio più stupefatto e clamoroso. Ed è questo ciò che ho visto a Scicli. [...]
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Duomo di Siracusa - inizi ‘900
Estate 1837
La storia negata di Siracusa
Il manifesto infame che mieté più vittime del colera
di Sergio Cilea
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iorno 16 luglio il Vicario Vescovile Amorelli convocò una riunione nel palazzo di Piazza Duomo. Intervennero il Presidente della Gran Corte Criminale e Procuratore Generale Cannizzaro, il Patrizio Pancali ed il generale Tanzi. Il vicario comunicò di aver appreso che il popolo si stava organizzando per punire gli avvelenatori ed i loro complici compresi il capo della polizia, della intendenza, gli stranieri, e comunicò altresì che in testa a questi facinorosi stava l’avvocato Mario Adorno.
(seconda e ultima parte)
Conclusa la riunione a cui non fu dato gran peso alle parole dell’Amorelli, le autorità tornarono nelle loro dimore di campagna lasciando solo il Pancali che cercò di organizzare alcune pattuglie di cittadini volenterosi che vigilassero sulla quiete pubblica. A capo di una di queste squadre si pose l’Adorno che continuò ad accusare la presenza di untori in città. Viveva in quei giorni, ospite a Palazzo Oddo sull’attuale via Roma, una famiglia di girovaghi francesi, gestori di un cosmorama, apparecchiatura antesignana dei nostri proiettori, che dava la possibilità, grazie ad una illusione ottica, di vedere immagini ingrandite ed in rilievo. Giuseppe Schwentzer e la moglie Maria Le-
pyk, ricordata dal Verga, essendo da poco giunti a Siracusa, furono creduti dal sospettoso popolo potenziali untori e ne fu chiesto all’Intendente Vaccaro l’allontanamento dalla città. Il cosmorama in realtà aveva attraversato tutta l’Europa sostando in più luoghi già soggetti al morbo, e si vantava di “andar quasi con esso e di non curarsene affatto.” Giorno 18 luglio un gruppo di popolani si avvia dal quartiere Graziella e trascinando nell’euforia della caccia all’untore chiunque incontra, si dirige verso la casa del cosmorama dove tenta, dopo aver saccheggiato la casa alla ricerca del potenziale veleno, di prelevarlo a forza. Fu provvidenziale anche in questo
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Giornale intendenza Val di Noto Giornale Siracusa non provincia
caso l’intervento del Patrizio che promise un regolare processo. Lo accompagnò nelle vicine carceri e si curò anche di far portare la moglie al palazzo comunale. Intanto in piazza Duomo continuava a raccogliersi il popolo esasperato e senza alcun controllo delle forze di polizia. Passava in quel momento il commissario Vico accompagnato da alcuni gendarmi e forte della propria autorità ordinò ai suoi accompagnatori di disarmare i popolani. Fu a questo punto che il popolo insorse ed accusandolo di veneficio tentò di legarlo ad alcune colonne presenti in Piazza Duomo chiamate pilieri. Intervenne l’Amorelli, intervenne anche il Pancali per tentare di sedare il popolo. A nulla valsero le parole del Patrizio, il Vico venne ucciso con un colpo di fucile e stessa sorte seguirono i gendarmi. La carneficina aveva avuto inizio. Lo stesso giorno furono uccisi il servitore del cosmorama e due lentinesi che per caso si trovavano in città. La sera anche l’ intendente Vaccaro che nel tentativo di sfuggire al massacro si era rifugiato in campagna venne trucidato. Intanto il popolo sostenuto dalle incitazioni dell’Avvocato Adorno continuava la caccia agli untori. Il popolo chiese l’immediato processo al cosmorama ed alla moglie e ciò avvenne l’indomani. Il povero cosmorama interrogato pur professandosi innocente cercò di difendersi testimoniando di aver visto in città un tedesco di nome Bainard e che indicò come il propinatore di veleni. Questa falsa dichiarazione fece ulteriormente convincere l’avvocato Adorno della presenza degli untori ed in una slancio di pura follia scrisse un documento che sotto la minaccia del popolo fece sottoscrivere al Pancali per essere autorizzato a mandarlo alle stampe. Riferendosi a questo documento così scrive il De Benedictis “I comandanti si provvidero della famosa scritta che dovea suscitare mille apprensioni, e sempre più convincere dei delirii a cui è per lo spesso soggetta l’umana ragione. Nei giorni seguenti alla diffusione di questo documento si commisero i più atroci delitti nei confronti
Rivoluzione di Messina in occasione del colera del 1837
di chiunque avesse atteggiamenti sospetti. Venivano portati a furor di popolo ai pilieri di Piazza Duomo e trucidati. Al fragoroso suono delle campane del Duomo di Siracusa ed inneggiando le parole ‘al carcere, al carcere!’ il popolo si diresse verso la prigione dove era recluso il cosmorama. Fu anch’egli prelevato a forza e barbaramente ucciso tra le grida del popolo. Subito dopo seguì la stessa sorte “la giovinetta bella come la Madonna, la quale ballava sui cavalli ammaestrati in teatro”. Nei giorni a seguire venuto a mancare il controllo da parte delle autorità, altri innocenti cittadini furono barbaramente trucidati e questo perché, grazie al documento dell’Adorno, era ormai provato che il colera non aveva origine naturale ma veniva diffuso da avvelenatori. La sommossa popolare diventò presto anarchia che si propagò in altre città siciliane con la stessa velocità con cui andava diffondendosi il documento dell’Adorno. Altri innocenti furono uccisi a Sortino, a Canicattini, a Palazzolo, ad Avola, a Catania, città, per citarne solo alcune, tra le quali si contò il più alto numero di omicidi. In questo clima di eccitazione popolare alcuni liberali ne vollero approfittare per tentare di sbarazzarsi del governo borbonico ridando vita all’antico sogno dell’autonomia siciliana. Cominciarono a circolare le famose coccarde gialle, colore dell’antico regno e desiderio anche era di riportare in vita almeno la costituzione approvata da governanti borbonici nel 1812. A questa ribellione, la risposta del governo borbonico fu l’invio a Siracusa con poteri di Alter Ego del feroce gendarme Saverio del Carretto. L’Adorno, artefice del famoso documento fu invitato dai suoi amici a fuggire per evitare la vendetta borbonica, ma egli, convinto di aver ben operato, rifiutò la fuga e si presentò fieramente a Del Carretto. L’Alter Ego eseguì diversi interrogatori e le conclusioni furono notevolmente pesanti. L’Adorno ed il figlio furono condannati alla pena di morte assieme ad altri facinorosi di quelle terribili gior-
nate; la città di Siracusa, allora Capo Valle di Intendenza, per insubordinazione venne degradata ed il titolo passò alla città di Noto. La fucilazione venne eseguita nello stesso luogo dove decine di innocenti avevano trovato la morte, barbaramente uccisi dal furore popolare. Lo stesso Emanuele De Benedictis liberale convinto, dolente per la perdita dell’importante ruolo di Siracusa, prendendo le distanze dall’Avvocato Adorno ebbe a scrivere – “Furono commessi eccessi, e gli autori meritavano una pena,
e la giustizia dovea cadere rigida ed inesorabile; ma la umanità di un ministro borbonico intese a stenderla anche sulla città di Siracusa, e insieme alle condanne di morte, di ergastoli, di ferri, d’una lunga lista di sciagurati, cadde la condanna sulla città illustre.” Il Comune di Siracusa, per celebrare i 150 anni dell’ Unità d’Italia, ha posto in Piazza Duomo una lapide commemorativa che ricorda l’eccidio dei due Adorno segnalando l’eroe avvocato Mario Adorno tra i padri dell’ Unità Nazionale.
A nulla valsero le parole del Patrizio, il Vico venne ucciso con un colpo di fucile e stessa sorte seguirono i gendarmi.
La carneficina aveva avuto inizio.
In vari paesi il furor di popolo fu alimentato da personaggi senza scrupoli
I contagiati in una stampa ottocentesca
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Torre del castello
Il caso della Baronessa Aldonza di Militello Val di Catania di Giuseppe Nuccio Iacono
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«Il y a dans la jalousie plus d’amour propre que d’amour». La Rochefoucault
ome diceva La Rochefoucault, nella gelosia c’è più amor proprio che amore. La vicenda che qui racconteremo si svolse a Militello Val di Catania nell’agosto 1473. Fu un dramma dove agirono la Perfidia di due fratelli e la Gelosia Delirante di un barone. In quella scena dai contorni oscuri e foschi, fu protagonista incontrastata l’Ira Mortale che soffocò l’innocenza di una moglie e infierì sulla fedeltà di un servitore. Alla fine, lo strazio di questa tragedia fu affidato all’amaro canto di una madre sconvolta dal dolore. Su tutto calò il sipario del silenzio. In seguito, il soffio del tempo trasportò quella storia e la tramandò di anno in anno, di lustro in lustro, di secolo in secolo. A raccontarla sono ancora oggi, le mura dell’antica torre, ultima testimone di quel-
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lo che fu il glorioso ma infausto castello dei baroni di Militello Val di Catania. Fu un castello glorioso perché, fin dal suo “vagito” normanno, fu teatro di importanti avvenimenti storici. Nel 1354 vi si riunì il parlamento siciliano e, nel 1410, vi trovò ospitalità la regina Bianca di Navarra. Con i Branciforte il castello fu ampliato e divenne luogo di cultura e di scienza. Il terremoto del 1693 distrusse il maestoso edificio insieme a gran parte della città. Ma poiché le grandi cose non finiscono, dopo quel terribile sisma, Militello risorgeva, in una zona più alta, con edifici barocchi così raffinati da essere nel 2002 inserita nei siti UNESCO della Val di Noto. Nel castello di Militello si consumò la storia della baronessa Aldonza Santapau, figlia di Raimondo, barone di Licodia e della nobildonna Eleonora Valguarnera. Aldonza era nata nel settembre del 1448, nel castello di famiglia di
Occhiolà (paesino distrutto dal sisma del 1693 e ricostruito a qualche chilometro con il nome di Grammichele). La potenza dei Santapau si rafforzò ulteriormente grazie al matrimonio di Donna Aldonza e Antonio Piero Barresi, barone di Militello in Val di Catania, proveniente da una illustre famiglia di origine francese. Dopo alcuni anni, il barone Barresi dovette lasciare Militello per recarsi in Spagna, con i propri soldati al servizio di Giovanni I, re d’Aragona e di Sicilia. Affidò i possedimenti alla giovane moglie affiancandole nell’amministrazione il suo segretario e tesoriere: un certo Pietro Caruso, soprannominato “Bellopiede” per l’abilità con la quale si destreggiava nelle danze. Nel castello, oltre all’anziana madre Eleonora Speciale, lasciò i due fratelli, don Nicolò e don Luigi. Poiché questi ultimi erano noti nello sperperare denaro, Piero Barresi chiese al tesoriere e alla moglie Aldonza di non concedere loro alcuna
somma di denaro in più rispetto alle periodiche assegnazioni stabilite. Dopo la partenza del Barone, i due fratelli iniziarono a dar fondo alle loro risorse e presto per proseguire i loro piaceri si rivolsero al tesoriere e a donna Aldonza per richiedere altro denaro. Al rifiuto deciso e concorde i due reagirono pensando ad una terribile vendetta. Dopo diversi mesi, sapendo che il loro fratello, rientrato dalla Spagna, si trovava a Palermo gli fecero recapitare una lettera nella quale si accusava donna Aldonza di intendersela con il tesoriere. Il Barone credendo di essere infangato nell’onore e tradito nell’amore si precipitò a Militello per punire col sangue l’infedele moglie ed il suo amante. In quel delirio di gelosia, per don Piero Barresi il delitto era l’unica via di uscita. La cecità dell’ira escludeva ogni possibile dubbio. La certezza dell’infedeltà divenne assoluta e impermeabile ad ogni confronto con la realtà. Fu talmente sicuro e preso dalla gelosia ossessiva che
il suo amore per Aldonza lasciò il passo all’amore malsano, crudele, estremo ed egoista che appartiene alla follia. Giunto a destinazione, respinse l’abbraccio e le affettuose premure della moglie, che sbalordita e senza saperne il motivo, fu rinchiusa in una segreta del castello. D’altronde la lettera velenosa era stata chiara e non andava verificata. Fece condurre a sè, sulla torre, il tesoriere Bellopiede che, ignaro della tragedia in corso, gli si mosse incontro per dare il benvenuto. Alle accuse incalzanti su quella tresca inesistente, il fedele servitore cercò di rassicurare il suo Signore ma, fu inutile. La collera del Barresi cresceva e stava raggiungendo il culmine della crudeltà. Spinse quel povero disgraziato e lo scaraventò giù dalla torre. Il destino non fu meno crudele perché Bellopiede, si schiantò sul selciato ma non morì subito. Ancora agonizzante fu legato su una tavola e fatto trascinare da un cavallo per il paese come un trofeo. Era in effetti il trofeo di una pazzia che non si era
ancora esaurita. Non ancora soddisfatto, quando il triste corteo giunse nei pressi della casa del malcapitato, il barone impose alla madre di Bellopiede di uscire fuori e, ricordandosi della passione per la danza del figlio, le vietò di piangere. Le venne dato un tamburello per gioire e le fu ordinato di cantare. E qui la storia si fece leggenda. La povera Francesca Caruso, tra le lacrime riuscì a improvvisare una cantilena con i versi grondanti di maledizione. Quel canto si è tramandato:
“Autu signuri cu ssa biunna testa mi fai cantari cu ‘na dogghia ‘ncori ma a ogni Santu veni la sò festa e a tia, signuri, viniri ti voli” “Alto signore dalla bionda testa Mi fai cantare con un dolore nel cuore ma ad ogni Santo arriva la sua festa e a te signore dovrà pur arrivare”
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I fratelli del tesoriere furono esiliati da Militello e da lì a poco la povera madre morì “suicida” per il dolore (o fu fatta morire?). Nel frattempo donna Aldonza stava segregata nella fredda cella in balia della più grande disperazione. Poiché la lettera velenosa era stata chiara e non andava verificata, l’ira continuava a offuscare la ragione. Don Barresi incaricò due sicari, Nicola Muxa e Bernardo Rimasuglia per concludere la tragica storia. La baronessa Aldonza fu soffocata con una tovaglia. Il suo corpo esanime giacque circondato dalla ferocia che man mano si placava. Il barone impose lo spegnimento di ogni lume e di ogni candela. Fu vietato a chiunque di uscire fuori dalle case del paese. Con la complicità del buio e dei vicoli deserti si voleva evitare che i sudditi vedessero uscire il corpo della baronessa. Verso le “ore due di notte” il corpo esamine della vittima, portato a spalla da alcuni castellani, uscì dal castello per essere seppellito nella chiesa di S. Antonio Abate, dove sorgerà accanto, dopo 250 anni, la chiesa di S. Maria della Stella. Era il 26 Agosto 1473, e la luna volle contraddire le volontà di don Antonio Piero Barresi. Era luna piena. Illuminando il corpo di Aldonza riuscì contemporaneamente ad oscurare agli occhi della popolazione il nome del carnefice. Il Vicerè nel timore che i fatti degenerassero con una lotta tra le due nobili famiglie, inviò un dispaccio ai Santapau per dissuaderli da ogni proposito di vendetta. La minaccia di una condanna a morte o il rischio della confisca dei beni non servì. La pace esaltata nel cognome di origine spagnolo della famiglia dei Santapau (=Santa Pace) era finita!
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Santa Maria la Vetere, la chiesa beneficiata dai Barresi, ridotta a rudere dal terribile terremoto del 1693
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Piano Duilio con il monumento ai Caduti di Andrea Manzella (1926) Foto Comune di Piazza Armerina.
Piazza Armerina
d ’autunno
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i sono città che nei mesi autunnali, quando non c’è il turismo di massa, quando le scuole sono aperte e i ritmi di vita sono quelli del lavoro, in giornate molto più brevi di quelle estive, acquistano un fascino particolare. Così accade a Piazza Armerina, capitale del turismo estivo nell’interno della Sicilia, ma meta sempre più richiesta del turismo cul-
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COMUNE DI PIAZZA ARMERINA
turale fuori stagione. L’autunno 2012, poi, il primo dopo la fine dei lunghi lavori di restauro della Villa del Casale, promette di essere particolarmente interessante per il turismo interno, ma anche per i sempre più numerosi turisti, soprattutto nordeuropei, che scelgono la Sicilia non convenzionale per trascorrere nel sud Europa i mesi più freddi nelle loro terre. La Villa, naturalmente, offre anche gli ultimi ambienti che in estate non
erano disponibili: l’appartamento sud con mosaici molto affascinanti come quello dei fanciulli che gareggiano con carrozzelle trainate da animali domestici ad imitare le quadrighe che correvano al Circo Massimo. I dati di affluenza dell’estate 2012 sono stati assai interessanti. Dall’inizio dell’anno al 30 settembre i visitatori al monumento patrimonio dell’Umanità sono già stati 260 mila, 15 mila in più di quanti non fossero stati nell’intero 2010
e quasi quanti quelli dell’intero 2011. A trascinare in alto, dopo 4 anni di crisi dovuti ai lavori di restauro e alla parziale fruibilità della Villa, i mesi di agosto e settembre quando i visitatori hanno superato le 40 mila presenze mensili, come accadeva prima dell’avvio dei lavori. Per ottobre si attendono almeno 30 mila turisti e, a fine anno, secondo le previsioni dell’Assessorato comunale del turismo, si potrebbero raggiungere i 320 mila visitatori, viatico per la soglia di 450 mila presenza fissata come obiettivo per il 2013. Ma sono le strade basolate del centro storico che, nelle giornate d’autunno, siano esse accarezzate dal tiepido sole di mezza stagione, o bagnate dalla pioggia, assumono un fascino del tutto particolare. Il centro storico non è pedonalizzato (questa scelta ne moltiplicherebbe l’appetibilità turistica), ma si può lasciare l’auto nella piazza Falcone e Borsellino, proprio a ridosso delle prime case della parte più antica della città. La strada più importante del centro storico, la via Garibaldi che,
prima dell’Unità d’Italia si chiamava Strada del Principe, è il centro commerciale naturale da secoli. In essa si trova anche una delle tappe del SiMPA, il Sistema Museale di Piazza Armerina: la mostra permanente della Civiltà Mineraria. Ospitata nella sede storica della Lega Zolfatai, il sindacato più rappresentativo dei lavoratori delle miniere all’inizio del Novecento, è oggi un piccolo museo unico nel suo genere. Sono trascorsi 109 anni da quando la sede fu acquistata dalla Lega e oggi i minatori superstiti, quelli che vi lavorarono fino agli anni Cinquanta (quando le miniere vennero chiuse), accolgono coloro che vogliono sentire dalla loro viva voce quale fosse la vita a centinaia di metri sotto terra, con lo zolfo nei polmoni. Nella piccola sede della Lega, infatti, gli anziani minatori di Piazza (ormai una decina) hanno voluto allestire una mostra permanente della civiltà mineraria mettendo a disposizione quello che conservavano nelle loro case: attrezzi come gli elmetti e le lampade ad acetilene, ma, soprattutto, cristalli di quel minerale che fu per migliaia di famiglie la fonte di un reddito su-
periore a quello dei contadini, ma, spesso, anche, la causa di terribili malattie respiratorie. Nelle sale sono esposti anche dei plastici, realizzati da uno dei soci, che ricostruiscono le “discenterie” e altri elementi importanti della miniera di zolfo. Una piccola mostra di grande interesse soprattutto perché il visitatore può ascoltare dalla viva voce di chi ne fu protagonista, storie e leggende legate alle miniere di zolfo di Grottacalda, di Floristella, di Baccarato. Poche decine di metri più avanti, sulla stessa strada, da metà novembre è aperta la “Casa della Cultura” e la Fototeca comunale intitolata ad Antonino Balbo, fotografo attivo in città all’inizio del Novecento. Qui hanno la loro sede alcune delle associazioni culturali più importanti tra quelle operanti in città, ma, soprattutto, sarà possibile visitare mostre di fotografie nella sala mostre allestita al primo piano. L’inaugurazione avverrà con una personale di Mario Noto, giovane fotografo piazzese, recentemente premiato dal successo in importanti gallerie in Lombardia.
Mosaici dell’abside sud dell’ambulacro della Grande Caccia. Foto Parco archeologico Villa romana del Casale.
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Anticamera del cubicolo degli appartamenti padronali sud- Foto Parco archeologico Villa romana del Casale
Anche in autunno la Città non rinuncia agli eventi. Il 4 novembre si festeggia l’Unità nazionale con la tradizionale posa delle corona al Monumento ai Caduti accogliendo, per la prima volta, la fanfara dei Bersaglieri che attraverserà le vie della Città al tradizionale passo di corsa.
Il presidente della Lega Zolfatai
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Lo stesso giorno presso l’azienda vinicola Gigliotto si festeggeranno i vini novelli siciliani con una manifestazione nata dalla collaborazione tra il Comune di Piazza, l’Istituto della Vite e del Vino della Regione siciliana e il Parco della Villa del Casale.
Una occasione unica per mettere insieme cultura ed enogastronomia in una terra sempre più votata all’accoglienza. Per informazioni turismo@comunepiazzaarmerina.it oppure 0935.98.22.46
Il fotografo Mario Noto
Arione e la lira - Ernest Hiolle
La poesia e la musica di Arione tra mare e stelle di Alice Pepi
O canoro Arione, si dice che Cinzia [Artemide] ammirasse spesso il tuo canto come quello di suo fratello [Apollo]
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uesto è il mito di un poeta, il racconto di un tuffo in un mare magico, che si snoda tra mille pericoli con l’agilità di un delfino e, accompagnato da una lira che suona, viene
Ovidio, Fasti (II, 89-90)
scritto in cielo dalle stelle. Elementi di incommensurabile bellezza sono contenuti in questa storia leggendaria che appartiene alla vita di un uomo, un viaggiatore vissuto nel VII secolo a. C.: Arione di Metimna, una delle cinque antiche città dell’isola di Lesbo. Arione visse a lungo a Corinto, alla corte di Periandro, il secondo tiran-
no di questa città, che, da raffinato mecenate lo tenne sotto la sua protezione. Ci riferisce Erodoto come Arione non fosse stato “inferiore ad alcuno” del suo tempo, e sicuramente non si sbagliava dato che fu il primo compositore di ditirambi. La sua poesia si inserisce infatti perfettamente nel passaggio dalla lirica monodica, che veniva recitata da
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un poeta che offriva i suoi versi con l’accompagnamento dello strumento della cetra, alla lirica corale, della quale facevano parte i canti per gli dei, come il peana proprio del culto di Apollo, il partenio dedicato ad Artemide e cantato da un gruppo di vergini, ed infine proprio il ditirambo. Quest’ultima antica forma di lirica corale greca, che nasce nell’ambito dei riti collettivi orgiastici consacrati a Dioniso, fu elevata da Arione a composizione poetica, e al suo interno il poeta introdusse il motivo satirico. L’introduzione dei satiri, creature dionisiache per metà uomini e metà animali, interpretate da attori che mettevano in scena una trattazione comica di un episodio mitico e che “pronunciavano parole in metro” recitato in contrapposizione al canto, traccia la strada all’ingresso nel mondo greco della tragedia. E se le origini della tragedia passano anche da Arione di Lesbo, sarà, forse per uno scherzo del destino, che la caratteristica principale della nascita di questo nuovo genere artistico, il passaggio dalla parola all’azione, l’evento non più narrato
Arione e il delfino
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ma interpretato, quasi vissuto, segnerà la trasformazione del poeta in personaggio, da regista ad attore di una meravigliosa avventura. Come in una fiaba, Arione lasciò la Corinto commerciale di quel tempo e spinto dalla curiosità dei grandi artisti andò in Italia e poi in Sicilia. In questa terra generosa, Arione accumulò molte ricchezze, tutte tributategli per i suoi trionfi poetici. Quando decise che fosse venuto il tempo di ritornare alla sua Corinto, fu proprio di una nave corinzia che si fidò per affrontare il suo ritorno in patria. La noleggiò a Taranto e con essa partì alla volta della sua terra natìa. Ma il nemico si nascondeva proprio fra la sua gente: a bordo i marinai corinzi complottarono contro di lui per impossessarsi dei suoi averi e gli intimarono, con le spade sguainate, di uccidersi gettandosi a mare. Airone, questa volta con il coraggio dei grandi artisti accettò, ma chiese di cantare il suo ultimo canto e di indossare le sue vesti da poeta, poi con la sua lira stretta al petto avrebbe compiuto l’estremo gesto. I marinai acconsentirono alle sue richieste, e Arione dopo aver espres-
so per l’ultima volta la sua arte poetica e aver pregato gli dei si tuffò fra le onde. Ma la magia era già avvenuta, la nave si era già trasformata da luogo di esecuzione a palcoscenico d’eccezione e da una condanna a morte stava per nascere una stella. Come spesso accade, nelle estreme difficoltà emergono gli amici e così in quel tuffo nel vuoto, con in braccio una lira e dentro al petto una passione che non si piega neanche davanti alla morte, la magica sorte sorrise ad Arione. Un gruppo di delfini aveva seguito la nave e con balzi amichevoli e giocosi si muoveva lungo la sua fiancata per ascoltare l’ultimo canto di Airone. Uno di loro, probabilmente un messaggero del dio del mare, Poseidone, prese in groppa il poeta e lo salvò portandolo fino in Grecia e precisamente a capo Tenaro, il punto più a sud della terraferma greca. Da qui Arione corse a Corinto dal suo protettore il mecenate Periandro, che attese il ritorno dei marinai pirati per interrogarli su che fine avesse fatto il poeta suo protetto. I marinai risposero di averlo visto
per l’ultima volta a Taranto, ma trovandoselo di colpo davanti con lo stesso abbigliamento con il quale si era tuffato dalla nave confessarono la loro colpa e furono condannati a morte. Arione tornò quindi al Tenaro e rientrato in possesso delle ricchezze siciliane dedicò a Poseidone un monumento raffigurante un uomo a cavallo di un delfino, rispettivamente un poeta e un amico affascinato dal suo canto. Potenza della musica, che seduce i delfini che salvano Arione e che per i greci aveva una valenza non soltanto emotiva ma prettamente volitiva: toccava le corde dell’anima e incideva sulla volontà degli uomini. E Apollo, il Dio della luce del giorno, della musica e della poesia, immortalò la potenza del significato di quel momento e creò la costellazione del delfino e quella della lira in onore dei due protagonisti. Un delfino e un poeta, valore e dignità umana e animale, che risplendono in un cielo che li disegna con le stelle, che ancora oggi ammiriamo e che stanno a ricordare Arione e il suo salvatore, qualcosa o qualcuno, o semplicemente la nostra piccolezza che tende all’infinito davanti all’universo.
Arione e il Delfino in un disegno del Durer
Arione in una incisione
Giulio Tribastone
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La costellazione del delfino è chiamata così proprio perché è formata da un gruppo di stelle la cui disposizione ricorda la sagoma di un delfino nell’atto di saltare. Si tratta di una costellazione piccola ma abbastanza visibile, specie in primavera ed estate. Se da un lato ricorda il mito di Arione lo sfortunato poeta musicista che visse alcuni anni in Sicilia dall’altro lato ricorda anche la furbizia di un astronomo siciliano dell’ottocento.. Ad ognuna delle stelle che formano la costellazione furono assegnate dei nomi usando le lettere dell’alfabeto greco. Tutto restò immutato finché nel catalogo stellare di Palermo del 1814 per la prima volta le due stelle più luminose alfa e beta comparvero con il nome di Sualocin e Rotanev. Nomi strani e misteriosi che nascondono un segreto. Se si leggono al contrario si formerà “Nicolaus Venator”. Si tratta del nome latinizzato di Niccolò Cacciatore, allora assistente del celebre astronomo Giuseppe Piazzi. I nomi delle due stelle suonavano come stranezze misteriose per gli studiosi, finché l’astronomo inglese Thomas Webb ne scoprì l’origine. Nel frattempo Niccolò Cacciatore ebbe la soddisfazione di essere il primo astronomo a vedere da vivo il suo nome “impresso nell’universo” all’insaputa di tutti.
iatore
E Niccolò scelse le sue stelle
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Imponenza e grazia dell’edificio
Veduta d’insieme
LA CHIESA BASILIANA DI CASALVECCHIO La figlia del medioevo, raffinata e gentile di Giuseppe Nuccio Iacono foto di Giulio Lettica
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uando la bellezza colpisce l’occhio e conquista il cuore si entra in qualcosa che sa di eterno. Il tempo passa e l’eternità resta. Di questa certezza ne ab-
biamo anche un esempio visibile tra le verdi colline dei Peloritani, nei pressi di Casalvecchio Siculo, un piccolo comune ad una ventina di km da Taormina. Il paesaggio è stato disegnato dal vento e dall’acqua. Col trascorrere del tempo, i venti hanno addolcito il profilo delle colline mentre i torrenti ne solcavano i fianchi. Un paesaggio suggesti-
vo per Natura ma che la fede dell’uomo ha reso affascinante per Vocazione. Come in una oasi felice, sulla sponda sinistra del torrente Agrò, si alza la splendida Chiesa basiliana dei SS. Pietro e Paolo. Su quel colle, questa figlia del medioevo, raffinata e gentile, continua ad innalzare le sue preghiere al cielo.
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Viste da lontano, le sue linee sembrano evanescenti ma, appena si giunge al suo cospetto, tutto si definisce e assume l’intensità del fascino. È una di quelle architetture che hanno la forza di catturare l’uomo anche per un istante. Ma è un istante che dura una eternità per le sensazioni che si provano. Si può essere credenti o atei ma nessuno potrà ignorare le parole sussurrate dalle sfumature delle pietre e dei mattoni, nessuno potrà essere sordo agli echi delle arcatelle cieche che si susseguono armoniosamente sulle pareti esterne. Nessuno può restare impassibile di fronte alla grazia della materia. In quest’angolo di Sicilia, l’asperità dei monti e la scarsità delle vie di comunicazione costituirono, già a partire dal IV secolo, un ambiente ideale per l’insediamento di alcuni monaci bizantini devoti a San Basilio. La chiesa dedicata ai SS. Pietro e Paolo, ha la pienezza dell’originalità che ritroviamo nelle chiese basiliane. Le tradizioni e gli stili delle architetture bizantina, araba e normanna si uniscono ma non si fondono.
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Interno. sullo sfondo l’abside
Portale laterale.
Qui i vari linguaggi sembrano fondersi ma restano indipendenti. Non accade cioè quello che possiamo notare nelle architetture normanne dove gli stili si fondono in un perfetto crogiuolo di culture arabe, greche, latine e nordiche. Quello che distingue il linguaggio della chiesa basiliana è l’aspetto coloristico che dona risalto ai prospetti. L’estasiante policromia trionfa grazie al sapiente uso di differenti materiali: tra i filari di mattoni rossi sono inseriti cubetti di basalto, pietre arenarie, lava, pomice, marmo rosa e ciottoli di fiume. Non solo. Se osserviamo bene notiamo anche che la disposizione dei mattoni cambia per diventare un ornamento a spina-pesce e a zig-zag. Il pittoresco è affidato anche all’intreccio armonioso e colorato delle arcatelle cieche che “vestono” le superfici di tutto il perimetro con la fantasia di un caleidoscopio. La struttura squadrata e “fortificata” è da una parte sottolineata dalle merlature che coronano l’edificio e dall’altra è ingentilita dalle scelte estetiche. L’accesso è garantito da un piccolo esonartece, in origine contenuto tra le due torri di facciata. L’interno stupisce per la sua assoluta austerità che non cede niente alle decorazioni. La semplicità e la purezza dell’ambiente però ritrova una energia indescrivibile nel gioco arioso dei mattoni. La pianta a tre navate è composta da quattro moduli (di cui due cupolati) e si conclude ad est con tre absidi. Lo sguardo verso l’alto offre la visione spettacolare di una copertura dalla sapiente soluzione formale e dalle tecniche costruttive arabeggianti. Basti osservare le archeggiature sovrapposte che sorreggendo la cupola ne innestano la base circolare all’impianto di forma ottagonale del tamburo.
Monofora
Particolare della colonna
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Particolare degli archi ciechi intrecciati nell’abside
Fondazione e Storia
Pare che l’attuale chiesa insista sui resti di una basilica fondata dai monaci basiliani, intorno al 560 e che, successivamente, le incursioni saracene distrussero. Secoli dopo, con un Diploma di Donazione del 1116, Ruggero II, accogliendo le suppliche dell’Abate Gerasimo, concesse ai monaci basiliani il permesso di ricostruire la chiesa. Poi, per poter sanare i danni subiti dall’edificio durante il rovinoso terremoto del 1169, fu incaricato un certo Gerardo il Franco (francese). I lavori di restauro e rinnovo, commissionati da Teostericto di Taormina, furono talmente importanti da essere ricordati nell’iscrizione incisa in greco sull’architrave del portale principale: “fu ricostruito questo tempio dei SS. Pietro e Paolo da Teostericto Abate di Taormina a proprie spese. Possa iddio ricordarlo nell’ anno 6680. Il capo mastro, Gherardo il Franco ”.
Il citato anno 6680 (equivale per noi al 1172) si rifà al calendario greco-bizantino che partiva dalla “presunta” data della creazione del mondo. Da quel restauro la chiesa è giunta a noi praticamente intatta. Poche tracce, invece, restano dell’antico monastero, noto per la sua biblioteca ricca di codici miniati, manoscritti e rare pergamene. La biblioteca fu “saccheggiata” dall’ingordigia degli spagnoli che trafugarono alcuni manoscritti di inestimabile valore. Parte del patrimonio è oggi custodito nella Biblioteca Regionale di Messina, mentre altri preziosi manoscritti miniati del secolo XI e XII si trovano in Spagna, nel monastero di San Lorenzo all’Escurial e presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Il monastero non era solamente un importante centro religioso e culturale. Era anche un centro di potere economico e politico. In base al Diploma di Ruggero II, i monaci erano esentati dalle tasse e potevano gestire i territori limitrofi, ben noti per la va-
rietà di colture, l’abbondanza di allevamenti, la diffusa presenza di mulini che fornivano ottima farina e la ricca produzione di vino e olio. E non è poco se poi a livello politico l’Abate di Casalvecchio era membro del Parlamento Siciliano. I monaci lasciarono il monastero alla fine del 1794 e si trasferirono nel convento dei Domenicani, a Messina. La causa fu riconducibile all’aria malsana dovuta all’impaludamento del fiume Agrò e ai miasmi causati dalla lavorazione del lino. Agli anni di abbandono seguì il deterioramento delle strutture. Finalmente negli anni ’60 si iniziò a prendere consapevolezza dell’ingente patrimonio e si avviarono le opere di restauro. Oggi quella chiesa, figlia del medioevo, raffinata e gentile continua ad accogliere i visitatori. La sua bellezza continua a colpire l’occhio e conquistare il cuore. È proprio vero che il tempo passa e l’eternità resta.
Iscrizione greca sul portale
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Particolare costruttivo di raccordo per la cupola di matrice araba.
Monaci orientali in Sicilia San Basilio Magno (sec. IV), il grande codificatore del monachesimo orientale, nacque in Asia Minore. A lui si attribuiscono le “regulae fusius traclatae” e le “regulae brevius tractatae”, che propongono una riorganizzazione della vita comunitaria e spirituale del monachesimo. In Sicilia, la presenza dei monaci basiliani si concentrò soprattutto nell’area peloritana. Con la fine della dinastia normanna e dopo la successiva parentesi federiciana che segnò l’arrivo (dal nord) nell’Isola di monaci cistercensi ebbe inizio un radicale cambiamento di quella che era la distribuzione degli ordini religiosi sul territorio. Nel XIV secolo, con la diffusione del monachesimo occidentale, sotto l’influsso dei francescani e dei domenicani, le comunità di tradizione orientale subirono un rapido declino. Si impose sempre di più la cultura latina in tutta l’Italia meridionale.
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Come si raggiunge
Per raggiungere la chiesa basiliana dei SS Pietro e Paolo, percorrere la strada provinciale 19 che da S.Teresa Riva, in provincia di Messina, conduce a Casalvecchio Siculo. Da qui, proseguire per altri 3 km fino alla piccola frazione di S.Pietro. Una stradina, in forte pendenza, porterà al cospetto di questo meraviglioso monumento che tanti siciliani ancora sconoscono.
Privilegi e poteri
Con il Diploma di donazione del 1116, Ruggero II concedeva ampi poteri e privilegi ai monaci basiliani sulla gestione del territorio “… al detto Monastero viene incorporato il villaggio di Agrilla posto entro il predetto confine con tutti gli uomini abitanti in esso, affinché facciano i servizi necessari al Monastero, vale a dire 24 giornate lavorative per la mietitura di qualunque cosa, 12 giorni per fecondare e seminare con l’aiuto dei buoi, donare due galline nelle festività della Nascita del Cristo e di Pasqua, pagare la decima di tutte le capre e dei maiali, essere giudicati e condannati sotto il dominio degli Abati del Monastero che hanno il potere cadendo in fallo, di legare e fustigare ed ammonire, riservando la pena dell’omicidio e dell’alto tradimento alla Curia della Maestà Nostra. Comandiamo ancora che il predetto Monastero abbia ogni anno dalla tonnara di Oliveti otto barili di tonnina e abbia una barca libera da ogni imposta e pagamento in tutti i porti della Sicilia per tutto ciò che viene trasportato a favore del Monastero. Inoltre vogliamo che gli animali di quello stesso Monastero siano esenti e liberi di pascolare in tutto il territorio di Taormina e di Troina. In più doniamo la chiesa di San Teodoro ubicata e posta nel territorio di Taormina, ed ancora una località nel territorio di Gaggi, presso il fiume Alcantara, in modo che il Monastero possa costruire un mulino ed avere il possesso dell’acqua dello stesso fiume, sempre fuori da alcun impedimento. …”
La facciata e la prospettica evoluzione di arcate cieche laterali
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L’evento Notte Bianca a Floridia
Le Pro Loco. Una risorsa per il territorio Siracusano
Intervista al Presidente dell’UNPLI Provinciale di Siracusa: Davide Gozzo
L di Vera Corso
a finalità delle Pro Loco rivolta alla valorizzazione storico-culturale, enogastronomica, ambientale e paesaggistica oltre a tutelare le specificità locali gettano le basi per una crescita sociale e contribuiscono a ricordare come i “patrimoni del territori” siano la risorsa economica principale del nostro Paese. Per una panoramica sull’argomento, abbiamo intervistato Davide Gozzo, presidente dell’UNPLI Provinciale di Siracusa. Se ne sente spesso parlare, ma non tutti sanno cos’è esattamente una Pro Loco, cos’è l’Unpli e cosa fa? Le Pro loco sono associazioni “No Profit” di promozione del territorio e del turismo che operano in tutta Italia da oltre un secolo, basti pensare che la più antica, quella di
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Pieve Tesino ha 131 anni; le origini sono da ricercarsi nelle “Badie” che anticamente organizzavano nei centri ogni genere di festività. L’Unpli è l’associazione che le coordina attraverso un consiglio nazionale, quelli regionali e quelli provinciali, all’interno dei quali sono rappresentate tutte le Pro loco iscritte. In Italia ci sono circa 6000 Pro Loco, in Sicilia 250, nella nostra provincia sono 15 e la gran parte sono “storiche”, nel senso che da decenni ormai si occupano con merito di eventi e anche della gestione di siti di interesse turistico. Ci piacerebbe molto incrementarne il numero per avere una copertura totale nella provincia di Siracusa. Come va il turismo nei centri minori in questo periodo di crisi? Volente o nolente l’andamento dei flussi turistici nei centri minori riflette quello nei centri maggiori, di conseguenza il periodo non è dei più rosei, ma c’è un turismo diverso, cioè quello locale, quello degli eventi e
delle tradizioni che è ancora vivace e continua a registrare tante presenze. La nostra sfida è quella di intercettare il turismo dei grandi centri per prolungare la permanenza nella nostra provincia, questo si può fare solo attraverso la sinergia tra istituzioni e associazioni di categoria. La Provincia di Siracusa ha potenzialità enormi; parliamo di possibilità di sviluppo dal basso in cui ogni siciliano possa mostrare e utilizzare quella vocazione all’ospitalità che ci distingue nel mondo. Mi riferisco anche al nostro patrimonio immateriale. Ci spieghi meglio qual è il Patrimonio Immateriale? Nel 2006 L’Unesco ha diramato la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio immateriale”, identificandolo nell’insieme di pratiche, rappresentazioni, espressioni conoscenze e saperi che le comunità, i gruppi e gli individui riconoscono come facenti parte del loro patrimonio culturale e che si tramandano di generazione in
generazione. È quindi l’insieme delle nostre più antiche tradizioni, degli usi, dei costumi, delle celebrazioni, tutte straordinarie, perché hanno origine in epoche diverse, quando c’erano altri governi, altri popoli, altre dominazioni. In ogni località della nostra isola ci sono delle particolarità, che presentate insieme all’offerta “classica”potrebbero far soggiornare i visitatori nella nostra provincia qualche giorno in più ed in diversi periodi dell’anno, realizzando quella destagionalizzazione che darebbe enormi benefici alla nostra economia turistica. A tal proposito l’UNPLI ha presentato una proposta di legge corredata da migliaia di firme per la Salvaguardia di questo patrimonio che può e deve essere una risorsa per tutto il settore turistico, soprattutto quello dei centri minori. Pensa che si possa fare turismo in un paese? Penso che in Sicilia il turismo si possa fare ovunque, basta offrirlo nel modo giusto, essendo consci delle proprie potenzialità, ma anche dei propri limiti. Faccio l’esempio del mio paese, perché è quello in cui ho una conoscenza diretta della quotidianità. Floridia architettonicamente non ha lo splendore di altri centri del Siracusano, né sono ancora venuti alla luce resti di epoche antiche, ma abbiamo tre particolarità che possono diventare occasione di sviluppo. La posizione geografica privilegiata, praticamente a due passi dal mare, da Pantalica, Siracusa, Avola, Noto, Palazzolo e così via; è una sorta di “base ideale” da cui partire alla scoperta del territorio siracusano, tanto che negli ultimi anni stanno nascendo le strutture ricettive che prima non c’erano. Un’altra peculiarità è la Festa dell’Ascensione con il suo Palio ultracentenario, che da qualche anno non si realizza più e che, rivisto e corretto, potrebbe richiamare decine di migliaia di visitatori, come faceva un tempo. Terza peculiarità, per la verità in comune con quasi tutti gli altri paesi del siracusano, sono le nostre “antiche trazzere”, le vie sterrate che portavano i carrettieri e i viandanti da un paese all’altro della provincia, ancora in buona
Il territorio ricco di potenzialità
parte praticabili a piedi e in bicicletta; il cicloturismo è in netto aumento ed è importante creare degli itinerari che coinvolgano Floridia, Siracusa e l’intera provincia. Qual è la difficoltà più grande che incontrate nella vostra attività? Non saprei dirgliene una in particolare, perché oggi chi fa volontariato ne incontra di varia natura. Il rapporto con le istituzioni per tutte le Pro Loco è fondamentale, molte hanno sede nei comuni dove gestiscono gli uffici di informazioni turistiche e curano il “servizio civile”. Alcuni confondono questa collaborazione con un’appartenenza politica. La nostra associazione per statuto deve essere apartitica e apolitica, quindi non può essere strumentalizzata da alcuno per fini diversi da quelli statutari e purtroppo capita che non sia così. A noi piace dire che in Pro Loco si entra “nudi”, senza simboli, senza etichette, ma con nome, cognome, idee e voglia di realizzarle; Le idee politiche devono essere lasciate a casa per rispettare la neutralità di un’associazione che è
una risorsa per tutto il territorio, non solo per una parte. Lei è presidente provinciale da pochi mesi, quali sono gli obiettivi futuri delle Pro Loco? Ogni pro loco è dotata di una propria autonomia decisionale e ognuna ha degli obiettivi nel breve e lungo periodo, come UNPLI sosterremo le iniziative delle singole Pro Loco provinciali, tutte quelle iniziative volte alla difesa e alla promozione delle tradizioni e del territorio. È capitato che alcuni di noi fossero soli in iniziative volte a difendere il nostro territorio contro vandalismo e speculazioni, questo non accadrà più, saremo solidali, ci saremo. Continueremo ad organizzare i nostri eventi e ne creeremo di nuovi, sia nei nostri rispettivi paesi di provenienza, sia nella nostra sede provinciale, l’EtnoMuseoLab di Solarino, una struttura magnifica, in cui abbiamo già organizzato vari eventi, tra cui LaborArte e “Una Notte al Museo” e che intendiamo mettere a disposizione del territorio.
Davide Gozzo
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Salvo Bordonaro
I sapori del nostro passato, fra tradizione cultura e valorizzazione del territorio di Beppa Orefice
L
o chef lentinese apre le porte del suo ristorante raccontando la sua cucina come percorso di scoperta delle sue radici, ma anche come luogo di connubio tra cibo, cultura, tradizione e valorizzazione del territorio che tanto ama. E’ autunno, anche se stamattina era ancora estate. In giro per la città di Lentini, è ormai l’ora
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di cena e mi fermo su Via Conte Alaimo, quasi in prossimità di un incrocio, davanti ad un ristorante il cui nome è sicuramente legato alla mia storia. “A Maidda”. Il ricordo di mia nonna che mi dice: -“Pigghia a maidda, ca ‘mpastamu u pani” è immediato. Entro e mi ritrovo davanti un grande forno a legna dove un fuoco vivace cambia continuamente colore emanando un gradevole profumo; mi viene incontro il padrone di casa, Salvo Bordonaro che mi invita ad entrare.
“Perché chiamare il ristorante a maidda?” - chiedo, e lui, sorridendo, mi chiede a sua volta: “Sa cos’è a maidda?,” e io : - “Certo!” e lui : “Ecco allora non le verrà difficile cogliere che io il mio ristorante lo vedo così, come quel contenitore dove si impasta, si lavora si elabora il cibo e con esso tutti quei valori gastronomici di un tempo che io sento il dovere morale di coltivare; viceversa a che pro cucinare? Il cibo non è solo un esigenza, è fonte di piacere, è ricerca, è soprattutto viatico per
una buona qualità della vita, ma anche desiderio di condivisione, di trasmissione ad altri della nostra storia, della nostre tradizioni.” Mi invita a visitare la sala e lì comincio a toccare con mano che le sue parole non solo sono vere, ma sono diventate oggetti, luoghi, profumi e quindi realtà: un ambiente ricco di magiche atmosfere, incastonato nel centro storico, dove si respira da subito l’essenza della più ricercata cucina siciliana. Lo scenario ideale per riassaporare gli antichi sapori siculi legati alla stagionalità dei prodotti, uno spazio intriso di sobria eleganza e calda accoglienza. All’interno del ristorante si possono assaporare le testimonianze delle colonizzazioni greche attraverso il tunnel, costruito ai tempi dell’antica Leontinoi, che immette nella saletta “roggetta”. È stato restaurato tra il ‘41 ed il ‘43, da una famiglia molto numerosa di agricoltori, che intendeva in questo modo mettersi al riparo dai bombardamenti; il tunnel porta a circa 10 metri sotto il livello della strada e la saletta è da considerarsi, un prezioso gioiello storico. Chiedo come è cominciata la sua attività e lui mi risponde in modo molto schietto: “Sono figlio d’arte io, mio padre era cuoco, era inevitabile….. Così come inevitabile è stato il mio incontro con Slow food; io sono uno dei cuochi dell’Alleanza, il progetto della grande rete solidale all’’interno della quale i cuochi stringono un patto con i produttori dei presidi di slow food, impegnandosi a cucinare e valorizzare i loro prodotti.” Parliamo di una rete di 1300 produttori che con il loro lavoro preservano grandi tradizioni gastronomiche a rischio estinzione: formaggi salumi di eccellenza, legumi e ortaggi rari, pani e dolci frutto di saperi antichi. I cuochi dell’alleanza uniscono il piacere di realizzare le pietanze alla responsabilità verso chi produce le materie prime. Per un cibo buono, genuino, naturale, pulito; da qui il privilegiare materie prime locali rispettando le stagionalità. Bordonaro ama chiacchierare con
Coda alla siciliana
Coniglio a’stimpirata
Crastuna (lumache) a lintinisa
Semifreddo alle mandorle
Biancomangiare al profumo di Sicilia
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i suoi clienti, e molto spesso organizza cene in cui propone antichi piatti contadini per il piacere di condividere e promuovere le nostre tradizioni. “Infatti - continua Bordonaro - oggi molti valori si perdono inseguendo schemi di vita che ci allontanano dalle nostre tradizioni gastronomiche. L’alimentazione rischia di perdere il fascino della tradizionalità oppressa dal mercato globale, dove usi, tendenze o ritmi e modi di vita ci fanno dimenticare l’importanza di certi sapori. Lentini era, al tempo dei Greci un’ importantissimo centro culturale ed economico. E del resto la gastronomia è un campo molto ampio, complesso e trasversale: attraversa diverse aree della conoscenza quali la storia, l’antropologia, l’economia, la politica. Attorno all’alimento, alla sua produzione ed al suo
consumo s’intrecciano le questioni più disparate. In più olfatto e gusto, i sensi maggiormente caratterizzanti il rapporto con il cibo sono sempre stati considerati quelli più vicini “all’animalità” e come tali più lontani dalla sfera umana “della ragione e dell’anima”. Traspare dalle sue parole la consapevolezza che la cucina è l’espressione culturale e sociale di un popolo segnato dalle sue origini e dai suoi istinti. Sarà per questo che la gastronomia siciliana in genere, rievoca da un lato la vocazione agricola dell’isola dall’altro il legame dell’uomo con il mare e si presenta come un viaggio fra i sapori più svariati frutto delle evidenti contaminazioni culturali dei popoli che si sono susseguiti nei secoli in Sicilia. La sua cucina protesa al rispetto dei cicli biologici stagionali, si basa prevalentemente su erbette spon-
tanee di stagione come sinapa, boraggine, finocchietto, segale selvatica e cardi selvatici. Impossibile non parlare del biviere, il grande lago-invaso che non vede riconosciuta la sua potenzialità turistica e naturalistica e che offre tanti spunti ai suoi piatti. I primi proposti sono rigorosamente di stagione: Pasta fresca con crema di finocchio, pasta con crema di zucca gialla, pasta con crema di sinapa, pasta fresca con zucchine e pistacchio di Bronte, tagliatelle ai porcini, linguine all’arancia rossa, spaghetti agli asparagi selvatici, pennette con cuori di carciofo, spaghetti con alici e finocchietto, risotto con borragine; i secondi sono i tipici piatti della Sicilia contadina di un tempo: il coniglio selvatico alla stimpirata, i crastuna(lumache), la coda alla siciliana, la trippa alla crosta, involtini al pesto siciliano, le rane....
Sala Roggetta
Segnalato da:
“a maidda”
Ristorante Via Alfieri 2 - Ang. via C. Alaimo Lentini (Sr) Tel. 095 941537 - 339 7760134 www.amaiddabordonaro.it
http://www.amaiddabordonaro.it/inside-sicilia
Palazzo Scammacca XVIII sec. oggi palazzo di città - F. Rosaria Privitera
Lentini la grande
« Gli uomini retti sono onore e ornamento della città, del corpo lo è la bellezza, dell’anima la saggezza, dell’azione la virtù, del pensiero la verità. »
L
(Gorgia da Lentini, incipit dell’Encomio di Elena)
di Giulio Tribastone
entini la grande. Grande per la sua storia, per la sua economia, la sua tradizione e per i personaggi cui diede i natali. Una città che andrebbe rivalutata e promossa di più. Questa cittadina, posta alle pendici dei monti Iblei, nella Piana di Catania, è circondata da un territorio ricco di agrumeti. A poca distanza, fluiscono le linee del Biviere (Lago di Lentini) e ad appena 12 km, si trova il mare che qui portò una delle prime colonie greche di Sicilia. Un motivo per investire sul turismo la città lo porge su un piatto che non è d’argento… bensì d’oro puro. E bisogna essere ciechi per
non vederlo a portata di mano. Spetta solo agli uomini di oggi coglierne i tesori evidenti, nascosti, dimenticati o peggio abbandonati. Per fortuna non mancano iniziative anche di privati e imprenditori che, in vari campi, puntano sulla riqualificazione dei tanti aspetti di eccellenza che insistono sul territorio. Lentini la grande è anche Leontinoi, la città fondata dai coloni greci, provenienti da Calcide, sotto la guida di Teocle (730 a.C.). Nell’area archeologica, si può immaginare la potenza di quella polis dove fioriva il commercio insieme alla grande cultura. Lentini la grande fu la città di personaggi illustri. Qui, intorno al 483 a.C. nacque Gorgia, che fu
discepolo del filosofo Empedocle e di Corace e Tisia. Fu un abile ambasciatore, viaggiò molto e le sue lezioni di retorica furono ambite e pagate a peso d’oro. Si dice che la sua fama lo rese ricchissimo ma che alla morte lasciò solo una modesta somma. Probabilmente ebbe tutto il tempo per consumare le sue fortune visto che morì più che centenario a Larissa di Tessaglia, verso il 380. Tra altri personaggi si ricorda anche Erodico, il medico del V sec. a.C. che fu autore di alcune opere scientifiche e sostenitore della ginnastica medica (simile alla moderna aerobica). Nel medioevo, la città si distinse nuovamente per aver dato i natali a Jacopo da Lentini intorno al 1210. Sarà un grande tra i grandi: funzio-
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nario di fiducia dell’imperatore Federico II e ammirato da Dante per essere uno dei massimi esponenti della Scuola poetica siciliana. Viene oggi universalmente riconosciuto come l’ideatore del sonetto. Sempre nel XIII secolo, in questa città nacque Riccardo da Lentini. Presso la corte di Federico II, fu architetto militare e preposto ai castelli realizzati in Sicilia. La lista degli uomini illustri proseguiva poi nei secoli successivi. Lentini la grande è anche culla di religiosità. Colpisce il fervore e la tradizione di fede che ha trovato la propria espressione in varie chiese, riti e feste. Tra le varie e interessanti chiese da visitare, basta citare la Chiesa Madre. Qui è custodito il venerato sepolcro di Sant’ Alfio e sull’Arco trionfale una scritta dichiara che la Chiesa lentinese riconobbe Maria, Madre di Dio, prima del Concilio di Efeso. Lentini la grande è anche la città delle arance rosse. Arance che si differenziano per il colore della polpa che varia dall’arancio scuro fino al rosso vivo. Tra le varietà più conosciute coltivate nella zona il Tarocco, il Moro e il Sanguinello hanno ottenuto la certificazione IGP. Lentini la grande è anche la città del pane. Un pane che viene lavorato e confezionato con una cura particolare perché portatore di sapore e genuinità. Se dovessimo poi addentrarci nel campo delle delizie gastronomiche non finiremo mai di scrivere. Va da sé che questa città grande, non per dimensioni ma per storia e tradizioni, non può che ambire ad entrare in un circuito turistico di qualità. Il volere è potere…. oppure… il potere è volere?
I resti di Leontinoi- Foto Rosaria Privitera
Sepolcro di San Alfio chiesa madre foto Rosaria Privitera
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La tradizione della famiglia Peluso risale a circa 300 anni fa, quando gli antenati intrapresero l’attività di allevatori e commercianti di bestiame nei monti Iblei. L’azienda nasce ed è tuttora attiva in contrada Aguglia nel comune di Noto; gestita dai fratelli Salvatore e Leandro, porta avanti antiche tradizioni di allevamento del bestiame, apportando continui miglioramenti attraverso l’introduzione di nuove razze. La macelleria inaugurata dal padre Nello Peluso, oltre alla normale vendita di carni è specializzata nella lavorazione degli insaccati, utilizzando per la preparazione degli stessi antiche ricette e segreti tramandati dalla tradizione, ovviamente usando carni provenienti dal bestiame della propria azienda. Tra le specialità proposte ai clienti: la famosa salsiccia di Palazzolo nella versione asciutta o fresca, salami, lardo, capocollo e gelatina.
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Buscemi - panorama
BUSCEMI, PAESE-MUSEO, PICCOLO SCRIGNO DI CULTURA IBLEA di Enza Trigila - foto di Stefano Frassetto
“Io non aspiro alla gloria di farmi leggere dai facili ammiratori d’una letteratura che delira in strofe arcaiche, o sbadiglia in prosaici sonetti…, bensì scrivo per quei lettori che amano conoscere la vita intima del popolo, e per coloro che alle tradizioni popolari si accostano come a preziosi avanzi del passato, come a resti di antiche mitologie”.
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on queste parole, Giuseppe Pitrè, nell’introduzione al volume “Spettacoli e feste popolari siciliane”, mette in evidenza gli scopi di una riscoperta globale del patrimonio culturale del popolo, proprio perché promuovere, comunicare e
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valorizzare questo aspetto etnoantropologico equivale ad affermare l’identità di un territorio. L’interesse scientifico e documentario per la cultura popolare, supportato anche dalla riflessione antropologica degli Atenei siciliani,ha affermato l’esigenza di organizzazione, gestione e conservazione dei beni etnoantropologici, dando così origine ad un ricco e vario circuito
museale siciliano. Questo recupero della cultura urbana ed agro-pastorale è stato compiutamente concretizzato a Buscemi, piccolo borgo agricolo in provincia di Siracusa, arroccato su un colle da cui domina la splendida valle dell’Anapo, terra ricca di storia. Dal 1988, grazie ad un’accurata attività di recupero di un gruppo di giovani, supportata dall’Associa-
zione per la Conservazione della Cultura Popolare degli Iblei e dal Comune di Buscemi, questo paese offre al visitatore un nuovo percorso attraverso “I luoghi del lavoro contadino”. Si tratta di un caratteristico ed interessante museo diffuso sull’intero centro urbano, attraverso un itinerario etnoantropologico, di indubbio interesse paesaggistico, che si
insinua attraverso i vicoli e le stradine del quartiere medioevale, con i suoi palazzi settecenteschi e con le sue chiese barocche. Proprio per questa tipologia museale, singolare esempio in tutta l’Europa, Buscemi ha acquisito la particolare definizione di “Paesemuseo”. La prima unità museale è costituita dalla putia ro firraru, la bottega
del fabbro, situata in una grotta artificiale, probabile ipogeo cristiano, dove fino a qualche decennio fa l’abile artigiano forgiava le sue creazioni: l’angolo degli attrezzi, il mantice a pedale, la forgia sono gli oggetti rappresentativi di questa ambientazione. U parmientu e u trappitu costituiscono i punti di riferimento di una passata realtà economica,
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Un angolo dell’antico borgo
luoghi di lavoro particolarmente articolati, basati sull’impiego di operai specializzati. Il palmento, struttura in pietra bianca risalente agli inizi dell’Ottocento e conservata nella sua integrità, si caratterizza per la presenza di un torchio in legno e di una vasca di pigiatura che testimoniano le fasi della pigiatura dell’uva; particolare interesse rivestono il torchio arcaico, di probabile età greca, risalente al I sec. a. C., e la mostra permanente, che ripercorre il processo di lavorazione e le tecniche di trasformazione dell’uva, dal periodo greco ai tempi più recenti. La casa ro massaru e la casa ro iurnataru ci offrono un segno tangibile dell’articolazione socioeconomica della classe contadina: dal confronto di queste due strutture abitative emerge una diversa condizione sociale ed esistenziale; agiatezza, da una parte, estrema povertà ai limiti della sussistenza, dall’altra. La casa del massaro, tipica abitazione del pic-
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colo possidente ed espressione del ceto medio del mondo contadino della Sicilia orientale, comprende quattro vani: nell’ingresso si trova u cannizzu, il canniccio, alto contenitore di canne intrecciate, a forma cilindrica, usato per conservare il frumento, preservandolo dall’umidità; troviamo ancora una collezione di collari per bovini ed ovini, nonché vari attrezzi di lavoro ed unità di misura. La cucina conserva un fascino particolare con la tannura, il focolare in pietra, e il piano in muratura con diversi utensili come piatti e forme in antica ceramica di Caltagirone, attrezzi per la preparazione del pane. A stanza ro tilaru, la stanza della tessitura, costituisce la testimonianza del ciclo di lavorazione nella tessitura popolare, dalle materie prime, come piante di lino e canapa, agli attrezzi di tessitura (gramola, cardo, spatola, fuso, telaio, ecc,) e alle tecniche di tintura del filato. Nella ricostruzione ambientale della camera da letto la culla sospesa sul letto matrimoniale, il
baule contenente il corredo portato in dote dalla sposa, le vecchie foto di famiglia, i giocattoli, gli abiti antichi evocano valori attorno ai quali si svolgeva la vita familiare. Ma, soprattutto, si respira il sentimento religioso popolare, che traspare da immagini votive, come i bambineddi fatti di cera, la cui duttilità conferisce espressività ai tratti del viso, plasmati in diversi atteggiamenti gestuali, significativa testimonianza dell’antica tradizione dei maestri cirari. Attraverso vicoli e cortili si giunge alla casa del bracciante, a casa ro iurnataru, dove si riflette in modo eloquente la condizione di vita dei braccianti salariati siciliani fino agli anni Cinquanta del XX sec.: una struttura abitativa monolocale, caratterizzata dall’essenzialità degli arredi, un spazio angusto che annullava ogni forma di intimità. Altre unità museali sono rappresentate dalla putia ro falignami, dalla bottega del calderaio, espressione della lavorazione del rame, basata sulla martellinatura a fuoco, dalla
bottega ro scarparu, nella quale sono esposti anche gli attrezzi del r’appuntapiatti, cioè del concia brocche. Il frantoio, u trappitu, attualmente sottratto alla fruizione pubblica, è ubicato in un antico luogo di culto bizantino. La sezione dedicata al ciclo del grano con il laboratorio didattico basato sull’uso degli attrezzi per la confezione del pane, la sezione di arte popolare, il Centro di documentazione della vita popolare iblea, il mulino ad acqua Santa Lucia, situato nel territorio comunale di Palazzolo Acreide costituiscono le ultime tappe della nostra visita. Attraverso questa esperienza l’attento visitatore avrà sicuramente ricalcato, con interiore coinvolgimento, questo antico contesto, avendo l’impressione di cogliere, attraverso il fluire del tempo, le scene e l’operosità della vita quotidiana, i rituali stagionali, i momenti salienti di un semplice gesto. E in una scenografia ovattata di fascino antico, a Buscemi, il tempo sembra essersi veramente fermato! Uno dei tanti vicoli suggestivi del borgo
57 Edifici - luoghi di antichi mestieri
ARTigianato
di Gianni Iacono
F
Nomi ri Ddiu, accuminzamu st-autra iurnata! (In nome di Dio, cominciamo un’altra giornata!)
ilatura, tessitura, tintura, sfilato e ricamo erano occupazioni tramandate da madre in figlia per il confezionamento della biancheria necessaria nella casa. Attività comunque fondamentale per preparare il corredo che costituiva la dote matrimoniale. Prima di filare o tessere, le donne invocavano S. Agata e S. Anna e dopo un Pater nostro e una Ave Maria si facevano la croce con la spola. Le contadine tessevano pure la lana e preparavano il “ciddizzu”, tessuto col quale si facevano i calzoni e le giubbe degli uomini. Con la lana realizzavano anche le “frazzate”, ruvide coperte. Le contadine più agiate invece
preparavano la “cotonina”, coperta imbottita e cucita a mano. Quelle più povere dovevano accontentarsi delle “cappe”, coperte grossolane tessute con spago e cenci ritorti. In alcune case si procedeva anche a tingere il filato con semplici espedienti: si immergeva il panno greggio nella caldaia e il rosso si otteneva con l’infuso di ruggine; il giallo con curcuma; il verde con foglie di tassia e verderame; il violaceo-blu si otteneva con il vino. Tra gli elementi utilizzati per fissare il colore e renderlo lucido si usavano la calce viva e l’allume. L’arte dello sfilato era (e continua ad essere) una delle espressioni più alte della tradizione iblea. Si impreziosivano sottocoppe, salviettine, tovaglie, centri da tavola, servizi da the, cuscini, lenzuola, coperte, colletti, camicette, vestiti, ecc. Si di-
stinguevano tre tipi di sfilato in base al tipo di lavorazione e allo stile: lo sfilato ‘400 (praticato soprattutto nella zona di Comiso) il cui disegno rappresentava specialmente animali, pupazzetti e soggetti figurati, chiusi quasi sempre in campo quadrato; il ‘500 e il ‘700 tipici di Ragusa con disegni più raffinati e elaborati; e il raro e particolare ‘500 di Vittoria. La tela più comunemente usata era il puro lino e su di essa si riportava il disegno. Si sfilavano poi alcuni fili della tela per ottenere una rete e ricoprendo “a cordoncino” i fili rimanenti si formava la cornice per il disegno. Oltre agli sfilati ragusani, alcune donne riuscivano a produrre preziosi merletti e tra questi ultimi vi era quello che imitava l’antichissimo e pregiato “merlettu ranni”, portato nella contea dagli spagnoli.
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Donna Antonia non tardò ad interrompere la vedovanza e, con essa, quella apparente pace con i figli.
Scicli - la via M.Penna dove si trova l’Archivio Storico Opera Pia Carpentieri
L’inaudita storia della lacrimevole vita dell’ afflitta Donna Francesca Lucifora della città di Modica di Giovanni Portelli
Prima Parte La narrazione trae ispirazione da un documento pazientemente trascritto da Giovanna Giallongo e conservato presso l’Archivio Storico dell’Opera Pia Carpentieri di Scicli. I personaggi e gli avvenimenti appartengono alla realtà. Una realtà che supera la fantasia..
E
ra il dicembre del 1737 quando Donna Francesca Lucifora decise, finalmente, di recarsi a Palermo. Vendette quel poco di mobili che le era rimasto e partì verso la capitale portando con sé un faldone di carte, alcune scritture di famiglia che era riuscita a sottrarre dalla casa paterna e un memoriale di
quella che era stata, fino ad allora, l’inaudita storia della sua lacrimevole vita. Descritto sul frontespizio come un breve riassunto, in realtà, quel memoriale era una lunga, quasi interminabile, storia che iniziava nel 1709, anno in cui passò all’altra vita il padre, Don Carlo Lucifora, e giungeva, dopo un turbinio di assurde vicende, fino a quando Francesca, oramai consunta e ridotta in estrema miseria, volle chiedere giu-
stizia a Sua Maestà il Vicerè. Don Carlo, uomo previdente e saggio, poco prima di morire aveva lasciato l’immenso suo capitale ai tre figli, Teresa, Giovanni e Francesca, e affidato alla moglie Donna Antonia il compito di amministrare tali beni sino a quando i tre rampolli non avessero raggiunto la maggiore età. Nel caso in cui, però, la moglie, si fosse risposata, la tutela sarebbe passata al co-
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gnato e al fratello del povero Don Carlo. Quello che sembrò all’uomo un giusto ed equo passaggio di beni si rivelò, in verità, l’inizio di un tormento che non ebbe mai più fine. Donna Antonia non tardò ad interrompere la vedovanza e, con essa, quella apparente pace con i figli. Dopo ripetute minacce, costrinse i due tutori a rinunziare al loro incarico e cacciò via, pure, la madre di Don Carlo, Donna Anna, che, nel frattempo, aveva chiesto di prendersi cura dei nipotini. Per le sue forti influenze sulla Gran Corte convinse i giurati a farsi nominare tutrice dei bambini e, ben presto, cominciò a rivelare il suo perfido disegno. Fece sposare Teresa con Don Antonino Carpentieri della città di Scicli, liquidando ogni sua futura pretesa con una dote di 1700 onze. Quindi fece rinchiudere Francesca, di appena sei anni, nel Venerabile Monastero di San Martino a Modica, assumendo l’impegno di pagare nove onze all’anno per il mantenimento. Ma pare che Iddio Signore avesse pietà della fanciullina e mai la
dell’Opera Pia Carpe ntieri, Scic li
anche la madre che, nel frattempo, aveva fatto alleanza con Giovanni, l’altro figlio oramai divenuto diciottenne. I due escogitarono, così, di intimare Francesca al pagamento di un esoso credito che la madre vantava di avere sull’eredità, in realtà non dovuto. Non potendo, però, la giovinetta pagare quella somma, il procuratore, sottomesso alla volontà di Donna Antonia, ordinò che la tenuta della Gufara, spettante in realtà a Francesca, passasse alla madre. Il primo dicembre di quello stesso anno, Francesca, giunta all’età di 14 anni, s’accasò con Don Vincenzo Giardina, uomo molto più grande di lei e pur più timoroso. Donna Antonia pare che avesse provato alquanto dispiacere per la notizia, ma non per questo perse tempo a ricomporre le forze e l’astuzia. Così non passarono due giorni dal matrimonio che fece recapitare al novello sposo la cedola del decreto che le assegnava il possesso della Gufara. Don Vincenzo dapprincipio saltò in furia ma, poi, prevalse il timore di affrontare una donna così caparbia, una mege-
il retro
Il manoscr itto origin ale del m emoriale - Archivio Storico
chiamò alla divina vocazione. D’altro canto la madre preferì impiegare l’annuale somma che doveva al Monastero per altre sue necessità. Così, dopo diversi anni di insolvenza e, giunta ormai, senza alcuna provvista di abiti né di biancheria, per ordine del Vescovo di Siracusa, Francesca venne cacciata dal Monastero. Rifiutata dalla madre, dovette rifugiarsi a casa dello zio, Don Placido Lucifora, dove rimase per un anno e mezzo. Per tutto quel tempo, pare che Donna Antonia vivesse in una profonda inquietudine, nel timore che i due potessero tramare contro di lei. Così, un giorno, andò a riprendersi quella sfortunata e, per convincerla che sarebbe stato sempre meglio vivere dentro il Monastero, la tenne per quattro mesi chiusa dentro uno stanzino di casa, con poco cibo e proibendole di parlare persino con la servitù. Alla fine di quella dura prova Francesca tornò al Monastero. Ma, ancora una volta, Iddio Signore non volle chiamarla tra le sue professe. Della scarsa volontà di Francesca a rimanere dentro le mura del Monastero si rese conto
icli tieri, Sc Carpen era Pia dell’Op Storico rchivio riale- A Memo ina del copert
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Archivio Storico dell’Opera Pia Carpentieri, Scicli
ra che, forse, solo un esorcismo avrebbe potuto sconfiggere. Il buonuomo scelse così, di accontentare la giovine moglie e di acquietare, nel contempo, i propri timori. Domandò, perciò, la nullità di quell’improbo provvedimento, senza profferire minaccia d’altro ripiglio. Nel giorno seguente, mentre Don Vincenzo, poco dopo mezzogiorno, si dirigeva dal piano della Chiesa di Santa Teresa verso casa sua, cinque forti scoppi squarciarono l’aria, per un po’ ammutolendo le stradine dell’intero rione. Quelli che a pochi sembrarono i botti di una festa, in realtà furono cinque infuocate palle sparate da una carabina che, fischiando e tuonando, colpirono il Don Vincenzo in altrettante distinte parti del corpo. Fu nuovamente Iddio Signore a provvedere e a lasciare ancora tra i penitenti in terra l’anima di quel Don Vincenzo. Alle
urla del poveretto, caduto al suolo e sanguinante come un colino, nessuno accorse per un po’. Si sentirono solo i passi di un fuggitivo che si allontanava in opposta direzione. Questi fu fermato, da lì a poco, e condotto in gendarmeria dove venne trattenuto in arresto. Si trattava di un brutto ceffo, tale Francesco Calvo, alias Matteo, già noto per altri episodi delittuosi. Il fatto poi che il Calvo, notoriamente, non riusciva a serbar segreto d’alcuna forma, spinse Donna Antonia e il figlio a scrivere a certi loro amici di Siracusa per trovare riparo a quella loro nuova e incauta impresa. Gli amici vennero a Modica assieme ad alcuni ufficiali tedeschi che, allora, alloggiavano nella città di Siracusa con le loro famiglie. Per otto giorni presero tutti dimora nella casa di Donna Antonia quasi vi avessero installato un presidio militare. Di fronte a questo inatteso
dispiegamento di forze, il commissario generale di Sua Eccellenza, dottore Rosario Frangipane, e tutta la Venerabile Gran Corte Criminale della città di Modica non tardarono a mostrarsi riverenti nei confronti di Donna Antonia e dei suoi amici forestieri, e così sospesero ogni indagine che avrebbe potuto compromettere la posizione giudiziaria della donna con il figlio. Gli amici consigliarono di addivenire presto ad un accordo con l’uomo sopravvissuto al feroce e mal riuscito agguato. La comprensibile riluttanza di Don Vincenzo a presentarsi davanti a quella che era ormai diventata la causa delle sue principali disavventure, venne facilmente superata da due degli ufficiali tedeschi inviati a prelevare l’uomo. Pare, infatti, che ai due alemanni non mancassero modi per convincere persino i tipi più ostinati. Scortato dai due ener-
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Donna Francesca lasciò il convento e si sposò all’età di 14 anni.
Veduta del castello di Modica in una litografia del 1830 di Cuciniello e Bianchi.
gumeni, che a noi piace immaginare alti, baffuti e panciuti, Don Vincenzo si presentò davanti a Donna Antonia e a tal gran consiglio di amici. Qui, i siracusani non trovarono ostacoli a proseguire l’opera dei due ufficiali stranieri e indurre l’uomo ad accettare le loro volontà. Si dice, infatti, che, con preghiere e con minacce, persuasero Don Vincenzo a concedere la remissione al sicario che l’aveva ferito e, in cambio, avrebbe avuto il tanto desiderato possedimento della Gufara. Piacque o non piacque, Don Vincenzo tornò a casa con la promessa di divenire, presto, padrone della tanto agognata, quanto stramaledetta, Gufara, ma senza che nessuno pagasse per quei pallettoni che gli avevano arroventato e forato il corpo. Dopo un mese, Don Vincenzo tornò dalla donna per chiederle quanto era stato pattuito. E, qui, non trovò l’agnellino che aveva lasciato il mese prima, ma, rivide la vipera che sempre aveva conosciuto. Donna Antonia Celestre cominciò, così, a urlare e ad inveire quasi davanti a lei non si trovasse l’infelice marito della propria figlia ma le fosse apparso il diavolo in persona. Piuttosto, la donna rivendicò i beni dotali di cui l’uomo si era impossessato. A seguito di questo nuovo litigio, ed in virtù del potere esercitato dalla donna sugli uomini della Giustizia, il meschino venne fatto arrestare con un pretesto. Per sette mesi l’uomo rimase in galera. Ebbe tutto il tempo per ravvedersi e, alla fine, scagionare per sempre il sicario che aveva attentato alla sua vita. In più si convinse di lasciare perdere gli interessi della moglie perché solo guai avrebbero portato alla sua già miserevole esistenza. Ma l’inaudita storia della nostra Donna Francesca non finì qui perché altre e ingrovigliate vicende si susseguirono prima che Sua Maestà il Viceré chiedesse ai giurati di fare vera Giustizia.
- Fine Prima Parte 64
PROPRIETÀ SALUTISTICHE di un buon bicchiere di vino
Dott. Vincenzo Longo, Responsabile della Sezione di Pisa dell’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria, CNR
P
ERCHÉ IL VINO FA BENE?
Un moderato consumo di vino, se inserito nella dieta mediterranea, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e l’incidenza delle malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer. Il vino, consu-
mato in dosi moderate, interviene attivamente nel metabolismo di grassi, zuccheri e proteine. Nella composizione chimica notiamo che il vino presenta vitamine del gruppo B, come la B2 o riboflavina, implicata attivamente in reazioni antiossidative del metabolismo. Il vino interviene anche nella stimolazione della secrezione del succo pancreatico, favo-
rendo quindi l’assimilazione di oli e grassi. Altre importanti caratteristiche risultano l’apporto di iodio all’organismo da parte dei vini soprattutto di produzione costiera e l’apporto di potassio da parte dei vini ricchi di acidità, che predispongono l’organismo per una più efficace eliminazione di urati stimolando proprietà diuretiche. La presenza di cromo è in grado di stimolare la pro-
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duzione d’insulina diminuendo l’insorgenza di patologie diabetiche. Inoltre il vino risulta ricco di fruttosio, uno zucchero monosaccaride con la proprietà di non essere insulino-dipendente, risultando quindi non dannoso anche per i soggetti diabetici. Il glucosio infatti, altro zucchero presente nel vino, viene utilizzato nel processo di fermentazione alcolica del mosto e la quantità risulta notevolmente ridotta in particolare nei prodotti con presenza minima di residuo zuccherino, quelli genericamente definiti in fase di degustazione come “secchi”. IL VINO PUÒ ESSERE INCLUSO IN UNA DIETA? Il vino fornisce apporto calorico: non dobbiamo dimenticare che il vino presenta un rilevante contenuto di alcool, che varia dal 5% al 18%. L’alcool, nel suo metabolismo, è in grado di produrre circa 7 kcal per 100 gr. In una dieta ipocalorica (dimagrante) che può andare dalle 1200 alle 1700-1800 kcal giornaliere possono essere contemplate 100-200 calorie dal vino, senza alterare i rapporti tra glucidi, lipidi e proteine. Ai soli fini dell’equivalenza energetica il dietologo-nutrizionista potrebbe quindi paragonare un bicchiere di vino a 30 g di pane o a 100 g di vitello magro. Tuttavia le calorie dell’alcool non possono essere utilizzate direttamente per il lavoro muscolare o per fini plastici, come accade per gli altri nutrienti, ma contribuiscono al metabolismo di base con una contropartita di risparmio rispetto al consumo dei carboidrati, dei grassi e delle proteine. COME AGISCE IL VINO NEL NOSTRO CORPO? La sensazione di calore che segue all’ingestione del vino esprime non tanto l’immediata utilizzazione energetica dell’alcool, quanto la sua azione far-
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macologica di attivo vasodilatatore periferico. Il vino aiuta la digestione: l’alcool contenuto nel vino stimola la secrezione salivare che, grazie ad un enzima chiamato ptialina, ha l’importante compito di prima digestione del cibo ingerito e di scissione di componenti complessi, come ad esempio l’amido. Il vino esercita poi importanti azioni stimolanti dell’intestino, aumentandone la capacità elastica e di assorbimento, che favorisce di riflesso una diminuzione del fenomeno di stitichezza. Viceversa, i soggetti che soffrono di colite, trarranno vantaggio dall’assunzione di vini ricchi di tannino che astringe e tonifica la muscolatura intestinale, compresa quella del colon. Il vino ha proprietà antisettiche nell’apparato gastrointestinale, fluidifica il sangue e stimola la bile contribuendo alla digestione dei grassi. Riduce il rischio di malattie cardiovascolari: diversi studi dimostrano che l’alcool contenuto in 2-3 bicchieri di vino è in grado di esercitare un’azione protettiva sul sistema cardiovascolare, inoltre ci sono le proprietà dei polifenoli contenuti nel vino, in particolare del transresveratrolo, che hanno potere come antiossidanti e quindi modulatori dei processi di invecchiamento cellulare, regolatori, dei livelli di colesterolo e quindi, ad azione antiarteriosclerotica. I polifenoli posseggono anche proprietà antiinfiammatoria ed antitumorale. Tutte le potenziali attività benefiche del vino sono mediamente prevalenti nei vini rossi rispetto ai vini bianchi. La differenza tra il vino rosso e quello bianco consiste nel fatto che il primo contiene una maggiore concentrazione (circa 20 volte) di composti fenolici e tra questi, di flavonoidi che hanno mostrato avere effetti biologici molto potenti, da 10 a 20 volte superiori a quelli della vitamina E, nel contrastare il meccanismo di innesco del processo arteriosclerotico.
L’onza e la sua stabilità
di Gianni Morando
N
el mondo antico esisteva il baratto e nelle società pastorali la prima moneta circolante fu la pecora, da cui pecus = pecunia. L’invenzione del denaro risale forse ai Sumeri, circa 6.000 anni fa, con l’adozione dei metalli preziosi, tenuti custoditi come controvalore di una moneta fittizia, ma le prime monete coniate in metallo (erano monete anche le verghe bollate) nacquero fra le isole e le sponde del mar Egeo con lo sviluppo del grande commercio, estendendosi in gran parte del mar mediterraneo. Le prime monete siciliane risalgono alla nascita delle colonie greche in Sicilia. Le prime a battere moneta furono le colonie calcidiche Naxos, Zankle e Himera. A Casal Lupino la moneta usata in occasione di grandi transazioni commerciali (tenimenti di case, feudi, schiavi, bestiame) fu certamente il carlino, messo in circolazione nel 1269 da Carlo d’Angiò, ma la moneta utilizzata nelle decime papali (1275 – 1280), come moneta di conto, fu l’onza , che di fatto non esisteva. Nelle decime del 1308 e 1366, si pagava principalmente con i carlini, seguiti a distanza dai fiorini e più raramente dai ducati e dalle doppie. Dai documenti si evidenzia il grave fenomeno delle monete false (carleni de ere, ferro et plumbo) o raschiate (carleni mali ponderis). La prima onza d’oro apparve in Sicilia nel 1736, sotto il regno di Carlo
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12 tarì con effige di re Ferdinando III di Borbone
30 tarì con effige di re Ferdinando III di Borbone
di Borbone. Non è facile determinare il valore dell’onza rispetto alla moneta di oggi, per la diversa valenza dei beni in epoche così diverse. Per esempio una pecora ha una valenza diversa nel mondo antico e nel complesso contesto economico moderno. Nei riveli di Chiaramonte del 1748, si trova che l’oro del ricchissimo Pietro Burgio fu valutato 4 onze per oncia (peso). Un oncia (peso) siciliana corrispondeva secondo la legge del 1809 a circa gr. 26,5. Oggi un’oncia d’oro (peso) vale, arrotondando, 400 euro (15 euro al grammo). L’antica onza equivale, quindi, a circa 100 euro, se calcolata attraverso l’oro. Se il calcolo si fa attraverso una pecora d’oggi (100 euro) ed una pecora antica (6 tarì), l’onza assume il notevole valore di 500 euro. Chi pensa che la svalutazione monetaria sia un fenomeno ineluttabile, connesso ad ogni tipo di economia, resterà sbigottito nel constatare che nella contea di Modica il valore dell’onza rimase immutato nei secoli. L’onza è la moneta siciliana riscontrata in tutti gli anni dei riveli. Un’onza = 30 tarì. Un tarì = 20 grani. Un grano = 6 piccioli. Questo confronto è stato effettuato attraverso i dati dei riveli compresi fra il 1593 ed il 1748, analizzando gli stessi beni. Il confronto si è fatto comunque con cavalli, muli, pecore, maiali e alveari, iniziando dal 1593 fino al 1748, tempi assolutamente omogenei fra loro. Si è così constatato che un mulo valeva 11 onze nel 1593, 12 onze nel 1607, 12 onze nel 1651, 10 onze nel 1748, tenuto anche conto delle oscillazioni derivate dall’età dell’animale, dalla sua tipologia (di barda o di sella) e dalla razza. I vascelli d’api (alveari) valevano 6 tarì
Regno di Sicilia, Carlo di Borbone, oncia oro 1736
sia nel 1593, sia nel 1748. Una pecora valeva 6 tarì nel 1593 e 7 tarì nel 1748. In pratica l’onza mantenne un valore costante nell’arco 155 anni! Periodo compreso fra i riveli del 1593 e quelli del 1748. Il periodo di stabilità dell’onza si è potuto estendere anche fra il 1736 e il 1814 attraverso il peso delle monete d’oro ... rimasto invariato. L’Oncia d’oro di grammi 4.40, con l’effige di Carlo di Borbone, fu emessa nel 1736, (un anno dopo la conquista della Sicilia). Nel 1814 il terzogenito di Carlo, Ferdinando III re di Sicilia, fece coniare la moneta d’oro da due once, il cui peso era esattamente doppio della precedente (grammi 8.80), confermando la stabilità dell’onza nell’intervallo di settantotto anni.
Altre monete d’argento del Regno di Sicilia furono il dodici tarì, il sei tarì, il quattro tarì, il tre tarì, il due tarì, il tarì ed il mezzo tarì. Le monete nei sottomultipli grani e piccioli furono coniate esclusivamente in rame.
Pochi giorni prima della sua scomparsa, Gianni Morando ha voluto inviare alla nostra redazione una serie di articoli auspicandone la loro pubblicazione. Grati per la sua fattiva collaborazione e anche per ricordare la sua nobile e colta figura, diamo e daremo seguito al suo desiderio.
Le perle bianche delle bufale
Chi ha gusto non dovrebbe rinunciare al sapore del buono di Monsù Gaetano d’Albafiorita
E
proprio in questo concetto che rientra pienamente e “a tutto tondo” (è il caso di dirlo) quell’inconfondibile sapore antico e genuino delle mozzarelle che nascono dal latte di un insolito e raro bovino che pascola nei campi siciliani da diversi lustri. Secondo alcuni studiosi, pare che questo generoso quadrupede di corporatura massiccia, di colore scuro e dal pelo rado e corto sia ritornato in Sicilia da dove si era assentato, per varie vicissitudini, per tanto, tanto e tanto tempo. Stiamo parlando del bufalo italiano, il Bos Búbalus, appartenente alla famiglia dei bovidi e originario dell’Asia, preci-
samente dell’India orientale. Non ci è dato sapere con precisione l’esatto periodo in cui fece il suo “ingresso” in Italia. Secondo alcuni, bisognerebbe risalire al periodo longobardo. Ma questa ipotesi, collegata al tempo delle invasioni barbariche è poco credibile (…una bufala si direbbe oggi!). Una ipotesi attendibile e sostenuta da più parti, invece ci riporta al periodo del dominio arabo in Sicilia. In questo caso sarebbero stati i Saraceni a trasportare i bufali in Sicilia. Poi, intorno all’anno 1000, i Normanni li avrebbero introdotti nell’area meridionale della Penisola. È proprio nei loro domini calabresi, campani e pugliesi che si stabilirono importanti allevamenti di bufali e si consolidò la relativa produzione casearia.
Di recente, alcuni studi, basati sul ritrovamento di fossili sul suolo italiano mettono in discussione persino l’origine asiatica del nostro bufalo. Tutto ciò per una chiara diversità filogenetica tra quello italiano e quello indiano. Lasciando le disquisizioni sul pe-
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riodo che videro i fieri zoccoli calpestare i campi nostrani, ciò che certamente più importa è che oggi è possibile vedere in Sicilia, allevamenti di primissimo ordine. E non è certamente un caso se da quel freschissimo latte di bu-
fala si ottiene una gustosissima mozzarella dalle eccezionali caratteristiche organolettiche. Delle vere perle bianche per impreziosire di bontà i piatti in una tavola ricca di fantasia. Chi non ha ancora provato la moz-
zarella made in Sicily, si perde quelle vibrazioni di sapore e quelle rotondità di profumo che ben conoscono i palati raffinati. D’altronde, è vero, “chi ha gusto non dovrebbe rinunciare al sapore del buono”.
Le prime testimonianze sulla mozzarella di bufala risalgono al XV secolo.
La mozzarella di bufala è un formaggio da tavola di pasta filata molle derivato da latte intero di bufala. Come si evince da antichi documenti, in origine la “mozzarella” era chiamata semplicemente “Mozza”. “Mozzarella” quindi sarebbe un diminutivo, direi un vezzeggiativo gastronomico. Il termine derivava proprio dalla fase finale del processo di lavorazione, quando con l’operazione detta “mozzatura” si separava l’impasto in piccoli pezzi (mozze). La parola “Mozzarella” la ritroviamo per la prima volta nel 1570, in un libro di cucina di Bartolomeo Scappi, uno dei cuochi più famosi della corte papale. L’autore del trattato “diresse” le cucine vaticane sotto Pio IV e Pio V e fu noto anche per essere un grande intenditore di formaggi. Oltre a citare la parola mozzarella per la prima volta, il suo libro è conosciuto anche perché tra le migliaia di ricette include anche la prima raffigurazione conosciuta di una forchetta.
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corso d’immagini generato da scatti che hanno catturato e immortalato il lato più vero dei siciliani, si vuole restituire alla Sicilia la sua centralità culturale e sociale contro facili stereotipi, luoghi comuni e accostamenti che ne banalizzano la profonda ricchezza. Un progetto che si fa carico dell’eredità scomoda di un popolo, segnato da una storia fatta di domini e conquiste, che ne ha scolpito la vera sensibilità e il modo tutto suo “d’essere siciliani”. Si offre così uno spaccato dell’isola e dei siciliani che
se ne sono allontanati. Uno spaccato originale che rientra in quella che è stata definita “nuova sicilianità”: un nuovo modo di sentirsi siciliani e di trasmettere la propria sicilianità al mondo. Lontani da quell’indolenza, alterigia, egocentrismo e disimpegno con cui spesso è stato descritto il siciliano (basti pensare al Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa) oggi non c’è più posto per l’autocommiserazione e per il siciliano lagnusu, ma solo per quell’orgoglio dei Siciliani rispetto alla propria
gi” erica Og , re di “Am , diretto ua italiana in USA o e in rt a , Andrea M giornale in ling rthwood ale a “No Jersey. uso il più diff nella sede centr w e N to fotografa
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Dr. Luca di Sicco, Professore presso “London College of Fashion”
arito r”. n il m ta co ent banke fa a r g , foto e “investm Oddo m Verga lavora co e e ir e v Des ra, do d n o aL
Giusepp e che vive Madonia, Artista a Berlino p del anni remiato, ottanta.
Melissa D ak a tenth Ave a, chef e giornalista sul tetto d nue New York. el suo cond om
inio
terra e alle proprie radici. Parte di questo cambiamento è sicuramente attribuibile a quanti, lasciando la propria terra, hanno visto il “continente” oltremare, l’altra faccia del mondo, e sono stati in grado di risvegliarsi dal sonno millenario di un popolo troppo spesso definito pigro e logorato da “quell’oscillazione fra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amor di clausura”, come l’ha definita Gesualdo Bufalino. Un risveglio che porta automaticamente a prendere le distanze da
quell’idea sbagliata di Sicilia mafiosa che i siciliani portano ancora come segno indelebile, come un peccato originale difficile da cancellare. Ecco perché il cuore del progetto non è l’antimafia né la lotta alla mafia. Da qui la scelta del titolo NonSoloCoppola. La coppola è, infatti, un particolare modello di cappello che nell’immaginario collettivo riconduce appunto all’idea di una criminalità tipica del sud Italia, siciliana soprattutto. In questo progetto si vuole, dunque, evitare questo paragone perché i veri
protagonisti sono i siciliani, i Siciliani nel mondo e i Siciliani della Sicilia. Quindi una Nuova Sicilianità, un nuovo modo di ripensare all’essere Siciliani attraverso le foto di quei figli di Sicilia a volte dimenticata dai media ma che contribuisce, come ogni buon cittadino, alla crescita del paese.
Le foto fanno parte della mostra itinerante ospitata in varie città italiane ed estere.
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ArchitettAndo negli Emirati Arabi
Intervista all’architetto Roberto Rao di Riccardo Lo Giudice
R
o b e r t o Rao, giovane architetto trapanese che vive tra Catania e Londra è uno di quei siciliani che all’estero si distinguono per la tenacia e la professionalità. Negli ultimi sei anni ha lavorato, insieme al suo studio KW
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Group e in collaborazione con l’azienda Gda di Catania, in uno dei luoghi più attivi del mondo: gli Emirati Arabi Uniti. Quella degli Emirati Arabi è un area molto particolare per clima e cultura, ma soprattutto per il carattere innovativo della sua architettura contemporanea, per le “nuove isole” e le strutture tecnologiche di nuova concezione.
Come e’ nata l’idea di andare a lavorare negli Emirati Arabi? E’ stato un misto di pura casualità, intraprendenza e incoscienza. Le possibilità offerte da Dubai o Abu Dhabi sono uniche e singolari, quindi era un’occasione da non perdere e di fondamentale importanza per me e il mio studio, per mettersi alla prova e poter acquisire nuove conoscenze.
Rocco Forte hotel terrace- Abu Dhabi
Garden Al Riyadh Tower
Che tipo di lavoro avete svolto ad Abu Dhabi? Un lavoro entusiasmante che ci ha arricchito per la particolare esperienza. Ci siamo occupati di landscape design e interior design, e tra gli Emirati Arabi e l’Oman siamo riusciti a realizzare progetti unici: il Giardino del Rocco Forte hotel di Abu Dhabi con relativo roof top garden e piscina, il giar-
dino per le ville di alcuni sceicchi di cui non posso fare i nomi, il giardino e l’interior design degli uffici Bridgeway sempre ad Abu Dhabi, progetti per alcuni grattacieli a Dubai, il parco del Radisson blu hotel di Sohar in Oman e giardini per impianti industriali di grandi dimensioni. I progetti sono stati numerosi soprattutto per il landscape a cui gli arabi tengono molto. Abbia-
mo realizzato progetti di verde pubblico e privato anche in paesini, in pieno deserto vicino la storica località di Al Ain. In questo caso la principale difficoltà era quella di creare un impianto di irrigazione che sostenesse tutto il progetto e la scelta di piante resistenti al clima, riducendo il consumo di acqua. Quali sono stati i problemi da
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dover superare per riuscire nel lavoro che avete svolto? Le difficoltà sono state tante, sia per la diversa cultura che per la lingua, abbiamo cercato di trovare il canale giusto per collaborare con le aziende locali e soprattutto con i clienti. Abbiamo cercato di portare lo stile italiano coniugandolo con la cultura araba, che anche noi siciliani conosciamo, per la storia che ha caratterizzato la nostra isola. Le difficoltà possono essere tante ma con un buon team si riesce a fare tutto. Il punto di forza, infatti, del KW Group è chiaro: ci occupiamo tutti di cose diverse, in modo da poter coprire a 360 gradi il campo lavorativo. Paesaggio, interior design, architettura e grafica sono i quattro elementi su cui definiamo il nostro lavoro. Durante il primo periodo ad Abu Dhabi ho analizzato i materiali esistenti sul campo e studiato gli stili in uso. È interessante constatare come le ceramiche turche ricordano quelle di Caltagirone; come alcune pietre e marmi per la pavimentazione sono simili alla pietra di Siracusa o di Trapani. Abbiamo cercato di ridurre le difficoltà, trovando legami con la nostra cultura. Che caratteristiche hanno i vostri progetti? Le parole d’ordine nel nostro lavoro sono design, fattibilità e sostenibilità sin dai primi progetti fatti in Italia, sia per il landscape che per l’interior o gli oggetti di design prodotti da noi. Nel progetto per il Rocco Forte hotel, abbiamo pensato al recupero delle acque di irrigazione in esubero sul tetto dell’edificio; nei progetti per i grattacieli di Dubai è stata fatta una ricerca applicata su come abbassare le temperature nello spazio esterno del basamento del palazzo grazie all’uso di fontane, alberi e materiali naturali; i progetti inoltre sono
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basati sull’uso di materiali a Km zero, abbattendo i costi di produzione e spedizione e dando lavoro soprattutto ai piccoli artigiani. Uno dei progetti più intraprendenti, fatto per la municipalità di Muscat in Oman, tratta la realizzazione di un parco acquatico in un area centrale della città occupata da un bosco di Mangrovie. Il parco urbano si basa sulla rigenerazione vegetale garantita dall’uso di piante locali, sull’inserimento di attività sportive e strutture per la ricezione turistica ma soprattutto
sulla comunicazione. Le informazioni sul luogo e le attività grazie all’uso di smartphone o tablet sono facilitate dall’inserimento di una rete wi-fi direttamente nel parco. Qui tecnologia e natura che convivono. Un progetto simile lo avevamo gia’ fatto per un parco siciliano, ma senza successo. La crisi ha intaccato il tuo lavoro e quello del team? Posso affermare che lo studio può essere definito come un team contro la crisi. Ogni componente del
Rocco Forte hotel terrace- Abu Dhabi
Radisson hotel Oman.
gruppo fa anche altro nella vita, ha un proprio lavoro. Riusciamo a collaborare anche grazie ad Internet. Non abbiamo uno studio fisso, insomma non è uno studio canonico, e forse questo ci aiuta a creare una struttura fluida, una piattaforma internazionale in grado di svolgere nella completezza il lavoro, dal concept fino alla realizzazione dell’opera. L’idea fondamentale è sapersi rinnovare, soprattutto in periodo di crisi. Ricordo che per il progetto del Radisson blu hotel di Sohar era-
Radisson hotel Oman
vamo tutti in posti diversi; chi a Catania, chi a Reggio Calabria, ed io e due miei collaboratori tra Sohar ed Abu dhabi. Questa e’ stata forse la più grande sfida ma il risultato è stato di ottima qualità. Quali sono i prossimi movimenti? Stiamo lavorando sui prossimi progetti, l’idea di continuare nel campo dell’hospitality ci alletta molto anche per progetti italiani; giusto a fine luglio abbiamo completato la ristrutturazione di
due piccoli edifici di inizio 900 a Valderice, nel trapanese, da adibire a casa vacanze e tra poco inizieremo la realizzazione di una villa nella stessa zona con l’inserimento di un biolago. Continueremo a lavorare, da buoni testardi e intraprendenti siciliani, sicuramente puntando sempre un occhio all’estero. La crisi si è fatta sentire anche a Dubai ed Abu Dhabi. Forse la prossima tappa sarà il Brasile o sarà l’Asia: la Cina è in pieno sviluppo.
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foto di Dudnikova Elisa
La cultura europea mangiò gelato da Procopio
Un primato siciliano nel cuore di Parigi
di Giuseppe Nuccio Iacono
L
“
e Procope” di Parigi, conserva il suo primato: è il più antico caffè e la prima gelateria d’Europa. Fondato dal siciliano Francesco Procopio dei Coltelli, oggi è uno dei più prestigiosi ristoranti di Parigi oltre ad essere la meta di chi desidera un “rendez-vous” con la storia.
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Procopio de’ Coltelli nacque a Palermo il 9 febbraio 1651 e trascorse i primi anni ad Acitrezza dove il nonno pescatore dedicava il tempo libero alla sperimentazione di nuovi procedimenti per perfezionare il gelato e all’invenzione di una rudimentale macchina per preparare sorbetti. La neve dell’Etna garantiva la materia prima e, la tradizione arabo-sicula di far sorbetti ispirava la ricerca. Alla morte del nonno, Procopio raggiunse gli obiettivi: scoprì una nuova ricetta per i gelati e realizzò un
macchinario per produrli. Il segreto fu l’utilizzo di due elementi opposti: il sale e lo zucchero. Mescolando il sale marino al ghiaccio, si poteva tenere sotto controllo sia la temperatura della gelatiera che quella del recipiente che conteneva il gelato. La ricetta del gelato fu rivoluzionaria: utilizzò lo zucchero al posto del miele, rompendo con una secolare tradizione e ottenendo una consistenza del tutto nuova. Ma la genialità di Procopio andava oltre alla produzione di sorbetti e gelati
in grande quantità. L’inventore era riuscito a trasformarsi in promotore del suo gustoso prodotto. E pensando alla commercializzazione, all’età di 19 anni, abbandonò la sua attività di pescatore per conquistare il palato di Parigi. Nella capitale, dimostrò di essere un vero antesignano del moderno marketing. Dopo aver aperto un “Café”, inventò una personalissima formula di promozione: ogni giorno, inviava un gruppo di collaboratori da lui as-
soldati, affinché raccogliessero per la città ogni tipo di notizia (politica o di cronaca) per poi riportarle in anteprima tra i frequentatori del suo locale. Praticamente un vero “giornale orale” offerto ai clienti che qui ritornavano incuriositi anche per le ghiotte prelibatezze. I gelati giunsero anche a Versailles dove inebriarono le “papille sovrane” di Luigi XIV che, con una “Lettera Patente”, concesse a Procopio l’esclusiva per la preparazione di gelati e sorbetti.
Questo riconoscimento e il crescente successo fecero del “Café Procope” uno dei locali alla moda più frequentati di Parigi Nel 1686, per far fronte alla crescente affluenza, Procopio dovette trasferirsi nei più ampi locali di rue des Fossés-Saint Germain, nei pressi della “Comédie Francaise”. Passarono (è il caso di dirlo) di “bocca in bocca” gli elogi per quei deliziosi gelati e sorbetti che serviti in bicchierini erano annunciati con i nomi di “acque gelate”, “fiori d’ani-
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ce”, “fiori di cannella”, “frangipane”, “gelato al succo di limone”, “gelato al succo di arancio”, “sorbetto di fragola”, “cremolade” . Non fu più necessario inviare ragazzini per le vie di Parigi, alla ricerca di notizie più o meno piccanti, dolci o salate. Oramai era “chez Procope” che nascevano le notizie. Da qui si diffondevano le idee e si delineavano anche le anteprime della Storia.
ultimo scritto della regina Maria Antonietta
Bicorno di Napoleone
Nel frattempo, anche la vita coniugale di Procopio fu piuttosto “produttiva”: dal primo matrimonio (1675) con Margherita Crouin nacquero ben otto figli; dal secondo matrimonio (1696) con Anna Francesca Garnier ebbe altri quattro figli e in terze nozze (1717), da Giulia Parmentier ebbe un unico figlio… Non si sposò per la quarta volta e non ebbe altri figli semplicemente perché la morte lo colse il 10 febbraio 1727. Non ci è dato sapere se la fortuna accumulata da Procopio si sciolse come neve al sole per l’incapacità degli eredi o se invece fu suddivisa in tanti segmenti. Di certo sappiamo che durante la Rivoluzione divenne il Cafè Zoppi e fu teatro di altri importanti avvenimenti politici. Nel corso del ‘700 si erano qui condensate le idee liberali e la storia si muoveva nelle salette insieme a La Fontaine, Rousseau, Voltaire, Balzac, Hugo, Diderot, D’Alembert, Sand, De Mousset. Lo stesso Ben-
Antico barometro nella sala Lafayette
jamin Franklin preparò al Procope il progetto di alleanza tra Luigi XVI e la nuova Repubblica. È nel Cafè Procope che si riunivano alla vigilia della Rivoluzione i “Montagnards”. Tra i tavoli dove sedevano Robespierre, Danton e Marat si alzarono le prime parole d’ordine per l’attacco alle Tuilleries del 20 giugno e del 16 agosto 1792. In una delle salette dove Guillotin l’inventore della ghigliottina aveva “perso la testa” per i sorbetti, si conserva ancora oggi come ironia della “mala sorte” un biglietto autografo di Maria Antonietta. Si tratta della copia della pagina di un libricino di preghiere dove la regina scrisse le sue ultime parole. Un tragico addio rivolto ai figli il mattino stesso della sua esecuzione: “16 Ottobre [1793], alle quattro e mezza del mattino. Mio Dio abbi pietà di me! I miei occhi non hanno più lacrime per piangere per voi, miei poveri figli! Addio, addio! Marie-Antoinette”. E tra le reliquie storiche, in una teca incorniciata si conserva il famoso copricapo di Napoleone. Il giovane tenente Bonaparte un giorno non potendo pagare le consumazioni dovette lasciare in pegno il suo bicorno ai proprietari. Tra gli stranieri assidui frequentatori del Procope si ricorda l’esiliato Oscar Wilde e il catanese Vincenzo Bellini che si compiaceva nel ricordare le origini siciliane del Procope.
Foto di Groume
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Aperto tutti i giorni - Unico locale in tutta la Sicilia dove si serve la KUROGE WAGYU-KOBE BEEF, la carne di manzo più pregiata al mondo. - Vini cileni, argentini, sudafricani, spagnoli e siciliani - Tra i piatti del ricco menù la mitica paella a 5 stelle - Tipica e allegra atmosfera ritmata da musica latino-americana - Scarica il menù inviando un sms al 320-2041288 con scritto: info tutto cantinita (al costo di 1 sms) - Connessione wifi gratis - Possibilità di prenotare per feste private (laurea,compleanno,addio al celibato)
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Foto Chiara faggella Foto Chiara Faggella
Il sapore panato e fritto
Un piatto tipico che è…Masculu o fimmina di Monsù Gaetano d’Albafiorita
A
rancino o arancina…sarà maschile o femminile? questo è il dilemma linguistico che da tempo vede contrapporsi due scuole di pensiero. Diciamo subito che questa specialità gastronomica a Palermo e nella Sicilia occidentale è “fimmina” …mentre a Catania e nella Sicilia orientale è “masculu”. Secondo lo scrittore Gaetano Basile il genere esatto è quello femminile perché il nome deriverebbe dalla forma di “arancia” che ha. A questa teoria, si oppongono invece gli studiosi che sottolineano come in Sicilia, al contrario di
quanto accade in Italia, i nomi dei frutti sono spesso indicati con un maschile”. Arancia è per l’appunto “aranciu”. Poiché, in questo momento sto scrivendo da una località della Sicilia orientale, userò il genere maschile: “arancino”. Non ne abbiano a male i Palermitani. Anche sulla forma di questo rustico dorato vi sono alcune annotazioni: l’arancino deve essere tondo oppure deve essere allungato a cono? Anche qui c’entra la geografia. Nell’area orientale la forma più diffusa è quella allungata a cono mentre, nel resto dell’isola si predilige la forma sferica. “Masculinu” oppure “fimmininu”, tonda o a punta? Sono solo quisquilie. Non importa sapere quale
sia il termine esatto e quale sia la forma ideale e originaria. Ciò che conta è il gusto di questa prelibatezza, vanto della cucina siciliana. Un alimento divino che troviamo caldo e fragrante in tutte le rosticcerie, friggitorie e nei bar siciliani. In alcuni casi la sua presenza e il suo profumo danno l’idea di sicilianità. Non è un caso se la parola “arancino” risulta essere la più citata nei traghetti. Nello Stretto di Messina, viene così gustata con il sapore di “benvenuto” per chi arriva nell’isola e con la nostalgia di un “arrivederci” per chi va via verso il “Continente”. Benché la ricetta classica preveda un ripieno al ragù, oggi si possono trovare arancini con una vastissima varietà di condimento.
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Si passa dai ripieni in chiave marinara (pesce spada, seppie, gamberetti, salmone, ecc…) a quelli vegetariani (melanzane, spinaci, funghi, formaggi, ecc…) a quelli leggeri al burro fino ad arrivare agli arancini dolci. Ma quale è l’origine di questo manicaretto? Di certo possiamo affermare che l’arancino concentra un insieme di ingredienti che portano alla memoria la cultura gastronomica di varie dominazioni. Per cui possiamo affermare che quando mangiamo un arancino è come se mangiassimo un po’ di storia. L’origine si fa risalire agli Arabi che portarono nell’Isola il riso e lo zafferano ed erano noti per la preparazione di polpette di riso condite con carne tritata e verdure.
Successivamente l’arancino si perfezionò sempre più con l’aggiunta di nuovi ingredienti. Gli Spagnoli introdussero il pomodoro che importarono dall’America (il nuovo continente fu una grande scoperta per la cucina mediterranea!). I Francesi poi, elaborando la carne con il pomodoro e le verdure diedero vita al ragù che portato in Sicilia ebbe le sue varianti locali. Esiste anche una storia leggendaria sull’arancino che ci riporta ai tempi degli Arabi. Si narra che il cuoco dell’emiro Ibn At Timnah, era continuamente osannato e ben pagato dal suo signore per la preparazione di una pietanza a base di riso, carne e verdure. Il piatto era servito sempre in un vassoio d’oro e veniva posto al centro
della tavola così che i commensali potessero servirsene con le mani (non esistevano le forchette ancora). Poiché l’emiro era spesso impegnato in battute di caccia, lontano dal suo palazzo, il cuoco escogitò un modo per non privarlo del suo adorato risotto anche in quelle occasioni. Per consentirne un agile trasporto, trasformò il piatto preferito dell’emiro in grosse polpette che impanate e fritte assunsero la forma delle prime arancine. Il cuoco devoto, venne così premiato a dovere e gli fu offerta una immensa somma di denaro che gli permise di aprire una friggitoria e fare fortuna a Palermo o… a Catania (citiamo entrambe le città per evitare di aprire un altro dilemma tra Sicilia occidentale e orientale).
Interessante la descrizione degli arancini, in uno dei racconti di Andrea Camilleri, avente come protagonista il Commissario Montalbano. “Gesù, gli arancini di Adelina ! Li aveva assaggiati solo una volta: un ricordo che sicuramente gli era trasùto nel Dna, nel patrimonio genetico. Adelina ci metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta. Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si prìpara un risotto, quello che chiamano alla milanisa (senza zaffirano, pi carità !), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini gna poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pì carità di Dio !). Il suco della carne s’ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s’assistema nel palmo d’una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell’altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d’ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta e alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano !”. Tratto da “Gli arancini di Montalbano”
E le arancine fan festa - Grandmother
La ricetta
Ingredienti Gr. 500 di riso, 1 cipolla, ½ carota, gr. 400 di polpa di vitello tritata, gr. 250 di piselli, gr. 150 di concentrato di pomodoro, 1 tazza di brodo vegetale, 1 ciuffo di prezzemolo, 1 costa di sedano, alcune foglie di basilico, gr. 100 di burro, 1 bustina di zafferano, gr. 100 di formaggio grattugiato, 4 uova, gr. 200 di mozzarella, gr. 150 di farina bianca, gr. 400 di pangrattato, olio extravergine di oliva, sale, pepe, abbondante olio per friggere. Preparazione Fare appassire in una capiente casseruola la cipolla, finemente tritata con la carota, in 4 cucchiai di olio. Aggiungere al soffritto il trito di vitello e i piselli. Dopo qualche minuto, unire il concentrato di pomodoro diluito nel brodo caldo in si aggiunge un trito di prezzemolo, sedano e basilico. Aggiustare di sale e pepe e cuocere il tutto per 30 minuti, finché il ragù sarà diventato abbastanza denso. Cuocere il riso in acqua bollente salata e scolare abbastanza al dente. Lasciare raffreddare. Incorporare al riso il burro, lo zafferano sciolto in un cucchiaio di acqua, il formaggio grattugiato, 2 uova e mescolare il tutto. Ricavare dal riso cosi preparato delle polpette grosse come una piccola arancia. Formare una cavità al centro di ogni arancino e riempirlo con un poco di ragù e un pezzetto di mozzarella, chiudendo il buco con del riso. Passare gli arancini nella farina, poi nelle uova sbattute e infine nel pangrattato. Lasciarle riposare qualche minuto e friggerle in abbondante olio bollente, scolarle su carta assorbente da cucina e servirle caldissime. Foto Francesco Zaia
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“Unni ta fattu a stati,
va fatti u mmiernu”
R
di Saro Sallemi e Andrea Cascone
ecitava cosi un celebre detto siciliano, ancora oggi attualissimo ed utilizzato da molti di noi per vari motivi… sicuramente non è facile adattarlo alla nightlife ragusana, soprattutto riguardo al capoluogo e zone limitrofe. Non esiste, o non sembra assolutamente degna di nota, nessuna struttura in grado di reggere i ritmi della movida per 365 giorni l’anno. Siamo profondamente diversi dalla mentalità nordica, dove i locali lavorano spesso dieci mesi l’anno e sono gli stessi a gestire, nei due mesi estivi, strutture alternative che facciano comunque riferimento alla location
invernale, una sorta di sezioni distaccate dei club del centro. Rispetto ad ogni parte d’Italia, la Sicilia ha estati lunghe (quest’anno fino ad ottobre si prolunga l’estate siciliana) dal punto di vista climatico ma brevissime per quanto riguarda la nightlife. Infatti, già dalla prima settimana di settembre sembra esserci una forma di avversione alle serate ed alla vita mondana, nonostante il caldo ed il cielo stellato dicano chiaramente che si può ancora fare festa. Settembre e ottobre scorrono via tra una passeggiata ed un drink in Piazza, come succede da qualche anno a Comiso con Piazza Fonte Diana, appena ristrutturata, sempre gremita di comitive di giovani, oppure per le vie di Ragusa Ibla, circondati da
alcuni turisti muniti di comodi sandali e macchine fotografiche. Tutto ciò viene “fortunatamente” stroncato dal primo freddo e dalle piogge che riportano i camaleonti della notte, come chiocciole, a ricominciare a girovagare per la provincia in cerca del PARTY giusto in base alle esigenze di ciascuno. La Discoteca di una volta si trasforma, come già raccontato, in clubs più piccoli a capienza ridotta, e ogni sabato da ormai tre anni le mete preferite sono diventate Modica e Pozzallo, mentre Marina di Ragusa e Ragusa si sono un po’ eclissate in attesa di tempi migliori. Se il sabato bisogna percorrere, per alcuni, parecchi chilometri dal capoluogo e dai paesi vicini, quali Comiso e Vittoria, per raggiungere i
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clubs più in voga, discorso diverso va fatto per il venerdì e la domenica, giorni in cui si preferisce frequentare i locali del centro storico di Comiso, Vittoria e Ragusa, magari facendo un piccolo tour di queste tre città... Troviamo ragusani a Comiso, Vittoriesi prima a Comiso e poi a Ragusa e via dicendo... un grande viaggio alla ricerca della giusta compagnia, del buon aperitivo domenicale, delle ore piccole il venerdì sera o semplicemente del drink migliore. Detto quindi delle tendenze del weekend per il prossimo inverno, torniamo appunto a parlare di ciò che bevono i nostri leoni della notte al giorno d’oggi...
Nuove tendenze sul beverage Incontrarsi per un cocktail è un cult, proprio per questo il mondo del beverage è in continuo mutamento, difatti sempre più bartender sono impegnati nella ricerca di nuove idee. Negli ultimi anni sono stati pensati e creati cocktail che soddisfino gusti ed esigenze, sempre più specifiche, per ogni singolo consumatore, da qui la nascita di svariate tipologie di “new idea drink” come per esempio il “Beauty Cocktail”, che unisce di certo creatività e bere sano con una serie di mix a base di frutta fresca e ingredienti speciali, a volte appositamente importati, che giocano con colori e sapori al fine di stimolare i cinque sensi. Di grande importanza innovativa è anche la scomposizione e riformulazione di cocktail classici, il Mojito ad esempio, è riproposto al tè, liquirizia, zafferano o in alternativa analcolica con lemonsoda. Elemento di punta del settore il “cocktail molecolare”, la cui struttura degli ingredienti viene mo-
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dificata attraverso reazioni molecolari provocate con ghiaccio secco, fibre naturali, glasse, vaporizzazioni, gelatine e spume facenti parte di tecniche di cucina internazionale adottate dai bartender per la creazione di ricette originali e fantasiose, per cui il cocktail viene servito non più nella classica forma liquida ma in forma solida o semisolida. Per i puristi spaventati dalla moderna miscelazione, essi sappiano che queste tecniche erano già nate sul finire del’800, infatti si conferma il detto “niente è più nuovo di ciò che è antico”. A tal proposito si evince che la mentalità delle “New idea drink” spaventa i gestori di pub, American bar e discoteche del sud Italia, perché timorosi di un insuccesso e di un probabile rifiuto da parte dei consumatori, che ancora oggi sono lontani dalla cultura del saper bere bene. Essi sono molto legati ai tradizionali, intramontabili, come Negroni, Vodka-lemon, Vodka-red bull e Long Island ice tea. Questo perché? L’ambiente folcloristico che li circonda li inibisce e non da spazio alle novità. Volete provare qualcosa di diverso dal solito drink?
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Segnalibro ” “Il segno del cavallo di Giuseppe Bordonali di Aldo Formosa
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sercitando la pro fes sio ne di medico Giuseppe Bordonali ha cerchio asdel risolto la quadratura nello enz sicurandosi la sussist a e rché (pe i stesso tempo dedicandos ) alle em si sa, carmina non dant pan ane. sue ricerche storiche siracus dono Già è al quinto libro, dopo “Il “Uodi Ahmet”, “Le ali di Icaro”, nto “Ve e ” sso Ro mini del Conte “Il imo viss nuo o di libertà”. Quest o con nto (Sa ” segno del cavallo sinte orta editore) aggiunge un imp rat iva gill o alla pro du zio ne nar to di di Bo rdo nal i: è il rac con non Tem ist og en e, tes tim one itec par he anc ma sol o ocu lare Ate li deg ta fat dis pat ivo del la i. san acu Sir dei nie si ad op era fu Una sconfitta epocale di cui ibilsist irre protagonista Alcibiade, ris”: il mente trascinato dalla “Yb nza, colpevole orgoglio, la tracota cel’irriverenza verso gli Dei, l’ac trecante libido di onnipotenza, l’es . lista mismo imperia conSiracusa nel libro rivive con le ne che iali soc notazioni politiche e ma , zza nde caratterizzarono la gra ere la l’Autore non si limita a descriv a un propria antica città: in effetti cre ato, affresco talmente vasto, sconfin ere la circostanziato, da far assurg ursus narrazione ai livelli di un exc
tte le cinematografico. Bordonali me nalimi pre nza erte mani avanti nell’avv i agl rifà si ” allo re: “Il segno del cav ì cos o, tarc antichi Tucidide e Plu e co lac Po come ai moderni Luigi quatRoberto Mirisola, nonchè ai ato da tro volumi di Sebastiano Am rici. In cui trae dovizia di riferimenti sto ricerca sostanza crea una minuziosa itanti palp a vita do del particolare, dan e la oltr ben do tan personaggi, raccon i, Anz ti. fon e fredda elencazione dell è ali don Bor l’umanità descritta da dive“fotografata” in movimento, nel nel ta nire degli accadimenti, delinea e del carattere, esposta all’attenzion , con lettore con certosina minuzia renche li tag det dei una oculatezza , nità tidia quo loro dono palpabile la ogi col psi oni così come le deduzi ena che e la filigrana dei retrosc politici. intrinLodevole poi, oltre alla validità doseca del romanzo, l’intento di Bor libro nali che propone l’adozione del piasap i van gio i ché nelle scuole, per o pian sap e a; cus no dell’antica Sira oda sm la che anche, per l’avvenire, io l’od ia, idig ta sete di potere, la cup re, il della faziosità politica, il malaffa to adu tradimento, com’è sempre acc lai nella storia dell’umanità sotto ogn anche titudine, sono causa di sfacelo esdov va bra sem che di quelle civiltà vo nuo di la Nul . rno sero durare in ete sotto il sole. per Bordonali ha un naturale talento
Mondadori erie di Siracusa, nelle librerie Il romanzo si trova nelle libr Catania to e nella libreria Cavallot di di Ragusa, Modica, Augusta
racla ricerca storica e la capacità di con are line contare secondo un iter re letto Il elli. una scrittura priva di orp e prim e viene subito catturato dall coin pagine, affascinato dai fatti e i. volto nella fisicità dei personagg dun ” ano cus sira “il e Temistogen sia rsa ave attr o isse que: novello Od ca l’orribile che il glorioso di un’epo “in nito defi e che Tucidide avrebb aacc ” oso assoluto il più grandi la del e dimento della storia greca e gen grecità. Quello stesso Temisto le del che si era salvato nell’orrido versi i do itan rec ane cus Latomie sira ali don Bor che e e, tragici di Euripid par com e com a, destina in chiusur rce me ci gre tecipe dell’Anabasi dei mdra e nari di Ciro, nella lunga erti matica ritirata attraverso i des gia e le montagne sino al vagheg to mare della salvezza. caUn libro epico “Il segno del oscol i lior mig dei vallo”, degno le. Mil sal di Cecil B. De
Segnalibro “’A Viannola”l’:abbiamo mai conosciuta una Santa Lucia come non di Giuseppe Aloisio
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eleultore gante, raffinato e meticoloso delle tradiz ion i resira ligi ose e soc iali sic ilia ne e erm cus ane in par tico lare , Ca re cia lo Tuc cit to pri ma di las alla qu est o mo nd o ha dat o ria. era lett cca luc e una chi pe r“’A Via nn ola ”, 50 pa gin e zio ipa tec par , me ate di am ore a enz osc con ne em otiv a, fed e, po po sità e stu dio del la reli gio alla o lare , han no con seg nat ett o lett era tur a sic ilia na un asp ia, la po co not o di Sa nta Luc ta in ver gin e e ma rtir e ven era tut to rat sop ma o tut to il mo nd sa. nel la sua Sir acu a, è Il vol um ett o, non in ven dit dal 11 20 sta to sta mp ato nel nia tur Sa la tip og raf ia Gra fica nte da vol uto dal l’az ien da Ro i cui Bri co leg no di Sir acu sa, zio ni tito lari son o da gen era sira na tro Pa la del dev otis sim i iluna da ato cus ana ; è cor red ns. mo di e lum ina nte pre faz ion atGiu sep pe Gre co e dal le car enc Fra ter isti che vig net te di lto mo sco Ro da nte , am bed ue La vic ini a Ca rm elo Tuc cit to. po i cop ert ina di Ern est o Pu zzo esa ldic e tut to: rac chi ud e ed e gio sag del ta il con ten uto “Vi olo ign del l’af fet tuo so nom
ann ola ”. ire un L’A uto re ha sap uto cos tru res inte o ara zzo uni co e ins olit o ers rav san do si di S. Luc ia att ali, i tan ti mo di di dir e dia lett ri un per qu est o ne è ven uto fuo , do gio iell o di rice rca sto rica rpr einte a, etic cum ent ale , fon tur a cul di e a tat iva , sci ent ific del te gen la luc ian a diff usa tra oli. sec i cap olu og o da div ers to nea “Pe rch é – com e sot toli sità da mo ns. Gre co - la rel igio plipo po lare , pu r nel la sua sem ità enu ing la nel a olt cit à e talv ne sio res esp è , me de lle sue for po un di e fed aut ent ica de lla po lo” . at“Pe r qu el suo gir on zol are fela nel tor no a pia zza Du om o testa de l Pa tro cin io – scr ive qu el stu alm ent e Tuc citt o – pe r zze di suo gir ova gar e pe r le viu tta ll’O de ata ser Ort igia nel la 13 il are and va, pe r qu el suo rBo alla igia dic em bre da Ort 20 il e nar gat a, pe r qu el suo tor in Ordic em bre da lla Bo rga ta ave i tig ia, i suo i co nci tta din nia to van o sim pa tic am ent e co che pe r Lei un alt ro tem ine dia ri ola ab voc i nes sun o de el’av a, istr reg let tal i anc ora nn ovan o sop ran no min ata Via che ito lor la, un no mig no lo co o pp tro r dip ing e be ne chi , pe pe a tem po , sta fuo ri di cas
No n reg rin and o di via in via . un a che va inf att i dim ent ica to ne, vol ta, du ran te la pro ces sio pe r il sim ula cro de lla Sa nta veess ere più vic ino alla po le fra a rav ent dd ra ge nte , s’a ”. igia Ort di i viu zze e i co rtil ale Da qu i l’es pre ssi one dia lett o: citt Tuc ant ica rip ort ata dal / ana “Sa nta Lu cia ‘a sar aus mba ca hav i ‘i pe ri co mu ‘na anmin a (i pie di pic col i) / qu ran a nu cam ina , cam ina suv Lu (co me una reg ina ) / Sa nta ”. cia ‘a sar aus ana
Foto di Rosaria Privitera
Tre indizi per scoprire un lUogo La soluzione nel prossimo numero di InsideSicilia
1
Il borgo è all’interno di una grotta che prende nome dalla famiglia che vi abitò dal 1819 fino alla prima metà del ‘900. Il piccolo borgo è diviso da una stradina in basolato.
2
La grotta è alta circa 60 metri e profonda 70 metri.
3
Nel periodo natalizio vi si svolge il Presepe vivente. La soluzione al quiz del numero precedente è: Bronte (uno degli scorci più caratteristici della città etnea)
“Dai vermigli fior…”
S
ono sicuro che in molti ricorderanno la classica poesia di carducciana memoria: “Pianto Antico”. In essa si fà cenno ad un albero di melograno “dai vermigli fior” a cui il pargoletto tende la sua mano, come se fosse certo dei benefici che ne avrebbe tratto. Oggi la medicina, guardando a questa pianta, prettamente autunnale, ci invita a scrutarne le diverse azioni salutari. Essa risulta avere proprietà astringenti e diuretiche, grazie alla presenza del tannino, di vitamina A e vitamina B; tanto che nell’antica Grecia veniva prescritto come antielmintico e antinfiammatorio, e all’inizio del XIX secolo la scorza di questo frutto veniva usata per combattere la tenia data la presenza di alcaloidi. Tra le ultime ricerche si evidenzia la notevole quantità di flavonoidi e di antiossidanti a protezione del nostro cuore, delle nostre arterie e, sembra, una possibile azione antitumorale. In California hanno osservato che il succo di melograno a contatto con cellule di cancro
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alla prostata riducano la capacità di movimento delle stesse. Numerosi studi evidenziano, inoltre, come il Melograno rallenti lo sviluppo dell’arteriosclerosi diminuendo anche il rischio di malattie cardiovascolari. Risultano confermate diverse proprietà antibatteriche contro lo Staphylococcus aureus, l’ Escherichia coli, Salmonella tiphy ecc. Inoltre, l’acido ellagico, presente nel melograno, ha dimostrato di possedere una attività inibente preferenzialmente rivolta alla crescita di alcuni ceppi di batteri patogeni (Gram negativi anaerobi) che colpiscono la cavità orale e periodontale, quali Porphyromonas gingivalis e Prevotella intermedia. Un altro interessante studio ha evidenziato le virtù gastroprotettive dell’estratto di melograno nei confronti dei danni indotti da etanolo (alcol etilico); in base ai risultati ottenuti sembra che la componente fenolica sia in grado di provocare un rafforzamento della barriera rappresentata dalla mucosa gastrica. L’estratto dei frutti di melograno può inibire la degradazione della cartilagine e può essere un utile supplemento nutritivo per la funzionalità e l’integrità delle articolazioni. Per le donne in menopausa il
succo risulta essere un buon aiuto contro l’osteoporosi e la depressione. Viene da chiederci: “Cos’altro ancora?”. Staremo a vedere!!!
è tempo di raccolta.
Raccogli i frutti di un lavoro di ricerca minuzioso e affascinante che porta a scoprire la meravigliosa terra di Sicilia.
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