inSide Sicilia ottobre - novembre 2010

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Foto Scissor Studio


Valigie fuori stagione! on la fine dell’estate e l’arrivo dell’autunno ritorna lo spettro delle località turistiche deserte. Si spengono i riflettori sulle strade, nei ristoranti, nei locali, negli alberghi. Si interrompe ogni attività; tutto viene congelato per essere riproposto nella prossima stagione estiva. Nel frattempo resta irrisolto il problema di una economia mancata e si continua a sprecare una risorsa fondamentale per lo sviluppo economico e occupazionale: il turismo. La chiave di volta del turismo è “destagionalizzare”. Una soluzione spesso lontana per la superficialità, l’incompetenza e la sordità di alcuni Enti locali che non sanno investire (o sprecano) nel comparto. Assistiamo persino alla mancanza di sinergie di promozione comune anche nell’organizzazione delle manifestazioni locali. In una isola come la nostra certamente non mancano le materie prime per alimentare - per 365 giorni l’anno - l’industria turistica. Semmai, manca una “mentalità” aperta e lungimirante. Spesso manca una programmazione che vada oltre la stagione estiva e, in alcuni casi, come hanno osservato i molti lettori che ci scrivono, il calendario estivo diventa il “buco nero” per i bilanci di alcuni assessorati che poi non hanno risorse per “ragionare” oltre il mese di settembre. Si preferisce il calderone estivo dove gettare mille eventi e iniziative dal livello spesso discutibili solo per odore di consenso e non per sano profumo di convinzione. La Sicilia è fondamentalmente terra votata al turismo, una terra ricca di eccellenze per l’immenso patrimonio artistico e culturale, per la bellezza del paesaggio, per la vastità della sua offerta enogastronomica e, non ultimo, per l’ospitalità degli abitanti. Un luogo dal clima ideale che non lega le sue ricchezze solamente ai mesi estivi. È necessario dunque creare sistema, formare rete tra i vari attori del settore turistico. Bisogna scrollarsi dall’immobilismo per stimolare il turismo e attirare i visitatori durante tutto l’arco dell’anno. I turisti potranno così assaporare atmosfere uniche e inimmaginabili; potranno vivere emozioni indimenticabili sul piano culturale e umano. Anche se il turismo balneare è quello che caratterizza maggiormente il comparto, non bisogna tuttavia sottovalutare la potenza economica insita negli altri “turismi”; quelli definiti minori o di bassa stagione perché non sappiamo “sfruttarli”. Tante le potenzialità del turismo: congressuale, religioso, artisticoarcheologico, escursionistico, naturalistico senza escludere quello incentrato sullo sport, sull’artigianato, sull’enogastronomia, ecc…. Anche il turismo detto “degli eventi”, se ben programmato, ha il suo crisma per destagionalizzare! Si destagionalizza solo se si diversifica il marchio e se si valorizzano tutte le potenzialità del territorio in ogni sua sfumatura. Tante le realtà che possono rigenerare il turismo e allungare la stagione con i dovuti investimenti, con i dovuti imprenditori, con i dovuti politici. Molte città italiane ed estere si stanno muovendo in questa direzione e riescono a mantenersi attive in ogni stagione. Prima o poi, anche in Sicilia l’autunno o l’inverno saranno rallegrati dalle valigie. Giuseppe Nuccio Iacono

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N. 8 - OTTOBRE - NOVEMBRE 2010 Tribunale di Siracusa 20/07/2009 Registro della Stampa n. 13/09

Editore - Pegaso & C. sas Siracusa - Tel. 0931 35068 www.insidesicilia.com info@insidesicilia.com

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Direttore Responsabile Giuseppe Aloisio

Direttore Editoriale Giuseppe Nuccio Iacono n.iacono@insidesicilia.com

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Promozione e distribuzione

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Pegaso & C. sas

Art Director Carmela Bianca Tel. 338 7042510 - c.bianca@insidesicilia.com Progetto grafico e impaginazione Pegaso & C. sas Tel. 0931 463891 - info@insidesicilia.com

Testi

Graziella Ambrogio, Lisa Bachis, Michele Barbagallo, Cabiria, Corrado Cartia, Corrado Cataldi, Sergio Cilea, Giovanni Criscione, Gaetano Guzzardo, Giuseppe Nuccio Iacono, Pennabianca, Alice Pepi, Alessandra Romano, Maria Stella Spadaro, Giancarlo Tribuni Silvestri.

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Foto di copertina: Agrigento, old bike di Carmen Privitera

Stampa Tipografia Geny - Canicattini Bagni (SR)

L’Editore si dichiara disponibile a regolare gli eventuali diritti di pubblicazione per le immagini di cui non è stato possibile reperire la fonte.

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sommario 14 40 54 68 72 82

STORIA E TRADIZIONI Il volto medievale di Taormina si legge nelle linee dei suoi palazzi Il carrubo - La ricchezza di un frutto povero Nell’Area Marina Protetta del Plemmirio il “sorvegliato” diventa “sorvegliante” La Biblioteca Alagoniana Sensazioni e ricordi per le vie di Acate Una festa figlia del tempo

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ATTUALITÀ 7 12 34 37 60 88 94

Il mare d’inverno “Centoeveti”, un pezzo dell’offerta turistica della provincia di Siracusa Archeologia sotto le stelle Piccole e medie imprese per lo sviluppo turistico Suggestioni ed atmosfere d’altri tempi Cala il sipario sul Settembre Kasmeneo 2010 Uno sguardo al guardaroba

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CURIOSITÀ Le mummie di S. Maria della Grazia a Comiso

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EVENTI Centro Sposa Anna Nesti: Le nostre nozze: colori, poesia e nuove atmosfere Le molteplici tonalità dell’essere - I quadri di Gina Pardo

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IL PERSONAGGIO Peppa ‘a cannunera Elio Vittorini

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ITINERARI 56

Il Museo di Adrano

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SPECIALE Il Castello di Mussomeli L’aquila di pietra sul nido di roccia

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CITTÀ SCOMPARSE Montallegro: il borgo antico che visse per pochi anni

NATURAMICA 103 Biondo, dolce, inebriante, salutare... miele CASA E DINTORNI 100 Dai monti, alle pianure passando per le colline: il brugo COMPUTER E DINTORNI 102 Educhiamo il nostro corpo a stare davanti al pc

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Il mare d’inverno di Maria Stella Spadaro

Foto Giancarlo Tribuni Silvestri


ielo terso, sole fulgente, mare che tacitamente accarezza la sabbiosa costa dorata, delicata brezza che, avvalendosi dei sonori componenti della natura, rapisce per un istante eterno la mente impegnata del passante. Rare distrazioni scuotono l’osservatore da tale stato di cose: il rombo del motore di uno scafo e la scia spumosa da esso tracciata sulla superficie dell’acqua, il cigolio di bici in movimento logorate dal tempo, il lento sopraggiungere di voci coinvolte in dialoghi già sentiti. La scena dell’azione è a Marina di Ragusa, frazione balneare della Provincia di Ragusa. Protagonista ne è il mare d’inverno, un’immensa distesa d’acqua salmastra, sempre uguale a sé stessa, meta meno agognata, meno condivisa, meno ricercata, meno affollata in tale stagione, ma tanto apprezzata da quanti l’hanno occasionalmente raggiunta o quotidianamente vissuta. Di certo, qualche settimana fa distinguere questi rumori sarebbe stato impegnativo. Eppure il luogo è lo stesso, abbiamo ripetuto il medesimo tragitto che da Piazza Duca degli Abruzzi conduce al nuovo lungomare, reso da pochi mesi accessibile ai molti. Un veloce rewind ci consente di ricordare: inosservabile sole rovente, brusio incessante di persone impegnate in molteplici trastulli, ombrelloni colorati che a stento lasciano intravedere il dorato della sabbia, ceruleo specchio d’acqua salmastro puntellato da innumerevoli corpi alla ricerca di un confortante refrigerio alla calura estiva, e poi vie gremite di bambini, adulti, ragazzi che percorrono propri tragitti liberi da ogni impegno. Cosa è cambiato, dunque? L’evento “Arrivederci Estate 2010”, svoltosi sabato 11 settembre, può essere considerato un valido spartiacque tra i due momenti. Si tratta di un evento che ha come fine primario quello di vivacizzare, di movimentare con svariate manifestazioni gli ultimi giorni di vacanza delle numerose persone che hanno scelto queste zone balneari come meta del loro viaggio. Ma è un evento che, inevitabilmente, già nella scelta del nome, semanticamente attenuato rispetto a quello utilizzato negli anni precedenti (“Addio Estate”), implica un mutamento, una variazione tra un prima e un dopo. Il prima è naturalmente rappresentato da una stagione estiva che gradatamente cede il passo al grigio e spoglio autunno, un autunno che sgombra le strade, spopola le spiagge, svuota gli ambienti di tutti quegli imprenditori che hanno con speranza e convinzione individuato in Marina di Ragusa la location ideale per avviare la loro attività commerciale. Il loro è un arrivederci sì all’estate, ma anche alle folle di turisti che calcano gli ingressi, agli abitanti delle borgate vicine che, affascinati dalle locali attrattive estive, decidono di prenderne allegramente parte, ai borbottii e alle lamentele dei residenti che animatamente si oppongono ogni anno alla caduca “rinascita estiva” di Marina di Ragusa. È un contrasto di stagioni, è un contrasto di idee e di generazioni, è un contrasto tra vecchio e nuovo.

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Ultimi fortunati - foto Antonio Tumino

Turisti assistono alla festa di fine estate - foto Giancarlo Tribuni Silvestri -


Il nuovo lungomare che vive solo di notte. A agosto, di giorno, spiagge piene di villeggianti ma assenza quasi totale di servizio bar - foto Giancarlo Tribuni Silvestri -

Lungomare Andrea Doria, chiamato anche “requiem� da alcuni giovani. Poco frequentato dopo l'apertura del nuovo lungomare - foto Giancarlo Tribuni Silvestri -


23 settembre - Regata Francia-Turchia con unica tappa italiana a Marina di Ragusa. Evento mancato per turisti e residenti per inadeguata informazione - foto Giancarlo Tribuni Silvestri

Ed è su tali contrasti che prende corpo la diatriba. Proprio adesso che, con la realizzazione della struttura portuale, la riqualificazione del lungomare Mediterraneo, che costituisce il collegamento pedonale tra il centro della borgata e il porto turistico, e il completamento dei lavori di pavimentazione in piazza Torre, Marina di Ragusa si avvia ad assumere il ruolo di centro turistico della provincia ragusana, diventa lecito porsi dei quesiti. È necessario che il nuovo soppianti il vecchio o si può ben sperare in una sana e tacita convivenza? Quanto gli interventi di restyling recentemente attuati nella borgata e il successivo disseminarsi di numerosi ristoranti, bar, pub e pizzerie nelle stradine comprese tra la Via del Mare e il nuovo lungomare possono contribuire a condensare in quei luoghi l’affluenza dei visitatori a discapito di quei locali commerciali che, sorti anni addietro intorno a Piazza Malta o nel lato sinistro del Lungomare Andrea Doria, assistono inermi all’evidente spostamento di quello che viene comunemente chiamato il “centro” di una località? Perché si è portati a considerare Marina di Ragusa una meta balneare da vivacizzare e promuovere solo

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nella bella stagione? E perché condensare l’organizzazione di eventi nei luoghi realizzati e/o riqualificati di recente togliendo così la possibilità al “vecchio” di ben integrarsi con il nuovo all’insegna di una progettata ma non rispettata continuità? Perché assecondare l’intolleranza di residenti che, amando troppo la serenità profusa dal mare d’inverno, diventano intolleranti oppositori della rinascita di un sito da un torpore oramai inammissibile? Perché non valorizzare durante l’intero anno le attrattive di una località che ripetutamente apre la stagione estiva con i problemi logistici legati all’organizzazione della sua chiusura? Solo un programma di destagionalizzazione di Marina di Ragusa potrebbe annullare la nostalgia che si palesa negli occhi dei suoi numerosissimi frequentatori che, ogni anno, in occasione della festa di “Arrivederci Estate”, con lo sguardo rivolto al cielo, si deliziano di policromi fuochi d’artificio. È la nostalgia per un’affluenza turistica che deve essere mantenuta e consolidata, per un pieno che non deve svuotarsi, per una nota che non deve smettere di suonare, per un’estate che non deve finire.


Marina di Ragusa rivela il suo fascino anche dopo l’estate - foto Giancarlo Tribuni Silvestri

Uno dei piĂš noti locali. Il primo ad aver aperto nel quartiere Movida di Marina di Ragusa


INCONTRO CON L’ASSESSORE ALLA CULTURA E AL TURISMO DELLA PROVINCIA, GAETANO AMENTA

“Centoeventi”, un pezzo dell’offerta turistica della provincia di Siracusa di Gaetano Guzzardo aetano Amenta ricopre la carica di assessore provinciale ai Beni Culturali, Cultura, Sport, Edilizia Sportiva, Spettacolo, Scambi Euromediterranei ed Internazionali, Sistemi Turistici Locali, Trasporti, PRA da questa estate, e i suoi primi impegni, tra l’altro già affrontati dai banchi del Consiglio provinciale prima di essere chiamato in giunta dal presidente Nicola Bono, sono stati proprio l’organizzare degli eventi per tutti i comuni della provincia, e l’avvio del Distretto Turistico. “Centoeventi”, infatti, ha rappresentato, pur nella ristrettezza delle risorse, un momento culturale ed artistico d’interesse, dalla musica al teatro, alla danza, all’enogastronomia. Grandi riflettori che si sono accesi sul territorio aretuseo, richiamando migliaia di visitatori, vero obiettivo di questa scommessa che l’assessore Amenta ha affrontato con il massimo dell’impegno, verificando personalmente, in compagnia del presidente Bono, piazza per piazza, che tutto fosse di gradimento. Con l’assessore Amenta abbiamo voluto fare un primo bilancio di questa esperienza: «Centoeventi è stata pensata – esordisce Amenta – proprio con la cognizione di dover essere una programmazione da inserire nella rete del distretto turistico». E allora andiamo con ordine e parliamo del Distretto Turistico, questo strumento, il secondo in Sicilia, attraverso cui si organizza il territorio e, in quanto tale, non può prescindere né dal suo tema né dal territorio su cui insiste. «Qualunque Distretto, sia esso turistico, industriale o agricolo, non può nascere e strutturarsi se a monte il territorio che lo riguarda non sia stato analizzato da un Piano Territoriale che fotografa il territorio facendo emergere le sue caratteristiche, le sue risorse ma anche le sue criticità. Al Piano Territoriale segue il Piano Strategico, in cui si focalizzano gli obiettivi da raggiungere e le strategie da attuare per raggiungerli ed infine si strutturano i Distretti tematici come sintesi di attività e di operati (e quindi di operatori) che hanno il fine di proporre alla popolazione territoriale e a quella degli altri fruitori, una rete di servizi interconnessi tra loro tesi a formare un’offerta del territorio per una sua corretta fruizione». All’interno di questo grande piano c’è dunque il Distretto Turistico? «Innanzitutto dobbiamo definire il Distretto come un sistema che prende quelle che sono le potenzialità turistiche di un territorio e le mette in

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L’asessore Amenta al “Cinema di Frontiera” - Foto di F. Di Martino

relazione tra di loro, creando un sistema circolare su area vasta, per dare funzionalità a quel settore. Per cui la sinergia tra pubblico e privato, tra i diversi privati, una buona funzionalità dei trasporti delle attività ricettive, culturali e così via, che vengono messe a sistema, e quelli che sono i grandi attrattori come musei, siti archeologici e naturalistici possono essere inseriti dentro un rete di connessione da offrire al viaggiatore. Ma qual è la concretezza del Distretto Turistico? «La concretezza del sistema turistico sta nel fatto che ogni operatore attivo in un territorio è messo a conoscenza di tutti gli altri operatori in modo da potersi inserire in un’offerta integrata. Un esempio può essere una card per il turista che fornisce un’interconnessione tra diversi mezzi di trasporto, accessi a diversi musei, di ristoranti e di alberghi. Questo il compito principale di un Distretto Turistico; poi, organizzate tutte queste connessioni che innalzano il livello di servizio e di fruizione, si occupa della comunicazione all’esterno dell’esistenza del sistema e che può essere fruito». Quanto ha inciso questa immagine di Distretto Turistico nell’organizzazione di “Centoeventi” e che cosa ha avuto di diverso rispetto alle manifestazioni precedenti? «Centoeventi ha avuto di diverso il fatto che è stato considerato come un pezzo di quel puzzle complessivo che sarà il Distretto; uno dei diversi tasselli che forma l’offerta stessa del Distretto. Un’organizzazione di eventi legata da una parte a luoghi ben precisi dall’altra ai luoghi intesi come terminali di un percorso organizzato. Per questo abbiamo costruito una rete tra luoghi mettendo in atto azioni che esaltano le caratteristiche dei luoghi

stessi. Ecco che Centoeventi nella sua programmazione e nella scelta strategica avvalora questo significato». Quindi l’attivazione di una cabina di regia per il turismo va verso questa direzione? «Con la definizione cabina di regia, non abbiamo ancora affinato l’obiettivo che dobbiamo raggiungere, perché per la mia concezione della programmazione turistica, non parlerei di una cabina di regia, bensì di una governance costituita da tutti gli attori che all’interno di un territorio hanno responsabilità diverse, importanti, affinchè il sistema non solo si costituisca, ma anche funzioni nel migliore dei modi. E in questo contesto, la centralità della politica, e quindi della Provincia Regionale, diventa fondamentale per garantire, come in un’orchestra, la funzionalità e l’armonia di tutti gli strumenti». Come farà l’impresa turistica ad inserirsi in questo sistema armonico, senza subire sottomissioni dalla cabina di regia? «La cabina di regia attualmente è un contenitore vuoto mentre dovrebbe essere una guida. Il sistema turistico invece necessita di essere metabolizzato dal basso. Fin quando la cabina di regia pensa di aver teorizzato un sistema sulla carta, e poi da al territorio la colpa di non avere saputo assorbire il progetto, ecco che fa emergere il suo vuoto. Oggi nei nostri territori c’è già un grandissimo capitale sociale che va rimodulato con un’idea di sistema, abbassando le resistenze e i costi di transizione, dopodiché, lo stesso potenziale darà un prodotto non solo superiore qualitativamente ma anche in termini di risposte economiche e occupazionali. Questa è stata l’ottica con cui abbiamo organizzato Centoeventi».

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Il volto medievale di Taormina si legge nelle linee dei suoi palazzi (prima parte)

di Lisa Bachis sono cittadine che sono riuscite a mantenere quei tratti che le rendono “particolari” per la benedizione che hanno ricevuto, nell’esser state fondate in siti dove l’armonia della Natura ha dettato le regole per la costruzione da parte dell’uomo. Benedette, perché il sacro rispetto per il vincolo tra terra e cielo, tra finitezza umana e potenza del divino, ne hanno dettato le norme che hanno permesso di vederle e respirarle, cogliendo in esse, le scintille di ciò che è stato. Aggirarsi per le vie di una città, lasciarsi ammaliare dalle forme dei suoi edifici, soprattutto quando questi, ci rinviano a rivivere schegge del passato, ammette l’opportunità di veder le pietre che costituiscono la pelle della costruzione, emettere degli umori di vissuto, vederle sudare, udire lacrime e sospiri di un tempo che fu. Le pietre chiacchierano, ci lanciano messaggi che invitano ad ascoltare la loro esperienza millenaria e ci fanno commuovere innanzi alla poesia cantata della loro anima nascosta: una sconvolgente fusione di racconti popolari, gesta di nobili e cavalieri, aspre lotte per il potere e stralci di vita comunitaria. I palazzi medievali di Taormina,

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ci dicono questo e molto altro ancora, chiedendoci di sostare all’ombra delle loro mura, magari appoggiando la schiena per sentirne il calore delle pietre, abbandonandoci all’ascolto della storia. I “PALAZZETTI MERLATI” DI TAORMINA La storiografia ha classificato sotto il nome di “Palazzetti Merlati”, gli edifici più in vista del Medioevo taorminese quali sono Palazzo Corvaja, Palazzo Duchi di S. Stefano, Palazzo Ciampoli e Badia Vecchia, in virtù di una sintonia architettonica – le merlature “a coda di rondine”, poste a corona sulla sommità dei palazzi – che li rende modello importante ai fini di un percorso di conoscenza e di approfondimento del Medioevo cittadino, e della possibilità di un confronto con altri siti come quello etneo di Randazzo, dove certe somiglianze e affinità architettoniche con Taormina, mettono in evidenza i molti punti di contatto e di scambio tra le due realtà, nei secoli che vanno dall’XI al XV. La prima puntata di questo “Speciale sul Medioevo” partirà dunque dall’analisi di uno dei monumenti simbolo di Taormina, ossia Palazzo Corvaja, per procedere lungo un itinerario storicoarchitettonico, che unisce la città da Porta Messina a Porta Catania.


PALAZZO CORVAJA Palazzo Corvaja sorge ai margini di quella che un tempo era l’agorà di Tauromenion. Il nucleo originario del Palazzo, una torre araba di forma cubica (detta anche “cuba” o “kaba”) che svolgeva una funzione di tipo difensivo, fu edificato tra il 902 e il 1079. La struttura può essere ammirata, entrando nella corte dell’edificio. La primigenia origine araba della costruzione, motiva anche il dato che l’edificio appaia in posizione decentrata rispetto al borgo medievale propriamente detto. Quest’ultimo infatti si sviluppò compiutamente a partire dalla Torre di Mezzo – o dell’Orologio – nei pressi di Piazza IX Aprile, sino a Porta Catania, l’antica Porta del Tocco dove è ubicato Palazzo Duchi di S. Stefano e la cui contrazione urbana si realizzò pienamente nel periodo tardo normanno. Tra la fine del XIII secolo e gli inizi del XIV, alla torre araba venne aggiunto il fabbricato merlato, a sinistra dell’ingresso, ove trovò sede il “Salone del Maestro Giustiziere” e fu costruita anche la scala d’accesso che collega il cortile con il primo piano, sul cui parapetto fa bella mostra di sé, un altorilievo in pietra di Siracusa suddiviso in tre sezioni, raffigurante la “Creazione di Eva”, il “Peccato Originale” e la “Cacciata dal Paradiso”. A seguire, incorniciata nella parete della scala, può leggersi la dicitura: Esto michi locû refugii, in una lingua latina già contaminata dal dialetto locale. Ed ancora, nella parte alta dell’ingresso, posto alla sommità della scala, campeggia lo stemma con le tre stelle, simbolo della Famiglia Termes. Per ciò che concerne invece l’edificazione dell’imponente ala destra del palazzo, essa risale agli inizi del 1400 quando fu realizzata anche la cosiddetta “Sala del Parlamento”. Il salone in effetti fu ampliato per esigenze diplomatiche, poiché nel 1410, venne convocato un Parlamento dalla Regina Bianca di Navarra per tentare di colmare il vuoto di potere, creatosi alla morte del reale consorte, Martino il Giovane; e per contrastare le mire dei baroni siciliani e ristabilire la volontà della corona d’Aragona. La sessione parlamentare ebbe luogo il 25 settembre del 1411, ma fu disertata da città come Catania, Siracusa e Agrigento che contrastavano l’ascesa di Messina, risolvendosi in un nulla di fatto. Ma la corona spagnola non intendeva mostrar debolezza ed infine, dichiarò come legittimo successore del re Martino il Vecchio (suocero di Bianca, sopravvissuto per poco tempo al figlio) il nipote, Ferdinando I di Castiglia che nel 1415, inviò il figlio Giovanni in veste di Viceré, inaugurando una nuova stagione di amministrazione dell’isola che per i tre secoli seguenti, sino al 1713, vedrà annullata qualsivoglia spinta indipendentista. Il nome attuale del Palazzo, deriva da quello della nobile famiglia dei Corvaja, che vi abitò dal 1538 al 1945 e che nel 1938, commissionò un nuovo restauro, documentato dal ritrovamento di un progetto conservato tra gli atti dell’archivio storico cittadino. In seguito agli avvenimenti bellici e dopo un periodo d’abbandono, Palazzo Corvaja fu nuovamente restaurato e recuperato su progetto dell’Architetto Armando Dillon, che ne preservò il caratteristico miscuglio di stili: quello arabo con la torre e le sue merlature; stile confluito nel normanno e che diede origine al gotico


siciliano, visibile nella costruzione del ’400 ed in particolare, nella forma delle finestre bifore, della trifora sulla facciata del Palazzo e nella struttura della porta di ingresso ad arco ribassato che richiama, per l’appunto, lo stile gotico fiorito siciliano. Il nome del Dillon – che si occupò anche del recupero del Palazzo Duchi di S. Stefano – è ancora ben leggibile, inciso sulla base della scala d’accesso al primo piano di Palazzo Corvaja, insieme alla data, 1946. Cinque anni dopo, nel 1950, vi fu un’altra fase di ristrutturazione e su progetto dell’Architetto Giuseppe Sivieri, venne realizzata una sala ottagonale che prende il nome del suo progettista e dove oggi ha sede temporanea il “Distretto Taormina-Etna”. Palazzo Corvaja ospita anche il “Museo Siciliano di Arte e Tradizioni Popolari”, costituito da una cospicua donazione dell’antiquario Panarello ed inaugurato nel 1999. Il Museo – sito al primo piano – espone reperti della cultura figurativa e dell’artigianato artistico, collocabili tra il XVI e il XX secolo, ove possono ammirarsi sculture lignee devozionali, presepi, ceramiche antropomorfe, pezzi di carretto siciliano, cartelloni dell’Opera dei Pupi. Mentre al piano terra, trovano sede: l’ufficio dell’“Azienda Autonoma del Turismo” (nei cui ambienti, si teorizza, vi fosse una prigione); la sede dell’“Associazione Albergatori” ed una sala riunioni con vista sull’incantevole giardino alle spalle del palazzo.

Informazioni per il pubblico Palazzo Corvaja: il “Museo Siciliano di Arte e Tradizioni Popolari” è visitabile tutti i giorni dalle 9 alle 13 e dalle 16 alle 20. Chiusura il Lunedì.

Città di Taormina - ASSESSORATO AL TURISMO Promozione Piano Strategico ed Innovazione Turistica Sport e Spettacolo - Marketing Territoriale Memoria e Archivio Storico - Sviluppo Economico Verde Pubblico e Arredo Urbano



IL CASTELLO DI MUSSOMELI

aestoso, austero e arroccato su una rupe che si innalza solitaria per 85 mt., il castello di Mussomeli colpisce per posizione e conformazione. Natura e architettura si fondono, si avvolgono e si compenetrano in un ritmo virtuoso e inconsueto. Una danza di forme pietrificate dove severità e rigore dei profili si fanno clementi nelle linee merlate delle mura e nelle timide bifore. Tutto attorno a questa armonia si erge un panorama mozzafiato. Sorprende l’immensità del paesaggio e del pittoresco sfumare del territorio all’orizzonte nei profili dell’Etna, dei monti Sicani e delle Madonie. Il Castello è il sigillo di un’epoca feudale che giunge immutato fino ai tempi nostri. Una testimonianza visiva e tangibile del potere e della ricchezza dei signori che lo abitarono. Si narra che queste terre furono concesse in feudo ad un cavaliere avido di potere. Costui, dopo l’investitura, non perse tempo e attraversò tutte le sue nuove proprietà per verificarne l’effettiva estensione. Arrivato nei pressi della imponente rupe, si fermò e decise di dominarla facendovi costruire uno dei più arditi manieri di Sicilia. La leggenda si ispira certamente alla figura ambiziosa di Manfredi III Chiaramonte che nel 1366 ottenne da Federico III d’Aragona, re di Sicilia (1355-1377) la signoria di Castronovo e le terre di Mussomeli. Manfredi Chiaramonte non perse tempo per esternare la sua potenza e fece costruire il castello e contemporaneamente ampliò il piccolo borgo che da allora fu chiamato Manfreda in suo onore.

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La Signoria dai Chiaramonte ai Lanza Il maestoso castello era certamente completato e arredato nel 1374. Lo testimonia una lettera regia, datata 16 novembre 1374 (XVI novembris apud terram manfridae) che riferisce della sontuosa ospitalità che il Signore di Manfreda (Mussomeli) riservò a Federico III, alla regina Antonia del Balzo, alla principessa Maria e a tutto il loro seguito. Fu una “entrata reale” che per certi versi inaugurava degnamente il castello e lo consegnava alla storia. Per alcuni giorni Mussomeli si trasformò in una reggia. Nobili, dame e cavalieri, notai, consiglieri, giurati, musici, ancelle e valletti insieme ai rappresentanti del Clero (presente anche il Legato Apostolico) occuparono le varie sale ravvivate da stendardi, nastri floreali e arazzi. Tra musiche e canti, tutto era stato preparato nei minimi particolari e soprattutto tutto doveva fare risaltare “la potenza militare ed economica dei Chiaramonte”. Diciassette anni dopo, il maniero ritornò ad essere teatro di un altro importante avvenimento storico che però diede inizio alla fine del casato. Triste fine! Infatti, nel 1391, Manfredi riunì nel suo castello (nella sala oggi detta dei baroni) tutti i nobili siciliani desiderosi di opporsi al dominio spagnolo.


Dopo la morte del re, il matrimonio della figlia Maria con Martino di Monblanc riportò l’Isola alle dipendenze del regno aragonese, facendo svanire nei baroni siciliani ogni speranza di supremazia e autonomia politica. Manfredi Chiaramonte morì in quello stesso anno e, non avendo figli maschi, tutti i suoi averi passarono nelle mani del nipote Andrea. Una tale ricchezza non fu mai così effimera e vana! Andrea fu a capo della fazione antiaragonese che si era riunita nel castello di Mussomeli e aveva giurato fedeltà nella chiesetta di campagna (S. Pietro) in territorio di Castronovo. Un esercito di voltafaccia, in cerca del cavallo vincente e che alla prima occasione tradirono Andrea pur di mantenere e rafforzare vecchi privilegi. Le loro lingue si trasformarono in adulanti e vermigli tappeti quando, nel 1392, re Martino e Maria sbarcarono in Sicilia. L’inchino dei baroni che “scodinzolavano” dietro il potere consegnò alla sconfitta la speranza di Andrea. Il re ordì l’ultimo inganno: concesse al Chiaramonte un falso perdono. Poco dopo, con uno stratagemma lo fece arrestare e condannare a morte. La testa di Andrea cadde a Palermo, il 1° giugno 1392, sotto la scure del boia, proprio davanti allo Steri, il palazzo di famiglia (residenza ambita dai sovrani).


Guglielmo Raimondo Moncada che (già dall’aprile 1392) 1550 ottenne con regia investitura la signoria di aveva ottenuto da re Martino le terre e il “Castrum Mussomeli. Si narra che Don Cesare Lanza, perseguitato Musumelis” confiscate al Chiaramonte, non mise mai piede dai rimorsi per aver assassinato la figlia Laura, baronessa in queste proprietà che preferì affidare ad un di Carini, si sia rifugiato nel castello di Mussomeli per amministratore di fiducia. Coinvolto in una trovare pace. Abbandonato all’inizio del congiura contro il re, subì la confisca di ’600 da Ottavio Lanza, figlio di don tutti i beni. Il feudo di Mussomeli L a t e s t a d i A n d r e a Cesare, il maniero fu per alcuni anni appartenne poi a Giaimo de Prades che, adibito a carcere, prima di essere ca dde a Palermo, dopo 10 anni, decise di venderlo per 980 definitivamente consegnato ad uno stato onze a Giovanni Castellar di Valenza. di abbandono. L’incuria compromise il 1° giugno 1392, Nel 1430 la signoria passò al nipote (figlio alcune parti strutturali ma ebbe il sotto la scure della sorella) Giovanni di Perapertusa, pregio di congelarne l’originario aspetto barone di Favara. I problemi con il fisco lo medievale. d el boia , pr opri o costrinsero a vendere, ma con diritto di Preoccupati per lo stato in cui versava da vanti all o Ster i, ricompra, le proprietà di Mussomeli (1451) il castello, Pietro Lanza Branciforte a Federico Ventimiglia. Solo nel 1467, i l p a l a z z o d i f a m i g l i a principe di Trabia e di Butera e Pietro Del Campo, riuscì a riscattare per Francesco Lanza principe di Scalea, (residenza am bita 37.000 fiorini le proprietà del suocero commissionarono all’architetto Ernesto Giovanni Perapertusa. Armò i lavori di restauro (1911). dai sovrani) Le proprietà e il relativo titolo baronale si Diventato proprietà comunale, nel tramandarono nel casato Del Campo fino 1992, altre opere di restauro, finalizzate al 1549, quando alla morte di Andreotta, la famiglia si rese alla salvaguardia e al recupero integrale dell’edificio ci hanno conto di aver ereditato debiti e passività. Tutto fu tramandato uno dei più puri e rappresentativi esempi di acquistato dal ricchissimo Cesare Lanza che nel febbraio architettura medievale in Sicilia.


“Castrum Musumelis”: corona di stanze Senso di forza e imponenza sono il timbro di questa architettura militare dove aleggia lo stile chiaramontano. Il castello fu costruito, probabilmente, su alcune preesistenze di epoca sveva che, a loro volta, insistevano su elementi di fondazione araba. Mura merlate, saloni, torri, sotterranei, scale, possenti volte a crociere, cappella con tracce di antichi affreschi, prigioni, scuderie… costituiscono un mondo fantastico che ci riporta indietro nel tempo, in un medioevo che emoziona. Ad ogni passo che avanza sul sentiero che conduce il visitatore alla fortezza corrispondono anni di storia, fantasie e leggende. Il sentiero è incassato nella roccia e ne segue la conformazione. Protetto da una muraglia infatti si inerpica sul lato nord est, là dove la roccia è ripida ma accessibile. Dopo avere attraversato un “ponte levatoio”, una porta ogivale con ai lati due stemmi intagliati, introduce in un primo spazio recintato da alte mura. Qui troviamo i resti (recuperati) della scuderia e del fienile. La stalla che conserva parti della originaria volta a sesto leggermente acuto si sviluppa per una lunghezza di 37 mt e una larghezza di 6,50 mt. All’interno è possibile osservare, grazie ai recenti restauri, una interessante pavimentazione realizzata con pietre di fiume.

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Lasciata quest’area si procede per una seconda rampa fino a raggiungere il castello vero e proprio. Varcato il portale, si accede in un cortile delimitato a sinistra dalla cinta muraria dallo sviluppo irregolare. Un grande arco a sesto acuto separa l’atrio vero e proprio da uno spazio dove la dimensione limitata delle porte suggerisce la presenza di stanze di servizio. A destra del cortile si trova la cappella e la sala delle guardie, a sinistra invece, una bella porta gotica introduce in un corpo di fabbrica costituito da un susseguirsi di sale. Tra queste è la “stanza dei baroni” detta anche “sala del trono” (lunga 20 mt e larga 7 mt). È indicata dalla tradizione come il luogo dell’assemblea dei baroni siciliani convocati da Manfredi Chiaramonte nel 1391. Da qui si arriva in una stanzetta triangolare detta delle “tre donne” per essere il luogo della macabra leggenda: è qui che morirono di fame tre sorelle rinchiuse da un barone geloso. Segue la “sala del camino” con volta a crociera e, appunto, un grande camino incavato nel muro. Da una seconda sala detta “camera da letto” un passaggio conduce poi alle due piccole torri semicircolari. Ritornati nel cortile è possibile scendere, tramite una scala, nella sala d’armi. Da qui un interessante percorso fatto di gallerie, pozzi, e ambienti scavati in parte nella roccia ci porta negli spazi un tempo abitati dalla servitù e/o adibiti a depositi, cantine e servizi. Luoghi che ben si prestano a quella idea di fortezza dove non mancano prigioni e stanze delle torture. Dal buio dei sotterranei si risale nell’atrio e per una breve salita si raggiunge la cappella. Un portale ogivale dalle semplici modanature introduce nell’unica grande navata, scandita da due volte a crociera e divisa da un arco mediano. Stupende le soluzioni angolari dei pilastri e le tracce di affreschi trecenteschi nell’arco dell’altare.

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fantasmi e leggende

“Cammara di li tri donni” Si chiamavano Clotilde, Margherita e Costanza le protagoniste della macabra leggenda legata alla stanza detta “tre donne”. Una stanzetta triangolare, illuminata da una feritoia dove una stretta scala di pietra conduce in un piccolo ambiente sovrastante. È indicata al visitatore come il teatro di una atroce storia. Dovendo partire per la guerra, il barone di Mussomeli, geloso e diffidente, rinchiuse le sue tre bellissime sorelle in questa stanzetta. Vi accumulò abbondanti provviste, fece murare la porta e partì. Purtroppo la sua assenza si prolungò oltre ogni previsione e tutte le scorte alimentari si esaurirono tra la disperazione delle tre sorelle. Finita la guerra il barone ritornò al castello e trovò le tre disgraziate morte di fame con la suola delle scarpe ancora tra i denti. Si dice che i loro spiriti inquieti si aggirano ancora per le stanze del castello.

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Camera da letto

Altare della cappella

La cammara di li tri donni

Fascino medievale di una scala interna


L’incubo di Don Cesare Lanza

Olio bollente

Dopo aver crudelmente assassinato la propria figlia, Laura baronessa di Carini, Don Cesare Lanza non trovò pace. Perseguitato dal rimorso, si rifugiò nel castello di Mussomeli. Le sue incessanti preghiere furono inutili: non servirono ad espiare la colpa e non ottenne il perdono. Laura continuò ad essere il suo incubo. Il fantasma della Baronessa continua a vagare per i saloni. Alcuni affermano di averla vista materializzarsi nella cappella dove pare si inginocchiasse per pregare. Un indizio? È facilmente riconoscibile per il suo ampio abito cinquecentesco e lo scialle finemente lavorato.

Un’altra leggenda racconta la triste fine che fu riservata dalla crudeltà di un barone del castello ad alcuni nobili che non avevano mantenuto fede ad un giuramento prestato in chiesa alla sua presenza. I traditori furono attirati con l’inganno in alcune segrete e immersi nell’olio bollente.

Il Cavaliere suicida per amore Figlio di un mercante spagnolo, Guiscardo de la Portes era un giovane cavaliere. Un giorno arrivò a Mussomeli dove si invaghì di una bellissima fanciulla. Purtroppo era la figlia del barone. Nonostante l’amore fosse ricambiato, il signore del castello si oppose. Fece catturare Guiscardo, lo rinchiuse in un cella della torre e ordinò di farlo morire di fame. Per sottrarsi a quella condanna, il giovane cavaliere, disperato, preferì uccidersi. Si gettò dalla torre pronunciando il nome della sua amata. Da quel giorno lo spettro disperato di Guiscardo appare nel castello alla ricerca della sua amata.

Particolare di affreschi della cappella

Corte interna


Bifora: veduta sul paesaggio Le scuderie

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Sala dei baroni



di Giuseppe Nuccio Iacono - foto Carmen Privitera -

chiamava Giuseppa Bolognani e fu figlia del buio. La sua infanzia fu segnata dagli stenti; crebbe tra i meandri di un mondo popolare fatto di privazioni; fu una donna ribelle e temeraria e affrontò la vita a costo di qualsiasi rischio. A Catania, si distinse nella rivolta antiborbonica e fu acclamata dal popolo per i suoi atti di eroismo. Una “luce” per pochi giorni visto che la sua figura era destinata a sfumare nel silenzio della storia e a ritornare nel buio che l’aveva partorito.

Si

PEPPA ’A CANNUNERA L’eroina dimenticata che sfidò la storia


Nacque a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) nel 1841 dagli “illeciti amori” che si disse legarono la madre (Bolognani) ad “un tal Antonino Mazzeo, sensale di agrumi”. Secondo altri, Giuseppa era una orfana che la Congregazione di Carità aveva affidato ad una certa Maria Calcagno, “nutrice di trovatelli”. Pare che per sbarcare il lunario dovette recarsi a Catania dove lavorò, prima, come serva presso una osteria e poi come “aiutante stalliera” in una rimessa di carrozze. Certamente non ebbe una buona reputazione e abitò in un quartiere degradato dove conobbe e frequentò un certo “Vannuzzo”, un ragazzo “spregiudicato” che era molto più giovane di lei. Sono gli anni in cui serpeggiava il malcontento verso il regime borbonico e che, alla notizia dello sbarco di Garibaldi, portarono all’insurrezione popolare del 31 maggio 1860. E fu anche la data che cambiò il nome di Giuseppa Bolognani: da quel momento tutti la chiamarono “Peppa a Cannunera” o “Peppa a Sparacannuni”. Il suo nome fu un simbolo di quella rivolta che, a Catania, per sette ore tenne a bada più di 2000 soldati dell’esercito borbonico. Due furono gli episodi salienti nei quali rifulse il valore eroico di Peppa la Cannunera. Nel primo, fu a capo di un gruppo di rivoltosi e dopo aver aggirato le postazioni nemiche, si impadronì di un cannone collocato nell’atrio di Palazzo Tornabene. Al suo ordine, i ribelli spalancarono il portone. L’eroica popolana accese la miccia e iniziò a sparare sulle truppe borboniche che, colte di sorpresa, si diedero alla fuga. Un altro momento della gloriosa giornata catanese fu descritto dallo storico Vincenzo Finocchiaro: «Era già mezzogiorno, e gli insorti avevano quasi esaurito le munizioni, sicchè il loro attacco incominciò ad infiacchire». A quel punto il generale borbonico Clary decise di attaccare i rivoltosi lanciando la cavalleria per via del Corso. «Giusto in quel punto, un gruppo di insorti, con alla testa Giuseppa Bolognani, sboccava in piazza san Placido dalla cantonata di Casa Mazza, trascinando il cannone guadagnato ai borbonici e… videro in fondo a Piazza Duomo due squadroni di lancieri che si apparecchiavano alla carica. Temendo d’essere presi, scaricarono all’improvviso i loro fucili, abbandonando il cannone già carico; ma Giuseppa Bolognani restò impavida al suo posto e con grande sangue freddo improvvisò uno stratagemma dando nuova prova del suo meraviglioso coraggio. Sparse della polvere sulla volata del cannone e attese tranquilla che la cavalleria caricasse; appena gli squadroni si mossero, essa diede fuoco alla polvere ed i cavalieri borbonici credettero il colpo avesse fatto “cilecca”… Si slanciarono perciò alla carica, sicuri di riguadagnare il pezzo perduto: ma, appena avvicinatisi di pochi passi, la coraggiosa donna, che li attendeva a piè fermo, diede fuoco alla carica con grave danno degli assalitori, e riuscì a mettersi in salvo». Dopo queste imprese, Peppa abbandonò la gonnella e vestì con abiti maschili. Frequentò bettole e osterie dove giocando a carte era solita fumare la pipa o il sigaro tra

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un bicchiere di vino e uno di liquore. Per il suo eroismo, fu insignita della medaglia d’argento al valor militare e il Comune di Catania le assegnò una pensione mensile di 9 ducati, somma che poi chiese di convertire in una unica soluzione di 216 ducati. Una cifra consistente che pare finì nelle mani degli usurai che la circondarono quando nel 1876 ritornò a Messina. Fu figlia del buio anche per la Morte. Sappiamo che morì nella miseria e nella solitudine… nel 1876, o come affermano alcuni, nel 1900.



ARCHEOLOGIA SOTTO LE Meraviglie dell’antico illustrate dall’archeologo viaggio tra la storia e i monumenti per conoscere il territorio sotto inusuali punti di vista. Questo percorso lo ha affrontato, con tanti particolari e numerose foto, il dott. Giovanni Distefano, archeologo e funzionario della Soprintendenza, adesso direttore dell’area di Camarina. Lo ha fatto all’interno dell’iniziativa “Archeologia sotto le stelle” che si è sviluppata tra agosto e settembre interamente al castello di Donnafugata, proponendo una visita guidata all’antico maniero e due conferenze di approfondimento dedicate al sito archeologico di Camarina. L’iniziativa, organizzata dal Comune di Ragusa in collaborazione con MediaLive e con la Regione Siciliana, Assessorato per i Beni culturali e dell’Identità Siciliana –

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Area Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Ragusa, ha trovato grandi riscontri anche da parte dei turisti. Il primo appuntamento è servito a scoprire il castello di Donnafugata e soprattutto il suo giardino. Un castello come nessuno l’aveva mai visto. “La nostra idea – spiega l’archeologo Distefano – è stata quella di arricchire la visita guidata con alcuni commenti sul gusto dell’antico che il Barone Arezzo aveva profuso sia nell’arredo dei giardini che del palazzo. Abbiamo voluto ripercorrere il giardino riscoprendo il programma iconografico-simbolico dell’architettura del parco con l’interpretazione iniziatica ed esoterica dei vari luoghi, il giardino-fiorito, il giardino-ombroso, le grotte, il tempietto”.


L’archeologo ha parlato della presunta vita iniziatica del barone e dei simboli riportati all’interno del parco, con un viaggio che iniziava dentro la grotta, dove avveniva il battesimo lustrale, per poi compiere un percorso personale che si concludeva al tempietto con gli affreschi della volta celeste dopo aver svolto, anche attraverso il labirinto, un viaggio alla ricerca del proprio coraggio. Simbologia in parte riportata nei disegni di alcune stanze del castello. Ma la vera novità ha riguardato la presentazione, per i visitatori, di una piccola collezione archeologica raccolta dal Barone Arezzo e custodita nel castello e mai mostrata al pubblico. Si tratta di alcune brocche di età preistorica, di un’oinicoe di età ellenistica, di una lucerna tripolitana e di un’anforetta del V secolo d.C. Questi ultimi due reperti provengono da un piccolo ipogeo che si trova dietro al castello e che è stato espropriato dal Comune negli anni scorsi. Negli altri due appuntamenti, l’archeologo ragusano si è soffermato su Camarina anche grazie ad alcuni studi sviluppati in passato e alle ricerche archeologiche che ha condotto nel sito decenni fa, dopo l’archeologa Paola Pelagatti. Nel primo appuntamento Distefano ha parlato di un tema inedito: “Moglie e buoi… siculi. Matrimoni indigeni per i greci di Camarina”.

STELLE Giovanni Di Stefano Appare verosimile l’ipotesi

che gli uomini greci arrivati a Camarina si unissero con donne sicule

che portavano loro in dote delle anfore pregiate.

Queste, a volte, contenevano

scheletri di infanti, confermando l’uso

di inumazioni “alla greca” tipiche del VI sec. a.C.


Foto di Mario Russo tratte dalla pubblicazione “Da Thabraka a Camarina, l'ultimo viaggio” edita da Archeologia Viva-Giunti

Un tema affascinante che è diventato spunto per discutere anche dell’antica colonia poi distrutta. Lo studioso si è interrogato nel corso delle sue ultime ricerche sulle modalità di composizione dei gruppi familiari che arrivarono a Camarina da Corinto e Siracusa. C’erano già intere famiglie con infanti e adolescenti, oppure in questi trasferimenti c’erano solo uomini e dunque si fecero matrimoni con donne del luogo? Per rispondere a queste domande Distefano ha studiato alcune tombe della prima generazione rinvenute a Camarina nella località Rifriscolaro. Per la prima volta sono stati presentati gli studi su dieci tombe inedite con corredi ceramici risalenti al VI secolo a.C. oltre ad altri oggetti. In alcune di esse sono state trovate suppellettili, anfore e brocche, di chiara manifattura siciliana, con stili ben lontani da quelli greci. Da questi dati è stato possibile estrapolare alcune considerazioni antropologiche che, associate ai risultati di altre necropoli greche dell’entroterra, sono stati utili a formulare alcune interessanti chiavi di lettura. Una prima ipotesi porterebbe a pensare che gli uomini greci arrivati a Camarina si unirono con donne sicule che, come ha mostrato Distefano, portavano in dote delle pregiate anfore. E queste donne dovevano essere presumibilmente indigene avendo la possibilità di disporre delle creazioni degli artisti e dei fabbricanti locali. Corredi ceramici risalenti al VI secolo a.C. oltre ad altri oggetti posseduti in vita da queste donne e donati a volte ai propri mariti greci. In molte anfore, alcune delle quali con sopra dei tappi, sono stati rinvenuti gli scheletri degli infanti. Le anfore, ancorché di fattura siciliana (alcune di esse provengono dalla zona dell’agrigentino) sono state infatti usate per le inumazioni alla greca, tipiche di quel periodo. Una scoperta che chiarisce e rivoluziona al tempo stesso i rapporti di parentela nell’ambito delle prime famiglie che abitarono Camarina. L’ultimo appuntamento ha riguardato la storia di un viaggio. Più esattamente “L’ultimo viaggio. Da Tabarka a Camarina”. Distefano ha ripercorso la scoperta di un relitto con un ricco carico commerciale arenatosi nella spiaggia di Camarina. Lo ha fatto ricostruendo le tappe principali di questo viaggio, da Tabarka a Cartagine, fino al naufragio nelle acque antistanti Camarina. Distefano ha analizzato la composizione del carico e presentato il luogo in cui furono ricavate le due colonne, a Simitthus, tra la Tunisia e l’Algeria. Una tempesta avrebbe impedito alla nave, partita da Tabarka, di arrivare alla destinazione finale, Roma o addirittura Costantinopoli. Alla riscoperta delle vicende che hanno coinvolto uomini e merci divenute protagoniste della storia del Mediterraneo antico, il viaggio è stato reso ancora più suggestivo dalle splendide immagini realizzate da Mario Russo relative ai fondali camarinensi con i resti del relitto. Sono state presentate le immagini delle anfore dove era stato conservato il pesce salato, e alcuni straordinari vasi di bronzo riccamente decorati. Storie dimenticate, al centro del Mediterraneo, che Distefano ha voluto recuperare. M.L.


Piccole e medie imprese per lo sviluppo turistico Intervista ad Andrea Corso, vice presidente di Asshotel e presidente di Assoturismo Sicilia

Ingior parte della responsabilità dei problemi legati al turismo, alle

Italia si è radicata una corrente di pensiero che attribuisce la mag-

Piccole e Medie Imprese. Partendo da questa condizione ideologica negativa, fortemente respinta dall'autore, nasce “ P M I n e l t u r i s m o – U n ' o p p o r t u n i t à p e r l o s v i l u p p o ” . Il libro, curato da Giancarlo Dall'Ara, docente all'Università di Perugia, per conto della Confesercenti Emilia Romagna, è stato presentato a Roma, nella sede nazionale di Asshotel-Confesercenti. Si tratta di un monitoraggio del biennio 2008-2009 che illustra la situazione turistica del Paese, completamento di un'indagine realizzata con il Primo rapporto sulle Pmi turistiche, presentato a Bologna. Andrea Corso (vicepresidente nazionale di Asshotel e presidente di Assoturismo Sicilia), partendo da un'attenta lettura del testo di Dall'Ara, analizza il panorama turistico attuale. - Quale può e deve essere il ruolo di Assoturismo per promuovere e valorizzare le PMI, anche nei confronti delle istituzioni e degli enti pubblici? Il ruolo di sensibilizzazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni deve essere forte. Occorre far comprendere che la strada da percorrere è quella di consentire l'insediamento di quante più PMI possibili. Non si può fare sviluppo nel turismo puntando solo sulle grandi imprese. Non è possibile applicare il criterio dimensionale tipico dell’industria al settore turismo. Le PMI rappresentano l’unica chance che permette di far emergere lo sviluppo dal basso, l’unico strumento territoriale per fare in modo che il turismo arrivi veramente. Nel settore turistico “piccolo è bello!”. Questa tendenza è diventata ancora più forte dopo che si è ormai affermata la rivoluzione sulle prenotazioni e sugli acquisti on line, in un contesto dove qualunque media e piccola struttura può accedere al mercato globale. - I dati statistici europei rivelano che, in molti Paesi, gli alberghi medio-piccoli sono in numero superiore rispetto all'Italia. Come invertire questa tendenza? Non bisogna invertire la tendenza. È giusto che ci sia una fetta di grandi alberghi, che in Italia è pari al 16-17% circa, ma non è corretto che ci

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Lipari - Foto di Maria Rosaria Sannino

sia un quantitativo maggiore di piccoli alberghi che non siano riconosciuti come validi interlocutori. Dobbiamo sfatare il mito che la grossa presenza di Pmi sia un problema per lo sviluppo turistico. Il quantitativo percentuale è inferiore rispetto all'Europa. Il dato medio dei nostri maggiori competitor è di 28 camere, in Italia 32 e questa tendenza in Sicilia è ancora maggiore. Non è necessario, quindi, invertire, ma credere ed irrobustire questo schema turistico, affinché le Pmi, che sono in grande maggioranza, siano fonte di sviluppo superiore alla grande impresa turistica. Abbiamo bisogno di un territorio ed una politica che siano in grado di fornire risposte adeguate. - Il Sistema turistico nazionale è debole, persino “malato”. Quale medicina suggerisce per la cura? È malato perché ci sono troppi Enti che fanno promozione: su oltre 33 mila alberghi, ci sono più di 13 mila Enti che fanno promozione a vario titolo con soldi pubblici. Questo è il vero problema del sistema turistico italiano; in particolare in Sicilia, l’istituzione dei distretti turistici rischia di moltiplicare la spesa per la promozione turistica. - La Sicilia, con il suo forte potere attrattivo naturalistico, monumentale ed architettonico, può avere un ruolo importante, e come? La Sicilia è sicuramente una realtà turistica sottostimata. Si potrebbe ambire a raddoppiare le presenze turistiche da qui a qualche anno. Ne abbiamo sicuramente le potenzialità, migliorando soprattutto le infrastrutture ed i servizi.

- La politica del nostro Paese e, in particolare, quella siciliana, tende a trascurare le PMI come opportunità di sviluppo. Cosa ne pensa? La politica sbaglia! Il problema è non aver ancora compreso l’importanza del turismo. Grande impresa, grande sindacato. Questo è un errore culturale che ha radici profonde, che non permette di uscire dagli schemi stereotipati e di stile “fordista”. Con l'attuale Giunta regionale sono stati stanziati molto soldi per l’industria, mentre non è stato dato credito sufficiente al sistema turistico. Probabilmente l'età media elevata della classe politica è un limite, così come la scarsa capacità di investire nell’innovazione. - Il libro di Giancarlo Dall'Ara ha l'obiettivo di dare vita ad una corrente di pensiero che sappia valorizzare le specificità delle PMI. È un progetto solo ambizioso? È realtà, innanzitutto, perché descrive fatti, non solo opinioni. I piccoli e medi alberghi costituiscono la stragrande maggioranza della piattaforma ricettiva in Italia. Non c'è dubbio che il numero delle camere è più alto rispetto all’Europa. Bisogna sfatare alcuni miti. Se la Francia è davanti a noi come destinazione e contiene un numero di Pmi superiore al nostro, con un numero di camere mediamente inferiore, ci sarà un motivo. In Sicilia la situazione è migliore. In media le strutture sono più grandi ed hanno un’incidenza minore, ma con maggior numero di camere. Non è vero che le Pmi sono un fattore di debolezza, questa è una “bufala” di chi deve realizzare qualche villaggio turistico con soldi pubblici. Il libro di Dall'Ara è la base scientifica per una nuova cultura. È un progetto ambizioso che riporta dati di fatto. Giuseppe Aloisio



La ricchezza di un frutto povero Viaggio nell’economia del carrubo tra passato e presente

di Giovanni Criscione la fine d’agosto e i primi di settembre, le assolate e isolate contrade della campagna iblea, dall’altopiano al mare, si animano di un insolito via vai di uomini e mezzi. Chini ai piedi dei carrubi dall’ampia chioma verde scuro, uomini d’ogni età raccolgono i frutti che poco prima avevano fatto cadere scuotendo i rami con lunghe canne. Trattori e camion si spingono in fondo alle bianche trazzere che costeggiano i campi e i prati più sperduti e ne ritornano colmi di pesanti sacchi di juta, spandendo nell’aria il caratteristico odore delle carrube appena raccolte. Comincia così il lungo viaggio delle carrube dalle brulle plaghe degli Iblei alle case e alle tavole di tutto il mondo,

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dalla Svizzera alla Nuova Zelanda, dal Giappone all’Inghilterra, dalla Germania agli Stati Uniti. Sono decine, infatti, i campi d’impiego della carruba e dei suoi derivati, dall’industria cosmetica alla farmaceutica, dalla zootecnia al tessile, dall’industria alimentare alle produzioni dolciarie. Alcuni impieghi sono noti fin dall’antichità, altri sono recentissimi. Dietro l’economia del carrubo sta un intreccio di sedimentazioni storiche e d’intuizioni moderne che riguardano il paesaggio agrario, la cultura materiale, le tradizioni contadine, l’immaginario collettivo, l’economia e l’industria. Il carrubo, originario dell’Asia minore, alligna sulle sponde centro-meridionali del Mediterraneo. Cresce su ogni tipo di terreno. Resiste bene ai climi caldi. Non richiede cure


Foto Giancarlo Tribuni Silvestri

La carruba, introdotta dagli arabi, oltre che come foraggio per il bestiame, in tempi di miseria fu utilizzata anche come cibo per i poveri

né acqua né concimazioni. E nemmeno potature, che stimolano la vegetazione a danno della fruttificazione. Per gli Arabi, che lo introdussero in Sicilia, era l’ideale per una terra che, tranne le coste e le pianure ricoperte da orti e giardini, era arida, impervia e scarsamente abitata. Oltretutto produceva una bacca scura dalla polpa verde chiaro, utilizzata dagli Arabi come foraggio per i loro preziosi cavalli. All’idea di un’agricoltura estensiva, dunque, si associava quella di un’economia coloniale che rifornisse i mercati della madrepatria. Oltre che come foraggio per il bestiame, in tempi di miseria fu utilizzata anche come cibo per i poveri.

Foto Giancarlo Tribuni Silvestri


Dai Florio all’agronomo modicano Clemente Note fin dall’Ottocento quando una famiglia di imprenditori palermitani, i Florio, impiantarono a Catania uno stabilimento per l’estrazione dell’alcool dalla polpa delle carrube. L’Ottocento fu il secolo d’oro per la bacca bruna. Velieri carichi di carrube, grano e vino salpavano dallo scalo di Pozzallo, diretti ai porti di Malta, Napoli e Marsiglia. Nel 1897 l’agronomo modicano Clemente Grimaldi convinceva il presidente del Consiglio, Antonio di Rudinì, e il ministro della Guerra, Luigi Pelloux, a far acquistare le carrube dal governo come mangime per gli stalloni dell’esercito. Per grossisti e mercanti gli affari prosperavano.

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Poi iniziò il lento declino. L’autarchia fascista valorizzò un’ampia gamma di surrogati di the, caffè, cacao e dolcificanti (il karmel) prodotti con le carrube, ma non riuscì ad arrestarne la crisi. Nel 1947 l’importazione di carrube dall’isola di Candia, imposta all’Italia con la sconfitta in guerra, per poco non scatenò una sommossa nel ragusano, dove le bacche marcivano invendute nei magazzini. Nel dopoguerra, la meccanizzazione dell’agricoltura, l’aumento delle imposte sull’alcool e la concorrenza dei procedimenti di sintesi limitarono notevolmente la domanda di carrube, provocando la riduzione delle superfici coltivate.


Foto Giancarlo Tribuni Silvestri

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Grimaldi

Foto Giancarlo Tribuni Silvestri


RAGUSA E SIRACUSA LEADER NAZIONALI COL 90% DI PRODUZIONE L’albero sopravvisse solo nelle province di Ragusa e Siracusa, dove nel corso dei secoli era stato impiegato con successo per rimboschire i fianchi pietrosi delle colline. Fu così che il carrubo divenne un elemento caratteristico del paesaggio agrario ibleo, insieme alle masserie e ai muri a secco. Talmente caratteristico da entrare potentemente nell’immaginario di artisti e poeti: il maestro Salvatore Fratantonio, per esempio, ha fatto del carrubo uno dei soggetti preferiti della sua pittura già dagli anni Settanta. Nei suoi quadri, i carrubi si stagliano solitari contro l’orizzonte collinare nella luce del giorno, dell’alba e del tramonto, con i suoi tronchi contorti e aggrovigliati, dalle forme flessuose e sensuali, quasi corpi ammiccanti. Se per il pittore modicano i carrubi esprimevano l’idea della solitudine, per molti siciliani dopo il 1992 quegli alberi secolari divennero monumenti “vivi” alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i giudici uccisi dalla mafia. Nell’immaginario collettivo i carrubi divennero simboli della capacità di resistenza alle avversità. Nella realtà, però, erano quasi spariti, tanto che nel 1990 la Regione Sicilia, nell’ambito di un’azione di tutela del paesaggio, dovette istituire degli incentivi economici per il mantenimento dei carrubeti, salvandoli così dall’estinzione. In Italia, oggi, la coltivazione del carrubo è concentrata nelle province di Siracusa e Ragusa, che detengono anche il 90% della produzione nazionale di carrube. Di recente, le nuove possibilità d’impiego industriale delle carrube hanno favorito la ripresa delle produzioni. Nelle due provincie sono sorte imprese di commercializzazione e trasformazione delle carrube in derivati e semilavorati, destinati ai vari usi nelle industrie italiane ed estere. Per chi le coltiva e le raccoglie, però, le carrube hanno il sapore amaro del lavoro ingrato. E poco remunerato. Al massimo, ci si rifà delle spese. I grossisti, infatti, le pagano venti centesimi di euro al chilo, prima di rivenderle ai fornitori dell’industria “ricca” dei laboratoires e della chimica alimentare. Da questo punto di vista, non siamo lontani da quell’economia coloniale immaginata dagli Arabi per la nostra isola.

La carruba e i suoi derivati Nell’industria zootecnica, la farina di semi di carruba è ormai un elemento indispensabile per la produzione dei cibi pronti in scatola per cani e gatti. Inoltre, la polpa frantumata è impiegata per l’integrazione alimentare di bovini, suini, equini e pollame, grazie al suo contenuto di fibre, proteine e zuccheri. Nell’industria cosmetica, le mucillagini, i galattomannani e i polisaccaridi naturali, di cui i semi di carruba sono ricchi, vengono impiegati per maschere e creme idratanti, leviganti e rivitalizzanti della pelle. Le sostanze pectiche e i tannini, dalle proprietà astringenti, sono utilizzati dall’industria farmaceutica nei trattamenti antidiarroici. L’industria alimentare, poi, fa largo uso di farina di semi e carcao. La prima, per le sue proprietà addensanti e stabilizzanti delle emulsioni, serve da base per i gelati, le salse, le marmellate, le creme, le zuppe e le minestre in scatola o disidratate in busta, i formaggi freschi spalmabili, i budini e i dessert a struttura gelatinizzata, gli insaccati di carne, i semilavorati di frutta destinati all’industria lattiero-casearia (yogurt) e alla pasticceria. Il secondo, un succedaneo del cacao a basso contenuto di grassi, entra nella preparazione industriale dei prodotti dietetici. Negli ultimi anni, infine, la carruba è diventata protagonista della pasticceria locale, con una linea di prodotti che va dalle granite alle caramelle, dai biscotti al “karubello”, un liquore dolce.

Foto Antonio Tumino



“ …come la morte tutto il bello dell’uom guasta…”

Facciata della chiesa di S. Maria delle Grazie

Le mummie di S. Maria della Grazia a Comiso Cripta - foto Maurizio Barone


di Giuseppe Nuccio Iacono chiesa di S. Maria della Grazia, detta dei Cappuccini, rappresenta un unicum nella Sicilia orientale per la sua “cripta” dove sono conservate ed esposte alcune mummie. Anche se l’argomento non è dei più piacevoli, non si può negare l’importanza che questa lugubre realtà ebbe nel passato quando nella piena “normalità del quotidiano” si testimoniava la caducità della vita terrena. Il messaggio delle mummie era chiaro: la morte prevale sulla materia e solo l’anima, nel bene del Paradiso o nel male dell’Inferno, è destinata a vivere in eterno. Santa Maria della Grazia, sorge su una piccola altura di Comiso, in un’area che nel XVII secolo era ancora periferica. L’anno della fine dei lavori di costruzione è segnato sull’architrave del portale insieme al “titulus” della vergine cui è dedicata la chiesa: “S. Maria della Gratia - 1616”. Dopo qualche anno, i PP. Cappuccini edificarono sul lato est della struttura chiesastica, la cappella mortuaria. Altro importante corpo di fabbrica era costituito dal convento che per secoli ha custodito gli incunaboli e le antiche pergamene che ora costituiscono il “Fondo antico” della Biblioteca “F. Stanganelli”. Il convento è noto anche per aver dato asilo ad alcuni cospiratori antiborbonici. Nell’agosto del 1859, qui si rifugiò sotto il falso nome di “Manuel Paseda”, Francesco Crispi, colui che sarebbe diventato primo ministro

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Foto Giancarlo Tribuni Silvestri

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del regno d’Italia. Di questa utile ospitalità offerta dai PP. Cappuccini si dimenticarono i Savoia che con le “avide” leggi del 1866, per incamerare i beni ecclesiastici si trasformarono in veri e propri “royal groupiers”. Il complesso religioso fu così adibito ad altra funzione per diventare Ospedale Regina Margherita. Oggi, dopo alcuni lavori di recupero, la chiesa è finalmente aperta ai visitatori (per gli orari rivolgersi all’Ufficio turistico di Comiso). Il prospetto è piuttosto semplice. La superficie è timidamente interrotta dal portale, da una finestra centrale e da un accenno architettonico destinato ad accogliere la piccola campana. Una volta oltrepassato l’ingresso, troviamo un elemento ligneo del XVII sec. che funge da divisorio e sul quale, in alcuni riquadri, sono dipinti alcuni ritratti di Santi: interessanti i 4 evangelisti nella fascia superiore. La chiesa è a una unica navata con copertura a botte e la parete interna della facciata accoglie un antico organo e una cantoria sostenuta da colonne. Sul lato destro sono due altari, mentre sulla parete di sinistra si aprono due cappelle e il passaggio che conduce alla cappella delle mummie. Sugli altari e nelle cappelle laterali sono presenti quadri di modesta fattura e riconducibili a differenti periodi: tra questi, due opere del Careni dedicate a San Francesco (XVII sec) e una “Addolorata” (XVIII sec). Ciò che colpisce il visitatore è la ridondante ricchezza (o pesantezza) plastica dell’altare maggiore. Qui è un’ampia e variegata composizione di dipinti e intarsi in tartaruga, avorio e legni pregiati si estende su tutta la parete di fondo e avanza con linee sinuose, nella parte centrale. Al centro domina una copia della Deposizione del Rubens realizzata, nel 1663, dal comisano M. Gusmano. Nel paliotto d’altare in cuoio balzato risalta, tra ricchi decori un dipinto de “La Madonna di Perugia”.

Foto Giancarlo Tribuni Silvestri

Ritratto e Nicchia di Frate Mansueto da Comiso. Foto Giancarlo Tribuni Silvestri


Foto Giancarlo Tribuni Silvestri


Foto Giancarlo Tribuni Silvestri

Nei primi anni del ’700, uno strato di intonaco ricoprì i magnifici affreschi che in origine decoravano le pareti. Tracce di queste pitture sono state riportate alla luce e sono visibili nel secondo altare di destra e nell’arco della seconda cappella. Da un passaggio situato a sinistra, sotto la cantoria, si accede ad una stanza che conduce alla camera dove si operava la mummificazione (essiccatoio) e alla cappella delle mummie. Quest’ultima è impropriamente detta cripta o catacomba: in effetti è una camera mortuaria, non sotterranea e illuminata in alto da ampi finestroni. In questa cappella più che preghiere si alzano riflessioni sulla vita e sulla morte. L’ambiente genera nel visitatore tante emozioni: sorpresa, curiosità, inquietudine, turbamento e pace accompagnano l’osservazione delle spoglie imbalsamate dei frati, benefattori e laici del Terzo Ordine dei Cappuccini. Molti tengono il rosario in mano, altri sono umiliati da corone di spine e da un cappio al collo, domina ovunque il saio della penitenza. Ogni soggetto è identificato da una targhetta di legno (legata al polso) dove è indicato il nome, la città di provenienza e la data di morte (che va dal 1742 al 1838). Occupavano questi spazi dopo essere stati sottoposti all’essiccamento; un processo agevolato dalle condizioni ambientali della stanza di mummificazione. Qui i corpi distesi

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Altare maggiore della Chiesa - foto Maurizio Barone


Particolare del paliotto dell’altare maggiore - foto Maurizio Barone -

Elemento ligneo dipinto. Particolare superiore con i 4 evangelisti - foto Maurizio Barone -

La Vergine incoronata con bambino e santi - foto Giancarlo Tribuni Silvestri -

Tracce di antiche pitture - foto Maurizio Barone -

(o seduti) erano rinchiusi per un periodo di circa un anno. Sottraendo l’umidità dal corpo se ne impediva la decomposizione. In seguito venivano lavati con acqua e aceto, rivestiti e collocati in casse di legno (ne vediamo due nella cappella) oppure nelle nicchie. I corpi mummificati sono sistemati in nicchie e hanno la testa rivolta verso l’interno della cappella per chiedere ai fedeli una preghiera per la salvezza della loro anima, forse destinata alle fiamme del Purgatorio… come ricorda la tela d’altare.

Sopra la porta, si trova la nicchia e il ritratto di frate Mansueto di Comiso, morto nel 1749 in odor di santità. Sul lato opposto, l’altare di modesta fattura è sormontato da una tela raffigurante le “Anime del Purgatorio”. Degno di nota invece il dipinto del XVII sec. posto a destra dell’altare: rappresenta una “madonna con bambino” tra santi intercessori. Un’opera di pregio, senz’altro, ma molto deteriorata proprio dal tempo. Quel tempo che in questa cappella l’uomo ha osato sfidare.

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Apransi ormai le sotterranee porte di quest’orrido avel tomba e prigione acciò veda ciascun come la morte tutto il bello dell’uom guasta e scompone. Di cadaveri estinti in varia sorte l’ossa spolpate a meditare espone e fastosa col piè preme ben forte toghe, porpore, mitre, ostri e corone… “tratto da un componimento conservato nella cappella delle mummie”.

Foto Giancarlo Tribuni Silvestri



PROGETTO INCLUSIONE SOCIALE DETENUTI

Nell’Area Marina Protetta del Plemmirio il “sorvegliato” diventa “sorvegliante” la presentazione ufficiale, nel salone RomanoFerruzza della sede dell’Area Marina Protetta del Plemmirio a Caserma Abela, ha preso il via da Siracusa il progetto sperimentale per l’inclusione sociale di soggetti adulti in esecuzione penale, denominato “Liberamente”. L’iniziativa, finanziata dall’Assessorato Regionale alla Famiglia, nasce dalla sinergia del Consorzio Quark, dell’Area Marina Protetta del Plemmirio e dalla delegazione di Agrigento di Marevivo e punta a fornire una “seconda chance” di vita a quaranta detenuti della Casa Circondariale di Cavadonna. L’8 giugno 2004, gli allora Ministri all’Ambiente e della Tutela del Territorio e alla Giustizia, siglarono un protocollo d’intesa per fare del sistema delle aree protette italiane un laboratorio dove sperimentare azioni di reinserimento sociale dei detenuti per promuovere l’attività lavorativa degli stessi. Il 15 settembre dello stesso anno venne istituita l’Area Marina Protetta del Plemmirio di Siracusa. Questi sono gli anni della sperimentazione in Sicilia del primo triennio della L 328/00 che vede, oltre all’integrazione dei servizi sociali e sanitari, anche il nuovo modello della programmazione partecipata delle politiche di welfare del territorio: servizi ed interventi basati sui reali bisogni dei cittadini pensati e realizzati

Con

nell’ottica di un beneficiario che da oggetto diventa soggetto attivo di partecipazione. Quaranta, in totale, i soggetti beneficiari scelti, a questo scopo, tra i detenuti di Cavadonna. Venti, seguiranno un percorso formativo di diciotto mesi e saranno inseriti in attività formative come la manutenzione del legno e la realizzazione di un laboratorio ecologico di educazione ambientale. Per i venti soggetti detenuti in esecuzione penale esterna si profila la formazione della figura di operatore delle aree protette. Sempre con lezioni frontali, con laboratori e attività pratiche, i beneficiari, potranno conoscere gli aspetti legati alla normativa nelle aree protette, l’educazione ambientale, la flora e la fauna nelle aree marine protette, i servizi rivolti ai disabili ed ai bambini. Potranno inoltre conseguire il brevetto di I° livello subacqueo e la patente nautica entro le sei miglia. Impareranno anche ad utilizzare i sistemi di video sorveglianza e la “work esperienze” avrà luogo presso gli uffici e gli spazi marini e terrestri dell’Amp Plemmirio di Siracusa. La scommessa e l’obiettivo finale di questo progetto, oltre all’inserimento lavorativo, sono quelli di far riappropriare il beneficiario del concetto di legalità e di regole che garantiscano il successo personale e la qualità del sistema aree protette. Il beneficiario passa

© Area Marina Protetta Plemmirio


da “sorvegliato” a “sorvegliante” che deve quindi trasferire a tutti i fruitori delle Aree Protette concetti, regole, divieti, che garantiscono la sostenibilità dell’intervento. Paradossalmente, i due percorsi, quello dell’uomo e dell’ambiente, hanno piena realizzazione solo con la messa in atto della legalità. La sensibilizzazione avverrà attraverso la creazione un sito web che, per tutto il periodo della realizzazione dell’intervento, si aggiornerà con l’avanzamento lavori. Alla fine del percorso verrà realizzato un report che sarà presentato in un Seminario a tutti gli attori coinvolti: ai Ministri dell’Ambiente e della Giustizia, nonché ai Responsabili delle altre aree protette, nazionali ed internazionali, della rete Unesco, con lo scopo di trasferire le “buone pratiche” in altri territori. Graziella Ambrogio Ufficio Comunicazione Area Marina Protetta del Plemmirio info1@plemmirio.it La presentazione del progetto “Liberamente”

Viale Scala Greca, 406 - Siracusa Tel. 0931 751082 - Fax 0931 490873 liberamente@quarkcons.com

Consorzio Plemmirio Piazza Euripide 21 - SR tel + 39 0931 449310 fax + 39 0931 449954 www.plemmirio.it

© Area Marina Protetta Plemmirio


C’È UN TESORO IL MUSEO DI ADRANO Dalla preistoria all’età arcaica e classica è una struttura moderna a misura del visitatore ambito del POR Sicilia 2000–2006 si è realizzato il “Progetto di nuovo allestimento del Museo Regionale di Adrano”. Esso, seppur principalmente mirato all’allestimento museale, ha creato i presupposti per curare anche minime opere di restauro che, per ragioni di carattere organizzativo e funzionale, non erano state prese in considerazione in precedenza. Le problematiche, emerse in fase di progettazione prima e di esecuzione dopo, sono state alquanto complesse, considerato che si è dovuto coniugare l’aspetto funzionale del nuovo allestimento, nel pieno rispetto delle norme che regolano la sicurezza e la fruizione degli immobili a destinazione museale, con quello conservativo, verso il quale si è cercato di intervenire senza incidere sugli elementi caratterizzanti il manufatto e anzi, in qualche caso, evidenziandone le peculiarità. Queste considerazioni, ritenuto che proprio l’istituzione del Museo rappresenti un punto di riferimento di grande rilevanza culturale nel territorio, hanno fatto sì che l’intervento, nel suo complesso, venisse rivolto fondamentalmente verso la realizzazione del nuovo allestimento museale, senza trascurare gli aspetti riguardanti il recupero architettonico del manufatto. A tale scopo è stato curato prioritariamente lo studio del percorso di visita. Di conseguenza è scaturita una serie di interventi che lo rendesse fruibile ad un più vasto numero di visitatori. Così, per non interferire con i flussi in ingresso ed in uscita, il piano terra è stato collegato al primo attraverso una scala in acciaio posta nell’intercapedine tra la cinta muraria ed il castello, mentre, al fine di disimpegnare i primi tre livelli dedicati interamente all’esposizione, all’ultimo piano hanno trovato posto gli uffici di direzione e di custodia del museo. Da questo piano, inoltre, è possibile accedere al terrazzo di copertura. Per rendere possibile la visita ai diversamente abili è stato realizzato un ingresso, a Sud, attraverso la riapertura di un varco

Nell’

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La cerimonia di inaugurazione del Museo di Adrano


NEL CASTELLO

preesistente nella cinta muraria fortificata a livello stradale e l’installazione di un elevatore tra il piano terra ed il primo; inoltre, attraverso una rampa, ad Ovest del primo piano, è possibile accedere al riproposto camminamento esterno, tra il torrione e la cinta fortificata cinquecentesca. Oltre a riproporre il camminamento esterno è stato realizzato un nuovo solaio al terzo piano, del tipo misto legno-calcestruzzo e struttura portante in legno lamellare a vista, in sostituzione del vecchio, in calcestruzzo armato. La scelta delle pavimentazioni è stata rivolta verso l’utilizzo della pietra lavica per quanto riguarda gli ambienti esterni ed il piano terra mentre, per il primo e secondo piano, è stato predisposto un pacchetto ignifugo e dogato in legno. Il terzo piano, invece, è stato pavimentato con mattoni in cotto. Gli ambienti destinati a servizi ed impianti, funzionali al Museo, sono stati posizionati lungo l’intercapedine di piano terra, dove meno interferiscono con il percorso di fruizione e di visita e le strutture storicizzate del monumento. Gli interventi a carattere conservativo consistono, in larga massima, nella riconfigurazione e nel restauro del para-

mento murario interno, a vista, del piano terra e del primo. A questo livello sono state demolite le murature e i servizi dei locali precedentemente destinati ad uffici ed al personale di custodia. Attraverso l’installazione di nuovi corpi illuminanti e di 26 vetrine espositive, ai piani, l’allestimento ha assunto l’immagine definitiva. In conclusione, gli interventi eseguiti hanno restituito l’immagine architettonica storicizzata del monumento e l’antico rapporto visivo col circostante soddisfacendo, altresì, le norme che regolano la sicurezza e la funzionalità degli edifici pubblici a destinazione museale. Il primo museo archeologico nacque ad Adrano nel 1902, per volontà del reverendo Salvatore Petronio Russo, appassionato cultore della storia e dell’archeologia del paese. Pur assai limitato, era costituito da due sezioni, ospitate nella stessa casa del fondatore. Purtroppo le collezioni raccolte al suo interno, delle quali esiste un’immagine in una pubblicazione del 1907, andarono quasi tutte disperse alla morte del fondatore, anche se alcuni reperti si sono conservati e oggi sono fra i pezzi più pregevoli del Museo.

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LE COLLEZIONI ARCHEOLOGICHE Occupano tre piani del Castello e comprendono materiali che coprono un arco di tempo di svariati millenni, dall’età neolitica (6500–3500 a.C.) al periodo arabo–normanno (XI sec. d.C.). L’esposizione comincia nei saloni del piano terra, interamente dedicati alla preistoria e alla protostoria. Vi trovano posto materiali riferibili ai villaggi dell’età neolitica (6500–3500 a.C.), della prima età dei metalli (3500–2200 a.C.) e del bronzo antico. Una posizione di rilievo occupano gli splendidi corredi di vasi dell’età del bronzo antico (facies di Castelluccio, 2200–1450 a.C.) rinvenuti nelle grotte di scorrimento lavico dislocate tra Adrano e Biancavilla. Si chiude con la documentazione archeologica relativa alle culture dell’età del bronzo medio e finale (1450-900 a.C.) e della prima età del ferro. Attraverso la stretta scala ricavata nel muro perimetrale del castello si accede alle sale del primo piano dedicate all’età protostorica, arcaica e classica. Una nutrita documentazione archeologica proviene dall’antica città del Mendolito di Adrano (VII-V sec. a.C.). Posizione di rilievo spetta ad una campionatura di un ripostiglio di bronzi (proprietà Ciaramidaro) e ad una statuetta bronzea raffigurante un banchettante, piccolo capolavoro di età arcaica (530 a.C.). Le necropoli sono documentate attraverso i corredi delle tombe a “tholos” (seconda metà VII–metà V sec. a.C.) rinvenute in contrada Sciare Manganelli. Una posizione rilevante spetta all’elmo bronzeo di tipo “calcidese” (500-480 a.C.) recuperato in una tomba tra le due guerre mondiali. Una nutrita ed interessante documentazione di età arcaica e classica proviene da varie località della Sicilia centro-orientale con la ricca selezione dei corredi funerari di un complesso di tombe a camera di contrada Poira (Paternò) e una scelta di reperti bronzei e ceramici di varia provenienza. Il secondo piano è riservato ai reperti di età tardo-classica, ellenistica, romana e medievale. Sono esposte le collezioni restituiteci dalla città greca di Adranon, l’insediamento siracusano fondato, secondo Diodoro Siculo, intorno al 400 a.C. La rassegna di materiali è costituita da vasi acromi, a figure rosse e a vernice nera, talora con decorazione sovradipinta, statuette di terracotta, oggetti di uso quotidiano provenienti sia dagli scavi dell’abitato, sia da quelli delle necropoli che si estendevano, ad est e ad ovest, fuori le mura della città. Fra i materiali di età romana, bizantina e medievale del territorio adranita si possono visionare ceramiche, vetri, monete e metalli: tra questi due interessanti incensieri e due cucchiai di bronzo databili ai secoli VI-VIII d.C.


IL CASTELLO NORMANNO La tradizione ne attribuisce la fondazione a Ruggero I, il condottiero normanno che intorno al 1070 sottrasse Adrano al dominio degli Arabi e morendo lasciò tutto in eredità alla nipote Adelasia. Sulla base di questa ipotesi, il torrione farebbe parte di quegli articolati sistemi di difesa che i Normanni impiantarono nella Sicilia orientale allo scopo di controllarne militarmente il territorio e garantirsene il dominio. Il castello di Adrano, insieme a quelli delle vicine Paternò e Motta Sant’Anastasia, sarebbe stato dunque costruito per controllare la via d’accesso all’entroterra lungo la valle del fiume Simeto e garantire ai conquistatori il controllo della città di Catania e del territorio retrostante. Nei secoli successivi alla sua fondazione, il castello fu residenza di importanti famiglie siciliane, i Pellegrino, gli Sclafani, i Moncada, che dall’alto della sua mole dominarono Adrano e il suo territorio per lungo tempo. La fortezza terminò di essere sede nobiliare nel XVII secolo. In quel tempo i soffitti dei piani più alti erano già crollati (forse per il fortissimo terremoto del 1693) ed era cominciato il declino dell’edificio, da quel momento sfruttato come carcere e solo nel primo piano, l’unico utilizzabile. Così lo vide Ignazio Paternò Castello alla fine del Settecento quando, descrivendo Adrano, parla della “bella torre del tempo dei Normanni, che fu l’abitazione dei suoi conti, ed oggi serve per carcere dei malfattori”. Così rimane fino al 1958, nel momento in cui cessa di essere utilizzato come luogo di pena e, grazie ad una accurata opera di restauro degli antichi e severi saloni, rinasce come museo. Foto © Regione Siciliana Assessorato Beni Culturali e dell'Identità Siciliana.

Servizio Parco Archeologico della Valle del Simeto. Fotografie realizzate da Giuseppe Barbagiovanni e dalla SINTER - G. Barbagiovanni

NASCE IL PARCO ARCHEOLOGICO “VALLE DEL SIMETO” Il Museo Regionale Archeologico di Adrano si inserisce nel nascente “Parco Archeologico della “Valle del Simeto e delle aree archeologiche del comprensorio vallivo e dei Comuni limitrofi” che avrà sede nel Comune di Adrano, anche in considerazione della centralità del museo nonché delle aree archeologiche presenti sul territorio adranita. Il Museo, sino ad oggi diretto dall’archeologa Gioconda La Magna, che con le nuove nomine delle strutture dirigenziali andrà ad occupare la posizione di dirigente del Servizio del Parco, sarà diretto dall’architetto Nello Caruso a seguito della creazione della Unità operativa “Museo regionale di Adrano e antiquaria, biblioteca, identità siciliana, educazione permanente e promozione culturale”. Il nascente Parco archeologico prevede anche l’Unità operativa di “Staff, risorse umane e formazione, contabilità e sicurezza” - diretta dall’architetto Alfio Anzalone e l’Unità operativa “Scavi, monitoraggio, manutenzione e restauro” diretta da Sebastiano Fazzina.

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Suggestioni ed atmosfere d’altri tempi Un’Azienda situata in luoghi incantevoli che si apre ai visitatori e a quanti amano il Vino Contrada Feudo S. Anastasia, alle porte del centro abitato di Randazzo, il paese più vicino al cratere del’Etna, in un territorio dove tutto risalta per l’eccellenza, sorge l’Azienda di Turismo rurale Feudo Vagliasindi. Incastonata tra i due parchi naturali dell’Etna e dei Nebrodi e confinante con la riserva naturale del fiume Alcantara, la struttura dista poche centinaia di metri da un importante sito archeologico, nel quale sono staterinvenute consistenti tracce e testimonianze risalenti alle civiltà bizantina, greca e romana. Ad appena 4 km si svela in tutto il suo fascino Randazzo, l’antico borgo medievale fortificato dove i vicoli, che si “intrecciano” tra chiese e palazzi nobiliari di grande pregio architettonico, si prestano alla scoperta di scorci suggestivi e conducono ad una delle mete culturali di rilievo del paese: il Museo Archeologico Paolo Vagliasindi del Castello, in cui viene custodita un’importante collezione di reperti greci, romani e bizantini. In questo territorio ricco di storia e dalla natura seducente, posizionato lungo la strada dei vini dell’Etna, Feudo Vagliasindi propone un’atmosfera esclusiva a quanti che cercano il meglio dell’ospitalità sia per un soggiorno all’insegna del relax che per scoprire i genuini sapori del suo ristorante.

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L’armonia degli spazi e la bontà dei servizi offerti trovano degna cornice in un’antica dimora edificata agli inizi del novecento su una preesistente costruzione del diciannovesimo secolo, che, con il suo monumentale palmento, costituiva il cuore di una florida attività agricola. In origine i sessanta ettari di terra dell’Azienda furono dedicate alla coltivazione dei gelsi per la produzione del baco da seta e solo in seguito furono destinate a vitigni.


L’antica villa Vagliasindi, integralmente ristrutturata con gusto e sobrietà dai frateli Vassallo Vagliasindi, coniuga felicemente lo stile degli spazi originali alle nuove funzioni. Le confortevoli camere doppie e triple, le ampie sale ristorante e la terrazza con vista mozzafiato sulla maestosità dell’Etna, fanno di Feudo Vagliasindi la meta ideale per chi vuole immergersi in uno scenario rurale incomparabile, senza rinunciare alle comodità. Le tredici camere sono tutte dotate di bagno privato, tv satellitare, frigobar, climatizzazione e connessione internet wireless. La suite, calda ed elegante, offre anche un luminoso salottino con vista sui Nebrodi e la vasca idromassaggio. Gioiello architettonico di indiscusso pregio, Feudo Vagliasindi, grazie alle due ampie sale ristorante e alla suggestiva terrazza che si affaccia sull’Etna, è scenario ideale per ricevimenti, cene di gala, cocktail party, e eventi d’ogni tipo. Il ristorante, aperto tutti i giorni, si pregia di una cucina particolarmente curata, che propone i sapori tipici della tradizione siciliana, nella salvaguardia costante della freschezza e della qualità dei prodotti; una cucina attenta alle stagionalità e alla tradizione dove nei giorni d’autunno le portate a base di funghi e maiale dei nebrodi deliziano il palato degli ospiti lasciando in loro il ricordo dei profumi dei luoghi. Feudo Vagliasindi | C.da Feudo S. Anastasia Strada Provinciale 90 | Randazzo | CT Tel. +39 095 7991823 | +39 338 8357266 | +39 392 5541470 www.feudovagliasindi.it | info@feudovagliasindi.it

I vigneti e gli uliveti che circondano la villa sono la cornice naturale ideale per chi vuole concedersi una vacanza all’insegna del relax e del gusto. Il fondo, infatti,si estende per dieci ettari, sei dei quali coltivati a uliveto irriguo biologico, costituito da cultivar di nocellare etnea, da cui si ottiene un olio DOP dalle pregiate qualità organolettiche, mentre di due ettari è l’estensione del vigneto impiantato a nerello mascalese, che dà vita ad un ottimo ETNA DOC che i fratelli Vassallo imbottigliano con una loro etichetta e verso il quale orienteranno i loro passi e investimenti futuri per aumentarne la produzione.


Le nostre nozze: colori, poesia e nuove atmosfere Il Centro Sposa Anna Nesti apre le porte del matrimonio di Claudia e Carlo: «Vorremmo fare da monito e aiutare quanti vogliano rendere preziosa e indimenticabile “anche” un’unione civile» Testo a cura di Cabiria - servizio fotografico Marco Ognissanti - videomaker Pierluigi Cavarra -

È dal verbo latino coniungo che deriva il sostantivo coniux, coniuge in italiano, ed è nella traduzione fedele di questo verbo che si rintraccia il significato reale “dell’esser coniugati”. Coniungo è altresì l’atto dell’unire che consolida un potente legame d’affetto, così come coniungere conubia è il “far matrimoni”, e volendone allargare il senso, può indicare l’officiante del rito, quale è stata il Consigliere Pina Raneri che nel tardo pomeriggio di sabato 21 agosto, a Taormina, ha unito in matrimonio Claudia Schembari e Carlo Nesti. Un’unione, quella dei Nesti, che ha perfezionato nella forma e attraverso il rito civile, un legame forte e monolitico che da anni si esprime sia nella condivisione della vita privata che di quella professionale. Perché Claudia e Carlo sono i titolari dell’atelier “Centro Sposa Anna Nesti” a Priolo, un luogo dove il cliente ed i suoi desideri vengono seguiti passo passo per contribuire a realizzare un evento unico. Ed unico è stato anche il loro matrimonio, in cui hanno trovato completa espressione il sentimento che li lega, il modo di intendere la vita e il loro legame con l’Isola di Sicilia che i Nesti immaginano come un luogo circondato da un mare sempre navigabile, una terra ricca di colori, odori e passioni umane, accogliente e aperta al mondo. Nulla è stato lasciato al caso; “nel giorno più bello”, ogni dettaglio è stato curato nei


minimi particolari a partire dal luogo scelto per le nozze: Taormina, romantica méta ambita da numerose coppie per i suoi scenari ricchi di magiche atmosfere e per un’antica cultura dell’accoglienza e dell’ospitalità. I signori Nesti hanno voluto circondarsi degli amici e degli affetti più cari, tra cui il sindaco di Priolo Antonello Rizza, che hanno condiviso con Carlo – sposo impeccabile nel suo abito scuro – l’emozione di veder giungere dal mare di Isolabella a bordo di una graziosa imbarcazione, la propria amata, Claudia; accompagnata sino alla riva dal suono festoso di una conchiglia usata come un corno da un esperto pescatore. Una tradizione che appartiene a questi luoghi dove, spesso, per le feste e per le cerimonie, le barche traghettano persone reali e simulacri di santi e madonne. E di nuovo, la centralità dell’isola si è mostrata evidente, così come l’orgoglio d’esser siciliani, anche nell’uso dei materiali usati per sottolineare la bellezza di questi luoghi e rendere “speciale” ogni momento delle loro nozze. Dal momento della cerimonia, in cui gli sposi sono stati sostenuti dai rispettivi testimoni, l’avv. Giuseppe Crò e il dr. Giuseppe Cataldo per lo sposo, e le figlie Gessica e Giulia per la sposa, insieme ad una damigella d’eccezione: la dolcissima Carla Nesti; sino al ricevimento, svoltosi in un raffinato hotel che si affaccia sul mare di Isolabella. La scena è stata elegantemente allestita dal flower designer Michelangelo Finocchiaro, con veli di tulle, punteggiati da piccoli specchietti dorati e piccoli campanelli, rimando alle sporte siciliane – che andavano dai toni tenui del color crema, a quelli passionali del rosso scarlatto – conferendo agli ambienti un tocco morbido ed avvolgente, e da moltissime rose baccarat di un sensuale color rosso e di un gentile color bianco. Questi profumatissimi fiori, sono stati i protagonisti: in petali sparsi ad arte sul terrazzo che ha ospitato la cena e nei centro tavola, dove insieme ai limoni e adagiati su piatti di terracotta hanno accolto i commensali. Ma il tema delle rose è stato riproposto anche nella presenza di giare ricolme di fiori e fichi d’India, richiamo costante alla tradizione siciliana, insieme agli originali segna posto-portafortuna, composti da piccoli cornetti in smalto e da una fogliolina d’edera. E sempre le rose, caratterizzavano l’abito e il copricato di Claudia: ideati, disegnati e confezionati in esclusiva per lei, dallo stilista britannico Ian Stuart, che ha saputo interpretare sapientemente il carattere generoso e solare della sposa, regalandole un modello dallo spirito mediterraneo, in cui il corpetto che lasciava le spalle scoperte per sottolineare la morbidezza delle forme, si fondeva con l’effetto movimento dato dal tessuto usato per confezionarlo, di un tenue color bianco seta arricciato alla base e sostenuto, per l’appunto, da rose in seta rossa, ricordo di una ballerina di Flamenco. La

Un’unione che ha perfezionato nella forma e attraverso il rito civile, un legame forte e monolitico che da anni si esprime sia nella condivisione della vita privata che di quella professionale


creazione dell’acconciatura e la scelta del make-up rimandavano, invece, allo stile degli anni ’30, uno stile magistralmente ricreato dall’hair-stylist Giorgio Iacono. L’Amore per la tradizione, l’Amore per la propria terra, l’Amore per i propri cari: un sentimento vero e spontaneo ha caratterizzato le nozze di Claudia e Carlo Nesti. E la loro “isolanità”, ha continuato ad esser mostrata e dimostrata con eleganza e con la giusta attenzione al significato della parola “matrimonio”, di cui è stata perfetta espressione il “Tableau Marriage” dove la lista con i nomi dei commensali è stata presentata in una composizione, che insieme alle rose ed al fico d’India disposti all’interno di una bellissima giara, ha di nuovo visto protagonista La Sicilia, con le sue isole: Linosa, Pantelleria, Lipari e tutte le altre. Nomi di isole, che hanno dato nome ai tavoli riservati agli ospiti, compresa quell’isola che è diventata simbolo di un Amore perfettamente realizzatosi: Isolabella. Ed è stata quest’isola che ha vegliato su di loro per tutta la serata, dalle delicate ombre del tramonto sino a notte fonda, offrendosi non solo come semplice sfondo ma come cortese padrona di casa, avvezza a coccolare i propri ospiti ed a rendere irripetibili i loro gesti; rispettosa dei loro sentimenti e lieta di poter condividere la loro indicibile gioia,

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testimone silenziosa di una cerimonia civile che nulla ha invidiato alla dignità di un matrimonio religioso. Così è stato per le nozze di Claudia e Carlo Nesti; così sarà, ne siamo certi, per tutti coloro che sceglieranno il “Centro Sposa Anna Nesti” e i consigli dei neo coniugi per pronunciare il fatidico “sì, lo voglio!”.

Il momento del lancio del riso, che ha incontrato due sposi raggianti


Alcuni degli scatti del professionista Marco Ognissanti ad immortalare la partenza e l’arrivo della sposa a bordo di una folcloristica imbarcazione in legno


La famiglia Nesti al completo: Claudia, Carlo, le gemelle Gessica e Giulia e la piccola Carla

Un menù ed un servizio tra innovazione e gusto tradizionale Quando si desidera far felici i propri ospiti, è fondamentale sia la scelta del luogo d’accoglienza che quella del menù che accompagnerà l’evento. I coniugi Nesti hanno perciò voluto affidarsi alle cure ed alla professionalità del personale del “La Plage Resort Hotel” a Isolabella di Taormina. Claudia e Carlo Nesti, non solo sono rimasti incantati dagli ambienti confortevoli, circondati da una rigogliosa vegetazione tipica della macchia mediterranea e immersi dagli aromi e dai colori della splendida baia, ma hanno assaporato insieme ai loro ospiti i sapori di un menù, che alla ricercatezza nell’uso di prodotti di alta qualità e di origine locale, ha unito le proposte d’innovazione della cucina contemporanea. I coniugi Nesti, nel ringraziare il vicedirettore Massimiliano Longhitano de “La Plage Resort Hotel” hanno precisato che ciò “che ha creato la differenza, è stata l’opportunità di assaporare la giornata senza fretta e in pieno relax e tutto all’interno della medesima struttura”.

L’organizzazione delle nozze e la preziosa professionalità del Wedding Planner

Naturalmente, due professionisti nel settore degli abiti da sposa come i coniugi Nesti, non potevano certo lasciare all’improvvisazione “il giorno del coronamento del loro sogno d’amore”. Per questo, hanno scelto l’eccellente consulenza della Wedding Planner Vanessa Cannizzaro e del suo staff di collaboratori. Vanessa, con la sensibilità ed il garbo che la contraddistinguono, ha saputo immediatamente cogliere i desideri e le aspettative di Claudia e Carlo, interpretando in maniera magistrale, la voglia prepotente di rendere indimenticabile ogni singolo istante del matrimonio.



BIBLIOTECA ALAGONIANA Una solenne scomunica, un patrimonio di 70.000 volumi, un unicum nel panorama culturale siracusano Foto e testo di Sergio Cilea “…sub anathematis paena proecipimus, ne quisquam ab hac Biblioteca Venerabilis Seminarii Clericorum folia, libros, quinterna, e manuscripta quacumque causa, vel quesito colore extrahere, et esportare…”. Con l’autorità riconosciutagli dal diritto canonico questo anatema, dettato dal Vescovo Giambattista Alagona, ipso facto avrebbe raggiunto chiunque avesse asportato per qualunque causa libri, fogli, manoscritti, o parti di libro dalla Biblioteca Arcivescovile Alagoniana di Siracusa. Per meglio comprendere la motivazione che spinse il Vescovo Alagona ad emanare questo importante decreto ecclesiastico altrimenti conosciuto con il nome di scomunica bisogna ripercorrere il periodo storico compreso fra la metà del XVIII ed il primo trentennio del XIX secolo, epoca

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questa in cui Siracusa giunse al massimo splendore culturale dopo i secoli di oblio succeduti ai fasti dell’epoca classica. È comprovato che a creare le basi per questa meravigliosa rinascita fu la presenza in città di due importanti istituti scolastici; la scuola del Seminario e la scuola dei Gesuiti, famosa per il rigido programma di studi. In questi due istituti vennero formati intellettuali di altissimo livello come il poeta Tommaso Gargallo, i sacerdoti Giuseppe Logoteta e Giuseppe Capodieci, per citarne solo alcuni, i quali dedicando la loro vita agli studi e alle ricerche archeologiche riportarono in luce la magnificenza passata della città. Le loro opere date alle stampe, giunsero nelle più remote località del vecchio continente stimolando la fantasia dei


tanti eruditi europei, i quali, con grande interesse nell’ambito del cosiddetto Grand Tour tanto in voga in quegli anni, giungevano sino a Siracusa. Accolti come membri onorari nelle più importanti Accademie europee insieme ad altri intellettuali siracusani come Cesare Gaetani, Francesco Di Paola Avolio, Saverio Landolina, si resero artefici di un fitto scambio epistolare con personaggi celebri tra i quali spiccano i nomi dell’Alfieri, Metastasio, Sand, Canova, Cousin, Montalembert. Queste lettere, considerate una preziosa eredità, sono ancora oggi scrupolosamente conservate all’interno della Biblioteca Alagoniana. L’altro elemento concomitante da prendere in considerazione, che diede una ulteriore accelerazione al risveglio delle attività culturali, fu l’avvio di una tipografia a Siracusa. Non essendo presenti tipografi in città, per la stampa di libri o anche di semplici fogli volanti, l’interessato doveva recarsi suo malgrado a Catania, a Messina o a Palermo. Il sempre crescente numero di opere che uscivano dalla penna dei nostri intellettuali spinse il Senato della città a interpellare un importante tipografo catanese Gioacchino Pulejo, chiedendogli di avviare una stamperia a Siracusa e che presi i dovuti accordi, venne inaugurata nel 1757 all’interno del cortile del Palazzo Arcivescovile. Il fabbricato che la ospitava, tuttora esistente, è riconoscibile dal cantonale realizzato in pietra lavica come richiesto al momento della stipula del contratto ai rappresentanti del Senato, dallo stesso Pulejo in memoria del colore degli edifici della sua città. È nel contesto di questo fermento culturale che si colloca la nascita della Biblioteca Arcivescovile, fatta costruire a proprie spese e sin dalle fondamenta dal Vescovo Giambattista Alagona nel 1780 per destinarla a Pubblica Libreria da servire alla gioventù locale. Lo stesso Vescovo donò tutti i suoi libri aggiungendoli a quelli del suo predecessore Mons. Requisenz, ma riuscì a colmare solo un terzo degli scaffali ed il poeta Tommaso Gargallo a tal proposito, nella descrizione della città nell’opera Memorie Patrie per servire allo ristoro di Siracusa stampata nel 1791, nel capitolo riguardante la Biblioteca Alagoniana scrisse con malizia, “Appare rari Nantes in gurgite vasto”. Le cronache raccontano che il munifico Vescovo Alagona a seguito di questo scritto noleggiò un bastimento e si recò a Napoli per acquistare un gran numero di opere scelte, in modo da colmare i vuoti nelle grandi scansie della Biblioteca e fu in questa occasione che venne acquistata la pregiata Bibbia Poliglotta stampata a Londra nel 1652. Negli anni seguenti il patrimonio librario fu incrementato grazie ai lasciti dell’Abate Sinesio, del Conte Gaetani, del Barone Impellizzeri, del Landolina, nonché dei preziosi 50 volumi manoscritti del parroco Giuseppe Capodieci, inesauribile miniera questi ultimi, di informazioni riguardanti la storia della città. Oggi la Biblioteca Arcivescovile Alagoniana rappresenta un

La Biblioteca Alagoniana

I preziosi volumi nelle scansie

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prezioso scrigno in cui viene gelosamente conservato un patrimonio di 70.000 volumi diviso tra un fondo antico composto da 20 codici miniati, 70 incunaboli, e diverse migliaia di libri stampati tra il 1500 ed il 1830, ed un fondo moderno (dal 1831) aggiornato con le più moderne edizioni bibliografiche. I voluminosi manoscritti, i codici miniati, gli incunaboli, i rari libri dei secoli passati, rappresentano un unicum nel panorama culturale siracusano, patrimonio a cui per secoli hanno attinto, e continuano ad attingere, eruditi studiosi, storici, studenti, e ricercatori in genere. Bisogna riconoscere il merito all’attuale Direttore della Biblioteca Alagoniana, Mons. Giuseppe Greco, perché lottando tenacemente contro i mille impedimenti burocratici che ne ostacolavano la riapertura, è riuscito nonostante tutto nell’intento di ridare agli studiosi la possibilità di tornare a nutrirsi di conoscenza nel santuario della cultura siracusana Un gruppo di lavoro, diretto dallo stesso Mons. Greco, sta procedendo alla informatizzazione del prezioso materiale in modo da poter permettere una più facile e veloce consultazione dei fondi posseduti. A proposito, dimenticavo l’incipit. Oggi il prezioso materiale è protetto da sofisticati e moderni sistemi di controllo e sorveglianza, ma per più di due secoli bisogna ammettere che l’unico sistema di protezione che ha permesso di far giungere integro fino a noi il patrimonio costituito dal Vescovo Alagona, terrorizzando anche i più malintenzionati, è stata... una solenne scomunica ancora oggi non invalidata.

È possibile effettuare le consultazioni del materiale bibliografico conservato nella Biblioteca Arcivescovile Alagoniana dal lunedi al venerdì dalle ore 8,30 alle ore 13,30 e dalle ore 14,30 alle ore 17,30 Piazza Duomo 5, Siracusa Per informazioni telefonare allo 0931 463997

In alto a sinistra: il raro De Rebus Praeclaris Syracusas di Cristoforo Scobar stampato nel 1520; accanto, la seconda edizione delle deche di Sicilia di Tommaso Farzello



di Alice Pepi - foto Giancarlo Tribuni Silvestri -

qualsiasi parte si entri ad Acate, antica Biscari, si ha la sensazione di entrare in un paesino d’altri tempi. Basterebbe che in una delle sue strade, soprattutto in quelle adiacenti al centro storico, passasse una macchina d’epoca o un carretto siciliano per poter dire di essere stati catapultati, per un attimo, negli anni del dopoguerra, quelli in cui Acate sorgeva ancora tutta a ridosso della sua costruzione più importante, il castello dei Principi di Biscari. Ristrutturato di recente, oggi sede di manifestazioni, mostre ed eventi importanti organizzati dall’amministrazione comunale nonché del consiglio, il castello è stato da sempre il simbolo di Acate ed ancora oggi conserva il fascino dei misteri che lo avvolgono con leggende tramandate di padre in figlio e che abbracciano quasi tutti i suoi anni di vita. Attraverso un’occhiata alle carceri del castello possiamo quasi intravedere nel buio, oltre le grate di ferro, le scene che la nostra fantasia può suggerire. L’immaginazione farà rivivere quel fermento che doveva animare il cortile interno e la ricchezza che si affacciava dai balconi. E dalle torri del vecchio maniero di Acate si gode di una vista, ora come allora, spettacolare, che permette di racchiudere con uno sguardo tutti i punti nevralgici della città di Acate, compreso il convento dei frati Cappuccini (1700), che si trova dall’altra parte del paese, e che oggi ospita la biblioteca civica e diversi uffici comunali, ma che ha come protagonista incontrastata la chiesa Madre. È tra questa “Matrice” e il castello che si sviluppa la piazza Libertà e la

Da

La Chiesa Madre

La torre angolare del Castello


Sensazioni e ricordi per le vie di Acate

Torri, campanili, castello e chiese di Acate viste dalla valle

Le carceri

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villa comunale (villa Margherita), un giardino all’italiana recentemente riportato all’antico splendore e al quale i cittadini sono molto legati. Quasi tutti conservano, negli album di famiglia, una foto scattata al suo interno, magari fatta quando erano bambini o nel giorno del loro matrimonio. Un altro spazio nel cuore di tutti gli acatesi è riservato alla chiesa di S. Vincenzo, che ospita le reliquie del Martire, protettore di Acate, e che domina dall’alto la valle del fiume Dirillo, un territorio che arriva fino al mare e che è testimonianza di una intensa vita agricola. Non si può rimanere indifferenti al fascino di un’altra chiesa, alla quale gli acatesi sono molto affezionati: la chiesa della Madonna del Carmelo, che dalla sua particolarissima scalinata bianca, si erge e si fa custode della piazza antistante dove confluiscono ogni giorno i tanti devoti che portano fiori alla statua della Madonna. Le vie più antiche di Acate, accolgono e sembrano voler proteggere altri tesori nascosti. La via S. Giuseppe, “custodisce” il cosiddetto “Arco di S. Giuseppe”, ossia l’ultima testimonianza che rimane di un’antichissima chiesa: quella del S.S. Sacramento. In via Duca d’Aosta, troviamo il “collegio di Maria” (XVII secolo) che ospita le suore del Sacro Cuore. La memoria qui ci riporta indietro nel tempo quando si udivano le voci delle ragazze che frequentavano “il ricamo estivo”, sotto la guida esperta delle religiose. Un mondo antico dove il lavoro meticoloso era accompagnato da canti ed era “benedetto” dalla messa quotidiana celebrata nella chiesetta del collegio. Vie antiche che oggi ancora parlano di sé, con il freddo dei loro gradini di marmo, che temperavano il caldo estivo dei ragazzini che si sedevano su di essi, e che rappresentavano non soltanto un punto di ingresso o di uscita dell’abitazione, ma una postazione dalla quale osservare il mondo dei grandi. Grandi che passavano per la via e salutavano gli altri “grandi” che nei pomeriggi estivi erano soliti sedersi fuori, davanti l’uscio. Su quelle sedie, gli adulti trascorrevano le ore parlando e, come se fossero nel loro salotto, accoglievano gli ospiti. Questa la scena che si presentava fino a pochi anni fa, anche nella via principale di Acate, il “Corso Indipendenza”, passerella d’eccezione di tutte le processioni religiose e di ogni manifestazione. Percorso cittadino che raccoglie la linfa di tutte le feste più sentite, come il Palio di S. Vincenzo. Luogo di ricordi, suoni, profumi e atmosfere che forse non ritorneranno, ma che apparterranno per sempre alla memoria di ogni acatese.

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La chiesa di San Vincenzo Martire

Mensole finemente lavorate


La piazza-giardino vista dal sagrato della Chiesa Madre. Il Castello fa da sfondo

Il campanile della Matrice

Veduta del cortile del Castello.


cittĂ scom

MONTALLEGRO

Il borgo antico che visse per pochi anni

Foto Antonio Tumino


parse 30 km da Agrigento, sul Monte Suso, i suggestivi ruderi di un antico borgo seicentesco affidano al vento una piccola storia siciliana. Non fu una guerra o un terremoto a decretarne la fine: fu un volontario e necessario abbandono del luogo da parte degli abitanti. La grande difficoltà nell’approvvigionamento idrico (con i problemi igienici che ne derivavano) e l’impossibilità di espandere il paese, spinsero la popolazione a trasferirsi gradualmente e definitivamente più a valle, là dove sorge l’attuale Montallegro. Il vecchio borgo fu abbandonato ma non dimenticato dagli abitanti che qui conservano la memoria dei loro antenati. Quasi a formare un cordone ombelicale topografico tra l’attuale centro abitato e quello “disabitato”, un sentiero intagliato nella viva roccia si inerpica sul colle e ci conduce indietro nel tempo. Ci introduce in una atmosfera quasi

A

- Qua rt a pa rt e -

d i Gi use ppe Nuc ci o Iac o no

surreale; in quella strana armonia dove il silenzio delle rovine fa da sfondo ad un passato che non è mai muto. Tra questi ruderi che tendono a scomparire tra la vegetazione si aprono gli orizzonti di un paesaggio caratterizzato da un susseguirsi di colline gessose e aree pianeggianti conquistate dal duro lavoro dei contadini. Il territorio aspro conserva ancora qualche testimonianza relativa agli antichi lavori nelle “superstiti” calcare, caratteristiche costruzioni adibite alla produzione e alla lavorazione del gesso. Si dice che per la sua felice posizione il paese fu chiamato “Mons laetus” (= Monte allegro): oltre a garantire una certa sicurezza contro le incursioni dei pirati, quelle alture davano anche una giusta e salutare distanza dalle campagne paludose. Sull’origine di Monteallegro non si hanno certezze per la

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Foto Antonio Tumino


Foto Antonio Tumino

Foto Antonio Tumino

Resti dell’antica Montallegro

scarsità di documenti storici. Secondo lo storico Vito Amico, il primo insediamento è da individuare nella vicina “Antegaium” (che in latino significherebbe: “prima dell’allegria”). Si trattava di un piccolo casale, inserito nel feudo Cicaldo, dove i pochi abitanti esercitavano il commercio del carbone. Conquistato dagli arabi nell’840 e liberato dai Normanni (1087), fu successivamente concesso da Federico II (nel 1231) alla famiglia Garresi e poi agli Uberti, nota famiglia fiorentina. Altro cambio di casato si ebbe nel 1397, quando l’erede Antonia degli Uberti sposò Aloisio Montaperto (che divenne così Signore di Cicaldo). Nel 1619, Nicolò Montaperto, sommerso dai debiti, fu costretto a vendere il territorio di Cicaldo alla famiglia Gioieni. Il primo insediamento era piuttosto vulnerabile: per la sua apertura verso il mare, era oggetto di continue incursioni piratesche. Fu così che alla fine del XVI sec., gli abitanti iniziarono a trasferirsi e fondarono il nuovo paese sul colle vicino, detto monte di “Suso”, che grazie alle sue pareti scoscese garantiva una buona difesa. I Signori di Cicaldi concessero ai contadini un lotto di terra e la possibilità di edificare casa sul colle roccioso. Così, nel borgo che prendeva


Una calcara nel territorio di Montallegro

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Foto Toni Pecoraro Veduta di Montallegro: sul colle i ruderi dell’antico paese, a valle il nuovo centro abitato


Foto Antonio Tumino

L’attuale Montallegro ai piedi di monte Suso

progressivamente forma, fu costruita la chiesa delle Anime del Purgatorio e quella dedicata a Santa Maria della Catena, protettrice degli schiavi (una devozione conseguente alla piaga delle scorrerie dei barbareschi che oltre a razziare il territorio erano in cerca di schiavi per i loro mercati). Con tutti gli auspici, il paese venne chiamato ‘’Mons laetus’’ (Montallegro) ma non ebbe lunga vita. Già alla metà del ’600, entrò in crisi per un sovrappopolamento che non poteva essere assecondato dalle condizioni fisiche del sito. Il luogo dove era sempre più carente il godimento delle risorse idriche, non permetteva una ulteriore espansione urbana. Se si considera poi che in quel periodo le incursioni dei pirati si facevano sempre più rare e improbabili, la scelta che si presentava agli abitanti era più che ovvia. Perduta l’importanza strategica e difensiva del Monte Suso, gli abitanti iniziarono ad abbandonare il borgo intorno alla seconda metà del ’700, si trasferirono a valle e dopo aver bonificato le terre limitrofe diedero vita al nuovo paese. Un paese grazioso che merita una escursione per scoprire una piccola ma sempre interessante storia siciliana. Un paese che non può essere compreso se non si scopre il paesaggio che lo circonda. Tra l’altro a breve distanza si trova il Laghetto Gorgo di Montallegro (500.000 mq) di proprietà dell’Ente Sviluppo Agricolo e gestito dalla Lipu che ne ha fatto un’oasi, un’area protetta dove sostano e nidificano numerosi uccelli migratori.



La celebrazione dei defunti tra storia e tradizioni popolari “Per la commemorazione di tutti i fedeli defunti è consuetudine andare in processione al cimitero e in tale occasione benedire le tombe” (da Rituale romano, parte II, cap. 54) Foto Andrea Micheloni

Una festa figlia del tempo di Alessandra Romano il 2 novembre. Dalle finestre delle case si odono provenire le urla eccitate dei bambini. Le mamme, abbandonati i fornelli che ancora profumano di marzapane, indossano febbricitanti il “vestito buono”. I cimiteri pullulano come mai di facce ansiose e tutt’intorno riecheggiano le risate dei fiorai compiaciuti. Uno scenario che si ripete anno dopo anno. Una consuetudine che insiste immutata dalla notte dei tempi. Ma quanti di noi conoscono veramente le origini ed il significato del giorno della festa dei morti?

È

Un po’ di storia

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Presso tutte le culture è possibile incontrare riti che presuppongono una forma di contatto con il mondo dei morti. L’idea di commemorare in suffragio i defunti, affonda le radici già in un antico rito bizantino che li celebrava il sabato prima della domenica di Sessagesima (la domenica che precede di due settimane l’inizio della Quaresima). Si narra anche che antichissime civiltà solevano festeggiare i defunti nei giorni a cavallo tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, ovvero nel periodo del Grande Diluvio di cui parla la Genesi, per onorare tutte quelle persone che Dio aveva punito ed esorcizzare la paura del ripetersi di eventi simili. All’interno della tradizione celtica, la celebrazione pagana più importante del calendario druidico era la “notte di Samhain” (letteralmente “tutti i morti”) che festeggiava la fine dell’estate e l’inizio del periodo invernale. Era il primo giorno dell’inverno, l’inizio del tempo in cui la notte era più lunga del giorno, e la fine dell’anno pastorale. Questa notte di passaggio, secondo i Celti, consentiva alle anime di trapassare nel mondo dei vivi. Proprio per tentare di sradicare questi culti pagani, nell’835 il pontefice,


Gregorio II spostò la festa di “Tutti i Santi” dal 13 maggio, giorno in cui papa Bonifacio IV dedicò, nel 609, il Pantheon di Roma alla Vergine Maria e a tutti i martiri, al 1° novembre, attribuendo un significato cristiano al culto pagano dei Celti, con largo consenso e concorso di tutti quei pellegrini che ogni anno ne celebravano l’anniversario. Si deve aspettare il 998 d.C. e l’operato di un abate benedettino, Odilone di Cluny, per dare inizio alle celebrazioni di tutti i defunti: la riforma cluniacense stabilì che le campane dell’abbazia venissero fatte suonare con rintocchi funebri dopo i vespri del 1° novembre. Fu papa Sisto IV che nel 1474 rese obbligatoria la ricorrenza per tutto il mondo cattolico. E fu l’inizio della Commemoratio Omnium Fidelium Defunctorum (commemorazione di tutti i fedeli defunti).

L’abate Odilone di Cluny

Papa Sisto IV

Tradizioni e leggende Il motivo ricorrente di tutte le tradizioni popolari, in tutte le epoche storiche, è la credenza che nel giorno della festa dei morti le anime dei cari defunti ripopolino le vie dei paesi per riaffacciarsi alla realtà quotidiana, nutrendosi, assistendo alla messa in loro onore o andando in pellegrinaggio. I racconti popolari ci narrano di file di anime erranti in ordine di tipologia di morte: aprirebbero questa sorta di “corteo” coloro che morirono di morte naturale, seguiti dai giustiziati, dai disgraziati (morti a causa di una qualche disgrazia) e dai morti di subito (ovvero per morte repentina). Mentre gli antichi greci si recavano presso i loro templi, dotati di una apposita stanza buia fornita di uno specchio - considerato un oggetto magico - per entrare in contatto con i defunti, il popolo romano era solito fare visita alla tomba di famiglia e pranzare sulla di lei terrazza, lasciando cadere porzioni di cibo attraverso un foro appositamente creato per sfamare i defunti. Un’altra antica leggenda vede le anime dei defunti prendere parte alla cosiddetta “messa dei morti”, celebrata dall’anima di quei preti che in vita, per avidità, non officiarono le messe per cui avevano ricevuto l’elemosina. A Salemi, in provincia di Trapani, si crede che chiunque entri in chiesa durante la celebrazione della messa dei morti e guardi il volto del prete defunto, debba uscire immediatamente dall’edificio facendosi il segno della croce; diversamente, non sopravviverà. Un’usanza tipicamente siciliana, per l’appunto palermitana, risale al tempo in cui ancora non esistevano i cimiteri: i parenti dei defunti si recavano nelle cripte per lavare, pettinare e rivestire i corpi dei propri cari per poi esporli per l’anno successivo. Basterebbe visitare la Grande Cripta dei Cappuccini di Palermo, che ospita circa 8.000 corpi imbalsamati, per rendersi conto della portata di questa consuetudine ormai in disuso.

Foto Alessandro Prada


I significati della festa L’attuale tradizione commemorativa si “limita” a vedere i parenti dei defunti recarsi al cimitero per donare loro dei fiori; ma la vera festa si svolge piuttosto dentro le case e proclama protagonisti i bambini. Viene infatti fatto loro credere che, se sono stati buoni e hanno pregato per le anime dei morti, questi porteranno loro dei regali. Ed in diversi paesi della Sicilia, questo rituale del dono viene ancora estrinsecato con una vera e propria caccia al tesoro; esiste anche una preghiera che i bambini devono recitare per ingraziarsi i favori dei defunti: “Armi santi, Armi santi (= anime sante) io sugnu unu e vuatri siti tanti (= io sono uno e Voi siete tanti) mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai (= mentre mi trovo in questo mondo di guai) cosi di morti mittitiminni assai (= regali portatemi tanti)”. Qualora invece i bambini si fossero comportati male, i morti sarebbero tornati sulla terra per grattare loro i piedi con una grattugia. L’aspetto ludico di questa festa nasconde in realtà una ben più importante funzione istruttiva volta ad insegnare ai bambini a non avere paura della morte e a proclamare il rispetto per tutti i morti.

Foto Giopuo

Ma le tradizioni siciliane legate ad una festa non possono certamente prescindere dall’aspetto culinario! Ecco allora apparire in questo periodo dell’anno coloratissime tavole imbandite di dolciumi e biscotti, genericamente chiamati “dolci dei morti”: un omaggio alle anime dei defunti che si crede se ne cibino durante la notte, ed una gioia per il palato di grandi e piccini!

Le ossa di morto LA RICETTA TRADIZIONALE Sono dei biscotti dalla consistenza secca che devono il loro nome alla forma oblunga che ricorda, appunto, le ossa. La preparazione è molto semplice: Setacciare 1 kg di farina ed aggiungere 15 gr di chiodi di garofano tritati in polvere ed uno sciroppo di zucchero ottenuto facendo sciogliere in un pentolino 1 kg di zucchero con un po’ d’acqua. Impastare aggiungendo acqua tiepida q.b. per ottenere un impasto dalla consistenza compatta. Spianare la pasta fino ad ottenere un foglio di 1 cm di spessore e ritagliarla con apposite formine di ossa o, in mancanza, in semplici quadrati. Incidere trasversalmente la superficie dei dolcetti e lasciarli asciugare per 2-3 giorni su un vassoio ricoperto di carta da forno, in modo che induriscano. Trascorso questo tempo, bagnare con acqua la parte inferiore e cuocere in forno per circa 20 min a 160°C. Durante la cottura, lo zucchero e la farina si separeranno: la parte inferiore, di colore più scuro, sarà formata dallo zucchero che in forno si caramella e risulterà piuttosto dura; la parte superiore, formata dalla farina, risulterà più friabile ed assumerà una forma più grande rispetto alla base.

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la frutta martorana Riconosciuto prodotto agro-alimentare tradizionale italiano dalla Regione Siciliana, è una preparazione dolciaria a base di farina di mandorle e zucchero che riproduce nella forma la frutta. Dipinti con colori alimentari e lucidati con la gommalacca decorata, questi dolci sono vere e proprie opere d’arte per la loro somiglianza con la frutta vera. La frutta di Martorana, secondo la tradizione, deve il suo nome alla chiesa di S. Maria della Martorana, eretta nel 1143 a Palermo da Giorgio d’Antiochia, ammiraglio del re Ruggero II, accanto ad un convento di suore benedettine che, per abbellire il giardino del convento per la visita del papa, decisero di arricchire i rami dei loro alberi con dei frutti realizzati appunto con la farina di mandorle.


ELIO VITTORINI, Siracusa nel cuore di Corrado Cartia nizialmente il cognome era Vittorino, da un probabile errore di trascrizione dell’ufficio anagrafe del comune di Siracusa di allora, quando il bisnonno Vincenzo arrivò a Siracusa. Elio Vittorino nasceva a Siracusa il 23 luglio del 1908, da Lucia Sgandurra e Sebastiano Vittorino, in viale Vittorio Veneto 140, ad Ortigia. Il nome Elio, “occhio di sole” dal greco “eliòs” fu scelto dal padre Sebastiano, ferroviere e letterato che gli dedicò la poesia “A mio figlio primonato”.

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Elio Vittorini e Rosa Quasimodo

1912 - I VITTORINI A SCICLI E POI A TERRANOVA Nel 1912 la famiglia Vittorini si trasferisce da Siracusa a Scicli e, nel 1914, a Terranova di Sicilia, poi diventata Gela. Qui arriva l’eco dei bombardamenti nel Mediterraneo e passano le tradotte militari, sulle quali salivano migliaia di emigranti rientrati in patria per partecipare alla guerra. Al fronte persero la vita 50mila siciliani. A sette anni Elio fu condotto dal nonno materno a Siracusa e affidato alla maestra Bordieri. Intanto scoppiava quella che passò alla storia come “la guerra dei mari” e alcuni avvenimenti colpirono Elio: il 7 novembre 1915 il transatlantico “Ancona”, partito da Genova con 482 persone a bordo, fu salvato da un sommergibile austriaco tra Marettimo e capo Bon; il naufragio del piroscafo “Firenze” che andava ad Alessandria d’Egitto con 144 persone a bordo e un carico di merci che venne preso a cannonate e distrutto. Scrisse in “Della mia vita fino ad oggi”: “io vi sono nato il 23 Luglio 1908, in una casa dove ho visto naufragare, quando avevo sette anni, un piroscafo carico di cinesi”. ELIO: SCUOLA TECNICA A TERRANOVA Per quella precoce intelligenza che lo contraddistingueva, Elio Vittorini avrebbe potuto iscriversi al Liceo Ginnasio, e questo il padre Sebastiano lo sapeva, ma scelse la “Scuola Tecnica Paolo Emiliani Giudice”, ubicata nell’ala dell’ex convento dei Padri Agostiniani, dove avrebbe studiato oltre alle materie classiche anche una lingua straniera, disegno, scienze naturali e calligrafia; ma il direttore della scuola convoca Sebastiano per informarlo che alla prova d’esame Elio aveva sbalordito tutti, tanto che avrebbe dovuto essere iscritto al Ginnasio.

A MIO FIGLIO PRIMONATO Occhio pensoso del figlio mio Penetranti, dispensi ove ti posi, cilestrine carezze ed amorosi sorrisi. Forse di mansueto Iddio Sei il plasmo più pregiato? Quali ascosi sapienti segreti, evochi O mio magico ammaliator dei miei riposi? Da te si leva un non so che Pio ammonimento a quei che ti rimira. Hai racconti ingenui e sereni Paesaggi armoniosi ove tu al carme tuo felice rime riversi e se ti volgi a chi di pena ispiri ne affascini ed il triste animo leni. SEBASTIANO VITTORINI (Militello Val di Catania, 15 Ottobre 1908)

1918 - L’EPIDEMIA della “SPAGNOLA” Tra settembre e ottobre del 1918 arrivò l’epidemia della “spagnola”, un’influenza polmonare che uccise oltre venti milioni di cittadini, e colpì anche Sebastiano. L’epidemia, intanto, si propagava nel paese, i cittadini stavano chiusi in casa. Agli inizi di ottobre, Sebastiano cominciò a stare meglio mentre arrivavano notizie allarmanti da tutta Italia, come quella dell’uso della calce viva per murare i cadaveri. Nell’aria c’era la fine della guerra. E la vittoria non tardò ad arrivare: la gente era scesa per strada e festeggiava, i balconi erano pieni di tricolore e anche la spagnola se n’era andata! ELIO ALLA RAGIONERIA “A. RIZZA” Elio Vittorini fu promosso alla fine dei tre anni alla scuola tecnica “Archimede”, nell’anno scolastico 1919/20. Il suo professore di lettere, Giuseppe Manusia, dichiarò che “era stato il migliore alunno di tutta la sua carriera”. Sebastiano, lo iscrisse alla sezione ragioneria dell’Istituto comunale “Alessandro Rizza” di Siracusa. L’istituto sorgeva in via Minerva, accanto alla biblioteca Alagoniana. Nell’anno scolastico 1920/21, Elio Vittorini venne bocciato; a pag. 422 “Della mia vita fino a oggi” scrive: Mio padre voleva fare di me un ragioniere: perciò ho frequentato un paio di classi dell’Istituto da cui si esce diplomati per tenere i registri

CORRADO CARTIA Occhio di Sole - Elio Vittorini Siracusa nel cuore Edizioni “La Voce” - € 12,00


di partita doppia, ma non sono riuscito a prendere il diploma, ne ho ripetuto due volte la prima classe. Qualche anno dopo, Elio e Ugo espressero il desiderio di fare un viaggio a Firenze che verrà trasformato dallo stesso Elio Vittorini in materiale da racconto nel suo libro “Della mia vita fino ad oggi”, diventando “una delle fughe compiuto sin dai suoi tredici anni, approfittando di essere figlio di ferroviere quindi di potere disporre di biglietti gratuiti e circolari per tutto il territorio, con 50 lire in tasca, viaggiando di notte per risparmiare sull’albergo…”. SIRACUSANITÀ IN ELIO VITTORINI Quanti hanno letto “Garofano Rosso”, il romanzo censurato dal regime fascista, che resta una pietra miliare per la storia di Siracusa? È un libro che dovrebbe essere presente nelle case, nelle scuole e nelle biblioteche pubbliche e private dell’intera provincia di Siracusa, tanto è pieno di insegnamenti e avvenimenti storici che possono aiutarci a capire meglio la società siracusana del tempo e i siracusani di oggi. Quanti sanno che già allora Siracusa era un centro di spaccio di droga? Chi sa che l’istituto “A. Rizza” era in Ortigia, in via Minerva? E quanti conoscono le attività patriottiche e libertarie che si svolgevano di fronte al Palazzo Vermexio? “Garofano Rosso” è uno di quei libri indispensabili per una cultura della siracusanità. Narra di Siracusa dal 1921 e del suo modo di vivere, di pensare. È ambientato a Siracusa, anche se la città non viene mai nominata espressamente, e il protagonista, Alessio Mainardi, personifica lo stesso Elio Vittorini. Mainardi ha sedici anni, e il “suo Liceo” è il “Gargallo”. Vittorini chiama “Porto Eusino”, la stupenda Piazza Duomo. I FANNULLONI di ELIO VITTORINI Era il 1927, Elio Vittorini aveva 19 anni, quando fu protagonista della famosa “fuitina” con Rosa Quasimodo. Si sposarono il 10 novembre 1927 a Siracusa nella Chiesa di San Paolo. Poi, furono mandati a Gorizia dove abitarono in una pensione in via Carducci 18. Quando Rosa rimase incinta, dovettero vivere nella casa dei Quasimodo, trasferitisi anch’essi a Gorizia dopo lo “scandalo” della fuitina! Qui nacque il primo figlio, Giusto, l’8 aprile 1828. Nel gennaio del 1929, Elio torna a Siracusa con la sua famiglia: abitarono, fino al 18 ottobre 1929 alla stazione centrale di Siracusa. Qui nasce il Vittorini polemico, quall’anti-borghese che nel 1931 darà vita al volume “Piccola Birghesia”, un racconto impietoso di personaggi e situazioni in gran parte vere. “Avevi perduto la coscienza di essere un ragazzo, di avere sette anni e di vestire calzoncini azzurri… Sulla Mestranza pigra, corso e passeggio d’altri tempi, le maschili beltà sdraiate lungo i tavolini con la coda dell’occhio la seguivano; ella languiva d’essere notata. Bella la moda nuova; le gambe, eccellenti in lei, tornavano già pudiche, il dorso radente ai fianchi s’era allungato, le formava un addome snello di farfalla, chiuso tra seno e sella, la gonna sotto l’anche fluttuava, lembo di mare”. Quanto abbiamo esposto è solo una minima parte di quanto Siracusa avrebbe il dovere di fare per divulgare l’opera di Elio Vittorini nella città che lo ebbe cittadino, e non soltanto per onorare un grande figlio ma per fare conoscere alle nuove generazioni e a tutta la cittadinanza una pagina “in diretta” della storia di Siracusa. Solo così, diffondendola e facendola conoscere, la storia può diventare maestra di vita.

Aperta Casa Vittorini, finalmente! “Mio nonno Sebastiano non voleva che suo figlio Elio, mio padre, leggesse i libri di questa biblioteca: forse proprio per questo Elio decise di fare lo scrittore.” Così ha parlato Demetrio Vittorini, figlio dell’illustre scrittore Elio e di Rosa Quasimodo, il 26 settembre, giunto a Siracusa dalla Svizzera per tagliare il nastro rosso di Casa Vittorini. Grazie anche al contributo del dirigente del settore culturale della Provincia, dr.ssa Clelia Corsico - che ha guidato uno staff per seguire le fasi di realizzazione della Casa - si è finalmente inaugurato un patrimonio che onora la memoria di uno dei figli di Siracusa. Notevole anche l’impegno della prof.ssa Gigliola Nocera, docente universitaria e parente dei Vittorini, nel ruolo di consulente per la catalogazione dei beni patrimoniali, e del prof. Paolo Giansiracusa, docente universitario e intenditore d’arte, che ha illustrato le opere d’arte presenti nello studio di Sebastiano Vittorini. Casa Vittorini occupa un ampio spazio all’interno dell’edificio di via Brenta 41, adibito a Galleria d’arte contemporanea e multimediale, diviso in diverse stanze collegate da un lungo corridoio in cui sono esposti i manifesti delle quindici edizioni del Premio Letterario “Elio Vittorini”, oltre al patrimonio delle case dove abitò la famiglia di Sebastiano Vittoriani. Il Presidente Nicola Bono ha annunciato che “questo non è che il primo passo verso una più ampia politica culturale rivolta alla memoria Siracusana”. Casa Vittorini costituisce una piattaforma da dove far ripartire quell’operosità e vivacità di pensiero che rischia di perdersi. Basta un nonnulla per far rinascere quella voglia di realizzarsi e di emulazione che manca da diverse generazioni e che ha bisogno di esempi e testimonianze positive, come questi che la Provincia di Siracusa sta creando per caricare di valori l’esistenza di quanti si affaccino a nuova vita. Corrado Cartia

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Casa Vittorini - Antonio Santangelo, compagno di ginnasio, Demetrio VIttorini, figlio di Elio, Armando Galea, compagno di ginnasio, Gigliola Nocera, parente


CALA IL SIPARIO SUL SETT

di Pennabianca

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Cari lettori, eccomi qui, nuovamente a scrivervi dell’evento dell’anno, che ha scosso le anime e le menti del popolo siciliano e non: il Settembre Kasmeneo… Comiso in Festival, edizione 2010. Mentre scrivo, ho appoggiato un fazzoletto di carta tra i miei occhi e gli occhiali da vista (sì sì scrivo senza dover guardare lo schermo). Perché vi chiederete voi? È chiaro! Per tamponare le lacrime che fuoriescono dai miei dotti lacrimali, fortemente provati dal grande successo dell’edizione appena conclusa. Ecco, ho citato la parola nefasta: “concluso”. Dovete infatti sapere, che aver vissuto il Settembre Kasmeneo è paragonabile ad aver navigato per dieci giorni in “Costa Crociera”… Quando finisce il “viaggio”, iniziano le lacrime perché vorresti con tutto te stesso che continuasse ad oltranza. Non si può e bisognerà attendere all’incirca 360 giorni prima di ripartire a gioire con canti, balli e grande cultura direttamente dalla città-teatro per antonomasia: Comiso! Dal 2 al 12 Settembre, dieci serate di grande successo con un programma


EMBRE KASMENEO 2010 Oltre 40.000 presenze in dieci giorni

Il sindaco di Comiso, Giuseppe Alfano, con Angelica Lubian

variegato che non faccio, ovviamente, fatica a ricordare (la mia Amigdala ha fotografato ogni istante della kermesse, riproponendo il tutto con regolare frequenza, rendendo l’assenza meno amara). Per dieci giorni (ma si prospettano grandi novità per il futuro), Comiso, ha vestito i panni di nuova “capitale” RAI, con registrazioni radiofoniche quotidiane andate on air su RADIO 1 RAI, dove il camaleontico Gianmaurizio Foderaro, ha raccontato il soggiorno casmeneo degli artisti, degli autori e di quanti hanno lavorato attorno al binomio Settembre Kasmeneo – Rai. Un grande successo insomma, che non è stato rovinato né dalle bizze meteorologiche, né dagli imprevisti “tecnici” dettati dalla forte mole di lavoro. Mago Forrest ed i suoi “amici” maghi, provenienti da tutto il mondo, Antonella Ruggiero, Max Gazzè, Samuele Bersani, Ron, Max Giusti, Lillo & Greg, Petra Magoni e Ferruccio Spinetti e poi tutti i giovani del gruppo DEMO giunti a Comiso per la seconda edizione del Demo’s Lady Award, condotto dai fantastici Michael Pergolani e Renato Marengo. Una grande famiglia quella del Settembre Kasmeneo, che ha portato in

Ron


città oltre 40.000 presenze, risvegliando ulteriormente un indotto turistico-economico, che a dispetto di altre città d’Italia, può già contare su un virtuosismo imprenditoriale senza eguali. In quei dieci giorni ho avuto la possibilità di stare a contatto con gli uomini RAI (Marengo, Pergolani, Foderaro, Aveta, Sergio etc.), ma non ho certo dimenticato i padroni di casa, grazie ai quali mi è stato possibile vivere questo sogno “spettacolare”. Tra di loro figurano il primo cittadino Giuseppe Alfano, l’Assessore allo Spettacolo Raffaele Puglisi ed il Direttore Artistico della Kermesse Alessandro Di Salvo (quest’ultimo autentico man of limits). A loro va di certo riconosciuto il merito di essere riusciti a farmi innamorare della città di Comiso, che da due anni tramite il Settembre Kasmeneo, vivo sotto magiche vesti. Luci, suoni, sapori ed odori, che mai, in nessuna altra parte del mondo artistico, ero riuscito a carpire con tale intensità. Il simpatico trio, così ho “battezzato” i tre precedentemente elencati. Tutti insieme (dovevate vederli) si muovevano sinergicamente attorno ad ogni spettacolo, aguzzando il proprio sguardo oltre il confine possibile; oltre quelle 6-7-8 mila presenze, che quasi ogni sera riempivamo Piazza Fonte Diana, location e teatro all’aperto dell’evento. Sono riuscito a farvi rivivere la magia di quelle sere? Spero di sì, eventualmente potete ovviare alla mancanza proiettandovi all’edizione 2011 e a quell’altro record da battere, che è oramai obiettivo prefissato del trio Alfano-PuglisiDi Salvo. Tra i prossimi appuntamenti? Innanzitutto verrà avviato a Comiso il DEMO LAB, nei locali dell’Area G in via Righi. Location dove sarà possibile scoprire nuovi talenti e dove il programma RAI ha installato la propria sede satellite. Ripartirà da questo piccolo grande punto cardine l’organizzazione dell’edizione 2011. Io per il momento mi concedo e sapete cosa vi dico? Vado a preparare le valigie… c’è un’altra “Costa Crociera” che mi attende… salpate insieme a me?

Max Gazzé

Ron & Gianmaurizio Foderaro



Le molteplici tonalità dell’essere I quadri di Gina Pardo aesaggi, volti, nudi, figure non hanno segreti per Gina Pardo che nelle sue tele predilige l’acquerello ma è padrona di diverse tecniche pittoriche, sempre in evoluzione, sempre più raffinate: ciò la rende subito gradita anche a chi si accosta per la prima volta alla sua arte. Osservando un quadro di Gina Pardo ci s’innamora subito perché non c’è niente da capire, da interpretare; si è attratti, conquistati dalla sua semplicità, dalla soffusa sensualità della figura, dalla luce ovattata dei suoi acquerelli che parlano, soffrono, sorridono con quella pennellata intrisa di profonda sensibilità che l’animo e l’estro della Pardo sanno offrire. Senza fronzoli, elucubrazioni, contorsioni interpretative: perché l’arte di Gina Pardo piace subito. Analizzando a fondo i suoi quadri per i quali ha ottenuto diversi primi posti (Gela, Caltagirone, Siracusa, Taormina), possiamo affermare, come la maggior parte dei critici, che la sua arte pittorica è pura poesia per la dolcezza che essa emana ma è anche sinfonia per la forza espressiva e l’armonia che la contraddistingue: un concentrato di delicatezza, di intensità emotiva, di linee ora forti ora tenui, di colori che vibrando appagano occhi e animo, realizzando

P

Gina Pardo

un’opera in perfetta armonia col gusto tipicamente femminile dell’Artista. I suoi quadri impreziosiscono qualsiasi ambiente della casa in quanto gli conferiscono un tocco di gentilezza, di sapiente gradazione del colore. Lo dimostrano e lo confermano le tante persone che posseggono opere di Gina Pardo. Sarebbe lungo elencare le mostre personali e le collettive a cui la Pardo ha preso parte, dalla prima a Gela nel 1986 alle ultime del 2010 (ben sei, a Terni, a Roma, a Siracusa e a Lampedusa). Oggi la nostra Artista siciliana, nativa di Gela ma da 20 anni residente a Floridia e a Siracusa, è ormai pronta per spiccare il volo fuori dalla sua terra. Giuseppe Aloisio

Acquerelli traboccanti di poesia Mestizia, acquerello cm. 40x40

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Il bacio, acquererello cm. 40x50


I consensi e le conferme non le mancano; li sintetizziamo in alcuni giudizi di critici, esperti e intellettuali di spessore

Dolci pensieri, tecnica mista, cm. 50x70 Figura di donna, acquerello cm. 40x50

Acerba maternita, tecnica mista cm. 50x70

La ninfa Aretusa, acquerello cm. 40x50

Luigi Amato (Docente di estetica all’Accademia di Belle arti di Reggio Calabria e Montecarlo): “Una pittura, quella della Pardo, potente e pervasiva, ma al tempo stesso delicata e sognante. Una personalità non comune che si esprime attraverso percorsi non usuali, ma estremamente permeati di consapevolezza”. Rosi Raneri (Critico e storico dell’arte): “La Pardo trasmette la forza di esplorare con i suoi occhi, sempre nuovi panorami da scoprire, infiniti corpi, seduzioni e innocenze. …Ad esempio, le sue Ninfe seguono il soffio inebriante del vento che accarezza i loro capelli”. Nunzio Sciandrello (Intellettuale): “La Pardo giammai dipinge a freddo, quasi sempre rivela tensioni psicologiche, emozioni forti e irripetibili. Ogni suo lavoro rende originali situazioni che possono apparire quotidiane”. Giovanni Alfano (Maestro pittore): “La pittura di Gina Pardo è ricca di motivi realistici, ricerca l’essenza del bello indescrivibile attraverso la sublimazione del momento soggettivo”. Andrea Maria Guerrini (Critico d’arte): “Gina Pardo dosa con equilibrio luci ed ombre, svelando l’intima essenza dell’animo umano, i segreti delle cose, gli spazi infiniti dell’arcano”. Rosario Medoro (Storico e scrittore): “L’occhio della Pardo fotografa il soggetto e come un getto di lava, amalgamando colori, sfumature e personaggi, materializza il proprio intimo”.

Il biviere di Gela, acquerello cm. 40x50

Sulle sponde del Ciane, acquerello cm. 50x70

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UN TOCCO “CASUAL” PER LE TUE GIORNATE

Femminile e ammiccante la linea MET IN JEANS che esalta maliziosamente le forme senza dover rinunciare alla comodità

• Tuta intera in denim elasticizzato con salpa “elegance” con bottoni a clip.

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ANCORA IL DENIM PROTAGONISTA DELLE SCENE - Fotoservizio Toni Sentell -

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Pratica e di tendenza la collezione uomo che predilige tagli “asciutti” sia per il denim che per maglie e camicie. Spazio ai quadri e via libera ad un jeans stone-washed da indossare tutto l’anno.

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• Taglio sagomato per la camicia JACK & JONES a quadri rossa o nelle varianti blu e viola, 100% cotone • Cardigan JACK & JONES con cappuccio, zip e toppe sui gomiti in morbida lana. Disponibile nei colori blu e grigio melange. • Jeans MELTIN POT mod. MP002, taglio slim-fit. • Sciarpa a righe JACK & JONES in puro cotone nei toni del blu, verde, grigio o viola.


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UNO STILE URBANO C LUI • Giubbotto smanicato GAS JEANS, con pelliccia sul cappuccio estraibile, in vera piuma d’oca. Blu o nero. • Felpa DE KUBA mod. “Phoenix” linea “Classe 500” con cappuccio e bottoni in cotone felpato. • Pantalone di tuta in felpa garzata EM-CLUB con polsino e zip alle caviglie. Nei colori bianco, grigio melange e blu. • Tracolla EASTPAK mod. “Delegate” estensibile. Disponibile nelle tinte unite o in fantasie variegate. • Scarpa CONVERSE ALL STAR alta, con polsino, nei colori blu bianco e panna.

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L’abbigliamento sportivo abbandona le palestre e si fa street-style. Una moda vivace e giovanile all’insegna del comfort, con un occhio sempre attento ai dettagli più cool del momento Siracusa Viale Teracati, 106 Tel. 0931 411722

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Parola chiave: ego. Uno stile mordace ma chic. Un’anima grintosa ma sensuale. Una collezione che gioca appena con i colori, consacrando le contrapposizione di bianco e nero a signore della scena. Per un uomo e una donna che si autoproclamano padroni del loro essere.

LUI • Giubbotto in vera pelle JACK & JONES, taglio bomber, con tasche anche sul petto ed elastico in vita. • Pull con scollo a punta DE KUBA, linea “Classe 500”. Nelle tinte panna e blu. • Pantalone CHIRIBIRI mod. “Circuito 2”, colore grigio chiaro o blu, con rinforzi sulle tasche. • Scarpa CONVERSE ALL STAR, mod. “One Star” in tessuto nera o bianca.

LEI • Giubbotto in vera pelle DENNY ROSE, tipo “chiodo”, con maniche staccabili. Corto in vita. • Jeans chiaro MET IN JEANS con applicazioni di strass argento sul carré e sulla tascha anteriore. Modello a gamba stretta

Location - Castello di Xirumi Serravalle Lentini | SR


Casa e dintorni GIARDINAGGIO

Dai monti, alle pianure, passando per le colline:

foto Narujen

IL BRUGO


ppartenente alla famiglia delle Ericacae, il brugo (Calluna vulgaris) è un piccolo arbusto perenne che raggiunge un’altezza di 20-50 cm. Il nome Calluna deriva dal greco kallunein che significa “pulire, spazzolare”: anticamente infatti i fusti della pianta venivano legati assieme per ricavarne delle scope o delle spazzole. Fino agli anni ’50 e ’60 con il brugo venivano anche intrecciati dei cestini, decorati internamente con il muschio o con fiori di campo. Coltivata anche nei giardini e nelle aiuole a scopo ornamentale, il brugo cresce solitamente in suoli aridi, acidi e poveri di sostanze minerali e prospera in aree geografiche con un clima temperato freddo. Le sue formazioni spontanee, danno origine alla cosiddetta “brughiera”, ma questa pianta è diffusa soprattutto nelle zone montane e collinari, dove riesce a formare un esteso e denso tappeto di colore. Il fusto del brugo è legnoso e molto ramificato ed intrecciato mentre le foglie, aghiformi e sempreverdi, si presentano a coppia ed in posizione alterna rispetto alla precedente, della lunghezza di 2-3 mm e con due piccole orecchiette alla base. La spiga florale è lunga dai 20 ai 30 cm ed ospita un’infiorescenza unilaterale principalmente dalla tonalità violacea o rosea e raramente bianca o rossa. Al termine della fioritura, i fiori rimangono sulla pianta per tutto l’inverno, ma con una colorazione diventata ormai marrone. I fiori, leggermente penduli, sono ermafroditi ed attinomorfi, ossia con una simmetria di tipo radiale; presentano un calice membranoso formato da quattro lobi dello stesso colore della corolla campanulata. Il frutto non è altro che una capsula composta da quattro loculi contenenti ognuno un piccolo seme ovoide.

A

In cucina e dal medico Sapevate che il brugo può essere adoperato in cucina? È ottimo come condimento e dalle sue foglie si ricava anche il thé. Ma l’impiego maggiormente conosciuto ed apprezzato riguarda la produzione di un miele uniflorale molto scuro. Diffuso soprattutto all’estero, il miele di brugo è tissotropico, una proprietà tipica di alcuni fluidi pseudo-plastici: questo miele, che normalmente si presenta sotto forma di gel, se sottoposto ad agitazione si fluidica, per tornare gelatinoso se lasciato a riposo. Numerose sono anche le applicazioni che il brugo trova in medicina; pianta dalle proprietà astringenti, vasocostrittrici, antinfiammatorie ed antireumatiche, viene usato tramite decotti soprattutto per curare i disturbi alle vie urinarie o, tramite lavaggi, per attenuere le infezioni dell’apparato boccale. Dosi troppo elevate, potrebbero invece risultare irritanti, motivo per cui se ne consiglia l’uso sotto controllo medico.

FIORITURA

è una pianta perenne con una fioritura che va da settembre a novembre, un periodo variabile in base alla posizione geografica e al clima

irrigazione

mantenere il terreno umido ma senza ristagni di acqua, diminuendo gli interventi man mano che cala la temperatura

concimazione

utilizzare un fertilizzante per piante acidofile

esposizione

predilige una posizione che gli garantisca il sole pieno

moltiplicazione

avviene per talea. Dai rami non fioriferi prelevare delle talee di 4 cm e lasciarle radicare in un composto di sabbia e torba

potatura

eliminare solo le parti secche e/o danneggiate

Curiosità Il brugo viene anche definito falsa erica o, più impropriamente, erica selvatica, per la sorprendente similarità tra queste due piante. Se ne distingue, oltre che per il periodo di fioritura che nell’erica comincia a febbraio, per la corolla ed il calice, divisi in quattro parti (tetrametro) nel brugo, e in cinque parti (pentamero) nell’erica.

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rubrica a cura di ICM Computer via delle Dolomiti, 19 RAGUSA www.icmcomputers.it

Educhiamo il nostro corpo a stare daventi al pc ggi il pc è diventato un “compagno di lavoro e di svago”; molte persone lo usano per diverse ore al giorno a casa, a scuola, al lavoro. Due delle principali conseguenze derivanti dall’uso prolungato del computer e da una postura scorretta durante l’utilizzo della tastiera e dello schermo sono il mal di testa e il dolore al collo. Lo evidenzia una ricerca effettuata dalla Stellenbosch University in Sud Africa che ha preso in esame 1.073 studenti: il 16% di chi trascorre meno di 5 ore davanti al pc accusa disturbi al collo, mentre il 48% di coloro che utilizzano il computer dalle 25 alle 30 ore settimanali soffre di forti dolori al collo e di mal di testa. In realtà, l’unico modo per evitare questi malesseri è la prevenzione, ovvero l’eliminazione di tutti quei comportamenti scorretti che il nostro corpo “assume” davanti al pc. Eccovi alcuni accorgimenti da adottare durante la permanenza davanti ad un pc:

O

• la postazione di lavoro dovrebbe preservare l’utente da posizioni innaturali e posture scorrette; per tale scopo è meglio utilizzare una sedia che possa essere regolata in altezza ed inclinazione in modo da poterla conformare in base alle proprie dimensioni ed alla propria statura ed adeguarla alla scrivania su cui è posizionato il terminale. • Posizionare il monitor in modo da non doversi curvare

o girare il collo o ruotare il busto per vederlo correttamente e disporlo ad una distanza tale da evitare affaticamenti alla vista. • Cercare il più possibile di stare con la schiena ed il collo ben dritti e di tenere in posizione simmetrica i gomiti, i polsi e le gambe quando si digita alla tastiera e, specie per le persone di bassa statura, tenere i piedi appoggiati su una piccola pedana. • È consigliabile che la tastiera e il mouse stiano sullo stesso piano del monitor. • La scrivania dovrebbe avere un piano di lavoro ampio in modo da non impedire i movimenti e avere un’altezza tale (70-80 cm) da consentire a gambe e ginocchia di essere liberi da costrizioni. • Cercare di fare diverse pause, anche brevi, per sgranchirsi un po’ le gambe e far riposare gli occhi e svagare la mente. Ultima raccoman dazione: non mangiare davanti al pc; sulla scrivania e soprattutto sulla tastiera sono pre senti 400 volte più germi e batteri del sedile di un water da ufficio e, rispetto alla tastiera, il water viene regolarmente pulito più volte. Inoltre i germi si trovano in percentuale più alta sulle postazioni delle donne a causa delle creme e dei trucchi che finiscono sulle superfici intrappolando i microrganismi.


natur a mica

Rubrica a cura del dottor Corrado Cataldi, farmacista titolare dell’omonima farmacia www.farmaciacataldi.com

alire in montagna, alla ricerca dell’aria fresca tra le verdi e profumate chiome dei pini larici dell’Etna, può senz’altro, durante le nostre estati che “riempiono” gli animi d’arsura, essere un modo e un rimedio per fuggire dalle città “umide e sciroccose” e godere di quanto la natura circostante ci offre. Natura che, sul nostro vulcano, si dona generosa e ribelle: dai frutti più buoni ai migliori alimenti (le conserve più classiche: funghi sott’olio, confetture di varia frutta, melenzane sott’olio e prelibati rosoli di limone e di cannella), ai vini che sanno esprimere una straordinaria variabilità enolica (nerello mascalese nelle infinite varianti, tutti da bere e tutti da scoprire), fichi d’india, pistacchio di Bronte (dal colore verde smeraldo), fragole di Maletto (particolari: dal frutto di colore rosso chiaro con la punta verdognola, e dal sapore straordinariamente intenso e aromatico), molte varietà di mele, come le Cola e le Gelato Cola con buccia gialla e lentigginosa e dalla polpa bianca e croccante. Ma tra le tante prelibatezze non possiamo dimenticare l’apprezzato miele che, a seconda dei fiori da cui si origina va dal tipo di zagare d’arancio a quello di limoni, al miele di timo, al miele di acacia, a quello di eucalipto, a quello di castagno, al miele millefiori e, non ultimo, il buon miele di tarassaco. Al miele, in generale, attribuiamo delle proprietà che vanno dall’effetto prettamente energetico, per via dell’alta concentrazione di fruttosio che a differenza del glucosio rimane disponibile più a lungo per l’organismo, a quello blandamente lassativo e a quello antibatterico, determinata dall’alta concentrazione zuccherina ed al suo Ph acido.

S

Quest'ultima attività veniva riferita col nome generico di “inibina”. Si è dimostrato che l'attività antibatterica e antimicrobica è dovuta alla liberazione di acqua ossigenata che si forma dall’ossidazione del glucosio per via dell’enzima glucoso-ossidasi contenuto. Se poi vogliamo considerare un’attività più specifica, dobbiamo tener conto dell’origine intrinseca delle piante, o meglio dei fiori da cui le “api lavoratrici” traggono, dopo un lungo lavorìo fatto dalla

parziale digestione del nettare ingerito e rigurgitato più volte e dall’evaporazione dell’acqua presente in esso, il buon miele. Prendiamo ad esempio il miele di Tarassaco: esso risulta essere oltre che buono, molto raro. La sua realizzazione, da parte delle nostre api operaie, avviene nel periodo primaverile e porta con sé proprietà molto importanti come quella disintossicante per il fegato, depurativa e coadiuvante della funzione intestinale. II tarassaco è il notissimo fiore giallo dei prati. I frutti sono dotati di una corona di peli (pappo), inserita su un lungo peduncolo, che poi diffonde i frutti con il vento come un paracadute.

Biondo, dolce, inebriante, salutare... MIELE





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