Buon Natale
Foto Aldoaldoz
EDITORIALE
Natale. Tempo di nenie, presepi, alberi, fiaccolate e pranzi tradizionali. Tempo di vacanza, famiglia e amici. Tempo di riflessioni, bilanci e progetti. Mai come in questo periodo dell’anno si tocca con mano la commistione di sacro e profano che caratterizza la nostra società. Natale momento atteso da tutti: bambini e ragazzi per le lunghe vacanze da scuola e i regali sotto l’albero; adulti per le tredicesime che sono già impegnate per questo o quello, e vecchi per rendere grazie di essere ancora a questo mondo. Detto ciò, sviluppare questo o quell’aspetto della vicenda significa dare un taglio a delle parole che comunque vogliono essere due paroline di auguri ai nostri lettori. Il numero che vi accingete a leggere è un mix di quanto detto sopra anche nella parte che riguarda le riflessioni, i bilanci e i progetti. Nel racconto della bella terra di Sicilia, l’articolo sul castello di Naro, egregiamente fotografato dal nostro Giulio Lettiga, continua quell’attività di ricerca iniziata con il castello di Donnafugata e approdata lo scorso numero a Mussomeli. Alessandrina di Rudinì è il personaggio che allieta con la sua storia le pagine dedicate alla società siciliana del passato. Taormina con il suo Natale e Caltagirone con i suoi Presepi di qualità. L’attualità del “punteruolo rosso” che affligge le palme delle nostre belle città barocche, e gli studi sistematici che Assoturismo porta avanti con l’osservatorio turistico isole europee, per finire con le attività di promozione e investimento sul territorio che vedono impegnata la città di Priolo, la quale si sta adoperando sempre più attivamente nella riqualificazione del luogo già deturpato negli anni dall’indiscriminato sfruttamento industriale. Buon Natale a Voi e a tutti quelli che apprezzano Inside Sicilia, sostenendola e partecipando alla sua realizzazione. L’Editore
N. 9 - DICEMBRE - GENNAIO 2011 Tribunale di Siracusa 20/07/2009 Registro della Stampa n. 13/09 Editore - Pegaso & C. sas Siracusa - Tel. 0931 35068 www.insidesicilia.com info@insidesicilia.com
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Vignette
Salvatore Castellino
Foto di copertina: Paesaggio ibleo invernale di Giulio Lettica
Stampa Tipolitografia Priulla srl - Palermo
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STORIA E TRADIZIONI Natale a Taormina: tutti i colori della tradizione nel calore dell’accoglienza Il Natale alla maniera bizantina alla Cappella Palatina Ragusa com’era tra il 1593-1624 Arcaiche ritualità e antichi sapori del Natale Ibleo La tradizione presepistica a Caltagirone
ATTUALITÀ Fruscìo d’ali - Angeli: immagini visibili dal mondo invisibile Realtà con fantasia Tra musiche, danze, giostre e tornei medievali Sua Eccellenza... l’olio dei Monti Iblei Filiere commerciali turistiche in Sicilia “Scatti su Acate”, per un territorio sempre da scoprire Il punteruolo rosso “Aspettando il Natale”, scopriamo insieme il nuovo polo di attrazione commerciale a Priolo Gargallo La salvaguardia dell’ambiente non è un concetto astratto
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CURIOSITÀ La chiesa e la casa di Santa Luciuzza in Ortigia non esistono più Quando in Sicilia... la fata Morgana stregava
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IL PERSONAGGIO Alessandrina Starrabba di Rudinì Il baritono Carmelo Mollica - L’uomo, l’arte, la passione
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ITINERARI I Dolmen di Sicilia C’è un ponte antico nella città dei siculi: il ponte del sarceni
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SPECIALE Il Castello di Naro, scrigno di emozioni senza tempo che risplende di storia
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NATURAMICA L’inverno: quando il sistema immununitario è messo a dura prova
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CASA E DINTORNI La ricetta dei “nucatoli” Una pianta che è... un mito: il vischio COMPUTER E DINTORNI Si chiama WiMax la nuova tecnologia avanzata che fa risparmiare
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NATALE A TAORMINA: tutti i colori della tradizione nel calore dell’accoglienza atale è il rosso, l’oro e l’argento degli addobbi che inchiodano lo sguardo alle vetrine dei negozi, facendo pensare a doni da fare e da ricevere. È il bianco della neve – magari non quella sulle strade e sui tetti, perché qui da noi la si vede assai di rado e si grida “al miracolo”, mentre la si può ammirare a distanza, sull’Etna –; è il verde del grande Albero che sfoggia imponenza e bellezza, circondato da un’elegante aiuola dal sapore tutto siciliano, in Piazza IX Aprile, uno tra gli slarghi più belli al mondo. Al Centro della Città che s’apparecchia per essere il Centro del Mondo. Trascorrere il Natale a Taormina, vuol dire farsi carezzare da una città che parla la lingua dell’arte e della cultura
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attraverso i suoi monumenti, le sue strade. Una città dove il paesaggio ne caratterizza gli umori, e seduce con i toni della vegetazione profumata di resine e agrumi. Un luogo dove respirare l’odore salmastro che giunge dalla marina sottostante, annusandolo prima con gli occhi che con l’olfatto; rapiti dal blu cangiante del mare. E che dire del cielo? Anch’esso, in questo periodo, sa essere prodigo nel dispensare buonumore: l’azzurro è netto, profondo. Aiuta ad ingoiare l’aria a sorsate generose. Le vie sono vestite a festa, con gli alberelli ornamentali infiocchettati e ritti in piedi ad offrir omaggio ai passanti più o meno frettolosi. Lungo le scalinate che conducono ai palazzi signorili, vasi di
terracotta trattengono a stento Stelle di Natale e Ciclamini; ci si sente immersi in un profumo quasi nostalgico: sa di casa, di famiglia, di tradizione. Una Tradizione giunta da lontano, fatta di riti e simboli dai tratti comuni, qui al Sud Italia, in Sicilia, a Taormina. Una Tradizione dal valore non quantificabile. Si ritrova ad ogni angolo, ed in ogni festività, che è manifestazione religiosa e di popolo. Così è a Natale. Nelle strade, gli zampognari annunciano con suoni pastorali, che presto sorgerà un nuovo giorno. Si avvicina la nascita di Gesù Bambino. Nelle chiese, i presepi della festa cristiana s’aprono ai fedeli ed ai visitatori; con il giungere del tramonto, la sera, i concerti di Musica Classica da Camera, Polifonica e Gospel rallegrano gli animi, in un crescendo che raggiungerà l’acme con il Concerto di Capodanno. Tutto intorno richiama atmosfere di un tempo antico che si riattualizza ogni anno, regalando nuove sfumature. Il suono delle zampogne, i presepi, le Novene, passo dopo passo si giunge alla Vigilia, il 24 dicembre: la gente esce di casa dopo aver cenato perché si è pronti a raccogliersi nelle Piazze del Duomo e di S. Caterina ed in quelle delle Frazioni di Mazzeo e Trappitello per l’accensione del Falò. Un rito che ridesta le sopite anime agropastorali e le anime del borgo marinaro. Ci si stringe attorno allo scoppiettante fuoco, tenuto acceso sino a tardi e non appena la campana annuncia la Messa ci si avvia, pronti per la preghiera e con la gioia nel cuore per l’imminente nascita del Salvatore. Il Natale a Taormina è un appuntamento di intima convivialità, offre spazio al visitatore che trattiene i colori della tradizione e l’incomparabile calore dell’ospitalità cittadina. Città di Taormina - ASSESSORATO AL TURISMO Promozione Piano Strategico ed Innovazione Turistica Sport e Spettacolo - Marketing Territoriale Memoria e Archivio Storico - Sviluppo Economico Verde Pubblico e Arredo Urbano
CioccolArt Sicily: a Natale il cioccolato “si fa bello” “CioccolArt Sicily”, Mostra-Evento in pro gramma a Taormina dal 18 Dicembre 2010 all’8 Gennaio 2011 nell’ex Chiesa del Carmine, si fonda sull’idea che “il cibo degli dei”, il cioccolato, possa esser mostrato e goduto non più come semplice alimento ma come una tra le molteplici espressioni dell’artigianato artistico siciliano, ed in particolare taorminese. Ideatrici di questo evento, giunto alla sua seconda edizione, sono Luisa Greco e Donatella Rapisardi. “CioccolArt Sicily” offrirà agli appassionati del cioccolato due appuntamenti speciali presso la sede della “Fondazione Mazzullo”, a Palazzo Duchi di S. Stefano. Martedì 29 dicembre ore 17.30, il Prof. Salvatore Farina, terrà un seminario dal titolo: “Theobroma Cacao cibo degli dei. La storia del cioccolato dagli Aztechi ai giorni nostri”. Invece, Mercoledì 4 gennaio 2011, ore 17.30, il Maestro Pasticciere Salvatore Cappello offrirà agli intervenuti, un itinerario degustativo sul cioccolato. Tra le iniziative: “Il Percorso delle Bontà” con i “Ciocco Sicily Points” e con gli angoli più caratteristici, le piazze ed i locali di Taormina. Corsi di Pasticceria tenuti dal Maestro Giuseppe Micalizzi e organizzati presso la sede dell’“Istituto Babilonia” sono in programma dal 20 al 23 dicembre e dal 27 al 30 dicembre. La prenotazione è obbligatoria quindi si consiglia di rivolgersi alla Segreteria Organizzativa (cell. 393- 209 1798) oppure inviare una mail a: info@cioccolart.it
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Per visionare tutti gli appuntamenti in calendario di “CioccolArt” si può visitare il sito www.cioccolart.it
Natale a Taormina 2010-2011 CHIESA S. FRANCESCO DI PAOLA GIOVEDÌ 3 DICEMBRE ore 19 - Concerto Ferdinando Terranova – pianoforte SABATO 4 DICEMBRE ore 19 - Concerto Marco Mazzamuto – pianoforte SABATO 11 DICEMBRE ore 19 - Concerto Simone Bonanno, Claudio Bonfiglio violoncello-pianoforte DOMENICA 12 DICEMBRE ore 19 - Concerto Vera La Rosa – pianoforte SABATO 18 DICEMBRE ore 19 - Concerto Guendalina Consoli – pianoforte DOMENICA 19 DICEMBRE ore 19 - Concerto Marco Carmina – pianoforte CHIESA S. CATERINA DOMENICA 5 DICEMBRE ore 19 - Concerto Francesco Leone Pianista VENERDÌ 17 DICEMBRE ore 19 - Concerto Cinzia Dato e Filippo Arazetto duo pianoforte e corno DOMENICA 19 DICEMBRE ore 19 - Concerto Carlo Muratori pianoforte MERCOLEDÌ 22 DICEMBRE ore 19 - Concerto Cinzia Dato pianista GIOVEDÌ 23 DICEMBRE ore 19 - Concerto Gospel Associazione Corale Stesicorea LUNEDÌ 27 DICEMBRE ore 19 - Concerto Palermo Art Ensemble (Taormina Arte) MARTEDÌ 28 DICEMBRE ore 19 - Concerto Omniar Trio (Taormina Arte) CHIESA DI S. PIETRO MARTEDÌ 7 DICEMBRE ore 17,30 - Concerto Sabrina e Simona Palazzolo Arpiste BASILICA CATTEDRALE (DUOMO) MERCOLEDÌ 22 DICEMBRE Cattedrale S. Nicolò di Bari - Concerto del Coro Millevoci Istituto Comprensivo 2 Trappitello GIOVEDÌ 6 GENNAIO Basilica Cattedrale - TAO MUSIC CHRISTMAS FESTIVAL IV EDIZIONE PALAZZO DEI CONGRESSI VENERDÌ 17 DICEMBRE ore 19,30 - Orchestra Sinfonica Istituto Comprensivo 2 SABATO 18 E DOMENICA 19 DICEMBRE ore 21- Spettacolo Teatrale Istituto Paritario “S. Maria di Gesù Redentore” - Taormina - “Miseria e nobiltà” GIOVEDÌ 30 DICEMBRE ore 19 - Concerto Orchestra a Fiati (Taormina Arte) SABATO 1 GENNAIO ore 18 - Concerto di Capodanno - Orchestra a Plettro Città di Taormina - Patrocinato dall’Associazione Albergatori Taormina a seguire consegna dei Premi CITTÀ DI TAORMINA - Borsa di studio Flaviana Ferri - Targa Enrico Lo Turco - Targa Protezione Civile PIAZZA IX APRILE MERCOLEDÌ 8 DICEMBRE ore 19 - NIGHTSHAPE Band
ALTRE INIZIATIVE Dalla fine di novembre sino al 10 gennaio per grandi e piccini, il divertimento è assicurato con la PISTA DI PATTINAGGIO (parcheggio Porta Catania) Per tutto il periodo delle feste sono in programma le sfilate musicali degli “Zampognari”; l’intrattenimento e le animazioni degli “Artisti di Strada”; le sfilate dei “Carretti Siciliani” e l’1 gennaio dopo i festeggiamenti per il Nuovo Anno vi sarà il tradizionale “Tuffo a mare e Corsa” della Città di Taormina, giunto alla sua Trentottesima Edizione FALÒ VENERDÌ 24 DICEMBRE Taormina: Piazza Duomo ore 22,30 Taormina: Piazza S. Caterina ore 23,00 Trappitello (Frazione di Taormina): ore 23,00 Mazzeo (Frazione di Taormina): ore 23,00 PRESEPE VIVENTE 26-30 dicembre e 02-08-09 gennaio ore 19,00 Santuario Madonna della Rocca
MOSTRE 1 DICEMBRE – 6 GENNAIO “Fondazione Mazzullo”, Palazzo Duchi di S. Stefano – Sala Colonna “Miti e leggende di Sicilia” 12 DICEMBRE – 26 DICEMBRE “Fondazione Mazzullo”, Palazzo Duchi di S. Stefano “100 Pittori a Taormina” - Mostra di Pittura, Scultura e Fotografia 5 GENNAIO – 12 GENNAIO “Fondazione Mazzullo”, Palazzo Duchi di S. Stefano “Visualizzazioni Poetiche” di Eliseo Laganà - Mostra di Pittura 20 DICEMBRE - 6 GENNAIO Chiesa S. Francesco di Paola - Mostra Fotografica dell’“Archivio Malambrì”
Angeli
Immagini visibili dal mondo invisibile di Sergio Cilea - foto Daniele Aliffi La Sicilia, da tanti popoli desiderata, conquistata e dominata, ha avuto lasciato in dote dopo secoli di occupazioni, uno straordinario patrimonio di beni artistici disseminati in ogni luogo dell'isola, e tale è la quantità da rendere tutto il territorio siciliano un magnifico ed ineguagliabile museo a cielo aperto. Buona parte di questi beni possono essere costantemente ammirati, come d'altronde lo si può fare con i beni esposti nei musei, ma viceversa esiste un patrimonio sommerso, invisibile e ben conservato, che risulta purtroppo perennemente inaccessibile. E tale rimarrebbe senza la meritoria ed instancabile opera di appassionati studiosi, che animati dal grande desiderio di conoscenza e divulgazione, scovano nei più reconditi meandri dei luoghi di "tutela" questi beni riportandoli alla luce per donarli alla pubblica ammirazione. Questa è l'impresa condotta da Dario Scarfì che è riuscito a regalarci questa originale, preziosa ed inconsueta mostra dedicata agli angeli. Fruscio d'ali, un volo nell’iconografia degli angeli è il titolo di questa rassegna di opere d'arte delle quali la maggior parte mai esposte al pubblico e provenienti da raccolte pubbliche, private, e dal Tesoro della Cattedrale di Siracusa. Un viaggio a volo d'uccello sull'iconografia angelica, attraverso l'esposizione di manufatti di oreficeria sacra, dipinti, stampe e antichi libri. Il curatore della mostra Dario Scarfì così si esprime: “Gli Angeli sono sempre presenti nella Bibbia; svolazzano si potrebbe dire: esseri spirituali mediani tra Dio e gli uomini, messaggeri veloci rapidi leggeri. Alla rapidità, alla leggerezza e alla gloria ci siamo ispirati quando abbiamo ideato la mostra e concepito il suo titolo: Fruscio d’ali. Per la selezione delle opere in mostra si è dato un forte risalto alla figura dell’angelo che sostiene la gloria di Dio, rappresentato dall’imponente angelo che regge il reliquiario ad ostensorio, o ai delicati serafini sbalzati sui calici e sulle pissidi, o agli angeli col turibolo sulla portantina. Il quadretto dell’Annunciazione fissa bene la rapidità del kerygma, mentre il turbinoso movimento intorno alla Vergine esprime la Gloria e la gioia celeste per l’assunzione in Cielo della Madre del Salvatore. I pezzi di argenteria e oreficeria sono stati esposti in sequenza cronologica dal XVII al XIX secolo, privilegiando le principali botteghe dell’Isola: Palermo, Messina, Siracusa; sono presenti anche due esemplari romani. Fruscio d’ali vuole dunque essere una continua suggestione dello spettatore lungo tutto il percorso della mostra. Si potrebbe dire un continuo contatto, un immaginare quel mondo sensibile e lo spirito. Il diverso girare fra i pezzi esposti vuole condurre ad un’esperienza artistica e di fede sempre originale sempre unica, perché unico e irripetibile è ciascun essere umano”.
Biblioteca Arcivescovile Alagoniana Piazza Duomo 5 - Siracusa
Chiesa di Santa Lucia alla Badia Piazza Duomo - Siracusa Tutti i giorni dalle ore 11,00 alle 14,00 dalle ore 17,00 alle 19,00 Lunedì chiuso È un evento organizzato dalla Associazione Culturale EXEDRA
ITINERARI
I DOLMEN DI SICILIA
Il dottor Salvo Piccolo spiega le caratteristiche del dolmen di Avola
Nostra intervista allo studioso Salvo Piccolo, saggista ed esperto in “Dolmen siciliani” - Per capire e distinguere meglio ciò che esporrà ai nostri lettori, cosa significa “dolmen”? «La parola dolmen, che deriva dal bretone dol (tavola) e men (pietra), compare verso la fine del ’700; sino a quel momento, l’esame di questi “strani” monumenti disseminati un po’ ovunque aveva alimentato supposizioni più che bizzarre (si pensava che fossero opere realizzate da giganti o, addirittura, prodotti del diavolo). Le prime esplorazioni furono indirizzate a comprenderne l’uso e a stabilirne l’età, anche se il mancato rinvenimento di oggetti in metallo suggeriva a priori a quale epoca potessero risalire. Grazie al metodo del Carbonio14, è stato dimostrato che le più antiche tombe megalitiche hanno avuto origine nel settentrione d’Europa: i dolmen della Bretagna risalgono al 4500 a.C. (precedenti, quindi, alle piramidi egizie) e da qui si sono diffusi sia verso nord che verso sud, concludendo la loro fase a Malta (2500 a.C. circa) e in Italia (fine del terzo millennio). Un arco di tempo sufficiente perché in ogni regione
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assumessero caratteristiche locali mantenendo, comunque, una particolarità: l’utilizzo di blocchi o lastre di pietra, talvolta di dimensioni colossali, che ne fecero un fenomeno legato ad una cultura assai diffusa». - Com’è strutturato un dolmen? «La forma più elementare è quella trilitica: un lastrone orizzontale si sovrappone a due pietre messe per dritto formando una costruzione quadrangolare. Ma esistono forme più complesse, costituite da una successione più o meno lunga di triliti che ha generato due aspetti particolari: la tomba a corridoio e la tomba a galleria. Non tutti sono stati monumenti funerari, i cromlech di Stonehenge (Inghilterra) e i menhir di Carnac (Francia), ad esempio, avranno svolto funzioni straordinarie forse legate all’esercizio di un culto astronomico. Si trattò, senz’altro, del prodotto di una Cultura che scorgeva nell’Universo il centro d’irradiazione di energie assolutamente positive».
Dalla Preistoria un affascinante mistero tutto da risolvere
Sono sei i dolmen esistenti a tutt’oggi in tutta l’isola: quattro ubicati nella Sicilia sud-orientale e due nella parte occidentale
Localizzazione dei dolmen in Sicilia
- Quale correlazione vi è tra i dolmen dell’Europa continentale, quelli sardi, maltesi e siciliani? «In ogni regione si affrontarono problemi legati al reperimento e al trasporto del materiale di costruzione. Nelle zone in cui la pietra era parecchio dura, difficile da frantumare, furono innalzati enormi monumenti; in altre aree, dove la pietra si frammentava facilmente, si costruì a secco piuttosto che con tecnica realmente megalitica, così come è avvenuto nella nostra isola. I dolmen italiani risalgono ad epoche più recenti. In Sardegna se ne contano un centinaio sparsi su tutto il territorio, alcuni dei quali, le cosiddette ciste dolmeniche (lastre di pietra assemblate in forma cubica), si datano all’età del rame (2500 a.C. circa). Questo modello costruttivo si trova anche in Sicilia, a Butera (in provincia di Caltanissetta), nel quartiere di Piano della fiera, località in cui esisteva una necropoli preistorica. Il monumento, riutilizzato in periodo greco, richiama a pratiche cultuali greche e sicane insieme, caratterizzate dalla collocazione di resti umani all’interno di vasi a loro volta infilati dentro queste camerette. Più a sud, nelle isole di Malta e di Gozo, si ammirano i complessi preistorici più straordinari dell’area mediterranea, i “templi megalitici”, costruiti tra il 4000 e il 2500 a.C. circa, dedicati al culto di una dea della fecondità. I dolmen veri e propri (circa una ventina) si fanno risalire al periodo successivo (dal 2500 a.C. in poi). Anche in Sicilia, negli ultimi anni, si rinvengono dolmen utilizzati come tombe. Piccoli monumenti dolmenici sono segnalati un po’ dappertutto, sia all’interno che lungo le coste della nostra regione. Alcuni, distrutti dall’urbanizzazione selvaggia, si conservano nella memoria della gente del
Dolmen di Avola, particolare del pilastro sinistro
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Dolmen di Sciacca
Dolmen di Cava Lazzaro, particolare del taglio dei blocchi
luogo, altri spersi tra boschi e montagne sono ancora ignorati». - Ma veniamo al nostro territorio. Dove si trovano i dolmen siciliani? «Gli studi e le foto da me realizzati testimoniano la bellezza e il mistero di ben sei dolmen presenti nella nostra terra. Quattro di questi si trovano nell’area sud-orientale dell’isola, a Monte Bubbonìa (CL), Cava dei Servi (RG), Cava Lazzaro (SR) e ad Avola in contrada Borgellusa (SR). Gli altri due si possono ammirare nella zona occidentale dell’isola, a Sciacca (AG) in contrada San Giorgio e nell’area archeologica di Mura Pregne, sul versante nord orientale di Monte San Mauro, tra i comuni di Termini Imerese e quello di Sciara, nel palermitano. Può darsi che ve ne siano altri. Ma ad oggi si conoscono solo questi». - Vediamo più dettagliatamente questi dolmen siciliani che si prestano ad una visita accurata, così da farsi avvolgere, quasi “nutrirsi” del loro irreale mistero ancora irrisolto. «Sì. A Mura Pregne si arriva dalla SS 113 Palermo-Messina, imboccando una stradella che indica la località “Cortevecchia”, alle pendici del monte Castellaccio. Il dolmen, che ricade in un’area di grande interesse archeologico, è rimasto ignorato per anni, a causa della scarsa considerazione che gli studiosi siciliani hanno mostrato nei confronti di un fenomeno preistorico che sembrava estraneo all’esperienza culturale della Sicilia. Questo dolmen ha pianta rettangolare, del tipo a corridoio, formato da quattro grossi blocchi (due per lato) perfettamente sbozzati e infissi nel terreno, sui quali è posto un lastrone di copertura. Un secondo gli si adagia accanto in posizione obliqua e un terzo, che avrebbe concluso il tetto, potrebbe essere quello giacente davanti al suo ingresso. La costruzione raggiungeva i tre metri di lunghezza». - Cosa può dirci sul dolmen di Sciacca? «A 7 km da Sciacca, prossimo alla Statale 115, si trova il dolmen La Lumia, situato ad oriente del fondo di Femmina Morta. Venne scoperto nel 1930 tra un gruppo di massi di tufo conchigliare ed è ritenuto una sepoltura. Tutt’intorno
furono rinvenuti frammenti ceramici risalenti al bronzo antico. Nei pressi della struttura si trovano altri massi con incisioni che fanno pensare ad un piccolo sacello o ad un pozzetto di raccolta». - E gli altri? «Monte Bubbonìa è una collina a nord di Gela. Vi si arriva dopo aver percorso un tratto della SS 117 Gela-Catania, svoltando per il bivio di Piazza Armerina. Nove chilometri più avanti, un incrocio apre sulla sinistra al vecchio asse viario per Mazzarino, riportato sull’Itinerarium Antoninii, un’antica mappa stradale di epoca romana. L’ingresso al monte è tre chilometri dopo. Il monumento si trova in basso a una strada sterrata che percorre il fianco orientale del monte e che sale verso l’acropoli greca. Ricavato da sfaldature colossali della roccia, anche questo dolmen ha forma rettangolare. La piastra calcarea che funge da copertura (incassata posteriormente al rialzamento naturale del terreno), poggia su due monoliti che corrono paralleli tra di loro e determinano una camera di circa 2,60 mq. L’ingresso è rivolto a nord-est, come gli altri dolmen siciliani. Sarà stato senz’altro una tomba a camera, anche se di dimensioni ridotte (se ne trovano anche in Sardegna e Puglia), con l’estremità posteriore poggiata al declivio del colle per facilitarne la tumulazione, com’era consuetudine per questo genere di architettura il cui ricoprimento con terra e pietrame è riscontrabile ovunque si sia manifestata. Più a est, nella regione montuosa degli Iblei ragusani, alla sorgente del fiume Tellesimo, esiste una cava chiamata Cava dei Servi che domina un paesaggio mozzafiato e suscita mistiche suggestioni. Il monumento ha forma ellittica ed è costituito da quattro piastre rettangolari, infisse nel terreno, sulle quali se ne dispongono altre tre, inclinate quanto basta per ridurre la superficie di copertura e formare una falsacupola. All’interno della camera, una grande lastra calcarea fratturata in quattro punti sembra essere stata il tetto del monumento, rovinata al suolo a causa del progressivo scivolamento della struttura. La disposizione delle pietre dava forma a una costruzione di circa 3,00 mq., realizzata
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Dolmen di Cava Lazzaro
Il dolmen di Cava dei Servi (Ragusa)
sul declivio del colle per facilitarne l’interramento. Grazie al rinvenimento di numerosi frammenti ossei umani (che rappresentano gli unici indizi organici ritrovati all’interno di un dolmen mediterraneo) e qualche scheggia di ceramica del primo periodo del bronzo, si è in grado di stabilirne funzione e cronologia». - Questi resti umani cosa possono significare? «I resti anatomici confermano la natura sepolcrale del manufatto, mentre il ritrovamento di quei pochi cocci ha consentito di datare il dolmen al bronzo antico. La sua presenza accanto ad una necropoli rupestre, mi fa pensare che si è di fronte ad elaborazioni a sé stanti, del tutto originali». - Entriamo ora in provincia di Siracusa. «Sì. Percorrendo la Rosolini-Modica, giunti al Km 8 e svoltando sulla destra, la strada comunale PernicellaMarchesa conduce al pianoro sovrastante una Cava (detta “Grande”) che incide, in maniera sinuosa e profonda, parte del territorio di Rosolini. Il suo tratto iniziale, denominato Cava Lazzaro, è compreso nella porzione meridionale dell’altopiano ibleo. Qui, le millenarie incisioni torrentizie hanno provocato profondi precipizi nei quali gli esseri umani hanno sempre trovato riparo e cibarie. Scendendo dal versante destro della Cava, per le brevi e ripide terrazze naturali, le pareti rocciose appaiono forate da tombe preistoriche risalenti al bronzo antico. In una di queste terrazze, qualche anno fa, ho rinvenuto due grossi blocchi di pietra disposti ad angolo convesso che dovevano formare una costruzione semicircolare. I due macigni, sbozzati con la mazza, poggiano sul suolo calcareo. La parte posteriore è accostata al dislivello del terreno, per facilitare l’interramento dell’edificio. Un taglio obliquo percorre la superficie superiore di ambedue i macigni. Questa sagomatura della pietra, ripetuta probabilmente anche sulle altre scomparse, fa pensare alla sovrapposizione di una sequenza ordinata di lastre che, disponendosi in maniera obliqua, avrebbero ristretto la superficie di copertura in modo da generare una falsa cupola. La dimensione della cella doveva essere di circa 4,00 mq. Ancora disposti in cerchio, si notano i frammenti di quella che avrebbe potuto essere una costruzione funeraria.
Intorno ai due monoliti è ancora visibile un circolo di pietre che ricorda una caratteristica comune a molti dolmen atlantici e mediterranei (Olanda, Spagna, Corsica, Sardegna, Puglia e Malta). Questo tipo di costruzione, già vista a Cava dei Servi, si rifà all’opera di uno stesso popolo sparso per tutto l’altopiano ibleo, convivente con un’altra razza che elaborava ed utilizzava le tombe scavate nella roccia. Ed eccoci ad Avola che è un grosso centro rivierasco compreso tra i fiumi Assinaro e Cassibile, sulla costa orientale della Sicilia, venti chilometri più a sud di Siracusa. Lungo la strada statale che conduce al capoluogo aretuseo, all’altezza dell’ospedale civico, si apre sulla destra una stradella che fiancheggia il letto di un torrente. Qui, la lenta azione erosiva delle acque ha delineato una vallata, denominata Cava L’Unica, alla cui destra, a ridosso di una paretina rocciosa, è situato un presunto monumento megalitico. Questa zona, periferica rispetto al centro urbano, è indicata con il nome di Contrada Borgellusa. L’edificio, circondato da una selvaggia e prorompente vegetazione, sembrerebbe a prima vista costituito da una enorme “tavola calcarea” di spessore variabile, poggiante essenzialmente su due “pilastri”. La tavola è davvero enorme con i suoi quasi otto metri di lunghezza e cinque metri e mezzo di larghezza. Sulla superficie della lastra, spaccata in due punti, si notano dieci piccole buche rettangolari, ricavate nella parte più spessa del calcare e diversamente orientate per non indebolire la consistenza del piano. Si tratta di tombe di bambini utilizzate in epoca greca o paleocristiana. Al di sotto della piattaforma si apre un antro di 30 mq. circa, aperto su due lati (nord-ovest e nord-est) e alto poco più di un metro e mezzo. La forma è stata modellata dall’uomo con l’intento di ampliare e geometrizzare la cavità, sino a farle assumere l’aspetto attuale. Le tracce di questi interventi sono visibili sia nel contorno dei pilastri, ricavati dalle pareti laterali della grotta, sia nella parte superiore della volta, ripulita dai materiali arenitico-sabbiosi sottostanti. È dimostrato, quindi, l’intervento dell’uomo che ha voluto “monumentalizzare” un prodotto già bello e plasmato dalla natura».
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Il dolmen di Mura Pregne (Palermo)
- Dottor Piccolo, alla luce di quanto ha esposto quale la sua analisi storica e socio-economica? «La scoperta di queste costruzioni, potrebbe far nascere nuove ipotesi per la comprensione della Sicilia primitiva. È noto che la nostra regione ha avuto una preistoria alquanto intricata, tanto da risultare difficile orientarsi nel guazzabuglio di popoli che vi si sono succeduti. È comunque percettibile l’impatto tra due influenze: una europea, proveniente da nord-ovest e l’altra mediterranea, di chiara matrice orientale. Intorno alla fine del III millennio a.C., il versante occidentale della Sicilia fu interessato da un’ondata culturale proveniente dalle coste sarde, i cui effetti determinarono la creazione, anche nel Sud-Ovest dell’isola (a nord-est esisteva già il grande mercato delle isole Lipari), di uno snodo mercantile deputato a regolare i traffici tra la Sardegna e la penisola iberica da una parte, l’Oriente dall’altra. Si spiegherebbe, in questo modo, il passaggio nella Sicilia di questo periodo di aspetti culturali tipici dell’occidente europeo, che oltre a produrre fenomeni imitativi confermarono la centralità strategico/commerciale della nostra isola. Fino a qualche anno fa si pensava che la costruzione dei piccoli megaliti di Malta fosse da attribuire ad un popolo proveniente dalla Puglia (per la loro rassomiglianza a quelli salentini), sovrappostosi alla precedente Cultura di Tarxien. Oggi, grazie alle nuove scoperte siciliane, è legittimo pensare che il popolo dei dolmen maltesi sia giunto dalla Sicilia. La nostra isola, per la sua imponenza geografica nel bel mezzo del Mediterraneo, attrasse ogni tipo di esperienza culturale, proiettandone gli effetti sia a settentrione che a meridione di essa. In quest’ottica si inquadrano gli antichi rapporti con l’isola di Malta. Il progredire della metallurgia non intaccò il ruolo commerciale della Sicilia, al contrario le aprì le porte all’Occidente, che vi fece affluire materie prime come l’arsenico della Sardegna e, per la stessa rotta, lo stagno della Spagna e della Cornovaglia». - Allora come avvenne questa ipotetica e suggestiva invasione? «Il “popolo dei dolmen” avrà compartecipato a
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Il dolmen di Monte Bubbonia (Caltanissetta)
quell’andirivieni. Approdato nella zona occidentale della nostra regione, si spinse pian piano verso il litorale ionico. Qui beneficiò del circuito virtuoso che questa parte dell’isola aveva innescato con l’arcipelago maltese, incrociandovi la millenaria civiltà di Tarxien che forse, proprio qui, andò incontro alla sua triste sorte scomparendo definitivamente». - Ci tolga un dubbio finale. Il celebre complesso inglese di Stonehenge, noto in tutto il mondo, perché affascina ancora? «Stonhnenge significa “pietra sospesa” e fu messo su, oggi diremmo costruito, tra il 3.000 e il 2.500 avanti Cristo. Gli interrogativi sono ancora tanti. Il complesso monumentale si trova nei dintorni di Salisbury, una cittadina a sud-ovest di Londra, ma gli enormi blocchi di pietra, del peso di diverse tonnellate, provengono dal Galles, regione che dista ben 400 chilometri da quel luogo. Come vi furono portati? Su enormi rulli, per via fluviale? E qualora scoprissimo il metodo utilizzato restano tantissime altre domande, troppe! Ad esempio, con quali strumenti furono issati per dar loro la forma attuale? Si può ben comprendere quanti enigmi siano racchiusi nelle pietre dolmeniche, che avvolgono in un alone di mistero anche i luoghi in cui si ergono da tempi immemorabili. Un mistero, che penso non sarà mai risolto!». Giuseppe Aloisio
Dolmen di Stonehenge Inghilterra
l i n gu a g g i o e segni dell’arte
Il Natale alla maniera bizantina nella Cappella Palatina di Giuseppe Nuccio Iacono giorno di Natale del 1130, Ruggero II fu incoronato “Rex Siciliae et Italiae” dal Legato del papa Anacleto II. Un giorno speciale per un re ambizioso che riuscì ad unificare l’Italia meridionale sotto la corona normanna di Palermo. E come si sa, l’ambizione dei grandi genera grandi opere. Fu così che all’interno del palazzo reale fece costruire una meravigliosa cappella privata (Cappella Palatina). I lavori completati nel 1143 furono l’espressione di un grandioso programma iconografico che (voluto e seguito personalmente dal re) doveva rievocare il fasto degli imperatori bizantini per trasmetterlo sul trono palermitano degli Altavilla. E poiché questo programma ideologico trovava la sua congeniale forma di espressione negli ori, nei colori e nello splendore dell’arte del mosaico, si ricorse alle migliori maestranze di Bisanzio e si aprì una nuova stagione artistica, tutta siciliana, nota col termine di “manierismo bizantino”. Il risultato fu sorprendente; l’architettura arabeggiante della Cappella Palatina fu “vestita” con il manto regale dei “mosaici di Bisanzio”. ... L’esteso ciclo ispirato all’Antico e al Nuovo Testamento continua da secoli a coinvolgere lo stesso osservatore che è spesso interrogato dagli sguardi dei personaggi.
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E nella Natività, raffigurata sopra l’abside del transetto di destra, gli occhi dei protagonisti sacri ci introducono in una dimensione… fuori dal tempo e dallo spazio.
Il Mosaico della Natività Il mosaico celebra l’ingresso del Divino nella storia dell’umanità e racchiude tutto il messaggio biblico. Sotto gli ori del cielo, la scena del Natale si dilata nel tempo (spazio trans-temporale) per accogliere i riferimenti simbolici che anticipano “episodi” sacri: dal battesimo, alla Passione, alla morte, alla Resurrezione e Gloria del Cristo. Da una attenta lettura, scopriamo come l’uomo del XII secolo avesse una dimensione diversa dalla nostra nel comunicare, “rappresentare messaggi”, “decifrare” e leggere le scene. Non stupirà quindi notare come il tema della Natività, oltre alle immagini cariche di contenuti teologici, presenta in un unico paesaggio alcune scene che legano lo stesso personaggio a tempi d’azione differenti. Così il Bambino è rappresentato due volte: nella mangiatoia accanto a Maria e, più in basso, dove due donne sono intente a lavarlo. Anche il tema dei Magi è rappresentato due volte: li vediamo prima a cavallo, in alto, alla sinistra della Vergine e poi, alla sua destra, in atto di adorazione. È importante sapere che qui l’adorazione dei re Magi è da considerarsi come un momento coincidente con quello della Natività. Tenendo fede all’antica tradizione bizantina, i Magi “arrivarono nel momento in cui la Vergine diveniva madre. Essi avevano affrettato il passo e si trovarono là al tempo preciso della nascita di Gesù” (Vangelo dell’infanzia).
Paesaggio divino La grandezza dell’evento e la presenza di Dio è sottolineata dal “cielo d’oro”. Maria e il Bambino sono al centro di un paesaggio roccioso e brullo che ricorda il mondo arido e freddo e quindi ostile che accolse il Messia.
I tre Re Magi rappresentano le tre realtà della vita. Infatti, sono raffigurati così: il giovane è imberbe, l’uomo ha barba e capelli castani e l’anziano barba e capelli bianchi
In alto da sinistra, si susseguono tre montagne come chiara allusione alla Trinità. La prima, dove sono i tre angeli, fa riferimento a Dio Padre. La seconda, quella che ingloba i re Magi a cavallo, è verde (colore che nelle icone indica la vita, lo spirito) e simboleggia lo Spirito Santo; la terza è la montagna messianica che accoglie la grotta e rappresenta il Figlio.
I Magi seguono la stella In alto, i Magi a cavallo rappresentano gli uomini che non appartengono al popolo di Israele e che in cerca della Verità sono destinati anch’essi alla Salvezza. La tradizione iconografica attribuisce loro delle caratteristiche ben precise per sottolinearne con l’aspetto senile, adulto e giovanile le tre età della vita. Il primo a procedere è l’anziano (la saggezza) dalla barba e dai capelli bianchi; lo segue l’uomo (età della forza) dalla barba più corta e dai capelli castani e per ultimo il giovane imberbe. Nello stesso ordine li ritroviamo poi nella scena dell’adorazione. Portano il tipico berretto frigio e indossano delle tuniche corte che lasciano a vista di pantaloni aderenti, tipici delle popolazioni provenienti dalla Persia. I tre personaggi, dialogando tra loro, indicano la grande stella dalla quale si diparte il raggio “profetico” che svela il luogo sacro. La presenza della stella nelle raffigurazioni delle Natività entra solo a partire dal IV secolo e dopo molteplici variazioni, la forma “iconografica” si stabilizzerà nel corso del XII. Nella Cappella Palatina, è caratterizzata da due cerchi concentrici che racchiudono un nucleo stellato che proietta un raggio di luce sul Bambino.
Gli angeli annunziano la Buona Novella A destra della stella si sviluppa la scena dell’Arcangelo che annuncia l’Incarnazione a due pastori (ritratti nella parete adiacente). La folla dei pastori che siamo abituati a vedere nelle Natività è qui concentrata in questi due uomini: un vecchio dalla fluente barba bianca che si regge su un bastone e un giovane imberbe vestito di bianco. Secondo i racconti apocrifi, il più anziano rappresenta il popolo di Israele e riassume il Vecchio Testamento mentre il giovane oltre a simboleggiare tutti gli altri popoli che rientrano nel piano della Salvezza riassume il Nuovo Testamento. La Salvezza offerta a tutti i popoli grazie al sacrificio della Croce e alla Resurrezione è sottolineato dal grande albero posto alle spalle dei due personaggi. Il riferimento alla croce è già chiaro nella forma della pianta e nel bianco sudario posto sul ramo destro. Sotto, si trovano tre capre (numero sacro) che osservano tre punti differenti (la stella, l’angelo e il Bambino) e un pastore che munge una pecora in un calice prezioso: una allusione all’Eucarestia.
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L’adorazione dei Magi I Magi rappresentati nell’atto di adorazione offrono a Maria e al Bambino un dono speciale e inconsueto. Non si tratta dei canonici oro, incenso e mirra ma di recipienti colmi di uova. Anche qui la simbologia ha un messaggio preciso: l’uovo è infatti simbolo della fecondità, della purezza e della rinascita (o meglio della Resurrezione). Sul Bambino si concentrano dunque i segni premonitori del Sacrificio: la mangiatoia dove è deposto ricorda un sarcofago e le bende incrociate che lo fasciano richiamano quelle in cui verrà avvolto il corpo di Gesù nel sepolcro.
La triste gioia di Maria e il dubbio di Giuseppe Maria domina il centro della scena ed è distesa su un manto bianco per evidenziare le fatiche del parto. Il suo volto è triste e lo sguardo rivolto all’osservatore comunica la preoccupazione di una madre che conosce il triste destino del figlio: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc. 2,19). In una posizione isolata, lontano dalla grotta, siede pensoso San Giuseppe. Si tratta di un modulo iconografico già consolidato nel XI secolo che trae ispirazione dal Vangelo di Matteo: i Magi “videro il bambino
con Maria sua madre”. Nello sguardo che Giuseppe rivolge all’osservatore traspare il dramma di un uomo tormentato dal mistero divino e colto dall’incertezza. Il dubbio sulla legittimità di un figlio che gli appartiene ma che è stato concepito da Maria tramite lo Spirito Santo è un tema molto diffuso nei racconti apocrifi che ispirarono l’arte bizantina.
Il Lavaggio di Gesù Nella parte inferiore, è rappresentato il “Lavaggio di Gesù”. La scena trova la sua ispirazione nei cicli ellenistici che celebravano la nascita dei grandi personaggi. Assimilata e adattata nell’arte bizantina, la scena del Lavaggio di Gesù appena nato, prefigura il sacramento del battesimo. Le due donne che lo accudiscono appartengono ad un momento narrativo immancabile nei racconti apocrifi. Alcuni indicano una delle due donne come Salomè, la levatrice che per aver dubitato della verginità di Maria, perse l’uso della mano. Altri vedono nella donna che regge il fanciullo, la figura di Eva. Causa del peccato originale, la progenitrice è stata per l’occasione riabilitata nella scena del Natale dove la piccola vasca colma di acqua “purificatrice” ricorda il fonte battesimale.
Il personaggio
ALESSANDRINA STARRABBA DI RUDINÌ Una vita sfrenata tra amori, passioni, scandali e misticismo di Margherita Bonomo elle prime ore del cinque ottobre 1876 in una clinica di Napoli, nasceva Alessandrina Starrabba figlia del marchese Antonio di Rudinì, noto uomo politico e futuro primo ministro; la madre era la nobildonna Maria de Barral, piemontese di origini russo-francesi. Le doglie del parto avevano colto Maria in una nave diretta a Roma dove avrebbe desiderato nascesse il suo terzogenito. Una furiosa tempesta indusse la donna a sbarcare nella capitale partenopea. Qualche anno dopo, ricordando il cielo squarciato dai fulmini e il vento impetuoso di quella notte, Maria avrebbe detto che la sua “Dridrì”, vezzeggiativo con cui i familiari chiamavano la piccola Alessandra, ne portava i segni nel carattere.
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LE TRAVAGLIATE VICENDE DI UNA VITA FUORI DAL COMUNE Tra un castello piemontese e il marchesato siciliano di Pachino L’infanzia trascorre fra il castello materno di Beinette in Piemonte e la tenuta paterna di Pachino, nel Sud Est della Sicilia. Qui la bambina vive lunghe estati esaltanti fra i lavori della vendemmia e le cavalcate sui litorali del mare siciliano. La madre, donna di notevoli bellezza e sensibilità, amorevole con i figli e profondamente religiosa, soffre di crisi depressive: la perdita del primogenito, i numerosi aborti spontanei, la precoce crisi matrimoniale il marchese la tradisce - hanno reso i suoi nervi instabili e più volte tenta il suicidio. Antonio che aspira alla presidenza del Consiglio, si libererà della moglie facendola rinchiudere in una casa di cura dove Maria troverà la morte nel 1895, senza avere mai più rivisto i suoi amati figli.
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Da collegiale a provocante “miracolo biondo” Alessandra ha appena 10 anni e il padre la iscrive al prestigioso Istituto del Sacro Cuore di Trinità dei Monti da dove la bambina farà di tutto per farsi espellere riuscendovi un anno dopo. Il marchese, che ha già una relazione con quella che diverrà la sua seconda moglie, Leonida Beccaria, non desiste e trova per la figlia una nuova sistemazione nel collegio della Santissima Annunziata di Poggio Imperiale. Qui Alessandrina trascorrerà gli anni dell’adolescenza e svilupperà amore per lo studio e senso estetico. Tornata alla casa paterna è già il “miracolo biondo” in grado di far invaghire teste coronate e poeti: alta un metro e ottantasette, corpo statuario, una cascata di riccioli biondi che le lambiscono le reni, occhi azzurri come il cielo. Appassionata di cavalli - possiede quindici purosangue - al punto da vestire abitualmente da cavallerizza con stivali e frustino, turberà i sogni dei braccianti siciliani in quelle che saranno le sue ultime estati pachinesi, cavalcando a spron battuto nelle albe isolane. A cavallo nuda e felice Ancora oggi si tramanda la leggenda di un’amazzone bionda in sella al suo cavallo completamente nuda e felice. L’acume politico di Alessandra ed il suo vivo interesse per il lavoro del padre inducono il marchese a parlare liberamente di affari di Stato in sua presenza. L’avvenenza di Alessandra ne fa, inoltre, un’ottima accompagnatrice del marchese nei suoi viaggi ufficiali. La giovane viene invitata dal Kaiser Guglielmo II sul suo yacht personale per una crociera sul Baltico. La regina Margherita la sceglie volentieri come dama di compagnia ed in tale veste, durante una passeggiata in carrozza, Alessandra, con coraggio e prontezza di spirito, la salverà da un attentato. La Di Rudinì è corteggiata dai più bei nomi della nobiltà di tutta Europa: in Ungheria da un rampollo degli Odescalchi, ricchissimi principi, in Russia dal fratello dello Zar, il Granduca Sergio che la chiede in moglie. Invano il marchese lusingato dalla possibilità di tale parentela, cercherà di convincere la figlia, ma il rifiuto di Alessandra sarà netto. Matrimonio a Palermo e viaggio in Marocco con un’amica Poco tempo dopo è lei a scegliere il suo sposo, il marchese Marcello Carlotti, ventisettenne appassionato di musica e di filosofia greca, dal carattere riservato e schivo, opposto a quello di Alessandra. I due si sposano nel 1895 a Palermo e partono per un lungo viaggio di nozze che li porterà a Parigi, Londra, in Svizzera, Norvegia, Danimarca, Ungheria, Polonia, Grecia. Al ritorno nella dimora sul Garda, però, Marcello manifesta i primi sintomi della malattia polmonare che di lì a poco lo porterà alla morte. Dopo due anni di matrimonio nasce il primogenito Antonio e, dopo 18 mesi, Andrea. Alessandra, straziata, segue impotente i progressi della malattia del marito che assiste con grande amore e dedizione. Marcello muore il 29 aprile 1900, Alessandra ha appena ventiquattro anni. Il marchese Di Rudinì teme per la salute della figlia e tenta di distrarla con viaggi e feste, proponendole di trasferirsi da lui a Roma, cosa che Alessandra farà solo nel 1902. Dopo alcuni mesi dalla morte del marito, Alessandra accetta l’invito fattole dall’eccentrica duchessa Evelyn, conosciuta a San Pietroburgo, di
1880. Alessandra all’età di quattro anni. In famiglia era chiamata anche con il vezzeggiativo “Dridrì”
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La marchesina di Rudinì in questa immagine ha solo sei anni, ma sembra si delinei già nel suo atteggiamento quel temperamento deciso, irrequieto e ribelle che l’accompagnerà per sempre
Alessandra di Rudinì, prima del matrimonio. Non aveva ancora compiuto vent’anni. Al seguito del padre nei viaggi di governo, la marchesa era ammirata nei salotti di tutta Europa per la sua bellezza e la sua intelligenza
accompagnarla in Marocco. Le due nobildonne assoldano una carovana e, armate di pistole, compiono da sole un’incredibile ed avventuroso viaggio attraverso il deserto. Tornata a Garda nel novembre del 1901, Alessandra riprende la corrispondenza con monsignor Serenelli a cui scrive di anelare ad una fede illuminata e cosciente, confessando di vivere una sorta di fenomeno di sdoppiamento dove la volontà contrasta con l’intelletto. La marchesa Carlotti, accompagnando il padre e la matrigna a Parigi ha modo poi di frequentare i cenacoli letterari conversando con i più fulgidi intelletti del tempo quali Emile Zola e Anatole France. Sulla scena appare Gabriele D’Annunzio Trasferitasi dal padre, a Roma, insieme ai figlioletti, partecipa, nell’aprile del 1903, ai festeggiamenti in onore di Guglielmo II, in maggio a quelli per la visita dello Zar. Nello stesso mese a Milano, in occasione di un concerto
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Alessandra di Rudinì Carlotti in un atteggiamento di “sdegnosa” bellezza
Gabriele D’Annunzio. Il famoso poeta, dopo una serrata corte, divenne l’amante della giovane marchesa rimasta vedova. Vivranno insieme quattro anni, un periodo di passioni e tormenti
La grande attrice Eleonora Duse. Figlia di attori girovaghi, aveva debuttato in palcoscenico a soli quattro anni, a Chioggia. La sua amicizia con D’Annunzio si trasformò presto in amore, prima del tradimento del poeta per Alessandra
della cantante Gemma Bellincioni, fa la conoscenza di Gabriele D’Annunzio, legato allora alla Duse e circondato da spasimanti, per il quale sviluppa una immediata antipatia. I due si rincontrano in autunno, a Roma, ad una caccia alla volpe ma i sentimenti di lei non mutano: la bella amazzone tratta con sufficienza il Vate. I due, però, sono destinati ad un nuovo incontro questa volta a Firenze per il matrimonio di Carlo, fratello di Alessandra, di cui il poeta è testimone di nozze. È il 12 novembre del 1903 e per l’indomabile Alessandra sta per scoccare l’ora della capitolazione alla passione. Lui questa volta sceglie una strategia diversa che si rivela vincente: si dimostra cortese, ma discreto, quasi fraterno. Si frequentano nei tre giorni successivi e quando lei, turbata dall’amore che sente nascere, fugge sul Garda, lui la tempesta di telegrammi e lettere di fuoco ribattezzandola Nike per la sua bellezza statuaria. Alla fine del mese, Alessandra e Gabriele si danno appuntamento a Milano dove celebrano la “Grande festa solitaria”: cinque giorni di amore impetuoso. Sui due amanti cominciano a farsi pettegolezzi che giungono alle orecchie del marchese Di Rudinì. D’Annunzio oltre alla sua fama di tomber de femmes non solo è ancora ufficialmente legato alla Duse, ma non ha mai divorziato dalla moglie Maria Gallese. La sua famiglia è contraria alla relazione col “Vate” Nel febbraio del 1904, Alessandra viene ricevuta a Roma dal padre e da Carlo e le viene fatto un invito perentorio: troncare la relazione con il Poeta. Lei rifiuta e neppure la minaccia di essere diseredata riesce a piegarla. E quando il padre la taccia di essere donna scandalosa e madre indegna, lei ricorda a lui i dispiaceri inferti a sua madre. È rottura. Tre mesi dopo, Alessandra si trasferisce definitivamente alla Capponcina, la residenza toscana di D’Annunzio, lasciando i figlioletti di 6 e 7 anni nel collegio dei gesuiti di Mondragone. Ed ecco il tocco scenografico. D’Annunzio l’accoglie vestito di bianco con un corteo di fanciulle che lanciano petali di rosa al passaggio della nuova arrivata e con uno schieramento di paggi in livrea! L’amministratore del poeta, Benigno Palmiero, definirà il periodo di convivenza dei due “l’era del disastro”. Entrambi affetti da prodigalità, si danno alle spese più folli e sfrenate. I parenti di lei intervengono legalmente. Andrea Carlotti, fratello di Marcello, avvia le pratiche per farsi affidare la tutela dei nipotini che otterrà, impedendo alla cognata di attingere al patrimonio del marito.
Interno di villa Carlotti a Garda: la camera di Alessandra
Nel 1895 Alessandra di Rudinì sposò Marcello Carlotti di Garda, marchese di Riparbella, appartenente a un’aristocratica famiglia veronese. Nacquero due figli: Antonio, nel 1896, e Andrea nel 1897. Morirono di tubercolosi, entrambi giovanissimi
La madre di Alessandra, la contessa Marie de Barral de Montauvrard. La sua famiglia di origine era fra le più prestigiose d’Europa alla fine dell’Ottocento. Donna intelligente e sensibile, venne rinchiusa in una casa di cura per malattie mentali quando Alessandra aveva dieci anni
Il padre di Alessandra, Antonio Starrabba marchese di Rudinì. Apparteneva a una famiglia originaria di Piazza Armerina, era uno dei nomi più illustri dell’aristocrazia isolana; si distinse per la sua fedeltà al regno sabaudo
Iniziano i guai familiari Ben presto mentre i due amanti sono assediati da strozzini e creditori, Di Rudinì fa interdire la figlia. Per Alessandra ha inizio il declino, già dal febbraio del 1905 il “suo Gabriele” comincia a tradirla: nella primavera lei si ammala gravemente. Viene operata d’urgenza a Firenze di tumore alle ovaie, rimane fra la vita e la morte assistita solo da D’Annunzio. Invano il poeta avvisa telegraficamente il marchese Di Rudinì della gravità della figlia; né lui, né il fratello Carlo andranno a visitarla. Scampata alla morte, deve subire ancora altri tre interventi: i dolori conseguenti alle operazioni chirurgiche la faranno diventare morfinomane. Nel gennaio 1906, D’Annunzio si incontra con la sua nuova passione, la contessa Giuseppina Mancini e Alessandra ritorna nella sua villa sul Garda. È un periodo tristissimo per Alessandra e tutto avrà fine nell’estate del 1907.
L’EPILOGO
Lourdes 1910. Alessandra dedica questa foto all’abate Gaston Gorel, cappellano della villa di Garda e precettore dei due figli della marchesa, dal 1909 al 1911
La corrispondenza epistolare con un prete La malattia e il viaggio a Lourdes Abbandona i figli e diventa suora Ancora una volta Alessandra cerca disperatamente aiuto in Dio. Riprende la corrispondenza interrotta anni prima con monsignor Serenelli, ma i dubbi continuano a tormentarla, fino ad un viaggio a Lourdes, nel 1910, dove è testimone di un miracolo. La sua lunga e sofferta ricerca ha finalmente fine.
Il Carmelo della Trinità, al Viottolo del Lupo, di Paray-le-Monial (Francia): lì fu accolta Alessandra ormai decisa a dedicare tutta la sua via a Dio, pronta ad affrontare ogni sorta di ostacoli
Madre Maria di Gesù posa con una delle sue consorelle
Madre Maria di Gesù, al secolo Alessandra di Rudinì Carlotti, nel Carmelo di Paray-le-Monial in Francia. Sicuramente una scelta anticonformista quella di entrare al Carmelo, per rispondere alla insaziabile ricerca di pace, quella vera, che la tormenta da anni
Di ritorno dal pellegrinaggio visita il monastero di clausura di Paray le Monial nel nord della Francia, vi trova la pace a cui da lungo tempo anelava. Ancora una volta fa di testa sua, nell’ottobre del 1911 prende, in assoluto segreto, il velo. I due figli subiscono il secondo atroce abbandono da parte della madre che non si prenderà cura di loro neppure quando ancora adolescenti si ammaleranno della stessa malattia che aveva ucciso il loro padre. Moriranno rispettivamente a 18 e 20 anni senza il conforto della loro mamma, che per contro si dedica con abnegazione all’assistenza delle consorelle. È il 1916, l’anno dopo Carlo Di Rudinì si suicida sparandosi in bocca davanti allo specchio della camera dell’Hotel Regina di Roma che da tempo lo ospitava. Di lì a poco Alessandra, ormai suor Maria di Gesù, viene eletta a soli 41 anni, priora del Carmelo di Paray le Monial. Impugna il testamento del fratello e con l’eredità del padre, della madre e del marito fonda tre nuovi monasteri di suore carmelitane. E in uno di questi, ormai gravemente malata trascorse gli ultimi giorni della sua vita. Il 29 dicembre riceve i sacramenti per spegnersi nella notte fra il primo ed il due di gennaio 1931. Le sue spoglie riposano nel “Carmelo della montagna” in Alta Savoia. Indubbiamente una storia esaltante all’inizio, triste alla fine; proprio per queste vicende intrise di passioni spontanee e di sentimenti contrastanti Alessandra Di Rudinì appare come un personaggio tipicamente genuino, fortemente siciliano.
La tomba di Madre Maria di Gesù a Le Reposoir
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NOTA Le foto di Alessandra di Rudinì, sono tratte dal libro “Alessandra di Rudinì. Dall’amore per D’Annunzio al Carmelo” di Gigi Moncalvo. Edizione Paoline, 1994.
Ragusa come era tra il 1593-1624 Ricerche d’archivio ed elaborazione computerizzata riportano alla memoria i quartieri antichi di Ragusa Illustrazioni e testo di Gianni Morando
lungo e impegnativo lavoro di ricostruzione della mappa dei quartieri Ragusani, utilizzando dati raccolti dai riveli compresi fra il 1593 e il 1624, ha permesso di conoscere l’ubicazione e la consistenza numerica di ogni quartiere della città nel 1624, molto prima, quindi, che il terremoto la distruggesse nel 1693. Gran parte dei nuovi dati storici sono stati acquisiti dai riveli di anime e beni dell’archivio di stato di Palermo. Si tratta di antichi manoscritti contabili che permettono di conoscere anche la composizione e le proprietà immobiliari di ogni singola famiglia della popolazione di ogni singolo paese della Sicilia. Fra questi dati, le notizie relative ai proprietari ed ai confinanti di ogni singola casa, nonché il nome del quartiere d’appartenenza, sono stati preziosi per la ricostruzione della mappa dei quartieri dell’antica Ragusa.
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Questa mappa dei quartieri di Ragusa è stata disegnata con l’individuazione dei confini fra i vari quartieri, attraverso tre metodi diversi. Il metodo più semplice riguarda la ricerca diretta nei riveli di anime e beni. Il secondo metodo riguarda il confronto dei proprietari di case con i loro confinanti. Il terzo metodo utilizza i dati di anni diversi dei riveli, dove a volte allo stesso proprietario con gli stessi confinanti è attribuito un quartiere diverso. La ricostruzione della mappa seicentesca di Ragusa è di straordinaria importanza, anche perché permette di ipotizzare precedenti evoluzioni dell’abitato, come nel caso delle origini del quartiere dei Cosentini o localizzare quartieri scomparsi dalla memoria storica come la Bucciria, nonché scoprire l’esistenza di due quartieri ebraici (Cartellone e Giudecca).
Quartiere dei Cosentini Con l’elaborazione della pianta degli antichi quartieri è stato possibile individuare l’esatta ubicazione del quartiere dei Cosentini, e identificare, al suo interno, un sito che per forma e struttura ha tutte le caratteristiche di un antico borgo sorto autonomamente fuori dalle mura della città antica, nonché le mura o case-mura e le porte del borgo stesso. Con un sistema innovativo di ricerca si è potuta ripercorrere la storia del quartiere dei Cosentini di Ragusa fin dalla sua nascita. La ricostruzione computerizzata, utilizzando dati compresi fra il 1593 e il 1624, ha fornito l’esatta ubicazione e le dimensioni del quartiere dei Cosentini, evidenziando al suo interno la struttura di un borgo, avulsa dal circostante tessuto costruttivo, mentre le grandi dimensioni (156 case) attestano lontane origini, perfettamente compatibili con la tradizione. L’intero quartiere seicentesco (vedi particolare mappa in basso) può essere suddiviso in due parti: 1. La parte più antica con colorazione più scura e Pianta idealizzata del Borgo dei Cosentini fra il XII e XIII secolo contorno a linea spessa, lungo la quale sorgevano le case-mura. 2. Il resto del quartiere (colore meno scuro), che si sviluppò successivamente in forma irregolare, fuori il primitivo borgo. In epoca imprecisata, l’aumento della popolazione del borgo costrinse molte
In marroncino il quartiere dei Cosentini come si presentava nell'anno 1624. Il Borgo risalente al XI-XII secolo ha colorazione scura
famiglie ad abitare fuori dal nucleo fortificato. Con un’espansione continua il borgo raggiunse il sito dell’antica chiesa di S. Giovanni e, verso sud, la parte sottostante al castello, spingendosi oltre la chiesa di Santa Petronilla, dove avrebbe preso il nome di Chianetto o Chanetto dilli Cosentini. Nel ‘500 il borgo dei Cosentini, divenuto quartiere, faceva parte integrante del tessuto cittadino e all’inizio del ‘600, il quartiere dei Cosentini era il più grande quartiere di Ragusa e confinava con altri 14 quartieri. Un altro quartiere popolato da “cosentini” fu il confinante quartiere S. Giovanni, per avere nel ‘600 molti confini confusi a quelli del quartiere dei Cosentini.
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I due quartieri ebraici di Ragusa Se a Modica il quartiere ebraico si chiamava Cartellone, è assurdo pensare che a Ragusa il quartiere Cartellone non facesse riferimento agli Ebrei. D’altra parte questi due toponimi dovrebbero trarre il loro significato dalla medesima origine e motivazione. Secondo alcuni il toponimo derivava da un grande cartello che esponeva certi regolamenti ebraici ad un ingresso del quartiere. Secondo il Modica-Scala il cartellone indicava la zona off limits del quartiere ebraico. Dall’analisi di vari dati storici, risultano esserci a Ragusa
due quartieri ebraici: il Cartellone e la Judecca (contenuta all’interno del quartiere S. Francesco di Ragusa). I due quartieri ebraici di Ragusa, sorsero l’uno ad est e l’altro ad ovest dal centro dell’abitato, certamente con storie diverse, oggi molto difficili da ricostruire. Dai coefficienti di benessere si nota chiaramente che Cartellone apparteneva alla Ragusa dei poveri mentre nella Judecca abitavano gli ebrei ricchi e potenti. Con la ricostruzione computerizzata della mappa dei quartieri di Ragusa, sono stati trovati sia l’ubicazione sia i confini del quartiere Cartellone, il più grande dei due quartieri ebraici. Lo sbocco più importante era la Piazza degli Archi, che contava 8 botteghe e a sua volta
confinava ad est con il quartiere dei Cosentini, cui si accedeva attraverso la Porta dei Cosentini. Nel 1624, Cartellone confinava a sud con il quartiere Moxharda, toccando il quartiere Raffo, e a nord con i quartieri Pirrera e S. Giuliano. Il mulino di Theodoro Burrumeti attesta, nel quartiere Pirrera, la presenza di un corso d’acqua. Il quartiere ebraico, Judecca, non è menzionato nei riveli del ‘600 e del ‘500 perché, con la cacciata dei suoi abitanti originali, il toponimo fu ripudiato e dimenticato, facendo confluire tutte le case di questo quartiere in quello cristiano di S. Francesco. Il Sortino-Trono, nella descrizione della chiesa dell’Annunziata da notizia di una Sinagoga che, successivamente alla
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cacciata degli Ebrei, diveniva chiesa cattolica, precisando che “...attorno l’attuale chiesa dell’Annunziata era il quartiere della Giudecca abitato dagli Ebrei, del quale si ha notizia storica sin dal 1394 e dal privilegio che la Curia Vescovile di Siracusa spediva nel 1557 a favore della parrocchiale chiesa di S. Nicola...” La sua forma poligonale presenta un nucleo centrale (zona scura), che possiamo considerare il primo insediamento ebraico nella zona est della città. Attorno a questo primo nucleo si sviluppava una teoria di case dove si inseriva la sinagoga, la “meskita”. Si può ipotizzare una Judecca ancora
più vasta se si aggiungono le aree (es. l’Ortazzo) e le case “incernierate” dalla stessa sinagoga. Mia figlia Francesca, appassionata studiosa del mondo semitico, ha “svelato” il significato di “Ortazzo”. Secondo Francesca, l’antico cimitero ebraico era chiamato “Orto”. L’odio e l’intolleranza religiosa dei cattolici, che si erano spinti fino alle stragi di Modica e Noto, trasformarono per disprezzo il toponimo in “Ortazzo”. Questo quartiere, nel 1624, era composto da 8 case e confinava con la Batia de l’orfani, il quartiere dell’Annuntiata ed il quartiere S. Francesco.
Quartiere Cartellone nel 1624. A destra la chiesa e ospedale di S. Giuliano
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Giudecca all’interno del quartiere S. Francesco ricostruita nella mappa di Ragusa del 1876
Curiosità
La chiesa e la casa di Santa Luciuzza in Ortigia non esistono più
ndavamo nella chiesa di Santa Luciuzza, la nostra parrocchia nella vanedda dei bottai. Quella chiesa non esiste più. L’area è diventata un negozio. Era una chiesa singolare. Tutti dicevano: una chiesuola. Effettivamente era piccola: il diminutivo Santa Luciuzza le veniva dall’essere la più piccola delle tre chiese dedicate a Santa Lucia, Patrona della città. Si entrava da un portone uguale a un qualsiasi portone di casa. All’interno pareva un salotto: tutto oro e stucchi. Ne ricordano l’esistenza un’immagine della Santa e la fievole lampada votiva dentro una nicchia sulla facciata rifatta”. Con queste nostalgiche parole Piero Fillyoley (“Schegge e schizzi”, 1986) ricorda la chiesetta dedicata alla patrona di cui oggi rimane un’edicola che custodisce una riproduzione del simulacro d’argento della Vergine aretusea al civico 49. La Chiesa era stata costruita nel quartiere dove la tradizione ambientava alcuni episodi della vita della Vergine siracusana e anche l’esistenza della “Casa di Santa Lucia”. Il professore Giuseppe Agnello l’aveva identificata in un edificio ubicato a brevissima distanza dalla chiesetta, oggi al civico 39. Si trattava originariamente di una grande casa di impianto federiciano (XIII secolo) con le caratteristiche volte a crociera e costoloni. Per alleggerire le volte, le maestranze avevano inserito materiale particolarmente leggero come anfore o brocchette in terracotta, i mattoni
“A
Ortigia, Siracusa - Solo questa edicola rimane della casa di S. Lucia
forati dell’epoca! Dall’imponenza dei muri perimetrali si evince la monumentalità della casa che probabilmente si estendeva verso sud includendo la “chiesuola”. Fu oggetto di progressive demolizioni sino a quella totale avvenuta negli anni ’50 del XX secolo per far posto alla costruzione di una moderna abitazione. Scriveva Giuseppe Agnello: “La casa sveva di via dei Bottai, ora via Cavour, non esiste più. La sua distruzione non risale alla guerra, ma piuttosto agli uomini, che furono guidati all’insana opera da ragioni puramente utilitarie”. Laura Cassataro
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di Carmelo Saccone
REALTÀ CON FANTASIA
“Al di là delle terre note, oltre le sconfinate praterie e i deserti del grande continente, valicando le cime tempestose celate dalle nubi agli uomini mortali, ed ancora oltre, superando i sette mari che circondano la terra, vicino al mare di ghiacci senza nome, sorge l’isola di cui vi narrerò la storia. Una storia carica di epiche gesta e di oscuri segreti celati nelle viscere di quella antica terra, donata dagli dèi immortali come prima casa alle razze, quando il mondo era ancora vergine e l’alito degli immortali iniziava a plasmare la vita in ogni dove. In quelle lande che videro la nascita delle culture e degli odierni dominatori delle terre note, ha inizio la nostra storia, una storia che inizia con la fine di un’epoca di conflitti, un racconto di vicissitudini illimitate nel tempo e nello spazio, la storia delle razze mortali che si riunirono dove tutto ebbe inizio...”.
Tra musiche, danze, giostre e tornei medievali
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non luogo, che consente di rendere adeguato ogni luogo, scenario perfetto per la medesima ambientazione. E così anche Ragusa si trasforma in un bosco incantato, capace di assistere a fantastiche imprese, tra le prodi avventure di cavalieri e la lotta di guerrieri in armatura, con fate e folletti che fanno da contorno ad elementi che tutti rievocano un’ambientazione medievale. Si tratta del gioco di ruolo dal vivo, il live, il “real fantasy”, un’attività di rievocazione storica, appunto di tipo medievale, all’interno della quale ogni partecipante interpreta un personaggio inerente all’ambientazione. Una scoperta e riscoperta della natura, di antiche usanze e di valori persi nel tempo. Ma anche sport all’aperto, accompagnato dalla fantasia e creatività che viene stimolata dalle storie che nei vari incontri vengono pilotate da uno staff all’interno delle aree di gioco. Lasciati i cellulari a casa, e tutto ciò di elettronico o che comunque non sia inerente all’ambientazione, dalle tende, appositamente coperte e camuffate da stoffe, all’abbigliamento, abito o casacca e pantalone o tunica, stivali, mantello, cinturone, alle stesse stoviglie, di metallo o di legno, tutto deve essere in tema, per poter immergere i partecipanti nella magia del gioco. A portare nella provincia iblea il real fantasy ci ha pensato il gruppo Aragus, un gruppo di ragazzi che si prefigge di proporre questo tipo di attività come alternativa di sano divertimento alle tecnologie che inducono a una vita sedentaria. “Un progetto rivolto a tutte le persone di qualsiasi fascia d’età che vogliano staccare un po’ la spina dalla routine quotidiana - dice Dario Guastella, uno dei principali componenti di Aragus immergendosi in un mondo dove il tempo si annulla”. E gli incontri di questo tipo in provincia di Ragusa si fanno sempre più numerosi, attirando dal resto dell’isola appassionati, ma anche semplici curiosi che affollano i luoghi prescelti. Un aumento di interesse, e quindi di partecipanti, derivante anche dal sodalizio nato tra varie realtà di più parti della Sicilia, come Palermo, Catania e Caltanissetta. Aragus non è altro che un anagramma di Ragusa. Il gruppo fa capo all’associazione regionale Arborea che segue da vicino i singoli eventi provinciali. E così, impugnata la spada e lo scudo, a ritmo di musica celtica inizia una nuova avventura. Ognuno si veste dei panni del suo alter ego medievale, il personaggio di cui ha costruito la storia personale e attraverso il quale, come un attore senza copione che recita liberamente la sua parte, interagisce con gli altri partecipanti. La giornata scorre, tra allenamenti, giochi, scherzi e duelli, naturalmente con armi finte, stando attenti all’incolumità collettiva. Nell’aria si respira fratellanza, amicizia e socialità, e sono proprio questi, insieme alla conoscenza del territorio e all’avvicinamento dell’uomo alla natura e alla storia, gli obiettivi principali dei raduni. Scende la notte e il bosco prende nuova forma. Le tenebre regalano una differente scenografia, e se la luna non sarà amica, e non farà luce a sufficienza, al bando l’elettricità, non rimangono che lampade a petrolio, torce e candele per regalare ancora forti emozioni ai partecipanti, in un luogo dove la fantasia diventa realtà.
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La foto della pagina accanto è di Federica Chiazza In questa pagina, dall’alto: Foto Michele Gigliuto, Igor Bajardi, Valentina Signorelli
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QUANDO IN SICILIA‌ LA FATA MORGANA S T di Alessandra Romano
Questo avvenne al tempo degli incanti, quando la terra era un regno popolato da misteriosi personaggi ed oscure creature, quando ogni re si accompagnava al suo stregone e in ogni dove fate, draghi e sortilegi facevano da padrone. Questo avvenne al tempo della magia, quando una donna su tutte diede vita ad una leggenda. Il suo nome era‌ Morgana
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TREGAVA
La leggenda dei barbari i narra che la fata Morgana abbia costruito la sua dimora, un palazzo di cristallo, a mare tra l’Etna e la città di Reggio Calabria, dove i marinai non osavano avvicinarsi per il persistere di forti tempeste, e che pur di far sì che gli incauti naviganti naufragassero fra le sue braccia, si servisse della magia. Il mito vuole che un’orda di barbari conquistatori, dopo aver attraversato l’intera penisola italiana, si bloccarono impotenti davanti alla lingua di mare che separa la Calabria dalla Sicilia. La bramosia di raggiungere quell’isola incantevole, ricca di alberi da frutto ed ulivi, prendeva sempre più piede nei loro cuori. Ma come raggiungere quella terra, quando non si aveva a disposizione nemmeno una barca? Ecco che ad un tratto il mare iniziò a ribollire ed a gonfiarsi fino a lasciare emergere la figura di una donna bellissima a bordo di un cocchio bianco e azzurro tirato da sette cavalli scalpitanti, bianchi e con la criniera azzurra. Era agosto. Neanche un alito di vento increspava il mare o muoveva le foglie. Solo una leggera nebbiolina velava l’orizzonte. Improvvisamente, la donna rivolse gentilmente loro la parola: “Vedo che guardi con rammarico quella bella isola. Io posso dartela con tutte le sue città, le sue campagne profumate e i suoi monti che vomitano fuoco. Guardala, è a pochi passi da te”. A un solo cenno della donna, il sogno divenne realtà: la Sicilia era a due passi da loro, sembrava quasi di poter toccare con mano il porto di Messina con le sue navi, i carichi sui moli e perfino i marinai che scaricavano le merci. Il re barbaro si concesse solo il tempo di esultare, balzò giù dal cavallo e si tuffò in acqua convinto di raggiungere la terra sicula con qualche bracciata. Affogò miseramente, sopraffatto dalle correnti che ancora oggi albergano nello stretto.
S
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Morgana e Ruggero il Normanno Stesso posto, stessa ammaliatrice… un’altra storia Siamo nell’anno 1060 quando il re Ruggero II, il Normanno, viene avvicinato sulle coste calabre da tre giovani cavalieri messinesi (Cola Camuglia, Ansaldo da Patti e Jacopino Saccano) che lo implorano di aiutare il popolo siciliano a liberarsi dalla dominazione musulmana. Ma il re Ruggero aveva a suo seguito soltanto 200 cavalieri e nemmeno un battello che gli permettesse di attraversare lo stretto. Mentre era così intento a meditare, ecco dal mare apparire la fata Morgana, che premurosamente offriva il suo aiuto al re normanno per traghettarlo in Sicilia a bordo del suo cocchio. Ruggero sorrise del braccio portogli da Morgana e, da cristiano fervente qual’era, rispose: “Se la Madonna che amo e i Santi che mi proteggono mi daranno la loro benedizione, andrò alla guerra sul mio cavallo, trasporterò l’esercito con le mie navi e vincerò per valore e non per gli incantesimi di una fata”. A questa risposta, Morgana lanciò in acqua tre sassi bianchi, facendo apparire case e palazzi, alberi e fiori: “Eccoti la Sicilia. Raggiungi Messina ed io farò in modo che in essa tu possa trovare il più numeroso esercito che tu abbia mai avuto in battaglia”. Ruggero rifiutò ancora: “Morgana, sei una grande fata, ma non sarà con l’incantesimo che io libererò la Sicilia dal paganesimo: essa mi verrà data da Cristo, nostro Signore, e da sua Madre, la Vergine Maria”. L’epilogo della vicenda è scritto nella storia: nel 1061 Ruggero II sbarcò a Messina con un esercito di 1700 uomini e liberò l’isola dalla dominazione musulmana. I suoi discendenti la costituirono in regno, facendone una delle terre più ricche e progredite del tempo.
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Il fenomeno “Fata Morgana”: la verità del Miraggio Come in ogni leggenda che si rispetti, anche dietro il mito della fata Morgana si cela una verità. Il fenomeno, infatti, altro non è se non un effetto ottico, una specie di miraggio sempre più raro a causa dell’inquinamento atmosferico, che si verifica sotto particolari condizioni atmosferiche e climatiche: giornate calde e umide con assenza di vento e mare calmo. L’effetto è figlio di una distribuzione irregolare dell’indice di rifrazione della luce del sole negli strati d’aria con una diversa densità: i raggi luminosi provenienti da uno stesso punto vengono deviati in varie direzioni, creando delle immagini distorte di una città virtuale che si modifica e svanisce in un brevissimo lasso di tempo. Ed ecco l’inganno di cui barbari e re furono preda: una città che sembra distare qualche centinaio di metri, tanto da poterne distinguere case, auto e addirittura persone. Sulla base dei diversi tipi di riflessione che possono verificarsi, possiamo distinguere quattro diversi tipi di “fata Morgana”:
• l’Atmosferica, nel caso in cui le immagini si mostrano in aria con l’effetto di avvicinamento della sponda siciliana a quella calabrese; • la Semplice, quando lo specchio generatosi riproduce senza moltiplicarli gli oggetti presenti sulla riva; • la Centupla, quando gli oggetti vengono moltiplicati e mostrati in diversi punti circostanti; • la Mista, se le immagini riprodotte si osservano contemporaneamente sul mare e nell’aria. L’effetto fata Morgana è visibile anche in altri parti del mondo e sullo stretto di Messina lo si può ammirare da entrambe le sponde, quella calabra e quella sicula.
Sua Eccellenza…. L’Olio dei Monti Iblei di Maria Stella Spadaro
il timido e desiderato raggio di un pomeriggio di autunno ad allontanare il guidatore dalla trafficata arteria. Rari a mano a mano gli incontri, strette e non battute le vie, distinguibili i suoni di una natura che, se qualche chilometro addietro fungeva da muto sfondo, adesso, risonante e maestosa, si impone tutt’intorno. È la campagna iblea a porsi come protagonista indiscussa di questo viaggio. È la rigogliosità di uno dei suoi componenti a influenzare l’evolversi di ciclici fotogrammi di vita quotidiana. Uguale a sé stessa è l’immagine che si riproduce lungo il tragitto: interminabili distese di terra delimitate da eterni confini pietrosi e puntellate da alberi sempreverdi. Ma questo vale solo per l’occhio non avvezzo ad osservare. Differente e composita è, infatti, l’immagine che si offre all’uomo natio di questi luoghi. Verdi foglie coriacee, minuti fiori biancastri, indistinti frutti a drupa sono i componenti di quello che è da sempre stato elemento caratteristico del territorio ibleo: l’ulivo.
È
Ecco che, subito, l’immagine diventa parte mutuante in uno scambio visivo-emozionale. Si tratta di un’associazione di idee, di immagini viste e vissute che tale visione naturalmente evoca. È per il guidatore in questione un ricordo mutuato dal passato, è per il proprietario di un uliveto il lavoro di una vita. Appartenente alla famiglia delle Oleacee, l’ulivo permette, difatti, la produzione dell’olio che è abitualmente presente sulle nostre tavole. L’ulivo, da un lato, e l’olio, il prodotto finito, dall’altro, sono gli estremi di un non facile percorso lavorativo che la memoria spontaneamente dispiega. Ed è così che il reale fotogramma iniziale sottende mentali sequenze visive da esso prodotte e ad esso strettamente correlate: chiaramente visibili tra quegli alberi appaiono adesso gruppi di uomini muniti di lunghi bastoni e intenti a bacchiare gli alberi, a percuoterli, cioè, in modo da far cadere le olive che crescono sulle cime più alte. E poi, ancora, figure di donne chinate a terra per raccogliere i frutti spontaneamente staccatisi dai rami o caduti in seguito al lavoro di bacchiatura. Sono le delicate fasi della raccolta, velocizzata oramai dall’uso di reti che vengono sapientemente dispiegate attorno al tronco dell’albero. Sequenze che scandiscono in inquadrature isolate il momento del trasporto delle olive al frantoio e le successive operazioni di estrazione dell’olio. Sequenze che fissano in un istante eterno momenti di vita contadina. È un tipo di lavoro questo che ha ovviamente tratto beneficio dai processi di meccanizzazione di talune sue fasi, ma che, soprattutto per quanto riguarda la raccolta, viene svolto ancora in ampie zone secondo gli antichi usi. È quello dell’olivicoltura un settore in continua evoluzione, un’evoluzione che concerne gli impianti di trasformazione, le operazioni di estrazione dell’olio e i relativi tempi e costi, un’evoluzione che ha fatto guadagnare ad alcuni olivicoltori locali il riconoscimento da parte dell’Unione Europea della Denominazione di Origine Protetta (DOP). Prerogative necessarie per il mantenimento di tale importante risultato sono tuttora l’inscindibile legame con il territorio di origine e il rispetto e l’osservanza di una serie di condizioni contenute all’interno di una disciplinare di produzione della denominazione di origine controllata dell’olio extravergine di oliva. Il piccolo si apre al grande, l’interno si rivolge verso l’esterno, il nuovo sperimenta con prospettive innovative i dati del vecchio. E mentre l’automazione e la pluridecennale esperienza si rincorrono sulla via del progresso, il vivo ricordo di un recente passato accompagna e nobilita il lavoro presente. L’immagine di una logorata scaletta lignea appoggiata ad un ulivo testimonia l’amorevole e sofferta manualità di un tempo non ancora trascorso e avvolge e dispiega immutabili memorie visive di un passato che si scopre presente. È un tragitto vissuto, dimenticato, attraversato, pensato, amato dal guidatore. È l’entroterra ibleo carico di colori, suoni, odori a suscitare suggestive impressioni latenti. È la terra e non l’asfalto, è il calore e non la luce, è il “mentre” e non il fine a guidare il viaggio.
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foto ritam
Arcaiche ritualità e antichi sapori del Natale Ibleo di Giovanni Portelli
Il rito del frumento sui tetti la notte del Natale narra che, una volta, le donne di questi luoghi usassero, per la notte di Natale, dopo uscite di chiesa, salire in alto in casa. Nel solaio c’era sempre una finestra che dava sopra un tetto. La superficie irregolare fatta di tegole abbarbicate l’una sull’altra, abbracciate nella notturna e fredda luce lunare, doveva lasciar presagire un futuro diverso a quelle donne che, per un attimo, avevano deciso di straniarsi dal mondo di sotto. Chiudevano gli occhi come se stessero per sognare e, lentamente, con un movimento largo del braccio, gettavano pugni di frumento sopra quei tetti. Ad ogni lancio, recitavano una preghiera, sempre la stessa, la cui conoscenza era negata ai più e che nessuno doveva mai ridire nei restanti giorni dell’anno, perché la magheria avesse forza di avverarsi. Nessuno è mai riuscito a sapere quale intreccio di parole, quale ingarbuglio di arcane formule sia stato mai recitato. Si racconta, ancora, che qualcuno abbia chiesto il perché di questo rito ad una delle vecchierelle del posto e che questa avesse risposto, all’incirca, così: - Pirchì l’ocieddi si mancinu ‘u frummientu, e accussì ‘nforza ‘a muddalora di Gesù Bamminu -. Pare che l’anziana donna non abbia più
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aggiunto altro, neanche per spiegare quelle poche cose proferite, e che sia subito sparita, inghiottita dallo scuro della notte. L’uomo che aveva avuto la ventura di incontrare la vecchietta, rimase, per un po’, chiuso nei pensieri, quasi stranito, mentre cercava di penetrare quelle poche, scarne e strambe parole. Fu solo dopo un po’ di tempo che comprese, rimestando e rimestando tra i ricordi e le notizie apprese, quale segreto le donne di questi luoghi serbavano tra di loro e che, ad ogni notte di Natale, le spingeva a seminar frumento sopra i tetti delle loro case. Dietro il manifesto augurio che presto potesse chiudersi la fontanella al Bambino Gesù, in effetti, si celava l’auspicio che gli uccelli risparmiassero il frumento messo di recente a dimora nei campi, e beccassero, invece, il grano sui tetti, in quella che era la notte magica del Natale. Al suono della mezzanotte di quel giorno si liberavano, infatti, poteri magici avidamente trattenuti per l’intero anno, si svelavano segreti e formule di scongiuri, si scioglievano incantesimi ancestrali. Il frumento lanciato sopra i tetti era, così, l’augurio che le donne facevano alle loro famiglie, perché i chicchi potessero svilupparsi indisturbati e le piantine diventare forti (accussì ‘nforza ‘a muddalora di Gesù Bammminu). Era l’auspicio che il ciclo della vita si ripetesse anche quell’anno. Che il pane sia stato il simbolo del Natale nasce anche da storie come queste.
Pane di Natale Una ciambella di pane con una fila di mandorle o noccioline sopra, veniva deposta ai margini dei presepi che una volta, a Scicli, si usava preparare con poche e modeste cose. Ma quello era anche il dono che si faceva ai più piccoli. A Modica si usava preparare un pane di forma rotonda, detto cannizzu, termine con il quale si indicava, anche, un grande contenitore circolare, intessuto di canna, impiegato per conservare il frumento. Su un lato, con alcune striscioline di pasta, era raffigurata una scala e, in cima ad essa, erano riposti tanti chicchi di pasta per simboleggiare, ancora una volta, il frumento. Andando a Palazzolo e Buscemi, il pane di Natale, di forma rotonda, era ricoperto da due fettucce di pasta, disposte a forma di croce, ornate con cinque nocciole, quattro sulle punte e una al centro. A Buccheri, come anche a Modica, il pane di Natale, detto i vuoi, era, invece, a forma di due cilindri legati da un cordoncino di pasta intrecciata. Ancora una volta il riferimento è al mondo agricolo, poiché i due cilindri altro non sono che i buoi appaiati durante il lavoro di aratura. Affidiamo all’immaginazione del lettore capire del perché, nel mondo di oggi, il posto del pane sia stato preso, anche in questi luoghi, da un morbido, grasso e vanigliato Panettone della rinomata industria dolciaria nazionale. Ma lasciamo le storie del pane e del frumento nel giorno di Natale per concederci ai dolci che, senz’altro, destano, tuttora, più interesse alla vista e al palato, di grandi e piccini.
Ciambelle di pane con nocciole di Scicli - foto di Associazione culturale L'Isola, tratta dal libro “Dolci e pani di Natale” - a cura di Giovanni Portelli e Giovanna Giallongo
Dolci della tradizione A Sortino, i dolci si preparano con miele e farina e sono detti cosaruci ri meli. Sono modellati con forme diverse che si ispirano alla natura o al mondo circostante. Alcuni possono contenere, al loro interno, una mandorla intera sgusciata oppure solo metà, spezzata e conficcata in superficie. Possono essere a forma di piccole pere (i piretti), di fave (favuzzi) e di palme (palmitti). Di dimensioni maggiori e più complessi sono, invece, la bambola (pupitta), il cavallino (cavadduzzu) e la colomba (palummedda). Diffusi nei diversi centri iblei sono alcuni biscotti composti da una sfoglia di pasta esterna e un ripieno di miele e frutta secca tritata. A fare la differenza sono il tipo di frutta secca impiegata, talvolta la forma, e, ovviamente, il nome con cui sono indicati. A Buscemi e Palazzolo, questi biscotti prendono il nome, rispettivamente, di saschitedda e ciascuna e hanno un ripieno composto di fichi secchi cotti con miele o vino cotto; hanno forma ad “S” oppure di un raviolo a mezzaluna; a Modica, il ripieno è un trito di noci e miele (nucatili), mentre, a Ragusa, è a base di mandorle tritate (mucatili); in entrambi i casi i biscotti hanno forma ad “S” e possono essere ornati, in superficie, con un filo di glassa. A Scicli, i biscotti (iadduzzi) hanno all’interno un trito di mandorle; sono ricoperti di glassa (marmara), talvolta spennellata con colori vivaci (verde e rosso), e hanno forma ad “S” o a bastoncino, con alcuni tagli sulle punte e sui lati.
Pane di Natale a Buscemi - foto di Associazione culturale L'Isola, tratta dal libro “Dolci e pani di Natale” - a cura di Giovanni Portelli e Giovanna Giallongo
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Diffusa tra i vari paesi è pure la preparazione di torroni a base di mandorla o semi di sesamo e miele (cubbaita o giggiulena), mentre, a Modica, dai dolcieri locali viene confezionato un torrone con scorze di arancia (aranciata) o cedro (cedrata). Caratteristica è la forma a nido, che si usava spiluccare per tutto il periodo natalizio, mentre con piccole scaglie di aranciata si usava concludere la cena di Natale. In segno d’amore il fidanzato regalava il “cuore”, un chilo e più di aranciata a forma di cuore, con un fine decoro di glassa bianca e una grande scritta al centro: “Auguri”. Per la persona da cui ci si voleva sdebitare si offriva, invece, il “biglietto da visita”: un torrone bianco circondato da una cornice di aranciata e una scritta sopra con gli auguri e la firma di chi offriva il regalo.
’U pastizzu
Due momenti della preparazione in casa della giuggiulena
Concludiamo il nostro viaggio tra riti e dolci di Natale nella Sicilia più a sud, non tralasciando di parlare della cena. Una volta era usanza, in verità più forte che ai nostri tempi, consumare per quella notte una particolare focaccia conosciuta con il nome di pastizzu. Si tratta di due sfoglie di pasta, di forma circolare, con un ripieno di pesce o di verdure, chiuse ai bordi da un cordoncino di pasta intrecciata. Il ricamo sui bordi e i fori, poi, che si praticano con la punta di una forchetta sopra la pancia rigonfia della focaccia, conferiscono al pastizzu un aspetto di sobria eleganza quando, appena caldo e fumante, viene estratto dal forno. Un tempo era tanto forte questa tradizione che il popolo non sapeva staccarsene neanche per la messa della notte di Natale quando, anche durante la funzione religiosa, gli astanti continuavano la loro cena, sgranocchiando dolciumi e masticando pastizzi. Fu durante una di queste celebrazioni religiose, nel momento in cui si chiede ai penitenti di battersi il petto per invocare perdono al Signore, che un uomo si vide scivolare, da sotto il cappotto, il pastizzu che, fino ad allora, aveva tenuto stretto a sé con le mani. Quella focaccia rotolò come una ruota sino all’altare, andandosi a depositare, impertinente, proprio tra i piedi del celebrante, chiudendo, così, l’atto di penitenza con l’ilarità dei presenti. Da allora si proibì di portare in chiesa, per quella notte, ogni altra cosa che non fosse corona di rosario o libretto di preghiere.
foto giuopo
IL CASTELLO DI NARO Scrigno di emozioni senza tempo che risplende di storia di Giuseppe Nuccio Iacono - foto Giulio Lettica -
“Narus magnifica et populosa civitas, cuis nomen antiquitas nulla similitudine comparatur”. “Naro, meravigliosa e popolosa città, il cui nome ed antichità è superiore ad ogni confronto”. MARIO AREZIO
pittoresca cittadina della provincia di Agrigento, è una delle tappe imperdibili per chi desidera conoscere il fascino di una Sicilia autentica che stupisce sempre e che non si finisce mai di scoprire. Naro, la preziosa, risplende di storia! È uno scrigno ancora colmo di emozioni senza tempo, un luogo che coinvolge e colpisce gli occhi ma soprattutto il cuore. È ancora un tesoro nascosto. Una città dove la visita è d’obbligo e dove l’anima del medioevo continua a palpitare e a rivelarsi. Il visitatore qui investe veramente il proprio tempo in emozioni uniche e rare. Adagiata sul pendio di una collina a circa 600 metri s.l.m, Naro domina la lussureggiante Valle del Paradiso e i dolci rilievi che ingentiliscono un territorio ricco di memorie. La veduta spazia su gran parte della Sicilia; dalle Madonie fino all’Etna e lungo il litorale da Licata a Sciacca. Un panorama che abbraccia tutti i colori e i profumi di una campagna infinita per unirli al profondo respiro del Mediterraneo. Naro è madre e figlia di tante culture e tradizioni. Crocevia di popoli, fu protagonista e spettatrice con la medesima dignità. Ha sfidato i secoli con il “sigillo” preistorico, sicano, greco, romano, bizantino, arabo, normanno, aragonese per brillare fino ai giorni nostri.
Naro,
La Rahal-manzil araba divenne l’Urbs Fulgentissima di Federico II Edificato in posizione strategica, il castello garantiva il controllo e la difesa di un ampio, ricco e fertile territorio. Secondo alcuni, fu costruito nel XII sec. sulle rovine di un preesistente fortilizio arabo. Il territorio che, nell’828, si era chinato al potere arabo sotto la spada di Abu Dekak per essere governato nei primi mesi dall’emiro Salem (fondatore di Salemi) fu negli anni, affidato in signoria a diversi emiri. La dominazione araba si concluse nel 1086, con la sconfitta di Al Qasim ibn-el-Hamud, ultimo emiro di Naro, da parte del conte Ruggero d’Altavilla.
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Naro. Il castello e la chiesa normanna emergono tra le case
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Una panoramica veduta dal castello
Due scorci mozzafiato che si possono godere dalla torre del castello
Ruggero ampliò le strutture difensive, fece edificare un maestoso Duomo (pare) sulle rovine della moschea e diede “la prima forma” all’impianto del castello. Nel 1150, Idrisi segnalò Naro come “rahal - manzil” ovvero come un villaggio di una certa importanza, ma non fece riferimento alla fortezza. Nel 1233 l’imperatore Federico II di Svevia esaltò Naro col titolo di “Urbs Fulgentissima” e dichiarandola città demaniale la annoverò tra le 23 città Regie, liberandola così dal vincolo feudale dei baroni.
Strage dei Vespri, sollazzi reali e signoria chiaramontana Il “castrum Nari” è tristemente ricordato nei racconti legati ai Vespri siciliani. Il 3 aprile 1282, ad appena quattro giorni dall’incipit palermitano della rivolta, la popolazione di Naro, stanca delle angherie dei Francesi si ribellò. Attaccò il castello e sterminò barbaramente le milizie provenzali che lo presidiavano. Il governatore Francesco Turpiano e i suoi soldati furono miseramente impiccati lungo il perimetro delle mura del castello. Quel sangue non bastò. Furono stanati dalle case tutti i francesi e si fece strage anche di donne e bambini. Nel 1297, Pietro Lancia fu signore del castello e successivamente appartenne alla figlia Eleonora che lo portò in dote ad Artale Alagona, figlio di Blasco. Federico II d’Aragona, re di Sicilia, soggiornò più volte e a lungo nel castello e fu qui, che il 9 marzo 1324, il sovrano promulgò i Capitolati del Regno. La predilezione del re per questa fortezza fu accompagnata da opere di “adattamento e ammodernamento” e, tra queste, si ricorda la costruzione (1330) della torre quadrata. L’11 aprile 1366, la “terra Nari cum castro” fu concessa da re Federico IV a Matteo Chiaramonte che avviò una energica “campagna di lavori” per modificare, ampliare e restaurare il castello. Nel 1392, con la confisca di tutti i beni della famiglia e la condanna a morte di Andrea, ultimo dei Chiaramonte, il castello fu assegnato da re Martino a Raimondo Moncada. Nel 1397, il parlamento tenutosi a Siracusa, dopo aver dichiarato tra i beni demaniali Naro e il suo castello, nominò castellano Mazziotta di Alagona. L’anno seguente il re e la regina Maria vi si stabilirono per un lungo periodo. In quella occasione il sovrano si distinse anche per la stranezza di certi ordini: se da un lato aveva ordinato di non molestare la comunità ebraica di Naro, dall’altro impose agli ebrei di “scopare e pulire una volta al mese le sale del Castello”.
La torre mastra
I merli e il camminamento di ronda
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Il prezzo per la fedeltà alla corona: un castellano tagliato a pezzi e una suora sepolta viva Agli inizi del ’400, Naro fu al centro di uno dei più cruenti episodi che segnarono la lotta tra la vicaria Bianca di Navarra e l’ambizioso conte di Modica, Bernardo Cabrera. Per disposizioni testamentarie, il sovrano (Martino I) aveva escluso dal Consiglio di Stato il Cabrera e, per di più, non lo aveva incluso nella lista dei lasciti di cui beneficiarono alcuni fedeli feudatari del regno. La decisione fu colta come un affronto dal Grande Giustiziere che vide minacciata la propria ingerenza negli affari del regno e offesa la dignità che si era guadagnato durante le operazioni militari per
la riconquista aragonese dell’Isola. Il rancore del Cabrera crebbe quando le ultime volontà del re, furono confermate da Martino II (padre di Martino I). Il conte incitò la ribellione e minacciò più volte la vicaria che dovette rifugiarsi nei castelli dei baroni rimasti a lei fedeli. Nell’agosto del 1411, il conte di Modica giunse nella città di Naro, nota per la sua fedeltà alla vicaria Bianca. Si impadronì del Castello e trucidò il castellano Lopez Leon facendone “tagliare a pezzi il cadavere”. Dopo avere saccheggiato la città, fece seppellire viva nel castello l’innocente monaca Cannizzaro, badessa del convento, colpevole solo di essere cugina del castellano. L’annuncio di questo fatto fu reso noto in una lettera accorata che la regina indirizzò ai suoi fedeli feudatari.
Da sinistra: le due bifore della torre merlata; una feritoia; l’ambiente della torre; un particolare di un’apertura
Il prospetto con le due torri
Castello testimone dei privilegi e dell’orgoglio di Naro La crudeltà del Cabrera non piegò la fedeltà degli abitanti verso la corona. E la dedizione di Naro fu ricambiata quando, nel 1489, Ferdinando il Cattolico concesse ai Naritani il beneficio di essere governati solo da funzionari (Capitano, Commissario e Procuratore, ecc.) appartenenti alla nobiltà cittadina, escludendo così dal potere ogni “aurea straniera”. Successivamente, Carlo V accogliendo una petizione presentata dal nobile Girolamo d’Andrea, elevò la “Terra del Demanio di Naro” a rango di “Città” e le diede il “mero e Misto impero”, ossia il diritto di esercitare la giustizia civile e penale. L’orgoglio della “città” crebbe nel 1615 quando il Parlamento Generale tenutosi a Palermo la nominò “Capo Comarca”, ossia sede finanziaria e giudiziaria “con giurisdizione sulle terre e città di Canicattì, Campobello di Licata, Ravanusa, Palma di Montechiaro, Camastra, Favara, Racalmuto, Grotte e Delia”. Con il privilegio del 1645 si attribuiva ai Giurati e ai Patrizi il titolo di Senatori (S.P.Q.N); beneficio confermato nel 1806 da Ferdinando III di Borbone ma che decadde quando, in seguito alla riforma amministrativa del 1817 la città fu inserita nell’orbita dell’Intendenza di Girgenti. Il castello continuava ad essere il fiero testimone della vita sociale ed economica di Naro. Le sue stanze, seguendo le esigenze del tempo furono adibite a varie funzioni mentre la parte bassa dell’edificio fu destinata per molti anni a carcere. Dichiarato Monumento Nazionale nel 1912, è stato oggetto di vari interventi di restauro che oltre a conservarne il fascino antico, ne hanno esaltato la funzione sociale e culturale con importanti spazi espositivi. Una lodevole azione che conferma una Naro “fulgentissima” anche nel sapere proiettare il suo passato nel futuro.
Un ambiente adibito ad attività culturali
Ambiente adibito a carcere
Arco chiaramontano che introcuce nel sala illuminata dalle bifore
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Alla scoperta del castello di pietra gialla che il tramonto dipinge di oro
Il colle ricoperto da un mosaico fatto di antiche case è ancora oggi dominato dai maestosi resti del Vecchio Duomo e dall’imponente Castello di pietra gialla, che il tramonto dipinge d’oro. Il basamento roccioso sul quale si adagia l’edificio fu modificato per livellare il piano di calpestio. La pianta irregolare quadrangolare, delimitata da alte mura di cinta con cammino di ronda, si articola attorno ad un ampio cortile sul quale confluiscono vari ambienti. Al castello si accede dal lato occidentale tramite il portale a sesto acuto riconducibile ai lavori di rifacimento di fine ‘400. Dei due bastioni che avanzano ai suoi lati quello di sinistra “include” la funzione (non la forma) di una piccola torre che non supera l’altezza delle mura. Superato il portale, si entra in un vasto cortile. Attorno a questa piazza d’armi (luogo dove si rifugiavano in caso di pericolo gli abitanti del borgo e i contadini della zona si apre una serie di vani), un tempo adibiti a deposito, scuderie, alloggio della guarnigione e cappella. Sotto il cortile si trova una grande cisterna che, in alcune occasioni, fu utilizzata come prigione. Il muro orientale è racchiuso alle estremità da due torri: quella cilindrica, la più antica, non si eleva oltre la cinta muraria e permette la continuità del camminamento di ronda; quella quadrata, alta 21 metri e con facciate larghe 13 metri, fu costruita in un periodo successivo (1330) per volontà di Federico II d’Aragona i cui frequenti soggiorni sono tuttora ricordati nella facciata ovest dallo stemma della casa reale. Le linee possenti e severe della torre sono alleggerite nel lato opposto con due grandi bifore archiacute dalle eleganti modanature. Alla Torre si accede da una scala esterna che conduce al portale ogivale. Si raggiunge così la cosiddetta “Sala del Principe”, un vasto ambiente illuminato dalle due bifore e caratterizzato da una imponente copertura voltata a sesto acuto e sostenuta nella parte mediana da un arcone. Da questa sala, una scala conduce alla terrazza merlata da dove si gode un panorama infinito. Tra le due torri si sviluppa un corpo di fabbrica formato da vari ambienti disposti su due piani. Al primo piano, quello nobile, una porta ogivale dai tipici decori chiaramontani (linee a zig zag) riporta alla grande sala della torre. Un momento carico di emozione è conservato negli ambienti un tempo adibiti a carcere. In questi spazi, oggi silenziosi, si percepiscono ancora le voci del desiderio di libertà di tanti uomini sofferenti. Voci che fuoriescono dalla pietra, da iscrizioni incise sulle pareti. Riemergono così alla memoria anche alcuni nomi di prigionieri altrimenti sconosciuti, come quello di “Francesco Davenia di Castelvetrano” che si dichiarava “abitatore della fedelissima città di Palermo”. Le incisioni che raffigurano croci, navi, stelle e altre figure, sono i simboli legati alla vita sventurata di chi affidava alla dura voce della pietra le speranze, la rabbia o la rassegnazione.
La corte interna
La leggenda di Madonna Giselda Il castello è stato teatro di vari episodi che nel bene e nel male hanno segnato la storia di Naro e della Sicilia. Qui si alternarono vittorie e sconfitte. Dalla sua torre sventolava il fiero vessillo della corte reale e si spandeva la gloria dei Chiaramonte. Ma fu anche luogo macchiato da ricordi di sangue e delitti. Come accade in ogni castello che si rispetti, accanto alla storia non poteva mancare la leggenda. E tra le mura del castello di Naro rivive e si confonde, tra poca realtà e molta fantasia, la tragica storia d’amore di Giselda e Bertrando. Al periodo normanno è ambientata la leggenda di Giselda, la bella castellana “dalle scure chiome e dagli occhi color del mare”, moglie di Pietro Giovanni Calvello, allora signore di Naro. Giselda si invaghì perdutamente (è il caso di dirlo) di Bertrando, un giovane paggio che suonava il flauto dedicandole canzoni d’amore. L’intensa (e forse platonica) passione che li legava ebbe però un tragico epilogo! Entrò, infatti, nella scena romantica… la gelosia e la brutalità del marito che, in una notte chiara d’autunno, sorprese i due amanti durante uno dei loro soliti incontri. Il suono del liuto fu interrotto e la canzone fu soffocata dall’ira di Pietro Giovanni che uccise il povero Bertrando facendolo precipitare dalla torre. In una stanza del castello, trasformata per l’occasione in cella, fu poi rinchiusa Giselda che affranta dal dolore si lasciò morire di stenti. La fantasia popolare non si esaurisce qui. Si narra che nelle notti di luna piena è possibile scorgere il fantasma di Giselda che vaga sul terrazzo della torre, invocando il nome del suo amato Bertrando. Dopo le appassionate invocazioni, la castellana si sporge dall’alto e ascolta il gorgheggio di un usignolo che dal basso della torre risponde con un canto melodioso e struggente. In questo modo, il canto d’amore di Bertrando continua a spandersi nelle magiche notti di Naro.
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Un momento carico di emozione è conservato negli ambienti un tempo adibiti a carcere. In questi spazi, oggi silenziosi, si per cepiscono ancora le voci del desiderio di libertà di tanti uomini sofferenti. Voci che fuoriescono dalla pietra, da iscrizioni incise sulle pareti. Riemergono così alla memoria anche alcuni nomi di prigionieri altrimenti sconosciuti, come quello di “Francesco Davenia di Ca stelvetrano” che si dichiarava “abitatore della fedelissima città di Palermo”. Le incisioni che raffigurano croci, navi, stelle, e altre figure, sono i simboli legati alla vita sventurata di chi affidava alla dura voce della pietra le speranze, la rabbia o la rassegnazione.
La memoria dei prigionieri nei graffiti delle pareti
Affresco della stanza adibita a cappella privata - particolare del Cristo in trono
Agnus Dei in un affresco della stanza adibita a cappella privata
Torre: stemmi aragonesi
Tra i graffici... il gioco del Tris
L’accesso alla torre
Collegamento interno
Il servizio igienico della prigione
C’È UN PONTE ANTICO NELLA CITTÀ DEI SICULI
Il ponte dei sar Ponte dei Saraceni si trova nel territorio di Adrano, tra le province di Catania e di Enna, e rimane una delle relitte testimonianze dell’architettura di fattura islamica presente nell’area orientale della Sicilia. La sua costruzione infatti non è sicuramente coincidente cronologicamente con la dominazione araba dell’isola ma deve riferirsi al periodo immediatamente successivo, quando la dominazione normanna, “gli uomini venuti dal nord”, si era già concretizzata e stabilizzata su tutta la Sicilia (sec. XII). Gli Arabi, rispettosi verso le culture locali, amministratori più che dominatori, introdussero nelle terre occupate tutte le esperienze e tecniche costruttive acquisite, contribuendo così a quella rinascita culturale ed economica della Sicilia che farà del periodo arabo-siciliano uno dei periodi di massimo sviluppo della civiltà isolana dopo il periodo bizantino.
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L’inserimento quindi nella società siciliana di maestranze provenienti dall’Islam contribuì al formarsi e svilupparsi di maestranze locali che lavorando in simbiosi con l’elemento arabo, determinarono la nascita di una architettura autonoma, non riscontrabile in nessuna altra regione italiana e che in periodo più tardo verrà denominata arabosicula o arabo-normanna. Tale definizione dell’architettura e dell’arte del medioevo siciliano dimostra come il confluire delle più svariate influenze artistiche, non ultima il prevalere dell’arte siciliana di origine bizantina nei caratteri decorativi e musivi nonché della netta affermazione dell’arte araba in quelle forme architettoniche, geometriche e semplici, di cui il Ponte dei Saraceni rimane una diretta testimonianza, abbia determinato lo sviluppo di una cultura architettonica “autoctona”. Il nuovo dominatore normanno infatti, portatore di diversa
cultura, fu conquistato dalla civiltà locale fino ad inserirsi nel suo corso sviluppandola ulteriormente, senza nessun processo di cancellazione della cultura araba dominante nell’isola ma anzi facendola trapassare intatta nella civiltà del tempo normanno. Molta importanza ebbe in questo senso il nuovo assetto del territorio, in diretta relazione con la politica agraria iniziata dagli arabi, che frazionando le terre del latifondo bizantino diedero vita alla nascita di forme di proprietà privata che ebbe come diretta conseguenza la nascita di borghi e casali nei quali si svolse una rinnovata vita comunitaria. Tracce di quei casali e di quella nuova attività colonica che fu la base della fiorente attività economica nella Sicilia araba, si hanno anche nei dintorni del Ponte dei Saraceni. A conferma di ciò il geografo arabo Idrisi, nella sua descrizione di città e villaggi, dà notizia di insediamenti agricoli stanziali lungo le rive del Simeto a sfruttamento delle ricche e fertili aree circostanti. Possiamo concludere quindi che la funzione dei siciliani in architettura sia stata di duplice natura: una di filtro, cioè quella di selezionare nell’arte dei nuovi conquistatori i caratteri più consoni alla propria indole, l’altra di sano eclettismo, fare cioè che i caratteri artistici preesistenti convivessero e si fondessero con le nuove tendenze imposte, con un processo di contaminazione al fine di conferire una maggiore vivacità all’arte risultante. La Sicilia dunque non appartenne all’occidente, né nella cultura né tanto meno nelle sue manifestazioni artistiche. È dall’oriente che attinse in quegli anni a cavallo dei Mille e con esso la Sicilia si articolò al passo della civiltà nord-africana entrandone in rapporto dialettico, miscelando tutto con la tradizione classica, bizantina e cultura locale.
LA STRUTTURA Il Ponte dei Saraceni consta di quattro archi
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Archi a sesto acuto. Lato monte (rilievo N.Caruso)
Due di essi, di costruzione medievale, si presentano a sesto acuto mentre gli altri due, di recente fattura sono uno a sesto ribassato e l’altro a tutto sesto. Degli archi sopra descritti solo uno scavalca il corso del Simeto, il maggiore fiume dell’isola per ampiezza di bacino e che dai monti Nebrodi si sviluppa per un corso di 88 Km. Volendo descrivere la struttura originaria del ponte dovremo localizzare
l’attenzione sull’arco a sesto acuto maggiore, poggiante su di un preesistente basamento romano di un ponte a tutto sesto ad unica campata. La differenza della due strutture, romana e medievale, è accentuata dalla diversa curvatura delle reni dell’arco a tutto sesto, visibile dal taglio dei conci basaltici del superstite basamento romano, che contrasta con il proseguo a sesto acuto dell’arco medievale sovrastante. Inoltre, all’intradosso dell’arco la diversità è più evidente sia per la già accennata differenza di taglio, pietre ben squadrate e di dimensioni maggiori quelle romane, piccole e rettangolari quelle medievali ma soprattutto per la diversità cromatica delle due strutture: grigia e di rocce basaltiche i filari romani mentre quelli medievali si presentano in prevalenza bianche e di natura calcarea. Gli archi a sesto acuto inoltre, conformati da un’unica ghiera e con pietrame di diverso taglio e natura, conferiscono al ponte un particolare aspetto cromatico dato l’alternarsi di pietre bianche e scure.
NOTE STORICHE Volendo ricostruire una cronistoria del Ponte dei Saraceni possiamo affermare come nell’attuale sito - e i ritrovamenti archeologici lo confermano - potesse esistere già un attraversamento probabilmente dovuto ad esigenze di scambi commerciali tra le diverse città site sulle rive del fiume Simeto. I ritrovamenti della città sicula del Mendolito, con torri, cinte murarie e porte urbiche, servono a dimostrare come nell’area in oggetto vi fosse una intensa attività che si concretizzava principalmente in scambi commerciali. È comunque certo che per Roma, dopo aver consolidato il dominio sull’isola fosse una necessità sostituire con una solida architettura il vecchio passaggio siculo-greco sul Simeto. Essa infatti si innestò in una delle due “viae frumentariae” che servivano a trasportare le consistenti derrate di frumento dalla Sicilia centro-orientale ai porti sulla costa ionica, per poi essere imbarcate alla volta della capitale. Successivamente, nel periodo islamico e con il rifiorire culturale dell’isola, il ponte cambiò i suoi connotati. Infatti dal probabile ponte romano a tutto sesto composto da un unico arco e che scavalcava in un solo sbalzo il letto del fiume, le maestranze siciliane di origine araba lo rifecero, probabilmente per ripristinare l’attività di transito tra le due sponde del Simeto. Così sostituirono all’arte romana i canoni della loro architettura, curando gli effetti cromatici con l’alternanza di pietre chiare e scure nelle ghiere degli archi. La struttura che ne verrà fuori, ad archi acuti tipica dell’architettura di influenza islamica anche per tecnica costruttiva, acquisterà quella snellezza e leggerezza tutt’oggi visibile e inalterata. In epoca recente il ponte ha visto diversi interventi di
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Arco a Valle - fine anni ’60
restauro sulle proprie strutture, come nel 1947 e 1953, a seguito di due piene del fiume che però non hanno danneggiato le strutture medievali e ultimo nel 1984, con un restauro della Soprintendenza BB.CC.AA. di Catania che ha dato al ponte l’attuale configurazione.
Con un intervento costato 3 mila euro l’assessorato ai Beni culturali del Comune di Adrano ha provveduto a ripulire le arcate imbrattate del Ponte dei Saraceni. Sono state asportate le scritte che sporcavano le pareti interne dei piloni. “Un’azione doverosa – spiega l’assessore Alessandro Di Gloria, cui si deve l’intervento – per restituirlo alla fruizione dei cittadini e dei visitatori. Mi auguro che non si debba più intervenire in tal senso e che tutti prendano consapevolezza che imbrattare un bene culturale equivale a scrivere sui muri di casa propria”. Per la pulizia si è fatto ricorso ad una tecnica particolare: “È un trattamento aero-abrasivo – spiega l’ingegnere Enza Messina, direttore dei lavori - con polvere di quarzo e aria compressa. Grazie a questa tecnica è stato possibile ripulire i materiali lapidei. Essendo pietra lavica abbiamo agito ad atmosfera maggiore facilitando la pulitura”.
FILIERE COMMERCIALI turismo nelle isole europee, ha un ruolo centrale, se non a volte esclusivo nel sostenere l’economia locale e nel determinare percorsi di crescita e di sviluppo più facilmente percorribili ed in armonia con gli asset locali di cui dispongono le isole e rappresentati in prevalenza da risorse naturali, ambientali e culturali. Nel caso delle isole, la ridotta presenza o addirittura l’assenza di un insieme di attività economiche e reti commerciali, localmente organizzate e gestite, fanno sì che gli impatti economici del turismo sull’economia locale siano ridotti, se non addirittura molto limitati. Si fa riferimento, infatti, ai casi in cui la spesa dei turisti, diretta per l’acquisto di beni e servizi, fuoriesce, poi, dall’economia dell’isola, sotto forma di importazioni o addirittura, viene essa stessa gestita direttamente da operatori turistici internazionali, tanto importanti, quanto capaci di organizzare e ben gestire gli effetti economici generati proprio dalle economie turistiche. Per la Sicilia, basti pensare che il volume totale della spesa turistica diretta nella regione, ovvero effettuata dai turisti durante il loro soggiorno, fuoriesce per il 65%, attivando così un ingente volume di importazioni, dirette proprio a soddisfare quella domanda di prodotti e servizi turistici, che dovrebbero essere per lo più di matrice locale. Queste evidenze, pongono, quindi, una nuova sfida alle politiche del turismo dell’isola, che basate su azioni di sola promozione, dirette ad attrarre nuovi e sempre più consistenti flussi di visitatori, devono essere in grado di agire sui singoli circuiti di spesa turistica. La mancanza di una chiara e strutturata conoscenza di questi circuiti fondati su economie turistiche, comporta il rischio di intraprendere azioni di sviluppo che, non derivando da un’opportuna conoscenza della domanda e delle sue esigenze, possono essere poco rispondenti alle tendenze del mercato ed avere degli effetti riduttivi sull’economia locale e sui livelli di competitività regionale. Da qui, nasce la necessità di identificare gli impatti economici del turismo, partendo dai dati sulla spesa turistica effettiva in relazione alle singole motivazioni di visita. Lo scopo è quello di identificare le singole filiere di spesa turistica e di attività economiche che potrebbero essere a questa prossime, o potenzialmente integrabili. Questo approccio, basato sulla conoscenza del reticolo economico e commerciale attivato ed attivabile dalla spesa turistica, ha indotto alla realizzazione di uno studio, commissionato dalla Confesercenti Sicilia all’Osservatorio sul Turismo delle Isole Europee, la cui realizzazione costituisce il primo passo di un disegno di ricerca che per la prima volta si applica ad un territorio insulare e che ha come scopo l’individuazione di filiere turistico-commerciali per ciascuna tipologia di turismo che interessa l’isola. Un primo report è dedicato alla conoscenza della spesa turistica generata dal turismo e dell’escursionismo crocieristico diretto in Sicilia, disegnando così, la rete di attività, che ad oggi supportano questo indicatore economico. Così come tutte le altre tipologie di turismo, il movimento turistico legato alle crociere genera sul territorio delle ricadute non indifferenti che tuttavia necessitano di un monitoraggio al fine di identificare gli eventuali gap dell’offerta esistente.
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Confesercenti e UniCre un’opportunità Si è svolto a Palermo il 30 novembre scorso il convegno organizzato da Confesercenti Assoturismo sul tema “Le PMI un’opportunità per lo sviluppo”. L’evento ha visto la partecipazione di Giovanni Felice Presidente Regionale della Confesercenti, Roberto Bertola Responsabile di Territorio per la Sicilia di Unicredit, Gianfranco Dall’Ara Professore di Marketing del Turismo Università di Perugia, Fabio Maria Mancuso Presidente IV Commissione Territorio Ambiente e Turismo, Davide Faraone componente IV Commissione Territorio Ambiente e Turismo, Andrea Corso
TURISTICHE IN SICILIA Continua l’impegno volto ad approfondire il ruolo delle piccole e medie imprese nel turismo, focalizzandone i punti di forza, la vitalità, le opportunità di sviluppo e la necessità di un marketing specifico per le imprese del settore. L’attuale stato di crisi deve essere debellato con azioni strategiche mirate.
dit: le PMI nel Turismo per lo sviluppo Presidente Regionale Assoturismo, Filippo Donati Presidente Nazionale Asshotel e Marco Salerno Dirigente Generale Assessorato Turismo. Tema centrale la presentazione del libro curato dal prof. Dall’Ara da cui prende il titolo il convegno, che offre analisi, approfondimenti, dati e proposte, che spaziano dall’ambito del marketing a quello della formazione fornendo un’ottima base di elaborazione, sia di carattere economico che culturale per considerare la piccola e media impresa in una prospettiva nuova meritevole di attenzione e di appropriate politiche a sostegno.
Attraverso i comportamenti di spesa dei turisti saranno evidenziate le loro esigenze che l’offerta deve essere potenzialmente in grado di soddisfare. L’identificazione di tali gap porta ad incoraggiare le nuove iniziative imprenditoriali che intendano operare nel turismo, e ad indirizzare le imprese già esistenti, attraverso opportuni adeguamenti, al soddisfacimento dei bisogni di questa categoria di escursionisti e di probabili futuri turisti. L’analisi, farà riferimento a tutto un insieme di azioni volte all’irrobustimento e alla strutturazione, se necessario, di questa filiera di attività, con l’intento di creare un prodotto integrato e composito dell’offerta locale, accrescendone l’impatto economico. Attualmente le tipologie di turismo che interessano l’isola sono varie, andando dalle forme tradizionali del turismo balneare a quelle più specifiche e destinate al turismo di nicchia (parchi naturali, turismo archeologico, diving, ecc.). Dopo aver terminato l’esame del segmento legato al crocierismo (Filiera 1), il report successivo riguarderà l’analisi delle filiere legate alla spesa dei turisti in circuito di Sicilia, ovvero quelli che, gestiti ed organizzati dai tour operator visitano l’isola in pullman (Filiera 2). Proseguendo in questa direzione, si procederà poi all’analisi della Filiera 3, ovvero quella caratterizzata dal turismo di vacanza, stanziale e legato alla motivazione balneare. Infine, si procederà all’indagine su filiere minori, ovvero quelle legate a pluri-motivazioni di vacanza e di spesa, che spesso sono localizzate in luoghi specifici e ben determinati. Il progetto che Confesercenti Sicilia sta portando avanti insieme all’OTIE sarà il tema di una serie di appuntamenti di cui il primo avrà luogo il 27 gennaio 2011 nell’Astoria Palace Hotel di Palermo nel corso del quale verrà presentata la sezione relativa alla spesa turistica afferente alla filiera del turismo crocieristico. Comunicazione a cura di CONFESERCENTI SICILIA e OTIE – OSSERVATORIO TURISTICO ISOLE EUPOPEE
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LA TRADIZIONE PRESEPISTICA A CALTAGIRONE Caltagirone, città produttrice di ceramiche, la realizzazione di presepi in case private e in luoghi pubblici, è attestata almeno dal XVII secolo. Dall’Ottocento i presepi, contrariamente alla più diffusa tradizione che prevedeva l’uso di materiali vari per la creazione delle figurine dei pastori, sono realizzati interamente in terracotta e rappresentano una cornice alla Natività, con scene di vita contadina e pastorale animate da personaggi tipici di quella civiltà. Nella ricca produzione locale si possono individuare un filone colto ed uno popolare. Il primo vede emergere le figure dei maestri ceramisti
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dell’Ottocento: Giacomo Bongiovanni (Caltagirone 17721859), il nipote, e associato alla bottega, Giuseppe Vaccaro Bongiovanni (Caltagirone 1808-1889), Giacomo Azzolina (Caltagirone 1854-1926), e soprattutto il celebre Padre Benedetto Papale (Caltagirone 1837-1913), autore di straordinarie scenografie presepiali di personale e altissima qualità paesaggistica. Il secondo filone, destinato alle classi meno abbienti, è caratterizzato invece dalla semplicità non solo delle figurine, lavorate e dipinte rozzamente esclusivamente nella faccia anteriore, ma anche dai costumi e dalla umiltà evangelica dei personaggi e dei doni.
CARD PRESEPI DI QUALITÀ L’Amministrazione Comunale ha il piacere di presentare al turista e al cittadino il percorso dei Presepi di qualità, scelti per il loro valore artistico, culturale, innovativo e invita, gli stessi, ad esprimere il proprio gradimento votando il Presepe più bello. La Card, c o m p l e t a m e n t e g r a t u i t a e di durata illimitata, dà diritto allo sconto del 30% sul costo del biglietto di ingresso. La Card può essere ritirata presso i seguenti punti: • Informazioni Turistiche - Galleria Luigi Sturzo Piazza Municipio; • URP – Palazzo Municipale • Servizi Cultura e Turismo – Via Volta Libertini, 4 • Servizio Turistico Regionale – Via Volta Libertini, 4 ••• • Oratorio S. Francesco di Paola – Piazza Marconi “Presepe Amazzonico e Civiltà Andine” Centro Missionario Diocesano Caltagirone • Museo al Carcere Borbonico “Il Presepe dei Jurnatari” di D. Bizzini e Ass. Astra • Via Reitano, 2 “Caltagirone Presepe” - Ass. Amici del Favo • Chiesa del Collegio “Presepe tradizionale – La Sicilia e la sua cultura” Centro Missionario Diocesano Caltagirone • Chiesa del Crocifisso – Via Duomo “Mysterium salutis: dalla Genesi alla Risurrezione” di Gaetano Marchese • Via Vittorio Emanuele, 7/9 “Presepe animato della pace” e “Siro-Palestinese” Eliotour – Calatina Tour – Ceramique Travel • Via S. Bonaventura, 2 “Presepe della Cripta” di Gesualdo Patrì e figli • Via Testa, 71/75 “Presepe nella storia siciliana animato” - Mgs Eventi • Chiesa del Carmine “Il Presepe animato in terracotta” dei F.lli Milazzo • Palazzo Ceramico/Reburdone “Presepe Cartoon: omaggio a Walt Disney” di U. Di Pasquale e Ass. Panta • Chiesa San Giuseppe – Scala S. Maria del Monte “Presepe del Trenino….” Gruppo Volontariato Missionario di Caltagirone • Via Luigi Sturzo, 33 “Presepi in auto e moto d’epoca” Amatori auto e moto d’epoca • Via SS.mo Salvatore, 3 “Il Presepe nella Grotta” - Eliotour • Via Luigi Sturzo, 58 “Il Presepe di cotone animato…” di M. Iatrino - Ass. Eventi d’Arte • Via del Rosario, 25 “La nascita di Gesù” di M. Iatrino – Ass. Eventi d’Arte • Via Luigi Sturzo, 105 “Presepe Biblico in terracotta e stoffa in movimento” Associazione Amici del Favo • Chiesa Pinacoteca Museo dei PP. Cappuccini Presepe monumentale “La Storia della Salvezza”
Suggestioni della musica ed emozioni dei Presepi 5, 12, 19 e 26 Dicembre – 2 e 9 Gennaio 2011 Ex Biblioteca Comunale – Largo San Luigi Museo Internazionale del Presepe ore 10.30 “Suggestioni della musica ed emozioni dei Presepi” Concerti a cura del M° Giacomo Randazzo Dal 17 al 19 Dicembre Palazzo Reburdone/Ceramico ore 19.00 “5° Festival Internazionale di Poesia” Ragione, Passione e Interferenza. Le dimensioni creatrici della poesia 29 e 30 Dicembre Quartiere San Pietro Inizio percorso sagrato Chiesa ore 17.30 “Presepe Vivente nei carruggi” - VI edizione Parrocchia San Pietro di Caltagirone
“Scatti su Acate” per un territorio sempre da scoprire
Seconda edizione… Secondo successo “Scatti su Acate”, il concorso fotografico organizzato dall’assessorato politiche giovanili del comune di Acate, giunto alla seconda edizione, anche quest’anno ha visto la partecipazione di numerosi fotografi non professionisti che ancora una volta hanno messo al centro del loro obiettivo fotografico la cittadina acatese e il suo territorio. Le opere esposte nel castello dei principi di Biscari sono state l’occasione per una scoperta e per un viaggio a trecentosessanta gradi, nel tempo e nello spazio. Una mostra scandita dalle sale di un castello che è simbolo di quel territorio suggestivo che ha ispirato i fotografi. Un territorio dove la natura e l’opera dell’uomo sono fissati dagli scatti fotografici nella loro interezza e nei loro particolari, con lo stupore che è proprio di chi li nota per la prima volta o con l’amore di chi ne conosce tutti i segreti, anche quelli inconfessabili. Conoscere, raccontare, descrivere, sono questi gli elementi nella mente di chi ha in mano una macchina fotografica, di chi, nel momento preciso, prima di scattare, sta per dirci qualcosa, non soltanto nel senso della resa
di un’immagine da un punto di vista tecnico o edonistico, ma in quello di una dichiarazione di esistenza delle cose e di appartenenza a queste. Infatti, i fotografi che si sono messi in gioco, hanno fatto molto di più che partecipare ad un concorso fotografico, hanno compiuto un atto d’amore verso la loro terra. In giorni in cui si discute tanto di promozione e sviluppo del territorio, proprio quando sembrano venire a mancare gli strumenti che questo sviluppo dovrebbero favorire, che dovrebbero cancellare gli effetti di una crisi economica che non si può ignorare, in giorni in cui sono cambiate le regole del mondo economico, si parla ancora troppo poco di identità, perché restare se stessi quando tutto attorno cambia è la cosa più difficile. È sulla forza creativa della parola che descrive un’identità, utilizzando ciò che la nostra storia ci ha lasciato, dalle bellezze naturali a quelle monumentali, che oggi bisogna puntare tutto. E non è un caso che giudici di questa manifestazione siano stati tre uomini, che anche per questa seconda edizione,
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1° classifi cat o Autore: Maurizio Antonio Minardi Titolo: “La partenza” 2° classifi cat o Autore: Chiara Fazio Titolo: “Campanile della Chiesa Madre” 3° classifi cat o Autore: Francesca Iurato Titolo: “Discesa fra i colori della Valle del Dirillo” Menzione della Giur ia Autore: Elisa Attanasio Titolo: “Chiesa Madre: particolare della facciata” (4)
Autore: Ivan Cannizzo Titolo: “La Valle dell’Acate” (5) (1)
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hanno messo a disposizione la loro passione per la fotografia e per la Sicilia: Maurizio Barone, autore di un libro fotografico sulla vendemmia degli anni Settanta nelle campagne del Ragusano, nonché di numerose mostre fotografiche su vari aspetti della nostra sicilianità; il direttore editoriale Giuseppe Nuccio Iacono e l’esperto di marketing, pubblicità e comunicazione Giancarlo Tribuni Silvestri di Inside Sicilia, che, attraverso questa rivista, realizzano ogni giorno un grande progetto, creando, in questa nostra isola, una rete, in grado di ripescare ricordi, racconti, immagini, storie, storia e mito, che meritano di essere recuperati, raccolti e custoditi, ma soprattutto trasmessi e veicolati, posti all’attenzione dei cittadini del mondo, all’interno di un processo di globalizzazione che ci deve coinvolgere ma non omologare. Il Mediterraneo, che circonda la nostra isola, e che sa tutto della diversità, perché la diversità lo ha attraversato, per poi approdare alle nostre coste, ben si presta ad accogliere questa rete, a volte pesante da tirare su, perché la nostra, è un’identità forte, che pervade noi e la nostra terra, che contiene tesori molto preziosi perché unici. Alle nostre chiese, campagne, spiagge e tramonti non serve la creazione di un mondo di immagini prodotte da sistemi innovativi, ai nostri paesaggi basta una semplice fotografia per suscitare il desiderio di visitarli, per rivedere i limoni visti da Göethe e sentire il profumo delle arance che si respira leggendo “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini; e per questo motivo, ammirazione incondizionata va non solo ai vincitori del concorso che quest’anno sono stati, Maurizio Antonio Minardi, Chiara Fazio e Francesca Iurato, ma a tutti i partecipanti. Attraverso un’immagine, essi hanno evocato una musica, una parola, usando lo strumento più potente che noi possediamo, la libertà di espressione e di pensiero, che se usata con responsabilità e senza paura, diventa l’arma invincibile con la quale non soltanto fissare, in una durata senza fine, momenti ma, cambiare un tempo che scorre, introducendo un nostro punto di vista sulle cose. Lo sviluppo economico di un territorio, di una regione e di una nazione come la nostra, fortemente ancorata alla nostra storia, non può prescindere da una rivoluzione culturale che deve coinvolgere tutti gli aspetti della società, nella quale ognuno di noi, indipendentemente dalla natura del ruolo che svolge, sia consapevole di scrivere una pagina della storia, che un domani leggeranno le future generazioni, in un libro illustrato dagli scatti della nostra partecipazione attiva al nostro oggi. Alice Pepi Assessore alle politiche giovanili Comune di Acate
Alice Pepi, assessore alle politiche giovanili del comune di Acate e il sindaco, dott. Giovanni Caruso
Alice Pepi e Grazia Maria Sansone, direttore della biblioteca civica di Acate
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IL PUNTERUOLO ROSSO È il killer delle nostre palme! Allora è da eliminare? No, alleviamolo! Una emergenza che viene da lontano e che da anni sfiora la beffa; inerzia, inefficienza e scarsa preparazione nell’affrontare il “flagello” hanno agevolato la sua proliferazione apita sempre più spesso di trovarsi a passeggiare per il centro storico o per qualche borgo di mare ed imbattersi in un triste ed inquietante spettacolo. Al posto delle belle e rigogliose palme, che di solito impreziosiscono e danno un tocco di romanticismo ai luoghi di arte e di mare, tronchi di palme mutilati o privati del tutto della parte superiore o, nella migliore delle ipotesi, tronchi incappucciati con degli orribili sacchi di plastica. Plastica al posto di quel verde che si lascia accarezzare dal vento, di quella leggera e perenne danza. Adesso al posto di quel gradevole fruscio, ci sono queste palme oltraggiate. Un territorio mutilato da un nemico spietato e devastante. Il nome di questo killer è punteruolo rosso. Considerato una pestilenza invasiva incurabile, ma solo da chi crede nei miracoli a portata di mano. Esistono invece metodologie, preventive e curative che potrebbero porre fine a questo flagello. Il punteruolo rosso, “Rhynchophorus ferrugineus”, ultimo flagello delle palme, non perdona, e cosa ancora più grave è la cristiana rassegnazione con cui l’uomo accetta tutte le sue malefatte; sembra di essere tornati indietro di duemila anni, quando contro le pestilenze si invocavano solo i miracoli. L’attacco alle palme, secondo alcuni ricercatori, si manifesta con erosioni
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alle terminazioni fogliari, da parte delle piccole larve, per poi passare alla fase di attacco ai tessuti del sistema gemmario apicale. Leggendo le pubblicazioni, cui può accedere il normale cittadino, si notano ancora delle confusioni e discordanze sulla biologia di questo nuovo ospite delle nostre palme. Un insetto dalla tattica devastante Quando il tessuto è stato invaso da numerose larve, la pianta comincia a dare dei segnali più evidenti, come l’abbassamento dei palchi fogliari vecchi, il distacco della raggiera fogliare vecchia da quella più giovane, la riduzione del numero e della lunghezza delle foglie nuove ed infine la fase terminale con la caduta di tutto il ciuffo vegetativo e il disseccamento graduale di tutto il fogliame. Questo insetto ha ciclo biologico biennale, ma con interferenze e sfasature ancora da verificare, che complicano certamente le metodologie degli interventi. Se si riconosce in tempo la fase preliminare dell’attacco, si può intervenire con cure da scegliere caso per caso. Purtroppo si assiste ad una sottovalutazione del pericolo, veramente devastante per tutte le piante decorative, e all’assenteismo delle amministrazioni pubbliche. La ricerca scientifica, gelosamente protetta in arcani contenitori culturali, non viene posta a conoscenza dei comuni cittadini, a cui si chiede, beffardamente, di
comunicare tempestivamente la presenza di piante parassitizzate da questo bel coleottero rosso, senza pensare che il comune mortale si accorge dell’affezione solo quando la pianta si trova nello stadio terminale, cioè quando, tardivamente, la pianta deve essere distrutta. Le menti elette, e gli organi decisionali, non hanno saputo gestire questo fenomeno, come ci si sarebbe augurato.
Le assurde “note tecniche” per combattere il terribile parassita Leggendo le scarne ed elementari “Note tecniche informative” preparate dall’Assessorato Agricoltura e Foreste, non si può non rimanere stupiti dalla disarmante conclusione cui si perviene. L’argomento è trattato come un ordinario fatto di cronaca in un linguaggio e riferimenti che di rigore scientifico non hanno nemmeno il profumo. Ma il fatto disarmante è che si rimane nella più totale impotenza di arginare il fenomeno pestilenziale. Oltre a non elencare tutti i possibili rimedi preventivi nel dettaglio, in sede conclusiva di tali “Note tecniche informative”, quando si dovrebbe suggerire una cura con prodotti chimici, si comunica serenamente che il Ministero della Salute ha vietato le disinfestazioni con insetticidi nelle aree urbane. Una decisione strana e quanto mai dettata da disinformazione sulle varie strategie di lotta chimica, da usare in casi particolari e con professionalità. Purtroppo ci si trova di fronte ad un fenomeno culturale di estrema gravità, dall’esame degli avvenimenti che si sono susseguiti in questi ultimi anni. È compito delle istituzioni preposte (amministrazioni comunali e provinciali) dare i segnali di sensibilità e di maturità culturale.
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Bisogna pensarci per tempo. Bisogna pensare a prevenire con le professionalità idonee ed evitare questo scempio. Anche perché, dati alla mano, rimpiazzare le vecchie palme con delle altre è operazione molto onerosa. Probabilmente prevenire, o tentare di contenere il problema, costa senz’altro meno. Paolo Cirica – Bartolo Lorefice
la ricetta I NUCATOLI (o Mucatoli) Devono il loro nome al latino “Nucatis”, termine con il quale si indicava la frutta secca lavorata con miele. Anche se con piccole differenze, esistono varie versioni della ricetta. Ingredienti: Per la pasta: Kg. 1 di farina tipo 0 gr. 100 di zucchero gr. 100 di strutto 2 tuorli d’uova 2 bicchieri di vino bianco dolce Per il ripieno: gr. 200 di mandorle tritate gr. 300 di fichi secchi gr. 400 di miele di timo e scorza di arancia o limone un pizzico di cannella
Preparazione del ripieno In un pentolino, versare il miele, la cannella, il trito di mandorle tostate e i fichi secchi, scorza di arancia o limone e il pizzico di cannella. Tenere la fiamma bassa finché il composto diventa omogeneo. Preparazione della pasta Su una spianatoia impastate la farina con lo strutto e i tuorli unendovi il vino fino ad ottenere una pasta consistente; spianare con il mattarello. Con il tagliapasta dentellato ritagliare la sfoglia formando quadrati larghi 8 cm. ESECUZIONE Sistemare il ripieno, a forma di cilindro, al centro di ciascun quadrato di pasta; avvolgere i bordi con la pasta lasciando scoperta la parte superiore; piegare ad “S” e mettere sulle teglie che saranno infornate a 180° per circa 35 minuti. Per la decorazione glassa: Sfornare i biscotti, lucidarli con albume d’uovo battuto e, con l’aiuto di “sac a poche”, fare dei “ghirigori” con la glassa composta da zucchero a velo, chiara d’uovo e qualche goccia di limone. Rimettere in forno per 5 minuti.
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1) Il momento della chiusura dei biscotti con la tipica forma ad “S” 2) La glassatura con la sac a posche
“Aspettando il Natale”… Scopriamo insieme il nuovo polo di attrazione commerciale! chi l’ha detto che il cavallo buono si deve per forza vedere a strada lunga? Sono passati appena due anni, era il 3 ottobre 2008, dalla nascita del Ce.Na.Co. di Priolo Gargallo che qui continuano a fioccare brillanti manifestazioni ed utili iniziative che raccolgono un vasto consenso di pubblico, e non solo. Il Ce.Na.Co., acronimo di Centro Naturale Commerciale, priolese si impone sulle scene come reale forza imprenditoriale capace da un lato di combattere la grande distribuzione e dall’altro di superare il preconcetto di un paese a valenza esclusivamente industriale. Il fulcro dell’attività è proprio nell’aggregazione di numerosi esercizi commerciali, artigianali e di servizi che, coordinati dal pres. Giorgio Iacono ed in sinergia con tutta l’amministrazione comunale priolese, e forti di una comune politica di sviluppo e di promozione territoriale, si pongono l’obiettivo di proporre ai consumatori uno “shopping competitivo” offrendo prodotti di qualità a prezzi vantaggiosi, con l’ulteriore beneficio di favorire un forte sviluppo economico che diversifichi la tendenza monotematica industriale di Priolo. Tra le iniziative maggiormente performanti del Ce.Na.Co priolese, un posto d’onore è riservato ai corsi di
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La presentazione del Centro Naturale Commerciale priolese
Un momento dei corsi di formazione
Grande successo per la sfilata del 2 agosto 2010 organizzata dal Cenaco; in passerella il Centro Sposa Anna Nesti di Carlo e Claudia Nesti: un’eccellenza nel panorama imprenditoriale priolese
formazione professionale, per titolari e dipendenti, istituiti con il dichiarato intento di innalzare il livello di professionalità degli esercenti per garantire maggiore competenza alla clientela. Nel tempo si sono infatti susseguiti, e numerosi saranno anche in futuro, corsi di formazione comportamentale e posturale, corsi di sicurezza, primo soccorso ed antinfortunistica, nonché corsi di strategie di marketing. L’ente priolese, che ha anche avviato le procedure per essere accreditato presso la Regione Siciliana, sta adesso mobilitando tutte le sue forze per garantire il successo della sua prossima manifestazione: “Aspettando il Natale”, giunta alla sua seconda edizione. Una due giorni, il 18 e il 19 dicembre, che sarà un carosello di luci, suoni, colori e profumi. Venti stand, allestiti per l’occasione in piazza Quattro Canti, ospiteranno un’eccezionale mostra artigianale, completa finanche di dimostrazioni pratiche di parrucchieri e altri artigiani (giusto per citarne qualcuna), accompagnati dalla goliardia di artisti di strada - e non solo - che intratterranno e stupiranno grandi e piccini. Durante la manifestazione verranno anche distribuiti i biglietti che permetteranno di partecipare alla promozione “Acquisti Vincenti”: un sorteggio che frutterà al fortunato vincitore buoni d’acquisto del valore di 1.000 euro, e altrettanto allettanti 600 euro per il secondo classificato e 400 euro per il terzo; previsti anche 10 premi minori del valore commerciale di 50 euro cadauno. E allora cosa stiamo aspettando? L’appuntamento è a Priolo Gargallo il 18 e 19 dicembre per riscoprire assieme l’orgoglio di un paese che, forte delle proprie tradizioni, sfida trionfando le tendenze massificatorie di questi anni.
La 1ª edizione della manifestazione “Aspettando il Natale”
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di Eleonora Vitale artista siracusano Carmelo Mollica, classe 1920, poco dice il web e quasi nulla conoscono le nuove generazioni. Eppure l’Italia e il mondo intero ancora oggi sono capaci di ricordarlo come padre della lirica siciliana, caparbio professionista affermatosi, malgrado le avversità della guerra, nei più rinomati teatri al fianco di nomi prestigiosi come Maria Callas, Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Katia Ricciarelli e un giovanissimo Luciano Pavarotti. Tanto che il siracusano Carmelo Mollica può essere definito un pezzo della storia della lirica italiana, ancor più di quella siciliana. Molti del suo tempo sanno infatti che “il maestro Mollica non ha mai dimenticato la sua terra e la tanto amata città di Siracusa per la quale è stato combattivo e ambizioso” – racconta oggi la figlia del baritono, l’architetto Lucia Mollica. Sin dagli anni ’60, infatti, l’artista siracusano avrebbe voluto fondare un ente lirico riconosciuto, proprio nella città d’Aretusa, affinché si potessero realizzare prestigiosi eventi teatrali e spettacoli lirici all’altezza di quelli dell’Arena di Verona o di Caracalla. E nel tentare di fare ciò Mollica non perse mai le speranze,
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fin quando dal 1974 al 1977, nominato direttore artistico dall’Azienda Autonoma del Turismo, organizzò diversi eventi negli incantevoli palcoscenici naturali di Siracusa. Dal Teatro Greco all’Anfiteatro Romano passando per le Latomie e giungendo persino nei paesaggi naturali della provincia, ovunque fu un gran successo per il bel canto e la poesia del melodramma. “Grazie a lui s’incominciò ad apprezzare la lirica anche dalle nostre parti – spiega la figlia Lucia - e soprattutto si ebbe un’ottima risposta nel campo dell’occupazione locale e del turismo, non più vincolato solo al periodo delle rappresentazioni classiche, ma con più ampio respiro”. Le iniziative curate dal baritono siracusano furono ben accolte e apprezzate dalla cittadinanza intera che in quegli anni riempiva la cavea fino alla fine di luglio. Merito di un uomo, un artista, una passione vera, autentica, vissuta e sofferta, che oggi è inevitabilmente degna di essere osannata. Oggi che ricorrono i 6 anni della scomparsa e resta vivido il ricordo di un personaggio capace di dare a Siracusa la possibilità di avere una vera e propria stagione lirica e un cartellone di spettacoli di vario genere. Fu così nel ’74 con il 3° Festival internazionale della musica e del balletto che si tenne tra il Teatro Greco e
IL BARITONO CARMELO MOLLICA L’UOMO, L’ARTE, LA PASSIONE l’Anfiteatro Romano, tra concerti di musica da camera, sinfonie e cori con grandi concertisti come il polacco Bronslaw Gimpel e Almerindo D’Amato. Ma anche la compagnia del balletto di Stato russo e quello rumeno, con ballerini provenienti anche dal Senegal e ospiti d’eccezione quali Maria Grazia Buccello e Jonny Dorelli. Nel 1975 l’anfiteatro della Neapolis siracusana vantava una stagione lirica con tre opere: Boheme, Rigoletto e Il barbiere di Siviglia avrebbero portato quell’anno a Siracusa cantanti di fama internazionale e maestri di prestigio come Napoleone Annovazzi, Alberto Paoletti e Giuseppe Morelli. L’ultima stagione, nel ’77, proponeva Aida, Tosca, Lucia di Lammermoor e la sperimentazione del melodramma di Oscar Torregrossa Il sangue e la rosa. Una realtà finita in quello stesso anno e che pesò sulla vita dell’artista Mollica come in quella di tutti coloro che avevano conosciuto lo straordinario mondo delle corde tonali e dei racconti in musica. Ma fino alla fine il maestro Mollica non si risparmiò. Per tutta la sua vita si è dedicato ai giovani impartendo lezioni di canto gratuitamente per aiutare i talenti naturali e far nascere negli altri l’amore per questa disciplina. Il suo salotto divenne infatti un andirivieni di giovani e anche di meno giovani attirati sempre più dai suoi insegnamenti e persino dai suoi racconti.
Come non avrebbe potuto affascinare quell’episodio che racconta i suoi primi anni con gli spartiti e le note da intonare, le sue prime strofe e i gorgheggi allenati nell’antro dell’Orecchio di Dionisio usato come cassa armonica. E quel debutto del 1949 con il maestro MolinariPradelli al Bellini di Catania nella parte di Cirillo, nella Fedora di Giordano. E il priLa locandina della stagione lirica del 1977 al Teatro Greco di Siracusa mo spettacolo al fianco della divina Callas nel 1950 dopo il quale Mollica approdò nei più importanti teatri internazionali. Da Francoforte a Vancouver passando per Copenaghen fino ad Hong Kong e Singapore, senza dimenticare l’Australia e l’Italia tutta. Essendo di volta in volta Don Bartolo, suo cavallo di battaglia nel Barbiere di Siviglia; Ostasio nella Francesca da Rimini, Schaunard nella Boheme e Scarpia nella Tosca. Amando più di tutte la Malìa di Luigi Capuana e senza dimenticare mai la sua passione per quella Lucia di Lammermoor che interpretò anche al Teatro Comunale di Siracusa prima della sua chiusura negli anni ’60. Il resto è attualità: una struttura chiusa da anni, un’arte poco conosciuta a Siracusa e il ricordo di uno straordinario maestro che oggi è storia della lirica siciliana. Il baritono Carmelo Mollica è Ostasio nella Francesca da Rimini
Mollica interpreta la novella Allamistakeo di Edgard Allan Poe alle Latomie
La salvaguardia dell’ambiente non è un concetto astratto è messa in moto la macchina organizzativa che dovrà procedere alla rimozione e allo smaltimento dei fanghi depositati nei due bacini della discarica dell’Impianto Biologico Consortile di Priolo Gargallo, gestito dalla società IAS. È in via di realizzazione la strada di accesso alla discarica da parte dell’Associazione Temporanea di Imprese, vincitrice dell’appalto. Come si ricorderà, nei mesi precedenti il Presidente della società Industria Acqua Siracusana, Salvatore Raiti, ha firmato a Siracusa il contratto per la rimozione dei fanghi stoccati nei bacini “A” e “B” della discarica dell’impianto biologico consortile di Priolo Gargallo. L’appalto è stato affidato all’associazione temporanea di imprese FCC ambito Treerre Sogeri che dovrà procedere alla rimozione e al trattamento di 257.000 tonnellate di fanghi per un importo complessivo di 60 milioni di euro. Giunge così a conclusione una vicenda che si trascina da 15 anni e che negli ultimi due, ha visto l’IAS impegnata in un complesso iter procedurale con il bando di gara europeo e ricorsi al Tar nonché al consiglio di Giustizia Amministrativo da parte di alcune società partecipanti alla gara.
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È un passo importante per il territorio – da dichiarato Raiti – l’inizio di una bonifica attesa da anni dai cittadini di Priolo Gargallo e della provincia di Siracusa tutta. Lo svuotamento delle due vasche oltre a rimuovere le migliaia di tonnellate accumulatesi nei primi 15 anni di attività del Biologico, consentirà di sviluppare in quel sito ulteriori progetti per garantire all’impianto un’autonomia energetica. In sinergia con il presidente del Consorzio ASI, Giuseppe Assenza, socio di maggioranza, abbiamo messo in moto una serie di iniziative per migliorare la qualità e l’efficienza degli impianti dati in gestione all’IAS. Mi corre anche l’obbligo – conclude il presidente Raiti – di rilevare come con lo stanziamento in bilancio di un tale impegno finanziario per la rimozione dei fanghi, i soci dell’IAS abbiano dimostrato che la salvaguardia dell’ambiente non è un concetto astratto, ma un bene da tutelare con atti concreti. Si prevede che tutta l’operazione avrà una durata di circa due anni, e si tratta del più grande investimento privato della provincia di Siracusa per la bonifica di un sito”.
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Casa e dintorni GIARDINAGGIO
Una pianta che è... un mito
IL VISCHIO Erano notti tranquille e stellate, ma qualcuno continuava a rigirarsi inquieto nel suo letto: Balder, dio della luce, era infatti da giorni tormentato dagli incubi. La consapevolezza di essere amato da tutti, non era sufficiente a scacciare l’immagine di certuni che volessero ucciderlo. Preoccupato, il padre Odino, dio della guerra, si recò allora in groppa al suo cavallo a otto zampe a Niflhaim, la terra dei morti, per conferire con la veggente Volva che gli rivelò il destino funesto del figlio. Tornato nella terra degli déi, Odino narrò alla moglie Frigg, protettrice dell’amore e degli innamorati, gli eventi appena trascorsi: la signora del cielo cominciò così un lungo viaggio attraverso tutti i paesi del mondo per far giurare a tutti gli oggetti del creato – aria, acqua, terra, fuoco, piante, animali, pietre e malattie – di non fare del male al suo beneamato Balder. Soltanto una piantina, che non sta né in cielo né in terra, venne ritenuta da Frigg tanto innocua da essere superfluo farle prestare giuramento: il vischio. Il dio Balder, reso invulnerabile, divenne però il facile bersaglio degli altri déi che si dilettavano a colpirlo per gioco con sassi, frecce, lance e spade. Tra tutti, solo un dio restava in disparte, infastidito dal gioco: Loki, dio della distruzione. Egli amava gli scherzi crudeli e così, mutate le sue sembianze in quelle di una vecchina, si recò da Frigg per farsi narrare quanto era successo a Balder. Fu l’inizio della fine: Loki si recò nel bosco e con un rametto di vischio costruì un bastone dalla punta affilata che donò al dio cieco Hoder, sfidandolo a colpire Balder. Hoder lanciò il bastone che colpì a morte Balder penetrando nelle sue carni. La madre Frigg pianse disperata sul corpo del figlio e le sue lacrime, a contatto con il dardo di vischio, si trasformarono nelle bacche perlate caratteristiche della piante e riportarono in vita Balder. Da allora si narra che Frigg baciasse per ringraziarlo chiunque passasse sotto l’albero su cui cresceva il vischio, che divenne quindi il simbolo della vita e dell’amore che sconfigge anche la morte. Da questa leggenda celtica, è giunta fino a noi la tradizione per una coppia di baciarsi sotto un ramo di vischio per garantirsi le nozze entro l’anno successivo.
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le leggende cristiane Esistono altre leggende legate alla pianta del vischio e farcite di una morale cristiana. La più famosa narra di un ricco quanto avaro mercante che nella sua vita aveva sempre anteposto il guadagno ai rapporti umani. Finché una notte insonne di dicembre, il vecchio mercante non decise di fare una passeggiata per le strade della città; cominciò a udire le urla di gioia dei bambini, ma non incontrò alcuno per strada, ed anche le tristi vicende familiari di persone che sfamavano a fatica i propri figli o di uomini soli che non avevano dimenticato un amore di gioventù. Resosi conto di quanta sofferenza e quanta gioia si nascondevano dietro le persone che vedeva tutti i giorni, cominciò a piangere e le sue lacrime si sparsero su di un cespuglio al quale si era poggiato, trasformandosi in bacche perlate. Era nato il vischio. Secondo un’altra leggenda pare, invece, che un tempo il vischio fosse un albero come tutti gli altri ma che prestò i suoi rami per costruire la croce dove venne crocifisso Cristo quando tutte le altre piante si erano rifiutate di collaborare. Fu allora maledetto e perse per sempre i suoi bellissimi rami. C’è anche chi assurge il vischio a simbolo di Cristo, figlio di Dio, proprio per la sua misteriosa nascita.
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È poco appariscente e di colore gialloverdognolo.
esposizione
Quando la pianta è giovane, deve essere esposta in pieno sole. In seguito può anche sopportare delle zone d’ombra.
propagazione
Avviene per seme e per poter crescere, al contrario delle altre piante, deve essere esposto in pieno sole. Potrebbero passare anche un paio di anni prima che dal seme si sviluppi la pianta.
potature
Eliminare solo le parti danneggiate.
Il Viscum Album è una pianta cespugliosa, sempreverde e parassita appartenente alla famiglia delle Viscacee. Cresce soprattutto su meli, querce, pioppi e noci, della cui linfa si nutre attraverso finte radici dette austori e, come tutte le altre piante, contiene clorofilla ed è in grado di compiere la fotosintesi; il vero handicap che spiega la sua natura di parassita è l’incapacità di ottenere azoto. Il vischio è caratterizzato da foglie oblunghe poste a due a due sui rami, lunghi tra i 40 e i 60 cm, che formano dei cespugli pendenti. Produce dei fiori gialli che sbocciano in primavera ed anche delle bacche sferiche (i frutti) bianche o giallastre, translucide e contenenti una polpa gelatinosa. Tali bacche sono notoriamente tossiche, pur contenendo composti tossici molto simili a quelli contenuti nelle foglie e negli steli che vengono invece impiegati in medicina nei trattamenti antitumorali e, sotto forma di tinture o infusi, come antipertensivo ed antiarteriosclerotico.
rubrica a cura di ICM Computer via delle Dolomiti, 19 RAGUSA www.icmcomputers.it
Si chiama WiMax la nuova tecnologia avanzata che fa risparmiare Il WiMax (Worldwide Interoperability for Microwave Access) è uno standard per le comunicazioni wireless che promette di ridurre sensibilmente i costi e aumentare la disponibilità delle tecnologie wireless a banda larga soprattutto in quelle aree del Paese che non sono state ancora raggiunte dalle tecnologie di accesso su cavo. Con una singola antenna il WiMAX consentirà di coprire un’area di 50 chilometri, con banda fino a 74 Mbps. All’interno di quest’area sarà possibile connettersi ad internet previo contratto con la società che ne gestisce il servizio. Attenzione però, la connessione WiMAX si basa sulla famiglia di standard IEEE 802.16 che è diversa da quella attualmente usata (IEEE 802.11) dai nostri notebook, PDA, smartphone ecc… In Europa, in Francia, Germania e Spagna già da diversi anni sono state lanciate offerte commerciali vantaggiose rispetto alle normali offerte adsl, mentre in Italia il lancio di questa nuova tecnologia è stata frenata in passato da un problema tecnico in quanto le frequenze su cui viaggia erano di proprietà del Ministero della Difesa e destinate a un uso militare. Le frequenze sono state vendute tramite un'asta regionale conclusa il 27 febbraio 2008 dopo alcuni mesi di trattative, che ha fatto incassare all’erario circa 136 milioni di euro. Dal 2008 lo sviluppo nelle varie regioni è stato graduale;
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ad oggi in quasi tutte le regioni sono state installate antenne WiMax: in Sicilia sono già presenti connessioni nelle provincie di Caltanissetta, Catania, Messina, Ragusa e Siracusa, ma la copertura è in continua e crescente espansione. Oltre alle utenze private e alle aziende potranno usufruire del WiMax i vari comuni che potranno stipulare accordi molto vantaggiosi per la cittadinanza con il gestore del servizio: • Abilitazione di molti servizi per la Pubblica Amministrazione, come la creazione di una rete interna di collegamento tra tutte le sedi degli uffici comunali dislocati sul territorio. • Installazione di Hotspot Wi-Fi pubblici che permetteranno l’accesso gratuito ad internet a cittadini e turisti. • Creazione di punti di informazione, touch screen, sia per il turismo, sia per la viabilità, sia per la sicurezza dei cittadini. • Possibilità di creare facilmente reti di videosorveglianza, di monitoraggio ambientale, di controllo delle discariche abusive. • Possibilità di gestire l’attività di prevenzione ed emergenza della protezione civile, la sicurezza del territorio, il monitoraggio della viabilità e del traffico. Per l’utenza siciliana il gestore di riferimento è la Mandarin s.p.a. Per maggiori informazioni sulle offerte al momento attive e per verificare la copertura è possibile contattare il call Center di Mandarin al numero verde 800198019 o visitare il sito internet all’indirizzo www.mandarin.it
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natur a mica
Rubrica a cura del dottor Corrado Cataldi, farmacista titolare dell’omon ima farmacia www.farmaciacataldi.com
L’INVERNO: quando il sistema Immunitario è messo a dura prova!
na delle scene più ricorrenti che si affaccia al nostro U “comune immaginario” è passeggiare per i viali sul cui limitare sono disposti decine e decine di alberi quali il tiglio, la betulla etc... e dove è facilmente percepibile la stagione invernale con il suo freddo, l’umidità, il soffice candore della neve e il fastidioso brivido che preannuncia l’arrivo di un malessere stagionale. Eppure avevamo messo il maglione “soffice” e “tosto” a cui eravamo tanto affezionati! Ma mettiamo per un attimo i piedi per terra e consideriamo come aumentare o rendere più resistenti le nostre difese immunitarie, o meglio, la propria capacità a resistere ad agenti esterni che provocano le malattie da raffreddamento, influenze, ecc... Per essere adeguatamente preparati è bene rivolgersi alla nostra
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“natura amica”, cercando in essa quanto ci può essere utile. Ogni singolo individuo ha di per sé un bagaglio immunitario tutto suo, frutto di una continua lotta tra il suo organismo e i molteplici attacchi sia esogeni, a causa di batteri, virus, etc... che endogeni. Il sistema immunitario si rigenera a ritmo continuo: in un minuto nascono e muoiono circa dieci milioni di cellule, i Leucociti, dette anche immunocompetenti, che partecipano alla difesa dell’organismo, muovendosi e attaccando gli ospiti indesiderati. Questi attacchi però, essendo sottoposti a molteplici regole e controlli, possono, in qualche modo, essere alterati. Basti pensare all’eventuale uso di farmaci, a particolari infezioni e allo stesso invecchiamento cellulare. Tenendo conto della
stretta relazione tra funzione immunitaria, sistema nervoso e ghiandole endocrine possiamo comprendere quanto sia facile alterare la risposta immunitaria stessa, predisponendoci, a causa di fatica, stress eccessivo e altro, a diventare vulnerabili ai germi patogeni: batteri, virus, funghi etc... È logico, quindi, adoperarci a rinforzare le difese immunitarie del nostro organismo! Nel caso in cui si voglia utilizzare un immunostimolante naturale, possiamo far uso dell’Echinacea (angustifolia, purpurea o pallida), la Propoli, l’Euterococco, la Pappa Reale, l’Uncaria Tomentosa, i Fermenti Lattici. L’Echinacea, pianta originaria del nordamerica, che in terapia viene utilizzata nelle diverse specie: angustifolia, purpurea e pallida. Risulta importante per la sua azione generale che si esplica con uno stimolo delle reazioni difensive e un aumento della resistenza all’aggressione dei germi patogeni. Ad uso locale sembra concretizzarsi un buon sinergismo d’azione con i farmaci antibiotici e chemioterapici. Studi recenti, effettuati in Germania, oltre all’azione stimolante hanno confermato un’azione antinfiammatoria. La Propoli, raccolta dalle api sulle gemme e sulle corteccie degli alberi e costituita da: 30% cera, 55% resine e balsami, 10-15% oli essenziali, 5% polline. Ha proprietà antiossidante, anestetizzante, battericida, immunostimolante, antivirale e antimicotica. Si utilizza sotto forma di spray orale, tintura madre, sciroppo e tavolette. È un rimedio eccellente nel caso di raffreddore, mal di gola, sinusite ma anche influenza date le sue proprietà antivirali. Se vi sono placche bianche alle tonsille si possono fare efficaci toccature con la tintura madre! Per i bambini vi sono specifici spray senza alcol oppure sciroppi e tavolette dolci che mascherano efficacemente il sapore della Resina. L’Eleuterococco o ginseng siberiano contiene eteroglicani, principi attivi che fanno assumere alla pianta un buon potenziale immunostimolante. Inoltre aiuta nell’affaticamento mentale e fisico, nella difficoltà di memoria e durante la convalescenza. Contiene i principi attivi adattogeni (eleuterosidi A, B, B1, C, D/E), una specie di glicoside nonché oleanolglicosidi (eleuterosidi I, K, L, M) che riducono lo stress, leniscono depressioni, aumentano la prestazione fisica e mentale senza turbare il sonno e la capacità di resistenza. Gli adattogeni sono in grado di ottimizzare la secrezione degli ormoni. Assunto regolarmente l’eleuterococco, viene considerato un elisir di lunga vita, rafforza il sistema immunitario ed equilibra l’energia. L’Uncaria Tomentosa, ha una azione immunomodulante ed immunostimolante, una spiccata azione antivirale, antinfiammatoria, antidolorifica, cicatrizzante, è un ottimo antiossidante ed antibatterico, è vermifuga, ricostituisce la flora batterica intestinale, purifica l’intestino, utile nelle ulcere, nelle gastriti, nella gonorrea, nella dissenteria, nella candida, nei parassiti intestinali, ha una buona azione in caso di artrite, di dolori reumatici, nelle nevralgie, nell’influenza, nel raffreddore, nei disturbi gastrointestinali. I fermenti lattici probiotici sono microrganismi capaci di migliorare la funzionalità della flora batterica intestinale ed orale. Soprattutto a livello intestinale, la presenza di una flora batterica attiva permette sia una perfetta eliminazione delle sostanze di scarto sia il mantenimento di una parete intestinale integra, in grado di impedire l’ingresso di batteri o virus nell’organismo, attraverso tale passaggio. L’uso quotidiano di questi fermenti lattici, impedendo l’ingresso di ospiti indesiderati aiuta a mantenere attive le nostre difese immunitarie. Da non dimenticare l’uso della vitamina C, utile anch’essa ad aumentare le difese immunitare. Per noi siciliani molto facile da ottenere dagli agrumi, reperibili in abbondanza. Pianta ricca in vitamina C e altre vitamine è anche la Rosa canina, utilizzata sotto forma di infuso o macerato glicerico 1 DH a cui va associato il Ribes Nigrum nelle medesime diluizioni (50 gocce in acqua). Natale, tempo di feste, di regali e di doni, la natura ne è prodiga... e non solo in questo periodo!