Coscienza Storica, vol. 3

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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da

Costantino Marco

MARCO EDITORE


Segretario di redazione Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso marcoeditore@tiscali.it

In copertina: (a sinistra) Martin Heidegge;, (a destra) Raffaello Sanzio, La scuola di Atene (Aristotele), 1509-1511 circa, Musei Vaticani

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Coscienza Storica Nuova Serie 3

La ricerca dell’Essere. Dalla metafisica classica al Grande Errore moderno

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LA RICERCA DELL’ESSERE DALLA METAFISICA CLASSICA AL GRANDE ERRORE MODERNO "Il gioco non può cominciare col dubbio" (L. Wittgenstein)

1. La particolarità del problema ontologico dello "spirito del tempo" moderno conseguente alla rimozione della dimensione del soprannaturale è lo sforzo di ridefinire sul piano dell’immanenza la struttura razionale del cosmo entro una prospettiva totalmente umanistica. Avendo soggettivizzato il "luogo" della realtà mondana, portandolo dal "creato" (oggetto) al "creatore" (soggetto), la filosofia moderna doveva risolvere il problema della definizione dell’Unità logica del mondo (tradizionalmente, Dio) entro la dimensione fenomenica del Molteplice, ossia entro il nuovo orizzonte fondamentale dell’esperienza del Soggetto; sia del pensiero (della coscienza individuale), e sia della prassi (del contesto storico-sociale). Alla luce del Moderno, l’uomo diventa il centro di esplicazione e di manifestazione dell’ordine cosmico. L’ordine umanistico è un ordine manifesto, fenomenico, la cui visibilità, rispetto all’evidenza eidetica classica, è "comune", ovvero, come dirà Husserl, "ingenua", legata al Mondo-della-vita, che rappresenta lo scenario fenomenico entro il quale si determina ogni idea dell’uomo. Vi è da dire che, nonostante la diversità delle visioni antropologiche che si sono nel frattempo registrate e succedute nella storia della cultura umana (da quella teologica a quella filosofica fino a quella scientifica), anche nel Moderno manca "una visione unitaria dell’uomo".1 Visione unitaria vuol dire definizione razionale, essenza, logos. La "parola", quale "fenomeno originario", costituisce il presupposto significativo [e] pertanto anche uno strumento fondamentale per poter conoscere ogni "storia", che, come tale, si distingue completamente Ved. a proposito M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), tr. it., Roma, 1997, pag. 117. 1

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dall’obiettiva successione temporale degli avvenimenti. La storia infatti è una continuità di coscienza e di significato istituita nel corso dell’essere e del divenire, in virtù della parola. Ed è appunto perché costituisce essa stessa tutta la "storia" che la parola non ha una "storia", e nessun "ponte" o "passaggio" la unisce alla cosiddetta storia naturale.2

La parola non è una mera rappresentazione, un’espressione o un pensiero, ma "indica" la cosa, cioè la "significa". Ed il significato che, cogliendo il contenuto oggettivo della cosa, ad unire i parlanti. La parola, dunque, è la mediazione spirituale-oggettiva, reale-ideale, tra gli uomini. Solo in essa si può risalire all’Unità, superando nel dialogo la Molteplicità degli enti fenomenici, il mondo della finitezza. Il logos trascende dunque la realtà finita inserendo in essa l’infinito, l’ideale. Hegel definisce appunto "idealismo" quel pensiero che afferma che "il finito è ideale"3 Questa posizione teoretica distingue la nuova logica dialettica dall’antica, compresa quella della metafisica cristiana, ancora intellettualistica e perciò anch’essa legata all’idea di un "falso infinito" che stia accanto al finito, come due entità "particolari", divise da un "abisso, un baratro invalicabile".4 La posizione di Hegel intende manifestamente superare il dualismo ontologico finito-infinito, avallato dalle religioni rivelate, le quali "per il fatto che separano e delimitano sempre più nettamente un campo di fede ‘soprannaturale’ affermandolo assolutamente perfetto e imperfettibile, proprio per questo diventano le indirette precorritrici del razionalismo scientifico-positivo", sospingendo "l’energia del pensiero umano sulla via della ricerca esatta", la stessa via del "pensiero pragmatico-tecnico".5 Mantenendosi sul piano della Molteplicità della realtà finita, ed eliminando il problema dell’Unità dialettica del Reale, ossia riducendo l’Essere alla sua realtà fenomenica, è possibile stabilire al posto dell’unità dialettica, un nesso razionale di tipo causale tra i fenomeni, tale che la sua metodica applicazione conformi, col mondo della conoscenza, la stessa vita sociale in un unitario processo di razionalizzazione che costituisce l’essenza del mondo moderno. E M. Scheler, Sull’idea dell’uomo (1914), tr. it., Roma, 1997, pag. 63. F. G. Hegel, Scienza della Logica, tr. it., Bari, 1924, vol. I, pag. 169. 4 F.G. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it. di Croce, Bari, 1907, pag. 100. 5 M. Scheler, Sociologia del sapere (1924), tr. it. parz. di D. Antiseri, Roma, 1966, pag. 143. 2 3

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poiché, come ha affermato lo stesso Hegel, la visione unitaria del mondo è l’oggetto proprio delle concezioni religiose, Weber per primo ha distinto fra esse quella che ha consentito storicamente la riduzione ontica e conseguente razionalizzazione della vita sociale in senso scientifico causalistico. Hegel non si avvede che la posizione filosofica, che è la posizione della "ragione", la quale affermando che l’essere infinito nega il finito, il suo non-essere, è una posizione che ha una sua doverosità ("realizzare il principio dell’idealismo") solo nell’ambito della stessa ragione, ossia nell’orizzonte della propria infinità, del suo essere. Ma la stessa e opposta affermazione d’essere può ritrovarsi nell’ambito dell’intelletto, entro il cui orizzonte ontologico ciò che "è" appartiene all’essere finito. E infatti la posizione di Engels e di Marx è consistita nell’assolutizzare "dialetticamente" entro il finito quanto Hegel aveva "dialettizzato" entro l’infinito, assumendo come "cattiva infinità" quella idealistica (di "testa") e, viceversa, come "vera infinità" quella del mondo reale storico-sociale. La soluzione idealistica di Hegel è speculare dunque alla soluzione materialistica marxiana, ed entrambe unilateralmente assolute e perciò astratte. Resta oltremodo significativa l’analogia stabilita da Hegel tra la filosofia e la religione quando afferma che entrambe non riconoscono "la finità come vero essere",6 per cui possiamo estendere alla sua teoresi quanto Scheler ha giudicato delle religioni rivelate: di aver consentito il "rovesciamento" materialistico della logica dialettica nella prassi come programma di assimilazione totalitaria. Anche Marx, infatti, reclamava la sua dialettica come quella "vera", e il proprio metodo come quello autenticamente scientifico e contrastante l’impostazione mitica del pensiero, che a suo dire era rimasto il retaggio metafisico dell’idealismo hegeliano. L’affermazione di Hegel, per cui "il finito è ideale", non riconoscendo "il finito come un vero essere", identifica non soltanto l’Essere (vero), ma anche l’ente (l’essere finito) con l’Idea, facendo del fenomeno molteplice un assoluto, privo di interna opposizione, ossia astratto dal suo divenire, dal negativo rispetto all’essere (poiché il divenire si oppone a ciò che "è"). L’affermazione che "il finito è ideale" dà già come risolta l’opposizione interna al finito molteplice a favore della sua identità con l’Essere, con quell’Infinito a cui il finito dovrebbe opporsi, e non identificarsi. L’elemento negativo dell’opposizione interna all’Idea, rappresentato dall’Intelletto, può essere superato nel 6

F.G. Hegel, Scienza della logica, cit., pag. 170.

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processo dialettico solo se è opposto al suo astratto positivo, anch’esso oggetto dell’Intelletto. Infatti, è l’Intelletto che distingue gli opposti, che "idealizza" le opposizioni astraendole dal loro concreto divenire. Idealizzare e distinguere sono dunque la medesima operazione dell’Intelletto. E poiché non può essere un infinito accanto ad altro-dasé (al finito o a un altro infinito), che così lo negherebbe e lo limiterebbe, perché un Infinito possa divenire l’unico Infinito, l’Infinito appunto, esso deve distruggere l’altro, che giudica finito, negarlo come finito e assimilarlo alla propria infinitezza ideale, risolvendo così le opposizioni reali nel Sé assoluto. Un astratto opposto idealizzato, cioè assolutizzato, diventa esso stesso un’Idea che si oppone all’Essere, l’idea del Nulla, o della finitezza. Ma questa Idea del Nulla, opponendosi all’Idea dell’Essere, in realtà coincide col suo essere Idea, col suo essere Uno. E nella sua unità l’Idea è dunque indistinta in quanto opposta alla distinzione propria dell’Intelletto. Essa "è" e insieme "non-è": è indistinta, cioè indeterminata. Secondo quanto ci dice Platone nel Fedone, l’Idea, in sé, non cambia la sua natura per il fatto di accostarsi al suo contrario, e perciò "non può mai diventare il suo contrario" (103 b). Ciò significa che l’Essere rimane Essere anche se si trova nel non-essere (103 a). "L’anima è ciò che dà vita al corpo" (105 c) ma non è la vita, bensì "la natura della vita" (107 d), cioè la sua essenza, la sua Idea. E poiché la vita può essere accostata alla morte, l’Essere al non-essere, senza identificarsi il positivo con negativo, l’Essere (la vita, l’Idea) non "è" negatività ma alterità. L’alterità equivale alla negatività relativa al suo opposto, per cui l’Essere "è" solo nel rapporto con l’altro, col non-essere, mentre in sé è indeterminato, per cui, come Idea, l’Idea dell’Essere e l’Idea del non-essere sono identici. La loro relativa opposizione è esistenziale, per cui la vita non si identifica con l’Idea della vita, ma "è" in rapporto alla morte, alla non-vita, al non-essere sé. L’Essere, dunque, nella situazione dialettica non si identifica con il non-essere, e questo nonessere, essendo reale rispetto all’Idea, non è una negatività assoluta, non è il Nulla, ma la condizione di mancanza, che Platone chiama "eros". Il bisogno dell’Idea fa nascere un problema essenziale. Infatti, se fuori della dimensione esistenziale l’Idea dell’Essere e l’Idea del nonessere, in quanto idee sono identiche e cioè Uno, il bisogno erotico è indistintamente bisogno dell’Idea dell’Essere quanto dell’Idea del non-essere, dal momento che esse sono la stessa Idea. Da qui l’apparente paradosso socratico per cui sapere e non sapere sembrano lo stesso. 8


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Nel Cratilo Socrate si chiede chi sia il filosofo dialettico, e risponde dicendo che è "colui che possiede l’arte di interrogare e di rispondere", dove i due termini dialettici (il socratico domandare e il platonico rispondere) sono congiunti. Ma non sono identici. Infatti, la situazione negativa o aporetica non-è sapere, ma disposizione al sapere, possibilità di "vedere" la verità. L’eidos è la visione. Per i Greci la verità è visiva. La situazione aporetica consente di "vedere" la visione delle essenze, cioè di sapere. La conoscenza è dunque la condizione per cui si è in grado di vedere la verità. Tale possibilità nasce dalla consapevolezza che l’interrogante ha di non sapere, di non essere in possesso della verità. È la mancanza dell’Essere nel divenire, che si presenta dunque come non-essere. Come dice bene Paci, la situazione aporetica è dunque collegata al prendere coscienza del fatto che colui il quale, domandando, è nel divenire, si trova in una particolare modalità del non essere. Le sue risposte, fin tanto che resta nell’ambito del non essere, sono risposte di colui che non sa. […] In quanto si trova tra domanda e risposta la situazione aporetica si presenta come situazione dialettica.7

Da rilevare che, non identificandosi la domanda con la verità, la quale non è in possesso dell’interrogante, la risposta non può essere immanente alla domanda, ma si pone come possibilità. L’essere è presente nel non essere "indirettamente": se non fosse così, se cioè fosse presente in forma positiva, si identificherebbe col non essere e quindi non sarebbe più essere ma non essere [per cui la situazione dialettica è] caratterizzata dalla non identificazione dell’essere col non essere o del non essere con l’essere.8

Ovvero, come conclude il Sofista, "il non essere non è il contrario dell’essere ma l’altro dall’essere", cioè il negativo. L’altro, il negativo, è presente nell’Essere, ma non si identifica con l’Essere stesso. Platone distingue tra un non-essere come negazione pura e semplice dell’Essere (aut-aut), e un non-essere come presenza indiretta dell’Essere nel negativo (indiretta in quanto permette all’Essere di essere presente nel negativo senza diventare un Nulla: etet). La soluzione platonica è che il non-essere non è pura e totale 7

E. Paci, La dialettica in Platone, in Aa. Vv., Studi sulla dialettica, Torino, 1958, pag. 19. 8 Ibidem.

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negatività ma ha un suo essere. L’essere del non-essere è appunto l’ alterità. La dialettica platonica presume l’essere del non-essere, cioè la realtà come esistenza finita, che invece era negata dai sofisti e da Parmenide, per i quali il non-essere non avrebbe una sua realtà. Il dialogo socratico è appunto il luogo dinamico dove si manifesta l’unità della ricchezza dell’Essere nella povertà del divenire. L’affermazione del divenire è la realtà della vita, la quale diviene come processo verso la morte, il suo opposto. Ma qui si annida l’errore platonico, di un pensiero che "sceglie", cioè definisce, la vita come Essere, anziché come divenire degli opposti, per cui il divenire, da concreta unità dialettica degli opposti, diventa il polo dialettico negativo, un’astrazione. Un’astrazione che richiama un’altra astrazione. Se il divenire è l’astratto negativo, anche la vita, che è il positivo, è un Essere astratto, la cui concreta positività, non essendo l’unità immediata dei due opposti, è un terzo elemento, sintetico, che Platone non definisce, ma che è necessario a riempire il vuoto che separa Pòros da Penìa, il sapere dal non-sapere, l’interrogante da chi risponde. Questo ponte, questa mediazione tra gli opposti che si confrontano nel dia-logo è appunto la parola, il logos razionale, ovvero la filosofia come dialettica dell’Essere e del non-essere. L’Essere, cioè l’Idea della vita, è la vita senza la morte, una realtà senza negatività. L’Idea è l’opposto del vivere come processo in divenire; è l’eternità. Il vivere è invece la vita che tende alla morte, al suo opposto, e la morte che produce la vita. Ciò vuol dire che l’Idea è l’ipostasi di una vita astratta dalla sua realtà vivente, dal suo divenire, e pensata come contrario del suo astratto negativo, la morte. La vita vivente, avendo in sé il suo indistinto opposto, è la realtà concreta che diviene, non è. Solo l’Idea è, ed è il suo astratto essere a renderla infinita. L’Idea della vita è l’astrazione della vita dal divenire, così come l’Idea della morte è l’astrazione della morte dal divenire, così che, come l’Idea della vita e l’Idea della morte coincidono nell’unità indistinta dell’Idea, l’essere della vita e l’essere della morte coincidono esistenzialmente nello stesso fenomeno. L’una (la vita) non è l’opposto dell’altra (la morte) se non astrattamente, come Idea. La loro opposizione è ideale, non reale. Nella realtà, vita e morte coesistono indistintamente, per cui l’esistenza è contraddittoria, avendo in sé la vita e la morte. A ragione di tale natura contraddittoria, la realtà fenomenica, l’esistenza concreta, può sussistere come ente "in sé". Perché allora "desidera" l’Idea? Perché desidera liberarsi del suo negativo, del suo opposto avvertito come negativo, come limitazione della sua possibilità d’essere positivo, cioè della sua finitudine, intesa 10


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come un indistinto divenire e mancanza d’Essere. Come gli dèi omerici invidiavano la finitezza umana, così il finito anela all’Infinito essere assoluto. La vita vuole solo vivere, e non anche morire vivendo. L’anima vuole liberarsi del suo corpo mortale e diventare immortale, Idea appunto. Ma diventare Idea significa morire alla vita reale, e quindi finire di essere ciò che si è per diventare ciò che non si è. Ciò implica che la dimensione negativa del processo dialettico, del divenire, la contraddizione, non può abbandonare mai l’Essere reale in quanto "reale", cioè in quanto esistente, perché la natura esistenziale dell’Essere reale, è il divenire, e perciò l’ente è ontologicamente contraddittorio. E dunque, poiché la contraddizione è "reale", la sua liberazione è possibile solo idealmente. E idealmente viene distinto e opposto ciò che nella realtà è indiviso e congiunto. L’Idea "è" la realtà privata della sua opposizione. 2. L’idealizzazione è un’attività della conoscenza consistente nella riduzione della "Realtà", ossia del divenire, in elemento della conoscenza, cioè in "oggetto" della coscienza. La Realtà viene sostituita con l’oggettività, ossia il divenire del fenomeno con la sua Idea. La natura dell’Idea è l’indeterminatezza, per cui il suo contenuto "oggettivo" può riguardare l’essere come l’opposto non-essere del fenomeno, ed essere perciò un contenuto "soggettivo". La semplice "oggettività" della conoscenza, ossia l’assunzione del fenomeno a oggetto della conoscenza, a oggetto della coscienza, non ne garantisce l’esistenza, ossia la sua "realtà" esistenziale, poiché l’apparenza del fenomeno concreto è soltanto un elemento della sua concretezza, che è il suo divenire. La "realtà" del fenomeno è la sua attualità, la quale, nel concreto divenire, costituisce l’oggetto astratto della coscienza eidetica, della conoscenza ideale. Questa conoscenza, ossia, lo ripetiamo, questa assunzione della realtà fenomenica a oggetto della coscienza, può avere ad oggetto l’"essere" positivamente reale, cioè il fenomeno nella sua astratta attualità, così come può avere ad oggetto l’inattualità e l’elemento negativo del fenomeno in divenire, ossia l’elemento che "fenomeno" non-è, ma "è" anti-nomico. L’antinomia del fenomeno è la sua inattualità. Da ciò consegue che l’"essere" del fenomeno, la sua idealizzazione, è "in sé", come mero oggetto della coscienza, un essere esistenzialmente indeterminato nello stesso senso in cui, dal punto di vista dell’Idea, "è" determinato come essere ideale. Platone pensava che il divenire non avesse un suo principio d’essere, un principio di vita, per cui abbisognasse prendere il suo senso 11


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dall’Idea, a "vederlo" in essa, per cui nell’Idea, nella "visione" (eidos) si specchia una realtà "più vera" di quella reale in divenire. La verità è dunque intesa come immobilità contrapposta al divenire dell’essere reale. La verità eidetica è una visione della realtà "altra" rispetto a quella in divenire. L’alterità è la sua indipendenza. Non si "possiede" la verità, non la si può perciò manipolare, trasformandola in altro-dasé, cioè nel suo negativo, nell’errore. L’essere proprio della verità è di non partecipare al movimento del divenire, ma di essere appunto altro, che è e non diviene. Ma poiché l’Idea è in sé indeterminata, la sua determinazione formale dipende dalla finitezza del divenire, e in questo senso l’Idea stessa è presente nel divenire, ma non ne è "posseduta": è come altro. Se infatti l’idea fosse posseduta non sarebbe più l’essere presente nel divenire senza ridursi al divenire, non sarebbe più l’essere presente nel non essere senza ridursi a non essere, e quindi non potrebbe essere più se stessa. Ciò significa che c’è un essere del non essere, che c’è un essere come alterità e che proprio l’essere come alterità caratterizza la situazione dialettica come situazione erotica.9

Ma cosa consente all’Idea di essere altro dal finito? La negazione. E’ la negazione la condizione della sua alterità, per cui se l’Idea non è posseduta o non possiede l’ente è perché nell’ente è compresa la negazione che non-è l’ente. La negazione che è nell’ente come Idea, rende impossibile l’identità del suo essere ente con l’Essere dell’Idea, che non-è l’ente ma il suo opposto. Ed è questa alterità che impedisce sia all’essere dell’Idea che all’essere dell’ente di essere Tutto e di distinguersi. Hegel corregge la tradizione platonica (e cristiana) della concezione del negativo come finito, nel senso idealistico del suo essere ideale, per cui l’elemento che non-è sensibile è ideale. L’ideale diventa per Hegel l’essere vero rispetto al falso non-essere sensibile e l’unico essere, appunto ideale. La vera realtà delle cose finite è dunque per Hegel la loro essenza ideale. Se il finito ha per essenza l’"altro" da sé, per essere veramente – o "essenzialmente" – sé, esso non dovrà essere più sé – cioè il sé che è in "apparenza": finito – ma l’"altro". Il finito "non è" quando è veramente finito;

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E. Paci, Loc. cit., pag. 24.

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viceversa "è", quando non è finito ma infinito. "E’" quando "non è", è "sé" quando è "l’altro"; nasce quando muore. Il finito è dialettico.10

Da qui la conseguenza che è servita al marxismo a "rovesciare" la Versöhnung di Hegel della assimilazione della Realtà alla Ragione in senso materialistico, respingendo la declinazione idealistica (il "sistema") del metodo dialettico per acquisire il solo "nocciolo razionale" avvolto dal metafisico "guscio mistico". Ma questa conseguenza non è logicamente necessaria, in quanto l’affermazione dell’"altro" al posto del "sé" è concepita come esclusione del "sé", il quale si perde per affermarsi come "altro". È il senso della conversione religiosa come negazione di sé in Dio, come morte trasfigurante. Questa modalità di trasfigurazione della realtà finita è in realtà una rimozione della finitezza per l’essenza. Ciò comporta che l’affermazione dell’essenza elimina dal divenire il negativo, trapassa in positivo, ma non vi convive in relazione dialettica. La Versöhnung, più che una "conciliazione", è una assimilazione dell’altro al sé. Dove c’è l’uno non c’è l’altro. Il dialogo viene assorbito dal monologo. Il Signore ha ucciso il Servo, e affermare che il morto era "suo" non toglie che il vivo sia rimasto solo. La relazione dialettica comporta invece che entrambi rimangano in vita perché si stabilisca il loro rispettivo e correlativo ruolo ideale ed esistenziale. Dove c’è "passaggio", in qualunque direzione, dall’al di qua all’al di là o viceversa, non c’è relazione. La relazione è dialettica, il passaggio è trasformazione; logica del finito, azione causale, intellettualismo, anziché ragione. Metabasi. Se – per riprendere l’analogia religiosa – l’uomo muore in Dio, c’è solo Dio; se viceversa è Dio a morire, resta il solo uomo. Ed è quanto avvenuto appunto con l’integralismo religioso e, all’opposto, con l’umanesimo ateo moderno. Perché sussista un rapporto dialettico, l’uomo deve stabilire un rapporto dialettico con Dio restando uomo. In termini logici, l’essere del finito non può mai concepirsi come negativo se non in relazione all’essenza che lo trascende in senso dell’infinitezza. Se l’infinito, che è altro dal finito, contenesse il finito, questo non potrebbe sussistere, e perciò l’idealismo lo nega assimilandolo al sé dell’Idea, all’infinito. Ma proprio perché l’infinito non contiene il finito, non può cambiare la sua natura finita, se non assimilandola appunto alla sua natura infinita, trasformando l’altro in altro-da-sé. Come può il finito reale trasformarsi in infinito ideale 10

L. Colletti, Il marxismo e Hegel, vol. I, Bari, 1976, pag. 168.

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senza perdere la propria finitezza, cioè la propria realtà? L’astrattezza dell’idealismo, speculare a quella del materialismo, consiste nel non distinguere la finitezza dalla realtà, e di considerare la realtà (esistenziale) come finitezza (ideale). La finitezza è ideale, e non esistenziale. L’esistenza reale diviene, non è; il suo essere è appunto nel senso della finitezza, cioè in senso ideale. La logica di Hegel (e di conseguenza quella di Marx) identifica l’idea di finito, la finitezza, con la realtà ontica delle cose finite, e volendo intervenire trasforma, anziché l’Idea, la cosa, e volendo annullare la sua essenza, annulla la sua esistenza. Il finito è un momento interno all’Idea, il suo momento negativo, il suo non-essere Idea, ma appunto ente finito. Il suo oggetto. Ma, in realtà, il finito che è oggetto dell’Idea non è l’ente nella sua realtà concreta, che è contraddittoria, ma l’essere dell’ente disgiunto dal suo opposto antinomico, astratto cioè dal suo divenire. L’essere, in quanto è, è sempre ideale, cioè astratto dal suo divenire e dalla contraddittorietà del reale. Come abbiamo visto, il finito reale è il fenomeno, non la Realtà come Tutto; ossia l’attualità dell’ente che appare come essere dell’Idea, come sua determinazione finita. La Realtà, cioè il processo contraddittorio del divenire, contiene l’essere, cioè la determinazione dell’Idea, come negativo rispetto a sé, al suo processo diveniente che l’Idea appunto nega col suo essere sé stessa. Come la parola stessa sta a indicare, il divenire della Realtà è il suo essere (ideale) che è come niente rispetto all’ente. Il ni-ente rispetto all'Essere lo abbiamo chiamato Essere-Non, per indicare la sua astratta realtà ideale, opposta all'Essere. Per trasformare l’ente che è in altro da sé, cioè in divenire, l’Idea non può intervenire sulla Realtà se non come negazione. Il divenire dell’ente, dal suo essere attuale, che è il fenomeno oggetto del giudizio, al suo essere possibile, ossia al suo non-essere attuale, al suo non-essere fenomenico ma antinomico, passa solo attraverso la negazione dell’essere dell’Idea, della sua finitezza, nel non-essere dell’Idea, cioè nella sua indeterminatezza. Ciò vuol dire che la negazione del finito (ciò che è) da parte dell’Idea si realizza affermando il sé dell’Idea, cioè la sua indeterminatezza, la quale, rispetto alla determinatezza finita di ciò che è (attuale, cioè fenomeno), diventa possibilità (inattualità). Come abbiamo visto, Platone non pensava che il divenire avesse un suo principio d’essere, per cui abbisognasse di prenderlo dall’Idea. Ma poiché l’Idea in sé è indeterminata, la sua determinazione reale è relativa alla contraddittorietà del divenire. Ciò vuol dire che il 14


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divenire, la Realtà contraddittoria, può contenere l’Idea determinata, l’Idea che è in quanto si determina come essere, come negazione di sé, del divenire. Il destino dell’Idea è di essere come negazione del divenire, e quindi di essere, di determinarsi, come opposto del divenire, come negazione della Realtà che a sua volta è. La determinazione dell’Idea come negazione del divenire, negando la finitezza del reale come finito, nega sé stessa come Idea del finito, cioè come infinitezza, per cui ciò che essa nega veramente non è il divenire, nel quale l’Idea si pone come Idea determinata, ma nega la finitezza del divenire, ossia la determinazione ideale contenuta nella Realtà. In questo senso, sia la finitezza che la negazione della determinazione ideale, sono la stessa Idea che diviene, ossia che si determina ora come essere e ora come non-essere della Realtà. Ciò comporta che il divenire reale in realtà è un divenire ideale. E poiché una Realtà che non sia reale ma ideale è una non-realtà reale ma una realtà ideale, la realizzazione dell’Idea è in sé contraddittoria, in quanto non sarebbe possibile negare l’opposizione rimanendo sul piano della realtà, e volendo negare la Realtà nel senso della idealità, si dovrebbe comunque negarla come Realtà. La verità, dunque, è nella distinzione e nella alterità ontologica dell’Idea dalla Realtà. Da qui discende che la natura dell’Idea, la sua indeterminatezza, non è alterabile ontologicamente, cioè non è disponibile al pari della realtà pratica, ma solo rappresentabile come se fosse reale. L’indisponibilità dell’Idea è la sua libertà, così come la sua indeterminatezza è la sua necessità. Questa sua natura, ideale, è altra rispetto alla natura finita, e come tale non riducibile ad essa se non come determinazione astratta dalla indeterminatezza, dalla sua alterità. Ogni affermazione dell’essere dell’Idea, cioè ogni determinazione, non può non rapportarsi al negativo rispetto al quale l’essere determinato è. Che cosa è il negativo che si oppone all’essere? E’ la sua finitezza, cioè il negativo idealizzato, l’Idea del negativo o del finito. Il movimento verso l’essere, dice Platone, è la poiesis, che è quindi la causa (aitìa) del movimento (Simposio, 205 c). Divenire come poiesis e aitìa sono dunque lo stesso. La totalità, in quanto diviene, non è univoca, poiché la contraddizione è il movimento stesso del divenire, e perciò ineliminabile. Per questa ragione Platone pone la discussione come la via per giungere a qualche accordo sull’Essere. Questa via, per Aristotile diventa metodica. Lo Stagirita introduce un ideale di sapere che, attraverso mezzi procedurali determinati come necessarii, i sillogismi, trasforma il discorso dialettico in discorso sillogistico, in argomento scientifico. 15


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È a questo punto che il filosofo prende le distanze dal dialettico, diventando esponente della ragione soggettiva. Se il dialogo dialettico è un confronto che presuppone sempre un interlocutore con cui comunicare, il filosofare in senso aristotelico è svolgimento logico che parte da premesse la cui verità s’impone da sé e si sviluppa per deduzioni solitarie, che non necessitano di un contraddittorio. Se la discussione dialettica partiva da dati comuni agli interlocutori ma rimaneva aperta circa le conclusioni, non avendo termine, e quindi non portava ad alcun accordo, lo sviluppo sillogistico partiva da una premessa apodittica, l’intuizione intellettuale, e procedeva descrivendo la struttura necessaria del reale, cioè i presupposti oggettivi di un accordo che non necessita di alcuna discussione ma solo di regole procedurali logiche. La discussione, nel procedimento apodittico, può vertere solo sulle premesse del sillogismo, le quali, se rifiutate, dànno origine a conclusioni diverse da quelle derivate dalle premesse altrimenti asserite. Occorre dunque un compromesso iniziale circa le comuni premesse. Alla sicurezza logica offerta dalle regole del metodo del ragionamento sillogistico, che sono necessarie, corrisponde l’aleatorietà e opinabilità delle premesse, che potendo essere arbitrarie possono portare a conclusioni anche contraddittorie. Da qui il ricorso agli éndoxa, ossia alle proposizioni comunemente condivise o condivise dai sapienti più noti. Ci sono dunque due tipi di argomentazione dialettica: uno organizzato su un discorso opinabile, in quanto costruito su premesse non apodittiche; l’altro tipo è la dialettica scientificamente costruita su premesse (ritenute) inopinabili. Questa dicotomia resterà nel corso del tempo il carattere distintivo all’interno del pensiero filosofico di ciò che attiene alla scienza metodica, che lascia aperto il fondamento delle sue premesse concentrandosi sulla necessaria consequenzialità logica, e ciò che attiene invece all’indagine puramente discorsiva, che, seppure fondata su certezze condivise, non offre alcuna garanzia di necessario rigore logico, sospesa com’è al libero convincimento delle parti. La questione del fondamento, come vedremo, è essenziale per comprendere il carattere del pensiero contemporaneo, che ruota appunto intorno a questo perno problematico. Poiché ogni definizione del fondamento, come Essere, viene contesa dalle opposte posizioni dell’idealismo e del materialismo, a un certo momento si è pure tentato di cogliere la Realtà nella sua interezza contraddittoria con una speciale facoltà, l’intuizione, senza peraltro addivenire ad alcuna sicurezza ontologica, per la contraddizione insita nella stessa pretesa, 16


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dell’idealismo di trasformare la Realtà diveniente in oggetto della conoscenza, e del materialismo di risolvere nel rispecchiamento della prassi ogni conoscenza della Realtà, risolvendo quindi il divenire nell’Essere, ovvero l’Essere nel divenire. L’asserzione hegeliana per cui "il finito è ideale" include già l’idea che il mondo fenomenico, rispetto all’essere ideale, è il niente. Ma questa affermazione contiene la preferenza accordata all’essere come elemento ideale universale e infinito, rispetto al suo opposto, che deve esser quindi annullato perché non lo limiti. Tale preferenza, se concordata, ci conduce alla via dialettica platonica; se invece apodittica, ci lascia nella indeterminatezza del fondamento che caratterizza il metodo aristotelico. Se l’infinito della ragione, come asserisce Hegel, è "l’intero", dove gli opposti coincidono, è ragionevole che l’essere prescelto, nella sua interezza, debba annullare ogni opposizione per farla coincidere con sé, con la sua affermazione d’essere. Se chiamiamo questo intero infinito Idea, definiamo questa Idea come l’Essere che contiene sia l’elemento positivo, cioè la sua determinazione come ente finito, fenomenico, che la sua negativa indeterminatezza, cioè la sua possibilità. In questo senso, però, l’Idea può attualizzarsi nel fenomeno attraverso il pensiero intellettivo, quello della scienza, ma può anche affermare la sua indeterminatezza idealizzando il possibile, attraverso il pensiero mitico, quello dell’arte. Se l’essenza dell’Idea è vista attraverso la realtà dei fenomeni, organizza un discorso metodico di tipo scientifico; ma se l’essenza dell’Idea, si definisce come realtà antinomica, altra dall’Essere, organizza un discorso fantastico di tipo mitico. L’Idea, trascegliendo una sua fisionomia essenziale, interrompe il divenire concreto universalizzando uno dei due elementi del dualismo ontologico, che sono alla base dei momenti della contraddizione ideale-reale. Se universalizza l’essere fenomenico, l’intelletto pensa il Molteplice, il cui processo fenomenologico è la Storia; se invece universalizza la possibilità come Idea d’essere inattuale, o non-essere fenomenico ma essere antinomico, l’intelletto pensa il Mito. La Storia e il Mito sono i due aspetti idealizzati della Realtà, astratti dalla concretezza del divenire. Affermare che l’Essere è, dal punto di vista dell’oggettività dell’Idea, equivale ad affermare che l’Essere non-è, poiché sia l’Essere che il non-essere appartengono all’Idea. Solo l’astratta identità dell’Idea con il suo oggetto, negando l’opposto, nega la concreta realtà del divenire. 17


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E ogni negazione, essendo affermazione, è prodotto dell’intelletto, e non della ragione dialettica. Hegel trasforma il finito in opposizione all’infinito, come si è visto, ma interpreta l’infinito come "Essere" e il finito come opposto "nonessere", per cui, come egli afferma, "il non essere del finito è l’essere dell’assoluto".11 In altri termini, l’opposizione Hegel la intende come esterna all’ente, come Idea, e non come elemento interno all’ente, che perciò diviene. Ma l’essere dell’ente è già l’Idea nella sua astratta determinazione, e perciò non è l’essere concreto (che né è né non-è ma diviene), ma è il fenomeno, e il fenomeno, nella sua astrattezza non può essere reale nel senso della concretezza, ma è ideale in quanto momento astratto del divenire. Il divenire, ossia il passare degli enti da una ad altra determinazione ideale, è la realtà del Molteplice, dove l’una cosa e l’altra sono nello stesso senso equivalente che l’una è l’altra. Il Molteplice è la realtà dove gli enti vagano privi di identità propria, mutandosi l’uno nell’altro alla ricerca di una determinazione di sé. Questa ricerca del sé, della propria identità, è ciò che Platone ha chiamato il bisogno erotico dell’Idea, ossia il bisogno che l’ente ha di trascendere la propria indistinta finitezza e assurgere a una determinazione ideale che lo strappi dal suo destino di infinito trapasso nell’altro. La fine del Molteplice è il fine dell’ente: di essere altro dagli altri, altro dal Molteplice, e cioè Uno. Il con-fine del Molteplice e dell’ente è l’Uno, dove l’ente determinandosi come sé si annulla nell’Idea di sé. In questa opposizione di Essere e di Nulla si inserisce il medium del pensiero come "conciliazione" (e non confusione) degli opposti: come Versöhnung. La scissione o astrazione dell’Essere dal suo non-Essere provoca, per analogia dell’opposto da sé col suo sé - essendo ogni Idea uguale a se stessa, cioè appunto un universale l’universale -, la positivizzazione anche del negativo, il cui "essere" era immanente all’ente reale in divenire come possibilità. Il dualismo denunciato da Hegel e operato dall’intelletto, non potrebbe distinguere l’Essere dal non-Essere se non identificasse l’essere con la sua Idea. In tal senso, l’affermazione dell’essere, scisso dal suo opposto non-Essere, è affermazione dell’Idea come determinazione ideale-reale. Dell’Idea come Essere. Ciò vuol dire che è l’ente, nella sua concretezza originaria, a determinare il contenuto dell’Idea, che in sé è indistinta, come "Essere" anziché "Niente"; ma è lo stesso ente, concreto, non in 11

F.G. Hegel, Scienza della logica, tr. it. cit., vol. II, pag. 74.

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quanto fenomeno attuale ma in quanto possibilità d’essere o inattualità, che richiamando a sé la sua astratta determinazione ideale, a poter determinare l’Idea nel senso della sua possibilità. La libertà dell’Idea è dunque di determinare il contenuto astratto della Realtà, ponendolo come suo oggetto ideale, ma non quella di porre la Realtà stessa come sua creazione assoluta. L’Idea pone sempre e solo sé stessa, per cui l’Idea dell’essere non è l’Essere concreto ma l’Essere ideale. L’Essere "in sé" è la determinatezza dell’Idea, ovvero l’Idea determinata. Il non-Essere "in sé" è l’indeterminato dell’Idea, ossia quanto dell’Idea non-è determinato, cioè il divenire. Il negativo dell’Idea e il negativo del divenire, ossia, rispettivamente, la libertà e la possibilità, sono lo stesso, cioè Uno. Hegel non si avvede che l’infinito (l’Idea) può legarsi al finito per il tramite del negativo, che è comune sia al finito che all’infinito. Nell’infinito, il negativo è costituito dall’indeterminatezza dell’Idea, mentre nel finito, il negativo è costituito dalla possibilità del divenire. Indeterminatezza e possibilità sono sinonimi. L’essere dell’Idea è l’attualità del fenomeno astratta dal divenire. Il non-essere dell’Idea non è l’ente, il finito, ma la sua indeterminatezza, che corrisponde alla possibilità d’essere dell’ente, al divenire. Il divenire dell’ente è il tempo, sicchè l’ente diviene nel tempo. L’Idea, in quanto in sé indeterminata, non è (determinata), e perciò essa partecipa del divenire degli enti come sua negazione, come determinazione. Mentre l’ente in quanto tale diviene, anziché essere, l’essere dell’Idea è la sua indeterminatezza, per cui ciò che "è" ideale (razionale) non è il Reale concreto, come Molteplice in divenire, ma il reale come fenomeno attuale, astratto dal divenire. Il fenomeno in sé, l’apparire dell’ente, è l’Idea dell’Essere astratta dal divenire concreto. L’Idea determinata è l’ente astratto dal suo divenire, dal Molteplice. È un Essere ideale: la sintesi di un’astrazione reale e di una realtà idealizzata. Come realtà fenomenica, appartiene al mondo storico, al finito; come ideale, trascende la determinatezza attuale e si offre alla possibilità di infinte determinazioni, esattamente come il dialogo platonico, la cui sintesi ideale-reale, logico-istituzionale, è il Diritto. Il pensiero che fa capo a questa dimensione astratta dell’ente idealizzato è quello tipologico, proprio delle scienze classificatorie e normative: il "finito ideale" di Hegel, che erroneamente egli credeva diverso dalla determinazione intellettiva o duale. Qui la sintesi è compiuta, ma è apparente, perché astratta, non determinata, ma aperta a ogni determinazione del divenire, a ogni possibilità. Da qui il carattere 19


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strumentale delle istituzioni giuridiche, sospese sempre tra la Giustizia (l’Idea) e la forza (le sue determinazioni finite). L’essenza del finito, la Finitezza, è l’Idea, non il finito idealizzato, l’istituzione. E parimenti, l’essenza dell’Idea è l’Idea stessa, la sua indeterminatezza infinita. L’Idea è solo sé stessa, e perciò Uno. Come aveva ben visto Platone, l’Idea dell’ente e l’ente non sono lo stesso ma due. Il loro legame è la loro reciproca opposizione, il "non" del loro essere altro dall’altro, il loro reciproco "non-essere". L’unità dialettica, dunque, non è nell’essere (dell’Idea e dell’ente) ma nella loro negazione reciproca, nella loro contraddizione, nel loro non essere, il cui essere è negativo, è il Nulla. Il Nulla appartiene sia all’Idea che all’ente. L’Idea e l’ente si appartengono per negazione, perché entrambi sono il loro opposto: l’opposto dell’Idea determinata o Essere, è l’indeterminatezza come libertà; l’opposto dell’ente come fenomeno è il suo divenire come possibilità. Abbiamo già visto che indeterminatezza e possibilità sono sinonimi di libertà. Divenire reale e indeterminatezza ideale sono il negativo dell’essere e dell’Idea. E’ il negativo, comune ai due elementi del Tutto, a unire l’Idea all’ente; ossia, è la libertà del dialogo e non la necessità metodica la logica della dialettica. L’infinito presente nel finito è dunque il negativo, ciò che non-è sé ma altro. Se il sé è ciò che è, cioè il presente a sé stesso, il conosciuto, l’evidente, ciò che è visto, il fenomeno; il negativo è ciò che non-è conosciuto o visto, è il mistero. Il Mistero nella storia fenomenica, cioè nella successione temporale dei fenomeni, è il futuro. Il Mistero, nell’Idea, è la sua indeterminatezza, la sua possibilità d’essere, di determinarsi nel tempo e svelarsi come essere finito. L’affermazione di Hegel che "il finito è ideale" non è dialetticamente contraddittoria ma antinomica, poiché l’essere del finito e l’essere dell’Idea coincidono solo negativamente. Infatti, non può essere il contrario, ossia che l’ideale è finito: da qui l’antinomia. L’essenza del finito, la Finitezza, non-è l’essenza dell’Idea, che è l’infinitezza, ma è l’Idea nella sua astratta determinazione d’essere. È una ipostasi. Che sia astratta lo comprova la circostanza che il movimento che essa determina è negativo: come momento dell’Idea, il finito non-è l’Idea (l’Uno); come momento del divenire, l’Idea non-è il mondo (il Molteplice). Il divenire non ha un suo essere perché non-è l’essere; il suo essere è di essere altro dall’Essere, di essere il non-Essere, ovvero il Niente. La dialettica dello stesso con l’altro, dello stesso col diverso, è una sintesi negativa, che unisce l’Idea e l’ente, l’infinito e il finito, non per 20


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ciò che rispettivamente sono, ma per ciò che non sono, lasciando quindi impregiudicato, indeterminato, aperto, cioè libero, il loro rispettivo essere. Ma che cosa è questo negativo; qual è la realtà del Negativo? Per rispondere occorre preventivamente chiedersi a cosa il negativo si opponga. Infatti il suo essere si determina negativamente, cioè nell’opposizione all’Essere contro cui esso è altro. E poiché l’Essere a cui il negativo si oppone, è, la sua negazione, la negazione dell’Essere, non-è l’essere attuale, l'ente, ma il possibile, per cui il negativo è ciò che trascende l’Essere temporalmente attuale, il fenomeno, a cui il negativo si oppone come sua antinomia. Se l’Essere è il mondo, il negativo è la coscienza soggettiva; se, viceversa, l’Essere è la coscienza, il negativo contro cui si oppone è il mondo. Ora, che il mondo possa esserci senza la coscienza, è per l’uomo un’esperienza pari a quella di un’umanità senza mondo: sono entrambe situazioni astratte, non concretamente reali, e quindi non sono. La Realtà, come divenire, non è né l’Idea (che è) e neppure l’ente (che non-è). Reale, nel senso della concretezza del divenire, non è il razionale, come voleva Hegel, cioè l’unità dell’essere dell’Idea senza l’opposta possibilità e indeterminatezza, cioè il Negativo che si oppone all’Essere. Reale non-è l’Essere, non è il fenomeno, ma il divenire, cioè la negazione dell’Essere. La realtà del fenomeno è la negazione del divenire, il contrario della libertà e della possibilità, il presente contro il futuro. La realtà attuale è la libertà possibile, è una possibilità, quella evidente. Anche il fenomeno è una visione, quella del mondo-della-vita, del Molteplice. Ma non è l’unica possibile realtà. La possibilità è altro da ciò che è apparente, essa trascende la realtà fenomenica come il futuro trascende l’attualità. La realtà possibile non-è quella attuale. La realtà attuale è e nella sua attualità appare come ciò che è, ossia il contrario della possibilità, della libertà. In questo senso, l’attualità è la determinazione della possibilità o della libertà come necessità. Se la possibilità è il carattere della libertà, e la libertà è la realtà della indeterminatezza dell’Idea, la realtà possibile è il contrario della possibilità ideale. Se la verità è ciò che non appare come fenomeno, la sua negatività è la sua possibilità. La possibilità, come negazione della necessità, sorge dall’indeterminatezza dell’Idea, ossia dalla libertà di determinarsi o restare indeterminata. La possibilità si oppone alla necessità, e sorge come problema dell’Essere, quando si prende coscienza della 21


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alterabilità del processo reale, del divenire, a opera dell’intervento della ragione. Il dialogo socratico manifesta questa possibilità, che è assente nei processi della Natura, dove non si pone il futuro come mistero poiché esso sarà lo svolgimento del presente e del passato, nella perfetta e coerente attualità dei fenomeni naturali. Allorquando il dialogo scopre la possibilità della alterabilità del processo storico umano, la ragione prende coscienza dell’Idea, ossia della realtà altra che trascende la realtà fenomenica e può intervenire ad alterarlo. L’Idea diventa allora la sfera della alterità, cioè della possibilità non manifestata dalla realtà attuale. È l’Idea, ossia la sua trascendenza, a inserire nel processo umano il Tempo. E il suo carattere negativo consiste appunto nella possibilità di negare la realtà effettuale, ossia di stabilire nel processo dell’immanenza la scansione temporale del prima e del dopo quell’intervento. L’alterità è la condizione dell’Idea nella sua indeterminatezza, mentre la sua determinatezza e intervento nella realtà fenomenica manifesta la sua alterità come alterazione. Alterazione del divenire spontaneo attraverso l’inserzione dell’essere opposto, del negativo, dell’è del giudizio razionale. L’affermazione razionale, il giudizio sulla realtà diveniente, stabilisce la validità dell’Essere sul divenire. La preferenza razionale di ciò che è su ciò che del divenire occorre lasciare al Niente. Il senso profondo dell’allocazione iperuranea delle idee platoniche è la loro non appartenenza al divenire spontaneo e naturale dell’Essere. L’essere del divenire, contenendo la possibilità, attraverso il giudizio razionale diventa, da essere naturale (stabilito ab aeterno), essere "fenomenico", apparenza, nascondimento di ciò che può essere altro da ciò che appare. L’Idea rivela la duplicità dell’essere naturale, la sua contraddittorietà, stabilendo il criterio d’essere tra ciò che "è" valido del divenire da ciò che "non-è" valido. Tuttavia, la validità stabilita dal giudizio non può interrompere il divenire, ma soltanto alterare il suo spontaneo processo, ossia la uniforme progressione della sua eterna attualità. Il divenire può anche non-essere ciò che la ragione stabilisce che esso debba essere. Da qui nasce il bisogno del dialogo persuasivo, il bisogno della concordanza e dell’accordo dialettico dei parlanti. Tale accordo dialettico ha come scenario esistenziale la realtà comune: non universale, si badi, ma quella umanamente comune: la pòlis. Il dialogo socratico elegge a contenuto dell’intesa la stessa condizione indiscutibile di coappartenenza dei dialoganti: ciò che essi hanno in comune: E lo hanno perché lo hanno fatto, strappando col proprio operato alla Natura indistinta la loro Natura sociale. La dialettica socratico-platonica 22


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relativizza l’ambito di validità dell’intervento razionale, ma proprio per questo carica il suo esito possibile di una validità sociologica ed etica che invece manca alla scienza aristotelica, la quale, privilegiando il metodo sul fondamento oggettuale dell’argomentazione, universalizza la validità dei risultati razionali, dilatandoli ben oltre la relativa validità politica. Con una certa dose di paradossalità, possiamo dire che se il dialogo platonico ha certezza di cosa dice e incertezza sul come la dice, la scienza aristotelica ha sicurezza di dire bene di qualunque argomento, ma non sa di cosa dice, perché l’oggetto della sua universalità diventa indeterminato, discrezionalmente aperto. Ma l’indeterminatezza è la natura dell’Idea, per cui la validità del metodo scientifico diventa infinitamente più indeterminata della relatività del metodo dialettico, perché privo di quel fondamento di certezza che invece costituisce la forza persuasiva del dialogo dialettico. Ed è proprio alla svolta epistemologica aristotelica che si può far risalire l’assolutezza meta-fisica del discorso scientifico come pura tecnica razionale. L’ambientazione politica del discorso dialogico ha inoltre una notevole conseguenza sugli interlocutori, che invece è totalmente assente dal carattere neutrale del metodo scientifico: la necessità di determinare la distinzione tra l’essere valido e l’opposto non-essere valido; ossia, la rilevanza ideale nell’ambito dell’indistinto divenire di ciò che deve essere sottratto allo stesso divenire. L’accordo dialogico, determinando valutativamente l’Essere distinto dall’indistinto Divenire, e consegnando quest’ultimo al non-Essere, determina insieme anche il dover-essere. In altri termini, il dialogo, distinguendo col giudizio di validità ciò che è da ciò che non-è razionale, si costituisce come una posizione politica in senso schmittiano, operando una distinzione tra coloro che convergono sulla determinazione razionale e coloro che la rigettano. Non a caso, la negazione delle posizioni socratiche non è la confutazione retorica, ma la reazione politica, l’annientamento fisico. Stabilire, dunque, la materia della contesa dialogica è decisivo ai fini dell’esito, che non potrà mai essere eticamente neutrale. Viceversa, il metodo scientifico, sin dall’origine della sua costituzione epistemologica aristotelica, è eticamente privo di determinazioni di valore, Wertfrei. L’essere determinato, nel dialogo dialettico, sia pure sollevato dallo scenario esistenziale della tematica politica, conserva una sua immanente e insopprimibile validità sociale, legata al carattere platonicamente erotico del bisogno razionale. Con Socrate, cioè, viene svelata la realtà immanente dell’Idea, cioè la sua implicazione 23


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dialettica nella fenomenologia socio-politica. Il parto maieutico stabilisce, con la maternità ideale, anche la paternità sociale. Pòros è l’arricchimento che il giudizio determina come valore aggiunto alla mera realtà dello status quo, mentre Penìa sta a indicare la condizione di mancanza registrata nella società: mancanza di razionalità, di idee. Il frutto dialettico di queste due reciproche alterità oppositive è una Idea determinata come libertà, cioè come realtà possibile. La libertà possibile è la possibilità, cioè un’Idea, sia pure determinata, ma il cui essere comunque non-è il divenire, contro cui si oppone come realtà altra. Altra appunto dalla realtà d’essere, dall’essere attuale: dalla realtà concreta. Il giudizio razionale interviene sul divenire sociale come possibilità, cioè come astratta volontà d’essere. Perché quest’astratta volontà si trasformi in volontà reale, in azione effettuale, occorre la mediazione del consenso sociale; occorre, cioè, che del giudizio privato, valido nell’ambito razionale delle idee, sia riconosciuto il suo valore pubblico, la sua ragion d’essere politica. Occorre, in atri termini, che il logos del dialogo rappresenti la ragione pubblica. Così, la ragione perde il suo carattere privato, ideale, del foro interno, il carattere di esoterico possesso12 allorquando l’oggetto del suo giudizio venga riconosciuto come oggetto reale. L’opinione pubblica costituisce il suo principio di realtà, senza il quale il giudizio rimane privato, privato appunto del consenso e del riconoscimento della sua validità pubblica. È il consenso che fa del contenuto dell’Idea determinata un oggetto "reale", ovvero un oggetto "irreale", e cioè fantastico. In questo senso, il solo pensiero "reale" è il pensiero socializzato. Ed è a questo punto che esso perde il suo carattere ideale, privato, per diventare azione pubblica, volontà politica, ideologia.13 Ma è nello stesso momento che esso perde il suo carattere ideale di possibilità per acquisire la sua natura finita di azione. L’azione è il contenuto dell’attività pratica, così come il giudizio razionale è il contenuto dell’attività teoretica. Se indichiamo la volontà possibile, la Possibilità, col nome di Libertà, e la volontà manifesta, azione, il passaggio dal carattere ideale della Così definisce Hegel la scienza priva del “carattere di universale intelligibilità”, la quale appunto “assume la parvenza di un esoterico possesso di alcuni individui”. Resta inteso che “intelligibile è ciò che è già conosciuto, ossia è ‘elemento comune della scienza e della coscienza prescientifica, che può così aprirsi immediatamente un varco entro la scienza”: Introduzione alla Fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. De Negri, Firenze 1960, pag. 10. 13 Ved. H. Arendt, Warheit un Politik (1967), tr. it., Torino, 1995, pag. 44. 12

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Possibilità al carattere reale dell’azione non è diretto ed immediato, essendo la Possibilità un’Idea e come tale è indeterminata e infinita, e l’azione un fenomeno finito che appartiene al divenire. Tra le due distinte realtà ontologiche occorre stabilire un ponte che colleghi lo hegeliano "abisso" del pensiero al baratro dell’azione, e questo ponte, com’è chiaro, è la ragione dialettica, che unisce il mondo del di qua, il mondo sociale e storico, il finito, col mondo dell’al di là, dell’infinita possibilità e indeterminazione delle Idee. Proprio per emancipare il pensiero dalla dipendenza verso la comunità dei parlanti, e distinguere il pensiero filosofico da quello appunto comune, il pensiero metodico contesta la validità epistemologica del consenso pubblico, opponendogli, come abbiamo visto, il metodo scientifico come l’unico in grado di veicolare il Lògos oltre la realtà finita, il regno delle incertezze fenomeniche. Ma, come abbiamo pure visto, il ricorso agli éndoxa da parte della scienza configura a suo modo l’appello a un’opinione pubblica quale fondamento oggettivo di validità del discorso scientifico, e quindi la sua dipendenza da fattori sociologici reali. In questo senso possiamo concordare con Scheler quando afferma che una vera ed assoluta libertà scientifica non crebbe in alcun modo nella storia e mai crebbe attraverso la forza autonoma dello spirito scientifico stesso, ma solo attraverso la concorrenza reciproca di questi fattori sociologico-reali in unione con una filosofia autonoma. Ciò che comunemente si chiama la «libertà della scienza», è soltanto una libertà relativa, vale a dire uno scambio dei suoi rischi di servitù.14

È appena il caso di aggiungere, en passant, che il metodo sillogistico aristotelico, fruito dalla teologia cattolica a sostegno logico del fondamento rivelato, ha costituito lo strumento teoretico ancillare della religione cristiana per lunghi secoli, fino alla svolta teoretica del Moderno.15 Avendo soggettivizzato il "luogo" della realtà del pensiero, portandolo dall’oggetto (creato) al soggetto (creatore), dalla realtà fenomenica alla coscienza, la filosofia moderna si trovò di fronte al problema del fondamento del discorso teoretico, ossia della definizione dell’Unità logica (tradizionalmente, Dio) entro la dimensione del Molteplice, cioè della realtà fondamentale del Soggetto del pensiero. La riconferma del fondamento classico della filosofia nella realtà comune 14 15

M. Scheler, Sociologia del sapere, tr. it. cit., pag. 170. Per un particolare esame rimando al mio Cristo e la sua Chiesa (inedito).

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è lo sviluppo di ogni empirismo o materialismo moderno, che ha eliminato il problema dell’Unità logica del reale a favore dell’analisi del solo Molteplice, mentre l’identificazione del soggetto Creatore della teologia col secolarizzato soggetto trascendentale, è l’impostazione tipica di ogni idealismo moderno.16 Ma, per l’intima natura antinomica del Reale, l’unità logica interna al Molteplice si è cercata di trovarla nelle stesse strutture empiriche dell’essere sociale, quali lo Stato, le classi, le nazioni, le razze, etc., facendo di esse delle rappresentazioni astratte di valori trascendenti. Il valore elettivo della fede religiosa tradizionale, che custodiva all’Idea la sua possibilità di determinarsi come Libertà, entro la dimensione secolarizzata viene deformato in fedeltà ideologica priva di ogni determinazione morale, in virtù della quale ciò che era la sintesi mistica dell’uomo-Dio della teologia cristiana si traduce nella trasfigurazione secolare in una costrittiva aderenza al mondano sinolo sociologico, che diventa il mediatore storico tra la prescritta verità e la politica certezza. Nella trasfigurazione ideologica, il pensiero, facendo capo al solo uomo – reale-empirico o ideale-trascendentale –, si dispiega come prassi, "volontà" indistinta dall’ "azione", in cui il principio dinamico del divenire viene identificato col Potere, rovesciamento "scientifico" del "mitico" Lògos metafisico. Il movente erotico platonico viene sostituito con l’interesse economico, la cui lotta per affermarlo costituisce l’intima dialettica del processo sociale, la molla radicale del divenire storico. All’interno della sfera teoretica, la questione filosofica che divide la prospettiva materialistica da quella idealistica verte sulla definizione dell’Unità immanente al Reale come essenza ontologica (naturalistica o sociologica) ovvero come essenza logica. Per spiegare la realtà dei processi fenomenici, è imprescindibile definire la logica di quei processi, ossia l’essenza del divenire. In altri termini, non si può avere conoscenza dei fenomeni senza avere coscienza della loro unità logica, e quindi senza stabilire il rapporto che il Molteplice ha con la sua Unità ideale. Come sopra ricordato, fu Platone a scoprire l’alterità tra (il mondo della) vita e l’Idea della vita. Senza questa distinzione, non ci può essere vera conoscenza, cioè conoscenza razionale, perché altrimenti del Molteplice non si potrà definire la sua essenza, la sua unità logica, e di esso si potrà solamente 16

Compresa la teologia. Ved. K.Rahner, Grundkurk des Glaubens. Einfürung in den Begriff des Christentums (1976), tr. it., Alba, 1977, pagg. 40-41.

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dire come esso appare, ma non ciò che esso è (oltre ogni singola e fugace apparenza). L’esigenza erotica di trascendere logicamente il mondo fenomenico per giungere alla sua unità razionale, è avvertita anche nelle scienze empiriche più legate alla dimensione sensibile dell’esperienza umana, le quali discipline studiando il Molteplice cercano di definire razionalmente la tensione interna che anima la nascita, la vita e il declino dei gruppi umani, delle società e delle civiltà storiche, distinguendo dalle molteplici volontà incoerenti dei singoli uomini l’elemento di tenuta che contrasta la loro spinta anarchica, e così dall’Economia nasce la scienza delle unità sociali, la Sociologia. Parimenti, sul versante idealistico, dalla scienza degli universali, la Filosofia, scienza dell’Essere per definizione, discendono quelle dottrine dello spirito che, non paghe delle definizioni astratte del pensiero empiristico, cercano di individuare le tracce dell’unico, infinito ed eterno Essere nel divenire molteplice della Storia, inaugurando la stagione dello storicismo. 3. Nel concetto originario di physis veniva compreso l’intero mondo come cosmo di ciò che è universalmente presente, compreso l’uomo. In seguito l’episteme fisica, come moderna scienza della Natura, ha compreso soltanto "determinate connessioni d’essere dell’ente che noi chiamiamo ‘mondo’", mentre l’uomo è oggetto di una distinta episteme, quella etica, che considera come suo oggetto il comportamento umano verso gli altri e vero il proprio essere come uomo.17 Tra l’uomo e il mondo si pone la logica, quale scienza del dialogo universale che discorre del mondo e dell’uomo. Il "discorrere" non è il semplice parlare, ma un modo di comportarsi dell’uomo in cui si annuncia proprio alla visione naturale, prescientifica, la differenza dell’uomo dalle altre creature che vivono nel mondo [dove] lo specifico esser-uomo emerge tramite il discorrere in cui nel discorrere stesso l’essenziale è che si faccia esperienza di esso in quanto discorrere di qualcosa, su qualcosa, con altri.

Il lògos è dunque il luogo in cui "si annuncia una connessione d’essere tra i due ambiti universali" costituiti dall’uomo e dal

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Ved. M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit (1925-1926), I ed. or., 1976; tr. it., Milano, 1986, pag. 3.

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mondo.18 Il metodo di costituzione e orientamento di questo luogo è la logica, intesa come "il sistema scientifico" della verità, il quale rappresenta "la vera figura nella quale la verità esiste".19 Ciò implica di conseguenza che per Hegel il vero è effettuale solo come sistema, per cui "solo nel concetto la verità trova l’elemento della sua esistenza".20 E la scienza è la realtà effettuale dello spirito, "quel regno che esso si costruisce nel suo proprio elemento".21 Intendendo per “Geist” il Soggetto, sostituto moderno dell’antica "sostanza", il cui movimento è nel suo stesso sviluppo di soggetto che si pone come oggetto, come contenuto spirituale, e torna a sé come concetto, cioè come oggetto che si è riflesso in se stesso: come scienza. Il puro autoriconoscersi entro l’assoluto esser-altro, questo essere come tale, è il fondamento, il terreno della scienza, o il sapere nella sua universalità generale. Il cominciamento della filosofia presuppone o esige che la coscienza si trovi in questo elemento. Ma questo elemento riceve anch’esso la sua perfezione la sua trasparenza soltanto mediante il movimento del suo divenire. Esso è la spiritualità pura, come l’Universale che ha il modo della semplice immediatezza; tale semplicità, quando ha esistenza come tale, è il terreno, il pensiero che è soltanto nello spirito. Poiché questo elemento, questa immediatezza dello spirito, è la sostanza in generale dello spirito, essa immediatezza è anche l’essenza trasfigurata, la riflessione che, a sua volta, è semplice; è l’immediatezza come tale per sé, è l’essere che è riflessione in sé stesso.22

Questo passo della Fenomenologia è molto importante, in quanto viene indicato come lo spirito, o hegelianamente il Soggetto, è sé stesso anche quando è semplice, ossia anche quando la sua essenza viene trasfigurata come immediatezza, come intuizione. L’intuizione è la "riflessione semplice", "l’essere che è riflessione in sé stesso". Il "questo", la cosa individuale dell’intuizione del mondo, è l’oggetto della riflessione trasfigurato in elemento semplice, che è il presupposto che esige la scienza come suo "cominciamento". Ciò vuol dire che il fondamento della conoscenza scientifica, cioè metodica, è la trasfigurazione dell’essere spirituale come immediatezza, come

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Ivi, pag. 4. F.G. Hegel, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito, tr. it. cit., pag. 4. 20 Ivi, pag. 5. 21 Ivi, pag. 20. 22 Ivi, pag. 20. 19

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conoscenza immediata, come intuizione.23 La "cosa" intuita, il "questo" individuale, è già l’oggetto della scienza nella sua rappresentazione individuale, come sostanza semplice dello spirito: l’essere che si riflette come sé. Questa trasfigurazione è "semplice" nel senso di una effettualità indeterminata: ossia, come puro "contenuto in una forma" (Inhalt) e insieme "contenuto di una sostanza" (Gehalt), sia pure trasfigurato. Per cui non può darsi nella conoscenza uno "spirito immediato", come "ciò ch’è privo di spirito", cioè come "coscienza sensibile".24 L’individuo come "forma assoluta", come "certezza immediata di se stesso", come "incondizionato essere", come "assoluta sufficienza a se stesso" di "ogni figura del suo sapere, riconosciuta o meno dalla scienza", viene da Hegel presentato come l’Altro rispetto alla scienza; e questo Altro è la "coscienza", appellata a un di presso "naturale" e definita come "sapere di cose oggettive in contrapposizione a se stessa, e di se stessa in contrapposizione a quelle".25 Questa coscienza "immediata" viene contrapposta alla scienza, per cui "ciascuna di queste due parti sembra costituire per l‘altra l’inverso della verità".26 In lei stessa – afferma Hegel – la scienza potrà essere quel che si voglia; ma in relazione all’autocoscienza immediata si presenta come l’inverso di questa; o, dato che questa ha nella certezza di sé il principio della propria effettualità, la scienza, dacché questo principio è fuori di lei, porta la forma della noneffettualità. Perciò la scienza ha da unificare un tale elemento con sé, o da mostrare piuttosto come esso appartenga a lei stessa, e il modo secondo cui le appartiene. Mancando di tale effettualità, essa è soltanto il contenuto come l’in sé, è il fine che è ancora soltanto un interno, non è come spirito, ma soltanto come sostanza spirituale. Questo in-sé ha da estrinsecarsi e da divenire per sé stesso; e ciò significa che l’in-sé ha da porre l’autocoscienza come una sola cosa con sé.27

Ma che cos’è questo "spirito immediato", tale "coscienza sensibile"? Dice Hegel, "ciò che è privo di spirito".28 Dalla “intuizione estetica” si fonda e prende le mosse la Filosofia dello Spirito di Croce. Ved. C. Marco, Benedetto Croce filosofo della libertà, Lungro di Cosenza, 2005. 23

24

Ivi, pag. 21. Ivi, pag. 20. 26 Ivi, pag. 21. 27 Ivi, pag. 21. 28 Ivi, pag. 21. 25

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Il reale è ciò che è collegato all’altro, mentre irreale è "l’accidentale ut sic, separato dal proprio ambito, [che] guadagna una propria esistenza determinata, e una sua distinta libertà", realizzando "l’immane potenza del negativo, l’energia del pensare, del puro Io".29 Il problema è se "l’esperienza" della coscienza, che Hegel indica come "l’immediato essere determinato dello Spirito", è come, o in quanto, "oggetto del Sé", e quindi il suo essere si determina nell’opposizione all’altro-da-sé, ovvero se il suo essere è nel pensamento del divenire, ossia nel suo "movimento" di alienazione, dove "l’immediato, il non sperimentato, cioè l’astratto, appartenga all’essere sensibile e al semplice solo pensato" e che quindi "torna a se stesso".30 Nel primo caso, l’essere astratto dell’esperienza, assunto dalla coscienza come suo oggetto, deve presupporre quella coscienza che lo pone, per cui l’essere dell’esperienza è nel suo "negativo", o "differenza", rispetto all’Io. E’, cioè, un non-essere rispetto all’essere della coscienza. Nel secondo caso, il "negativo" è la "manchevolezza di entrambi", ossia "ciò che li muove entrambi", ossia il divenire stesso della coscienza e del suo oggetto. Ma questo divenire non può essere il "negativo" di alcunché essendo lo stesso processo dialettico. Infatti, affermare che "entrambi" sono negativi, significa che essi sono nel loro processo come il processo stesso, e solo astraendo da questo stesso processo ognuno di essi elementi astratti è "negativo" dell’altro. Il processo reale non può essere in sé "negativo", alla stregua dei suoi astratti elementi, i quali, proprio rispetto alla realtà del processo sono "entrambi negativi", ossia non-sono quel processo reale stesso. Da Hegel l’esperienza viene sia opposta al Soggetto, all’Io, e indicata come il suo negativo, e sia come il negativo in sé, come un sapere astratto, o "conoscenza sensibile", il cui essere ha già in sé la sua mediazione, e che perciò non può essere l’immediato. Non a caso Croce, per distinguere l’intuizione come sintesi dall’oggetto della conoscenza razionale, ha dovuto pensare due conoscenze, due forme di teoresi, dove la prima, l’intuizione, diventa forma estetica dell’altra. Ma questa indeterminazione anfibologica, che consente la pluralità delle categorie, ognuna di esse "universale", e cioè Uno, è già presente in Hegel, il quale indica il movimento del pensiero sia come negatività, cioè "astratto elemento dell’immediatezza e della

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Ivi, pag. 26. Ivi, pagg. 28-29.

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separazione del sapere e della verità",31 cioè come mera realtà apparente, e sia come la verità stessa, ossia come il movimento della "logica", cioè come "filosofia speculativa".32 Nel primo caso, l’essere apparente dell’esperienza è esperienza dell’essere vero, anche se non-è l’essere vero, ma appunto la sua apparenza. Nell’altro caso, l’apparire dell’essere è il suo stesso processo fenomenologico, dove l’essere è indistinto dalla sua manifestazione apparente. Al crocevia tra la coscienza e il mondo c’è la parola, il verbo, il lògos, come Boden, evento fondativo della filosofia dialettica. Questo evento linguistico, come abbiamo visto, si può disporre secondo due paradigmi epistemologici: quello che possiamo indicare come ermeneutica platonica, e quello della scienza aristotelica del lògos, la logica, intesa appunto come metodo filosofico. La parola ermeneutica, rispetto alla parola metodica costruita come totale esaustività teoretica, pone la dialettica filosofica come processo creativo di significato, come struttura aperta dove il significato non è un dato definitivo già contenuto nella domanda filosofica, ma la risposta è il risultato che l’interrogante costruisce come "volere" di significato. Questa fonte potenzialmente infinita di significati va a costituire un processo dialogico opposto alla chiusura ed esaustività metodica in cui l’essere è il tutto; un processo dialogico aperto, che costruisce, non una filosofia, ma un filosofare in cui l’essere del lògos è diverso dal sembrare del fenomeno. Un filosofare il cui contenuto non è la struttura chiusa del concetto fondato sulla corrispondenza identitaria dell’essere col fenomeno, ma l’indeterminata ricerca di significatività propria dell’immaginazione, la cui "immagine", equivalente a ciò che il concetto è per la logica, è il Mito, inteso non illuministicamente come "racconto favoloso", ma nel senso antiilluministico e teologico di "fonte inesausta di significati".33 Solo la dimensione dialogica del Mito può costruire una filosofia del Possibile, ossia un filosofare aperto alla "speranza" di un’immaginedel-mondo non ridotta alla determinazione della sua esclusiva attualità, e perciò aperto a future determinazioni che non siano la dilatazione della sola determinazione presente dell’"adesso".34 31

Ivi, pag. 29. Ivi, pag. 30. 33 Ved. I. Mancini, Teologia, ideologia, utopia, Brescia, 1974, pag. 57. 34 Proprio l’assunzione del fenomeno come essere, offre un’immagine assolutizzata della realtà, costruita sull’astrazione dell’essere dal concreto divenire temporale, che subordina la teoria all’affermazione ideologica della parte, al successo pratico 32

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4. Ad Aristotile è stata (erroneamente) attribuita per lungo tempo "la tesi della proposizione come luogo proprio della verità",35 identificando proposizione con il lògos e l’ambito di validità del concetto di verità nei giudizi. Lo spazio del discorso generico è il grande contenitore che include lo spazio più ridotto della enunciazione, il cui ambito, nell’economia del discorso, è a sua volta più vasto di quello della verità, il cui spazio deve aggiungersi all’altro modo del discorso enunciativo, quello della falsità. Da qui "emerge che la verità è il carattere distintivo di un determinato modo del discorso, quello enunciativo", per cui "la verità deriva dalla proposizione", il cui modo enunciativo può essere alternativamente vero o falso.36 Il discorso enunciativo mostra la possibilità del discorso di essere nel vero o nel falso. Il "mostrare" (apophaìnesthai) è l’atteggiamento dell’enunciazione del lògos apofantico. Mostrare il vero è, a sua volta, l’aspetto predicativo dell’enunciazione, cioè la sua determinazione logica, che viene comunicata nella espressione. L’indicazione, la determinazione e la comunicazione sono "le forme in cui è fissata l’enunciazione".37 Secondo la lettura di Heidegger, la verità, quale svelamento o scoprimento, si presenta come il luogo dove è possibile la proposizione, e non l’inverso. Per comprendere questa situazione, dobbiamo chiederci cosa fa sì che il lògos, quale discorso indeterminato, possa essere vero oppure falso, ossia a determinarsi, unendo nella synthesis e separando nella diaìresis. Il congiungere della sintesi dell’ente con il suo essente è la condizione della verità come affermazione (katàphasis), mentre al contrario la separazione è la condizione della possibilità del falso, ossia della negazione (apòphasis).38 Ma la forma predicativa del lògos, l’enunciazione, non costituisce la sua struttura fondamentale, per cui necessita un chiarimento esterno al dato linguistico, che "l’orientamento" epistemologico dei Greci rendeva "un’impresa impossibile".39 dell’affermazione d’essere considerata arbitrariamente come il positivo opposto all’asserito negativo, indicato come un non-essere da eliminare. 35 M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 85. 36 Ivi, pag. 86. 37 Ivi, pag. 90. 38 Ivi, pag. 92. 39 Ivi, pag. 95.

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Heidegger, prendendo spunto dal luogo del Sofista dove Platone indica nell’argomento l’unità (koinonìa) del discorso, indica il dato strutturale pre-predicativo del discorso nel Besorgen come accesso dell’esserci all’ente sotto forma di Cura, intesa sia come destinazione funzionale dell’ente (avere-a-che-fare) che come oggetto del discorso intorno-a-cui si discorre, indicandola come "struttura dell’in-quanto". Questa "non è necessariamente riferita alla predicazione", poiché "la predicazione ha la struttura dell’ ‘in quanto’, ma in modo derivato, e ce l’ha solo perché essa è predicazione in un’esperienza".40 Anche Heidegger, dunque, come Hegel pone il fondamento del discorso come un elemento a suo modo anch’esso "sensibile", sia pure in senso esistenziale, che cioè "fa parte del comportamento", anche se non afferente alla soggettività, come esperienza vissuta.41 Ma lo stesso Heidegger elude qui il movimento essenziale perché l’esperienza acquisti un valore razionale, tale che lo stesso dato sensibile, o "naturale", possa trovare il suo senso di sviluppo interno; un "senso" appunto razionale, che Aristotile aveva legato alla natura e che Hegel estende al processo spirituale: il fine. "La ragione – afferma Hegel - è l’operare conforme a un fine",42 intendendo per "fine" la destinazione d’uso di qualcosa, il senso dell’avervi-a-che-fare. Che questo fine sia insito nell’uso stesso, è legato alla destinazione di senso dell’esperienza di qualcosa "in-quanto" qualcosa e non altra. Lo "inquanto" è già una determinazione logica che separa il qualcosa da altre cose e che unisce nella sua destinazione d’uso l’esperienza possibile con la fruizione determinata. È questa unità logica del qualcosa con il suo fine d’uso che stabilisce la corrispondenza sintetica del "cominciamento" con la "fine" del processo dialettico del Sé che torna a sé. In questo senso, la struttura dell’in-quanto, come esperienza dell’"avere" e del "prendere", è già una struttura razionale, o, come Heidegger preferisce, "comprendente". La struttura dell’in-quanto, o più esattamente l’avere-a-che-fare-con da essa determinato come schietto avere e prendere, determina il nostro essere in rapporto a noi stessi. Questo significare, dal canto suo, è possibile come modo fondamentale del nostro essere solo perché il nostro stesso esserci è comprendente.43

40

Ivi, pag. 97. Ivi, pag. 98. 42 F.G. Hegel, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito, tr. it. cit., pag. 16. 43 M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 100. 41

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Da questa "capacità di comprendere (di dare significato) [che] appartiene già all’esserci" deriva la sua capacità di "esprimersi con dei suoni in modo tale che queste emissioni di voce siano parole che ora hanno qualcosa come un significato". Il fondamento dell’esperienza esistenziale, come rapporto con le cose contestualizzato alla loro destinazione d’uso, fa acquisire a questa esperienza "sensibile" un valore culturale, e cioè spirituale, che si riflette strutturalmente in determinate coordinate di senso aventi propri codici semantici nei quali l’uomo vive e comunica. "Essendo esso stesso nel suo essere significante, l’esserci vive nei significati e può esprimersi con essi".44 Tutti i modi del dichiarare, ossia la forma particolare in cui esso si realizza, non possono quindi, se sono forme di realizzazione di un’enunciazione dichiarativa, nascondere la struttura dell’in-quanto. L’ "in quanto" è infatti la struttura fondamentale della comprensione e dell’accessibilità; in essa è conservato necessariamente come appropriazione che dà l’accesso il possibile intorno-a-che, compreso prima di tutto e in anticipo, di ogni dichiarazione che tocchi il punto trattato.45

Il "vissuto" dell’esserci nella sua attitudine a stabilire rapporti (aufgeschlossen) contestuali con l’ente, viene prospettato come un prius rispetto all’enunciazione dichiarativa, costituendosi come un posteriore riflesso fenomenico (un "rispecchiamento" marxiano) dell’immagine eidetica caratteristica del theorein. Rispetto alla mera connessione dei significati verbali dell’enunciazione, l’intorno-a-che costituisce il "fondamento del significato […] intorno a cui deve vertere il discorso", per mezzo del quale è possibile l’orientamento logico, ossia, l’unità di senso, della proposizione verbale (il "lasciar vedere dichiarativo"). Questo Aufschluss, questo rapporto, è la pre-condizione dell’interrogarsi sulla realtà dell’essere e quindi della risposta dichiarativa, il cui "senso" consiste nel "far-vedere l’esseresemplicemente-presente di qualcosa con e presso qualcosa, qualcosa e, in quanto presente accanto ad essa, un’altra cosa".46 Il che vuol dire che il fenomeno diventa l’occasione per affermare, nell’in quanto, la sua corrispondenza con l’essere della determinazione. Questa contestualità non è verbale, ma costituisce lo spazio esistenziale in cui l’esserci, vivendo secondo "un modo del prendersi-cura", si apre alla 44

Ivi, pag. 101. Ivi, pag. 103. 46 Ivi, pag. 103. 45

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possibilità dell’enunciazione. Attraverso il suo formulario esoterico Heidegger tenta di dislocare lo spazio teoretico del Soggetto nel luogo dell’esperienza originaria dell’esserci come "prendentesi-cura", che è l’esperienza della "comprensione di un per-cui" resa a sua volta possibile da un contestuale "avere-a-che-fare".47 La dichiarazione, dislocata dal piano verbale a quello ontologico, diventa un "avere-a-che-fare-con", nel cui spazio "il con-che già compreso e già scoperto nella comprensione deve venire alla luce", svelandosi per quello che originariamente "è". L’enunciazione è dunque un discoprimento, un àpophaìnesthai. Il senso autentico dell’enunciazione, ossia dell’enunciare qualcosa in quanto qualcosa, è quello di avere esplicitamente, a partire da quello che si fa presente, l’in-quanto-che-cosa in base a cui quel che si fa presente dev’essere determinato.48

In altri termini, la determinazione dell’ente presente, del fenomeno, non costituisce un atto creativo di senso, come quello della posizione dell’oggetto da parte del soggetto trascendentale, ma realizza una modalità dell’àpophaìnesthai. "Determinare è quindi un modo della dichiarazione, dello scoprire, e come tale ha ora una determinata struttura dell’in-quanto".49 Heidegger chiarisce a un dipresso che lo "avere-a-che-fare-con" dell’enunciazione, come "prendersi cura", "non è un orientamento manuale" ma un "interpellare". Il che, tradotto, significa che lo spazio teoretico dell’enunciazione ha come obiettivo (come "fine") non la semplice indicazione della presenza generica dell’ente come "semplicemente presente", cioè la sua visibilità indistinta da quella degli atri enti, ma lo svelamento della corrispondenza di quel "semplicemente presente" al suo essere "che cosa"; al suo essere appunto "semplicemente presente".50 Questo mostrare determina una tematizzazione dell’ente che trasforma il suo originario valore d’uso in un fenomeno a cui viene attribuita una proprietà con la quale l’ente viene determinato. Come dice Heidegger, il determinare enunciativo non è mai uno scoprire primario, il determinare enunciativo non determina mai una relazione primaria e originaria con l’ente, 47

Ivi, pag. 103. Ivi, pag. 104. 49 Ivi, pag. 105. 50 Ivi, pag. 106. 48

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e quindi non può, questo logos, diventare la guida per il problema dell’essere dell’ente [quale si determina invece] nella logica e nella dottrina dei Greci come anche in tutta la tradizione fino a Husserl [dove] la guida è costituita proprio dal logos nel senso del determinare, guida per il cui tramite ci si interroga sull’essere, l’ente sarebbe cioè presente come oggetto di una possibile determinazione, di una possibile determinabilità. Quando però si è scorto che il determinare stesso e tutta la sua struttura sono un fenomeno derivato, allora non è più possibile fare di questo fenomeno il punto di partenza per affrontare il problema dell’essere, se questo problema deve cogliere il fenomeno dell’essere alla radice.51

La struttura primaria, non intesa da Aristotile quando la caratterizza come sintesi, e alla quale si riferisce Heidegger, è appunto quella dell’"in quanto". La synthesis aristotelica espressa nella Metafisica è la possibilità della falsità e della verità, nel senso che all’interno del discorso l’essente può essere mostrato come non-essere e questo come essere (   b 26). Nella lettura di Heidegger, la verità non consiste nella corrispondenza o nella relazione fra due enti, ma nella "relazione dell’esserci come esserci con il suo stesso mondo, nell’apertura al mondo propria dell’esserci, il cui essere per il mondo, che si apre in e con questo essere per esso, è scoperto".52 La sintesi è stata intesa da Aristotele e da Platone indistintamente "non solo in maniera puramente formale, ma anche in maniera apofantica, in riferimento all’ente, in considerazione dell’ente stesso", ossia come "la condizione della possibilità" ("dell’esser-falso e soprattutto di un corrispondente esser-vero"), e quindi non della necessità. Ma, pur avendo Platone tra i suoi "meriti immortali quello di aver mostrato come anche l’errore e la falsità siano", tuttavia né lui né Aristotile riuscirono a trovare "una risposta che dicesse che cosa sia questo essere del falso e come esso sia possibile", anche se "Aristotele scoprì "come vi sia nell’ente stesso e nel suo possibile modo d’essere una condizione di possibilità della falsità", mettendoci sulla strada giusta, che è quella di "partire dall’esserci stesso e da quel che è stato reso noto come fondamentale struttura ermeneutica"53. La questione sviluppata da Heidegger è relativa alla stessa possibilità che ha il lògos di determinarsi come verità; possibilità che per lui è ontologica, ossia relativa a una "relazione con l’ente": un "essere per l’ente". Ma lo scoprimento dell’ente in cui Heidegger fa corrispondere 51

Ivi, pag. 107. Ivi pag. 110. 53 Ivi, pag. 113. 52

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la verità, "in quanto scoprire", rimanda a "un carattere del comportamento dell’esserci", per cui la "comprensione" del "fenomeno dello scoprimento", deve riguardare tutti i suoi "aspetti essenziali", cioè "mirare alla visione della totalità originaria, a partire dalla quale e per la quale questi ‘aspetti’, da prendersi solo esteriormente in questo modo, sono quel che sono".54 La conoscenza come "visione" è l’oggetto della elaborazione del metodo fenomenologico di Husserl, che sta alla base del discorso di Heidegger, e che si concentra inizialmente a definire l’oggetto propriamente filosofico, la verità, mondandolo da ogni contaminazione psicologistica. Husserl poteva esibire l’insufficienza dello psicologismo e mostrarne la contraddittorietà, solo in quanto egli sin dall’inizio aveva già preso fermamente possesso della distinzione fondamentale dell’essere in reale e ideale. Il contenuto di tutta la critica, in fondo, non è nient’altro che la rigorosa e dura imposizione di questa differenza al pensiero. Il pensiero come evento del pensiero e il pensiero come il pensato, come Gedanke. La legalità del pensiero che deve costituire il tema della logica non è quella dell’evento del pensiero, ma quella del pensato; la conformità al giusto e la correttezza, la verità del pensiero scaturita in conformità alle leggi, è ugualmente un carattere del pensato. […] Dunque la verità non è una proprietà reale di un evento psichico, come lo sono la stanchezza o l’inibizione, ma un contrassegno del "contenuto di pensiero". Vero non è primariamente il porre [Setzen] e il complesso delle posizioni, ma quel che è posto [das Gesetze] in quanto tale, la proposizione [Satz]. Nella proposizione in sé la verità trova la sua sede; la proposizione stessa, in quanto tale, è definita, proprio in quanto verità, una verità in sé. […] Vero non è quindi il λέγειν, il parlare, ma il λεγόμενον quel che è detto in quanto tale […]".55

Nel dialogo, il parlare è il divenire del λέγειν, mentre la verità è la proposizione, il giudicato, il contenuto del dire, il έ. Nella mutevolezza del dire, il suo contenuto resta invariato. Ma questo contenuto, estratto dal dire, costituisce la ς dell’έ in sé, astratta dal mutevole divenire del Molteplice. Idea, come cosa veduta nel suo essere, per ciò che è, nella sua essenza permanente. Questo cogliere l’essenza dell’ente è la θεωρία, l’intuitus, la visione intuitiva. L’intuizione, dunque, è la conoscenza fondamentale dell’ente, ciò che esso "è" in essenza. L’essere ideale, identico ed eterno che "sussiste 54 55

Ivi, pag. 114. M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pagg. 37-38.

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senza mutare di fronte alla variazione della sua realizzazione concreta", è il "modo fondamentale di cogliere l’ente". L’idea è "ciò che è sottratto al mutamento", e questa "fondamentale diversificazione ontologica della filosofia greca risale a Platone".56 L’elemento stabile è quello ideale, colto dalla ragione (νοῦς); l’elemento mutevole è quello reale (ἴ), colto dai sensi nell’αἴσθησις. L’essere reale, quello sensibile, e l’essere ideale, quello intelligibile, sono ancora in Kant distinti per le diverse modalità di accesso, non per il modo d’esser dell’essere stesso.57 Ma è in questa distinzione, puramente logica e non ontologica, tra essere reale ed essere ideale in riferimento a uno stesso oggetto della coscienza trascendentale, che risiede l’equivoco idealistico della reificazione creazionistica dell’ente come atto spirituale, la cui "realtà" estetica viene assunta come "espressione" individualizzante dell’attività creatrice del Soggetto, anziché come prodotto pratico-sociale dell’attività economica. Proprio contro il contenuto puramente assertorio della grammatica formale della logica apofantica (il concetto), Husserl aveva proposto una scienza apodittica la cui nozione di verità ontologica era fondata sul principio di evidenza, sulla quale si basa il discorso teoretico di Heidegger. Nondimeno, anche da Husserl la verità è indicata originariamente come "unità ideale rispetto ad una molteplicità, che può essere infinita e illimitata, di enunciazioni",58 offrendo una interpretazione del "contenuto giudicativo come essere ideale" e "la relazione di tale contenuto con gli atti giudicativi come sue realizzazioni" che Heidegger stigmatizza come "sorprendenti",59 dal momento che Husserl stesso "è stato vittima" della "determinazione della verità come essere ideale, che egli estende dalle singole verità e proposizioni ai "complessi di verità e a un insieme di proposizioni che è indicato come scienza", intesa come "un’unità psico-fisica", "antropologica, cioè "un’unità di atti di pensiero, di disposizioni mentali, insieme a certe istituzioni esterne correlative", fisicamente reali, come ad es. le opere scritte.60 In questa prospettiva si genera quell’ambiguo concetto di verità come "validità oggettiva" che rende 56

Ivi, pag. 39. Ivi, pag. 40. 58 E. Husserl, Ricerche logiche. Vol. I (1913), tr. it., di G. Piana, Milano, 1968, pag. 193. 59 M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 40. 60 Ivi, pag. 41. 57

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ubiqua la posizione dell’Essere tra la sfera ideale della validità come contenuto ideale, e quella effettuale correlata della realtà delle cose che si intendono valevoli, per cui anche per Husserl, secondo una declinazione platonica, "l’unità dei contenuti proposizionali, l’unità delle proposizioni stesse è quel che rende scienza una scienza, unità di fronte a cui adesso quest’unità antropologica fisico-psichica rappresenta solo una realizzazione casuale".61 Heidegger coglie il nucleo dell’aporia platonico-husserliana allorquando indica il senso della vuota idealità del "contenuto giudicativo" di una idea che è "ideale" solo in quanto in sé non ha "nulla di reale", e non nel senso dell’idea come ς come "il genere degli atti giudicativi". Per quanto ampiamente si specifichi il contenuto giudicativo, l’idea in generale, non si giunge mai agli atti. Questa sorprendente svista è stata possibile solo perché Husserl, per così dire affascinato dall’ideale e dall’idea, abbracciò entrambe le cose (nel doppio senso di validità della proposizione e di sussistenza dell’essenza generale) parlando semplicemente di ideale in contrapposizione al reale. Questa svista non fa che mostrare che cosa in realtà si proponesse la critica allo psicologismo: la difesa dell’ideale contro il reale.62

Husserl ha derivato questa "confusione", che si è resa "visibile qui a causa del doppio senso dell’idea come essere non sensibile e come generalità, genere", dalla interpretazione che Lotze ha offerto nella sua Logica63 alla dottrina platonica delle idee, dove si definisce "l’essere ideale come validità". Tuttavia, grazie alla critica husserliana allo psicologismo è stato possibile il chiarimento del concetto di validità, facendolo assumere anche nella teoria dei valori di Windelband e di Rickert.64 Data l’equazione verità = proposizione vera = validità, cosa si intende per "valere"? In senso dell’ontologia greca, per "Essere" va inteso l’Essere in generale, tanto l’Essere sensibile che l’essere ideale, mentre Lotze usa il termine di "Essere" nell’accezione di "presenza effettiva". Se l’essere ideale è l’essere dell’ente, e cioè indichiamo l’ideale come un ente, come un essere sensibile, "allora non si può dire che l’ideale 61

Ivi, pag. 41. Ivi, pag. 42. 63 H. Lotze, Logik, Leipzig, 1843. 64 Ivi, pagg. 42-43. 62

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sia". Ma questo è il senso con cui Lotze appunto indica, trattando del concetto di validità, l’"essere": come "realtà", come "presenza effettiva delle cose", per cui se l’essere è l’essere reale, esso non può indicare l’idealità, e cioè la validità. L’oggettivazione di un oggetto non è una cosa ma ciò che noi intendiamo per il suo contenuto, la loro definizione, predicazione o determinazione di genere: qualcosa di eternamente uguale a sé stesso e di stabile. Sono queste le ideae di Cartesio e l’  di Platone, intesi come il contenuto permanente delle rappresentazioni della coscienza. Tali contenuti non si può dire propriamente che "sono", anche se la loro "affermazione" inerisce qualcosa e non il nulla. Ciò vuol dire che con "affermazione" Lotze intenda non già l’affermare (il λέγειν) ma l’affermato (il ό), così che "l’affermazione è il riconoscimento di qualcosa che in qualche senso già è, già ha effettiva presenza".65 L’essere affermato è dunque indicato come "presenza effettiva" in generale, senza che tale presenza sia colta come qualcosa di reale o di ideale. Questa presenza effettiva in generale si articola in quattro forme (l’essere, l’accadere, il sussistere e il valere), che non sono riconducibili le une alle altre e né ricavabili l’una dall’altra, all’interno delle quali si trova il valere sottoforma di proposizione. La effettiva presenza di una proposizione consiste nel suo "valere". Tale "valere", secondo Lotze, è il senso dell’espressione greca di "essere", per cui "l’essere delle idee" di cui parla Platone equivale alla forma [Gestalt] di "effettiva presenza della validità", che noi chiamiamo "verità". Il contenuto della verità espresso dalla proposizione non è prodotto da chi l’esprime ma è semplicemente "riconosciuto", sicché il valore della verità prescinde dal fatto di essere riconosciuto, sussistendo prima e dopo l’affermazione stessa del suo riconoscimento ed espressione.66 L’essere delle proposizioni è la validità, e la validità è la forma di effettiva presenza che Platone attribuisce all’essere ideale, anche se le idee, però, in senso platonico, non sono "proposizioni" bensì "concetti". La proposizione vera "è" quella che vale, intendendo per essere valevole sia la forma di presenza effettiva dell’idea, e sia il generale rispetto al particolare delle cose sensibili, per l’essere è presente tanto nel senso della presenza effettiva, che nel senso di un evento che accade, che nel senso di una relazione che sussiste che infine nel senso che vale. Ma stabilita l’equazione tra l’essere 65 66

Ivi, pag. 47. Ivi, pag. 48.

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affermato nella proposizione con l’essere valido, si dice qualcosa sul vero e sulla possibile forma della sua effettiva presenza, ma "non si dice assolutamente nulla della verità che rende vero quel che è vero", 67 per cui l’"esser-vero" viene acquisito sia nel senso dell’essere effettivo del vero, e sia nel senso dell’essenza della verità, dicendo in entrambi i casi che esso "è" valido. L’affermazione d’essere rimane basata assolutamente in se stessa, priva di una qualunque possibilità di dire come qualcosa sia o accada, o una verità valga, assumendolo alla stregua di "un concetto fondamentale interamente ed esclusivamente basato su se stesso" e "non ulteriormente riducibile".68 Heidegger fa giustamente qui notare "l’imperante pregiudizio, diffuso oggi non meno che ieri, […]che l’essere sia come un oggetto producibile, una cosa, ossia un ente; altrettanto la presunta validità",69 trattando l’essere come si tratta l’ente. Infatti, "la definizione dice qualcosa circa l’esser-prodotto di un ente", cioè "il modo in cui si determina l’ente", le "cose", il , ma non può riguardare l’essere, che in quanto tale (in quanto non è un ente) non è definibile. Fenomenologicamente, la conoscenza è la "visione"70 dell’ente, intesa come la percezione della sua presenza reale, nella sua "corporeità", che non comprende la sola vista ma anche gli altri sensi.71 La conoscenza non vive però solo nella cosa, ma vive anche in sé stessa, nel compimento intenzionale dell’identificazione della vuota rappresentazione e della visione. "Se questo momento dell’autocomprensione irriflessa contenuto nel compimento intenzionale dell’identificazione stessa è inteso specialmente a partire da se stesso, allora lo si deve chiamare evidenza".72 L’evidenza è lo stesso atto di identificazione che "comprende sé stesso come tale"; non è un atto "successivo" che "accompagni la prova" di quanto rappresentato, ma è "il compimento stesso della prova". Ciò significa, nella situazione fenomenologica, che la correttezza della conoscenza non è stabilita in un secondo momento, in una uova conoscenza del contenuto, in modo che sia provata la correttezza della prima conoscenza che doveva essere provata, ma che essa è resa visibile nel 67

Ivi, pag. 50. Ivi, pag. 52. 69 Ivi, pag. 52. 70 Anschauung è perloppiù resa in it. con “intuizione”. 71 Ivi, pag. 70. 72 Ivi, pag. 73. 68

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compimento intenzionale dell’identificazione stessa, grazie ad essa e per questo atto. […] Se la correttezza di una conoscenza sussiste solo quando essa stessa venga riconosciuta in una seconda conoscenza, allora a sua volta questa seconda conoscenza avrà bisogno della prova della sua correttezza, e così via in infinitum; e la prima conoscenza, la vera e propria conoscenza della cosa, non arriverebbe mai alla giustificazione, perché si troverebbe necessariamente sin dall’inizio sospinta verso l’infinito. […] La correttezza di una conoscenza o di un discorso è la possibilità di provarli o di esibire il fatto che siano stati provati (il fatto che siano stati provati è l’identità scorta nella prova, di quel che si intende con quel che si vede). In quanto conoscenza che in ogni momento consente che si provi la sua correttezza a partire dalla visione che essa ha della cosa che intende, una conoscenza è vera. La verità è l’identità di quel che si intende e di quel che si vede.73

La verità, dunque, è una "relazione determinata", "una identità di quel che si intende e di quel che si vede". L’identità, il "modo d’essere" della verità, non significa presenza effettiva della verità, ma solo ciò che essa stessa è. Ma la conseguenza più rilevate del discorso sulla conoscenza come visione, messa in risalto già da Heidegger sulla scorta della chiara consapevolezza di Husserl (espressa originariamente nelle Ricerche logiche,74 e ribadita nelle Idee75) è il carattere veritativo della conoscenza intuitiva, "primitiva sorgente legittima", e non solo dei collegamenti rappresentativi, ossia dei kantiani giudizi logici. La visione, sia come  che come , è appunto l’altro luogo della verità rispetto a quello della proposizione intesa come  o verità del discorso. È il luogo greco della verità come . La relazione tra la proposizione e la visione è quella che intercorre tra la enunciazione della cosa e la cosa stessa; la proposizione "dà espressione alla visione". Ciò vuol dire che la cosa veduta fa parte, in quanto elemento della relazione, del contenuto della proposizione, come elemento della comprensione. "La visione si è, per così dire, trasferita nella proposizione, in cui infatti si intende ancora la stessa cosa",76 ma la proposizione è però "vuota", (la "cognitio symbolica" nel senso di Leibniz) priva della verità della "visione", per cui la loro corrispondenza, ossia la loro relazione di identità, va provata. "Sussistendo questa relazione, identità di cosa veduta e di cosa intesa, 73

Ivi, pagg. 73-74.

74

E. Husserl, Ricerche logiche. Sesta ric., vol. II, tr. it. cit., pag. 425.

75

E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913) § 24, tr. it. di E. Filippini, Torino, 1965, pagg. 50-51. 76 M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 75.

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sussiste eo ipso il termine relativo nel senso che adesso la stessa cosa intesa può essere indicata come vera".77 Siamo nella situazione opposta a quella prefigurata dalla teoria della validità di Lotze, dove la verità veniva trasferita dalla validità della proposizione al valore delle cose, mentre ora "la validità nel senso dell’esser-vera della proposizione è ricondotta alla verità autentica nel senso dell’identità", per cui "la proposizione vale, perché la verità sussiste nel senso dell’identità". La relazione sussistente è l’identità tra cosa veduta e cosa intesa; ed è questa identità la verità. La verità proposizionale, nel senso della validità, è un "fenomeno derivato che si fonda sulla verità della visione"78. L’atto della rappresentazione, il rappresentare un oggetto, significa "avere presente" quell’oggetto, "vederlo" nella sua realtà "in carne ed ossa", intuirlo. Ma l’intuizione dell’oggetto non equivale alla divina creazione del mondo, dal momento che l’intellectus archetypus è solo quello divinus della substantia infinita di Dio, e non certo quello finitus della conoscenza dell’uomo, a sua volta substantia creata,79 e che quindi non può "creare" il mondo ma solo conoscerlo. E perciò quello umano non è un intuitus originarius, ma solo derivativus. Alle cose del mondo, nella misura in cui hanno un rapporto con l’intelletto, ontologicamente spetta solo il rapporto con l’essenza infinita; esse non sono comparse davanti all’intelletto, ma al contrario; e se ormai ci sono, possono comparire, sostanza materiale e sostanza spirituale, le une davanti alle altre non perché esse si creino, si producano, ma perché in quanto prodotte esse possono solo agire le une sulle altre, e devono farlo se ci deve essere un commercium tra loro. Questo agire, riguardando una sostanza della rappresentazione, è un annunciare; questo annunciare, però, procedendo nel senso del modo d’essere delle sostanze materiali, deve necessariamente essere riferito a una facoltà che possa accogliere l’annuncio, a una recettività, a un modo di farsi dare l’oggetto, dove l’oggetto è una cosa materiale. Questo modo di farsi-dare (visione) è la sensibilità; il terreno della sensibilità, in cui si fonda la possibilità del commercium perché essa giunga vicino a quel che è altro, è la sensazione. Le sensazioni sono, secondo Kant, le rappresentazioni (il modo d’avere oggetti), "che sono causate dalla presenza di una cosa".80

77

Ivi, pag. 76. Ibidem. 79 I. Kant, Critica della ragion pura, B 72, cit. da M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 78. 80 M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 79. 78

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La sensibilità, nel senso della metafisica kantiana, è l’intuizione finita, propria all’uomo, alla sua finitezza, e l’immaginazione è la relazione del pensiero all’intuizione (Kant la chiama synthesis speciosa, relativa alla species). E proprio in riferimento alla questione della metafisica kantiana come costituzione ontologica della finitezza e ambito dell’essere dell’esserci, "la posizione heideggeriana appare in qualche modo opposta e simmetrica a quella hegeliana" Per Hegel si deve respingere l’impianto astratto del problema critico impostato come se sussistesse una separazione preliminare e invalicabile fra finito e infinito, conoscenza e realtà, poiché già il discorso sul limite comporta il suo superamento e quindi l’inclusione dialettica di finito e infinito all’interno di una razionalità assoluta. Per Heidegger, al contrario, si esclude radicalmente l’astrattezza della contrapposizione tra finito e infinito, perché il pensiero viene considerato funzionale all’intuizione, concepibile solo all’interno della finitezza e alla sua costituzione ontologica, al punto che è perfino assurdo ipotizzare un "pensiero infinito".81

Ciò che a Heidegger preme qui evidenziare è come il concetto di "visione" come conoscenza non compaia solo in Kant ma "abbia una portata ancor più grande di quanto non emerga in Kant",82 e risalga, a partire dai Greci, al pensiero medievale scolastico, quindi a Leibniz (De cognizione, veritate et ideis, del 1684), al quale ha attinto Kant e lo stesso Husserl.83 Ed è perciò che egli affronta il problema cruciale della Metafisica di Aristotile, quello del fondamento della verità, trattato nel libro  al capitolo 10, dove viene chiarita la differenza tra il vero e il falso, intesi come dell’Essere lo "stare insieme" nell’Unità, 81

V. Verra, Introduzione a M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (1929), tr. it. della IV ed. (1973), Roma-Bari (1981), 2000, pag. XIII. Heidegger, basandosi sulla prima stesura della Critica della ragion pura, la studia come ontologia fondamentale, contro ogni riduzionismo gnoseologistico proposto dal neo-kantismo, mettendo in luce la questione fondamentale della temporalità come “autoaffezione” (o affezione pura fondata a priori e non su una sensazione) e, come “Io”, fonte genetica delle categorie, le quali “sono già incluse nell’oggettività dell’esperienza perché […] il quadro dell’oggettività scaturisce da quella stessa temporalità da cui scaturiscono le categorie” (Ivi, pag. XIV). Già nelle lezioni su Kant del 1927-28, Heidegger rinviene alla radice delle tre “sintesi” (della “intuizione”, della “immaginazione” e del “concetto”) il principio unitario dell’immaginazione. Le lezioni vennero raccolte da Heidegger nel 1975 come primo volume delle sue opere col titolo di Grundprobleme der Phaenomenologie, curato da F.-W. Von Hermann, uscito in tr. it. di A. Fabris I problemi fondamentali della fenomenologia, Genova, 1990, pagg. 24-170. 82 M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 82. 83 Ivi, pag. 80.

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e il non-essere come il "non-stare-insieme" nella Molteplicità.84 Sulla base della possibilità che pertiene all’ente di stare ovvero di non-stare insieme, la medesima opinione relativa a qualcosa in quanto qualcosa e la medesima indicazione enunciativa di qualcosa in quanto qualcosa diventano ora coprenti [ossia falsi] e scoprenti [ossia veri], e l’enunciazione stessa ora può scoprire, ora coprire; nell’ambito però di quel che non ha la possibilità di essere diverso da com’è, l’enunciazione non diventa ora scoprente, ora coprente, ma l’identico è sempre scoprente o sempre coprente".85

In altri termini, Aristotile afferma che la possibilità del vero e del falso è relativa all’essere delle cose, in modo inequivocabile se la loro natura è univoca, in modo invece opinabile se "le cose ammettono entrambi i contrari".86 Non è la credenza nella verità a far sì che ciò che è bianco sia veramente bianco, "ma, al contrario, proprio per il fatto che tu sei bianco, noi siamo nel vero quando lo confermiamo".87 Infatti, l’essere delle cose precede l’opinione che si ha di esse, e lo conferma o lo smentisce. "Il vero e il falso sono presenti in esse nel senso che il vero sta nell’aver contatto diretto con una cosa e nell’enunciarla, mentre l’ignoranza sta nel non aver contatto diretto con essa".88 Circa "le cose che sono essenze e che hanno un’esistenza attuale, non è possibile sbagliarsi in merito ad esse, ma è possibile solo pensarle o no"89 come vere o false. Come abbiamo visto, il commento di Heidegger si basa sull’accezione del vedere la verità come scoprimento dell’Essere, per cui la presenza dell’essere a sé stesso viene decodificata in termini di percezione (e il coprimento come non-percezione) della sua essenza come esistenza. Ma il testo della Metafisica dice che quando la percezione è difforme dal modo d’essere necessario delle cose, coglie qualcosa che non c’è, poiché "un oggetto, se esiste, esiste in un determinato modo, e se, invece, non esiste in questo determinato modo, non esiste affatto",90 lasciando intendere che la verità è pensamento di ciò che è, e non di ciò che non84

Ivi, pag. 117. Ivi, pag. 118. 86 Aristotele, Metafisica , 10, 1051 b, 10-15, in Opere, vol. III, nella tr. di A. Russo, Roma-Bari, 1973, pag. 273. 87 Ivi, pag. 273. 88 Metafisica, , 10, 1051 b, 20-25, tr. it. cit., pag. 274. 89 Ivi, 1051 b, 30-35, tr. it. cit., pag. 274. 90 Ibidem, 1051 b, 35-37, tr. it. cit., pag. 274. 85

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è, dove l’essere qui viene congiunto all’esistenza. È questa congiunzione la sua ύ. E dove questa manchi, neppure la verità può cogliere il senso unitario dell’Essere presente a sé stesso; "allora", commenta Heidegger, "lo scoprimento è semplicemente il percepire l’ente e il coprimento non esiste affatto, come non esiste confusione, ma solo non-percezione".91 In realtà il testo aristotelico lascia supporre che la percezione ci sia, ma interessi qualcosa che nonè, non in quanto inesistente (poiché non si può percepire il niente) ma perché altro da ciò che si credeva fosse. E infatti Aristotile distingue la "ignoranza" del vero - che si ha quando il pensiero non pensa il "modo determinato" in cui esiste una cosa e non può non esistere che in quel modo, ma pensa il falso, cioè pensa ciò che le cose non-sono dalla "cecità", intesa come "mancanza totale della capacità di pensare",92 ossia dalla incapacità di cogliere le cose nel loro modo determinato di essere, di "vederle" per come sono. Si porta ad esempio quello degli "enti immobili" la cui "immobilità" impedisce che si possa commettere "un errore che sia relativo al tempo",93 essendo il loro modo d’essere indipendente dal tempo, cioè un modo ideale. Il commento di Heidegger, pur rilevando la notazione di Aristotile circa la differenza della falsa percezione dalla cecità, pare non tener conto del senso della distinzione tra la percezione sensoriale dell’ente come oggetto esistente, e la percezione logica, che coglie l’essenza di ciò che appare nell’ente; il quale senso riposa nella possibilità che le cose siano conosciute per la loro apparenza ma non per la loro essenza, e inoltre che la percezione di ciò che appare possa non corrispondere all’essenza recondita delle cose. Nell’ambito della percezione, quindi, l’errore può riguardare l’aspetto evidente delle cose, oppure la loro essenza. Quando la percezione si limita alla modalità sensoriale, non coinvolgendo l’essenza delle cose, che resta impregiudicata, non si può parlare di vero e proprio errore. Ma quando la percezione sensoriale è l’unica modalità possibile della conoscenza, essa dichiara una incapacità a vedere ciò che non è manifesto nella percezione in sé, cioè l’essenza, e in qual caso il non-vedere oltre l’apparenza non è una svista, ma bensì una incapacità assoluta, una "cecità" appunto. Da questa differenza cognitiva prende le mosse la questione ermeneutica relativa alla verità come Auslegung (la subtilitas

91

M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 119. Aristotile, Metafisica, , 10, 1052 a, 1-5, tr. it. cit., pag. 274. 93 Ibidem. 92

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intelligendi di Ernesti),94 ossia come interpretazione letterale, (come "parola esterna"), distinta dalla vera e propria Verstehen, (la subtilitas interpretandi dell’Ernesti), ossia dalla comprensione come "parola interna". Come ha scritto Gadamer, "l’ermeneutica comprende la dottrina dell’interpretazione grammaticale e dell’interpretazione psicologica", dove per questa si intende "l’intimo svolgimento della redazione di un’opera".95 Ma già Hegel ci aveva avvertiti che trattandosi di pensieri, e soprattutto di pensieri speculativi, comprendere significa ben altra cosa che intendere soltanto il significato grammaticale delle parole, e accoglierle in sé, ma non oltre la regione della rappresentazione. Può pertanto avvenire che si conoscano le affermazioni, i princìpi, o, se si vuole, le opinioni dei filosofi, che si siano laboriosamente esaminati i motivi e gli sviluppi di esse opinioni, e che non pertanto in tutti questi sforzi manchi la cosa principale, cioè la comprensione di quei princìpi.96

Ora, è proprio sui "princìpi" che dipende la possibile modalità teoretica della interpretazione, in senso tutto interno alla parola del testo, e quindi coerente ai suoi presupposti fondanti, ovvero nel senso di una trascrizione creativa, che dal testo ci conduca oltre, verso la sua possibilità meta-testuale, legata a pre-comprensione che trascende la formula del testo. L’intrusione nell’Auslegung di una Einlegung, secondo la terminologia di Schleiermacher97, ovvero di quella precomprensione del senso della verità (Vorvendständnis) come "presenza essenziale" (Anwesende, la οὐσία platonica), comporta il collegamento del senso particolare (Sinn) con il significato (Bedeutung) del suo contenuto universale, per cui, anche Heidegger acquisisce il motivo schleiermacheriano che il "carattere essenziale della comprensione" consiste nel "fatto che il senso particolare risulta solo dal contesto, cioè in definitiva dal senso del tutto",98 ovvero che "l’ermeneutica non è strutturazione del dato, ma riconduzione inesausta del dato alla struttura e della struttura al dato". Infatti, 94

J. A. Ernesti, Institutio interpretis Novi Testamenti, Lipsia, 1761. H. G. Gadamer, Verità e metodo (1960) tr. it. di G. Vattimo, Milano, 1986, pag. 226. 96 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia (1833), tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, Firenze, 1930, vol. I, pag. 6. 97 Ved. G. Vattimo, Schleiermacher filosofo dell’interpretazione, Milano, 1968, pag. 129, passim. 98 H. G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pagg. 229-230. 95

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senza una pre-comprensione dottrinale dell’intero non sarebbe possibile attuare né l’interpretazione in senso ‘oggettivo’ (nessuna pagina trova il suo senso nella somma delle parole, ma ciascuna parola trova il suo senso e lo verifica nella pre-comprensione del senso del tutto), né, soprattutto, la fondazione dell’interpretazione come tale.99

Ma, al di là dell’immediato referente autorale, ciò che qui rileva è che il modo di intendere il senso greco della verità come la sua identità con l’essere, cioè "l’essere come οὐσία ",100 è altamente problematico, non solo per la dubbia corrispondenza filologica della versione heideggeriana con quella della Metafisica citata, ma in quanto il concetto ontologico di σύνθεσις che viene accredito da Heidegger non corrisponde, da quanto abbiamo detto, al senso logico del discorso aristotelico, lasciando implicitamente (ma neppure tanto) supporre la corrispondenza del circolo ermeneutico, inteso appunto come relazione dell’Auslegung con l’Einlegung, con lo stesso concetto hegeliano di dialettica del finito-infinito, come se la "sintesi" logica hegeliana fosse già inscritta nel senso originario dell’ontologia greca. Il determinare è formalmente un rapportare, un rapportare che mette insieme; in ogni caso, in questo rapportare compare il momento sintetico prima di quello "analitico". Questo rapportare che mette insieme può essere isolato di fronte alla funzione primaria del , la dichiarazione, e allora esso si copre, sciolto, per così dire, dalla specifica relazione dell’intorno-a-che in quanto soggetto e predicato, in quanto rapporto di qualcosa con qualcosa nell’ambito di un formale mettere insieme. Aristotele usa il termine, in certo qual modo, formalmente, lasciandogli però contemporaneamente il senso dell’apofantico, ossia del dichiarare che indica l’ente.101

In realtà, il costrutto anfibologico attribuito ad Aristotele nasce solo a seguito della interpretazione univoca di Heidegger della "visione" greca con la "presenza" sia dell’ente che dell’essere, mentre essa è indicata in Aristotile solo come una possibilità. Hegel ha potuto tradurre questa possibilità in processo fenomenologico proprio in quanto non ha inteso, alla maniera di Heidegger, la "visione" come mera "presenza", ma come dinamica spirituale, sostituendo, come abbiamo visto, alla ipostatica "sostanza" il Soggetto poietico. In tal

99

I. Mancini, Teologia, ideologia, utopia, cit., pag. 135. M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pagg. 128-129. 101 M. Heidegger, Logik, cit., pag. 108. 100

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senso, il riferimento alla filiazione hegeliana dalla logica aristotelica102 era più che una innocente digressione erudita. Heidegger intendeva maldestramente includere Hegel tra gli epigoni di Kant quale ultimo degli antichi, a chiusura del senso tradizionale della logica. Il "passo avanti" prospettato da Heidegger doveva essere dunque conseguente a questa inclusione forzosa della logica dialettica entro il senso arcaico e "ingenuo"103 della logica greca. […] Presso i Greci la logica si è sviluppata in connessione con la grammatica, la riflessione sul parlare. […] Il risuonare del linguaggio era il modo più immediato in cui il discorso diventava accessibile all’esperienza. […] Questo significa che la prestazione fondamentale che ci si aspettava dal discorso era quella dell’ostensione di ciò di cui il discorso è discorso, di ciò intorno a cui si discorre nel discorso, quella della rivelazione. In questa ostensione si mostra quel che è chiamato in causa; se ne ha la percezione, e in quanto se ne ha la percezione, lo si determina nel discorso. Questa definizione ostensiva di quel che si esperisce e percepisce non è nient’altro se non quel che noi chiamiamo pensiero e riflessione. […] La logica si occupa del discorrere, del pensiero che dà determinazioni, in quanto esso scopre; il discorso costituisce il tema della logica, e lo fa in vista della verità. [Ma] solo in quanto si è chiarito che cosa significhi verità, si è messi nelle condizioni per comprendere appropriatamente il discorso, il logos […].104

La questione del "fondamento" consiste esattamente nella definizione univoca di verità come "struttura" e "costituzione" dell’essere. Se definiamo la logica come la scienza della verità […] si potrebbe obiettare che ogni scienza si occupa della verità, essendo la verità proprio quel che la conoscenza scientifica ricerca. Ma qui sarebbe fuorviante la pluralità dei significati del termine "verità". A rigore, nessuna scienza al di fuori della logica si occupa della verità, giacché le singole scienze si occupano solo del vero, cercano quel che è vero nel campo della conoscenza naturale; oppure, al Se, come disse Kant, “la logica analitica discende da Aristotele” che perciò se ne può considerare “il padre”, essa fu “portata a compimento da Hegel”, il quale divenne “l’unico figlio del padre della logica, allo stesso livello di lui”. Ciò vuol dire che la logica, “per proseguire il suo cammino filosofico ha bisogno di una nuova stirpe”, non avendo fatto fino ad oggi, come dice Kant, “un passo innanzi”, essendo essa, “secondo ogni apparenza, da ritenersi chiusa e completa”: M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 11. 103 L’epiteto è mutuato dalla definizione che Husserl diede della scienza moderna soprattutto nella Crisi. Heidegger, a sua volta, estese il giudizio riduttivo a tutta la tradizione occidentale. 104 M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pagg. 6-7. 102

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di fuori delle scienze, si è alla ricerca del vero utile all’agire umano o del vero dato dalla fede.105

Anche Heidegger, sulla scorta di Husserl, intende il filosofare come ricerca di ciò che sta anteriormente e unitariamente a ogni dato oggettivo di verità scientifica. La logica non chiede però del vero in qualche suo senso, ma primariamente e propriamente della verità del vero, di quel che di volta in volta rende vero il vero e lo rende proprio questo vero. Della verità della conoscenza teoreticoscientifica o della verità della riflessione pratica o della verità religiosa si può cogliere qualcosa con senso e ragione, se si è raggiunta la base a partire dalla quale viene compreso che cosa significhi verità. E solo di qui è possibile decidere quale genere di verità sia il più originario, se la verità teoreticoscientifica sia l’ideale di verità o se lo sia la visione pratica o la fede religiosa. In altri termini, non è senz’altro deciso quale genere di vero sia primario o originario. Anche nella filosofia odierna questo problema non è ancora stato risolto.106

La chiusa del passo è una presa di distanza dal modo in cui Husserl intende il metodo fenomenologico, e serve a introdurre il lettore al senso che egli intende offrire alla ricostruzione della tradizione filosofica. Certamente la tradizione della filosofia e la ricerca filosofica ai loro inizi si sono subito orientate verso un determinato genere di conoscenza, ossia verso la verità della conoscenza teoretica: la verità della proposizione teoretica, dell’enunciazione, divenne il modello di tutto quel che in generale è vero in riferimento alla sua verità. Una determinata forma di verità divenne l’ideale, e non appena si rifletteva sul senso della verità pratica o religiosa, questa riflessione avveniva sempre in contrapposizione alla conoscenza teoricoscientifica e in un genere di conoscenza, si pensava, più limitato e meno rigoroso, come è per esempio quello pratico. L’ideale della verità teoretica si è imposto nella filosofia moderna in una forma iperbolica, non tanto quando la verità teoretica divenne l’ideale della verità in generale, ma quando lo divenne il carattere di verità di una determinata forma della conoscenza teoretica, quello cioè della matematica.107

Anche Kant fu preso da questa credenza metafisica moderna, e non giunse, per horror vacui, ad indagare la struttura della verità. 105

Ivi, pag. 7. Ibidem. 107 Ivi, pagg. 7-8. 106

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Se consideriamo tutti insieme i vari significati del termine "verità", ritroviamo in essi ogni volta un momento di una struttura formale [quella] del così-come o del tale-quale [alla quale] diamo il nome di corrispondenza o, in latino, di adaequatio. […] Presentandosi questa forma del discorso palesemente come la forma fondamentale di ogni discorso teoretico-scientifico, essa tanto più fortemente si impone alla riflessione logica. Ogni ricerca definitiva nella formulazione dei suoi risultati si esprime in proposizioni, essendo soprattutto enunciazione intorno al mondo. L’enunciazione pensante-definente intorno al mondo, formulata nella semplice "proposizione", divenne così la forma semplice, più generale e al tempo stesso più originaria del discorso. […] La verità della conoscenza teoretico-scientifica divenne quindi la forma fondamentale e originaria della verità. La verità conoscitiva ottenne un rilievo universale; quando allora altre espressioni di verità entrarono nel campo visivo della riflessione, furono commisurate alla verità conoscitiva e intese come sue derivazioni e modificazioni. Che però la forma fondamentale della verità sia proprio la verità della conoscenza teoretica e anche quella dell’enunciazione non è affatto evidente [anche se] verso questa idea di verità si orienta non solo il primo atteggiamento della filosofia e la tradizione che da esso deriva nella logica, ma anche l’uso linguistico [, da allora] fino ad oggi. […] Si dovrà però mostrare come una comprensione più radicale del compito della logica debba necessariamente rivedere e scuotere questo ingenuo inizio della logica. In altri termini, non è affatto deciso quale vero, quello teoretico o quello pratico, sia il vero originario e autentico [per cui è] il problema dell’essere primario della verità a costituire il compito fondamentale della logica [che] voglia essere scientifico-ricercante e filosofante.108

Il programma di ricerca heideggeriano delinea un percorso che non può fermarsi al Moderno, ma deve investire la stessa tradizione medievale, ossia quella scolastica, al fine di non esaurire lì intuizione husserliana nelle strette di una metodica di scuola, in una "corrente" tra le tante della filosofia, ma di porla alla base di una Zonderweg tedesco, che rompe più radicalmente del Protestantesimo con la tradizione cattolica, inficiando le stesse radici del suo filosofare. La logica che comunemente oggi e in passato è ed è stata insegnata nelle università è una logica che si è lasciata alle spalle tutta la filosofia, ossia ogni problematizzazione e ogni apertura per la ricerca. Questa cosiddetta "logica scolastica" non è né filosofia né una singola scienza; essa è una struttura di comodo […] e al tempo stesso un’illusione. […] Questo genere di logica scolastica può richiamarsi a una lunga tradizione nell’ambito educativo […]. 108

Ivi, pagg. 9 e 10.

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Ma anche la tradizione più antica non può considerarsi legittima se già all’inizio è il prodotto di una decadenza, se comincia come decadenza. La tradizionale logica scolastica, infatti, proviene da uno stadio della filosofia nel quale questo suo carattere produttivo era già andato perduto. […] La logica scolastica tradizionale è il nucleo, trattato superficialmente, sradicato e quindi indurito, di una originaria problematizzazione filosofica, che era viva in Platone e Aristotele e che l’indurimento diffuso nelle scuole soffocò completamente. La riesposizione del complesso razionato di questa logica scolastica è un obbrobrio di fronte al vero filosofare [per cui] dobbiamo metterci nella condizione di staccare la tradizione autentica dalla linea di quella inautentica [entrando] nella logica filosofante del passato.109

Se però volessimo risalire al testo aristotelico senza la schermatura attualizzante, per comprenderlo sulla scorta dei suoi princìpi immanenti alle formule, noteremmo che la trascrizione heideggeriana trascura un aspetto fondamentale, notato da Cassirer nelle discussioni di Davos,110 e legato alla "rivoluzione copernicana" operata dalla metafisica di Kant rispetto alla metafisica dogmatica, nel senso della definizione dell’oggetto, non a partire dall’oggetto stesso, ma a partire dal soggetto conoscente. Il che costituisce la premessa di un superamento della finitezza naturalistica legata alla realtà sensibile in direzione dell’universalità. Senza questa premessa gnoseologica kantiana, non si comprenderebbe lo sviluppo della logica dialettica di Hegel nel senso dell’universalità anche dei dati sensibili, basata sulla trasposizione della sostanza immobile in Soggetto creativo. La "novità" della nuova prospettiva metafisica sembra consistere a Cassirer "nel fatto che non c’è più una struttura sola, ma che abbiamo strutture dell’essere interamente diverse. [Per cui] ogni nuova struttura dell’essere ha le sue nuove premesse a priori". Kant mostra di essere legato alle condizioni della possibilità dell’esperienza. Kant mostra come ogni specie di forma nuova concerne poi anche sempre un nuovo mondo dell’oggettivo, come l’oggetto estetico non sia legato all’oggetto empirico, come abbia le sue proprie categorie a priori, come anche l’arte costruisca un mondo, ma come queste leggi siano diverse da quelle del mondo fisico. In questo modo il problema dell’oggetto in generale assume una molteplicità di aspetti interamente nuova e in tal modo dalla vecchia metafisica dogmatica viene proprio la nuova metafisica kantiana. 109

Ivi, pag. 10-11. Il Dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin Heidegger è riportato come Appendice II in M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr. it. a cura di V. Verra, Roma-Bari, 2000, pagg. 219-236. 110

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L’essere della vecchia metafisica era la sostanza, qualcosa che costituiva il fondamento unico. L’essere nella nuova metafisica, per dirla con il mio [di Cassirer] linguaggio, non è più l’essere di una sostanza, ma l’essere che viene da una molteplicità di significati e di determinazioni funzionali. E qui mi sembra che si trovi il punto essenziale di distinzione della mia posizione rispetto a quella di Heidegger.111

In realtà, la risposta di Heidegger è molto meno distante da quella di Cassirer di quanto sembri a prima considerazione, poiché entrambi assumono, kantianamente, la dimensione del finito come l’orizzonte di analisi di ogni possibile discorso filosofico, rimanendo per questo al di qua di Hegel. Dice Heidegger: L’ultima questione sollevata da Cassirer, contrapponendo Kant al pensiero antico, mi offre ancora una volta l’occasione di riconsiderare il tutto. Io dico: si deve ripetere la domanda di Platone. Questo non significa che noi ci ritiriamo, assestandoci sulla risposta data dai Greci. È evidente che l’essere stesso è frantumato in una varietà, e che è un problema centrale conquistare il terreno per intendere l’interna varietà dei modi di essere a partire dall’idea di essere. A me importa acquisire questo senso dell’essere in generale come centrale. Tutto l’impegno delle mie ricerche è rivolto unicamente a guadagnare l’orizzonte per la questione dell’essere, della sua struttura e della sua varietà. Il semplice mediare non consentirà mai di andare molto avanti in modo fecondo. Proprio per la sua essenza, la filosofia come istanza finita dell’uomo è limitata nella finitezza dell’uomo, come nessun’altra creazione dell’uomo. Essendo la filosofia rivolta alla totalità dell’uomo e a ciò che vi ha di più alto nell’uomo, nella filosofia la finitezza deve mostrarsi in modo del tutto radicale.112

Parole per più versi sconcertanti, in quanto mantengono il programma filosofico di Heidegger ben al di qua non soltanto, come aveva notato Cassirer, della nuova prospettiva gnoseologica kantiana, ma anche al di qua dell’idea greca di "sostanza" come "essenza", cioè come "forma ideale", ben distinta dal concetto di forma materiale, ossia del crociano "pseudo-concetto", col quale si indica la generalità empirica degli enti, e non la loro unità ideale, cioè appunto essenziale. Nel primo caso, l’essere non può esser "frantumato" in una molteplicità di "modi di essere", poiché la "varietà" di cui parla Heidegger "non interessa affatto ai fini dell’indagine sulla sostanza sensibile, giacché l’essenza è proprietà esclusiva della forma e dell’atto. Infatti, anima ed essenza 111 112

Ivi, pag. 234. Ivi, pag. 235.

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di anima si identificano, ma essenza di uomo e uomo non sono affatto identici".113 Come notato già da Tommaso, "si forma esset una de parti bus materiae, dependeret ex materia".114 Ma riportiamoci ai testi salienti della Metafisica aristotelica per comprendere meglio il senso del discorso che andiamo facendo. Scrive dunque Aristotile: Ciò che è di per sé né nasce né perisce, altrimenti esso sarebbe generato da qualcosa di diverso – quindi, per quanto concerne quelle cose che sono essenze e che hanno un’esistenza attuale, non è possibile sbagliarsi in merito ad esse, ma è possibile solo pensarle o no; tuttavia l’indagine viene fatta circa la loro essenza, giacché si vuol sapere se esse siano o no di una determinata natura.115 La forma – o qualsiasi altra cosa con cui indichiamo la conformazione degli enti sensibili – non viene generata, e non ha un divenire, né viene generata l’essenza (giacché questa è ciò che viene introdotto in un’altra cosa o per arte o per natura o per potenza) […] L’oggetto che viene generato dovrà essere sempre divisibile, e dovrà essere in parte una data cosa, in parte un’altra, vale a dire in parte materia, in parte forma […] Ciò che noi chiamiamo forma o sostanza, non viene generato, mentre, al contrario, viene generato il sinolo, che riceve il suo appellativo in virtù della forma, ed è anche evidente che in tutto l’oggetto generato è presente una materia, e che esso stesso è in parte materia, in parte forma.116 L’essenza è sostanza e viene enunciata mediante la definizione […] Le sostanze su cui tutti sono d’accordo […] sono quelle sensibili. E le sostanze sensibili hanno tutte una materia. Ed è sostanza il sostrato, cioè in un senso la materia (chiamo materia quella che, senza essere in atto qualcosa di determinato, è, però, potenzialmente qualcosa di determinato), in un altro senso il concetto e la forma, ossia ciò che, essendo qualcosa di determinato, può esistere separatamente solo per logica astrazione; in terzo luogo è sostanza il composto di materia e forma, e di esso soltanto c’è generazione e corruzione, ed è esso quello che, in modo assoluto, ha un’esistenza separata: infatti, tra le sostanze formali, alcune hanno esistenza separata [cioè il νοῦς], altre no. E’, poi, evidente che anche la materia è sostanza; infatti, in tutti i cangiamenti che si verificano tra opposti, c’è qualcosa che fa da sostrato ai cangiamenti stessi […]; e allo stesso modo, per quanto concerne il cangiamento secondo la sostanza, c’è qualcosa che ora è in via di generazione, ma un’altra volta è in via di corruzione, e che una volta soggiace come qualcosa di determinato, ma un’altra volta soggiace come qualcosa che 113

Aristotele, Metafisica, H, 3, 1043 a, 35- 1043 b -3, tr. cit., pag. 239. Comm. 1713, cit. nella nota 24 della tr. cit. del testo aristotelico. 115 Aristotele, Metafisica, , 10, 1051 b, 25-35, tr. cit., pag. 274. 116 Metafisica, Z, 8, 1033 b, 5-15, tr. cit., pagg. 202-203. 114

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è privo di determinazione. E il cangiamento della sostanza implica gli altri cangiamenti, ma esso stesso non viene implicato […].117 La sostanza [è] la causa dell’essere di ciascuna cosa […].118 Qualora vogliamo ricercare la causa, dobbiamo tener presente che il termine "causa" si usa in molte accezioni […]. Bisogna comunque indicare come cause quelle che sono prossime […].119 Tre sono le specie delle sostanze: una di esse è sensibile […]; un’altra sostanza è immobile, e, secondo certi filosofi [i platonici], questa esisterebbe separatamente […]; infine, ritengono che solo gli enti matematici costituiscano tale sostanza. […].120 La sostanza sensibile è soggetta al cangiamento. E se il cangiamento proviene dagli opposti - certamente non da tutti gli opposti, ma soltanto dal contrario -, allora necessariamente ci deve essere un qualche sostrato che cangia da un contrario all’altro, dal momento che i contrari stessi non sono affatto suscettibili di cangiamento.121 […] Ciò che cangia è la materia; ciò in cui essa cangia è la forma. […] Le sostanze sono tre: la materia, che è un qualcosa di determinato in apparenza (infatti è materia e sostrato tutto ciò che esiste per contatto e non per naturale congiunzione), la natura come essenza determinata e come uno stato verso cui tende la generazione e, in terzo luogo, la sostanza composta dalle altre due precedenti, ossia la sostanza individuale, ad esempio Socrate o Callia..122 Poiché alcune cose, senza avere un processo di generazione e di corruzione, esistono e non-esistono, come […] in generale le forme […], non esiste la materia di ogni cosa, ma solamente di quelle cose che sono generate e si corrompono reciprocamente; quelle cose, invece, che senza essere soggette al cangiamento esistono o non-esistono, non hanno la materia.123

Come si può vedere, abbiamo qui le premesse teoretiche per un pensiero che vuole concentrarsi sulla "sostanza" come quella determinata da "cause prossime", ossia sulla "sostanza sensibile", quella ritenuta più concreta e meno opinabile, ma che non esclude la possibilità di pensare il "concetto" della sostanza, che Aristotile, diversamente da Platone, indica come un ente "astratto" dal suo essere fenomenico, dalla sua "materia". La "struttura" dell’"essere in generale" di cui parla Heidegger è il pensiero del Molteplice, non quello dell’Essere ideale; quell’Uno fondamentale che Platone pensò 117

Metafisica, H, 1, 1042 a, 15-35; 1042 b, 1-5, tr. cit., pagg. 234-235. Metafisica, H, 2, 1043 a, 1-5, tr. cit., pag. 237. 119 Metafisica, H, 4, 1044 a, 30-39, tr. cit., pag. 243. 120 Metafisica, , 1, 1069 a, 30-35 pag. 342. 121 Metafisica, , 1, 1069 b, 1-8, tr. cit., pag. 342. 122 Ibidem, 1070 a, 1-15, tr. cit., pagg. 344-345. 123 Metafisica, H, 5, 1044 b, 25-30, pag. 245. 118

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per primo come Idea dell’infinito, Kant assegnò alla categoria a priori, Hegel ripensò all’interno dell’unità dialettica del finito, Husserl ricercò nel fondamento della coscienza trascendentale produttrice di infinite determinazioni, e che lo stesso Heidegger vide nella temporalità. Se teniamo presenti entrambe le possibilità offerte dall’ontologia greca, ci rendiamo conto della compresenza in tutto il pensiero occidentale dei due indirizzi filosofici fondamentali del materialismo e dell’idealismo e del loro reciproco sviluppo unilateralmente assolutizzato come "scienza fenomenica" (oggettivismo) e "scienza veritativa" (coscienzialismo). Vedremo più oltre il loro sviluppo. Qui intanto va sottolineato che l’assunzione di uno dei due elementi dell’essere unitario, il Molteplice fenomenico ovvero l’Uno ideale, come la determinazione positiva e categoriale del discorso filosofico, determina per opposizione la sua negatività, e quindi relativa astrattezza, per cui ogni pre-comprensione dell’oggetto ermeneutico non è altro che tale determinazione positiva del (fondamento de) l’essere. Come afferma Heidegger, Nella logica e nella dottrina dei Greci come anche in tutta la tradizione fino a Husserl, la guida [per il problema dell’essere dell’ente] è costituita proprio dal logos nel senso del determinare, guida per il cui tramite ci si interroga sull’essere, l’ente sarebbe cioè presente come oggetto di una possibile determinazione, di una possibile determinabilità.124

Ma la determinazione stessa delle "cose del mondo" in un senso "orientato verso il "prendersi cura nel senso de comportamento non teoretico", rivela la loro riduzione al "livello di semplici cose presenti", cosicché trattandosi di cose che si usano e di cose fatte in vista di determinate affettuazioni, non si differenziano più. Ma questa modificazione della struttura dell’in-quanto nell’enunciazione presuppone sempre la struttura originaria dell’in-quanto, ossia la basilare comprensione di quel che nell’enunciazione e per il suo tramite viene livellato. Di conseguenza, il determinare enunciativo non è mai uno scoprire primario, il determinare enunciativo non determina mai una relazione primaria e originaria con l’ente, e quindi non può questo logos, diventare la guida per il problema dell’essere dell’ente. [Corsivo nostro.].125

124 125

M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 234. Ivi, pag. 107.

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In altri termini, la determinazione alla base della possibilità della scelta ontologica che l’ente sia fondato sull’essere enunciativamente determinato, rivela la realtà dell’ente nel suo essere per sé, ma non l’essere in sé dell’ente, che riguarda appunto l’Essere, e non l’ente nella sua presenza a sé stesso. In questo caso, l’adaequatio non è relativa all’ente così come esso è (ὄντως ), bensì riguarda l’ente così come appare. Le conseguenze sono logicamente inevitabili. Infatti, Quando si è scorto che il determinare stesso e tutta la sua struttura sono un fenomeno derivato, allora non è più possibile fare di questo fenomeno il punto di partenza per affrontare il problema dell’essere, se questo problema deve cogliere il fenomeno dell’essere alla radice.126

Heidegger, non di meno, conserva della metafisica greca ciò che gli consente di risalire al Boden, al luogo comune, che sottostà come "radice" strutturale pre-logica, e perciò ontologica, dell’essere: la "visione", concependo pertanto anche lui la verità come "verità della visione".127 E così egli conserva l’accezione platonica di essenza () quale presenza dianoetica del  ό, rappresentata dalla espressione aristotelica (ύ) quale determinazione unitaria predicativa o apofantica dell’essere, per cui interpreta la "visione" logica dell’Essere greco come Anwesenheit, come presenza essenziale, come sintesi delotica (il δηλοῦν interno al ός), in cui fa consistere la verità. Questa presenza della verità viene pensata non come "forma" categoriale, come contenuto del ός ma come "modo del tempo" attuale, cioè come pensiero del presente, dove il pensiero non è l’attività energetica del soggetto trascendentale, ma bensì l’oggetto fenomenologico della Temporalität.128 Da qui la sua "cronologia fenomenologica" come analitica della temporalità, anziché dello spirito come ός, cioè della "dialettica" hegeliana.

126

Ibidem. M. Heidegger, Logik, Parte II, “La radicalizzazione della domanda: che cos’è la verità? Ripetizione dell’analisi della falsità in riferimento alla sua temporalità”, pag. 138. 128 Heidegger spiega la differenza tra la temporalità come mero decorso del tempo, indicata col termine Zeitlichkeit e con l’aggettivo zeitlich, in uso nel discorso “naturale e prefilosofico”, e la temporalità come struttura temporale del fenomeno caratterizzato dal tempo, indicata col barbarismo Temporalität, da cui l’aggettivo temporal riferito al Charakter del fenomeno, in Logik, pag. 132. 127

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5. La radicalità dell’analisi filosofica viene mutuata dal senso dell’analitica kantiana, intesa come "portare alla luce la genesi del senso autentico di un fenomeno, spingersi nelle ultime condizioni di possibilità di qualcosa di dato".129 Dalla dottrina kantiana dello schematismo espressa nella Critica della ragion pura parte Heidegger per formulare la sua critica della temporalità. Nello schematismo si tratta di mostrare in quale maniera l’intelletto, ossia la spontaneità della ragione, può avere la proprietà di determinare l’intuizione, le forme dell’intuizione come forme della ricettività, più esattamente, in che misura le categorie come determinazioni a priori dell’unità della ragione possono riferirsi a oggetti. Il problema della connessione tra intelletto e sensibilità porta Kant a cercare una mediazione, che egli trova nel tempo.130

Kant non riesce a vedere l’appercezione trascendentale e l’intelletto nella loro temporalità, in quanto la sua visione del tempo è ancora quella tradizionale, che risale alla fisica di Aristotile e quindi recepita da Leibniz e da Newton, secondo cioè "lo schema dell’ordine e della determinazione ordinante della molteplicità di quel che è dato nella ricettività della sensibilità".131 Ma la ragione essenziale per cui Kant non riuscì a formulare l’idea di una cronologia fu "la separazione specificamente rigida tra sensibilità e intelletto", che assegnò al tempo, come forma dell’intuizione insieme allo spazio, il suo ambito all’interno della sensibilità, per cui "tutto quel che appartiene all’intelletto e quindi all’appercezione trascendentale e quindi in generale all’ultima unità della coscienza è pre-temporale".132 129

M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 131. M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 134. 131 Ivi, pag. 135. 132 Ivi, pag. 135. Vi è da dire che la sbrigativa critica di Heidegger all’interpretazione hegeliana della dottrina dello schematismo di Kant liquida esattamente, anche se indirettamente, l’obiezione che si potrebbe muovere alla sua propria interpretazione della “visione essenziale” come ύς aristotelica, ossia come enunciazione dell’essere astratto dalla sua  oppositiva. Infatti ciò che Hegel rileva nella sua critica a Kant è che l’intuizione non viene concepita come sintesi dialettica di sensibilità e intelletto, ma appunto alla maniera greca, come inerente a uno dei due momenti della conoscenza, come del resto viene confermato da Heidegger. Il riferimento a Hegel è oltremodo significativo, in quanto la rivisitazione di Kant è l’unico modo per interrompere la linea ideale che lo porta a Hegel, nel tentativo di stabilire attraverso appunto la propria rivisitazione un percorso critico alternativo, sia a quello esplicito neo-kantiano, sia a quello non confessato neo-hegeliano; pensando insomma a un’altra fenomenologia, che ha Husserl porti alla sua analitica, non più della coscienza o dello spirito, ma del tempo. 130

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Quindi passa a considerare il tema affrontato a proposito dello psicologismo circa ciò che costituisce "la connessione d’essere tra l’essere reale e l’essere ideale", ossia il rapporto, nel giudizio concreto, tra l’atto reale del giudizio e il suo contenuto ideale.133 Ed è qui che si rivela il senso della interpretazione heideggeriana del senso greco dell’essere, allorquando egli radica la visione archetipa nell’essere ideale nell’esserci esistenziale del Da-sein, in cui l’uomo che abita il mondo non è un ente per sé, distinto dal mondo, ma è un ente-nel-mondo, dove evidentemente "l’essere-nel-mondo, ‘è’ già l’uomo stesso".134 Ma la "struttura essenziale" dell’esser-ci, in cui si stabilisce il rapporto inseparabile e imprescindibile dell’uomo col suo ambiente mondano, "non è l’unica". Infatti, la presenza nel mondo per l’uomo non si dispone in termini di distacco contemplativo dell’osservatore teoretico o comunque privilegiato, ma bensì in termini di necessità, per cui "il presso-il-mondo significa un esser-costretti-a-riferirsi ad esso, essere da esso assorbiti, muoversi in quanto consegnati ad esso". Più esplicitamente, "l’esserci non solo ‘è’ essenzialmente nel mondo, ma ‘è’ in esso deietto [verfallen]".135 La condizione mondana dell’uomo è, dunque, subita, e ben lungi dall’essere rappresentata da Heidegger come un privilegio naturalistico o teologico. Il modo d’essere nel mondo dell’esserci, il suo "come", è "prendersi cura del mondo", che non è un modo "arbitrario, ma determinato a sua volta in base al modo fondamentale dell’essere dell’esserci", e tale da poter fenomenicamente "mettere in risalto la sua struttura temporale".136 È perciò che tale struttura non può essere intesa nel senso biologico generale in cui si crede di poterla intendere per il mondo animale, ma la sua comprensione può essere solo "raggiunta filosoficamente". Infatti, la biologia, finché resta biologia, presuppone quella struttura, che essa può "determinare", cioè comprendere, "solo se oltrepassa essa stessa i suoi propri confini per diventare filosofia".137 Ma neppure l’approccio filosofico, pur casualmente tentato dai biologi e dagli psicologi-antropologi, è sufficiente alla comprensione della struttura dell’esserci, per la quale occorre l’analisi ontologica, quale 133

Ivi, pag. 139. Ivi, pag. 141. 135 Ivi, pag. 141. 136 Ivi, pag. 142. 137 Ivi, pag. 143. 134

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base di ogni "orizzonte regionale", per cui "la problematica dell’esserci deve essere compresa sin dall’inizio come problematica filosofica" che si interroga circa il modo in cui l’essere dell’esserci si determina nel suo mondo, che è quello appunto del "prendersi cura" (besorgen).138 La "Cura" (Sorge), come "struttura caratteristica dell’esserci", è il "modo fondamentale" che l’uomo ha per essere se stesso; è la sua "possibilità in cui egli ha scelto di essere se stesso e in cui si è posto" nel mondo e che "determina ogni modo d’essere che segua dalla costituzione d’essere dell’esserci ". Ciò che per Kant era l’imperativo categorico, la Cura diventa per Heidegger la categoria primaria dell’essere dell’esserci, per cui l’uomo, "ossia ogni essere razionale", è quell’ "ente che in tal modo esiste come scopo in sé stesso".139 Ma la Cura non è una semplice trascrizione del valore assoluto kantiano dell’uomo come scopo in sé stesso; essa è la tematizzazione ontologica del suo fenomeno finalizzata alla comprensione del suo essere. Infatti la Cura è co-originaria all’esserci, e in essa "nascono tutti i comportamenti dell’esserci, in particolare i comportamenti nel senso dell’essere-per-il-mondo in quanto prendersi-cura e in quanto modi del prendersi-cura", ossia la modalità della condivisione, come cura condivisa (Mitsorge) e aver-cura (Fursorge).140 Di conseguenza, il prendersi-cura, come modo fondamentale dell’essere dell’esserci, non inerisce, secondo un’accezione pre-scientifica, soltanto ad alcuni comportamenti concreti, soprattutto attivi, ma è, ontologicamente, un "concetto strutturale",141 che include una "pluralità di fenomeni" compresi in una "unità [che] non è una somma, non è cioè il risultato di un accostamento delle singole parti, ma è una totalità che in quanto inizio precede la pluralità ed è essa sola, per così dire, a permettere al suo interno qualcosa come delle parti". Nella storia della filosofia questa unità dell’esserci e delle sue strutture fondamentali va compresa sotto il nome di "Io", inteso kantianamente come "polo degli atti teoretici" che apre "la possibilità generale dell’unità della coscienza", o, in senso ancora più generale, come il cogito cartesiano.142

138

Ibidem. Ivi, pagg. 145-146. 140 Ivi, pag. 147. 141 Ivi, pag. 149. 142 Ivi, pag. 150. 139

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Ma il senso peculiare del concetto di Cura è la sua determinazione in termini di "comportamenti", le cui modalità effettive sono variabili e reversibili, e in questo senso Heidegger afferma che "ai vari modi di comportarsi appartiene fondamentalmente la determinazione della possibilità".143 Sulla possibilità si fonda l’autenticità o inautenticità dell’esserci come appartenenza o perdita del proprio sé. Generalmente, l’esserci non si polarizza in uno dei due modi opposti, ma "si mantiene in una singolare indifferenza, che non è nulla ma qualcosa di positivo: è quella medietà dell’esserci che chiamiamo quotidianità", il cui essere non è facile da cogliere categorialmente,144 anche se la sua articolazione consente la conoscenza del se-stesso come essere modificabile, appunto nel senso dell’autenticità ovvero dell’inautenticità. Terminologicamente, cogliamo il prendersi-cura proprio dell’inautenticità come prendersi cura deiettivo. Nel prendersi-cura, l’esserci si dispone ad essere in una determinata possibilità, e lì si dispone, nel suo prendersi-cura, in modo da poter essere determinato nel suo comportamento da ciò di cui si prende cura. […] Mentre al contrario, se l’esserci deve conquistarsi nella autenticità, quindi non esclusivamente e primariamente essere deietto nel suo mondo, è necessario che l’esserci, per conquistarsi, debba già anticipatamente essersi perduto […] nel senso che si trova nella possibilità di poter rinunciare ad ogni effettivo acquisto e possesso.145

Le distinte modalità della Cura sono una conseguenza del fatto che l’esserci, "nella misura in cui è in un mondo, è costretto a riferirsi a questo mondo in cui esso è". Pertanto, "l’esserci è effettivamente deietto nel suo mondo, e questo esser deietto nel suo mondo fa parte dell’effettività dell’esserci", intesa come "una determinazione d’essere specifica dell’esserci", e non nel "senso indifferente" di "fatticità di una cosa semplicemente presente".146 Le diverse modalità dell’essere dell’esserci, ossia del comportamento umano, si collocano nell’orizzonte della temporalità. La deiezione viene presentata da Heidegger come una caratteristica antropologica, quella che Gehlen indicherebbe come la Sonderstellung dell’uomo, che predispone l’esserci al suo atteggiamento fondamentale nel mondo come "prendersi-cura deiettivo". Ciò 143

Ivi, pag. 151. Ivi, pag. 152. 145 Ivi, pagg. 153-154. 146 Ivi, pag. 154. 144

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comporta che la cura essenziale dell’esserci è verso ciò che "ne va di" sé stesso, legato alla sua condizione di possibilità d’essere o di "essere per".147 Prendersi cura di sé equivale a proporsi come "avanti a sé stesso", un sé stesso che è già-presso-il-mondo. Da qui la struttura propria della Cura come "essere-avanti-a-sé-già-presso-il-propriomondo".148 La "Cura che si prende cura" di sé, estende il modello di relazione all’altro, che è egli stesso un esserci che è a sua volta in relazione con sé stesso, per cui "l’essere per l’altro è solo, per così dire, la proiezione della relazione d’essere che un esserci stabilisce con sé stesso".149 Qui Heidegger tocca, non senza un qualche imbarazzo anche terminologico, la questione nodale delle relazioni inter-soggettive. Avendo la sua analitica spostato il centro di riferimento teoretico dall’essenza all’esistenza, il "con-essere" diventa un "essere gli uni con gli altri in un mondo",150 ossia una con-presenza esistenziale di esserci che hanno in comune una modalità di cura di sé, che però non li unisce in un noi se non per l’aspetto oggettivo di abitare (non lo stesso, ma) un mondo, che diventa l’orizzonte tematico della relazione. Ma la condivisione di un determinato essere per "un mondo" fa acquisire al mondo il suo essere, per l’esserci, come una "cosa", il cui essere comune la costituisce come il tramite della comunicazione umana. È questa comunicazione che, realizzandosi, pone il "con-essere" nel tempo. Nella misura in cui l’enunciazione è comunicazione, nella piena consistenza fenomenica dell’enunciazione intorno al mondo è incluso il fenomeno degli altri, i cui enunciati vengono comunicati nell’enunciazione nel senso che la comprensione ricettiva della comunicazione da parte dell’altro non significa nient’altro che questo, che egli condivide con me un determinato essere per quella cosa. Con l’enunciazione comunicata in questo modo, non solo qualcosa per altri è scoperto, ma un nuovo con-essere con gli altri nel mondo si è temporalizzato.151

Il gergo esoterico, in verità neppure sofisticato, cerca di nascondere lo spostamento attuato da Heidegger delle problematiche classiche e 147

Ivi, pag. 155. Ivi, pag. 156. 149 Ibidem. 150 Ibidem. 151 Ivi, pag. 157. 148

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moderne della vita pratica su un piano di analisi fenomenologica oggettivata in una visione realisticamente attualizzata alla dimensione dell’esperienza comune. Con effetti che sono a dir poco destabilizzanti per la coscienza storica, poiché il "mondo" di cui si tratta, rispetto alla concreta realtà della antica o moderna  ς è una realtà deprivata di ogni riferimento diacronico, e in conseguenza schiacciata sulla presenzialità di una "visione" che è "presente" alla coscienza ma solo ad essa, e quindi astratta dal tempo storico, ossia dalla stessa temporalità che in ipotesi si dovrebbe analizzare fenomenologicamente. Infatti, così come la coscienza resta al di qua della  fenomenologica, la Temporalità, come categoria inglobante, facendo da sfondo di ogni determinazione fenomenologica, è anch’essa al di qua di ogni temporalizzazione reale, e quindi stagliata in un eterno presente meta-storico e metatemporale che Heidegger indica cripticamente come la "condizione grigia della quotidianità", la cui inautenticità risiede nel fatto di essere una rappresentazione ipostatica di una modalità d’essere rinvenibile soltanto nella dimensione ipotetica prospettata dal filosofo come strutturale. Paradossalmente, proprio questa oggettivazione ipotetica fa della struttura ontologica heideggeriana una rappresentazione scientifica, soggetta a quella confutazione empirica che l’analitica husserliana dichiaratamente eliminava dalla sua prospettiva fenomenologica. Questo esito scientifico di una filosofia che voleva essere il pensiero dell’Essere e non delle sue semplici manifestazioni, comprova che la metodica fenomenologica riesce nel suo scopo teoretico fin quando si mantiene entro i termini correttivi di una critica metodologica della tradizione scientifica occidentale, ma allorquando "avanza la pretesa di costruire una scienza particolare della pura oggettività, un’ontologia", mostra tutti i limiti sincretistici sopra evidenziati dell’ermeneutica heideggeriana del pensiero greco, fondata sulla trascrizione della "intuizione dell’essenza" in "evidenza-presente" (il concetto della "contemporaneità" nel "fenomeno dell’adesso") rendendo la presunta "oggettività della realtà ontologica" (l’essere del tempo) una datità "puramente dichiarativa" (l’adesso come il tempo presente).152 Il tempo viene pensato sia nella accezione di "intuizione formale", ossia come unificazione del molteplice dato nella rappresentazione, come kantiana "forma dell’intuizione", ossia 152

Ved. G. Lukàcs, La distruzione della ragione, tr. it., Torino, 1959, vol. II, pagg. 501-502.

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anticipazione di tutti gli "adesso" come "totalità" o "unità delle estasi", e sia come orientamento preliminare a consentire che qualcosa si presenti allo sguardo. Ma cos’è il tempo? Anche se "solo entro certi limiti", asserisce Heidegger, il "concetto volgare del tempo è anche l’unico ad aver conosciuto finora un’elaborazione concettuale, teoretica nella filosofia". E il contrassegno della sua versione "volgare" "sta nel fatto che il tempo sia compreso a partire dall’adesso", il momento cioè "in cui gli altri caratteri temporali, il passato e il futuro, si determinano relativamente ad esso; il passato come il non-più-adesso, il futuro come il nonancora-adesso".153 Da qui la centralità dell’essere-semplicementepresente degli enti e la relativa possibilità della successione dei loro "adesso" come loro "caduta nel tempo". Tra gli enti, è "il mondo" ad avere il primato, il quale, come "concetto categorialmente più ampio", include anche la Natura. Heidegger capovolge il rapporto greco tra antropologia e Natura, assegnando il primato alla natura umanizzata, nel cui concetto vanno inclusi, oltre che gli eventi materiali, anche quelli psichici: il mondo, appunto, "inteso nel senso filosofico dell’incui dell’essere dell’Esserci",154 portando all’estremo la soggettivizzazione moderna del pensiero quando afferma che "solo il mondo è natura, nella misura in cui lo si scopre a partire da un certo punto di vista".155 Il punto di vista originario e "strutturale" in cui si pone la riflessione heideggeriana del tempo è quello della Cura, che, "nel suo senso ontologico-esistenziale genuino", è intesa non come "sola esistenzialità, separata dalla effettività e dalla deiezione", e neppure come "un comportamento isolato dell’io rispetto a se stesso", ma come "unità" delle "determinazioni d’essere" dell’Esserci, ovvero come "la totalità formale esistenziale delle strutture ontologiche dell’Esserci", per cui "l’essere-nel-mondo è essenzialmente Cura".156 Scrive Heidegger a proposito che essa, "pur essendo determinata da caratteri temporali, non è temporalmente determinata nel senso di cadere ‘nel tempo’ come vi cade un ente". E aggiunge significativamente che "questo, però, non significa che essa sia qualcosa di estraneo al tempo […], qualcosa stia al di fuori e al di sopra del tempo", poiché essa "non è un ente e in nessun caso è un ente nel senso della semplice 153

M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 162. Ivi, pag. 164. 155 Ivi, pag. 162. 156 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi, Milano, 1976, pag. 241. 154

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presenza".157 La Cura infatti è un’ipostasi, quella di una modalità dell’esserci assunta come un modo originariamente strutturale del suo essere, la cui comprensione richiede un "un diverso concetto di tempo". E "il solo modo" in cui è possibile pensare la Cura "è che si crei un più originario concetto di tempo, a partire dal quale sia determinabile il senso [dei suoi] caratteri".158 Il punto di partenza di ogni conoscenza, compresa la "riflessione filosofica", è per Heidegger l’ambito della vita quotidiana dell’"esserci effettivo",159 per cui il pensiero del tempo che lo riguarda "non è né qualcosa che cada dal cielo né qualcosa che sia pensata arbitrariamente", ma si connette al "senso di un’esperienza neutrale nel mondo", assumendo le stesse determinazioni ideali delle premesse che fondano l’oggetto della sua teoresi. Ad esempio, se "una conoscenza filosofica è connessa con la scienza, essa prende il tempo nello stesso modo con cui la scienza prende i suoi fenomeni".160 Da qui discende la considerazione generale riguardante la riflessione sulla Temporalità, per cui il posto assegnato alla trattazione del fenomeno temporale all’interno di una filosofia indica quale sia la concezione fondamentale del tempo da cui essa è guidata. Quando il tempo è messo in rapporto con il mondo, con la natura, con l’ente creato, allora esso è compreso come tempo-adesso e, in termini temporali, si ha un cadere "nel tempo", uno svolgersi "nel tempo".161

La "guida" filosofica tradizionale "nell’indagine sul tempo" è quella di Aristotile espressa nella sua Fisica, dove il tempo viene definito come ἀός ής, "calcolo del movimento", dal cui concetto hanno attinto i maggiori filosofi, compreso Hegel e lo stesso Bergson, che l’avrebbe per altro frainteso.162 La prima questione per definire la "natura" del tempo che affronta Aristotile è quella di stabilire "se esso rientri nel numero delle cose

157

Ivi, pag. 160. Ivi, pagg. 162-163. 159 L’effettività (Faktizitat) è il carattere originario dell’esistere, per cui “l’esistere è sempre effettivo” e “l’esistenzialità è sempre determinata in modo essenziale dalla effettività”: M. Heidegger, Sein und Zeit, tr. it. cit., pag. 240. 160 M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 164. 161 Ivi, pag. 165. 162 Ivi, pagg. 165-166. 158

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esistenti o di quelle non esistenti".163 Infatti, "sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non-enti, possegga un’essenza".164 Egli parta dalla constatazione che il tempo, sebbene sia divisibile, non è fatto di parti, che hanno una loro "misura", mentre "l’istante non è una parte", né il tempo "sembra essere un insieme di istanti", anche perché "non è facile vedere se l’istante, che sembra discriminare il passato e il futuro, permanga sempre unico e identico oppure diventi sempre diverso".165 Ma non è possibile ammettere né che "gli istanti siano continui tra loro", né che siano discontinui, poiché allora ogni istante "esisterebbe simultaneamente con gli istanti interposti", e neppure che "esso permanga sempre medesimo", poiché nessuna cosa divisibile ha un solo limite, laddove "l’istante è un limite, ed è possibile assumere un tempo finito".166 Dall’esperienza sappiamo che "non c’è tempo senza movimento e cangiamento", anche se "il tempo non è movimento" ma una sua "proprietà",167 per cui quando percepiamo il prima e il poi del movimento, "diciamo che c’è tra questi due istanti un tempo", mentre senza movimento "non ci sembra che alcun tempo abbia compiuto il suo corso".168 Anche in Hegel il tempo è connesso con lo spazio. Nella Enciclopedia il tempo è definito come il "divenire intuìto", la "unità negativa dell’esteriorità" di "alcunché di semplicemente astratto e ideale", la quale negatività "si riferisce come punto allo spazio e vi svolge le sue determinazioni come linea e superficie […] e vi appare come indifferente verso la giustapposizione immobile".169 Il tempo è, come lo spazio, una pura forma della sensibilità o dell’intuizione, è il sensibile insensibile; - ma, come allo spazio, così anche al tempo niente preme la differenza dell’oggettività, e di una coscienza soggettiva, che le stia di fronte. Se codeste determinazioni venissero applicate allo spazio e al tempo, quello sarebbe l’astratta oggettività, questo invece l’astratta soggettività. Il tempo è il principio medesimo dell’io = io della pura autocoscienza; ma è quel principio o il semplice concetto ancora nella sua 163

Aristotile, Fisica, IV (), 10, 217 b, 33-34, tr. it. di A. Russo, Roma-Bari, 1973, pag. 99. 164 Ivi, 10, 218 a, 2-3, tr. it. cit., pag. 99. 165 Ivi, 10, 218 a, 6-11, tr. it. cit., pag. 99. 166 Ivi,10, 218 a, 15-25, tr. it. cit., pag. 100. 167 Ivi,11, 218 b, 30-219 a, 1-10, tr. it. cit., pag. 100. 168 Ivi,10, 218 b, 20-32, tr. it. cit., pag. 103. 169 G.G.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, §§ 257 e 258, tr. it. di B. Croce (1907), Bari, 1963, pag. 217.

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completa esteriorità ed astrazione, - come il mero divenire intuìto, il puro essere in sé in quanto è semplicemente un venir fuor di sé. Il tempo è continuo, non meno dello spazio; giacché esso è la negatività, che astrattamente riferisce sé a sé, e in questa astrazione non vi è alcuna differenza reale.170

Ma l’aspetto più saliente di questa mirabile definizione che Hegel dà del tempo è la sua identificazione col "divenire, nascere e morire" del "tutto", ossia col movimento dialettico stesso, il quale non viene indicato come la realtà concreta dell’essere che diviene, ma bensì come la sua astratta ed estrinseca rappresentazione. La concretezza è il divenire del tutto, ma senza quel "tutto", senza cioè la determinazione reale del movimento dialettico, il divenire in sé è un’astrazione ideale. Per cui, "se si astrae da tutto", resta il "vuoto" di tutto, cioè "l’astrazione del nascere e del perire stesso", la quale viene rappresentata "per sé" nella sua "esteriorità", come un’astrazione che "è", pur non essendo reale. Ma, precisa chiaramente Hegel, che "non è già nel tempo che tutto nasce e muore", ossia nella "irrequietezza della contraddizione", essendo questa irrequietezza la astratta rappresentazione, il "vuoto", del movimento dialettico, ossia "il tempo stesso".171 Il tempo, afferma Aristotile, è fatto di istanti, per cui "se il tempo non fosse, l’istante non sarebbe, e se non fosse l’istante, non sarebbe nemmeno il tempo".172 L’istante "è la continuità del tempo; difatti, esso collega il tempo trascorso e quello che sarà, ed è limite di tempo, perché esso è principio di un tempo e fine di un altro". In quanto divide, l’istante "è sempre diverso", ma in quanto unisce, "è sempre lo stesso".173 Il tempo, dunque, è sia "continuo" che "diviso" a causa dell’istante, ma è conosciuto, non in virtù della scansione degli istanti, ma in quanto inerente alle cose cui è abbinato, in quanto le contiene, ossia "per mezzo dell’oggetto mosso, e lo spostamento per mezzo dell’oggetto spostato", sicché "il movimento e lo spostamento conservano la propria unità in virtù dell’unità dell’oggetto spostato"; dal che consegue che "l’istante non è né una parte del tempo né la divisione del movimento".174

170

Ivi, § 258, tr. it. cit., pag. 217. Ibidem, pag. 218. 172 Aristotile, Fisica, IV (), 11, 219 b, 34-220 a, 1, tr. it. cit., pag. 104. 173 Ivi,13, 222 a, 10-15, tr. it. cit., pag. 110. 174 Ivi, 11, 220 a, 5-20, tr. it. cit., pagg. 104-105. 171

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Ogni "avvenimento deve essere determinato in relazione all’istante. Vi sarà, quindi, una determinata quantità di tempo da questo istante verso il futuro, come vi fu anche da questo istante verso il passato".175 "Nel tempo, invero, tutte le cose nascono e periscono".176 "Il tempo, di per sé, è piuttosto causa di corruzione [che di generazione]: infatti esso è numero del movimento, e il movimento pone fuori di sé ciò che è in sé".177 "Tutte le cose, dunque, che sono suscettibili di generazione e di corruzione e che, insomma, ora sono ed ora non sono, esistono necessariamente nel tempo; […] quante cose, invece, esso non contiene in nessuna guisa, né furono, né sono, né saranno".178 Non che il tempo operi i cambiamenti o le distruzioni, ma sono queste che avvengono nel tempo.179 "L’essere-nel-tempo vuol dire che la loro esistenza è misurata dal tempo […] allo stesso modo che sono nel numero l’unità, il dispari e il pari", ma "non significa essere quando il tempo è". Ci sono anche cose che, essendo "sempre", "non sono nel tempo, né la loro essenza è misurata dal tempo", così come ci sono cose che, pur essendo nel tempo, sono in quiete, "giacché ogni quiete è in un tempo". Epperò le cose che "non sono né in moto né in quiete, non sono neppure nel tempo", essendo il tempo "misura del moto e della quiete". E questo è il caso del "non-ente".180 Anche per Heidegger, come per Aristotile, come abbiamo visto, tutto "cade nel tempo". Ma bisogna intendere bene le parole di Hegel (il quale per primo ha usato il verbo "cadere" quando dice che "il tempo – poiché i suoi momenti tenuti insieme ed opposti si negano l’un l’altro immediatamente, - è il cadere immediato nell’indifferenza, nella esteriorità indifferenziata, ossia nello spazio").181 Hegel, infatti, distingue il divenire concreto ("nascita e morte del tutto") dalla vuota rappresentazione del divenire, ossia dal divenire come concetto astratto del movimento dialettico. Questa differenza (che, detto en passant, è alla base dell’interpretazione crociana dell’essere categoriale come realtà sintetica determinata) è possibile in quanto per Hegel "concreta" non è (come invece in Gentile) l’idea del tutto-che-diviene, ma la sua determinazione come essere-che-è. In altri 175

Ivi,13, 222 a, 25-30, tr. it. cit., pag. 110. Ivi,13, 222 b, 15-20, tr. it. cit., pag. 111. 177 Ivi, 221 b, 1-5, pag. 108. 178 Ivi, 221 b, 25-222 a, 5, pagg. 108-109. 179 Ivi,10, 222 b, 26-28 e 30-31, tr. it. cit., pag. 112. 180 Ivi,12, 221 a, 30-221 b, 25, tr. it. cit., pagg. 108-109. 181 G. G. F. Hegel, Enciclopedia, § 260, tr. it. cit., pag. 221. 176

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termini, il divenire, solo determinandosi esprime il suo essere, e determinandosi si coglie come "presente", ovvero, con le parole di Hegel stesso, come "luogo",182 quella sintesi dove l’astratto tempo e l’astratto spazio coincidono. Heidegger legge tale coincidenza nel senso della logica dell’astratto, per cui per Hegel "lo spazio è tempo". Ma non è così. La coincidenza nella sintesi non è l’equivalenza degli astratti, che sono invece opposti, come abbiamo visto citando il § 258 dell’Enciclopedia presa in esame da Heidegger, che definisce "sofistica" la dialettica hegeliana.183 La questione è invece altra, ed è esattamente quella che ha diviso gli interpreti italiani di Hegel tra coloro che ritenevano "razionale", ossia idealmente concreto, il processo dialettico (Gentile e seguaci) e coloro che invece ritenevano "reale" il giudizio ideale (Croce e seguaci). In questo passo, Hegel distingue (esplicitamente) una intuizione del divenire come astratta negatività, da una intuizione del divenire come concreta determinazione reale. Due intuizioni, o due modalità dell’intuire? L’intuizione del divenire astratto, del "vuoto" divenire, è intuizione dell’astratto, non è astratta intuizione. L’intuizione in sé è atto concreto, che determina l’essere del divenire. Se questo essere è "vuoto" di realtà, cioè astratto, l’intuizione rappresenta il vuoto, l’essere-astratto, che non-è reale: indica un è che non-è. Viceversa, l’intuizione del concreto, è a sua volta concreta. Ma cosa "è" concreta, se non è l’intuizione? È appunto il suo oggetto. E l’oggetto concreto della intuizione non è il divenire, che non è in sé rappresentabile fuori della sua determinazione, ma concreta è appunta la determinazione del divenire, il giudizio. Il giudizio d’essere, l’"è" della proposizione apofantica, non-è il "divenire", cioè il tempo, ma bensì il divenire-reale, ossia il divenuto, che è "astratto" rispetto alla concretezza del divenire come tutto, ma è "concreto" rispetto alla realtà della sua determinazione attuale, ossia del suo essere attualmente determinato, presente. La contraddizione interna al tempo inteso come astratto divenire, viene colta nel fatto che il "presente" del giudizio storico è già un passato rispetto al divenire, ma esso deve la sua realtà attuale alla indeterminatezza del divenire, alla sua possibilità d’essere, che, rispetto all’essere determinato, è "astratta" realtà. Possibile, infatti, è la realtà non-presente, non-attuale, la cui non-realtà o "astrazione" è relativa alla realtà-attuale. E la realtà possibile, non attuale e non presente, è la realtà del divenire, la quale è 182 183

Ibidem. M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 167.

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nella misura in cui non-è appunto attuale, non-è presente, e quindi non determinata. E poiché la realtà determinata, quella che "è", rispetto al divenire, ossia al tempo astratto, è come passato, la realtà possibile è come futuro. Affermare quindi come fa Heidegger che ogni cosa che è, è nel tempo, equivale a dire che ogni cosa è possibile, ma non ci dice cosa ogni cosa è realmente, poiché questo dire dell’essere delle cose è il giudizio, che astrae le cose dal loro divenire e quindi dallo stesso tempo indeterminato (o Temporalità), per determinarle nel tempo reale che è nel contempo lo spazio reale: il "luogo" determinato della Storia. Quando Heidegger afferma che "l’essere dello spazio è determinato per mezzo del tempo, determinabile solo a partire da esso",184 confonde il tempo determinato (l’è del giudizio) col tempo del divenire (l’astratta Temporalità). Che l’essere dello spazio sia "determinato per mezzo del tempo", allude al tempo come giudizio di realtà; invece, quando aggiunge che lo spazio è determinabile solo a partire dal tempo, vuol significare che la realtà del divenire è la concreta determinazione dello spazio che è come tempo presente, ossia come "luogo", il quale non-è il divenire, ossia l’astratta Temporalità, ma il tempo reale, ossia il presente dell’attualità storica. In questo senso il tempo reale, l’attualità che è, il giudizio storico, "è" sempre "presente". Così, affermare più oltre che secondo Hegel "la determinatezza dello spazio, il fatto cioè che lo si pensi in maniera assoluta, lo spazio la raggiunge solo a partire dal tempo",185 non significa che il luogo dello spazio è determinato a partire dal tempo in divenire, e non dal tempo determinato, che già è spazio localizzato, ossia "luogo". Il "luogo", come spazio localizzato e tempo determinato, non-è più nel tempo (possibile), ma è tempo (reale), è possibilità realizzata, presente. L’ attualità del presente è il tempo determinato, l’"adesso" come "unità concreta" che non-è più divenire, ma è già divenuto, è realtà (Wirklichkeit). Quando Hegel afferma che "la verità dello spazio è il tempo",186 vuole semplicemente dire che lo spazio vero è quello determinato, quello che è, che esiste come "luogo". Spazio determinato e spazio esistente sono sinonimi di spazio "vero", cioè reale, non astratto "punto" gemetrico: spazio che è un qualche "luogo", e nel suo essere reale è tempo determinato. 184

Ivi, pag. 167. M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 167. 186 G.G.F. Hegel, Enciclopedia, § 257; Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 169. 185

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Se noi ci chiediamo quale sia questo luogo di sintesi della verità, Heidegger risponde "nel tempo", ossia nello scorrere del divenire, nella Temporalità, mentre Hegel risponde nella determinazione, ossia nella realtà del giudizio d’esistenza. Il "tempo-adesso" di cui dice Heidegger,187 è il tempo determinato dalla sua esistenza attuale, che è "reale" in quanto è in qualche spazio come "luogo", e perciò non-è il tempo come divenire, come heideggeriana Temporalità. E quando Heidegger dichiara che "sulla temporalità, da Hegel non c’è da aspettarsi nulla e nulla da imparare",188 mostra solo di non aver compreso Hegel, ossia, nello specifico, che non ha compreso che il tema della Temporalità è in Hegel il tema stesso della dialettica. Ora, il "luogo" della realtà ideale viene inteso da Hegel come lo stesso luogo della effettualità: da qui la congiunzione di tempo e spazio. Ma, come abbiamo visto, la sintesi dell’essere nel giudizio attuale non coincide temporalmente col tempo dell’esistenza se non nell’idea, la quale, perciò, non è l’Essere, ma appunto l’idea dell’Essere. L’Essere che idealmente è, quello del giudizio apofantico, non-è l’Essere del Divenire, cioè non è il divenire. Rispetto all’essere che è divenire, che è essere indeterminato, l’essere determinato nel giudizio è un essere che, pur essendo attuale nel giudizio, non-è l’adesso del fenomeno oggetto del giudizio d’esistenza. Per cui ciò che il giudizio determina come essere è un ente che è-già, il cui essere "è", ma è astratto rispetto all’essere reale del giudizio attuale. E dove "è" questo ente il cui essere "è" astratto se non nel divenire, il quale appunto "è" la realtà del negativo rispetto alla realtà della determinazione ideale? Ciò vuol dire che i due esseri non coincidono se non nell’idea, ma non anche nella realtà effettuale, la quale è astratta prima della sua realtà sintetica nell’essere del giudizio. In tal senso "il presente è per Hegel non solo presente, ma presente del passato".189 Presente come attualità del giudizio ideale (il ῦ di Aristotile), e presente-passato quale contenuto fenomenico del giudizio storico (il   di Aristotile). E poiché, come abbiamo visto supra, non possono essere due esseri infiniti, uno dei due esseri è finito, cioè l’opposto logico dell’altro. Ma ciò che più conta è che l’incoincidenza logica dell’essere ideale con l’essere fenomenico, oggetto del giudizio, impedisce la possibilità che l’essere dell’Idea (eterno) sia lo stesso essere del fenomeno (storico), come voleva Hegel e credeva Croce. 187

M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 170. Ibidem. 189 M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 175. 188

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E poiché l’essere dell’Idea, la determinazione del giudizio, potrebbe essere in sé e per sé, solo, come voleva Croce, avendo nel suo essere la sua negazione opposta, facendo coincidere l’essere del giudizio (temporale) con il luogo effettuale (spaziale), si avrebbe che l’essere "reale" sarebbe lo stesso essere "razionale", come voleva appunto Hegel. Ma se l’essere razionale è quello dell’Idea, e quindi l’essere del tempo lo stesso essere della Temporalità, si avrebbe che l’essere determinato sarebbe lo stesso essere del divenire, ossia avremmo la coincidenza del "vero" col "fatto", facendo del "fatto" (il prodotto reale) l’eguale del "fare" (la produzione ideale). Un essere storico che sarebbe nel contempo eterno. Ma questo non potrebbe essere, non coincidendo, come abbiamo visto, il tempo-divenire (la Temporalità) con il tempo-determinato (l’"adesso"). Ciò vuol dire che il "luogo" dell’essere ideale non-è il luogo dell’essere reale, dal momento che non coincide la loro rispettiva temporalità, come non coincide l’Essere col non-Essere. L’essere del già-stato del fenomeno, con l’essere adesso dell’Idea, trovano la loro sintesi nell’è del giudizio, il cui tempo, però, non-è lo stesso tempo dell’astratto divenire né quello dell’astratto fenomeno, ma è il tempo della sintesi, un presente in cui l’essere fenomenico trova la sua determinazione di essere ideale, diventando storico. L’essere storico non-è nel divenire, essendo possibilità realizzata, il "già" del tempo passato; così come l’essere ideale è "ancora" nel divenire, ma appunto come possibile realtà, come "dover-essere" del tempo futuro. Entrambi astratti rispetto al presente del tempo storico, il cui essere comprende la dimensione del passato fenomeno e dell’eterna Idea: un "eterno presente". Che nondimeno non coincide con l’Idea eterna, la quale, come detto, al pari del divenire, comprende anche il tempo della speranza, il futuro, il non-già passato e il non-ancora presente. In questo senso va interpretata l’affermazione di Hegel che "l’essenza del presente è il futuro"; nello stesso senso in cui Heidegger dice che "il senso della temporalità sia il futuro". Il "futuro", in quanto tempo-divenire, ossia Temporalità, è la "essenza in senso greco, ossia ciò da cui ogni adesso nasce in quanto adesso, ossia dal suo non-ancora-adesso".190 Ed è questa "essenza" che Hegel ha indicato come l’astratto concetto del vuoto divenire, dal quale si genere il concreto "adesso" (il  che "è" l’essere del ό , ovvero la ἴς della ής ), cioè il tempo determinato, l’intuizione pensata.

190

M. Heidegger, Logik, tr. it. cit., pag. 175.

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Circa il non-essere del divenire, esso "è" il Molteplice indeterminato, a cui realtà è astratta in relazione alla concreta determinazione del giudizio, ma è pur sempre qualcosa e non il nulla. È la molteplicità dei fenomeni possibili, ossia la stessa Possibilità e Temporalità come ipostasi. Il fenomeno, se considerato alla stregua dell’attimo temporale, in quanto diverso da ogni altro, è diverso, cioè Molteplice; ma in quanto è ciò che è una sola volta, esso è identico, cioè Uno.191 Così Hegel realizza l’unità del molteplice nell’evento, e la presenza dell’infinito nel finito. Ma è una identità puramente ideale, che lascia impregiudicata la realtà esistenziale, come l’intuizione del tempo che non impedisce il suo scorrere effettivo. Infatti, se il fenomeno sussiste, permane in considerazione della sua unità logica, mentre si diversifica nella sua realtà fisica, soggetta alla temporalità o divenire. Ma l’unità logica si riferisce allo stesso fenomeno, non al fenomeno diverso, ossia inerisce a ciò che del fenomeno permane, non a ciò che cambia. E ciò che cambia è la sua realtà fisica, la sua forma estetica, mentre ciò che permane è la sua essenza ideale, per cui l’unità non è identica al fenomeno ma all’idea di esso, così come la diversità non è identica all’identità, cioè il Molteplice all’Uno. Dice infatti, Aristotile: "Il tempo è identico, simultaneamente, in ogni luogo; ma come anteriore e posteriore non è identico, perché anche il cangiamento in quanto presente è uno, ma in quanto passato e futuro è diverso".192 Ciò vuol dire che l’idea del fenomeno, in quanto fenomeno identico a sé stesso, non cambia; ma la stessa idea, riferita a un fenomeno diverso, è diversa. E come può la stessa idea essere una e diversa? Ciò è possibile solo ammettendo due idee: una che attiene al fenomeno identico, l’altra al fenomeno diverso. Da qui consegue che il fenomeno è idealmente uno, ed empiricamente è molteplice. È’ uno, ossia identico a sé stesso, se considerato come idea; è molteplice, se considerato nel tempo, come elemento del divenire, cioè nella sua indeterminatezza logica, nella sua astratta inseità. L’essere, dunque, del fenomeno è duplice: un essere finito, empirico, soggetto alla temporalità e al divenire; e un essere infinito, ideale, eterno. La diversità ideale di cui discorrono i Sofisti ricordati da Aristotile, per cui "l’oggetto, una volta che se ne ammetta l’esistenza, è identico, invece per il pensiero è diverso, come altro è Corisco nel Liceo, altro è

191 192

Ved. Aristotele, Fisica, 11, 219 b, 13-14, tr. it., cit., pag. 104. Ivi, 12, 220 b, 5-8, tr. it. cit., pag. 106.

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Corisco nella piazza",193 è quella relativa alla condizione astratta esistenziale di Corisco, alla quale corrisponde la sua diversa posizione ideale; per cui ogni oggetto è oggetto della sua idea, mentre Corisco in sé e Corisco per sé sono indeterminati e astratti: allo stesso oggetto corrisponde la stessa idea, ad idee diverse oggetti diversi. Corisco al Liceo è lo stesso Corisco in piazza se Corisco è l’oggetto della stessa idea di Corisco; Se l’idea cambia, cambia anche Corisco, suo oggetto. Corisco "in sé", fuori del Liceo e fuori della piazza, non è definibile, ossia non è determinabile se non nella sua astratta essenza. Questa essenza, per quanto empiricamente astratta, in qualche modo è, e tale modo è appunto quello esistenziale. Il modo esistenziale dell’essere empirico è il modo proprio dell’essere sociale. Ammettere l’esistenza di un oggetto equivale a esprimere un giudizio di realtà su di esso, cioè qualificarlo come un ente che "è". Ma il giudizio di realtà, non necessariamente è lo stesso giudizio ideale, perché può riferirsi alla sola esistenza dell’ente, astratta da ogni ulteriore determinazione di valore. Dire, pertanto, che un ente è, equivale ad asserire che quell’ente esiste empiricamente, che fa parte del mondo, ma non necessariamente che esso è l’oggetto di una qualifica categoriale. Certo, questa qualificazione è possibile, ma non necessaria. Il libraio può dire se un certo libro è pubblicato o presente nei suoi scaffali, senza poter dire se esso sia un capolavoro artistico o ciarpame pubblicistico. Qualcun altro lo può giudicare, ma solo eventualmente, e non necessariamente ai fini dell’esistenza di quel libro come ente reale chiamato libro. Il libro, come ente in sé, è un mero prodotto sociale, astratta merce, che può essere venduta o ristare invenduta, che può servire a tenere in equilibrio un tavolo malposto oppure a ispirare altre opere, ciò che, ai fini della sua esistenza, conta è che esso è parte di questo mondo. E come parte del tutto, esso è come le altre parti, con il suo servire e il suo essere inutile, col suo volume e il suo peso, con la sua, insomma, fisicità o consistenza corporea. Di esso, prima che si possa dire che sia un’opera d’ingegno o un vaniloquio, si può dire che esso è, che fa parte del mondo, esiste. E in quanto meramente esistente, esso non appartiene all’idea, non è un oggetto determinato, ma appartiene alle cose del mondo, ai prodotti sociali. La sua astratta esistenza ideale "è" la realtà della sua concreta esistenza sociale. Sicché, ciò che per l’idea non-è-ancora, per l’esistenza sociale è-già. Da qui il rapporto diacronico tra l’attualità del giudizio ideale, che consegna l’ente 193

Ivi, 219 b, 19-21, pag. 104.

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all’essere-uno, e la presenza del giudizio esistenziale, che destina l’ente alla sua possibilità d’essere ciò che secondo l’idea esso è. Essendo la possibilità il non-ancora dell’essere determinato, l’ente oggetto del giudizio ideale è-già una realtà esistenziale, una realtà del passato. La condizione di possibilità che l’ente sia potenzialmente nel futuro e nel passato, determina il carattere della sua astrattezza ideale rispetto all’attualità dell’essere determinato, che riporta sia la possibilità futura che la realtà passata all’eterno presente del giudizio, che rappresenta in ciò che è il ciò che poteva-essere (capolavoro o ciarpame) e il ciò che è-stato (prodotto e merce). L’ "adesso" notato da Heidegger come determinazione del discrimine temporale, non è il tempo dell’essere-semplicemente-presente della Wirklichkeit degli enti, ma è il tempo ideale di ciò che l’ente è come oggetto ideale, cioè idealmente, non esistenzialmente. Il "luogo" ideale non è lo "spazio" dell’esistenza, anche se può coincidere per ciò che è-ancora mera esistenza, ed è-già stato quel valore che il giudizio attuale riconosce all’ente che è adesso. Per tornare al nostro esempio: il libro esistente, può essere un capolavoro, e quando si dirà che esso lo è, esso lo è-già quando non-ancora di lui si sarà detto che lo sia. La possibilità che un ente idealmente sia, non è la sua potenzialità in senso aristotelico, poiché questa include la necessità che qualcosa di esistente sia già ciò che sarà. La possibilità non è legata all’ente ma all’essere, e l’essere dell’ente non-è l’ente allo stesso modo di come la ghianda sia in potenza la quercia. La ghianda e la quercia appartengono a fasi distinte di uno stesso essere chiamato temporalmente in modo diverso. Invece, dell’ente che semplicemente esiste (il nostro libro) si può dire che è (un capolavoro), ma si può anche non dire, senza che l’ente perda il suo essere ente. La differenza essenziale è che l’ente che ideale non-è, non esiste, perché il suo essere ideale dipende dall’idea; viceversa, l’ente che idealmente non-è continua ad essere ente, cioè qualcosa di esistente. Ciò vuol dire che l’essere ideale e l’essere in senso esistenziale non sono lo stesso, ma abitano luoghi diversi, come ben aveva visto Platone. Che poi l’ente e l’idea amorevolmente si ricerchino, questo rientra nel novero delle possibilità, ma non è una necessità che essi si trovino. E questa condizione di aleatorietà costituisce il malessere dell’ente che non-è, e il benessere dell’ente che è nell’idea, ossia nel suo valore d’essere ciò che è. E la distanza che separa l’attesa d’essere dall’Essere rappresenta la "povertà" (Penìa) del vivere, cioè del divenire, la separatezza dall’ essere eternamente nel presente dell’Idea come in sé e per sé. 75


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Poiché la Necessità appartiene alla Natura, e la Possibilità agli uomini, l’ente quale umano prodotto appartiene alla natura umana, ossia alla società. E se l’atto di ciò che è in potenza non è umano ma naturale o divino, l’attualità ideale è una possibilità legata all’essere dell’uomo in idea. E questa idea dell’uomo è anch’essa un prodotto sociale, sia pure senza avere un’esistenza sociale, perché il suo essere attuale è legato alla stessa possibilità che l’uomo sia ciò che è ovvero non lo sia, cioè alla condizione umana. "Condizione" vuol dire, non mera esistenza biologica, ma vita antropologica, cioè socio-culturale. L’uomo può essere ciò che è, in quanto il suo essere non è legato ad alcuna necessità naturale o divina, ma solo alle sue stesse possibilità, all’idea che egli ha di sé stesso. E quand’anche Dio intervenga a volte a correggere la traiettoria della sua povera vita, in ogni caso spetta alla responsabilità dell’uomo secondare la spinta giusta o rassegnarsi alla proterva inerzia maligna. 6. Il metodo utilizzato da Heidegger per l’analitica esistenziale è quello fenomenologico, il quale "non caratterizza il che-cosa reale degli oggetti della ricerca filosofica, ma il suo come", ossia il "modo di raggiungere e di determinare dimostrativamente ciò che deve costituire il tema dell’ontologia".194 Poiché il fenomeno, inteso fenomeno logicamente, è sempre e soltanto ciò che esprime, e l’essere è sempre l’essere dell’ente, il progetto di ostensione dell’essere richiede in primo luogo un approccio adeguato all’ente. […] Considerata nel suo oggetto reale, la fenomenologia è la scienza dell’essere dell’ente: ontologia.195 La ricerca ontologica è certamente più originaria che la ricerca ontica delle scienze positive. […] Il problema dell’essere mira perciò alla determinazione a priori delle condizioni di possibilità non solo delle scienze che studiano l’ente, che è tale in questo o quel modo, e che si muovono quindi già sempre in una comprensione dell’essere, ma anche delle ontologie stesse che precedono le scienze ontiche e le fondano.196

Il termine "fenomenologia" è composto dalle due parole greche di ό e di ός. La radice del termine "fenomeno" è la stessa di ῶς, luce, e di ί, mostrarsi alla luce, che significa anche "apparire" nel senso di presentarsi per ciò che in realtà non è. 194

M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., 1976, pagg. 46 e 56. Ivi, pagg. 57-58. 196 Ivi, pag. 27. 195

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Heidegger considera la "parvenza" (Scheing) come "una modificazione privativa" di ciò che si manifesta nella sua realtà vera.197 Diversa dalla parvenza è la "apparenza" (Erscheinung) come l’"annunciarsi di qualcosa che non si manifesta, mediante qualcosa che si manifesta". In questo caso, "l’apparire è un non-manifestarsi", che non ha niente da vedere con la privazione della parvenza fenomenica.198 L’apparenza cela qualcosa che non si manifesta, e quindi non può neppure "sembrare" ma pur sempre si fonda sul manifestarsi di qualcosa, che non è l’apparire. In questo caso, l’apparire è un "annunciarsi mediante qualcosa che si manifesta", in cui il fenomeno, che non è mai in quanto tale "apparenza", resta "presupposto".199 Il concetto formale di fenomeno è "ciò-che-si-manifesta-in-se-stesso", in cui l’ente di riferimento "resta indeterminato", per cui è "indeciso se l’automanifestantesi sia sempre un ente o un carattere d’essere dell’ente".200 Questo concetto formale resta valido parlando dell’intuizione empirica nel senso di Kant, ma "tale concetto ordinario non è però il concetto fenomenologico di fenomeno", in base al quale "fenomeno" è ciò che, pur non manifestandosi tematicamente come tale, "può essere portato tematicamente all’auto-manifestazione".201 Quanto al concetto di ός, come "discorso", esso è "equivoco" in Platone e in Aristotile, perché privo di "un significato fondamentale", e "tradotto" e "interpretato" volta a volta come "ragione, giudizi, concetto, definizione, fondamento, relazione", pur nella pretesa di un uso scientifico del termine, mentre il suo senso autentico è di lasciar vedere, portare alla luce, (ί) qualcosa di cui (ἀό) si discorre (έ). In questo senso originario il discorso logico è "apofantico".202 Ma è questo il senso "autentico" del ός, inteso come procedimento metodico tendente a evidenziare o svelare la verità? Heidegger trascura del tutto il "processo" dialettico dell’ ἀύ, il   , evidenziando il suo prodotto quale ente svelato, presentando quindi la verità come un ente, un qualcosa che si manifesta (ἀές): un oggetto. La verità, però, non è un ente, il 197

Ivi, pag. 48. Ivi, pagg. 48-49. 199 Ivi, pag. 49. 200 Ivi, pag. 50. 201 Ivi, pag. 51. 202 Ivi, pagg. 51-52. 198

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ό, bensì una relazione concettuale (ς) di immagini di enti. Ciò vuol dire che il luogo apofantico del  è quello in cui è possibile il έ, e cioè la "immaginazione", la ί. Questo luogo non è il mondo-della-vita, la storia dove tutto diviene (ά ), ma quello dove dimorano le "immagini" del mondo, quelle "visioni" essenziali che emergono dal divenire e si manifestano per ciò che sono, dove il fenomeno (come ente) si congiunge al suo essere, al suo ς. Heidegger ritiene "infondato" il richiamo ad Aristotile, considerando che il senso greco della verità è la ἀί ς, cioè la "pura percezione sensibile delle cose", il  ῖ, che si rapporta veritativamente ai propri  Egli stesso aveva affermato che L’ ‘essere’ non può esser concepito come un ente […]; non è possibile determinare l’essere mediante l’attribuzione di predicati ontici. Non è possibile definire l’essere muovendo da concetti più alti, né presentarlo muovendo da più bassi. […] L’unica conseguenza legittima è questa: l’‘essere’ non è qualcosa come l’ente. Ecco perché quel modo di determinare l’ente, la ‘definizione’ della logica tradizionale che entro certi limiti è da considerarsi fondata e che trova la sua ragion d’essere nell’ontologia antica, non è applicabile all’essere.204 [L’essere è] ciò che determina l’ente in quanto ente, ciò rispetto a cui l’ente, comunque sia discusso, è già sempre compreso. L’essere dell’ente non ‘è’ esso stesso un ente.205

Nondimeno, trattando la verità come un fenomeno, la "verità del giudizio" come il "fenomeno di verità",206 cambia la "visione" della verità con la sua percezione sensibile, che può riguardare solo gli enti mondani. La verità, in somma, "è" in quanto si pone "nel giudizio", e in questo senso è "del" giudizio (e non della percezione sensibile). Se l’essere costituisce il cercato, e se essere significa l’essere dell’ente, ne viene che, nel problema dell’essere, l’interrogato è l’ente stesso. L’ente, per così dire, verrà inquisito a proposito del proprio essere. […] Elaborazione del problema dell’essere significa dunque: render trasparente un ente (il cercante) nel suo essere.207 203

Ivi, pag. 53. Ivi, pag. 19. 205 Ivi, pag. 21. 206 Ivi, pag. 54. 207 Ivi, pag. 22. 204

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La posizione di questo problema, in quanto modo di essere di un ente, è anche determinata in linea essenziale da ciò a proposito di cui in esso si cerca: dall’essere. Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci [Dasein].208

Circa il "primato" vantato dall’Esserci "rispetto a ogni altro ente", Heidegger enumera per primo il "primato ontico", in base al quale "questo ente" che è l’Esserci "è determinato nel suo esserci dall’esistenza"; "in secondo luogo", Heidegger richiama il "primato ontologico", in virtù del quale "per il suo esser-determinato dall’esistenza, l’Esserci è in sé ‘ontologico’". Infine, l’Esserci ha il "terzo primato" di essere "la condizione ontico-ontologica della possibilità di ogni ontologia", in quanto "appartiene cooriginariamente, quale costitutivo della comprensione dell’esistenza, una comprensione dell’essere di ogni ente non conforme all’Esserci."209 Nondimeno, asserisce Heidegger, "ciò che è stato finora raggiunto in fatto di interpretazione dell’Esserci potrà ottenere la sua giustificazione esistenziale solo quando le strutture fondamentali dell’Esserci saranno state sufficientemente analizzate in un orientamento esplicito nel problema dell’essere stesso".210 Bisogna cogliere la verità dell’ente non attraverso l’analisi di strutture qualsiasi ma solo attraverso quelle essenziali, più originarie di tutte, lasciando che l’ente si mostri nella sua "quotidianità media".211 Ciò che costituisce "l’orizzonte di ogni comprensione e di ogni interpretazione dell’essere" è per Heidegger "il tempo", per cui la "temporalità" (Zeitlichkeit) è "il senso dell’essere dell’ente che chiamiamo Esserci".212 Da tenere presente che la temporalità di cui qui si dice non riguarda solo gli enti che "sono nel tempo", ma anche l’essere stesso deve rendersi trasparente nel suo carattere temporale, per cui "anche il ‘non temporale’ e l’‘ultra temporale’ sono ‘temporali’ rispetto al proprio essere".213 Tale temporalità dell’essere va distinta dalla nozione comune di temporalità, e indicata come Temporalität, che è "la 208

Ivi, pagg. 22-23. Ivi, pag. 30. 210 Ivi, pag. 34. 211 Ibidem. 212 Ivi, pag. 35. 213 Ivi, pag. 36. 209

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condizione della possibilità della storicità, quale modo d’essere temporale dell’Esserci stesso, a prescindere dal problema se e come l’Esserci sia un ente che è ‘nel tempo’ ".214 L’esserci comprende sempre sé stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere sé stesso. […] Il problema dell’esistenza, in ogni caso, non può esser posto in chiaro che nell’esistere stesso. La comprensione di sé stesso che fa da guida in questo caso noi la chiamiamo esistentiva. Il problema dell’esistenza è un ‘affare’ ontico dell’Esserci. A tal fine non si richiede la trasparenza teoretica della struttura ontologica dell’esistenza. Il problema intorno ad essa mira invece alla discussione di ciò che costituisce l’esistenza. All’insieme di queste strutture diamo il nome di esistenzialità. L’analitica di essa non ha il carattere di una comprensione esistentiva, ma quello di una comprensione esistenziale. Il compito di un’analitica esistenziale dell’Esserci è predelineato, quanto alla sua possibilità e alla sua necessità, nella costituzione ontica dell’Esserci. Ma in quanto l’esistenza determina l’Esserci, l’analitica ontologica di questo ente richiede sempre una considerazione preliminare dell’esistenzialità. Ma questa è da noi intesa come la costituzione d’essere dell’ente che esiste. Ma nell’idea di una costituzione d’essere di questo genere, si trova già l’idea dell’essere. Di conseguenza anche la possibilità dell’espletamento dell’analitica dell’Esserci viene a dipendere dalla elaborazione preliminare del problema del senso dell’essere in generale.215

Heidegger afferma a seguire che "il primato ontico-ontologico dell’Esserci sarebbe stato notato sin dall’antichità, senza che tuttavia ne fosse [stata] colta la struttura ontologica genuina", e cita un noto passo del De anima di Aristotile in cui si afferma che "l’anima è in qualche maniera tutte le cose",216 interpretandolo nel senso che "l’anima (dell’uomo) è, in certo modo, l’ente".217 Poiché questo richiamo, sia pure succinto e approssimativamente tradotto, ci pare essenziale per la comprensione del discorso heideggeriano, è necessario approfondirlo al fine della plausibilità del referente classico, sia pure polemico. Da premettere che per Aristotile "l’essenza è il principio di ogni dimostrazione", e che "conoscere l’essenza" vale "a cogliere le cause

214

Ivi, pag. 37. Ivi, pag. 29. 216 Aristotele, Dell’anima, III (), 8, 431 b, 21, tr. it. di R. Laurenti, in Opere, cit., vol. II, pag. 545. 217 M. Heidegger, Op. cit., pag. 30. 215

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delle proprietà delle sostanze”, le quali proprietà perciò "concorrono grandemente a conoscere l’essenza".218 Le proprietà che "in massimo grado sembrano appartenere all’anima per natura" sono "il movimento e la sensazione",219 alle quali è da aggiungere la "incorporeità".220 Riguardo al movimento, "poiché ogni movimento consiste nell’allontanamento dal proprio stato della cosa mossa in quanto mossa, anche l’anima si allontanerà dalla sua essenza, se si muove non per accidente, ma il movimento appartiene alla sua essenza, per sé".221 Esiste "un genere di cose che chiamiamo sostanza", la quale non è, da un lato, altro che "la materia e cioè quel che non è, per sé stesso, una cosa determinata", e dall’altro "è la figura e la forma, secondo la quale la materia è già detta questa cosa determinata". Aristotile contempla anche "il composto di materia e forma", ma ciò che rileva è la natura degli elementi primi, di cui "la materia è potenza, e la forma entelechia". Poiché il corpo è materia, l’anima non è il corpo ma "sostanza [ὐί], in quanto forma [ἶς] del corpo naturale che ha la vita in potenza"; ossia l’anima è "sostanza nel senso di forma e cioè quiddità" [ό  ἠ ἶ], la sostanza della forma [ὐί ὠς ἶ forma determinata della materia, prodotto reale [ό . "Tale sostanza è entelechia: dunque l’anima è entelechia d’un corpo", ossia è perfezione di ciò che ha la vita in potenza, ossia racchiude il ς di ciò che è in grado di vivere.222 Le principali proprietà che distinguono e definiscono l’anima sono "il movimento locale" e "il pensare e il comprendere". Poiché la conoscenza è conoscenza di "una qualche realtà", le due ultime proprietà costituiscono "una sorta di sentire", anche se, più propriamente, "sentire e comprendere non sono lo stesso", dal momento che di ciò che appare ai sensi "partecipano tutti gli esseri animati", mentre del φρονεῖν partecipano "pochi soltanto".223 Ma se la sensazione, trovandosi "in tutti gli esseri animati", "è sempre vera", l’atto del "ragionare", proprio perché esclusivo e riservato a "chi ha la ragione", "può essere anche falso".224 Aristotele, Dell’anima, I (), 1, 402 b, 18-26, tr. it. cit., pag. 465. Ivi, 2, 403 b, 25-27, tr. it. cit., pag. 468. 220 Ivi, 2, 405 b, 13, tr. it. cit., pag. 473. 221 Ivi, 3, 406 b, 11-15, tr. it. cit., pag. 476. 222 Aristotele, Dell’anima, II (), 1, 412 a, tr. it. cit., pagg. 491-492. 223 Ivi, III () 3, 427 a, 18-22, 427 b, 8-9, tr. it. cit., pagg. 532-533. 224 Ivi, 427 b, 13-14, tr it. cit., pag. 534. 218 219

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La parte di anima che "pensa e concepisce" si dice "intelletto", il quale è puro, ossia non è "mescolato al corpo, poiché in tal caso assumerebbe qualità determinate", per cui è corretto affermare che l’anima intellettiva "è il luogo delle forme", nel senso però che "non si tratta di forme in atto, ma in potenza".225 Così come in natura c’è la materia, che è la potenza di "ciascun genere di cose", distinta dalla causa agente che "le produce tutte", parimenti esiste un intelletto che, come la materia, "diventa tutte le cose", e un altro intelletto che, analogo alla causa agente, "le produce tutte".226 L’intelletto agente è "il principio della materia", ed è da questa "separato" e "per sua essenza atto". Essendo l’atto la realtà compiuta di ciò che era in potenza, ossia la sua perfezione, "la scienza in atto è identica al suo oggetto", laddove "la scienza in potenza" è l’intelletto "separato" dal suo oggetto, cioè dalla realtà della materia formata, e in quanto separato, nella sua assolutezza, "esso è solo quel che realmente è, e questo solo è immortale ed eterno".227 Ciò vuol dire che la conoscenza dell’oggetto, ossia la verità della scienza consistente nella coincidenza di forma e materia, non è che il contenuto determinato della scienza in potenza, cioè dell’intelletto puro, astratto dalla sua determinazione oggettiva, il quale solo, in quanto indeterminato, "è anteriore nel tempo", ma solo relativamente a "un individuo", mentre, in senso assoluto, fuori della attività temporalmente determinata del soggetto pensante, "non è anteriore nel tempo", ma trascende il tempo, ossia non è nel tempo, e in questo senso è "immortale ed eterno". Di conseguenza, la conoscenza della forma dell’oggetto ottenuta dalla scienza, la cui verità è stabilita dalla coincidenza di forma e materia quale determinazione dell’intelletto in atto, non è la conoscenza della "realtà" dell’intelletto in quanto tale, cioè "separato" da ogni concreta determinazione oggettiva e temporale. Questo viene ribadito da Aristotile quando afferma a un di presso che è lo stesso la scienza in atto e l’oggetto: quella in potenza, per rispetto al tempo, è nell’individuo anteriore e, tuttavia, non lo è neppure per rispetto al tempo, giacché dall’essere in entelechia proviene tutto quanto diviene. Ora è evidente che l’oggetto sensibile fa passare in atto la facoltà sensitiva che era in potenza, perché la facoltà non patisce né è alterata. Di conseguenza, questa è un’altra specie di movimento: infatti il movimento è l’atto di ciò che è 225

Ivi, 4, 429 a, 23-29, tr. it. cit., pag. 538. Ivi, 5, 430 a, 10-16, tr. it. cit., pag. 540. 227 Ibidem, 20-25. 226

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imperfetto, mentre l’atto in senso assoluto, l’atto di ciò che è perfettamente compiuto, è differente.228

L’anima che ha per oggetto i concetti e non le sensazioni, è detta "dianoetica", nella quale "le immagini tengono il posto delle sensazioni", ed è questa la ragione per la quale "l’anima non pensa mai senza immagini". Le forme vengono infatti pensate entro le immagini dalla "facoltà noetica". La differenza tra il pensiero delle immagini e quanto il vero e il falso sono in "relazione all’azione", è la stessa che il primo ha un valore assoluto, mentre il secondo è relativo a "un essere determinato".229 Ciò vuol dire che nell’anima non c’è corrispondenza tra le "cose" e le "forme", ma in essa solo le forme "sono", "perché non c’è la pietra nell’anima, bensì la forma della pietra".230 La capacità dell’uomo teoretico è in potenza o in atto, così come la "entelechia" si può intendere "come scienza e come esercizio della scienza",231 ma "per conoscere o dominare", "è necessario che l’intelletto [ς], poiché pensa tutte le cose, sia non mescolato",232 cioè "separato" dal corpo, e quindi in potenza. Ora, "il pensare" è attività diversa dal sentire, in quanto "è una specie di immaginazione" (ί),233 cioè una visione che origina dalla luce (άς), lo strumento della vista, "il senso per eccellenza", da cui prende il nome.234 "L’immaginazione, a sua volta, è altro dalla sensazione e dal pensiero", perché "dipende da noi quando vogliamo […] raffigurarci qualcosa davanti agli occhi". E se questa cosa, "l’immagine", è vera o falsa, anche l’immaginazione deve assumersi come "una facoltà o un abito mediante il quale giudichiamo e siamo nel vero o nel falso".235 L’immaginazione, dunque, come facoltà di giudizio, è il luogo in cui risiedono le immagini del mondo. Da qui la separatezza del ῖ dal mondo-della-vita percepibile attraverso i sensi. Anche le immagini, come abbiamo visto, derivano dai sensi, ma ciò che viene 228

Ivi, 7, 431 a, 1-9, tr. it. cit., pag. 543. Ibidem, 431 a-b, pagg. 544-545. 230 Ivi, 8, 431 b, 25-30, 432 b, 1, tr. it. cit., pag. 545. 231 Ivi, II (), 1, 412 a, 20-25, tr. it. cit., pag. 492. 232 Ivi, III (), 4, 429 a, 15-20, tr. it. cit., pag. 537. 233 Ivi, I (), 1, 403 a, 5-10, tr. it. cit., pag. 466. 234 Ivi, III () 3, 429 a, 30-35, tr. it. cit., pag. 537. 235 Ivi, 427 b, 15-20-428 a, 1-5, tr. it. cit., pag. 534. 229

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contemplato dall’immaginazione non sono le sensazioni ma bensì la loro persistenza ideale, indipendente dalla attualità corporea del sentire. Da qui la conclusione che la facoltà sensitiva non è indipendente dal corpo, mentre l’intelletto è separato. […] E poiché altro è la grandezza dall’essenza della grandezza e l’acqua dall’essenza dell’acqua […], l’anima giudica l’essenza della carne e la carne o con facoltà differenti o con la stessa ma altrimenti atteggiata […]. In generale, secondo il grado di separazione degli oggetti dalla materia sono anche le operazioni dell’intelletto.236

Propria dell’uomo è la facoltà di astrarsi dalle sensazioni, ossia di assumere al posto dell’esperienza sensibile le "immagini" della realtà. La realtà idealizzata sta alla realtà dei sensi come la forma sta alla materia. Il mondo delle forme è una rappresentazione ideale della realtà in cui ciò che è caduco e transeunte diviene stabile e fisso, cioè eterno. Noi possiamo rimuovere, con un atto di volontà, le immagini dall’attualità del nostro pensare ma esse, in sé stesse, non mutano, non divengono, semplicemente sono. In questo senso, la realtà dell’Essere è quella ideale, il luogo dove ciò che è non diviene. Il mondo idealizzato non è una rappresentazione arbitraria della realtà, ma è la configurazione delle essenze immutabili delle cose. E il pensiero delle essenze definisce non già l’esperienza delle cose che mutano, ma bensì l’idea di quanto di esse resta. Dunque il "certo modo" dell’anima dell’uomo, cui allude Heidegger, non è il modo dell’ente in quanto ente mondano, il modo d’essere dell’ente in quanto oggetto della scienza come "forma dei sensibili" (ἴς), e neppure come "forma delle forme" (ός),237 che è conoscenza trascendentale, ovvero, tomisticamente, verum trascendens rispetto a ogni modus specialis entis.238 Il modo d’essere dell’ente mondano è il modo pratico, relativo alla vita dei sensi, e il modo teoretico, che non riguarda più gli enti sensibili e mondani ma solo le loro "immagini" ideali, le loro essenze, ma non può essere il modo specifico dell’Esserci. Infatti, l’analisi ontologica heideggeriana non intende rilevare "il modo di essere proprio di ciò che è semplicemente-presente dentro il mondo",239 che è quella categoriale, anche se la prospettiva assunta nell’analitica esistenziale è 236

Ivi, III (), 4, 429 b, 5-15, tr. it. cit., pagg. 538-539. Ibidem, 3-4, pag. 546. 238 M. Heidegger, Op. cit., pag. 30. 239 Ivi, pag. 65. 237

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radicalmente mondana. In senso proprio, essa lo è, mondana, nella misura in cui è sottesa a determinare - non, come le categorie dell’ontologia tradizionale, le "determinazioni d’essere degli enti non conformi all’Esserci",240 il cui "primato del conoscere impedisce, prima di tutto, la comprensione del conoscere stesso",241 ma bensì - la "struttura fondamentale" dell’Esserci come ente del mondo, la cui "essenza dev’essere intesa a partire dal suo essere" inteso come "esistenza" (Existenz, che per l’appunto non è "semplice-presenza" (existentia) ma determinazione d’essere propria all’Esserci); e in questo senso precipuo, "l’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza".242 Tale esistenza dell’Esserci, a sua volta, non va intesa "come un caso o un esemplare di un genere dell’ente", ma è sempre riferita a un soggetto personale e si determina come sua "possibilità" d’essere "autentico" o "inautentico". Infatti, "appunto perché l’Esserci è essenzialmente la sua possibilità [di essere], questo ente può, nel suo essere, o ‘scegliersi’, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo ‘apparentemente’".243 Il riferimento alla personalità dell’Esserci non deve indurci a credere che il contesto da cui si desume l’interpretazione dell’Esserci sia quello di un "esistere particolare". Al contrario, l’esistenza di riferimento è quella della "indifferente quotidianità dell’Esserci", che Heidegger chiama "medietà" (Durchschnittlichkeit), la quale è "la forma ontica in cui l’Esserci si presenta innanzi tutto" e che è solitamente "saltata nell’esplicazione dell’Esserci", dal momento che "ciò che è onticamente più vicino e noto, è ontologicamente più lontano, sconosciuto e disconosciuto nel suo significato ontologico".244 I caratteri d’essere dell’Esserci, relativi alla sua struttura esistenziale, sono indicati come "esistenziali" (Existenzial) e, come abbiamo ricordato, sono nettamente distinti dalle tradizionali categorie, che sono quelle con cui l’ente, non come "chi" (cioè l’Esserci) ma come "che cosa", viene "interpellato e discusso" nel ός.245 La differenza fondamentale tra i due approcci ermeneutici è che l’interpellanza 240

Ivi, pag. 67. Ivi, pag. 84. 242 Ivi, pag. 64. 243 Ivi, pag. 65. 244 Ivi, pag. 66. 245 Ivi, pag. 67. 241

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dell’ente comune si determina attraverso la definizione di una relazione dell’ente col suo essere categoriale, ovvero tra gli enti, laddove l’analisi esistenziale si rapporta all’Esserci in quanto tale, ponendosi la domanda, filosoficamente originaria rispetto a ogni altra determinazione teoretico-scientifica di tipo psicologico, antropologico o biologico, "che cos’è l’uomo?".246 Dal punto di vista ontologico, si ha la tendenza a intenderlo come subjectum, ovvero "ciò che sta sotto in un senso preminente" e permane "lo stesso nelle successive modificazioni". Ma il modello ontologico della sostanzialità tuttavia "conserva il significato della semplice-presenza", che, come sappiamo, "è il modo di essere dell’ente non conforme all’Esserci",247 né, d’altro canto, può darsi come "evidente a priori che l’accesso all’Esserci debba essere una riflessione puramente percettiva sull’io degli atti", e confermarsi pertanto che la datità dell’io sia "indubitabile".248 L’analisi fenomenologica rende chiaro piuttosto che "non è mai dato, innanzi tutto, un io isolato, senza gli altri", per cui se c’è "un problema sul piano ontologico", è quello di "rendere fenomenicamente trasparente il modo di questo con-Esserci nella quotidianità immediata e interpretarlo in modo ontologicamente adeguato", dal momento che "il Chi dell’Esserci anche onticamente è qualcosa di nascosto".249 E’ d’uopo notare che questa istanza, che fa appello all’esperienza del mondo-della-vita nell’atto stesso in cui la considera irrilevante o comunque ontologicamente non probante, e che pur intende chiaramente "distruggere" la tradizione metafisica che nell’ontologia di Cartesio trova il suo punto apicale moderno, non riesce in un intero capitolo250 a delineare un’ontologia dell’essere sociale dell’Esserci, ma persiste, in una prosa piuttosto involuta e a tratti contorta, in una descrittiva della "mondità" (Weltlichkeit) che indulge su una fisionomia solipsistica dell’Erlebnis dell’Esserci che elimina dal suo orizzonte esattamente la condizione della socialità, a favore di una operosità tutta improntata sul concetto di "utilizzabilità" (Zuhandenheit) del mondo-ambiente (Umwelt), fruibile alla stregua delle cose. Ora, esattamente codesta fruibilità non può essere assunta come un carattere originario dell’esperienza umana, in quanto ogni 246

Ivi, pag. 68. Ivi, pag. 149. 248 Ivi, pag. 150. 249 Ivi, pag. 151. 250 Il terzo, “La Mondità del mondo”: Ivi, pagg. 88-147. 247

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"mezzo" (Zeug) è il portato sociale e storico di un "con-Esserci" (Mitsein) che contraddice l’ipotesi di un "Commercio" (Umgang) inteso come modo immediato di essere nel mondo. In questo senso, la critica heideggeriana al sum cartesiano non riesce a emanciparsi dalla dipendenza dal correlativo ego, confermando in qualche modo proprio la insopprimibile correlazione e indisgiungibilità di un atto di coscienza dal suo soggetto coscienziale. La conseguenza non casuale di questa incongruità è, infatti, da un lato, il differimento extratestuale della questione gnoseologica a proposito essenziale, quella kantiana, e dall’altro la concentrazione sull’analitica della "Cura" (Sorge) come "unità ontologica" dei modi fondamentali dell’Esserci nel mondo, speculare alla "sintesi" anima-corpo del ός speculativo e alternativa al Soggetto idealistico come sostituto della classica "sostanza".251 Rispetto alla concezione greca, quella heideggeriana intende presentarsi come una alternativa ontologica fondata sulla prassi, anziché sul θῖ. Per comprendere la portata della nuova prospettiva, dobbiamo chiarire ciò a cui essa intendeva contrapporsi. Secondo Scheler, l’altro grande allievo di Husserl insieme a Heidegger, esistono due possibili concezioni dello spirito, quella elaborata dai Greci, la "teoria classica" dell’uomo, che "attribuisce allo spirito non soltanto un’essenza e un’autonomia proprie, ma anche energia e attività" (ῦς ός), ed è una concezione gerarchica del cosmo, che va da Dio alla materia bruta. L’altra concezione è la "teoria negativa" dell’uomo, la quale sostiene che "ogni attività umana ‘generatrice di cultura’, ogni atto logico, morale, di contemplazione estetica e di creazione artistica, scaturiscano esclusivamente da quel ‘no’" opposto alla realtà,252 alla volontà di vivere. Questa teoria non si pone la domanda che cos’è che nell’uomo compie l’atto di negare, che cosa rinnega la volontà di vivere e reprime le tendenze, per cui "sotto qualsiasi forma, la teoria negativa presuppone proprio ciò che invece dovrebbe dimostrare, vale a dire lo spirito, la ragione e l’identità dei suoi princìpi con quelli dell’essere".253 Sempre secondo Scheler, "la caratteristica fondamentale di un essere spirituale […] consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico […], dal legame con la vita e con quanto essa “La sostanza dell’uomo non è lo spirito come sintesi di anima e corpo, ma l’esistenza”: Ivi, pag. 152. 252 M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pag. 160. 253 Ivi, pag. 164. 251

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abbraccia",254 compresa la sua "intelligenza". La sua "essenza", dunque, insieme con quella che possiamo definire la sua ‘posizione particolare’, trascendono ciò che chiamiamo intelligenza e facoltà di scelta, e non possono essere intese, neanche aumentando queste due facoltà quantitativamente all’infinito. Ma sarebbe altrettanto sbagliato considerare quell’elemento nuovo che rende l’uomo tale, esclusivamente come un grado essenziale […] di quelle facoltà e funzioni pertinenti alla vita psichica e vitale, e il cui studio rientrerebbe nell’ambito della psicologia e della biologia. Il principio nuovo si trova fuori da tutto ciò che noi possiamo definire nel senso più lato come "vita". Ciò che fa sì che l’uomo sia veramente "uomo", non è un nuovo stadio della vita – e neppure di una delle sue manifestazioni, la "psiche" -, ma è un principio opposto a ogni forma di vita in generale e anche alla vita dell’uomo: un fatto essenzialmente e autenticamente nuovo, che come tale non può essere ricondotto alla "evoluzione naturale" della vita; ma semmai, solo al fondamento ultimo delle cose stesse: quello stesso fondamento, dunque, di cui la "vita" non è che una manifestazione.255

I Greci chiamavano "ragione" questo principio, che noi preferiamo chiamare "spirito", designando "come "persona" quel centro di atti entro il quale lo spirito appare nelle sfere finite dell’essere, distinguendolo nettamente da tutti i centri funzionali della "vita" [che sono i] centri psichici".256 Proprio dal "punto di vista psichico", si può definire l’intelligenza, che è la facoltà di agire nel mondo della vita, che si realizza come la subitanea comprensione di uno stato di cose e di valori ambientali connessi tra di loro, il quale non è direttamente percepibile, né è stato direttamente sperimentato, e del quale quindi non ci si potrebbe servire per riprodurre un’esperienza. E per esprimerci in termini più esatti, possiamo dire che l’intelligenza è la comprensione (dell’esistenza e del casuale modo di essere) di uno stato di cose, basata su un insieme di relazioni, i cui dati fondamentali sono in parte forniti dall’esperienza e in parte anticipati dalla rappresentazione […]. Caratteristica di questo pensiero non riproduttivo, ma produttivo, è sempre l’anticipazione, la capacità di cogliere anticipatamente un dato di fatto nuovo e mai sperimentato.257

254

Ivi, pag. 144. Ivi, pag. 143. 256 Ivi, pag. 143. 257 Ivi, pagg. 138-139. 255

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Ben altro è il "carattere fondamentale dello spirito umano", che risiede nella "capacità di scindere la esistenza dall’essenza"; capacità che va distinta da quella di conoscere, che per Leibniz era quella propriamente umana. Infatti più precipuamente dell’uomo è la sua capacità di "ideazione", ossia di "sopprimere il carattere di realtà delle cose e del mondo", attraverso una "tecnica per virtù della quale si colgono le essenze". Questa tecnica di "de realizzazione del mondo e dell’io" è quella che Husserl chiamava "riduzione fenomenologica", la quale è una "neutralizzazione o ‘messa tra parentesi’ dei coefficienti esistenziali contingenti delle cose del mondo, al fine di cogliere la loro essentia",258 cioè “l’esperienza interiore” della realtà. Nessuna sensazione specifica può darci l’impressione della realtà, cioè l’esistenza delle cose, ma solo il loro modo di essere (contingente). Infatti, l’esistenza delle cose può darcela solo "l’esperienza interiore di una resistenza oppostaci da quella sfera del mondo, che ci si è già rivelata". Questa "resistenza" del mondo è la stessa che si oppone alle nostre "tendenze", al nostro impulso vitale. Non si pone – dice Scheler – la realtà del mondo esteriore con un "ragionamento" o attraverso il contenuto intuitivo della percezione, ma con "l’impressione interiore di una resistenza sperimentata dall’impulso affettivo", sicché "l’originaria esperienza interiore della realtà, quale esperienza interiore della resistenza del mondo, precede qualsiasi coscienza, rappresentazione, percezione", sicché "l’esperienza interiore della realtà è data prima e non dopo ogni nostra rappresentazione del mondo".259 Ma "de-realizzare" o "deificare" (ideieren) il mondo, non significa per Scheler, come vorrebbe Husserl, "sospendere il giudizio di esistenza (che è alla base di ogni percezione naturale) [ma] piuttosto abolire, annullare lo stesso momento della realtà", eliminando la pressione che essa esercita su di noi e che produce la nostra paura del mondo. In questo senso, (cioè di "abolire e neutralizzare quell’impulso vitale in rapporto al quale il mondo appare anzitutto come resistenza") "ogni forma espressa di razionalismo è fondata, in ultima analisi, su un ideale ascetico". Ora, questo atto di de-realizzazione può essere compiuto solo da quell’essere che chiamiamo spirito", il quale, "nella sua forma di volere puro, può impedire con un atto di volontà, e cioè con un atto di inibizione, l’attualizzarsi di quel 258 259

Ivi, pag. 156. Ivi, pag. 157.

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centro dell’impulso affettivo [che costituisce] la via d’accesso alla realtà effettiva come tale.260

In realtà, ciò che Scheler chiama "ascesi" non è (solo) un atto di affrancamento dalla Sorge, ma è una condizione eccezionale dell’esistenza di alienazione dal mondo, dettata dalla "paura", alla quale non si fa fronte con l’idealizzazione della realtà, ma con la razionalizzazione dei suoi elementi esperiti. Idealizzare qui si intende l’atto della trasposizione della realtà in una dimensione parallela neutralizzante, ossia la traduzione del mistero in termini comprensibili all’uomo, umanistici. Ciò da cui ci si aliena – il mondo, la realtà – è il contesto umano e naturale: la società e la storia. Non ci si aliena dalle "cose" se queste non sono state a loro volta estromesse dalle loro relazioni significative, ossia dal loro contesto funzionale. Il tentativo di costruire una ontologia unitaria immanente, tesa a soppiantare la ontologia trascendente (teleologica e teologica), sul fondamento della natura, risale al Rinascimento. A partire da Galileo e da Newton la natura viene vista oggettivamente come base ontologica definitiva, che espelle tutte le tradizioni e concezioni teleologiche e antropomorfiche della natura. Ma la concezione meccanicistica della natura non consente di derivare da essa una ontologia della vita sociale, per cui tutte le correnti razionalistiche moderne che intendevano costruire quella ontologia unitaria immanente hanno fallito perché non hanno saputo "cogliere concettualmente il principio ontologico della differenza qualitativa all’interno dell’unità di ultima istanza",261 quella della ragione. Per l’Illuminismo, la ragione è il "principio ultimo dell’essere e del divenire" sia della natura che della società, ed esso assegna alla filosofia il "compito di scoprire, mettere in luce, questo principio, affinché la società si conformi alle leggi eterne, immutabili, della natura", così che "la coincidenza pratica e reale di natura e ragione, in sé identiche, nella vita sociale degli uomini diventa una istanza del futuro, non una determinazione ontologica del presente".262 Ogni sfera di conoscenza tende a Ivi, pag. 158. Scheler distingue, tra le attività dello spirito, la “conduzione” (Lenkung), che è il processo di inibizione che “coordina gli impulsi istintivi in maniera tale che essi realizzino il progetto della volontà imposto dallo spirito, traducendolo in realtà”, dalla “direzione” (Leitung), che è il “disegno di quelle idee e di quei valori che si realizzano solo mediante spinte istintive”. 261 G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. di A. Scarponi, Roma, 1976, vol. I, pag. 169. 262 Ivi, pag. 168. 260

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omogeneizzare i suoi oggetti di giudizio e i suoi prodotti di esperienza nei termini dei presupposti fondativi dei criteri di analisi della realtà, per cui dell’essere totale tende a cogliere come elemento significativo solo il fenomeno rapportabile o traducibile nel rapporto riflessivo con l’essenza supposta come ontologicamente e gnoseologicamente significativa. Le determinazioni riflessive che ne risultano costituiscono le relazioni di valore immanente all’essere significativo in riferimento all’essenza dalle quali deriva la comprensibilità del reale. Ma "quando l’illuminismo, rifacendosi a grandi modelli come Hobbes o Spinoza, vuol affermare ad ogni costo una ontologia unitaria della natura e della società", a questo punto sorge con la riflessione di Rousseau una "antinomia non risolvibile in tale quadro: se la natura è onnipotente, come hanno potuto l’uomo e la società staccarsi da essa?".263 Quando Rousseau mette in luce momenti essenziali della dialettica sociale – in primo luogo le ragioni e la necessità dinamica del distacco dalla natura -, con ciò egli fa consapevolmente saltare l’ontologia materialistica allora vigente: la natura, in quanto categoria centrale del dover essere socioumanistico, perde ogni legame con l’ontologia materialistica della natura, e diviene […] il centro di una idealistica filosofia della storia.264

Per tanto, il concetto di Natura fino ad allora ben delineato entro la chiara ontologia di Galileo e Newton, "si trasforma in un concetto di valore", che ribalta la "visione materialistica della natura in una visione idealistica della società e della storia".265 Da qui nasce la premessa problematica che sarà quindi l’oggetto della riflessione dell’idealismo classico tedesco fino a Hegel, che invererà le premesse razionalistiche illuministiche in una superiore oggettività, interna comunque al cosmo razionalisticamente inteso, secondo la tradizione greco-cristiana. Nell’illuminismo, il principio della natura che sta a fondamento delle connessioni, della sistematica, può anche essere inficiato da contraddizioni interne, non finisce però obbligatoriamente per far violenza alle oggettività che formano il sistema, al più la non derivabilità di fatto dei fenomeni sociali dalla natura, comunque concepita, fa sì che il materialismo (meccanicistico)

263

Ivi, pag. 168. Ivi, pag. 170. 265 Ivi, pag. 169. 264

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della considerazione della natura si converta in un idealismo inconsapevole, e quindi non dominabile filosoficamente, nel campo del sociale.

In altri termini, ontologistici, mentre l’illuminismo dal materialismo (meccanicistico) fu obbligato a passare all’idealismo, la filosofia classica tedesca, per poter dare omogeneità all’immagine unitaria di natura e società, dovette tradurre nel linguaggio filosofico dell’idealismo già la conoscenza della natura. I primi tentativi di tale sistematizzazione filosofica sono opera di Fichte e Schelling [i quali, insieme a Kant,] fecero propria la logica formale tradizionale, ma […] quel che ebbero da dire sul piano ontologico fu da loro espresso filosoficamente in termini essenzialmente indipendenti da essa; solo con Hegel la logica – da lui rifatta in senso dialettico – diviene portatrice della nuova ontologia.266

In Hegel il cosmo razionale classico viene interamente umanizzato nella piega di una dimensione storicistica dell’escatologia cristiana, dove la necessità è basata sulla realtà, e non sulla volontà divina o sulla volontà della natura propugnata dalle teorie scientistiche, che ipotizzano una predestinazione naturalistica senza Dio. Ma la nuova ontologia idealistica traccerà un percorso che sarà contrassegnato dal progressivo superamento della metafisica meccanicistica e, con Husserl, dell’orizzonte dello "scientismo" moderno, alla cui "crisi" si opponeva la "non-scientificità" della metodica filosofica.267 Circa la genesi della scienza moderna, Scheler sostiene la tesi dell’origine sociologicamente condizionata dell’apparato categoriale della scienza positiva moderna, parlando di condizioni negative e positive che in Occidente ne hanno favorito la genesi, in cui si intrecciano istanze proprie della Riforma religiosa, quali il potere gerarchico della Chiesa, con la distruzione dell’antica metafisica realistica, ontologica e biomorfa, a opera di un nominalismo che sociologicamente è espressivo di una rivoluzione spirituale contro il vecchio mondo, che segna la transizione dalla forma sociale comunitaria, caratterizzata dal rapporto privilegiato col mondo organico, alla forma societaria, dove predomina l’aspetto strumentale dell’utensile. Come è stato notato in proposito,

266

Ivi, pag. 186. E. Husserl, Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die traszendentale Phanomenologie (1954), tr. it. Di E. Filippini, Milano (1961), 1987, pag. 34. 267

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Riforma religiosa e nuova scienza condividono alcuni essenziali aspetti: l’enfasi sulla volontà sovrana rispetto all’intelletto contemplativo, la sensibilità per il problema della coscienza e della libertà, il dualismo fra materia e spirito, fra vitale e spirituale,268

in cui emerge, come scrive Scheler, che l’unità di questi tratti spirituali comuni significa che questi senza dubbio sono nuove forme di pensiero, nuovi motivi di valutare e di volere di una classe, cioè della classe ascendente dell’imprenditorialità borghese nella sua duplice opposizione; da un lato ad una classe monastica e contemplativa […] e dall’altro ai poteri del mondo feudale […]. Il nuovo impulso della volontà, diretto al lavoro, e il cosiddetto individualismo.269

La riscoperta delle "qualità", ossia delle connessioni significative della vita personale e sociale dell’uomo, costituiva una risposta gnoseologica, o metafisica, alla moderna visione dell’uomo sviluppatasi da Galileo in poi, che aveva al fondo della molteplicità del reale l’omogeneità chimica del tutto, con le leggi unitarie del moto, che riducevano tutta la vita, organica e inorganica, a un processo regolato da rapporti definiti privi di qualità, eliminando dalla natura ogni "forma" o "ragione" a favore di una visione meccanica di essa. La stessa concezione che aveva portato alla meccanizzazione della natura e dell’organismo, giunse a includere nelle proprie strutture la stessa anima pensante e persino la realtà storico-sociale, forzandole nei quadri di alcune caratteristiche che rispondevano al nuovo atteggiamento spirituale dell’epoca […].270

La tensione filosofica anti-scientistica, rivolta verso la definizione di una nuova prospettiva metafisica, fu quanto mai radicale, coinvolgendo le ragioni fondamentali sulle quali si era edificata l’antropologia moderna.

268

L. Allodi, Sociologia del sapere e teoria della conoscenza nel pensiero di Max Scheler. Saggio introduttivo all’ed. it. di Erkenntnis und Arbeit (1926), Milano, 1997, pagg. 49-50. 269 Cit. in Ivi, pag. 50. 270 M. Scheler, Versuche einer Philosophie des Lebens (1913), tr. it., Roma, 1997, pagg. 92-93.

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La metafisica meccanicistica segue sempre nell’interpretazione della natura e in quella della psiche, lo stesso motivo di fondo: dare dell’essere e dei suoi contenuti un’immagine simbolica che ne metta in evidenza solo gli elementi aggredibili dall’elaborazione, dalla trasformazione e dalla tecnica, immagine che è il prodotto del moderno spirito borghese avido di lavoro. […] La seconda causa della nuova concezione meccanicistica della psiche [è stata indicata da Dilthey e da Bergson nella] esigenza di originarsi, divenire e configurare la psiche in modo tale che risultasse, per mezzo della disciplina, dell’educazione, dell’azione dello Stato e della politica, dominabile, come lo era la natura in base alle nuove concezioni della meccanica. […] E quello che appare essenzialmente conforme alla nostra natura non è quell’intimo e inesprimibile io individuale, ma l’uomo en masse.271

Il "sistema di conformità", asserisce Scheler, può certo garantire "l’unità della metafisica", così come aveva garantito l’unità della religione, ma non offre che una qualche "teoria del fondamento del mondo" di quella modalità della conoscenza che è il sistema metafisico, sia vera o falsa.272 Ma il "fondamento del mondo" per la metafisica "è solo il suo oggetto ultimo e supremo, certamente non il primo e unico", il quale deve nascere dalla "intersezione di tutti gli innumerevoli fili, che, sulla base di essenze e di relazioni essenziali intuite (che si possono presentare alla scienza positiva e trovare nell’essere reale oggettivo e contingente, dato nell’esperienza) conducono al di là dei limiti del dato empirico della realtà oggettiva, nella direzione della realtà assoluta".273 Delle proposizioni della metafisica dell’essere, soltanto due, le più formali, hanno un’evidenza conoscitiva assoluta: la proposizione che c’è un ens a se, distinto dalla totalità di tutte le cose, gli eventi, le realtà contingenti – dunque dalla totalità del "mondo" -, ossia qualcosa di esistente, la cui esistenza consegue dalla sua essenza; e la proposizione secondo cui l’ens a se costituisce la causa prima e il fondamento originario per cui dai mondi possibili per essenza, questo solo mondo contingente è reale.274

271

Ivi, pag. 93. M. Scheler, Il sistema di conformità, in Vom Ewigen im Menschen (1921), tr. it. di P. Premoli De Marchi, Milano, 2009, pagg. 397 sgg. 273 Ivi, pagg. 403-405. 274 Ivi, pag. 407. 272

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Ora, tutti i giudizi di realtà espressi dalle scienze empiriche sono di "evidenza presunta", poiché "sono per loro natura probabili e mai evidentemente veri", per cui ciascuno di questi giudizi può essere spogliato nuovamente della sua validità attraverso il progresso nell’osservazione. Infatti, come Husserl ha efficacemente mostrato – ogni cosa ed evento reale, per quanto piccolo e povero sia in rapporto agli altri eventi, è per essenza inesauribile nel suo contenuto puramente induttivo, ed essenzialmente determinabile solo in un processo infinito di determinazione. Solo le conoscenze essenziali evidenti sono per contro chiuse al sapere induttivo e tagliano in ogni punto, detto metaforicamente, l’infinito processo nel quale si lanciano la ricerca e la determinazione induttiva. Ma queste conoscenze, svincolate dall’esistente, da sole non danno mai un sapere metafisico, che per sua natura è un sapere della realtà.275

La questione della verità viene da Scheler qui intessuta sul rapporto tra fede e filosofia. Ma, a prescindere dagli sviluppi e dalle sue determinazioni, quello che rileva è che "l’indipendenza della metafisica dalla religione", stabilita dal ragionamento, "non può essere confusa con la questione se e fino a che punto tutta la metafisica possibile (dunque anche ogni metafisica storicamente data), sia indipendente dalla religione nel suo (possibile) divenire e originarsi nello spirito dell’uomo".276 Infatti, secondo Scheler, l’uomo, prima di assumere l’atteggiamento spirituale metafisico, "possiede" già sempre una opinione di fede sulla via della salvezza propria e del mondo – e la possiede "necessariamente" – indipendentemente dal fatto che voglia o non voglia, indipendentemente dal fatto che porti questa opinione ad un sapere riflesso o meno. Nella priorità quanto all’origine, che nessuna esperienza storica del "matter of fact" ha il potere di provare o di confutare, l’atto religioso è più originario dell’atto della conoscenza filosofica. Il fatto storico, dimostrabile fin nel dettaglio, che tutte le metafisiche che si sono avute siano rimaste all’interno dell’ambito delle categorie religiose fondamentali che la religione ha tracciato alla metafisica, e non possono infrangerlo, è soltanto una conferma (non una dimostrazione) di questa priorità, quanto all’origine della realizzazione della conoscenza e della condotta religiosa e metafisica.

275 276

Ivi, pagg. 407-409. Ivi, pag. 411.

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I "sistemi dualistici" negarono "la possibilità di una metafisica e l’unità organica tra metafisica e religione"; ma il loro maggior torto fu quello di "attribuire un falso criterio di misura per le opere storiche della metafisica", quale, per es. in Kant, la matematica, che è una conoscenza "infondata". La matematica, infatti, ha l’evidenza che le è propria riguardo ai suoi risultati, non in virtù di una pretesa, che si presume giustificata, di [raggiungere] una adeguata verità obiettiva, bensì in virtù della sua rinuncia, assai più profonda, ad affermazioni di realtà e del suo accontentarsi di una "esattezza" puramente logica e della massima economia; e la scienza positiva del reale progredisce in modo molto più rapido e continuo della metafisica, non a causa della sua verità oggettiva adeguata, ma a motivo della sua relativa rinuncia tale verità oggettiva – detto in termini positivi: perché essa si limita tanta verità oggettiva, quanta è resa necessaria dal fine, condizionato dalla sfera vitale, di un possibile dominio e governo pratico del mondo; inoltre, anche perché scompone tutto il lavoro conoscitivo in "discipline" o nella pluralità essenziale delle scienze, secondo punti di vista solo soggettivi – una suddivisione che, poiché non è richiesta dagli oggetti stessi, ma soltanto dal principio sociale ed economico della divisione del lavoro, fa perdere alla verità "scientifica" in termini di concreta verità oggettiva, tanto quanto essa guadagna in capacità di progresso. Non c’è infatti alcun "mondo" meccanico, fisico, chimico, biologico, psichico, spirituale, storico, ma soltanto la realtà una e concreta del mondo, che come tale e come totalità è un unico flusso di avvenimenti – che passa senza che si ripeta nulla di "identico". Soltanto per gli oggetti delle (già definite) scienze particolari, svincolati da questa realtà del mondo in virtù dell’astrazione, è possibile confermare il postulato della regolarità. Ma è a questa intera concreta realtà del mondo che la metafisica cerca di avvicinarsi, per quanto possibile - secondo connessioni essenziali autonome – attraverso una visione d’insieme e una riflessione complessiva, integrativa, dei risultati delle scienze positive.277

Scheler, distinguendo la fede religiosa dall’evidenza teoretica, mette anche in evidenza il carattere originale dell’antropologia scientista moderna rispetto all’immagine cristiana dell’uomo. L’uomo cristiano interviene a umanizzare quella Natura che il teoreta antico si limitava a contemplare in quanto cosmo perfetto. Già il peccato originale getta un’ombra di imperfezione sullo stesso uomo, che del creato è l’essere più perfetto, per cui il suo intervento sulla natura attraverso il lavoro, se da un lato lo libera dalla soggezione fatale alla natura e a ogni forma di schiavitù, dall’altro deve tenere presente il fine trascendente 277

Ivi, pagg. 413-415.

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del suo operato, che proprio per il suo carattere limitativo non può costituire il suo fine ultimo. Il passaggio da homo sapiens a homo faber, legato alla sostituzione del soggetto ideale da "creatura" di Dio ad artifex mundi, ha comportato che l’essenza dell’uomo sia ora vista non già (più) nella sua ricerca di perfezione spirituale, ma nella sua attitudine e capacità di creare il mondo, ossia di "lavorare". Se per il cristianesimo il lavoro è sacrificio, "Imitatio Christi", scuola di umiltà, ma anche libertà dagli affanni e dunque apertura all’otium (inteso come luogo del raccoglimento spirituale), nel pragmatismo e nel positivismo il lavoro diviene affermazione individuale, un atto di superbia, in quanto esso è "creatore di valori.278

La intuizione del valore, secondo Scheler, precede sempre la percezione della realtà, così come l’amore precede la conoscenza. Costituisce la fase del "sapere estatico", che caratterizza le "epoche enfatiche" ed "entusiastiche", che si alternano a quelle di disincanto caratterizzate da una nuova oggettivazione della realtà e da una penetrazione razionale da parte della scienza positiva. Le tre forme del sapere sono: il sapere religioso o di salvezza, i cui contenuti sono assoluti perché diretto all’Ens a se; il sapere di formazione o culturale, che è quello filosofico, che opera una trasformazione dell’uomo nel senso della sua "cultura" personale e delle strutture essenziali del mondo. Questo sapere trascende il campo limitato del reale attraverso un atto ascetico che elimina tutti i motivi che si fondano sulla struttura impulsiva e definisce i presupposti delle scienze; infine, il sapere tecnologico e di dominio, in cui rientra la scienza nel suo aspetto pragmatico. È il sapere che ha di mira l’efficacia pratica e che cerca di cogliere nella contingenza del mondo le leggi di relazione, permettendo così di prevedere e dominare i fenomeni.279 La filosofia per Scheler è "saggezza", conoscenza dell’essente e coscienza del valore, da cui scaturisce la sintesi del dovere come istanza del volere, ma non è l’unica forma di sapere. La teoria gnoseologica di Scheler prevede, pur senza chiarire a fondo le ragioni della distinzione, infatti più atti conoscitivi corrispondenti ai diversi campi o sfere di sapere, per cui non esiste un unico atto intenzionale della coscienza. Ogni ideale di sapere, partecipando alla verità dell’Essere, ne esprime a suo modo la sua molteplicità, per cui la 278 279

L. Allodi, Saggio introduttivo, cit., pag. 41. M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 76.

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"conoscenza" dell’Essere si identifica con l’intuizione, attraverso la ragione, della essenza dell’essere oggettuale. Ogni modo d’essere richiama dunque un relativo atto intenzionale. Se esistesse un ordine "oggettivo", ogni determinazione parziale risulterebbe deviante, in quanto inclusiva di un ordine gerarchico relativo. Ma poiché, per ammissione stessa di Scheler, ogni ideale di sapere partecipa della verità dell’Essere, anche ogni suo ordinamento relativo ai suoi valori è nella verità. Non l’ordine, dunque, è ontologicamente deviante, ma la pretesa esclusività del modello rispetto agli altri possibili. La scelta è interna alle possibilità del vero, la negazione delle altre possibilità è invece nell’errore, perché nega la pluralità dell’Essere. Essendo ogni ideale di sapere momento del sapere tutto, anche il suo ordinamento gerarchico dei valori riflette il suo modo d’essere, e sarà "oggettivo" altrettanto di quello degli altri modi. In questo senso, la gerarchia dei valori è già implicita nell’intuizione delle essenze prescelta e la riflette, per cui quella suggerita da Scheler è solo quella che deriva dalla sua preferenza ontologica di ordine dell’Essere, e cioè quella che Hegel chiama "determinazione riflessiva". Introducendo un "ordine oggettivo", Scheler sposta la determinazione dal piano ontologico a quello teleologico, riproponendo la dicotomia giusto/sbagliato come una necessità logica essenziale all’Essere, laddove essa è centrale solo alla sua gnoseologia, ma, rispetto all’Essere, non è che una determinazione modale, da subordinare ontologicamente alla realtà del tutto al pari delle altre possibili modalità. Ma è proprio questa inserzione meta-storica e "oggettiva" di una teleologia formale superiore a quelle sociologicamente reali a spingere Scheler verso una teleologia religiosa, a una ontologia teologica. Opposta a questa prospettiva ontologica è quella sociologica di M. Weber. Il presupposto filosofico della concezione sociologica di Weber, fondata sul dualismo gnoseologico tra scienza avalutativa e fede irrazionale, è il nominalismo, in base al quale "i concetti della scienza sono delle "finzioni utili", a cui non corrisponde alcun oggetto autonomo comprensibile a partire da una ‘intuizione di essenza’".280 I tipi ideali weberiani "non rilevano un ordine oggettivo di idee", bensì “schemi-limite costruiti dall’uomo stesso, la cui capacità di ordinare il dato si dimostra solo di volta in volta e si giustifica nel senso di una utilità opportunistica”. Se però non si dà alcuna "essenza oggettiva", osserva Scheler, 280

L. Allodi, loc. cit. pag. 83.

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non c’è alcuna stella e alcuna guida per la direzione di ogni formazione dei concetti empirici, né per la distinzione della valutazione del sapere e della valutazione del non sapere, inoltre neanche per la distinzione dell’irrazionale dal razionale, dell’intelligibile dal non-intelligibile, nelle cose stesse, così come non ci sono limiti per ciò che, in ogni considerazione del mondo, è possibile e sensato pretendere dal mondo e dall’uomo. Non comprendendo la direzione di valore di ogni atto vitale, soprattutto del proprio, il nominalista non è in grado di orientarsi nella storia,281

non cogliendo i processi del divenire e il contenuto possibile del futuro ma fermandosi all’essere-divenuto. Il nominalismo, afferma Scheler, è una mentalità che si afferma là dove un certo mondo di forme dell’esistenza umana e della cultura va in dissoluzione. Il nominalismo è una sorta di "esplosivo spirituale" per forme socio-culturali ormai inaridite ed effettivamente vuote, che esso scardina asserendo che non ci sono in generale forme oggettive. Questo avviene ed è possibile quando "un mondo di forme è divenuto semplice tradizione, consuetudine". È per tale ragione che l’essenza del modo di pensare nominalistico è la critica e la dissoluzione, non la costruzione e la creazione. In senso sociologico, il nominalismo è "la matrice di una teoria sociale del tutto determinata, definibile come individualismo, liberalismo, democrazia formale, teoria del contratto, convenzionalismo, atomistica sociale".282 Al nominalismo si connette il sociologismo (tesi secondo cui le forme del linguaggio e dell’agire sono alla base delle forme concettuali), che è la forma spuria della sociologia, a cui corrisponde, in termini gnoseologici, il convenzionalismo, che sta a indicare la possibilità di adozione di forme diverse di significato. Consapevoli che esiste "una prospettiva degli interessi sociologica e storica che è alla base del mondo dei significati", in cui, "la scelta e l’orientamento di un significato piuttosto che di un altro dipende dalla società e dalla storia", si può evitare la fuorviante prospettiva nominalistica e convenzionalistica attraverso l’adozione del metodo fenomenologico della filosofia, che, attraverso il "ritorno alle cose" (zuruck zu den Sachen) proposto da Husserl è in grado di evitare di rimanere condizionato dalla "conoscenza del mondo naturale".283

281

L. Allodi, loc. cit. pag. 83. L. Allodi, loc. cit., pag. 84. 283 L. Allodi, loc. cit., pag. 85. 282

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Una volta che lo spirito umano ha infatti intuito delle essenze, esse divengono per lui dei "princìpi selettivi" utili a guidarlo nella "conoscenza dei dati empirici contingenti, nel collegarli, osservarli, giudicarli". E proprio "attraverso la funzionalizzazione dell’intuizione dell’essenza" per Scheler si rende possibile "un divenire e crescere della ragione stessa, cioè della proprietà di leggi di selezione e funzionali aprioristiche".284 Tutte le leggi funzionali sono riconducibili a una esperienza oggettiva originaria, che comprende una esperienza di essenze. Questo esclude che possa darsi una identità logica dello spirito di ragione in tutti i gruppi umani, cioè l’idea di una stabilità eterna della ragione umana. Proprio in quanto esiste un regno di essenze, che forma la costituzione per tutti i possibili universi e verità di matters of fact, bisogna attendersi che anche le funzioni spirituali e le loro leggi, formatesi attraverso la funzionalizzazione delle intuizioni di essenza, siano di diverso genere per tutto ciò che supera le regole fondamentali puramente formali degli oggetti.

In nessun punto della storia lo spirito umano razionale è "completo", e ai differenti gruppi umani corrispondono differenti strutture mentali. Infatti, ogni apriori soggettivo "non genera, ma sopprime, distrugge, deforma – per la possibile conoscenza del mondo – tutte le parti, lati del mondo, che non hanno rapporto di utilizzazione o completamento con le essenze e strutture essenziali date".285 Se la gnoseologia neo-kantiana poteva essere accusata di separare la validità delle "forme significative" dal processo della loro genesi sociale, per cui non avrebbe offerto mai una spiegazione scientifica del loro contenuto, della loro genesi e della loro estinzione, anche il metodo fenomenologico, secondo Lukàcs, consegue una "illusoria obbiettività", poiché non solo dal punto di vista gnoseologico, ma anche dal punto di vista del contento concreto, viene distrutto ogni rapporto delle rappresentazioni con la realtà oggettiva, viene creato un metodo che cancella, anzi annulla ogni differenza tra vero e falso, fra ciò che è necessario e ciò che è arbitrario, fra ciò che è reale e ciò che è semplicemente inventato dal pensiero. [Il metodo della messa tra parentesi dell’epoché fenomenologica, che] in Husserl veniva dichiarato "rigorosamente scientifico", non è quindi altro che l’affermazione

284 285

L. Allodi, loc. cit., pag. 77. L. Allodi, loc. cit., pag. 78.

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idealistico-soggettiva: le mie rappresentazioni determinano l’essenza della realtà.286

In realtà, almeno nella versione di Scheler, il metodo fenomenologico applicato alla realtà storico-sociale si dimostrò di grande portata, teoreticamente innovativa, in quanto non solo corresse la deriva nichilistica insita nel relativismo sociologico ("sociologismo") attraverso una previa e fondamentale distinzione tra le forme metafisiche dell’Essere e le forme fenomeniche, oggetto della ragione "formale", ma la conquistata "oggettività" ontologica del metodo acquistò una valenza anche gnoseologica nello stabilire la premessa veritativa di ogni possibile rapporto tra la coscienza trascendentale e il suo oggetto storico-sociale. E fu soprattutto Scheler a superare la "critica" husserliana allo scientismo nel senso della definizione di una nuova prospettiva gnoseologica "applicata" al mondo-della-vita, rappresentando la fase metodologicamente più produttiva, prelusiva alle successive analisi di Heidegger e di Mannheim. Nelle analisi di ognuno di questi, le costanti dell’Essere o essenze sono ricavate dalla sottrazione delle storiche determinazioni dell’Essere realizzate nei fenomeni. Tale processo di destorificazione dell’Essere ricava l’unità di ciò che permane attraverso la sottrazione del molteplice divenire del suo manifestarsi nel tempo e nello spazio. Il dato unitario essenziale non è soggetto alla relativistica temporalizzazione, in quanto è stato già privato l’Essere di ogni sua distinta realtà fenomenica. Di conseguenza, ogni storica trasformazione a opera dell’azione umana non può riguardare l’Essere, ma gli enti. La trasformazione degli enti consiste nel determinare il loro apparire conformemente a una necessità che non appartiene al loro essere trascendente, alla loro essenza, ma alla loro destinazione, al loro dato fenomenico praticamente funzionale. Ma la funzionalizzazione non è altro che il principio stesso della socialità strutturata. È soltanto la relativa e specifica selezione delle forme di pensiero – e non queste stesse forme in quanto tali – che risulta sociologicamente e storicamente condizionata. Ciascuno di questi schemi è guidato da un tipo di ethos, da un sistema vivente che antepone e pospone valori, da un sistema di preferenze; e ciascuno di questi sistemi di valore ["ciascun tipo di pensiero è sorto per ‘funzionalizzazione’ di un determinato insieme di intuizioni e comprensioni dell’essere"] viene introdotto nella società dal ceto al momento esemplare e dominante. […] 286

G. Lukàcs, La distruzione della ragion, tr. it.cit., vol. II, pagg. 488-489.

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Se ora si pone la questione di tipo teleologico, relativa all’utilità del sapere […] la risposta a tali domande non può essere la stessa per ogni tipo di sapere […]. Il più generale concetto di sapere – in quanto fine di ogni conoscere – […] deve essere determinato con concetti puramente ontologici. Ma allora: il sapere è una relazione all’essere – una relazione all’essere che presuppone le forme dell’essere "tutto" e "parte". È la relazione di partecipazione di un essente all’esser-così di un altro essente, senza che in questo esser-così venga a determinarsi alcuna modificazione. Il "saputo" diviene "parte" di colui che "sa", ma senza che questo implichi che esso si sposti sotto un qualche aspetto dalla sua posizione o senza che venga in un qualche modo modificato. Questo rapporto all’essere non è una relazione spaziale, temporale, causale.287

L’essente che "sa" partecipa all’esser-così di un altro essente, che esiste solo come ens reale, nel suo puro esistere, e partecipando diviene ens intentionale. L’ ens reale resta fuori del rapporto con il sapere, mentre l’ens intentionale trascende sé stesso e il suo proprio essere nella forma di "amore", dedizione all’altro-da-sé. Amore e odio sono gli atti emozionali originari dello spirito, "mediante i quali ci sono dati i valori e che costituiscono inoltre le fonti materiali per tutti i giudizi-di-valore secondari nonché per tutte le norme e i princìpi del dover-essere". Essi non sono affezioni estemporanee e accidentali, che alterano la struttura fisiologica dello spirito razionale dell’uomo, ma "costituiscono l’anello di congiunzione comune tanto per ogni nostro comportamento pratico, quanto per ogni nostro pensare e conoscere teoretico".288 Il che vuol dire che le perturbazioni estreme dell’animo sono le risposte estreme che l’uomo pone già a premessa di ogni suo atto spirituale. Nella convergenza delle "premesse" con le relative "risposte" si racchiude, attraverso ogni possibile percorso soggettivo e contingente, il circolo ermeneutico dell’unità spirituale, i cui moventi vengono radicati nel sostrato dei sentimenti umani, dove più intima e insondabile può immaginarsi la ramificazione con i meandri biologici della Natura e più avvertita la contiguità con la struttura cosmica. Ed è proprio alle radici di questi atti emozionali, che segnano il primato del sentimento su ogni dottrina dell’intelletto o della volontà, che Scheler individua l’unità fondamentale del comportamento umano, l’origine stessa della vita spirituale, sia pratica che teoretica. 287

M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 101 e 107. C. Amicantonio, Introduzione a M. Scheler Vom Wesen der Philosophie, Soveria Mannelli, 2001, pag. 48. 288

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Ciò sposta su un altro piano, più essenziale e radicale di quello che raccoglie gli oggetti empiricamente delimitabili e definibili per specie et genus proximum, la ricerca di quel fondamento del filosofare quale "conoscenza oggettivamente incondizionata", secondo il presupposto della sua "intenzione essenziale".289 Prima di affrontare la questione circa la "natura" del "mondo di oggetti" intuiti dall’atteggiamento filosofico, occorre tenere presente quanto Scheler aveva chiarito a proposito della fondamentale libertà che presiede le intuizioni oggetto del conoscere. Infatti, così come la funzionalizzazione delle intuizioni dell’Essere nasce sul terreno di una libera determinazione culturale degli uomini, anche le relazioni tra le distinte sfere del sapere sono legate alla premessa di quella originaria libertà. Ogni ordine gerarchico logicamente predeterminato a modello ontologico nega implicitamente quella libera e spontanea determinazione delle forme del divenire, volendo trasferire l’ordine assiologico relativo alla sua intuizione dell’Essere, all’Essere totale, intendendo così imprimere all’essere storico un movimento necessario apriori, sempre smentito dalla realtà effettuale, che, rispetto al modello ideale meta-storico e "oggettivo", diventa fallace e da correggere. Tutte le funzioni del sapere, osservare, conoscere, etc. sono soltanto operazioni che conducono ad un "sapere", senza tuttavia essere esse stesse il sapere. Ora se è questo il sapere nel significato più generale del termine, allora è chiaro che: dato che il sapere è una relazione con l’essere, anche il suo fine oggettivo, quello "per cui" il sapere è e viene cercato, non può essere di nuovo un sapere ma piuttosto in tutti i casi un divenire – un divenirealtro.290

La filosofia moderna, afferma Scheler, "si è caratterizzata essenzialmente come ‘teoria della conoscenza’ ", mentre gli antichi avevano "individuato l’oggetto della filosofia in un determinato regno dell’essere" cui si perveniva, non attraverso un atto di conoscenza o volizionale, ma con un atto "attraverso il quale si toglieva un impedimento dello spirito, essenzialmente insito nella condizione di tutte le visioni naturali del mondo superando la limitazione costitutiva di questa visione e sollevando il velo che nascondeva quell’essere agli occhi dello spirito"; ciò che Platone definiva il "movimento delle ali dell’anima", la dynamis verso l’ascesi dal non-essere all’essere, dal 289

M. Scheler Vom Wesen der Philosophie, in Vom Ewigen im Menschen, tr. it. cit., Milano, 2009, pag. 227. 290 M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 108.

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ἠ ὄ al ὄς ὄ, che egli chiamava "Eros", e da cui la filosofia come amore per l’essenziale.291 L’amore dunque determina la "partecipazione" tra il "nucleo di una persona umana finita" e "l’essenza di tutte le cose possibili", ponendosi alla "base di ogni filosofare". Senza peraltro dimenticare che tale "partecipazione" filosoficamente consiste in una "conoscenza", sia pure di tipo particolare, intellettualistico e non immediato, avente come contenuto le "essenze oggettive" e la "loro gerarchia", ossia, per meglio dire, "l’essenza originaria di tutte le essenze".292 Sulla base del presupposto che la filosofia sia conoscenza, i grandi filosofi del passato come Platone e Aristotile, indicarono nel filosofo la "suprema e più perfetta forma dell’essere umano". Ma quel presupposto si fondava sull’ipotesi che "l’essenza originaria" dell’essere fosse riducibile a "oggetto" di conoscenza, per cui si deve rigorosamente "distinguere nel modo più netto possibile tra l’essere degli oggetti (e dei non-oggetti) e l’essere-oggetto dell’essere, i cui limiti di possibilità sono anche i limiti di possibilità a priori della conoscenza".293 Infatti, il "contenuto dell’essenza originaria" può cambiare a seconda della sensibilità di un’epoca o di una cultura verso il principio costitutivo della vita, e così, ad es., con l’avvento del Cristianesimo questo fu indicato nell’"amore creatore e misericordioso", ossia in un "atto" anziché in un "oggetto", sicché la "partecipazione" filosofica venne intesa nei termini di un servizio reso alla fede (ancilla fidei), pertanto, come ricostruisce Scheler, lo status del filosofo, o del saggio, doveva passare in secondo piano rispetto a quello del santo, e il filosofo subordinarsi coscientemente al santo – non diversamente da quanto il filosofo, in base al presupposto kantiano di un cosiddetto primato della ragion pratica, doveva sottomettersi liberamente all’esempio morale del saggio pratico. […] Questo passaggio alla autolimitazione filosofica volontaria ed oggettivamente necessaria, da parte della filosofia, era però soltanto l’ultima ed estrema realizzazione della sua vera autonomia e costituiva dunque l’esatto opposto all’introduzione di un principio eteronomo che limitasse la filosofia dall’esterno. Esso era anche l’opposto di quell’altra restrizione, che aveva limitato la filosofia in relazione ai possibili oggetti della conoscenza (qualcosa di simile al senso kantiano circa la contrapposizione tra cosa in sé e fenomeno, o addirittura al senso 291

M. Scheler, Vom Wesen der Philosophie, in Vom Ewigen im Menschen, tr. it. cit., pagg. 233-235. 292 Ivi, pag. 237. 293 Ivi, pag. 243.

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agnostico). Al contrario, in tutta l’epoca della filosofia europeo-cristiana la filosofia fu considerata in generale come illimitata dal punto di vista del suo oggetto, in quanto avanzava la pretesa di essere metafisica e di conoscere tutto ciò che è nelle sue cause e fondamenti ultimi.294

Ora, la situazione del nostro tempo è tale che lo "sviluppo interno" del pensiero moderno ha condotto all’"esatto contrario" di quanto veniva considerato il carattere essenziale della filosofia, ossia "di essere contemporaneamente libera ancella della fede (quale sua massima dignità) e regina di tutte le scienze (quale sua seconda dignità)", per cui l’idea della filosofia cambiò tanto radicalmente che "da "libera serva" della fede a lungo andare divenne usurpatrice della fede" e "ancilla scientiarum", col compito di "unificare i risultati delle singole scienze in una cosiddetta concezione coerente del mondo (positivismo)". La conseguenza di una tale innovazione nella "relazione fondamentale della filosofia con la fede e le scienze" viene indicata da Scheler come la "Verkehrung dei veri rapporti […] mai raggiunta dalla cultura europea", la quale per altro costituisce "solo un esempio particolare di quella assai più ampia […] Verkehrung dell’intero ordine dei valori, di quel Désordre dello spirito e del cuore, che costituisce l’anima dell’epoca borghese-capitalistica". Ciò che abbiamo davanti è infatti proprio la rivolta degli schiavi nel mondo degli intellettuali, ed essa forma una sintomatologia, strettamente coerente, proprio di quel sovvertimento globale di valori, insieme all’analoga rivolta di ciò che è inferiore contro ciò che è superiore nell’Ethos, (ribellione dell’individualismo dei singoli contro il principio di solidarietà, dei valori dell’utilità contro i valori della vita e dello spirito, e di questi ultimi contro quelli del sacro), nelle istituzioni (prima come ribellione dello Stato contro la Chiesa, poi della nazione contro lo Stato e delle istituzioni economiche contro la nazione e lo Stato), negli stati sociali (classe contro stato sociale), nella concezione della storia (movimento dell’intenzione contro la forma, dell’arte industriale contro l’arte pura, del teatro del regista contro il teatro del poeta), ecc. anche la simultaneità tra il processo che ha fatto della filosofia una "saggezza mondana" nemica, anzi, usurpatrice della fede (Rinascimento) e quello che l’ha resa sempre più una indegna schiava e prostituta ora di questa ora di quella scienza particolare (la geometria, la meccanica, la psicologia, ecc.) non ci può meravigliare. Le due cose sono essenzialmente collegate. Questi processi non sono altro che la più diretta conseguenza del principio secondo il quale la ragione stessa è fatta in modo 294

Ivi, pag. 247.

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tale che le spetta di diritto eterno una certa autonomia e un potere su ciò che le è inferiore, sia sulla vita istintiva sia su tutte le "applicazioni" delle sue leggi nella molteplicità dei diversi fenomeni sensibili.295

La ricostruzione storica, o meglio logica, di tale "Rovesciamento" dei valori assume quasi assonanze nietzscheiane per il pathos espositivo, ma anche per la pregnanza fortemente sofferta di una consapevolezza teoretica che, anche per il tempo in cui fu resa nota (1921), rappresenta uno dei massimi documenti spirituali della cultura europea tra le due Guerre mondiali, e senza dubbio il frutto più maturo del rinnovamento dello spirito filosofico promosso dalla ricerca di Husserl, e probabilmente l’espressione più saliente, senza la quale non si comprenderebbe la svolta metafisica del pensiero in Germania nei termini di un radicale ripensamento della tradizione. La critica di Scheler va ben oltre i termini di una logomachia, di un contenzioso teoretico, quale ancora è possibile rinvenire in Husserl e in Heidegger, ma abbraccia un orizzonte considerativo che coinvolge ogni espressione dell’esperienza dell’uomo come spirito e come essere senziente. Per questa fondamentale considerazione totalizzante dell’esperienza umana la riflessione di Scheler non poteva non investire anche le forme della civilizzazione, le stesse espressioni storiche della cultura umana, diventando una sociologia del sapere. Rispetto alla circoscrizione dell’analisi socio-economica marxiana, o alla stessa prospettiva settoriale heideggeriana, quello di Scheler è un pensiero che si pone su di un piano di consapevole classicità, poiché in senso autenticamente filosofico cerca l’uomo ovunque sia per emanciparlo da una passiva anche se apparentemente insuperabile dipendenza dalle forze della sua stessa natura finita. Come affermerà significativamente in alcune sue profonde pagine di qualche anno dopo, anche al sapere, come a tutto ciò che noi amiamo e desideriamo, deve convenire un valore ed un significato ontico ultimo. […] Insorge allora la questione: il divenire di che cosa? Divenire di chi? e divenire per che cosa? Credo che vi siano tre supremi fini del divenire, che il sapere può e deve promuovere. In primo luogo, il divenire e lo sviluppo della persona che sa – questo è "sapere di formazione". In secondo luogo, il divenire del mondo e (forse) il divenire atemporale del suo stesso ultimo fondamento aspettuale ed esistenziale, aspetto ed esistenza che nel nostro sapere umano e in ogni possibile sapere circa il mondo e il suo fondamento pervengono alla 295

Ivi, pag. 249.

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"determinazione" del loro proprio divenire oppure a qualcosa senza la quale essi non possono raggiungere la determinazione del loro divenire – questo sapere per per amore del divino potrebbe essere detto "sapere di salvezza". In terzo luogo, vi è il fine del divenire che è tipico del dominio pratico e della trasformazione del mondo per i nostri fini e scopi umani – quel sapere a cui guarda il pragmatismo, in modo assai unilaterale, anzi esclusivo – questo è il sapere della "scienza positiva", il "sapere di dominio" o "sapere produttivo". […] Di questi tre ideali di sapere la più recente storia dell’Occidente e delle sue appendici culturali, autonomamente sviluppatesi, ha coltivato in modo sistematico e sempre più unilaterale, quasi in modo esclusivo, il sapere orientato alla possibile trasformazione pratica del mondo nella forma delle scienze specialistiche positive fondate sulla divisine del lavoro. Nel corso della storia occidentale il sapere di tipo formativo e quello di salvezza è passato sempre più in secondo piano. Tuttavia anche il sapere relativo al dominio e alla produzione, è stato coltivato soltanto in uno dei possibili aspetti: quello determinato a servire il dominio e il controllo della natura esterna (in primo luogo di quella organica).296

La colpa della moderna hybris è di assolutizzare la partecipazione all’Essere per conoscenza facendone un criterio di dominio sulle altre forme di partecipazione e sul resto del mondo, ignorando, deliberatamente o per insipienza, il pluralismo dei saperi, ossia il carattere stesso della conoscenza quale prodotto della finitezza umana, che non può assurgere alla completezza e fusione col Tutto, che resta ed è saggio che resti all’orizzonte delle sue più intime aspirazioni dell’uomo. Ed è proprio la consapevolezza della finitezza umana che circoscrive ragionevolmente le possibilità del conoscere ai limiti della diversa partecipazione al Tutto proposta dalle distinte vocazioni umane. Come infatti afferma Scheler, nessuna di queste forme di sapere [pratico, di formazione e di salvezza] può mai "sostituire" o "supplire" le altre. Se una soffoca le altre due (o anche una soltanto), al punto da pretendere alla fine una validità ed un potere esclusivi, insorge sempre un grave danno per l’unità e l’armonia della vita culturale dell’uomo nel suo insieme e per l’unità della sua natura fisica e spirituale.297

Vi è qui in Scheler una sensibilità, quasi herbertiana e crociana, alle distinzioni spirituali che tende a mettere in guardia contro i rischi delle facilistiche approssimazioni logiche, propri di una visione della vita tutta dedita ai risultati dell’azione pratica e alla difesa dell’opera 296 297

M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 109 e 111. Ivi, pag. 115.

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particolare dagli indebiti attentati di possibili usurpatori. Ma ciò che Scheler qui non giunge ad esprimere esplicitamente, ma che pure si lascia intuire sotto le pieghe della sua analisi, a tratti accorata, come abbiamo visto, è che la Verkehrung dei valori non rappresenta, sul piano ideale ed etico, soltanto la dissoluzione di una struttura sociale e politica che si rispecchiava sulla tradizionale gerarchia dei valori, e che sarà ampiamente analizzata in sede di teoria sociologico-culturale dallo stesso Scheler; il pragmatismo, infatti, trasvaluta le radici filosofiche empiristiche e positivistiche in un senso del tutto originale e proprio di una civiltà, quella americana, distinta dalla mentalità europea e quindi sostanzialmente estranea alla tradizione filosofica classica e al suo ordine valoriale. In altri termini, l’universalismo della teoresi filosofica si infrange inevitabilmente sulla insuperabile finitezza della natura umana, e la consapevolezza che i confini del mondo occidentale siano abitati da nuovi barbari alieni alla Bildung classica, ingenera, per un verso, un sentimento di ripiegamento relativistico, ma anche, per l’altro verso, una auto-rappresentazione antropologica della propria identità spirituale che consente di riesumare in chiave comparativa più universale la fedeltà, modernamente smarrita od obliata, della gerarchia dei propri valori, su un piano di ontologica obiettività. La prospettiva ontologistica, nella crisi dei valori tradizionali, compresi quelli religiosi, rappresenta per la filosofia europea l’ultima e più sofferta resistenza al declino della civiltà occidentale, che vede nel pensiero tedesco l’estrema nobile e tragica propaggine. A differenza dall’atteggiamento eurocentrico di Husserl, e da quello filo-ellenico di Heidegger, Scheler non scinde la composita fisionomia del pensiero europeo dal suo fondamento cristiano, nel tentativo di recuperare trans-storicamente una presunta identità filosofica originaria mondata di ogni contaminazione teoreticamente allotria. Al contrario, il suo rifacimento alle "origini" tende a definire la "crisi" della modernità nei termini dell’eresia, della deviazione eslege, dal percorso tradizionale di quella complessità composita del pensiero classico-cristiano europeo, che è stata violata dalle erronee semplificazioni dialettiche e dalle indebite riduzioni razionalistiche, proprie del pensiero moderno. La scure che ha reciso la testa dei re nella Rivoluzione, dopo lo strappo religioso della Riforma, ha pure tagliato il pensiero moderno dalla sua radice filosofica, generando dal germoglio scientista il frutto indigesto e acre della civiltà pragmatica borghese-capitalistica, che pone al centro delle sue considerazioni e conoscenze il lavoro. 108


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La scienza, afferma Scheler, come "conoscenza dell’ente e di quanto è già divenuto", può avere per oggetto "quei gruppi di relazioni e di schemi rigidi e predeterminati che costituiscono e leggi strutturali della tendenza verso il lavoro", ma non è idonea a cogliere la complessità della vita, che può conoscersi solo mediante la conoscenza filosofica [che] è conoscenza dell’essere assoluto, del divenire di tutto ciò che diviene, e persino di quel processo del divenire, che si verifica nella sfera di quanto è già divenuto [e che] ci illumina su quanto nel mondo non è necessario, sulla conoscenza pura e sulla verità.298

L’organo della scienza è l’intelletto, il quale fa sì che la pesante pienezza dell’essere, delle qualità e del divenire infinitamente vario ed eterogeneo si configuri per noi come un dato, solo nell’ambito di certi limiti, di certe unità: e cioè fin dove possa costituire il presupposto del nostro dominio e del nostro governo sul mondo.

E da qui deriva, per Bergson, il risvolto pragmatistico di ogni scienza.299 La tesi pragmatistica sostiene che l’esperienza, l’osservazione e la sensazione – che erano le forme del conoscere dell’empirismo, del sensismo e del razionalismo – siano il prodotto finale di quanto da noi stessi prodotto, per cui "le conseguenze pratiche del pensiero coinciderebbero con il suo senso e significato, mentre la rappresentazione di queste conseguenze pratiche coinciderebbe con la comprensione e la conoscenza di tale ‘significato’ ".300 L’atto o l’impulso ad agire che costituisce la pre-condizione per l’insorgere della osservazione diventa un atto di verificazione e di conferma del pensiero, mentre quest’ultimo diventa soltanto un tipo di piano preliminare proprio per tale agire. […] In tal modo "lo spirito" della conoscenza e della gnoseologia si modifica profondamente rispetto al più antico empirismo o sensismo, ma anche rispetto al razionalismo. Il pragmatismo non tenta soltanto di infrangere la vecchia idea che il "senso" di un giudizio sia qualcosa di diverso dall’atto del giudizio e sia esattamente identificabile in una molteplicità di atti individuali e interindividuali, ma nondimeno l’ipotesi che i "fatti" da conoscere preesistano al conoscere. Tanto questo "senso", quanto i "fatti" 298

M. Scheler, Versuche einer Philosophie des Lebens (1913), tr. it. in La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pag. 97. 299 Ibidem. 300 Ivi, pag. 119.

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vengono addirittura creati da colui che conosce. Il mondo – in quanto non conosciuto – è simile ad una "massa assolutamente plastica", ad una "Hyle" ancora del tutto indeterminata che l’uomo, in tale processo dinamico indivisibile di progetto concettuale – azione, sensazione, osservazione, nuova azione – si plasma allo stesso tempo come un mondo del senso e dei fatti (come un cosmo). Per questo motivo il pensiero pragmatistico non è certo meno ma assai più costruttivistico del pensiero razionalistico – ed in questo, radicalmente differente dal pensiero empiristico. Ma non negando soltanto ogni ordinamento ontologico e struttura di senso della sfera mondana, bensì ogni ragione unitaria, originaria, dotata di leggi autonome, le cui leggi funzionali siano da "scoprire", il pragmatismo è allora separato nel modo più radicale da ogni razionalismo. In modo dunque perfettamente coerente James, in A Pluralist Universe, perviene al radicale pluralismo dei mondi.301

La mentalità pragmatica consegue alla particolare situazione esistenziale della colonizzazione americana, dove la verginità primitiva dei luoghi ha fatto da sfondo alla coscienza più evoluta della civiltà dei colonizzatori. Il loro problema vitale fu dunque quello di modificare la Natura modellandola al proprio livello di coscienza, plasmandola secondo i fini funzionali ai loro intenti di benessere e di sicurezza. Le stesse leggi tradizionali dell’economia furono sconvolte, in quanto non si aveva a che fare più con i limiti della cronica indigenza delle società di provenienza, ma con una abbondanza quasi illimitata di risorse naturali, alla portata pressocché di tutti. La stessa disponibilità di risorse, non vincolata da precostituiti sistemi di proprietà e di dominio, fece aprire all’uomo nuove possibilità di verifica delle sue tradizionalmente represse aspirazioni di miglior vita. Ma un’altra situazione si interpose tra il vecchio e il nuovo mondo nella coscienza dei coloni, quella rappresentata dalla Rivoluzione francese, la quale, diversamente da quella inglese precedente, sortì i suoi sperati effetti sociali, liberando nella coscienza collettiva l’immagine di un mondo definitivamente ordinato e immutabile. Il pragmatismo – come tensione e visione morale della vita e del mondo – corrisponde alla secolarizzazione e soggettivazione culturale del vecchio continente, alle prese coi soliti problemi storici della sua costituzione tradizionale, ma con lo spirito nuovo nato a seguito della possibilità di cambiarla a favore delle istanze dei meno fortunati e degli esclusi. Il pragmatismo, per questi versi, costituisce la filosofia di "chi può" perché non soggetto ai vincoli cosmici tradizionali da cui si sente metafisicamente (oltre che socio-economicamente) 301

Ivi, pagg. 122-123.

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emancipato. Alla categoria della "partecipazione" si sostituisce quella della "trasformazione" dell’Essere, per cui l’unica sua dimensione accreditata è quella del mutamento (ίς), che è a sua volta una modalità di partecipazione all’universale divenire, ma non è propriamente sapere in senso filosofico. Filosoficamente, come abbiamo ricordato, "noi non possiamo trasferirci nell’essere-così delle cose in altro modo che attraverso il sapere".302 Il sapere, vale a dire lo scopo di ogni "conoscenza" come attività spontanea, non è raffigurazione né della cosa stessa, né delle sue relazioni […]. Il sapere è piuttosto in senso assolutamente formale partecipazione di un essente all’esser-così di un altro essente, senza modificazione di questo esser-così. Soltanto l’esistenza di una cosa rimane sempre e necessariamente al di là del sapere e della coscienza ed è come tale transintelliggibile. L’esser-così della cosa può però per principio in quanto tale – e non soltanto come immagine – entrare nel nostro spirito, quando diviene oggetto di una intenzione, che non è una immagine ma un atto. […] La partecipazione del nostro essere all’esser-così del mondo […] è in primo luogo una estensione ed un accrescimento del nostro rapporto ontologico con il mondo, ed in pari tempo un ricondurre le cose al loro (oggettivo) "significato": a quel significato che spetta loro oggettivamente, anche prima che noi le si "significhi" concettualmente. Il conoscere spontaneo è il volgersi dello spirito verso il sapere – non dunque qualcosa che successivamente si aggiunge al sapere e che sia ad esempio un di "più" rispetto al sapere. Il sapere stesso non è vero o falso; non vi è alcun "falso sapere". Il sapere è evidente o non-evidente, quindi adeguato o non adeguato, in relazione alla pienezza dell’esser-così dell’oggetto. Vere o false sono soltanto le proposizioni, vale a dire i correlati di senso ideali immanenti ai nostri giudizi; queste proposizioni sono vere se "concordano" con l’evidente e massimamente adeguato esser-così di un oggetto del sapere – false se contrastano con questo.303

La "partecipazione" all’essere del mondo presuppone una struttura ontologica del reale, una forma essenziale, che non è soggetta all’intervento trasformatore dell’uomo. In tal senso, la visione teoretica del mondo ne coglie l’essenza, cioè quanto degli enti non muta. Rispetto al mutamento, l’essenza è l’unità della molteplicità. L’unità essenziale si coglie trascendendo dalla molteplicità del mutamento degli enti, così che l’unità o essenza del molteplice è ciò che nega la molteplicità, ossia il mutamento. L’unità degli enti, 302 303

M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 134. Ivi, pagg. 135-136.

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procedendo da un atto astrattivo dalla molteplicità reale, è una operazione ideale, che si ottiene attraverso la elusione dal processo del divenire proprio della storia. La sfera pratica è quella che considera della realtà la sola molteplicità dei mutamenti, ma questa molteplicità non può essere ridotta ad unità logica se non astraendo dall’essenza degli enti. E poiché l’essenza è ciò che degli enti non muta, il valore pratico degli enti mondani deriva dalla negazione dell’essenza a favore della sola considerazione dell’esistenza, ossia dell’elemento mutevole degli enti. In tal senso, l’unità non si può conseguire praticamente se non operando una omogeneizzazione dei fenomeni attraverso un atto astrattivo dalla loro essenza ideale. Il principio di identità prescinde dalla molteplicità e singolarità degli enti, così come il principio di differenza prescinde dall’unità e omogeneità delle essenze. L’unità ideale è singolare per generi o sfere, distinguendo da sé il molteplice, cioè le specie. L’unità delle specie è solo ideale, non reale. Nella realtà, le specie sono molteplici, per cui la sfera reale è quella della molteplicità, non dell’unità (che è sempre ideale). L’unità essenziale degli enti si coglie astraendo dalla loro molteplice esistenza. Gli enti singolari e molteplici non possono essere ridotti all’unità se non astraendo dalle loro essenze, per cui l’elusione dell’essenza è la pre-condizione di ogni azione trasformativa e di ogni metodica di natura pratica. Ma lo "scientismo"304 e lo "strumentalismo"305 non sono conoscenze adeguate perché non colgono l’essenza del reale. “Per scientismo intendiamo un orientamento spirituale che, riguardo alla domanda relativa a che cosa siano conoscenza e verità, presuppone già il fatto della scienza positiva, i suoi metodi e i suoi compiti e risponde poi alla domanda che verità e conoscenza sono appunto ciò “a cui” portano i metodi della scienza. Per lo scientismo, dunque, non si determinano prima i concetti di verità e di conoscenza, per domandare solo successivamente fino a che punto la scienza, in virtù dei suoi metodi, possa raggiungere verità e conoscenza, che cosa per essa sia degno di essere conosciuto e fino a che punto una forma di conoscenza extra-scientifica, a esempio di tipo filosofico, religioso o artistico, possa raggiungere tutto questo”: M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 128. 305 “Per strumentalismo intendo invece ogni orientamento di pensiero che, anziché conformare i metodi agli oggetti, sostiene che sia il metodo per primo a creare determinati oggetti; oppure, detto in altro modo, che sostiene che il termine verità sia da equiparare ai risultati di un pensiero “giusto”, vale a dire conforme a determinate norme. Secondo tale definizione, tali norme non possono in sé stesse dirsi ancora “vere”. La verità deve infatti consistere nell’operare in conformità ad esse”. In contrasto con questa logica è quella fondata sulla ontologia, per la quale debba dirsi “giusto soltanto quel pensiero che porta alla verità e che segue principi ed assiomi in modo evidente veri”: Ivi, pagg. 128-129. 304

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La conoscenza relativa all’essere della cosa stessa non è oggetto della scienza positiva, ma della metafisica, orientata conoscitivamente alla immutabile struttura essenziale del mondo immodificabile da una possibile osservazione […]. Può perciò essere posto come essere in sé (così o altrimenti) tutto ciò che, quando noi lo poniamo, si può dimostrare lasci immutabile la nostra osservazione possibile. Questo è un articolo fondamentale, anche se solo di tipo negativo, della libertà della metafisica, non meno necessaria per questa del principio di osservabilità per la scienza positiva. Ciò che la metafisica pone positivamente come essente assoluto […] si rivolge solo al senso e al significato di quelle intuizioni e di quei pensieri che hanno a che fare con la struttura essenziale della totalità del mondo, vale a dire a quel sapere essenziale del mondo che rimane lo stesso anche dopo ogni possibile trasformazione pratica del mondo legata ai nostri interventi.306

La differenza tra filosofia e scienza è radicale, a tal punto che Scheler esclude "nel modo più netto che la filosofia in quanto regina delle scienze stesse, debba trovarsi tra di esse".307 Infatti, sulla scorta di Husserl, Scheler distingue una conoscenza "essenziale evidente ed oggettiva", che è conoscenza filosofica delle "essenze", da una conoscenza "reale", propria delle scienze, la quale "resta essenzialmente nella sfera della probabilità".308 Nondimeno, diversamente da quanto ritenesse Husserl, Scheler pensa che le scienze positive si evolvano all’interno di una determinata Weltanschauung, la cui variazione costituisce la premessa di "ogni variazione di una struttura scientifica", pur considerando che le rispettive variazioni avvengono "con una scala temporale del tutto diversa". Nel corso della storia, infatti, le strutture scientifiche, i loro concreti sistemi di concetti e di principi fondamentali, mi sembrano mutare in modo discontinuo rispetto alle visioni del mondo e mi pare che la possibilità di un progresso della scienza in linea di principio illimitato si dia solo all’interno di ogni struttura data di una Weltanschauung, come per esempio di quella europea.309

306

Ivi, pag. 126. M. Scheler, Vom Wesen der Philosophie, in Vom Ewigen im Menschen, tr. it. cit., pag. 251. 308 Ivi, pag. 251. 309 Ivi, pag. 257. 307

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Questa considerazione è parallela e coerente con l’altra, per cui "l’intuizione dei valori", e l’agire che si fonda su di essi, può essere conseguita solo attraverso il perseguimento propedeutico di un atteggiamento morale che, grazie "all’autorità e all’educazione", è in grado di superare "tutti gli atteggiamenti pragmatici verso ciò che esiste", legati "all’atteggiamento ‘naturale’ e a quello prevalentemente ‘pratico’ verso il mondo".310 Se l’uomo vuole raggiungere l’intuizione dei valori (e il volere e l’agire fondati su di essa), l’autorità e l’educazione devono prima determinarlo ad agire e a volere in modo tale da eliminare i motivi di inganno di tale intuizione. L’uomo deve in primo luogo imparare a volere e agire in modo oggettivamente giusto e buono, più o meno ciecamente, prima di essere in grado di vedere anche il Bene come buono, e di saper volere e realizzare razionalmente il bene. […] L’acquisto di questa capacità di intuizione a sua volta è connesso all’eliminazione dei motivi di illusione [cioè di] quelle forme di vita che consistono nel voler e nel compiere abitualmente ciò che è oggettivamente male. Sono sempre delle forme di vita pratica deviate in passato, ad abbassare la nostra coscienza dei valori e della loro gerarchia fino al livello sul quale queste stesse forme di vita si trovano, e che perciò ci conducono alla cecità o all’inganno sui valori.311

Resta da definire la "relazione essenziale" tra la "conoscenza del valore" e la "conoscenze dell’Essere", ossia l’esistenza di una "legge inflessibile della struttura essenziale" che regola sia gli atti spirituali che le funzioni inferiori della mente umana che degli atti costituiscono la materia, e che consiste nella priorità delle "qualità valoriali" su quanto "appartiene alla dimensione neutrale dell’essere", per cui nessuna entità del tutto priva di valore può diventare "originariamente" oggetto di una percezione, di un ricordo, di un’attesa […]. Ogni essere neutrale o indifferente al valore è dunque sempre tale, solo sulla base di una astrazione più o meno artificiale, attraverso la quale noi prescindiamo dal suo valore che è non solo sempre "co-dato", ma anche sempre "pre-dato".312

Per lo "studioso" quest’astrazione diventa un esercizio quasi naturale, ma per "l’uomo naturale" è alquanto difficile pensare in modo indipendente dal valore. Va da sé, però, che dal primato "del dato valoriale sul dato ontologico non deriva alcuna intrinseca priorità in sé 310

Ivi, pag. 259. Ivi, pag. 261. 312 Ivi, pag. 263. 311

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del valore sull’Essere". La priorità "oggettiva" dell’intuizione del dato valoriale rispetto a "ogni condotta, volere e agire buoni", diventa "soggettivamente" posteriore "rispetto alla condotta e al volere che siano oggettivamente buoni", così come è soggettivamente prioritaria l’intuizione del dato valoriale rispetto al dato ontologico.313 Ed è così che si spiega quanto di sopra asserito circa il ruolo degli atti emozionali dell’amore e dell’odio quale "anello di congiunzione" tra la condotta pratica e la riflessione teoretica. L’astrazione dalla "conoscenza naturale del mondo" in vista della "partecipazione alla realtà essenziale", Scheler la chiama "ascesi" (Aufschwung), la quale costituisce la condizione del filosofare. La caratteristica del filosofare è, rispetto alla molteplicità delle discipline scientifiche, la sua unità, e, in senso soggettivo, è "il fatto che vi entri in gioco tutto l’uomo, con la totalità concentrata delle sue supreme forze spirituali". Ciò implica che, mentre "le scienze richiedono l’applicazione e l’esercizio di funzioni del tutto particolari dello spirito umano", nella filosofia, invece, viene coinvolta "la totalità concreta dello spirito umano".314 Nella visione di Scheler il filosofare è quell’attività che si pone su di un piano qualitativamente diverso rispetto a quello di ogni altra possibile conoscenza, che è quello appunto della "totalità dell’uomo", nel quale la coscienza di cui la persona umana è portatrice diventa il luogo di "reintegrazione" ad unità della molteplice rappresentazione delle "forme di visione" e degli "atteggiamenti della coscienza" scientificamente possibili solo "in modo separato e differente". Ed è da questa possibilità metafisica che va desunta la posizione ontologica del filosofo quale campione antropologico di homo sapiens e soggetto spirituale. Il filosofo è anche il solo che ha la possibilità di realizzare ciò che tutti coloro che vivono e operano in queste forme [di visione scientifica, religiosa, artistica] non possono produrre: mostrare e delimitare con chiarezza la differenza essenziale tra queste forme di visione e tra l’esistenza e l’essere dato dei loro oggetti. Inoltre – che è la cosa più importante – egli può rivolgere uno sguardo del tutto semplice e ancora indifferenziato alle forme proprie di visione, pensiero e sentimento in cui i ricercatori, gli artisti e i devoti vivono – senza possederle oggettivamente; egli può oggettivarle in un’intuizione o in un "pensiero" puri e privi di forma.315

313

Ivi, pagg. 267-269. Ivi, pag. 271. 315 Ivi, pag. 273. 314

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La prospettiva unitaria e totalitaria che caratterizza il filosofare è tutt’altro che un atteggiamento psicologico del filosofo, ma riflette la "unità essenziale" dell’oggetto filosofico e la "oggettiva struttura problematica della filosofia",316 per cui la riconsiderazione del ruolo della filosofia come pensiero della totalità dell’essere che qui si offre, è ben più di una riabilitazione archeologica di una forma di pensiero superata dal processo storico delle conoscenze; ben più di una nostalgica rievocazione del modo teoretico classico di rappresentare la realtà, che la sua storicizzazione avrebbe consegnato a modalità non più funzionali alle dinamiche e alle sensibilità "moderne" del pensiero. In altri termini, la riaffermazione della oggettiva struttura ontologica dell’Essere offre un fondamento essenziale al pensiero filosofico che traduce la rimozione scientistica moderna del filosofare, nei termini di un epocale errore di omissione o di denegazione della realtà unitaria dell’Essere, a favore della sola rappresentazione molteplice. Il che consegna l’intera parabola dello scientismo moderno a un colossale errore metafisico – il Grande Errore –, la cui correzione in senso riabilitativo del filosofare è imprescindibile da ogni consapevole fuoriuscita dal Moderno. Di converso, questo stesso processo riabilitativo del pensiero filosofico come pensiero ontologico è indissolubilmente collegato alla Rettung della civiltà europea in crisi. Se ben si coglie l’intimo nesso storico-filosofico della posizione dell’ontologismo di matrice husserliana, che in Scheler consegue la posizione di massima consapevolezza e insieme di equilibrio teoretico, si comprende come la sua radicale critica della modernità non può delinearsi nei termini ideologicamente polemici di una nazionalistica Sonderweg spirituale, stigmatizzabile in conseguenza dei risultati "totalitarii" delle sue premesse "metafisiche" e "olistiche". Critiche siffatte, che non a caso si concentrano su Platone e Hegel quali presunti portatori dei biasimati disvalori teoretico-sociologici, non considerano ciò che invece è chiaramente evidenziato, ossia che la posta in gioco era il destino stesso della civiltà europea: la civiltà della ragione, e che la vertenza filosofica era tutt’altro che una questione accademica e professorale, ma verteva sulla vocazione essenziale dello spirito europeo e del suo ruolo universale nel mondo. Come ben vide Husserl, le uniche battaglie veramente significative del nostro tempo sono battaglie tra una umanità che già è franata in sé stessa e un’umanità che è ancora radicata 316

Ibidem. 116


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su un terreno […]. Le vere battaglie spirituali dell’umanità europea sono lotte tra filosofie, cioè tra le filosofie scettiche – o meglio tra le non-filosofie […] – e le vere filosofie, quelle ancora vive. Ma la vitalità di queste ultime consiste in questo: esse lottano per il loro senso vero e autentico e perciò per il senso di un’autentica umanità. Portare la ragione latente all’autocomprensione, alla comprensione delle proprie possibilità, e perciò rendere evidente la possibilità, la vera possibilità, di una metafisica – è questo l’unico modo per portare la metafisica, cioè la filosofia universale, sulla via laboriosa della propria realizzazione. Solo così sarà possibile decidere se quel télos che è innato nell’umanità europea dalla nascita della filosofia greca, e che consiste nella volontà di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così […], sia una mera follia storico-fattuale, un conseguimento casuale di un’umanità casuale in mezzo ad altre umanità e ad altre storicità completamente diverse, oppure se piuttosto nell’umanità greca non si sia rivelata quell’entelechia che è propria dell’umanità come tale. […] Se l’uomo è un essere razionale, lo è soltanto se tutta la sua umanità è un’umanità razionale – latentemente orientata verso la ragione oppure espressamente orientata verso quell’entelechia che è pervenuta a sé stessa, che si è rivelata a se stessa e che ormai guida coscientemente, per una necessità essenziale, il divenire umano. La filosofia, la scienza non sarebbero allora che il movimento storico della rivelazione della ragione universale, "innata" come tale nell’umanità. […] Solo così sarebbe possibile decidere se l’umanità europea rechi in sé un’idea assoluta e se non sia un mero tipo antropologico empirico come la "Cina" o "l’India"; e inoltre: se lo spettacolo dell’europeizzazione di tutte le umanità straniere annunci la manifestazione di un senso assoluto rientrante nel senso del mondo o se non rappresenti invece un non-senso storico.317

La centralità dell’uomo proposta da Scheler riconduce alla dimensione personale della coscienza, secondo un’interpretazione non riduttivamente piegata sull’individuo empirico, ovvero sul carattere psicologico dell’uomo e sul "contenuto" morale del suo pensiero, ma vertente sulla "misura" della "purezza e della forza dell’ascesi che ci pone in un rapporto conoscitivo possibile con il regno dell’essere sussistente, di cui la filosofia tratta".318 L’atto conoscitivo, dunque, non è rapportabile al ruolo professionale o vocazionale del "filosofo" in quanto tale, quasi che "sia sufficiente essere un filosofo per giudicare e argomentare in modo giusto su qualsiasi cosa", ma bensì all’"atteggiamento filosofico" consistente nello "spingersi fino a partecipare della realtà essenziale", al fine di 317

E. Husserl, La crisi delle scienze europee, tr. it. cit., pagg. 44-45. M. Scheler, Vom Wesen der Philosophie, in Vom Ewigen im Menschen, tr. it. cit., pag. 275. 318

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porre l’uomo all’interno dell’ "ordine immanente" a "tutte le essenze possibili", col fine di conseguire "una unificazione immediata tra il suo essere e l’essere della realtà essenziale".319 Questo movimento ascetico realizza nell’uomo il suo "proprio essere", i cui atti partecipano così alla "apertura" dell’essere personale alla "forma ontologica delle essenze", che trova la sua "determinazione fondamentale" nella "idea di Dio", intesa quale "tentativo dell’uomo di trascendere se stesso come essere naturale finito".320 La base comune di ogni successiva attività spirituale è la "visione naturale del mondo", che costituisce una delle "tre modalità di condotta conoscitiva" insieme alla "visione filosofica del mondo" e alla "concezione scientifica del mondo". Circa la visione naturale del mondo, essa si caratterizza per il fatto che "il soggetto che si trova in essa ritiene che il mondo che lo circonda in quel momento, o ogni possibile ambiente umano, siano l’essere stesso del mondo". La "struttura" che costituisce "l’ambiente naturale" del mondo, è "il sistema delle forme naturali di esistenza", al quale corrispondono le "forme naturali della percezione, del pensiero e della lingua", rappresentate dal "sano senso comune dell’uomo" e dal "linguaggio ordinario".321 Il mondo-della-vita (Umwelt), al di là di come sia concepito dall’uomo e dalla sua particolare determinazione storicoambientale, ha una struttura relativa alla "organizzazione biologica specifica dell’uomo, quale specie particolare della vita universale" e corrisponde a ciò che Platone indicava come "mondo della doxa" e Husserl chiamava "l’orizzonte del mondo naturalmente normale". Sulla generalità di questa dimensione naturale, la conoscenza scientifica opera una "riduzione nei confronti dell’essere e del contenuto dell’ambiente" in senso relativo a ciò che pertiene alla sola "organizzazione umana in generale o a ciò che è identico a ogni uomo", a esclusione "per principio" di ogni qualità ontologica relativa all’essenza e all’esistenza dell’uomo. Per cui, della "pienezza dell’essere del mondo in generale", nella "sfera dell’ambiente" diventa rilevante soltanto ciò che attiene, ossia "genera una risposta", alla "struttura istintiva" e alla corrispondente "struttura sensoriale" dell’uomo quale "essere vivente in generale", a prescindere da ogni individuale determinazione ontologica.322 319

Ibidem. Ivi, pag. 276. 321 Ivi, pag. 279. 322 Ivi, pag. 281. 320

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Rispetto alle forme strutturali della visione naturale del mondo, oggetto della universale validità della conoscenza scientifica, la conoscenza filosofica "mira piuttosto ad una sfera dell’essere completamente diversa, che si trova al di fuori e oltre la semplice sfera dell’ambiente dell’essere come tale", e che pervenga, attraverso l’ascesi, all’"essere del mondo in sé".323 Per raggiungere questa dimensione, occorre la rimozione, attraverso alcuni "atti morali", dei "vincoli" naturalistici che legano l’uomo agli "impulsi corporei e sensibili" della sua vita biologica e alla relativa visione naturale del suo ambiente, che è lo stesso della visione scientifica del mondo, al fine deliberato che "lo spirito abbandoni per principio la mera relatività alla sfera vitale", lasciando la dimensione dell’"essere per la vita", in quanto essere vivente, per partecipare "all’essere, in se stesso e per se stesso".324 Gli "atti morali fondamentali" idonei a predisporre alla conoscenza filosofica, sono tre: uno positivo e due negativi, i quali "solo nella loro realizzazione concomitante e unitaria permettono all’uomo di arrivare fino al punto in cui l’oggetto della filosofia si dà". Essi sono: 1) l’amore di tutta la persona spirituale nei confronti del valore e dell’essere assoluti; 2) l’umiliazione dell’io e del sé naturali; 3) il dominio su di sé e l’oggettivazione – possibile solo attraverso di esso – degli impulsi istintivi della vita vissuta, che si dà come "corporea"e si fonda nel corpo; tali impulsi sono sempre la condizione necessaria della percezione sensibile naturale.325

Questi atti morali avvicinano l’uomo alla sfera dell’"essere assoluto", nel senso che rimuovono dalla sua considerazione dell’esperienza umana la dimensione relativa alla vita biologica e istintuale, ossia quanto essa è legata alla volontà di sopravvivenza naturale. Quanto, infatti, Scheler indica come "egocentrismo, vitalismo e antropomorfismo naturali dell’uomo", sono gli impulsi proprii della volontà di vita dell’uomo quale membro di una specie vivente. In questo senso, l’ascesi dal mondo naturale e la conseguente spiritualizzazione della cognizione assoluta sono forme di negazione della Natura e di emancipazione dal legame dell’uomo naturale alla sua realtà finita. Ciò presuppone che la definizione naturalistica 323

Ivi, pag. 283. Ibidem. 325 Ivi, pag. 283. 324

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dell’uomo sia di per sé una riduzione arbitraria della sua totalità ai fattori biologici, con la conseguente perdita dell’originalità di quanto sia propriamente, esclusivamente ed essenzialmente umano, ossia la "trascendenza di ogni forma di vita", che stabilisce per l’uomo "l’impossibilità di diventare oggetto di definizione".326 La assolutezza antropologica, che vista dal punto prospettico della vita biologica in generale rappresenta una frattura dell’unità naturale, e perciò un trauma da scissione generatore di ogni mito narcisistico e di ogni esperienza di alienazione, nonché primo principio della vita psichica che è all’origine della stessa distinzione tra io e non-io,327 dal punto di vista filosofico rappresenta la condizione essenziale di una conoscenza ontologica consapevole della totalità irriducibile dell’essere umano, in confronto della quale ogni analisi settoriale - sia pure, anzi: proprio perché "obbiettiva"- risulta manchevole, in quanto risolve la totalità del soggetto spirituale nella parte dei suoi prodotti fenomenicamente reali, i tanto decantati "fatti" oggetto della scienza. [Rispetto a] una soluzione razionalmente fondata [circa] l’uomo nel suo comportamento di fronte al mondo circostante umano ed extra-umano, l’uomo che deve liberamente scegliere, l’uomo che è libero di plasmare razionalmente sé stesso e il mondo che lo circonda […], la mera scienza dei fatti non ha nulla da dirci [in quanto] essa astrae appunto da qualsiasi soggetto. […] La verità scientifica obiettiva è esclusivamente una constatazione di ciò che il mondo, sia il mondo psichico sia il mondo spirituale, di fatto è. Ma in realtà, il mondo e l’esistenza umana possono avere un senso se le scienze ammettono come valido e come vero soltanto ciò che è obiettivamente constatabile […], che la ragione è destinata a trasformarsi sempre di nuovo in non-senso, gli atti provvidi in flagelli? Possiamo accontentarci di ciò, possiamo vivere in questo mondo in cui il divenire storico non è altro che una catena incessante di slanci illusori e di amare delusioni?328

Dalle parole di Husserl, che rappresentano il retroterra spirituale e teoretico delle analisi di Scheler, si evince che la questione metafisica è indissolubilmente intrecciata alla questione morale, per cui definire in termini razionalmente oggettivi un mondo pienamente umano rimane un compito ben più che accademico e scientifico, ma investe il M. Scheler, Zur Idee des Menschen (1913), tr. it. in La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pagg. 67-68. 327 Ved. Ch. Lasch, The minimal Self (1984), tr. it., Milano (1985), 2010, pagg. 113 sgg. 328 E. Husserl, La crisi delle scienze europee, tr. it. cit., pagg. 35-36. 326

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senso stesso della esistenza dell’uomo come animale razionale e la sua missione in quanto essere spirituale. L’asserzione circa l’inoggettività dell’uomo quale essenza totale esprime la più formidabile accusa di riduzionismo teoretico muovibile alla epistemologia scientifica, accusa che traduce in termini moderni quella antica di hybris mossa per stigmatizzare la volontà umana di infrangere le regole oggettive del cosmo. Ma proprio la consapevolezza della oggettività di esse, conseguibile attraverso la sapienza, rende "ingenuo" l’ottimismo sul buon esito dell’infrazione, ossia la stessa conoscenza scientifica del mondo funzionale all’intento liberatore dell’uomo attraverso la trasformazione tecnica della Natura, quale esito dell’applicazione di quella conoscenza. Trattando dell’uomo, si può astrarre dalla sua natura biologica per conoscere la sua realtà essenziale, ma non si può astrarre dal soggetto senza tenere presente che l’uomo è perduto nella conoscenza naturalistica. Quello che somiglia molto al pari di Pascal, se da un lato riconferma la responsabilità legata alla possibilità della scelta teoretico-morale dell’uomo, dall’altro attribuisce inequivocabilmente alla conoscenza ontologica il primato teoretico di una conoscenza totale non conseguibile per altra via. Non è difficile vedere in questa posizione metafisica i termini di una scelta di paradigmi antropologici tra una Weltanschauung razionalistica e una di tipo sostanzialmente irrazionalistico. Bisogna tenere ben chiaro, infatti, che la critica ontologica che da Husserl viene per primo mossa allo scientismo e a quella che Scheler chiama la "mentalità pragmatistica", non costituisce un correttivo epistemologico ma una alternativa metafisica tra l’uomo settoriale concepito dalla scienza, che possiamo chiamare "a una dimensione", e l’uomo in senso filosofico, ovvero considerato nella sua "totalità". Resta da appurare se a tale considerazione totale sia corrispondente anche una conoscibilità totale; in altri termini se quella filosofica sia l’unica vera conoscenza dell’uomo, ovvero sia solo il fondamento epistemico di ogni possibile conoscenza particolare, cioè scientifica. Nel primo caso, ossia nell’ipotesi dell’esclusività della conoscenza filosofica, ogni altro tipo di conoscenza sarebbe, non soltanto inadatta relativamente allo scopo filosofico, ma anche fallace ed erronea; nell’altro caso, ossia nell’ipotesi che la filosofia costituisca il fondamento di tutte le scienze, queste costituirebbero a loro volta le forme legittime della possibile conoscenza umana, rispetto al sapere assoluto riservato a Dio. La prima ipotesi, consegnerebbe la modernità e la sua cultura scientista all’inconsiderevole eresia, la quale come tale va stigmatizzata e negata per principio. L’altra ipotesi, invece, 121


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offrirebbe la possibilità di un dialogo riparatore tra la filosofia come fondamento di ogni verità particolare e le determinazioni specifiche della conoscenza scientifica, la cui razionalità teoretica verrebbe omologata alla comune razionalità del sapere essenziale ontologico. L’errore del primo caso sarebbe il difetto nel secondo; abiurabile il primo quanto derimibile l’altro. A noi pare che, nonostante tutti gli sforzi prodigati teoricamente per distinguere e delimitare le sfere di competenza, rispettivamente della filosofia e della scienza, il discorso filosofico non potrà giammai essere ridotto a scienza nobile tra scienze ancillari, senza essere nel contempo rimosso come sapere totale. L’equivoco risiede probabilmente nell’accezione di questa "totalità", a seconda se venga intesa come compiuta sommatoria di ogni particolare molteplice, ovvero se intesa come conoscenza dell’unità dell’essere essenziale, che è Uno e non-è Molteplice, e perciò non altrimenti conoscibile che nella sua unità. La diversa possibile accezione può declinare in modo corrispondente una modalità di conoscenza dell’Essere né complementare tra filosofia e scienze, e neppure tra esse alternativa, ma bensì relativa a due ambiti di conoscenza ugualmente legittimi in quanto afferenti ai due essenziali aspetti ontologici dell’Essere stesso quale realtà ontica e realtà essenziale. Ma proprio quanto con Scheler stiamo venendo a dire, la conoscenza filosofica, in virtù della sua considerazione assoluta dell’uomo, deve poter contemplare la possibilità di una considerazione contingente dell’uomo stesso, senza pertanto occupare lo spazio riservato alle sue intuizioni originarie o alle sue operazioni pratiche, ma assolvendo appunto al suo precipuo compito di distinguere e collegare quelle intuizioni del mondo alle conseguenti pratiche di vita umane, al fine di impedire la violenza metafisica ed esistenziale di ridurre l’Uno al Molteplice e il Molteplice all’Uno, facendo dei singoli empirici fatti degli assoluti, e delle essenze modelli di realtà tangibile. È questa, per Scheler, la fonte del relativismo. Chi assolutizza sempre un ente relativo, deve diventare necessariamente ciò che viene chiamato relativista, dal momento che non percepisce più l’Essere assoluto come distinto da questo. Sempre, sempre il relativista non è altro che l’assolutista del relativo.329

E proprio la considerazione assoluta dell’uomo non può che aversi nell’opposizione con la sua considerazione contingente, ragione per 329

Ivi, pag. 297.

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cui "il fondamentale atteggiamento morale" dello scienziato non può essere, come vorrebbe Scheler, "completamente diverso da quello filosofico",330 poiché, sia pure nelle prospettive, nelle funzioni e negli scopi diversi, entrambi hanno di mira lo stesso uomo. E solo questa medesimezza di riferimenti può garantire al sapere in generale il suo fine metafisico. È pur vero che il ricercatore delle scienze positive, nella sua volontà di conoscenza, è animato primariamente da una volontà di dominare e dalla volontà di dare un ordine, nei confronti di tutta la natura [sicché] le "leggi" secondo le quali la Natura si lascia dominare, sono anche il suo sommo fine.

Ma la Natura che l’uomo studia di dominare è anche la sua natura, ed è perciò che la conoscenza scientifica ha in sé, nel suo fine immanente, una intrinseca "volontà di potenza" che non si ferma alle relazioni esterne all’uomo, ma agli uomini stessi come elementi della comune natura vivente. Il "che cosa sia il mondo", pertanto, è il problema che sta alla base di ogni conoscenza, sia scientifica che filosofica, mentre la definizione nei termini di "prodotto di un fare" inerisce alla risposta che la prospettiva scientifica dà al suo oggetto, conosciuto appunto come prodotto di una "trasformazione pratica in generale".331 Quando Scheler afferma a un di presso che "l’ethos fondamentale" dello scienziato "è il dominio di sé funzionale al possibile dominio del mondo, non l’umiltà o l’amore", aggiungendo subito dopo che "l’amore per la conoscenza delle cose in generale deve muovere anche il ricercatore", vuole dire semplicemente che "non lo muove – come invece vale per il filosofo – l’amore verso l’essere in sé degli oggetti",332 ossia che il fine della scienza non è lo stesso che della filosofia, così come il "potere" sulle cose non è "l’amore" per le cose. Ma sia il potere che l’amore, inerendo alle stesse cose, rappresentano diverse modalità di conoscenza del mondo, come del resto conferma 330

Ivi, pag. 289. La conversione vichiana del verum nel factum, che è all’origine della teoria spiritualistica della storia di Croce, nasce appunto dal presupposto che anche il fare sia una forma di conoscenza, esperita dall’uomo, non per legge d’istinto ma per scienza, appunto, pratica. Naturalmente Croce, da filosofo spiritualista, non attribuiva alle scienze alcuna funzione teoretica. Ma al di là delle sue teorie gnoseologiche, ciò che qui rileva è che, nella sua distinta struttura logica formale, anche quella pratica sia una forma di conoscenza del mondo, la cui diversità rispetto alla conoscenza filosofica essenziale nulla toglie al suo relativo valore epistemologico. 332 Ivi, pag. 289. 331

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lo stesso concetto che "la scienza presuppone la filosofia",333 e cioè che il pensiero umano si applica, in guise e scopi diversi, alla stessa realtà. Se così non fosse, non sarebbe neppure possibile stabilire un rapporto razionale tra l’essenza del mondo e la sua molteplice fenomenologia, mentre invece la possibilità che si schiude alla ragione umana di esser la ragione stessa del mondo, e viceversa, nasce dal presupposto della sua valenza universale oggettiva e non ipotetica. Ciò che infatti è ipotetico è la "teoria", ossia il contenuto del theorein, ma non già il theorein stesso, l’attività conoscitiva, che in virtù della sua unica verità può, sia nel campo della scienza che in quello della filosofia, riconoscere l’errore ed emendarlo. E arriviamo così, finalmente, alla questione circa l’essenza dell’"oggetto della filosofia". 7. Entro la tradizione europea, ricorda Scheler, l’antico primato dell’essere proprio del pensiero filosofico, a partire da Cartesio, viene sostituito con il primato del conoscere, per cui se "la filosofia antica, così come quella medievale è prevalentemente filosofia dell’essere, quella moderna, con poche eccezioni, prevalentemente teoria della conoscenza".334 Ma da cosa dipende "l’una o l’altra direzione [di pensiero], radicalmente divergenti tra loro"? La risposta, afferma Scheler, "dipende da che cosa sia dato come intuizione più incondizionata, originaria e irrefutabile e in quale ordine di origine, premessa e conseguenza, seguono le ulteriori intuizioni".335 La "prima e più immediata evidenza", "incontestabile" contenuto di ogni intuizione e che "illumina tutto ciò che possa essere messo in un confronto possibile con essa", prosegue Scheler, è che "in generale qualcosa è" e che "non c’è il nulla". Che qualcosa sia anziché non, è dunque l’originario thaumazein che premette ogni riflessione filosofica.336 Ma ciò che Scheler non rileva, e che pure costituisce un tema essenziale per l’intero processo filosofico, è che la meraviglia del mondo è essa stessa, in sé, la prova che quel mondo è altro e distinto dalla coscienza umana, e che l’attività di questa, sia come pensiero che come azione, tende a superare quella meraviglia originaria assimilando l’alterità meravigliosa dell’altro al sé, e con ciò stesso realizzando la conoscenza del mondo, la quale consiste appunto nel "ricondurre qualcosa di relativamente sconosciuto a qualcosa di 333

Ibidem. Ivi, pag. 291. 335 Ibidem. 336 Ivi, pag. 293. 334

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relativamente già conosciuto quale elemento costitutivo del conosciuto oppure quale modificazione e variazione secondo leggi del conosciuto".337 E’ chiaro che ciò che è originariamente conosciuto è il proprio sé, dalla cui esperienza diretta e certa si diparte ogni successiva rappresentazione del mondo altro. L’originalità di Cartesio è quella di aver posto il Cogito, anziché il dato fisico, a fondamento della certezza dell’Essere, per cui la prospettiva fondamentale viene deviata dalla (antica) "Natura" alla (moderna) coscienza. Modernamente, all’esperienza fisica del mondo si sostituisce la sua rappresentazione ideale come prius metafisico, come intuizione originaria del mondo, ma che tale rappresentazione non sia stata scoperta in età moderna lo comprova se non altro la fede umana nei contenuti delle rappresentazioni come realtà vera e non fittizia. Per cui la certezza che l’Essere che si manifesta nel Cogito sia anziché non, deriva dalla fede nella verità oggettiva delle rappresentazioni ideali; fede che caratterizza ogni credenza, religiosa quanto scientifica o filosofica, e che costituisce l’amore che anima la conoscenza del mondo come esse e che confuta ogni opposto atteggiamento scettico tendente ad affermare la certezza (Gewissheit) del non. La fede cartesiana nella certezza dei contenuti rappresentativi consiste nella assunzione del loro valore oggettivo e non meramente soggettivo; ma questa fede non è diversa da quella di ogni rappresentazione religiosa del mondo, fondata sulla credenza nella verità dei contenuti della coscienza. Così come il primitivo crede magisticamente che quanto egli pensi o sogni sia reale, altrettanto crede lo scienziato che teorizza sull’Essere materiale o il filosofo che pensa il suo essere essenziale. E donde proviene codesta fede se non nella credenza che l’Essere sia anziché non "vero"? In questo senso essenziale l’intuizione originaria del mondo è di carattere religioso, e fondata sulla credenza, che Scheler chiama platonicamente "amore", che il ἠ ὄ fisico, cioè l’oggetto ideale della coscienza, abbia la realtà dell’ὄς ὄ anche se il suo luogo è quello della coscienza soggettiva e il suo produttore sia il Cogito e non la prassi o la meravigliosa Natura. È questa la religione filosofica moderna, quella fede nella oggettività dei contenuti della coscienza, che un tempo era riposta nei cieli. Di conseguenza, la "seconda intuizione evidente" di cui parla Scheler, ossia che esista "un essere assoluto" tributario dell’essere di "ogni altro ente non assoluto", modernamente consiste esattamente in questa credenza, che l’Essere 337

M. Scheler Erkenntnis und Arbeit, tr. it. cit., pag. 163.

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assoluto non solo abiti nella coscienza, ma che sia la coscienza stessa. L’ "ergo" della formula cartesiana ("cogito ergo sum") non è logicamente consequenziale, ma intuitivamente. Può riguardare il proprio Cogito, la propria fede o credenza che i contenuti della coscienza siano veri in quanto certi, e certi in quanto prodotto della propria coscienza. Ma cos’altro può garantirci che essi lo siano, cioè siano veri, ossia assoluti e non fittizi, se non appunto la fede nell’Essere anziché nel nulla? Può essere chiamato Essere assoluto rispetto ad ogni essere assoluto che lo è solo di qualcosa che esiste in modo intenzionale, ossia mentale o fittizio, che non è assoluto solo relativamente al pensiero, ma rispetto ad ogni pensare.338

L’Essere vero che è oggetto della nostra coscienza è relativo al nonessere di ogni possibile errore. Infatti la "qualcosa" oggetto della coscienza non è garantita nel suo essere vera, ma solo nel suo mero essere qualcosa. Ma è esattamente questa relatività di ogni essere della coscienza a stabilire che esso non sia un essere assoluto, ma appunto relativo. Il fondamento di ogni essere della coscienza è la coscienza stessa, e solo di questa si può dire che sia assoluta rispetto a ogni sua determinazione, assoluta dalla veridicità di ogni suo contenuto. Il Cogito offre la certezza dell’io (ego cogito, ergo ego sum), non dei contenuti del cogitare. E infatti questi contenuti possono essere anche fantastici o falsi, ossia relativi non-essere rispetto all’essere della verità. Verità che dunque trascende i singoli contenuti della coscienza, che è in sé e per sé indipendentemente dalle determinazioni della coscienza, le quali devono rifarsi ad essa, e non a sé stesse, per essere. Ma se la verità non è oggetto della coscienza, non è neppure un suo prodotto, e perciò non può essere determinata, ossia limitata, né modificata. La verità è esterna alla coscienza, cioè la trascende. Noi, nondimeno, abbiamo dianzi asserito che la coscienza sia il "fondamento" di ogni suo essere, con ciò volendo dire appunto che il fondamento della coscienza offre certezza del suo essere, ma non la corrispondenza che le determinazioni del suo essere siano un prodotto di verità. Che la verità non sia sarebbe possibile asserirlo solo dalla coscienza che non cogitasse, ossia che non fosse; ma se un atto di coscienza non è, non può né determinare né negare alcunché. Che dunque la verità sia, presuppone un atto di coscienza relativo, e 338

M. Scheler, Vom Wesen der Philosophie, in Vom Ewigen im Menschen, tr. it. cit., pag. 295.

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relativo esattamente all’assolutezza della verità. A questo punto sorge un problema ontologico decisivo, quello della realtà del Nulla, al quale è chiamato a rispondere anche il metodo fenomenologico. Infatti, se per la logica moderna la proposizione spinoziana omnis determinatio est negatio è d’importanza fondamentale, giustificato sul piano logico e gnoseologico, resta però problematico se la sua universalità valga anche per l’ontologia,339 Se gli atti della coscienza sono ideali, la verità non può essere relativa a una qualche coscienza, ossia un suo prodotto, ma deve essere assoluta. In quanto assoluta da ogni coscienza ideale, non può essere ideale ma reale. Ora, abbiamo già ricordato con Lukàcs la "inversione ontologica" effettuata dall’Illuminismo, il quale, per sfuggire al materialismo fu costretto a "passare all’idealismo", e viceversa, i filosofi dell’idealismo classico tedesco, per offrire un’immagine unitaria dell’essere ideale, furono indotti a tradurre nel linguaggio filosofico dell’idealismo la conoscenza della Natura,340 giungendo a un idealismo assoluto - già inscritto in qualche modo nell’assioma coscienzialistico cartesiano - che ha negato la realtà della natura indipendente dalla coscienza conoscente. Ma qual è la differenza tra la possibilità d’essere del mondo e la possibilità d’essere della sua validità? Con la scoperta dell’io puro, dell’"io della pura vita di coscienza", i "giudizi immediatamente intuitivi che vi si riferiscono, e, in generale, i giudizi colti dal pensiero riflessivo in questa sfera, i giudizi di fatto e i giudizi essenziali generali", possono considerarsi le "premesse per questa scienza del mondo?", dalle quali si può attingere, come ai "fondamenti originari"? Cartesio pensa di si.

[…]. Ma dobbiamo riconoscere che si tratta di un deplorevole fraintendimento, che fu reso possibile dal fatto che Cartesio non ha esaurito analiticamente fino in fondo la struttura di senso della scoperta, [infliggendosi] la tortura del metodo del dubbio. Ma questo dubbio – a dire di Husserl – non consisteva in un dubbio realmente universale, una seria realizzazione del quale non dipende dal potere né dall’arbitrio di nessuno. [Infatti il dubbio] di fronte a una situazione del tutto particolare può equivalere al dubbio sull’essere del mondo in generale? La peculiarità della certezza del mondo non sta proprio in questo: che essa, nel suo modo, permane persino nella sua apoditticità, nonostante tutti i dubbi reali e possibili rispetto a una data situazione? E che non può essere distrutta arbitrariamente, per quanto le realtà singole, sempre nella singola situazione 339 340

Ved. G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. cit., vol. I, pag. 196. Ivi, pag. 186.

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reale, siano possibili di dubbio e anche troppo spesso subiscano una trasformazione di validità passando dall’essere all’apparenza?341

Ma come si può "sopportare il dubbio folle sull’essere del mondo"? È lo stesso Husserl che offre la risposta, asserendo che tale dubbio "è sopportabile per il fatto che l’essere del mondo è certo nell’esperienza vivente".342 In altri termini, se la coscienza può escludere la validità del mondo, è perché l’essere del mondo costituisce anche per l’io una certezza. Ossia, in quanto il dubbio non investe la realtà ontica. Ciò vuol dire che la possibilità di quell’ipotesi – e cioè che il mondo sia sospeso nel dubbio circa la sua validità – è legata alla certezza che l’io (la coscienza dubitativa) appartenga al mondo reale. Cartesio – afferma Husserl – compie sforzi che tendono a rendere intuitivamente evidente come sia possibile che l’intero mondo, il mondo dell’esperienza, della vita umana, in quanto passibile di dubbio, non siano, anche se noi li esperiamo costantemente nella certezza d’essere. Eppure noi possiamo attuare il rivolgimento cartesiano: inaccessibile alla posizione del non-essere del mondo, completamente intatto, rimane il mio essere proprio, in quanto essere dell’io che pone questa possibilità […]. Anche se io riuscissi a un tentativo di dubbio universale […], sarei sempre io a dubitare, sarei sempre io a decidere volontariamente questa posizione (e quindi l’io rimane); sia che si tratti di un’ipotesi possibile o di un’ipotesi impossibile, controsensa, io sono l‘io di questa posizione e perciò non posso porre il mio non-essere.343

Se però il dubbio è universale, ossia investe la stessa possibilità di essere del mondo reale, l’io non ha alcun riferimento evidente per affermare la sua realtà anziché la sua irrealtà rispetto al mondo che pure pone in dubbio. Significa che, senza la certezza dell’essere del mondo al quale l’io appartiene, la coscienza non potrebbe affermare la propria certezza né quella dei suoi atti. Pertanto, il "principio di realtà" che distingue la realtà dal sogno, non scaturisce dall’io ma dal mondo, poiché l’io che pensa, pensa allo stesso livello di coscienza sia il suo oggetto reale che il suo oggetto fantastico. Ma se l’essere dell’oggetto reale è in quanto assunto dal mondo reale, per cui sarebbe in sé anche senza l’atto di coscienza che lo pone come suo oggetto, da dove proviene alla coscienza l’oggetto fantastico? La risposta 341

E. Husserl, Die Krisis, tr. it. cit., pag. 427. Ivi, pag. 546. 343 Ivi, pag. 428. 342

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immanentistica di chi pensa che esso provenga "dalla realtà stessa", ossia dall’ unica realtà possibile, è ambigua e lascia impregiudicata la questione della differenza tra la realtà oggetto della coscienza reale, e la realtà della coscienza fantastica, così come lascia ontologicamente indistinta la realtà dell’intuizione originaria. Per questa ragione essenziale la visione immanentistica dell’Essere resta avvolta nella fede dogmatica della verità della coscienza. La risposta va trovata nella differenza ontologica tra la realtà mutevole (soggetta al dubbio di validità) e la realtà immutabile ed eterna, correlata alla certezza ontologica. La coscienza reale si riferisce alla certezza del dato fenomenico, che acquisisce come suo oggetto attuale, accertabile sulla base dei dati sensibili e perciò comune a ogni coscienza storica di tipo scientifico. La coscienza fantastica si riferisce invece alla realtà possibile, nonattuale o inattuale, la quale non essendo certa, ossia certificabile dal riscontro dei sensi, appartiene all’essere presente della coscienza, ma non all’adesso del mondo fenomenico, e perciò appartiene all’essere possibile, la cui realtà fenomenica non è certa, ma pur sempre interna alla totalità dell’Essere, come realtà appunto fantastica o utopica. Ciò vuol dire che la realtà fantastica, non essendo esperibile fuori della coscienza, non può neppure essere confutata dalla certezza fenomenica, ed essa è concepibile in termini di possibilità d’essere, inattuale rispetto all’essere attuale. Ma, ciò che conta, è che la realtà inattuale, entro la totalità dell’Essere, ha la stessa validità ideale della realtà certa, anche se non ha la stessa validità reale, cioè lo stesso livello di effettualità storica, la stessa certezza ontica. E da qui deriva la differenza tra il metodo delle scienze empiriche e la conoscenza filosofica dell’Essere. La preferenza ontologica accordata alla realtà effettuale, alla storia attuale del mondo fenomenico, è legata non a una necessità ideale, metafisica o logica, ma a una necessità pratica, quella di assicurare certezza alla realtà condivisa, ossia al bisogno pratico di legare le coscienze individuali ai dati di certezza comune, che sono dati di evidenza sensibile appartenenti al mondo-della-vita e perciò non soggette a dubbio radicale. Ma poiché la realtà non soggetta a dubbio radicale è la realtà ontologica, l’Essere anziché il Nulla, l’esclusione della possibilità del dubbio di valore è possibile solo facendo coincidere il valore della certezza, ossia la realtà mutabile del mondo-della-vita, con il valore della verità ontologica immutabile ed eterna. Questa riduzione dell’Essere allo storico e del vero al certo segna la differenza tra 129


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l’atteggiamento pratico (teoreticamente scientifico, sociologicamente economico e politico) e quello filosofico, il quale ultimo, a differenza del primo atteggiamento, non fa coincidere il certo col vero (il factum col verum), ma considera ugualmente valide idealmente, ossia ontologicamente, tutte le possibilità d’essere dell’Essere, anche quelle, cioè, effettualmente inattuali e incerte. La storia dell’essere attuale, della realtà fenomenica è la storia della scienza storiografica, che come tutte le scienze particolari assume l’unica realtà del mondo certo e finito, di cui si ha prova certificabile. Ma esiste un’altra storia, quella dell’Essere possibile, della possibilità d’essere dell’Essere eterno, che registra gli sviluppi logici delle forme temporali dell’Essere, e che è una storia inattuale rispetto alla coscienza comune e reale del mondo-della-vita, perché non suffragata da dati sensibili e non effettualmente refutabile. Ciò che è contemporaneo alla coscienza, il suo oggetto o contenuto, non è necessariamente realmente contemporaneo, ossia effettualmente certo. Reale in senso storico effettuale è solo la realtà oggettiva, riscontrabile sensibilmente e di documentabile certezza, certificabile. La realtà storica è la realtà certa, a esclusione di quella possibile, la quale ultima, però, fa parte anch’essa della realtà dell’Essere, appunto come realtà possibile. La storiografia, quale scienza dei fenomeni accertati, è una disciplina obbiettivistica nel senso di Husserl, che considera razionali i soli eventi certi, senza considerare quelli possibili, che pure sono immanenti all’Essere e che fungono come negativo di ogni essere attuale, di ogni scelta d’essere-così e nonaltrimenti. Gli eventi possibili sono tali solo in riferimenti agli eventi certi, ma allo stesso modo gli eventi certi sono tali solo in riferimento a quelli possibili. Sono entrambi relativi, non assoluti, e in quanto relativi sono non necessari: entrambi possibili rispetto all’Essere assoluto, il solo necessario. La possibilità è la negatività rispetto alla positività dell’essere fenomenico attuale, che chiamiamo certezza. Il possibile (Sachaft, non-ancora-compiuto) è il non-essere (attuale, certo, reale in senso fenomenico) rispetto all’essere compiuto della storia effettuale, ma la cui relatività, ossia possibilità d’essere, non è preclusa dalla sua presente inattualità. Ciò vuol dire che la certezza è comunque relativa alla possibilità dell’Essere assoluto. Se come "presente", intendiamo "presente alla coscienza", la temporalità dell’essere rimane aperta a ogni determinazione storica. Se invece come "presente" intendiamo "contemporaneo alla coscienza", 130


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allora tutto il racconto storiografico, il récit fenomenologico, viene attualizzato al presente storico della coscienza, essa stessa storica. Nel primo caso, la narrazione persegue una sua struttura di discorso, relativa a una coerenza interna ai suoi postulati o premesse apodittiche, secondo una consequenzialità puramente logica, e non cronologica e di tipo causale. Nel secondo caso, la narrazione si dispone secondo avvenimenzialità reali collegate da nessi razionali di tipo causale, tali che la successione cronologica coincida con il senso interno degli avvenimenti, cioè con il suo contenuto razionale. Razionalità qui coincide con effettualità; e poiché l’effettualità "in sé" non è necessariamente razionale (in quanto legata alla sua possibilità d’essere), la ragion storica coincide con la stessa realtà d’essere degli eventi, e solo con essa. Da qui il relativismo dello storicismo, sia nella versione di Dilthey che in quella di Weber, entrambi indotti dalle stesse premesse "obbiettivistiche" ad ammettere la indeterminatezza di senso della fenomenologia storica, la cui determinazione viene delegata al critico, allo storico, quanto la sua certezza ricostruttiva viene demandata ai "fatti"; ossia l’intera ragione del mondo viene sottratta a Dio e demandata a un atto inevitabilmente arbitrario dell’uomo, che fa della sua storia un’antropodicea della storia. L’arbitrio si può eliminare (tendenzialmente, senza pretesa di onnipotenza, di assenza di errore di valutazione) solo ammettendo la verità come parametro del nostro giudizio critico. La verità, va intesa non come giudizio conforme, come adeguamento autoritativo (all’esperienza comune o ad altro valore istituzionale, come abbiamo visto pare intenderlo anche Scheler), ma come l’Essere, di cui il giudizio razionale è testimonianza logica. Senza perdere di vista che l’Essere vero non è (solo, cioè necessariamente) l’essere apparente, il fenomeno del mondo-della-vita, oggetto delle scienze, ma anche l’inapparente, l’essere possibile, l’inattuale, il non-essente, e cioè l’immaginato, l’oggetto della fantasia, il contenuto utopico della coscienza fantastica. Tale coscienza ha "presente" il suo oggetto, il quale non è contemporaneo che a sé, non oggettivamente, ossia legato alla certezza comune, alla realtà "ingenua" nel senso di Husserl. Essa, inoltre, non è storica se non in riferimento al soggetto empirico e alla forma espressiva dei contenuti che costituiscono il suo oggetto. Riguardo ai contenuti, tale coscienza, è ideale, cioè filosofica, non legata alla realtà comune e quindi "non-pratica" nel senso di Husserl. E come abbiamo visto a proposito di Scheler, il metodo della filosofia è quello di trascendere il dato apparente dell’Essere, e quindi di non 131


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identificare l’Essere stesso con la sua storica evenienza fenomenica, col suo dato sensibile e attuale, trasformando il pensiero dell’Essere, la filosofia, in scienza obiettivistica. Lukàcs, trattando di Scheler e del metodo fenomenologico, di Husserl, osserva che sarebbe necessario domandarsi dove può essere trovato e indicato il criterio per stabilire se la "intuizione delle essenze" coglie la realtà indipendentemente dalla nostra coscienza, e se la coglie in modo esatto. Ma il "porre in parentesi" mette radicalmente da parte tale questione [per cui] una "intuizione di essenze" può aver luogo ugualmente per un nesso di significati, come per una pura immagine fantomatica, come per una riproduzione (vera o falsa) della realtà. L’essenza del "porre tra parentesi" consiste proprio in questo, che tutte queste formazioni di pensiero, cioè radicalmente diverse quanto al loro rapporto con la realtà, vengono ridotte per la ricerca fenomenologica a un comune denominatore e considerate da essa come di egual natura. È quindi evidente che tutta la questione della realtà, la questione se l’oggetto che ci sta di fronte, una volta "tolte le parentesi", sia una semplice produzione della coscienza o la riproduzione di qualcosa che esiste indipendentemente dalla coscienza, è diventata tale da non potersi eludere.344

Che il "cambiamento di direzione che va dall’indagine della coscienza alla scienza dell’essere, dalla fenomenologia alla ontologia, il cosiddetto ‘volgersi alle cose’, si sia compiuto", è senza dubbio vero; quanto al fatto, poi, che sia avvenuto "in modo quasi inosservato", come sostiene Lukàcs, ci pare una forzatura, dal momento che l’intiero discorso di Husserl s’incentra sulla definizione della coscienza ontologica come ricerca fenomenologica delle essenze. Che la relativa identificazione sia "puramente formale" e che da essa "non possano essere fatte – senza illeciti artifici logici – illazioni riguardanti il contenuto",345 è vero nei limiti in cui l’analisi fenomenologica, con movimento simmetrico e specularmente arbitrario a quello storicistico, si determina come contenuto assoluto, dissociato costitutivamente da ogni rapporto col mondo-della-vita e quindi con la conoscenza empirica, rispetto alla quale realtà relativa quel contenuto può definirsi come assoluto. Fuori da questa dialettica, infatti, è impossibile determinare razionalmente la validità dei contenuti fenomenologici, con l’implicito rischio che la certezza dell’intuizione eidetica delle essenze, nonostante il suo dichiarato metodo 344 345

G. Lukàcs, La distruzione della ragione, tr. it., cit., vol. II, pagg. 487. Ivi, pag. 488.

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"rigorosamente scientifico", si risolva in una affermazione idealisticosoggettiva che le rappresentazioni della coscienza determinino l’essenza della realtà, con una pretesa oggettività sia della verità che della finzione, del tutto irrazionale.346 È chiaro – prosegue Lukàcs - che per una seria aspirazione al superamento scientifico (e anche filosofico) dell’arbitrio soggettivistico e irrazionalistico solo la realtà oggettiva può fornire un criterio per distinguere la possibilità autentica e quella puramente immaginata. A ragione quindi Hegel ha distinto nettamente fra loro possibilità astratta e possibilità concreta.347

Allorquando Hegel, nella Logica, fa derivare il divenire dalla dialettica di essere e nulla, chiarisce che tale nulla non è "il nulla di un certo qualcosa, un nulla determinato", ma il nulla "nella sua indeterminata semplicità", poiché "se il nulla restasse semplicemente nulla, non se ne potrebbe mai (anche logicamente) far derivare il divenire; il nulla deve perciò passare ‘nel suo altro, nell’essere’ ". Il che comporta che il nulla in senso ontologico non può mai venir preso nel significato proprio, letterale, in ogni caso concreto deve invece essere attenuato fino a intendere l’essere solo come "non essere dell’esser altro". Ma in tal modo la vera e propria dialettica di essere e nulla, il ruolo dinamico della negazione nell’ontologia perde la sua consistenza […]. Né l’esser altro né l’esser per l’altro sono ontologicamente una negazione dell’essere in sé. Non si tratta di altro che di una relazione qualitativa fra concetti – molto astratti – di essere, dove nella relazione stessa non è contenuto nessun elemento di negazione in senso ontologico.348

Ciò implica che nella domanda "perché l’ente anziché il niente?" l’ente va inteso come l’attualità dell’Essere. L’Essere non comprende solo la sua attualità (i fenomeni, ciò che Russell chiamava "sensibilia"), ma anche la sua possibilità (ciò che dell’Essere non è evidente, non è attuale ma potenziale). Ma l’attualità dell’ente non sarebbe determinabile se il suo essere attuale non fosse in relazione con la possibilità, col suo essere possibile, inattuale, cioè col passato e col futuro. Perciò la realtà dell’ente è inscritta nella possibilità dell’Essere, ossia l’ente è nella relazione col suo immanente nonessere-adesso della possibilità. I "fatti" sono i fenomeni accaduti, e la 346

Ivi, pag. 489. Ivi, pag. 504. 348 G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. cit., vol. I, pag. 197. 347

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conoscenza scientifica è relazione di fatti, cioè di fenomeni, per cui anch’essa è in quanto inscritta nella possibilità del pensiero del Tutto, che è la filosofia. Se la filosofia fosse, come vorrebbe Husserl, la scienza di tutte le scienze, essa sarebbe il pensiero dell’Essere reale o fenomenico. In qual caso, mancherebbe al pensiero filosofico la conoscenza del Niente, ossia di ciò che non-è fenomenico, ma metafisico. La metafisica è dunque il pensiero dell’Essere e del Niente, cioè del Tutto come Possibilità. Si può, infatti, conoscere il significato della negazione di una affermazione, senza conoscere il significato della affermazione, pertanto si può essere nel vero e nel giusto contrastando il falso e l’ingiusto, senza però contrastarlo con mezzi veri e giusti. In tal senso, i fini non giustificano i mezzi, ma li possono ammettere come funzionali. I mezzi, a loro volta, possono essere eterogenei rispetto ai fini buoni, e perciò mezzi falsi. L’eterogeneità risiede nella differenza tra "fatti" e "ragioni". Un fatto non può confutare una ragione, che va giudicata sulla base di altre, più valide, ragioni. Secondo Wittegenstein, "la proposizione è una raffigurazione (ein Bild) della realtà", cioè essa "è un modello della realtà così come la pensiamo" (Tractatus, § 401). Idem est ordo rerum et verborum. Per Hume i fatti sono il presupposto dell’empirismo, poiché essi solo danno ragione del sapere scientifico. Le scienze empiriche, secondo Popper, sono quelle rette dal principio di falsificazione, costitutivo, appunto, del sapere empirico. La "falsificabilità" è infatti per Popper il "criterio di demarcazione" tra metodo e linguaggio scientifico e altri metodi e linguaggi non falsificabili. "La falsificabilità", egli afferma, "separa due tipi di asserzioni: le falsificabili e le non falsificabili", ossia "traccia una linea all’interno del linguaggio significante, non intorno ad esso".349 Ciò vuol dire che il linguaggio falsificabile non è l’unico linguaggio, ma che "ogni tipo di discorso crea una sua logica, un suo uso della ragione",350 e la scienza è il discorso circa la cosa, de re. L’eidos (la "visione" dell’Idea) non si genera mai attraverso il fatto, per cui, come afferma Popper, "è logicamente inammissibile l’inferenza da asserzioni singolari ‘verificate nell’esperienza’ […] a teorie. Dunque le teorie non sono mai verificabili empiricamente".351 Esse possono anche essere vere, ma non sono empiriche, cioè certe, in quanto non ottengono giustificazione dai fatti. Per cui, 349

K. R. Popper, Logik der Forschung (1934), tr. it., Torino, 1998, pag. 22 n. 3. I. Mancini, Teologia, ideologia, utopia, cit., pag. 212. 351 K. R. Popper, Loc. cit., pag. 23. 350

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da un sistema scientifico non esigerò che sia capace di essere scelto, in senso positivo, una volta per tutte: ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo; un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza.352

È il principio di falsificabilità a distinguere una teoria scientifica da ogni altra teoria non empirica. Le teorie che non sono falsificabili non sono scientifiche, non sono empiriche. La falsificabilità, dunque, è il criterio della scientificità o empiricità, ma non della verità. Quello di ragione è concetto più ampio della semplice relazione ai fatti, cioè della mera ragione empirica. La ragione pervade una asserzione vera quando non è contraddetta dal suo logos, dalla sua ratio conoscitiva, dal suo linguaggio teoretico, "ed è in base a questo uso che va fatta la verifica".353 Il mondo-della-vita, quale dimensione esistentiva, biologica ed economica, è la regione delle istanze non-razionali, espresse nel linguaggio pre-scientifico privo di significato trascendente perché non incentrato sul valore della verità ma della efficacia, ossia della potenza: è il regno della politica. Il criterio della efficacia pratica è diverso dal criterio greco della verità come corrispondenza (adequatio) e inerisce alla sfera dei rapporti sociali, dove chi produce maggiore efficacia, maggiore carica rivoluzionaria, un plus che maggiormente prende dentro e contamina l’azione, questi è più vero. Non lo è così, ma la capacità di fare; ecco dove sta il nuovo criterio di verità, o, come sarebbe meglio dire, di credibilità. La buona fede sostituisce, in questo caso, la vera fede.354

L’efficacia è il valore della trasformazione dell’ente nel suo altro, ottenibile attraverso la riduzione del suo essere possibile al suo solo essere-che-appare. Questa Umkehrung ontologica, se è violenza politica è pure libertà creativa sul piano fantastico e linguistico. La fantasia, come organo dell’arte, si basa su tale libertà creativa, la quale, sul piano formale, offende a volte le leggi della logica, e quando trasferita sul piano sociale, offende sovente anche le leggi dell’etica. Ma, come avverte Lukàcs, bisogna 352

Ibidem. I. Mancini, Teologia, ideologia, utopia, cit., pag. 212. 354 M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, cit. da I. Mancini, Teologia, ideologia, utopia, cit., pag. 247. 353

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distinguere la negazione ontologico-dialettica dalle innumerevoli negazioni solo logico-formali; ed è palese che per operare un tale distinzione non ci sono criteri formali di nessun genere, né logici né gnoseologici, ma bisogna sempre fare appello al processo reale concreto, cioè alla realtà concreta; il momento distintivo è positivamente determinato, perciò, solo sul piano ontologico. Sussumere questi fenomeni eterogenei sotto il termine logico di "negazione", dunque, non fa che confondere le connessioni, invece di chiarirle.355

Nella realtà concreta, infatti, non vi è alcuna negazione, ma solo una catena di trasformazioni dall’essere così in esser altro, solo una catena di relazioni nelle quali ogni elemento ha contemporaneamente un esser altro e un esser per altro. La correttezza e importanza logico-gnoseologica del metodo di Spinoza, che determina tramite la negazione, non riguarda questo problema ontologico […], perché la negazione, se applicata a oggetti e processi esistenti, qualitativamente determinati, non riesce ad avere una reale univocità determinativa. Fin quando abbiamo a che fare con oggetti e processi in cui il divenire altro non sovverte il modo fondamentale di essere, ci sembra del tutto scorretto operare sul piano ontologico con la categoria della negazione. Essa, in quanto riflesse ideale di questa sfera dell’essere, cade fuori dalla specie di essere di tali oggetti ontologici, che è priva di soggetto.356

L’affermazione apparentemente derimente di Lukàcs è che "la negazione non ha soggetto", e quindi non può essere assunta come reale in una dimensione dell’essere dove l’elemento saliente è il prodotto determinato della prassi, ossia il "fatto". Ma la chiave di lettura del testo è data dalla conformità di "oggetti" e "processi" asserita da Lukàcs, per cui anche il prodotto della coscienza, al pari di ogni fenomeno storico, diventa un prodotto, per così dire, socializzato. E infatti più sotto aggiunge che "dove però la negazione ha un soggetto", il che vuol dire esiste un rapporto di imputazione causale con un autore socialmente riconosciuto, "la sua attività e la negazione che vi è contenuta è già un momento oggettivo dell’ontologia dell’essere sociale".357 In altri termini, quando il soggetto è formalmente acquisito come soggetto sociale, anche i suoi prodotti storici sono considerati socialmente validi. La validità sociale è un G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. cit., vol. I, pagg. 198-199. Ivi, pag. 199. 357 Ivi, pag. 200. 355 356

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requisito prioritario di validità, una categoria o un criterio che corrisponde a quanto nella gnoseologia neo-kantiana veniva indicata come una "forma significativa" entro cui sussumere i fatti eticamente rilevanti e perciò ritenuti "validi". Come infatti chiarisce Lukàcs, le negazioni che incontriamo nell’ambito dell’essere sociale, non soltanto sono ontologicamente legate ad atti soggettivi, ma derivano il loro carattere dal fatto che ogni attività umano-sociale scaturisce obbligatoriamente da alternative, presuppone una scelta, una decisione specifica. Dall’alternativa nasce perciò una bipartizione del mondo oggettivo, in riferimento alle reazioni messe in moto dalle interrelazioni con esso, bipartizioni poste dal soggetto sulla base delle proprietà conosciute dall’oggetto […] fino ai "valori massimi" come bene e male. Per porre, tramite la negazione, tali coppie collegate-separate di opposizioni, la prassi umana e il pensiero che la guida devono omogeneizzare il mondo circostante [tramite il lavoro umano]. […] Ed è nel medium omogeneo così sorto che ricevono risposta negativa o affermativa le alternative pratiche.358

Secondo il noto Umschlag materialistico, ciò che per Hegel è l’idea, quale mediazione logica del senso razionale del reale, per Marx è il lavoro quale mediazione pratica tra natura e società. Il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile, è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme della società, è una necessità naturale eterna che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini.359

La necessità da categoria logica diventa "naturale". La differenza infatti tra la natura e il lavoro è la forma teleologica di questo, che determina il "salto ontologico" dalla natura alla società.360 Ora, proprio i contenuti sociali, ossia la destinazione teleologica del lavoro umano socializzato, costituiscono quella "storia" della civiltà che Marx assume come un "salto", ma che in realtà si dispiega nei termini culturali delle forme di socialità; forme che delineano il senso ideale del lavoro umano, la sua destinazione trascendente il mero operare naturalistico della trasformazione della Natura. In questo senso, l’essere sociale è lo stesso essere ideale della convivenza umana produttrice di beni aventi un valore morale eticizzato. Sogguardate dal punto di vista della natura, le determinazioni 358

Ivi, pagg. 201 e 202. K. Marx, Il Capitale, tr. it. Torino, 1975, vol. I, pag. 75. 360 Ved. G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. cit., vol. I, pag. 266. 359

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essenziali dell’ontologia appaiono astratte giustapposizioni idealistiche, ideologie, frutto di sovrastrutture mentali, inafferenti al processo del lavoro. Ma questa fallace visione nasce in conseguenza della teoria del "salto ontologico", che nega, nell’atto di affermarlo, il processo di mediazione ideale tra Natura e società, concependolo come attività produttiva nel senso della prassi, ossia appunto come "lavoro". Il punto decisivo è che nessuna attività produttiva in sé, come tale, fuori del valore teleologico sociale, può attribuire al prodotto umano, quale intervento trasformatore della Natura, un qualche valore d’uso socialmente rilevante. È il valore sociale che attribuisce al lavoro umano il suo valore d’uso, valore che è appunto socializzato. In tal senso, qualunque valore del lavoro in sé determinato, è determinato fuori del suo valore sociale, ed è in conseguenza del valore sociale che viene determinato come valore ideale, teoretico. Fuori del valore socializzato, il valore in sé del lavoro umano, come attività produttiva di beni, è mera espressione dello sforzo fisico e creativo di intervento sulla Natura; come attività ideale, espressiva della sua destinazione teleologica, è forma di un’idea di socialità contestuale alla cultura del luogo e del tempo della produzione storica. La "necessità" sociale di cui sopra mal si concilia con la "scelta" soggettiva fuori della generale socializzazione della vita umana, che Lukàcs chiama, con termine alquanto sinistro, "omogeneità" di pensiero e prassi, per cui il lavoro socializzato, così come interviene a trasformare la Natura per omogeneizzarla alla sua volontà, parimenti la necessità sociale interviene sulle volontà umane per omologarle alla loro nuova natura. L’intento di definire il prodotto umano nella sua (pratica e ideale) inseità, per emanciparlo dal processo in divenire della pre-istoria, dalla sua naturalità, e rappresentarlo nella sua concretezza razionale e "scientifica", spinge Marx a concepire la mediazione come "lavoro", che realizza, dunque, l’omogeneità ideale-sociale, cioè funzionale, di enti che in sé sono solo il loro reciproco esser-altro. Il lavoro è il processo di trasformazione dell’essere in sé in essere sociale, cioè in esser-per-l’altro. La decisione può sorgere solo entro il medium omogeneo nel quale sorgono l’affermazione e la negazione. Ma proprio perché la negazione è l’opzione qualitativa di uno stesso essere sociale, essa suppone anche l’essere oggetto di decisione affermativa. In questo senso, l’opposizione è negazione di una realtà (quella sociale) che esiste già prima di essere (individualmente) negata. Come conferma Lùkàcs, 138


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la logica è un medium omogeneo tra i più importanti che la prassi e il lavoro mentale dell’uomo abbiano creato. In essa non vi sono elementi e relazioni che non possano e debbano essere ricondotti – in ultima analisi – a elementi e relazioni della realtà. L’efficacia storica della logica nello sviluppo dell’umanità, tuttavia, riposa sul fatto che tali punti di partenza sembrano estinguersi nel medium omogeneo della logica, che questo medium omogeneo sembra considerarsi in un sistema concluso nella sua immanenza, poggiante in sé stesso, il cui omogeneo carattere sistematico forma la base della sua universalità. […] Tale omogeneo carattere sistematico ha ripetutamente provocato nei pensatori l’illusione di poter, a partire di qui, dare risposta a tutte le domande che nascono dalle relazioni degli uomini con la realtà, quando si fosse pervenuti a sistematizzare compiutamente il mondo del pensiero omogeneizzato in termini logici.361

La struttura della logica, che crea un medium omogeneo di pensiero, è qualitativamente diversa da quella della realtà in sé eterogenea. Se il medium omogeneo che serva da fondamento alla connessione conoscitiva ha carattere logico, il contrasto fra il mezzo conoscitivo omogeneo e la realtà eterogenea acquista un aspetto particolare, per cui un complesso – infinito – di fenomeni fra loro eterogenei, e quindi in sé non immediatamente sistematizzabili e gerarchizzabili, viene riprodotto nel pensiero come sistema gerarchico omogeneamente concluso.362

Il "fondamento" che sta alla base della omogeneizzazione logica, ossia formale, è esso stesso logico, per cui il "medium" non è un valore terzo, cioè assoluto, rispetto agli opposti, ma è la stessa logica sociale che presiede al giudizio di validità della scelta (socialmente) giusta a decretare il criterio di giustezza, ossia di verità in senso logico-sociale. La trasposizione dell’eterogeneo nell’omogeneo è presente in ogni conoscenza [ma] un ordine gerarchico-sistematico è possibile soltanto in un medium omogeneo, - e infatti solo la omogeneizzazione può costituire la base per classificare gli oggetti come superiori o inferiori secondo certi punti di vista, per connetterli in unità l’uno sopra o sotto l’altro – [per cui] viene introdotto nella realtà eterogenea un punto di vista connettivo totalmente estraneo.363

361

Ivi, pag. 203. Ivi, pag. 204. 363 Ibidem. 362

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La difficoltà di trasferire nella realtà pratica i rapporti ideali, a partire dalla sintesi che funge da modello della omogeneità nella prassi, è comprovata dalla circostanza che a operare socialmente non sono "le idee", ossia i loro rapporti quali enti di coscienza, ma "i fatti", ossia i prodotti dell’attività umana socializzati, a regolare i quali non è la logica in senso idealistico ma la ragione scientifica. Orbene, se la scienza può correggere un’eventuale "discrepanza" nei casi singoli, "per la realtà nel suo complesso una tale correzione è impossibile",364 per la semplice ragione che alla scienza difetta esattamente quel concetto filosofico di "totalità" che persiste anche nella prospettiva dell’Umkehrung marxiana e che, scartata l’ipotesi metafisica, si può proporre solo entro la prospettiva fantastica dell’arte, sia pure ritagliata anch’essa sul profilo della riproduzione realistica della società. E quindi, per il teorico marxista, non il concetto, ossia la filosofia, ma solo l’arte può riprodurre mimeticamente "la totalità eterogenea della realtà come totalità specificamente qualitativa e intensiva, sensibilmente omogenea".365 Può parere singolare che alla fine di ogni immanentismo, come abbiamo visto a proposito del sociologismo e dello storicismo neokantiano, si trovi lo spettro dell’irrazionalismo, il quale liquida beffardamente ogni Anstrengung des Begriffs in perigliose convulsioni irrazionalistiche, che sostituiscono alla "immaginazione speculativa",366 i mostruosi prodotti della fantasia totalitaria. Era ben difficile, una volta trasferito il significato del valore dal senso qualitativo riferito all’Essere, al senso pratico del potenziamento dell’ente, racchiudere il suo relativo contesto di svolgimento, che, rispetto all’Essere, è il Divenire. Infatti il Divenire, quale "sede" della vita dei valori non giunge mai a termine, ed è il movimento stesso di quella realtà che si dice "vivere". Il passaggio ulteriore dopo quello dell’Essere risolto in Divenire, e del Divenire inteso come "vivere", è la riduzione dell’esperienza spirituale dell’uomo a Volontà di potenza dell’homo faber, per cui, come recita un noto aforisma di Nietzsche, "i valori e il loro variare stanno in rapporto con la crescita di potenza di chi pone i valori".367 364

Ivi, pag. 205. Ibidem. 366 Così Marx definiva la storiografia idealistica come rappresentazione filosofica del mondo: K. Marx, Die heilige Familie, (1845), tr. it., Roma, 1979, pag. 95. 367 F. Nietzsche, Volontà di potenza, afor. 9 [39], su cui ved. I. Mancini, Teologia, ideologia, utopia, cit., pag. 424 passim. 365

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Sul piano sociale chi pone i valori è il Soggetto demiurgico, l’artifex mundi, la cui sola presenza stabilisce la dialettica della sua coscienza direttiva con la inconsapevolezza delle masse dirette. Infatti, per restare nel contesto in cui si muove la teoria marxista, se la Natura è, in senso hegeliano, un essere-esterno-a-se-stesso dell’uomo, in cui i suoi prodotti si sono oggettivati e resi estranei alla originaria comprensione del loro valore funzionale, allora il mondo sociale è "naturale" solo per le masse inconsapevoli, che sentono la costrizione istituzionale come eteronoma, dal momento che non opera in esse la rammemorazione dell’originario valore. La presenza, o l’assenza, di questo Erinnerung distingue la classe dirigente dal popolo. La "inconsapevolezza" è la traduzione sociologica dell’"oblio dell’Essere", che non è una caratteristica psicologica, ossia una materiale ignoranza, ma bensì una condizione propria dell’esistenzaper-l’esistenza, della vita biologica che non si trascende e che ha di mira la sola sopravvivenza e il solo potenziamento nietzscheiano di sé. Si può vivere senza "essere", così come la coscienza può mutuare dalla forza la sua volontà determinatrice. È questa la possibilità destinata all’essere sociale. Sono qui le radici istituzionali ed etiche della politica come coscienza pubblica. Il "negativo" del rapporto dialettico tra classe dirigente e masse dirette consiste nel completamento politico che le élites realizzano della manchevolezza plebea. Il "superamento", comunque ottenuto, è un allineamento della coscienza comune al modello coscienziale che ha informato le strutture del potere come rimedio al male della vita sociale, ossia al "negativo" stesso della sua ontologica e sociologica molteplicità. In altri termini, ogni "superamento" del "negativo" si realizza come una legittimazione del Soggetto demiurgico, artefice dell’ordine sociale. Ciò che è la "fatica del concetto" in sede teoretica è il governo dello Stato nella sfera socio-politica, e il corrispettivo politico del "positivo compimento" dell’Idea è, specularmente, l’esercizio della sovranità, la decisione dell’atto di governo politico. Ma l’impossibilità di conseguire sul piano effettale quella prescritta "necessità" logico-sociale della omogeneizzazione viene smentita anche sul piano "oggettivamente" fenomenico, rappresentato dalla morte, ossia dalla condizione stessa dell’uomo quale essere finito. Sempre a proposito del negativo, Lùkacs aveva infatti dichiarato che "solo dove il divenire altro significa oggettivamente un trapasso radicalmente sovvertitore delle forme oggettive o processuali, esso può venire inteso come negazione anche sul piano ontologico 141


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oggettivo. Ad esempio nella morte degli esseri viventi".368 Marx nei Manoscritti aveva a suo tempo asserito che "la vita individuale dell’uomo e la sua vita come essere appartenente a una specie non differiscono fra loro"369 Ma le due prospettive non possono armonizzarsi, cioè l’ammissione della morte come estrema negazione di valore ontologico smentisce l’ipotesi della risolvibilità dell’individuo nella specie, sia pure socializzata, poiché, come ha ben detto Mancini, il verificarsi della socialità, che è il tema preminente, non può distruggere la sua [dell’uomo] individualità proprio perché essa è portatrice del valore sociale. La morte invece è distruggitrice di questa individualità, e quindi smentisce la teoria della socialità dell’uomo. La contraddizione sta qui: che il valore sociale dell’uomo non è rispettato dalla morte che lo consuma come essere meramente individuale.370

Dietro il fenomeno della morte naturale si nasconde il concetto della verità in senso greco. Essa infatti è una modalità particolare di distacco dal vissuto e dal mondo-della-vita, e un legarsi all’altrove del modo di pensare e dello scoprire, ossia al disvelamento dell’Essere nello spazio della presenza, della "visione", in cui agisce il logos come raccoglitore del molteplice tutto nell’Uno. Dalla dinamica dell’apparire e dello scomparire nasce l’aspirazione teoretica al totale svincolo dalla condizionatezza storica al mondo fenomenico, e il conseguimento di una dimensione assoluta, opposta alla dimensione della parvenza. Ma essi non sono due in senso ontologico, ma solo in senso logico, dato il monismo dell’Essere, per cui "parvenza" per Hegel è ciò che "sta di contro" all’essenza, "è il proprio porre dell’essenza […], non è un che di estrinseco, altro rispetto all’essenza, ma è la sua propria parvenza. Il parere dell’essenza in lei stessa è la riflessione".371 Il fatto che essenza e parvenza siano indissociabili, che l’una non esiste senza l’altra, costituisce il fondamento ontologico del cammino gnoseologico dall’intelletto alla ragione; il primo resta impigliato nella datità immediata del contrasto, […] la seconda si solleva, gradualmente, alla comprensione del G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. cit., vol. I, pag. 199. K. Marx, Manoscritti storico-filosofici del 1844, (1932), tr. it., Torino, 1975, pag. 114. 370 I. Mancini, Teologia, ideologia, utopia, cit., pag. 647. 371 Hegel, Scienza della logica, tr. it. cit., vol. II, pagg. 437-438. 368 369

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complesso come totalità dialettica. La dialettica della realtà che viene conosciuta dalla ragione consiste perciò in questo: i momenti della realtà sono contemporaneamente e indissociabilmente a sé stanti e solidali; la loro verità viene falsificata non appena a uno di questi rapporti si attribuisca un significato assoluto, escludente il suo contrario, ma anche quando nella loro purezza appaiono cancellate le differenze, le opposizioni. Essenza, apparenza e parvenza sono perciò determinazioni riflessive in quanto ciascuna di esse esprime questo rapporto; ogni apparenza o fenomeno è essenza che appare, ogni essenza appare in qualche modo, nessuna delle due può essere presente senza questo rapporto dinamico, contraddittorio, ciascuna è nel momento in cui ininterrottamente conserva e cede la propria esistenza, nel momento in cui si esaurisce in questo rapporto antitetico. Le determinazioni riflessive correttamente intese distruggono, non soltanto la rigida dualità, trasmessaci dalla teologia ma ancora oggi attiva, fra entità apparentemente a sé stanti, ma anche l’altrettanto vecchio pregiudizio secondo cui le forme oggettive immediatamente fissate, costruite in analogia alla cosalità, avrebbero una qualche priorità ontologica rispetto ai puri rapporti, relazioni, etc., che le separano e le collegano, in cui si esprimono le loro interazioni reali. Dal punto di vista ontologico tali rapporti etc. hanno lo stesso livello di realtà degli oggetti in senso stretto. Ambedue vengono egualmente conosciuti dalla ragione, in tutt’e due i casi l’unico criterio di correttezza del pensiero che li riguarda è la concordanza con la realtà. Seguendo Hegel – conclude Lukàcs – non si potrà più dire quindi che gli oggetti esistono in questo o quel modo, mentre i loro rapporti, relazioni, etc. sarebbero risultati ideali di un processo di astrazione oppure di una qualche esperienza.372

Questa teoria hegeliana, nella interpretazione che qui viene offerta, è all’origine della indistinzione tra sfera teoretica e sfera pratica, e quindi del monismo realistico che consente la conversione ontologica del soggetto spirituale in soggetto collettivo oggettivamente storico. L’errore logico deriva dalla asserita corrispondenza ontologica univoca di parvenza fenomenica ed essenza relativa. In realtà, ciò che storicamente e temporalmente appare dell’Essere è un possibile modo d’essere dell’essenza, che nel suo apparire, cioè nella effettualità della sua possibilità d’essere, cela altri modi d’essere essenziali, anch’essi appartenenti e costitutivi della totalità dell’Essere, ma non apparenti e attuali. In altri termini, la determinazione riflessiva, riflette appunto la modalità possibile dell’Essere che viene in evidenza, ma non riflette anche le altre modalità dell’Essere che non sono evidenti, ma che pure sono, e sono come inattuale possibilità.

372

G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. cit., vol. I, pagg. 232-233.

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Queste possibilità che non-sono attuali, ma che incombono come possibilità immanenti alla possibilità apparente dell’Essere temporale, sono possibilità trascendenti, la cui realtà, rispetto alla possibilità effettualmente evidente, è di essere negativa rispetto all’evidenza storica. La dialettica, perciò, tra parvenza ed essenza deve includere anche il rapporto tra l’elemento apparente dell’Essere e la modalità negativa e trascendente, che incombe sulla determinazione riflessa come il negativo sulla realtà positiva. Ed è tale possibilità trascendente a consentire ai processi reali la loro dinamica della libertà, senza la quale essi sarebbero determinati da una necessità tutta spostata sulla realtà assolutizzata dell’apparenza, a scapito della totalità dell’essere dell’essenza, inclusiva del suo non-essere attualmente apparente. Lo sforzo di Hegel di liberare l’essenza dei fenomeni dalla necessità legata alla loro causazione apparente, lo ha spinto a definire un metodo di analisi "dialettica" che riporti dei processi storici - e quindi "reali" in senso univoco, cioè in senso sia logico che volgare e scientifico – la loro dinamica logica, la quale, rispetto a quella essenziale della fenomenologia, ricavata dalla epoché, intende riportare ad unità l’Essere attraverso la composizione, appunto logica, delle sue storiche determinazioni. In questo senso possiamo intendere il pensiero di Hegel quando afferma che "il principio di identità stesso e più ancora il principio di contraddizione son di natura non già semplicemente analitica, ma sintetica".373 La condizione ontologica di una tale composizione unitaria dell’Essere era legata alla possibilità di stabilire una corrispondenza logico-effettuale dell’Essere con le sue manifestazioni molteplici. Corrispondenza che, acquisita come metodo dialettico, servirà a Marx per la sua teoria del "rispecchiamento". Che la contraddizione e l’identità siano princìpi di natura sintetica e non analitica vuol dire che non appartengono alla logica formale ma al processo reale. Il processo reale interessa il divenire degli enti che si trasformano. Secondo la logica formale, a ogni trasformazione corrisponde un modo d’essere degli enti determinato, che corrisponde a una loro essenza universale logicamente determinata e non altra. In questo senso, a ogni fenomeno corrisponde una essenza. Tale corrispondenza, che Hegel chiama "riflessione", non spiega la possibilità della trasformazione degli enti, cioè il divenire del processo storico, per cui la domanda se l’oggetto che si trasforma sia sempre essenzialmente lo stesso, non ha senso nell’ambito di una analisi 373

Hegel, Scienza della logica, tr. it. cit., vol. II, pag. 463.

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formale dell’Essere e del suo corrispondente fenomeno reale. La trasformazione ha senso e realtà ontologica solo all’interno di un processo in cui l’Essere si manifesta come possibilità, e non solo come necessità. Infatti, la possibilità inerisce sia la modalità effettuale e attuale che quella trascendente e inattuale, mentre la necessità riguarda la sola realtà fenomenica presente. L’analisi formale ha per oggetto, pertanto, la sola realtà effettuale (i sensibilia di Russel), ossia i soli fenomeni che si presentano nella esclusiva modalità immanente, ignorando il lato oscuro dell’Essere, ossia le modalità trascendenti, che incombono sull’Essere attuale con la loro indeterminatezza, che è la modalità negativa dell’essere-altro-da-ciò-che-appare. Il processo reale, rispetto a quello meramente formale, è tale per cui l’essere che appare non-è tutto l’Essere, poiché il Tutto include anche le modalità non attuali dell’Essere, la cui assenza incombente fa sì che l’Essere possa essere altro da ciò che appare, da ciò che attualmente è. La trasformazione riguarda appunto il cambiamento delle modalità di attualità dell’Essere, ossia la assunzione dell’essere-non in essere-sé. L’essere-non fa parte dell’Essere totale, e non è altro dall’essere se non relativamente alla sua possibilità attuale, alla sua temporalità. La logica formale, per cui A = A # non-A, non coglie il divenire dello stesso Essere totale nelle sue diverse determinazioni effettuali, ma coglie solo le singole astratte determinazioni (fenomeniche e temporali), che tra loro restano irrelate. In questo caso il passaggio da una ad altra determinazione avviene per negazioni successive, come voleva appunto Spinoza, in ognuna delle quali la successiva prende la realtà della precedente, intesa come "luogo" fisico-spaziale. L’intelletto astratto, astrae appunto dal processo reale, dal divenire, per cogliere il solo fenomeno attuale, la sola "parvenza" dell’Essere totale, che sfugge al giudizio analitico e formale. Solo una logica dialettica può cogliere il processo fenomenologico nel suo divenire ideale-reale, dando ragione delle trasformazioni d’essere dell’Essere nelle sue possibili modalità ontiche. Se l’essere formale può identificarsi con la sua realtà apparente, l’Essere sostanziale e totale non lo può, in quanto ogni determinazione del suo essere nega ma non annulla le altre determinazioni possibili entro la sua essenza. Tali possibilità, inerenti al concreto divenire storico-effettuale, cioè reale, non sono infinite, ma relative alla realtà che costituisce la storia di quel processo. La storia è appunto la trama razionale del divenire dell’Essere nei suoi possibili modi d’essere (inclusivi dunque delle sue negazioni dialettiche). 145


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Se noi chiamiamo ogni modo d’essere dell’Essere totale come "forma", ogni forma riguarda una possibile modalità dell’Essere, ma la sua universalità non può avere a fondamento altro oggetto che l’Essere totale, e non già le singole determinazioni, come avviene nella conoscenza scientifica. Se il nostro giudizio formale ha per oggetto le singole forme dell’Essere, ogni determinazione formale esclude la realtà delle altre, per cui nel caso la nostra rappresentazione della realtà è puramente formale, non concreta. Dalla prospettiva in cui analizziamo l’Essere in relazione alle sue forme attuali, non ci è possibile cogliere l’Essere concreto nella sua dinamica totalità. I gradi di determinazione riflessiva sono "l’immediatezza" e la "mediazione", i quali, come afferma Hegel, "anche se appaiono distinti, nessuno dei due può mancare, essendo tra loro in connessine inscindibile".374 Ma, sostiene Lukàcs, se è possibile stabilire una relazione col soggetto (inteso come soggetto conoscente e quindi come coscienza) che riguardi l’immediatezza, non è possibile alcun nesso che riguardi la mediazione, la quale è una sintesi categoriale generalissima estremamente oggettiva di tutte le forze, i processi, etc. che determinano oggettivamente la nascita, il funzionamento, l’esser-proprio-così di un complesso. Quindi non può esserci né nella natura né nella società nessun oggetto che in questo senso non sia mediato, che non sia un risultato di mediazioni. In questo senso la mediazione è una categoria oggettiva, ontologica, che non può non essere presente in ogni realtà indipendentemente dal soggetto. […] Soltanto nell’esser specificamente umano, nell’essere sociale, e già in stadi assai primordiali, nel lavoro e nel linguaggio l’immediatezza e la mediazione si separano e uniscono, appaiono come determinazioni riflessive. […] Come la realtà essente in sé è necessariamente eterogenea, così il pensiero altrettanto necessariamente omogeneizza [sicché si] rende necessaria una ininterrotta autocorrezione – ontologica – del pensiero omogeneizzante.375

E poiché "le più forti tendenze omogeneizzanti operano proprio nella formazione concettuale logica e matematica", sia l’approccio metodico logico che quello scientistico mostrano delle "discrepanze interne" la cui "concomitanza" rende "inevitabile" la prospettiva ontologica, la quale costituisce la risposta correttiva a quella "metodica" dimostratasi incapace di essere contenuta "nei limiti della 374 375

Hegel, Enciclopedia, § 12, tr. it. Croce, Bari (1907), 1963, pag.16. G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. cit., vol. I, pagg. 238-239.

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filosofia in quanto tale, ma invece finisce per emergere spontaneamente in ogni considerazione scientifica".376 Hegel si sforza di affrontare la "complessità ontologica" soprattutto a proposito della "forma come determinazione riflessiva", criticando l’opposta riduzione di "chi pensa che solo il contenuto determini l’oggettività", e di "chi vede solo nella forma il principio attivo", giungendo a superare le contraddizioni dell’isolamento dei due elementi operato dall’intelletto nella sintesi della ragione, dove la attività della forma coincide con lo stesso movimento della materia377 e la reciproca conversione del contenuto nella forma e di questa in quello.378 Il § 133 della Enciclopedia è importante per due essenziali ragioni. La prima riguarda la definizione del mondo fenomenico come "totalità estrinseca";379 l’altra inerisce la teoria dello "sdoppiamento della forma", la quale "una volta, riflessa in sé, è il contenuto, un’altra volta, come non riflessa in sé, è l’esistenza esterna indifferente al contenuto", dal cui movimento Hegel deduce "l’assoluta relazione del contenuto e della forma; cioè il convertirsi dell’uno nell’altro", definendo l’essenza di questa relazione con il "movimento" della loro conversione reciproca, per cui il contenuto come "nient’altro che il convertirsi della forma in contenuto e la forma nient’altro che il convertirsi del contenuto in forma".380 Non è difficile cogliere che nella definizione del "movimento" sono i presupposti della determinazione dell’essere degli elementi, la cui identità viene assicurata dallo stesso processo dialettico della loro relazione. Ciò che Marx chiama l’ubergreifender Moment, il "momento dominante", Hegel lo assegna all’Idea, mentre Marx opta per la ontologizzazione dei rapporti sociali, ovvero per una socializzazione delle relazioni ontologiche. Ma ciò che qui più conta è che la realtà del mondo fenomenico viene assicurata da una asserita 376

Ivi, pag. 239. Hegel, Logica, tr. it. cit., vol. II, pag. 506. 378 Hegel, Enciclopedia, § 133, cit. da Lukàcs, Op. cit., vol. I, pag. 241. 379 “L’estrinsecità vicendevole del mondo fenomenico costituisce una totalità, ed è contenuta interamente nella sua relazione a sé. La relazione del fenomeno a sé è, così, completamente determinata; ha la forma in sé stessa e, in questa identità, l’ha come sussistenza essenziale. Così la forma è contenuto, e, nel suo carattere più sviluppato, è la legge del fenomeno. Nella forma, come non riflessa in sé, sta il lato negativo del fenomeno, ciò che v’ha di relativo e di mutevole: - essa è la forma indifferente esterna”: Hegel, Enciclopedia, § 133, tr. it. cit., pag. 126. 380 Hegel, Enciclopedia, § 133, tr. it. cit., pagg. 126-127. 377

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"totalità" del suo essere diveniente come una "relazione" di identità di contenuto e forma, in cui la "forma" viene concepita, non più in termini naturalistici aristotelici, ma come dinamica sociale del lavoro umano, la quale, di volta in volta, è l’espressione del contenuto materiale, eppure non-è quel contenuto determinato in quanto, come "legge del fenomeno", costituisce il suo "negativo", ossia quanto il fenomeno "v’ha di relativo e di mutevole". In altri termini, nella forma si attua sia la conversione del suo contenuto fenomenico, e sia l’identità omogeneizzante con il movimento dialettico del reale. Ciò vuol dire che, identificato quel movimento dialettico-trasformatoreomogeneizzatore con il lavoro umano, quale volontà socializzata, l’intero processo fenomenico si risolve nella fenomenologia dell’essere sociale, ossia, storicamente, nei rapporti economici di produzione di cui l’attività politica è la sintesi reale. Non già l’attività logica, ossia la "necessità" delle leggi del pensiero, (come pretendeva Hegel) e neppure, di converso, l’attività gnoseologica (come voleva Kant), ma "la realtà" sociale diventa (con Marx) l’unica dimensione di una "autentica ontologia" dove sussiste "quella totalità cui devono essere subordinate tutte le determinazioni modali, la necessità inclusa".381 "La realtà" ha preso il posto dell’Idea, e la dinamica sociale ha convertito in reale il movimento dialettico. Ma l’Umschlag marxiano di Hegel non sarebbe stato possibile senza l’identificazione dell’Essere con l’ente, che, si badi, è speculare all’identità dell’ente con l’Essere, le quali vanificano lo stesso movimento dell’essere in una tautologica conversione universale operata dall’attività umanizzata, dove la dinamica dell’Essere e la poiesi del pensiero si realizzano come produzione pratica trasformatrice dell’altro (il negativo) nel sé (positivo), che costituisce l’essenza della moderna volontà di potenza. Ma come Hegel stesso ha insegnato, e come abbiamo visto, non possono esistere due totalità senza perdere la differenza ontologica che ci consente di distinguere ciò che "è" da ciò che "appare", destinando lo stesso essere all’incessante e mutevole divenire. Ed è questo esito che si prefigura concependo la realtà fenomenica come una totalità, entro la quale ogni mutamento è interno all’unità dell’essere stesso, per cui ogni determinazione molteplice è nient’altro che la particolarità della stessa determinazione assoluta e unica. Ed

381

G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. cit., vol. I, pag. 243.

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abbiamo quella che Lukàcs chiama la "doppia ontologia di Hegel", la quale fa sì che da una parte egli è uno dei precursori di coloro che si sforzeranno di comprendere la realtà in tutta la sua contraddittoria complessità, dall’altra parte nel suo pensiero è ancora energicamente viva quella esasperazione della ratio che in forma diversa aveva dominato molte precedenti filosofie. […] Gli avvenimenti della loro [degli uomini] esistenza nella realtà oggettiva sono comprensibili razionalmente [per cui] educare l’intelletto e la ragione può essere importante per la conquista della realtà proprio perché questi strumenti sono in grado di riprodurre con fedeltà nel pensiero l’essenziale e generale dei fatti e del loro decorso. […] Ma quanto più il pensiero mette a nudo la razionalità del reale, tanto maggiormente ci si può illudere di cogliere l’intera realtà come un sistema unitario, razionale. Tali visioni stanno sullo sfondo di molti sistemi teologico-teleologici e assumono anche forme laicizzate. Tuttavia la crescente conoscenza concreta dei fatti relativi alla natura, alla società e all’uomo contraddice sempre più energicamente questa concezione.382

Ma se questo è vero, come sembra credere Lukàcs, allora non si può giungere alla conclusione di Hegel per cui "la verità" degli elementi diversi "è la loro relazione", poiché la determinazione relativa afferma solo che "l’Essere è", e non già che questo essere sia Tutto. L’asserzione tautologica di Hegel,383 che stabilisce l’identità tra ciò che "è così" con ciò che "è", si fonda su un "perché" che ha lo stesso valore di fede dell’"ergo" cartesiano, e stavolta fondato sull’assunto che "l’essere per l’altro e l’essere in sé sono quelle medesime determinazioni poste come momenti di uno stesso [essere], come determinazioni che sono relazioni, e che restano nella loro unità, nell’unità dell’essere determinato". Secondo tale assunto totalistico, l’essere in sé e l’essere per l’altro sono "diversi" ma anche identici, perché "l’identità dell’essere in sé e dell’essere per l’altro" consiste nella "medesimezza dei due momenti" nello stesso Essere.384 La loro "unificazione dialettica ad opera della ragione" è vista da Lukàcs come un "progresso di civiltà rispetto alla primitiva percezione immediatamente unitaria",385 ma l’avanzamento viene visto nella mera modalità unitaria, non nell’unità in sé, che ora viene colta non più

382

G. Lukàcs, Op. cit., pag. 244. Hegel, Enciclopedia, § 144, tr. it. cit., pag. 137. 384 G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. cit., vol. I, pag. 248. 385 Ivi, pag. 251. 383

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"immediatamente", ossia in forma ingenua, ma in modo logicamente "mediato". Non può esserci né nella natura né nella società nessun oggetto […] che non sia mediato, che non sia un risultato di mediazioni. In questo senso la mediazione è una categoria oggettiva, ontologica […]. Quanto la coscienza assume come immediatezza è anch’esso legato a determinati stati di fatto oggettivi, solo che viene svincolato da essi. […] Soltanto nell’essere specificamente umano, nell’essere sociale, nel lavoro e nel linguaggio l’immediatezza e la mediazione si separano e uniscono, appaiono come determinazioni riflessive. Qui abbiamo un nesso categoriale che è caratteristico dell’essere sociale.386

Come abbiamo visto, la forma in Hegel, intesa come "determinazione riflessiva" elimina dalla Natura quella destinazione teleologica, presente nell’ontologia aristotelica, e la trasferisce nel lavoro. La destinazione dell’essere formale Hegel la assegna all’Idea, per cui la natura appare come qualcosa di statico. Quando si imputa alla realtà fenomenica una "mancanza di forma", in realtà si intende la forma "giusta", in riferimento a una posizione teleologica fondata sull’alternativa fra giusto e sbagliato. Come abbiamo anche visto, la necessità è la considerazione modale centrale per ogni approccio logico e gnoseologico, ma essa va subordinata alla realtà del Tutto, al pari delle altre determinazioni modali, secondo una considerazione che si pretende autenticamente ontologica. Cioè a una ontologia terrena e non teologica, la quale ultima è dominata da una necessità assoluta, la volontà di Dio, rispetto alla quale la necessità immanente è solo una parvenza, un modo di apparizione. In realtà, alla volontà di Dio si è solo sostituita la volontà umana, la cui "necessità" viene determinata non da relazioni che non sono "assolute" ma "sociali", le quali, prive di quella imponderabilità che caratterizza la volontà provvidenziale, non lasciano consentire alla Ivi, pag. 238. L’ammissione della necessità di una mediazione, la sua “oggettività” ontologica, conferma la “superstizione” di cui parlava Wittgenstein circa il nesso logico o principio causle come legge universale (Tractatus, 5. 1361) mutuato dalla fisica. Essa è piuttosto “la forma di una legge” (Tractatus, 6.32) stabilita logicamente per la pensabilità del mondo in senso unitario. Ma la “necessità logica” non è una necessità onotologica, pertanto la rappresentazione della realtà storico-sociale informata ai principi logicamente unitari, non ammettendo mediazioni “oggettive” tra il soggetto del giudizio e il suo oggetto, esclude dal reale formalizzato il suo processo storico, ossia il suo carattere di molteplicità diveniente. Sul team, L. Wittgenstein, Ursache und Wirking (1937), tr. It. a c. di A. Voltolini, Torino, 2006. 386

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libertà umana quella possibilità d’essere altrimenti da "così" legata alla totalità trascendente le singole determinazioni reali. Questo si può evincere dalle stesse riflessioni di Lukàcs, il cui coerente svolgimento lo induce a ritenere impossibile, come pure abbiamo visto, l’assoluta omogeneizzazione della realtà a opera del pensiero (ma anche, possiamo aggiungere senza fallo, a opera del lavoro umano), e perciò, dopo aver asserito l’identità degli elementi ontologici all’interno del processo dialettico, a distinguere, nell’ambito dei rapporti ontologici dell’essere, una "Aufhebung nell’ambito della realtà stessa e in quella della sua mera conoscenza". Se cioè le determinazioni riflessive determinano una dimensione concreta all’interno di un complesso dell’essere – si pensi ad es. al rapporto formacontenuto -, la loro Aufhebung può essere soltanto gnoseologica, può essere soltanto un elevarsi della coscienza dal punto di vista dell’intelletto a quello della ragione, al discernimento del nesso dialettico reale. Un superamento ontologico di queste determinazioni riflessive è impossibile, perché, quando una oggettività realmente data venga tolta di fatto, il rapporto formacontenuto semplicemente verrà a rinnovarsi, con adeguate variazioni, nella nuova oggettività, un rapporto forma-contenuto continuerà insomma ad esistere.387

Il processo logico, trasferito sul piano della prassi, realizza situazioni "di fatto", per cui il "superamento reale" dell’astratta oggettività produce un "toglimento" che è inteso, non in termini di variazione "teorica" legata al passaggio dall’intelletto alla ragione, ma come un "rinnovamento" della vecchia "nella nuova oggettività", che non altererebbe i rapporti essenziali tra un contenuto e la sua forma. Mentre il superamento ideale ha sempre carattere teorico, come avviene per la comprensione del rapporto tra forma e contenuto, il superamento reale, nella natura viene compiuto da una interazione fra complessi regolata da leggi, interazione che, anche se è necessaria, può costituire solo una necessità "cieca", mentre nell’essere sociale fra la serie delle componenti reali del superamento vi è la coscienza sociale, quella falsa non meno di quella giusta. Cosicché una conoscenza conforme a verità dei complessi che spingono verso o contro il superamento può diventare in determinate circostanze una componente ontologicamente reale nel processo del superamento stesso.388

Dall’identità degli elementi ontologici nel processo dialettico, si è inavvertitamente passati a una socializzazione della coscienza e dei 387

G. Lukàcs, Per l’ontologia dell’essere sociale, tr. it. cit., vol. I, pagg. 256-257.

388

Ibidem. 151


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valori ideali, ossia dalla asserita onniveggenza del pensiero logico dei processi dell’Essere, all’apoteosi della volontà produttiva di valori sociali. Il passo che restava da compiere oltre la linea di confine del pensiero dall’essere è stato infine compiuto, ma non è risultato possibile eliminare, nonostante ogni sforzo teoretico di omogeneizzazione logica, l’irriducibile dualismo ontologico e gnoseologico, superabile solo attraverso una "decisione" a preferenza di uno o altro campo essenziale, mettendo in evidenza, a seconda della scelta, la rilevanza della realtà molteplice ovvero di quella ideale unitaria.

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