Coscienza Storica N. 14

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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da

Costantino Marco

MARCO EDITORE


Segretario di redazione: Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.

In copertina: A. Rodriguez (1636-1691) Sant’Agostino (olio su tela, dettaglio); città del messico Museo nazionale dell’arte Copyright by Costantino Marco, 2022 Coscienza storica


Coscienza Storica Nuova Serie 14

Le due città di Costantino Marco

II.

Capitoli V-VIII

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V STORIA E SALVEZZA

“Che sia anche a noi d’aiuto un nume, e ci manifesti la verità che tanto ricerchiamo!” (Agostino) “Solo un dio ci può salvare.” (Heidegger)

La verità della perenne condizione umana è, per Goethe, di essere “miserabile”, il cui “destino” è di restare, nonostante ogni tormento reciproco, abbarbicati alla vita solo “per la paura della morte”. 1 Questa visione tragica e dominata dalla Necessità, che per il cristiano Hegel, lettore di Vico, non può essere che il momento naturalistico di una vicenda storica segnata dalla presenza spirituale, che consente in guise sempre nuove la rigenerazione dalle cadute e dai fallimenti umani. Se la filosofia dello spirito neoplatonica non giunse al pensiero della soggettività, “solo col cristianesimo l’essenza assoluta si fa manifesta”, ma non ancora come “essenza universale”, che superi la determinazione empirica dell’uomo e della forma religiosa. 2 In tal senso, “per Hegel, l’unico pensiero che la filosofia può apportare alla contemplazione della storia è il ‘semplice concetto della ragione come sovrana del mondo’”.3 La funzione della ragione è quella di determinare il Bene in senso universale. Se il bene soggettivo è determinato in sé, è “conforme al suo fine”, all’unità sostanziale che è l’universalità stessa, la sua stessa 1

Da una conversazione con lo storico Luden, riportata da K. Loewith in MH, pag. 74, n. 3. 2 K. Loewith, HC, pagg. 51-52. 3 K. Loewith, MH, pag. 75.

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determinatezza concretezza è ancora astratta, unilateralmente opposto all’astratto Male. Alla loro forma generale “manca la determinazione del come”, della particolarità universale, senza la quale si ha solo il bene in generale, senza “l’autonomia dell’esistenza”. per conseguire la “misura propria”, ossia appunto l’autonomia, “occorre che il bene abbia il suo essere per l’altro”. La religione e la filosofia si muovono in questo dualismo, concependo la differenza “in tutta la sua universalità”, tale che il finito e l’infinito si oppongano reciprocamente senza relazione, rappresentando la finitezza opposta all’universalità appunto come il male.4 Il fine dell’intelletto esteriore, consistendo nell’identità con se stesso, è di “conservarsi dinanzi alla realtà, trasformandola, determinarla come conforme a se stesso”. L’essere vivente è per Kant causa sui, un fine per se stesso, come se, perché un certo essere vivente, si dà la forma di un essere autonomo, riferendosi a se stesso, gli esseri viventi fossero reciprocamente indipendenti e questa fosse la natura delle cose; come se gli esseri viventi non risultassero solo quali momenti del concetto da cui essi si producono. Ma nello spirito, è sorprendente, anche per la coscienza comune, che questa unità organica, vivente, sia la natura della cosa.[…] Vi sono facoltà, forze così disparate e diverse: la sensibilità, l’intelletto, la ragione, la volontà, i desideri, gli impulsi essi stessi tanto molteplici. Come si può unificare tutto questo nell’uno e non nella natura della loro cosa’. Deve esserci un terzo al di fuori di tutto, che li riunisce e li coordina nella loro diversità, in modo che essi si adattino e possano produrre un’armonia […]; questo adattamento armonico di tante forze sta fuori di loro ed è dunque un terzo: Dio”.5

Ciò che toglie autonomia alle cose è la finalità immanente che è l’unità dello spirito, che le condiziona riducendo la loro indipendenza assoluta a una “parvenza” formale. La natura delle cose è che “esse rimangono finite nonostante la finalità”, laddove la sola “la natura della cosa”, ben diversa dalla semplice percezione sensibile, che rappresenta ”un mondo apparente”, è “un mondo intelligibile razionale”. Se dunque “il concetto è la potenza che agisce secondo fini”, in ambito religioso non abbiamo a che fare con la “vitalità” naturale, ma con “la rappresentazione dello 4

G.W.F. Hegel, Vorlesungen ueber die Philosophie der Religion (1824-1827), tr. it., Roma-Bari, 1983, 2. La religione determinata, pagg. 165-167. Da ora VPhR. 5 Ivi, pagg. 244 e 245.

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spirito”, quale “momento attivo del pensiero” che, seppure non esprime ancora il suo oggetto, cioè il contenuto spirituale, nondimeno la religione quale “coscienza dello spirito” costituisce “la potenza universale, che agisce secondo fini”. E pertanto “l’oggetto di Dio”, inteso come autocoscienza, “è un ideale, spirituale”.6 In che consiste questo “ideale”? Se la legge morale kantiana trasferiva l’assoluto nella volontà, la molteplicità degli impulsi empirici le rimaneva estranea, in quanto la “formula universale e il dovere determinato non possono essere posti reciprocamente in alcun rapporto organico”. La contraddizione del dovere determinato dell’imperativo categorico è “di essere insieme determinato e universale”, per cui “la forma della universalità presente nella formula morale, in sé vuota, non può entrare in nessun rapporto organico con una determinazione singola”. Ciò comporta che, dal punto di vista di Hegel, “l’opposizione che separa violentemente materia e forma, massima e formula universale, determinato e universale, rende impossibile un sistema della moralità”, in quanto l’universalità è vista da Kant “solo nella forma dell’opposizione tra unità universale e il molteplice particolare”, mentre “l’imperativo morale è per sua essenza, in quanto universale, un concetto”. È questo concetto che Hegel intende per “ideale dell’armonia”, che egli pensa come “una libertà dello spirito che non conosce più né limitazioni né opposizioni [e] dove cessa ogni scissione”. 7 In polemica con Schleiermacher, Hegel contestava la natura sentimentale della religione, che la caratterizzerebbe per il suo sentimento di dipendenza, asserendo di contro che “lo spirito ha invece nella religione la sua liberazione d il sentimento della sua divina libertà”, concludendo perciò che “solo lo spirito libero ha e può avere religione”. 8 L’obbedienza è l’aspetto visibile del sentimento, l’azione oggettiva, che resta incompleta nella sua singolarità. “Si deve perciò giungere a un grado di unificazione superiore” ai singoli atti sentimentali, e “totale”, che è “l’amore”, la “legge dell’umanità” che sostanzia “l’azione religiosa [che] rappresenta l’unificazione nell’ideale come pienamente esistente, non più in contrapposizione con la realtà”. 9 Nei passi surriportati vi è il senso 6

Ivi, pagg. 245-247. W. Dilthey, Die Jugendgeschichte Hegels (1921), tr. it., Napoli, 1986, pagg. 120121. 8 G.W.F. Hegel, Vorrede zu Hinrich’s Religionphilosophie, cit. da E. Bloch, SubjektObjekt. Erlauterung zu Hegel (1949), tr. it., Bologna, 1975, pag. 328. 9 W. Dilthey, Op. cit., pagg. 122-123. 7

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della hybris moderna della posizione di Hegel sulla religione, il cui “concetto” viene assimilato all’ “amore” e la Denkbestimmung10 alla potenza liberatrice dello spirito, coincidente con la stessa “liberazione” dell’uomo dalla dipendenza da Dio. Resta significativa a proposito la polemica con la tesi di Schleiermacher, il quale, in verità, collegava la dipendenza da Dio non nei termini della relazione servile illustrata da Hegel nella Fenomenologia, ma del “rapporto con Dio” che, per il suo carattere “assoluto” (schlechthinnig) è la condizione della coscienza di sé come esseri liberi: liberi di addivenire al rapporto con Dio. 11 Tale rapporto indicava nella dipendenza, non già la servitù a Dio, che lascia liberi gli uomini nell’ascolto della Sua parola, ma la coscienza della necessità della relazione con Lui, per conseguire la coscienza di sé come persona finta e libera moralmente di determinarsi. La relazione con Dio è la relazione con l’Infinito, e dunque con qualcosa che trascende la propria finitezza. In tal senso, la coscienza della dipendenza equivale alla coscienza della Differenza ontologica. Se invece la relazione con Dio è in funzione del concetto, e dunque nella risoluzione di Dio nel concetto di Dio, e dunque concepita nei termini di una verità razionale, ossia illuminata dal concetto e non dalla Rivelazione, tale relazione non poteva ammettere alcuna dipendenza della ragione, pensata come “assoluta” determinazione del Soggetto, dal  divino, che contiene tutta intera la verità speculativa dello Spirito, il quale solo nella Trinità si determina come Spirito di Dio: fuori di questa determinazione trinitaria, “lo Spirito è un termine vuoto”. Hegel, pur partendo dalla Incarnazione e dalla Trinità, non può essere soddisfatto dalla rappresentazione che storicamente la teologia cristiana ha dato del Mistero trinitario, spostando l’intelligibilità del discorso teologico dal piano della rivelazione a quello del rapporto della verità divina con la rappresentazione che lo Spirito assoluto ne dà sul piano della universalità della verità razionale. E proprio in questa esigenza concettualmente comprensiva del Mistero, “la speculazione hegeliana appare molto diversa dalla teologia classica”. 12 La conseguenza 10

“I pensieri possono essere chiamati pensieri oggettivi. […] La Logica coincide perciò con la Metafisica, con la scienza delle cose poste in pensieri, i quali pensieri perciò appunto si tennero atti ad esprimere le essenze delle cose”: G.W.F. Hegel, EWG § 24, tr. cit., pag. 33. 11 Ved. F. Schleiermacher, Glaubenslehre (1821), tr. it., Brescia, 1981, vol. I, cap. I, § 4, pag. 155. 12 A. Chapelle, Hegel et la Religion, Paris, 1967, II La dialectique, pag. 61.

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principale della concezione hegeliana è che l’assolutezza della soggettività implicava il conflitto, e delle interpretazioni e delle determinazioni pratiche, implicava cioè la dimensione del politico, che la charitas cristiana aveva voluto esplicitamente superare come “ragione del mondo”, e non di Dio. Ogni forma di trascrizione secolaristica delle categorie teologiche in una cifra razionale ha un corrispettivo sociologico. L’universalità del concetto, trascrizione razionale della cattolicità cristiana, in termini sociologici è l’umanità, che è concetto propriamente religioso, la cui determinazione temporale è la Storia. In ambito della finitezza della esperienza storica, la funzione salvifica dal peccato originale della ferinità naturale è svolto dallo Stato, che diventa così il luogo di inveramento del processo storico, ossia della stessa fenomenologia dello Spirito pervenuta a coscienza di sé. infatti, la struttura del movimento spirituale è per Hegel struttura logica, che penetra tutto il vivente, sicché la simbologia trinitaria può essere assunta per rappresentare ogni tipologia di presenza dello Spirito nei processi organici. Persino l’amore cristiano diventa un “distinguere e togliere la differenza”. 13 Il senso profondo ed essenziale della secolarizzazione , espresso compiutamente nella filosofia della storia hegeliana, risiede nella sostituzione della mediazione cristica storicamente determinata, e dunque della sua forma rappresentativa costituita dalla Chiesa cattolica, con l’ente etico dello Stato cristiano. Interpretando lo Spirito (Geist) come processo dialettico del Logos, Hegel traspone il significato cristiano della mediazione come Agape in un legame etico funzionale all’universo socio-politico, come ragione sintetica degli opposti esistenzializzati. Ove tutto è ragione, tutto è storia; e ove tutto è storia razionale, tutto è Stato. Ma se tutto è ragione dello Stato, questo è assunto come la natura dell’uomo razionale, l’orizzonte politico della sua esistenza razionale. Se l’Agape cristiana era l’unione in Cristo delle molteplicità personali e culturali,14 la sintesi concettuale hegeliana diventa Bestimmung15 del Logos, gnosi universale atta a realizzare la Civitas Dei terrena come polis razionale, invano inseguita da Platone, la città cristiana riconciliata. La 13

K. Loewith, HC, pagg. 53-55. Ved. C. Melica, Il concetto dell’amore in Hegel, in M.M. Olivetti (a cura), Intersubjectivité et théologie philosophique, Padova, 2001, pagg. 625-649. 15 Sul concetto di Bestimmung (“determinazione”), ved. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, tr. it., Bari, 1968, vol. I, pagg. 120-121. 14

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conciliazione del Logos era tra Spirito (libertà dell’umanità storica) e la Natura (Necessità), non cristianamente tra cielo e terra, tra uomo finito e Dio.16 Il movimento dell’infinità divina, storicizzandosi, si incarna nell’uomo cristianamente redento sotto forma di salvezza antropologica, e dunque naturale, sicché anche le istituzioni storiche hanno da realizzarsi secondo la costituzione della natura razionale dell’uomo redento. Salvato l’uomo, rimaneva da salvare la comunità sociale, razionalizzando le forme della socialità umana. Il santo diventa filosofo, per quanto cristiano. La salvezza in senso hegeliano è (già) personale ma non (ancora) socialmente compiuta. Nelle pieghe di questa incompiutezza, o compiutezza differita, si insinua il progetto marxiano di realizzare l’emancipazione sociale dell’uomo attraverso la rivoluzione politica. L’intento di Hegel era di portare a compimento il moto spirituale della Riforma, spostando i termini della salvezza individuale in quelli della salvezza etica collettiva. La libertà moderna non veniva più interpretata dalla comunità ecclesiale, bensì dalla comunità statuale, la cui filosofia del diritto aveva sostituito la teologia. Il Geist hegeliano è la ragione universale, per cui l’eskaton fenomenologico è comunitario. La sostituzione della mediazione cristica è possibile solo ipotizzando che l’evento salvifico del Nazareno sia avvenuto una tantum, sicché il Suo compito storico si sia esaurito, lasciando il consegna missionaria un compito etico-politico, completamente umano e perciò assoluto. La città ideale non poteva che essere cristiana, dove l’eticità immanente era la versione secolarizzata della antica religiosità trascendente. Il punctum dolens della teoria hegeliana dello Stato etico è il suo nazionalismo, che rappresenta la versione socio-politica del carattere particolare della Riforma, che proietta l’evento escatologico nella finale parousia, lasciando non a caso in ombra “i rinnovamenti intermedi che si manifestano nel dramma della storia”.17 Questo perché l’assolutezza della metabolé filosofica non ammetteva possibili differimenti, esterni alla coscienza egologica universale, i cui contenuti perciò costituivano la precondizione della salvezza collettiva, coincidente con la moderna 16

“In questo senso Hegel afferma che la filosofia e la religione hanno lo stesso contenuto, e questo contenuto è la verità assoluta”: V. Mancuso, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo” (1996), Milano, 2018, pag. 57; ved. pagg. 51-58. 17 R. Niebuhr, FaH, pag. 41.

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civilizzazione cristiana. L’ipotesi di una tensione processuale non coinvolgeva soltanto l’idea di una progressione di senso, quale pure emerge nettamente dalle Vorlesungen del 1822-23 sulla filosofia della storia, quanto l’inveramento storico, ossia il compimento profetico di una Chiesa non più introiettata nel suo ruolo impolitico, che nell’atto in cui “strappa agli individui le passioni”, sollevando il loro spirito, li porta a “rinunciare a quello stesso mondo che avrebbe avuto bisogno di loro”. 18 Ma la stessa tensione escatologica infra-mondana pareva mettere in mora il pregiudizio antico e pagano, riabilitato modernamente da Leibniz, del “migliore dei mondi possibili”, ens perfectissimum che non esclude però che esso “sia tale solo se, nel suo processo spazio-temporale, può diventare ‘sempre migliore’, se cioè è una totalità dell’evoluzione”, 19 che in Egeo non appare in quanto intrinseca alla processualità di una storia spirituale identificata con la storia della coscienza universale. La funzione coscienziale della relazione uomo-Dio, finito-Infinito, ne fa una dimensione etica, armonizzante sul piano assiologico trascendentale la polarità strutturalmente antinomica del politico, irrisolvibile entro la dimensione naturalistica sua propria. In questo precipuo senso, la costituzione etica dello Stato hegeliano segna il passaggio dal conflitto politico, solo sedato momentaneamente dal “patto sociale”, interno alla società civile e dunque originariamente economico e proprio della dimensione naturalistica, a una dinamica spirituale, liberata dall’ipoteca della Necessità, in cui gli appetiti egoistici vengono consegnati alla preistoria della coscienza razionale, la stessa della ontologia naturalistica pre-cristiana, che ignora il dramma della “certezza di fede” neotestamentaria, contrapposta alla certezza del sapere scientifico. Il tentativo hegeliano è quello di conciliare l’evidenza teoretica con l’assolutezza della fede interiore, facendo della coscienza filosofica una esperienza totale. Ma proprio questa aspirazione universalistica e totalitaria costituisce l’aspetto mitico dello storicismo moderno, il quale, spaiato dal suo elemento dialettico, che è appunto la filosofia della storia hegeliana, appare fondato su “un presupposto del tutto dogmatico”, che è “la fede nella rilevanza assoluta di ciò che vi è di più relativo, la storia”.20 18

G.W.F. Hegel, Volrlesungen ueber die Philosophie der Weltgeschichte, tr.it. di S. Dellavalle, Torino, 2001, pag. 473. 19 H. Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt (1981), tr. it., Bologna, 1984, pag. 119.

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In realtà, la stessa “rilevanza assoluta” della storia rappresenta la deviazione secolare della visione razionalistica, che, in virtù della sua prescritta assolutezza teoretica, perde di vista l’orizzonte theo-logico entro il quale è stato possibile configurare la storia spirituale dell’uomo, imago Dei. Rispetto a ogni possibile rappresentazione del processo storico, ossia rispetto a ogni sua libera riscrittura ermeneutica, posizionata preferenzialmente, nell’economia del discorso, su tempi e avvenimenti ritenuti congrui alla sua razionale dinamica processuale, ogni possibile demitizzazione dell’evento narrato dagli Evangeli trova il suo limite insuperabile di verità, di fede e insieme di ragione, nella storicità assoluta del kerygma, ossia nella sua temporalità escatologica, che lo pone perciò al centro della Storia e all’inizio di ogni dazione di senso significativo totale. Nessun altro avvenimento storico riveste in sé il carattere totale della Rivelazione, tale cioè che l’evento nel tempo sia storico, e affidato perciò alla Parola, e meta-storico, cioè trascendente, il cui significato perciò è consegnato al Verbo divino, e dunque al Mystero. Avendo al principio il mistero divino, la storia dell’uomo è pervasa da esso, da quella sua scaturigine, che ha il nome umano di “tempo”. Il tempo è la dimensione in cui avviene il Mystero. “La relazione tra tempo e storia rende la storia doppiamente enigmatica, poiché al di là del mistero e del significato della storia si trova il mistero del tempo”. 21 [Il termine essenziale di ogni relazione temporale è tra ciò che diviene e ciò che permane. Mancando una visione trascendente la esperienza finita, il divenire viene legato alla casualità, e dunque al kaos, contro il quale l’uomo oppone la resistenza dell’ideale, ossia di una realtà pensata come immutabile. E poiché il divenire è esperibile in natura, l’eterno deve necessariamente trascenderla, costituendo il regno dello spirito. propendendo per uno dei due termini della relazione temporale, la rappresentazione del mondo che ne deriva cambia di conseguenza, concependo l’un termine in funzione dell’altro, assunto a parametro comparativo. Il pensiero greco concilia nell’idea del ciclo naturalistico il divenire fenomenico col permanere dell’essere, rendendo intelligibile la manifestazione mutevole delle cose con la stabilità della loro essenza ideale. A tal fine la cultura greca sviluppa la techne dialektiké, il 20

K. Loewith, Sinn der Geschichte (1956), tr. it. in Id., Storia e fede, Roma-Bari, 2000, pag. 142. 21 R. Niebuhr, FaH, pag. 49.

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ragionamento o discorso razionale, che, per spiegare la realtà, ne ricerca le relazioni essenziali, ritenute necessarie, trascurandone i moti accidentali, considerati contingenti. È ovvio che una tale impostazione finisce per considerare reale solo il pensabile, identificando pertanto l’Essere col pensiero stesso. Da qui la centralità del Logos e del suo strumento espressivo, la parola. La datità non sussumibile nella forma del pensiero razionale manifesta l’irrazionalità dialettica da espungere come materia informe (hyle). Ma questa rappresentazione del mondo ha come fondamento l’essere di ciòche-è, ossia l’Idea dell’ente naturale e sensibile, che viene trasfigurato nel pensiero come materia eterna, dove “eterna” ha lo stesso significato che “razionale”. La credenza che l’Essere sia la ragione del mondo è il Mito fondativo dell’ontologia greca, che fonda lo sviluppo della sua metafisica, la mito-logia razionalistica, il cui leit-motiv essenziale è di riportare ogni evento temporale alla sua ragion d’essere, intesa come la sua causa, ossia la sua necessità che l’aveva resa possibile. Questo schema gnoseologico razionalistico pone il passato del fenomeno attuale come il fattore occulto da chiarire, ossia il mistero che la ragione disvela per presentarlo nella sua la verità. La verità dunque è il nesso razionale tra i fenomeni, che assorbe nella sua logica rappresentazione il loro senso primo e ultimo, facendo della pre-vedibilità l’indice della positiva applicazione funzionale del sapere alla vita umana (la weberiana Wertrationalitaet). Rispetto a questa visione, la concezione cristiana fondata sul Mystero non poteva non apparire irrazionale e oscurantistica a una cultura moderna che recuperava l’antico senso greco della vita come assoluta relazione terrena tra le cose e l’intelligenza umana, per cui dal suo punto di vista neo-classico “il mistero della Genesi e della creazione è risolto nel clima di generale fiducia introdotto dalle prestigiose conquiste delle scienze naturali”, sulla cui base “la causalità naturale è vista come spiegazione sufficiente per qualsiasi fenomeno che si produca nel processo temporale”.22 Ciò che qui preme rilevare è la funzione strutturante che si attribuisce alla ragione che, come Nous, acquista la fisionomia mitica del demiurgo, che ha la meglio sul kaos, e come interprete del Logos universale, la immagine del filosofo, intento a risolvere le incongruenze delle condotte irrazionali. Ciò presuppone che il demiurgo divino e quello politico ragionino allo stesso modo,ossia hanno in comune la stessa potenza spirituale della ragione. L’esautorazione filosofica del Mito è la 22

R. Niebuhr, FaH, pag. 57.

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messa in ombra di quella originaria causa efficiente che aveva reso possibile il presente, e la sua interpretazione come una realtà assoluta, cioè in-dipendente da ogni principio originario, da ogni passato, il quale non è altro che il racconto del come si è costituito l’ente oggetto di ragione. La coscienza assoluta dello scienziato moderno è il retaggio della pretesa universalistica del Cogito filosofico, che trova la sua forma mediata nel theo-logo cristiano, cultore della ratio. Infatti, la progressiva razionalizzazione del discorso sulla fede, riducendo inversamente gli spazi del sacro, ancora custoditi nella vita religiosa medievale, produsse l’ “abolizione del cosmo incantato e la creazione finale di un’alternativa umanista alla fede”, a partire dalla Riforma protestante, che diede forte impulso è allo sviluppo del pensiero filosofico moderno, tanto da servire come “dispositivo di disincantamento” del mondo.23 L’opera di progressiva razionalizzazione del mondo, e dunque di progressiva esautorazione dello spazio del Mystero dall’esistenza umana e dalla storia, sul diagramma del tempo sposta l’accento della rilevanza vieppiù sul futuro quale durata del presente, mentre, di converso, tende ad assorbire il passato nella determinazione attuale. Ma cos’era tale “passato” da rimuovere ed assorbire nella coscienza presente se non “il racconto dell’agire di Dio nella storia”, ovvero “la storia della salvezza”? Colui che aveva intrapreso una nuova interpretazione spiritualistica della Scrittura alla luce della prospettiva salvifica della intelligentia spiritalis era stato Gioacchino da Fiore, il quale nella sua Concordia anticipa Hegel nel voler trovare nella storia passata (per lui, l’Antico Testamento) il significato recondito del tempo presente della “ecclesia Christi”, da “mutare in maggior gloria”,24 e quindi del futuro. La dislocazione del senso del mondo dal passato al futuro, rendendo mitiche le origini, ossia pre-istoriche rispetto alla coscienza storica del tempo, pone al centro dell’orizzonte epistemologico dello storicismo la rappresentazione della coscienza dello storico, la sua Darstellung del mondo, che sposta così nella sua attuaità noetica il punto di riferimento assoluto, che per la tradizione cristiana era l’evento cristico, modernamente rimosso come mitema originario. Il passato, dunque, è “una posizione del presente”. Ma trasfigurata. Infatti, proprio perché “un evento non è mai passato [ma] 23

Ch. Taylor, SA, pag. 106. Gioacchino da Fiore, Concordia, V, 65, 95VB. Ved. G.L. Potestà, Il tempo dell’apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Roma-Bari, 2004, pagg. 251-285. 24

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diviene tale […] per l’avvento del presente”,25 il suo “primato” non è mai “ontologico” ma semmai ideologico, poiché la pre-dominanza della temporalità del presente è legata alla assolutezza della coscienza razionale, che smentisce per posizione pre-concetta esattamente quel passato che è all’origine di ogni presente elaborazione del suo mito. L’indipendenza del passato dall’intenzionalità del presente, è possibile soltanto concependo il passato come eterno, ossia trascendente la stessa temporalità, ponendolo all’inizio come il vero assoluto, e come tale non oggettivabile. L’oggettività di un evento del passato è stabilita al presente, dalla coscienza che ne fa suo oggetto; prima della quale, il passato non esisteva come tale, cioè storicamente, ma come presente continovato. Modernamente, a seguito dell’affermazione dell’assolutezza del Cogito, il passato viene compreso nel presente perché dal presente si staglia la sua oggettività, la distinzione concettuale che consegna alla preistoria del pensiero l’evento puramente naturale, che soltanto ora diviene razionale, e dunque è.26 Ma il presente duraturo che la coscienza attuale destina al passato è la Rivelazione, che, rispetto alla coscienza storica, diviene retrospettivamente un Mythos, un mero racconto di un evento da storicizzare. Ciò dunque che l’assolutezza del Cogito insidia è l’assolutezza di Dio, che investe non soltanto la questione del Suo essere unico, ossia il monoteismo, ma anche il suo concetto. “La tesi classica dell’assoluta unicità divina pecca insieme per eccesso e per difetto, garantendo o troppo (nel senso che all’infuori di Dio, come unico essere, non rimarrebbe da concepire più nulla) o troppo poco (perché il Dio a cui si metterebbe qui capo sarebbe in definitiva solo appunto l’essente stesso, l’ipsum ens, in senso puramente potenziale)”. 27 La soluzione dogmatica sulla unicità assoluta di Dio non va per Schelling asserita sul piano concettuale, dove l’essente è la prefigurazione astratta e naturale dell’essere di Dio, che dunque sarebbe soltanto nel concetto, ossia come Idea, poiché questa “non racchiude a sua volta ancora nessun essere effettivo [ma soltanto] la possibilità universale, il titolo dell’essere”, 25

V. Vitiello, Topologia del moderno, Genova, 1992, pag. 124. L’analogia della coscienza storica con la paternità naturale è del tutto fuorviante: Ivi, pag. 125. Idealmente è il figlio che riconosce il padre; prima di tale coscienza, il padre non è tale se non cronologicamente. Per superare la soggettività della coscienza razionale, occorre pensare l’oggettività come trascendenza, alla maniera della ontologia tomista. 27 G. Strummiello, L’idea rovesciata. Schelling e l’ontoteologia, Bari, 2004, pag. 134. 26

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l’aptitudo ad existendum, che rimanda alla sua futura effettualità. Infatti, l’asserita identità divina di essere ed essenza, che Kant confuterà come tautologica, “si limita in realtà a ribadire che nel concetto può essere pensato solo quell’essere che viene già pensato in quanto determinato come l’essente stesso”,28 sicché Dio per poter essere pensato come essente deve già esser creduto esistente. L’inizio del movimento teogonico, la potentia existendi, viene infrenata dalla potenza dell’actum, che tende ad escludere la prima potenza assumendola come soggetto di sé, cioè diventandone oggetto. Il vero concetto di Dio è spirituale e si pone “al culmine di un movimento, di una mediazione che riconosce tre momenti: l’inizio, o pura potenza, il mezzo, o puro atto, e la fine, la potenza che al contempo atto, senza cessare di essere potenza. 29 Il carattere compiuto e conchiuso di questa articolazione interna fa sì che si possa definire Dio come l’Uno-Tutto, come “una totalità costruita da una pluralità determinata [di figure dell’Unico Dio] anche in virtù della fondazione della sfera ontologica da parte del livello teogonico”. Il passaggio processuale non può essere solo logico ma dev’essere effettivo, coincidente appunto “con l’articolazione delle tre figure divine”, il cui “movimento dialettico […] che conduce dall’essenza all’esistenza, […] dal Dio concettuale al Dio vivente, passa attraverso un atto di volontà […] divina”, per cui, secondo Schelling, “l’essere è volontà, e non tanto ragione”.30 In questa morfologia della struttura concettuale, l’elemento oggettuale, materia del concetto, “è” logicamente indipendentemente dalla sua esistenza, la quale dev’essere negata perché la sua realtà razionale, ossia la sua essenza pensata, sia universale, assoluta. In questo senso logico, negare l’esistenza logica dell’ente e negare la sua esistenza ontica fanno tutt’uno, sicché la materia pre-razionale e natuarale dell’ente coincide con la sua concreta realtà empirica, con la sua particolarità. Orbene, se si pone la realtà di Dio nell’ambito della conoscibilità concettuale, la Sua esistenza dipenderebbe dal riconoscimento che ne avrebbe la coscienza attuale, e pertanto non sarebbe la Sua una realtà assoluta. Ma soprattutto 28

Ivi, pagg. 136-137. Potenza in senso ontologico, cioè potenza d’essere, causa spirituale avente un valore ontologico, come la dynamis aristotelica. Le potenze sono universali concreti, non puramente formali e astratti. Ved. L. Lotito, Introd. a F.W.J. Schelling, Der Monotheismus, tr. it., Milano, 2002, pag. 16. 30 L. Lotito, Loc. cit., pagg. 10-12. 29

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si verrebbe a perdere il senso stesso dell’Incarnazione, che è un evento assoluto proprio in quanto non dipende dalla cognizione che ne ha l’uomo. Ciò significa che se la verità del concetto deve pre-suporre il suo sostrato (hypokeimenon) oggettuale nella esistenza naturale del mondodella-vita, la cui mera sussistenza nega la sua assolutezza, l’esistenza di Dio non è “assoluta” perché fuori della realtà del concetto, e come materia esista solo come realtà astratta, ma è “assoluta” in quanto costitutiva di una totalità che è tanto esistenziale quanto ideale, e rappresentabile solo mito-logicamente, ossia come storia onto-theologica. Infatti, l’Ente oggetto del pensiero theo-logico è Cristo, che non è “materia” di giudizio storico, ma la Storia stessa in compendio, e quindi precede ogni storia possibile, di cui è fondamento; ossia ogni rielaborazione ermeneutica del Mito fondativo della Parola, che ri-mane in ogni caso – cioè per quanto tale Parola venga idealmente rielaborata – un Mystero, che è appunto il Verbo di Dio. Per eludere il Mystero divino, il pensiero filosofico coltiva l’interesse scientifico “occupandosi solo di particolari sequenze e relazioni causali”, evitando “di dare una spiegazione adeguata dell’intricata complessità della realtà in movimento; e rinunciano alla soluzione del mistero finale che sta alla base [e cioè all’inizio!] di ogni problema di interpretazione dell’essere non occupandosi delle questioni fondamentali e ultime”.31 Se dunque “il mistero condiziona il significato” della realtà storica, poiché “il processo temporale non ha in se stesso la propria origine, la propria spiegazione e il proprio compimento”. 32 il mondo-della-vita non è, come per il razionalismo antico e moderno, una realtà in sé imperfetta, un “legno storto”, il regno naturale della negatività rispetto alla positività del Logos, e insomma il Male da redimere razionalmente. Essendo il Male pre-istorico alla coscienza attuale del Cogito, il passato di tale coscienza è il Nulla rispetto all’Essere e il niente rispetto all’ente. Ma la semplice considerazione della loro possibilità costituisce per il pensiero razionale il proprio limite, il limite, cioè, alla sua pretesa, meramente creduta, assolutezza. Ed è tale limite all’assolutezza della ragione a costituire l’orizzonte di libertà dell’ente di manifestarsi al di fuori delle pre-determinazioni razionali. Ed essendo il limite coincidente con la creazione divina, Dio stesso è il limite alla necessità, la fonte di ogni Libertà storica. Un limite “al quale non si può dare spiegazione, poiché 31 32

R. Niebuhr, FaH, pagg. 61-62. Ivi, pag. 63.

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tutte le spiegazioni decorrono da esso. Dio è il limite supremo e la sua esistenza è l’irrazionalità suprema”.33 La suprema irrazionalità della vita cosmica è l’amore di Dio, la divina sapienza che appare contraddizione per la mente umana finita, che perciò s’interroga sul senso del mondo: stuporem philosophiae inducere. Per Tommaso, “questo bisogno di domandare è l’unico punto di partenza della domanda metafisica che abbia in se stesso il proprio fondamento”. 34 Il Principio della sua risposta, costitutiva della conseguente rappresentazione della realtà interrogata. Esautorando, con il fondamento della domanda lo stesso domandare metafisico, la scienza moderna penetra nel tempo ponendosi tra il principio e la fine, sospesa nel dubbio metodico circa la veridicità dei suoi provvisori postulati, costituendoli come la sua stessa virtù teoretica. ma è la virtù di chi si accontenta, limitando la sua domanda all’operativo fattibile, anziché al razionalmente comprensibile. “La particolarità dell’analisi scientifica consiste nell’aver aggiunto il dettaglio alla profondità e alla vastità della cultura precedente”,35 ma col rischio immanente di perdere di vista l’insieme, che è il Tutto e l’inizio della creazione, avvolto nella sacralità del Mystero. Il processo moderno di desacralizzazione della storia è la versione à rebours di quello di spiritualizzazione della storia intrapreso dal cristianesimo sin dal periodo ellenistico-romano. Se possiamo compendiare con una parola tale processo di cristianizzazione della civiltà storica, dovremmo ricorrere al termine di Libertà, con la quale indichiamo la tendenza dell’uomo a concepire la sua esistenza come una storia spirituale. Per dare un significato universale e perenne a questa tendenza, affrancandola da ogni impedimento naturalistico, gli stesso 33

A.N. Whitehead, Science and the Modern World, pag. 249; cit. da R. Niebuhr, FaH, pag. 65. 34 “Secondo Tommaso, la caratteristica peculiare della domanda metafisica, e quindi della metafisica stessa, è la sua lotta in difesa delle proprie origini: disput contra negantem sua principia. Solo in questa lotta essa conserva il proprio terreno. La domanda stessa è la regione n cui essa si stabilisce. E’ solo in essa che trova quel fondamento incrollabile che, primo fra tutti, sostiene ogni scienza dell’uomo. In essa soltanto si trova l’inizio della metafisica. La metafisica trae l’origine e la direzione del suo domandare sull’essere nella sua totalità proprio da questa domanda intesa come quel dovere che si impone originariamente e che è l’uomo stesso che domanda; quel dovere che, solo, genera e rende possibile ogni domandare attuale e ogni interrogare”: K. Rahner, GW, pagg. 61-62. 35 R. Niebuhr, FaH, pag. 70.

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theo-logi cristiani hanno ricorso all’idea di ragione, che è il potere precipuamente umano di astrarsi dalla contingenza dei rapporti naturali e dalla necessità che vi domina, per elevarsi a un piano di contemplazione delle essenze insensibili e immateriali. La questione si complica allorquando, facendo ricorso al Logos della tradizione greca, la libertà dell’uomo risulta coincidente con la dinamica cosmologica, ossia con la legge di natura, che regola gli impulsi individuali per renderli compatibili con la sussistenza dell’equilibrio complessivo del cosmo. Ma questa riduzione dell’uomo a esser di Natura è esattamente la rappresentazione che la fede cristiana intende confutare. Ed è a questo punto ideale che nasce la consapevolezza che, essendo la Libertà spirituale l’antidoto alla immersione dell’uomo nella necessità, essa non può coincidere di conseguenza con la razionalità dei processi naturalistici. “Nella misura in cui l’io umano è qualcosa di più della razionalità, l’uomo può usare la sua libertà per sfidare i canoni della logica. Nella misura in cui è qualcosa di meno, l’uomo è inserito nei processi della natura che egli cerca di comprendere razionalmente”.36 Andare oltre la ragione non significa quindi andare al di sotto, ricadendo in uno stato di natura come quello ipotizzato da Hobbes o, con diverso spirito, questa volta apologetico, da Rousseau. Significa trascendere la finitezza che costituisce l’orizzonte ontologico della esistenza naturale, per raggiungere la Libertà spirituale: “colà dove si puote”, ossia la regione dove la volontà, creatrice di senso ideale, non sia soltanto immaginaria ma effettiva. Dal bisogno di coniugare nella Libertà l’aspetto propositivo con quello operativo, nasce l’intento di fondare una civiltà topica, storica. La fondazione della città ideale nel tempo è il contenuto della rappresentazione mitica, originaria, della vicenda umana in quanto tale. Perciò il Mito, quale racconto delle origini, coincide con la memoria stessa costitutiva di ogni cultura umana, sospesa tra la inferiore condizione naturale e quella superiore spirituale. La Libertà dunque non è che tale condizione intermedia, propria dell’esistenza storica dell’uomo. proprio perciò essa ha potuto essere confusa con la facoltà razionale dell’uomo, anch’essa sospesa tra la perversione dell’ intelligenza egoistica, volta al potere di sé, e la virtù del progetto morale di servire Dio nell’Altro. Se pertanto la ratio può indicarsi come lo strumento della Libertà, lo può a condizione di essere recta, ossia finalizzata al Bene, al servizio divino. 36

R. Niebuhr, FaH, pag. 75.

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Se la Storia dell’uomo ha un suo carattere spirituale, questo coincide col processo della Libertà, e quindi della ragione umana, a dispiegarsi sia nel senso potenziale del servizio divino che in quello opposto di servire il potere dell’uomo sulla natura e sugli altri uomini. La Storia come dramma epico della Libertà, ha il suo principio archetipo nella creazione divina, e il suo centro avvenimenziale in Cristo, nel Quale si concentra l’Essere (Mythos), la Parola (Logos) e il Tempo (Eskaton). La Natura, essendo creata da Dio al pari dell’uomo, perché costituisce uno stadio inferiore rispetto a quello mediano della coscienza umana? Il pensiero classico infatti pensava all’armonia universale per attribuire all’uomo il suo posto razionale nel cosmo. Ma anche questa istanza d’ordine cosmologico presuppone la dislocazione dell’uomo rispetto all’unità della Natura, sicché il volervelo condurre implicava una deflessione del suo status naturae lapsae. L’uomo non appartiene alla Natura naturaliter, ossia di necessità, ma libenter, ossia se lo vuole. Questa condizione fa dell’uomo un essere non già determinato dal suo status naturae originario, ma in corso di determinazione, legato cioè alle scelte che fa durante l’esistenza temporale. Il senso delle sue libere disposizioni nel tempo della vita naturale, fanno di questa una storia spirituale, la quale, per essere conosciuta deve compiersi, ossia deve trasformarsi nel suo opposto, nella morte dell’uomo. Questo paradosso, se chiarisce per un verso l’incongruità di voler comprendere la vicenda spirituale dell’uomo con la sola ragione, ossia col metodo di ricercare la coerenza logica del suo processo esistenziale, per altro verso, la singolarità spirituale conferma l’appartenenza dell’uomo all’essenza divina, a quel Mystero originario della creazione che la imperscrutabilità della sua vicenda terrena testimonia. Se il filosofo pagano sapeva che la cecità della condizione terrena dell’uomo poteva superarsi con la luce della ragione, il sapiente cristiano sa che l’uomo custodisce in interiore la luce della Verità, superiore alla ragione naturale, e che dunque la condizione corporea non era malvagia in sé, ma soltanto se prevaleva su quella spirituale. Sicché il passaggio dal regno dell’imperfezione naturale a quello della perfezione ideale, che per il filosofo costituiva il transito dalla vita alla morte, per il cristiano si traduceva in una storia costellata di tanti momenti e vicende che chiamavano l’uomo a scegliere responsabilmente la sua libera determinazione, in relazione alla difficoltà di manifestarsi nelle concrete condizioni d’esistenza. ciò significava che il difetto del corpo ( ) non 21


era di essere immerso nel divenire naturale, ma di non poterlo essere del tutto, essendo fronteggiato dall’anima ( ) che aspirava ad affermare la natura divina. In questa travaglio si dibatte la Libertà umana, il cui racconto universale è appunto il Mito delle origini. Il nucleo temporale di tale Mito originario è che la sua intierezza diegetica è nella circolarità del tempo, nel senso che le vicende narrate nei miti sono eterne in quanto non sono distinte in un prima e un dopo causale, necessario, ma scorrono come presenze oniriche, libere da ogni causalità necessaria; esattamente come cerca di rappresentare la realtà oggetto di pensiero la coscienza razionale, la cui ricercata assolutezza consiste nella rimozione degli eventi di coscienza dalla necessità della loro concatenazione causale, dominante in natura. La significatività logica degli avvenimenti, però, non fa che riprodurre in grado normativo esplicito la stessa causalità naturale restata implicita e inconsapevole nei processi umani. Segno che la ricercata libertà dalla necessità che incatena gli esseri di natura non si consegue per mezzo della ragione, che stabilisce nessi consequenziali necessari, ma risalendo all’origine del tempo, al principio in-distinto dove il tempo è compatto e dove tutto ciò che avviene è già avvenuto: il tempo escatologico, che rende appunto “liberi”. Il “puro essere” è l’essere intero, l’Uno ed eterno, divino, il cui tempo scorre ma non passa. Ed è questa ricerca di ciò che non passa ma permane l’aspetto mitico di ogni rappresentazione umana, compresa quella razionalistica, che presenta come condizione ontologica la credenza nella universalità dei suoi concetti, che in realtà, oggettivati a loro volta, vengono superati e qualificati come mitemi di un sistema di pensiero soggettivo: rappresentazioni mitiche. Ma cos’è che rende “reali” le rappresentazioni del pensiero? Lo spiega in maniera sublime Schelling nella sua terza lezione sul Monoteismo. Iniziare [anfangen] e attrarre [anziehen] sono una parola sola. L’inizio consiste nell’attrarre, ciò che attrae deve essere però mancanza, indigenza di un proprio essere; come dice Cristo: beati i poveri in spirito,cioè in rapporto allo spirito, in quanto così attraggono a sé lo spirito. infatti se ciò che attrae fosse pieno del proprio essere [se fosse cioè egoista], non potrebbe at-trarre alcun essere, bensì lo respingerebbe. (Loro avvertono da sé quale profondo significato morale si trovi in questi sommi concetti. Ma proprio ciò è contemporaneamente la prova più elevata della verità di questi concetti, proprio questo significato morale ne consente allo stesso tempo la comprensibilità). Ma anche nell’altro significato che ha la parola anziehen, in 22


quanto vuol dire vestire, anche in questo significato è la prima potenza quella che attira l’altra; infatti quel semplice potere nudo (spogliato di tutto l’esser), attraendo l’essere infinito, per così dire si veste o si ricopre con questo essere, di modo che noi vediamo solo questo, ma non lui stesso. Quest’ultimo è ciò che è nascosto nell’abisso, è il vero mistero dell’essere divino. In quanto è in sé privo di tutto l’essere, si copre esteriormente con l’essente infinito, ed essendo esso stesso nulla per sé, proprio perciò è un altro (cioè l’infinito essente). Infatti il vero senso dell’espressione: essere qualcosa, è proprio questo […]: essere soggetto di questo qualcosa. Proprio ciò è la coula di ogni proposizione.37

Il soggetto è la materia della rappresentazione, la quale è posta nel suo essere da un atto intenzionale non necessario, che potrebbe essere anche essere diversamente determinato, e che perciò lascia aperto l’essente all’infinità della possibilità: “il potere infinito, il non essente infinito è l’essere infinito, l’essente infinito”. L’oggetto non è però “immediatamente oggetto: questo è oggetto solo per un altro, cioè nella misura in cui presuppone un altro”, sicché lo stesso essente può essere in un primo momento posto”come pura potenza di essere” (potentia pura), un soggetto potenziale senza alcuna determinazione d’essere. Solo in un “secondo momento” esso, che è già soggetto, si pone come oggetto, ossia “come il contrario di se stesso”.38 Nel primo caso, il puro ens soggettivo, l’ente, ciò-che-è, è in realtà privo di essere; nel secondo caso, invece, il puro oggetto è “senza soggettività, senza egoità”. Per ottenere un soggetto esistente, dobbiamo partire da un inizio, che, seppure non voluto, è inevitabile per porre l’essere, il quale a sua volta non è soggetto. Ciò significa che la potenza d’essere è anche potenza di non essere; ma se può essere non voluto, non perciò può non essere posto: esso “è ciò che non può non essere, ciò che non possiamo fare a meno di porre”. L’inizio che è e insieme non è, che può essere non voluto ma non può non essere posto, è appunto l’arché, il Mito originario, in cui l’essere e l’ente co-esistono nella loro assolutezza mito-poietica, in cui l’essere viene trasceso nella presenza del suo omologo opposto, e di cui si può dire”esso è ciò che è continuamente atto, senza cessare di

37 38

F.W.J. Schelling, Der Monotheismus, cit., pag. 58. Ivi, pag. 59.

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essere potenza (fonte dell’essere)”, ovvero è “ciò che-dimora-presso-di sé”.39 Dio. Ma questo è solo l’apriori “concetto dell’essere divino”, e non ancora “l’essere effettivo” di Dio, che “in sé non è essente, ma è pura libertà di essere o di non essere”, l’immediata potenza dell’essere che viene prima di ogni pensiero, che non può essere manifestata attraverso la natura di Dio, ma solo attraverso la sua volontà, e dunque consistente in una potenza immediata che è tale “solo nell’introversione, nel nascondimento, nel mistero”, e che dunque “in qualunque modo la si possa trovare, sempre troveremo come destinata, attraverso la natura divina, al mistero (alla potenza)”.40 Dunque il mistero divino è la stessa potenza di Dio, la sua possibilità di manifestarsi o di rimanere celata, senza mai smettere di essere libera. L’essere Uno che, comunque rappresentato in termini finiti, mito-logici, non smette di essere se stesso, cioè Tutto. 41 Nell’analisi dell’essente (Lezione XIII), Schelling, indicandolo come “ciò che è assolutamente-libero-dall’essenza o dall’Idea”, ovvero, aristotelicamente, come ciò che può-essere-per-sé () e che “esclude da sé tutto ciò che è universale e materiale”, sottrae il Seyende dall’orizzonte noetico e fa di esso una “pura effettività [che] non si può afferrare con nessun concetto”, e che dunque, in quanto puro atto, “si sottrae al concetto”, per cui “se l’anima vuole occuparsi di esso e vuole quindi porre ciò che è l’essente al di fuori dell’essente e in sé e per sé […] allora essa non è più pensante, bensì (in quanto elimina ogni universale) contemplante”, cioè  e non .42 Ciò comporta che l’essere dell’essente non è determinato dall’essenza, sicché esso procede da se stesso, e dunque è originario. Ma ciò implica, anzitutto, che l’esistenza di Dio, diversamente da come pretendeva Leibniz, è dimostrabile senza il principio di ragion sufficiente, e che dunque Egli è necessariamente esistente (necessario 39

Ivi, pag. 61. Ivi, pag. 63. Le potenze per Schelling, com’è noto, sono le differenze originarie dell’essente, non ontologicamente effettivo. 41 La tradizione scolastico-cartesiana aveva rappresentato Dio come puro essere, senza darGli una “valenza esistenziale” ma solamente logica. Questo l’aveva compreso per primo Malabranche, ma a parte Kant, “la filosofia moderna rappresenta per Schelling, da un punto di vista generale, un fallimento”: L. Lotito, Introd. a F.W.J. Schelling, Philosophische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, tr. it., Milano, 2002, pag. XII. Da ora EPhM. 42 F.W.J. Schelling, EPhM, XIII, 316, tr. it., pag. 119. 40

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Existens), è cioè la natura necessaria.43 E inoltre, implica che la mera unità (Einen selbst) dell’essente è “individualità indissolubile e insuperabile, individuo come nessun’altro”, poiché, a differente del resto che è dissolubile, solo esso “mantiene la stabilità”. In tal senso, “l’unità dell’Uno stesso è quella che non scompare con l’unità posta nella totalità, ma sopravvive come effettività che supera ogni possibilità”, ossia l’essere degli elementi unitari della totalità “riposa solo sul fatto che l’uno non è l’altro”, per cui la loro differenza (Unterschied) non deriva dalla reciproca contraddittorietà (Widersprechenden), ma dalla loro distinzione per privazione (Beraubung) , “cioè in modo tale che ad uno manca semplicemente ciò che l’altro è”. Questo significa che, non essendo essenti ognuno dei quali “pretende un esser per sé”, il loro essere, restando “in semplice potenza”, “appartiene solo a quello di cui essi diventano attributi”, verso cui essi si comportano a loro volta “come semplici predicati”.44 La sintesi di questa teoria è che, se “-A è il potere non di sé, ma di +A”, il loro movimento potenziale (dynamis) non è dialettico e conflittuale ma richiede necessariamente l’Altro per poter essere, e che tale richiesta dell’Altro è il principio di coesistenza del tutto alternativo a quello erotico classico che giustifica la relazione politica: il principio di relazione cristiano dell’A, col quale il cristianesimo ha proceduto a quella che Nietzsche chiamò la “svalorizzazione di tutti i valori” antichi, provocando la “liberazione dell’umanità da quella potenza delle tenebre, che durante il paganesimo dominava il mondo”, 45 e quindi quell’ ”inversione di movimento” (Bewegungsumkehr) che per Scheler pone pascalianamente nel “cuore” l’organo che “possiede un preciso analogon della logica nel suo proprio ambito” spirituale “non scientifico”,46 che possiamo indicare nel carattere gratuito del suo manifestarsi come “dono”, del tutto estraneo a ogni istanza di corresponsione, da parte della Grazia divina. Nella prospettiva del “dono

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“L’esistente necessario di Dio consiste nel suo esser-l’essente necessariamente, cioè senza il suo volere o il suo intervento. Egli è però la natura necessaria in virtù del suo essere indipendente dal suo essere-l’essente, attraverso cui egli diviene libero nei confronti di quell’esistere necessario e può essere in sé”: Ivi, 316-317, pag. 121. 44 Ivi, 317-318, pag. 123. 45 K. Loewith, Dio uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Napoli, 1966, pag. 66. 4646 Ved. M. Scheler, Ordo amoris (1914-1916), tr. it. in Id., Scritti sulla fenomenologia e l’amore, Milano, 2008, pagg. 124-125.

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di sé del soggetto che ama” si definisce la libertà dell’amore cristiano, 47 che non è rapporto di diritto, rivendicazione particolare, ma complemento della fede e della speranza.48 Rispetto all’amore di sé, né questo è lo stadio propedeutico a quello cristiano, né questo “la forma purificata” di quello. Sono due sentimenti diversi, che “vanno in direzioni esattamente opposte” e confliggenti.49 Non a caso il termine classico di  non compaia mai nel Nuovo Testamento, dove il termine ebraico ahaba viene reso, come già dai Settata, con , non classico e raramente ellenistico.50 L’accezione orfica del termine eros indicava “una dottrina di redenzione e di salvezza […] oggetto d’esperienza ed era anche celebrata solennemente e poi anche messa in pratica nella vita di ogni giorno”. 51 Essa verteva sull’uomo “che, sospeso tra un mondo inferiore e uno superiore, tra un mondo di luce e uno di tenebre, tende verso l’alto”, vincendo la mancanza e affidandosi al desiderio di colmarla, 52 per cui “eros “L’eros è la realtà dell’uomo che, nel suo rapporto con l’essere visibile e invisibile che si trova davanti e, in ultima analisi, nel suo rapporto con la divinità, è impegnato a realizzare la propria entelechia, cioè, essendo privo della propria autenticità, è impegnato a cercarla, a desiderarla, a trovarla veramente e possederla”, e in questo movimento “l’uomo ordina e comprende il processo della propria vita, cioè ama”.53 Sia l’eros che l’agape sono “determinazioni storiche della natura umana”, ossia non immanenti ma contingenti e dunque possibili, in cui l’uomo, “esistendo in un dato modo, realizza la propria natura umana nella sua totalità”, anche se in maniera e caratteri completamente diversi. 54 La differenza, però, non è equivalente dal punto di vista della stessa natura umana, in quanto se “l’agape corrisponde alla natura umana, l’eros invece la contraddice, l’una è il suo ‘analogon’, l’altro è il suo ‘katalogon’, nell’una l’uomo asseconda la propria natura, nell’altro 47

Ved. W. Kasper, Concezione della teologia ieri e oggi (1967), in Glaube und Geschichte (1970), tr. it., Brescia (1975), 19933, pag. 40. Da ora GG. 48 K. Barth, Kirchliche Dogmatik (1932), IV / 2, 832-852; tr. it., Bologna, 1968, pag. 200. Da ora KD. 49 K. Barth, KD, pagg. 203-4. 50 Ivi, pag. 205. 51 Ivi, pag. 207. 52 Ivi, pag. 208. 53 Ivi, pag. 210. 54 Ivi, pagg. 212-213.

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invece le fa violenza”, distinguendosi come “il ‘sì’ dal ‘no’”. 55 Il “vero uomo”, per Barth, è colui che, assecondando “la sua natura e la sua essenza”, riceve da Dio la libertà e si dispone ad “essere libero per lui”; in questa “decisione” consiste “quella novità che può essere l’agape, se egli è conforme a questa sua realtà, oppure l’eros se la nega”. La conformità alla sua essenza divina coincide con la stessa consapevolezza dell’uomo di dipendere interamente da Dio. 56 Viceversa, la scelta erotica consiste nel ripudio di questa libertà e nell’indipendenza da Dio, ossia dall’ “arbitrio” dell’uomo di considerarsi “egli stesso il fondamento della propria esistenza […], elevandosi a proprio fine e perciò trascurando la riconoscenza, la responsabilità, l’ubbidienza, la preghiera che deve a Dio”, trasferendo i suoi desideri di trascendersi nella brama di “espandersi nel mondo materiale o spirituale per sottometterlo ai propri fini e usarlo come ambiente, come fonte di soddisfazione dei propri bisogni”.57 In questo senso, eros è rivendicazione di un diritto di “disporre di Dio”, laddove agape è il disporsi al servizio dell’altro, in cui “l’uomo fa dono di sé all’altro uomo senza attendere il contraccambio”.58 L’aspetto dirompente di questa antropologia è di porre il modello umano a somiglianza di quello divino, ossia nell’anteporre alla condizione esistenziale e storica una condizione ideale e trascendente, rispetto alla quale la stessa condizione dell’eros diventa innaturale, in quanto “negazione dell’umanità”.59 Ma, nonostante i toni radicali di questo platonismo cristiano,60 sia pure agostinianamente interiorizzato, esso ricalca le orme della pretesa antica di rimodellare la distorta natura umana in senso conforme al divino, negando la realtà apparente, ritenuta falsa, sia pure dominante i rapporti umani. Ed è codesta pretesa esclusivista a denunciare il mutuo filosofico della Spannung cristiana, che nella versione apocalittica di Barth finisce per smarrire il senso della pur

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Ivi, pag. 214. Ivi, pag. 215. 57 Ivi, pag. 216. 58 Ivi, pagg. 217 e 218. 59 Ivi, pag. 219. 60 “L’eros non può che passare, perire, cessare, assieme a tutto il mondo che su di esso è costruito e da esso è dominato, ispirato e qualificato; l’amore invece, l’agape, non verrà mai meno (I Cor. 13, 8): assieme a ciò che da essa scaturisce (come essa scaturisce da Dio) l’agape rimane in eterno nel mondo che passa”: Ivi, pag. 220. 56

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propugnata “riconciliazione”, a favore della assolutezza di ciascuno dei poli in contrasto. Il movimento della ragione di condurre a forma l’informe, era dai filosofi antichi pensato analogo a quello degli dèi, che intervenivano regolativamente sul kaos per strutturare demiurgicamente il kosmos, che per quei pensatori naturalistici era l’equivalente della polis dei mortali, che con l’uso della ragione acquisivano virtù divine. 61 L’aretè classica era nel rendere intelligibile la spontaneità delle manifestazioni naturali, ossia nel portare ordine al mondo, liberandolo dalle sue “ambiguità”. 62 Il racconto mitico doveva essere condotto a narrazione razionale, dotata di senso, ossia di indirizzo causale. Ma la determinazione razionale del Mito originario, portando all’atto la potenza divina, la riduceva all’essere della rappresentazione filosofica, facendo perdere la “fede” nell’unità originaria, consistente nella “accettazione” della dottrina della Scrittura sulla base della sola autorità”. Perciò Tertulliano paventava il connubio deviante del cristianesimo con la filosofia, che non fosse un uso meramente protrettico e pedagogico. Ciò non toglie, però, che si servisse del linguaggio filosofico per spiegare il mistero trinitario. 63 La filosofia, infatti, pur priva della verità della Rivelazione, emancipava l’uomo dalla sua sudditanza naturale, liberandolo dalla impotente necessità. Questa consisteva nell’incoscienza delle leggi cosmiche, per cui la libertà filosofica liberava, non dalla legislazione inesorabile della Natura, ma dalla sua ignoranza. La posizione cristiana sostituisce alla natura erotica del mondo pagano la natura divina testimoniata dall’agape. Ma questa trasmutazione del senso originario della vita umana non può fermarsi al momento critico e agostiniano verso il saeculum senescens, a ciò che Voegelin ha definito la “dedivinizzazione del potere temporale”,64 poiché la presa di distanza da ogni ipotesi di teologia politica non riguarda la sola ipotesi di “immanentizzazione della veritas trascendente”, ma include anche la 61

“Il conformarsi di tutte le capacità vitali a determinati princìpi razionali di ordine accuratamente definiti, rappresenta una caratteristica sottolineatura del pensiero classico. Le istituzioni e le costruzioni storiche costituiscono così dei tentativi di approssimazione all’ordine cosmico, tentativi di raggiungere il permanente all’interno del transeunte”: R. Niebuhr, FaH, pag. 80-81. 62 R. Niebuhr, FaH, pag. 84. 63 Ved. H.A. Wolfson, Op. cit., pagg. 101-102. 64 E. Voegelin, The New Science of Politics (1952), tr. it., Torino, 1968, pag. 177.

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“tipologia moderna e hobbesiana della sua eliminazione integrale”, dal momento che “difendendo l’autonomia della sfera della trascendenza, garantisce di fatto anche quella della sfera storico-politica […] non per questo meno absoluta dell’altra”.65 Ma è l’assolutezza delle due dimensioni, pur efficace in senso destruens a delegittimare la pretesa totalitaria del potere politico, a costituire l’ostacolo morale alla conversione agapica, rendendo astratta e solo intimistica la “liberazione” dall’eros, dalla necessità del mondo profano, facendolo aderire a “l’amore cristiano, nel quale all’uomo è dato di rispondere all’amore di Dio”. 66 In altri termini, proprio alla luce della catastrofe storica che l’assolutizzazione del momento erotico ha condotto l’esistenza umana, sorge l’urgenza di reinterpretare il messaggio evangelico dell’agape in una chiave ecclesiale che integri la metanoia spirituale singolare in un concerto comunitario che possa essere in grado di operare una conversione delle forme istituzionali di convivenza in senso agapico, disattivando i processi di sviluppo sociali indirizzati sulla base di una legittimazione razionale, a sua volta risalente a una presupposta, anche se implicita o rimossa, fondazione ontologica originaria del Logos politkos. A tal proposito l’affermazione di Barth che “l’amore cristiano” sia “l’unico modo in cui [l’uomo] può essere se stesso”,67 è una verità che non è risolutiva ai fini della salvezza, poiché presuppone l’ineluttabilità di una condizione sociale dominata dalla logica perversa dell’eros, che viene pertanto indirettamente legittimato iuxta sua propria principia. Di fronte allo strapotere politico totalitario, il rifugio intimistico non è risolutivo, poiché astrae dalle condizioni di socialità in cui l’uomo è immerso nella sua esistenza terrena, e dunque non fa i conti con quella Necessità naturale che impone anche al cuore più bendisposto di mediare le proprie ragioni con quelle della sopravvivenza di sé e, soprattutto, del suo prossimo, a cominciare dai suoi cari, dalla famiglia e dal contesto amicale. A noi pare che la sottolineatura del carattere singolare della conversione spirituale rischia di conferire una superiorità naturale alla socialità erotico-politica non superabile con l’azione individuale, confinandola all’interiorità mistica, e con ciò sconfessando la stessa totalità esistenziale della conversione a Dio, testimoniata dalla vita di Cristo, lo stesso darsi al prossimo come a se stessi. 65

R. Esposito, Categorie dell’impolitico (1988), Bologna, 1999, pag. 93. K. Barth, KD, pag. 222. 67 Ivi, pag. 223. 66

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Le implicazioni di questi limiti dottrinali della visione barthiana non possono non estendersi alla complessiva posizione protestantica, soprattutto di tradizione luterana, che ha dato adito alla “errata separazione tra Dio e mondo, tra anima e corpo, tra intenzione e azione, tra fede e opera, tra libertà esteriore politico-sociale e libertà ‘interiore’, e anche scissione tra politica e morale” di alimentare la “tara germanica”.68 Essa di conseguenza coinvolge la problematica idea moderna di libertà, ossia la sostanziale inanità dell’emancipazione dalla tradizione teologica romana, che proprio nella elaborazione di una teologia politica imperiale ha misurato storicamente il rapporto tra storia e salvezza nei termini di una relazione connettiva, tanto confliggente quanto imprescindibile, considerando la duplice natura divino-naturale dell’uomo. Infatti, la natura non dell’uomo, ma nell’uomo, implica la sua volontà di essere al mondo, e dunque coinvolge le condizioni di esistenza materiali. E’ questa dimensione di vita materiale a costituire per Aristotile il principio antropologico fondamentale da cui muovere per la comprensione dell’uomo. La socialità come essenza onto-logica è alla base anche di ogni considerazione di carattere pragmatistico, costituendo il bene primario della vita. In questo senso è, non solo possibile, fondare un’etica sulla relativa teoria dell’essere, ma è indispensabile, poiché ogni affermazione d’essere è una ri-affermazione del principio ontologico primo col quale si afferma la realtà, e dunque la realtà del bene: il bene come realtà. Il fondamento identitario che costituisce la premessa ontologica di ogni discorso di valore razionale è un giudizio di realtà, che accredita il fondamento originario, la sua persistenza al di là dell’empirico divenire. L’originarietà di questo fondamento ontologico non è dimostrabile, ma solo confutabile come assoluto, ossia nella credenza che sia in-derivabile. Ed è ciò che appunto fa il creazionismo cristiano, il quale sostiene, non già che l’uomo non sia un essere di natura, ma che tale principio sociologico in realtà non è arcaico, poiché all’inizio c’è il Verbo, ossia la volontà creatrice di Dio. L’asse valoriale si sposta dalla originaria gerarchia pagana del primato sociale sull’individuale, al rovesciamento cristiano della priorità antropologica, ora assegnata alla salvezza (dell’anima) individuale, alla persona spiritualis, anziché all’homo oeconomicus. Il fondamento cristiano dell’essere non è più la Physis ma 68

Ved. M. Scheler, Die christliche Liebesidee und die gegenwaertige Welt (1917), tr. it. in Id., L’eterno nell’uomo, Milano, 2009, pag. 899. Da ora LW.

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Dio, ossia non è più l’impersonale status naturae ma il soggettivo status culturae. L’isolamento dell’uomo dalla società politica, intrisa di eros, non può destinarlo alla libertà limbale dell’homo sacer, né alla decisione occasionale dell’hic et nunc, ma alla condizione della decisione-per-lavita, ossia appunto alla conversione di fede nel fondamento. Ma se tale conversione d’amore è verso l’altro, l’uomo può cambiare soltanto nella relazione, ossia nella (forma peculiare di) socialità cristiana, sicché non può arrestarsi allo stadio di libertà dall’eros, che può portare al mero “umanitarismo”, inteso come “la perdita, nell’uomo europeo in generale, delle forze spirituali centrali, trainanti e che danno una meta”. 69 M. Scheler indica nei due “grandi movimenti spirituali europei” della Riforma e dell’Illuminismo quelli che hanno portato alla “sostituzione del comandamento cristiano dell’amore con l’umanitarismo”.70 Contro ogni intenzione di sminuire l’importanza dei legami sociali, il luteranesimo ha non di meno relegato la salvezza dell’uomo “nella profondità della singola anima individuale e della sua fede”, negando a “tutto i gruppo degli atti spirituali che possiamo chiamare atti sociali […] un originario significato di salvezza”, sottraendoli alla “guida e direzione precedente, attraverso il comandamento di salvezza dell’ amore”, sicché “la distruzione del concetto unitario di una Chiesa visibile e invisibile, come di una istituzione stabilita da Dio per la salvezza solidale di tutti” comportò l’ “abbandonarsi alle forze, alle passioni, agli istinti dell’uomo puramente naturale”. Di conseguenza, la distruzione del principio di “salvezza solidale” si estese dalla Chiesa “a tutti i tipi di comunità” umane, per cui “Stato, economia, cultura, creazione […] dovevano da quel momento seguire il proprio corso in modo indipendente ‘autonomo’” dalle leggi di Dio.71 E così, l’individualismo religioso si portò dietro quello politico, il culturale e l’economico. Provocando una solidarietà sempre meno fondata sui valori e sempre più tecnica. “Questa logica interna di una civilizzazione prevalentemente tecnica, è svincolata da ogni superiore orientamento verso l’unità attraverso una autorità spirituale e morale riconosciuta come comune”.72 Con l’Illuminismo, il retaggio cristiano arrestò la disgregazione dell’Europa umanitarista, che procedette nel sec. XIX a seguito della 69

M. Scheler, LW, pag. 909. Ivi., pag. 903. 71 M. Scheler, LW, pag. 905. 72 Ivi, pag. 909. 70

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corrosione dell’unità della natura razionale dell’uomo che era servita a sussumere sotto l’idea del bene le antinomie della vita e della cultura. “Alla fine tutto ciò che doveva valere come norma comune per l’uomo come tale divenne sempre più rarefatto, sempre più astratto e formale [finché] diventò invisibile e inconcepibile per la maggioranza”, lasciando l’unica realtà “di gruppi in lotta tra loro, che seguono i loro interessi o i loro istinti umani, siano essi razze, nazioni, Stati, classi, ecc.”.73 Poiché, afferma Scheler, “l’essere dell’uomo è in modo altrettanto originario un essere per se stesso e un essere con altri”, nell’“unica essenza ideale della persona ragionevole”, coesistono sia “una realtà individuale cosciente di sé e responsabile di sé”, che una “consapevolmente corresponsabile che fa parte di una comunità”. 74 La “comunità spirituale” ha diritti prioritari rispetto a ogni “comunità di vita”, perché “ha origine divina spirituale” e dunque è “universale”, animata da un bisogno di “trascendere” non soltanto il “nudo io individuale” ma anche “ogni comunità meramente storica concreta e percepibile ai sensi ai quali apparteniamo”, ognuna delle quali è “organo” della maggiore spirituale, che fa da “sfondo divino” a tutte le altre.75 In questa teoria di comunità e di rapporti spirituali, emerge netta l’esigenza di rapportare ogni comportamento umano, individuale e collettivo, alla responsabilità davanti a Dio, la cui realtà costituisce il limite di ogni espansione umana della volontà e la misura stessa della Differenza dalla finitezza umana. Ciò elimina in radice ogni idea contrattualistica della società. Infatti ogni contratto presuppone per le parti contraenti “un terzo per il quale il contratto è vincolante oppure no”, costituito dal “principio della responsabilità religiosa e morale o della solidarietà morale”, in base al quale “noi dobbiamo sentirci veramente colpevoli di ogni colpa [anche altrui]”, sia pure in misura proporzionata al nostro ruolo sociale.76 Viceversa, l’ethos moderno, individualistico e statolatrico, economicistico e liberistico, ha smarrito progressivamente “già nelle sue radici razionali […] il sublime principio della solidarietà”, assorbendo nel potere degli enti politici ed economici “la personalità creata da Dio” e i suoi derivati, come la famiglia e la classe sociale, ritenendo che la salvezza personale e del mondo sia affare individuale, 73

Ivi, pag. 911. Ivi, pag. 913. 75 Ivi, pag. 917 e 919. 76 Ivi, pagg. 921 e 923. 74

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ottenibile per sola fides e lontano dalla via di ”amore per la salvezza del fratello” mostrata originariamente da Dio 77 e che l’uomo consapevole dei temi deve assumere come “missione” di ripristinare. Il senso ultimo di tale missione doveva esser quello di ripristinare “un atteggiamento morale fondamentale di tutto l’uomo” in relazione a ogni sua impresa e attività, “in qualunque opera” umana. 78 “In contrasto con lo spirito della comunità cristiana”, si pongono “due principi” politici: la teoria della sovranità dello Stato, superiorem non recognoscentem, e quello opposto della sovranità popolare (volonté génétale), o per meglio dire, della maggioranza; ad essi fanno riscontro uno Stato sovrano di cultura nazionale che nel suo potere pone il suo limite morale, e una repubblica mondiale, internazionale anche culturalmente, fondata sul dominio delle classi; ai modelli politici si affiancano quelli economici del libero mercato e del socialismo. 79 Ma qual è l’opposto modello comunitario cristiano per Scheler? Il cardine della visione cristiana viene indicato nella “individualità della persona spirituale”, che ha carattere “infinito” rispetto alla finitezza dell’esperienza vitale,80 e che costituisce un “valore” europeo rispetto a ogni concezione che, pur cristiana come quella russa, la neglige a favore di concezioni massive che “rendono lo Stato e la nazione degli idoli” e li pongono “al posto di Dio”.81 Contro questa aberrazione statolatrica ovvero populistica bisogna opporre “l’idea di comunità cristiana” per costruire dalle macerie della Guerra mondiale la “vera Europa cristiana”,82 progettata sul modello di Stato federale già sperimentato storicamente dalla Svizzera e soprattutto dalla Germania, embrione di un nuovo impero, come già nel medioevo.83 Il federalismo si oppone al nazionalismo politico, che ha origine non nazionale, come si suppone, ma dal classismo internazionalista, sia borghese che proletario, il cui intento è di “mettere la cultura dello spirito […] al servizio dei propri meri scopi di potere ed economici”, dissolvendo così la varietà delle risorse spirituali delle singole nazioni; 77

Ivi, pag. 925. Ivi, pag. 929. 79 Ivi, pag. 933. 80 Ivi, pag. 939. 81 Ivi, pag. 941. 82 Ivi, pag. 943. 83 Ivi, pag. 945. 78

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ma non si oppone al cosmopolitismo culturale, che deriva dall’ideale solidaristico cristiano in campo spirituale, ed è “prodotto dello spirito nazionale tedesco”.84 Infatti il diritto eterno delle nazioni ad esistere si origina “nella sfera culturale [e] non nella sfera politica [o] in quella economica”. Il comunitarismo cristiano è lontano tanto dallo “Stato di cultura”, che vorrebbe dirigere verticisticamente la vita spirituale della nazione, riducendo la cultura ad esteriorità e a formalismo delle competizioni, che all’ipotesi di “un unico Stato mondiale”. Lo Stato può sorgere su varie nazioni se offre loro una libertà culturale escludendo ogni uniforme cultura di Stato ai popoli che vi fanno parte. Il vero cosmopolitismo cristiano aborre sia il nazionalismo politico di origine ebraica, ripreso dall’ideale imperiale calvinistico inglese, che la “farsa massonica di una repubblica politica mondiale” o la sua versione di classe operaista, con la vuota cultura mondiale, che neppure la Chiesa può dirigere, avendo il compito di difendere la varietà delle espressioni nazionali contro ogni nazionalismo e imperialismo omologanti. 85 L’allontanamento dell’Europa moderna dal magistero della Chiesa e dalla legge morale cristiana fece avvertire come intrusivi i suoi interventi, così che “da parte dei gruppi che governavano nella maggior parte degli Stati fu negato per principio all’autorità ecclesiastica il diritto di interferire con la cosiddetta autonomia della ragione e della cultura nelle questioni della salvezza”, ignorando che, essendo umane, le attività spirituali “sono sempre anche attività comunitarie”, formanti una “intrinseca unità di stile e di struttura”, per cui “dove l’individualismo senza limiti o il socialismo hanno sostituito l’ideale cristiano di comunità, lì dal punto di vista spirituale è anche abolita alla radice non solo la fede comune in una Chiesa, ma anche la conoscenza comune [tra] coloro che cooperano alla conoscenza”.86 Lo spirito comunitario che Scheler rivendica al cristianesimo non è dunque una riabilitazione del ruolo politico della Chiesa, ma è l’ecumenismo spirituale della sua vocazione cattolica, che il vulnus dell’individualismo ha compromesso sostituendo la solidarietà legata allo spirito di “dedizione spirituale guidata dall’amore al mondo oggettivo”, con un “atteggiamento di fondamentale sfiducia nelle proprie

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Ivi, pag. 947. Ivi, pag. 949. 86 Ivi, pag. 951. 85

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forze spirituali” e un “vano istinto competitivo”, che poggia sulla critica e sulla ricerca degli “errori degli altri”.87 La novità di questa impostazione è l’affermazione della centralità dell’atteggiamento morale, centrato sul messaggio evangelico, su ogni altro aspetto particolare rivendicato dallo scientismo moderno, e pertanto la critica di Scheler all’Europa decadente non è basata, come ad esempio in Husserl, sulla piega teoretica dei suoi indirizzi culturali, ma su un atteggiamento di fondo, conseguente alla rottura dell’unità religiosa, che ne ha segnato le sorti, che lui chiama individualismo, e che ha come corrispettivo sociologico il collettivismo. Le due correnti principali dell’Europa moderna, l’autonomia politica da ogni limite morale e l’autonomia etica dell’attività economica, che hanno condotto rispettivamente al socialismo politico e al liberismo economico, sono sogguardate, non già come le espressioni più avanzate e concorrenti della civiltà europea, ma, al contrario, come le due aberrazioni eretiche che, allontanandosi dal ceppo cristiano comunitario originario, hanno prodotto la catastrofe della civiltà moderna, dove il razionalismo opera la rimozione dell’invisibile e l’animale razionale, per metà “lione” e per metà “golpe” (Machiavelli) si provvede di esattezza e di calcolo ma manca di intelligenza. Il suo “delirio razionale” è la smodatezza, la mancanza del limite, in preda a una malattia morale.88 La posizione di Scheler è di denuncia di ciò che Sciacca chiama “occidentalismo”, il processo della riduzione metafisica moderna come metodo che nega il principio dialettico dell’”essere in relazione a”, che quindi nega la dialettica dei limiti. Esso “procede per negazioni successive dell’essere di quel che si sostituisce” fino alla “negazione del limite e, con il limite, dell’essere di ogni ente”, giungendo così al nichilismo”.89 È più radicale del fenomeno che Schmitt chiama delle “neutralizzazioni culturali”, poiché investe l’intera visione del mondo, non solo in quanto elabora nuove rappresentazioni, ma perché ne intacca i fondamenti ontologici. Non è un caso che Scheler per descrivere la condizione del suo tempo ricorra implicitamente alla visuale platonica. Platone infatti nella Repubblica distingue il principio appetitivo, che presiede alla produzione e al consumo dei beni, dal principio irascibile, che presiede alla difesa dello Stato, e infine dal principio intellettivo e del 87

Ivi, pag. 953. M.F. Sciacca, L’oscuramento dell’intelligenza, Milano, 1970, pag. 67. 89 Ivi, pag. 70. 88

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sapere, che presiede al governo. Lo Stato è giusto quando si realizza l’, ossia la giusta attribuzione delle competenze, senza confusione di ruoli e di capacità. 90 La stessa partecipazione di tutto a tutti rompe l’armonia della convivenza ordinata, provocando la distruzione della cultura e della civiltà. L’egalitarismo astratto è perdita di misura e obnubilamento dell’intelligenza, ossia barbarie e sottosviluppo. Tutto inizia, anche per Sciacca, dalla “rottura della Riforma”, la quale, “nonostante il suo iniziale ed equivoco slancio religioso, provoca lo sbilanciamento in favore degli interessi terreni”, mentre nel Seicento, con Bacone, “inizia la marcia dell’Occidentalismo”. La Riforma rompe il rapporto mediato tra potestas e auctoritas, mentre il razionalismo scientista assolutizza la ragione, emancipandola da ogni limite ontologico e costituendola come fondamento e criterio di conoscenza, legittimato dalla garanzia del metodo universale.91 La parabola discendente dell’Occidente è dunque culturale. La conoscenza si concentra sulle cose e i fatti di esperienza, ed è intesa come “mezzo allo scopo di meglio dominare il mondo, a sua volta mezzo per costruire la civitas hominis autosufficiente e fine ultimo dei singoli e della storia”. Da qui la “riduzione di tutti i valori a quelli pratici, a criteri pragmatistici con scopi sempre più utilitari, economici: questo il cammino, coincidente con il graduale oscuramento dell’intelligenza, percorso dall’Occidentalismo”.92 L’appello di Scheler ai valori comuni nasce dalla consapevolezza che “il condizionamento propriamente sociologico del contenuto del sapere non scaturisce affatto in egual misura dalle fonti del sapere [cioè “le idee di Dio degli homines religiosi e i concetti di Dio dei metafisici”, ma] deriva sempre, in primo luogo, dalle tradizioni religiose delle famiglie, delle tribù, delle città e dei popoli”, le quali si riflettono sulle “articolazioni delle classi, professioni, ceti, caste e la loro divisione del lavoro”, mostrando “le unità di stile esistenti tra i sistemi religiosi e lo stato degli

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Platone, Repubblica, 369 b sgg. “Il cosiddetto mondo moderno si presenta con un problema preminente e quasi esclusivo, quello del metodo: non più il problema del principio del sapere che è anche e soprattutto ontologico-metafisico, ma, prescindendone finoa relegarlo tra i nonproblemi, il problema del metodo per conoscere quanto accade in questo mondo”: M.F. Sciacca, Op. cit., pag. 110. 92 Ivi, pag. 111. 91

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altri sistemi del sapere”.93 Il dramma morale dell’Europa moderna è dunque consistito, non già nella tensione tra dogmatismo religioso e articolazione delle posizioni metafisiche religiosamente autonome, ma nella espansione universale della cultura razionalistica, che ha prodotto uno scollamento anomico nella coscienza comune, ossia una disgregazione del tessuto connettivo della civiltà europea. Ciò conferma però che “l’offensiva contro l’opposizione morale” scatenata dalla cultura moderna, “preceduta da quella contro l’opposizione della verità, empietà di fondo, spiana il terreno all’empietà culturale, nel senso più vasto, in quanto la cultura perde ogni significato se viene meno al suo compito formativo o di educazione dell’uomo integrale”.94 Ma ciò riporta alla questione della formazione morale dell’uomo moderno, del cittadino, a quella epimeleia heautou che non può essere destinata né al monopolio né all’anarchia pedagogica solo se ha un obiettivo pre-fissato, e dunque un orizzonte di coscienza comune in cui la salvezza dell’anima sia prioritaria ma non spaiata dal benessere del corpo, secondo quelle “direzioni” del pensiero che dall’interno tendono incessantemente verso l’esterno, orientando il pensiero verso l’azione.95 Proprio la riduzione della salvezza dell’anima a benessere del corpo, della fratellanza a democrazia, dell’escatologia a società del consumo universale, ha dissacrato i valori mondani facendo dell’economia la nuova religione mondiale dell’umanità emancipata dalla Verità rivelata, dalla fede in Cristo e dalla Provvidenza. Ma ciò è stato possibile grazie alla preponderanza data al visibile e al fisico rispetto alla parte invisibile della persona umana e della vita spirituale, su cui torneremo. I termini della questione illustrati da Scheler durante la prima Guerra mondiale, si ripropongono immutati, pur se aggravati da una condizione culturalmente più opprimente, dopo la seconda Guerra mondiale, allorquando, come scrive Sciacca, “l’Occidentalismo, nelle sue due forme neocapitalista e comunista in avanzata via di convergenza dell’una nell’altra per una Società universale tecnologica, provoca e alimenta la secolarizzazione di tutte le grandi religioni e, con l’empietà, la perdita di tutti i valori o la loro riduzione a quelli vitali, i soli bastevoli per la felicità in terra”.96 I “valori vitali” sono quelli ispirati dall’Eros, che ha 93

M. Scheler, Sociologia del sapere, cit., pagg. 133 e 138. M.F. Sciacca, Op. cit., pag. 163. 95 Ved. H. Bergson, L’energie spirituelle (1919), tr. it., Milano, 2008, pagg. 34 sgg. 96 M.F. Sciacca, Op. cit., pag. 196. 94

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prevalso sullo spirito dell’Agape. Questa “eredità inconsapevole”, che aveva nel Medioevo europeo accumulato un “capitale interiore di forze spirituali in grado di dare forma alle comunità [cristiane] è oggi ormai praticamente consumata”.97 E non solo “per una serie di errori” di sopravvalutazione del “peso delle forze unificanti che tenevano insieme l’Europa”, ma per “il modo di pensare e il sentimento diffuso profondamente errati” di concepire “l’unità della struttura del mondo morale” in termini meramente mondani e istituzionali, che potessero sorreggerlo “da sotto”, sui soli moventi economici e politici, senza l’apporto “dall’alto”, cioè dal sostrato religioso e di fede, proprio “di forze che si trovano solamente nella Rivelazione, nella Grazia, nell’illuminazione della ragione e del cuore, e in un’organizzazione visibile, che corrisponde a queste forze invisibili”, cioè alla Chiesa cattolica.98 L’obiezione più spontanea a queste considerazioni è che esse siano riferibili alla supposizione, o alla speranza, che l’Europa conservasse il suo primato nel mondo, legittimato dall’ipotesi antropologica dell’unità della natura umana e della sua identità con la sua essenza razionale, e consentito dall’affermazione di “una comune legge di struttura e di stile” di cultura e di vita, non incompatibile peraltro con il “pluralismo dei gruppi e delle forme della cultura”, che costituisce “il punto di partenza d’ogni sociologia”.99 Ma non è l’obiezione decisiva, che invece è un’altra, non prettamente sociologica quanto onto-logica. Nella posteriore Wissensoziologie, infatti, Scheler trattando dei rapporti tra metafisica e religione afferma che “dalla Riforma in poi, i movimenti religiosi dell’Occidente seguono una legge direttiva generale”, che inverte l’importanza proporzionale della rivelazione e della grazia “per la formazione del sapere religioso”, rispetto alla “libertà attiva dell’uomo di fronte al Divino e alla sua conoscenza razionale”, dirottando le energie intellettuali “verso la terra”, ossia nelle occupazioni mondani che, dalla politica all’economia, hanno reso grande l’Europa materiale, ma soffocato il “sapere metafisico” e la “libera speculazione religiosa”, a favore della scienza positiva, meno invisa degli altri saperi al dogmatismo teologico, inducendo a ritenere che mentre la metafisica fosse ormai una categoria di pensiero storicamente superata, la religione fosse “una 97

M. Scheler, LW, pag. 955. Ivi, pag. 957. 99 M. Scheler, Sociologia del sapere, cit., pag. 77. 98

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categoria essenziale dello spirito umano”. Ma questa era per Scheler solo “un’enorme illusione”.100 Infatti, egli spiega la dinamica della scristianizzazione della civiltà europea come un processo non degenerativo, come descritto nel saggio del 1917, ma fisiologico, legato alla stessa “divinizzazione del fondatore”, che pur consentendo alla Chiesa di “arrogarsi una autorità assoluta nelle cose della salvezza”, innalzando il fondatore “sopra tutti gli uomini nell’essenza”, induceva nel contempo a una “liberazione dalla responsabilità” dei credenti di poter emulare il modello divino, considerata “la fiacchezza della natura umana”, spingendo le masse e i loro capi “contro le forme superiori e più pure della religiosità spirituale”.101 Partendo dal presupposto che l’evoluzione delle religioni non dipenda dai loro fondamenti metafisici ma sia “affatto autonoma”, Scheler ne conclude che “ciò che fa tremare una religione dominante non è mai la scienza, ma l’inaridirsi e il morire della sua fede stessa, del suo ethos vivo”, e ciò a causa della repressione dell’autorità religiosa di “una nuova forma germinale di coscienza religiosa”.102 La contraddizione con quanto asserito nel saggio del 1917 è molto di più di un semplice ripensamento da maturazione teorica, è invece un contrasto essenziale e non dialetticamente sanabile tra una visione morale della religione, e una visione intellettuale, che sposta il baricentro del discorso dal ruolo della religione nella società di massa moderna, a quello del ceto intellettuale nel contesto sociale di ogni tempo. Se infatti i limiti dell’antropologia moderna erano per Scheler spirituali e speculari a quelli economici indicati dal Marx critico della figura del borghese emersa dalla Filosofia del diritto hegeliana, titolare solo di bisogno e di diritti civili, ma privo di spessore morale, la contraddizione tra uomo morale privato e uomo politico pubblico non veniva sciolta nel senso della “integralità” dell’uomo cristiano se al posto della società civile poniamo la comunità cristiana, al posto dello Stato poniamo la Chiesa e al posto dei chierici mettiamo i metafisici anziché gli scienziati, poiché il rapporto problematico tra la fisionomia privata e quella pubblica del cristiano è originariamente stabilito dalla stessa polarità entro la quale si è sviluppata la coscienza religiosa e civile cristiana. Infatti “malgrado la trasposizione politica ella supremazia del cristianesimo dopo Costantino e poi 100

M. Scheler, Sociologia del sapere, cit., pagg. 134-135. Ivi, pagg. 136-137. 102 Ivi, pagg. 138-139. 101

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Teodosio, in sostanza l’idea secondo la quale il dominio religioso e il dominio politico sono distinti era destinata a non abbandonare mai il cristianesimo”.103 Ora, proprio perciò, l’affermazione di Scheler per cui “all’uomo è lecito credere solo in Dio e in nessuna istituzione terrena”,104 contraddice non soltanto la funzione dello Stato, senza il quale la fede non ha garanzie terrene, cioè politiche, ma anche quella della Chiesa, senza la quale non solo il potere dello Stato non ha limiti, ma neppure la libertà dei cittadini è arginata da alcun dovere morale superiore a quello della loro volontà. E dunque l’idea di “comunità cristiana” va intesa in senso organico alla integralità della persona, ossia nel senso che l’aspetto privato non vada considerato indipendente da quello pubblico. Assegnare dunque a Cesare un potere assoluto da quello divino, equivale ad assegnarne uno speculare alla Chiesa, e poiché ognuno di essi sarebbe svincolato dal limite dell’altro, non ci sarebbe più la relazione tra figura privata e pubblica ma una sarebbe assorbita dall’altra: o Stato o Chiesa, da cui discendono le coppie oppositive secolarizzate o monarchia o democrazia; o liberismo o socialismo,. Ma proprio questo aut aut polemico è stato criticato da Scheler, come abbiamo visto, per cui la polarità coessenziale alla cultura cristiana e alla religione, non può più essere dialettica ed esclusiva, come nella società moderna, ma ritrovare, come già nel Medioevo, una sua armonia che dalla persona giunga alle istituzioni collettive, e viceversa. Per leggere il saggio del 1917 alla luce di quello del 1924, dobbiamo ripensare, non solo al ruolo della Chiesa, ma anche a quella della cultura laica, come una funzione pubblica e non come un’attività privata. Ma se è così, il valore della libertà del pensiero metafisico, come di ogni altra libertà, non può essere lasciato alla libera determinazione del mercato delle idee, secondo una equivoca equivalenza intellettuale e politica di ogni espressione di pensiero, ma dev’essere determinato dal suo rapporto col Valore eterno, ripensando la sua fondazione in una chiave anche non ontologica. In tal caso, la auspicata libertà metafisica va intesa nel senso della possibilità di una teoria, o rappresentazione del mondo, di partecipare della verità comune, rimuovendo le antiche preclusioni teologiche verso gli apporti intellettuali non ecclesiastici, e con esse il modello totalitario della Chiesa istituzionale, e non già nel senso della 103

R. Brague, Europe, la voie romaine (1992), tr.it. Il futuro dell’Occidente (2005), 2016, pag. 164. 104 M. Scheler, LW, pag. 959.

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liberalizzazione in senso della equivalenza di ogni prodotto intellettuale, come è avvenuto invece con la contrapposizione tra tradizione e innovazione da parte dei detentori del monopolio ermeneutico delle Scritture, che ha finito per salvaguardare il potere ecclesiastico ma di alienare l’apporto del pensiero “vivo” della comunità dei pensatori cristiani. È stato infatti un punto di estrema debolezza quello di perorare per la Chiesa la libertà che essa non riconosceva allo Stato e al pensiero. Allargando l’apporto morale della Chiesa alla comunità cristiana come corpo mistico, essa sarebbe in grado di influenzare, per il tramite della sua presenza diffusa o organica, anche le istituzioni politiche, che devono salvaguardare, se non proprio mettere in atto, i principi morali. Egli stesso, d’altronde, ha teorizzato la “impotenza dello spirito”, incapace in sé, in quanto mero “regolatore di direzione”, di porre in essere processi fattuali socialmente efficaci, che sono possibili solo in unità con “interessi, impulsi, istinti, passioni”. 105 Quanto al “modello” del Fondatore, non va confusa, come pare faccia Scheler, la Persona trascendente, infinita e quindi incommensurabile con la finitezza umana, con la Sua figura idealizzata in senso essenzialistico del concetto ontotheo-logico. Il Cristo non è una figura ideale, ma un paradigma esistenziale, che è concreto modello storico e non astratto ideale, per cui le “costanti essenziali del mondo e le loro relazioni” 106 andrebbero ripensate non in riferimento alle “idee essenziali” a cui pensa Scheler conformemente alla sua posizione fenomenologica, ma in relazione alla rappresentazione (Darstellung) che dei fondamenti religiosi la cultura si dà nel tempo. Senza questa possibilità, non vi può essere un libero apporto metafisico nell’ambito di una stessa comunità morale, e neppure un coinvolgimento attivo delle classi dirigenti a formare ciò che Scheler chiama “l’ethos dell’economia”, che forma il “modello” sociale dominante.107 Ma, scartata l’identificazione col principio sociale e con quello opposto individuale, come riconoscere quello cristiano, “terzo”? Scheler individua alcuni elementi caratteristici dello spirito cristiano di comunità. Il primo, è l’autonomia morale dall’economia e dalla politica, tale da consentirgli l’unione comunitaria libera coi suoi simili. 108 La coappartenenza a un 105

F. Bosio, Op. cit., pag. 197. M. Scheler, LW, pag. 959. 107 Ivi, pag. 961. 108 Ivi, pag. 967. 106

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unico corpo etico-sociale ne evita la “malattia” rappresentata dal socialismo di Stato e dal meschino liberismo economico, che alimenta una insaziabilità possessoria senza limiti, a discapito della necessaria solidarietà dei membri sociali, invocata in opposto eccesso dal potere politico per soggiogare pretestuosamente la libera volontà dei singoli. In realtà lo spirito di avidità è presente in entrambi come risvolti di forme analoghe, da rigettare ambedue, in considerazione del fatto che “l’uomo, già come soggetto di formazione spirituale, di attività linguistica e di cultura, ma soprattutto come soggetto religioso e come membro del corpo di Cristo, sia assolutamente superiore allo Stato, alle leggi poste da esso e a ogni suo possibile ‘intervento’”.109 Sotto la forma infelice, Scheler intende esprimere la priorità morale della persona morale su quella giuridica, ma l’insistenza sulla dicotomia Statoindividuo dimostra la insuperata dialettica, tutta interna al moderno, tra forme idealisticamente pensate come assolute entro le rispettive sfere di universalità. La affermata “superiorità” della persona morale sulla figura giuridica del cittadino o s quella sociologica dell’operatore economico, presuppone un ordine gerarchico, di per sé relativo, e che perciò non può essere inteso come “assoluto”, poiché l’assolutezza non ammettendo alterità genera conflitto: si duo idem faciunt, non est unum. L’assolutezza ecclesiale ha infatti prodotto lo statalismo assoluto, e con esso il conflitto tra Chiesa e Impero e quindi la frantumazione dell’unità imperiale e la nascita degli Stati nazionali, con la relativa frantumazione dell’unità religiosa. Ma l’assolutezza non è solo una condizione di fatto, è primieramente una posizione di pensiero. E nel travaglio di una nuova definizione del fondamento di fede cristiana viene in rilievo la funzione sociale,e dunque pubblica, del ceto intellettuale, chiamato a contribuire alla nuova rappresentazione del mondo di cui l’odierna cultura ha bisogno per rifondare la società post-moderna, disgregata dagli idoli ideologici del tempo della dissoluzione, da cui trasale “sempre più forte ed urgente […] la richiesta di salvezza”.110 Ma salvezza da cosa? Col senno di poi ci è facile rispondere, avente in mente la prossima catastrofe mondiale in cui fu spinta la Germania dal nazismo, ma la posizione di Scheler non era diretta se non in senso lato a prevenire tale disastro mondiale. Tornando alla critica di Marx al riduzionismo borghese dell’uomo civile secondo Hegel, la contestazione riguardava la 109 110

Ivi, pag. 971. Ivi, pag. 981.

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assunzione hegeliana della parzialità per il tutto, ossia sul riduzionismo ontologico. Solo che per Marx, il resto non considerato dell’uomo è la socialità, la sua costituzione di classe. “Il pensiero borghese”, come scrive Lukacs, “considera la vita economica, costantemente e per una necessità essenziale, dal punto di vista del capitalista singolo”, non tenendo cioè conto della “legge naturale onnipotente, sovrapersonale, che muove l’intera sfera del sociale”. Ma nella società capitalistica, “il capitale non è un potere personale, è un potere sociale”, come recita il Manifesto, per cui la proprietà privata e il principio individuale, e “la sua funzione economico-oggettiva” e il relativo principio sociale, “si trovano in un insolubile contrasto dialettico”, che può risolversi solo con l’imposizione della “funzione sociale del capitale” in modo inconsapevole agli stessi possessori di capitali, e quindi “al di sopra delle loro teste ed attraverso le loro volontà”. In altri termini, i limiti del sistema economico, quindi i concreti rapporti sociali, coincidono con i “limiti della coscienza di classe della borghesia”, la cui inconsapevolezza contrasta dialetticamente con il “modo rivoluzionante” tipico del capitalismo, che, diversamente dalle più antiche forme di dominio tradizionali, non lascia intatte le pregresse forme di produzione, ma appunto le rivoluziona. E pertanto, la coscienza di classe borghese “è formalmente rivolta alla consapevolezza economica”, mentre in realtà cresce, col suo dominio, anche la sua “falsa coscienza”, dovuta al divario tra la sua ideologia e la concreta base economica che la produce. “La dialettica di questa coscienza di classe poggia sul contrasto insuperabile tra individuo (capitalistico) – l’individuo secondo lo schema del capitalista singolo – e lo sviluppo necessario ‘per legge di natura’, per principio non dominabile dalla coscienza; essa porta così la teoria e la praxis in un’opposizione incolmabile”, la cui “tensione produce e riproduce un essere gettato tra una ‘falsa’ coesione e la sua lacerazione catastrofica”, il proletariato. 111 Il processo di produzione capitalistica crea un soggetto sociale che è il prodotto storico di una contraddizione tra coscienza di classe e rapporti economici naturali. E’ ovvio che la soluzione socialistica assecondi la tendenza ritenuta necessaria, quella appunto naturale, che costituisce il modello ontologico al quale la coscienza deve conformarsi. Il dualismo dialettico di coscienza e società va per Marx risolto nel senso sociale. E quando si dice “coscienza” si dice persona umana, e non solo individuo 111

G. Lukacs, Geschichte und Klassenbewusstsein (1922), tr. it., Milano, 1978, pagg. 82-84.

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economico; non solo cioè l’uomo percepito ma anche la sua essenza spirituale, che la visuale economica non considera. Il socialismo marxiano costituisce il tipico esempio di riduzionismo ontologico dell’intero umano alla parte ideale, la cui universalità respinge dialetticamente nel negativo la parte spirituale della persona, opposta come in-esistente (Unding). E’ chiaro che una realtà dichiarata “inesistente” è destinata alla trascuratezza in quanto niente. Eppure, è questo supposto ente inesistente ciò che condiziona lo spettro di possibilità della natura, ossia che contrasta la Necessità degli eventi oggettivi, mandando in frantumi il sistema socio-politico razionale, attivando processi resistenziali di libertà alla sua estensiva pretesa di universalità. La libertà non sarebbe che un moto ostativo alla razionalità, una resistenza irrazionale al processo universale, se non fosse qualcosa di essenziale, che è legato all’essere personale rendendolo singolare, ossia unico. E una essenza singolare, che renda la persona umana unica rispetto, non solo alle altre specie viventi, ma anche rispetto ai suoi simili, e che quindi ha un carattere ontologico più profondo della stessa soggettività, non può che essere trascendente. Il “modo” della trascendenza della persona, è la sua maniera di non apparire come l’individuo che è, ma solo di annunciarlo, lasciando nascosta la sua identità individuale.112 L’individualità essenziale di cui parliamo non è una mera differenza individuale (haecceitas), che potrebbe riscontrarsi normalmente anche in ogni cosa, ma è l’essenza caratteristica della persona umana, la quale è tale in quanto il suo essere è insieme trascendente, in quanto indipendente sia dalle determinazioni fattuali che dalla stessa coscienza che ha di sé, e storico, non solo perché situato nel tempo, ma perché, diversamente da ogni altro vissuto naturale, ha una storia, unica e ineguagliabile rispetto a ogni altro vivente e alla storia di ogni altra persona; la storia della coscienza della sua trascendenza. La circostanza che questa sua essenza storica, a seguito della sua trascendenza, non venga culturalmente percepita o politicamente considerata, costituisce la ragione immanente della crisi spirituale che investe sia il singolo individuo, come angoscia, che l’intera società storica, portandola alla sua fine, alla dissoluzione del suo sistema razionale di potere, fondato sull’assolutismo della realtà sensoriale, sulla 112

Ved. R. De Monticelli, La conoscenza personale, Milano, 1998, pagg. 127-128. Da ora CP.

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quale esso stabilisce e regola i rapporti umani, come se la persona umana fosse un qualunque elemento di una delle specie viventi in natura ovvero fosse una cosa. Ma questa credenza o finzione ontologicamente riduttiva, questo als ob, costituisce il lato nascosto della realtà sociale naturale, che Cesare non può dominare, perché è di sostanza appunto trascendente, divina. Proprio in quanto la coscienza umana non è una realtà assoluta, essa necessita di un ri-conoscimento, di una relazione con l’Altro (Fuehlen) che la riveli a se stessa come coscienza personale, non oggettivabile, e perciò relazionale. Non c’è persona senza relazione; ed è la consapevolezza della trascendenza relazionale a costituire il sentimento della dipendenza dell’uomo da Dio, che è l’Altro di tutte le persone. Il problema, che è anche il limite di ogni gnoseologia monistica, è che non esistono due realtà personali, una privata e l’altra pubblica, ma solo due modalità di manifestazione della stessa personalità unica. Una di esse è appunto l’aspetto visibile, decifrabile, controllabile e prevedibile della persona, e perciò razionalizzabile, ossia conducibile al modello astratto di essere sociale; l’altro aspetto, quello invisibile, misterioso, imponderabile e imprevedibile che non è, come tale, controllabile e portabile a ragione. Questo aspetto è ciò che si ama di una persona, perché non a tutti visibile, o che fa paura, perché misterioso e segreto. La divisione tra sfera privata e sfera pubblica nasce dalla necessità del potere sociale di controllare la parte invisibile dell’uomo portando il più possibile in risalto la sua parte visibile, considerando questa naturale quanto l’altra demoniaca (è Ati che agisce in Agamennone geloso di Achille nel portargli via Briseide). Col Cristianesimo, le divinità ritenute ctonie e naturali diventano idoli superstiziosi inventati dall’uomo per nascondere o per ignoranza della vera e unica divinità superna e celeste di Dio. Il ridimensionamento della vita materiale attraverso alla considerazione della superiorità della vita spirituale non è il tratto peculiare della visione dell’uomo cristiana, che risiede invece nel superamento del dualismo cielo / terra, in considerazione di una concezione integrale dell’uomo, per la cui conoscenza è imprescindibile la considerazione della parte mysteriosa e divina della sua personalità. Se il dualismo ingenuo considera le due parti della personalità umana come ontologicamente costitutive di due dimensioni insuperabili, sdoppiando la personalità in interna ed esterna, il monismo non meno ingenuamente tende a ridurre l’una delle due parti all’altra, e quindi a

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portare a coscienza l’inconscio per omologarlo ai dati visibili. 113 In realtà, l’interiorità della parte invisibile è solo figurale, simbolica rispetto all’esteriorità dell’oggetto della vista, è una metafora spaziale 114 ma altrettanto conoscibile quanto l’intenzione manifesta come volontà. In quale modo? Nella relazione con l’Altro. E’ nella relazione con l’Altro che la persona svela la sua individualità nascosta, anzitutto a se stessa. Più propriamente, l’ “incontro” è l’esperienza in cui si annuncia un’individualità essenziale in cui si è aperta e indicata alla persona una via per fare la conoscenza dell’Altro. 115 E poiché l’individualità essenziale è la storia della persona, l’incontro con essa è un viaggio rivelatore tanto del sé che dell’altro. Ciò che rivela l’Altro e si rivela nel Sé personale è il sentimento, che per sé è la manifestazione di Eros, il sentire (Empfinden) l’alterità dell’Altro che tende a condurlo all’orizzonte egoistico del sé, e per l’Altro è il dono di Agape, l’empatia (Einfuehlung) che tende a condurre la soggettività alla dedizione all’Altro, superando il proprio egoismo. Egoismo, cioè la naturale affermazione della propria fisicità e volontà d’essere al mondo. Egoismo è naturalità. Il contrario atteggiamento spiritualistico è l’Altruismo, che è disposizione all’incontro con l’Altro per conoscerlo in quanto “esistenza assoluta” (absolute Daseins).116 Una Weltanschauung incentrata su una rappresentazione del modo egoistico di stare al mondo è destinata più o meno a durare ma inevitabilmente a scontrarsi di fronte alla rivelazione dell’essenza spirituale dell’uomo, che rappresenta il limite ontologico di ogni potere della finitezza, ossia dell’assolutezza dell’economico e del politico. In questo senso, la crisi della cultura europea è l’oblio della rivelazione cristiana sull’essenza spirituale dell’uomo quale individualità trascendente ogni manifestazione sensibile. La coesistenza comunitaria non può basarsi sulla conoscenza personale di ciascuno dei membri del gruppo, restando acquisito che “la conoscenza personale è essenzialmente elettiva”,117 ma essa deve tener conto della modalità relazionale per poter conseguire la condizione comunitaria di 113

“Niente ha recato più danno alla psicologia della tesi che fosse possibile praticarla in analogia con la scienza della natura”: M. Scheler, Die Idole der Selbserkenntnis (1912), tr. it. in Il valore della vita emotiva, Milano, 1999, pag. 105. Da ora IS. 114 R. De Monticelli, CP, pag. 133. 115 Ivi, pag. 134. 116 Ved. M. Scheler, IS, pag. 88. 117 R. De Monticelli, CP, pag. 142.

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cui parlava Scheler. Tale modalità, rispetto a quella imperativa delle norme giuridiche della coesistenza sociale, non è univoca e incentrata sulla superiorità del soggetto potestativo, rispetto al quale tutti i destinatari della norma sono astrattamente uguali, ma è biunivoca ed essenzialmente paritetica,118 poiché è stabilita sul criterio morale della concreta prassi esistenziale della “cura del prossimo” (Besorge). La cura (Sorge) nelle società antiche come in quelle moderne, viene intesa come amministrazione della vita pubblica attraverso l’esercizio del potere di controllo della libertà dei membri sociali, sicché curarsi del prossimo equivale a neutralizzarne la volontà eversiva. Diversamente, la cura in senso cristiano (Besorge) impegna a stabilire con l’Altro una relazione che riveli la sua libertà assumendo la sua individualità essenziale come un valore comunitario, anziché come una potenziale minaccia all’ordine omologato. L’unico modo per relazionarsi con l’Altro al fine di poterlo conoscere, senza necessariamente conoscerlo di fatto, ma soprattutto senza l’intento di soverchiarlo, è di stabilire con lui una comunanza di parola, diversa da una logica del discorso, in quanto ciò che l’incontro rivela non è la verità necessaria, stabilita dalla esclusione di quanto negativamente vi si oppone, ossia dell’opinione antitetica dell’Altro, bensì la verità possibile, stabilita attraverso la concreta modalità relazionale della propria con la parola dell’Altro. In tal senso, la verità possibile è sempre la verità dell’Altro, poiché è nella relazione con l’Altro che noi l’acquisiamo come nostra, come verità comune. Un Potere che non domina l’Altro ma si offre al suo ascolto, esponendosi alla possibilità di esaudirlo acquisendo la sua storia, stabilisce una relazione dialogica fondata sull’incontro della parola, anziché sulla forza. La parola, invece della forza, del Signore dà la misura della kenosis divina, quale modello comunitario di convivenza umana, che rinnega l’ethos della forza.119 Il vantaggio che offre la superiorità della forza è la paura esercitata sul debole a deterrenza di ogni illusione. Ma poiché è la relazione di forza a far scaturire la paura, è il suo venir meno che estingue con sé anche la relativa sicurezza. Memorabile la vicenda del Griso manzoniano che deruba il suo padrone appestato 118

Ivi, pagg. 144. Si ricorda che ogni intenzione di conoscere l’Altro anziché combatterlo si basa sulla sua conoscenza, sulla conoscenza del suo pensiero. Questo vale anche per le civiltà, tant’è che gli eruditi umanisti pacifisti si adoperarono a tradurre le opere della cultura allotria per conoscerla e stabilire eventuali comunanze di fede. 119

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lasciando don Rodrigo di fronte alla sua impotenza. Meno poetiche anche se non meno tragiche le cadute dei dittatori, la cui disgrazia politica si tramuta in un rancore dei sudditi proporzionale alla loro antica paura. La loro fine cruenta e sempre miserabile è il risvolto beffardo della originaria esaltazione. Il vantaggio che invece offre la parola è la verità, che è dell’Altro ma che è anche la nostra. Il controcanto è la delusione, l’errore, l’inganno della falsa conoscenza, che è il rischio al quale inevitabilmente esponiamo i nostri sentimenti altruistici, facendone “il luogo di tutti gli errori e di tutte le illusioni”.120 Ma è proprio nella fallibilità della conoscenza personale che risiede il dono dell’altruismo, che sostanzia anche il Beruf della ricerca intellettuale e scientifica, sempre fallibile e che perciò produce scienza ma non vera conoscenza. Questa, infatti, non ha la certezza del calcolo ma l’intuizione della totalità, che soltanto nell’individuo personale si dà come unità concreta, e non come astratta proiezione ideale. La imperfezione di tale intuizione riposa nella condizione di storicità della manifestazione personale, nel carattere cioè in fieri dell’esistenza singolare, nella stessa libertà delle sue determinazioni morali. Questo ci porta a considerare che la storia personale non è costituita dei soli atti visibili, e che ogni atto che conduce alla oggettività manifesta di un fatto cela una realtà recondita che è l’intenzione dell’attore. Per essa non dobbiamo intendere il vero proponimento non manifestato, inteso come un progetto occulto, ma la verità che resta un mistero finquando non si riveli nella relazione con l’Altro. La ragione per la quale molte relazioni personali entrano in crisi, come ben sapeva Dante,121 a seguito della assidua frequentazione, è legata alla conoscenza reciproca delle parti, che si conoscono attraverso la relazione stessa. La conoscenza dell’Altro è privilegiata dal punto di vista visivo, dal momento che l’Io non si guarda, non si percepisce come presenza. Ma l’idea che la presenza stessa sia decisiva ai fini della conoscenza deriva dal privilegio che la vista ha avuto sin dagli albori della metafisica in relazione alla proiezione della realtà fenomenica e sensibile in realtà ideale, immaginata dall’estetica della mente. in realtà, è nella ri-flessione dei dati visivi che la coscienza opera i suoi giudizi, liberando quei dati dal loro contesto sensibile, dalla “conoscenza di fuori”, per sottoporli allo 120 121

R. De Monticelli, CP, pag. 145. Dante, Convivio, cap. III.

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sguardo degli “occhi della ragione”.122 Ciò vuol dire che l’introspezione riflessiva cerca di cogliere, dietro l’apparenza, la sotterranea movenza dello spirito personale, che si cela alla vista e che costituisce l’aspetto interessante della persona, perché invisibile. E dunque “conoscere” vuol dire penetrare quell’intima realtà e portarla alla luce del nostro sguardo interiore, il quale può attivarsi in ragione della presenza dell’Altro. Quale ragione attiva l’Altro con la sua presenza? La ragione appunto dell’Altro, la sua essenza individuale. Comprendiamo cosa sia la “essenza razionale” della persona quando siamo in grado di trascriverla in termini di storia del suo vissuto. Soltanto la ragione interiore della persona è il contenuto della sua storia individuale, la storia di una vicenda esistenziale che può narrarsi in parole. E’ la narrazione ciò che rende possibile la memoria della storia individuale, ciò che la rende partecipabile a ogni Altro, e dunque a renderla esperienza comune. Non è dunque la presenza sensibile a prendere possibile la conoscenza della persona, ma la sua rappresentabilità in parole. Si obietterà che si può rappresentare qualcuno anche dipingendone un ritratto o foggiandone una statua. Vero, ma l’immagine che ne abbiamo non è una vera conoscenza, ma una cifra evocativa della sua presenza. Non è un caso che le opere umane, dal gesto alla statua, necessitino d’interpretazione, cioè di trascrizione in parole, e insomma di un racconto di senso razionale, cioè comprensibile all’Altro, che poi è ogni Me rispetto al protagonista Altro-da-me di cui tratta la storia. Questo protagonista che per tutti è un Altro-da-me è l’eroe del Mito, la figura rappresentativa di una storia comune, di un narrato: mythos, appunto. In che rapporto sta il narrato mitico coi suoi contenuti mito-logici? Per rispondere ricorriamo all’analisi semiologica di Barthes. Secondo Barthes, il Mito “è un sistema di comunicazione, è un messaggio”, un “modo di comunicare, di significare, una forma”, e poiché “il mito è una parola, può essere mito tutto ciò che subisce la leggi di un discorso”.123 Il carattere fondamentalmente storico del mito gli deriva dal fatto di essere “una parola scelta dalla storia [dell’uomo, e] non può sorgere dalla ‘natura’ delle cose”; è infatti “la storia umana che fa passare il reale allo stato di parola, ed essa sola regola la vita e la morte 122

Dante, Convivio, cap. IV. R. Barthes, Mythologies (1957), tr. it., Miti d’oggi, Milano, 2004, pag. 191. Da ora MdO. 123

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del linguaggio mitico”.124 Barthes intende dire che l’avvenimenzialità dell’agire umano è il prius della sua trascrizione in parola narrata, il suo contenuto stilizzato in parole, che sono segni. Il linguaggio mitico è una “unità o sintesi significativa”, da qui l’attinenza del mito alla semiologia, alla scienza dei significati dei segni, cioè del loro “valore” formale, “indipendentemente dal loro contenuto”.125 [Essa stabilisce quindi una equivalenza tra un significante e un significato, tra i cui termini si pone il segno di correlazione che li unisce funzionalmente in un “totale associativo”.126 Nel caso del Mito, la “catena semiologica” non è originaria ma “preesistente” e perciò esso è “un sistema semiologico secondo”, per cui “ciò che è segno (cioè totale associativo di un concetto e di un’immagine) nel primo sistema, nel secondo diventa semplice significante, [sicché] i materiali della parola mitica”, per quanto eterogenei originariamente, “si riconducono a una pura funzione significante: il mito non vi vede che un’identica materia prima; la loro unità sta nel fatto che sono ridotti, tutti, al semplice statuto del linguaggio”.127 Dal linguaggio primo, o “linguaggio-oggetto”, il mito secondo Barthes costruisce il proprio sistema semiologico, o “metalinguaggio”, in cui “si parla del primo”.128 Mentre il significato è lo stesso “concetto” per entrambi i linguaggi, ciò che il significante, cioè il senso, è termine finale del primo linguaggio, diventa il termine iniziale, o “forma”, del secondo linguaggio. Quanto al segno di correlazione fra significante e significato, nel caso del Mito Barthes lo chiama “significazione”, poiché in esso ha una “doppia funzione: designa e notifica, fa capire e impone”. 129 In altri termini, ha un valore denotativo e insieme pedagogico. Ma cos’è tale “forma”? Come opera il Mito? Il senso de discorso è il risultato di un “sapere”, cioè di un orizzonte storico-culturale che “svapora”, “si svuota”, lasciando la sola “lettera”. Barthes la chiama “regressione dal senso alla forma, dal segno linguistico al significante mitico”.130 Il “sistema di valori” che caratterizzava il senso 124

Ivi, pag. 192. Ivi, pag. 193. 126 Ivi, pag. 195. 127 Ivi, pag. 196. 128 Ivi, pag. 197. 129 Ivi, pag. 199. 130 Ivi, pag. 199. 125

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originario, si svuota del suo orizzonte culturale e storico, per ridursi a mera “forma” estetica, al guscio vuoto del fenomeno in sé, a mera espressione simbolica che ha perduto il suo significato ideale, cioè la sua memoria, la sua pienezza valoriale. Perciò il segno si presta a essere oggetto della rielaborazione mitica. Il senso concreto deve diventare astratto per poter essere fruito da un nuovo utilizzo mitico. Il passaggio da un orizzonte di senso a un altro puramente formale stabilisce una sorta di estetizzazione del simbolo significante, in puro manufatto, un’apparenza inespressiva di senso, muta di significato, in cui “la creatività dello spirito è bloccata dall’inerzia della materia”, che “umilia” la parola.131 Ma questo degrado semiotico è ontologico oltre che semantico, poiché astrae dall’esse dell’esistente, riducendolo a puro ente. Come dice Barthes, “contrariamente alla forma il concetto non è per nulla astratto, bensì pieno di una situazione”,132 che però viene a perdersi nella appropriazione mitica. Ciò significa che mitizzare significa rendere insignificante il senso determinato culturalmente dalla sua ragione. Tale indeterminazione è simile alla riduzione a merce del lavoro e della riduzione sociologica dell’uomo a operatore economico di cui parlava Marx, e più in generale della riduzione dell’Essere ad ente di cui parlava Heidegger. L’esistenza spogliata del suo senso trascendente e del suo valore integrale e ridotta a res fungibile: da “presenza” ad “apparenza” cosale. Nel caso del Mito, la res è il signum della parola, ma la reductio ontologica è la stessa. Attribuire valore di realtà a questo pro-dotto ridotto, equivale a tradurre ogni valore alla sua fattualità oggettiva, alla sua realtà fenomenica, esteticamente pre-razionale. La rappresentazione mitica della realtà è la riduzione a racconto di una storia dotata di senso razionale, e proprio perciò essa è regressiva rispetto alla rappresentazione razionale, ma anche in sé propedeutica ad essa, poiché richiede che venga dotata di senso mito-logico. Questa richiesta di senso è il carattere dell’alterità necessaria alla conoscenza di ogni sé da parte dell’Altro, che rispetto alla datità di ciò-che-é apparente (il fenomeno) costituisce la coscienza comune, di ciò che quella datità rappresenta per entrambi. L’aspetto degradante del Mito è la sua intransitività, ossia la sua permanenza nel dato segnico, senza passare al significato storico. Tale permanenza allo 131 132

R. De Monticelli, CP, pag. 151. R. Barthes, MdO, pag. 200.

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stadio sensibile o naturale, che è il livello di coscienza di ciò che Dante chiama la “puerizia d’animo”, non consente di cogliere dietro la “apparenza” la sua “presenza personale”, che non è visibile ma trascendente le manifestazioni della vita materiale. Ora ci è chiaro il senso relazionale di tale trascendenza, che rimanda per il suo senso spirituale all’Altro, a quella significazione ultronea che la mera rappresentazione mitica della datità non offre, se non come materiale di elaborazione razionale, come contenuto mito-logico. Ma non è questa riduzione ontologica all’apparenza materiale e sensibile il senso stesso dell’economicismo liberistico e socialistico di cui parlava Scheler? E non è forse questa regressione mitica il processo rivoluzionario messo in opera dal sistema capitalistico di cui parlava Marx? Esse producono entrambe la cosalizzazione universale, la riduzione del tutto a pura apparenza, che non sarebbe possibile senza la riduzione ontologica alla mera esistenza ontica. “In questo senso”, aggiunge Barthes, “si può dire che il carattere fondamentale del concetto mitico è di essere appropriato”, cioè derivato da ciò che era originariamente. Infatti, “più che il reale, si investe nel concetto una certa conoscenza del reale; passando dal senso alla forma l’immagine perde in sapere […]. Di fatto, il sapere contenuto nel concetto mitico è un sapere confuso, formato da associazioni incerte, indefinite”, che ne stabiliscono il suo “carattere aperto” e “informe, instabile, nebuloso”. 133 Cioè fruibile per altra determinazione, a contenuto di altra forma. La “società aperta” non ricalca forse l’indeterminatezza delle opinioni e delle volontà, propria dell’orizzonte di coscienza mitico in cui vive l’uomo contemporaneo? E non è questo forse il senso essenziale dell’appropriazione ideale della realtà, della volontà dominatrice del concetto universale: ridurre l’Altroda-sé a oggetto del Sé? Così opera infatti la logica del razionalismo assoluto, liberatosi della relazione con l’Altro trascendente, con l’Infinità divina dello spirito negato alla persona dalla pretesa uni-versalistica di un sapere calcolante privo di conoscenza, che riduce la storia dell’uomo a mero racconto esistenziale, a vicenda mitica. La mitizzazione moderna di un dato storico consiste nella trascrizione di tale dato in termini razionali, tali da confermarlo come se fosse un dato originario, creato dall’uomo e disponibile al suo libero rifacimento. Il Mito di cui parla Barthes è l’operazione intellettuale di una ermeneutica della memoria che assegna alla volontà di ragione, ossia alla decisione, il 133

R. Barthes, MdO, pag. 201.

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fondamento del suo stesso discorso ri-strutturante. Ma questo è il récit mitico operato dal Logos, ossia è la narrazione mito-logica che costituisce il senso del discorso, il suo significato, storicizzato; non è il Mythos originario, la cui parola, proprio in quanto arcaica, non è umana ma è “un racconto venuto dalla notte dei tempi” e solo tramandato dal narratore come memoria impersonale che la tradizione orale ha reso collettiva. 134 La natura del Mito arcaico è tale da non consentirne resoconti liberi dalla sua tradizione e snaturanti il senso originario della sua narrazione, consegnato alla narrazione stessa, ossia alla parola, anteriore a ogni interpretazione razionale, sia religiosa, filosofica o politica. Esattamente questa natura originaria fa del Mito il limite di ogni possibile interpretazione razionale che lo trans-formi in pro-dotto dell’intelligenza creativa dell’uomo. Il Mito rappresentava la prerogativa degli dèi all’uso della parola conforme al linguaggio divino, polisemico e indeterminato, proprio perché meta-critico, che andava oltre ogni interpretazione razionale, dell’intelligenza umana, e perciò simbolico e arcano, fornito di una pienezza di significato tutt’altra da ogni astrazione intellettuale che non eliminava il doppio, l’opposto, ma anzi lo evocava a ogni determinazione, a cui sfuggiva quella pienezza originaria invano inseguita. Da qui l’esito aporetico di ogni resoconto interpretativo fornito dalla descrizione filosofica, e la conseguente necessità di rimuoverlo attraverso il sacrificio ontologico operato dal Logos filiale nei confronti del Mythos paterno. La lotta condotta dalla filosofia razionalistica alla narrazione mitica si inscrive in questa istanza liberatoria della ragione umana dal vincolo originario al divino. La parola, liberata dalla sua origine eterna, diventa moderna, coerente cioè alle vicende del mondo in divenire, a ciò che passa come l’esistenza stessa dei mortali. La libertà dei moderni, rendendo astratto il significante lo ingloba nel significato, che resta uno a fronte dei molteplici significanti, per cui la rappresentazione mitica ha a sua disposizione una massa illimitata di significanti […]. Ciò vuol dire che quantitativamente il concetto [mitico] è assai più povero del significante [e che] dalla forma al concetto, povertà e ricchezza sono inversamente proporzionali: alla povertà qualitativa della forma, corrisponde una ricchezza 134

J.-P. Vernant, L’univers, les dieux, les hommes. Récits grecs des origines, Paris, 1990, pag. 10; tr. it., Torino, 2000.

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del concetto aperto alla Storia intera; e all’abbondanza quantitativa delle forme corrisponde un numero limitato di concetti”.135

Sciacca definisce “legittima” la “esigenza di ridurre la molteplicità delle cose all’unità concettuale dell’idea”, e definisce di contro “illegittima” la pretesa di passare “all’unità ontologica dell’essere reale”. 136 Ma proprio questa pretesa ontologica costituisce il carattere mitico del razionalismo moderno, che assume come reale il solo dato della coscienza assoluta, del suo oggetto uni-versale, “scientifico”. Infatti, se è possibile considerare reale, cioè vera, l’unità ideale del concetto, non si può considerare reale anche l’unità ontologica; a meno che le due unità siano diverse in relazione alla verità, e dunque relative e non assolute e universali. Entrambe vere o false. Infatti, la differenza tra le due unità, l’ideale e l’ontologica, è apparente, poiché la prima è determinabile per astrazione, astraendo cioè dalla concretezza della realtà molteplice, considerata naturalisticamente falsa (e dunque l’unità ottenuta a prezzo della concretezza, non può che essere falsa, perché convenzionale e non necessaria, cioè incontrovertibile), mentre la seconda unità, quella ontologica, è impossibile senza la prima, e dunque derivata, anche se posta come originaria. La credenza ontologica monistica è di tipo idealistico, derivata dalla riduzione a forma dei contenuti concreti dell’esistenza molteplice. Ed è questo Mito onto-logico che il Cristianesimo ha svelato, rappresentando la vera unità solo come personale, riservata alla singolarità assoluta dell’uomo, e non ideale o naturale. Questa singolarità è una storia personale, che non può essere rappresentata in forma mitica, perché i suoi contenuti di esistenza non possono essere universalizzati, in quanto nella concreta realtà esistenziale dell’uomo il significante (il racconto) e il significato (il senso razionale) coincidono nell’unità concreta della sua realtà singolare, che è trascendente e cioè spirituale. Ogni altra unità è solo formale, “mitica”, così come sono mito-logiche le conseguenti elaborazioni razionali che ne dipendono. In questa forma mito-logica si è sviluppato il sapere metafisico a partire dalla filosofia greca. L’ipotesi unitaria (universalismo) o monistica procede per riduzione del molteplice concreto 135

Ivi, pagg. 201-202. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, Milano, 1962, vol. II, pagg. 51-52. da ora FM. 136

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all’Uno concettuale, da cui deriva il dominio ontico del razionalismo naturalistico. La riduzione del Tutto all’Uno è infatti un processo propriamente razionalistico con cui l’Essere molteplice viene ridotto all’Idea dell’essere, per astrazione. L’idealismo trasferisce nell’Essere l’unità dell’Idea, facendo del concetto dell’Essere l’Uno, cioè l’Idea dell’Essere. Sostituire all’Essere (molteplice) l’Idea dell’Essere (Uno) significa fare della realtà l’oggetto del Logos, inteso come ‘attività del Cogito, indicando come “progresso” o “civiltà” o “Repubblica” il processo di razionalizzazione del mondo, ossia alla sua riduzione ad oggetto della Ragione omologante, che funge da sostanza universale di tutte le cose (varie e molteplici). L’Essere ridotto ad Idea equivale alla storia ridotta a parola formale, a Mito o racconto avvenimenziale di vissuti paradigmatici astratti da ogni contesto spazio-temporale, tali da poter essere fruiti come simboli di indeterminata significazione. Questa riduzione ontologica dell’Essere alla sua Idea è una rappresentazione (Darstellung) della realtà il cui analogon razionale si costituisce come l’antitesi ontica al ni-ente. Ma in realtà la negazione dell’altro-da-sé operata da tale posizione tetica non interessa l’alterità logica, poiché il niente ideale opposto all’ente razionale può anche sussistere come l’eteron avente una sua distinta positività ontica, ma interessa l’alterità della Differenza, la cui negazione di realtà si determina come dominio della coscienza assoluta, che si manifesta come potere di riduzione da parte del Soggetto trascendentale della realtà molteplice a fenomeno, cioè a manifestazione oggettiva dell’Idea, che è l’universalità del finito. La dynamis dell’Idea, cioè la sua fenomenologia, è fonte di legittimità del potere della soggettività empirica, poiché sul cui principio d’essere la filosofia occidentale, da Aristotile a Hegel, ha costruito come unità politica la convivenza sociale delle relazioni tra soggetti umani, in lotta per l’affermazione di sé. Ed è tale tensione affermativa del sé razionale che il pensiero della finitezza ha chiamato “libertà”. La libertà in senso razionalistico è il processo mito-logico della coscienza assoluta, la cui rappresentazione ontologica è mitica, poiché gli enti concreti sono molteplici in quanto l’Essere è molteplice in sé, è Differente in sé. Il Molteplice, dunque, ossia la realtà, non procede dall’Uno, cioè dall’Idea dell’Essere, ma per Differenza, sicché l’Idea dell’essere (il Logos) non è il Principio (arché) del processo reale, storico-mondano, empirico-fenomenico, ma ne è la sostituzione formale, 55


la riduzione mitica dell’inizio vero con l’inizio ideo-logico. Se infatti all’inizio c’è il Verbo, il Verbo non è (solo) il Dio innominabile e ineffabile (come per l’ebraismo), ma il Dio incarnato in Cristo, che si fa Parola, nel cui dualismo di Padre e Figlio si manifesta la Differenza tra Infinito e finito spiritualmente congiunti nella Trinità ipostatica. L’assunzione nel Cristianesimo della realtà come prodotto della Creazione divina, impedisce la riduzione onto-logica della Differenza al monismo della finitezza, ossia all’idealizzazione razionalistica del mondo. Nella coscienza cristiana, Dio, attraverso l’Incarnazione cristica, non è solo coscienza in atto (lo hegeliano Gott im Werden), come ancora pensava Gentile, ma è anche coscienza attuata; ossia, non è solo “spirito assoluto”, ma anche “spirito concreto”, Verbo incarnato.137 La sostituzione arcaica (relativa all’arché) del pensiero umano al Verbo divino è all’origine dell’idolatria delle culture pagane, le quali hanno sostituito alla Verità, che è la storia spirituale di Cristo, una rappresentazione mitica: l’Idea ipostatica di Dio. Ciò che non diviene, non è l’Idea di Dio, il suo simulacro idealistico, ma l’essenza trascendente la finitezza, che appunto diviene. Il divenire di Dio come processo storico del Geist, hegelianamente, riduce la vicenda escatologica di Cristo a una storia idealizzata, resa logicamente universale, facendo così della Sua divinità una qualità trascendentale (Bontà, Bellezza, Giustizia, etc.), pervenendo razionalisticamente a negare la Differenza tra ciò che è assoluto, e pertiene a Dio, e ciò che diviene possibile all’uomo, ossia la differenza tra l’Infinità divina e la finitezza umana, attribuendo all’uomo (alla sua coscienza) la libertà assoluta (dalla finitezza, e dunque l’infinita possibilità) che è propria della sola realtà di Dio. Rendendo ogni uomo assolutamente libero, il limite di tale libertà umana la si può ravvedere soltanto nella libertà dell’Altro, che diventa il fratello-nemico, colui non da amare ma da negare per affermare il proprio Sé erotico. La Persona di Cristo non è l’essere finito, che sta al cospetto del Dio trascendente come l’oggetto di pensiero sta di fronte alla coscienza trascendentale, poiché la personalità sarebbe inconciliabile con l’infinità di Dio (Strauss),138 ma è l’essere compiuto, il Verbo incarnato, in cui coesistono l’Eterno e il tempo, il Me e il Tu. E poiché “un Dio impersonale 137 138

Ved. M.F. Sciacca, FM, vol. II, cit., pag. 58. M.F. Sciacca, FM, pag. 31.

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è un’astrazione (la Natura, l’Umanità)”,139 il Dio personale è la forma riempita del Suo contenuto reale, il Verbo divenuto Parola, storia spirituale, non riducibile perciò a Mito se non trasvalutandolo idealisticamente come evento fideistico e non escatologico. Ipotizziamo un uomo educato in modo rigorosamente razionalistico, che non avesse in precedenza avuto alcuna conoscenza del Cristianesimo. Costui si sentirà spinto inevitabilmente a spiegarsi l’apparizione del Cristianesimo stesso proprio nel mondo,e non altrimenti, in cui egli doveva sentirsi spinto a spiegare la Mitologia, perché questa difficilmente gli riuscirà più estranea di quello. Ora, però, tra i due si presenta la significativa differenza: relativamente alle rappresentazioni mitologiche non c’è nulla di storico, se non appunto che esse in un certo tempo sono state credute, tenute per vere tra certi popoli. Ma noi non troviamo nessun motivo per attribuire alle persone che sono oggetto di queste rappresentazioni una verità storica. Se anche, per il motivo che quelle persone che agiscono nel processo mitologico non sono semplici rappresentazioni, ma realmente le potenze teogoniche, se anche per questo motivo noi riconosciamo teofanie reali tra i Pagani, gli dèi non diventano con questo persone storiche. Cristo, invece, non è una semplice apparizione: egli è vissuto come ogni altro uomo, è nato ed è morto, e la sua esistenza storica è garantita tanto quanto quella di ogni altra persona storica.140

Il Cristo-Mediatore vive il rapporto Dio-uomo, non lo stabilisce per posizione ideale. la Sua mediazione è esistenziale, vita vissuta, Storia, non realtà immaginata, proiezione ideale. E perciò la Sua parola non è narrazione mitica, ma è intrisa di verità trascendente, in quanto Egli si fa testimone di Sé nell’incontro con l’Altro, che in Gesù è Dio stesso. La compiutezza divina diventa compito per l’uomo, imitatio Christi. Ciò è reso possibile non in considerazione della rappresentazione dell’Evento cristico come mera narrazione, ma come storia compiuta, dotata di senso escatologico. Non c’è un dio lontano a fronte della realtà umana, ma Dio nell’uomo, che si fa storia sacra. Non il Dio ebraico o platonico, che abita cieli iperuranei, ma coscienza che storicamente diventa consapevole della sostanza divina. Lo diventa nell’esperienza dell’incontro con l’Altro, come occasione di conoscenza. In tal senso, la sostanza umana è 139

Ivi, pag. 58. F.W.J. Schelling, Philosophie der Offenbarung (1841-42), Lez. 33, tr. it., Milano, 2014, pag. 1261. 140

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razionale: la storia personale è spiritualmente significativa. Nell’Altro la coscienza trova la coscienza divina che è in sé, attraverso la capacità del sentimento agapico, che nel rapporto biunivoco, inter-personale, prende coscienza della finitudine del sé umano e della infinità di Dio. La coscienza vera, che colma di senso spirituale la rappresentazione narrativa del vissuto umano, è coscienza della Differenza, o è falsa coscienza. L’idea di Dio è razionalismo, alienazione nell’Idolum. Il suo rovesciamento è il materialismo: tutto spirito ovvero tutta carne. Se, come dice Feuerbach, l’uomo è un “corpo cosciente”,141 è cosciente della Differenza. Se infatti è cosciente di sé nell’Altro, e dunque della sua finitezza, non può non essere cosciente di ciò che la trascende. La rimozione della coscienza del trascendente fa della vita una esistenza infelice, destinata alla morte, non libera ma fatale, naturale. Feuerbach, criticando la religione (la regola,la norma, la legge, il culto, la liturgia, e insomma l’Idea di Dio), critica indirettamente la gnosi idealistica. Il razionalismo moderno, che idealizza l’uomo – individuale o sociale senza conservarne più la coscienza della sua integralità, è una regressione rispetto alla coscienza cristiana della Differenza, che spinge il riduzionismo ontologico della finitezza a uniformare l’umanità come specie alle altre specie naturali. La supposta de-mitizzazione è in realtà una mitizzazione della Storia sacra in mera narrazione fabulistica, che fa sì che il “discorso su Dio non sia che un discorso sull’uomo, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza, facendone perciò una rappresentazione ideale, un Mito. Se l’uomo crede a tale rappresentazione, non crede al vero Dio, alla veritas in interiore, ma a un idolum tribus, un analogon identificato con la rappresentazione mitica del proprio Sé assoluto, premessa idolatrica all’ateismo. Infatti, “se il fatto religioso dipende da una particolare situazione umana e dura fino a quando essa non evolve, cessata o trasformatasi, l’uomo cessa di pensare a Dio e di essere religioso”. 142 Che è quanto avvenuto modernamente, quando l’ateismo pratico è la condizione esistenziale dell’uomo post-cristiano. Ma non si è detto che “l’ateismo pratico è conseguenza di quello teoretico”? 143 La radice dunque 141

L. Feuerbech, L’essenza dell’uomo (1841), tr. it. in Opere a cura di C. Cesa, Bari, 1965, pagg. 179-192. 142 M.F. Sciacca, FM, vol. II, pag. 64. 143 Ivi, pag. 17.

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dell’ateismo è l’idealismo razionalistico, la riduzione dell’Essere a concetto universale, a Idea dell’ente, a Logos. Il capovolgimento di tale astratta rappresentazione idealistica è la prassi della sociologia, il fare, la dinamica del lavoro entro la società e i suoi rapporti tra gli individui e le classi in competizione: l’homo oeconomicus del liberismo e del marxismo, che è l’idealismo visto dalla terra. Per Marx, L’essere dell’uomo si attua nella natura, ma questa ha essenza umana solo per l’uomo sociale, in quanto soltanto nella società diventa legame che unisce gli uomini tra loro. In quest’ultimasi compie l’integrale naturalismo dell’uomo e l’integrale umanesimo della natura: non la dialettica hegeliana dell’Idea, ma quella uomo-natura, singolo-società. La storia non è il divenire dell’Idea o della Ragione, ma quello della natura attraverso il lavoro dell’uomo; non la dialettica di compimento dello Spirito assoluto nella Filosofia, ma quella di compimento dell’uomo-natura nella Società socialista.144

Il marxismo, capovolgendo l’idealismo, segna il pieno ritorno al naturalismo greco del pensiero europeo. L’ateismo moderno è già annunciato nell’Eutifrone platonico, ma si realizza non come pensiero del filosofo ma come mentalità comune, come cultura di massa, che consiste nel grandioso esercizio di semplificazione del mondo in pochi schemi intellettuali, apparentemente chiarificatori dell’esistenza, molto più prossimi a formule magiche razionalizzate che a vere e proprie teorie. 145 Il Cristianesimo storico, inserendo la logica esclusivista nella teologia, ha diffuso i germi dell’ateismo nella cultura religiosa e in quella comune, idealistica, inverando il razionalismo greco, naturalistico e pagano. L’ateismo moderno non nega il Dio cristiano, ma la sua rappresentazione razionalistica, il suo Dòkema: la Chiesa come istituzione politica anziché 144

Ivi, pag. 65. “Nel corso dell’Ottocento, in seguito alla nascita della letteratura di massa, cominciarono ad apparire opuscoli che diffondevano le teorie scientifiche. Indipendentemente dal valore di queste teorie, bisogna constatare che una volta assunte forme volgarizzate esse divennero qualcosa di diverso rispetto a quando erano parte del campo della ricerca scientifica. […] Ciò che contraddistingue il sapere volgarizzato è la sensazione che tutto sia comprensibile e chiaro. […] Secoli di storia dell’umanità colmi di migliaia di avvenimenti intricati sono così ricondotti a pochi termini quanto mai generici”: Czeslaw Milosz, La mente prigioniera (1953), Milano, 20123, pagg. 236 e 237. 145

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come comunità di fede. La tesi di Feuerbach, per cui la materia è il primo ontologico, è il risvolto ontico della tesi opposta dell’idealismo, per il quale il primo ontologico è l’Idea. Entrambe le posizioni riducono ad unità assoluta la Differenza. Lo stesso vale per il rapporto tra Spirito hegeliano e realtà economica marxiana. Sono due monismi, l’uno rispecchiamento dell’altro. Asserire che “Dio è verità razionale [ma non] pura nozione concettuale esprimente l’esigenza dell’Unità o dell’Assoluto, della Legge di natura o della Causa fisica, in quanto la ragione è chiamata a dare fondamento razionale al Dio della religione, non a dimostrare l’esistenza di un ente”,146 significa non cogliere la portata dissolutoria della questione metafisica, poiché il compito di dare “fondamento razionale al Dio della religione”, è assegnato alla filosofia, la cui veridicità è legata al suo fondamento ontologico naturalistico e razionalistico, che pone l’Essere all’inizio, e lo identifica col Logos. Fondamento religioso ma non di fede cristiana. Il fondamento cristiano, infatti, è l’Amore, cioè la co-esistenza della Differenza nel tutto della Persona, anzitutto divina (Cristo) e dunque umana per analogia. Proprio questo compito che la theo-logia assegna alla ragione conduce ad “adorare, pregare, invocare, amare l’Idea”, 147 intesa come rappresentazione razionale di Dio, come analogon mitico. La teologia lo chiama Dio, le religioni secolari Umanità, Progresso, Storia, ma sono nomi diversi dati alla stessa forma concettuale universale, essenzialmente idolatrica e umanistica, in una parola: mitica. In realtà, è l’Amore, e non il concetto, che consente la conoscenza, per cui “ogni conoscenza di Dio è conoscenza per mezzo di Dio; non la creatura Lo conosce, ma Egli si fa conoscere rivelandosi. L’enigma del mondo naturale e umano rimanda al Mistero Divino”.148 Come affermava Agostino, “il pensare implica l’essere e il vivere”. 149 Non si può pensare senza essere e vivere, perciò l’essere è la condizione originaria della finitezza, a partire dalla quale muove il pensiero. “Il soggetto pensante, che come tale implica nell’ordine naturale l’essere e il vivere, è quel dato reale che, nella sua interezza di organismo e pensiero, di materia e spirito, 146

M.F. Sciacca, FM, vol. II, pag. 75. Ibidem. 148 Ivi, pag. 85. 149 Agostino, De libero arbitrio. Sul rapporto grazia-libertà, ved. A. Trapè, S. Agostino, Introduzione alla dottrina della grazia, vol. II, Grazia e Libertà, Roma, 1990, pagg. 47-98. 147

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è ciò che sono le altre cose non pensanti, essere e vita, più quello che non sono, pensiero”.150 L’interezza della persona, oltre a tutti gli elementi essenziali della realtà finita, possiede la coscienza di Dio, le “ragioni del cuore”, che non sono identificabili con la facoltà raziocinante, e che segnano della finitezza il Limite all’Infinito, cioè la soglia della Differenza. Da qui il Mistero della libertà umana, che può appagarsi di sé, respingendo od obliando la coscienza di Dio. Proprio la consapevolezza della finitudine della ragione umana ha circoscritto la sua “verità” entro l’orizzonte fenomenico, facendo della ragione la conoscenza del mondo naturale. Se il fondamento metafisico è l’Essere, cioè il Logos, allora l’esito è quello che conduce alla scienza, al sistema autoreferenziale. La Verità non è una “nozione”, è una coscienza: la coscienza della Differenza, che Gesù ha chiamato “fede”. La Verità non èla conoscenza della realtà finita: questa è scienza. La Verità non è un concetto, ma una coscienza intuitiva di fede: che il valore assegnato alla ragione finita deriva dalla Differenza dalla realtà che la trascende. E se abbiamo coscienza che “il senso assoluto del reale che cerchiamo scoprire non può essere immanente alla stessa realtà finita”, 151 ma è trascendente, allora la ragione non può conoscere la Verità, ma solo il limite della sua finitezza. Ciò confuta ogni pretesa di assolutezza assegnata alla coscienza del Cogito. L’Essere, astratto dall’esistenza concreta, da ciò che semplicemente sussiste, come le cose, da ciò che vive, come piante e animali, e da ciò che si vive, come le persone umane, diventa l’Idea di ciò-che-è, l’essenza dell’ente. Ma ciò che è presente al pensiero come suo oggetto, non può comprendere la presenza umana alla stregua di ogni altro ente, di ogni altra apparenza fenomenica, poiché la presenza non è tutto l’uomo, ma è soltanto la manifestazione della sua volontà, la parte visibile della sua storia. E proprio perciò, per la parzialità e incompletezza, l’uomo non può essere giudicato per le sue azioni, ma solo conosciuto per la sua storia. le azioni umane, astratte dalla storia di chi le compie, diventano meri fatti naturalistici, che tralasciano la considerazione della loro ragione spirituale, legata, non già a una categoria ideale, ma alla personale rappresentazione della realtà, propria del soggetto che le pone in essere. Che tali fatti siano considerati assoluti, aventi in sé la loro ragione, è un altro modo per mistificarne il significato, spacciandoli per azioni divine, 150 151

M.F. Sciacca, FM, vol. II, pag. 97. Ivi, pag. 105.

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poiché è solo di Dio l’atto puro, mentre dell’uomo imperfetto è l’agire in fieri, che appunto è la sua storia, per cui ogni azione umana manifesta rimanda al suo senso implicito, che trascende ogni realtà manifesta, perché mai determinabile compiutamente e perciò non identificabile con l’azione presente, oggetto del giudizio logico, distintivo ma non unitivo e sintetico. La storia dell’uomo non può essere giudicata, cioè distinta per atti e situazioni, perché è un processo spirituale, ma solo conosciuta empaticamente, ossia messa in relazione con quella di altri soggetti personali, di coloro che l’hanno de-finita attraverso la relazione, l’incontro, l’ostacolo frapposto o rimosso alla sua rivelazione. La persona non può mai essere conosciuta attraverso i suoi soli atti fenomenici, ma solo nella sua totalità, e poiché questa non si manifesta nell’atto, che nasconde sempre l’inespresso, può essere solo intuita, non percepita ma intra-vista, da chi ama, da chi riesce a vedere il tutto nel frammento. Lo storiografo, infatti, non conosce l’uomo ma descrive i suoi avvenimenti naturali, i “fatti”, isolati e astratti dalla persona, dal suo modo d’essere, che è “il modo di trascendenza specifico della persona che è la sua individualità essenziale”.152 Infatti, “in una descrizione solo funzionalistica della persona ciò che va perduto è l’essenziale”, 153 che è la sua storia spirituale, la “esperienza della sua coscienza” intenzionale.154 E cosa descrive questa coscienza se non una storia in cui il soggetto è in quanto si trova in relazione con l’Altro? Non c’è storia se non di un vissuto-con, di una con-vivenza. Ed è questo l’aspetto spirituale e non naturale (sociale) o formale (pattizio) della condizione coesistentiva dell’uomo, l’aspetto comunitario, che la civilizzazione razionalistica ha ridotto a vuoti rapporti formali ed estrinseci tra soggetti in competizione o in collaborazione. La soggettività ridotta e degradata a mera individualità. Ma la degradazione della soggettività è legata alla sua natura idealistica di concetto del Soggetto, inteso come oggetto di pensiero. Soggettività come Soggetto universale, rispetto al quale l’individuo singolo è il rispecchiamento empirico. È non solo l’ida di Soggetto, la soggettività, 152

R. De Monticelli, CP, pag. 163. Ivi, pag. 159. “È una delle lezioni che impariamo da alcuni grandi storici, e da tutti i grandi biografi. In questo senso la percezione psicologica di personalità lontane nello spazio o nel tempo a partire dalle loro tracce è una delle soglie per una ricerca, per un ‘percorso’ di conoscenza personale: la conoscenza personale congetturale, biografica e storica”: Ivi, pag. 163. 154 Ved. E. Stein, Zum Problem der Einfuehlung (1917), tr. it., Milano, 1992. 153

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che va confutata come erronea e fuorviante, ma lo stesso Soggetto, che è solo una proiezione simbolica della concreta persona spirituale, la quale, essendo una singolarità trascendente, non può essere mai pensata come un ente razionale, come un soggetto universale, una “coscienza assoluta”, cioè come se fosse Dio.155 Bisogna liberarsi di tale finzione per superare la cultura dell’ego-ismo, cioè appunto quella soggettività sulla quale si è basata la produzione mito-logica moderna; che è la stessa del pensiero della presenza, che riduce ogni atto spirituale all’attualità del momento presente, che astrae dalla storia per presentarsi come un atto assoluto, in sé compiuto ed eterno, come quello divino. In tal senso, l’Io non è altro che la versione degradata e moderna del concetto di Dio: una rappresentazione mitica dell’uomo come analogon naturalistico del Dio ideale dei filosofi e dei theo-logi. La soggettività è l’idea dell’uomo naturale, pensabile come ente e perciò oggettivabile (e manipolabile). L’Io esiste solo in natura, come individuo tipologico di una specie, e come tale considerabile nella sua realtà finita. Nel rispetto spiritualistico, non vi è Io né l’astratta soggettività, ma solo la persona in relazione con altre persone, che con-vive in una o più comunità, che non sono gruppi sociali ma insiemi empatici, costitutivi di un Noi trascendente le singolarità, che ognuna delle persone considera il proprio me, la realtà della propria storia vissuta. Il Noi non è la persona, ma la persona non può esserci senza il Noi, così come il Noi senza le persone. Questa relazione non è ambientale, cioè naturale, e neppure strutturale, cioè artificiale, ma è simpatetica, cioè elettiva ed esistenziale. Il Noi è il modo spirituale di trascendere la finitudine dell’Io naturale, corporale, sensoriale e destinato alla morte. Ma si può trascendere la finitezza naturale solo nella relazione con l’Infinito, ossia entro la coscienza della Differenza, che ci rende consapevoli esistendo di non poter fare a meno dell’Altro per esserci, e che l’Altro di tutti è Dio, l’unica vera realtà universale. L’assolutezza della coscienza è una condizione non originaria, ma derivata dalla credenza che l’oggetto di coscienza sia reale, e dunque esistente, indipendentemente dalla coscienza che lo pensa. La credenza ontologica consiste nel trasferire la realtà del contenuto di coscienza, del prodotto, alla coscienza che l’ha prodotto, per cui su l’assolutezza dell’uno si fonda anche l’assolutezza dell’altra. Ma tale fondamento è 155

Ved. C. Bruaire, Logique et religion chrétienne dans la philosophie de Hegel, Paris, 1964, pag. 19.

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solo una credenza di corrispondenza tra dato di coscienza e dato di realtà, che può anche essere illusoria. Secondo Scheler, il contenuto determinato dell’illusione è ciò che “credo di vedere”, per cui l’illusione consiste nel trasferimento del dato di fatto (Sachverhalt) sensibile, percepito dai sensi, al dato di coscienza della sua esistenza reale.156 Ciò vuol dire che l’illusione stessa consiste nella credenza di esistenza, cioè nella credenza di una realtà esterna alla coscienza, del dato di realtà interno alla coscienza. L’interno creduto esterno. Tale credenza è un giudizio di esistenza che collega il fatto sensibile al fatto reale, sicché l’affermazione di Scheler per cui “l’illusione sussiste del tutto indipendentemente dalla sfera del giudizio, del ‘credere’ […] sussistendo nella sfera prelogica dei dati di fatto”,157 va corretta. Infatti, la sfera del giudizio di esistenza è pre-logica solo in relazione al giudizio logico che ne fa il suo oggetto di coscienza, mentre in sé essa rappresenta la realtà. L’inadeguatezza tra il dato di fatto e il dato di coscienza è rilevata dal giudizio logico, non dalla credenza ontica originaria, la cui realtà sussiste indipendentemente dal giudizio, ma come realtà vera, non come illusione. Una illusione non creduta, al di là della sua pretesa d’essere, non è una illusione. Ciò vuol dire che la veridicità di una credenza è stabilita nella relazione tra coscienze, tra la coscienza propria con una coscienza altra. All’interno della coscienza originaria, il dato di realtà è logicamente indeterminato. L’indeterminato () è ciò che può essere qualche cosa e qualcosa d’altro, e perciò in sé non ha opposizione: esso è e insieme non-è. Tale condizione dell’indeterminato fa sì che esso generi il possibile, lo ponga in essere come ente determinato, il quale, determinandosi, si oppone al suo distinto. È dunque la determinazione dell’indistinto operata dal Logos a creare l’opposizione a ciò che, rispetto all’ente determinato, è niente. Ed è questa determinazione oppositiva che, ponendosi come uni-versale, ossia come posizione ideale il cui contenuto è creduto reale, esclude ogni altra Idea distinta, giudicandola il Nulla. La credenza che il Logos operi come lo Spirito del mondo che libera dall’indeterminatezza originaria, pensata come caso, è l’illusione propria della cultura razionalistica dello storicismo occidentale. 158 Che l’indeterminato venga indicato come il Caso o come il Kaos o il Mythos, 156

M. Scheler, Die Idole der Selbsterkenntnis (1912), tr. it. in Id., I valori della vita emotiva, Milano, 1999, pag. 59. Da ora IS. 157 Ivi, pag. 62.

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poca importa: ciò che conta è che da esso possa affermarsi la volontà umana di costituire l’Essere, la realtà del “pensiero puro”, fino a farne una realtà assoluta, indipendente da Dio e dalla Natura. Questa tensione (Spannung) libertaria è per Hegel la manifestazione stessa dell’Idea che si fa volontà umana, esistenza etica di un popolo e insomma Storia. 159 Il carattere mitologico di questa rappresentazione risiede nella credenza che “la posizione ambigua dell’uomo, che è nello stesso tempo creatura e creatore della storia, viene gradualmente mutata fino al punto in cui, in un futuro che è possibile prevedere, l’uomo diventerà inequivocabilmente il padrone del suo destino storico”. È questa convinzione dell’assoluta potenza e intelligenza umane a eliminare ogni concetto di Provvidenza divina, intesa come “espressione dell’impotenza e dell’ignoranza umana”.160 Aver rimosso ogni idea di Limite non ha però assicurato circa la capacità della ragione umana di non costruire la sua conoscenza esatta sui phantasmata di un’illusione: che l’Uno, ossia l’unità logica del concetto, sia il Tutto, ossia l’insieme reale degli enti pensabili. Ma se “Tutto ha in sé, ineliminabile, la negatività” e pertanto “il non-essere abita il Tutto.” 161 Tutto non è essere, ma essere e non-essere. Invece l’Uno, che “non conosce negatività”, non può essere “più che Tutto”, ma bensì meno di Tutto, ossia puro Essere. affermare che “il non-essere non è opposto all’essere, perché è dentro l’essere”, vale a dire che l’Essere è Tutto, e dunque che ogni ente abbia in sé il Tutto, cioè vuol dire assolutizzare l’ente, la sua presenza, facendo di ogni ente Uno, “l’assoluto positivo” (). O meglio, il positivo (ente) che rispecchia l’assoluto (Uno). L’Uno è l’essere deprivato del negativo, cioè astratto dal Tutto, ossia Idea, che è l’essenza dell’ente, la sua proiezione universale. L’Essere è l’ente in universale, cioè l’ente assoluto, astratto dal negativo. Ma poiché tale Essere è distinto dal Tutto come l’essere dal non-essere, la stessa differenza dell’Essere Uno assoluto fa del Tutto un Negativo anch’esso assoluto, e dunque un’astrazione. Ciò vuol dire che è la posizione 158

Ved. K. Loewith, Sinn der Geschichte (1956), tr. it. in Id., Storia e fede, RomaBari, 2000, pagg. 128-129. 159 G.W.F. Hegel, Vorlesungen ueber die Philosophie der Weltgeschichte (18221823), tr. it., Torino, 2001, pag. 23. Da ora VPhW. 160 R. Niebuhr, Fah, pag. 91. 161 V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., pag. 136.

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dell’Essere come realtà assoluta a fare del Tutto un niente assoluto, cioè un Nulla. Potendosi pensare come esistente, ossia come reale, l’Uno non è “di là dalla parola”, ma la parola astratta dal linguaggio, che è il Tutto relativo all’Essere della parola. Vuol dire che il “di là” della parola dal negativo è la sua espressione senza il significato del Tutto: una degradazione del parlare dotato di senso concreto, una espressione che “non ha pensiero di sé, [perché] se l’avesse, sarebbe molteplice ( )”, ossia conterrebbe anche il Negativo, e dunque sarebbe espressione del Tutto, e non soltanto dell’Essere. Ma una mera affabulazione, un dire assoluto, che non ha molteplice “non ha pensiero, perché non è pensare”: 162 insomma è una parola in-determinata (). Ma non nel senso aristotelico “che è in potenza e non in atto”, 163 ma nel senso del Parmenide platonico in cui si dice che “non vi è né discorso, né scienza” (142a), 164 e dunque una affabulazione immaginativa, un Mito.Se l’Uno deriva dalla sottrazione del negativo dal Tutto, il Tutto viene prima, è principio d’essere, arché. Nel Principio, ossia nel Tutto, c’era il Logos, e non già che il Principio fosse il Logos. L’espressione giovannea  significa che il Logos è in Dio, deriva da Dio, che si trova apud Deum, ne è figlio () in quanto espressione viva ( ), cioè determinata.165 Il Logos-Christos giovanneo non è un’astrazione ma una ipostasi, e “l’idea del Logos che si fa carne”, e dunque del “completo entrare del Logos nella storia” è “assolutamente inconcepibile” per la cultura greca ed ellenistica, compresa quella platonica e stoica. Ma non è neppure il Logos mitico, figura docetica tra Dio e uomo, della tradizione gnostica indicata da Bultmann.166 Il Logos neotestamentario è una Persona, la cui Parola (memra, debar: la Rivelazione di Dio) va integrata e compresa alla luce della Sua esistenza nel tempo: è storia vissuta, non un ideale o un atto legislatore167 o sapienza nel senso di Salomone (Sap. 7, 26). La designazione di Gesù come Logos è in ogni caso “il risultato di una  : Plotino, En V, 3, 13. Aristotile, Metafisica, , 1007b, 25-30. 164 V. Vitiello. Op. cit., pag. 137. 165 Ivi, pag. 141. 166 O. Cullmann, Die Christologie des Neuen Testaments (1957), tr. it., Bologna, 1970, pagg. 378-379. Da ora ChNT. 167 Gen. 1; Salmi 33, 6; 107, 20; 147, 15. 162 163

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riflessione teologica” che risente del giudaismo esoterico ellenistico molto più presente nel Vangelo giovanneo che nei Sinottici.168 La Parola di Gesù non è la Sua sola predicazione, ma la Sua testimonianza di vita, per cui “Gesù non solamente porta la rivelazione, ma è nella propria persona la rivelazione”. Ciò implica che la “parola” in senso teologico non è soltanto quella concretamente ascoltata nella predicazione di Gesù, ma porta “l’eterna rivelazione divina, la quale richiede più che il semplice udire, e cioè [presuppone] il comprendere nella fede”. 169 Il Logos giovanneo non è mera  ma è , ossia una parola che contiene un significato,che è quello del Verbo divino, e perciò rivela la Verità (Giov. 17, 17): la Verità in persona (Giov. 14, 6).170 Poiché il Logos cristico esprime la volontà di Dio, Egli è anche creatore del mondo, che rivela l’Essere di Dio nella creazione. La rivelazione del Tutto come Storia, ossia parola di verità. Il parlare di Dio non è semplicemente un racconto ma è un vissuto storico. “In questa vita la rivelazione di Dio si manifesta non solo nella parola, ma nell’agire di Gesù. Ciò che Gesù opera, lo è egli stesso. L’espressione ebraica, per cui ‘parole’ (debarim) possono significare anche ‘storia’, se si era orientati soprattutto sulla vita, la ‘storia’ di Gesù doveva favorire l’equiparazione di Gesù con la Parola”.171 Come afferma Bultmann, Gesù annuncia ciò che ha visto o udito presso il Padre; cioè – data l’identità tra parola e azione – lo mostra o lo mette in opera. […] Gesù non fa e non dice nulla da sé”, poiché le Sue parole, “per quanto parole di un uomo, non sono però parole umane. […] Il fare di Gesù è un parlare, il suo parlare un fare. È questa la ragione per cui tutte leparole di Gesù sono, in Giovanni, autoaffermazioni, e non hanno altro contenuto che questo, non sono un complesso di idee,non costituiscono una ‘dottrina’ di Gesù. […] I suoi  [discorsi] sono  [opere] […] Infatti la sua parola è lui stesso; le sue parole sono “vita”, sono “verità”.172 168

O. Cullmann, ChNT, pagg. 387 e 284-285. Ivi, pag. 389. 170 Ivi, pag. 390. 171 Ivi, pag. 391. “Se il parlare di Dio che ha dato vita al mondo (‘e fu fatta la luce’) è quello stesso che parla a noi nella vita di Gesù, l’identificazione di Gesù con il Logos divino è stabilita. Allora la creazione e la vita di Gesù hanno lo stesso denominatore ‘Parola’, ‘rivelazione’ ”: Ivi, pagg. 392-393. 172 R. Bultmann, Theologie des Neuen Testaments (1953), tr. it., Brescia (1985), 1992, pagg. 393-395. Da ora ThNT. 169

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Dalla prospettiva cristiana è pertanto impossibile attribuire, come pur fanno i moderni, ai Greci la vera conoscenza, non essendo per loro “carne” il Logos, ma solo concetto, “formalmente esatto” ma non vero, non universale in senso sincretistico ma cristicamente comprensivo. 173 La dinamica della parola e dell’azione è correlativa alla coesistenza delle due Persone divine del Padre e del Figlio, come unità che insieme è distinzione; ma una distinzione che non è opposizione, poiché “il Figlio e il Padre sono una cosa sola” (Giov., 10, 30). L’unità divina non è esclusiva dell’opposto, come l’unità logica, ma è comprensiva del distinto. Ciò dà anche il senso dell’agire (praxis) non come separato dalla sfera del pensiero (theorein), ma come accadimento, vissuto di fede, come relazione agapica, in cui la parola non è descrittiva di avvenimenti trascorsi, non è memoria, ma intenzione rivelata nell’azione: volontà vera, e perciò divina.Una divinità incarnata è il Verbo fatto Parola, posto in essere come esistenza storica: Sua “immagine”. La dinamica Tutto-Uno, assolutizzando il posterius ne recide l’origine, abolendone la memoria. La memoria del Tutto originario non è un mero “oblio” della coscienza progressista, ma è la condizione ontologica per l’affermazione della esclusiva realtà di ragione, e pertanto la storia intesa come processo (o progetto) di razionalizzazione del mondo si determina come realtà della rimozione delle origini, che la ragione considera Nulla, e dunque come processo di annientamento del passato in vista della sola attualità del presente. Questo il senso metafisico del nichilismo prodotto dallo storicismo inteso come razionalizzazione del mondo storico. Questa visione deve considerare l’uomo come essere di natura, ovvero come prodotto della sua cultura, ma in ogni caso come una realtà fenomenica non diversa da quella di un essere destituito di ogni fondamento trascendente l’umana determinazione, ritenendo che “la conoscenza della natura e la conoscenza dell’io umano appartengano alla stessa categoria di sapienza”, per cui l’uomo non avrebbe niente che non sia riducibile a un’equazione razionale. “Non viene minimamente riconosciuto che è l’uomo nella sua interezza, e non la sua mente, che cerca di padroneggiare il destino storico; e che è l’uomo in se stesso, e 173

“L’universalismo del Vangelo di Giovanni consiste in questo: dove i pagani hanno affermato cose vere, egli vede Cristo, il medesimo Cristo che è divenuto uomo in un tempo concreto e determinato”: O. Cullmann, ChNT, pag. 395.

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non il suo corpo, che deve essere padroneggiato”. 174 Il progresso umano, inteso come processo di semplificazione funzionale del corso della vita sociale, dalle forme tradizionali complesse al dimensionamento quanto più individuale, attraverso l’uniformità di una legislazione razionale, deve risolvere ogni complessità sociologica e culturale in una formula unitaria universalmente applicabile potenzialmente a tutti, alla stregua di un’equazione matematica, che consideri la varietà degli uomini come una condizione precaria da riformare in senso egalitario, al fine da rendere i destini singolari espressione del Logos universale.175 Per conseguire tale obiettivo, è prioritario annullare, cioè considerare Nulla, la condizione possibile, indeterminata, facendone una condizione necessaria, che è il contrario dell’iniziale istanza di libertà dal caso, in quanto sposta la opposizione del Nulla metafisico dalla natura e dalla Provvidenza alla dialettica interna alla storia umana, alle opposizioni sociali e interpersonali, per le quali la libertà è nella soppressione reale dell’altro sociologico o economico, pensato come ideale: l’hostis schmittiano. Storicamente, alla chiave di questo processo di liberazione dal Caso, la cultura borghese avrebbe liberato l’uomo dalla necessità della Natura e il socialismo dall’oppressione sociale. Ciò che non si sospetta è che l’uomo di cui queste ideologie trattano non è la persona umana, ma un essere dimidiato in due emisferi opposti, quello della ragione e quello dei sensi. “Ma l’io razionale non è un vero io: è mente pura. E l’io sensitivo non è 174

R. Niebuhr, FaH, pagg. 103-104. “Per quasi trecento anni, prima della metà del diciottesimo secolo, era prevalso un continuo processo di semplificazione nella teoria e nella pratica: il feudalesimo era in piena decadenza, e il complesso intrecciarsi della autorità ecclesiastica col governo secolare andava ogni giorno sempre più svanendo. Si poteva pensare che la società funzionasse in termini di concorrenza amichevole fra i singoli individui, mentre lo Stato si sarebbe eretto arbitro nella minoranza dei casi, ogni volta cioè che si fosse verificata una frattura di queste relazioni normali”. Rispetto all’individualismo rinascimentale, fondato su un’educazione umanistica fedele alle tradizionali virtù dianoetiche, quello indotto dalle teorie sociologiche del razionalismo borghese veniva fondato su ipotesi eudemonistiche di carattere pratico, miranti più al successo economico dei comuni individui che alla conoscenza teoretica di personalità eccezionali. Non a caso quelle teorie indirizzarono il progresso sociale nella direzione da esse indicate soprattutto in America, mentre “si adattarono mirabilmente alle esigenze del ceto medio dei commercianti in Inghilterra, in Francia, e in Europa in tutti quei luoghi nei quali tale ceto medio era l’elemento più importante della vita sociale”: A.N. Whitehead, Science and Philosophy (1948), tr. it., Milano (1966), 19802, pag. 162. 175

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un vero io: è una congerie di istinti fisici che si può identificare abbastanza bene con l’inconscio freudiano”.176 Sono rappresentazioni opposte e speculari di una figura mitica dell’uomo creduta esistente. Proprio questa dialettica degli astratti opposti impedisce una valutazione congrua della condizione umana, storica ma anche eterna, che nella manifestazione della sua realtà visibile nasconde il mistero della sua ambigua storicità.177 L’ambiguità della condizione umana sta nella capacità di riconoscere la presenza di Dio, ma di non poter pervenire né ad una completa dipendenza né ad una piena autodeterminazione; e questa condizione sospesa dell’uomo si riflette nella storia 178 come contrasto tra aspirazione a costruire rifugi secolari contro l’edacità della vita naturale, e conclamata incapacità di pervenire alla stessa conoscenza di sé, quale soggetto che “da una parte trascende il processo storico, dall’altra è implicato in esso”.179 È la consapevolezza di questa congenita debolezza umana a ispirare il sentimento di dipenda da Dio, ossia da un potere superiore a quello dell’uomo e limitante ogni sua superba pretesa autonomistica. Ed è questa stessa consapevolezza del limite a creare le premesse di una collaborazione delle diverse realtà umane a contribuire, secondo singole possibilità, alla realizzazione del disegno divino, l’unico universale e comprensivo di tutte le particolarità storiche e personali. La questione conseguente a questa coscienza storica, riguarda la leggibilità del disegno divino nelle manifestazioni della storia umana. Rimosso l’evento cristico anche il motivo soteriologico viene a perdersi, e con esso il legame universale che unisce le varie e diverse esperienze storiche delle culture umane.180 E dunque è la “fede”, e non un rapporto di successione razionale, a costituire la condizione ermeneutica essenziale per la comprensione della storia e dei suoi eventi particolari. E “quando ciò avviene, questi eventi risultano qualcosa di più che semplici eventi particolari: sono le “opere potenti” di Dio in cui il significato dell’intero 176

R. Niebuhr, FaH, pag. 115. Come è stato ben detto, “il mistero non annulla il significato ma lo arricchisce: impedisce al campo del significato di essere ridotto in modo troppo semplicistico ad intelligibilità razionale e di essere così compreso a partire da un falso centro, costituito da qualche forza o da qualche disegno storico, che non può essere che relativo o contingente”: R. Niebuhr, FaH, pagg. 130-131. 178 “Di tutte le tristezze che affliggono l’umanità la più amara è questa, che si debba avere coscienza di tante cose e controllo su nessuna”: Erodoto, LX, 16. 179 Ivi, pag. 14.1. 180 O. Cullmann, Heil als Geschichte (1965), tr. it., Bologna, 1966, pag. 226. 177

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dramma della vita umana è reso chiaro”. 181 È la trascendenza della sovranità divina a rendere unitario il disegno storico e possibile l’idea di una storia universale, non centrata su una potenza umana, nazionale o statuale, e dunque empirica e transeunte, in cui “il destino di una nazione o di una cultura particolare sia arbitrariamente preso come centro di significato dell’intera storia dell’umanità”.182 L’intierezza storica non va intesa soltanto come compimento del senso temporale ma anche di quello razionale, per cui una interpretazione che volesse essere esaustiva, se non del processo ma soltanto del singolo evento storico, rischia una deformazione ermeneutica introiettata sul collegamento di dati accidentali, la cui razionalità analitica finisce però di perdere la loro visione d’insieme, con conseguenti sottrazioni e riduzioni di significato183 che sono la scaturigine della mitizzazione degli stessi eventi. Se la prospettiva moderna ha criticato la mitologia religiosa tradizionale perché avrebbe posto l’evento cristico in termini assoluti di significato meta-storico, la lettura razionalistica della storia ha però solo sostituito quel sacro evento escatologico, “principio vivente”, con il giudizio della coscienza assoluta del Cogito. La conseguenza di questa secolarizzazione dell’evento è stata di perdere la chiave di lettura della Storia contenuta nel Vangelo di Giovanni, dove viene indicata in Cristo, il Dio incarnato, la sintesi tra trascendenza divina e divenire storico, tra Dio e mondo.184 La perdita del Limite da parte dell’umanesimo moderno, e cioè l’assolutezza della ragione umana, è l’espressione teoretica del peccato originale, “e cioè della tendenza del cuore umano a risolvere il problema dell’ambiguità dell’esistenza umana negando la limitatezza dell’uomo”.185 Questo atteggiamento negativistico si esplica attraverso la 181

R. Niebuhr, FaH, pagg. 133, 142, 149. “La rivelazione di Cristo come centro e chiave del significato della storia è insieme la negazione e il compimento di ogni significato parziale della storia espresso nelle culture nazionali, imperiali e perfino mondiali”: Ivi, pag. 135. 183 “La storia nella sua totalità e nella sua unità riceve un senso da una fede religiosa in quanto il concetto di significato è tratto da presupposti ultimi e fondamentali concernenti il carattere del tempo e dell’eternità, i quali non sono il frutto di un’analisi dettagliata degli eventi storici”: R. Niebuhr, FaH, pag. 149. 184 B. Forte, Gesù di Nazaret, cit., pag. 129. Che risalga all’esegesi giovannea anche l’identità del Logos stoico col Verbo divino e di Questo con Cristo, è altro discorso, inerente alla sovrapposizione della teologia del Verbo neotestamentale con la teologia della Parola veterotestamentale. 185 R. Niebuhr, FaH, pagg. 144, 148. 182

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tendenza intellettuale ad aggirare la fondamentale ambiguità della storia giudicandola come irrazionalità o persistenza naturalistica o imperfezione strutturale di un sistema socio-istituzionale, e dunque superabile attraverso un intervento correttivo della ragione umana. Questo atteggiamento razionalistico non coglie il risvolto tragico della storia, per cui il Cristo messianico viene negato da coloro stessi che Lui doveva salvare. Se la sua condotta giusta lo portò alla morte, l’ambiguità della storia non è risolvibile senza la presa di coscienza dell’ambiguità dell’animo umano. L’ammissione dell’ambiguità della storia e dunque dell’uomo è molto più umana di un qualunque disegno soteriologico infra-mondano che esalti il potere umano etsi Deus non daretur. La scaturigine del male, dichiarato questo risolvibile, diventa l’ignoranza e l’impotenza temporanei dell’uomo a risolverlo. Questa attesa di progresso, dovuta alla crescita della potenza dell’uomo, è caricata di un messianismo auto-confutativo non però riconosciuto dall’ottimismo delle premesse, e attribuito alle scorie di irrazionalità, di passione e di naturalità presente nel processo emancipativo dell’umanità, col risultato di trascurare la considerazione di quella ambiguità, la cui portata si rivela ogni volta catastrofica per i progetti umani, anche i più sofisticati. La fede, che subentra allo scacco della ragione e alle delusioni connesse a una vita su di essa impostata, non è un motivo consolatorio, una risorsa psicologica che fa capo a una istanza di raccoglimento interiore; almeno, non è solo e principalmente questo. Essa è anzitutto e soprattutto un livello di conoscenza, in cui agiscono le “ragioni del cuore”, ossia la coscienza intuitiva della integralità della persona, e quindi della finitezza dell’esperienza esistenziale, il cui senso primo e finale rimanda alla relazione con Dio, fondamento e fine della vita. Nell’ottica della fede, la dipendenza dell’uomo dai fattori storici e naturali, così come la sua emancipazione da essi, non è risolutiva della questione morale, che investe il rapporto dell’uomo con sé e con l’Altro, al fine di pervenire a una unità che non escluda l’altro a favore della volontà dell’io, ma in cui l’ “io sia in loro, e [il] tu sia in me” (Giov, 17, 22-23). Proprio l’inclusione dell’Altro nella vicenda singolare di sé tradisce la radicale ambiguità del rapporto inter-personale storico, dove l’apertura della possibilità coincide col rischio della libertà. Da qui l’affidamento a Dio per la verifica finale delle umane posizioni, la cui giustizia è posta “al confine estremo della conoscenza umana”, 186 in quel 186

R. Niebuhr, FaH, pag. 171.

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limite cioè dove la finitezza dei propositi appella la Grazia dell’esaudizione. Accettando il carattere dipendente del potere umano da quello superiore divino, anche la pretesa razionalistica di sciogliere le antinomie emerse dall’esistenza sfuma nell’illusione di poterle rimuovere negando la dipendenza che l’Essere ha verso la sua origine dal Mito, il luogo antinomico per definizione, che per i cristiani è quello che si compendia nel paradosso della Croce. La Croce simbolizza l’intersezione della storia umana che incrocia il mistero divino. Non si può trascegliere un percorso senza tener conto dell’altro. La sapienza greca ha creduto, come quella moderna, di poter pervenire al compimento della ricerca noetica attraverso l’esclusivo impegno della ragione, che, innalzata sopra la congerie avvenimenziale della storia naturale, fa di questa una materia informe e caotica e del suo giudizio teoretico la chiave per un’ermeneutica universale, ponendo la coscienza umana come una realtà assoluta. 187 La fede è l’apertura della coscienza all’orizzonte integrale della vita. La vicenda che anima questo orizzonte e dà un senso compiuto a ogni esperienza dell’umanità storica è la storia di Cristo, in cui si compendia per analogia la stessa storia dell’uomo nei rapporti con il suo prossimo e con Dio. Per trarre dalla vicenda di Cristo la luce che illumina l’orizzonte integrale la fede diventa la chiave della conoscenza. Qual è la verità che apre questa chiave? Essa è la coscienza della finitezza umana e del mondo, ricavata dall’esperienza di Cristo, la cui esistenza perfetta non ha trovato collocazione sostenibile nella realtà storica. Questo lo skandalon rivelato da Cristo: la finitudine della storia umana, che non ha redenzione interna, cioè appunto storica, ma soltanto escatologica, nel compimento divino (Gloria). L’imperfezione dell’uomo storico non è sanabile dall’uomo con atto singolare o collettivo definitivo, e neppure da Dio, il cui amore è manifestato nella libertà che concede all’uomo anche di errare. Sanare il male della storia umana significa portarlo come il segno stesso dell’umanità, che si manifesta nella sofferenza dell’innocente, che “paga per il peccato del colpevole”. L’espiazione indiretta del male racchiude la sua stessa redenzione: la liberazione dal potere di infliggerlo. Sconfiggere il male, redimersi da esso, vuol dire negare la sua legittimità di modello relazionale, e quindi privarsi per atto di libertà dal perpetrarlo, una volta ricevutolo. Fare dell’amore sofferente la risposta al potere ingiusto, significa offrire la soluzione all’ ambiguità della vita, all’enigma della 187

Ivi, pagg. 176-177.

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storia. Una storia il cui senso terreno primo e ultimo è la difesa del corpo, individuale e di gruppo: corpo sociale. Ogni istituzione umana è tesa a difendere l’uomo dalla minaccia della morte. Lo scandalo di Dio è di immolarsi a opera del più debole attraverso l’offerta sacrificale del Figlio innocente. L’atto innaturale richiesto da Dio ad Abramo è ciò che è stato fatto dagli uomini a suo Figlio. Dio ha fermato la mano di Abramo, ma non quella degli uomini. Perché Abramo era già pio, mentre l’umanità doveva ancora riscattarsi dal suo stesso male, ossia dall’iniquità del Potere, anche se formalmente giusto, e dunque ambiguo. Il sacrificio innocente non soddisfa più il Potere se sogguardato dal punto di vista della vittima, ma ne rinnega il senso, lo rende, da necessario ai fini della salvezza del corpo, a inutile ai fini della salvezza dell’anima, facendo di questa il limite della potenza umana e della salvezza un fine non conseguibile attraverso il Potere. La morte di Cristo sconfigge il potere di Cesare nell’atto stesso in cui gli consente di manifestarsi, lasciando intendere che la sua nuda manifestazione, senza la sua giustificazione morale, dichiara la grandezza della vittima e la miseria del carnefice. Nell’amore la redenzione dal male.188 Questa soluzione non è facilmente accettabile dalla ragione che si ritiene assoluta e che ritiene perciò che all’uomo sia possibile redimersi dai mali storici attraverso la sola presa di coscienza di essi, mentre “fare della fede un presupposto fondamentale del significato finale dell’esistenza significa riconoscere il mistero divino come impenetrabile per la ragione umana”.189 La fede implica una lettura delle vicende storiche della stessa Chiesa in chiave escatologica, e la secolarizzazione delle sue architetture teologiche come la prova empirica della impraticabilità della strada razionalistica per svelare il mistero della storia e della stessa fede, anziché giustificare con la fede la ragione. Infatti, se la ragione potesse spiegare il mistero, la Grazia sarebbe inutile. Ed è appunto ciò che pensano i moderni razionalisti. Grave è che non l’abbiano messo in conto i teologi.190 188

“Questo amore che è troppo grande per poter essere mantenuto nel limitato quadro storico, diventa il simbolo tanto del nuovo inizio che è offerto a chi sottomette la propria vita al giudizio di Dio, quanto della grazia di Dio che è l’unica forza capace di vincere la fatale incapacità dell’uomo di raggiungere un amore così perfetto”: R. Niebuhr, FaH, pagg. 180-181. 189 R. Niebuhr, FaH, pag. 184. 190 R. Niebuhr, tra gli errori della teologia cristiana, enumera, oltre all’accostamento della verità di fede a un qualunque altro sistema di pensiero che possa confermarla, e

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Per comprendere la differenza tra la conoscenza di fede e quella di ragione, occorre rifarsi al limite funzionale della coscienza razionale, che è il suo rapporto col proprio genere, ossia con la sua essenza universale, pensata come infinita. Come scrive Feuerbach, “la coscienza dell’infinito non è altro che la coscienza dell’infinito della coscienza. In altri termini: nella coscienza dell’infinito il soggetto cosciente ha come oggetto soltanto l’infinità della propria essenza”, per cui “coscienza e coscienza dell’infinito sono la stessa cosa”. Ciò consente all’uomo di essere “a se stesso, io e insieme tu; egli è in grado di porre se stesso al posto dell’altro, e ciò appunto perché egli ha come oggetto il proprio genere, la propria essenza, e non soltanto la propria individualità”.191 In altri termini, pensare in senso razionalistico è aver coscienza di un’Idea universale, pensata come l’infinito. Ma poiché tale infinito è l’oggetto stesso del pensiero, la coscienza può pensare se stessa e il suo oggetto come opposti, come due realtà. Ed è tale possibilità a rendere la coscienza assoluta, inizio e fine di sé. La coscienza assoluta pone il suo oggetto concettuale, creato dalla ragione. In questo senso, il pensiero pensa il suo oggetto come la coscienza pensa se stessa; e pensandosi infinita, pensa il suo oggetto come universale. Il correttivo kantiano non supera questo dato onto-logico: che la coscienza pensa il suo oggetto come se stessa, ossia pensa la realtà del suo oggetto come la sua realtà. La coscienza del Bene lo pensa come bontà; la coscienza del Bello come bellezza, etc. Ciò che qui importa ribadire è che la coscienza dell’Altro coincide con la coscienza di sé, poiché l’Altro è l’Io stesso che lo pone. E la posizione dell’universale da parte del pensiero razionale coincide per l’uomo con la stessa legge morale. L’io come coscienza in generale prescrive secondo Kant alla natura le sue leggi e agli uomini quella legge morale che non è altro se non la legge che la ragione dà attraverso se stessa alla volontà. In Fiche l’io trovò la massima forza di penetrazione: in lui l’io pone ogni cosa terrena o non-io e la pone, come contrasto, solo per giungere alla coscienza di se stesso. Hegel mantenne dovunque nella Fenomenologia il soggetto come punto di partenza; esso è nello stesso tempo coscienza individuale, coscienza storica dell’umanità, coscienza dello spirito universale. Come tale si sviluppa negli oggetti, li al letteralismo teologico, che intende preservare la fede da ogni ragione umana, anche quello cui è esposto particolarmente il “razionalismo cattolico”, consistente “nel provare la verità della fede spiegandola razionalmente”, risolvendo il mistero “in una pretesa intelligibilità razionale”: FaH, pagg. 209-213. 191 L. Feuerbach, L’essenza dell’uomo, cit., pagg. 180-181.

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rende suoi, si aliena e si regola con essi come pure si aliena in essi e si dischiude progressivamente ad essi, dimodoché alla fine il soggetto non si rapporta più all’oggettività come a qualcosa di estraneo: 192

L’Io è principio e fine della coscienza del mondo, è Tutto. Non vi è limite per essa, poiché fuori di essa vi è il Nulla. Radicalmente diversa è la conoscenza della fede, la quale stabilisce come norma di pensiero e morale la realtà dell’Altro, che non è un “oggetto” di pensiero, ma una persona, che pensa e vive anche se sconosciuta alla nostra coscienza. L’Altro è fuori di noi perché non vive in quanto creato dalla nostra coscienza, ma perché ha in se stesso la sua ragione di esistenza, che per la nostra coscienza è un mistero. questa consapevolezza dell’Altro indipendente da noi, lo rende, non già strumento, ma fondamento di conoscenza, poiché nell’incontro con l’Altro la nostra coscienza si stabilisce e si conosce come propria. Se l’altro della coscienza razionale è il suo stesso prodotto di pensiero assolutizzato, ossia pensato come universale, l’Altro della coscienza di fede rappresenta per questa il mondo che vive senza di noi. E’ la realtà dell’Altro che ci rende soli, inducendoci a superare con l’Altro la nostra solitudine. La coscienza razionalistica non può pensare il Noi se non come superfetazione dell’Io, come potenza del Sé che “fagocita il mondo”, direbbe Sartre. Solo nell’orizzonte di fede l’Altro è principio di realtà, e non opposizione da superare, negandolo come estraneo da omologare o ridurre a niente. Queste semplici annotazioni ci danno almeno il senso dell’ “errore” teologico di spiegare la fede con la ragione, consente do così surrettiziamente alla seconda di costituirsi nel pensiero moderno come criterio assoluto, secondando la sua vocazione ontologica totalitaria. La critica neo-testamentaria al legalismo è rivolta appunto all’universalismo delle Idee astratte, che costituiva l’essenza morale per la sapienza greca. L’amore evangelico, di contro, conosce la persona singolare, il mystero vivente, sicché tanto la verità che l’atteggiamento morale sono rivolti a una alterità concreta, a un Altro che è prossimo, non ideale, e che è trascendente l’io, e non universale; non è, cioè, un altro Io che incontra la sua coscienza universale. In questo consiste “la dimensione escatologica dell’etica cristiana: il vero io ha una dimensione che trascende la sua contingente esistenza storica e in questa dimensione può distruggere se 192

E. Bloch, Subjekt-Objekt, cit., pag. 59.

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stesso se cerca unicamente di aggrapparsi alla propria esistenza”. 193 La trascendenza dell’Io è l’agape, il sentimento dell’Altro che fa da limite all’egoismo naturale o amore di sé, che è volontà di espandere la coscienza singolare in senso assoluto, piegando l’Altro a suo oggetto, a suo prodotto ideale. Nel limite dell’Altro, la coscienza personale riconosce il valore morale della propria libertà, che non si afferma contro l’alterità negativa, ma con l’Altro personale, nel cui rapporto trova la Differenza.194 Acquisita l’Agape come dimensione morale della libertà dell’uomo, anche le sue manifestazioni storiche vanno conformate a quel principio, in modo che la condizione naturale della vita umana sia considerata in relazione ad esso, e non in relazione al principio egoistico dell’etica razionale. La difficoltà di conciliare l’Agape con “le strutture della giustizia nel quadro della società”, 195 nascono dal presupposto che tali strutture sociali siano appunto naturali e non storiche, e quindi siano immutabili come per inerzia dell’esperienza, e non mutevoli sulla base della consapevolezza della loro ritorsione inumana. In realtà le istituzioni razionali sono funzionali alla salvaguardia delle società strutturate in maniera razionalmente coerente al presupposto valore dell’egoismo, e non sul presupposto del suo dis-valore. Così come nessuna legislazione iniqua potrà cancellare l’amore cristiano, parimenti nessuna comunità amorevole potrà vincere gli impulsi egoistici, che irrompono anche nelle relazioni interpersonali più intime. La questione rilevante è se tali impulsi vengano considerati come fisiologici ovvero come aberrazioni dell’istinto erotico. E’ chiaro che se l’egoismo viene eretto a principio relazionale naturale, lo sviluppo generale della cultura sociale tenderà a far prevalere la scienza economica sulla sapienza morale. Se, viceversa, l’homo oeconomicus verrà considerato dal punto di vista morale, chi se ne fa portatore verrà valutato come espressione di una cultura irrazionale e arcaica, alla stregua di un cultore dell’astronomia tolemaica. La medicina ufficiale non ha distrutto la magia tradizionale, e c’è qualcuno che ancora si rivolge a maghi e fattucchiere; lo stesso avverrebbe per gli economisti, nella società scristianizzata esaltati, in una comunità guidata dai principi 193

R. Niebuhr, FaH, pag. 223. “Nell’evento intersoggettivo, ha luogo la ‘differenza ontologica’, il sorger del mistero dell’essere a differenza dell’ente obiettivo ed obiettivabile”: W. Kasper: Glaube und Geschichte (1970), Brescia (1975), 19933, pag. 38. Da ora GG. 195 R. Niebuhr, FaH, pag. 235. 194

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cristiani dell’amore fraterno e sulla visione integrale dell’uomo, anziché sbirciato dalla feritoia di uno sportello bancario. Se, ad es., la libertà viene concepita come un dovere da riconoscere anziché come un diritto da rivendicare, le relazioni conseguenti saranno nel segno della reciprocità collaborativa e non della compensazione degli interessi; e se per formazione intellettuale verrà intesa l’educazione morale alla convivenza anziché l’istruzione tecnica alla manipolazione della natura e alla prevaricazione sociale legittimata sotto le spoglie edulcorate della concorrenza economica e del consenso politico, le relazioni umane saranno informate alla logica del più santo, anziché da quelle rappresentate dalla logica del più forte. Cambiando i criteri di legittimazione, le stesse azioni umane vengono giudicate in maniera diversa. I criteri cristiani non sono storici nel senso del relativismo storicistico, ma nel senso più alto che offrono la possibilità accogliere storicamente un principio divino di valore risolutivo del senso della vita. E “divino” proprio perché non un portato umano tradizionale ma escatologico,a paragone del quale ogni idealistica istanza libertaria ed egalitaria appare l’astratta petizione di un principio razionale che non verte sull’uomo concreto ma sulla sua astratta immagine di genere universale. Non vi è un limite intrinseco alla volontà umana, la cui colpa morale non è di assecondare gli impulsi egoistici e naturali dell’uomo (i “residui” paretiani), creatura anch’essa destinata a nascere e vivere come ogni essere naturale, ma quella di rappresentare la loro realtà come un valore, giustificandoli razionalmente (Pareto le chiamava “derivazioni”). 196 L’esistenza di forme ideologiche che operano come potenze di razionalizzazione della vita per mezzo della cultura e delle istituzioni storiche, se per un verso stabilizzano la vita sociale in percorsi tendenzialmente ordinati, per l’altro verso generano l’illusione che l’equilibrio esistenziale e sociale sia conseguibile attraverso strumenti puramente ideali, di ingegneria sociale e costituzionale, tesi a indirizzare i comportamenti umani conformemente ad astratti modelli razionali. Questa tendenza, che risale a Platone, è immanente in ogni ideologia razionalistica ispiratrice di regimi politici convinti di poter conseguire un equilibrio sociale fruendo di strumenti giuridici, ossia di amplificatori della volontà umana, del tutto emancipati da ogni finalismo soteriologico. 196

V. Pareto, Trattato di sociologia (1916), Torino, 1988, §§ 888, 1712, 2408.

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L’elemento debole di ogni ricognizione storico-sociologica delle condizioni umane è che, a fronte di una riconosciuta irrazionalità di base dei comportamenti umani, i rimedi escogitati alla bisogna sono sempre giustificati razionalmente, e dunque in controtendenza rispetto alle condotte naturali dell’uomo. La dialettica tra razionalità e naturalità, come abbiamo visto, è una costante delle teorie razionalistiche della storia e della conoscenza scientifica, dando per scontato che l’esclusione dalla polarità della dimensione trascendente fosse nozione epistemologicamente certa e gnoseologicamente acquisita, per cui ogni critica dismagante delle mitologie del nostro tempo non riesce a superare nel criticare le disfuzioni di una delle due visuali assolutizzata la visuale dell’altra. La visione universale non proviene da una delle due visioni assolutizzate, ma dal riconoscimento della Differenza tra la volontà umana e quella divina, alla quale la prima infine si affida per il compimento del senso della storia. È questo il senso del “pentimento”.197 La natura privata della contrizione di coscienza incontra la riserva di cosa fare dopo, ossia di come agire una volta riscattato il peccato dell’egoismo con la coscienza del limite umano. La questione è mal posta in quanto presuppone che la società per come la conosciamo storicamente o dalla diretta esperienza di vita sia l’unica forma di convivenza umana. Ci riesce difficile immaginarne un’altra, sicché la nostra metanoia interiore si scontra inevitabilmente con la “realtà” del mondo di fuori. Il pessimismo di Lutero nasceva dalla semplice constatazione dell’imperfezione della vita sociale, ed esso generò poi l’idea kantiana dell’umanità come di un “legno storto”. La moderna distanza tra coscienza e società nasce da codesto atteggiamento tragicamente pio, che poneva Stato e Chiesa, morale dell’amore ed etica razionale del diritto l’uno davanti all’altro opposto, secondo uno schema sociologico e teologico invalso in tutto il Medioevo cristiano.198 Ognuno dei due elementi considerati il rimedio dell’altro finiscono però per affidare all’uomo la soluzione del male di vivere. Ma tanto la comunità ecclesiale cattolica quanto l’ipotetico “governo dei santi” calvinistico, confidando nelle risorse umane per superare la condizione storica dell’umanità rimuovono la autentica questione morale, nata dalla consapevolezza della precarietà delle istituzioni storiche della società. Solo sconfessando l’immanenza e 197

R. Niebuhr, FaH, pagg. 251-252. Ved. E. Troeltsch, Die Soziallehren der cristlichen Kirchen und Gruppen (1923), tr. it., Firenze, 1960, vol. II, pagg. 123-135. 198

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aprendosi alla trascendenza ci si emenda dall’oscuramento circa la vera condizione umana nel tempo. Confidare infatti nel tempo è per la coscienza cristiana soltanto paganesimo e idolatria, poiché la claritas del saeculum tende a nascondere la “la verità del dolore”, che per Agostino è svelata solo dal cristianesimo.199 Non fa differenza se il primato è accordato al sacerdotium ovvero al regnum, essi sono entrambi prodotti umani e dunque finiti e fallibili. La dicotomia tra probi e reprobi è una derivazione ebraica e razionalistica,che il cristianesimo consapevole non dovrebbe avallare, essendo la cagione dei dissidio fra gli uomini anziché della loro relazione di reciproco riconoscimento in Cristo. Cristianamente, la tensione agapica non può che trascendere la tensione erotica, senza la quale la virtù non avrebbe possibilità di esercizio e di verifica. Ma entrambe abitano in interiore homine, e non possono mai presentare una assolutezza in alcuna umanità presuntivamente redenta. Concepire dunque il ruolo della Chiesa come “tribunale di ultima istanza”,200 significa intenderlo come antagonistico al ruolo dello Stato, e quindi su uno stesso piano di realtà, quello della società politica, salvo poi a rivendicare un proprio primato in nome di una realtà superiore e non umana. È stato facile allo Stato assoluto moderno secolarizzare la competizione politica tradizionale sostituendo alla Chiesa un antagonista al Potere dominante che fosse omologo anche di diritto alla propria natura mondana. Il pluralismo politico è infatti la versione aggiornata della lotta tra Chiesa e Impero all’interno della realtà statuale assolutizzata. L’errore politico del cattolicesimo nasce da un errore di cultura, quello di non aver concepito la propria funzione né in termini concorrenziali a quelli della potestas secolare, né in termini complementari, quasi che il soglio petrino fosse una corte di cassazione. Infatti l’unico ruolo possibile a chi intenda promuovere lo sviluppo della coscienza morale cristiana è quello di affermare il limite del Potere umano di fronte alla finitezza stessa dell’uomo, facendosi garante non di soluzioni più pertinenti di quelli del potere secolare, ma della coscienza della Differenza tra le decisioni umane e il governo provvidenziale. La rilevanza pubblica di questo ruolo costituirebbe già un correttivo al tralignamento del potere in

199

G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino, cit., pag. 169. J. Mausbach, Catholic Moral Teachings and its Antagonists, cit. da R. Niebuhr, FaH, pag. 257. 200

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senso egoistico ed erotico, in funzione katechontica. 201 e non certo di un impossibile superamento della stessa condizione umana. 202 Il rimedio razionalistico moderno di eliminare il trascendente per assicurarsi il pieno e illimitato dominio sulla natura, non riesce a costituire un valido sostituto all’Infinito divino, poiché gli idoli che storicamente propone al suo posto si rivelano del tutto umani, e pertanto finiti, imperfetti e manchevoli. La lotta moderna contro il Mito consiste nella rimozione razionalistica dello scandalo della Croce, ossia dell’amore di Cristo entro l’orizzonte temporale dell’esistenza umana, individuale e collettiva, che dà senso alla storia. L’inserimento della cifra spirituale nella vita umana, la emancipa da ogni riduzionismo naturalistico, rendendo inane la prospettiva razionalistica di emendare le imperfezioni umane attraverso lo strumento della ragione, ossia del solo pensiero, che proietta la soggettività in un altrove lontano dagli affanni e le contraddizioni del mondo reale, mettendolo in epoché. Questa prospettiva dicotomica della gnosi pagana viene superata decisamente dal personalismo cristiano, che comprende la natura dell’uomo nella esperienza esistenziale della persona storica e spirituale, ossia finita e aperta al trascendente, capace cioè di porsi in ascolto della Parola di Dio. Questo atteggiamento definisce l’uomo, ne limita le pretese assolutistiche e universalistiche, perché ridimensiona la portata della sua attività noetica alla sola dimensione finita, parziale. L’Idea razionale è produzione umana, mentre l’ascolto della Parola è ricevimento dall’esterno della coscienza, rivelazione. La finitezza della ragione è la stessa finitezza del concetto, laddove la ricezione della Parola è intuizione 201

Compito ben diverso da quello che Leone XIII supponeva fosse proprio del Papa, ossia di “giudicare con autorità […] quali dottrine sono in armonia e quali in disaccordo con [i Sacri Oracoli]”: enciclica Sapientiae, cit. in R. Niebuhr, FaH, pag. 257. La prerogativa ecclesiastica del monopolio ermeneutico sulle Sacre Scritture veniva estesa allo scibile umano, sul presupposto implicito di una intelligenza superiore della Chiesa istituzionale, a prescindere da ogni riconoscimento carismatico e di fede. L’aspetto equivoco della pretesa leoniana è proprio questa prescissione dal rapporto di fede, sostituito da un rapporto di “autorità” e quindi di dominio che non poteva che essere di natura politica. Quanto la moderna rivendicazione di libertà del pensiero sia speculare all’indebita pretesa di volerla negare è evidente a chiunque. 202 “La speranza che la vita umana possa nella storia essere liberata da ogni stortura del peccato e che l’esistenza collettiva dell’uomo possa essere sciolta da ogni ambiguità morale, genera inevitabilmente il male, in un patetico tentativo di superare l’inesorabile legame tra peccato e libertà che caratterizza la vita umana”: R. Niebuhr, FaH, pag. 261.

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della verità, intelligenza, sia pure umanamente finita, del Mistero, ossia dell’intera esperienza dell’uomo, della sua esistenza integrale, non solo teoretica o pratica. Questa esperienza esistenziale integrale non può costituirsi nella privatezza della coscienza noetica o nell’esercizio delle funzioni pubbliche dell’uomo politico, ma attraverso una relazione col prossimo che si stabilisce su rapporti di forza non materiali e contingenti, in grado di scoprire insieme il senso della vita, e di costruire su questa consapevolezza una socialità informata a uno spirito comunitario e no competitivo. La stabilità sociale deriva dalla stabilità delle relazioni umane; non si identifica, poiché l’azione umana è sempre singolarmente differente, ma ne deriva. E così, da un principio di socialità dialettico, costituito per opposizioni esclusive, non può che derivare una società competitiva e poliarchica, in perenne tensione instabile, che misura il grado di legittimazione al potere sociale in considerazione dei relativi rapporti di forza interni ai gruppi. Le istituzioni giuridiche di questa sorta di società di gladiatori economici e politici sono concepite per sedare gli eccessi della competizione, mantenendola nell’ambito delle regole del gioco. La società liberaldemocratica odierna è infatti una game society, in cui ciascuno è chiamato ad allenarsi per giocare la sua partita cercando di vincerla. Che il senso del gioco sia più che labile, finalmente inesistente, è dovuto in ragione dell’indefinibilità razionale del valore economico come misura assoluta dell’agire umano. Essendo infatti una creazione umana, la sua funzionalità è sempre relativa al suo uso, ossia alla destinazione, e non al suo bene in sé. La considerazione del valore economico, e dunque della moneta, come bene assoluto e in sé, costituisce la forma più pervasiva di dominio della tecnica, cioè della superstiziosa credenza nella bontà del feticcio sulle sorti dell’uomo. Anche il gioco economico è un atto di libertà dell’uomo, nel quale operano le forze umane nella loro ambiguità, dove l’interesse alla sopravvivenza è commisto a modalità variabili per cultura sociale e sensibilità singolare. Diverso il caso della loro rilevazione scientifica, per la quale è essenziale l’esclusivo aspetto oggetto di giudizio, il valore appunto, indipendentemente da ogni altra circostanza contestuale. Confondere i due aspetti, quello esistenziale e quello cognitivo, porta di conseguenza a distinguere in modo astratto la vita domestica da quella politica, facendo della prima il “regno della necessità” e della seconda il

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“regno della libertà”, identificato a sua volta con la “sfera pubblica”. 203 È come se si comparasse la famiglia tradizionale con quella moderna sull’esistenza o meno in casa dei servizi igienici o l’uso delle posate. È certamente possibile concentrare l’attenzione su singoli aspetti della vita sociale, ma che restano simbolici e non discriminanti sulla qualità della esistenza umana. Infatti, il vantaggio preferenziale da noi attribuito al confort non può essere paragonato con la preferenza accordata un tempo alla verginità per giudicare la qualità di vita della società tradizionale. Questa si può considerare soltanto riferendosi al pensiero che l’uomo si fa di se stesso. L’ambito “privato”, in una convivenza comunitaria (Gemeinschaft), ha un significato ben diverso che nella moderna società (Gesellschaft), dove la polarità presuppone l’esistenza della distinzione rispetto alla sfera pubblica o politica. Lo stesso vale per l’idea di “bene comune”, che in una comunità in cui la comunanza dei beni era legata alla creazione divina ha un significato molto diverso da quello acquisito in una società fondata sul possesso dei beni privati, distinti da quelli pubblici sul fondamento di una discriminazione politica, e non metafisica. Nella comunità medievale era lo status a costituire la condizione del possesso dei beni, e non viceversa come nella società moderna, dive il possesso dei beni attribuisce la condizione sociale. Affermare perciò, come fa la Arendt, che “ciò che distingue l’atteggiamento essenzialmente cristiano verso la politica dalla realtà moderna non sia tanto il riconoscimento di un ‘bene comune’, quanto l’esclusività della vita privata e l’assenza di quell’ambito curiosamente ibrido, dove gli interessi privati assumono significato pubblico, che chiamiamo ‘società’”, 204 è un modo di giustapporre a una considerazione storica un giudizio ideologico, fondato sulla credenza (moderna) che la libertà coincida con l’attività politica, cioè con uno strumento concepito invece come il fine stesso della convivenza. Credenza analoga a quella di intendere gli elementi del bios politikos, cioè l’azione (praxis) e il discorso (lexis), come costitutivi della libertà stessa,205 senza intendere che la loro qualità ideale deriva dalla loro stessa determinazione politica, per cui l’intenzione sottesa all’azione e il pensiero al discorso sono funzionali alla loro destinazione politica, e 203

Ved. H. Arendt, The human condition (1958), tr. it. Vita activa (1964), Milano, 2014, pagg. 23-25. 204 Ivi, pag. 26. 205 Ivi, pag. 19.

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dunque di un valore pre-determinato che noi chiameremmo ideologico e non certo libertario. Lo stesso impegno del filosofo antico a razionalizzare i conflitti in competizione al fine di redimerli col suo arbitraggio, indica lo scopo immanente, puramente eudemonistico e pragmatico, del pensiero razionale.206 In tal senso, la stessa distinzione moderna tra pubblico e privato è stato un modo per lo Stato assolutista di confinare la rilevanza pubblica nell’ambito del politico, dando alla sua sfera la prevalenza su quella degli interessi particolari. Ma la legittimazione razionale di tale prevalenza pubblica sul privato è tutta riposta nella credenza che la soluzione ottimale fra le tante in conflitto sia quella razionalmente migliore, e nell’opinione comune che l’interesse ideale dello Stato coincida con quello pratico delle élite al potere, ossia con un settore particolare della società di gruppi moralmente privilegiati. Ciò che in origine era una tecnica retorica, divenne una scienza universale, avente ad oggetto non più relazioni concrete e determinate, ma modelli ideali di competizione politica. Cambiate le gerarchie di valore ideali, cambia anche la rilevanza accordata alla politica nello spazio pubblico; spazio che nel Medioevo era occupato dalla religione, dalla quale originava il senso coevo della libertà, come relazione soprannaturale e non politica. Ora, poiché al fondo di ogni controversia politica c’è “quella riguardante il tipo di uomo che dovrebbe governare la città”, 207 la soluzione a questa fondamentale questione non può essere di natura politica, ma 206

Come già notato da L. Strauss, “i problemi principali della filosofia politica classica, e i termini coi quali essa li definì, non era specificamente filosofici o scientifici”, ma essa era un riflesso delle concrete dinamiche politiche, sulle quali si applicava “riflettendovi e cercando di comprenderle nel miglior modo possibile”. Per la sua natura pragmatica, essa neppure “cercò di portare ordine nel caos dei ‘fatti’ politici che esiste solo per coloro che affrontano la vita politica da un punto di vista estraneo ad essa,cioè da quello di una scienza che non è in modo essenziale un elemento della vita politica stessa. Invece, essa seguì con cura e perfino scrupolosamente l’articolazione che è inerente e naturale alla vita politica e ai suoi obiettivi”; vita politica “caratterizzata da conflitti tra uomini che fanno valere rivendicazioni tra loro contrastanti […] avanzate, a volte sinceramente a volte no, in nome della giustizia”. A derimere il conflitto si poneva il filosofo, quale arbitro che “cerca di risolvere quelle controversie politiche che sono di suprema e di permanente importanza” in funzione di mediatore che si adoperi a “creare, mediante la persuasione, la concordia tra i cittadini”, evitando così la “guerra civile”: Id., La filosofia politica classica, in Gerusalemme e Atene, Torino, 1998, pagg. 212-213. 207 L. Strauss, Loc. cit., pag. 217.

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antropologica. Ed è in questo contesto inerente alla natura dell’uomo universale che il carattere politico rivestito dalla riflessione filosofica acquista una rilevanza assiologica,208 tale da circoscrivere la stessa esperienza dianoetica al pensiero sulla polis, identificata con la realtà naturale dell’uomo quale essere politico, il migliore dei quali è scelto entro la gamma idealtipica locale idealizzata a modello antropologico universale, paradigmatico dell’uomo in quanto tale, storico. Ciò che ne discende è consequenziale. La praxis politica è la lotta economica per il potere, così come la lexis politica è il discorso del logos volto a perorare la causa del potere, il discorso persuasivo dei sofisti idoneo a conseguire consenso. Infatti, il bene etico finisce per coincidere con quello politico,209 poiché la dimensione politica dell’uomo non è trascendibile per definizione, per cui l’uomo politico, per Aristotile (Etica Nicomachea) come per Cicerone (De legibus), non può fare altro che assumerla, indicandola nell’interesse particolare il limite umano che la politica non deve trascurare.210 La critica platonica alla opinione comune (doxa) è indirizzata alla stessa realtà politica in quanto condizione comune, nella cui “caverna” si scontrano gli interessi sotto forma di opinioni, per andare oltre le quali l’uomo deve superare l’orizzonte politico, cioè fuoriuscire dalla caverna dei pregiudizi, e dedicarsi alla contemplazione filosofica, ma pur sempre della politica, data come condizione umana per definizione. Ed è per tale presupposta condizione umana che ogni speculazione filosofica finisce per convertirsi in ideologia, in idea politica condivisa. 211 La figura del filosofo come parte terza nelle contese politiche doveva essere infatti comunemente riconosciuta come superiore, ossia dotata di una autorevolezza carismatica che potesse supplire alla forza pratica detenuta invece dalle parti confliggenti. Tale supplenza efficace era condizionata appunto dal consenso sociale, senza il quale il giudizio del filosofo, e ancor più il suo pensiero, non avrebbero potuto aver alcuna funzione pubblica ma 208

“La filosofia politica classica perseguiva scopi pratici, ed era guidata da e culminò in ‘giudizi di valore’”: Ivi, pag. 221. 209 Aristotile notò per primo che “la virtù [etica] può condurre alla rovina [politica]”: Etica Nicomachea, 1094b 18 sgg. Ved. L. Strauss, Loc. cit., pagg. 218-219. 210 Anche se dunque è l’uomo in genere che parlando di “giusto” pensa solo ai suoi interessi, “è ugualmente vero che questa riserva è propria dell’uomo politico e liberandosene l’uomo politico non è più tale o non parla più il suo vero linguaggio”: L. Strauss, Loc. cit., pag. 222. 211 Ivi, pag. 226.

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sarebbero rimasti del tutto privati. L’aspetto decisionista, sul quale tanto ha insistito Schmitt, in realtà è originariamente extra-politico ma diventa funzionalmente politico alla bisogna, eccezionalmente. L’assorbimento della terzietà decisoria all’interno della sfera politica è la misura strutturale della inevitabile declinazione ideologica del pensiero filosofico immanente alla realtà pubblica.212 Non è certo questo il senso evangelico del kerygma cristiano, il quale non assumendo la convivenza umana come sfera esclusivamente politica, non si pone entro l’orizzonte politico in cui gli zeloti volevano trascinare Gesù, partecipando alla disquisizione sul miglior regime, ma propone un altro paradigma socio-antropologico, rispetto a quello politico greco, confutando la credenza nella sua assolutezza ed universalità.213 D’altronde, che la libertà politica sia un idolum razionalistico è comprovato anche empiricamente dalla circostanza che lo stesso assolutismo dello Stato razionale, non avendo più alcun rifugio metafisico dove espiare i suoi errori,214 sia costretto a subirli o a reagirvi all’interno 212

. È’ appena il caso qui di ricordare che il processo di accentramento dei poteri privati da parte dello Stato moderno non si diresse meno all’attività intellettuale che a quella economica, con la progressiva soppressione dei privilegi e delle autonomie dei ceti nobiliari per mezzo delle codificazioni razionalistiche, che sancivano la uguaglianza dei sudditi davanti alla legge dello Stato sovrano, e con la pubblicizzazione dell’istruzione, tradizionalmente assicurata in esclusiva dai chierici. Sicché, non soltanto “la ragion di Stato ed il moderno diritto naturale (vale a dire razionale) spezzano in pari misura l’antica unità del diritto positivo e della giustizia, e subordinano le tradizionali forme di vita al giudizio della ‘ragione’, sia essa dello Stato o del diritto”: O. Brunner, Adeliges Landleben und Europaeischee Geist (1949), tr. it., Bologna, 1972, pag. 308; ma tendono a rompere l’autonomia della cultura dai valori di legittimazione dello Stato. Modernamente, attraverso il Potere politico assolutizzato, questo "monopolio dell'interpretazione ecclesiastica del mondo tenuto dalla casta sacerdotale si è spezzato [e] al posto di un gruppo di intellettuali, chiuso e rigidamente organizzato, è nata una libera intelligentzia": K. Mannheim, Ideologia e Utopia (1936), tr. it., Bologna (1957), 1972, pag. 13. Ma “libera” dalla dipendenza ecclesiastica, non certo dallo Stato. 213 Platone, Leggi, 739b 8; Aristotile, Politica, IV libro. Il problema non è, insomma, se il miglior uomo di governo fosse “greco” etnicamente, e non piuttosto persiano o cartaginese, ma se fosse greco in senso ideale. Ved. L. Strauss, Loc. cit., pagg. 220221. 214 “[Le nazioni] sono soggette a una disperazione che l’individuo non conosce: non hanno infatti altra vita se non la loro vita nella storia, poiché mancano di quelle possibilità di auto-trascendenza che le metterebbero in grado di raggiungere un significato dell’esistenza al di là della loro vita fisica. L’uomo collettivo si aggrappa a

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delle dinamiche politiche che li hanno prodotti, ricorrendo alla gara economica se impoverito da potenze concorrenti, e al riarmo se sconfitto da un potere militare. È certo che entro l’orizzonte politico, la polarità schmittiana di amicus / hostis è insuperabile, per cui anche il suo esito infausto resta in assoluto un atto di libertà, intesa questa come la mera dinamica della lotta politica. Ma questa dynamis non è altro che l’antica fatalità (ananke) della cosmologia naturalistica pagana. Da qui il paradosso della “libertà dei moderni”: desiderata universalmente per tutti, produce dominio solo di alcuni pochi. Se dunque l’uomo “presume che questa estensione della libertà assicuri ed accresca un’emancipazione dalla schiavitù dell’io, per mezzo di una tale illusione aumenta questa schiavitù stessa”.215 La “schiavitù” nasce dall’illusione ontologica che la definizione di una realtà comune possa tradursi in un effettivo legame comune, e dunque che il racconto politico, collegato con il potere coercitivo della forza, possa non solo rappresentare la realtà comune, ma crearla. Il mito della creazione sociale attraverso la volontà politica si afferma esautorando la creazione divina e sostituendo l’Io a Dio, la parola del logos razionale al Verbo rivelato. L’auto-coscienza del pensiero ha la stessa portata ontologica di un Cogito autistico, che si crede di essere il centro dell’universo, un Soggetto universale, che ha in sé la sua finis, che è il dato naturale della soggettività, e il suo telos, che è il suo tempo escatologico. La coscienza assoluta, avendo in sé la propria ragione, concepisce la sua poiesi come il miracolo di una transustanziazione secolarizzata, una forma di magia della mente noetica, in grado di dare realtà al pensiero, trasformando le ragioni singolari, private, in ragioni comuni, pubbliche. È dunque la fede condivisa la misura del potere umano, ciò che dà realtà al pensiero. È questo consensus una condizione del mito-logema democratico; l’altra è l’identità platonica della corrispondenza del corpo sovrano del popolo alla rappresentanza politica del Potere. Con lo Stato moderno razionale “la compattezza interiore del mondo nobiliare della vecchia Europa è ormai dissolta”, e con essa “l’unità e la compattezza dell’antico mondo culturale europeo non esistono più”.216 Ma il pluralismo della società liberale, senza più il questa vita più disperatamente dell’individuo perché non è certo di una dimensione più profonda del significato della vita”: R. Niebuhr, FaH, pag. 289. 215 Ivi, pag. 294. 216 O. Brunner, Op. cit., pagg. 323 e 325.

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sostegno del tradizionale corps intermédiaire nobiliare, non riuscendo a “creare forme durevoli di convivenza umana e neppure una vita spirituale ad essa adeguata”,217 stenta a trovare un suo equilibrio stabile, non garantito dalla subentrante borghesia, la cui ideologia progressista genera la sua antitesi proletaria, e perciò costretta a ricorrere al sofisma della sovranità popolare per legittimare il proprio potere. Fede nella realtà dei prodotti razionali e identità di servi e padroni sono i due ingredienti del mito politico della moderna società razionale e secolare, emancipata da ogni dipendenza con l’Eterno, e quindi da ogni limite di giudizio divino sulle opere umane.218 La mitologia democratica è il succedaneo politico della “neutralizzazione”, dopo i valori teologici, anche del potenziale eversivo del libero pensiero metafisico.219 Ma ugualmente mitologica è la pretesa della Chiesa “di essere il termine della storia, il compimento del significato della storia [e che] cerca di provare la verità del suo messaggio per mezzo della continuità delle sue tradizioni, la ‘validità’ del suo ordine e la solidità e il prestigio della sua forma storica”. Infatti una istituzione storica che partecipi ai travagli del mondo e che si assumi il compito di una rappresentanza della volontà di Dio, condivide con il Potere secolare assolutista la pretesa “di raggiungere una perfezione trascendente all’interno della storia”. Ma poiché “la Comunità cristiana non ha la perfezione di Cristo come suo sicuro possesso”, il tentativo della Chiesa risulta “particolarmente patetico”.220 Il bisogno odierno di futuro, che costituisce il lascito scoriale della cultura del progresso, non va disgiunto con la coscienza del passato, altrimenti l’aspirazione etica diventa utopia e l’impegno civile evasione. Il declino 217

Ivi, pag. 329. “Il platonismo e l’utopismo moderno sono più razionali [della prospettiva escatologica di natura religiosa] solo superficialmente ma non da un punto di vista assoluto, poiché elaborando un sistema di significato in cui l’eternità esiste senza il tempo o il tempo senza l’eternità, separano indebitamente le due dimensioni dell’esistenza umana”: R. Niebuhr, FaH, pag. 300. 219 Ved. C. Schmitt, Die europaische Kultur im Zwischenstadium der Neutralisierung (1929), tr. it. di A. Caracciolo in Posizioni e concetti, Milano, 2007, pagg. 197-216. 220 Ivi, pagg. 301 e 303. “Né la storia della chiesa né tanto meno la storia del mondo può semplicemente venir considerata come sviluppo organico e progressiva realizzazione interiore ed esterna del regno di Dio. tra il regno di Dio e la storia del mondo e della chiesa sta il giudizio. Accanto al progresso sta sempre la colpa e la necessità di rinnovamento e di conversione continua”: W. Kasper, Linee fondamentali di una teologia della storia (1964), in GG, pag. 87. 218

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storico dell’Europa si è articolato attraverso le due fonti inquinate dell’ideologia politica e dell’ignavia morale, convergenti verso lo stesso umanesimo estetizzante e narcisista, inebriato di furori e di decadenza, fino all’estrema rinuncia a favore di un intervento risolutore esterno.221 L’impotenza endogena dell’Occidente ha una tara indubitabilmente ideale, antropologica e metafisica, che ne ha minato lo sviluppo culturale segnando ogni sua tappa evolutiva e regressiva, della quale il cristianesimo è stato il portatore sano: la gnosi greca entro l’edificio teologico cristiano, dal cui connubio è sorto il razionalismo, l’umanesimo e l’utopismo ideologico, ossia quella modernità futurista che ha rinnegato come mitiche le proprie origini religiose. La ricerca sia di un senso trascendente la realtà effettuale che di una prospettiva escatologica infrastorica, non è la manifestazione di un “cristianesimo anonimo” ma testimonia una tensione interna al sincretismo metafisico operato dalla tradizione teologica costantiniana, che le posizioni ecclesiastiche hanno quasi sempre – salvo che con Francesco e col moto protestante – emarginato e considerato eversivo, mentre invece era il portato dialettico di due istanze contrarie non componibili a sistema, quali quelle ispirate rispettivamente dal principio agapico e da quello erotico, che, confluenti nella persona storica venivano praticamente tollerate come paritetiche, anche se considerate in linea di principio concorrenti e reciprocamente esclusive. Da qui una sorta di ipocrisia sistematica nell’uniformare, in maniera platonica o idealistica, sulla fondamento dell’identità di essere e pensiero, una serie di opposti, come libertà e necessità, storia e verità, empiricamente non conciliabili, e conseguentemente nel giudicare gli eventi storici che li riguardavano come le alterne vicende di forze metastoriche incontrollabili e fuori della portata umana, attribuendo a Dio la

221

“Lasciata la realtà per l’idea, e l’idea per l’ideologia, l’uomo è caduto in un universo derivato, in un mondo di sottoprodotti, in cui la finzione assume la virtù di un dato primordiale. Questa caduta è il frutto di tutte le rivolte e di tutte le eresie dell’Occidente, e tuttavia l’Occidente si rifiuta di trarne le ultime conseguenze: esso non ha fatto la rivoluzione che gli incombeva e che tutto il suo passato reclamava, né ha condotto a termine gli sconvolgimenti di cui è stato promotore. Diseredandosi a favore dei suoi nemici, rischia di compromettere la propria riuscita finale e di mancare un’occasione suprema. Non contento di aver tradito tutti quei precursori, tutti quegli scismatici che l’hanno preparato e formato, da Lutero a Marx, s’immagina ancora che qualcuno verrà, dal di fuori, a fare la sua rivoluzione e che gli riporterà le sue utopie e i suoi sogni”: E.M. Cioran, Hitoire et utopie (1960), tr. it. Milano, 1982, pagg. 26-27.

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parte buona e a Satana la parte cattiva, e con ciò assolvendo l’uomo dalle sue personali responsabilità e i sistemi politici dalle loro aberrazioni. D’altro canto, la dissociazione tra una “teologia dell’esistenza” e una “teologia dell’essenza” è dubbio che “possa venir superata soltanto con una rinnovata riflessione sul carattere essenzialmente e completamente storico del pensiero teologico”,222 in quanto l’ipotesi di un carattere completamente storico del pensiero si pone ancora all’interno di quell’orizzonte di coscienza metafisico che ha prodotto l’ateismo moderno, conseguente alla dialettica illuministica degli opposti universali immanenti allo stesso piano di storicità. Un atteggiamento caritatevole storicamente determinato non può che derivare da una fede escatologica, la quale è la rappresentazione soggettiva, e dunque storica, di una realtà divina, l’Incarnazione del Cristo, che è determinazione divina 223 trascendente ogni singola e temporale determinazione dogmatica; e non perché stia sopra o stia oltre ogni singola determinazione umana, ma perché sta all’inizio e ne è il comune presupposto, senza il quale una posizione storica, idealmente assolutizzata, tende a fagocitare ogni altra possibile, in virtù del suo presunto e presuntuoso primato onto-logico. Con ricadute contraddittorie sulla prassi che dovrebbe essere evangelica e non solo razionalmente giustificata.224 Infatti, una carità senza fede, produce una clemenza senza redenzione, e una fede senza carità sfocia nella bigotta superstizione. Infatti la consapevolezza che “solo Gesù Cristo, che annuncia Dio come amore ed ha vissuto quest’amore, è il nuovo inizio, un sovvertimento di tutti i valori”, in quanto escatologica “pienezza dei tempi” (Gal. 4,4), può condurre a un cambiamento incruento quanto radicale non conseguibile da alcuna rivoluzione politica, costituendo “la più forte delle rivoluzioni del pensiero che ci si possa immaginare”, sia “rispetto all’antica metafisica, per la quale il soggetto, l’essere-in-sé, era il valore supremo”, e sia “rispetto alla filosofia moderna, che pensa nello schema di signoria e servitù, di emancipazione ed oppressione”.225 Con l’avvertenza, però, che la “rivoluzione del pensiero”, la metanoia evangelica, non riguarda soltanto la prospettiva teoretica e teologica, ma deve calarsi nella storia come prassi e come 222

W. Kasper, Concezione della teologia, cit., pag. 29. Ivi, pag. 42. 224 Ivi, pag. 31. 225 W. Kasper, Teologia nell’orizzonte della storia (1974), Introd. all’ed. it. di GG, pag. 14. 223

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vissuto comune. E poiché non esiste un cambiamento spirituale in senso cristiano che non coinvolga la Chiesa di Cristo, questa non può stabilirsi come baluardo di una realtà storicamente circoscritta e temporalmente definita (Dokema), che non si sente coinvolta dall’esito anti-cristiano e idolatrico di una civiltà nominalmente cristiana. Non è un caso che il rifiuto del totalitarismo politico in nome di valori umanistici di libertà, che il Cristianesimo ha culturalmente creato, abbia coinciso con il rifiuto anche del dogmatismo morale e disciplinare della Chiesa, conseguente al “distruggere la dimensione di ciò che è santo e mistero, la radicale demitologizzazione ed ominizzazione della realtà”.226 Le conseguenze teoretiche e morali di una tale rimozione consistono in una riabilitazione, non meno ma più dogmatica delle posizioni teologiche della tradizione cristiana, della antica cosmologia naturalistica applicata in sede storiografica, dove i fatti nella loro nuda fenomenologia diacronica vengono rappresentati come eventi assoluti e concatenati solo estrinsecamente a moventi prossimi o a cause remote di natura economico-sociale, ma comunque scollegate da ogni comprensione entro un orizzonte soteriologico in cui sia possibile trasvalutarli in termini non contingenti, ma solo esposti a una in(de)finita ermeneutica del senso finito. Ma questa libertà puramente noetica non è immediatamente traducibile in una “libertà dell’uomo dai principati e potestà di questo tempo del mondo”, possibile riservata solo al kerygma del Verbum caro, cioè a “l’annuncio dell’irruzione di Dio nel tempo”, 227 per cui è costretta a ricorrere al formulario ideologico più o meno rivisitato per sperare di conseguire una qualche efficacia storico-politica.228 L’ascolto della Parola diventa “compito dell’uomo”, che non è astratto dovere di una imperativa coscienza impersonale, ma modus vivendi, spazio di libertà comunitario in cui si manifesta il senso escatologico dell’esistenza che abbia a collante unitario non un concetto istituzionalizzato in forma di potere, ma il Mistero della redenzione, ossia la possibilità stessa dell’uomo di emanciparsi dal suo destino di finitezza grazie all’esperienza dell’Agape, che diventa perciò cifra della trascendenza, storicità spiritualmente trascesa in “tempo esistenziale”. Soltanto il riflesso escatologico della fede illumina gli eventi storici di una luce che attraversa la loro nuda apparenza fenomenica assegnando loro un senso che di per sé non 226

W. Kasper, Concezione della teologia, cit., pag. 37. W. Kasper, Linee fondamentali di una teologia della storia, cit., in GG, pag. 67. 228 Ved. G. Vattimo, Essere e dintorni, cit. 227

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possiedono e che impedirebbe di deformarli in segmenti mitici di rappresentazioni mito-logiche, come appunto quelle della storiografia razionalistica moderna, la quale non coglie l’evento in senso della esistenza concreta dell’uomo ma in senso puramente fenomenologico, quale riverbero simbolico del suo prescritto significato ideale. Il tempo esistenziale è lo spazio dell’incontro, comunitario per vocazione, dove la trascrizione puramente fenomenica non ne rende il senso escatologico, ossia la sua relazione con la rimossa eternità. L’antico patto veterotestamentario viene aggiornato con l’Incarnazione in dialogo, in libertà partecipata all’uomo, che ha al centro non più le res gesta di una storia collettiva e naturalistica, e neppure i logoi delle rappresentazioni singolari, ma i vissuti esistenziali degli autori che si rimandano vicendevolmente in una memoria epica che supera il soliloquio della coscienza soggettiva per acquistare un valore soteriologico di libertà comune. Da questa prospettiva ci è possibile comprender il senso anamnestico dell’epica antica, omerica, come preghiera collettiva, la cui recitazione episodica presupponeva un’esperienza emozionale, il cui valore rimandava al senso fondativo della realtà, in rapporto al quale aveva significato la memoria di quel valore. Né è un caso che l’oralità permanga anche nel kerygma cristiano come la viva esperienza di una fede che è prima vissuta e quindi annunciata. Il carattere esistenziale del tempo in senso cristiano lo costituisce in relazione al senso degli eventi che in esso avvengono, e dunque indipendentemente dalla omogenea cronologia del tempo meccanico e puramente naturalistico dell’anno solare. Sicché tempo e storia, nel senso del Nuovo Testamento, non sono né un continuo defluire di una corrente temporale né pura storicità puntuale; sono piuttosto lo spazio esistenziale dell’uomo e l’orizzonte della sua esistenza storica, aperto a lui dalla salvezza, messa a disposizione da Dio, e dall’umana ubbidienza o disubbidienza. Siffatta storia non dev’essere presentata né come linea né come cerchio […], ma tutt’al più come campo di tensione fra due poli, che procede in forma dialogica; i poli sono collegati in modo escatologico-definitivo ed irrevocabile in Cristo.229

Ciò comporta che le rappresentazioni umane del senso e significato dell’esperienza storica, cioè le ideologie storicistiche, i miti politici e le 229

W. Kasper, Linee fondamentali di una teologia della storia, cit., in GG, pag. 75.

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utopie secolaristiche, per quanto temporaneamente efficaci per l’azione, sono destinate a infrangersi contro l’orizzonte soteriologico inaugurato dal tempo escatologico dell’Avvento, che trasvaluta il kairòs umano in senso divino, emendando la libertà umana da ogni dipendenza naturalistica ma anche da ogni presunzione di autonomia, poiché, nel nuovo eone, “la storia sta sotto la norma e sotto il metro di Cristo [e] non può mai voler presentarsi in forma autonoma ed autarchica”. 230 E pertanto, una libertà che si fondi sull’uomo non può che determinarsi nella stessa finitezza umana, entro cioè un orizzonte di solitaria assolutezza, irrelata da ogni consapevole determinazione nella Differenza, e dunque senza quel dialogo con Dio che costituisce il presupposto e l’essenza della umana libertà. L’intero movimento del pensiero e dell’esistenza umani, circoscritto entro la dimensione autarchica dell’umanesimo razionalistico e storicistico, produce forme di socialità, valori etici e sentimenti relazionali tarati da una insuperabile minorità antropologica che impedisce di predisporre una condizione umana spiritualmente coerente con l’attesa escatologica; non nel senso di un tempo avvenire, ma della compiutezza della coscienza cristianamente integrale. A questo proposito, vi è da dire che la prospettiva cristiana, se fondativa di senso storico, non può essere intesa come una opzione parallela a quella della storicità profana, quasi che esistesse una storia del mondo distinta da quella della salvezza. 231 In realtà, l’avvenimenzialità di una fenomenologia mondana, interna a una temporalità profana e naturalistica, non è una vera storia in senso spiritualistico cristiano, ma soltanto una congerie di istorie particolari scandite dalla tensione erotica verso il Potere, a fronte del quale il kairòs personale si determina come contingenza assoluta, sia di fronte al mondo che di fronte a Dio. L’assolutezza dell’uomo fuori della relazione con l’eterno non è libertà ma sofferenza della solitudine, ben diversa dalla volontaria sofferenza cristiana come “possibilità dello scandalo”. La sofferenza moderna, più che “disperazione”, intesa come identità di morte e fine della vita, è “malattia mortale”, ossia “assenza di ogni speranza”, neppure quella della morte. Infatti, “quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta la speranza, allora la disperazione nasce venendo a mancare la speranza di poter morire”. La “contraddizione penosa” di una vita in cui “vivere 230 231

Ibidem. W. Kasper, Linee fondamentali di una teologia della storia, cit., in GG, pag. 87.

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[significa] sperimentare il morire” dell’eterno, che non può morire, è la “malattia mortale” dell’uomo solitario.232 In questa solitudine metafisica, in cui consiste l’assolutezza della soggettività finita fuori della relazione nella Differenza, i progetti collettivi che tentano di disegnare una storia esclusivamente umana, ossia naturalistica, sono destinati al fallimento, poiché solo nella dimensione spirituale c’è storia; tutto il resto è mera cronologia e avvicendamento di situazioni determinate dalla insuperabile Necessità, che opprime l’uomo entro i bisogni della vita biologica, concentrando la sua ratio a risolverli, e così distraendo la sua intelligenza dalla questione fondamentale della salvezza. “Non la fede, ma le utopie sono oppio del popolo”. 233 L’impotenza della Verità cristiana nel tempo della rimozione della Differenza si manifesta la difficoltà di pensare il mondo senza coinvolgere il pensiero del mondo sviluppato dal cristianesimo storico, senza cioè pensare il passato come compiutezza cristiana anziché come inizio della degenerazione presente, la quale non sarebbe stata possibile senza le disfunzioni di un sistema di pensiero positivamente cristiano, giustificativo e orientativo di una prassi apparentemente ispirata evangelicamente. Questa ammissione coinvolge, in rapporto al presente, allo stesso titolo la tradizione dogmatica e quella ecclesiale che l’hanno reso possibile, e dunque non le singole testimonianze di fede e di azione pastorale, ma l’impianto teologico che ha sostenuto l’organismo istituzionale della Chiesa storica e la sua azione nel tempo. Ma per comprendere i limiti dell’azine della Chiesa nel mondo, occorre primieramente stabilire i termini della sua responsabilità. Anzitutto chiarendo che l’autonomia dell’uomo nel mondo secolarizzato è un portato della stessa libertà accordata da Dio in funzione della umana responsabilità e gratuità della dedizione a Lui. Non è pensabile infatti che il potere di Dio sul mondo possa cessare a seguito delle pretese dell’uomo all’autarchia. Sarebbe come affermare che venisse meno la Differenza per assenza dell’Infinito. Chi diserta la relazione è sempre l’uomo, così come è l’uomo a irretirsi nei falsi idoli del tempo, per cui il tempo divino diventa altro rispetto a quello umano quando l’uomo si sottrae all’ascolto dell’eterno per delimitarsi nella propria finitezza, entro la quale anche la 232

Ved. S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo n. II (1848), tr. it. in Opere, a cura di C. Fabro, Casale Monferrato, 1995, vol. III, pagg. 254-258; Id., La malattia mortale (1848), in Loc. cit., pagg. 26-27. 233 W. Kasper, Linee fondamentali di una teologia della storia, cit., in GG, pag. 77.

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temporalità è finita. Ciò significa che l’eternità vissuta dalle singole esperienze umane conferma soltanto che la presenza di Dio nel mondo non è relegata a un eone particolare, a una stagione teocentrica, conchiusa la quale Dio si è esiliato nei cieli, ma è una presente immanente come possibilità ogni qualvolta l’uomo si predisponga all’ascolto della sua Parola, ossia segua il modello evangelico. La possibilità della presenza di Dio nella storia dell’uomo è la Sua libertà, che incontra la libertà umana che si presti all’ascolto. Ciò significa che il silenzio storico di Dio si misura con la sordità dell’uomo, ed è dunque nell’uomo che si deve attivare la presenza divina, attraverso una educazione all’ascolto della Parola, e con ciò definendo anche la missione pastorale della Chiesa nel mondo. Educare l’uomo all’ascolto della Parola significa stabilirne il senso della Verità eterna entro un orizzonte ermeneutico della salvezza, in grado di riconoscere la Differenza tra ciò che è prodotto della situazione esclusivamente umana e ciò che è prodotto della relazione con Dio. Il soggettivismo moderno ha condizionato la definizione della realtà in termini di produzione singolare, rapportando al modello di attività concettuale ogni varia realtà ontica, ma non esiste una realtà soggettiva che non coincida con la rappresentazione soggettiva della realtà, sicché l’equazione metafisica dell’Essere e del pensiero non è che un prodotto di una tale rappresentazione. Ciò che è invece prodotto nel mondo è sempre mondano, plurale e non singolare, opera di collaborazione e di esperienze molteplici in cui il singolo si riconosce avendone avuto parte ma che non sono propriamente sue, come la lingua che parla in lui non è la sua lingua se non in quanto egli la interpreta. Anche ogni pensiero del mondo è solo una interpretazione, che è del mondo ma non è il mondo. Non tener conto della realtà mondana che trascende la partecipazione singolare agli eventi del mondo è come non tener conto della creazione nell’operare sulla natura. Ci si può concentrare su un particolare astraendo dall’insieme, ma nessun particolare potrà mai sostituire il tutto. La coscienza di questo legame di ognuno col Tutto è lo stesso sentimento che sostiene la relazione dell’uomo con Dio, o coi suoi surrogati ideologici e idolatrici prodotti dall’immaginazione umana dimentica di Dio. Non si ha coscienza personale senza la relazione che la persona ha con l’Altro. La questione è se tale Altro sia Cristo o un idolo nato dalla rappresentazione umana del mondo. E’ dalla decisione (Entschlossenheit) di servire Dio o altri dèi che nasce la possibilità di vivere un’esistenza storica, inscritta in 95


un disegno di salvezza spirituale, ovvero una mera esperienza temporale segnata dalla intrascendibile e solitaria finitezza. Non sono due storie, ma solo una autentica e una parvenza di storicità. Le due fondamentali possibilità d’esistenza, quella improntata all’autenticità (Eigentlichkeit) e quella che procede nella inautenticità (Uneigentlichkeit) non riguardano tanto la soggettiva possibilità di “riprendersi in proprio dalla dispersione nel Si”, fondando “un poteressere nel proprio se-Stesso”, come sostiene Heidegger, 234 quanto la modalità di relazione con l’Altro all’interno della quale l’autenticità ha un senso trascendente, senso di cui è priva la relazione inautentica. Infatti è la modalità che stabilisce il valore della relazione inter-personale, al di là della intenzionalità degli attori, in quanto è essa a conferirle un significato comune, non vincolato alla soggettiva rappresentazione, la cui valenza intenzionale può anche differire dalla manifestazione volitiva. Ed è appunto il valore inter-personale della relazione ad avere un senso autenticamente storico, ovvero uno meramente contingente e inautentico. E pertanto non è l’Esserci (Dasein) il referente assiologico della relazione, ma la relazione stessa, le cui modalità autentiche / inautentiche determinano il suo valore significativo. In questo senso, la fede escatologica è pre-condizione di validità assiologica della Parola evangelica come kerygma, senza la qual fede il narratum si declina come Mythos, pura sequenza di eventi senza un intimo verbum. Se tale verbum per gli storiografi greci, da Tucidide in poi, è il logos, come principio unitario dei singoli fenomeni, per i cristiani è l’Agape divina il cui Logos manifesto è il Cristo, la sua Storia, indicativa di quella modalità paradigmatica che costituisce il senso autentico della relazione inter-personale. Esso consiste nella pre-disposizione alla salvezza, non del Sé, ma dell’Altro, attraverso il quale si rivela l’autenticità personale. Il tempo escatologico è in questa rivelazione, la quale appunto avviene nel tempo escatologico, in cui la coscienza agapica nell’Altro ritrova la presenza del Cristo, che è la sua interiore verità. Nella prospettiva cristiana, dunque, la storia personale si temporalizza nella relazione, nella modalità comunitaria di vivere la propria esistenza attraverso l’esistenza dell’Altro, che è il Tu del dialogo della coscienza con la Verità. L’orizzonte della Verità in cui la coscienza personale incontra l’Altro è il modo esistenziale dell’autenticità, che rivela ogni atto 234

M. Heidegger, Sein nd Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi, Milano, 1976. § 54, pag. 326.

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storico al suo valore trascendente; che trascende cioè la personale rappresentazione del mondo, consentendo all’analogon soggettivo di acquisire un senso comune, che ne accoglie il mystero come dono rivelato, libero nella sua autentica intenzionalità. La rivelazione del mystero personale donato all’Altro come libertà autentica, ripercorre analogamente la Rivelazione di Cristo all’uomo, la Cui kenosis rappresenta il rischio della libertà, dell’offerta del dono d’amore. Sicché, “ogni tempo non soltanto è circondato dall’eternità di Dio, ma è anche qualificato da Gesù Cristo”, 235 in modo che l’azione dell’uomo sia posta in ogni tempo alla fondamentale decisione modale dell’autenticità o non. Il tentativo dello storicismo umanistico di offrire un senso razionale immanente alla fenomenologia autonoma dell’uomo nel tempo per distrarlo dal suo destino di morte era destinato al fallimento, confermando l’impossibilità di rimuovere la Differenza e costituire all’interno della finitezza un surrogato dialettico alla polarità finito / Infinito che solo nella relazione tra uomo e Dio può realizzarsi come liberazione storica dalla morte. Se la storia non è questa tensione soteriologica, non è storia, ma inane processo temporale contro la morte: una imperfectio formae perché senza la perfectio finis. Se la storia “non va a finire nel vuoto e non affonda in qualcosa che non ha né consistenza né senso”, è appunto perché “si muove in Cristo e verso Cristo”,236 impedendo, attraverso i testimoni della fede, che dilaghi il nonsenso della logica del finito. E soltanto per l’azione salvifica di contrasto katechontico della realtà autentica si può asserire che “ogni storia profana è già, nella fede, anche storia della salvezza in un senso generale”, ossia in quanto “è accettata da Cristo ed è a lui indirizzata”. 237 Ma esistenzialmente, cioè nel tempo dell’esperienza umana, la non-storia naturalistica è il limite da superare, non da accettare, anche nella impossibilità temporanea di poterlo fare. Un’accettazione umana della cd. “storia profana” è già una resa morale alla logica di Cesare, e l’errore di volersi sostituire alla clemenza divina. Per questo la risorsa dell’amore cristiano non può dispiegarsi nei soli rapporti occasionali, ma deve potersi stabilire come modalità comunitaria riconosciuta di valore pubblico. L’altra guancia si deve porre all’Altro che sbaglia, ma non all’errore, accogliendo la “storia profana” come una variabile antropologica e 235

W. Kasper, Linee fondamentali di una teologia della storia, cit., in GG, pag. 83. W. Kasper, Ivi, pag. 89. 237 Ibidem. 236

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“anonima” della storia escatologica, legittimandola di diritto perché de facto. Assimilare la natura alla grazia nella comune origine divina, significa eludere il senso profondo della rivelazione cristiana come kerygma cattolico, confondendo la possibilità dell’adesione di ogni uomo alla Verità cristiana con l’universalità del significato ideale della Parola, cioè con la sua traduzione concettuale, la quale, senza l’intima adesione di fede, che non si può presumere ma è legata alla libera responsabilità della coscienza personale, viene recepita come Mito, anche se ecumenico. Se è pur vero che “la salvezza si incontra nella contingenza e nell’ambiguità della storia”,238 è altresì vero che l’evento assoluto, proprio perché situato nel tempo della storicità, è situato in un contesto esistenziale particolare, rispetto al quale l’evento è rivelazione eccezionale. Ma questa non può sussistere in uno stato di eccezione, poiché la conversione deve poter annunciare una esistenza cambiata dalla fede rispetto alla vita precedente, e non circoscritta a un dato intimo. Soprattutto perché la conversione è un atteggiamento inter-personale, che perciò presuppone e necessità di una con-presenza dell’Altro anche esistenzialmente, e in tal senso “nella parola”, poiché il kerygma è il luogo del riconoscimento dell’Altro. Allora la comunità di parola è quella che si costituisce attraverso la mediazione della Storia narrata di Cristo, che nella sua Parola si ritrova come nella cerimonia eucaristica, ma che la diffonde stabilendo altre relazioni che la pongano al centro. Questo carattere comunitario e relazionale implica la costituzione di un modus vivendi che fin’ora si è determinato nelle convivenze monastiche, vocazionalmente alternative alla vita sociale, la cui significatività perciò è rimasta interna alla sua eccezionalità. Fin quando la stessa Chiesa istituzionale fronteggerà una struttura sociale e politica diversa da quella ispirata alla comunità cristiana, non si perverrà ad alcun avanzamento nella rilevanza della Parola come modalità di coesistenza umana, e la tensione tra forme di esistenza ispirate da principi opposti non cesserà di annichilire il messaggio della Parola, svuotandolo del Verbo veritativo e degradandolo a tradizionale e innocua rappresentazione mitica, a letteratura religiosa. La potenza evocativa del mito, nel nostro caso cristologico, è nel suo valore catartico e dunque soteriologico, senza il quale la preghiera recitata diventa spettacolo cerimoniale, mera liturgia del ricordo, 239 priva di 238 239

W. Kasper, Ivi, pag. 91. Ivi, pag. 92.

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conseguenze esistenziali, quale rischia di risolversi la stessa attività ermeneutica. Ciò che occorre non una utopistica “trasformazione del mondo”, che anticipi l’apocalissi di Cristo inseguendo e superando in efficacia le concorrenti ideologie secolaristiche, magari competendo con esse sul piano politico-elettrale; ciò che occorre è la costituzione di comunità di parola, ispirate a forme di pensiero non dialettiche. Per Hegel la dialettica è “la natura stessa del pensiero”, in quanto risolve le astratte contraddizioni dell’intelletto, che, rispecchiando la realtà del finito, sopprime se stesso, producendo così il progresso della scienza. Elevandosi sul finito, la dialettica esprime il vero come realtà di pensiero, dimostrando il principio dell’identità di razionale e reale, e dunque la stessa dialettica come la legge, non solo del pensiero, ma della intera realtà, e dunque avente un valore assoluto. Caratteristica della logica dialettica hegeliana è la sintesi degli opposti, che in realtà è la risoluzione dell’infinito nel finito e l’identità di finito e infinito, con la quale si annulla la distinzione tra sfera sacra e profana, facendo dell’unica realtà storica un mondo razionalizzato, in cui il divenire dell’Idea è la sua stessa manifestazione. Ma la dissoluzione nel finito di ciò che è infinito è possibile soltanto pensando il finito come processo assoluto, per cui tutto è storia, il cui termine non è temporale (e dunque storia come eterno svolgimento) ma coscienziale: il movimento dialettico finisce nella coscienza assoluta o autocoscienza. Il suo sistema segna l’apoteosi della soggettività, in cui la diversa realtà è assimilata allo stesso pensiero che la pensa. Ogni forma di dialettica, dalla platonica alla stoica, è una “logica dell’apparenza” (Schein), insita nel giudizio,240 che consiste nel credere reali le rappresentazioni del pensiero. Il dramma che essa riflette nel pensiero e coglie a suo modo è la tensione irresolubile tra opposizioni del mondo naturale, le quali, razionalizzate, distraggono la coscienza dal pensare la vera relazione che essa può instaurare con l’Infinito trascendente. Infatti l’immanenza dei principi critici della logica trascendentale, che si è posta come superatrice di quella conoscenza illusoria, ha come condizione gnoseologica la sua validità entro la realtà dell’esperienza finita.241 che è un altro modo per neutralizzare le possibilità della conoscenza umana nei termini della sola certezza, 240

I. Kant, Kritik der reiner Vernunft (1781), Intr. alla “Dialettica trascendentale”, Bari, 1963, pag. 291. 241 Ivi, pag. 293.

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facendo della certezza teoretica il riflesso di quella sensibile, priva di errore perché priva di giudizio,242 e anticamera perciò di una scienza Wertfreheit. Ma questa pretesa scientistica non è soltanto interna all’attività noetica, ma finalizzata implicitamente a neutralizzare la stessa coscienza morale, facendola coincidere con il giudizio di ragione, e perciò confermando surrettiziamente lo stesso intento del razionalismo dialettico antico. La Neutralisierung consiste infatti nel riconoscimento del valore universale di una istanza particolare avanzata in nome della sua affermazione razionale, e quindi presuppone la tecnica dialettica idealistica di assolutizzare una posizione razionale assumendola come reale, operazione in cui consiste la razionalizzazione ideo-logica di una opinione. Indicando nell’economico lo stadio finale del processo di razionalizzazione della cultura e della società dell’Europa moderna, Marx lo ha indicato come il fondamento tecnico stesso dell’intera storia umana, universalizzando a sua volta i termini del processo storico europeo. In tale razionalizzazione, o universalizzazione di una posizione razionale, consiste l’ideologia, la quale rappresenta appunto una posizione particolare nel suo aspetto ideale, legittimandola come necessaria. E pertanto la necessità è l’essenza caratteristica di ogni procedimento dialettico,243 quale tecnica del pensiero logico quale ars iudicandi. Questa tecnica è stata adottata in età antica ed ellenistica dagli stoici, e quindi passò al Medioevo attraverso i Padri della Chiesa e Boezio. Essa pervenne, attraverso lo stoicismo, a Roma e fu adottata da Cicerone, il quale nei Topica indicò le due artes che assicurano la veridicità del discorso: l’ars iudicandi o disciplina , e l’ars inveniendi, corrispondente alla . Le norme dialettiche governavano l’aspetto formale delle argomentazioni, mentre i loci o  erano le categorie mentali con cui si assicurava la corrispondenza tra discorso e realtà, assicurando “la validità del passaggio mentale da ciò che è già noto a ciò che ancora non lo è”, come ad es. la comprensione della specie nel genere. “L’ars inveniendi, o topica, individuando i loci, assicura perciò la possibilità di fondare la scienza su notiones certe, mentre l’ars iudicandi, o dialettica in senso stretto, presiede al solo coordinamento formale dei suoi percorsi argomentativi”. Ciò implicava che i philosophes non fossero 242

Ivi, pag. 291. Di diverso avviso N. Abbagnano, per il quale la sola dialettica hegeliana è caratterizzata dalla necessità. Ved. Id., Quattro concetti di dialettica, in AA.VV. La dialettca, Torino, 1958, pag. 16. 243

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in grado di recte iudicare la res in sé, ma solo le notiones intellettive prodotte dalle loro rappresentazioni, tratte dalla realtà sensibile e la cui essenza restava quindi non verificabile. “La razionalità è in grado di assicurare la coerenza formale dei propri percorsi, ma non per questo deve esserle riconosciuta la capacità di argomentare in modo inequivoco sulla maniera di essere di ciascun oggetto lavorando su una notio fenomenica che considera a esso corrispondente in modo soltanto orientativo, non verificabile e dunque non oggettivo”.244 La conseguente diversità di opinioni tra filosofi è legata al loro soggettivismo, derivato dalla incapacità di avere un metodo in grado di distinguere il vero dal falso, secondo una dimostrazione razionale che resti valida a prescindere da una verifica pratica dei suoi assunti. La distinzione logica, quale operazione dialettica, non giudica della realtà ma la legittimità razionale delle proposizioni atte a conoscerla, e quindi inerisce ai processi formali del pensiero e non alle cose in sé, ossia alla loro relazione logica e non alla loro natura ontologica. Solo un atto di fede, come quello degli stoici, può collegare l’ordine logico, ossia le verità di ragione, legata al discorso intellettivo, a quello reale, alle verità di fatto, legate alla causalità naturale, ammettendo un nesso causale universale e necessario in ogni evento di ogni tempo. 245 Questa fede non poteva essere accettata dallo spirito pratico romano, per cui fu respinta insieme a ogni pretesa oggettivistica dallo stesso Cicerone, che diffondendo con la dottrina stoica emendata anche la sua riserva teoretica, provocò una generale diffidenza dei ceti colti nel periodo imperiale verso la filosofia e la sua possibilità di offrire una qualche dottrina valida al buon vivere. È a questo punto che si inserisce la fede cristiana come proposta risolutrice della crisi del sapere antico. 246 Essa infatti poteva offrire come modello di compiutezza di verità, e dunque di 244

G. d’Onofrio, Vera Philosophia, cit., pagg. 18-19. Ivi, pag. 29. 246 “Proprio partendo dalla constatazione della crisi del sapere antico, i predicatori cristiani invitarono infatti gli intellettuali del tardo mondo romano a riconoscere che la conoscenza compiuta del cosmo e dei suoi segreti è ammissibile soltanto da parte di una entità divina, dotata di potere e di scienza senza limiti, non contrastabile da alcuna altra potenza magica o soprannaturale, e alla quale, anzi, tutto obbedisce e da cui tutto proviene; e che, conseguentemente, la stessa conoscenza è riservata ai soli uomini che si affidano alla rivelazione di tale conoscenza divina”. E fu così che “la riflessione cristiana sulla Rivelazione assunse le forme di una nuova, appagante proposta di comprensione sistematica della verità”: G. d’Onofrio, Vera Philosophia, cit., pag. 33. 245

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conciliazione di razionale e reale, la persona del Cristo, Verbo incarnato che, a detto di Ireneo, “omnia recapitulans, recapitulatus est”.247 La filosofia antica non poteva pervenire alla verità perché mancava della vera conoscenza dell’Essere, senza la quale non c’è sapientia. Partendo dalla Rivelazione cristica, ossia dalla fede nel vero Logos, Agostino ribalta le condizioni della conoscenza filosofica tradizionale, stabilendo il fondamento di fede come principio del sapere. E la fede in Dio è la stessa verità di Dio, sicché conoscere la verità è conoscere Dio, e viceversa. E poiché Dio è la verità, “in Lui il rapporto tra conoscente e conosciuto è inverso rispetto a quello che vige nelle intelligenze create: queste conoscono le res in quanto e nel modo in cui esistono, mentre le res esistono perché Dio le conosce, pensandole nell’eternità del suo Verbo”.248 A questo punto il problema di Agostino è “non accoglierla ciecamente”, la fede, poiché “sarebbe ingiustificato introdurla all’interno della logica […] come il possibile fondamento di una conoscenza certa, dimostrativa e comprensibile”, dovendo la sua conversione “essere rispettosa delle regole formali che, secondo la scienza degli antichi, la consentono”.249 In questa semplice esigenza si concentra il dramma di una fede che la coscienza pagana pretende di dover giustificare con la ragione profana, la quale, se fosse criterio di verità, non avrebbe bisogno della fede per giungervi. La fede da Agostino è ancora intesa come cognitio veritatis, come dimostrazione logica, a partire da principi generali (i  della Metafisica aristotelica), di evidenza immediata e universale, che fungano da  e che Scoto indicherà come “communium animi conceptionum” identificandole con la stessa dialettica.250 È una conversio logica interna alla filosofia, al modo di pensare razionalistico, anche se con rapporto invertito tra credere e comprendere, per cui la formula “intelligo ut credam” diventa “credo ut intelligam”, ma in cui entrambe le proposizioni sono “vere” in quanto convertibili, andando a costituire “i due modi diversi ma necessari e complementari” della conoscenza dell’unica “verità totale”,251 mentre non può esserci 247

Ireneo di Lione, Contra hereres, V, 21,1, tr. it. Siena, 1996, vol. II, pag. 205. Ved. G. d’Onofrio, Vera Philosophia, cit., pag. 35. 248 G. d’Onofrio, Vera Philosophia, cit., pagg. 54-55. 249 Ivi, pag. 55. 250 Ivi, pag. 156. 251 Ivi, pag. 56.

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equivalenza tra la Verità totale, e dunque eterna e infinita, e il modo temporaneo e finito di una sua rappresentazione, secondo il metodo dialettico, incapace, per ammissione comune degli stessi filosofi ,di pervenire a risultati comunemente accettabili. Il vincolo teoretico alla tradizione filosofica diventerà un mutuo culturale di enorme portata storica per la tradizione cristiana, la quale acquisendolo come il retaggio universale dell’umanità storica, ne farà un paradigma universale congiunto inseparabilmente alla religione cattolica, di cui diventerà strumento gnoseologico indispensabile. La conseguenza macroscopica è stata quella di perpetuare i valori naturalistici sottesi alla metafisica antica, attribuendoli alle ragioni del mondo, riservando alla fede in Cristo una valenza ecclesiale ma personale, legittimante il potere secolare dell’ istituzione ecclesiastica, ma storicamente inefficace a imprimere un significativo cambiamento dei modi di esistenza tradizionalmente pagani e considerati naturali, ossia antropologicamente stabili e immutabili. Con lo sviluppo progressivo e invasivo delle strutture istituzionali informate al principio di ragione, l’istanza di universalità insita nella sua pretesa di validità universale, si è ritorta con moto fagocitante sulle stesse fondamenta fideistiche della religione cristiana, vieppiù considerata, dalla prospettiva scientifica in cui si poneva la ragione emancipata dalla fede, come reminiscenza mitica di un passato intellettualmente infantile. Ciò che il metodo razionalistico ha determinato entro la stessa rappresentazione teologica del cristianesimo storico è la credibilità per certezza empirica del fondamento naturalistico dell’antropologia pagana, a fronte della miticità per credenza di fede della conversione cristiana dell’uomo alla dimensione agapica, per cui la prospettiva escatologica, per quanto ribadita in sede religiosa, rimaneva impraticabile in sede storica, tanto che la stessa nozione di storicità era andata acquisendo un’accezione del tutto autonoma da quella spiritualistica cristiana delle origini, quasi che il suo movimento processuale avesse una dinamica razionale anziché escatologica, il cui disvelamento sotto la fabula religiosa costituiva il compito noetico della riflessione demitizzata e consapevolmente perciò secolarizzata. Con Hegel, come è stato affermato, “il divenire della salvezza viene proiettato sul piano della storia del mondo e quest’ultima viene innalzata al piano del primo”, 252 ma i “secoli di pensiero occidentale” che lo separano da Agostino, non tolgono che la teoria di una filosofia della storia, ossia della storia 252

K. Loewith, Meaning in History, tr. it. cit., pag. 80.

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dell’uomo pensata come processo razionale universale, e dunque dell’intera umanità, anziché spirituale, secondo il modello cristico, fu pensata da Agostino.253 Dopo di lui, lo stesso sommo Tommaso “difende la teologia dinanzi al tribunale della filosofia”, 254 legittimando così la sua funzione di essenziale strumento di verità in un orizzonte valoriale pubblico quale quello della religione, emancipando così il pensiero filosofico dall’antica ipoteca che gravava in origine sul suo carattere di pensiero privato.255 La conseguenza fu che il Kòsmos, ossia la realtà ordinata non secondo le leggi divine ma secondo le sole prescrizioni umane, da contesto precario dell’uomo “caduto nella morte” perché fuori della , e quindi “nello sforzo di vivere di se stesso” privo di identità, conseguibile solo “consegnandosi a Dio”, ossia giustificandosi; da realtà destinata naturalmente alla morte, diventa contesto salvifico, realtà cioè in cui è possibile raggiungere la salvezza, ossia la vittoria dalla morte, anche senza la giustizia della fede, che per Paolo “è la condizione per ricevere la salvezza, la vita”, in quanto “in Rom. 10,10  e  sono in parallelismo sinonimico”.256 Una salvezza naturale conseguita fuori della fede e per mezzo della ragione, la fede naturalistica di un mondo legalizzato dalla scienza umana ma non legittimato dalla giustizia divina. Le ragioni profonde per le quali “la tensione eonica nell’attuale tempo storico” persiste ancora nella dualità “tra chiesa e mondo” sono legate alla rappresentazione teologica tradizionale per la quale tale tensione sia strutturalmente “necessaria” a definire l’impegno 253

È pur vero che “Agostino porta la ragione filosofica a riconoscere, con le sue stesse forze, che la veritas, se esiste, non può che essere divina” (G. d’Onofrio, Vera Philosophia, cit., pag. 59), ma la condizione facoltativa alla ragione è imprescindibile per la gnosi cristiana, sicché è difficile che, a prescindere dalla premessa fondativa del senso della realtà, sia possibile ai due procedimenti conseguire con gli stessi strumenti teoretici risultati diversi da quelli stessi posti in premessa, per cui è impossibile una conversione della filosofia in verità cristiana (Ivi, pag. 64). Non a caso è stato confermato che “è proprio la dinamica dell’eros platonico che si concretizza nel programma” agostiniano: Ivi, pag. 59. 254 L. Strauss, Gerusalemme e Atene, cit., pag. 266. 255 Nella città organicistica della Grecia classica “c’era tuttavia un’attività che era di fatto, nonché in teoria, fondamentalmente e radicalmente privata, transpolitica e transsociale: la filosofia. Le scuole filosofiche erano fondate da uomini che non erano investiti da un’autorità, da semplici privati, e non dalle autorità civili o ecclesiastiche”, Ivi, pag. 267. 256 R. Bultmann, ThNT, pag. 258.

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escatologico cristiano, e storicamente “permanente” a qualificarlo nel tempo profano.257 La missione della Chiesa, semper reformanda, “si riferisce al servizio della parola e dei sacramenti”, mediante i quali “essa trasforma il tempo di Gesù Cristo nel qui ed oggi della nostra storia ed universalizza l’esistenza di Cristo, avvenuta una sola volta. Ciò che è singolo-individuale non è qui una concretizzazione dell’universale, ma l’universale è una generalizzazione ed universalizzazione dello individuale”.258 Ma come può un evento unico nella sua “inaudita singolarità”, come quello pasquale della resurrezione di Gesù, che costituisce “il punto di partenza del movimento cristiano, il nuovo inizio che contiene in sé tutto ciò che è specifico della fede in Cristo”, 259 universalizzarsi senza riscrivere quell’evento in termini appunto “universali”, ossia theo-logici? È questa rappresentazione razionalistica la forma che il racconto evangelico ha assunto culturalmente nell’ oikumene cristiana allo scopo di giustificare la Verità in termini accettabili alla sapienza pagana, e quindi nel linguaggio del logos della metafisica naturalistica greca. Infatti, il circolo ermeneutico del significato logico e del significante verbale rimanda, espressamente o non, alla verità del logos, che nel caso della metafisica greca è quello naturalistico della Physis, la cui realtà normativa è il Kòsmos,e non certo quello cristiano del Cristo, la cui realtà normativa è il Regno di Dio. La  cristiana non è un concetto logico, una cognitio veritatis dedotta da un ragionamento, ma la Storia di Cristo, senza la quale le stesse scritture vetero testamentali da sole non possono garantire la salvezza, diventando anzi “una chiusura nei confronti di Dio”. 260 È la fede in Cristo, ossia l’incontro con Gesù, che consente “l’apertura al futuro di Dio”, ossia il nuovo inizio segnato dalla dimensione escatologica in cui l’esistenza umana acquista il suo significato originale rispetto a quello canonizzato dalla antropologia antica, che è errato rispetto alla Verità. E se “l’errore non ha ‘in sé’ l’identico diritto della verità”, il suo tempo, “considerato in un concreto contesto storico-salvifico”, non è soteriologicamente valido “fino al compimento escatologico, che Dio solo può produrre”, 261 poiché 257

W. Kasper, Linee fondamentali di una teologia della storia, cit., pagg. 93-94. Ivi, pag. 94. 259 B. Forte, Trinità come storia. Saggi sul Dio cristiano, Cinisello Balsamo, 1988, pag. 27. 260 R. Bultmann, ThNT, pag. 360. 261 W. Kasper, Linee fondamentali di una teologia della storia, cit., in GG, pag. 95. 258

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la apocalisse di Cristo non segna il compimento del suo Avvento, che è un evento in sé compiuto e non a termine differito, ma quello di ogni utopia e ideologia escatologica infra-mondana, compresa ogni teodicea razionalistica, tesa a giustificare razionalmente la persistenza nel tempo escatologico delle forme di salvezza profane, aventi in più pretese universalistiche del tutto assenti in quelle classiche pre-cristiane; giustificazioni che hanno costituito a loro volta la giustificazione profana della sussistenza della Chiesa come Dòkema. Rispetto a questa essenziale e cruciale problematica che non potrà non investire, con il problema di sviluppare una nuova ermeneutica della storia, il ruolo dei cristiani nell’età della tecnica e del nichilismo, la risposta cattolica odierna ecclesiasticamente più accreditata appare sconsolante e ignara dei tempi. Infatti la “speranza indistruttibile” di chi, da cristiano, contrappone “a tutte le utopie, i sogni, le ideologie, i miti storici e le illusioni, insieme ai loro radicalismi […] la positività e l’accettazione della realtà” descritta “in forma dialettica”, 262 suona terribilmente beffarda e tragicamente fuorviante, se soltanto pensiamo al martirio della fede nel mondo odierno e al collasso, non soltanto delle istituzioni profane e delle loro derivazioni, ma della stessa prospettiva cristiana, sempre più incapace di essere il sale della vita umana proprio perché, recuperando il razionalismo antico,263 ha adottato in proprio la logica della transeunte sapienza profana.264 VI AGON LA VIA GRECA ALL’ESSERE

262

Ivi, pag. 96. G. d’Onofrio, Vera Philosophia, cit., pag. 66. 264 “Agostino ha tracciato in modo indelebile il profilo operativo del programma di ricerca che sarebbe stato fatto proprio, con universale concordia sui fondamenti, dagli intellettuali cristiani ispirati dal suo modello nel corso di almeno dieci secoli di storia del pensiero occidentale”: G. d’Onofrio, Vera Philosophia, cit., pag. 68. Ma per l’influenza persistente di Agostino nell’età moderna e contemporanea, ved. E. Przywara, Agostino, cit. 263

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“La verità comincia in due.” (Nietzsche) “Nel suo aspetto teoretico il tratto fondamentale della coscienza moderna dev’essere determinato come assenza di presupposti, una conseguenza della distruzione di ogni forma di fede.” (Yorck von Wartemburg)

Appartiene alla cultura greca “l’idea fondamentale per cui la libertà dell’individuo sta nella sua partecipazione al potere politico […] regolata dall’ordinamento statale secondo la prestazione dell’individuo alla comunità”.265 Questa idea, non di meno, è tanto poco “fondamentale” quanto ogni idea della metafisica greca, non facendo altro che riflettere in senso oggettivo una intuizione del mondo del tutto pre-razionale, secondo la quale la realtà dell’uomo e quella naturale siano un tutt’uno, sicché l’agire proprio dell’uomo è anch’esso naturale, ma, diversamente da quello delle altre specie viventi, cosciente e dunque a suo modo libero. Essendo questo modo inevitabilmente naturale, restava da stabilire la natura propria dell’uomo rispetto agli altri modi inconsapevoli, e la su individuò, com’è noto, nella sua socialità razionale, o politica. Se dunque la modalità politica è quella propria della socialità umana, lo è in quanto è una socialità razionale, potendo l’uomo usare il logos, la parola. La razionalità, in senso greco, consiste dunque nell’uso politico della parola, funzionale cioè alla sua socialità naturale. Da qui discende l’idea che l’uso naturale della parola sia quello politico, per cui essa vada esercitata nel suo contesto proprio, che è quello funzionale all’esercizio del potere, in cui consiste la vita politica. Storicamente le forme della partecipazione politica, e dunque dello esercizio della stessa libertà, possono variare per tempo e luogo, per cui possono aversi molteplici e differenti costituzioni statali, ma tale 265

W. Dilthey, EG, pag. 37.

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variazione non intacca l’intuizione antropologica di fondo che le sostiene tutte, ossia che la libertà umana sia la razionalità applicata alla condizione sociale di natura dell’uomo. Se dunque l’analisi teoretica vertesse sulle forme costituzionali in cui si è articolata o dovrebbe articolarsi la vita politica, perderebbe di vita ciò che le sostiene e le legittima razionalmente tutte, ossia che la libertà dell’uomo, e dunque la ragione che essa esprime e in cui consiste, sia di natura politica. Se pertanto l’essere umano è essenzialmente un essere politico, allora politica sarà ogni sua manifestazione di vita e di pensiero, a partire dalle idee che egli ha del mondo, degli dèi e degli altri uomini. Se naturale è ciò che non è esistenzialmente trascendibile, anche la ragione umana dovrà consistere in un esercizio del suo uso politico. E l’uso più razionale del pensiero sarà dunque quello funzionale alla vita politica, all’uso proprio della libertà. Non è difficile da queste premesse comprendere il carattere privato che l’uso filosofico della ragione dovesse comportare nella cultura greca. Ne testimonia magistralmente il dialogo platonico del Gorgia tra Socrate e Callicle, il quale rimprovera Socrate di “fare affermazioni che non sono belle secondo natura, ma solamente secondo la legge”, poiché “la natura e la legge sono tra loro per o più contrarie”. 266 La “natura” va intesa come la realtà spontanea e tradizionale in cui l’uomo nasce e vive, senza le pretese normative di una ragione che ha pretese di isolare alcuni aspetti della realtà ed esporli in un rilievo che sfugge alla coscienza comune, la quale dunque è antinomica rispetto al ragionamento filosofico e costituisce il fondo di verità accettato dagli uomini del gruppo sociale. La filosofia è il pensiero che usa un linguaggio non comune per esprimere istanze di riflessione che non appartengono al patrimonio di esperienza generale, ma a una saggezza che, proprio per le sue qualità astratte dalla vita comune, appare fondamentalmente impolitica. Questo il senso dello stigma di Callicle verso il dire socratico. Dunque la filosofia pare dimostrare che la ragione non è solo pratica e diretta a scopi eudemonistici, ma anche teoretica e rivolta al senso delle cose in sé, a prescindere dalla loro fruizione strumentale. In riferimento alla realtà umana, la componente naturale, come si è visto, è quella politica, inerente i rapporti sociali e di governo dello Stato, e pertanto naturale e sociale sono termini sinonimi che indicano la condizione normale della vita umana di gruppo. Ma la vita dell’uomo si svolge tutta e interamente nella esistenza di gruppo? Questo è 266

Platone, Gorgia, III, 1, 482E, tr. it. a cura di G. Reale, Milano, 2015, pag. 183.

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l’interrogativo che la filosofia suggerisce attraverso le domande che interrogano l’uomo in quanto tale, ossia come coscienza singolare, capace di dare risposte non limitate alla sua circoscritta esperienza di gruppo, ma valide per ogni uomo di ogni gruppo sociale in quanto dotate di senso universale, ossia divine, perché superano il tempo della mortalità e vanno oltre la condizione riservata all’uomo dalla natura. Ecco che il senso del  dell’uomo travalica la dimensione naturalistica e costituisce il tramite per raggiungere la dimensione divina delle risposte eterne. L’intuizione platonica di un mondo iperuraneo in cui le parole sono quelle delle Idee nasce da questa consapevolezza, che il linguaggio è il luogo del trascendimento della realtà naturale e finita. La polemica platonica contro la sofistica si sviluppa a partire dalle due prospettive in cui è possibile destinare l’uso del linguaggio: un uso dichiaratamente ed esclusivamente sociale, e pertanto destinato alla persuasione e dunque costituito di tecniche retoriche a scopo persuasivo e di consenso politico; oppure un uso meta-fisico e tale da assumere l’intera realtà sociale come una unità pensante alla stregua di un mega-individuo razionale, dotato di un corpo fisico unitario e di una stessa anima collettiva. In questa accezione naturalistica, l’universalità è un carattere deontologico, puramente ideologico, che si attribuisce a una credenza (doxa) o a una ipotesi euristica per legittimarne eticamente il valore razionale. Ma è un uso improprio e indebito, ché trasferisce al campo fenomenico un attributo che è meta-empirico e che contraddice il divenire introducendo nel molteplice l’unità che è propria dell’essenza. L’universale è pertanto solo “l’attributo comune di una pluralità” di enti (epì pollon) che “rappresenta soltanto una ‘possibilità’ indefinita di ripetizione” che non può dunque “essere isolato, come una cosa, da questa molteplicità” (). Esso non è una sostanza, quale la forma, se non in senso analogico come “sostanza seconda”, perché posteriore all’essenza, e quindi è accidentale.267 Universale dunque può essere solo il Principio (), che afferisce all’intera realtà e che è dunque causa di tutti gli esseri, e non la causa regionale (), che interessa solo un settore della realtà.268

267

L. Robin, La pensée greque et les origines de l’ésprit scientifique (1923), tr. it., Torino 1951, pagg. 371-372. 268 Ved. Aristotile, Metafisica,  1, E 1.

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L’uso metafisico improprio di tale attributo ontologico in ambito religioso da parte dei teologi cristiani, occupati a creare una scienza teologica,269 ha avuto delle conseguenze di grande portata nella storia della cultura e nella civiltà europea,270 considerando che il compito d’unificare le grandi realtà del Cristianesimo e le nozioni in cui queste si espressero, con la metafisica greca e specialmente aristotelica, essi l’intesero in modo alquanto estrinseco perché i profondi motivi scientifici della metafisica greca restavano loro inaccessibili. [...] È appunto per questo che presso gli Scolastici i concetti degli antichi somigliano un po’ alle piante strappate dal loro terreno e poste in un erbario senza conoscerne né l’origine né le condizioni di vita. Ora questi concetti venivano combinati con altri del tutto incompatibili senza opporre una grande resistenza. Così troviamo la creazione dal nulla, l’azione vivente e la personalità di Dio collegate coi concetti che provengono dall’immutabilità della sostanza prima o dal concetto aristotelico del movimento.271

Se la prospettiva naturalistica eludeva il problema della diversità psicologica degli individui, ossia la loro individualità, la prospettiva idealistica, dal canto suo, negava il carattere contingente e vario delle determinazioni esistenziali, volendo cogliere soltanto le costanti metaempiriche, appunto ideali. In entrambi i casi, il tentativo di portare ad unità il molteplice sacrificava le particolarità concrete dell’esistenza storica: dal lato individuale, l’una, e dal lato sociale, l’altra. Ad ognuna di queste prospettive unilaterali mancava dunque la visione d’insieme, ossia la componente umana che ciascuna riteneva rispettivamente trascurabile e che per l’altra era invece fondamentale. La società, nella sua vita collettiva, non può ammettere la vita dei singoli astratta dalla sua unità organica; viceversa, la coscienza individuale, in grado di pervenire alla contemplazione delle Idee universali, non può restare irretita nelle maglie

269

Ved. M.D. Chenu, La Théologie comme science au XIII° siècle (1927), tr. it., Milano, 1971. Sulla teologia come “scienza universale”, ved. G. Reale, Il concetto di filosofia prima e l’unità della Metafisica di Aristotele, Milano, 19935, pagg. 149 sgg. 270 Come avvertiva a sua volta A.N. Whitehead, “molti dei guai della filosofia derivano dall’usare un linguaggio che nasce da un certo modo di pensare per esprimere una dottrina che si basa su concetti completamente diversi”: Science and Philosophy (1948), tr. it., Milano (1966), 19802, pagg. 125-126. Da ora SPh. 271 W. Dilthey, EG, pag. 349.

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dei pregiudizi sociali della esistenza comune e deve anzi esercitarsi a liberarsene. Ciò che la filosofia metteva in luce era la possibilità custodita dal linguaggio di mutare l’animo umano, la parte nascosta dell’uomo che restava invisibile alla vita quotidiana, dominata dall’apparenza. Questa considerazione rivelava la differenza tra un comportamento naturale, che risolveva l’essere nell’apparire, e un comportamento razionale, che rimandava a un senso recondito dei fenomeni, cui essi simbolicamente alludevano ma che non esplicitavano, un senso che costituiva l’elemento non caduco ma eterno della realtà, la quale dunque non consisteva nella sola esperienza manifesta, fenomenica, sociale. Accanto alla vita sociale collettiva, a cui ogni uomo partecipava in quanto componente naturale, si stagliava, invisibile agli occhi comuni, una realtà altra, in cui si aggirava la sapienza divina che dominava il destino degli uomini mortali, impegnati solo entro la prima. Vi è una sottile analogia tra la vita sociale, concentrata nell’apparenza, e quella degli , impegnata alla soddisfazione dei bisogni della sussistenza corporea: in entrambe le dimensioni l’uomo è distratto dal pensare come gli dèi, per valori assoluti e non contingenti. La filosofia acquista dunque il significato recondito di libertà dalla necessità di servire il destino assegnato all’uomo dall’intelligenza divina della realtà, custodita dal linguaggio ma non rivelata dal suo immediato uso funzionale alla vita socio-politica. Ma in cosa consisteva dunque tale libertà scoperta dalla filosofia? La risposta negativa l’abbiamo accennata, ossia l’emancipazione dalla Necessità; ma era la parte positiva quella che più avrebbe turbato il Potere politico di ogni tempo, che agì sempre come con Socrate, decretando l’ostracismo del filosofo dai luoghi pubblici dominati dalla politica. La libertà che il Potere temeva che la filosofia scatenasse nell’uomo era quella di pensarsi come coscienza assoluta, libera dalle regole comuni stabilite dalla società e preservate dallo Stato, e quindi libero dalla tutela del Potere. La filosofia, insomma, pensando l’uomo come un mondo a sé, negava la insuperabile condizione naturale e con essa la stessa necessità della condizione politica. Non a caso il percorso idealistico tracciato da Platone fu corretto dal naturalismo aristotelico, che come ogni pensiero ontico si perita di riportare la razionalità sulla condizione finita dell’esistenza umana, quella appunto naturalistica e sociale, che la ragione umana dovrebbe dominare individualmente solo col pensiero, 111


riportando ad unità ideale ciò che è per natura molteplice, senza però dimenticare la propria appartenenza fisiologica al tutto reale. 272 La differenziazione dei saperi tecnici, prodotta dalla complessità stessa delle esperienze sociali particolari, per cui “ogni qual volta una sfera d’azione sociale venne a separarsi e produsse un ordine di fatti a cui rapportare l’attività individuale, si ebbero le condizioni per una teoria”, 273 rifletteva l’ipotesi di una scomposizione della realtà pensata come un Tutto e dunque immaginata ricomponibile ad unità ideale da un pensiero metafisico che in quella unità riflettesse teoreticamente l’empirica e sociologica molteplicità. In realtà, ogni scienza particolare, legittimava il suo sapere locale astraendo dal contesto unitario, proprio perché ideale e ipotetico, e rappresentandosi come sapere universale, e perciò in conflitto potenziale con altri saperi aventi analoghe pretese teoretiche. La conflittualità politica si rifletteva nei saperi scientifici particolari come la loro proiezione teoretica o, marxianamente, “sovrastrutturale”. Se infatti era l’organizzazione della vita sociale a determinare la formazione dei saperi settoriali, questi ne riflettevano la condizione iniziale costitutiva della loro particolarità e differenza. In questo senso, ogni scienza particolare era una razionalizzazione delle sue condizioni sociali di possibilità teorica. In senso generale, l’onto-logia, come pensiero dell’Essere in quanto tale, non era altro che la proiezione razionale della molteplicità ontica pensata come un Tutto unitario, era cioè la forma ideale degli enti naturali. Nella rappresentazione ideale della realtà come una unità totale, idealismo e realismo erano perfettamente concordi, in quanto sia l’unità empirica che quella ideale erano in entrambi i casi totalità finite, ossia rappresentazioni universali del finito pensato come fosse una totalità, unitaria e comprensiva di ogni particolarità empirica. La condizione di pensabilità di questa totalità è la naturalità tanto dell’oggetto della conoscenza che del soggetto, ossia della coscienza umana e dunque dell’uomo. L’uomo, concepito come animale razionale,

272

“Da questa situazione di fondo risulta che l’individuo atteggia il suo pensiero in due modi nei confronti della società. Da una parte egli svolge coscientemente la propria attività in questo tutto, fissa norme di questa attività, ne cerca le condizioni entro il nesso del mondo spirituale. Ma dall’altra si comporta come intelligenza teoretica e vorrebbe cogliere questo tutto nella propria conoscenza”: W. Dilthey, EG, pag. 57. 273 Ivi, pag. 58.

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differiva dalle altre specie viventi solo per intensità di sviluppo della capacità raziocinante, ma era parte integrante del cosmo. Questa concezione antropologica, però, si scontrava contro l’innegabile facoltà affabulatoria dell’uomo, il cui linguaggio costituiva uno strumento di conoscenza che consentiva l’apertura a una dimensione ultronea rispetto a quella naturale, che trasvalutava ogni esperienza vissuta in termini del tutto differenti da quelli reali, fossero immaginari, psichici od onirici. In ogni caso, con la parola si poteva accedere a una dimensione parallela a quella dell’esperienza comune che proiettava la coscienza in un altrove non identificabile con il mondo reale, naturale. Il  è appunto la capacità di astrarre dalla realtà del mondo comune e di pensarla come realtà di linguaggio ( ), quale spirito () del mondo. Quando i Greci pensavano l’Essere come pensiero ( ), stabiliscono implicitamente che la realtà sensibile sia pensabile come oggetto del pensiero (), ossia in termini simbolici di linguaggio. Il passaggio dalla logica all’ontologia è breve. Se infatti la parola indica la cosa, la parola è la cosa. Nessun’altra facoltà umana può contenere il mondo in potere dell’uomo quanto l’intelletto (). La “legge” () che regola l’uso del pensiero come strumento intellettivo è quella del Logos, la cui  è la dialettica ().274 Ciò che differenzia la filosofia dagli altri usi della parola è che l’oggetto della filosofia non sono cose del mondo ma parole della mente. Certo, le parole indicano cose, ma non le parole filosofiche, le quali indicano l’essenza delle cose, ossia l’elemento invisibile che le cose hanno in comune e che differisce però dalle cose stesse, come la loro natura nascosta, che le cose non manifestano ma soltanto indicano. E ciò che appunto di invisibile indicano le cose sono le parole che le indicano a sua volta, sicché cose e parole sono in relazione simbolica tra loro. La differenza tra la parola e la cosa è che con la parola si possono indicare contemporaneamente tutte le cose che la parola contiene cioè significa, mentre nessuna cosa può indicare tutti i possibili significati delle parole. L’essenza dunque delle cose che esprime la parola è il loro significato, che è il concetto della cosa. 274

“La dialettica è il movimento pensante dell’uomo che si trasforma nel suo slancio verso la conoscenza superiore. Perciò Platone chiama la dialettica la scienza suprema. Dialettica e filosofia sono la stessa cosa indicata prima secondo il metodo, poi secondo il contenuto”: K. Jaspers, Die Grossen Philosophen (1957), tr. it., Milano, 1973, pag. 368. Da ora GPh.

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La relazione che si può stabilire tra significati non ha più ormai niente a che vedere con le cose originariamente indicate dalle parole, così che il pensiero filosofico, astraendo dal mondo delle cose, non ne dipende più. Ed è questa in-dipendenza la libertà che produce la filosofia e che allarma il Potere che domina il mondo delle cose, quello politico. La realtà delle parole, il pensiero, sfugge al controllo del Potere, il quale perciò si adopera a impedire che la libertà che esso suscita nelle coscienze dei sottomessi possa spodestarlo riuscendo a farne a meno. Lo sforzo di controllo del Potere sulla parola è diretto a farla diventare linguaggio politico, strumento di dominio delle coscienze: in una parola, ideologia. Ma in che modo il Potere può riuscire nel suo intento di dominare la parola, se il pensiero può rimanere nascosto all’interno delle coscienze? In una maniera radicale ed efficace, che è quella di far credere che la realtà fenomenica sia l’unica realtà ragionevolmente pensabile, mentre ogni altra rappresentazione di realtà ideale sia meramente immaginifica e mitica. L’unica narrazione dotata di senso razionale sarebbe dunque quella che non astrae dalla realtà naturale ma che invece l’abbia per oggetto. Il realismo è l’orizzonte ideologico naturalistico in cui si muove ogni Potere politico, negatore radicale di ogni altra ipotesi ideale di realtà, tacciata come utopismo. L’uniformità naturale veniva contrapposta all’uniformità ideale ricercata dal pensiero, in quanto sia il Potere politico che il potere noetico coltivano segretamente la stessa ambizione a non dipendere da nessun altro potere, di essere cioè liberi da determinazioni estranee al proprio controllo, rispettivamente pratico e teoretico. La lotta che Socrate sosteneva contro gli dèi olimpici, il Potere politico ateniese sosteneva contro di lui: ciò che entrambi, il politico e il filosofo, ricercavano era l’assolutezza della volontà, valida erga omnes, che in ambito logico si chiama universalità. Universale è quel pensiero che trascende la molteplicità della realtà fenomenica nell’unità del concetto. Il massimo del potere della parola: contenere in una forma tutta la concreta e molteplice realtà. Il filosofo era, nel suo regno verbale, più che un re, un dio. Ma a quale condizione? Quella opposta alla pretesa del Potere politico; ossia a condizione che tutta la realtà fenomenica perdesse la sua concreta singolarità accidentale. Il pensiero essenziale lasciava al dominio politico gli aspetti contingenti della vita ordinaria, ritenuti secondari. Le cose del mondo erano lasciate agli affari domestici, economici e politici,

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riservando a sé le questioni divine, esperibili in pensieri, contenuti nelle giuste parole. La possibilità stessa che il pensiero possa isolarsi, cioè astrarre, dal mondo, dimostra che l’uomo può pensarsi come singolo, anziché come elemento sociale. Certo, la singolarità è tutta ideale e interna alla vita mentale dell’uomo, ma ciò non toglie che è una condizione possibile da conseguire. Una volta raggiunta, però, ci si rende conto della importanza della vita sociale ai fini della comunicazione tra i singoli uomini, i quali, trovandosi immersi dalla nascita in una struttura relazionale pre-esistente, possono fruirne ai fini della comprensione dei loro intenti e di una vita in comune. “La condizione perché esista un contenuto-di-vita comune a più individui, è la loro affinità”,275 ossia l’esistenza di un sistema istituzionale predisposto alla formazione e salvaguardia dei mezzi di comunicazione dei contenuti di vita comuni. Tale sistema è indipendente dai singoli membri sociali e oggettivo, per cui “ogni sistema si configura come una forma di attività che fondandosi su un elemento della natura delle persone, si sviluppa variamente a partire da questo, come un tipo di attività che nel tutto della vita sociale risponde a un fine di questa ed è dotato di quei mezzi permanenti istituiti nel mondo esterno o rinnovantisi nell’agire medesimo, che servono allo scopo di tale agire”. 276 Ma lo scopo fondamentale che assolvono le istituzioni storiche è quello di stabilire forme di relazione tra comportamenti e significato sociale di essi, tali che la volontà dei singoli possa avere un significato socialmente riconosciuto solo se espressa nelle forme canonizzate dalla cultura dominante. Ciò significa che la volontà dei singoli, per quanto varia e diversa possa essere in origine, viene omologata a una volontà oggettiva e riconosciuta essere comunemente significativa se espressa nelle forme previste dalle istituzioni sociali, le quali dunque portano ad unità formale la molteplicità sociale concreta. Non diversamente da come agisce il pensiero astratto nei confronti delle cose reali. In tal senso possiamo dire che la rivalità tra Potere e filosofia sia nel decidere quale modello di unità del molteplice sia da preferire all’altro. Ognuno dei due sistemi unitari è portatore di valori razionalmente giustificativi delle proprie prerogative: il sistema politico tende a salvaguardare l’ordine sociale, ossia la convivenza comune dei singoli, il sistema ideale, l’essenza delle cose, ossia la verità. Ordine e Verità sono i due valori che si contendono il primato 275 276

W. Dilthey, EG, pag. 71. Ivi, pag. 72.

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ordinamentale, rispettivamente, nel contesto politico e in quello dello spirito. Poiché la vita spirituale e quella politica avevano, al di là delle differenze specifiche, in comune la realtà sociale in cui consisteva concretamente il mondo-della-vita, ecco che la concorrenza tra politica e filosofia trovava un orizzonte di applicazione comune alle opposte tensioni che assumeva il valore della vera posta in gioco della competizione, sicché se la politica tendeva virtualmente a sottomettere la filosofia ai suoi scopi d’ordine, così la filosofia tendeva a utilizzare il potere politico per affermare le sue verità dialettiche. La libertà di ogni rispettivo potere si misurava dunque nel riuscire a controllare il potere concorrente dell’altro. La possibilità che si offerse alla filosofia di pervenire alla conquista del potere di controllo della società fu quella di animare le istanze universalistiche e totalitarie della religione cristiana, il cavallo di Troia che ospitò l’ambizione filosofica di impossessarsi del potere politico, stabilendo gli indirizzi di pensiero validi dei suoi membri attraverso il controllo delle istituzioni sociali. La storia della nostra civiltà è compresa in questo progetto e nelle resistenze del Potere a secondarlo. A parti inverse, la stessa vicenda storica si può leggere come il tentativo del Potere politico di affermare il suo principio d’ordine sottomettendo la verità del pensiero alle sue regole giuridiche. L’agon tra opposti universali riflette la stessa realtà della libertà di umana di affermarsi oggettivamente, a scapito di ogni altra. La soluzione pattizia che Hegel offrì nella Fenomenologia trattando della relazione servo / signore tende a temperare la tensione prevaricante dei soggetti in competizione, ma non costituisce una vera soluzione, poiché il ruolo delle parti può sempre invertirsi a seguito di un ripristino della lotta tra di loro per la supremazia. Soltanto concependo l’altro, non come ostacolo all’affermazione del Sé, ma come opportunità per Sé, si può pervenire a una trasformazione del rapporto agonistico in rapporto solidale. Ma occorre previamente cambiare la logica del rapporto inter-soggettivo, al fine di eliminare l’alternativa possibile tra affermazione del Sé contro l’Altro, ovvero dell’Altro contro Me. A tal fine bisogna pensare a una mediazione (metaxy) tra i due antagonisti, in cui entrambi possano riconoscersi senza perdere la propria identità particolare, la quale si realizza e si determina nella relazione, per la costituzione della quale ognuno dei termini originari è elemento essenziale.

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Questa concezione consente di superare il soggettivismo, gnoseologico e politico, sul quale principio formale si è costruito il sapere razionalistico, facendo ipotizzare ancora a Dilthey che “il singolo individuo sia punto d’intersezione di una pluralità di sistemi che nel progresso della cultura si specializzano sempre più sottilmente”,277 come se i sistemi non fossero sociali, e dunque intessuti di relazioni, in virtù delle quali essi operano come organismi istituzionali, e senza le quali essi non sussisterebbero. La stessa struttura istituzionale è un organismo complesso di sistemi e organizzazioni esterne “talmente concresciuti gli uni nell’altra, che li divide solo la diversità del nostro modo di considerarli”.278 La posizione distinguente, che astrae dalla relazione gli elementi strutturali allo stesso modo dei soggetti individuali, nasce da una concezione dialettica della realtà che non può ammettere che la definizione di A sia diversa dalla sua esistenza, tale che il suo apparire coincide col suo essere. Sicché l’essere di A si definisce propriamente come suo, cioè di A, in quanto non è di nessun altro, che rispetto ad A è non-A, ovvero B o C etc. Se però si desse il caso che l’apparire di A come A non esaurisca l’essere di A, per cui altre manifestazioni apparenti possano indicarlo sempre come A, allora la logica dialettica perderebbe il suo criterio di validità, dal momento che la condizione ontologica di A avrebbe una consistenza indipendente dalle varie definizioni di A, tutte contingenti rispetto al suo essere. Ammesso ciò, ne conseguirebbe che la realtà fenomenica di A non sarebbe che un modo d’essere del suo essere, che perciò non potrebbe identificarsi con alcun modo apparente, anche se ogni modo gli apparterrebbe. Se trasferiamo l’essere di A nella costituzione ontologica dell’uomo, avremo che la serie di determinazioni temporali dell’agire umano non sono che determinazioni contingenti dello essere personale, che, rispetto ad esse, è trascendente. La trascendenza dell’essere di A si distingue dalle sue molteplici e possibili rappresentazioni fenomenico-esistenziali, per cui ogni loro particolare definizione razionale non potrà mai coincidere con tutto l’essere di A, che resta perciò in-determinato. L’indeterminazione di A, che costituisce il suo status ontologico, non può dunque conciliarsi con l’istanza di certezza di ogni definizione logica, che proprio sulla determinazione del giudizio fonda il suo criterio di conoscenza scientifica; 279 da questa inconciliabilità 277

W. Dilthey, EG, pag. 72. Ivi, pag. 104. 279 E.. Husserl, Formale und Traszendentale Logik (1929), tr. it., Bari, 1966, pag. 33. 278

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metodologica nasce il contrasto gnoseologico tra le rappresentazioni mitologiche del cosmo e quelle razionalistiche della società, tra loro alternative. L’ipotesi di un compendio sociologico di tutte le conoscenze scientifiche, nata in Francia tra i secc. XVIII e XIX come portato dell’Illuminismo, si propone di riportare ad unità di metodo e di prospettiva teorica quanto acquisito come verità particolari, al fine di pervenire a una rifondazione razionale della società. 280 Ma come può determinarsi un nuovo assetto socio-politico senza la contemporanea elaborazione di una coerente concezione dello Stato, nella cui unità convergono le diversità presenti nella concreta realtà storico-sociale? E con il pensiero dello Stato emerge la questione del Potere, la cui funzione è di asservire all’ordine unitario le molteplici realtà sociali (Genossenschaften). In conseguenza del criterio onto-logico identitario, queste molteplici realtà sociali si riflettono su uno stesso soggetto esistenziale come sue altrettante rappresentazioni contestuali, tali da farne di una persona “persone diverse”, ognuna delle quali riflette la sua condizione particolare di “membro di una famiglia”, di “cittadino” o di lavoratore, tale che “la stessa società umana ha la sua vita nel creare e strutturare, nello specializzare e combinare questi stati di fatto permanenti senza che per questo essa o uno degli individui che collaborano a reggerla in piedi, abbia necessariamente coscienza della loro connessione”. 281 Come si può vedere è stretta l’analogia tra “questa enorme fabbrica della realtà storicosociale” e il cosmo naturalistico, collegati da uno stesso metodo di indagine scientifica, funzionale alla comprensione totale dell’uomo come al dominio dell’uomo sulla natura. Attraverso tale metodica naturalistica, le astratte determinazioni scientifiche settoriali potranno congiungersi nel delineare una generale e complessiva conoscenza della “natura umana”, senza sospettare che tale risultato gnoseologico era già inscritto nelle possibilità della credenza ontologica di base, ossia che l’uomo sia un essere naturale razionale. Da tal fondamento di credenza derivano i giudizi di ragione particolari, ognuno di essi tendente a confermarlo, e nel farlo a legittimarsi attraverso lo stabilito principio di realtà. “L’unità del pensiero è un connotato indissociabile da una teoria che ha il suo compito distintivo appunto nella conoscenza della connessione del tutto”.282 280

W. Dilthey, EG, pagg. 114. e 121. Ivi, pagg. 117 e 118. 282 Ivi, pag. 125. 281

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Ma cos’è tal “tutto” se non la manifestazione oggettivata della volontà umana, considerata nella sua identità con l’essere cui rimanda e attraverso il quale la volontà ha significato razionale? Ma tale oggettivazione razionale è resa possibile proprio dalla considerazione naturalistica della realtà umana, per cui l’aspetto visibile e percepito della persona, cioè la sua soggettività, viene intesa come lo stesso essere personale, ignorando completamente “il volto dell’individualità essenziale”, ossia “il modo di trascendenza delle persone”, le quali perciò sono assimilate alle cose. 283 La relazione tra le scienze e la realtà loro oggetto, è garantita da questo monismo naturalistico. Solo una tale teoria della conoscenza porta a compimento l’indirizzo autenticamente scientifico di tali ricerche positive su verità ben delimitate e in sé sicure. Solo essa getta le basi per il cooperare delle scienze particolari in vista della conoscenza del tutto, [per cui] immaginare di poter risolvere il problema del nesso della storia al di fuori di esse non ha alcun senso immaginabile. [Anzi,] se mai dietro la speranza d’una Filosofia della storia si cela un nocciolo di verità, questo sarà appunto una indagine storica condotta sulla base di una padronanza quanto più possibile ampia delle scienze particolari dello spirito. come fisica e chimica sono i mezzi per studiare la vita organica, così antropologia, scienza giuridica, scienze politiche sono i mezzi per studiare il corso della storia.284

Dilthey chiarisce che l’analisi storica e generalmente scientifica si serve di astrazioni concettuali con le quali le intuizioni vengono tenute insieme al fine di elaborare delle leggi di relazione generali che compongano un contesto fenomenico entro un quadro unitario, che ha carattere metafisico, intendendo per tale l’astratta considerazione di principi logico-concettuali dalla concreta realtà storica che le ha prodotte e delle quali esse sono proiezioni ideali.285 Egli ribadisce a un di presso che “il concetto di un piano unitario della storia umana, di un’idea di educazione che Dio vi realizzerebbe progressivamente, lo ha creatola teologia”, che, a partire dalla Civitas Dei di Agostino, fece della filosofia cristiana della storia “il punto centrale della metafisica medioevale dello spirito”.286 283

R. de Monticelli, La conoscenza personale, cit., pag. 124. W. Dilthey, EG, pagg. 126-127. 285 Ivi, pag. 151. 286 Ivi, pagg. 128, 131 e 132. 284

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Nel corso del sec. XVIII, l’idea di un piano storico unitario si staccò “dalle salde premesse del sistema teologico”, perdendo però, con il finalismo religioso, anche il senso teleologico del processo storico, poiché l’idea del corpo mistico cristiano medioevale fu soppiantata dall’individualismo razionalistico. Fu così che al disegno divino subentrò la Ragione universale e lo spirito del mondo, dei quali la storia era lo svolgimento.287 Ne derivò una metafisica naturalistica, “nata dalla subordinazione del mondo storico al sistema della conoscenza della natura”, soprattutto della biologia, i cui stadi di evoluzione per Comte avevano una corrispondenza all’ordine della successione storica che le scienze occupavano nella società, fino a stabilire “la direzione necessaria della connessione complessiva dell’evoluzione umana”, 288 senza tuttavia poter indicare la legge generale di progresso di tale “dinamica sociale”. Ma l’antidoto teoretico a tali generalizzazioni non è la messa in mora dei costrutti logici, privi di concreta determinazione reale, ma una migliore strutturazione sistematica, sicché Dilthey è convinto che “la conoscenza della realtà storico-sociale si attua nelle scienze particolari dello spirito [le quali] si devono rendere consapevoli del rapporto che lega le loro verità alla realtà effettuale di cui sono contenuti parziali, sia alle altre verità che al pari di esse si ottengono per astrazione da questa stessa realtà”, convinto che “solo una simile consapevolezza può dare piena chiarezza ai loro concetti, piena evidenza alle loro preposizioni”. Da qui l’esigenza “di sviluppare una fondazione gnoseologica delle scienze dello spirito […] per definire la connessione interna di tali scienze, i limiti [..] e i rapporti reciproci delle loro verità”, ossia una “Critica della ragione storica”.289 Insomma, una nuova “connessione della scienza moderna” al posto della “vecchia connessione metafisica della nostra conoscenza”.290 Il punto di partenza per costruire una conoscenza scientifica della storia era la conferma gnoseologica della “incommensurabilità di essere e pensiero”, e il passo successivo la dissoluzione empiristica della corrispondenza di logos ed essere che aveva sostenuto la filosofia di Hegel, “l’ultimo e più universale rappresentante dell’antica filosofia del logos”.291 La nuova teoria della conoscenza storica doveva partire 287

Ivi, pag. 134. Ivi, pagg. 141-142. 289 Ivi, pag. 154. 290 Ivi, pag. 157. 291 H.G. Gadamer, WuM, pagg. 262-263. 288

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dall’esperienza, intesa non come un dato di fatto da valutare idealmente ma come “esperienza vissuta” (Erlebnis), “vivente processo storico” di immediata certezza, in cui non si distingue più un atto dal suo contenuto, possibile in quanto l’uomo stesso è autore della storia, e che funge da materia di giudizi sintetici vitali di valore universale. Ciò peraltro confermava l’intuizione della scuola storica che “non c’è un soggetto universale, ma solo individui storicamente definiti”, per cui l’idealità del vissuto non andava ascritta al soggetto trascendentale ma è un prodotto della realtà storica stessa quale vita concreta.292 Ma l’impianto ancora soggettivistico della conoscenza non consente a Dilthey di superare il rapporto tra esperienza singolare ed esperienza comune “non più vissuta e sperimentata da un singolo”. Infatti egli ricorre all’uopo al concetto logico di soggettività, che costituiva un modo non solo di generalizzare un’esperienza comune, ma anche di “conoscere delle connessioni che nessun individuo ha mai sperimentate come tali”, grazie al “fenomeno del comprendere le espressioni”. 293 Se per un verso egli si rifà alla teoria husserliana dell’intenzionalità, per l’altro Dilthey ricava dal concetto di idealità una valenza ermeneutica del tutto diversa, nel senso di “espressione della vita”, la quale “costituisce l’autentica base delle scienze dello spirito”, in quanto “la vita stessa si interpreta, ha in sé una struttura ermeneutica”.294 Ciò ammesso, quale “vita”? Se la rilevazione di essa è affidata a una gnoseo-logia, l’oggetto sarà anch’esso logico, o comunque convertito in elemento omogeneo alla forma ( ) che lo determina come dato di conoscenza. Che tale forma (Gestalt) sia “storica”, non cambia la modalità di approccio ermeneutico di tipo logico-causale, che esprime relazioni logicamente significative, indicate come “oggettive” o “spirituali”, e che “ripete uno sviluppo concettuale che Hegel stesso aveva percorso”. 295 Infatti, come chiarito da Marcuse, Hegel per indicare “il carattere di unità e totalità del reale, usa il termine ‘vita’ [come] la prima determinazione di un modo eminente dell’essere”, ovvero come “il modo di essere del reale”, del “mondo”, o per dirla con 292

Ivi, pagg. 264-265. “Nell’espressione, ciò che è espresso è presente in modo diverso da come la causa è presente nell’effetto. Ciò che è espresso è esso stesso presente nell’espressione, ed è compreso in quanto è compresa l’espressione”: W. Dilthey, EG, pag. 267. 294 Ivi, pag. 268. 295 H.G. Gadamer, WuM, pag. 271. 293

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le parole stesse di Dilthey, come il “carattere di ogni realtà”. 296 Ciò che ricerca Dilthey è un concetto diverso da quello hegeliano, più comprensivo di quello filosofico della “realtà della vita”, che abbia “un significato conoscitivo” e non meramente “espressivo”, e dunque comprensivo dell’intera realtà storica e non solo di alcuni suoi aspetti. 297 Questo concetto di totalità oggettiva è il sapere proprio alla coscienza storica del tempo, che dunque prende il posto delle notiones universales della metafisica. Ma la vera differenza da queste e dallo spirito assoluto hegeliano non è la pretesa di raggiungere il totale senso storico del tempo, ma che l’infinito comprendere della coscienza storica di Dilthey sia pensata all’interno della sua riconosciuta finitezza, che per lui non va intesa come “limitazione” ma come condizione spirituale da “oltrepassare” in vista di una “ragione storica” in grado di “abbracciare tutti i dati storici” in quanto “universale” e in grado di “trascendere la ristrettezza e casualità della vita singola abbracciando l’infinità di tutto ciò che il mondo storico ci offre da rivivere” perché fondata sulla “infinità dello spirito”.298 In altri termini, in grado di portare ad unità ideale il molteplice empirico. Ma come trascendere i limiti della propria coscienza finita che essa partecipa della storica finitezza? Attraverso una comprensione empatica della realtà da parte dello storico, “una forma di intuitiva congenialità” col suo oggetto di conoscenza, che gli consenta, attraverso raffronti comparativi, di “innalzarsi a verità fornite di una più larga generalità”. 299 Torna in queste posizioni una irrisolta combinazione tra forma concettuale () e forma rappresentativa (Gestalt) della realtà che è inevitabile all’interno di una posizione teoretica soggettivistica. Infatti, la ricerca metodica di una totalità è la stessa di un adattamento di ogni aspetto della realtà alla finitezza della coscienza umana, ossia a una corrispondenza appunto totale dei dati di coscienza alla natura finita della coscienza stessa. Questa riduzione alchemica dell’altro-da-sé alla coscienza del Sé è il processo proprio della conoscenza razionale, che idealizza la realtà per poterla idealmente conoscere, ossia privarla della sua alterità ontologica. È chiaro che tale “coscienza storica è una forma di 296

H. Marcuse, Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit (1932), tr. it., Firenze, 1969, pag. 245. 297 H.G. Gadamer, WuM, pag. 272. 298 Ivi, pag. 276. 299 Ivi, pag. 277.

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conoscenza di sé”, ma essa si può raggiungere solo ammettendo l’esistenza di un piano di realtà meta-storico, rispetto al quale sia possibile considerare reale, ossia storico, il piano della finitezza in cui si pone la nostra coscienza, che è storica proprio in quanto finita. E considerata l’istanza gnoseologica di pervenire a tale assolutezza cognitiva, l’ammissione della finitezza della coscienza storica coincide con il riconoscimento della dipendenza della posizione umana da una realtà che la trascende e per mezzo della quale la coscienza perviene a (la conoscenza di) se stessa, ossia che la “oggettivazione scientifica” sia corrispondente alla “naturale visione che la vita ha di se stessa”.300 È “naturale” in quanto tanto il sapere che la vita sono per Dilthey originariamente connessi al divenire storico. Ma questa assoluta prospettiva storicistica fa della sua assolutezza un mito, una credenza assiologica che viene rappresentata logicamente: una mito-logia, parallela a quella fideistica cristiana e pretenziosamente scientifica.301 Il carattere scientifico della conoscenza storica consiste nell’eliminazione dal mondo della realtà dell’opposto logico, la cui presenza esistenziale fa sorgere il dubbio cartesiano che non sia solo la realtà logicamente pensata, e dunque che il Soggetto pensante non sia l’autore del mondo conosciuto. Di contro, la certezza scientifica è l’accreditamento teoretico del potere del Soggetto sul mondo idealizzato e reso oggetto di conoscenza metodica.302 La conoscenza del mondo storico non è dunque altro che la certificazione teoretica della sua creazione umana. L’Essere identificato col pensiero. Da questa istanza si evince l’intero mutuo teoretico contratto dal razionalismo moderno nel suo insieme303 dalla tradizione greca.

300

Ivi, pag. 279. “La certezza scientifica si identifica per lui [Dilthey] con la perfezione suprema della certezza vitale [e] quanto più egli penetrava nella scienza moderna, tanto più avvertiva il contrasto fra la tradizione cristiana della propria origine e le potenze storiche liberate dalla vita moderna”: H.G. Gadamer, WuM, pag. 283. 302 “Perché è questo che anima la scienza contemporanea: un’insaziabile aspirazione al reale, che, dopo aver trasformato le scienze della natura, vuole ora impadronirsi del mondo storico-sociale per dominare, se possibile, il tutto del mondo e acquisire i mezzi per intervenire nell’andamento della società umana”: W. Dilthey, EG, pag. 163. 303 “Dilthey è figlio dell’illuminismo [in quanto] riesce ad armonizzare [attraverso l’ermeneutica romantica] il modo di conoscere delle scienze dello spirito con i criteri metodici delle scienze della natura. […] L’illuminismo si compie come illuminismo storiografico”: H.G. Gadamer, WuM, pag. 284. 301

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La posizione fondamentale attribuita al Logos consentiva la trascrizione dell’esperienza umana in termini linguistici, tali che la parola fosse non solo lo strumento dello spirito umano ma il contenuto stesso spirituale. Non doveva dunque essere peregrino l’accostamento tra coscienza storica e ermeneutica filologica. Il lato problematico della questione dello storicismo razionalistico era la creduta identità di logos, inteso vichianamente come verum, e praxis, intesa come factum, ossia della identità tra personale intentio soggettiva e reale voluntas, oggettivamente rilevabile come evento socio-culturale, di cui l’autore singolare era l’artifex della forma espressiva (Gestalt) che poteva anche considerarsi di significato universale (), ma i cui contenuti erano storici e perciò di valore comune. Occorreva perciò fondare le conoscenze settoriali su una “scienza generale” che fosse storica e non subordinasse, come la tradizionale metafisica, “la realtà alla legge del conoscere”. 304 Si trattava dunque di lasciare immutati gli scopi razionalmente unitari della conoscenza metafisica ma legittimati non più da un principio trascendente (Dio), bensì da un fondamento naturalistico, che sostenga quel “composito nesso funzionale cosmico-storico” da esso stesso prodotto dinamicamente “grazie all’uniformità della natura umana”, che collega, attraverso “necessità e legge”, gli individui alle strutture istituzionali quali lo Stato, la lingua, la religione, l’arte e la scienza. E dunque dal movimento dinamico delle concrete forze naturali della società, si generano le diverse discipline scientifiche, in una prospettiva capovolta rispetto all’ipotesi metafisica di una direzione del reale da parte di forze astratte, “quasi esse prescrivessero al genere umano il suo cammino”.305 In realtà, la metafisica, o “filosofia prima” ( ), intendeva indicare i fondamenti primi della realtà, e quindi dell’Essere, ossia quel principio unitario da cui discende la molteplicità delle determinazioni intellettuali.306 Il credo comune a tutta la tradizione metafisica è che la relazione unitaria dei processi fenomenici, logicamente necessaria e 304

W. Dilthey, EG, pag. 165. Ivi, pagg. 167-168. 306 “La Filosofia è la conoscenza della verità; non di una verità qualsiasi, ma di quella che è origine di ogni verità, ossia quella che riguarda il primo principio di ogni verità, poiché le cose stanno alla verità esattamente come stanno all’essere”: Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles (1269 ca.), tr. it., Torino, 1975, pag. 60. Da ora SG. “In questa accezione del termini il materialismo o il monismo naturalistico sono metafisica quanto la dottrina platonica delle idee; infatti si tratta anche in essi delle determinazioni universali necessarie dell’essere”: W. Dilthey, EG, pag. 172. 305

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concettualmente universale, riesca a trascendere l’esperienza, connettendo la sua manifestazione ai giudizi della coscienza soggettiva, le cui condizioni di assoluta realtà (a priori) assicurano la purezza dei suoi prodotti razionali, sicché per Kant “la metafisica in quanto scienza che cerca di portare nel nostro conoscere la più alta unità razionale a noi possibile, assume logicamente la caratteristica di essere un sistema della ragione pura […] in connessione sistematica”.307 La determinazione “critica” della sua gnoseologia non elimina minimamente tali presupposti, che, comunque declinati, sono tutti interni all’orizzonte del Logos, cioè della parola dotata di senso univoco, e perciò necessario e universale. Il senso univoco del Logos è di ordine intellettuale, ossia la verità, “l’ultimo fine di tutto l’universo”, come asserisce Tommaso.308 Ora, proprio l’opera di Tommaso confuta l’asserzione di Dilthey, secondo la quale, “un medesimo fatto non si può rappresentare miticamente e ad un tempo spiegare razionalmente”, per cui è inevitabile che la vita religiosa si divarichi dal pensiero mitico. 309 Infatti la stessa realtà di fatto è oggetto tanto delle  comuni che delle analisi scientifiche, cambiando soltanto la loro rappresentazione. Se però la rappresentazione razionale tende a oggettivare i fenomeni secondo nessi consequenziali necessari, tali cioè che le loro conseguenze non siano indipendenti dalle loro cause prossime, la rappresentazione mitica tende a stabilire una relazione necessaria soltanto tra il mondo fenomenico e una volontà a esso esterna da cui dipende il significato della sua necessità. Proprio tale rimando esterno al mondo fenomenico, rende la volontà superna non compiutamente intelligibile da parte dell’intelligenza umana, la cui finitezza dunque è relativa all’infinitezza di quella divina. Se pertanto la relazione razionale tra soggetto e oggetto si esaurisce entro la sfera della coscienza cognitiva, la relazione mitica è aperta a ogni molteplice rappresentazione dei suoi contenuti, puramente narrativi, compresi quelli di tipo razionale. In questo senso precipuo, lo stesso sviluppo dei procedimenti razionali finalizzati a una rappresentazione del mondo in termini di significati logici, ossia di relazioni tra parole dotate di senso univoco o essenze, è una mito-logia, in quanto narrazione di entità puramente letterarie, costituite da parole, anziché cose; ovvero di parole considerate come cose. Tale assunzione analogica è la modalità propria 307

W. Dilthey, EG, pag. 173. Tommaso d’Aquino, SG., pag. 60. 309 W. Dilthey, EG, pag. 179. 308

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della rappresentazione simbolica della realtà, che rimanda ogni sua determinazione narrativa al senso recondito originario, ossia appunto al Mito. Il legame tra mito e religione è nella rappresentazione dell’ultroneo come una presenza reale, agente nella coscienza come nella vita umana, e nasce dalla profonda consapevolezza della dipendenza di esse da ciò che le trascende e che nel contempo le definisce. È l’orizzonte della compresenza di ciò che è finito in rapporto all’Infinito l’ambito comune al Mito e alla religione, in cui ogni rappresentazione particolare non esaurisce il senso originario della vita, ma lo evoca e lo richiama simbolicamente, esprimendo con ciò il sentimento del limite della coscienza umana, analogo, ancora una volta, al limite della finitezza dell’esistenza singolare. Questo sentimento del limite spinge alla preghiera, all’invocazione dell’Altro come complemento alla mancanza soggettiva. La narrazione esprime appunto questo bisogno di comunicare e di partecipare la solitudine della coscienza compresa entro le condizioni dell’esistenza finita, che dal corpo vanno fino al mondo naturale. Ecco che la differenza tra la coscienza e le determinazioni fisiche si stabilisce all’interno dell’esperienza singolare, provocando quello sdoppiamento della soggettività in realtà di parole e realtà di cose di portata comune e universale. I corpi possono avvolgersi in un amplesso produttivo di emozioni e di vita, senza però potersi unire veramente e superare la distanza che li trattiene nella rispettiva singolarità, mentre invece le parole possono unire in una simbiosi di senso comune che supera la singolarità e la stessa finitezza dell’esistenza, costituendo perciò il luogo elettivo dello spirito umano. Il sapere scientifico nasce come conoscenza della realtà oggettivata e astratta dalla sua unità vivente originaria, ma la sua crescente certezza di determinazione particolare di alcune esperienze reali, aumentava parallelamente la consapevolezza della sua insuperabile finitezza, ontologicamente originaria e propria della condizione umana. Sicché ogni scienza particolare richiama altre conoscenze settoriali, in un rimando continuo che è quello stesso dei simboli espressivi della parola. L’intera gamma delle conoscenze costruita sulla parola procede per richiami infiniti ad altre rappresentazioni fatte di parole, sicché la distinzione tra rappresentazioni scientifiche e rappresentazioni mitiche può avvenire solo attraverso il riferimento alla realtà fisica, alla maggiore o minore corrispondenza semantica e fattuale. Ma lo stesso richiamo noetico alle 126


“cose”, sia pure programmatico, non può trascendere la dimensione linguistica della conoscenza e si rivela infine un’illusione non minore del cimento generoso del barone di Munchausen di sollevarsi tirando il proprio codino. Infatti la ricercata connessione naturale tra i fenomeni e la sua esplicazione razionale porta alla distinzione, che è puramente linguistica, tra un sapere scientifico e uno filosofico, sostenuta per la prima volta da Hume nella Ricerca sull’intelletto umano (1748) su un’idea di filosofia come pensiero soggettivo che esclude il criterio unitario della verità, assegnando questa alla scienza e alla sua metodologia. Ma la stessa esperienza soggettiva del filosofo assunta come oggetto di conoscenza, diventa essa stessa un fatto sociologico, che, eliminato il soggetto storico, può conoscersi scientificamente, cioè positivamente, stante la corrispondenza tra verità di ragione (proposizione) e verità di fatto (empirica). Il modello di verità scientifica della modernità suppone che la sua validità sia universale per tutti i saperi, che ad esso dovrebbero adeguarsi. La esperienza unitaria del mondo-della-vita (Lebenswelt), che è un evento globale che sta alla base di ogni sapere come sua materia prima, viene divisa e parcellizzata nei saperi specialistici, e ciò che rimane non dominato dalla scienza viene rigettato come privo di valore e insignificante. La insuperabile difficoltà che incontra lo scientismo, per cui “la realtà effettiva può essere assoggettata al pensiero solo coll’isolarvi singoli contenuti parziali e con la conoscenza separata di questi, perché nella sua forma complessa gli riesce inafferrabile”,310 è che non si può costruire scienza sul divenire e sul molteplice, cercando di circoscriverlo in modelli teorici che sono solo ipotesi interpretative aventi la pretesa di cogliere le leggi universali che sorreggono il reale. A questo punto, il problema gnoseologico si sposta sul rapporto tra l’universale e i fatti, per cui la particolare visione del mondo scientifico rimanda ai fondamenti e dunque al pensiero filosofico quale consapevolezza critica del sapere della scienza. La realtà unitaria delle scienze è la Natura, i cui sinonimi sono “realtà”, “processo”, “organicità”, e il cui garante e il Soggetto pensante, che si costituisce come la ragione che coglie il concettuale nell’esperienza e lo fissa in schemi congetturali di legalità universale. Essendo la realtà un “processo”, e questo un divenire di relazioni, la Relazione precede l’Essere, come la Trinità precede il Logos cristico. Nella storicità dell’evento processuale, la visione gnoseologica che più si concilia con 310

W. Dilthey, EG, pag. 190.

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quella ebraico-cristiana è quella di Whitehead, il quale, inteso a superare il formalismo della logica matematica e calcolante senza sfociare nell’irrazionalismo, propone una concezione realistica (non idealistica) e spiritualistica (non materialistica), fondata sul concetto di “evento”, che è una unità spazio-temporale che supera la concezione atomistica materialistica.311 In Whitehead il concetto di “evento” sostituisce quello di sostanza e quello di coscienza, costituendosi come il primo concetto dell’esperienza dell’accadere e il primo nella considerazione filosofica del reale. 312 L’evento sta oltre ogni interpretazione del soggetto e ogni fattualità storicistica, in quanto esso “accade” fuori della temporalità, che è interna all’evento stesso. Sicché le coordinazioni spazio-temporali non connotano l’evento dall’esterno, a appartengono all’evento in quanto tale, poiché esso ha già in sé tutto ciò che può porlo in relazione con gli altri eventi. E’ dunque la “relazione” a strutturare il reale, e non gli enti irrelati della logica formale o la singolarità del Soggetto trascendentale. L’evento, nondimeno, è storicamente individuale, oltre che processuale e aperto, e dunque irripetibile. Non sono le cose o le sostanze ad esistere, ma appunto gli eventi, che per Whitehead sono “campi” in cui accadono le cose, attraversati da flussi di energia, di accadimenti, di relazioni. Quando la scienza, perciò, isola il proprio oggetto di indagine dall’esperienza, occupandosi dei soli aspetti di stabilità e di ordine, si costituisce come qualcosa di artificioso, come una interpretazione che non si realizza nella viva esperienza. la scienza costruisce dei modelli di realtà che storicamente appaiono conformi a una certa oggettività ma che non sono in realtà oggettivi, ma soltanto dei punti di vista. Per il razionalismo, la realtà è oggettiva e la mente la rispecchia, mentre per l’empirismo la realtà oggettiva stessa imprime nella mente la sua immagine. Nella prospettiva di Whitehead questa dicotomia filosofica non ha più senso, poiché la realtà non è mai solo oggettiva ma sempre esperita e pensata, e non è perciò una realtà in sé. Le cose non sono né in sé e neppure per noi, ma sono con noi, cioè in relazione. “La conoscenza è un processo di esplorazione” in cui si mettono in relazione “i Due Mondi”, quello finito e quello infinito, ciascuno dei quali, “considerato in sé, è una astrazione e quindi qualsiasi descrizione adeguata dell’uno implica caratterizzazioni 311 312

A.N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno (1926), tr. it., Torino, 1979. Ved. F. Amerio, Epistemologia, Brescia, 1948.

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tratte dall’altro per mostrare l’Universo concreto”.313 Il dualismo ha condotto allo scientismo moderno, ed è per Whitehead compito della filosofia rimuoverlo con consapevolezza critica delle sue modalità, per riaffermare il senso della verità delle cose e della ricerca delle loro relazioni. Ciò che inerisce il Mondo dell’attività è quello del Presente, dell’origine immediata, che va valutata in relazione alla Persistenza, ossia al Mondo del Valore, che “per sua natura è senza tempo e immortale”, e della cui essenza partecipa ogni circostanza mortale e transeunte, che in base ad esso viene giudicata.314 Il giudizio di valore, essendo uno dei termini della relazione, modifica il Mondo della Attività, sollevandolo dalla sua contingenza.315 Ma anche i Valori non vanno considerati in se stessi, “prescindendo dai riferimenti alla effettività nella azione”, poiché la loro essenza risiede nella “loro capacità di realizzarsi nel Mondo dell’Azione”, contrariamente a quanto creduto erroneamente dalla filosofia greca e dagli eremiti cristiani.316 Infatti, “ciascun Mondo” deriva il suo “senso” solo “nella sua funzione di incorporare l’altro”.317 L’istanza finalistica e teleologica dei fenomeni naturali richiama la loro apertura al divenire, che è processualità. Più i tratti di un evento sono durevoli nel tempo e caratterizzanti, più si stabilisce nel processo una identità e una sua efficacia causale, ovvero una sua “immortalità”, che nel dinamismo mantiene una certa permanenza nell’esperienza comune. Essere reale significa dunque essere nel processo, ossia essere un processo. Vi sono principi processuali che non mutano, accanto a forme astratte. Ciò che non è processo è astrazione, non è un dato compiutamente realizzato. La scienza coglie i momenti discontinui di un processo, anche se nell’esperienza la sua sequenza temporale è continua. Ciò immobilizza il tempo, ma è così che opera l’intelligenza, creando un tempo spazializzato, reversibile e neutro. A unire i due Mondi, della realtà e della possibilità, è una “connessione essenziale” di “fattori comuni a entrambi”, che sono le “Idee”, le quali costituiscono i modi dell’accadimento degli eventi, il loro “come?”.318 I modi unitari del carattere dominante del Valore nel tempo realizzano una unità di senso tra 313

A.N. Whitehead, L’Immortalità (1941), in SPh, pagg. 88-89. Ivi, pag. 89. 315 Ivi, pag. 90. 316 Ivi, pagg. 90-91. 317 Ivi, pag. 92. 318 Ivi, pag. 92. 314

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fenomeni distinti e danno fisionomia alla Identità Personale, senza la quale il pensiero umano non sarebbe comprensibile.319 La continuità dell’esperienza del divenire non prova che la continuità ci sia, non essendo questa verificabile e rappresentabile, ma se invece si pone la continuità in divenire, ossia il “divenire della continuità”, il divenire coincide con l’avvenire, con l’evento, col ricorrere di discontinuità e continuità da stabilire, ed ecco che la sequenza diventa reale e vivente. Il “divenire della continuità” congiunge due fenomeni e due criteri categoriali: il punto di vista quantitativo e quello qualitativo, l’approccio meccanico con quello finale, la successione con la progressione, sicché è la trasformazione dell’essere vivente che spiega il divenire, la sua unità di processo, e insomma la sua storia. La conoscenza di sé, come la conoscenza matematica, “non richiede la spazio-temporalità, sia come condizionante la modalità della coscienza, sia come un sistema essenziale di relazioni di interconnessioni delle cose note”, per cui “il fatto che la natura sia un processo non implica che la coscienza della natura debba essere un processo”, dal momento che la temporalità della coscienza non dipende dalla conoscenza di quel processo naturale, altrimenti non sarebbe possibile isolare da esso i momenti della coscienza.320 Dilatando il presente ci è possibile immaginare l’intera natura come un processo, il quale, isolato dalla coscienza di esso, può essere conosciuto come fenomeno interno alla dimensione spazio-temporale, il cui “continuum è composto di strati di simultaneità”. “La particolarità del processo spazio-temporale consiste nel fatto che qualsiasi parte di esso stabilisce l’intero schema entro cui è posto il resto”.321 D’altro canto, “correlativa al significato della natura per la coscienza vi è la dipendenza della coscienza dalla natura”, la quale si adatta alla coscienza per l’apprensione, tale che fatto naturale “è anche il modo il cui apprendiamo la natura. Se si separano coscienza astraente e natura dal loro esser immerse nel fatto onnicomprensivo, ciascuna mostra la sua dipendenza dall’altra”.322 Il significato dell’evento è nel suo accadimento entro una situazione, non nella spazio-temporalità e nelle sue astratte qualità.323 319

Ivi, pagg. 94-95. A.N. Whitehead, SPh, pag. 143. 321 Ivi, pag. 144. 322 Ivi, pag. 151. 323 Ivi, pag. 154. 320

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L’idea di relazione processuale stabilisce un criterio di comprensione dell’agire diverso da quello causalistico dell’approccio scientista. Nell’evento, infatti, non vige il principio di causalità, poiché lo svolgimento dell’azione non è imputabile a singoli soggetti agenti se non come co-autori e con-partecipi dell’evento stesso, il quale dunque è unitario nel suo senso logico compiuto, ma è molteplice nel suo divenire effettuale. Ora, la compiutezza logica dell’evento è data da una rappresentazione linguistica, ossia da una molteplicità di parole, il cui senso unitario non è separabile dal suo resoconto linguistico se non astraendo da esso allo stesso modo in cui il concetto astrae dai fenomeni corrispondenti. E pertanto, ogni evento storico è dotato di senso logico in quanto narrabile, ossia rappresentabile in molteplici parole, la cui unità rappresentativa è lo stesso “evento” comune ad altre rappresentazioni narrative che lo riguardano. Ma non è la narrazione univoca a rendere unico l’evento, bensì il senso logico in cui converge ogni narrazione, la quale è narrazione di un suo evento. Ed è il significato logico a rendere unitarie le molteplici rappresentazioni, facendo di esse un reperto confermativo di quella astratta unità. E pertanto, se una relazione esiste tra le parole e le cose, essa è di tipo narrativo, e non logico, sicché la stessa pensabilità razionale del reale è condizionata dalla astrattezza delle considerazioni cognitive. Ciò vuol dire che l’Unità di senso ricercata dalla filosofia è una unità ideale, laddove l’evento storico, proprio perché corale e pluralisticamente narrabile, è sempre un evento ermeneutico, che consta di “sempre nuove possibilità di senso”, relative al nuovo interprete e alle rinnovate rappresentazioni dell’evento. “Che si tratti di un’opera d’arte o della notizia di un grande evento storico, in ogni caso ciò che il passato ci comunica, nella misura in cui si rappresenta attraverso l’interpretazione, acquista nuova esistenza”.324 Anche per Whitehead “quando qualcosa è posta in una situazione diversa, muta”, per cui, “non esiste una proposizione, o una parola, che abbia un significato indipendente dalle circostanze in cui viene pronunciata”.325 Ma questa situazione paradossale, in cui la fatticità unica dell’evento temporalmente storico contraddice la molteplicità delle sue possibili rappresentazioni storiche, dimostra soltanto che l’alchimia razionalistica di voler unificare nel concetto la pluralità degli eventi fenomenici non ci consentirà mai di conseguire la comprensione di un evento facendolo 324 325

H.G. Gadamer, WuM, pag. 528. A.N. Whitehead, L’Immortalità, cit., pagg. 104-105.

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coincidere con la sua conoscenza razionale, poiché mentre questa presuppone per la sua validità l’unità di senso, la comprensione si dà soltanto nelle sue rappresentazioni possibili, sempre di tipo analogico. Solo se le parole vengono acquisite e fruite in un senso unitario si possono far coincidere l’istanza logica con la realtà rappresentativa, facendo della conoscenza dell’evento la rappresentazione della sua Idea. Ed è per tal via che la filosofia, volendo essere scienza della parola, ingaggia la sua lotta epistemologica contro il Mito, che usa per le sue rappresentazioni la parola della poesia, consapevole che soltanto la parola poetica possa essere “assolutamente nuova, che non è stata mai detta”, 326 e come tale rappresentare lo stesso evento come una infinita creazione linguistica. Già Schleiermacher, sin dai manoscritti di Berlino, aveva messo in risalto l’identità di parlare e pensare, e dalla quale aveva concluso che nel parlare risiedesse l’espressione della individualità. 327 Ciò dà la misura della relazione che la coscienza umana stabilisce col mondo e del modo peculiare, e appunto linguistico, di rapportarsi alla realtà esterna attraverso la parola. Ma la relazione con tale realtà non sarebbe possibile senza una sua previa trascrizione in termini linguistici, tali che il mondodella-vita ne venga trasfigurato in mondo-parola, ossia il Logos, la sostanza cosmica che accomuna tutte le cose. “L’uomo di ogni tempo ha coscienza del fatto che le proprie azioni e i propri stati hanno un fondamento nel suo io”.328 L’esigenza soggettivistica nasce da questa originaria rappresentazione della realtà come mondo-parola, di cui la ragione prende coscienza attribuendola al potere evocativo del linguaggio. La filosofia nasce come introspezione linguistica, come analisi del linguaggio espressivo del mondo-parola o Logos, la quale rivela la distanza da colmare tra l’immagine visibile della realtà e la figura invisibile costituita dalla sua forma linguistica non appariscente. Esprimere ciò che sta dietro i fenomeni significa portare in essere l’essenza recondita delle cose, che equivale a collegare in relazioni necessarie ciò che sensibilmente è separato e razionalmente confuso. La capacità di distinguere e collegare è l’attività propria della logica, per cui l’evento storico è la realtà che ec-siste attraverso la parola, ossia che 326

H.G. Gadamer, WuM II – Ergaezungen (1986), tr. it., Milano, 20012, pag. 205. H.G. Gadamer, Ermeneutica e storicismo (1965), in WuM II, cit., pag. 390. 328 W. Dilthey, EG, pag. 199. 327

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viene in essere con la narrazione. E’ il racconto del mondo, cioè la sua rappresentazione, a farne un mondo di eventi, di eventi linguistici. Il senso teologico di Logos è l’Incarnazione del Verbo divino, 329 di cui rappresenta il senso umano e storico, ossia la ragione del mondo creato dalla parola divina, dal racconto originario (). Ogni determinazione razionale dell’unità originaria () da cui ogni narrazione discende () è perciò una mito-logia, una rappresentazione storica dell’evento originario invisibile. L’essere al mondo e l’essere del pensiero, ossia il linguaggio, sono tutt’uno. In questo senso, non vi è pensiero se non di ciò che è (detto) (Parmenide). Nello stesso senso, il mondo ordinato dal Logos è una unità naturale che governa gli opposti elementi (Eraclito). Da qui la sua rappresentazione vitalistica e spermatica, che anima tutte le cose, e che per Plotino deriva da Dio, l’Uno originario e finale.330 L’idea di una unità del molteplice rendeva il senso del movimento e del divenire della materia in stati diversi, la cui legge era appunto il divenire. La mito-logia si dispiega come metafisica, che sin da Parmenide è una logica della esclusione. Infatti, se l’Essere è il pensare, “l’essere è per così dire il luogo in cui si compie anche la enunciazione”, sicché “il non-essere è quindi un non-pensato”,331 e tutto ciò che non perviene alla parola semplicemente non esiste. E poiché il pensiero è l’attività propria del Soggetto, ciò che non esiste è l’Altro non pensato. Ciò assegna alla forza poietica della parola un potere enorme, che coincide con la stessa volontà umana, di stabilire ciò che merita di essere (pensato) a scapito di ciò che non lo merita. In scala cosmica, questa facoltà sublime e terribile della ragione () fu attribuita a Dio, che “regge l’edificio cosmico come una potenza puramente spirituale”, la cui volontà autocratica e preferenza ontologica fece da modello in Occidente per due millenni. 332 L’unità spirituale separata dal molteplice materiale è la rappresentazione della forza cosmica che agisce nell’universo secondo una interna finalità immanente di cui la ragione era il motore agente. Con l’ideazione di questo impersonale intelletto ordinatore avente un fine cosciente, nasce la 329

Ved. P. Coda, voce Logos del Dizionario del Cristianesimo, a cura di P. Coda e G. Filoramo, Torino, 2006, vol. II (L-Z), pagg. 623-630. 330 Plotino, Enneadi, VI, 9, 3. 331 W. Dilthey, EG, pag. 204. 332 Ivi, pag. 211.

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dottrina monoteistica greca,333 ritagliata però sulla soggettività antropologica. È chiaro che una prospettiva in cui la parola affermativa di realtà escludeva il non-detto dalla realtà stessa, dovesse perdere il legame che il Logos discriminante aveva con la sua origine mitica, che la ragione dialettica cercava di sostituire con un fondamento esso stesso razionale. Questo, per Socrate, non poteva che essere rintracciato entro il dominio in cui si esercitava il Logos, la vita sociale, e dunque determinarsi come coscienza etica. La svolta etica della logica era connaturata alla stessa relazionalità della dialettica. Platone, come farà Dante col suo maestro Virgilio, elegge Socrate a interlocutore dialettico privilegiato, mettendolo a confronto con personaggi rappresentativi delle antitesi nei suoi dialoghi. Per offrire un’argomentazione di valore universale, e dunque inoppugnabile, Platone la fonda sul principio stesso della conoscenza, che è il Logos stesso come Idea che poi si dispiega come Logos dialettico. In tal modo, i nessi logici si sviluppano, appunto dialetticamente, come domande e risposte, che riflettono l’esigenza di determinare, con l’affermazione, anche la previa negazione aporetica del falso sapere, che ingombra la mente. Solo a mente libera si può pervenire alla “visione” () delle essenze (). Ma la stessa condizione aporetica è un processo teoretico con cui pervenire maieuticamente alla ammissione di non sapere, facendoci comprendere la differenza tra una qualunque risposta suscitata da un problema, e la risposta sapiente. Infatti, “soltanto il non sapere contiene in sé la possibilità del sapere”; possibilità che non è il possesso della verità, ma la condizione di coscienza che “colui il quale, domandando, è nel divenire, si trova in una particolare modalità del non essere”, per cui “le sue risposte, fintanto che resta nell’ambito del non essere, sono risposte di colui che non sa”.334 Si noti la posizione intermedia di chi non sa, rispetto al falso sapiente e al sapiente. Essa costituisce una zona grigia del sapere in cui vige una sorta di anomia intellettuale, esposta alle opposte tendenze alla soluzione di comodo ovvero al conseguimento della verità. Rispetto al falso sapiente, l’interrogante sa di non sapere, ma il suo è un sapere che lo allontana da la falsa conoscenza (quella mitica e doxastica), ma non ancora un sapere di qualcosa che è la verità, e pertanto la sua condizione dialettica è tra una lotta contro le false credenze e l’ “attesa” della verità. Tra il non333 334

Ivi, pag. 218. E. Paci, La dialettica in Platone, in La dialettica, cit., pag. 19.

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essere verità e l’essere vero, vi è lo stadio mediano della coscienza aporetica, in grado di riconoscere la differenza tra il vero e il falso, ma non ancora di giungere alla verità. Ciò vuol dire che la condizione negativa è rimossa come verità, ma è presente come possibilità, e, viceversa, la stessa possibilità ha il sapere di farsi conoscere. È in questa possibilità la libertà della coscienza dell’uomo di tornare indietro, alle credenze comuni, o di andare avanti, incontro alla verità. Il non essere nel torto e il non essere nel giusto coesistono in lui come possibilità di essere altro. La consapevolezza di questa possibilità, che è condizione negativa, fa dell’uomo una coscienza libera di determinarsi positivamente. In un senso o nell’altro. Ma se questa è la generale condizione umana, dove consiste la differenza con la condizione comune? Appunto nella consapevolezza, nella coscienza di non sapere. Ed è tale consapevolezza a fare della coscienza una singolarità distinta dalla coscienza collettiva, che non sa né sa di non sapere, credendo quindi a ciò che si dice. La condizione aporetica è quella che anticipa la decisione. La sua alterità, quale asserita nel Sofista, rispetto alle due opzioni possibili (vero / falso), è negativa rispetto alle opposte determinazioni positive, ma è positiva in sé, nella sua indeterminazione, ossia possibilità e libertà, di diventare altro da sé, determinandosi. L’assunzione della condizione aporetica come negativa, presume una posizione del deuteragonista dialettico nel senso opposto a quella condizione, rispetto alla quale ogni possibile decisione determinativa è affermativa di realtà ma riduttiva di libertà. Questa dunque consiste della possibilità di determinarsi in uno o altro senso della decisine possibile, e consiste dunque nella condizione di co.esistenza di entrambe le possibilità negative, le quali, in sé, negative non sono. Sono negative solo in rapporto all’opzione determinativa, ossia all’altro-da-sé, il quale essendo positività, ossia pura determinazione, deve eleggere il suo negativo per sussistere come positivo reale. E perciò non è libero, ma dipende dal suo opposto. Ciò significa che mentre la coscienza aporetica può sussistere come realtà in sé compiuta, la coscienza falsa e quella vera, che costituiscono le due opposte opzioni positive risultate dalla possibile decisione della coscienza aporetica, non sono libere, ma in preda a Eros, che le spinge verso Poros o verso Penìa, tra loro opposte come l’essere al non-essere. L’essere del non-essere è dunque l’alterità, la condizione aporetica in cui il falso coesiste col vero, il giusto con l’ingiusto, la clemenza con la 135


ferocia, insomma il luogo in cui gli opposti sono senza escludersi; dove non c’è dialettica e Marte può coesistere con Venere, la parola futile con la savia. Qual è questo luogo? È quello adialettico del Mito, in cui il sapere di sé non esclude ma si costituisce come sapere dell’altro, perché ogni essere, essendo negativo, rimanda all’altro, lasciando aperta la possibilità di essere qualcosa anziché altra, ossia di divenire. Questo terzo elemento, non dialettico, della conoscenza logica, fa di questa un sapere incompiuto, la cui compiutezza è solo nella determinazione verbale dei suoi contenuti, ma non nei contenuti stessi. Credere nella sua compiutezza significa identificare la sua forma estetica (Gestalt) con la sua forma noetica (eidos), supponendo che la determinazione storica reale sia la realtà della verità, anziché una sua rappresentazione (analogon). In ciò consiste l’idolatria razionalistica dell’idealismo greco, fondato sulla realtà ontica della parola logica (ontologia). L’identità di ontico e neontico, ha reso la parola il luogo di inveramento dell’essere originario, negativo, dal quale far scaturire, attraverso l’uso sapiente del Logos, l’essere presente, l’ente. La dialettica è la tecnica di portare in essere-attuale l’essere potenziale, il negativo, la cui esistenza indeterminata diventa l’oggetto della metanoia idealistica, la polarità elettiva del dialogo maieutico, in cui l’altro figura come possibilità d’essere. Nelle more della determinazione, cioè nella fase propedeutica alla de-finizione dell’ente, la temporalità è sospesa tra il non-essere (falso) e l’essere (vero) della condizione aporetica, nella quale la parola è indeterminata in quanto può risolversi tanto in un non che in un òn. Ciò sta a indicare che nella situazione aporetica il significato della parola è indeterminato in quanto il suo senso ( ) non è necessario ma ubiquo, può cioè dirigersi tanto verso una direzione che nell’altra. Non è un heideggeriano “sentiero interrotto” (Holzweg), ma un percorso in fieri. Soltanto la decisione noetica può indirizzare il cantiere verso il tempo del presente ontico, che è il dell’ente. La possibilità custodita dall’aporia è la relazione che l’alterità può stabilire, come Idea, con ogni altra Idea in quanto “è diffusa in tutte”. Ma propriamente, essa non è una “quinta idea”, come asserisce Platone nel Sofista,335 ma è la madre di tutte le Idee, il luogo da cui ogni Idea 335

“Ciascuna idea infatti è altra da tutte le altre, non in virtù della propria natura, ma in quanto partecipa all’idea dell’essere […] in tutto l’insieme dei generi. In tutti i generi infatti la natura dell’altro rende ciascuno di essi altro dall’essere e in tal senso non essere”: Sofista, 255 e, trad. di E. Paci, Loc. cit., pag. 31.

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proviene. Esso infatti, come non-essere che è comune a tutti gli esseri, precisa Platone, “esiste di necessità, sia in relazione al movimento, sia in relazione alla totalità dei generi. Nell’ambito di questa totalità la natura del diverso, rendendo ciascun genere diverso dall’essere, lo fa non essere. E di tutte le cose esistenti, allo stesso modo e nello stesso senso, diremo correttamente che non sono; ma, per converso, poiché partecipano dell’essere, diremo che sono, e le chiameremo ‘enti’, cioè ‘cose che sono in quanto sono’ ”.336 La necessità, pertanto, è l’universalità della Diversità, che però non appartiene all’Essere, il quale partecipa di quella universalità aporetica allo stesso grado del non-essere, cioè del suo opposto. L’attribuzione di tale necessità e dunque della sua necessità all’Essere è un atto di scelta etico-teoretica, ossia è una decisione per l’Essere, una delle due opzioni possibili, anziché per il non-essere, di cui l’Essere si costituisce come opposto escludente. Su questa decisione (Entscheidung) si determina, eticamente, la scelta socratica di difendere il Potere costituito, che pure lo condannò a morte, e noeticamente il destino stesso dell’Occidente, la sua “missione” (Beruf) universale.337 Infatti la strutture di pensiero platonica e le metodiche correlazioni tra nesso conoscitivo e nesso reale del cosmo “ha determinato in tale forma sistematica il prosieguo della metafisica europea”.338 La questione della “legalità” (nel senso del Gorgia) nasce dalla perdita di riferimento nei valori tradizionali, ossia dall’esperienza della finitezza della condizione umana, che richiede un rimedio non transeunte ma durevole, anzi eterno. Decidersi per l’Essere vero anziché delle false e molteplici opinioni, significa assumere un impegno etico, di far corrispondere la realtà alla sua rappresentazione ideale, alla sua visione razionale. Pertanto la meta è già segnata all’inizio: è il principio fondativo del sapere che legittima lo svolgimento del pensiero. Il 336

Platone, Sofista, 255 d-256 e. “Noi [filosofi] non possiamo rinunciare alla fede nella possibilità della filosofia come compito, nella possibilità di una conoscenza universale. Noi sappiamo di essere chiamati a questo compito in quanto vogliamo essere seriamente filosofi”: E. Husserl, Die Krisis der europaeischen Wissenschaften und die traszendentale Phaenomenologie (1936-1937), tr. it., Milano (1961), 19877, pag. 46. Da ora KW. 338 W. Dilthey, EG, pag. 239. “Intendere Platone non significa commisurarlo a un concetto primitivo della filosofia, ma farne misura di valutazione di ciò che è venuto dopo di lui e di se stessi, sia che lo si segua e sia che si faccia qualcosa del tutto diverso”: K. Jaspers, GPh, pag. 326. 337

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fondamento ontologico costitutivo della verità, conseguibile dialetticamente, non può che essere un fondamento logico, per cui “quando Platone cerca i concetti universali nelle determinazioni precise, egli non vuole ottenere determinazioni concettuali qualsiasi di tipo relativamente esatto, ma con il linguaggio di questi concetti cerca sotto l’idea di quell’incondizionato non più questionabile né oltrepassabile, un linguaggio parlato da questo stesso incondizionato. Perciò tutte le determinazioni concettuali finite naufragano in vie senza uscite (aporie)”,339 ossia, come abbiamo chiarito, in diverse possibilità. La contraddizione insanabile dell’intera tradizione razionalistica è di voler determinare l’incondizionato in termini positivi ed esclusivi di altra possibilità, ossia di condizionare entro una de-finizione logica l’incondizionabile, che è tale in quanto non esprimibile con il linguaggio apofantico della logica, ma con un linguaggio simbolico che lascia aperta la determinazione, ossia rimanda il suo senso all’altro, all’interlocutore, rendendolo parte attiva e comprimaria al dialogo. Rispetto all’espediente retorico della sofistica, che ammette la comparsa in contraddittorio solo per escluderla, la verità dialogica include l’altro dialogante come portatore sua sponte della comune verità, la quale proprio perché comune, non può decidersi a priori per l’ente anziché il niente, ma deve poter lasciare in-pregiudicata la questione. In questo senso, l’aporeticità attribuita ai primi dialoghi platonici esprime esattamente la natura dialogica della verità ricercata, che non può determinarsi una tantum senza partecipare al divenire delle definizioni pro tempore dell’intelletto che crede di essere nel vero registrando la certezza della realtà del momento, ossia l’affermazione di una tesi a esclusione di altre; tesi che è una rappresentazione della realtà e che vale quanto l’idea che l’esprime. La lotta contro i sofisti è indirizzata contro questo relativismo dei concetti e del linguaggio della conoscenza. Il linguaggio della verità “va al di là del pensiero oggettivo e del concetto corrente di sapere”, che è in grado di comprendere solo “i contenuti immediatamente presentatigli”, mentre quello ricercato deve costituire “l’accesso all’originario che è presente come l’eterno”. 340 Da qui la necessità di andare oltre l’esistenza contingente, l’essere che è, la realtà ontica, identificata come il Molteplice, per risalire all’unico Bene, all’Uno, che “originariamente illumina ogni pensato concettualmente 339 340

K. Jaspers, GPh, pag. 344. Ivi, pag. 345.

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determinato […] e rende originariamente vero ciò che è meramente certo”, ossia il mondo-della-vita.341 Ma qual è la ragione della filosofia di trascendere la realtà finita? Perché soltanto la vera conoscenza, dice Platone, cioè quella del “sapere originario”, supera l’indecisione e neutralità del sapere finito. Si diventa giusti conoscendo l’idea di giustizia. È la conoscenza del giusto che rende giusti, e pertanto “il sapere e l’applicazione del sapere non si possono disgiungere”. Ciò significa che la decisione nel senso della giustizia o della bontà non scaturisce da una opzione arbitraria tra tante – magari quella meglio formulata retoricamente, secondo la convinzione sofistica -, ma dalla vera conoscenza, che è quel sapere originario in cui “il bene e il giusto sono una cosa sola con il volere”.342 A questo punto ci è chiaro il motivo polemico verso la dòxa, la condizione di ignoranza inconsapevole di chi, stolto, crede di sapere. Questa infatti è la condizione in cui la volontà si può volgere in un senso o nell’altro. Con conseguenze lievi, se “la stoltezza è mera ignoranza […]. Ma quando l’ignoranza è collegata alla presunzione di sapere, e inoltre è accoppiata alla potenza, allora essa è la fonte delle colpe più gravi. Il presunto sapere decisivo è la sciagura peggiore”. 343 La colpa lieve e quasi infantile dell’ignoranza che pontifica, diventa pericolosa supponenza quando è abbinata al Potere, quando può determinare cioè le sorti anche di uomini eccelsi ma indifesi come Socrate. Nel qual caso la legittimazione formale della decisione politica, presa dal Potere legittimo, non basta più, né può valere di fronte al tribunale della sapienza del vero. C’è una istanza superiore a ogni singola virtù tecnica, anche dell’eroe (andreia), del politico (sophrosyne) e del legislatore (dikaiosyne), che riguarda un sapere maggiore a quello finito di ogni tecnica particolare, che è “sapere di qualcosa [ma] non è il sapere che è identico alla vera realtà del pensante”.344 Platone nelle Leggi disegna un quadro normativo che stabilisce una gerarchia delle fonti della legalità socio-politica, in 341

K. Jaspers, GPh, pagg. 345-346. “L’idea della verità obiettiva, cioè della conoscenza, è determinata fin dall’inizio dal suo contrasto con l’idea della verità e della conoscenza della vita extra-scientifica, che, nelle sue validità d’essere e nell’aperto orizzonte universale che essa costantemente include coscienzialmente, è designata dal concetto di mondo-della-vita, il primo in cui noi ci imbattiamo”: E. Husserl, KW, App. XVII, pag. 488.] 342 K. Jaspers, GPh, pag. 348. 343 Ivi, pag. 347. 344 Ivi, pag. 348.

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cima alla quale emerge la conoscenza vera, del sapiente, che abbraccia ogni sapere particolare e finito. Il filosofo, cultore di tale sapere, si fa garante del buon governo verso i cittadini e contro gli abusi del Potere, gestito dal politico, esperto nella sua tecnica ma ignaro del sapere autentico. Qui Platone introduce la questione della qualità della formazione educativa (paideia) del cittadino, attento alla cura di sé (epimeleia heautou), la quale deve attenere auspicabilmente alla formazione filosofica, il cui compito “non si può assolvere né con il mero intelletto né con il mero sentimento ma solo nello stesso pensiero originario filosoficamente destato”, attraverso l’arte maieutica della dialettica.345 Che cosa insegna la dialettica maieutica? O meglio: cosa si apprende dalla maieutica dialettica? Che la decisione per l’identità, e dunque la posizione tetica, la conoscenza di ciò che è, è il risultato di un processo conoscitivo, il quale parte da un dato di fatto, che è il contesto culturale in cui nascono le opinioni (doxai), sviluppa un dia-logo tra tesi diverse fino a escludere le false opinioni, senza però pervenire a quella giusta (aporia) e infine avere la visione dell’agathòn. Platone accetta il principio di identità, per cui A = A, ma lo trascrive in termini dialettici, tali che A 1 = A2 non sia una perfetta equivalenza tra enti originariamente dissimili, ma sia una identità acquisita, prodotta da un processo analogico, indicato dall’uguale (=), che è il termine intermedio in cui A1 è anche A2, cioè lo è potenzialmente, senza che sia determinato. L’uguaglianza è la condizione nella quale l’opinione e la verità coesistono nelle stesse affermazioni, e la cui possibilità è data dalla nostra ignoranza del vero. La scelta tra A1 e A2, priva della ragionevolezza della conoscenza del vero, è una doxa equivalente, e dunque non necessaria ma contingente. La necessità vera è quella che viene determinata dal Logos; ogni altra scelta è contingente, variabile, legata al modus, alla temporalità che passa, moderna. E dunque stabilire l’equivalenza di A 1 e A2 significa procedere dal primo al secondo elemento attraverso uno stadio intermedio in cui i due elementi coesistono, si eguagliano nel non essere l’uno né l’altro, si equivalgono nel loro essere negativi. Senza tale mediazione, non sarebbe possibile conseguire l’uguaglianza, pervenire alla identità. Il segno equilevalenza ( = ) indica un processo, una mediazione, un travaglio maieutico del legein che dai dossoi logoi perviene al Logos; senza il quale 345

Ivi, pag. 349.

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processo la determinazione di A era logicamente equivalente a B o a C o a D, poiché veritativamente non fondata. Tale condizione di equivalenza dei logoi contraddittori (dossoi) ma non esclusivi è quella rappresentata dalla tragedia, il modello estetico dei dialoghi platonici, in cui l’eroe tragico è preda di diversi daimon ognuno dei quali controlla il suo timè divino, ed è chiamato umanamente a decidersi per la scelta migliore (eudaimon). Dunque la condizione aporetica è quello stadio della coscienza tragica in cui, essendo l’Essere in-determinato, ogni logos è doppio e ha lo stesso valore di ogni altro (eikasìa); non perché ognuno sia falso, ma in quanto ognuno è vero nel suo ambito (timè), cioè potenzialmente vero per fede (pistis) o per congettura razionale (diànoia). Una volta conseguita la conoscenza del vero (noesis), da quella posizione veritativa è possibile discernere il vero dal falso all’interno della condizione tragica ed affermare che, a fronte della verità vera, nessuna opinione (doxa) è vera. Ma questa affermazione, che Platone ritiene sia conseguenza necessaria del Logos, in realtà comporta un atto di volontà, è una decisione, che si basa sul Logos ma che il Logos in sé non afferma fuori del suo ambito veritativo. Perché il Logos possa affermarla, dovrebb’essere non solo un metodo maieutico (dialettico), ma un Soggetto pensante, etico, fornito di volontà di potenza. In sé, il metodo dia-logico può soltanto confutare le pretese veritative delle doxai, avere cioè una funzione di servizio, di igiene mentale di riconoscimento dei dossoi logoi, ma non determinativa. Per servirsi del Logos come potere de-finitorio occorre una soggettività che stabilisca sua sponte che la condizione aporetica non basti a stabilire quale daimon sia preferibile in quanto buono (eu), e che è necessario (da qui “il compito” di cui Husserl) pervenire al giudizio distinguente (diakritikè) il vero dal falso daimon, e dunque a una scelta etica, che generi da sé il comportamento eudemonistico valido per tutti i membri della polis, attraverso appunto l’azione politica. Il procedimento maieutico, a seguito della decisine etica, diventa prassi politica, provocando quella metabasi ideo-logica ricordata dalla Arendt.346 Il senso ontologico della decisione etica è pertanto la elezione di una doxa, la propria, originariamente valida entro la propria timè, a logos universale, non (più, come in origine) equivalente ad altri, in quanto argomentabile senza contraddizioni e possibili alternative (ossia equivalenze) logiche, costituente quindi un ragionamento che si regge su se stesso (epistème), 346

H. Arendt, Verità e politica, cit., pag. 43.

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perché su se stesso fondato e perciò auto-nomo da una genesi allotria, etero-noma. Ecco come il Logos, da apodosi eziologica (aitìa), assurge ad archè, a principio ab-soluto, scalzando col suo potere tecnico il governo divino. Dall’accorpamento dell’auctoritas sacra alla potestas politica si genera lo Stato razionale assoluto, lo Stato che esercita con il monopolio della forza anche quello etico dei valori sociali. Il razional-ismo è la rappresentazione della pre-potenza (hybris) del Logos divenuto valore etico-politico, ideo-logia, ossia pensiero che non riconosce nessun limite sopra di sé ma che deriva la sua legittimità dalla sua sola idea di sé. Questa eventualità non viene contemplata da Platone, poiché per il principio di identità l’Essere del pensiero e la realtà ontica (oggetto pensato) sono ritenuti dalla tradizione identici, anche se, come abbiamo visto, identici propriamente non sono. Infatti, a seguito del processo dialettico, il prodotto del pensiero (A 2) non potrà più dirsi uguale alla tesi originaria (A1). A questo punto sorgono due possibilità: la prima è di pensare quel prodotto finale come inclusivo della tesi iniziale, ed è la posizione hegeliana; l’altra possibilità è di considerare i due termini, iniziale e finale, in relazione, tali cioè che l’uno non possa sussistere senza l’altro (diairesis). Entrambe le soluzioni, quella dialettica e quella diairetica, segnano comunque il superamento del dogmatismo ontologico parmenideo. “Platone con la diairesis non vuol fondare soltanto la possibilità generica del giudizio ma anche la concretezza del giudizio basata su l’Urdoxa”.347 Questa concretezza è intesa come koinonìa di pensiero e fattualità, ossia come scienza, che è una ma si distingue in molte tecniche. 348 Ciò significa che la concretezza della conoscenza non possa fare a meno della molteplicità della realtà del mondo-della-vita, e d’altro canto che la stessa molteplicità è tale in relazione all’unità del suo fondamento epistemico. Ma tale unità () è in realtà una , poiché se ogni tecnica scientifica è parte dell’archetipo, ognuna è una sua determinazione vera, e non sarebbe più distinguibile da ogni altra per il suo fondo di comune verità. L’unità prodotta dall’attività dianoetica non è l’Uno vero, ma soltanto una visione d’insieme () del molteplice, una concordanza di opinioni tecniche (): l’Urdoxa, l’unità di metodo, da cui pro-viene la validità del sapere e quindi il moderno dominio della tecnica. Un pensiero veritativo trasformato in tecnica, in 347 348

E. Paci, Loc. cit., pag. 35. Ved. Sofista, 257 c.

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sapere manipolativo, disponibile, metodicamente riduttivo del mondo a ente, a prodotto disponibile. È in questo passaggio che il sapere diventando oggetto di scienza svela la sua dinamica politica, esclusiva, di dialettica uni-versale, tendente ciò a ridurre l’altro a sé e quindi di assumere la posizione tetica del sé come assoluta, come de-finizione totalitaria. Ciò che il Platone scienziato in fondo ricerca è il servizio che la verità (ridotta a) logica, a , rende alla de-cisione politica, legittimandola come la decisione giusta e sottraendola così la sua definizione esclusiva e assoluta al conflitto delle interpretazioni. Questo motivo pratico vorrebbe, tra-ducendo la dinamica della verità in definizione logica, cioè in dogma, eliminare il polemos dall’agone politico, realizzando il risultato dell’agon dialettico, cioè, offrendo una rappresentazione tecnica del Verbo in-effabile, dargli una immagine determinata, storica, immanente e finita, de-finitiva e non più soggetta al divenire, che teoreticamente è il dia-logo. Ma è esattamente questa istanza irenica a deformare la verità dialettica in dogma ideologico, che elimina la stessa necessità di ri-discutere le posizioni dia-logiche, escludendo perciò ogni antitesi. Solo a questa condizione esclusiva il legein del Logos diviene universale, degradando il Verbo in transeunte parola (logos), in “mito” nel senso di Barthes. La verità (Verbum) ridotta a tecnica del sapere, sposta la paideia, come edificazione del sé (Bildung) ed educazione (ex ducere) alla virtù (epimeleia seautou), in progetto di razionalizzazione del mondo, in civilizzazione della società come mondodella-vita tradizionale attraverso la trasformazione tecnica della natura (lavoro tecnologico) e razionalizzazione delle istituzioni politiche (Stato di diritto). L’esclusivo servizio reso dal pensiero tecno-logico alla realtà ontica importa l’oblio del Verbo trascendente ogni definizione logica, trasformando così l’Eros della sapienza filo-sofica in volontà di potenza politica. Ciò che è mito-logia sul piano della conoscenza, è tecno-logia sul piano della prassi. Il dialogo verso la verità inattingibile, perché trascendente e dunque differente (chorismos) da ogni definizione, ridotto a racconto della relazione fattuale degli enti nel tempo, genera la storiografia, la conoscenza che “imita la scienza” (historike)349 nel voler stabilire nessi tra eventi spirituali350 storicizzati, ossia ridotti a fenomeni 349

Platone, Sofista, 267 e 2. Spirituale, non è il bagaglio cognitivo del sapere scientifico, ma la conoscenza e l’esperienza di vita che conducono, attraverso un progressivo processo di 350

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temporali, a fatti naturali, poiché tutto ciò che appare è physis, mentre il non-apparire è ni-ente.351 La verità, in questa seconda accezione, non abita più il dialogo ma si determina come de-finizione logica, eliminando da essa ogni processualità, consegnata al passato, e ogni futura re-visione dialettica, attenendosi al solo presente, a quell’è del giudizio determinativo di realtà, assicurata alla validità eterna di un presente dilatato, in-finito. Ma può un prodotto finito essere in-finito? Sì, se esso viene creduto tale attraverso il metodo della dialettica esclusiva. E dunque la stessa dialettica che serviva ad assicurare le condizioni di possibilità di emancipazione dall’errore ora viene piegata a tecnica di dominio dell’Essere, facendo della temporalità presente la sola dimensione assiologicamente scientifica. La scienza si impadronisce sia dell’Essere che del tempo, eliminando il divenire e la stessa problematicità filosofica dell’esistenza. Così, la verità dialogica, ricercata dagli interlocutori attraverso la domanda e la risposta come verità comune, diventa verità scientifica, de-finizione ideo-logica, e come tale non contraddicibile ma solo comunicabile da parte del detentore a un soggetto passivo ricevente. Il dialogo teoretico diviene comunicazione della volontà, esercizio strumentale di potere. Platone, che assistette all’omicidio di Socrate, non poteva rassegnarsi all’impotenza della verità, che abitava il Logos e non il mondo-della-vita, e cercò di trasferire nel mondo della parola comune, in preda alla cangiante opinione, la necessità propria del metodo logico, atta a stabilizzare il movimento spontaneo della vita entro le coordinate del sistema razionale. La theo-logia cristiana aderì a questa istanza d’ordine, che divenne anche il principio direttivo dello Stato razionale, soprattutto di quello moderno. Questa metabasi, di un metodo di liberazione dell’uomo dalle idee fisse intorno a se stesso a una tecnica di dominio dell’altro, cioè dell’oppositore, segna il percorso della ragione che da strumentale alla verità divina, diventa strumentale al Potere politico. Come è potuto avvenire? Attraverso l’ammissione che la singola scienza sia partecipe della verità come la parte al tutto, sicché la verità non è più intesa come trascendente le opinioni ma come fondo di essa. Sottratta al chiarificazione dell’esistenza, alla saggezza: K. Kerényi, Loc. cit., pag. 288. 351 “Il niente è la ricaduta inerte dell’apparire, la non-natura, il cui apogeo, nell’epoca del nichilismo, è la risoluzione di ogni apparire naturale nel regno violento e astratto della tecnica moderna”: A. Badiou, L’etre et l’événement (1988), tr. it., Genova, 1995, pag. 177.

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movimento che l’ha generata, l’opinione sistematizzata razionalmente diventa scienza, la quale, partecipata della verità fondativa, che è il Logos stesso in posizione non ancillare ma dominante, prende il posto della verità. Nel suo sostituire la verità la conoscenza scientifica fonda la sua verità su una credenza: che la parte di conoscenza tecnica rappresenti l’intera verità, e dunque che la sua rappresentazione oggettiva della verità non sia un analogon ma la stessa verità, cioè sia l’Intero, tutta la verità nella parte. Tale credenza identitaria fa dell’idealismo platonico una mitologia, una rappresentazione razionale della realtà miticamente fondata sulla credenza che sia il Logos a creare il mondo, anziché rifletterlo (come le doxai), e che il mondo perciò ne sia un riflesso de-formato. La serietà, che è atteggiamento divino per antonomasia, ora diventa il tono umano dello scienziato, che ripudia l’ironia del filosofo, i cui fiori intellettuali vergati per restare sono invece come quelli del giardino di Adone, “piantati solo per gioco, che appassiscono subito”.352 L’idea della cosa, dell’ente, è la sua forma, il suo in sé eterno, la sua essenza (ousia) pensabile al di là di ogni suo divenire. L’Idea è l’Essere dell’ente, astratto dal suo divenire, ossia dallo spazio del mondo e dalla temporalità, e uguale a sé stesso. Un mondo noetico ben differente dal mondo fenomenico della vita, perché intelligibile.353 Per sollevare una cosa del mondo dal suo divenire temporale bisogna pensarla, o meglio, renderla pensabile. Pensare è dunque rendere in-temporale un ente naturalmente finito. Per Platone è il pensiero che superando la condizione di natura, vince l’edacità del tempo e quindi la morte. Pensare un ente nel suo in sé essenziale equivale a salvarlo dalla morte, e in questo eternarlo l’intelletto pensante (dianoia) lo rende universale, unico e non molteplice. “Ciò per cui qualcosa è uno ed è ciò che è, ha, nel pensiero, il carattere della permanenza”. D’altro canto, tale permanenza non è una determinazione fissa (morphé), ma quanto ritroviamo al fondo di ogni percorso dialogico, che mai perviene a con-prenderlo come oggetto definito, per cui “è insensato tradurre in dottrina una via di pensiero, un modo della presentificazione [(parousia)] delle idee”, che non può essere l’unico, in quanto “la vera conoscenza è certo affine al bene (agathon) ma non è il bene stesso”, la cui espressione “muta a seconda del modo in cui a volta a volta si comunica l’ascesa del pensiero all’essere”.354 352

K. Jaspers, GPh, pag. 359. Ivi, pag. 361. 354 K. Jaspers, GPh, pagg. 363, 360 e 364. 353

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Ma qual è la ragione per la quale l’unità intuitiva dell’Agathon non può comprendersi in una unica determinazione concettuale? Perché persiste il molteplice nella espressione dell’Uno? Proprio perché l’unità è ideale e non naturale, laddove l’espressione verbale lo è. E poiché alcuna Idea può restare in-espressa, ma come il sole deve illuminare qualcosa perché si mostri la sua luce, ogni espressione rappresenta un modo finito e inperfetto di parlare del Verbo. Il modo della finitezza non può essere trasceso, e dev’essere riconosciuto come possibilità di accesso al Bene. Tale ammissione comporta, a sua volta, il riconoscimento dell’Altro come possibile interprete dello stesso Uno; stesso sia perché è sempre uguale per ogni rappresentazione, e sia perché è comune a tutte. Ed è questa koinonìa trascendente a ogni possibile rappresentazione a unificare il molteplice, ossia le molteplici rappresentazioni dell’Essere, di cui nessuna è l’Essere come ontos on, il quale dunque è presente a ogni rappresentazione come ab-sente, come ab-sconditus, ovvero come Differente (chorismos). Se dunque una sua rappresentazione fosse considerata come l’Essere stesso, anziché il suo analogon simbolico, allora verrebbe negata l’essenza stessa dell’Essere che è appunto la Differenza, e con essa ogni possibile alterità dia-logica, ogni egittimità di altre rappresentazioni dello stesso Uno. Che è quanto avviene con la definizione scientifica dell’Essere come oggetto di pensiero, come ente mondano, disponibile alla volontà di potenza umana. In questa oggettivazione del Differente trascendente il pensiero smette le vesti filosofiche per assumere quelle ideologiche, e il theorein diventa mythologein. Questo processo riduttivo del Molteplice a unità metodica, a opera di un sapere ridotto a tecnica, costituisce l’essenza stessa della secolarizzazione della Verità in concetto operativo, valido per la prassi. A questo punto il filosofare si congeda e lascia il posto alla retorica sofistica finalizzata al Potere politico, al dominio degli uomini ridotti ad enti fisici. L’esito contraddittorio dell’istanza filosofica di pensare la Verità contro il Mito, è il pensiero mitico, che abbandona il theorein per il prattein, e l’agon dialettico per il polemos politico. L’inevitabilità di tale esito è già previsto nell’assunzione del Bene come Essere che è, come ente, e il pensare come concetto tetico esclusivo dell’eteron. Ma proprio lo Stesso (homoios) considerato in sé, ossia fuori della sua relazione col Diverso (eteron), diventa uguale al diverso, e quindi a sua volta diverso, cioè altro da ciò che originariamente era creduto (doxa) fosse. Se infatti esso fosse 146


stato veramente diverso dall’eteron, non si sarebbe trasformato nell’altroda-sé. Questa “dialettica” (metastrophé) della ragione astratta, per cui ciò che si pone come tesi assoluta si converte in antitesi assoluta, sta a dimostrare che la posizione stessa dell’Idea come Verità assoluta, cioè come Logos, è una doxa, un Verbo degradato a parola strumentale, funzionale a una rappresentazione mito-logica. Solo il Verbo trascendente è assoluto, cioè non ha contraddizione, e perciò in-fruibile strumentalmente dalla parola che lo descrive (mythos) e dalla visione razionale (eidos) che lo rappresenta. Ma ciò che trascende la parola non è de-finibile a parole, e perciò può essere colto solo nel dia-logo tra diverse rappresentazioni. La parola che dice dell’Essere, lo evoca, e pertanto lo richiama simbolicamente richiamandolo nell’altro. Anche l’Idea non è nella cosa significata, ma la cosa evoca con la sua presenza il significato ideale dell’Essere, che è l’altro rispetto a ogni determinazione,355 il Differente, l’unico universalmente altro da ogni sua determinazione. In tal senso, l’universalità, essendo trascendente ogni sua determinazione, non può essere storicizzata, come invece le sue forme (morphé) evocative. Ciò vuol dire che il significato delle parole non coincide con “il contenuto psichico della coscienza”, cioè con “le associazioni rappresentative che una parola risveglia di fatto”, ma richiama “un orizzonte aperto in due direzioni, su qualcosa che nell’Erlebnis non è propriamente intenzionato, ma a cui sempre può rivolgersi un effettivo atto intenzionale”,356 che è lo stadio aporetico di cui si è detto, propedeutico alla decisione di senso, inerente a un orientamento della coscienza entro uno spazio ante-predicativo e originario. Tale spazio non è quello della rappresentazione sensibile, poiché in natura gli opposti non possono coesistere ma solo sorgere uno sull’altro (Fedone), ma è lo spazio originario e genetico del Mythos, negato dall’ontologia platonica, e in cui i contrari sono senza escludersi. Ed è a negazione del Mito a escludere la mediazione (metaxy) dal processo dialettico, rendendolo esclusivo e posizionale o tetico. La posizione della coscienza è una prospettiva oculare che orienta la visione entro un orizzonte di senso, 357 il cui limes “non è un confine fisso, 355

Aristotile, Fisica, I (A), 3, 186 b 10. H.G. Gadamer, WuM, pagg. 289-290. 357 Ved. P. Yorck von Wartemburg, Bewusstseinstellung und Geschichte (1897), tr. it., Milano, 2006, pag. 1129. Da ora BuG. Sulla centralità della questione dello spazio nel pensiero greco, Ivi, pag. 1197. 356

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ma qualcosa che cammina con noi e che invita a un ulteriore procedere”,358 cioè una soglia (limen) semantica prodotta dal movimento ermeneutico della coscienza, che giunge sino all’estremo (éskaton) (movimento dialettico del) significato dell’ente, oltre il quale finisce il luogo della possibilità, ossia del divenire.359 Là dove finisce il movimento è ciò che “soggiace e da cui si genera ciò che diviene”, 360 e dunque è lo stesso inizio. Questo “sostrato” per la Fisica di Aristotile è la Natura, come materia o come forma.361 Ora, poiché “tutte le cose mutano di contrario in contrario”,362 ciò che è differente per espressione ma non per contenuto, non è di significato contrario all’altro, sicché mentre tra contrari si stabilisce l’opposizione e cioè la “alterazione”, 363 che è passaggio progressivo nel senso dell’altro, nella differenza si può stabilire l’armonia, e cioè la concordia tra diversi. Ciò vuol dire che il “sostrato” naturale crea condizioni polemiche, mentre il sostrato verbale genera condizioni armoniche, e pertanto la dialettica è tensione esclusiva quando si traduce in rapporto naturalistico di alterazione tra enti materiali, di natura politica, ma è tutt’altro che tensione esclusiva, bensì finalisticamente inclusiva dell’altro dia-logante, se mantenuta sul piano noetico. Ciò che mantiene la diversità sul piano dialogico, impedendo che tracimi sul piano polemico è la mediazione, che manca nella mera contraddizione.364 La mediazione consiste nel riconoscimento morale dell’altro come diverso, e non come opposto, ed è costituita dal sentimento di comune dipendenza dal Differente, trascendente ogni diversità, che i cristiani chiamano Agape. Essa è lo spazio del riconoscimento in cui avviene la relazione dialogica. La questione nuova che sorge con la coscienza agapica è se la relazione fondata sul riconoscimento sia necessariamente una relazione logica, fondata cioè sulle verità eidetiche delle scienze. Infatti, il primario riconoscimento della alterità dell’altro è la realtà altra rispetto a quella noetica, ossia il mondo-della-vita in cui nascono le relative alterità. Questa consapevolezza teoretica, che rende insufficiente la riduzione 358

H.G. Gadamer, WuM, pag. 91. Aristotile, Fisica, VIII (), 7, 260 b 30. 360 Ivi, I (A), 7, 190 b 35. 361 Ivi, II (B), 1, 193 a 25 – 193 b 5.] 362 Ivi, III (), 5, 205 a 5. 363 Ivi, V (E), 2, 226 b 1. 364 Ivi, V (E), 3, 227 a 5-10; VII (H), 21, 244 b 2. 359

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trascendentale husserliana, gli fa comprendere che “la pura e semplice soppressione della validità delle scienze obiettive non poteva più bastare, giacché anche nell’operazione dell’epoché, cioè nel superamento del presupposto oggettivistico della conoscenza scientifica, il mondo come qualcosa di già dato mantiene la sua validità”. 365 In altri termini, non bastava contestare l’oggettivazione del reale ontico senza mettere in discussione il metodo che l’aveva determinato come prodotto noetico, ossia la logica stessa come techne discorsiva. In espressa contrapposizione a un concetto di mondo che comprende solo l’universo di ciò che è oggettivabile nelle scienze, Husserl chiama questo concetto fenomenologico del mondo “mondo della vita” (Lebenswelt), ossia il mondo nel quale noi viviamo nella posizione ‘naturale’ [e] che costituisce il terreno di ogni esperienza [che] rimane presupposto anche in ogni scienza, ed è perciò più originario di essa, [in quanto comprende] la totalità entro la quale noi come esseri storici viviamo.

Il riconoscimento della realtà del Leben metteva in discussione ogni rappresentazione universalistica della storicità da parte dell’Ego, poiché “l’io che riflette si sa esso stesso vivente entro un quadro di scopi, il cui terreno è costituito dal mondo della vita”. 366 La “vita” appare dunque una unità organica intessuta di con-relazioni occasionali e strutturali in cui fluisce l’esperienza concreta, che è una esperienza di coscienze in relazione, e dunque una realtà complessa, che si riflette nella stessa “datità primaria ed esclusiva [che] è l’autocoscienza”, la quale, infatti, “anche se distinta in sé e altro, anima e corpo, io e mondo, interno ed esterno, è unità articolata di opposti”. 367 La vita della coscienza è in questa “divisione originaria” (Urteilung), sulla quale “bisogna riportare il pensiero”, che “opera in senso opposto alla tendenza della vita” al fine di pervenire a una correlazione tra vita e autocoscienza, già intrapresa da Hegel nella Fenomenologia.368 L’elemento della soggettività è quello della rappresentazione della vita molteplice in un analogon oggettivo in cui si proietta l’ente astratto dal suo divenire vitale concreto, mentre l’elemento predicativo è generato dal 365

H.G. Gadamer, WuM, pag. 291. Ivi, pagg. 292 e 293. 367 P. Yorck von Wartemburg, BuG, pag. 1127. 368 H.G. Gadamer, WuM, pagg. 297-298. 366

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processo vitale, immerso nella molteplicità sensibile e nella temporalità. La diversità delle rappresentazioni del mondo, stabilisce la relativa posizione della coscienza verso il mondo. Per la coscienza greca il conoscere è una visione.369 Nel suo ambito rappresentativo, la difficoltà di concepire una modalità relazionale biunivoca e dialogica è determinata dal carattere astrattivo della coscienza noetica, che nella oggettivazione si allontana dal mondo-della-vita, per costituire lo spazio in-temporale della “visione” trascendentale, dalla quale viene esclusa programmaticamente la molteplicità come , l’in-conoscibile in quanto razionalmente ingiustificato, materico, “il residuo oscuro che la scienza platonica della realtà effettuale si lascia dietro come difforme dal pensiero e inafferrabile”.370 Il problema gnoseologico che si sviluppa a partire da questa frattura fra coscienza e mondo è la ricerca di una relazione che superi la polarità forma / molteplice in una sintesi razionale, interna cioè alla forma ideitica, assicurando la connessione col Lebenswelt in termini di comprensione concettuale. La scienza nasce appunto come “idea di una connessione necessaria” degli elementi interni alla forma razionale. 371 Una relazione vitale, trattandosi di vita spirituale, non poteva che essere storica. La storicità del movimento dell’Erlebnis supera la staticità strutturale dell’ente metafisico (to on) in un senso congeniale al racconto dell’uomo-persona, a partire dalla figura paradigmatica di Cristo. Il Logos cristico, attraverso l’istanza soteriologica narrativa, assume una declinazione verbale più impostata sul mithein che sul legein, e dunque maggiormente versata verso l’espressione dell’esperienza storica, anziché sulla rappresentazione del suo senso ideale. Ciò importa uno scioglimento dell’originaria tensione dicotomica etica, tipica dell’antitesi intellettualistica, a favore di una con-passione dei motivi sentimentali dell’esistenza, che sarà propria della posizione di coscienza trascendente del cristianesimo, il quale antepone perciò alla preminenza del sé, propria

369

W. Dilthey, EG, pag. 246. “Fu la dimensione visiva della funzione del rappresentare che, prevalendo nella coscienza greca, fu trasformata nella grecità nell’organo di comprensione della vita. […] Determinante è dovunque la forza della visione. […] Sulla base di questa costituzione della coscienza la funzione della visione, l’ocularità, diventa l’organo di ogni libero lavoro dello spirito, in particolare della filosofia”: P. Yorck von Wartemburg, BuG, pag. 1159. 370 W. Dilthey, EG, pag. 243. 371 P. Yorck von Wartemburg, BuG, pag. 1165; W. Dilthey, EG, pagg. 241 sgg.

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dell’atteggiamento etico-filosofico, la donazione di sé dell’atteggiamento caritatevole-religioso.372 Se nel platonismo l’istanza etica di affermazione del Logos si trasferisce nel processo politico come luogo di inveramento della potenza coscienziale del Bene attraverso la potenza sociale, la potenza morale dell’istanza soteriologica della fede ricerca la sua finalità terrestre nella attualizzazione del tempo escatologico proprio dell’evento cristico. L’adozione della temporalità escatologica, ispira l’atteggiamento agapico di superamento della polarità antitetica propria della concezione oculare del pensiero greco che permea le differenti funzioni dell’autocoscienza, caratterizzando lo stesso sentimento della vita, secondo le due modalità della dipendenza e della spontaneità, ognuna delle quali, astratte dall’unità della coscienza, vanno a costituire rispettivamente il sentimento religioso dell’abbandono del sé e quello etico della conservazione del sé.373 I due termini in opposizione si limitano vicendevolmente nella pretesa di assolutizzarsi astraendo dall’originaria unità coscienziale e vitale. L’eticità, astratta da ogni posizione personale e contingente, diventa una rappresentazione formale, che costituisce la stessa posizione metafisica. Ciò “spiega come quel medio della visione condizioni la concezione dell’ come un qualcosa che ha forma, [e che] detta al conoscere […] la forma dialettica”.374 Pertanto, la posizione tetica eticizzata come dovere di auto-conservazione del sé, determina la dislocazione spaziale antitetica al senso che vi si oppone come negazione. L’assolutizzazione etica dell’ avveniva attraverso il processo dell’astrazione logica da ogni mutevolezza, e conseguente perdita di certezza concreta del sé della coscienza, separata dalla datità reale. La posizione veritativa, eticamente assolutizzata, si determinava come antitesi interna al processo dialettico, nel cui orizzonte metodico poteva dunque essere colta scientificamente come “rappresentazione” (). “La validità universale della scientificità greca consiste appunto nel fatto che essa ha sviluppato le condizioni di ogni rappresentare, i rapporti della pura ocularità”.375 Il processo intellettuale è inverso al processo originario della vita, dalla quale astrae per risalire “fino al soggetto di tutte le differenze, al sé”. Il 372

Ivi, pag. 1135. P. Yorck von Wartemburg, BuG, pag. 1163. 374 Ivi, pag. 1165. 375 Ivi, pag. 1169. 373

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fondamento della posizione etica che o sostiene è l’indipendenza dalla vita, dalle sue particolari determinazioni, che vanno organizzate perché la loro datità non neghi il postulato che legittima il processo astrattivo. Il risultato del processo etico è la reificazione dell’ente rappresentato, della visione quale “unità estetica, immagine, totalità”. 376 Ma tale rappresentazione etico-razionale, quale “risultato del processo filosofico di astrazione è di conseguenza non l’espressione, ma solo il simbolo della verità”, che può soddisfare la comprensione della vita solo se si intende il “vivere” come “filosofare”, ossia come processo interno alla coscienza del soggetto trascendentale.377 Ossia la vita come struttura organizzata delle sue differenze logiche che, all’interno dell’orizzonte rappresentativo, sono assunte come (cioè, credute) onto-logiche. La credenza ontologica consiste nell’assimilare il diverso all’identico al fine di conoscerlo (), ossia di possederlo entro l’orizzonte del Sé. Il processo della conoscenza è di sussumere l’altro nello stesso, portare dentro ciò che è fuori di noi.378 L’esterno alla coscienza è appunto il mondo-della-vita, che va razionalizzato perché si omologhi alla ragione che regna nel cosmo. “La metafisica, la scienza razionale, è possibile grazie a questa corrispondenza”.379 Le forme ideali erano quelle concettuali, espresse in parole, per cui la trascrizione del mondo in termini logici era la stessa possibilità riservata alle parole di esprimerlo. La possibilità (dynamis) della coscienza era la stessa di poter esprimere il mondo in parole corrispondenti alla sua esperienza. Esperire il mondo e parlarne era dunque tutt’uno. Il Logos è il medium che separa e unisce la materia alla forma, e che fa del Soggetto che lo interpreta ed elabora il cardine attorno al quale ruota (la conoscenza de) l’universo. Dalla “visione” al “concetto” vi è lo stesso passaggio che dalla forma estetica all’opera d’arte; questa, così come il concetto, rappresentano il mondo come struttura dell’esistenza, in termini cioè di connessioni stabili e necessarie. La parola, da espressione delle cose, diventa rappresentazione del mondo, la cui struttura è la stessa della coscienza razionale che lo informa, sicché le relazioni logiche sono le stesse relazioni naturali. 376

Ivi, pag. 1171. Ivi, pag. 1173. 378 W. Dilthey, EG, pag. 252. 379 Ivi, pag. 253. 377

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Questo principio di “corrispondenza”, o di correlazione oggettiva, fra pensiero e realtà effettuale risulta “completamente oscuro” allo storico del pensiero, in quanto non è un “concetto”380 ma una credenza ontologica, che sostiene l’intera veridicità della metafisica greca, e che è “indeterminata” in quanto è originaria, poiché conferisce il senso del discorso, e mitica, perché in essa coesistono i due elementi, logicamente opposti, della forma (Idea universale) e della materia (Natura molteplice). Pertanto, l’ che sta all’origine di tutti i  circa gli  ovvero i  non è il Logos, che è il postulato causale ( ) dell’astrazione intellettuale e dunque della legittimazione etica del solo discorso razionale, ma è il Mythos, in cui gli opposti sono e divengono prima di ogni determinazione. Le indeterminate rappresentazioni mitiche vivono in una temporalità diveniente e in-finita, molto diversa dalla presenzialità delle determinazioni logiche, che stabiliscono la corrispondenza di pensiero e realtà nel giudizio attualizzante dell’è esclusivo del divenire, che invece l’infinitivo mitico assume come temporalità dell’evento. L’affermazione che presenta alla coscienza il suo oggetto, vuole che esso sia anziché non. Soltanto l’evento mitico è narrativo, laddove l’ente logico è de-finitivo. Ma proprio l’assunzione dell’ente finito del giudizio definitorio, come rappresentazione universale, assoluta ed esclusiva di ogni relazione oppositiva, costituisce l’elemento fideistico, e dunque volitivo, della decisione extra-metodica e irrazionale della gnosi metafisica, in cui la possibilità della libertà (ossia il potere) si salda con la determinazione della volontà (con l’intenzione). Per questa saldatura di volontà possibile con intenzione determinata, il fondamento della datità, dell’Essere, è costituito dalla stessa  razionale (Logos) considerata come sostanza () dell’Essere, che pertanto è posta al centro del pensiero greco, 381 il cui concetto afferma la posizione del Sé come “posizione orientata a un qualcosa di indipendente, di sottratto al cambiamento, di non caduco”, legato a una predicazione negativa di una entità non determinata da altro e legata all’antitesi della coscienza dimidiata ( ).382 L’unità è costituta dalla sostanza stessa del soggetto, che “designa ciò che nel giudizio è il portatore d determinazioni predicative; pertanto tutte le altre 380

W. Dilthey, EG, pag. 259. W. Dilthey, EG, pag. 264. 382 P. Yorck von Wartemburg, BuG, pag. 1177. 381

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forme dell’enunciato (categorie) si predicano della sostanza”.383 Aristotile confuta la dottrina platonica dell’esistenza iperuranea delle Idee, ma per affermare l’unità cosmica del conoscere, ricorre alla dottrina platonica delle forme sostanziali dell’Essere, di cui la filosofia è la teoria, “che deve rendere possibile la teoria dell’esistente”, scienza di ciò che è in quanto è.384 Ma che cosa è, anziché non? Ciò che è conoscibile attraverso il principio di non contraddizione, che di tutti è “il più saldo[…]ed è principio anche di tutti gli altri assiomi” (Metaf., IV, 3, 1005b). Esso non è desunto dalla coscienza razionale ma dalla stessa Natura, poiché i fini stabiliti da essa sono gli stessi perseguiti dall’uomo (Fisica, II, 199a 8). Ciò significa che la ricerca dialettica della verità è possibile solo nell’ambito di un orizzonte metodologico i cui luoghi argomentativi (tòpoi) sono precostituiti come legittimi a esclusione dei falsi (sofistici). Infatti il formale metodo dialettico di per sé non garantisce la veridicità dei risultati senza l’uso corretto del linguaggio, che è quello “verace entro i termini della confutazione stessa, se rettamente condotta”.385 L’esito dell’uso corretto del metodo dialettico è la definizione, la conversione in parole dell’essenza del soggetto o predicato, desunto dall’operazione di confutazione delle false opinioni e quindi dalla cernita delle opinioni circa i principi primi della scienza, che come tali non sono derivabili da altri, o non sarebbero primi. (Topici, I, 1, 101a 36-101b).386 Ciò che qui preme precisare è il carattere normativo del metodo dialettico, e la sua funzione discettiva entro l’orizzonte di senso costituito dalle opinioni ammesse al confronto, una delle quali, in virtù della sua coerenza discorsiva, verrà ammessa come scientifica, “quale che sia il contenuto della ricerca”. Ciò che conta sarà infatti il procedimento formale che giunge a risultati logicamente necessarii a partire “da 383

W. Dilthey, EG, pag. 265. F. Adorno, La filosofia antica, cit., vol. I, pag. 264. 385 Ivi, pag. 284. 386 “L’analisi sistematica delle strutture dei vari tipi di discorso porta a determinare da un lato la veracità di ognuno entro il proprio ambito e le proprie premesse (opinioni), e dall’altro lato, che l’unico discorso al quale non si può opporre altri discorsi e che non dà luogo ad altre possibilità, organandosi in una catena di passaggi necessari, è il discorso che si fonda su principi intuiti e non contraddittori – onde la loro verità – e che prendendo le mosse da questi – da premesse in sé evidenti e perciò non dimostrabili, - ne deduce ciò che in essi è implicito”: F. Adorno, La filosofia antica, cit., pag. 285. 384

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premesse non contraddittorie e, per questo, non dimostrabili” (assiomi).387 Il sapere dunque è “il conoscere mediante dimostrazione” esclusiva dell’opposto non dimostrabile (anapodittico) e le cui premesse sono immediate (Secondi Analitici, 71b 9-35). La scienza, per i suoi fondamenti costitutivi, “non è quella del che (), ma del perché ()”. Infatti, “la definizione concerne l’essenza e la sostanza, ed è chiaro che tutte le dimostrazioni presuppongono e ammettono quel che una cosa è […]. In ogni cosa, evidentemente ciò che essa è e la causa per cui è, si identificano” (Sec. Anal., II, 2, 90a).388 La causa è la stessa energia (energheia) che produce il movimento verso la forma. 389 Il nesso causale è la ragione delle cose, ossia la condizione di veridicità di ciò che è, e dunque del discorso scientifico. Così, il fondamento del discorso razionale, la causa (), viene assunto come origine () della stessa realtà in quanto logicamente conoscibile. Da qui la separazione (diairesis) della sfera noetica dal mondo-della-vita, che poi è quello in cui nascono le opinioni oggetto della disamina dialettica. “Per lo spirito greco sapere era riprodurre nell’intelletto un essere oggettivo”, mentre nella nuova prospettiva cristiana “il centro di tutti gli interessi diviene l’esperienza vissuta”.390 Questa nuova sensibilità per la vita interiore, nondimeno, non produsse nel Medioevo una conforme conoscenza che l’assumesse come suo fondamento. “L’omissione dipese dalla superiorità della cultura classica entro la quale il Cristianesimo cominciò a farsi valere solo lentamente”.391 Ma ciò che il Cristianesimo sopravanzò sulle vecchie teorie cosmogoniche e metafisiche naturalistiche, così come sulle varie correnti religiose ellenistiche, consisteva nella originale visione storica della dimensione divina, realizzatasi nell’Incarnazione, il cui dogma si impose su tutte le altre credenze, sicché “la lotta fra le religioni produsse nell’anima cristiana, colma di realtà storica, la coscienza storica di un evolvere di tutta la vita spirituale”.392 Dovendo esprimere in termini comprensibili a tutti i contenuti della sua esperienza, il pensiero cristiano dovette servirsi “di nozioni del mondo esterno in cui tale contenuto venne inquadrato 387

Ivi, pag. 286. Ivi, pag. 288. 389 W. Dilthey, EG, pag. 271. 390 W. Dilthey, EG, pag. 324. 391 Ivi, pag. 325. 392 Ivi, pag. 328. 388

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secondo le relazioni di spazio, tempo, sostanza e causalità”, per cui “la fede rivelata diede la possibilità di sviluppare il dogma come un sistema autoritario a partire dalla volontà di Dio. E un sistema simile rispondeva allo spirito romano che spinse le sue formule giuridiche fin nell’interno della dottrina cristiana”.393 Il legame stretto tra l’amministrazione imperiale degli affari religiosi e le esigenze teologico-speculative indusse i metafisici cristiani a interessarsi del mondo storico fino a inserirlo in un nesso organico col trascendente distinto dal mondo naturale. La storia, pertanto, quale processo avvenimenziale interno alla metafisica cristiana, si fondava essa stessa sul fondamento theo-logico dello Spirito divino incarnato, attraverso il quale andava letta e interpretata, e fuori del quale si manifestava come mera sequenza di eventi naturali. La storia, quale manifestazione dello Spirito divino nel tempo, senza il paradigma cristico non era fondata su alcunché, in modo similare al processo logico, che senza il suo fondamento mitico sussisteva come mera volontà di potenza. Lo storic-ismo, al pari del razional-ismo, è la rappresentazione ontologicamente infondata di un processo naturalistico analogo a quello spiritualistico ma privo di intrinseco finalismo escatologico, sostituito con le varie utopie messianiche di tipo politico, le cui ideologie hanno offerto un fondamento mitico surrogatorio a scopo di legittimazione razionale. La problematica relazione tra la necessità insita nel processo teleologico, e la libertà propria della responsabilità morale, si trasferisce amplificata all’interno della Storia universale,394 la cui determinazione concettuale unitaria era costituita dal senso ultimo, coincidente con lo scopo finale dei suoi singoli momenti temporali. Tale coincidenza, garantita dalla 393

Ivi, pagg. 332-333. “La potenza della metafisica non fu mai tanto grande quanto in questi secoli in cui essa restò legata alla teologia e alla Chiesa”, consentendo ai metafisici cristiani, per un verso, di “procedere a un’astrazione che ai Greci nel loro naturale sviluppo nazionale non era stato possibile”, raggiungendo “profondità che erano rimaste irraggiungibili alla meditazione metafisica dell’antichità”, e per l’altro di “estendere il loro sistema – sorto a suo tempo dall’indagine scientifica della natura – al mondo storico. […] La metafisica medievale si ampliò dunque fino a comprendere in sé i fatti spirituali e la realtà storico-sociale come un membro di pari diritto della natura e della conoscenza della natura”: Ivi, pagg. 347-348. 394 “Come si vogliano allacciare in un nesso oggettivo le condizioni della natura con quelle del mondo storico, subito alza al centro della metafisica la profonda contraddizione fra la necessità, propria di quanto è conforme al pensiero, e la libertà che è l’esperienza del volere: è questa contraddizione a stracciare il tessuto della metafisica”: W. Dilthey, EG, pag. 350.

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prospettiva escatologica cristiana, che aveva emancipato la storia dal processo naturalistico antico, non poteva essere garantita dalla sola ragione, il cui disegno deontologico era condizionato dai termini della sua fondazione ideologica, legittimante eticamente il solo telos a essa conforme. Il disegno unit, ossia ario della storia, razionalisticamente emancipata dalla attesa escatologica cristiana, poteva essere assimilato solo a quello naturale, il cui fine era l’affermazione dell’uomo appunto quale essere naturalmente razionale. Tale coincidenza, non di meno, che sostituiva al regno di Dio venturo la condenda comunità etica universale,395 assegnando alla storia come fine ideologico lo stesso principio razionale posto a fondamento, cioè la sua idea dell’uomo, si rivela essere una mera tautologia, le cui pretese universalistiche hanno la stessa possibilità di affermarsi delle sue possibilità politiche. Se infatti gli eventi per gli antichi erano coperti da un velo di mistero, penetrabile solo da una mente ispirata, e la fede cristiana confidava nella predestinazione, lo storicista moderna non crede a nessun nomos eteronomo, sia del destino o della Provvidenza, e “si immagina di potersi creare in base a se stesso il suo futuro, ritenendo che questo non possa essergli rivelato perché vuole realizzarlo lui stesso”. 396 Rispetto alla fronesi aristotelica, che stabiliva il giusto pensiero () tra virtù dianoetica e prassi adeguata attraverso la pedagogia virtuosa della “cura di sé” ( ), l’astratta consegna kantiana di conformarsi ai precetti razionali, anziché assumere come prototipo della moralità l’uomo saggio che è “signore di sé” avendo domato gli appetiti concupiscibili attraverso il rispetto del “sillogismo dell’azione”, che li risolve nella recta ratio,397 scatena, in virtù del suo universalismo, la lotta infinita della voluptas dominandi dei singoli e dei gruppi in competizione per il potere politico, il cui esito incognito sostituisce il mistero provvidenziale e le relative vicende vanno a costituire la narrazione storica. La differenza rispetto al razionalismo antico è che il moderno assume come fine (universale) la premessa antropologica del primo, per cui, se la natura razionale dello era la base della Bildung virtuosa ottenuta attraverso una assidua , la condizione originaria del moderno citoyen garantisce l’accesso indiscriminato ai diritti naturali, fruibili per volontà di chi 395

R. Bultmann, Geschichte und Eschatologie (1955), tr. it., Brescia, 1989, pag. 87. K. Loewith, Meaning in History, tr. it. cit., pag. 31. 397 Ved., L. Robin, Op. cit., pagg. 322-323. 396

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esercita la sovranità, il re o il popolo stesso. Così, sostituendo alla sovranità divina quella umana, l’uomo moderno sovverte il motto del coro dell’Agamennone di Eschilo, per cui “Mediante la sofferenza si perviene alla conoscenza”, sostituendo il pathos con il polemos, attribuendo al più forte l’alea della ragione politica o ideologia, oggetto della storio-grafia. È pur vero che presso gli Scolastici i concetti degli antichi somigliano un po’ alle piante strappate dal loro terreno e poste in un erbario senza conoscerne né l’origine né le condizioni di vita [per cui] questi concetti venivano combinati con altri del tutto incompatibili senza opporre una grande resistenza. Così troviamo la creazione dal nulla, l’azione vivente e la personalità di Dio collegate coi concetti che provengono dall’ immutabilità della sostanza prima o dal concetto aristotelico del movimento.398

Ma è altrettanto vero che se si afferma che l’Essere sia il pensiero, ed esso non è il principio di sé stesso, ossia il Primo metafisico, ma solo la “causa” (aitìa) di ciò che pensa, non implica solo che il Logos sia “pensante perché è stato pensato”,399 ma anzitutto che l’Origine (arché) non è il Logos, bensì l’Intero, di cui la posizione etica è solo la determinazione del volere attuale. Se l’Intero viene pensato come unità dell’Essere e dell’essente, i due termini vengono pensati come equivalenti e non distinguibili. Se invece l’Intero essere viene pensato come Tutto l’essere, cioè come unità comprensiva di ogni essente, la sua totalità, rispetto a ogni ente, esso è pensato come ni-ente. Solo se pensato come Differente, l’Intero può comprendere dei logoi reciprocamente elenchetici ma costitutivi di una unità in-clusiva e non ex-clusiva del molteplice divenire in cui si riduce la storia razionalistica. L’Essere dell’ente lo distingue dall’eteron ma non lo qualifica nella sua concretezza storica, poiché questa presuppone una inseità ontologica che la posizione logica può eticamente prescrivere ma non sottrarre alla opposizione della sua antitesi negativa, ossia a quella relazione dialettica che la prescrizione etica intende superare includendola nella tesi. La concretezza dell’ente deve quindi poter includere e non escludere il suo opposto, pensato da Hegel come il limite (Grenze) della finitezza e il termine (Schranke) del

398 399

W. Dilthey, EG, pag. 349. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, Milano, 1962, vol. II, pag. 107.

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processo dialettico come dover-essere, che viene negato come non-essere da quel limite. Affiché il limite, che è in generale nel qualcosa, sia termine, occorre che il qualcosa oltrepassi in pari tempo in sé il limite, si riferisca in lui stesso ad esso come a un non essere. L’esserci del qualcosa giace in una quieta indifferenza, quasi accanto al suo limite. Ma qualcosa oltrepassa il suo limite solo in quanto è l’esser tolto di cotesto limite, in quanto, cioè, è il negativo essere in sé contro di esso.400

L’unità nell’indifferenza può anche sussistere, ma non sarebbe razionalmente determinabile, cioè oggettiva nel senso del finito, cioè della de-finizione verbale. Il limite rappresentato dall’eteron opposto al dover essere, è l’alterità negativa eticamente da negare, perché impedente l’affermazione assoluta della posizione etica, rendendola “irraggiungibile”, ossia in una condizione ipotetica, e dunque “non vera”.401 L’unità del vero è intesa da Hegel come determinazione etica, e dunque come fine razionale dello stesso processo dialettico, che si compie in una sintesi in cui l’universale razionalità trova finitezza nella realtà etica del Potere, garante istituzionale del Logos dogmatico e quindi del senso razionale della storia. Senza determinazione oggettiva, l’Essere indeterminato rimane logicamente in-significante, ed eticamente inproduttivo di senso politico. È dunque l’istanza oggettivante, quella etica, a determinare la scelta razionale, e non una necessità intrinseca all’Essere stesso di essere anziché non. Ma di essere cosa? Di essere Tutto anziché parte, ossia di rappresentarsi come Intero: di essere quindi un anaogon dell’Intero, cioè dell’Uno. In dover essere della posizione etica consiste nel voler essere Tutto negando l’alterità delle altre parti, confinandole nell’opinione in-razionale (doxa). Ma irrazionale solo in quanto opinione eletta come opposta a quella tetica, dialetticamente anti-tetica. La dialettica elenchetica diventa techne, strumento tecnico, della volontà eristica. La dialettica maieutica o relazionale non induce a dire alcunché, ma semmai a con-venire sul percorso trascendente le rispettive posizioni ipo-tetiche, co-esistenti nell’unità originaria.

400

W.F. Hegel, Scienza della logica, vol. I, cit. da M. Bloch, Subjekt-Objekt, tr. it. cit, pag. 463. 401 Ivi, pagg. 463-469.

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La posizione tetica, eticizzata come volontà di potenza, cioè trasformata da ipotesi di verità ad affermazione di realtà ontologica attraverso il giudizio, affermando la sua universalità nega la realtà del molteplicità, sicché il Logos apofantico, escludendo la concretezza dell’alterità, non può comprenderla nel suo orizzonte di senso, come invece fa l’Amore, che include ciò che il giudizio esclude. Infatti la verità del Cristo, che è Amore, è la Sua duplice natura, umana e divina, che è paradigmatica di una unità molteplice che la logica antica considera in-possibile. La secolarizzazione di questo concetto cristiano è la “vita” (Leben) di cui parlano in vario modo Husserl e Dilthey, indicandola come movimento dell’essere, ovvero come storicità dell’Erlebnis. Se la Verità è unità, essa viene prima del giudizio, non è un suo risultato dialettico: “tutto ciò che è vero, è vero per la verità”, 402 per cui ogni giudizio sulla Verità, né è l’oggetto, ma non la contiene; è una sua rappresentazione ma non la definisce. In tal senso, la Verità trascende il pensiero ed è per esso un Mistero: il mistero della Differenza.403 E se Verità è Differenza, l’umano sapere può solo rappresentarne la finitezza, la sua realtà finita, attraverso la gnosi scientifica, che è conoscenza probabilistica, sapendo della Verità solo ciò che può interpretare in termini razionali. Il sapere ipotetico inizia dall’attività del Cogito, ma presuppone l’Origine della fede ontologica che l’Essere oggetto di pensiero sia anziché non. Ma la realtà dell’Essere-che-è (l’ente), essendo una ipotesi ontologica, pur sottostando alla necessità del Logos, non può essere garantita che dalla Verità, la quae, in quanto Origine, non può pensarsi come oggetto del pensiero ma bensì come il Soggetto creatore di ogni oggetto. Ciò vuol dire che il rapporto tra il Soggetto infinito (Verbum) e l’oggetto finito (parola), dal punto di vista della finitezza, è lo stesso rapporto che intercorre tra la Verità (infinita) e la ragione (finita), ed è appunto tra queste realtà immensurabili che si stabilisce la Differenza. Questa non esiste invece dal punto di vista dell’Infinito, il quale comprende la finitezza come un limite interno. Se l’umana ragione distingue sé dalla Verità, la Verità comprende la ragione – ogni ragione determinata - come interna a sé. Ed è in questa comprensione il carattere totalizzante della Verità, intrinsecamente in-differente a ogni differenza. Ciò comporta che soltanto la Verità, che è totalità, è universale, non la ragione. La Verità è eterna, immutabile e necessaria, mentre la ragione è contingente. “La 402 403

Agostino, De vera religione, cap. XXXIX. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, cit., pag. 137.

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ratio chiede all’intellectus la ragione di se stessa. Perciò, la ratio è un potere conoscitivo inferiore all’intellectus da cui dipende. Il dubbio e l’errore possono trovarsi nella ragione non conforme al vero, non nell’intuito fondamentale della verità”.404 L’intuizione della Verità è l’intelligenza della sua trascendenza, la cui presenza è dualità di pensiero e di oggetto intuito. E perciò l’immagine in me della Verità in sé non è rappresentativa bensì presentativa di Dio. E’ invece rappresentativa la conoscenza razionale in quanto lo è delle cose, rappresenta la loro essenza e i rapporti in termini concettuali: è conoscenza spettacolare di ciò che sta fuori di me. Il sapere intuitivo, invece, è presentativo: l’intelligenza non si rappresenta la verità, è presente alla verità e la verità ad essa: dunque interiorità. Il rapporto non è di rappresentazione di qualcosa che sta fuori di me, ma di partecipazione a e di qualcosa che è dentro di me.405

La rappresentazione concettuale è creativa, parola attiva, laddove la partecipazione intuitiva è coinvolgente il soggetto pensante nella Verità trascendente, “l’ospite celato e presente” (Blondel). L’astrazione concettuale parte dalle cose particolari e giunge a ciò che esse hanno in comune, ritenendo che sia una comunanza universale, una essenza necessaria ed eterna (ousia).Questo ritenimento è la fede presupposta come criterio di veridicità dell’assunto concettuale: l’ipotesi avvalorante, che però non è verità, ma solo una temporanea certezza presente confutabile empiricamente in futuro. Il prodotto ideale dell’astrazione concettuale è un modello ideo-logico, una Dòkema. Poiché questa è una immagine ideale, astratta dalla concretezza della sua realtà in divenire, e assunta come ipostatica, la sua veridicità non è ontologica ma deontologica: soltanto la corrispondenza empirica la può avvalorare (o confutare). Ciò vuol dire che la sua posizione tetica è strettamente legata alla temporalità presente, il cui movimento è circoscritto alla dinamica della sua confutazione di ogni alterità che insidia il suo stato attuale. Il dover essere della sua affermazione universale coincide dunque con la conservazione del suo essere presente, e quindi con la negazione della temporalità passata (assunta come mitica) e futura (giudicata utopica). Da qui il carattere costrittivo di ogni posizione ideologica o idealistica, 404 405

M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, cit., pag. 131. Ivi, pag. 139.

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tendente a far corrispondere il molteplice reale all’unità ideale, ossia a far rispecchiare il mondo al suo modello razionale. Ancora una volta, l’offerta evangelica della Verità come dono divino contrasta radicalmente con la necessità ascrittiva della posizione logica, che assegna la realtà alla sua categoria come condizione della sua stessa esistenza. Ciò che il principio del Logos ha rimosso arbitrariamente dalla coscienza è il fondamento arcaico di verità, nel cui ambito non vi è necessità ma solo possibilità d’essere. Ma proprio tale arbitrio testimonia della libertà umana di procedere nella Verità con l’altro, ovvero nella certezza conseguente alla rimozione del suo mistero. Sostituire il Soggetto trascendentale al Soggetto trascendente è l’operazione razionalistica del pensiero moderno, che sopprime la Differenza ontologica a favore della con-prensione ontica, cioè per la fruizione della ragione calcolante ai fini di controllo del mondo. Quando il Logos soggettivo afferma se stesso come esclusiva causa di conoscenza dell’ente, nega la Verità originaria indicandola come un mito, preferendo il rapporto logico-causale a quello simbolico-creativo.406 Causa, il cui concetto “appartiene all’ordine dei fenomeni”, è un fenomeno che precede e condiziona un altro fenomeno. “Per causa (Ursache) si può intendere una cosa (Sache) che è esistita prima di un certo avvenimento e che lo chiama all’essere, una cosa nel senso più esteso della parola, un oggetto, un essere, una sostanza di una qualche sorta”.407 Essa è lo strumento gnoseologico di presentificare la posizione assegnata all’evento di ragione in termini di condizione di ammissibilità all’esistenza dell’oggetto del suo presente effetto. Se tutta l’esperienza spirituale viene ridotta a questione gnoseologica, il problema filosofico viene identificato con quello dell’unità dell’esperienza, cioè a problema metodologico, a tecnica razionalistica. E’ questa la posizione cosmologica della metafisica classica e moderna, da Aristotile agli storici e da Cartesio a Wolff, che pensano a Dio come la Causa prima o Legge della ragione universale, e non come Principio, anche di quello causale. 408 La ragione “non ‘pone’ la verità, ma argomenta sulla base della verità 406

“La causalità è uno dei principi di cui la ragione si serve per intendere (giudicare) e unificare il mondo dell’esperienza. […] Il processo causale è un nesso di causaeffetto tra fenomeni ed è limitato all’esperienza. [… Kant, che ne fa una pura condizione del conoscere, deve necessariamente limitarne la validità al’esperienza e negare per conseguenza che esso sia applicabile al di là di essa e dunque valido per dimostrare l’esistenza di Dio”: M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, cit., pag. 146. 407 Th. Gomperz, Pensatori greci (1895-1909), Milano, 2013, pag. 508. 408 M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, cit., pag. 147.

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‘posta’, ‘data’ alla mente: giudica di ogni cosa con cui l’esperienza la mette in contatto, in quanto le sono dati i mezzi per conoscere e giudicare secondo verità”, cioè basandosi “su un fondamento che la trascende” e che dunque “è indipendente dalla ragione ed anteriore alle sue dimostrazioni”. Ciò significa che “i due termini veritas e ratio vanno tenuti ben distinti: la veritas è l’insieme dei principi intelligibili dalla mente intuiti, la ratio è l’attività che, sul fondamento di questi principi che la trascendono, stabilisce nessi e relazioni”.409 Essendo la ragione finita, il suo campo di attività è quello ontico in cui opera la scienza, sicché “l’oblio dell’Essere” (Heidegger) è la rimozione della Verità come Verbo divino che sostiene il senso della parola umana. Tra la Verità e la ragione, esiste una Differenza che rimane incolmabile senza la mediazione di Cristo, che incarna esistenzialmente, cioè nella storia e nel tempo, l’Origine, la Verità, da cui la ragione trae la sua ragionevolezza universale, e senza la quale la ragione stessa sarebbe vuota tecnica asseverativa, mera “parola” mitica, semplice rappresentazione. Aver reso il discorso un sistema autoreferenziale della parola (la “lingua per concetti” di Leibniz), ha reso superfluo il suo fondamento veritativo, che è l’origine del senso di ogni ragionamento, rendendolo opinabile, cioè relativo, e insieme dogmatico, poiché delega alla decisione l’assunzione teoretica del suo valore. L’esempio classico è quello del sillogismo, che costituisce “il punto centrale della logica aristotelica”, che già gli antichi scettici al pari di moderni empiristi come J. S. Mill, giudicarono non essere punto “un mezzo per conseguire nuove verità”. Ebbene in esso la proposizione maggiore (“tutti gli uomini sono mortali”), esprime solo una certezza di fede, la mortalità umana, che per induzione si pone come una qualità universale della specie, e il cui valore è tutto nella sua funzione di verifica empirica della veridicità generale () da essa presunta, mettendoci “sotto gli occhi, per così dire, tutto l’ambito entro il quale un’affermazione deve essere vera, se la sua verità può essere ragionevolmente ammessa in un qualsiasi caso singolo”. 410 Il carattere ipotetico della relazione causale con cui il caso particolare è sussunto in quello generale è appunto legato all’ambito di verifica, quello dei fenomeni, entro il quale è possibile al filosofo “garantire l’interiore 409 410

Ivi, pagg. 153-154. Th. Gomperz, PG, pag. 1867.

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armonia delle cognizioni una volta acquistate”. 411 Ma se la premessa maggiore è falsa, non perciò le conclusioni alle quali si perviene col sillogismo non siano razionalmente rigorose, anche se appunto false; e ciò perché la verità o falsità di un assunto e di una conclusione logica non sono date dal metodo ma dalla veridicità della premessa. Se si attribuisce al metodo la possibilità di garantire la verità delle conclusioni, si deve rimuovere la questione del fondamento veritativo, esponendo il sapere al relativismo delle superstizioni, la prima delle quali è ritenere l’inesistenza della verità in conseguenza della sua natura immutabile ed eterna, che la ragione finita non può pensare e quindi conoscere. Subordinare l’esistenza della verità alla sua pensabilità secondo il metodo significa porre il metodo al posto della verità: ed è ciò che ha fatto lo scientismo moderno. La conseguenza più rilevante di questo principio è la distinzione degli opposti a seguito del principio di non contraddizione. Infatti, se A è causa () dell’effetto B, ciò che è riferibile ad A (la causa) non è riferibile a B (l’effetto), dal momento che A è diversa da B. La diversità sta dunque nella causalità, la quale produce l’effetto. Ma l’effetto non è (solo) un concetto, è un prodotto reale attribuito a una causa ideale. È una “magia” del nous, che destina A e B a essere diversi in quanto concettualmente distinti. Se dunque il prodotto reale è prodotto da una causa ideale, esso ha tutti gli attributi dell’Idea che l’ha prodotto, a partire dalla distinzione. Un altro attributo è la immobilità. Il principio di contraddizione, dato che “tutto il nostro sapere si riferisce a fenomeni”, sembra infatti stabilire una equivalenza tra negazione ideale e assenza reale, per cui “alla presenza di un fenomeno si trova opposta la sua assenza”. Il che significa che “le contrapposizioni di presenza ed assenza, di esistenza e inesistenza, di possesso e mancanza, per citare alcune delle espressioni più usuali, compenetrano tutta la nostra esperienza”.412 L’estensione dunque della distinzione ideale alla realtà ontica ha per conseguenza la astrazione dei prodotti dal divenire in cui sono inseriti. Soltanto a seguito della loro oggettivazione gli enti possono essere distinti per qualità ideali e concepirsi come opposti se logicamente contraddittori. Ciò vuol dire che il principio di non contraddizione è fatto valere nel mondo fenomenico a seguito dell’ipotesi ontologica, cioè della credenza che l’Essere sia quello e solo quello conoscibile dal pensiero, e dunque che l’Essere sia pensiero. 411 412

Ivi, pag. 1868. Th. Gomperz, PG, pag. 1903.

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Da ciò discende che dall’attività del pensiero discenda il relativo prodotto reale e che la realtà ontica sia il riflesso oggettivo di quella ideale. Abbiamo già accennato supra che l’equazione A = B implica una trasformazione di B; lo stesso vale per la differenza, poiché la distinzione logica degli enti presuppone la loro assunzione in termini concettuali, astratti dal loro divenire, che è il luogo della in-distnzione ideale, che i filosofi ambiscono (quando non curano) di bonificare razionalmente. Ma che a sua volta trasferisce la sua indistinzione reale del concetto di cosa quale oggetto ideale, per cui ogni oggetto concettuale perde la sua singolarità particolare per partecipare della universalità ideale. Ne deriva che “comparare una cosa con se stessa è impossibile [poiché] si pone ogni volta, senza che ce ne accorgiamo, accanto alla cosa un’immagine riflessa o una copia” dell’originale, ossia un analogon, sicché affermare che A = A “non è affatto una verità assiomatica [ma piuttosto che] a leggi in senso scientifico […] ci troviamo di fronte [a] norme o precetti pratici”.413 La posizione etica, come si è pur detto, consiste dunque nel trattenere l’ente nel suo essere, che è il significato verbale della parola che dice e fa apparire l’essere dell’ente. La parola che evoca l’essere dell’ente è la stessa che infonde il significato originario alla parola contingente, impedendole di ridursi a mera indicazione di una vuota apparenza, ossia a essere trasportata dal suo divenire altro da ciò che è significativo, dal suo essere significativa. È questa possibilità di trattenere l’essere nell’ente che attesta la loro Differenza ontologica, facendo assumere alla decisione etica una funzione katechontica, senza la quale non ci sarebbe mediazione possibile tra i differenti, che pertanto resterebbero reciprocamente inconoscibili e in-determinati, e perciò liberi di determinarsi. Il precetto logico introduce la necessità all’interno dell’indeterminatezza originaria della Differenza, rendendola possibile, cioè conoscibile. Conoscere la Differenza significa trascendere l’indistinzione ontica nella determinatezza dell’essere, che è l’ente. Questo il senso della produzione dell’essere: la poiesi del suo significato onto-logico. L’esito tautologico dell’equazione A = A, in cui il prodotto si riflette in se stesso rendendosi doppio, potrebbe essere superato ammettendo la Differenza entro la relazione, per cui A = a, nella quale l’ente (a) partecipa dell’Essere (A) senza con-fondersi con esso, e dunque riconoscendolo come Altro trascendente. Per superare la in-distinzione tautologica, e con essa la indifferenza etica, la partecipazione stabilisce una “dipendenza nell’ordine 413

Th. Gomperz, PG, pag. 1905.

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concettuale [che] esige che il meno universale e il particolare sia compreso entro il più universale, il determinato entro l’indeterminato e non viceversa”. Ma questa metodica aristotelica espressa nei Topici nasconde l’insidia formalistica esplicitata nel concetto di sostanza (Metafisica, Z) quale modo di essere delle cose, in cui si afferma che la sostanza stessa è ontologicamente tutto ciò che è, e perciò Una, e “per conseguenza anche la definizione che esprime questa realtà sostanziale, benché consti di elementi, ha un’unità di significato”, la cui forma logica è l’astrazione, per cui “più la formalità è espressa in modo indeterminato, e maggior sarà la sua estensione, ed il suo diritto di fungere da Predicato, mentre in proporzione diminuirà l’esigenza di essere Soggetto”. 414 Ora, come possa la sostanza avere un significato univoco ed essere nel contempo massimamente indeterminata, non è questione da poco, che sta a indicare il percorso aporetico del razionalismo immanentistico, che, come nel caso paradigmatico di Aristotile, per coprire l’incongruenza ontologica rinuncia al dualismo platonico, cioè al modello dialettico relazionale o maieutico, risolvendosi a quello definitorio delle leggi naturalistiche, le più “esatte” a causa del loro essere “le più lontane dalle percezioni sensibili”, ossia da quel mondo-della-vita che pure è oggetto della ricerca scientifica. Viceversa, “quante più determinazioni si aggiungono, quanto più concreto diviene l’oggetto, tanto più ne soffre la precisione e il rigore della conoscenza”. 415 Ma una conoscenza che perda la concretezza delle cose, ossia la determinazione esistenziale e non puramente lessicale dei fenomeni, che conoscenza è? È vera conoscenza quella che trascura l’apparire delle cose per la loro essenza? La riserva mossa a Platone torna più cruda se rivolta ad Aristotile, che, come tutti i razionalisti, non ammette la contraddizione nella verità, ovvero la verità della contraddizione, che è il pensiero della Possibilità. La Verità che libera dalla necessità del Logos e si dischiuse come esperienza di libertà. Ma come nasce la contraddizione? 3. L ‘analogia di forma e materia con attuale e potenziale, si può stabilire in ambito naturalistico, in cui la forma è già predeterminata dalla materia, per cui è forma della materia, ma non può valere, sic et simpliciter, in ambito spirituale, dove non vi è corrispondenza tra 414

C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo s. Tommaso D’Aquino (1938), Torino, 19633, pag. 148. 415 Th. Gomperz, PG, pag. 1915.

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modello normativo naturale e sua espressione reale. L’opposizione di forma a materia “rappresenta la divisione della cosa in due lati o parti integranti”, mentre il passaggio dallo stato potenziale a quello attuale “si riferisce ai processi, cioè alle serie di eventi, e agi stati o qualità che in essi si verificano”. 416 In ambito spirituale non esistono infatti relazioni che siano biologicamente pre-determinate, sicché ogni determinazione formale della volontà include, accanto a un fattore di condizionamento materiale, uno spazio di libertà dagli esiti inprevedibili prima della loro fattiva affermazione. Proprio la realtà di tale libertà imponderabile dischiude la Differenza ontologica tra possibilità e attività, che in natura si manifesta nei soli termini temporali del prima e del dopo di uno stesso movimento necessario, ossia nello sviluppo di una scansione temporale intermedia tra l’insorgenza del fenomeno e la sua compiuta visibilità, che costituisce quel “tempo reale” che Bergson chiama “durata”, definendola come “il continuo avanzare del passato che rode il futuro e che si gonfia mano a mano che avanza”, fino “all’infinito”.417 Questa temporalità totale della “durata che scorre” incessantemente viene dalla coscienza umana suddivisa in stati psicologici statici, che consentono la loro leggibilità razionale e indicazione distinta. Nondimeno, non è possibile prevederne lo sviluppo degli elementi originari, ossia “proiettare nel futuro quello che si è percepito nel passato”, per cui la “forma semplice, indivisibile, che dà a questi elementi del tutto astratti una loro organizzazione concreta” resta misteriosa prima della sua manifestazione, del tutto imprevedibile allo stesso modo di “ciò che non è stato mai percepito”. 418 Per necessità legate all’azione, la nostra coscienza seleziona della vita interiore, staccandoli dalla durata, solo “i momenti che ci interessano”, concependoli illusoriamente come “istanti” separati. 419 Un’altra illusione, prossima a questa, è quella di trasporre il desiderio di realtà 416

Th. Gomperz, PG, pag. 1919. H. Bergson, L’évolution créatrice (1907), tr. it., Milano, 2012, pag. 14. Da ora EC. 418 Ivi, pagg. 15-16. 419 Ivi, pagg. 260-261. 417

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dal campo pratico a quello teoretico. “Ogni azione mira a ottenere un oggetto di cui ci sentiamo privi, o a creare qualcosa che ancora non esiste. In questo senso molto particolare essa colma un vuoto a va dal vuoto al pieno, da un’assenza a una presenza, dall’irreale al reale”, indicando come irreale la realtà che ci manca e reale la condizione in cui siamo immersi. “Esprimiamo così quello che abbiamo in funzione di quello che vorremmo ottenere”, trasferendo questo “modo di parlare e di pensare” in campo speculativo, anche fuori dal nostro interesse particolare per le cose, imitando la staticità della nostra intelligenza “quando prepara la nostra azione sulle cose”, sicché “allo stesso modo in cui passiamo attraverso l’immobile per andare al mobile, così ci serviamo del vuoto per pensare il pieno”. 420 Pratica è anche l’idea di disordine. “Essa corrisponde a una certa delusione dovuta a una certa aspettativa, e non designa l’assenza di ogni ordine, ma soltanto la presenza di un ordine che non offre nessun interesse attuale”, e quando trasferiamo in ambito speculativo tale idea, complichiamo il problema della conoscenza, rendendolo “forse insolubile”, poiché “andiamo dall’assenza alla presenza, dal vuoto al pieno, in virtù dell’illusione fondamentale del nostro intelletto”, pervenendo così alla “concezione radicalmente falsa che esso implica della negazione, del vuoto e del nulla”, 421 pensati come la premessa dell’essere, il principio a cui “l’essere è venuto ad aggiungersi”. 422 Questo passaggio dal nulla all’essere crea il bisogno metafisico di ancorare l’essere a una realtà non soltanto durevole ma eterna, com’è appunto l’esistenza logica rispetto a quella fisica o a quella psicologica. Nel regno della logica, le cose perdono la loro caducità e diventano essenze, anche se la conquista dell’eternità costerà il sacrificio del principio di causalità efficiente, ossia della libera decisione. 423 In realtà, afferma Bergson, il Nulla non esiste, poiché “mi vedo annullato solo se attraverso un atto positivo, anche se involontario e incosciente”, sicché, “per quanto io faccia, percepisco sempre qualcosa, 420

H. Bergson, EC, pag. 261. Ivi, pag. 262. 422 Ivi, pag. 263. 423 Ivi, pag. 264. 421

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dall’esterno o dall’interno”, in quanto “l’immagine propriamente detta di un annullamento di tutto, non è mai compiuta nel pensiero” e ogni sforzo per creare tale immagine non è che l’oscillazione “fra la visione di una realtà esterna e quella di una realtà interna”. È in questo andirivieni dello spirito che “si forma l’immagine del nulla”, che è lo spazio in cui “i due termini sono comuni, e l’immagine del nulla così definita è un’immagine piena di cose, un’immagine che racchiude insieme quella del soggetto e quella dell’oggetto, con in più un eterno saltare dall’uno all’altro e il rifiuto di posarsi mai definitivamente su uno di essi”.424 Questo presunto Nulla, chiosa giustamente Bergson toccando il punto saliente del discorso, non si può opporre all’Essere, “poiché esso contiene già l’esistenza in generale”. 425 Ciò comporta che il vuoto di qualcosa è un’altra cosa al suo posto, che si percepisce al suo posto. “Ora, ciò che è e ciò che si percepisce, è la presenza di una cosa o di un’altra, mai l’ assenza di alcunché”, poiché l’assenza è solo “il ricordo” di ciò che era e non è più. La percezione non trova l’oggetto atteso e lo immagina al posto del nuovo, ma questo sentimento deluso non è “pensiero” bensì una sua “colorazione affettiva”, che soggettivamente indica una “preferenza” e oggettivamente una “sostituzione”.426 Sia si tratti di vuoto fisico (“di materia”) che di vuoto immaginato (“di coscienza”), esso consiste sempre in una comparazione tra ”ciò che è e ciò che potrebbe o dovrebbe essere, fra pieno e pieno”, sicché la sua è sempre una “rappresentazione piena” che consta di “due elementi positivi: l’idea di distinta o confusa di una sostituzione, e il sentimento, provato o immaginato, di un desiderio o di un rimpianto”. 427 La negazione viene idealmente rappresentata come un non davanti all’essere, ma l’atto col quale si dichiara irreale un ente “non può consistere nel privarlo di ogni tipo esistenza, poiché la rappresentazione di un oggetto è necessariamente quella di questo oggetto esistente”, pensato però in termini di “esistenza ideale, quella di un puro possibile”, e pertanto l’idea di non esistenza è quella di una di esistenza 424

Ivi, pag. 266. Ivi, pag. 267. 426 H. Bergson, EC, pagg. 268-269. 427 Ivi, pagg. 269-270. 425

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“con, in più, la rappresentazione di una esclusione di questo oggetto dalla realtà attuale considerata in blocco”. 428 In altri termini, la negazione interviene a sopprimere la presenza dell’immagine della cosa nella nostra coscienza, cioè a negare la sua rappresentazione attuale, che non incide però sulla esistenza della cosa, rispetto alla quale la negazione è un desiderio. Se dunque l’affermazione congiunge idea a realtà rappresentando l’esistente, la negazione, tenuto fermo l’esistente, interviene solo sulla sua idea, confutandola come errata rappresentazione dell’esistente e dichiarandola solamente come possibile,429 cioè un’ipotesi o un’opinione (doxa). In tal senso, la negazione è “un’affermazione di secondo grado: essa afferma qualcosa di un’affermazione che, a sua volta, afferma qualcosa di un oggetto”. 430 Bergson intuisce il carattere pedagogico della negazione, la quale, dicendo della cosa, parla all’altro anziché rapportarsi semplicemente alla cosa,431 supponendo implicitamente che l’affermazione sia invece un rapporto diretto tra Soggetto e oggetto, mentre, come sappiamo, essa importa una decisione etica. Ciò che manca alla negazione è appunto la determinazione di realtà, andando a costituire quella condizione aporetica propria della dialettica elenchetica in cui la indeterminazione stabilisce l’orizzonte di possibilità dell’Essere a determinarsi. Infatti l’affermazione è una de-finizione dell’Essere in cui si de-termina l’orizzonte della sua realtà. La negazione mette in discussione tale determinazione di realtà, riportando l’Essere alla condizione di possibilità, ovvero di in-determinazione, aperta ad altre definizioni. Ma di fronte alla pretesa del concetto di porsi come affermazione universale, inclusiva dunque della stessa negazione, risolta nella positività dell’affermazione, la negazione entra a far parte integrante di quella pretesa, come affermazione opposta negata. Essa dunque viene acquisita dall’affermazione per essere negata; ma tale acquisizione della sua realtà comporta a sua volta il riconoscimento della sua positività, che non può essere attribuita alla negazione ma al suo contenuto 428

Ivi, pag. 272. Ivi, pag. 273. 430 Ivi, pag. 274. 431 Ibidem. 429

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esistenziale, che è lo stesso contenuto dell’affermazione tetica e opposta. In altri termini, la negazione ideale, ossia della rappresentazione di qualcosa considerata errata, per poter essere confutata deve insistere sullo stesso oggetto delle opposte rappresentazioni, il quale per entrambe è positivo. Non esiste un contenuto negativo di una proposizione negativa; e perciò non può esistere neppure una affermazione che abbia per suo oggetto di pensiero un ente e che sia nel contempo negativa. Sicché, nell’atto con cui si riconosce la positività del’oggetto di una affermazione, questa non può che essere positiva a sua volta. Ciò che allora è il negativo di una affermazione è la sua affermazione opposta, ossia la sua contrapposta positività, in cui consiste una rappresentazione difforme. Ma se esistono molteplici rappresentazioni della stessa realtà ontica, esse non sono altro che diverse rappresentazioni dello stesso, della stessa realtà naturale e del mondo-della-vita. Stanti così le cose, la pretesa di stabilire una definizione che sia nel contempo esclusiva di ogni affermazione opposta e che sia universale, è priva di ogni plausibilità logica ed esistenziale, pari a quella di volere de-finire il molteplice divenire entro un concetto ideale che lo comprenda. La negazione è sempre confutatoria di tale pretesa universalistica del concetto, ossia delle parole definitorie che lo costituiscono, le quali non potranno mai essere definitive, conchiudendo cioè la possibilità del pensiero entro la prescrizione etica della loro necessità logica di essere anziché non. Essere cosa? Essere presente, anziché passare; realtà ideale e perciò eterna anziché in divenire e perciò transeunte. Ciò che l’idea afferma nega a sua volta la possibilità, sicché l’affermazione afferma la necessità d’essere ciò che è. L’idea di ciò-che-è, escludendo il possibile, afferma di essere tutto; ossia di essere al posto del Nulla, che è il tutto del niente. Così si forma l’idea di “nulla assoluto”, parente stretto dell’idea del tutto. 432 Per comprendere la ragione che muove l’opposizione a una rappresentazione del mondo, dobbiamo dunque rifarci alla pretesa dell’affermazione di essere la definizione della realtà, negandone il divenire. Contro tale istanza idealistica, insorge dialetticamente la 432

H. Bergson, EC, pag. 281.

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negazione ad affermare le ragioni della possibilità, che sono poi quelle stesse della libertà spirituale. Sicché, più diventa astratto il concetto e comprensivo di senso, e più alimenta l’opposizione della vita dinamica ad essere tradotta in immobile eternità. E così come l’affermazione del presente ispira la memoria del passato e la speranza del futuro, rispetto ai quali quel presente è, parimenti l’idea universale per essere deve negare ed essere negata da una idea opposta della stessa portata. Non a caso la filosofia,smettendo di servire la Verità che la trascende, ha finito per servire la potenza della volontà che la domina, e ambendo ad essere ragione del Tutto ha finito per diventare ragione del Nulla. La potenza stabilita in una definizione è la forma, la quale “non è che un’istantanea scattata su una transizione” 433 e rappresentata come idea normativa eterna. “Eidos è la veduta stabile presa sull’instabilità delle cose”, per cui “riportare le cose alle idee consiste nel risolvere il divenire nei suoi momenti principali”, sottraendo ciascuno di essi “alla legge del tempo, e [assumendolo] come colto nell’eternità”. 434 Poste “le idee immutabili alla base della realtà mobile”, ne discende una rappresentazione del mondo costituita da immagini distinte dal divenire, il cui movimento però contiene un di più rispetto alla successione degli astratti momenti in sequenza, tale che l’analisi filosofica delle forme “potrà dedurre dai termini del primo genere quelli del secondo, ma non dal secondo il primo”, 435 poiché la transizione del movimento non si risolve in una causa determinante, ma include l’elemento della libera determinazione che non può essere prevedibile come legge dinamica costante. Ma la filosofia è comunque dal principio del movimento deve partire per le sue analisi speculative, e per giustificare il mutamento di fronte all’eterno immobile, lo deduce come una minorità rispetto alla sua perfezione ideale, sicché “alla base della filosofia antica dimora necessariamente questo postulato: vi è di più nell’immobile che nel movente, e si passa, per via di diminuzione o di attenuazione, dall’immutabilità al divenire”. Questo processo si ottiene affiancando alle idee il loro opposto negativo, il “non essere platonico” e la “materia 433

H. Bergson, EC, pag. 287. Ivi, pagg. 298-299. 435 Ivi, pag. 299. 434

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aristotelica”, che agisce sulla totalità delle idee come la realtà sensibile su quella intelligibile, poiché “il fisico è una corruzione del logico”, segnando la sua “caduta nello spazio e nel tempo”. 436 Ma le idee, essendo “momenti colti lungo la durata, non durano proprio perché si è tagliato il filo che le collegava al tempo”, tendendo “a confondersi con la loro propria definizione, cioè con la ricostruzione artificiale e l’espressione simbolica che è il loro equivalente intellettuale”. 437 L’opposizione non è però una spiritosa invenzione spirituale del filosofo ma nasce dalla dialettica stessa della posizione ideale, che affermando nega il suo opposto, la cui realtà dipende a sua volta dalla sua opposizione alla sua antitesi. Da qui l’opposizione logica divenuta metafisica tra l’elemento stabile della forma determinata, e l’elemento mobile dell’indeterminato divenire della possibilità, che costituiscono anche “l’operazione essenziale del linguaggio”, del quale “le forme sono tutto quello che esso è capace di esprimere”. 438 In quel “tutto” è compresa anche la coincidenza delle coppie forma-materia e attopotenza,439 stando a indicare nel linguaggio l’ambito di convergenza, la “zona grigia”, in cui la coscienza esterna s’incontra con la coscienza interna. Allorquando la filosofia distingue il pensiero formalizzato dal linguaggio indeterminato, scomporrà il reale in una parte costituita da elementi immutabili e in un’altra retto da “un principio di mobilità che, essendo la negazione della forma, sfuggirà per ipotesi a ogni definizione e sarà l’indeterminato puro”.440 Ma materia e forma non sono che due concetti astratti dal divenire del mondo-della-vita e ipostatizzati come realtà assolute, l’una retta dal principio di necessità (logica) e l’altra da quello di spontaneità (fantasia).441 La distinzione, che è operazione intellettuale, divenendo criterio interno al Lebenswelt, organizza il mondo sul fondamento del linguaggio, indicando nel linguaggio mitico l’essenza del mondo naturale 436

H. Bergson, EC, pagg. 303 e 304. Ivi, pagg. 300-301. 438 Ivi, pag. 309. 439 Th. Gomperz, PG, pag. 1920. 440 H. Bergson, EC, pag. 309. 441 Per Aristotile (De anima, III 8, 432a 10) “la fantasia è fondamentalmente diversa dall’affermazione e dalla negazione e cioè dal giudizio in generale, e quindi non è soggetta alle categorie della verità e dell’errore”: Th. Gomperz, PG, pagg. 2063-2064. 437

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dominato dalla spontaneità del caso ( ), cioè dalla forza, e nel linguaggio razionale l’essenza del mondo spirituale governato dalla ragione della necessità (), ossia dall’etica. Due piani di realtà, reciprocamente opposti ma interattivi, che il metodo dialettico riesce a distinguere e separare, realizzando il compito della filosofia. Ma se questa può indicare le forme immutabili del linguaggio, non riesce a definire il linguaggio stesso in cui è inserita, ossia trascendere quel pensiero di parole, che appunto non riesce a trascendere se stesso. Questo limite lo spinge, per un verso, a ripiegare su se stesso, concependosi come scienza del mondo, per un altro invece ad affidarsi alla volontà divina, eleggendola a ragione del mondo. Ciò che è stato diviso va quindi unito. Per una ragione semplice ed essenziale, che è quella di garantire, attraverso la prevedibilità degli eventi, il controllo del mondo da parte della ragione, ossia della volontà ordinatrice del cosmo, di cui il caso è l’insidia. Attribuendo a Dio le leggi cosmologiche allora la dicotomia si scioglie e il caso scompare quale forza indipendente dal fattore divino, facendo del filosofo il braccio di Dio. Ogni attività eslege diventa un’infrazione, ossia una sequenza di azioni non finalizzata razionalmente. La ragione porta il confitto entro l’unità del mondo, come il Logos entro il linguaggio spontaneo del Mito. Ciò che preme al filosofo è di fare dell’anima “la totalità delle cose”, 442 ossia dei fenomeni naturali degli enti di ragione definibili dal pensiero umano, il cui senso è quello stesso stabilito dall’intelligenza dello osservatore, che distingue gli avvenimenti rilevanti secondo il fine razionale da quelli in-significanti, lasciati all’azione del caso, cioè della natura inconsapevole. E’ dunque il Logos stesso a discriminare il valore dal disvalore, indicando la via da percorrere alla intelligenza del sapiente. La parte spettante al Logos nella determinazione del giudizio, e quindi nella decisione operativa, è essenziale ai fini di ritagliare all’uomo un ambito di libertà, per altro non disgiunta dalla necessità della causazione logica. Ma se in natura la necessità opera senza discernimento umano, attraverso la ragione l’uomo può scegliere di rivolgere la sua volontà verso il bene comune, anziché perseguire azioni dannose a sé e agli altri. Come essere razionale, l’uomo ascende a livello divino, raggiungendo quell’unità spirituale che la condizione finita e materiale gli impedisce di conseguire.443 Se il Logos è la capacità dianoetica di discernimento e di 442

Aristotile, Fisica, IV 14, 223 a 21.

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riflessione,444 il nous è l’intuizione intellettuale,445 ossia “la facoltà di contemplare direttamente i concetti”.446 La conoscenza intellettiva subentra a quella sensoriale e immaginativa per elevazione attraverso il medium di una credenza (pistis) od opinione (doxa), che costituiscono la prima forma di giudizio. La presenza di queste attività inferiori attesta l’incapacità dell’intelletto di bastare a se stesso, nonostante esso sia nella sua sfera, dove entra in contatto diretto con l’intelligibile, “in via di diritto infallibile”. 447 È nel contatto con gli intelligibili che l’intelletto, in funzione passiva, diventa forma, mentre nella sua attualità poietica e agente esso le produce. “Così, l’intelletto potenziale sarebbe il ‘luogo’ eternamente attuale d’intelligibili eternamente in atto”.448 Pervenuto alla coscienza del proprio limite, l’intelletto deve trovare in ciò che lo trascende i propri interlocutori ideali, e poiché il suo orizzonte d’azione è il presente, ciò che lo trascende non può che avere il tempo del passato e quello del futuro, ossia la temporalità inattuale di ciò che è andato e di ciò che andrà oltre l’attuale coscienza della realtà. L’unità di questa varia e irriducibile temporalità non può essere garantita da nessuna scansione particolare dei singoli tempi diacronici, non perciò dalla storia passata, né dalla ragione attuale e neppure dalla fantasia dei modelli utopici. L’unica dimensione spirituale che può offrire la rappresentazione del mondo quale fenomenologia “della complessità, dell’imprevedibile e dell’accumulo infinito di differenze, molto spesso conflittuali”, e alcune irriducibili, è quella religiosa,449 l’unica che, nella sua storica e culturale varietà di forme espressive della trascendenza, permane come termine dialettico di ogni costrutto teorico e pratico, individuale e sociale elaborato dall’uomo per darsi ragione di sé, dei suoi simili e della natura 443

“Si comprende perciò come l’organo dell’attività puramente intellettuale poteva essere inteso come un fattore comune a tutti gli uomini, affrancato dai limiti di ogni particolarità individuale e corporea, e, appunto perciò, liberato anche dalla legge per cui tutto deve morire: un fattore la cui origine era legata immediatamente alla divinità […]”, ossia alla materia celeste: Th. Gomperz, PG, pag. 2085. 444 Aristotile, De anima, III 4, 429a 23. 445 Aristotile, Metafisica, XII 7, 1072 b 20 sgg. 446 Th. Gomperz, PG, pag. 2093. 447 L. Robin, Op. cit., pag. 367. 448 Ivi, pag. 369. 449 G. Fragnière, La religion et le pouvoir. La crétienté, l’Occident et la démocratie (2005), tr. it., Bologna, 2008, pag. 7. Da ora RP.

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che fa da sfondo al suo mondo. Se ogni sapere si costituisce in una disciplina scientifica che definisce il proprio campo di indagine distinguendolo da ogni altro, proclamando una sorta di autonomia gnoseologica soltanto la religione si costituisce come sapere di relazione tra l’esperienza noetica e morale del soggetto conoscente e ciò che non vi è incluso e che la trascende, senza peraltro essere estranea o indifferente a quella conoscenza stessa, ma anzi sua parte costitutiva imprescindibile. 450 Questa caratteristica teoretica fa della sfera religiosa il fondamento di legittimazione di ogni sapere e di ogni opera umana, in quanto ne rappresenta i princìpi di verità e di azione. Proprio per questo essa costituisce il limite alle pretese universalistiche, sia della filosofia come scienza rigorosa che non riconosce alcun fondamento di sapere che non sia da essa stessa posto come suo principio assoluto, e sia di ogni forma di potere, politico o economico, che intende la propria esperienza mondana come esercizio di una pura volontà fine a se stessa. Prima di essere una qualche teoria cosmologica o una dottrina sociologica, la religione esprime un sentimento di certezza fondativo del senso dell’esistenza, le cui ragioni culturali sono assegnate al pensiero, magico o mitico, filosofico o scientifico che sia. la “religione” è pertanto la rappresentazione del sentimento religioso costitutivo di una fede ontologica circa la realtà del mondo e la necessità che esso sia così e non diversamente da come è. Essendo fondamento (archè) dell’Essere, la fede ontologica costitutiva del sentimento religioso sostiene ogni sapere e ogni esperienza esistenziale, perciò non costituisce un “sistema” distinto dagli altri 450

Scrive Fragnière: ”La presa di coscienza del soggetto ha come conseguenza di collocare ogni ‘altra’ realtà nel mondo degli oggetti, e quindi di porre l’essere umano nella situazione di mettersi di fronte all’esistenza di due mondi distinti: quello nel quale egli si trova, ‘là dove egli pensa colui che pensa’ e dove vive e infine muore; e l’altro da cui egli si distingue e che gli sfugge. Diventa quindi necessario, per l’essere che ontologicamente si isola in questo modo prendendo coscienza di sé e della propria unicità, di ritrovare un contatto con quest’altro mondo che gli sfugge.[…] Il fatto religioso, dunque, nasce dalla sensazione contraddittoria suggerita dall’apparente incompatibilità di due realtà che, nell’atto del conoscere, si trovano di fronte: il mondo e il sé. […] Pone l’essere umano in una relazione particolare con i problemi fondamentali della vita e dell’umano interrogarsi: la nascita, l’amore, la morte. E’ rispetto a tali domande – diremo miseri? – che il sistema religioso si distingue dagli altri sistemi sociali, come il sistema politico, economico, educativo, ecc. ”: RP, pagg. 9, 24 e 28.

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sistemi, ma ha la pretesa di legittimarli. Tale pretesa non è razionale, ma ontologica e morale, ed è al fondo della decisione etica del Logos per l’essere anziché per il nulla. Il Cristianesimo, a differenza di ogni altra religione storica, ha sostituito il carattere politico della decisione etica con la morale agapica, superatrice di ogni partigianeria etnica, tribale o statuale, in considerazione del carattere universale della fraternità in Cristo, conseguente alla comune condizione creaturale dell’umanità. Il deciso rifiuto della fede cristiana ad assimilarsi al sistema politico nasce da questa istanza universalistica del Cristianesimo, negata a ogni altro sistema di sapere e di vita. Non si è “opposto al secolare al fine di mostrare il proprio ambito ed esprimere i propri valori”, per cui “l’ambito del secolare si è così allargato a motivo del rifiuto di certi oggetti e funzioni in nome della purezza e dell’esigenza interna del religioso stesso”,451 ma è esattamente l’opposto: è il motivo universale, originariamente religioso, che, attribuito alla conoscenza razionale assolutizzata, ha voluto dispensare il religioso dalla sua funzione originaria di legittimazione del sapere e del potere, proponendo la Ragione assoluta come religione secolare, al posto di quella tradizionale cristiana. L’attributo divino della universalità, tradotto in valore della ragione umana, ha rinnegato il fondamento arcaico di legittimazione dell’operato dell’uomo, cercando di piegare l’antica fede in religione funzionale al Potere politico, sicché la tesi secondo la quale “nella storia cristiana, principalmente in Occidente, più il religioso è stato esclusivamente religioso, più il campo del secolare si è allargato; più la Chiesa ha predicato che non era di questo mondo, più il mondo si è trovato secolarizzato”, accelerando il “disincanto del mondo”, 452 è del tutto errata storicamente e culturalmente fuorviante, non riuscendo a penetrare l’intima dinamica spirituale dei processi di secolarizzazione della civiltà occidentale, a partire dalla stessa religione cristiana, soffermandosi sulle sue manifestazioni estrinseche e secondando una rappresentazione razionalistica del religioso, ereditata dall’Illuminismo. Ciò che questa teoria non coglie, ma che costituisce l’aspetto essenziale della fede cristiana e della sua originalità rispetto alle differenti religioni storiche dell’uomo, è che la predicazione del Cristo in riferimento a un “altro mondo” rispetto a quello storico dominato dai Cesari, verteva sulla 451 452

G. Fragnière, RP, pag. 32. Ibidem.

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possibilità di concepire, e quindi di costruire, un modo di convivenza umana diverso da quello sociale dominato dalla logica politica, divisiva fra gli uomini ed esclusiva delle componenti maggioritarie più deboli. Il rifiuto di Cristo a farsi paladino della causa degli zeloti nasceva dalla prospettiva appunto di pensare i rapporti umani in maniera diversa da quella politica, dominata dalle pulsioni erotiche di potenza, e quindi sulla sistematica violenza dell’uomo sull’uomo. Non che la Chiesa sia stata immune da queste pulsioni e dalla inerente violenza, ma non in conseguenza della fede cristiana, bensì per mimetismo culturale, dovuto al suo ruolo politico surrogatorio di quello imperiale romano. Anche quando dominante, la fede cristiana diventata religione di Stato ha fruito di strumenti intellettuali e di funzioni sociali non pertinenti alla motivazione spirituale della evangelizzazione, che doveva appellarsi alla responsabilità morale delle singole persone, anziché a princìpi di ordine politico, che dovevano restare affare di Cesare. Il connubio eusebiano della cristologia con la politica, credendo erroneamente di fondare la nuova società cristiana, elevò invece la politica a valore universale garantito dalla religione universale, facendo di Cesare la controfigura secolare di Cristo, esattamente quello che Gesù rifiutò di essere incarnando il modello di apostolo delle genti, anziché il ruolo di messia del popolo israelita. Assegnando al Potere una funzione messianica, la Chiesa per controllarlo ne condivise le sorti istituzionali senza mettere in questione gli strumenti razionalistici delle sue dottrine teologiche, che, essendo gli stessi di quelli di cui si serviva la logica politica, funsero da modello delle avverse dottrine secolaristiche, in lotta con quelle ecclesiastiche per l’egemonia culturale attraverso la separazione non solo più funzionale ma di principio dello Stato dalla Chiesa. La posta in gioco, al di là degli specifici interessi particolari, era l’universalismo del fondamento di legittimazione del mondo: se trascendente e divino ovvero immanente e umano. La tesi secondo cui “è l’uomo stesso che sacralizza o desacralizza il mondo, non l’inverso”, essendo “l’uomo che rivela”,453 ha già assimilato, sia pure forse inconsapevolmente, l’ontologia razionalistica che soggiace a ogni visione storicistica, facendo del motivo religioso un fenomeno meramente culturale di value orientation, e quindi transeunte e contingente, ossia “un sistema sociale fra gli altri”, dando per scontato che “nella società contemporanea [sia] normale pensare che la religione non sia la sola 453

G. Fragnière, RP, pag. 36.

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ispirazione, unica ed esclusiva, capace di giustificare un particolare modo di vivere”.454 Questa credenza deriva a sua volta dalla convinzione che “l’influenza di un sistema di valori in una società non dipende innanzitutto dal contenuto dei valori proposti, ma dalla relazione istituzionale che esiste tra il sistema e le altre istituzioni sociali”, 455 come se i valori istituzionali non dipendessero dal loro contenuto, che ne legittima la funzione e dunque la stessa sussistenza storica. Nessuna istituzione storica opera senza il riconoscimento della sua funzione. 454

Ivi, pag. 37. Affermare poi che se “la storia ci dimostra che il sistema religioso, per secoli e in molte società, ha assunto praticamente in modo esclusivo le funzioni del sistema di valori, […] ma l’evoluzione delle società moderne, di cui sottolineiamo la ‘secolarizzazione’ crescente, dimostra che altri sistemi di valori possono ricoprire questa funzione altrettanto bene” (pag. 38), attesta, nella sua paradossalità, la incomprensione della natura ideologica e totalitaria di tali “sistemi di valore”, antitetica alla predicazione cristiana. L’equivoco è esplicito a pag. 78, dove si afferma che “ogni religione propone, qualunque sia il suo riferimento alla realtà trascendente, delle verità che costituiscono un sistema coerente di idee” (corsivo nostro), non avvedendosi che il sentimento religioso rivolto al trascendente esprime l’istanza contraria alla sistemazione ideale della fede, e si avviluppa a pag. 81, dove si afferma giustamente che “la credenza [religiosa] può diventare ‘verità’ [razionale] e infine trasformarsi in ideologia del potere”. Infatti, assegnandosi alla “credenza” una accezione diversa da “verità” di fede, si attribuisce alla verità una accezione razionale, che lascia infondata e illimitata ogni ragione, e perciò stesso preda delle ideologie, che sono appunto verità razionali. Il “credere che” è infatti un’opinione intellettuale, un’ipotesi euristica confutabile, mentre il “credere in” è un’intuizione di verità irrefutabile empiricamente o razionalmente, che sta a monte di ogni giustificazione razionale. Il passaggio dalla “credenza” di fede alla “verità” di ragione non è dunque un portato della religione trascendente, ma del fideismo razionalistico, ossia della religione della fede nella Ragione come verità universale, ossia logica. Ma l’Autore pare non avvedersene allorquando scrive che “il ‘credere in’ richiede sempre di schiudersi in una qualsiasi forma di ‘credere che’”, ossia in “spiegazioni” razionali della fede “che si rivolgano obbligatoriamente all’intelligenza umana”, lasciando supporre che una verità di fede non sia credibile se non viene rappresentata in termini razionali, ossia non diventi theo-logia, essendo inevitabile che “ogni religione debba essere compresa con la ragione e [che] le sue affermazioni sottomesse all’esame di quest’ultima” (pagg. 81-82), sottomettendo così l’intuizione del trascendente o dell’Infinito alla forma razionale finita, che è esattamente la posizione razionalistica che legittima le teorie ideologiche totalitarie. Infatti, “la preoccupazione di rispondere esaurientemente alle domande che l’intelligenza umana sollevava di fronte alla nuova fede ha portato la Chiesa a trasformarsi, teologicamente, in un potere responsabile di ‘detenere’ e ‘dire’ la verità, sviluppando una sintesi accettabile della rivelazione e della ragione” (pag. 85).

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Soprattutto se si ammette che i “valori religiosi” trascendono sempre la società in cui vivono i suoi portatori, deve conseguire che le istituzioni sociali, non potendo rappresentare il “soprannaturale”, rappresentano i portatori, assumendo così un ruolo oggettivamente politico. in questo ruolo l’istituzione religiosa è astrattamente equivalente a ogni altra, ma concretamente la sua incidenza sociale dipende dai rapporti di forza all’interno del sistema. Se questa è la situazione strutturale, il sistema di valori relativo prescinde dal suo contenuto e dipende dalla funzione istituzionale, che rappresenta dunque gli stessi valori di cui essa è portatrice formale. Nei rapporti sociali, è la funzione che rappresenta i valori istituzionali, ma non così in campo religioso, dove sono i valori che costituiscono la funzione, e perciò non sono valori istituzionali ma bensì esistenziali, dei quali ogni portatore ne è rappresentante, anche in assenza di istituzioni di riferimento. Questa è la ragione per la quale storicamente è potuta convivere una Chiesa politica con comunità pie, un clero avido di beni e poteri mondani con personalità spirituali di sincera vocazione alla santità. E pertanto “i sistemi sociali non possono pretendere di rappresentare una realtà trascendente i sistemi che li compongono”, finendo per chiudere l’uomo nella sua finitezza e “alla tirannia del potere politico, alla supremazia dello Stato e, alla fine, al rifiuto del religioso stesso […] con il quale la persona si identifica e nel quale trova il senso della sua vita”.456 Ma se ciò è vero, come noi crediamo, la conclusione politica che ne trae Fragnière è clamorosamente ideologica e del tutto fuorviante. Infatti il “consenso” accordato allo Stato per l’esercizio del suo potere non può esserne la fonte di legittimazione, proprio perché i valori di cui si fa portatore l’istituzione statale sono quelli di affermare il potere sui cittadini e di negare che essi possano sottrarvisi in quanto persone. Ma è proprio da tale dialettica politica che il Cristianesimo evangelico ha inteso sottrarre l’uomo ridotto a essere naturale, nella consapevolezza della trascendenza della sua matrice spirituale, non sottoposta all’autorità di Cesare. Questa incomprensione della essenza della fede cristiana, confusa con il fenomeno sociologico del religioso, si riflette anche nell’analisi delle sue “sette dimensioni”, dove la relazione con “il fenomeno del potere” si definisce entro i termini di un confronto interno alla dimensione sociologico-politica, dove “l’istituzione religiosa è 455 456

Ivi, pagg. 43-44. G. Fragnière, RP, pag. 48.

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fondamentale, perché è coinvolta direttamente nelle relazioni di potere che si instaurano in una società”.457 Ma se spiegare i processi culturali in Occidente attraverso categorie sociologiche può illustrare nessi più o meno plausibili di fenomeni congiunturali tipizzati, non può però rendere ragione del loro essenziale significato spirituale di dare fondamento alla realtà, che rimane al fondo arcaico delle sue manifestazioni empiriche, sociali o individuali. Una veritiera ermeneutica della sfera religiosa non può che risalire all’origine del Mystero divino nella sua relazione con ogni certezza ontologica razionalmente stabilita. E in quell’archè troviamo il primordiale atto sacrificale con cui inizia ogni culto religioso, il sacrificio ontologico, perpetrato dal Logos verso il Mythos, e che il cristianesimo svela e denuncia come il peccato originale della specie, che si perpetua contro il Cristo a opera del potere politico, che è la traduzione pratica della logica dialettica. La logica esclusiva si afferma col sacrificio simbolico dell’Altro, che diventa esistenziale entro la situazione storica in cui si muove la vita sociale degli uomini. Il Dio crocifisso rappresenta l’evento simbolico-reale del sacrificio del Verbo universale indeterminato a opera del determinativo gergo logico-politico. La definizione logica, così come la de-cisione etico-politica, uccidono la Verità in-visibile del sentimento della fede, per la certezza della visione fenomenica e della pre-visione calcolante dei suoi processi onto-logici. Il sacrificio storico di Gesù rappresenta nelle sue conseguenze il primordiale sacrificio ontologico, la cui iterazione può spezzarsi non attraverso la pietà verso l’uomo innocente, che rende immutabile il destino sacrificale, ma attraverso la conversione spirituale dalla dimensione logico-politica (e giuridico-procedurale degli istituti di potere) a quella agapico-personale (e simbolico-sacramentale degli atti di coscienza mistica). Aver trascritto la fede religiosa in un sistema assiologico e una tradizione rituale, ha conferito alle sue dottrine un crisma gnoseologico di scienza, ma l’ha privata della originaria funzione fondativa del senso della vita, quale fondamento ontologico pre-cognitivo che assicurava metafisicamente la coscienza umana alla relazione col divino. Ciò, per un verso, ha privato la fonte rivelativa del suo carisma trascendente, e dall’altro ha creato i presupposti ermeneutici di una frammentazione disciplinare del patrimonio religioso, divenuto agli occhi degli osservatori 457

Ivi, pag. 55.

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razionalisti un deposito archeologico oggetto di incessante rivisitazione esegetica e di valutazione critica, fruibile sia in direzione di uno sviluppo della responsabile libertà personale che a scopi di legittimazione eticopolitica collettiva. Questo secondo aspetto è inquadrabile nella “dimensione istituzionale del fenomeno religioso [in cui] si esprime ‘apertamente’ il rapporto del religioso con il potere”. 458 Tale rapporto è di separazione (Mc 12, 17), ma non nel senso dell’equivalenza delle rispettive posizioni assolutizzate, ma nel senso funzionale,459 poiché l’autorità morale che legittimava le decisioni del potere politico aveva il compito di salvaguardarne i valori direttivi, non di intervenire sulla prassi amministrativa dell’esercizio dell’autorità. Non di meno, la relazione istituzionale tra Chiesa e Stato è un processo interno alla società politica, che la cultura greca considerava naturale e dunque costitutiva della stessa identità antropologica degli uomini, ma che nella prospettiva cristiana rappresentava soltanto una fase dello sviluppo della coscienza spirituale. La missione apostolica di evangelizzare le genti aveva questo fine recondito di preparare gli uomini alla transizione da una forma di socialità politica a una condenda di comunità fraterna. L’attesa messianica dell’avvento escatologico interessava il compimento della storia politica e l’inaugurazione di un nuovo eone spirituale all’insegna della coesistenza fraterna di tipo agapico. Quale altra missione poteva essere assegnata agli apostoli, e dunque alla Chiesa, se non quella di preparare l’avvento del Cristo re di una comunità convertita all’Agape? Questo il motivo di verità della profezia gioachimita, che i suoi interpreti storici hanno però inteso nel senso zelotico di un obiettivo politico, anziché in-politico e spiritualistico. La conversione in senso cristiano non preludeva la costituzione di un Impero cristiano, ossia di uno Stato governato da autorità cristiane, una theo-crazia sul modello della Repubblica platonica, ma di una Chiesa comunitaria di fede, la quale, in virtù del suo disegno escatologico, non 458

G. Fragnière, RP, pag. 91. Col riconoscimento nel IV secolo del cristianesimo come religione di Stato, regnante Teodosio,“per la prima volta nella storia delle società umane, nell’Occidente latino si è sviluppato allora un sistema sociale e politico che, a poco a poco, si è ritrovato disgregato tra poteri che coprivano funzioni distinte, poteri incarnati in istituzioni specifiche e separate. […] La cristianizzazione dell’impero romano porterà di conseguenza la disintegrazione della concezione uniforme che, fino a quel momento, gli uomini avevano del proprio sistema sociale”: Ivi, pagg. 116-117. 459

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sussistesse all’interno della società politica se non provvisoriamente, fino alla dissoluzione della sua struttura politica, ispirata alla coscienza naturalistica greco-pagana. L’escatologia storica della coscienza personale era la rivelazione della verità di fede e la conversione a Cristo, l’escatologia meta-storica era la parousia apocalittica, il nuovo avvento di Cristo come re della umanità redenta. Nelle more, l’azione missionaria apostoica. Il dualismo Chiesa e Stato non è il quaggiù e l’al di là dell’idealismo greco, ma “è un dualismo fondato su una fede che oppone un mondo tentato di vedere nel presente il compimento della storia, e una religione che chiama l’umanità a costruire un regno di speranza nel futuro”.460 Il luogo di incontro delle due dimensioni era, sul piano teoretico, lo strumento tecnico della ragione dialettica, e sul piano esistenziale era lo strumento politico del Potere piegato ai propositi della Chiesa. La funzione strumentale del Potere viene, con la Riforma protestante, alterata dal compito assegnato al principe cristiano di occuparsi della comunità dei cristiani, considerati tali uti singulos, mentre, in quanto comunità politica, essi vengono consegnati alla tutela del sovrano, emancipato del tutto dal controllo morale e politico della Chiesa. L’assolutezza del potere politico, se libera questo dalle limitazioni rappresentate dalla Chiesa, non libera i cristiani dalla volontà dei sovrani, i quali accrescono il loro controllo sociale attraverso la sudditanza religiosa, aggiuntiva a quella politica. Il distacco da Roma, quindi, non garantisce i cristiani dal potere politico, ma solo da quello ecclesiastico, distinto dal corpo mistico ecclesiale. Ciò che avviene con la Protesta è che quella cristiana torni ad essere considerata soltanto una fede personale, senza implicazioni collettive, che restano di definizione e competenza politica. L’aspetto centrale del distacco da Roma è la dissoluzione dell’unità storica cristiana dell’Europa e l’affermazione consequenziale che l’unica unità sociologica fosse quella politica. Il principio extra Statum, nulla societas sancisce: a) l’irreversibilità della condizione politica della convivenza umana (statalismo) e b) l’impossibilità di concepire una escatologia collettiva che non sia quella apocalittica della fine dei tempi, essendo la redenzione un atto di grazia 460

“Religione e politica non possono quindi confondersi, e devono rimanere differenziate finché Cristo non ritorni. Non accettare questa separazione significherebbe soccombere alle tentazioni [sataniche] respinte da Cristo”: G. Fragnière, RP, pag. 109.

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individuale dispensata a suo arbitrio dalla Provvidenza (individualismo soteriologico). La tesi secondo la quale “la teologia luterana della salvezza apriva la strada alla reintegrazione del sistema religioso nel corpo sociale, cioè a una presenza più naturale dell’idea di regno di Dio”461 è da intendere nel senso che ha sottratto alla Chiesa il monopolio della rappresentanza della sfera religiosa, conseguente alla detenzione del monopolio ermeneutico delle Scritture, ma non nel senso dell’autonomia della religione dal potere politico, poiché il “corpo sociale” non era altro da quello politico dello Stato. Le modalità di esercizio storico del potere politico, ossia le distinti regimi istituzionali, non incidono sulla questione fondamentale della riduzione della sfera religiosa a sistema culturale, a ente sociologico in relazione con altri sistemi infrastrutturali, sicché i processi evolutivi (in senso non necessariamente progressivo) delle società europee si sono svolti entro un alveo tematico di natura squisitamente politica, direzionato dal presupposto protestantico della sua esclusiva afferenza problematica. Senza più la complementarietà dell’auctoritas religiosa alla potestas politica, questa ha assorbito nel suo esercizio l’antica legittimazione sacrale, tradotto in termini di efficacia giuridica, ossia di funzionalità al fine etico della potenza dello Stato, divenuto la sua esclusiva ragione. Sottratto al controllo della Chiesa, lo Stato diventa virtualmente assoluto, ossia dotato di un proprio carisma politico non abbisognevole di alcuna legittimazione morale che non fosse quella stessa del suo ragionevole esercizio, ossia della sua efficacia; che non era certamente quella di servire alla salvezza delle anime, ma bensì di accrescere il suo potere sul corpo sociale, identificandolo con quello stesso politico. In tal senso, l’indebolimento progressivo del carattere sacrale del potere monarchico, se ridusse il controllo del sacro sulla forza dei principi, non comportò una de-sacralizzazione della politica, il cui valore etico si concentrò sulla sua efficacia tecnica, analoga al valore soteriologico attribuito alla virtù economica dei singoli cristiani. Lo “spirito del capitalismo” non era che l’istanza tecno-logica di un processo ideale di assolutizzazione razionalistica della volontà di potenza, pragmaticamente orientata a conseguire fini immanentistici interni alla condizione naturale dell’uomo, a partire dalla socialità politica, che diventa l’orizzonte intrascendibile dell’esistenza umana nella storia, non più intesa in senso spiritualistico agostiniano, ma economico e politico. Il conseguente processo di 461

G. Fragnière, RP, pag. 131.

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secolarizzazione della cultura e della società occidentali ha riproposto su scala universale un fenomeno culturale interno alla civiltà greca, quello della demitizzazione operata dalla filosofia classica. L’idea di controllare il Potere dal basso, scegliendo i propri governanti, illudeva sul carattere benigno del Potere, la cui natura non può essere alterata da correttivi di carattere istituzionale e legale, pur sempre interni alla sua logica di potenza, ma può essere neutralizzata soltanto attraverso la sua circoscrizione entro ambiti procedurali e funzionali ristretti a un ceto dirigente legittimato, nella sua idoneità a perseguire il bene comune, da una vocazione intellettuale perseguita con cura e diligenza, sotto il magistero di organi spirituali riconosciuti come propri all’aristocrazia morale delle nazioni. Al di fuori di questa riduzione al minimo del Potere, ogni éscamotage istituzionalistico o rappresentativo della sovranità non riuscirà nell’intento di arginare i suoi potenziali effetti satanici, che la democratizzazione del suo esercizio e della sua legittimazione etica non ha fatto che ampliare a dismisura, moltiplicando i suoi effetti perversi su coloro, i più, che invece ne dovevano, per intrinseca debolezza sociale o culturale, restare più distanti e protetti. Il fine escatologico, personale e storico, della fede cristiana resta quello di superare il bisogno del Potere per la redenzione interiore, delegata al travaglio spirituale di un’intima conversione della coscienza. Assegnando, di contro, la fonte della sovranità politica simbolicamente a ogni uomo del gruppo sociale interno allo Stato, si è indicato in ognuno l’origine della perversione del Potere, senza peraltro che i suoi effetti sociali potessero avere in ognuno il suo efficace correttivo, che rimaneva perciò di natura politica. Questa constatazione, anziché indurre l’intelligenza a rimediare all’errore culturale alla base dell’assolutismo politico, per una sorta di superstiziosa fedeltà allo statuto della moderna libertà, intesa come emancipazione della ragione umana dal mistero divino, ha perseverato contro ogni evidenza storica nell’attribuire agli uomini doti divine e capacità di selezione politica e valutazione morale del bene comune che le masse anonime non potranno mai avere, essendo frutto di lungo ed elitario esercizio spirituale. E così, costruendo edifici socio-politici legittimati dal solo consenso formale di una legislazione contingente e di periodici riti democratici, quella cultura superstiziosa ha eroso gli sforzi millenari della coscienza cristiana a rappresentare l’uomo in una luce spirituale capace di trascendere la sua finita natura ferina. 185


L’esito paradossale dello spirito puritano nella Nuova Inghilterra nell’assegnare ai rapporti sociali una dimensione puramente umana, fu quello, non tanto di eliminare “dalla filosofia politica il fondamento divino dei re”,462 quanto di assegnare alle debolezze umane la forza sufficiente a redimersi, esautorando perciò del tutto dall’orizzonte esistenziale dell’uomo quel sentimento di dipendenza dal potere divino che lo spingeva a trascendere spiritualmente i limiti della propria naturale finitezza, consegnandolo così a un potere tutto e solo terribilmente umano. L’equivoco che rendeva terrificante il potere esclusivamente umano risiedeva nell’analogia tra personalità singolare e personalità del corpo sociale, la prima moralmente libera e perciò costruttrice di storia spirituale, la seconda legata invece a vincolanti fattori ontologici, indipendenti dalla volontà dell’uomo e quindi indisponibili alla sua libera fruizione, erroneamente creduti naturalistici e quindi superabili dal progresso del potere tecnologico. Essi sono legati alla stessa costituzione creaturale dell’uomo, alla sua essenza spirituale o divina, che la cultura naturalistica antica e moderna ha inteso come patrimonio della Ragione, ma che in realtà consiste nella sua capacità di trascendere la sua condizione naturale, e quindi della stessa legge che la regola, quella appunto razionale, e di intuire la presenza del divino, facendone fonte di ispirazione delle sue responsabili scelte di libertà, singolari e non delegabili ad, né coercibili da, alcun potere umano. Insomma, la libertà dell’uomo era tutt’altro che politica, come credevano i puritani, ma consisteva nella possibilità di rapportarsi al volere di Dio anziché a quello degli uomini. Essa era la libertà di interpretare il significato del mondo nel senso del Verbo, prendendo a modello la Parola del Cristo, ovvero in quello della parola umana, conformandosi alle norme degli statuti politici. Nel primo caso, era decisiva l’intenzione morale e il consenso teologico, nell’altro la legalità e il consenso civile. Rimossa l’influenza della Chiesa dalle scelte politiche, il Potere divenne il criterio e la ragione stessa della convivenza civile, restando tutta la vita sociale disponibile alla volontà umana, soprattutto dei gruppi organizzati, sicché “i riformatori protestanti del XVI secolo,[…] benché avessero rifiutato l’autorità centrale di Roma, essi hanno, nella realtà dei fatti, aperto la strada a una identificazione ancora più stretta della religione e del potere civile nazionale”.463 462 463

G. Fragnière, RP, pag. 139. Ivi, pag. 150.

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La democrazia nasce come competizione dei gruppi sociali alla ricerca del consenso utile al governo politico della città secolarizzata. Dalla libertà di interpretazione della Parola alla libertà di opinione politica il passo è breve. I parlamenti, cioè le assemblee legislative, divennero la versione secolare dei concili ecumenici, dove si decideva il senso di una parola puramente umana. Rimuovendo il senso divino della Parola, ossia la stessa Verità dal campo della conoscenza, anche la funzione politica, ridotta a economia del Potere, finì per assolvere a uno scopo puramente contingente e relativo all’opinione dominante pro tempore. Una “separazione” formale tra Chiesa e Stato, intese come istituzioni storiche, consentiva una astratta considerazione dei rapporti tra la Parola e la volontà degli uomini, ma non risolveva la questione sociale della scelta morale dei singoli, ossia la possibilità di creare un modus vivendi coerente alla Parola, senza con ciò fondare un regno politico. La esautorazione della tradizione ecclesiastica portò la teologia protestante ad ignorare la possibilità di una convivenza civile fondata sulla Parola, che fosse ecclesiale senza però essere ecclesiastica, e ad aderire di conseguenza sempre più a una funzione meramente religiosa di sostegno etico al potere politico consensualmente costituito. Il fine della “pace sociale” prevalse sottoforma di tolleranza religiosa, ossia al riconoscimento del principio di libera opinione sulle questioni di fede, che implicava la rimozione da esse di ogni fondamento veritativo, sostituito con l’opinione (politicamente) dominante. La sostituzione della forza politica, che legittimava il sistema democratico, a quella della ragione, cui si appellava l’ortodossia della tradizione cattolica, come criterio di consenso comunitario, costituiva per la cultura occidentale un ricorso vichiano di “libertà” nel senso del politicismo greco classica, sia pure in una versione universalistica “moderna”. La secolarizzazione dello Stato che produsse non eliminò il motivo religioso dalla vita civile, ma lo declinò in senso politico, chiamando “democrazia” la pace sociale e intendendola come fede comune. Con l’instaurazione della nuova religione civile democratica, le colonie americane della Nuova Inghilterra conobbero la loro espressione peculiare di civilizzazione in un contesto culturalmente barbarico, la cui reviviscenza nel contesto molto più maturo europeo costituì però a sua volta una espressione di barbarie culturale rispetto alle tradizioni intellettuali autoctone, che poterono essere soppiantate od obliate solo a seguito delle tremende guerre civili interne all’Europa cristiana e a condizione che le nuove correnti ideologiche d’oltre oceano attecchissero 187


presso masse lacerate moralmente e materialmente impoverite dalle guerre mondiali, rese acefale dalla estinzione violenta delle tradizionali aristocrazie storiche, e sedotte dalla poderosa incentivazione demagogica della promessa di un crescente benessere universale. Infatti teorie quali il “governo dal e per il popolo” e “l’uguaglianza innata tra gli uomini” potevano diventare credenze comuni soltanto presso culture di precaria civilizzazione come quella delle colonie americane, o presso le plebi fomentate da ideologi razionalisti, socialmente marginali rispetto ai luoghi tradizionali del potere e perciò ispirati da una avversione profonda verso la stessa civiltà che li aveva allevati e nutriti. Campione di questo idealtipo di intellettuale moderno spiantato e umbratile, ambizioso quanto paranoide, fu Rousseau, il teorico della costituzione politica per contratto sociale, che rappresentò il versante europeo delle istanze democratiche avanzate dall’esperienza coloniale dei riformati americani. La conseguenza della separazione istituzionale delle chiese dagli enti politici fu la “indipendenza” della condotta pratica dal suo fondamento religioso, ridotto a sentimento privato e a culto. La teoria separatistica implicava la supremazia della religione civile incarnata dallo Stato democratico su ogni credenza trascendente, confinata alla dimensione privata, alla stregua di una attività sportiva od occupazione del tempo libero. La neutralizzazione sociale di una qualunque forza spirituale consiste nell’escluderla dal terreno della rilevanza pubblica, ossia dall’orizzonte del politicamente significativo. Le “due alleanze” professate dai puritani americani, “una che legava la comunità nazionale a Dio e l’altra che legava gli uomini tra di loro”, 464 potevano sussistere nello stesso ambito sociale in quanto soltanto una di esse aveva il potere di decidere le sorti comuni, quella civile e politica, per cui l’aspetto associativo della fede religiosa finiva per essere una opzione contingente e non necessaria, come invece la relazione personale con Dio. “La Chiesa quindi rappresentava soltanto un’associazione volontaria degli eletti, che conduceva all’ultima conclusione logica contenuta nei suoi presupposti di fede: fare cioè dell’individuo una ‘chiesa’ in se stesso”.465 L’individualismo è l’esito di questa parabola teologica antiistituzionalista che, nell’ intento di assicurare ai credenti una piena libertà di coscienza religiosa, assegna infine alla sfera politica l’intero significato della convivenza umana, emancipando la ragion di Stato da ogni vincolo 464 465

G. Fragnière, RP, pag. 157. Ivi, pag. 158.

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trascendente che ne limitasse la volontà di potenza. Ma la rimozione ecclesiastica portava seco anche quella degli altri corpi sociali tradizionali, dal ceto alla famiglia, dalle corporazioni agli istituti locali di origine medievale, che la verginità storica americana non conosceva. Il rapporto diretto dell’individuo a Dio, senza alcuna mediazione istituzionale e lascito formale tradizionale, fa di ogni coscienza un centro spirituale, le cui relazioni interpersonali assumono un valore di tipo carismatico e legate perciò a fattori empatici del tutto indipendenti da quelli civili e legalmente normativi. Se dunque per un verso la libertà di coscienza assumeva una grande rilevanza morale personale, la sua consistenza esistenziale per altro verso era in rapporto inverso alla sua irrilevanza sociale, dal momento che questa dipendeva dalla sua traducibilità in istanza politica. E pertanto l’affermazione della Dichiarazione di indipendenza americana, per cui “i diritti fondamentali dell’essere umano vengono dal Creatore”, era tanto moralmente rivoluzionaria rispetto alla tradizione religione occidentale quanto politicamente innocua in riferimento al potere politico democratico, al quale era demandato in esclusiva il governo della società costituita in Stato. Nessun sistema politico è per principio più statolatrico e assolutista del regime democratico, il quale, escludendo dalla rilevanza pubblica i corpi sociali intermedi, si costituisce come un potere in sé giuridicamente e politicamente totalitario. Come nella civiltà greca, è lo Stato che provvede a correggere le insufficienze della natura umana attraverso la convivenza sociale, solo che il presupposto della convivenza democratica era, al contrario, la sufficienza individuale: da qui il controsenso di un potere politico che interveniva su una costituzione umana già perfezionata da Dio. Le teorie anarchiche e libertarie, come quelle liberistiche e antisocialistiche, hanno in questo presupposto teologico la loro genesi ideologica, fondata su tale ottimismo antropologico. La vera posta in gioco della rivoluzione culturale e quindi politica che fu inaugurata dalla Riforma era ciò che potremmo chiamare il servizio dell’universale, ossia la destinazione della ragione, se al servizio del disegno trascendente divino ovvero del disegno immanente degli uomini. Con l’Illuminismo lo strumento della teologia deviò verso la politica il suo ruolo ancillare, e la ragione si pose a disposizione delle ragioni del Potere, della volontà di potenza razionalizzata, della ideologia storicistica, affannandosi “per trovare il ‘significato’ dei fatti storici tendendo anche rispetto a questi verso un concetto chiaro e distinto, volendo stabilire la 189


relazione tra l’universale e il particolare, tra l’idea e la realtà, tra le leggi e i fatti, e segnare limiti sicuri tra gli uni e gli altri”. 466 A questa strada condusse la stessa antropologia razionalistica adottata dalla teologia scolastica, la quale intese piegare la visione naturalistica greca alla Rivelazione, riabilitando il Mito cristiano in chiave escatologica e non pervenendo per tempo alla consapevolezza che l’adozione sincretistica del Logos come verità cristiana manteneva in latenza la questione della sua reinterpretazione in chiave naturalistica e umanistica, schiudendo potenzialmente un ricorso neo-pagano e razionalistico, che la originaria prospettiva spiritualistica cristiana aveva inteso superare in chiave appunto escatologica. Ma il germe antico che covava entro la nuova architettura teologica coltivò la sua larva ideologica e scientista, che, dopo l’incubazione dei secoli XVI e XVII, infine sbocciò a cavaliere dei secoli XVIII e XIX, pervenendo, dopo l’ultima resistenza rappresentata dal sistema hegeliano, a sovvertire con Marx la gerarchia dei valori della civiltà europea, ponendo la prassi in cima e la teoresi subordinata in ruolo ancillare di servizio alla volontà umana, ai suoi disegni mondani di potere e di ricchezza. Il limite originario dell’idealismo platonico di doversi servire dello strumento politico per convertire in realtà la sua fede nella verità della ragione, si dispiega nel Moderno in tutta la sua cruda istanza mondana, che a partire dagli orrori della Rivoluzione francese appalesò i suoi orridi lineamenti satanici, seminando terrore anziché libertà, odio civile anziché ordine sociale, irriducibili avversioni personali anziché sentimenti fraterni. In questo senso, l’età secolarizzata, quella moderna, ha segnato l’apoteosi della “trasformazione”467 della realtà, la cui prospettiva religiosa di segno razionalistico, per la centralità rivestita dall’etica nel sistema della decisine ontologica, ha cambiato in senso immanente e storicistico la missione soteriologica assegnata alla fede trascendente, la quale scorgeva nella storia la volontà provvidenziale e dunque irreformabile di Dio. Ciò che la Riforma liberò, pertanto, non fu l’anelito spirituale compresso dall’istituzione ecclesiastica, ma la volontà di potenza mondana dei principi, rendendo il loro potere assoluto e in balìa 466

E. Cassirer, Die Philosophie der Aufklaerung (1932), tr. it., Firenze, 1936, pag. 278. 467 Cfr. La tesi opposta di Ch. Taylor, per il quale “si può riassumere il nocciolo del ‘processo di secolarizzazione’: la modernità ha condotto a un declino della prospettiva di trasformazione”, in A secular age, tr. it. cit., pag. 544.

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della loro forza politica e militare, rispetto al quale la fede religiosa tradizionale o riformata fungeva da collante sociale e “fattore strumentale del potere politico”.468 Soprattutto negli Stati protestanti, il connubio tra religione e politica divenne stretto e mutuamente vincolante, poiché ciò che restava impossibile in ambito cattolico, ossia la convergenza del potere politico con l’autorità religiosa, divenne compatibile e anzi imprescindibile in ambito protestante.469 Ma in genere, ovunque l’autorità ecclesiastica nazionale assunse un atteggiamento indipendentista dal controllo romano, si produsse un simmetrico controllo di essa da parte delle monarchie nazionali. Queste, d’altro canto, erano considerate di destinazione divina, e quindi sacralizzate dalla consacrazione religiosa del loro potere legittimo. La scissione interna all’aristocrazia ecclesiastica tra motivi nazionalistici e unionisti acquistò una rilevanza vieppiù sfumata allorquando la Rivoluzione francese determinò una distinzione radicale tra ceti eletti e popolo in merito alla concezione sull’origine del Potere, che la cultura religiosa tradizionale assegnava a Dio e ai suoi rappresentanti storici, clero e nobiltà, ma che l’ideologia razionalistica indicava invece nel popolo costituente la nazione. Se il popolo sovrano concedeva i privilegi, poteva anche toglierli ai suoi beneficiari, e così si giustificò la confisca dei beni ecclesiastici nel 1789 da parte dell’Assemblea, in quanto rientranti nel patrimonio nazionale. Rispetto a tale capitale differenza tra l’antico e il novello regime, ogni architettura istituzionale era secondaria, in quanto non era in questione la forma politica del regime, ma la sua fonte di legittimazione. Con la sovranità popolare o dal basso, la concezione del potere perse i suoi caratteri formali per assumerne uno di natura sostanziale, consistente nella finalità del Potere, eudemonistica oppure soteriologica. Il contenzioso politico assumeva carattere teologico e viceversa, e la sua definizione nazionale passava attraverso un intricato rapporto di relazioni internazionale dovute alla comune cultura religiosa delle monarchie cattoliche europee, sicché “la questione religiosa”, che fino ad allora era andata abbinata all’identità politica dei popoli cristiani, in quanto costitutiva della loro comune identità spirituale, in seguito alla nuova concezione razionalistica del Potere, “aveva creato nel paese [in Francia] così tante forze divergenti che, poco per volta, si era giunti alla 468 469

G. Fragnière, RP, pag. 166. Ivi, pag. 167.

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conclusione che non sarebbe stato possibile garantire l’unità della repubblica senza l’eliminazione della stessa religione”, 470 la quale, da fattore collageno divenne perciò motivo disgregante l’unità sociale, riattualizzando l’antica accusa già avanzata alla fede dal potere imperiale romano. La religione tornava ad essere espressione della ragion di Stato e la politica la religione civile dello Stato. Questo passaggio non si poteva realizzare senza attribuire alla ragione un valore non più solo strumentale ma ontologico, ossia realizzare il progetto filosofico di costruire la integrale città dell’uomo ideale, essere naturalmente razionale. È appena il caso di aggiungere che la Rivoluzione francese non “fallì” in quanto “i rivoluzionari francesi non sono riusciti a immaginare che l’ideale repubblicano e democratico potesse rappresentare un nuovo e autosufficiente sistema di valori, che si legittimasse per se stesso, e sulla cui base una società poteva costruirsi e unificarsi”,471 ma in quanto tale obiettivo fu perseguito contro l’identità spirituale dei popoli europei, che, diversamente dai gruppi sociali americani, non dovevano costituirsi popoli storici, quali già erano da lunghi secoli, ma ri-costituirsi nazioni politiche a scapito della loro identità storica. Paradossalmente, nei nuovi regimi rivoluzionari il potere politico era molto più impositivo e arbitrario rispetto a quello dei regimi tradizionali, la cui legittimazione religiosa costituiva un indiretto riconoscimento di quella popolare, essendo la religione il collante morale di tutti i ceti sociali. Nei regimi assolutistici, invece, essendo il potere politico coincidente con quello religioso, la sanzione morale collettiva venne del tutto a mancare insieme a quella ecclesiastica, per cui la formula politica della rappresentanza della sovranità dal basso risultò ancora più fittizia in ambito religioso, essendo tutto il potere, anche quello religioso, concentrato nelle mani dei rappresentanti della nazione, il cui concetto ideale per affermarsi politicamente doveva negare l’identità religiosa storica del popolo. Quanto il razionalismo negava in nome del pluralismo liberale delle opinioni e delle credenze era l’unità ideale del molteplice fenomenico, che la fede cristiana indicava nella divinità unica ed universale del Dio ebraico, e poiché l’universalità era l’essenza concettuale della professione monoteistica, la sua trascrizione secolarista come attributo del concetto assegnava alla ragione la stessa potenza creatrice di realtà attribuita a Dio, 470 471

G. Fragnière, RP, pag. 178. Tesi sostenuta da G. Fragnière, RP, pag. 179.

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la cui volontà trascendente veniva umanizzata nella coscienza poietica del soggetto trascendentale, che ne incarnava la potenza infinita e libera da ogni accidentale limitazione. E così, la volontà universale del pensiero, diventando potenza mondana sotto forma di potere politico, si manifestava nella storia come opera dell’artifex mundi secolarizzato ed emancipato da ogni retaggio mitico-religioso tradizionale, che fungeva da informe realtà naturale, priva di quel sistematico sviluppo conseguente degli eventi che solo il processo dotato di senso logico poteva assicurare grazie alla coscienza demiurgica dell’uomo razionale. Non più, dunque, Logos naturale stoico o cristianamente divino, ma puramente e totalmente umano. E ciò che veniva negato a Dio, il potere universale di legare tutti gli uomini nella stessa fede escatologica nel Cristo, venne riconosciuto essere il compito messianico della ragione al servizio della politica per l’intera umanità. Soltanto una presa di posizione dogmatica a favore del nuovo corso laicamente religioso dell’Europa poteva ritenere che la piega assunta dalle vicende politico-sociali determinatesi con la Rivoluzione francese e la promulgazione di Stato delle ideologie razionalistiche costituissero un “progresso” della civiltà e della cultura dei popoli cristiani, ai quali non restava altro fatalmente, così come inesorabilmente alla Chiesa millenaria, di “adattarsi all’evoluzione del mondo”. 472 Ma la questione essenziale, come accennato, non era inerente alle forme istituzionali dei regimi liberali emancipate dal potere temporale e religioso dei papi, e neppure alla mobilità sociale indotta e facilitata dall’industrialismo e dalle nuove forme di produzione e di organizzazione politica delle classi popolari, bensì verteva sulla destinazione del senso della vita umana e della stessa esistenza degli Stati nella prospettiva cristiana. In altri termini, non si trattava, di fronte al nuovo corso degli eventi europei, di coltivare “l’illusione” di un ristabilimento del potere ecclesiastico sulla società laicizzata da un potere fautore delle ideologie razionalistiche, 473 quanto di affermare la natura profondamente errata di una concezione ideologica, magari di momentaneo successo, ma destinata a provocare, se non fermata, un imbarbarimento della civiltà cristiana, portandola alla progressiva decadenza e infine alla dissoluzione, che reca un nome suggestivo di speranze eudemonistiche ma anche evocativo di diabolici flagelli ideologici: democrazia, la cui natura di “credenza comune” nel 472 473

Cfr. G. Fragnière, RP, pag. 183. G. Fragnière, RP, pag. 184.

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potere di auto-determinazione dell’uomo, e la cui pretesa di essere modello universale di tutte le genti del mondo e compimento finale della storia politica delle diverse culture e civiltà, rappresentano la più grande minaccia alla libertà non solo religiosa ma esistenziale dell’uomo, costituendo la maggiore eresia, seducente e idolatrica, affrontata dal cristianesimo in tutta la sua storia. Infatti, la democrazia è una ideologia che si propone di unificare sotto un concetto politico di valore universale e immutabile ogni esperienza di vita personale e sociale della storia umana, realizzando ciò che Cristo non volle né la sua Chiesa riuscì a fare: un impero mondiale, unificato sotto lo stesso potere missionario degli Stati Uniti d’America, eredi profani del cattolicesimo romano e nuova Chiesa incarnata misticamente nella nazione americana sacralizzata. 474 Una versione secolaristica, di origine protestantica, del disegno cattolico coltivato da Dante Alighieri nel Monarchia, in cui al Dio dei teologi e a quello dei filosofi razionalisti era subentrato il dio dei politici, invocato dai presidenti americani all’atto del loro insediamento al potere, e necessario ai cittadini-fedeli, non perché depositario della verità, ma “al solo e unico scopo di comportarsi virtuosamente nella vita sociale e politica”.475 La distinzione formale tra società civile (politeista) e potere politico (monoteista) è tutto in funzione della comune fede democratica, l’unica ad avvalersi del culto pubblico e del rilievo legale. Per riprendere le parole di Tocqueville, se è molto utile all’uomo come individuo che la sua religione sia vera, non è così per la società. La società non ha nulla da temere e nulla da sperare dall’altra vita: ciò che più le importa, non è tanto che tutti i cittadini professino la vera religione, ma che professino una religione,476

cioè quella civile democratica in cui tutte convergono nel fine di sussistenza del potere politico; fine che è etico in relazione al bene collettivo, e che è morale in riferimento alla coscienza individuale, sicché andare in senso contrario ai comandamenti democratici formulati dalle leggi degli Stati costituzionali equivale a un comportamento eretico che è a un tempo illegale e peccaminoso. E pertanto, “il Dio della religione 474

Ivi, pagg. 197-199. Ivi, pag. 191. 476 A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, cit. da G. Fragnière, RP, pag. 192. 475

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civile” è tanto indeterminato quanto molteplice e vario nella rappresentazione individuale, piuttosto “utilitaristico” che cristiano, legalitario più che trascendente, il quale “non è soltanto ‘unitariano’, ma ha soprattutto un lato austero, collegato più all’ordine, alla legge e alla rettitudine che all’idea di salvezza e di amore”.477 Ecco il punto: alla salvezza cristiana dell’anima si sostituisce la salvezza civile democratica, incarnata dalla sacra nazione americana, poiché “la vera religione dell’America è la vera religione del mondo”.478 Una verità non di ragione ma ontologica, in quanto “gli Stati Uniti sono stati l’incarnazione di un’idea”, per cui “l’America non possiede ideologia, ma ‘è’ un’ideologia, incarna un’ideologia”. 479 La sua verità è esistenziale, sussiste nella sua stessa esistenza storica, come evento originario simile alla fondazione di Roma o alla guerra di Troia, un mito. Pertanto, la storia americana è un’epopea, la narrazione di una vicenda nazionale interpretata da un popolo eroico emancipatosi da ogni dipendenza divina e autonomo dalla stessa storia del resto della umanità,480 in quanto auto-fondatosi a Stato libero dal passato dei singoli membri fondatori, il cui nuovo inizio di vita in una terra vergine e inabitata è segnato dalla rigenerazione esistenziale e morale. Questa purezza storica e culturale fa sì che l’epopea americana rappresenti il nuovo modello antropologico invano perseguito dai filosofi e dai teologi del passato, le cui dottrine sono dunque consegnate all’antica umanità, alle sue civiltà diverse e divise, che hanno fallito i loro piani mondani o escatologici; compresa quella cristiana, che costituisce la pre-istoria dei coloni americani della vecchia Europa, membri di nazioni in guerra per ragioni confessionali o politiche, incapaci di pervenire a una unità organica, e perciò culturalmente tarate e votate alla sconfitta storica. Ma, una volta giunti nel Nuovo Mondo, ogni disparità pregressa è scomparsa, e ogni retaggio divisorio antico reciso da una volontà rifondatrice e costituente, che ha dato vita come per incanto divino a una nuova realtà nazionale, tra soggetti i più diversi ma accomunati inconsutilmente dalla stessa fede democratica, dalla comune religione civile della nuova umanità redenta dal peccato originale che annichiliva l’antica. Il Nuovo Mondo americano era dunque la terra promessa dalle vecchie religioni 477

Ivi, pag. 193. A.P. Davis, America’s Real Religion (1949), cit. da G. Fragnière, RP, pag. 201. 479 G. Fragnière, RP, pag. 202. 480 Ivi, pag. 205. 478

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messianiche, inverate dalla nuova era della nuova umanità del nuovo mondo. E proprio in virtù del carattere novizio della epopea americana, le vicende del popolo democratico non possono giungere a compimento senza che l’intera umanità arretrata nelle sue condizioni primeve ne sia coinvolta, partecipata della nuova fede democratica e della rinascita spirituale che essa comporta.481 La destinazione messianica di un popolo eletto che eredita dalla tradizione ebraica lo spirito profetico e dalla tradizione cristiana l’universalismo trasversale a tutte le genti non può ammettere la concorrenza di altre fedi eretiche, che soltanto all’interno del’universo democratico trovano la loro legittimazione intellettuale, in quanto rispettose dell’intesa sottesa al funzionamento del sistema politico, che esige per la sua sussistenza il primato ideologico e morale su ogni altra confessione particolare o regionale, che sotto la sua egida viene tollerata a condizione di mantenere uno statuto privato, ininfluente in ambito pubblico, di spettanza esclusiva alla dinamica democratica. Ma proprio questa caratteristica neutralizzante del potere democratico, privo di contenuti allotrii, fa di esso la realtà tecnica per eccellenza, la tecnica di un sistema il cui fine esclusivo è quello di alimentare se stesso, la sua potenza energetica, per un percorso prometeico senza limiti né mete, continuo e in-finito come un mito, inarrestabile come un processo cosmico, che lo stesso pianeta non può soddisfare perché destinato a soddisfare una brama in-possibile, e perciò in-umana e diabolica. Dalla costola del cristianesimo, génito a sua volta dall’ebraismo, nasce l’Anticristo, come potere puramente umano e mondano, senza pietà fraterna o anelito trascendente, che sfida Dio inteso a prendere il posto di Cristo, l’Incarnato, il vero Mediatore e testimone dell’umanità in quanto unica via, verità e vita, proponendo al posto della Sua parola amorevole, quella tutta umana dell’ideologia politica, della volontà di potenza mondana, fondata sulla forza economica e non della misericordia, sulla conquista e non sulla benevolenza dell’Altro. La tentazione mondana rifiutata da Gesù è stata rivolta all’uomo, invitato a rinnegare il Padre anziché a servirLo, per dominare al Suo posto, ispirato diabolicamente. All’ascolto della Parola divina, comunicata dal Messia, l’uomo, in preda alla mania diabolica di un incontenibile Eros, dà voce ai suoi desideri di potere e ascolta solo se stesso, lusingato dalla falsa promessa di onnipotenza e di autosufficienza per consenso collettivo: la lusinga 481

G. Fragnière, RP, pag. 204.

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demagogica in vece della adesione responsabile, la paura della solitudine dal gruppo politico al posto della solitaria decisione morale. Ma come ha potuto vincere la lusinga diabolica sulla promessa escatologica divina? Nel secondo libro della Retorica, Aristotile scrive che “le passioni sono le cause per cui gli uomini mutano e differiscono nei loro giudizi e alle quali conseguono dolore e piacere: ad esempio l’ira, la pietà, il terrore e le altre siffatte e quelle contrarie a queste”. 482 A proposito dell’ira, scrive: “ci si adira contro tutti coloro che ci ostacolano, o che non collaborano con noi, o che contrariano il nostro desiderio in qualche modo […], e quanto più si è in queste condizioni, tanto più si è facilmente emozionabili”. 483 Una umanità indotta a emigrare per non avere spazio all’interno della propria nazione d’origine, non nutre certo benevolenza verso la propria sorte e chi a suo dire l’abbia segnata, e dunque è facilmente preda delle lusinghe di riscatto da un iniquo destino. Soprattutto se la giustificazione morale alla differenza di condizioni esistenziali offerta dalle tradizionali teodicee contrasti razionalmente con la predicata benevolenza divina verso tutte le creature. Anzi,la smentita che quelle condizioni fossero fatali giunge proprio all’atto del riscatto possibile nella nuova terra promessa del sogno americano. In questa possibilità, che è sinonimo di libertà, si annida però l’inganno diabolico e la delusione storica di quanti constatino la disparità tra le promesse e la realtà, ossia la persistenza della finitezza della condizione umana, che destina alcuni al successo e altri all’indigenza. Come acquietare l’ira della delusione senza compromettere la logica darwinista del capitalismo, che fa del successo economico la misura stessa della giustizia sociale? Indicando una causa malevola di impedimento alla realizzazione della propria volontà eudemonistica, a volte interna e, per così dire, civile, quale ad esempio i sottoinsiemi sociali ritenuti malavitosi o fortunati, a seconda dei casi, o ideologicamente ostativi al sistema democratico, altre e più volte esterni, quali i nemici della democrazia. Non a caso le società democratiche sono tendenzialmente violente, e gran parte delle loro rappresentazioni artistiche sono incentrate sulla violenza: si pensi alla filmografia e alla fumettistica popolare americane, cioè alla rappresentazione mitologica della propria epopea nazionale, dove gli eroi combattono violentemente contro i violenti ingiusti, adottando i loro stessi metodi cruenti ma 482

Aristotile, Retorica, II (B), 1, 1378 a, 15-20; tr. it. di A. Plebe, in Opere, vol. IV, Roma-Bari, 1973, pag. 392. Da ora Ret. 483 Ivi, II (B), 2, 1379 a, 14-16 e 28-29, pag. 395.

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conformi al fine etico di difendere la giusta causa dei valori comuni. Né è casuale che venga sottolineata l’identità etnica originaria di tali movimenti malavitosi, che non sono mai americani, come invece gli eroi positivi. Il male è sempre straniero, viene cioè da un altro mondo, sicché l’Altro è sempre nemico del proprio modello virtuistico, che offre la spiegazione di ogni reazione punitiva. Infatti, come insegna Aristotile, “bisogna far precedere il castigo da una spiegazione […]: l’ira infatti si rivolge sempre verso un individuo definito, e ciò risulta dalla nostra definizione”.484 Qui constatiamo il peso politico della definizione razionale, esclusiva dell’Altro, indicato come nemico da combattere. Non importa il contenuto definitorio, ciò che invece è rilevante è l’inappartenenza all’ambito normale dell’escluso, in piena conformità alla logica polemica della dialettica antica, e in radicale difformità con la predicazione inclusiva evangelica. In questo senso metodologico della tecnica del giudizio politico, il Nuovo Mondo è in realtà la perpetuazione dell’antico, la sua reviviscenza sotto le mutate spoglie ideologiche della democrazia, la quale dunque si manifesta come l’affermazione etica delle ragioni dei giustificati dal sistema politico sugli eretici dissidenti. Essa segna così l’apoteosi della forma apparente sugli invisibili contenuti veritativi, la compiutezza di un mondo in cui la realtà fenomenica è tutta la realtà possibile, e pertanto dove l’Essere delle cose coincide pienamente con la sua rappresentazione; prerogativa che era solo divina, e che nel mondo finito costituiva l’essenza delle mere cose, e non delle persone, custodi del mystero interiore della verità. L’inganno diabolico dunque consiste nel presentare la cosalizzazione della figura umana perpetrata dalla logica commercialistica del capitalismo come conquista della personalità divina: l’estrema alienazione dalla vera natura umana, spacciata come conquista di libertà da ogni finitezza, impersonata dall’Altro, il diverso e nemico da combattere. Il carattere negativo dell’Altro consiste dalla sua prossimità. Come scrive Heidegger, “man mano che esso [l’ente dannoso e minaccioso] si avvicina, la dannosità si intensifica e produce così la minaccia”, che produce “paura”, 485 la quale è un sentimento che indica la tensione emotiva che collega noi alla nostra minaccia. È dunque una modalità esistenziale dell’esserci, una “situazione emotiva”, fondativa di rapporti inter-personali, nell’ambito 484

Aristotile, Retorica, II (B), 3, 1380 b, 18-19 e 22-23, pag. 399. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi, Milano (1970), 1976, pag. 179. Da ora SZ. 485

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dei quali ciò che produce paura non ha ragione di cittadinanza e perciò dev’essere eliminato dallo spazio giusto, ossia giustificato per l’esistenza. Lo spazio giusto è quello de-finito dalla de-finizione stessa di nemico, dalla definizione politica di valore ontologico. Il potere della politica è dunque quello di definire lo spazio vitale degno di esistenza, ovvero, se indegno, da eliminare. Lo spazio politico è lo stesso spazio dell’esistenza, l’unico e totale spazio di validazione dell’essere dell’uomo. In tale spazio totale, l’esserci storico e l’essere ontologico coincidono nella stessa condizione esistenziale,486 decisa dal giudizio, cioè dalla parola del logos. Il logos che si fa reale, che s’incarna nella storia come giudizio politico, decide dell’esistenza, acquistando valore assiologico. In che consiste la paura? Essa è il sentimento collegato al “rischio” esistenziale di “esser-abbandonato a se stesso”, ossia privato della sua condizione di socialità. Infatti, “la paura rivela sempre l’Esserci nel suo Ci”,487 nella sua esistenzialità politica, assunta come normativa in quanto antropologicamente naturale. Esattamente dal sentimento di dipendenza dalla socialità la predicazione cristica intendeva emancipare l’uomo di fede convertito alla libertà spirituale, sicché la riabilitazione naturalistica della condizione socialitaria ripropone la paura come “situazione emotiva” caratteristica della coesistenza democratica, la quale rappresenta a sua volta la definizione storica della ideale condizione politica aristotelica. Per cui, paura come sentimento reale della affettività socialitaria, e democrazia come condizione politica storica sono in un rapporto indissolubile e reciprocamente definitorio della medesima condizione esistenziale dell’uomo abbandonato dalla presenza di Dio, al quale si è creduto di sostituirsi. L’uomo rappresentato come individualità autonoma e onnipotente, si manifesta come in-potente se isolato dalla collettività politica, la quale pertanto è la vera destinataria dell’emancipazione dal divino e la autentica protagonista della nuova condizione umana post486

“Il nazionalismo americano non può immergersi nelle nebbie del passato per scoprire la propria identità. Non possiede altra mitologia che i due documenti fondatori – la Dichiarazione di indipendenza e la Costituzione – nei quali gli americani scoprono nello stesso tempo la nascita della loro nazione e la natura del loro regime politico. […] Per gli americani un nazionalismo non ideologico [ossia, non democratico], indifferente al regime politico, è semplicemente impossibile. Per loro, non esiste America senza la loro democrazia, non esiste storia al di fuori di quella delle loro istituzioni”: G. Fragnière, RP, pag. 203. 487 M. Heidegger, SZ, pag. 180.

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storica. L’oltre-uomo profetizzato da Nietzsche è un ente collettivo, rispetto a cui la singolarità della persona spirituale è una condizione temibile, un valore negativo da scongiurare, che “non dev’essere intso onticamente come una disposizione di fatto e ‘particolare’, ma come la possibilità esistenziale essenziale della situazione emotiva dell’Esserci in generale”.488 Siamo dunque agli antipodi della visione cristiana dell’uomo. Nel § 4 del II libro della Retorica Aristotile a proposito dell’amicizia e dell’amore, scrive che “è necessariamente amico colui che gode dei nostri beni e soffre con noi e per i nostri dolori non per un altro motivo, ma proprio per noi” e che “noi amiamo coloro che hanno fatto del bene a noi o a coloro che ci stanno a cuore”.489 Ciò significa che i sentimenti di philìa e di eros sono legati alla reciprocità, che si converte in inimicizia e odio in caso di sentimenti opposti ai primi. 490 Vi è dunque corrispondenza tra atteggiamenti e stati d’animo, tale che la constatazione dei primi comporta la previsione dei secondi, comportandosi l’uomo in maniera naturalmente costante. Ma è proprio la possibilità di smentire questa corrispondenza tra azione e reazione a costituire la condizione di libertà spirituale dell’uomo emancipato dall’istinto naturale di intendere l’equilibrio della coesistenza umana in termini di corrispondenza tra colpa e pena, propria dell’ordine giuridico. La predicazione cristiana infatti indica nel perdono del torto e nella misericordia verso il peccatore la risposta moralmente valida per assicurare la salvezza dell’anima e la libertà dal falso onore della vendetta, che non ristabilisce l’ordine infranto ma ne moltiplica gli effetti violenti e dolorosi. Ciò significa che ogni dolore, non solo quello ingiustamente patito,ma anche quello giusto perché richiamato dall’atto illecito violento, infrange la consegna del’amore fraterno, ossia la disposizione benevola verso l’Altro, che smentisce la necessità dell’atteggiamento politico e giuridico. Non è dunque la giustizia il metro della carità cristiana, ma la liberalità del perdono, che pertanto non si avvale di una misura razionale di valutazione che lo giustifichi. Anzi, esso è irrazionale proprio perché contravviene alle regole sanzionatorie del sentimento naturale di corrispondenza. L’economia dell’amore cristiano non è stabilita dunque su criteri oggettivi e tipizzati in fattispecie normative universali, ma è 488

Ivi, pagg. 181-182. Aristotile, Ret, II (B), 4, 1381 a, 3-5 e 11-12, pag. 400. 490 Ivi, 1382 a, 38-39, pag. 403. 489

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legata a una gratuità sentimentale che rappresenta la modalità emotiva contraria alla paura della solitudine, ossia del dissenso sociale. E se il  all’origine della riflessione filosofica trova nella solidarietà sociale il rimedio alla paura, la carità cristiana fa del dolore l’occasione del perdono che riscatta col martirio della sua carità l’uomo dai limiti della sua originaria finitezza. La prospettiva aristotelica viene rovesciata dalla carità cristiana, che è sentimento costitutivamente in-politico, in quanto la paura non viene rassicurata dalla protezione politica ma superata dalla verità della fede, che l’ordine democratico considera irrilevante ai fini del conservazione dell’ordine civile. In ordine alla questione del Potere, resta da chiarire se la riforma democratica della struttura gerarchica tradizionale costituisca la risposta politica contingente, e quindi riformabile, ovvero se essa, sovvertendo i criteri di selezione tradizionale delle aristocrazie storiche, abbia inaugurato un nuovo corso ideale dell’umanità, fondato su una diversa legittimazione del potere rispetto a quello divino, e basato sul consenso opinabile e non sul consenso necessario. Per consenso opinabile s’intende quello espresso in tempi ristretti da parte dell’elettorato chiamato in assemblea virtuale a decidere sulla ammissibilità di alcune tesi di governo rispetto ad altre concorrenti, attraverso l’elezione dei suoi proponenti e sostenitori. Per consenso necessario s’intende invece la partecipazione alle decisioni di governo da parte di organi istituzionalmente preposti alla relativa funzione politica, o come autorità indipendenti ma vincolanti, oppure come organi interni ai processi decisionali, legislativi e amministrativi. Nel primo caso, la revisione del consenso periodico, è determinato dalla sua natura meramente preventiva, e perciò esterna, ai processi decisionali, i quali procedono secondo criteri e modalità indipendenti da quel consenso, che non può incidere durante le fasi della sua costituzione. Il carattere formale di tale consenso, fa di esso in teoria una delega sovrana ai suoi rappresentanti, ma di fatto esautora i depositari teorici della sovranità dal suo esercizio reale, circoscritto a una minoranza demagogica preoccupata più a far convergere il consenso popolare verso le proprie tesi politiche che a occuparsi del governo del territorio o dello Stato. Nel secondo caso, la partecipazione organica alla formazione decisionale degli atti amministrativi e di governo, rende il consenso appunto necessario all’esercizio del potere politico, il quale pertanto non è di 201


competenza di una classe burocratica e professionale cooptata attraverso la pratica del consenso occasionale espresso a favore di partiti o di organizzazioni preposte alla competizione elettorale in concorrenza con altre, ma viene esercitato in concerto da parte di organismi e di istituti sociali esistenti indipendentemente dal potere politico, e dunque da esso non creati per decreto arbitrario e non rimuovibili perciò dalla stessa fonte giuridica, ma investiti di una funzione rappresentativa di interessi generali e di principi ideali regolativi e ispirativi dei valori comuni che legittimano le forme legali della convivenza civile e le forme culturali della socializzazione, ossia le strutture educative e gli indirizzi pedagogici. Le forme di governo in cui si prevede il consenso opinabile del popolo elettore, sono istituzionalmente e funzionalmente le più instabili e precarie, in quanto dalla stessa variabilità degli indirizzi politici dipende la continuità degli atti di governo, la cui qualità e bontà è legata alla comprensione e volubile considerazione del generico e promiscuo elettorato, suppostamente capace di selezionare gli indirizzi politici migliori e gli esponenti più adatti a conseguirli. Esse costituiscono appunto le democrazie elettorali, le quali sono costrette a bilanciare la cronica instabilità politica con supporti istituzionali informali, quali corpi burocratici stabili e detentori di un potere reale non riconosciuto formalmente ma concretamente, sia pure occultamente e spesso illegalmente, esercitato in virtù della loro stabilità di esercizio professionale rispetto al ricambio periodico del personale politico. Tali corpi di funzionari statali e privati, non essendo soggetti a valutazione politica formale e palese, sono a volte i maggiori fautori delle scelte legislative e degli indirizzi concreti di governo, rappresentando interessi occulti, corporativi e privatistici, che assumono surrettiziamente una rilevanza pubblica in virtù della loro concreta ingerenza politica. Le spinte contrastanti dei diversi e opposti interessi sociali, non sempre adeguatamente filtrati dagli organi politici rappresentativi, rappresentano fattori di disgregazione sociale e istituzionale, che minano il corretto funzionamento della struttura legislativa e amministrativa dello Stato, provocando periodiche crisi del sistema politico e correttivi di tipo autoritario, confutativi empirici del principio razionalistico della sovranità popolare o dal basso, che costituisce il “dogma” delle teorie democratiche.491 491

“La sovranità del popolo è la base e la parola d’ordine della democrazia. Essa costituisce una fede ed un dogma, cui ogni forma di governo deve – nei tempi

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Indubitabilmente più stabili e affidabili le forme di governo in cui operano organismi sociali storici, la cui costituzione e destinazione non sono risolvibili nella funzione ausiliaria al Potere politico, e dunque autonomi da esso nella misura stessa della loro imprescindibile partecipazione decisionale al governo dello Stato. La natura aristocratica di tali organismi istituzionali costituisce la più valida assicurazione sociale sia al mantenimento dell’equilibrio politico che alla formazione dei ceti dirigenti nazionali, selezionati per vocazione personale e attitudini morali all’interno di uno status sociale indipendente dall’esercizio concreto del potere politico e tale quindi che possa condizionarlo individualmente con arbitrari criteri preferenziali di comodo. La stabilità politica dipende infatti da quella sociale e niente la garantisce meglio della indipendenza degli organismi preposti alla collaborazione nella definizione della stessa funzione in ruoli complementari. Esempi di questi organismi sono il clero, espressivo dell’autorità morale; il corpo accademico e docente, espressivo della educazione spirituale dei giovani; le associazioni industriali e professionali, rappresentative del potere economico; gli organismi militari di difesa esterna e quelli preposti all’ordine pubblico interno, che, congiunti alla funzione giudiziaria, costituiscono il sistema della legalità. La loro collaborazione presuppone che la rispettiva rappresentanza delle istanze particolari abbia un carattere comunque generale, poiché solidale agli interessi comuni, in quanto attinente a motivi esistenziali e non ideologici, e perciò concretamente rappresentativi dei motivi sociali e non meramente individuali o settoriali o corporativi; e consiste nella integrazione tra la funzione di indirizzo ideale del governo con la funzione operativa del corpo legislativo quale organismo tecnico dell’amministrazione pratica di quell’indirizzo. La sinergia dei due momenti funzionali, quella dell’autorità del governo e quella della potestà legislativa e amministrativa, viene a manifestare in termini istituzionali il principio del contemperamento storico tra la forma politica, ispirata da motivi ideali trascendenti l’esercizio del potere, e i contenuti operativi del potere stesso, chiamati tecnicamente a realizzarla. L’integrazione dei due momenti non è conseguente a una ingegneria costituzionale, ma alla natura stessa della loro rappresentanza sociale, dove la dialettica degli interessi particolari si integra con la comune formazione spirituale dei moderni – adattarsi, ed in relazione ai quali, si saggia ogni istituzione”: J. Bryce, Democrazie moderne, tr. it., Milano, 1931, vol. II, pag. 143.

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singoli e la comune destinazione della vita sociale dei gruppi, della quale la realtà politica è uno dei momenti esistenziali, legato alla vita activa dell’uomo, ma i cui fondamenti sono meta-politici e perciò pre-politici e legati a una dimensione contemplativa e affettiva non dipendente dalla politica ma fondativa della prassi politica. Quello che le democrazie moderne hanno eluso per pregiudizio ideologico è il carattere derivato e non originario della politica, il cui esercizio della libertà non coincide con l’essenza della libertà. Nella coincidenza formale dei due momenti nasce la dimensione totalitaria della politica come orizzonte antropologico-culturale insuperabile, entro il quale l’uomo viene definito come essere razionale, dotato di un linguaggio espressivo della volontà di potere in cui consiste la attività politica. Questa de-finizione del linguaggio come espressione razionale della dimensione politica del’esistenza umana, elude o rimuove il fondamento originario della parola e quindi della ragione, insomma l’arché del logos, che è il Verbum divino, il luogo da cui l’Essere proviene quale possibile determinazione del linguaggio. La cosiddetta distinzione tra momento religioso e momento politico in cui consisterebbe la secolarizzazione, assume il religioso come dimensione del trascendente, identificando una determinazione storica della rappresentanza del sacro con lo stesso fondamento ontologico di quella determinazione culturale, senza il quale ogni determinazione razionale dell’Essere, sia religiosa che politica, resta sospesa alla volontà umana, al suo falso senso di onnipotenza con cui essa nasconde la sua volubilità e indeterminatezza teleologica. Infatti, una politica declinata come tecnica del linguaggio retorico, può convincere della sua bontà ma non vincere i limiti della sua effettualità. La rimozione del Limite, che nel linguaggio metafisico e teologico veniva indicato come Verità o Dio, rientra nella rappresentazione razionalistica del Logos e quindi della politica come orizzonti assoluti, rispettivamente, del pensiero e dell’azione umani. La quale rappresentazione viene creduta come vera dai razionalisti, ma che vera non è, poiché l’esistenza del Limite non dipende dal pensiero che la rappresenta o la nega, bensì dalla condizione ontologica della Differenza tra la finitezza, ossia la realtà in cui si muove l’esistenza dell’uomo, e l’Infinitezza, che è la condizione in cui opera lo spirito universale trascendente quella finitezza e che l’uomo intuisce di farne parte. La rimozione del Limite, e quindi della Differenza, a favore dell’unica realtà finita del logos e della sfera politica dell’uomo, ha lo scopo di far 204


acquisire la qualità universale propria dello Spirito all’atto del pensiero razionale, il concetto, il quale pertanto viene dal razionalismo assunto come orizzonte umano della totalità, ossia della infinitezza o universalità, che sono tradizionali attributi divini.492 Ma proprio tale assunzione indebita si rivela storicamente, cioè fattualmente, insostenibile, e tale da essere confutata empiricamente dalla realtà stessa dei fatti che il concetto in ipotesi si proponeva di piegare alla sua rappresentazione del mondo. La retorica del linguaggio politico, che è lo stesso del linguaggio scientifico che ne costituisce la giustificazione teoretica, consiste in questa (falsa) credenza universalistica, la cui ammessa ipoteticità destinata alla confutazione, fa della conoscenza razionale e delle sue relative manifestazioni pratiche che ne derivano, un gioco della mente e della volontà emancipate dalla necessità della Verità e del Limite, che l’uomo prometeicamente cerca di eludere o differire attraverso nuove creazioni teoriche e nuovi esperimenti sociali che hanno lo scopo di rimuovere o eludere la Differenza, senza la coscienza della quale la stessa esistenza umana permane in quello stadio di indefinita tensione tra natura e cultura che si esprime nel linguaggio astratto del mito, tipico del tempo della immagine razionalistica del mondo, rappresentato come opera esclusiva dell’uomo e creazione del suo genio inventivo, ossia come un’opera d’arte e uno spettacolo, privo di senso ma ricco di suggestioni, indicata col nome di Storia. In verità, non esiste una storia che non sia personale e inconfondibilmente individuale, propria dell’esperienza spirituale del singolo uomo, che nel rapporto con la Verità o Dio, costruisce il suo itinerario esistenziale nel tempo. La Storia rappresentata dalla storiografia, è un concetto razionale, cioè una rappresentazione del mondo umano creduta vera, e dunque mitica, narrata dalla relativa mito-grafia diventata disciplina scientifica, ossia visione ipotetica delle vicende umane collegate secondo nessi di causalità più o meno razionalmente plausibili in quanto suffragati da riscontri fenomenici, interpretati a loro volta miticamente sul fondamento della loro supposta veridicità onto-logica. Ma ogni rappresentazione storiografica, essendo meramente ipotetica e attività ermeneutica, ha lo stesso valore assiologico e ontologico dell’opinione politica, esprimendo una convinzione della volontà che però non può eludere per sempre la verità della Differenza, ma solo rimuoverla fino alla prossima rappresentazione più convincente, in un gioco retorico 492

G. Fragnière, RP, pag. 266.

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combinatorio di ipotesi e di riscontri fattuali spacciati per cognizioni razionali a un tempo universali e temporali, ovvero “storici”, calati a misura della finitezza umana, assunta convenzionalmente come universale. E su tale convenzione ludica la conoscenza razionalistica si propone di rappresentare la vicenda umana come fosse vera. Sulla libertà ermeneutica del mito-grafo di rappresentare le vicende umane come narrazioni vere si gioca il conflitto delle interpretazioni, alla stregua di opinioni politiche concorrenti, ognuna delle quali ambisce a rappresentare quella giusta appellandosi alla ragionevolezza, ossia alla sostenibilità razionale, della sua ricostruzione, affidando dunque al metodo, ossia alla tecnica argomentativa, quella fondatezza veritativa data ipoteticamente come inesistente, agendo non diversamente da ogni sofista che affidi alla sua retorica il convincimento della volontà di chi ascolta, tanto che Platone nel Sofista asserisce che la loro fosse la “scienza del non-essere”.493 Per chi si ritenga “libero” da ogni vincolo di verità “il passato è diventato estraneo”, tanto da poterlo rinnegare come mero portato di una tradizione tutta da verificare alla stregua di ogni reperto archeologico, per cui “gli unici impegni che accetterà nei confronti delle generazioni precedenti saranno quelli che deciderà da sé”, ossia quelle che riterrà compatibili con la sua rappresentazione, sicché per la sua coscienza assoluta è “il presente [che] determina il passato, non il contrario”.494 La coscienza assoluta, così come rinviene il passato e determina i suoi oggetti di pensiero, crede di inventare la esistenza di Dio, di farlo “vivere” 495 a piacimento in un mondo abitato da soli uomini, dove la stessa società è considerata irreale perché astratta dai singoli. A 493

Platone, Sofista, 254 a; ved. Aristotile, Metafisica, E 2, 1026 b, 13-14. G. Fragnière, RP, pag. 261. In prosieguo si riporta il testo di una lettera privata di Thomas Jefferson del 1816, in cui si afferma che “i morti non hanno diritti. Essi non sono più nulla. […] Il mondo, e tutto ciò che in esso si trova, appartiene agli abitanti fisici attuali, per il tempo della loro generazione. Solo loro hanno il diritto di governare ciò che li riguarda esclusivamente, e di definire la legge che reggerà questo governo” (ivi, pag. 262). Con questa visione barbarica dell’esperienza culturale umana, di chi non avendo passato non può avere futuro, viene celebrata la verità della forza bruta, con la quale il più potente confina all’impotenza il più debole, e il giovane il vecchio, non esistendo per Jefferson la forza delle tradizioni e quella della saggezza, propria di chi non si avvale delle energie fisiche. Egli fu uno dei patres della nuova democrazia americana, che chiamare civiltà risulta impossibile a un colto europeo, non si dica di oggi, ma financo dell’antica Roma, per non dire di Atene. 495 Ivi, pag. 268. 494

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proprio in questa assolutizzazione della coscienza, la cui verità era nella relazione con la Verità trascendente, si annida un altro degli errori del razionalismo moderno, che, bramoso di un rapporto immediato del mondo col proprio valore ideale, misconosce quelle che Aristotile definisce le “scienze poietiche”,496 le quali, a differenza delle pratiche e teoretiche, non interessano la volizione o il pensiero del soggetto, ma la “produzione” intellettiva o artistica che il soggetto realizza con gli altri, la cui realtà perciò ha un carattere essenzialmente sociale. La natura sociale delle attività poietiche costituisce l’ambito fenomenologico dell’esistenza umana interna al mondo-della-vita, il quale pertanto ha una essenza ontologica diversa da quella individuale, dove il soggetto opera senza però potersi sottrarre alla presenza dell’altro, costitutiva della propria. In questo luogo, del Lebenswelt, che può essere considerato una “ontologia del mondo” ma che non indica “la totalità entro la quale noi come esseri storici viviamo”, 497 poiché la storicità personale non si risolve in esso ma si apre, come mistero, al trascendente, e non può essere oggettivata come esperienza razionale ascrivibile a una cifra formale comune; in esso, ciò che si pone in essere attraverso la poiesi individuale è la relazione inter-personale, di cui l’azione individuale è uno solo dei termini storici, esaminabili astrattamente dalla trascrizione razionalistica come atti volitivi del soggetto imputabile di essi, ma che in concreto partecipano di quella relazione in quanto soggettività sociali, membri di una collettività che adotta criteri di giudizio, di valore e di comportamento che danno significato all’agire individuale, e perciò comprensibili solo all’interno di quel contesto di senso, il cui orizzonte ermeneutico è a esso contemporaneo, e non alla coscienza presente dell’interprete. Ciò fa della relazione una realtà precoscienziale che la coscienza dell’interprete non conduce a sé ma che lascia sussistere come modo di esistenza non riducibile alla presenza attuale, e pertanto come presenza in-attuale che, rispetto a quella attuale dell’interprete, conserva un surplus di verità che è connaturato all’essenza misteriosa della personalità spirituale degli attori, che la relazione non può includere in maniera oggettiva e de-finitiva, che ogni rappresentazione richiama senza mai pervenire a una compiuta definizione. 496 497

Aristotile, Metafisica, E I, 1025 b, 18 sgg. Ved. H.G. Gadamer, WuM, pagg. 292-293.

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Il modello storico di tale relazione sociale pervenuta a piena consapevolezza spirituale è quella di Gesù agente nel suo tempo e aperto a una infinita ermeneutica del significato del Suo agire, che rappresenta o stesso travaglio esegetico dell’intelligenza finita dell’uomo, non riducibile ad alcun resoconto storiografico o sociologico, ma perennemente sospeso alla sua ineffabile cifra trascendente. La realtà di questa dimensione relazionale esclude che “il valore dell’uomo è l’uomo stesso”,498 ma comporta invece che la sua esistenza storica, nel duplice senso temporale e spirituale, sia una co-esistenza (Mitsein), che non include l’altro nel sé ma lo coinvolge nel noi di una relazione, il cui significato è riposto nella relazione stessa. Dov’è la Verità in questa relazione sociale? La verità ella relazione inter-personale è nella sua destinazione, immanente o escatologica. È questa diversa destinazione a fare la differenza qualitativa tra una relazione economico-politica e una di tipo affettivo-spirituale, non riducibile alla prima e pertanto non decifrabile attraverso riduzioni categoriali di tipo giuridico o sussunzioni entro forme ideologiche di tipo etico-politico, in quanto la sua destinazione è sempre trascendente i soggetti che la costituiscono, ma, a differenza di una unità puramente formale, non istituzionalizzabile in una entità razionale che sopravviva alle stesse parti. Se, dunque, una relazione sociale di tipo economico o politico può persistere al ricambio generazionale dei suoi fondatori o prosecutori storici, una relazione spirituale non può mai sopravvivere alle sue parti costitutive, con le quali, se cessate o cambiate, cessa o cambia anche il rapporto spirituale. In questo senso e per questa fondamentale ragione ontologica, la relazioni spirituali non sono mai oggettivamente comprensibili ma solo soggettivamente interpretabili; ma se ciò è vero, il resoconto storiografico di tali relazioni sociali attiene alle sole espressioni esteriori della volontà, ai soli fenomeni sensibili, insomma alla loro rappresentazione naturalistica, di senso razionale, senza coinvolgere l’intima rilevanza delle intenzioni dei suoi attori, accessibili solo all’intuizione del mistero che è la persona umana. Secondo Dilthey l’istanza legalista del naturalismo, entrando in contraddizione con la libertà del volere umano, generò le premesse della crisi della metafisica, la cui dissoluzione lasciò al “cuore della società europea” la “coscienza personale”, non suscettibile di alcuna fondazione 498

G. Fragnière, RP, pag. 272.

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scientifica universale.499 In realtà, il retaggio metafisico fu vulnerato nella sua struttura composita mito-logica, ma non in riguardo all’ufficio della ragione, alla cui espansione metodica in senso cognitivo universale si deve la rimozione del fondamento teologico del sapere, che aveva sostenuto l’architettura dottrinale del cristianesimo, conciliante la realtà del mondo interiore con una fondazione gnoseologica che lo giustificasse razionalmente.500 Al centro di tale gnoseologia si trova la coscienza, che “non comprende solo il pensiero ma la totalità dell’uomo”, che Agostino chiama “vita”, e la cui auto- riflessione “non è un regresso al fondamento conoscitivo del solo sapere” da cui scaturisce la scienza, ma il processo attraverso i quale “si dischiude all’uomo l’essenza di se stesso” e lo stesso “essere di Dio”.501 Questa modalità auto-riflessiva della coscienza guidata dalla morale, propria dell’approccio agostiniano al sapere, si differenzia da ogni precedente tentativo scientifico, ma non giunge a una “fondazione gnoseologica” in quanto in Agostino “divennero predominanti le autorità oggettive della Chiesa cattolica e del dogma cattolico”, che riprodussero così la metafisica delle veritates aeternae.502 Il fondamento delle verità di coscienza è la stessa verità della coscienza, sicché la sua attività non può che essere verace, avere cioè contenuti veritativi. Ma come riconoscere, nel dubbio, la verità? Il metro è “il principio logico della non contraddizione”, che fa parte di un “sistema di leggi della verità” che è “immutabile”. In esso rientra, tra i varii concetti, “l’unità”, la quale “non si può dare in alcuna percezione sensibile, non si trova nei corpi [e] quindi è propria del pensiero”, 503 come suo dato originario, puramente spirituale, colto dall’attività della ragione. Lo spirito, dunque, riflette in sé le verità che sono fuori di sé, sicché “ogni sapere è rispecchiamento di un oggetto che è fuori dello specchio. E l’oggetto di questo sapere è quell’ordine inalterabile delle verità che trascende l’andirivieni degli individui, i loro errori e la caducità loro: è l’ordine che è in Dio, [il Quale pertanto] è il soggetto metafisico che contiene questo mondo delle idee”,504 intese come “formae quaedam vel 499

W. Dilthey, EG, pagg. 350-351. Ivi, pag. 332. 501 Ivi, pagg. 335-336. 502 Ivi, pagg. 336-337. 503 Ivi, pag. 337. 504 Ivi, pag. 338. 500

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rationes rerum stabiles atquae incommutabiles, quae ipsae formatae non sunt, ac per hoc aeternae ac semper eodem modo sese habentes, quae in divina intelligentia continentur”.505 Attraverso la conoscenza di sé, la coscienza perviene alla totalità del suo essere spirituale, fatto di pensieri, ricordi e volontà, che costituiscono la sostanza dell’anima, la cui vita non può dunque essere attribuita alla materia. Ciò significa che “le sue proprietà non sono riducibili a elementi corporei” ma a un “fondamento immutabile”, che è Dio, la sua “causa”. 506 Dilthey, definendo quella di Agostino una “metafisica della volontà”, 507 ritiene, travisando il suo pensiero, che Agostino “subordini il sapere al volere”, facendo coincidere il sapere con la “fede”, 508 non cogliendo la stretta dipendenza della determinazione razionale del sapere dal suo fondamento arcaico, di natura ontologica e pre-razionale. In tal senso, l’adesione di fede alla esistenza di Dio coincide con la possibilità stessa di procedere alla conoscenza veritativa del mondo, del quale dunque Dio è fondamento (arché), non “causa” (aitìa) del discorso razionale. Attraverso l’adesione di fede alla verità di Dio, ossia alla Sua esistenza, si può conoscere la realtà del mondo, non nel senso della certezza fenomenica, assicurata dai sensi, ma nel senso della sua verità, cioè dipendenza dal sommo Bene, verso cui tendono anche le azioni della volontà. La fede, pertanto, consiste nell’intima adesione della coscienza, ossia dell’intenzione, alla esistenza eterna e immutabile di Dio, che è fondamento della stessa verità della nostra conoscenza. Questa, come attività della coscienza, non è diretta, cioè non dipende, dalla volontà, la quale costituisce la sua espressione esterna, ma dall’intima aderenza della intenzione alle cose esterne. E poiché tale intenzione interna della coscienza non coincide necessariamente ma solo potenzialmente con il pensiero e con la volontà espressi esteriormente, essa, l’intenzione, è libera di determinarsi nella verità o nell’errore, e perciò è un mistero che l’assimila allo stesso mystero della volontà divina, senza però coincidere. Solo in Dio, infatti, in quanto Verità e sommo Bene, intenzione e volontà, azione e ragione, coincidono; e in quanto Verità e sommo Bene, Dio è principio di conoscenza vera. Ciò che è presente all’uomo e che è assente 505

Agostino, De diversis quaestionibus, LXXXIII, q. 46, cit. in W. Dilthey, EG, pag. 338 n. 10. 506 Ivi, pagg. 339-340. 507 Ivi, pag. 343. 508 Ivi, pag. 340.

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in Dio è l’errore, legato alla differenza tra la finitezza della espressione della verità umana e l’infinitezza della Verità assoluta, differenza che è la stessa tra l’uomo e Dio, e dunque ontologica e non superabile. L’espressione della volontà umana legata all’individualità e finitezza della coscienza, è il prodotto della ragione, l’attività del Logos, il quale si determina manifestamente come bios theoretikòs (ossia come pensiero) e come bios praktikòs (cioè come azione). Entrambi, in quanto manifestazione della compiuta attività del soggetto coscienziale, sono atti volitivi, coi quali l’uomo decide nel senso della verità teoretica e della bontà pratica, e dei quali egli ha piena responsabilità morale, non perciò imputabili in concorso a Dio. Sono perciò atti liberi della coscienza umana. Accanto ad essi, tuttavia, vi è una attività umana, quella poietica, in cui la volontà singolare partecipa allo stesso titolo di efficacia della volontà altrui, e del cui esito pertanto non risponde esclusivamente e unicamente la coscienza singolare, ma la cui responsabilità va attribuita in concorso alla misteriosa volontà di Dio, presente alla coscienza finita come volontà del prossimo, come realtà fenomenica del mondo-della-vita in cui il singolo è immerso trovandovisi e che costituisce la sua situazione esistenziale. Se questa situazione esistenziale in cui viene a trovarsi l’uomo fosse imputabile interamente alla sua volontà, alla stregua di un atto teoretico o pratico, allora verrebbe a cessare non soltanto la sua personale responsabilità morale, distribuita pariteticamente a tutti i componenti della situazione collettiva, ma la stessa possibilità del singolo di determinarsi secondo la sua libertà di coscienza. In tal caso, il singolo e il contesto sociale in cui si trovasse, farebbero tutt’uno, ossia costituirebbero nella realtà quella “unità” ideale non ravvisabile in natura. In questa ipotesi, dunque, coincidendo la volontà del singolo con la volontà comune, non distinguendosi nessuna intenzione riposta da alcuna volontà manifesta, si perverrebbe a quella totalità ontologica propria di Dio, e che lo storicismo attribuisce appunto alla Storia, la cui ragione esclude come inutile la presenza di Dio, ossia del mystero della Sua volontà, e di riflesso dell’animo umano. Se tutto è Storia e nient’altro che Storia, allora la totalità dell’Essere coincide con la sua stessa rappresentazione, la cui verità dipende dalla modalità razionale, prescelta originariamente come l’unica in grado di giustificarsi di fronte al suo principio, che è la sua “causa” (aitìa), ossia il Logos. Ma poiché tale 211


scelta nasconde l’origine arbitraria della decisione ontologica di credere che il Logos sia la verità e il bene, anziché l’errore, di conseguenza la realtà rappresentata dal Logos è (creduta esistente), mentre la realtà rappresentata dall’errore non-è (giudicata esistente). E poiché l’errore a suo modo, cioè come errore, pure è, il suo essere è nel modo della inesistenza, sicché la realtà creduta razionalmente come vera, non è a sua volta tutta la realtà possibile,ma soltanto quella de-finita come esistente per il Logos. In questa decisione della coscienza teoretica, si fonda dunque la verità razionale, la quale essendo un prodotto totalmente umano, è troppo umana per essere anche vera, ossia divina. Senza la partecipazione dell’Altro, ossia fuori della relazione, la dialettica si svolge all’interno della posizione della coscienza, che pone negando, sicché l’unità conseguita alla fine è la stessa che pone se stessa come principio. Questa auto-affermazione della coscienza al termine del processo discorsivo ritrova se stessa come coscienza di sé, come autocoscienza, e dunque come unità interna al’Essere della coscienza assunto come Tutto. Parimenti, la Storia è la rappresentazione di questa unità della coscienza attraverso la negazione della molteplicità delle realtà empiriche; rappresentazione dell’unità ideale del mondo assunta come realtà del mondo. Su questa assunzione di realtà, che è una credenza ontologica, si fonda la verità di ogni rappresentazione razionalistica del mondo, la quale pertanto è di natura convenzionale, puramente ipotetica. L’ipotesi ontologica è che la rappresentazione razionalistica della realtà sia universale, e dunque vera e totale. In questa riduzione della verità a parola, a narrazione, consiste l’essenza del Mito, in cui l’analogon del vero non si distingue dal vero, ma è tutto uno. La conoscenza di tale unità totale dell’Essere è la metafisica, che, secondo la nota definizione aristotelica, studia “l’essere in quanto essere in universale” e di cui ricerca “le cause prime”. 509 Questa scienza è dallo stesso Aristotile definita “scienza teologica”,510 in quanto “scienza che Dio possiede in sommo grado”, e perché “concernente le cose divine”.511 Ciò che qui rileva per noi è che il pensiero post-platonico ritenesse che fosse possibile pensare come Dio, facendo della “sapienza” una “scienza”. L’oggetto di tale pensiero sapiente è la causa universale, ossia 509

Aristotile, Metafisica, 1, 1003 a, 21-32. Ivi, 1, 1026 a, 19. 511 Ivi, 2, 983 a, 5-10. 510

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di tutte le cose. L’universalità, dunque, è la proprietà della scienza del divino in quanto qualità del principio primo e supremo. Tolto Dio, le cause e i princìpi si ridurrebbero a quelli naturali, e l’aitiologia diventerebbe pura fisica [e senza] la sostanza eterna immobile e soprasensibile, non resterebbe che la sostanza sensibile; per conseguenza l’usiologia non potrebbe essere altro che una usiologia fisica. Dobbiamo, pertanto, concludere che il senso più profondo della metafisica aristotelica resta consegnato alla componente teologica e che l’orizzonte della metafisica aristotelica è dato dall’unità dinamica o dialettica delle prospettive ontologica, aitiologica e usiologica.512

La metafisica così intesa, in virtù della sua assolutezza e universalità, segna il primato del bios theoretikos sulle discipline pratiche e poietiche, avendo in sé la sua ragion d’essere. 513 A questo punto sorgono due domande: qual è il “puro fine del sapere”?, e qual è l’oggetto del sapere? Il fine della conoscenza è di fornire una giustificazione “al massimo grado conoscibile” () allo smarrimento provocato dalla “meraviglia” () di fronte agli eventi naturali. E di conseguenza, l’oggetto di tale massima conoscenza verte sui “primi principi e le cause” ().514Ovviamente, il grado di meraviglia era proporzionato all’evento di cui la coscienza umana non riusciva a dare risposta immediata, oscillando pertanto dalla curiosità di fronte “alle difficoltà più semplici”, fino allo sconcerto di fronte alla morte. In conseguenza della meraviglia, anche chi si avvale del racconto mitico è in qualche modo un filosofo, dal momento che il Mito è costituito da una con-posizione di eventi meravigliosi ( ).515 Il compendio di ogni meraviglia, e dunque l’origine di ogni risposta filosofica, è “l’ignoranza” ( ) delle cause degli eventi che destano meraviglia. Tornando al Mito, anche questo offre una risposta al  dell’, ma essa non è esplicativa di senso, ma meramente rappresentativa degli eventi meravigliosi, ossia ne è il racconto, la 512

G. Reale, Saggio introduttivo alla Metafisica di Aristotele, Milano, 2014, pag. XXXVII. Da ora Saggio. 513 Aristotile, Metafisica, 2, 982 a, 14-16. 514 Ivi, 982 a 31-32, 982 b 1-2. 515 Ivi, 982 b, 17-19.

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“cronaca”, che lascia sussistere nella indeterminatezza il significato di quanto narrato. Ciò vuol dire che, mentre il filosofo spiega le cause degli eventi, e dunque “è più in grado di insegnarle” ( ),516 il  lascia che gli eventi restino meramente descritti, senza determinazione razionale, ossia senza una causa determinata, che sia cioè quella e non altra. Pertanto, le risposte all’  sono duplici, e si avvalgono della stessa esperienza originaria del mondo. tale esperienza originaria, per essere comune al Mito e al Logos, deve essere universale, inerente cioè a fenomeni sia spirituali che fisici, laddove le risposte ricercate dal Logos filosofico sono esclusivamente sovrasensibili, ossia ideali, in quanto risposte univoche, ché l’unità, come sappiamo, è propria del concetto, e non della realtà empirica. Ciò comporta che l’unità delle cause ricercata dalla metafisica sia interna alla dimensione ontologica idealistica, mentre il suo carattere naturalistico derivi dalla credenza che l’ordine metafisico unitario sia anche l’ordine della realtà fisica. In altri termini, mentre l’idealismo platonico ammette la differenza ontologica tra il mondo sensibile e quello delle idee, la metafisica aristotelica pensa la realtà nell’unità totale dell’Essere, e quindi alla maniera di Dio. In tal senso, la metafisica, quale scienza teologica, ontologica e usiologica, è pensiero della totalità dell’Essere ma una totalità razionalmente determinata, rispetto a quella indeterminata del Mito, la quale pertanto rappresenta la totalità narrata dal Mito ma in termini di racconto razionale, cioè esclusivo del divenire temporale delle cose, ossia del tempo stesso, costituendosi a sua volta come reinterpretazione del Mito, ossia come mito-logia. La differenza ontologica, nella prospettiva metafisica, diventa distinzione logica tra narrazione evocativa di senso e racconto razionale, tributario di senso. Il senso delle cose rappresentate razionalmente è il senso universale, ossia il loro significato astratto dal tempo diveniente, intemporale, che dilata il presente della coscienza nella durata stessa della coscienza, facendo di questa il luogo finito della realtà eterna e in-finita. E dunque l’unità, inconseguibile nella realtà sensibile, si ottiene nel racconto della coscienza, in quella storia razionalmente narrata, entro il cui orizzonte la realtà diventa eterna, l’iperuraneo personale dello storico. Ciò che si perde nell’itinerario della coscienza razionale è la concretezza della vita, che si dispone come l’altro dialettico della ragione, quel negativo vitale che è la fonte originaria della coscienza di sé e che 516

Ivi, 982 a, 10-14.

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permane a costituire la dinamica oppositiva a ogni oggettivazione. Oggettivare la realtà, astraendola dal divenire, e distinguere la conoscenza dal suo fondamento vitalistico, è operazione analoga a quella consistente nel distinguere dalla complessiva narrazione mitica l’astratto racconto razionale, il quale, pertanto, non riflette la totalità della vita, ma soltanto la realtà della coscienza, per la quale la sua rappresentazione della realtà è la realtà stessa, e la conoscenza dell’essere, l’Essere stesso. Ma questa identità del logico con l’ontologico è possibile solo in conseguenza della premessa che il luogo della verità sia la coscienza e non la vita; premessa che è culturale, non necessaria. Tant’è che essa è smentita dall’altra modalità di rappresentazione del mondo, costituita dalla forma mitica, la cui narrazione lascia correre la vita nel suo divenire, assumendo di essa ogni elemento che la ragione distingue dialetticamente, lasciandolo sussistere nel suo essere così com’è. La conoscenza, invece, meravigliandosi di tale possibilità, dispone il pensiero a infrangere il disordine spontaneo del divenire, imponendo un ordine legale alternativo, in cui domina il dover essere. Questa istanza ordinamentale ( ) costituisce il motivo etico assunto dalla coscienza razionale che confida nel Logos. Il Logos, dunque, costituisce una modalità rappresentativa che non niente di necessario, perché non originaria della coscienza, ma solo creduta più adatta alla conoscenza in quanto “più capace nello stabilire le cause” e perciò di “insegnarle ad altri”. Ma questo ritenimento non è altro che una credenza epistemologica, basata sulla presunta purezza della conoscenza, non utile alla vita come invece è quella “scelta in vista dei benefici che può produrre”.517 A questo punto è lecito chiedersi perché la conoscenza metafisica non può produrre benefici. La risposta è legata alla stessa natura della conoscenza logica, la cui validità ontologica, come abbiamo visto, è circoscritta all’ambito della coscienza individuale, la cui attività è assiologicamente indipendente dal mondo-della-vita. Ma poiché i contenuti formali della coscienza razionale sono universali, l’universalità, quale forma dell’Essere razionalmente conosciuto, diventa la consegna etica della missione del filosofo, secondo il modello socratico adottato da Platone. E dunque, la conoscenza metafisica non può produrre benefici in quanto inerisce a una dimensione di realtà nella quale non vi è nulla da 517

Aristotile, Metafisica, 2, 982 a, 15-17.

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cambiare, poiché tutto ciò che è, è già stabilito che sia così com’è. La produzione di benefici, infatti, implica la possibilità che qualcosa non sia, e quindi debba essere; ma dove tutto è, niente può ancora essere. in questo senso ontologico e assiologico, il tempo della scienza metafisica è il passato, il tempo in cui non è possibile intervenire, poiché tutto è già avvenuto. Ma il luogo in cui tutto è sin dall’origine, e dove niente diviene, è appunto il Mito, il luogo abitato dagli dèi e dagli eroi. E dunque la dimensione metafisica è un luogo già visitato dal Mito, già da esso narrato, e ora rivisitato dal Logos col fine di sottrargli ogni elemento di concretezza che possa raccordarlo alla vita e al divenire, a cominciare dalla stessa rappresentazione antropomorfa delle divinità, che nella trascrizione metafisica divengono concetti, forme ideali, sostanze ed essenze universali. La metafisica pertanto è il prototipo della demitizzazione operata dal Logos, e della sostituzione scientifica delle forme razionali alle forme divine personali. Solo a seguito di questa sostituzione gnoseologica, grazie alla quale la rappresentazione razionale del mondo si è affermata assiologicamente sulla realtà sensibile, la metafisica diventa norma legale della razionalizzazione della realtà sensibile, deontologia della prassi razionale, ideo-logia, intesa quale piano di realtà parallelo a quello naturale. Il percorso contrario a quello metafisico è stato intrapreso da Heidegger, il quale, anziché dalla strutturazione universale del cogito, parte dall’effettività esistenziale del Dasein, il che implicava una “trasformazione totale [dell’] idea stessa di fondazione” in considerazione del tempo, sulla base del cui orizzonte doveva determinarsi il significato dell’essere e la stessa “determinazione ontologica della soggettività”. 518 L’intuizione fondamentale di Heidegger era che la determinazione dell’essere fosse in realtà quella del tempo, sicché la metafisica, come si è accennato, era dominata “dall’idea dell’essere come presenza”. 519 Il piano unico di universalità della coscienza, eliminava la differenza gnoseologica tra realtà spirituale e realtà naturale, nel senso di una assoluta storicità del comprendere, inteso come l’originario modo d’essere possibile del Dasein, che fa della comprensione, non un problema metodologico, ma “il carattere ontologico originario della vita

518 519

Ved. H.G. Gadamer, WuM, pag. 303. Ivi, pag. 304.

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umana stessa”, che rivelava nell’ oltrepassamento dell’ente, nel suo movimento verso la trascendenza, la sua natura progettuale.520 In realtà, la metafisica classica non escludeva questa tensione temporale dall’attività teoretica, ma la intendeva in senso dialettico di opposizione al negativo divenire, rispetto al quale l’essere costituiva l’esclusivo valore ontologico. La comprensione, pertanto, decidendo per l’Essere anziché per il Nulla, affermava l’essere-che-è, l’ente, come posizione assiologica, come decisione etica, e dunque come premessa deontologica inclusiva di un progetto esistenziale: quello di negare la casualità e dunque la dipendenza dell’uomo da fattori in-prevedibili, gli stessi che, per la loro ingovernabilità, destavano la sua meraviglia fino al terrore. Comprendere dunque significava liberarsi dalla dipendenza dal caos, da quel divino disordine che gli uomini subivano in quanto mortali e ignoranti; mortali, ossia finiti e indifesi contro la potenza naturale e divina, e ignoranti, in quanto non creatori del mondo. Sicché, la conoscenza e la creazione di una realtà intieramente umana costituiva un ambito artificiale entro il cui orizzonte esistenziale, identificato con quello politico, l’uomo poteva costituirsi libero. Libero dall’oppressione del Negativo. In che modo? Quello appunto teoretico di de-finire un ambito di realtà meta-fisica sottratta alla relatività e accidentalità del divenire, e quello conseguente e pratico di costruire una società politica conforme al modello ideale, secondo un processo simmetrico e opposto a quello dell’astrazione, che dal mondo delle cose andava alle idee. Ora si trattava di andare alle cose a partire dalle idee universali per renderle omogenee. In questo ritorno al mondo, la sua razionalizzazione operava come metodo politico di negazione del nemico, il negativo esistenziale all’essere logico. In relazione al suo esclusivo modello ontologico, l’ente fenomenico è dunque il negativo da inverare. Se, viceversa, si assume la storicità dell’ente come il principio di fondazione ontologica della realtà da comprendere, la storicità diventa l’universale definitorio del pensiero, un universale negativo, puramente ontico, che coincide con la condizione umana della coscienza conoscente. Storicità, quale struttura esistenziale del Dasein, sta dunque per orizzonte ermeneutico della comprensione del mondo, ossia per modo del comprendere storico; un modo intrascendibile in cui “l’esserci trova davanti a sé come non oltrepassabile ciò che rende 520

Ivi, pagg. 306-307.

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possibile e delimita tutto il suo progettarsi”,521 e dunque asservito alla necessità. In questa dimensione della finitezza, l’antinomia tra la libertà della coscienza e la condizione storica ripropone in chiave esistenziale quella classica tra onnipotenza divina e libertà umana. È innegabile che l’orizzonte coscienziale allocando la libertà nell’ordine razionale la salva dal limite della potenza divina o naturale, intesa appunto come una dynamis indipendente dall’ordine del discorso logico. Questo sfondo gnoseologico fa della storia la fenomenologia della libertà. Nella prospettiva della finitezza in cui si muove i Dasein, il suo progetto esistenziale si staglia come un tentativo di comprensione del mondo nel senso della “cura” (Sorge) dell’ente, e quindi come un pensiero essenzialmente pratico. Ma di una prassi non volta alla trasformazione del mondo, e quindi alla manipolazione tecnica dell’ente, ma alla partecipazione all’Essere, ossia a quell’evento (Ereignis) che accade nel tempo così come l’evento poetico accade nel linguaggio. E nel trovarsi la coscienza nella sua situazione d’esistenza, sperimenta il suo smarrimento di senso, il  che è la disposizione fondamentale (Grundstimmung) all’origine della riflessione filosofica. E dunque una filosofia poietica in senso di Aristotele, che rimane il controcanto paradigmatico della riflessione di Heidegger, che, a partire da Sein und Zeit antitetico all’Etica Nicomachea, si sviluppa come pensiero antimetafisico. La sua differenza consiste nel primato, anziché della coscienza trascendentale, ossia del Cogito, come ancora in Husserl, della relazione della coscienza finita con l’Essere e del Dasein col “da” contestuale in cui si trova, e dunque con l’Altro, in rapporto al quale lo strumento razionale è uno tra tanti e neppure primario. Il riferimento alla dimensione pratica, della vita come della fede, si manifesta nella storia del pensiero allorquando le costruzioni razionalistiche entrano in crisi di fronte all’impossibilità di soddisfare l’istanza universalistica che sorregge la loro fede gnoseologica, ovvero quando la forza spirituale dell’esperienza interiore rende problematica la sua oggettivazione formale. Tipico il caso del rilievo che la fede pratica ebbe nel Protestantesimo a seguito della dissoluzione della metafisica medievale.522 521 522

H.G. Gadamer, WuM, pag. 311. W. Dilthey, EG, pag. 399.

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L’espressione originaria del dissidio, insuperabile fino al Cristianesimo, tra potenza divina e finitezza umana è rappresentata dalla tragedia attica, che rappresentò la prima forma letteraria di una coscienza religiosa ispirata proprio dalla differenza ontologica tra la volontà umana a definire la propria libertà e il destino superiore e incoercibile a negarla, o almeno a frenarla. Se dunque il Mito era la raccolta degli eventi meravigliosi della vita, la tragedia ne fu la sua prima elaborazione attraverso il logos interrogativo ed esplicativo di senso. La tragedia era il commento poetico al mito eroico. L’elaborazione tragica del mito eroico consisteva nel proprio del “contenuto tragico”, che è “visione tragica dell’esistenza” in senso soggettivo, e categoria metafisica sul piano teoretico-religioso,523 che indica disordine, dissidio degli eventi del mondo, inafferrabilità dell’ordine cosmico e antinomie inconciliabili in qualche atteggiamento “sublime” di un eroe che ha la meglio sul fato.524 La struttura dialogica del logos esplicativo di senso (mitico o razionale che fosse) presupponeva un termine costante del rapporto dialettico, costituito dalla posizione dell’uomo greco nel mondo. Come ha ben riassunto Pohlenz, il “lineamento essenziale dell’uomo greco è l’impulso ad autodeterminarsi, lo stimolo a foggiare la vita secondo una propria misura. L’avvedersi, quindi, che la sua volontà può subire interferenze improvvise dall’esterno, rappresenta per lui un’esperienza particolarmente viva e inquietante”. Perciò parla di una “parte” (moira) assegnata dal destino. “Dall’idea di parte esso perviene ad esprimere la potenza universale che interviene, dall’esterno, nella vita, e che nessuno può eludere. L’uomo si vede dinanzi ad un ‘destino’, che circoscrive la sua capacità di autodeterminarsi ed annienta i suo volere”. Da qui la coscienza religiosa greca.525 L’altro termine, alquanto variabile, del rapporto è la Sorte (), che rappresenta l’ambito di oscillazione in cui si muove la Necessità () in relazione alla virtù umana di contenerla. In questa relazione, il logos è lo strumento di collegamento tra il linguaggio divino e quello umano. Non ci sarebbe alcuna relazione, e quindi evento tragico, senza la comunicazione, che è a un tempo linguaggio e azione comune. Il logos è l’ambito in cui si svolge la 523

M. Pohlenz, Die griechische Tragoedie (1941), tr. it., Brescia (1961), 19782, pag. 14. Da ora GT. 524 Ivi, pag. 15. 525 M. Pohlenz, GT, pag. 19.

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relazione; l’ambito linguistico, elettivo dell’essere non solo umano, dunque, ma anche divino. E in quanto tale, il Logos contiene le contraddizioni, impedendo che tracimi l’irrazionale. Esso è dunque misura () di ogni conflitto e di ogni mediazione. L’anima della tragedia è il logos: interiormente come virtù spirituale che determina l’azione, ed esteriormente, come parola, idonea ad esprimere tutti i sentimento umani, i più disparati atteggiamenti dell’animo e i pensieri più profondi. Non soltanto in se stesso l’uomo greco avverte la presenza del logos. E’ un’esigenza radicata in lui rintracciarlo anche nel mondo che lo circonda, intendere il ‘senso’ delle cose”, 526

tracciando un percorso che de-finisca la libertà possibile tra l’assoluta intenzione umana e l’onnipotenza divina. Riguardo al primo elemento, esso rappresenta la dimensione della Libertà, la quale non va intesa come mera volontà del soggetto attore, ma come l’esito stesso della vicenda che impegna l’attore in relazione alla sua moira. Questa risultanza è composta da una intima intenzione soggettivo a realizzare il proprio intento nel mondo esterno, e da una oggettiva pratica relazionale con le forze esterne che lo contrastano. La Libertà, in tal senso, non è dunque una attività pratica, tesa ad affermare un astratto progetto ideale, ma appunto una relazione che, come tale, si determina attraverso il rapporto con l’altro, che può essere la sorte avversa ovvero mite. E in quanto relazione, la libertà è una attività poietica, nella cui manifestazione volitiva emerge tanto l’intenzione dell’attore quanto la forza che le si oppone. Se si perde di vista questa caratteristica ontologica della Libertà greca, non si riesce poi a comprendere il senso della  quale attività tesa alla creazione delle condizioni di libertà comuni ai membri della  sociale. Senza l’idea della Libertà, quale posizione dell’uomo nel cosmo e in relazione alla volontà degli dèi, non si può fondare la comunità politicamente libera dalla necessità in cui è avvolto il destino di ogni singolo uomo. L’ambito politico rappresenta l’unità simbolica delle coscienze libere che nella unità politica procedono alla costituzione di un mondo liberato dalla necessità propria del destino naturale dell’uomo. Tale ambito costitutivo della libertà è quello stesso definito dal linguaggio (logos), che si emancipa dalla forza divina auto-fondandosi 526

Ivi, pag. 31.

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come logos razionale, assoluto, libero dalla originaria dipendenza dal rapporto tragico con le potenze superne. La politica è pertanto lo stadio di una libertà che non emerge più dal dialogo con la necessità, ma dal dialogo tra le libertà dei soli umani emancipati dal bisogno del lavoro, che non dipendono cioè dalla natura, come invece gli . Il dissidio tra volontà e destino non è eludibile, “mai però i Greci avrebbero tollerato l’idea che gli uomini fossero soltanto marionette guidate da un destino cieco o da una divinità capricciosa. Seguivano il loro impulso ad autodeterminarsi”, per cui se la heimarmene stoica regolava gli eventi esteriori, cercarono almeno di salvare la libertà interiore.527 La tyche poteva privare l’uomo della fama e dei beni, ma non dell’onore e delle sue qualità spirituali, cioè della parte migliore del suo animo. D’altro canto, poiché la perfezione è divina e non umana, chi osa misurarsi con gli dèi viene punito per la sua temerarietà (hybris).528 Il rapporto uomo-dèi caratterizza “il punto di vista da cui l’uomo greco osserva e configura gli eventi”.529 Da qui l’indagine sulle cause, per individuare il “senso” delle cose (logos). Ma, così come la determinazione del senso implica la possibilità entro la relazione dialogica, il rapporto religioso era comunitario, non individuale, e si esprimeva nelle feste,530 con le loro danze caprine () e la relativa melodia del canto caprino () ricordati da Erodoto.531 “Il coro rappresentava la comunità dei fedeli, e ciò che cantava non era la composizione di un individuo qualsiasi, ma ciò che il dio stesso aveva ispirato al suo . Quindi il suo canto […] non era inteso soltanto a ripercuotere l’eco dei fatti appena svolti, ma con virtù rivelatrice era atto a indirizzare lo sguardo alle forze agenti al di là degli eventi esteriori, scoprendone il senso profondo”.532 Soprattutto gli istinti, coltivati e ispirati da Dioniso, che Omero chiama “esaltato” (: Iliade, VI, 132), furono atti liberatori della coscienza che violava la consueta armonia delle forme di vita quotidiane. “La forma più perfetta in cui si sia espressa questa religione di Dioniso, questa ‘estasi’ 527

M. Pohlenz, GT, pag. 21. Ivi, pag. 22. 529 Ivi, pag. 23. 530 Ivi, pag. 24. 531 Ivi, pagg. 25-26. 532 Ivi, pag. 32. 528

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dionisiaca, è la tragedia”.533 Dioniso “è il potente creatore che propaga ed incrementa la vita”, che in primavera sboccia nella natura e nell’uomo e “suscita nell’anima le latenti energie creative, infonde negli uomini entusiasmo d’opere” artistiche. Nondimeno, non è possibile attribuire alla tragedia una “prevalenza di miti dionisiaci”, poiché “la tragedia abbracciò sin dal principio l’intero ciclo mitico degli dei e degli eroi”.534 La potenza vitale è l’equivalente della intenzione umana di pervenire ala sua realtà senza alcun limite esterno, in maniera assoluta, come quella degli dèi. Il filtro attraverso il quale la coscienza s’imbatte nella sua opposizione è quello del linguaggio, col quale la volontà esprime l’intenzione altrimenti incognita. L’invocazione della preghiera invita gli dèi a sortire nell’agone del linguaggio, a divenire presente l’intenzione, togliendola al silenzio che circonda di mistero il niente Pervenire all’essere significa dunque venire al linguaggio, diventare parola. L’ente, ciò-che-è, è dunque parola, logos. Ma l’essere della parola è costitutivamente dialogico; non è apparenza sensibile, fenomeno che desti meraviglia, ma evento relazionale tra uomo e dio, oppure tra uomo e uomo, oppure tra coscienza e attore. La tragedia, così come il dialogo platonico, rappresenta le voci della domanda e della risposta che nella filosofia diventano elementi della . Sia il dialogo tragico che quello religioso così come quello politico e filosofico si esprimono entro l’ambito dell’attività poietica, quella che si costituisce nella relazione del linguaggio, sono cioè espressioni del Logos. Per tale natura plurale del linguaggio, compreso di quello filosofico, Platone diffidava della scrittura, strumento del soliloquio della coscienza che negava la realtà duale, propria del dialogo. Se la presenza dell’Essere è nella relazione logoica, la stessa identità umana è nella sua manifestazione sociale, nella sua relazione politica. Ma è nell’essenza dia-logica del linguaggio, quale ambito ontologico della presenza comune, che l’ente sia (definito) nella relazione, e non originariamente; ciò implica che prima del Logos ci sia il niente;non in senso assoluto, ma relativamente alla sua espressione linguistica, nominale, la quale presuppone a sua volta la esistenza della comunità linguistica dei parlanti, fuori della quale c’è il caos dell’irrazionale, il disordine non governato dal linguaggio, dove l’uomo non è in relazione 533 534

Ivi, pag. 34. Ivi, pag. 35.

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con la potenza cosmica e divina. E dunque il  non è altro che la paura di ciò che appare disgiunto dalla reazione, e quindi sconosciuto dal linguaggio, misterioso. In tal senso, ogni sforzo umano è diretto a trarre all’Essere ciò che ne è fuori, rendendolo docile al linguaggio della comprensione. Se questo è chiaro, si comprende come l’esigenza di libertà della coscienza logica dell’uomo tenda a definire ambiti di libertà sottratti al mistero e quindi alla indeterminatezza del Mito, alle sue misteriose possibilità d’essere, al fine di costruire un ambito di assoluta libertà della coscienza cosciente di sé, quella teoretica della universalità. In questa il passato perdeva la sua necessità di evento irreversibile per acquistare la libertà della ricostruzione ideale del suo senso razionale, che metteva in ordine di sequenza logica i fenomeni sparpagliati degli eventi altrimenti inspiegabili nel disordine insensato. E rimettere in ordine ciò che è stato significava ricrearlo e renderlo libero, ripetendone l’accadimento. Libertà significava dunque far emergere dalla necessità del passato gli enti riassestati dalla ragione nell’ordine del discorso. E dunque anche il racconto mitico, anziché essere semplicemente rievocato, veniva rivisitato e rinnovato dalla nuova interpretazione liberatoria di senso. Ciò implica che la nominazione dell’ente sia già una fondazione dell’Essere come emersione della sua determinazione dal linguaggio, per cui il dire del Logos e la presenza dell’ente sono lo stesso fenomeno ontico ontologicamente assunto come reale, ossia detto. Ciò-che-è e ciò-che-èdetto sono identici entro lo spazio del linguaggio, fuori del quale l’ente è niente. Se ciò è vero, lo spazio del Logos non coincide riduttivamente con lo spazio metafisico della presenza (Anwesenheit), ma va inteso in senso inclusivo del Mito, della Politeia e della rappresentazione tragica, quali forme del linguaggio poietico o relazionale costitutivo della Libertà, che è la verità del linguaggio (), in cui essere e parvenza coincidono. È in questa de-terminazione nominale del Logos l’inizio (Anfang) del potere della coscienza come libertà dalla necessità di ciò che la teneva all’origine della indeterminatezza arcaica della possibilità. In questo atto in cui l’Essere perviene alla presenza dell’ente si determina la Libertà negativa dal Mito, come dialettica elenchetica, che costituisce il momento del domandare, dell’esporre narrativo e della lotta politica. ma questo momento di presenza non costitutivo dell’intera Libertà, che è un processo che perviene, non alla posizione negata o inverata, ma alla

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relazione, ossia a quella trascendenza del Sé che rimanda alla realtà dell’Altro e quindi alla Libertà duale del Noi, ossia alla relazione. Mentre la kinesis del processo naturale è dominata dalla necessità del suo farsi (entelecheia), la dinamica della Libertà non è predeterminata ma ha un esito incognito, misterioso, una metabolé che perciò è narrabile come evento singolare e non formale. Il racconto della Libertà è quello della resistenza che il Negativo, ossia l’Essere indeterminato, oppone all’ente per trattenerlo nel suo originario niente, per cui il potere liberatorio del Logos consiste nella determinazione dell’ente come realtà presente anziché non. Ma portare l’Essere entro la realtà del linguaggio, equivale a omologare l’ente al Logos negando la diversità del niente. In questa identità omologante opera il nascondimento dell’Essere per la rilevanza dell’ente. Ma questo nascondimento coincide con la rimozione del negativo dal processo della Libertà, ossia l’esclusione dal Logos presente – e quindi dalla definizione del concetto - del dramma e della lotta che caratterizzano la tensione della tragedia e il conflitto politico. In tal mondo l’ente, quale Essere presente, perviene alla sua determinazione universale, assoluta, esplicata dalla metafisica, in cui il dramma esistenziale dell’uomo scompare dalla scena dell’Essere, rappresentato nella sua presenza impersonale, come mero esito ideale oggettivo (morphé). In questo senso, per Heidegger il linguaggio concettuale della metafisica è estraniante, “limitandosi ad entrare nella coercizione dell’idea”.535 L’episteme è il sapere che sovrasta la realtà ontica, perché, fondandosi su se stesso, tende a fare del diverso un omologo, sussumendolo sotto la sua giurisdizione logica. Un sapere siffatto pensa l’ente come se stesso, come l’identico, ponendosi come tesi uni-versale, che procede in un solo senso, quello determinato dalla decisione etica. Questo sapere, che si esprime col linguaggio della metafisica, “il quale si è articolato inizialmente nel pensiero aristotelico, mentre ora domina tutto il nostro mondo concettuale”,536 non è l’unico sapere possibile. Esso, rappresentando la identità nell’essere tra enti di natura diversa, è stato considerato sacro, ossia appunto identico a sé. La pretesa di giungere oltre la natura umana finita, coltivata dalla metafisica, doveva condurre inevitabilmente alla deificazione dell’uomo, secondo il motivo sottostante all’Eros platonico, e quindi alla definizione del linguaggio in stabile 535

H.G. Gadamer, Die Griechen (1979) in Heideggers Wege (1983), tr. it., Genova, 1987, pag. 135. 536 Ibidem.

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forma dogmatica, oppositiva al domandare del dialogo, inteso dalla prospettiva del dogma come portatore di discordia (). Ma ciò che la tensione dell’Eros dialettico tende a negare per affermare il sé tetico è l’elemento essenziale perché consustanziale alla relazione poietica, l’Altro con-partecipe del processo di Libertà, senza il quale non vi è poiesi di libertà, ma potenza di dominio. Rispetto a questa posizione teoretica, la affermazione di Giovanni “ ” (I Gv., IV, 8; 16) diventa deflagrante per i suoi risvolti metafisicamente rivoluzionari, in quanto essa assume come essenza e principio etico una relazione che non è più dialettica ed esclusiva ma è solidale e pone l’Altro avanti al sé, provocando dunque un “sovvertimento di tutti gli antichi valori” (Nietzsche). “È incontestabile che eros e agape appartenevano originariamente a due mondi spirituali del tutto diversi, v’è tra loro un abisso insuperabile. Essi non rappresentano affatto gli stessi valori e in nessun caso pertanto vanno scambiati”. 537 Naturalmente, le commistioni tra i due concetti sono storicamente verificabili, soprattutto a seguito del mutuo offerto dalla tradizione metafisica greca alla gnosi cristiana, ma ciò che qui rileva è sottolineare il passaggio da una impostazione monadistica della coscienza teoretica, concentrata sul  a una dualistica, inerente al . In discussione non è qui l’unità del reale ovvero la distinzione dei suoi molteplici aspetti, ma la modalità di acquisizione della verità, ossia il suo criterio di validazione, in stretta inerenza al suo oggetto. Per Platone, l’oggetto della conoscenza è la forma universale, per Aristotile invece è la sostanza (sia come “materia” che come “sinolo” che come “forma”: libro Z della Metafisica). Al di là delle differenze, in comune i due oggetti hanno l’unità. Infatti, anche se l’articolato concetto aristotelico di sostanza ( ) ammette corrispondenti livelli conoscitivi, la conoscenza scientifica è solo quella formale, che ha per oggetto l’, sia pure pensato come forma immanente e non trascendente, alla maniera platonica. Ma l’aspetto più rilevante è che, mentre in senso platonico la forma coincide con l’universale, per Aristotile l’universale non può essere considerato una sostanza in quanto è una astratta unità, un indeterminato  ipostatizzato. L’eidos aristotelico non è, come l’universale platonico, un  di valore nomenclatorio privo però di realtà ontologica, ma “è un 537

A. Nygren, Eros und Agape, tr. it. cit., pag. 13. da ora EA.

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principio metafisico, una condizione ontologica, una ‘causa’ [dell’essere]”.538 Esso ha nondimeno due aspetti: uno ontologico e formale, l’altro logico e speciale. E in quanto specie, pensata in termini concettuali, anche l’eidos aristotelico, quale differenza specifica entro il genere, è un astratto universale.539 Ciò significa che ogni rappresentazione unitaria dell’Essere, pur inerente a una molteplicità di enti concreti, in quanto determinativa di una essenza ideale, è una universalità astratta. Di conseguenza, anche l’essenza dell’Essere, che ne indica la sostanza, all’atto della sua determinazione concettuale diventa una astratta universalità. Codesta metabasi è dunque propria di ogni essenza determinata concettualmente, ossia rappresentata come idea universale. È la rappresentazione dell’Essere come unità ideale a costituire una unità analoga a quella in cui consiste l’Essere, cioè alla sua sostanza formale; unità che però non è identica alla sostanza dell’Essere, ma appunto differente. La differenza tra la sostanza ontologica dell’Essere e la sua rappresentazione ideale o universale risiede nella natura indeterminata dell’Essere e nella determinazione invece della sua rappresentazione concettuale, la quale può costituirsi come rappresentazione universale solo a condizione di essere un astratto analogon, ossia di perdere la concretezza dell’Essere, che consiste appunto nella sua molteplicità, e cioè indeterminatezza e possibilità. Perdendo queste, l’Essere si determina come necessità, che de-finisce la libertà del domandare e rispondere propria del dialogo. La domanda filosofica non è la determinazione dell’Essere, se “cammina” (), è “seduto” () o “sano” (),540 ma perché cammina, è seduto o sano. Infatti, la determinazione individuale non coglie la “sostanza” dell’individuo che compie l’azione, ma descrive una condizione momentanea e transeunte, rappresentata come status, e dunque astratta dalla realtà concreta della sua condizione. L’oggetto della distinta predicazione non è lo stesso se non idealmente, sicché la sostanza del suo distinto essere è solo idealmente lo stesso Essere, cioè “in universali entis notione”. Il carattere ontologico della sostanza è che l’essere possa essere separato, cioè abbia la possibilità di essere diverso da ciò che attualmente è, da come lo determina il giudizio. La sostanza inoltre, “nel discorso”, ossia “nell’ambito del concetto” ( ) 538

G. Reale, Saggio, pag. CIII. Ivi, pag. CV. 540 Aristotile, Metafisica, 1, 1028a, 20-21. 539

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precede () ogni determinazione categoriale, in quanto è “necessario” () che essa vi sia idealmente supposta.541 È la rappresentazione logica ad imporre che l’idea di sostanza venga prima di ogni sua determinazione categoriale, ma fuori di tale determinazione, la sostanza dell’Essere è molteplice e indeterminata, e dunque la sostanza dell’Essere è la Possibilità di determinarsi così o altrimenti. Solo se l’essenza viene definita come ciò di cui ogni cosa è per se stessa, è possibile pensarla astratta dalla definizione. 542 Ma l’essenza di ciò che qualcosa è di per sé, è anch’essa astratta rispetto all’Essere determinato, sicché è la definizione che astrae dall’Essere la determinata sostanza, rappresentandola come ideale, cioè attribuendole una realtà che è solo nel concetto. Solo nel concetto () la cosa ha un’essenza relativa alla sua definizione, tale che sia per sé la stessa della essenza posta originariamente (). La stessa essenza concettuale è dunque posta originariamente come realtà ontologica, che nella definizione diventa realtà logica. Ma questa ubiquità è necessaria solo logicamente, non ontologicamente, poiché onticamente ogni determinazione d’essere è in sé essenziale, e tale che la molteplicità delle determinazioni determini anche una molteplicità di relative sostanze, ognuna delle quali non è storicamente la stessa sostanza idealmente unitaria. 543 Il diventare ontologico di ciò che è solo astrattamente logico è l’operazione di astrazione dell’ente dal suo divenire concreto, ed è ontologicamente arbitraria quanto la decisione che l’Essere è anziché non, operata dal concetto esclusivo, che non pensa l’Essere ma solo l’ente. Infatti l’Essere non può essere pensato se non astrattamente come l’idea dell’ente, ossia l’ente in universale. L’Essere originario (arché), che non sia mera causa (aitìa) di ogni determinazione, infatti è e insieme non-è, essendo Possibilità e Libertà. Ma se l’universale non è la sostanza, che cos’è? E’ la causa per cui il Logos si costituisce come principio di ogni causa ( o causa causarum); ciò che pre-viene il Logos quale tesi del giudizio onto-logico, ossia una ipo-tesi, una forma dell’immaginazione creativa, un pro-dotto 541

Ivi, 33-36. Ivi, 4, 1027 b, 13-20. 543 Proprio in virtù di questa concretezza sostanziale delle determinazioni, Gentile ha potuto pensare le categorie immanenti agli stessi giudizi attuali, confutando la posizione metafisica (aristotelico-platonica) di Croce. Ved. C. Marco, Benedetto Croce filosofo della libertà, Lungro, 2003, pagg. 282 sgg. 542

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della fantasia filosofica. Questo elemento ipo-tetico rappresenta l’elemento mitico interno al discorso del Logos, che, a differenza del racconto cosmo-logico, si costituisce come narrazione dell’ente, di ciòche-è, evento onto-logico. Il fondamento originario (arché) di ciò che è e di ciò che non è presentemente in essere, rimosso a opera del Logos, diventa racconto, mito. Il racconto dell’Essere che viene da sé stesso alla coscienza di sé come totalità ab-soluta dal suo fondamento originario, rappresenta il viaggio filosofico del Soggetto che avendo rubato il fuoco agli dèi arcaici fonda il suo mondo ontico. La rimozione del fondamento consiste nella trascrizione della fede ontologica nell’In-finito Tutto, che è l’origine di ogni cosa e di ente e di ogni niente, in termini logici, di spiegazione razionale, di nesso causale, per mezzo di parole: il Mythos è il racconto umano che dice dell’Essere, facendolo accadere nell’orizzonte della parola. La realtà presente alla coscienza logica è il mondo rappresentato come onto-logico. La modalità propria alla coscienza ontologica è quella che rappresenta l’ente come prodotto assoluto del Logos, e dunque che l’Essere del Logos, l’ousia, sia esso stesso principio assoluto costitutivo essenziale dell’ente. L’Essere diventa assoluto attraverso la trans-posizione onto-logica del suo principio logico in luogo dell’arché mitico, operando una riduzione della originaria possibilità che l’Essere sia (ente) o non sia (niente) in necessità () universale che l’ente sia assolutamente (ossia per precetto etico) così come pensato logicamente, nella modalità rappresentativa del Logos (). Questa trans-posizione del principio logico in luogo del fondamento arcaico conserva di questo Intero l’unità con-prensiva del tutto, ma volta universalmente nella sola presenza dell’ente. Per cui, costituito l’Essere come principio assoluto, e cioè auto-generativo, prima o oltre di esso c’è il Nulla. In questo senso, Platone nel Sofista pone l’ente logico come originato dal Nulla. L’Essere stesso è logicamente appeso al Nulla, evocato a ogni sua determinazione (omnia determinatio est negatio). La rappresentazione del mondo nella modalità onto-logica del Logos è un mondo dominato dal pensiero dell’Essere, che vuole che l’ente sia anziché non universale. La volontà universale, la decisione etica, non ammette opposizioni che non siano posizioni negative, ossia non rientrino nel Nulla a cui l’Essere ha destinato il diverso, l’Altro, pensato come niente affinché l’ente sussista assolutamente, in maniera esclusiva. Il pensiero onto-logico è dunque un pensiero esclusivo, che esclude quel diverso che originariamente era con-presente nel Tutto come possibilità. 228


L’esito metafisico di tale esclusione è il dominio dell’astratta temporalità della Storia sul concreto eterno della pienezza escatologica, mentre la condizione esistenziale di tale esclusione è l’instabilità di ogni determinazione logica, destinata a mutare per l’irruzione del negativo rimosso. La contraddittorietà dell’Essere che, pensato come realtà assoluta e quindi totale, invece diviene, è la posizione dialettica del Logos che invoca nel discorso l’alterità solo per negarla e affermare con quella negazione la sua assolutezza, ossia la sua volontà etica. Questa per affermarsi storicamente ha bisogno di costituirsi come potenza mondana, come dominio politico, come economia della forza universale, totalitaria. L’esito della contraddizione di tale assolutezza del Logos è che tanto più l’istanza universale impone, ossia definisce, la sua volontà di potenza, tanto più l’Essere evoca il Nulla che ha originariamente rimosso, ossia quell’in-finito () proprio della Possibilità negata; da qui il nichilismo che accompagna il potere della scienza. La nozione dell’Essere è la definizione () della sostanza () degli enti, che pertanto è una essenza logica, ossia una “nozione” (),544 una rappresentazione dell’ente quale analogon dell’Essere. L’analogia mantiene la differenza platonica tra la forma ideale e la determinazione reale. Ma Aristotile, facendo della sostanza una definizione logica, ossia una essenza universale, non può ammettere la differenza platonica tra l’ente definito e la sua essenza, ossia non può ammettere la trascendenza delle Idee, che implicherebbe la loro inconoscibilità, laddove l’immanenza delle forme sostanziali entro la definizione logica, ossia l’identità di essere (logico) ed ente (empirico), ne garantisce la “scienza” ().545 La definizione dunque della realtà sostanziale nei termini della essenza logica, fa del metodo razionale di trasposizione dell’Essere in luogo del Tutto arcaico, e quindi della Necessità in luogo della Possibilità, la  del discorso dialettico, il quale dunque non è più dia-logo tra domandanti alla ricerca della comune verità, ma posizione tetica negatrice di ogni sua antitesi. In questo senso, la metafisica si costituisce come il destino dell’Essere inteso come conoscenza dell’ente, ossia come scienza del Logos pensato come Tutto. In questa analogia risiede il carattere mitico della rappresentazione razionalistica del mondo pensato come Essere universale, oltre il quale (non) vi è Nulla. La rimozione di questo Nulla, 544 545

Aristotile, Metafisica, 5, 1031 a, 11-14. Ivi, 1031 b, 6-7.

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che è l’Origine (arché) dell’Essere, è la violenza originaria della tecnica che pone l’ente anziché il niente. La posizione ontica si determina, teoreticamente, come concetto logico definitorio dell’Essere in termini di attualità presente, ossia come certezza scientifica, e praticamente come decisione etica esclusiva dell’Altro, ossia come nemico politico e concorrente economico. Si comprende dunque la necessità della scienza del Logos () di negare ogni valore teoretico alla theo-logia quale sapere di relazione tra l’esperienza noetica e ciò che la trascende. La lotta contro il mito religioso, quale luogo della discordia ( ) in cui coesistono come possibilità l’ente e il niente, ha questa scaturigine teoretica e questa motivazione razionale. E, tenuto conto di ciò, si comprende come la dottrina cristiana dell’amore ( ) si sia potuta presentare come “la verità che rende liberi” appunto dalla necessità stabilita dal Logos, quale logica del mondo, dominato da Cesare, dalla forza politica.

VII LA VIA PROFANA ALLA SALVEZZA

“Animum format et fabricat, vitam disponit, actiones regit, agenda et omittenda demonstrat, sedet ad gubernaculum et per ancipitia fluctuantium dirigit cursum [philosophia].” (Seneca, Ep., XVI, 3)

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“Se Aristotele è diventato parte inscindibile della rivelazione cristiana, se per i tomisti accettare la filosofia di Aristotele è una condizione necessaria per recepire correttamente la rivelazione, ciò significa che qualcosa di umano e di particolare è stato scambiato per ciò che è divino e universale.” (N. Berdjaev)

Nella prospettiva della decisione (Entscheidung) ontologica fondamentale, il limite (Grenze) della veridicità del conoscere coincide con la stessa soggettività quale fonte normativa assoluta. Alla decisione ontologica fa riscontro, sul piano socio-politico, la decisione giuridica, tesa a “creare la situazione nella quale possono avere efficacia le norme giuridiche”. La situazione giuridica è l’ordine normativo stesso. Infatti, “non esiste nessuna norma che sia applicabile al caos. Prima dev’essere stabilito l’ordine: solo allora ha senso l’ordinamento giuridico”. 546 L’ordine è inteso come una fattualità empirica, poiché “ogni diritto è applicabile a una situazione”. Ma la situazione è un dato che è “nello stesso tempo” pre-normativo e normativo. Ciò significa che la situazione e la sovranità sono strettamente correlate, anche se logicamente distinte. Non c’è decisione senza condizione di effettualità (possibilità), cioè senza una situazione che la consenta. La situazione che consente la possibilità della decisione è quella che consente la trasformazione della possibilità in necessità. La situazione specifica della decisione eccezionale sovrana è lo stato di necessità (sdn), il quale è “giuridico” nei termini della possibilità d’essere della decisione,ma non è giuridico in quanto tale. Ciò vuol dire che lo sdn crea la (possibilità della) decisione. Pertanto la decisione è indotta dalla necessità, non dalla sovranità, la quale ultima è lo strumento normativo della sua effettualità. Vi è da stabilire se lo strumento normativo sia necessario o eventuale. Secondo Schmitt, la condizione giuridica della sovranità è sine qua non. “Il sovrano crea e garantisce la situazione come un tutto nella sua integrità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza 546

G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (1995), Torino, 2005, pag. 20. Da ora HS.

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della sovranità statale”.547 Garantire vuol dire che il sovrano ne risponde, ma che egli “crei” la situazione di necessità, è palesemente un controsenso, poiché se fosse nelle sue condizioni di creare lo sdn, questo non sarebbe più necessario, ma disponibile da parte della volontà umana, cioè sarebbe una condizione artificiale. La coerenza normativa della giuridicità della decisione eccezionale risiede nella funzione simulativa dell’als ob della disponibilità sovrana del’Ordnung. La decisione eccezionale trova il suo senso logiconormativo, non già nella sua formalità, cioè nel suo schema previsionale, ma nella sua funzionalità, ossia nella sua efficacia. E poiché la funzione dell’eccezione è di ripristinare la normalità della condizione giuridica, ossia l’ordine normale di efficacia delle norme, ciò implica che lo sdn sia tale in quanto l’ordine è compromesso dall’insorgenza eventuale del caos. Contro l’evenienza del caos agisce la decisione. Ne consegue che lo sdn e il Caos stanno in stretta relazione situazionale, tale che necessaria è la situazione in cui il caos minaccia l’ordine normativo. Il caos è il nongiuridico, il niente rispetto all’Essere normativo, mentre lo sdn è al confine; ma poiché lo sdn è una condizione della decisione del sovrano, e dunque della sovranità, questa è al discrimine differenziale tra Caos e Ordine, pertanto il sovrano è “nello stesso tempo”un elemento del Caos e un elemento dell’Ordine, segnando giuridicamente la Differenza. La posizione ubiqua del sovrano fa del suo esercizio un atto creativo nel senso di Schmitt, cioè autoritario; l’essenza dell’autorità è “di non aver bisogno del diritto per creare diritto”.548 Il “non aver bisogno” del diritto costituisce la sua indipendenza dal giuridico, ossia dallo statale in quanto ordine normativo. Ma se il potere sovrano è il garante del “tutto” nella sua “integrità”, vuol dire che il tutto di cui egli è creatore, non è veramente il tutto, ma solo l’unità ordinamentale, cioè lo Stato di diritto. Se dunque esiste un potere esterno all’ordinamento dello Stato, quel potere non è originariamente statale, ma lo diviene nel suo esercizio storico. La sua esternità e meta-statualità conferiscono alla sovranità un carattere originariamente extra-giuridico che diviene giuridico. Questa sua di-venienza lo colloca ai confini dell’Ordine e del Caos, in quell’area della Differenza ontologica che è propria della Mediazione. Il sovrano è il mediatore, e il Mediatore per antonomasia è il Cristo. 547 548

G. Agamben, HS, pag. 20. Ivi, pag. 20.

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La decisione sovrana è istitutiva dello ius theticum, proprio in quanto lo trascende. E ciò che trascende l’essere-che-è, è l’origine dell’Essere, e dunque la sua legittimità ontologica. Solo perché la divinità è stata presupposta negativamente come ciò che sussiste al di fuori di ogni possibile predicato, essa può diventare soggetto di una predicazione. […] In modo analogo, solo perché la validità del diritto positivo è sospesa nello sdn, esso può definire il caso normale come l’ambito della propria validità.549

L’analogia si regge su un equivoco, sulla corrispondenza tra l’atto di conferimento di validità e la sospensione della validità: “l’eccezione è una specie dell’esclusione. Essa è un caso singolo, che è escluso dalla norma generale”.550 Il “caso singolare” è l’evento non previsto, il futuro misterioso, l’in-determinabile, e dunque il Negativo rispetto all’Ordine, quanto lo neghi e lo minacci. Non è il Caos , poiché questo consiste in rapporto all’Ordine e pertanto lo suppone. “Lo stato di eccezione non è, quindi, il caos che precede l’ordine, ma la situazione che risulta dalla sua sospensione”.551 La sospensione non riguarda solo l’Ordine, ma anche il Caos, ed è perciò nella “linea” della loro Differenza, ciò che li accomuna. Lo stato di eccezione è sia nel Caos che nell’Ordine, e pertanto non-è né Caos né Ordine, ma entrambi. Lo stato di eccezione “sospende” il giudizio dalla sua gravitazione ontologica nell’essere (come Ordine) e nel non-essere (come Caos), e dunque rappresenta il Tutto. Lo stato di eccezione manifesta l’in-possibilità dell’Ordnung a costituirsi come totalità autonoma, circoscritta alla sua normalità, cioè all’autosufficienza del suo orizzonte normativo, il quale ne dipende. Tale dipendenza stabilisce il suo grado di necessità. La “normalità” in senso normativo è stabilita sulla rimozione dell’eccezione, ossia l’ontologia griuridico-sociale è fondata sulla negazione strutturale, epistemologica, dell’arché originaria extragiuridica, il Caos, che corrisponde allo status naturae rispetto alla societas civilis, ossia all’ordine politico. La razionalizzazione del “mondo” (l’Ordine “come un tutto nella sua integrità”), è possibile per mezzo della rimozione ontologica delle origini, da cui dipende la sua 549

G. Agamben, HS, pag. 21. Ibidem. 551 Ivi, pag. 22. 550

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validità. Il diritto nega dialetticamente la “validità” per affermare la sua legittimità positiva, la sua legalità o efficacia. Omnia determinatio est negatio. Il carattere esclusivo del diritto positivo sospende la sua vigenza di fronte all’imponderabile eccezione ab-norme. In realtà, l’Ordine normativo non si sospende, ma è sospeso, dalla forza imponderabile del processo storico, del divenire, che misura la portata, ossia l’ambito, dell’Essere determinativo come se fosse il Tutto, ossia fosse una realtà immanente e perciò controllabile concettualmente ed esistenzialmente. La costituzione dell’Ordine come la realtà intrascendibile della legalità, mostra la sua falsa coscienza, la sua credenza ontologica, di fronte all’evento eccezionale,allo stato di eccezione, allorquando il Presente della legalità normativa perde la sua assolutezza e si apre al futuro rivelando il passato pre-istorico, l’archè fondativa della sua existentia. Nella sospensione, lo ius theticum si ferma sulla soglia della sua validità,nel luogo della Differenza e della con-fusione di Ordine e Caos: il luogo tragico del Mito La sospensione non è il dehors, il fuori, ma il confine, la soglia in cui si pone la Differenza. L’ordinamento minacciato dalla Necessità fa appello all’Origine della sua validazione, come il Cristo morente fa appello al Padre. In cosa consiste questo appello? Essenzialmente alla domanda di legittimità: “dimmi chi sono”, cui fa accenno l’invito del tempio di Apollo “conosci te stesso”, ossia conosci il tuo limite ri-conoscendola tua origine: conosci la tua misura, ossia l’orizzonte del Logos, la sua finitezza, i confini dell’Essere. Ri-conoscere il limite (pòros) è tornare alle origini, al fondamento (ontologicamente) veritativo e (giuridicamente) legittimativo. La “sospensione di validità” dello Ordinamento equivale alla domanda di legittimità, di cui la decisione è la risposta normativa positiva, il consolidamento del confine per un ritorno alla normalità. Il “senso” tocca i confini e torna a sé. Non può valicarli, altrimenti trascenderebbe lo ius theticum, ma li sfiora per ri-conoscerne l’origine della Potenza normativa, cioè della legittimità e sacralità. La “relazione di eccezione”552 è una relazione col sacro,mentre il “vigore” è la capacità di mantenersi al confine del Caos, “sulla linea”, dove si definisce “lo spazio stesso in cui l’ordine giuridico-politico può aver valore”.553 L’eccezione sovrana pertanto 552 553

G. Agamben, HS, pag. 22. Ivi, pag. 23.

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è, in questo senso, la localizzazione (Ortung) fondamentale, che non si limita a distinguere ciò che è dentro e ciò che è fuori, la situazione normale e il caos, ma traccia fra di essi una soglia (lo stato di eccezione) a partire dalla quale interno ed esterno entrano in quelle complesse relazioni topologiche che rendono possibile la validità dell’ordinamento.1 [Ibidem.]

L’illusione normativa consiste nella credenza che lo stato di eccezione sia una posizione giuridica, tale che sia l’Ordnung a delimitare l’Ortung, mentre è vero il contrario. Non è la sospensione che dà luogo all’eccezione, ma l’eccezione che dà luogo alla sospensione. Infatti non sarebbe eccezione, come già chiarito sopra, se fosse disponibile la sua affermazione/costituzione. Lo stato di eccezione non è un factum ma un eventum. È l’indisponibilità della situazione a creare lo stato di eccezione. Ciò implica che la decisione sovrana sia soltanto l’atto de-finitivo del processo sospensivo, quello del rientro nella normalità, ma esistono altri fattori precedenti la decisione, che evocano la natura non normativa ma sacrale della sovranità. Questa dunque rimane sulla soglia e non incide se non nei termini della fondamentale legittimazione del Potere, non intervenendo nel suo puntuale esercizio. In tal senso, la sovranità “governa” gli eventi ma non li de-termina. La sovranità è il governo dell’Ordnung, e il governo è atto regale, vocazione (Beruf) del Re. Il governo sovrano stabilisce i limiti del Potere, i termini della sua legittimità. Perciò il sovrano non può scaturire, ossia dipendere, dal normativo, ma ne è il fondamento di validità, il Nomos. Esso non è governabile dal Potere, che ne è a sua volta governato. La rimozione della sua dipendenza, che poi coincide con la rimozione ontologica della Necessità, provoca quella “dislocazione infinita” di cui parla Agamben, 554 che, nell’intento di de-finire l’eccezione come normalità normativamente pre-vista, nega il diritto, ossia la stessa normalità dell’Ordnung. Diritto è prevedibilità normativa. Si può pre-vedere il futuro impedendo ogni altra temporalità che non sia Presente, l’“è” della decisione normativa. Negare il futuro per un eterno Presente equivale a negare il Mystero dell’uomo, la sua libertà, che è concretezza. Da qui il carattere concentrazionario della “dislocazione” di un tempo universalizzato. E’ giusta l’analogia tra norma giuridica e Logos, cioè tra sfera del diritto e sfera del linguaggio,555 ma a condizione che il discorso esplicativo di 554 555

Ivi, pag. 24. Ibidem.

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senso includa anche la “misura” di cui è partecipe il Logos, ossia quel “non-giuridico” che resta oltre il confine normativo, e che Agamben attribuisce erroneamente alla “stato di natura” 556 anziché al Trascendente. E poiché la Necessità è appunto indicata come condizione naturale, anziché divina, è sorta la sfida razionalistica e prometeica del controllo scientifico-ideologico del mondo come Potere totalizzante, inclusivo dell’umanità e della Natura, tipicamente moderno. Questo è possibile in virtù della credenza ontologica che il modello normativo sia reale a priori, indipendentemente da ogni contenuto fenomenico. Come scrive Agamben, la validità di una norma giuridica [cioè di una fattispecie astratta, ideale] non coincide con lasua applicazione al caso singolo […]; al contrario, la norma, proprio in quanto è generale [rectius: universale, valevole erga omnes], deve valere [la supposizione deontologica è la fede giuridica che dà realtà al diritto positivo] indipendentemente dal caso singolo”.557

Ciò porta a credere che la sua validità e la sua vigenza siano in disponibilità del diritto, che ha una realtà in sé e per sé. Di conseguenza, basta rettificare la disposizione normativa per conseguire la stessa realtà, a prescindere da ogni legittimazione, la cui validità viene creduta assorbita dalla sua “generalità”, al pari di una Idea platonica o sostanza teologica. L’identificazione col linguaggio come elemento (soltanto) creativo fa del diritto una “espressione” del Nomos, ma ciò presuppone una genealogia che contrasta con l’assolutezza prescrittiva del diritto positivo, che appunto s’intende affermare con lo stato di eccezione positivizzato. Per smagare l’incanto ideologico del diritto occorre, come detto supra, pervenire al suo limite ontologico, alla sua dipendenza da un Altro-da-sé extra-giuridico di carattere morale: la Grundnorm di Kelsen extra-strutturale e in-finita, cioè trascendente. Ma se è trascendente, non può identificarsi con l’eccezione, la quale “è inclusa nel caso normale proprio perché non ne fa parte”. 558 E non ne fa parte perché potenziale, ossia come elemento contraddittorio rispetto alla supposta necessità della norma, perché rende solo eventuale la sua 556 557

G. Agamben, HS, pag. 25. Ivi, pag. 24.

558

G. Agamben, HS, pag. 27.

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vigenza, dipendente dalla circostanza o “situazione” confermata dal Potere, ma non dipendente dal diritto, non determinabile ad libitum, ma fino al limite della sua legittimità, che ne delimita l’ambito di vigenza, oltre il quale il diritto (la legalità) perde la sua ragion d’essere, legittimando la sovversione, la rivoluzione, la disobbedienza fino al regicidio. L’eccezione rompe l’isolamento dell’assolutezza del diritto e lo rende fattuale, positivo. la sua previsione rende così l’immanenza della mediazione elemento della decisione, ossia della realizzazione del diritto. Il diritto diventa vigente – ha realtà effettuale – se include la possibilità dell’eccezione, escludendola di norma, o applicandola nella necessità. “L’exceptio prende l’aspetto di una clausola condizionale negativa” 559 posta tra l’intentio e la condemnatio, che salvaguarda il caso di normalità dell’irruzione della necessità che incide sulla pretesa assolutezza normativa come presenza del rimosso, cioè del caso imponderabile, il “vivente” rimosso dalla sfera del diritto, entro la quale si determina giuridicamente la “strutturazione normale dei rapporti di vita”, 560 che sono le condizioni di vigenza efficace del diritto. Il carattere normativo del diritto risiede nn nell’ordine ma nella sua attitudine a “creare l’ambito della propria referenza nella vita reale, normalizzarla”.561 La “norma” (= squadra) definisce la situazione normale, cioè persistente nella astratta previsione della sua manifestazione empirica. il diritto è lo strumento tecnico del Logos teso a uni-formare i comportamenti potenzialmente diversi al loro modello razionale, tipologicamente prescritto come reale. La prescrizione di un modello ideale come reale e pubblicamente valido rispetto a quello privato concreto, costituisce appunto l’elemento fideistico del diritto, che consente di assumere la fattispecie normativamente prescritta come reale come “vera”, rispetto alla quale ogni altra difforme è “falsa”, non-valida e quindi sanzionabile. Il comportamento “normalizzato” è quello che esclude dal suo manifestarsi l’eccezione, cioè la validità giuridica del diverso, del comportamento eslege concreto. L’invalidazione del negativo, cioè della eccezione alla norma generale e astratta, si ottiene attraverso la pena, che è la violenza esercitata a buon fine, la quale, parificando l’infrazione originaria con quella della risposta punitiva, entrambe eccezionali rispetto alla condizione normale di pace, ne neutralizza il valore simbolico 559

Ivi, pag. 28. C. Schmitt, cit. da G. Agamben, HS, pag. 31. 561 Ibidem. 560

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eversivo dell’ordine costituito. Rapportando, attraverso la pena, il diverso (l’infrazione) al proprio (legale), ne elimina logicamente il carattere negativo, poiché due negazioni affermano, facendo coincidere fatto e diritto. Rispetto alla concreta situazione, in cui la ripetizione della violenza non la elimina ma la moltiplica, il modello giuridico astratto mostra tutta la sua incongruenza fattuale, la sua dimensione coercitiva, la cui realtà di violenza svela la natura mitologica del rispecchiamento sociale dell’armonia estetica tra bellezza e natura, dove al potere trasfigurante del genio poetico fa riscontro il potere demiurgico sovrano che concilia idea e realtà, ossia il Mondo, come totalità contestuale dell’autocomprensione dell’esserci umano, e la Terra, come determinazione dell’essere dell’opera d’arte, che Schmitt trasferisce nel locus giuridico del normativo. Il luogo giuridico della coincidenza è la sovranità,562 che include escludendo l’exceptio. Ma tale potere di inclusione, in virtù della credenza che l’Ordnung sia l’orizzonte totale, e dunque della realtà unicamente vera, ha una portata totalitaria che tende a includere, e perciò a sostituire, il physis nel Nomos, ossia il divenire molteplice e particolare nell’unità ipostatica del modello normativo, secondo la modalità ontologica propria della tecnica omologante razionalistica. Il giudizio analogo del diritto è di espellere il non-legale come comportamento naturale, e dunque di de-finire l’ambito naturalistico come quello pre-giuridico e abnorme. Il risvolto positivo dell’alterità del non-giuridico è l’atteggiamento naturale, cioè non razionalizzato e non portato a sistema e normalizzato. Da qui l’identificazione del mondo-della-vita col pre-mondo giuridico della natura, che diventa la condizione di esistenza di ciò che pre-viene la struttura razionalizzata del vivere civile normale. Schmitt ritiene che se “la legge (Gesetz) è medialità rigorosa, il nomos in senso originario è, invece, la pura immediatezza di una forza giuridica non mediata dalla legge; esso è un evento storico costituente, un atto della legittimità, la quale soltanto rende in generale sensata la legalità della nuova legge”.563 La dicotomia, che si riflette nella distinzione fra potere costituente e potere costituito, ha un suo senso intellettualistico nell’approccio esplicativo e didascalico della relazione tra Potere e Governo dello Stato,tale che i due elementi sembrino irrelati o giustapposti, mentre 562 563

G. Agamben, HS, pag. 32. C. Schmitt, Das Nomos von der Erde (1974), tr. it., Milano, 1991, pag. 63.

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invece sono sempre con-presenti all’atto dell’esercizio politico della forza. Ciò che sottolineava Benjamin a proposito della “presenza latente della violenza in un istituto giuridico” 564 era appunto la attitudine di ogni forza legale a fruire del potere naturale della violenza ai suoi fini istituzionali. Per quanto le mediazioni procedurali abbiano teso a neutralizzare l’evento violento, e originariamente cruento, implicato – o minacciato – dalla sanzione per inottemperanza o violazione dell’ordine normativo, tale evento restava in ogni caso sospeso come ultima ratio, che costituiva la conseguenza logica di quanto aveva provocato la sospensione punitiva del procedimento ordinario, per il quale la volontà conforme alla legge fosse considerata lecita e libera e garantita dal Potere. questa infrazione dell’ordine normativo aveva come sanzione l’incursione della violenza extra-sistemica (o naturale) entro il sistema a scopo correttivo e ripristinatorio dello status quo ante Il ripristino di cosa? Della differenza fra ordine legale o statuale, e violenza extra-legale o naturale. La violenza legalizzata, rispetto a quella naturale, è regolamentata e circoscritta, ma non è questa condizione corretta a fare la differenza essenziale, che risiede invece nella diversa natura ontologica dei due piani dell’essere sociale: il piano dei valori (normativo) e il piano dell’esercizio (potestativo) della forza legale. Se il piano valoriale viene identificato, con Sieyès, con la volontà della nazione, ossia con un ente pre-politico ma reale in senso empirico, rispecchiante il senso ideale, allora esso diventa immanente e omogeneo al piano potestativo, e tale che possa in determinati momenti storici tornare a confondersi per la formazione di un nuovo Nomos. Quello che restava separato in età classica, viene confuso in età cristiana con la teologia dell’imperium sacralizzato del , che unifica nella stessa figura sovrana l’auctoritas carismatica e la potestas politica, subentrando a Noè, Abramo, Mosè e David nel patto con col Dio tutore () della teologia eusebiana.565 La separazione normativa tra valori e potere era nella società antica dovuta al carattere trascendente dei primi, rispetto ai quali la disposizione razionale delle leges era subordinata. Soltanto con la razionalizzazione della politeia come esercizio del Logos viene a perdersi la “misura”, ossia la coscienza della Differenza ontologica, a scapito del Nomos divino e a favore della assolutezza della legislazione umana. La libertà dell’uomo 564

W. Benjamin, Critica della violenza, cit. da G. Agamben, HS, pag. 47. G. Bonamente, La “svolta costantiniana”, in E. dal Covolo e R. Uglione (a cura), Chiesa e impero da Augusto a Giustiniano, Roma, 2001, pagg. 149 e passim. 565

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pubblico era sociologicamente riferibile alla condizione servile degli idioti, ma metafisicamente si rapportava alla emancipazione dai precetti normativi tradizionali della fede religiosa, indisponibili alla volontà umana. La conclusione razionale prese il posto del responso divinatorio, e con gli dèi furono congedati anche i nomoi, sostituiti dalla legislazione costituzionale. Il passaggio da Platone a Sieyès è lo stesso che tra l’Idea astratta e il fenomeno concreto che la riflette politicamente. E’ chiaro che, diventata nazione, la Giustizia costituente portò con sé la violenza concreta della forza naturale, non più legata alla fede divina ma alla paura istintiva del più debole. Nella prospettiva moderna, lo Stato si fa mediatore tra la violenza e la legalità. Questa protegge il cittadino aggregandolo all’unità statuale del Potere, mentre la sanzione alla trasgressione civile (del civis) comporta la rescissione del vincolo identitario e con esso della protezione accordata dallo Stato all’ubbidiente. Svincolato dalla protezione, il cittadino torna a essere uno contro il Tutto organizzato a Stato e quindi in una condizione di necessità ben peggiore di quella naturale, dive il singolo debole trova soltanto altri più forti, accanto ad altri più deboli di lui. Violata la legge, non esistono più deboli di lui, avendo di fronte solo la forza preponderante dello Stato. È in questa condizione di eccezione che viene in evidenza l’organizzazione dello Stato come necessità razionalizzata in un Tutto organico che si contrappone al fuoriuscito civile, al colpevole, cittadino estraniato dalla città ideale. In questa frattura abbiamo il paradigma rovesciato del potere costituente quale forza preponderante che si organizza in Potere razionalmente duraturo. L’eccezione costitutiva diventa struttura di Potere. L’assise virtuale dei molti forma l’unità formale dello Stato; in seguito l’unità del poter statuale decide contro i singoli costituenti. Su questa rifrazione di tutti in Uno e viceversa, si basa la legittimità democratica della tautologia del Potere contro se stesso. L’autoreferenzialità del Potere moderno è agli antipodi della sovranità fondata sulla concezione della Differenza, sostituita dalla teoria della rappresentanza, il cui difetto metafisico è la sua costituzione come atto (energheia) assoluto, che assorbe in sé definitivamente la potenza (dynamis) dei rappresentanti. Tra i due estremi funzionali della rappresentanza non sussiste più la concreta polarità originaria, ma solo la distinzione astratta. Infatti, una volta espressa, la rappresentanza diventa (sia pure temporaneamente) irreversibile. Ciò comporta che o è costituente o è costituita: o potenziale o attuale. Ciò è possibile solo 240


attraverso la fictio juris dell’omologia dei due enti politici, che in realtà nasconde una metabasis eis allo genos: la trasformazione dei tanti deboli in pochi forti. Questa trasformazione giuridica è legata sofisticamente alla asserita “identità” (e non concreta differenza) tra servi e padroni, tra sudditi e sovrano, che eliminando le condizioni di una dialettica delle differenze, rende tautologico lo stesso Potere, che verrebbe in teoria esercitato dai molti su se stessi sotto forma di Uno. La domanda ineludibile è: perché i singoli, in grado di gestire il Tutto, non potrebbero autogestirsi, rendendo inutile il Potere? L’unica risposta razionale è che l’unità dei singoli sia qualitativamente diversa dalla sommatoria dei singoli, per cui all’impossibilità dei singoli di far fronte alle incombenze della vita, si trova rimedio unendo le singole impossibilità per trasformarle in possibilità comune. Il trapasso dalla quantità alla qualità, e dunque dai sudditi al sovrano, non è una operazione magica, ma è il frutto di una mediazione offerta dal diritto, che nell’omologare politicamente i rappresentanti al rappresentati allo stesso tempo li distingue per funzioni. Ciò implica che tra i due estremi della quantità e della qualità esiste una zona mediana in cui sorge la Differenza, che il diritto occulta rimuovendola. In questa opera di rimozione e di occultamento della Differenza consiste la insuperabile violenza del diritto, che si esercita affermando l’immanenza del Potere legale, contro ogni ipotesi di trascendenza. Lo scopo del diritto è pertanto quello di mantenere nell’immanenza ontica gli enti logicamente omologati all’unità ideale, trasformando imperativamente il logico in ontologico. Solo a questa forzosa condizione può essere negata la Differenza, poiché l’immanenza è la condizione di validità della legislazione razionale, che stabilisce come normativa la volontà (decisione) sovrana di affermare l’unità del Potere e di negare la Differenza che lo limiterebbe. Il risvolto di tale decisione sovrana, che mantiene in essere una condizione eccezionale come fosse permanente, è di rimuovere dal Potere il Governo, che lo legittima nel suo stato ma che lo limita affermando, col proprio stato, la Differenza. L’assolutezza del Potere, emancipato dalla condizione originaria di dipendenza dall’archè costituente, extra- e meta-giuridica, nell’atto di diventare universale produce la sua astrazione positiva dal negativo, e perciò stesso è soggetto alla conversione dialettica nel suo opposto, che è la guerra rispetto alla pacificazione politica, e all’eccezione rispetto alla 241


normazione giuridica. Allorquando l’extra viene assimilato all’intra, il Potere diventa un Tutto organico teso ad assimilare ogni alterità a se stesso, ma in questo agere totalitario esso consuma ogni sua potenza, sicché il Potere reso assoluto dal Governo che lo limita, è un atto di forza in-potente, di pura violenza. L’individuazione pertanto di un “primato” della potenza ovvero dell’atto è qui palesemente assurda. Infatti, se “la sovranità è sempre duplice, perché l’essere si autosospende mantenendosi, come potenza, […] per realizzarsi poi come atto assoluto (che non presuppone, cioè, altro che la propria potenza)”, 566 è chiaro che la sovranità non coincida con il Potere, che è sempre attuale, come si è visto. Perciò non è corretto definire quello sovrano un “potere”, poiché in realtà sovrano è solo il Governo. Ciò che si indica genericamente come “secolarizzazione”, ciò che investe il Potere è la progressiva e sistematica perdita di governamentalità, ossia di legittimazione / controllo della funzione potestativa da parte di una auctoritas meta-politica, ispirata a valori trascendenti, la cui vigenza è indipendente da quella giuridica, perché di natura trascendente, ossia originaria, tale cioè che il suo valore assiologico non dipende dal pactum societatis ma è intrinseco alla coscienza comune; non perché politico, ma perché proprio di ognuno. La singolarità indipendete dal Potere è il segno della trascendenza del valore. Quando il Potere dichiara l’estraneità del singolo all’orizzonte dei valori comuni, lo rimuove dal consorzio comunitario non solo politico, ma anche dalla sfera dei valori etici, che nell’orizzonte immanentistico vengono identificati con quelli trascendenti, che per la cultura cristiana sono invece indisponibili dal Potere. La relazione di eccezione è una relazione di bando. Colui che è stato messo al bando non è, infatti, semplicemente posto al di fuori della legge e indifferente a questa, ma è abbandonato da essa, cioè esposto e rischiato nella soglia in cui vita e diritto, esterno e interno si confondono. Di lui non è letteralmente possibile dire se sia fuori o dentro l’ordinamento […]. È in questo senso che il paradosso della sovranità può assumere la forma: “non c’è un fuori della legge”. Il rapporto originario della legge con la vita non è la applicazione,ma l’Abbandono. La potenza insuperabile del nomos, la sua originaria “forza di legge”, è che esso tiene la vita nel suo bando

566

G. Agamben, HS, pag. 54.

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abbandonandola.567 […] Chiamiamo relazione di eccezione questa forma estrema della relazione che include qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione […]. Non è l’eccezione che si sottrae alla regola, ma la regola che, sospendendosi, dà luogo alla eccezione e soltanto i questo modo si costituisce come regola, mantenendosi in relazione con quella. Il particolare “vigore” della legge consiste in questa capacità di mantenersi in relazione con un’esteriorità.568

Il carattere puramente formale della legge fonda la sua pretesa universale di applicazione, come era chiaro a Kant, alla condizione che “la potenza vuota della legge vige a tal punto da diventare indiscernibile dalla vita”. 569 Ciò vuol dire nient’altro che la condizione di vigenza assoluta della legge potestativa sia la riduzione dell’esistenza umana a vita biologica, attraverso la rimozione di principio della concreta singolarità di ogni destinatario della norma, ridotto a ente giuridico, cioè a puro ente di ragione. La qualifica dell’ente giuridico in termini di realtà biologica presuppone la matrice ontologica naturalistica, rispetto alla quale ogni ente di ragione appartiene all’Essere. Chiamare questo come Dio, non ne cambia l’essenza naturalistica. La “vita” si suppone sia una condizione di esistenza pura del Dasein, anziché distinta dalla sua concretezza. Il contadino di Kafka non è l’animale sociale privato del suo logos, ma il suddito bandito, solo di fronte al Potere. Ma la sua solitudine non è originaria, ma prodotta dal sistema giuridico, che rimuove dai singoli ogni possibilità di determinarsi secondo coscienza anziché secondo legge. La rimozione di tale possibilità coincide con la rimozione dell’archè nomica, pre-giuridica. La conditio sine qua non della effettualità del Potere assoluto è l’astratta configurazione del destinatario concreto del diritto esclusivamente come astratto oggetto normativo. Nella trasfigurazione dal concreto all’astratto si compendia l’opera di normalizzazione giuridica della comunità politica. La sussistenza alla “soglia” del soggetto bandito dal Potere, è una condizione giuridica nel senso che è creata dal diritto, che non ammette altro valore assiologico di quello formale della legge, con la quale esprime la sua volontà; ma che nel contempo è extra-giuridica, in quanto lo status legale non corrisponde alla condizione antropica originaria, antecedente la rimozione del soggetto storico dalla socialità di 567

G. Agamben, HS, pagg. 34-35. Ivi, pag. 22. 569 Ivi, pag. 61. 568

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appartenenza, dalla sua comunità di valori, che nella configurazione razionalistica aristotelica era l’oiks, ma che in realtà era cultu(r)ale. L’estraneamento politico del bandito rappresenta la forma giuridica dell’alienazione culturale operata dal diritto per affermare la sua autonomia ontologica dalla socialità originaria di tipo mitico-sacrale. La “vigenza senza significato”, di cui parlava Benjamin, 570 indica la struttura vuota della forma normativa “effettiva” (wirklich) che può inerire anche allo stato di eccezione, che Agamben attribuisce (erroneamente) alla “nuda vita”, che in realtà è uno stato di eccezione esistenziale procurato dal sistema di potere contestuale. Infatti il bando costituisce una pena afflittiva non-corporale ma esistenziale perché recide le radici socio-culturali del reo, rendendo la sua esistenza astratta dal suo contesto identitario.571 Nello stato di eccezione effettivo, alla legge che s’indetermina in vita fa riscontro, invece, una vita che, con un gesto simmetrico ma inverso, si trasforma integralmente in legge […]. Solo a questo punto i due termini, che la relazione di bando distingueva e manteneva uniti (la nuda vita e la forma di legge), si aboliscono a vicenda ed entrano in una nuova dimensione.572

Quale? Della conciliazione tra norma e comportamento, senza la mediazione della legge, cioè della forma astratta razionale valida erga omnes, e non solo per il singolo destinatario. Scrive infatti Agamben, “il compimento della legge non è una nuova legge” ma appunto una norma interiore, morale. Da qui l’evocazione del messia: “il messianismo non è, nel monoteismo, semplicemente una categoria fra le altre dell’esperienza religiosa, ma costituisce il suo concetto-limite, il punto in cui essa supera e mette in questione se stessa in quanto legge”. 573 La vigenza senza significato è la forza che si esercita come violenza, ossia come pura necessità priva di ragione o telos razionale, che appartiene solo alla teleologia personale, alla dimensione della salvezza. “Dal punto di vista 570

Cit. da G. Agamben, HS, pag. 63. Ogni eversione dalle tipologie legali rappresenta una renitenza all’omologazione alle forme astratte di socialità giuridicizzate dal Potere, il cui valore universale non è limitato neanche dalla loro ignoranza da parte dei soggetti passivi, i quali in realtà sono i destinatari delle norme che formalmente sono indirizzate al sistema repressivo e giudiziario. 572 G. Agamben, HS, pag. 64. 573 Ivi, pag. 65. 571

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politico-giuridico, il messianismo è, dunque, una teoria dello stato di eccezione; solo che a proclamarlo non è l’autorità vigente, ma il Messia che ne sovverte il potere”.574 Ciò che è “trasgressione” rispetto alla legge, è trascendenza in senso soteriologico. Infatti non basta Semplicemente riconoscere la forma estrema e insuperabile della legge come vigenza senza significato [ripetendo] la struttura ontologica della sovranità [ma] solo se si riesce a pensare l’essere dell’abbandono al di là di ogni idea di legge (sia pure nella forma vuota di una vigenza senza significato), si potrà dire di essere usciti dal paradosso della sovranità verso una politica sciolta da ogni bando. […]. È la relazione di abbandono che va ora pensata in modo nuovo. [Cioè abbandonando l’idea di “relazione”] Occorre, per questo, tenersi aperti all’idea che la relazione di abbandono non sia una relazione […]. Ma ciò implica nulla di meno che provare a pensare il factum politicosociale non più nella forma di un rapporto.575

La dialettica “fra violenza che pone e violenza che conserva il diritto”, secondo Benjamin “dura fino al momento in cui nuove forze, o quelle prima oppresse, prendono il sopravvento sulla violenza che finora aveva posto il diritto, e fondano così un nuovo diritto destinato a una nuova decadenza”,576 ossia si determina una relazione gerarchica tra esecutori del diritto e soggetti alla sua forza che dipende da fattori di forza contingenti perfettamente reversibili, e dunque neutrali rispetto ai fini dei detentori. Neutralità equivale a disponibilità, ossia a possibilità, e dunque ad astrattezza assiologica e formale. La sua indeterminatezza fa della violenza una funzione strumentale, rispetto al cui esercizio ogni legittimazione rientra tra le “forze etiche del diritto”, le quali possono interrompere il “ciclo” della violenza introducendo diversi fondamenti normativi giustificativi del suo nuovo corso. Siamo nell’ambito della dinamica nichilistica nietzscheiana. Con la sostanziale differenza che questo ambito può trascendersi in Benjamin grazie all’intervento risolutore di una “forza” terza superna, la cui sovranità stabilisce la differenza tra legale e legittimo, che nessun contendente in campo può determinare senza esporsi alla sua parzialità. L’atto sovrano infatti trascende le parti della polarità dialettica e “non si lascia integralmente 574

Ivi, pag. 67. Ivi, pagg. 68-70. 576 Ivi, pag. 72. 575

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ridurre a nessuna delle sue forme di violenza”, 577 sicché non vi è “ambiguità” nella sua collocazione rispetto alle parti, né “confusione” tra “legge e natura, esterno e interno, violenza e diritto”, poiché la sovranità si colloca prima di ogni distinzione, in quella totalità da cui si sviluppa temporalmente ogni possibilità fattiva, determinativa di senso (nell’accezione di significato e di direzione). Lo stato di eccezione è la condizione in cui si realizza l’apertura originaria verso la possibilità..”Il sovrano è precisamente colui che mantiene la possibilità”, e la sua “decisione appare come il medio in cui si attua il passaggio dall’una all’altra [possibilità]”. Ma tale mediazione, in quanto stabilisce la Differenza, non è esposta alla determinazione del senso della violenza; non perché mantenga una sua “indifferenza” tra violenza e diritto, ma in quanto le include come possibilità entrambe disponibili alla determinazione fattuale di senso. La sovranità non è indifferente ai valori, ma, come la libertà morale, li espone alla responsabilità della scelta storica del loro presenziarsi come forze determinate e opposte al loro opposto. In tal senso la posizione sovrana è “violenza creatrice di diritto”578 che assume la forma del Potere. Ora, questo Potere, che è “portatore del nesso fra violenza e diritto”, non può essere la “nuda vita” (bloss Leben),579 poiché la determinazione del Potere è già interna all’orizzonte giuridico del politico, fuori del quale la violenza non sarebbe diritto, cioè forza riconosciuta come legittima. L’obiezione dei Meli ai Greci vincitori tende appunto a delegittimare la forza degli invasori, senza potere con ciò negarne la possibilità dell’esercizio violento. La legittimazione sposta i termini della questione dal piano effettuale a quello morale, nel tentativo di stabilire una possibilità di considerazione della forza più originaria del suo contingente esercizio, sia pure ripetuto nel tempo e divenuto costume etico quale giustizia del vincitore. Questo appello arcaico non può coincidere con “la vita”, poiché l’affermazione naturalistica è appunto quella della violenza del (più) forte. L’appello a ciò che sta “prima” (arché) allude a ciò che sta sopra le ragioni delle parti, e perciò le comprende; un luogo ove le scelte diversamente orientate della forza sono possibili. In tal senso, la condizione “naturale” non è mai “innocente” dalla colpa di essere “debole”, essendo questa la condizione comune di tutti i viventi, ma può 577

Ivi, pag. 73. Ivi, pag. 74. 579 Ivi, pag. 75. 578

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essere “infelice” sotto la necessità, non essendo datogli la possibilità di essere altrimenti. Soltanto l’uomo si emancipa da questa condizione naturale per stabilire un orizzonte esistenziale protetto dalla Necessità naturale, e all’interno del quale si possa determinare la differenza tra la condizione di innocenza e quella di colpevolezza, applicando criteri non naturalistici e vincolati alla necessità della violenza, ma assiologici e di giustizia. Il rapporto umano tra diritto e violenza naturale acquista il suo significato assiologico all’interno dell’orizzonte di socialità politico, in cui la distinzione razionale viene normata perché non sia arbitraria. Tutto il processo della razionalizzazione della civiltà politica ha teso a stabilire le forme stabili di questa distinzione, nel tentativo di sottrarre la decisione all’arbitrio del Potere. Ma la astratta determinazione legale della distinzione razionale, sottraendo il giudizio dal caso concreto e ascrivendolo alla fattispecie generale, elimina da esso il carattere sovrano della decisione, rappresentandola come un atto dovuto ritualmente esigibile. Ciò ha comportato, con l’impersonalità della decisione, anche la destoricizzazione dell’evento sub judice, tale che sia la violenza del reato che quella della pena assumano un valore puramente rappresentativo, simile a quello degli attori tragici, le cui maschere coprono la particolarità dell’evento narrativo con l’impersonalità del dolore, divenuto in tal modo sentimento generale, ispiratore di una comune catarsi. Ora si comprenderà meglio quale sia la funzione del Governo rispetto a quella del Potere, riferendoci alla differenza tra la sanzione impersonale di una legislazione astratta, e la comminazione ad personam di un giudizio giusto. La giustizia del diritto razionale è nella univoca determinazione della pena nel caso previsto; il giudizio riferito al caso concreto, si rivolge al soggetto personale, anziché all’ente di ragione, e perciò richiede una decisine circostanziata non pre-vedibile, al pari della condotta storica del reo. Occorre insomma una ermeneutica del giudizio che consideri l’inprevedibilità dell’agire umano in quanto dotato di una libera intenzionalità che precede e trascende ogni manifestazione della volontà. Se il Potere (potestas) può influire coercitivamente sulla volontà dell’uomo, sulla intentio può influire soltanto una fonte considerata autorevole (auctoritas), in grado di indirizzare la volontà nel senso auspicato.

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La differenza tra le due disposizioni della coscienza, la intentio e la voluntas, risiede nella circostanza che la violenza può essere effettivamente esercitata soltanto sulla volontà, la cui manifestazione è oggettiva, ma il sistema coercitivo predisposto dal Potere non potrà mai esercitare una influenza pre-vedibile sulla intenzione, che potrà quindi solo essere ignorata per convenzione giuridica. Questa circostanza non è irrilevante ai fini di una antropologia politica, in quanto priva il Potere di quella assoluta pervasività che il carattere totalitario del suo moderno esercizio presuppone ai fini della compiutezza sistematica del diritto quale suo dispositivo razionale di coercizione. Da ciò consegue che il potere legislativo non copre ogni esperienza esistenziale dell’uomo, ma va integrato, ai fini del controllo sociale, da una autorità normativa trascendente la potestas e immune quindi dalla violenza, attiva e passiva. Una fonte inviolabile del genere è quella in cui va rintracciata l’autentica fonte sovrana, la quale non ha niente di naturale e perciò non commisurabile a meccanismi fisiologici derivati dai processi antropici di adattamento all’ambiente biologico. Nello stato di eccezione viene in evidenza l’irriducibilità dell’esistenza umana alle traiettorie di forza naturali ed è perciò quello in cui la forza del Potere viene sollevato dalla sua potestà giuridica e consegnata alla possibilità originaria di un’altra destinazione. L’eccezione (ex coepere: da dove comincia il diritto, l’Ortung giuridico della polis) riporta la forza del diritto alla sua origine, alla fonte della sua legittimazione, sottraendogli il potere della violenza, che vige invece incontrastato nella Physis. La “sacertà della vita” è la vita sottratta alla violenza necessaria della Natura, alla giustizia incolpevole della forza fine a se stessa, ossia alla sua conservazione. Il passaggio dalla zoè al bios, cioè dalla vita economica all’esistenza politica, serve a qualificare l’ambito della differenza tra violenza e forza giuridica, ma non a derimere la vertenze dialettiche interne all’orizzonte politico-giuridico. La zoè divenuta bios si qualifica nella varietà delle sue molteplici determinazioni, anche mutuamente conflittive, e la cui unità non è risolutiva, ma può condurre solo a una tregua, a una sospensione del conflitto. Può eludere il conflitto, ma non risolverlo. Da qui il carattere infinitamente bellico del rapporto politico, esposto in ogni momento alla fine della tregua. Per trascendere tale orizzonte belluino occorreva morire, separando la vittima “dal mondo dei

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viventi, [attraversando col rito sacrificale] la soglia che separa i due universi”,580 quello naturale da quello politico. Ciò che temono i mortali logos echontes è il disordine che minaccia alle frontiere dell’ordinamento razionale, provocato dagli dèi, che si auspica restino lontani dalla città o benigni entro di essa. Tra loro infatti regna la confusione degli opposti e l’equivalenza delle possibilità, la cui qualità il Logos distingue separando i valori dai disvalori. La lotta del filosofo contro la religione è dovuta alla paura della contaminazione dell’intelletto con Eros che tutto sconvolge, facendo saltare il metron. La paura del politico è l’intrusione del disordine nell’ordine giuridico costituito, la minaccia incombente sulla giustificazione razionale del Potere, sul senso stesso della sua sussistenza. Ciò presuppone che l’Ordine sia un valore, che la coerenza del pensiero sia benefica e che solo l’uomo possieda la capacità di discernimento rispetto ai mali del disordine. Gli uomini in preda a Eros in veste di mediatore (metaxy) tra dèi e uomini, non sono in potere di sé, garantito dal Logos, il cui principio di non-contraddizione garantisce l’ordine de-finendo il significato delle cose e dei comportamenti, limitandoli nella loro rispettiva misura e rendendoli perciò pre-vedibili. Eros, schiudendo alla volontà la possibilità, dispone il predominio dell’intenzione nella azione, rendendone ambigua la volontà, incerta l’interpretazione, portando l’uomo a diffidare dell’altro uomo, temendo i mortali il mistero. Custodendo l’uomo il mistero in interiore, quale intima insondabile intenzione, ciò che rassicurava i mortali nelle relazioni, economizzando le energie ermeneutiche, era il rifarsi comune al visibile, affidando al senso della vista la priorità nella determinazione di ciò che era incontrovertibile, che qualcosa ci fosse anziché non. Il senso della realtà era dunque la vista, la quale destinava all’in-reale tutto ciò che non appariva visibile. Questo realismo ontologico viene conservato anche quando la molteplicità dei punti di vista pose l’esigenza di eleggere una visione a modello ideale di ogni visione particolare. La metafisica greca non riusciva a trascendere la realtà sensibile, non potendo darsi ragione di alcuna dimensione che non fosse finita, cioè de-finita entro lo spazio cognitivo della visibilità. La visione era appunto l’orizzonte di realtà accertabile entro il quale aveva senso la domanda dell’essere ’, a dimensione d’uomo. 580

G. Agamben, HS, pag. 76.

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Questa misura antropometrica implicava la Trennung dalla dimensione divina e in genere dal sacro, la cui in-certezza impediva la pre-vedibilità indispensabile alla determinazione del senso comune. L’ordine giuridico stabilisce i confini , il limite, tra ciò che è reale a tutti e ciò che ne è estraneo, che sta fuori, che rappresenta il dis-ordine. La legge è anzitutto la garante contro l’angoscia del disordine dell’a-topia, e del caos legato all’in-prevedibilità dei comportamenti umani, che si chiama a-nomìa. L’anomia e l’atopia sono i due termini correlativi all’ordine stabilito () e alla legalità (). Il Potere, per la sua forza legale, provoca la paura della violenza utile a evitare l’irruzione del Caos. La violenza della legge, che gli uomini temono, è perciò benefica, in quanto utile a mantenere ai confini del topos normativo, del luogo politico, cioè della polis, il disordine angoscioso della imprevedibilità. Il beneficio della violenza legale è nel suo fine, che non è visibile al pari dei fenomeni violenti, ma che il diritto rende riconoscibile attraverso la ritualità, che diventa il contrassegno oggettivo di ciò che distingue il conforme legale dal difforme illegale. Come nei riti magici e religiosi, anche nell’ambito del diritto la prescritta modalità dell’agire rende il gesto conforme al bene, a un valore condiviso. La ragione, d’altro canto, consente una struttura d’ordine formale, basata sulla differenza. Non una differenza empirica, opinabile per luogo e tempo, ma universale, valevole normativamente erga omnes. L’ambizione della norma razionale è di stabilire la differenza che elimini le differenze. La differenza ideale contro le differenze empiriche; il filosofo contro i costumi sociali tradizionali. Questa istanza è tipica del processo di razionalizzazione della civiltà occidentale, fondata sulla determinazione degli opposti in cui consiste la legalità, stabilita sull’identità socio-politica dei ruoli e delle funzioni. Senza discriminazione razionale dei ruoli non c’è ordine politico, e non si può stabilire chi comandi e chi ubbidisca, poiché la stessa obbedienza deriva dal buon ascolto (ob-aedire) dell’ordine razionale. Il principio razionale di identità stabilisce chi comanda e dà ordini e di invece obbedisce e li esegue, in battaglia come in città. Senza ragione, non c’è ordine; e senza ordine non c’è differenza tra bene e male, tra buono e cattivo, tra vittoria e sconfitta, tra Eros e Logos, tra uomo e fiera. Ma tale istanza razionalizzatrice è attraversata da una intestina contraddizione, per cui il fine condendo (l’eliminazione delle doxai particolari) deve negare le certezze comuni che rendono solidali il 250


mondo-della-vita, senza le quali non ci sarebbe alcuna comunità socioculturale. Perciò, garantire la pace attraverso l’uso della violenza diventa una esigenza che contrappone inevitabilmente l’idealtipo normativo con la concreta persona destinataria della norma suppostamente benefica, ripristinando in ambito civile quella situazione tragica che si riteneva propria del’ambito mitico-religioso. La contraddizione insita nell’istanza universalistica della ragione è di voler abolire le differenze assumendole come contraddizioni, ossia di eliminare le differenze specifiche, riconoscibili, per affermare le astratte differenze generali, invisibili. Abolendo lo spazio del divino dal luogo pubblico, ossia le contraddizioni contrarie alla Ragione, si nega la concreta esistenza umana, caratterizzata dalla possibilità di preferire Eros a Logos, sostituendola con una artificiale necessità, giustificata dal suo fine benefico, che resta però un atto di fede indimostrabile. Infatti, se il Logos occupasse tutti gli spazi riservati per esclusione ad Eros, anziché tenerlo semplicemente a bada ai confini della città politica, negherebbe la stessa differenza tra le due forze, e dove non ci fosse differenza da Eros, non ci sarebbe neppure l’identità del Logos. L’istanza universalistica, che unifica il molteplice astraendo la particolarità, se riflessa nel mondodella-vita quale preteso ordine normativo, produce la realtà opposta a quella ipotizzata dal suo originario proponimento, sicché l’Ordine estremo, totalizzante, abolendo la libertà responsabile, cioè la possibilità di infrangerlo, abolirebbe la stessa obbedienza, facendo insorgere il disordine, aprendo così le porte della città al temuto Caos. La sfida mossa agli dèi non può giungere fino alla follia di volerne prendere il posto. La vendetta divina è la stessa possibilità accordata agli uomini di autodeterminarsi. Senza mantenere il senso del limite, si perde la libertà, cioè la possibilità di distinguere la Differenza, e dunque lo stesso Logos, quale capacità di porre misura alle cose (). La differenza principale tra gli uomini è la distinzione dei generi, che consente la gerarchia dei ruoli familiari e la stessa procreazione. Ma questa differenza è assegnata al Logos, non all’Eros, che per Platone è figlio degli opposti Poros e Penia. Eros è per l’appunto confusione degli opposti, sicché il dominio assoluto del Logos comporterebbe l’ostracismo di Eros, e quindi la fine della società umana e della sua cultura, che distingue l’esistenza dell’uomo dall’istinto routinario degli esseri di natura, sprovvisti di mondo e quindi di rappresentazioni simboliche..

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Se la vita umana fosse legata solo alla mancanza (di identità naturale), il Logos, esaurito il compito di garantire l’ordine legale, avrebbe assolto a tutte le sue funzioni. Questo crede chi pensa alla necessità della sua vigenza universale. Ma la spinta erotica valica i confini della necessità naturale e spinge lo spirito umano a percorrere la strada degli dèi celesti. Il de-siderio di raggiungere le origini da cui proviene l’uomo decaduto nella natura è di valicare il confine della propria condizione tellurica e di pervenire alla confusione originaria della specie con quella divina. Questo desiderio metafisico, che trascende la condizione sociale, non può essere soddisfatto dal Logos, ma soltanto ispirato da Eros, che lo coltiva come sua stessa essenza. Il Logos posiziona le norme giuridiche del Potere come le sentinelle romane (desiderantes) alla vista dei ritardatari sugli spalti dell’ accampamento dopo il tramonto, ricordate da Cesare nel De bello gallico; ma non può dominare Eros, che rimane al di là dei confini del Potere, dell’Ordine, della Legge. Eros è atopico, sconfina dai limiti del Logos. È dis-locante. Una forza non dominante normativamente è un nemico invincibile. Da qui l’esigenza di farselo amico. Ma l’amicizia comporta vicinanza, non divisione, ossia contraddizione rispetto alle leggi razionali. Questa promiscuità è la condizione del Governo, che è sovrano sul Potere del Logos e sulla minaccia eversiva di Eros. Il potere del Logos è sulla moltitudine obbediente, resa univoca dalla forza; il potere più dimesso e misterioso di Eros si esercita sui singoli, sulla parte, sul privato, inaccessibile al pubblico, che è il luogo appunto del Potere politico stabilito dalla legge. Il Governo è duale, non univoco come il Potere, soggetto al Logos, che superiore a sé non riconosce. Esso considera sia le ragioni dei molti che quelle dei singoli, sia la forza che la libertà. È pertanto lacerante la sola analisi del Potere, cioè insufficiente e parziale ai fini della comprensione della condizione umana. Lo stato di eccezione, inteso come periodo di sospensione della vigenza normativa, manifesta il limite della volontà del Potere politico di esercitarsi per tutti conformemente all’Uno, quale è stato codificato, e manifesta altresì la presenza dell’imponderabile, rimosso dalla costituzione politica come in-esistente fattore perturbatore dell’ordine sociale e della pace. Il Potere può sospendere la sua pretesa universalità, senza poter intervenire fattivamente alla legittimazione della violenza che ne comporta, lasciando che l’effetto katechontico di contenimento del Caos sia omologo al Caos. Il diritto si ritira dalle sue 252


prerogative di razionalizzazione della forza sociale e lascia che essa sia fermata dalla nuda violenza, intesa come “nuda vita” (bloss Leben). Ma perché la vita sarebbe violenta? Perché in essa manca la distinzione, la coscienza della Differenza, mediata dal Logos, che è metron, misura, e non semplice legein, parola. È “verbo”, e non mera espressione indicante. È parola ragionevole, distinguente, giuridica. E’ violenza non guidata e trattenuta entro il fine della forza razionale dello jus humanum, ai confini del sacro. La violenza che ha del sacro o ne riporta, è contaminata dalla paura; non quella benefica e catartica del Potere, ma quella caotica della commistione di sacro e profano, l’ “orrore sacro” di cui diceva Wundt.581 La “ambiguità” riscontrata nel sacro è legata alla doppia fruizione (indistinta) della violenza con cui si manifesta e si respinge. “Il puro e l’impuro non sono dunque due generi separati, ma due varietà del medesimo genere, che comprende le cose sacre” (Durkheim). 582 Caratteristica della sacratio è “la congiunzione di due tratti: l’impunità dell’uccisore (impune occidi) e l’esclusione dal sacrificio”, che configura “un’eccezione dallo jus humanum, in quanto sospende l’applicazione della legge sull’omicidio [costituendo] una vera e propria exceptio in senso tecnico”. Nello stesso tempo, la stessa formula, riportata da Festo, del “neque fas est eum immolari configura, a ben guardare, un’eccezione, questa volta dallo jus divinum e da ogni forma di uccisione rituale”. 583 Come si spiega l’esclusione dal rituale? Mentre la consecratio fa normalmente passare un aspetto dello ius humanum a quello divino, dal profano al sacro, nel caso dell’homo sacer una persona è semplicemente posta al di fuori della giurisdizione umana senza trapassare in quella divina, [sicché] la sacratio configura una doppia eccezione, tanto dallo ius humanum che dallo ius divinum, tanto dall’ambito religioso che da quello profano [che configura la] struttura topologica […] di una duplice esclusione e di una duplice cattura, che presenta più che una semplice analogia con la struttura dell’eccezione sorana. [Infatti, così come] nell’eccezione sovrana, la legge si applica al caso eccezionale disapplicandosi, ritirandosi da esso, così l’homo sacer appartiene al dio nella forma dell’insacrificabilità ed è incluso nella comunità nella forma dell’uccidibilità. La vita sacrificabile e, tuttavia, uccidibile, è la vita sacra.584 581

Cit. da G. Agamben, HS, pag. 85. Cit. da G. Agamben, HS, pag. 86. 583 Ivi, pag. 90. 584 Ivi, pagg. 90-91. 582

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Ciò che dunque caratterizza la figura dell’homo sacer è “il carattere particolare della doppia esclusione in cui si trova preso e dalla violenza in cui si trova esposto”, per cui, “sottraendosi alle forme sancite del diritto umano e di quello divino, essa apre una sfera dell’agire umano che non è quella del sacrum facere né quella dell’azione profana”.585 L’eccezione sia dal nomos che dalla physis “delimita in un certo senso il primo spazio politico in senso proprio, distinto tanto dall’ambito religioso che da quello profano, tanto dall’ordine naturale che da quello giuridico normale”. 586 Il nuovo spazio politico è ai confini del sacro e del profano (quale? Della società civile?), sicché la prossimità tra la sfera della sovranità e quella del sacro […], non è semplicemente il residuo secolarizzato dell’ originario carattere religioso di ogni potere politico, né soltanto il tentativo di assicurare a questo il prestigio di una sanzione teologica [ma] la sacertà è, piuttosto, la forma originaria dell’implicazione della nuda vita nell’ordine giuridico-politico.587

In realtà, la bloss Leben non è che la condizione naturale pre-politica di violenza del più forte sul più debole, la sfera esistenziale non giuridicizzata, e reintrodotta eccezionalmente come remedium mali a scopo “referente alla decisione sovrana”, in quanto costituente la “relazione politica originaria”.588 È vero pertanto che “sacra è la vita solo in quanto è presa nell’eccezione sovrana”, ma non nel senso di una presunta originarietà naturalistica, che risolve nella sfera biologica della finitezza l’ordine politico. Se così fosse, non si spiegherebbe il fattore correttivo del Logos in senso ontologicamente determinativo, alternativo al fondamento mitico. Porre il Mito fondativo all’origine della Città equivale a sanzionarlo religiosamente, o per meglio dire theo-logicamente, attribuendo all’atto costitutivo della società politica sia la provenienza sacra dei suoi istituti che la sua differenza dall’ordine divino. Quest’ultimo non era segnato dall’aleatorietà dei rapporti naturali, in cui la indistinta violenza non era predeterminabile a favore di uno dei contendenti, neppure a seguito dell’intervento divino nella vita degli eroi, ma era contrassegnato ab 585

Ivi, pag. 92. Ivi, pag. 94. 587 Ibidem. 588 Ibidem. 586

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origine dalla superiorità degli dèi sui mortali, e dunque dalla Differenza di status tutta interna alla tragica Necessità (). Il carattere violento della forza, sia legittima che illecita, indica chiaramente che la dialettica interna alla dimensione naturalistica è legata a una “mediazione magica”, che rimane sempre al di qua della possibilità dell’uomo di pervenire a un potere diretto sulla natura, ma limitato ai soli mezzi, 589 che nel nostro caso sono giuridici. In tal senso sarebbe corretto affermare che sacra è la vita in quanto è presa nella accezione sovrana, ossia solo in quanto è ordinata in relazione alla differenza tra la potenza divina e il potere umano. Il carattere punitivo dell’ingiunzione sovrana al “sacer esto” eccepisce dalla regolamentazione giuridica della vertenza, nel senso della esposizione alla violenza originaria pre-statuale, naturale nel senso della sua abnorme aleatorietà. Ma il senso dell’eccezione è la sottrazione del caso alla decisione del Potere, ossia alla inevitabilità della pena afflittiva, in quanto di riconosciuta incompetenza. Ciò implica un previo riconoscimento del limite del Potere a favore di una superiore sovranità non afflittiva, non sanzionatoria, ma remissiva alla decisione divina e coincidente, dal punto di vista della certezza del diritto, col caso, che è il contrario del diritto, ma il cui esito può essere giuridicizzato, come nel caso dell’ordalia. Esporlo al caso significa dunque sottrarlo alla certezza del diritto per riconosciuta incompetenza del Potere a esercitare la sua forza. Riconoscere l’incompetenza è riconoscere il suo limite, ossia l’ambito politico entro il quale la forza del Potere può esercitarsi efficacemente col mezzo giuridico, e che coincide perciò con la validità dell’ordine normativo. Oltre tale orizzonte si apre la sfera del non-giuridico e del non-politico, ossia appunto del “sacro”, quale risvolto differenziale del Potere. Ai confini del Potere politico-giuridico c’è il regno infido del Caos, governato dagli dèi. Il potere sovrano è quello che riconosce, e non quello che decide, la differenza tra i due ambiti, appellandosi ad essa per sanzionare l’illegittimità dello sconfinamento politico. la tensione tra Gesù e il Sinedrio verteva sulla attribuzione della competenza. La neutralità di Pilato era l’atto sovrano, normalmente dispensatore di sanzioni, a rinunciarvi. La rinuncia è sovrana, in quanto riconosce la differenza tra materia sacra e ambito politico, mentre la condanna giuridica sarebbe stata atto del Potere politico. Non a caso la destinazione 589

G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it. vol. II, La religione determinata, Roma-Bari, 1983, pagg. 75-76.

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risolutiva alla preferenza popolare ne stabiliva la casualità, nei confronti del cui esito il Potere si dichiarava neutrale, riconoscendo la forza maggiore, non quella giusta: come in natura, in cui la violenza “eccede tanto la sfera del diritto che quella del sacrificio”. 590 Era una sorta di riconoscimento della prevalenza della vita sul diritto, della sua complicazione sulla semplificazione giuridica, dove interveniva un evento risolutivo simile a quello del deus ex machina nei garbugli tragici. Nel diritto romano, vita non è un concetto giuridico, ma indica, come nell’uso latino comune, il semplice fatto di vivere [laddove il] terminus technicus è nell’espressione vitae necisque potestas, [dove] que non ha valore disgiuntivo e vita non è che un corollario di nex, del potere di uccidere. [la vita dunque] appare originariamente nel diritto romano solo come controparte di un potere che minaccia la morte.591

Tale “potere assoluto” non è la “sanzione di una colpa” e neppure “al potere che compete al pater in quanto capo della domus”, ma inerisce al “rapporto padre-figlio” in quanto tale. Mentre il potere domestico infatti sulle donne e sui servi rimane circoscritto alla domus, il potere di vita e di morte “investe al suo nascere ogni cittadino maschio libero [che] sembra definire il modello stesso del potere politico in generale”. E pertanto, prosegue Agamben, “non la semplice vita naturale, ma la vita esposta alla morte (la nuda vita o vita sacra) è l’elemento politico originario”. 592 Eppure è esattamente codesta esposizione alla morte il tratto caratteristico dell’esistenza naturale, che la dimensione politica sottrae alla sua necessità originaria per garantirla nel senso della sola vita. E’ propriamente umano il modo politico di tale sottrazione, ossia del processo di adattamento difensivo alla minaccia naturale di morte richiesta dall’intrinseca necessità del divenire universale. La condizione politica è tale che poter destinare l’uomo soggetto al Potere allo status pre-politico, costringendolo a esporsi a quella minaccia di morte che l’esistenza naturale comporta di per sé, e che l’ordine politico invece allontana. Lo stesso legame genetico del filius al pater veniva assunto attraverso la patria potestas come “una sorta di ufficio pubblico”, in considerazione della analogia col “mito genealogico del potere sovrano”, 590

G. Agamben, HS, pag. 95. Ivi, pag. 97. 592 Ivi, pag. 98. 591

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sicché “l’imperium del magistrato non è che la vitae necisque potestas del padre estesa nei confronti di tutti i cittadini”.593 “Pubblico” starebbe quindi per originario. Ma il dato essenziale del contesto, ossia “il fondamento primo del potere politico”, non è “una vita assolutamente uccidibile, che si politicizza attraverso la sua stessa uccidibilità”, come ritiene Agamben,594 ma appunto il rapporto di derivazione genealogica del Potere, che giunge sino alla soppressione del bene sul quale si esercita la sua potestas perché lo pone in essere. Il diritto crea la figura analogica del pater, la sua rappresentazione politica, ma non la condizione genealogica originaria, che costituisce un prius naturale, che funge da modello formale. La figura giuridica del pater familias non fa che modellare idealmente uno status naturae originario, facendolo assurgere a rapporto analogico di valore politico, assolutizzandone prescrittivamente il senso simbolico. L’idealizzazione della figura domestica del pater consiste nella astrazione dalla sua realtà naturale, in cui ogni pater è a sua volta filius, e di considerarla nel solo significato politico di potere originario del fondatore. Qui interviene il discorso di Hegel sull’origine della società politica come lotta del padrone col servo affrontata, com’è noto, nella Fenomenologia,595 e la conseguente presa di coscienza del mutuo rapporto costitutivo della convivenza razionalizzata dal mutuo riconoscimento, che precede ogni formale stipula pattizia. Il rapporto politico nasce pertanto, non dalla “uccidibilità” della vita subalterna, conseguente al riconoscimento della sua possibilità, ma dalla legittimità di tale possibilità, ovvero dal poter di rinuncia al suo esercizio, al potere di uccidere; e dunque il rapporto politico nasce dalla clemenza sovrana, che limita la potestas necis per affermarsi come imperium, cioè come possibilità di esercizio della forza. È la possibilità a fare del Potere un imperium, ossia una forza ragionevole e non cieca e arbitraria quale la Necessità della Natura, che non considera la posizione dell’uomo abbattendosi sulla sua debole ed estranea esistenza. La possibilità del Potere di esercitare la forza, diversamente dalla Necessità naturale, è condizionata dal suo riconoscimento da parte del servo-figlio, e l’esercizio effettivo, la sua attualità, consegue al venir meno di quel riconoscimento con l’infrazione della legalità, che esime il 593

Ivi, pag. 99. Ibidem. 595 G.W.F. Hegel, FdS, vol. I, pagg. 159-161. 594

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sovrano dalla sua clemenza, liberando anzitutto se stesso dal vincolo politico col servo, esponendolo alla violenza naturale del più forte. La scelta tra vita et necis indica appunto la possibilità di uccidere o lasciar vivere il subalterno. La sola uccisione reciderebbe la possibilità di pervenire a un rapporto politico, o di perseverare, sopprimendo uno dei due termini dialettici. Quanto alla natura “pubblica” del rapporto, ossia alla sua costituzione politica, rispetto all’origine privata della potestas patriarcale, consiste nella sua impersonale generalizzazione, prescissa dal vincolo di sangue. Politico è dunque il rapporto che, sul modello analogico privato, diviene astratto da quel rapporto originario e perciò generale.Astrazione e generalità sono gli attributi essenziali di ogni norma di legge. La potestà sovrana estende il suo imperium erga omnes, “come se” fosse una paternità collettiva, estesa al gruppo sociale subalterno. E ciò che rende “sacro” il vincolo potestativo è appunto la sua originaria condizione genealogica, legata a una necessità insuperabile: la procreazione genetica, in cui l’arché coincide con l’aitìa simbolica. Nella razionalizzazione politica della volontà potestativa, la potestas viene emancipata dal suo arbitrio privato e trasformata in imperium pubblico, esercitato in base a criteri legali, formalmente certi, ossia prevedibili. Da questa differenza, nasce la distinzione classica tra tirannia e sovranità regale. La tirannia era una contaminazione nell’esercizio pubblico della privata potestas, arbitraria e non legata ai vincoli della funzione pubblica, nel senso di “razionalizzata” in senso giuridico. La sacertà della procreazione era dovuta, non alla sua assunzione politica, ma alla naturale necessità costitutiva, indisponibile dalla volontà umana, al pari di una disposizione divina, ovvero della stessa volontà sovrana assolutizzata e resa autonoma da ogni controllo limitante. La trascendenza del potere lo rende sacro. Perché la relazione politica si costituisca, occorre che il rapporto tra poter e servizio sia mediato dalla ragione del suo limite, in cui consiste il reciproco riconoscimento. Ragionevolezza e riconoscimento rendono il potere opportuno. L’opportunità è la versione politica della necessità naturale. Viceversa, ciò che ripristina la condizione originaria pre-politica e conflittuale è la rimozione della mediazione razionale, cioè del diritto, senza il cui ordinamento il potere da imperium torna a essere mera potestas (forza soverchiante), e parimenti il servizio torna al suo status di minorità, esposta come tale alla violenza del più forte e non più protetta dalla

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clemenza sovrana. La “nuda vita” è dunque quella sciolta dal vincolo politico alla sovranità, che si ritira dalla sua protezione non esercitandosi. Non vi è contraddizione,ma ripristino dello status quo ante pactum. I “cittadini maschi” non dovevano “pagare” ma fruire della sovranità partecipando alla “vita pubblica”,596 poiché tale partecipazione li esonerava dalla soggezione incondizionata alla nuda forza (cioè alla vioenza del più forte) e li introduceva alla regolamentazione della potestas in termini normativi e razionalmente stabiliti. Una volta pervenuti allo status politico, viene superata la soglia della indeterminatezza del vincolo naturale al più forte e alla sua arbitraria violenza d’esercizio, e si perviene perciò a un vincolo astratto riconosciuto dalla comunità come opportuno. Lo scioglimento di tale vincolo politico alla potestà sovrana per indegnità, ri-espone il minorato civile allo stato naturale,ma non primigenio, poiché egli resta pur sempre un soggetto “pubblico”, sia pure degradato, e non è perciò un soggetto “privato” in senso stretto, poiché il sovrano non è il pater naturale ma simbolico, per cui egli rimane in una condizione che non è né privata e neppure pubblica, ma come sospesa in un ambito esistenziale eccezionale tra diritto e natura, tra nomos e physis, che Badiou chiama di “déliaison”, e che potremmo anche chiamare di sradicamento, in cui, contrariamente a quanto ritiene Agamben, si realizza proprio quello “scioglimento di un vincolo preesistente”597 di cui si è detto. Solo che in questo caso lo scioglimento è anch’esso simbolico e non privato. A questo punto appare chiare che la genesi del rapporto potestativo da cui origina la sovranità, che nella cosmologia greca aveva carattere naturalistico,, nella cultura cristiana sposta l’archetipo dalla natalità biologica alla creazione divina, indicando nel Creatore il Pater nostrum celeste il modello politico terrestre, da cui discende per analogia l’Imperatore della teologia politica eusebiana. Qualunque sia il terminus a quo al quale risale l’archè, l’elemento disgiuntivo segna l’inizio del rapporto razionalizzato, ossia simbolico, tale che la separazione dispone, con la temporalità, anche i campi di attribuzione rispettivi alla sfera del sacro (indistinto) e del profano (giuridico-politico). Sia la lex che il rito religioso tendono a garantire, rispettivamente, lo statuto di competenza al luogo profano e disponibile dall’uomo, e la condizione di separazione della realtà ultronea dal mondo stabilito dall’ordine politico, tali che 596 597

G. Agamben, HS, pag. 100. Ivi, pag. 101.

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entrambi scongiurino la confusa promiscuità di status precipuamente umano. Ma proprio la separazione implica la possibilità dell’indistinzione e dunque della possibilità del tralignamento reciproco, da un campo all’altro. Ciò significa che la condizione rispettiva non è originaria e che perciò è in qualche modo reversibile, per cui il morto può permanere in questo mondo o tornarvi sotto mentite spoglie, così come il vivo può abitare anche l’oltremondo avendo impegnato parte di sé, il suo destino o la sua dignità, per la morte. da qui la necessità di perfezionare il trapasso – ossia l’ordine nella distinzione – da uno ad altro campo. Finché non compie questo rito, il devoto sopravvissuto [al suo voto] è un essere paradossale che, mentre sembra proseguire una vita in apparenza normale, si muove, in realtà, in una soglia che non appartiene né al mondo dei vivi né a quello dei morti: egli è un morto vivente o un vivo che è, in verità, una larva, e il colosso rappresenta appunto quella vita consacrata che si era già virtualmente separata da lui al momento del voto.598

Questa condizione intermedia a cui si è esposto il “devotus”, secondo Agamben è paragonabile a quella dell’homo sacer, il cui corpo sarebbe “il pegno vivente della sua soggezione a un potere di morte, che non è, però, l’adempimento di un voto, ma assoluta e incondizionata”. 599 Il feticcio che prendeva in immagine la condizione dell’homo sacer e del devotus stava a indicare il carattere non disponibile della sua relazione sociale, quale determinatasi a seguito del riconoscimento della sovranità a disporre di sé come suddito politico, e di cui la consacrazione è conferma, simbolizzata e circostanziale. Il simulacro di pietra o di cera era l’immagine oggettivata della condizione pubblica dell’homo sacer, il quale, in quanto incarna nella sua persona gli elementi che sono di solito distinti dalla morte, è per così dire, una statua vivente, il doppio o il colosso di se stesso [che] eccependosi in una doppia esclusione dal contesto reale delle forme di vita sia profane che religiose, è definito soltanto dal suo essere entrato in intima simbiosi con la morte, senza però ancora appartenere al mondo dei defunti. 600 598

G. Agamben, HS, pagg. 110-111. Ivi, pag. 111. 600 Ivi, pagg. 111-112. 599

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In realtà non vi è sdoppiamento della coscienza ma simbolicità oggettivata a memoria “pubblica”, indicante la funzione nn più garantita dal votatus a una impresa il cui esito coincide con la ragione stessa della vita. La vita consacrata, cioè disponibile al sacrificio di sé, si espone alla necessità, che è la forza maggiore, più forte di lui, contro cui solo gli eroi escono indenni. L’eroe, smentendo la regola, la conferma come destino comune. È nella figura di questa “vita sacra” che qualcosa come una muta vita fa la sua comparsa nel mondo occidentale [anche se] decisivo è che [essa] abbia fin dall’inizio un carattere eminentemente politico ed esibisca un legame essenziale col terreno su cui si fonda il terreno sovrano.601

Le “due vite in un solo corpo” dell’imperatore stanno a indicare la differenza tra la funzione pubblica, oggettivata nel simbolo formale, e l’esistenza corporea naturale, soggetta alla disponibilità della natura divinizzata. Ciò che pubblicamente rileva è l’immagine politica, non quella naturale, che pure coesiste con la prima, e dunque implicitamente la loro distinzione. Il concetto distintivo, come ogni simbologia statuaria conferma, è fissato in una visione corporea. La statua è l’idea personificata in immagine: l’estetica simbolica dell’immagine della distinzione. Ciò che rileva nella dimensione pubblica è la natura non disponibile della vita , che in questo senso è “sacra”, e perciò non (più) nella disponibilità del Potere, entro la cui sfera essa però rappresenta la distinzione, cioè la Differenza ontologica, che nella condizione concreta diventa esistenziale, tra “una vita naturale e una vita sacra […] incompatibile col mondo umano”.602 La vita” sacra “non può abitare in nessun caso nella città degli uomini”, in quanto viene astratta dalla normali condizioni della relazione politica e consegnata al suo fine trascendente eccezionale. L’eccezionalità della vita sacra è appunto nella sua fisionomia trascendente le relazioni politiche, e perciò intangibile dal Potere. È questa condizione di non disponibilità che a nostro giudizio “unisce il devoto sopravvissuto, l’homo sacer e il sovrano in un unico paradigma”.603 La vita è “nuda” in quanto astratta dal suo contesto referenziale di normalità politica, e 601

Ivi, pag. 112. Ivi, pag. 112. 603 Ibidem. 602

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assegnata perciò alla disponibilità sacra degli dèi, la cui dimora è oltre la vita della polis e a cui si perviene perciò con la morte, reale e fisica o rituale e simbolica. “in tutti e tre i casi, la vita sacra è, in qualche modo, legata a una funzione politica”,604 nel senso della sua sospensione d’efficacia. Una funzione negativa. Se il suddito viene sacrificato dal Potere, il sovrano viene sacrificato al Potere, intendendo per “sacrificio” l’abbandono all’alterità, alla morte rispetto alla vita, al naturale rispetto al giuridico, al divino rispetto all’umano (apoteosi). Il “sacrificio” segna il passaggio. Il cambiamento di status, da mortale a a pre-destinato all’altra condizione, “sacra”. La sacertà è la condizione ultronea che caratterizza la sovranità, che è “più” del mero Potere, cioè della volontà potestativa del re. Infatti, “il corpo politico del re […] non può rappresentare semplicemente (come ritenevano Kantorowicz e Giesey) la continuità del potere sovrano, ma anche e innanzitutto l’eccedenza di vita sacra dell’imperatore” che, attraverso l’immagine, viene isolata”, 605 astratta cioè dalla sua relazione funzionale e consegnata al “cielo” o ai suoi eredi. “Sacra” è pertanto ciò che “eccede” nella relazione concreta, ossia la sua rappresentazione ideale. Sacro e ideale coincidono nel significare l’astrazione razionale embrionalmente cosciente nella rappresentazione arcaica e sempre più consapevole nella formalizzazione giuridicosimbolica posteriore, il cui “carattere assoluto e non umano della sovranità” appare nella sua rappresentatività meta-fisica, ideale, non temporalmente contingente, e insomma divina. Ma appunto in questa sovrapposizione di trascendente e di ideale si realizza (e si consuma) la riduzione alla dimensione immanentistica del finito della fenomenologia del politico, la sua de-finizione giuridica. Nel momento in cui la condizione naturale è posta modernamente alla base della scientificità delle teorie antropologiche, le rappresentazioni idealistiche vengono a perdere la loro legittimità epistemologica, inaugurando nuovi paradigmi di pensiero e un’ermeneutica del sacro avente a oggetto sistemi culturali formalizzati in base a criteri puramente funzionali e autonomi da ogni modello trascendente. Di conseguenza, la dimensione tradizionale del sacro perde, in un contesto culturalmente immanentizzato in senso pragmatico dove il referente ideale si declina in puri termini di legalità sistemica, la sua correlazione con il trascendente per diventare l’aura di fede che legittima i nuovi statuti nomotetici. Solo a 604 605

Ivi, pag. 113. Ibidem.

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questa condizione è possibile l’accostamento di Jhering tra l’homo sacer e il friedlos germanico,606 a seguito cioè dell’equiparazione dell’Ordine giuridico alla Pace sociale; infatti, ogni ordinamento, politico o giuridico o religioso che sia, astratto dal suo peculiare fine trascendente, mira allo stesso obiettivo minimale di garantire la coesistenza sociale, rispetto al quale ogni contenuto funzionale diventa equivalente, e rilevante non in sé ma nella misura della sua economia strumentale. L’ostracismo assegnato al friedlos era di tipo sanzionatorio, legato cioè a una violazione, e non, come nel caso dell’homo sacer, a una missione pubblica. In ogni caso, il bando dalla società era una forma di ritorsione extra-giudiziale che emarginava il reietto dalla comunità di appartenenza, costituendo una afflizione che rompeva il patto di solidarietà fra i membri, privando il bandito dell’identità comune tradizionale. Ciò costituiva, in una società olistica, la pena esistenziale più grave, preferibile per Socrate alla morte in carcere. L’expulsus romano, o il garulfhus (uomo lupo), o il werwolf germanico, indicava la dissociazione dalla comunità sedentaria e la condizione nomade del condannato, vagante come un lupo senza fissa dimora né integrazione sociale, in preda alle minacce naturali. La vita del bandito – come quella dell’uomo sacro – non è un pezzo di natura ferina senz’alcuna relazione col diritto e con la città; è, invece, una soglia di indifferenza e di passaggio fra l’animale e l’uomo, la physis e il nomos, l’esclusione e l’inclusione: loup garon, lupo mannaro, appunto, né uomo né belva, che abita paradossalmente in entrambi i mondi senza appartenere a nessuno. 607

La condizione lupesca evocata da Hobbes, trova qui la sua scaturigine simbolica di dissolutio civitatis. Lo stato di natura hobbesiano non è una condizione pregiuridica affatto indifferente al diritto della città, ma l’eccezione e la soglia che lo custodisce e lo abita; esso non è tanto una guerra di tutti contro tutti, quanto, più esattamente, una condizione in cui ciascuno è per l’altro nuda vita e homo sacer. E questa lupificazione dell’uomo e ominizzazione del lupo è possibile in ogni istante nello stato di eccezione, nella dissolutio 606 607

G. Agamben, HS, pagg. 116. Ivi, pag. 117.

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civitatis. [Questa soglia] è il presupposto sempre presente e operante della sovranità.608

La tesi, apparentemente curiosa, antepone la dissoluzione quale premessa della comunità, anziché quale sua degenerazione. La eccezionalità della condizione fuggiasca è nel suo aspetto individuale, che contraddice il carattere naturale della socialità umana, considerato una condizione originaria della specie. L’elemento punitivo del bando consiste proprio nella perdita dello status societatis e l’acquisizione innaturale dello stato ferino. La questione è se la perdita contingente della societas possa determinare, o equivalere, alla perdita della socialitas umana, quale condizione reputata “naturale”. Se, infatti, la condizione sociale è un dato antropologico ineliminabile, non può andare perduta se non, appunto, occasionalmente quale eccezionale misura ritorsiva verso l’indegno. Se invece la perdita dello status socialitatis può essere definitiva, o comunque tale da costituire la condizione politica della sovranità, allora esso non è punto un dato antropologico originario, ma una condizione culturale, che può essere alterata e sostituita con un’altra. Il bando presuppone la sovranità, che non si dà se non nella condizione sociale, cioè nell’Ordine politico, il quale sorge, come detto, all’atto del suo riconoscimento. È pur vero che “lo stato di natura è uno stato di eccezione”,609 ma nel senso della deminutio socialitatis del singolo; non è una condizione comune, poiché la vita associata è già “natura” del collettivo. Ciò che distingue la nuda socialità naturale, economica, dalla socialità culturale, politica; la aristotelica koinonìa topou dalla politeia, è appunto il riconoscimento reciproco della funzione sovrana e di quella servile. Il clan tribale che si costituisce per statuto naturale, di sangue, ed economico, la terra comune, riconosce un potere che non è economico particolare, ma etico generale, astratto dall’appartenenza originaria e simbolicamente unitario. l’uomo robinsoniano, scisso dalla Gemeinschaft, è una eccezione antropologica, prima che socio-politica, e perciò non-naturale per l’uomo, e naturale per la condizione ferina. 608 609

Ivi, pag. 118. Ivi, pag. 121.

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Destinare perciò l’uomo alla ferinità è pena esistenziale, coinvolgendo la esperienza intera dell’uomo sociale forzatamente de-socializzato. Il potere sovrano di bandire l’uomo dalla comunità destinandolo alla blosse Liebe, alla nuda vita, presuppone l’organismo sociale, e dunque la costituzione politica, consistente nel riconoscimento della funzione sovrana, ossia nell’ammissione della Differenza tra il sacro indisponibile e il profano soggetto al Potere, perché umano e perciò perfettibile. Il potere sorano non sorge col bando, di cui è emanazione, né con la nuda vita, ma sorge col riconoscimento della funzione sovrana, la quale rappresenta simbolicamente il passaggio dalla condizione ferina a quella antropica. Ma tale possibilità è legata alla precipua condizione umana di inappartenenza organica dell’uomo alla Natura, la quale rappresenta non già la “nuda vita” ma la morte, sicché la purezza della vita umana equivale alla impossibilità della sua esistenza. Non si comprende la relazione epistemica tra la condizione politica e il fondamento di socialità se non si ammette una condizione umana originaria negativa rispetto alla successiva costituzione ontologicopolitica, la quale condizione originaria non è punto naturale, cioè ferina in senso hobbesiano, ma esattamente il contrario, ossia affatto innaturale, e in tal senso “eccezionale” perché contingente. A partire da ciò che l’uomo non è – ossia un essere di natura – è possibile stabilire ciò che egli è – cioè un essere di cultura -. La relazione tra le due condizioni non è, se non contingentemente, di opposizione, essendo in realtà di differenza antropologica. Sicché la condizione politico-sociale dell’uomo e quella culturale del gruppo antropico sono strettamente congiunte, e tali che è a partire dalla condizione politica sia possibile per l’uomo costruire una rappresentazione del mondo ontologicamente fondata sulla esistenza, garantita dalla possibilità di esistere quale specie naturalmente aliena entro un orizzonte razionalmente umanizzato. In questo senso, la “natura umana” va intesa come “condizione culturale”, e non come appartenenza al regno della physis. La potestà politica persiste propriamente nei periodi normali, poiché la stessa normalità è costituita a partire dalla sua funzione normativa, legittimata dalla coscienza della Differenza antropologica tra la specie 265


culturale umana e le altre specie naturali; questa Differenza, che giustifica la funzione sovrana di contenimento del Potere in ordine alle sue funzioni potestative, è garantita dall’auctoritas morale del Governo, che è organo di legittimazione della potestas, la quale, solo se riconosciuta valida acquista dignità sacra di imperium. Se il Potere si esercita normalmente sui sudditi, non può travalicare le sacre ragioni del suo esercizio, che non è finalizzato a garantire la sua forza, come crede l’etica moderna della potenza politica, ma ad assicurare l’esistenza dell’uomo nel suo orizzonte politico di adattamento culturale alla natura matrigna. Violare questo fine essenziale, rappresenta per il Potere sortire dalla razionalità del suo esercizio funzionale all’esistenza dell’uomo e violare il presupposto antropologico della sua legittimità morale, la Differenza ontologica che separa la sua condizione culturale da quella naturale delle altre specie. Per condizione culturale va intesa appunto il passaggio dalla condizione di estraneità dalla realtà della Natura, e dunque di non-essere in ciò che è umano, cioè razionalmente esistente, alla condizione di presenza al mondo ontologicamente costituito come compatibile con l’esistenza umana. E chiaro a questo punto che l’oblio della questione dell’Essere coincide con la rimozione della Differenza e col misconoscimento della funzione garante del Governo. La superbia (hybris) del Potere è di violare il limes che lo separa dall’illegittimo esercizio della sua forza. In questo caso interviene l’azione sanzionatoria sovrana, che depone il Potere dalle sue prerogative, come già il Potere stesso interviene a riguardo dell’infrazione del singolo soggetto alla legge, rimettendo alla sorte il destino del reo o dell’eroe. Il bando è essenzialmente il potere di rimettere qualcosa a se stesso, cioè il potere di mantenersi in relazione con un irrelato presupposto. Ciò che è stato posto in bando è rimesso alla propria separatezza e, insieme, consegnato alla mercé di chi l’abbandona, [sicché] il bando è propriamente la forza, insieme attrattiva e repulsiva, che lega i due poli dell’eccezione sovrana: la nuda vita e il potere, l’homo sacer e il sovrano.610

610

G. Agamben, HS, pagg. 122-123.

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Focalizzare la struttura politica nell’accezione sovrana, significa acquisire la condizione di crisi come quella fisiologica della vita comunitaria. Sennonché la crisi è la violazione della normalità e lo sconfinamento del Potere dai suoi imiti, ossia nella negazione delle prerogative sovrane di custodia della Differenza, proprie del Governo. Questo processo di misconoscimento attraversa l’intera cultura moderna, il cui razionalismo consiste nella fondazione dell’Essere come decisione assoluta del soggetto di pensiero, emancipato dalla necessità originaria di far fronte alla propria alienità dalla Natura a partire dalla Differenza. Corrispondente politico di tale posizione teoretica è il parlamentarismo come potere legislativo, il cui regime consiste nell’assunzione del riconoscimento della sovranità fondativa della socialità politica come una tecnica di selezione del personale addetto alla funzione di Potere (classe politica) da parte della moltitudine servente (popolo elettore), nel cui gioco regolamentato si fa consistere, per un verso, la libertà dei molti ad autodeterminarsi, e la funzione dei pochi a rappresentare gli interessi comuni. Ma, sostituendo la funzione strumentale con il fine teleologico al quale è chiamato il Potere, si assegna alla volontà umana un esercizio indipendente dalla sua destinazione originaria, che è l’osservanza dei limiti imposti dalla Differenza dei principi razionali rispetto alle leggi naturali, sicché, rimosso ciò che consentiva l’esistenza dell’uomo, ossia la coscienza della Differenza e l’agire razionale rispetto al fine ontologico-politico, anche il sapere ripiega in tecnologia, rinunciando a formare la coscienza alla sua identità trascendente le relazioni naturali, tendendo solo a soddisfare scopi contingenti di effimera utilità. Ma lo straripamento del Potere assoluto dalle sue funzioni legittime, e l’assorbimento in esso dell’autorità sovrana, rappresenta una deviazione abnorme dalla condizione antropica originaria, a tutto detrimento della qualità dell’esistenza culturalmente umana e del corretto funzionamento delle istituzioni politiche. Questa situazione di fatto, che caratterizza la modernità, è acquisita da Agamben come condizione originaria di diritto, trasfigurando la condizione umana in un orizzonte ideologico tutt’altro che “naturale”. Di contro, a me pare che l’isolamento dell’homo sacer dal contesto socio-politico configuri una dimensione 267


de-storicizzata in cui la “nuda vita” si risolve in volontà di sopravvivenza biologica, ossia in un supposto istinto economico primordiale, a partire dal quale sia possibile interpretare le istanze essenziali della esistenza della specie. Ma la riduzione forzosa dell’essere culturale a homo oeconomicus è possibile, quale esperimento sociologico in vitro, solo a condizione di rappresentare la condizione umana i termini naturalistici, ossia di assumere la figura umana per ciò che non è, ossia riducendolo a niente. L’uomo ridotto a niente equivale al differente rispetto all’essere umano, cioè a un immaginario essere-dinatura in realtà biologica in-esistente, che altera la sua fisionomia antropica in senso de-socializzante, ma che non può trasformare l’ente culturale in niente naturale senza insieme trasformare l’Essere in Nulla, ossia la Cultura in Natura, assecondandone così il fine immanente di morte dell’uomo quale alieno. La bio-politica, come gestione della dimensione antropica vitale, rappresenta lo scenario antropologico utile a costituire la premessa mitica alla logica economicistica del moderno capitalismo riduzionistico, che universalizza l’istanza naturalistica astraendola dalla dimensione delle culture storiche, assumendolo convenzionalmente come criterio della stessa esistenza dell’uomo, considerato come specie e non come persona spirituale. Il tentativo, però, è destinato a fallire, poiché quanto della condizione finita venga idealmente assolutizzato, perdendo il criterio normativo della Differenza, si converte in opposta contraddittoria fisionomia esistenziale, così che la supposta felicità della specie viene a tradursi in disperazione dei singoli, e l’incremento delle possibilità individuai in distruzione delle condizioni di vita del genere umano. Come attesta la stessa condizione dell’homo sacer, il quale “è insacrificabile e può, tuttavia, essere ucciso da chiunque”. Ma non in quanto, come asserisce Agamben, “la nuda vita costituisca il referente della violenza sovrana”, 611 ma in quanto la sovranità del Governo viene incorporata nell’esercizio del Potere, diventando tecnica di dominio neutralizzata della sua funzione di custode della Differenza, producendo la kenosis dell’Imperium a “nuda forza”, ossia a mera determinazione della volontà decisionistica. 611

G. Agamben, HS, pag. 126.

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Sia la esistenza dell’uomo desocializzato e sculturalmente sradicato, che la forza del Potere sovranizzato sono “nude”, ossia prive di qualità metafisiche e di attribuzioni sacrali. Sacre nel senso di Girard è colui che impedisce la dissoluzione dell’Ordine sociale, consentendo l’equilibrio pacificatore, che rappresenta la forza katechontica differenziale che è anche il punto di convergenza mediana tra il mondo e l’oltre-mondo. In una logica epistemica della rappresentazione razionalistica del mondo, propria della modernità a partire da Cartesio, l’elemento che dialetticamente vien considerato allotrio dall’orizzonte autoreferenziale del Potere assoluto, ciò che Schmitt indicherà col termine evocativo di hostis, è il termine negativo che la posizione tetica del giudizio esclude come accidentale e particolare rispetto alla sostanza essenziale costitutiva del suo contenuto positivo. Sul piano della realtà esistenziale, il negativo residuale del processo di razionalizzazione della società politica, come luogo pubblica dei significati omologati, e quindi della storia come comprensiva fenomenologia della civiltà fondata sulla Ragione, è l’uomo quale persona concreta, operatore di una individuale storicità. Rispetto al progetto di razionalizzazione universale della natura nel senso della storicità del mondo, ogni manifestazione spontaneo che lo contrasti, per statuto culturale o spontaneamente, diventa espressione di una “follia” refrattaria alla progressione necessaria del processo di normalizzazione, che non si lascia sussumere entro le coordinate epistemiche della sua rappresentazione, e che perciò va espunta come alterità ontologica, secondo una modalità necrofila propria della Natura fisica, per questo verso riabilitata a modello normativo. Il rovesciamento dialettico, di cui la modalità rappresentativa fisicalista è espressione, consiste nel proposito di assumere come paradigma scientifico moderno ciò che contraddice l’inaffidabile intuizione sensibile della realtà e nell’affidarsi all’uopo ai modelli ideali, astratti di ogni particolare determinazione concreta; ma, nell’affidare il valore di conoscenza a questi modelli ideali, in realtà si finisce per rappresentare una realtà la cui validità epistemologica coincide con la corrispondenza delle supposte leggi universali del Cogito con la manifestazione dei fenomeni empirici (cogitata), già ritenuti teoreticamente inaffidabili. È 269


questa “certezza” fenomenica che verrà acquisita da Kant come correttivo all’immaginazione creativa. Ma il dato più rilevante è che la libertà umana, intesa come affermazione assoluta della volontà razionalizzatrice fondata sulla decisione ontologica originaria non può sussistere in termini assiologicamente sostenibili senza il polo dialettico dell’alterità naturale, ossia di quella Differenza ontologica che l’universalità logica vuole negare per statuto epistemologico. Parimenti, sul piano della normazione giuridica, l’emancipazione formale dalle prerogative sovrane da parte del Potere è sconfessata dalla constatazione che la desacralizzazione della sua forza ha condotto alla sacralizzazione della violenza, ossia di quella “passione” costitutiva del naturale, che la ragione cerca di emarginare in quanto ostativa all’esistenza umana, la quale, per sussistere, deve sacrificare la sua volontà di potenza ai limiti della ontologica possibilità dovuti alla Differenza. Nella modernità, il principio della sacertà della vita si è completamente emancipato dall’ideologia sacrificale e il significato del termine sacro nella nostra cultura continua la storia semantica dell’homo sacer e non quella del sacrificio […]. Ciò che abbiamo oggi davanti agli occhi è, infatti, una vita esposta come tale a una violenza senza precedenti, ma proprio nelle forme più profane e banali.612

“Profana” e “banale” sono termini allusivi ma non esaustivi. Infatti il pro-fano, presuppone il sacro, laddove la “banalità del male” odierno si fonda sulla rimozione del sacro, e la conseguente esposizione dell’uomo alla realtà astratta della deprivazione della sua dimensione comunitaria, antropologicamente socialitaria. La conflittualità permanente della condizione politica assunta schmittianamente come orizzonte esistenziale intrascendibile deve avere la propria zona di tregua nel Potere leviatanico, oggi reso invisibile e impersonale, quanto l’universalità formale del concetto a fronte dei suoi oggetti indeterminati fuori della sua realtà definitoria. Confondere con la sovranità l’espressione odierna del modo di Potere, costituisce un grave 612

G. Agamben, HS, pag. 126.

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travisamento ermeneutico e un fuorviante criterio di storicizzazione del processo moderno di decostruzione del Soggetto valoriale collettivo, ossia della stessa struttura culturale civiltà occidentale. La soggettivazione, come processo culturale moderno, implica l’oggettivazione del sé e il “costituirsi come soggetto, vincolandosi, nello stesso tempo, a un potere di controllo esterno”, costituito dalla necessità della Natura. Da questa insuperabile necessità nasce la biopolitica, intesa come “implicazione crescente della vita naturale dell’uomo nei meccanismi e nei calcoli del potere”. 613 Ma il cd. “processo di soggettivazione” non è un fatto originariamente politico, così come la bio-politica è la proiezione ideologica di una rappresentazione razionalistica della condizione umana, quale esperienza di neutralizzazione culturale delle identità religiose e spirituali, a favore di una reductio ad naturam, corrispondente alla astratta determinazione antropologica del genus humanum in termini di mera animalità politicamente socializzata e fornita di parola. La “politicizzazione della vita” operata dagli Stati totalitarii è un portato dello scientismo illuministico, ispiratore della Rivoluzione borghese di significato universale. Non a caso il processo rivoluzionario è proseguito sino al coinvolgimento progressivo del quarto stato, della condizione socio-economica femminile e dei diritti civili universali, secondo un’espansione ideale all’intera compagine sociale, coinvolta dalla industrializzazione capitalistica, quae strumento a sua volta della tecnica planetaria. Solo a seguito della “neutralizzazione delle differenze è stato possibile il rovesciamento della astratta natura in un corpo politico organico, che desse forma razionale alla massa sradicata dai suoi nuclei aggregativi storici, alle comunità etiche originarie”. 614 Il rovesciamento dialettico operato dal processo di soggettivazione della coscienza universale risiede nella circostanza che la sua rappresentazione in-finita della realtà, senza più limiti ontologici, implica la negazione della Differenza, ossia della stessa Natura assunta a parametro di certezza. Ma una coscienza assoluta, denaturalizzata, non 613

Ivi, pag. 131. K. Loewith, Der okkasionelle Dezisionismus von C. Schmitt (1933), cit. da Agamben, HS, pag. 133. 614

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si distingue più dalla rappresentazione fantastica, dal potere immaginativo e mitopoietico. L’onnipotenza della volontà umana che si dispiega teoricamente come rappresentazione mito-logica, fa della esistenza dell’uomo una finzione caricaturale, che ha per esito inevitabile la morte tragica, l’apoteosi della Natura a scapito di ogni sostenibilità della resistenza della cultura alla sua fatale necessità di annientamento del diverso umano. La opposta rivendicazione borghese del “primato del privato sul pubblico e delle libertà individuali sugli obblighi collettivi”, 615 si inscrive nella stessa dialettica riduzionistica dell’uomo a “una dimensione”, tale cioè che la sua esistenza sospesa tra natura e cultura sia definita in senso politico corrispondente pratico del senso teorico assegnato alle scienze moderne emancipate da ogni vincolo teleologico originario ed eteronomo. L’autodeterminazione del sapere scientifico moderno è rispecchiata dalla autodeterminazione politica dei singoli e dei popoli quali unità simboliche determinate per luogo e situazione. L’evento politico, dunque, non è originario nel quadro dello scientismo moderno, ma è la sua proiezione sociologica, sicché il supposto “rovesciamento” delle democrazie parlamentari negli Stati totalitarii non è che i progressivo dispiegamento del principio ideo-logico, già analizzato dalla Arendt, come la successiva conversione in pristino dei regimi totalitari in regimi parlamentari segna la sostanziale omogeneità dei presupposti ideali dell’antropologia moderna. Attraverso le diverse forme contingenti di organizzazione funzionale del Potere. in altri termini, possiamo dire che l’ordine sistemico intrinseco alle diverse variazioni contingenti non muta l’essenza antropologica della struttura politicistica che le sottende. I modi di variazione possibili, costituiti dai diversi regimi politici storici,non alterano l’ordine essenziale connesso al principio di sovranità, quello costituente o pattizio, che costituisce il paradigma moderno di legittimità del Potere assoluto. Il mutamento delle contingenti forme istituzionali dei regimi politici storici non altera la fisionomia essenziale della struttura del Potere, per cui gli assetti mutabili non inficiano il sostrato ontologico durevole, che ne determina le stesse possibili varianti in una o altra direzione politica. 615

G. Agamben, HS, pag. 134.

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In entrambi i casi, questi rovesciamenti si producevano in un contesto in cui la politica si era già da tempo trasformata in biopolitica e in cui la posta in gioco consisteva ormai soltanto nel determinare quale forma di organizzazione risultasse più efficace per assicurare la cura, il controllo e il godimento della nuda vita. 616

Agamben assume la datità biopolitica come uno status naturae, mentre è solo all’interno della declinazione scientifica e politica moderna che quello status prende una sua oggettiva determinazione legittima, non coincidente però con altre forme a altri statuti antropologici, diversi da quello razionalistico moderno. La linea di demarcazione fra le diverse forme perde il carattere di “confine fisso che divide due zone chiaramente distinte”,617 proprio perché relativo al punto prospettico assunto dalla potenza egemone pro tempore, a seguito della assolutizzazione del referente etico relativo al suo potenziale politico, di cui è fine razionale. Il confine formale, cioè, è legato alla stessa mobilità del Potere, emancipato da ogni limes ontologico e vincolo autoritativo. L’assolutezza delle determinazioni scientifico-razionali del mondo ha come ricaduta politica l’assolutezza delle decisioni del Potere. Lo stato di eccezione trova la sua legittimazione nel Potere che può determinarlo e che può rinunciarvi, non esistendo altro dover-essere che la volontà stessa di costituirlo. In tal senso, lo s.d.e. rappresenta la kenosis di un Potere al limite della propria potenza decisionale, il cui esito insindacabile è per ciò indeterminato e interpretabile come attività ovvero come rinuncia. Ma questa delega ermeneutica a una determinazione esterna alla volontà decisionale, mostra l’incompiutezza del Potere e il carattere mitico della sua rappresentatività assoluta. Il dramma di un Potere concepitosi come assoluto, svincolato da ogni limitazione di carattere extra-politico, è di far coincidere l’espansione universale della sua affermazione con l’annientamento di sé, per cui la progressiva razionalizzazione del mondo come assimilazione del diverso-opposto comporta la trasformazione stessa della volontà 616 617

Ibidem. Ivi, pag. 135.

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assoggettante in realtà assoggettata. Infatti la volontà di un Soggetto assoluto per poter sussistere nella sua attività deve assumere il proprio sé come oggetto di giudizio: l’auto-coscienza come seconda navigazione rappresenta la katabasi della volontà di potenza che torna a se stessa, riconoscendo che il mondo-oggetto non è altro che la stessa posizione di un Io rovesciato nel suo opposto non-Io. L’esito dell’autismo metafisico del Soggetto assoluto è la schizofrenia dialettica del Cogito. Questo il senso metafisico essenziale dell’agire politico del Soggetto trascendentale dell’orizzonte umanistico moderno. L’immagine storica del Potere che annienta se stesso è offerta dall’accanimento del regime sovietico, il quale, introiettando il conflitto essenziale alla propria legittimazione razionale, dopo la vittoria sui nemici esterni, si dedica alla persecuzione dei supposti nemici interni allo stesso orizzonte ideologico dichiarati eretici, secondo il modello persecutorio perpetrato dalla Chiesa cattolica. La differenza radicale tra le due prospettive assolutistiche è che, mentre la Chiesa poteva emendarsi in conseguenza della sua destinazione escatologica, lo Stato totalitario non era vincolato ad alcun nomos trascendente, sicché l’identità del sub jectus e del superaneus riproponeva in chiave politica la dinamica del concetto logico, la cui validità etico-epistemica era legata alla negazione del movimento, ossia di quella concretezza e specificità singolare che l’astrazione omologante doveva sopprimere per affermare il modello ideale di uomo, ossia l’ideal-tipo antropologico sovietico. Nell’atto in cui, perciò, il Potere assoluto affermava le sue prerogative sovrane, si definiva anche come legittimo rappresentante in actu della sovranità popolare, con la quale giustificava razionalmente ciò che negava praticamente: il suo dispotismo. Questa “contraddizione” era sanabile solo scorporando dall’ente fisico l’ente politico, facendo del primo il destinatario della decisione sovrana, e del secondo il mandante ideale. ma risultò un rimedio provvisorio e fallace, in quanto l’identità presunta veniva negata all’atto della sua effettualità, poiché se la “nuda vita” era possibile disseminarla “in ogni singolo corpo”, 618 la sovranità, non solo destinataria ma originaria, rimaneva indivisibile, e dunque la 618

Ivi, pag. 137.

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unica “reale” in senso razionale, sicché il destinatario della sua volontà poteva diventarlo solo a condizione della sua estraneazione dall’unità originaria, ossia a seguito della privazione del suo status civilis. Poiché lo status civilis è la condizione della sua perseguibilità, ecco che lo status si degrada in corpus, in soggetto originario naturale, ricettore di pene. L’assicurazione dell’habeas corpus è la condizione della sua punibilità e della sua salvezza esistenziale. non è la libertà politica che viene salvaguardata o punita, ma l’agire essenziale del corpus vitale, biologico e pre-politico, cioè naturale. infatti la politicità equivale all’integrazione nell’unum della sovranità indivisibile. Più corpi sono costitutivi dell’Unità politica essenziale, non oggettivabile perché superiorem non recognoscentem. La sovranità agisce non su se stessa ma sui suoi elementi pre-politici, naturali. Ovvero sugli elementi degradati. E solo a questa condizione può agire col suo potere. non “frantuma la vita sacra” 619 ma la vita mera, la “nuda vita”, quella che può essere messa in gioco nella dialettica politica. Non si può sopprimere la sostanza singolare della sovranità, che la sostiene e la motiva, lalegittima, ma solo la sua scoria naturalistica, il corpo fisico, che diventa oggetto della legge. Il paradosso è nella cura legale di un ente corporale che di diritto esiste solo nella fattispecie, mentre nella realtà esiste come soggetto politico attivo, come sovrano. “Corpus è un essere bifronte, portatore tanto della soggezione al potere sovrano che delle libertà individuali”. 620 Esso è l’astratto individuo universale della legge, il chiunque soggetto all’intimazione del diritto. Già Hobbes lo aveva individuato nel De homine distinguendolo dal corpo politico: corpus naturale / corpus politici pars. Solo i corpi naturali, che si uccidono reciprocamente, sono uguali (De cive).621 La dichiarazione dei diritti dell’uomo è la trascrizione etico-politica del principio di universalità in termini giuridico-formali. L’uomo giuridico è il referente astratto dell’uomo politico concreto. Il primo è potenziale, avulso da ogni determinazione politica concreta, mentre il secondo è 619

Ibidem. Ivi, pag. 138. 621 Ibidem. 620

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l’uomo storico, integrato in una struttura statuale. Il rapporto tra il primo e il secondo rappresenta la sintesi del cittadino dello Stato nazionale moderno. “Le dichiarazioni dei diritti rappresentano la figura originaria dell’iscrizione della vita naturale nell’ordine giuridicopolitico dello Stato nazione”. 622 Questo passaggio è legato alla volontà assolutistica del Potere statuale di affermarsi contro ogni pretesa limitatrice della sua potestas. Rappresenta l’emancipazione antropologica da ogni altra auctoritas nel definire l’uomo quale destinatario di un ordine politico direttamente risolutivo del disagio legato al disordine naturale. L’eliminazione di ogni mediazione metafisica tra (dis)ordine naturale e ordinamento politico, comporta la sussunzione diretta dell’ente antropologico nel suo referente normativo, che è l’ordine giuridico garantito dal Potere. Lo spazio pubblico costituisce e sostituisce l’orizzonte antropico naturale, attraverso una rimozione dell’originario e una dislocazione al suo posto della decisione ontologica, divenuta politica e normativamente legale. La “presenza” (nel senso di Derrida) originaria di ciò che permane al di là e prima di ogni costituzione giuridico-politica, cioè di ogni struttura statuale, è la Natura, come primum ontologico costitutivo dell’Essere, compreso l’uomo. I diritti naturali sono appunto quelli riconosciuti dal Potere legale come la base originaria di ogni cittadinanza. Non diritti divini, quindi, ma legittimati da una sacertà comunque trascendente, che però è il Potere legale a riconoscere come valida all’interno dello orizzonte pubblico, per cui è lo stesso Potere assoluto che può revocarli ad libitum, in conseguenza del proprio arbitrio. La fondazione antropologica dell’ordine giuridico entra in collisione con la possibilità umana di revocarlo eccezionalmente, smentendo così la supposta invarianza di principio per mostrarne il carattere giurisdizionale. L’asserzione naturalistica riflette l’emancipazione del Logos dai suoi fondamenti fideistici, che proprio però sul piano politico mostra il suo carattere mitico, scontrandosi con la natura culturale della mediazione tra l’ipotesi antropologica suppostamente originaria e le forme storiche dell’adattamento umano alla necessità naturale, per far fronte alla quale sussiste la possibilità di un Potere politico. 622

Ivi, pag. 140.

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Lo Stato moderno di diritto, costituendo la sovranità in termini decisionistici, la emancipa da ogni dipendenza originariamente allotria, ma la consegna nel contempo alla aleatorietà della volontà politica, la cui validità giuridica e il cui valore assiologico dipendono dalla forza effettiva atta a sostenerla. Ma se il valore della forza politica è legato alla sua sola effettività, esso coincide con il suo potenziale di violenza. Il germe di ogni rappresentazione totalitaria dello Stato è nella naturalizzazione della forza violenta che riesce a gestire. In questo processo di naturalizzazione va compreso il fenomeno della legalizzazione della sovranità emancipata dall’origine trascendente. Le dichiarazioni dei diritti vanno allora viste come il luogo in cui si attua il passaggio dalla sovranità regale di origine divina alla sovranità nazionale, [in cui] il principio di natività e il principio di sovranità, separati nell’antico regime […], si uniscono ora irrevocabilmente nel corpo del “soggetto sovrano” per costituire il fondamento del nuovo Stato-nazione. 623

La conseguenza logica e terribile di questa declinazione antropologica del Potere, è che l’uomo “è” solo in relazione alla sua definizione politica, fuori della quale egli “non-è” uomo, ossia cittadino. La politicizzazione della condizione umana fa di essa una entità de-finibile dal Potere e quindi disponibile. La cittadinanza non identifica ora semplicemente una generica soggezione all’autorità regale o a un determinato sistema di leggi, né incarna semplicemente […] il nuovo principio egualitario: essa nomina il nuovo statuto della vita come origine e fondamento della sovranità. 624

Non solo. La reductio ad naturam, ossia ad necessitatem, ascrive alla sovranità assoluta un corpo assoluto, e nella reciproca assolutezza si consuma lo statuto totalitario del moderno Potere bio-politico, costretto dalla sua stessa in-finitezza a “ridefinire continuamente nella vita la soglia che articola e separa ciò che è dentro da ciò che è fuori” 623 624

Ivi, pag. 141. Ivi, pag. 143.

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l’orizzonte de-finitorio del Potere e della cittadinanza. 625 La mobilità definitoria è strettamente legata alla natura “oggettiva” dell’ente uomo, quale oggetto sia del suo statuto razionale che della relazione politica razionalmente legittimata. L’uomo, divenuto, da soggetto trascendentale a oggetto di pensiero, perde in questa veste la sua concretezza esistenziale per assumere il ruolo funzionale di ente politico, dove la condizione giuridica è assimilata, per via della necessità che regna sovrana decidendo sovranamente della vita e della morte, a quella naturale. La trasformazione del cittadino in consumatore cosmopolita, col trionfo planetario del capitalismo e l’egemonia ideologica della democrazia parlamentare, elimina l’ultima mediazione storico-istituzionale tra l’astratto uomo universale senza più identità storica, sradicato da ogni contesto culturale e normativo particolare, e l’uomo reale. Il capitalismo si presenta come l’apoteosi dell’uomo naturale, civilizzato non perché portatore di identità trascendente, ma in quanto fruitore di potere tecnologico sui beni di consumo. L’umanità separata dalla cittadinanza non ha più bisogno di una mediazione statuale, relazionandosi direttamente all’agone mercatista della competizione globale. La fine dello Stato, auspicato dal naturalismo sia marxista che liberista, non implica però la fine di ogni mediazione, finché i termini restano sdoppiati. Soltanto la fine della cittadinanza potrebbe assimilare l’unitario sinolo politico a un mero ente bio-psichico, ma ciò implicherebbe la dissoluzione del carattere giuridico del normativo, e la sua coerente identificazione col generico istinto della sopravvivenza. Il superamento dello “spazio puro dell’eccezione” può avvenire soltanto riconsiderando l’uomo una persona, un sinolo esistenziale, avente in sé la sua compiutezza, non separata dalla sua finitezza ontologica. Ciò comporta la rottura del legame organico, ossia ontologico, tra soggettività giuridica e vita biologica, caratteristico della rappresentazione antropologico-politica, propria del razionalismo, che pone il politico come lo spazio privilegiato della Differenza, introiettando sul piano sociologico il suo significato ontologico. 625

Ivi, pagg. 144-145.

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In relazione alla compiutezza umana, va precisato quanto segue. Essa non va intesa in senso biologico, poiché è risaputo e comprovato il disagio dell’uomo a vivere la sua condizione naturale, inducendolo a farvi fronte con ciò che Gehlen chiama “esonero” (Entlastung), inteso come capacità umana di progettare con l’immaginazione rappresentativa le combinazioni utili a fronteggiare un bisogno vitale. La compiutezza di cui qui si parla nasce dall’attitudine propria all’uomo di darsi risposte soggettive a problemi comuni, tali da avvertire l’insufficienza delle strutture istituzionali predisposte pro tempore a risolverli. La soggettività delle risposte ai problemi comuni è il proprio spirituale dell’esperienza umana, in grado perciò di darsi una storia entro l’esistenza, ossia una vita cosciente. Attraverso la coscienza della sua singolarità spirituale l’uomo avverte la presenza della Differenza, ha coscienza cioè dell’alterità. La coscienza dell’alterità (c.d.a.) è quel Logos che distingue e mette in relazione le cose. Essa consiste nella consapevolezza che la singolarità della coscienza è una funzione autonoma dalla necessità naturale e dalla stessa coscienza collettiva di cui pure fa parte. Autonoma, non nel senso di indipendente, poiché ogni concreta determinazione della coscienza fruisce dei mezzi culturali predisposti dalla tradizione in cui l’uomo vive,cioè dal suo contesto esistenziale; ma nel senso della possibilità di variarne le combinazioni strutturali, in virtù di nuove forme rappresentative. Autonomia sta qui dunque per libertà di auto-determinazione della coscienza, ossia attitudine a stabilire una differenza tra il Sé intimo e il Noi collettivo; tra l’intentio in interiore e la opinio communis, e pertanto di stabilire una duplice identità personale, l’una regolata dalla propria rappresentazione del mondo (Darstellung) e l’altra dalle norme di condotta canonizzate dalla vita sociale. È evidente che la sfera normativa del diritto riguardi la dimensione sociale e collettiva della vita personale, alla quale l’uomo concreto fa fronte agendo col medio della volontà. L’ordinamento della volontà in cui il diritto consiste, consente ai singoli di integrarsi nel contesto sociale regolando la propria condotta nel senso

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culturale stabilito normativamente, 626 ma esso non costituisce l’unica fonte di determinazione normativa, sicché tra l’ordinamento giuridico e il foro interiore si può aprire uno spazio di dissenso tale che la coscienza sia costretta a scegliere quale dei due seguire. In questa situazione tragica si manifesta la Differenza tra la condizione umana di possibilità e la condizione naturale di necessità. Ed è in questa situazione di crisi della coscienza che l’ordinamento sociale giuridicizzato appare alla rappresentazione interiore come esterno al proprio Sé e dunque come un ordine naturale. La differenza tra spirituale e naturale misura l’alterità dell’uomo dalla realtà fisica. Assumendo l’unità ideale di tale realtà fisica come l’Essere, l’alterità spirituale dell’uomo va considerata come ciò che ne è ontologicamente differente, ossia come la presenza esistenziale che non è (riducibile ad) ente. L’uomo, infatti, metafisicamente è niente rispetto alla realtà ontica naturale, e come tale esso viene destinato dalla Necessità che la presiede a un destino di morte, caratteristico della vita del suo corpo. Insidiato da questo destino, la riduzione alla “nuda vita” non può che coincidere con la naturalizzazione forzata dell’uomo, con la considerazione della sua esistenza a vita biologica, ossia a lotta per la sopravvivenza.627 La metafisica occidentale, quale pensiero dell’Essere, è una rappresentazione dell’esistenza umana come realtà bio-psichica normativizzata entro un orizzonte di convivenza politica nel cui spazio pubblico la sua volontà agisce nei termini razionali fissati dal Potere come significativi. Si comprende come la testimonianza di una realtà ultronea a quella pre-fissata dallo spazio razionale pubblico apparisse come “follia” alla cultura metafisica greca, ma la definizione della libertà spirituale entro lo spazio esclusivo della mania veniva assunta

626

Che esistano ordinamenti extra-giuridici che integrino i comportamenti umani in un determinato ambiente socio-culturale, non inficia la condizione di superiorità gerarchica che le norme giuridiche hanno conseguito nella forma di convivenza politica organizzata a Stato. 627 In tal senso, analogo allo stato di eccezione è la reclusione dell’uomo in carcere, nel cui ambito l’esistenza si riduce a pura temporalità biologica, a vita fisica.

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consapevolmente dagli stessi filosofi, quali pensatori privati dalle dottrine pubblicamente non riconosciute. Entro lo spazio della pubblica legalità giuridico-politica, è il Potere a decretare sul valore della vita umana, stabilendo le circostanze in cui essa sia “indegna di essere vissuta” (lebensunwerten Leben). Di conseguenza, “la negatività è il criterio per stabilire se qualcosa appartiene all’ambito del valore”, per cui Rickert potè asserire che “il vero atto di valutazione è la negazione”. 628 Questa “nuova categoria giuridica corrisponde puntualmente alla nuda vita (bloss Leben) dell’homo sacer”, dal momento che “la nuda vita non è più confinata in un luogo particolare o in una categoria definita, ma abita nel corpo biologico di ogni essere vivente”. 629 Infatti, “la vita indegna di essere vissuta non è un concetto etico [ma] piuttosto un concetto politico, in cui è in questione l’estrema metamorfosi della vita uccidibile e l’assunzione della cura del corpo biologico della nazione, e segna il punto in cui la biopolitica si rovescia necessariamente in tanatopolitica”.630 Ciò comporta che nella biopolitica moderna, sovrano è colui che decide sul valore o sul disvalore della vita in quanto tale,. La vita che, con le dichiarazioni dei diritti, era stata investita come tale dal principio di sovranità, diventa ora essa stessa il luogo di una decisione sovrana. 631

In realtà, come si è chiarito supra, non è così. Ciò che è in disponibilità del sovrano non è la vita dell’ente naturalizzato pre-politico, che non esiste storicamente, ma la sua destinazione entro lo spazio pubblico della comunità politica, assunto per decisione etica come l’orizzonte naturale dell’esistenza razionalizzata, ossia come un Tutto rispetto al quale ogni singolo membro sociale è la parte. La dimensione politica è l’ambito in cui si dispiega il Potere universale totalitario, non più limitato da alcun fondamento originario trascendente la decisione ontologica. Il razionalismo moderno torna all’olismo antico allorquando 628

Cit. da C. Schmitt in Teoria del partigiano; ved. G. Agamben, HS, pag. 151. G. Agamben, HS, pag. 154.] 630 Ivi, pag. 157. 631 Ivi, pag. 158. 629

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il Potere assoluto si incontra epistemologicamente con il sapere universale della scienza che lo legittima, aventi entrambi a oggetto l’astratto ente di natura, nel cui neutro concetto viene assimilato l’uomo naturalizzato, portatore della “nuda vita” biologica. Il “corpo popolare” è la realtà biologica del corpo politico, il suo rispecchiamento sociologico, sicché “il totalitarismo del nostro secolo [XX] ha il suo fondamento in questa identità dinamica di vita e politica e, senza di questa, rimane incomprensibile”. 632 La vita è il corpo naturale del corpo politico, la realtà empirica dell’unità ideale, la cui sintesi è lo Stato legislatore: la differenza tra i regimi, è solo tra chi lo rappresenti: il Re, il Fuehrer o il Parlamento. In questo senso la politica è l’attività che “dà forma alla vita del popolo”.633 La “vita” è l’agire fattuale e la “cura” (Sorge) dell’uomo nella sua deiezione economica. La fatticità è appunto la condizione nella quale la vita non ha bisogno di assumere dei “valori” ad essa esterni per diventare politica: politica essa è immediatamente nella sua stessa fatticità. L’uomo non è un vivente che deve abolirsi o trascendersi per diventare umano, non è una dualità di spirito e corpo, natura e politica, vita e logos ma si situa risolutamente nella loro indifferenza. 634

L’analisi della fatticità di Heidegger sposta sul piano del vissuto l’analisi fenomenologica che Husserl costituiva all’interno della riduzione eidetica, dello spazio del Logos. Ciò che Husserl svolto al’interno della coscienza, Heidegger la effettua all’interno invece della Lebenswelt. Qual è la “matrice nascosta”, il “nomos dello spazio politico” in cui si realizza la figura concentrazionaria dell’homo sacer635 e di una intera popolazione civile in stato di eccezione sotto la legge marziale? Per Agamben è il giuridico, non quale diritto comune ma come “custodia preventiva” (Schutzhaft), il cui dispositivo risale al 1850 in 632

G. Agamben, HS, pag. 165. Ivi, pag. 167. 634 Ivi, pag. 170. 635 Ivi, pag. 185. 633

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Prussia636 e prevista dalla Costituzione di Weimar, il cui art. 48 sulla sospensione dei diritti fu applicato durate i 12 anni del regime nazionalsocialista, in modo tale che “lo stato di eccezione cessa, così, di essere riferito a una situazione esterna e provvisoria di pericolo fattizio e tende a confondersi con la norma stessa, 637 per cui l’eccezione diventa regola e la condizione normale è sospesa al fine della instaurazione del novus ordo nazista. “La novità è che, ora, questo istituto viene sciolto dallo stato di eccezione su cui si fondava e lasciato vigere nella situazione normale”.638 Ciò che in questa dinamica del finito non viene in luce è la natura astratta della struttura politica, la quale si fonda sulla decisine ontologica che assimila l’esistenza dell’uomo a quella di un ente di natura, escludendo dal plenum della sua realtà concreta quanto non possa essere sussunto entro l’orizzonte di una razionalità definitoria concepita come relazione necessaria tra fenomeni misurabili e perciò prevedibili; ossia il particolare, ciò che diviene e resta misterioso al calcolo del Potere. in una parola, la coscienza spirituale interiore. Ciò significa che il theorein può finalmente riflettersi oggettivamente nella realtà sociologica, trasformando il legein soggettivo e privato in analisi sociale e pubblica del Potere politico, determinandosi come Logos storico. La storicità del Logos risiede nella sua stretta attinenza alle sorti dell’uomo socializzato e disponibile dal Potere Senza il quale esso, come ente politico naturale, non sarebbe. La dipendente onto-logica diventa a questo punto politica. ma perché si giunga a questo esito, la sua possibilità è già inscritta nella forma universale con cui il giudizio apofantico perviene alla conoscenza del mondo; quel mondo che l’ontologia ha presunto essere esclusivamente attualità fenomenica, eterno presente. Ciò che l’ontologia esclude dalla sua gnosi razionale è la condizione di possibilità che pre-cede l’affermazione decisiva a favore dell’Essere 636

“Il fondamento giuridico della Schutzhaft era la proclamazione dello stato di assedio o dello stato di eccezione, con la corrispondente sospensione degli articoli della costituzione tedesca che garantivano le libertà personali”: Ivi, pagg. 186-187. 637 Ivi, pagg. 187-188. 638 Ivi, pag. 188.

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anziché del Nulla, ossia la condizione originaria dell’alterità umana rispetto alla Natura, la quale, rispetto alla realtà presente della affermazione ontologica, è mistero, che si riflette nella esistenza dello uomo come coscienza e intenzione singolare. La decisione ontologica, avendo interpretato questa dimensione coscienziale come il Cogito, che in Cartesio fonda il suo principio di realtà nella garanzia divina, e in Kant nella res extensa che Cartesio aveva distinto dalla mente contemplativa. Lo scientismo moderno, decretando dopo Kant la impossibilità della metafisica come conoscenza scientifica, elimina dal novero della rilevanza epistemologica la realtà ultronea della coscienza spirituale, e con essa anche la fede che sorregge la credenza ontologica nella validità assiologica della sua decisione per l’Essere anziché per il Nulla. Con la rimozione del fondamento di fede nella validità del Logos, viene supposto come irrilevante il sentimento di dipendenza dell’uomo dal mistero della sua libertà rappresentativa. Il presente eternizzato rimuove con l’origine misteriosa anche il passato arcaico, ossia la stessa condizione di alterità rispetto alla condizione naturale di cui l’Essere è la forma ideale, e che costituisce invece la sua identità più profonda, che emerge negli stati parossistici dell’esistenza, entrando in conflitto con la rappresentazione razionale del mondo, di cui si pone come limite non riconosciuto. Ciò cui il razionalismo assoluto tende è la esclusione della dipendenza della ragione dalla mediazione divina, che consente di spiegare il passaggio originario dall’alterità alla dimensione ontologica, ossia tende a rimuovere la natura trascendente della Differenza, che ascrive il fondamento non più all’Essere della determinazione logica ma alla realtà imperscrutabile del Mystero di Dio La conseguenza essenziale è che la forma giuridica, staccata dal suo servizio assiologico e divenuta mera tecnica, perde ogni relazione organica con la concreta destinazione al bene comune dell’esistenza umana socializzata, che era appunto la sua sussistenza come alterità spirituale rispetto alla destinazione naturale alla morte. Il diritto, resosi anch’essi assoluto e pura tecnica di potere, veniva fruito dal Potere totalitario per disegnare un anti-sistema che poggiasse sulla sua forza de-sacralizzata e ridotta a violenza per trasformare l’eccezione in condizione fisiologica, entro un orizzonte normativo totalitario in grado 284


di normalizzare anche l’eccezione, facendo di essa un durevole presente sospeso sulla decisione fondamentale. Il campo concentrazionario era un orizzonte normativizzato, e come tale normalizzato da una intrinseca ratio essendi. Rispetto al potere costituente, fondativo di un novus ordo legale, l’estensione permanente dello stato di eccezione godeva una sua legalità normativa non originaria, sia pure auto-immunizzata, ma derivata dall’ ordinamento che di fatto ne costituiva l’antitesi giuridica, e che quell’estensione eccezionale negava e rimuoveva dalla sua vigenza attuale. Il movimento di esclusione logica del ni-ente si rapporta all’esistenza storica come negazione del passato a favore del presente, e politicamente come rivoluzione. La rivoluzione politica costituisce il contesto avvenimenziale in cui si sospende il processo storico normativamente regolamentato e si afferma la realtà del solo presente assolutizzato della decisione sovrana, che, divenuta fonte legale, congeda con la sua volontà assoluta il passato dalla rilevanza nello spazio pubblico condendo. La doppia fonte integrata di un diritto derivato da uno originario che viene negato ma che formalmente lo legittima, dimostra che il supporto tecnico di istituti giuridici specifici non può dipendere dal sistema originario necessariamente, ma solo storicamente, e che la loro vigenza dipende sempre dalla forza che li rende effettivi, che è quella della violenza di cui può disporre il Potere pro-tempore. Il campo, quale “spazio permanente dieccezione”, 639 è formalmente esterno al sistema strutturale ma funzionalmente interno alla sua prevista eccezione, muovendosi “in una zona di indistinzione fra esterno e interno,eccezione e regola, lecito e illecito, in cui i concetti stessi di diritto soggettivo e di protezione giuridica non avevano più senso”, perciò assumendo valore di “paradigma dello spazio politico nel punto in cui la politica diventa biopolitica e l’homo sacer si confonde virtualmente col cittadino” 640 e il fatto col diritto. Il “fatto” che diviene “diritto” è la volontà di un Potere assoluto che asservisce il diritto – cioè la ragione strutturata in sistema normativo – come mero strumento 639 640

G. Agamben, HS, pag. 197. Ivi, pag. 191.

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tecnico della violenza politica. Allorquando il “fatto”, la nuda espressione della volontà, viene acquisito come realtà del politico, diviene anche realtà del giuridico, tanto che “i due piani tendono a diventare indiscernibili”, 641 poiché tra essi non sussiste più alcuna mediazione che stabilisca il limite tra il possibile e il lecito. La rimozione della Differenza ontologica si trasforma in rimozione del limite al Potere tra il Giusto (nomos) e il fattuale (lex) in quanto cambia il senso (telos) della ragione, ossia la destinazione funzionale del Logos, che da strumento di discernimento, e dunque di orientamento, diventa strumento previsionale di decisione. Un orizzonte ontico senza Differenza trasvaluta anche il Logos quale chiave di accesso al mondo, declinando la sua funzione da mediatore metafisico (vero/falso, bene/male) a calcolante tecnico (corretto/sbagliato, efficace/inadatto). La moderna “rivoluzione scientifica” è tutta qui. Mancando il fine, tutto diventa mezzo, e la ragione dei fini diventa ragione strumentale. L’indifferenza di fatto e diritto è la nuda possibilità della forza a esprimere la efficacia della forza del Potere, oltre ogni regola legittima. Ciò rendeva obsolete le ipotesi di una legislazione che potesse prevedere e circoscrivere comportamenti normativizzati, rendendo attuali quelle “clausole generali e indeterminate [che] non rimandano a una norma, ma a una situazione, penetrando invasivamente nella norma”, e sotto la cui azione si “spostano certezza e calcolabilità al di fuori della norma”, per cui “tutti i concetti giuridici si indeterminano”. 642 La volontà resa assoluta e illimitata, nell’atto di diventare decisiva fonte normativa acquista carattere antigiuridico di indeterminazione, cioè di imprevedibilità, liberando così la sua carica di libertà dal limite canonico in termini di misteriosa violenza. Il nòmos émpsychon di Pitagora è la legge vivente 643 come violenta necessità entro uno spazio esistenziale naturalizzato di in-differenza di vita e cittadinanza, tra nascita e Stato-nazione, che “costituisce il fatto nuovo

641

Ibidem. Ivi, pag. 192. 643 Ivi, pag. 194. 642

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del nostro tempo”, che Agamben chiama “campo”, in cui “la legge è sospesa” in una dislocazione arbitraria di ordinamento e vita. 644 La rimozione della Differenza è l’esautorazione del  e la quale esclusiva esaltazione della espressione della oggettivazione del pensiero umano come volontà. La moderna rimozione della metafisica, l’esautorazione del pensiero contemplativo e l’esclusiva considerazione della volontà nella determinazione qualificata dell’agire umano, fanno tutt’uno con l’oggettivismo scientifico. Nell’orizzonte della scienza normativa per eccellenza, il diritto, il dispositivo tecnico che funge da mediatore tra volontà e prassi è l’istituzione, che nella versione totalitaria assegna al solo Potere la facoltà del “libero arbitrio”. 645 Ma l’esonero della contemplazione non è altro che la rimozione della coscienza quale luogo della rappresentazione del mondo attraverso il Logos, ossia della esautorazione del linguaggio quale orizzonte di elaborazione di senso dell’esperienza umana, sostituito dal calcolo e dal gesto. Con il congedo della parola, viene a perdersi anche l’identità antropologica dell’umano come essere linguisticamente strutturato, e cioè spirituale, idoneo a coltivare se stesso in vista della pienezza escatologica (salvezza) della quale la sua storia personale era esperienza (experior) e testimonianza esistenziale. La qualifica della vita umana come “nuda” (bloss) sta a indicare la riduzione dell’esistenza alla sola esperienza biologica (oikosnomìa) soggetta alla necessità e priva di ogni auto-determinazione interiore secondo norme trascendenti e indisponibili, ossia gli a priori della soggettività trascendentale. E col dominio della Natura termine anche l’identità dell’uomo quale essere di cultura, ridotto a grumo di pulsioni vitali destinato alla morte. La destrutturazione dell’identità del Soggetto trascendentale, rimuovendo il criterio cardinale della Differenza, consegna l’esperienza umana all’accidentalità del caso, alla contingenza, a quella eccezionale dislocazione senza ordinamento e a quella “localizzazione dislocante, in

644 645

Ivi, pag. 197. Ved. C. Marco, L’ordine pigro, cit., vol. I, pagg. 436-447.

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cui ogni forma di vita e ogni norma possono virtualmente essere prese” dal sistema politico.646 L’identità dislocata dei termini della Differenza originaria Uno / Molteplice, in cui l’Essere ontologico unitario figurava come la rappresentazione ideale della molteplicità empirica degli enti fenomenici, proietta la sua consequenziale dislocazione semantica politica nella figura simbolica del “popolo”, anfibologicamente sospesa tra l’accezione pubblicistica di “corpo politico integrale depositario della sovranità” e l’accezione sociologica di “molteplicità frammentaria di corpi bisognosi ed esclusi”, in cui si riflette “la struttura politica originale: nuda vita (popolo) ed esistenza politica (Popolo), esclusione ed inclusione, zoè e bios”, in cui consiste la “frattura biopolitica fondamentale”.647 Il popolo, pertanto, è ciò che non può essere incluso nel tutto di cui fa parte e non può appartenere all’insieme in cui è già sempre incluso. Di qui la contraddizione e le aporie cui esso dà luogo ogni volta che è evocato e messo in gioco sulla scena politica […]; è ciò che, per essere, deve negare, col suo opposto, se stesso. 648

Se questa è la condizione storica del depositario moderno della sovranità e insieme della frattura biopolitica, fondamentale, allora”il nostro tempo non è altro che il tentativo – implacabile e metodico – di colmare la scissione che divide il popolo eliminando radicalmente il popolo degli esclusi”.649 Agamben pare non avvedersi del tragico paradosso ideologico che nasconde questa dinamica della frattura e della riconciliazione, la quale, all’atto di voler rimuovere la Differenza discriminante tra la sfera del dovere e quella del Potere, ossia la gerarchia dei valori che ha sorretto la preminenza filosofica della soggettività costruttiva di senso universale, introduce la “frattura” all’interno dell’orizzonte biopolitico tra momento vitale e momento 646

G. Agamben, HS, pag. 197. Ivi, pag. 199. 648 Ibidem. 649 Ivi, pag. 200. 647

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istituzionale, che la teoria della rappresentanza democratica aveva creduto di superare, ma che dialetticamente ritorna proprio allorquando la dicotomia idealistica sembrava aver trovato una sintesi effettuale nella prassi decisionistica. L’aspetto paradossale risiede nella condizione stessa in cui si muove il giudizio politico, il quale può sospendere imperativamente il funzionamento ordinario del sistema giuridico, ma non può eliminarlo se non vuole cancellare la residua differenza tra sovranità e destinatari del potere, che consente l’unità del politico nella dissoluzione della struttura normativa. Reintroducendo, però, o conservando, la topologia del Potere (sopra/sotto), si deve riabilitare con essa, sia pure surrettiziamente, la sua rappresentazione ideale, quella che consente appunto di unificare la quantità molteplice del popolo empirico nell’unità rappresentativa del Potere decisionista, che è uno (come fonte normativa) e insieme molteplice (come realtà sociologica del popolo). Se il “popolo” come entità sociologica può essere assimilato a una condizione naturale, legata alla necessità della produzione dei beni di consumo (gli idioi aristotelici), il Popolo quale ente politico è una invenzione razionalistica dell’Illuminismo, assunta dal Romanticismo in termini mitico-sentimentali. In conformità all’assunto universalistico del razionalismo idealistico, la realtà storica doveva riflettere l’Idea razionale perché avesse i crismi della legittimità politica e della validità scientifica. Da qui l’istanza omologante della prassi politica, tesa a uniformare l’ente sociale popolo all’ideale politico Popolo. Ma come la sociologia politica ha dimostrato sin dall’inizio del Novecento (penso alle ricerche sulla struttura dei partiti politici), l’identità giuridicoformale della rappresentanza democratica non eliminava la dicotomia funzionale tra élite e menu peuple, sicché se si voleva conservare allo Stato una sua centralità di potere, non si poteva fare a meno di strutturarlo in senso gerarchico, assumendo come mediatore istituzionale tra vertice unitario e base molteplice una impersonale burocrazia, la cui funzione tecnica serviva a filtrare le generiche istanze sociali rendendole politicamente possibili. Per tale fondamentale ragione funzionale la razionalizzazione dello Stato moderno, quanto più tendesse a unificare il Potere nel nòmos émpsychon di una sola persona, 289


tanto più diramava la struttura burocratica, articolandola nel controllo mediatore di ogni molteplice settore della vita sociale, sia pure simbolicamente unificato dall’appartenenza politica unitaria. Lo stato di eccezione, quale condizione abnorme della vita politica, costituisce il ripristino simbolico della situazione originaria in cui la coscienza collettiva perviene alla decisione metafisica di fissare la realtà ontologica attraverso la Parola esclusivamente orientata all’Essere. Nell’orizzonte politico, l’archetipo decisorio viene rievocato simbolicamente dal criterio giuridico della legalità, che sostituisce mimeticamente la necessità della natura con l’autorità sovrana in funzione demiurgica, ripristinando la Differenza originaria tra Ordine e Caos. L’antitesi politica amicus / hostis non è dunque che la proiezione fenomenica di una originaria dicotomia cosmologica che per decreto sovrano viene riprodotta all’interno della socialità politica come situazione emergenziale, che il Potere crea e insieme risolve; ovvero, crea per poterla risolvere. In questa situazione para-ordinamentale (praeter legem), il riferimento al Potere avviene per appello identitario, e non per via di rappresentanza giuridica, e tale che le volontà sovrana decreti il passaggio dallo stato di inquietudine allo stato di certezza esistenziale, affermando imperativamente la decisione antropo-logica per l’Essere anziché il Nulla. Tale passaggio ontologico avviene per mezzo e nell’ambito della Parola (Logos), le cui strutture archetipe, stabilite sulla Differenza originaria, costituiscono il modello di ogni secondario paradigma culturale, linguistico, teoretico e giuridico. La rimozione razionalistica della Differenza originaria dell’Essere determinato dal Logos, dall’in-distinto originario del Mythos, ha reintrodotto la dicotomia archetipa all’interno della positività ontica, che legittima razionalmente la sua preminenza con l’esclusione di ciò che originariamente la nega e rispetto alla quale l’affermazione d’essere stabilente ciò-che-è (l’ente) costituisce l’orizzonte normativo del valore di realtà. La rappresentazione (Darstellung) razionalistica della realtà, rimuovendo dalla sua gnosi idealistica la dinamica della Differenza, procede per negazioni esclusive dell’altro, indicandolo come diverso e polarizzato appunto come negativo, che diventa lo hostis della dialettica 290


politica. Per questa fondamentale ragione, l’intero sistema metafisico dell’ontologia greca è in radice antitetico e incompatibile con la disposizione spirituale del cristianesimo evangelico, ossia di una rappresentazione della Parola informata al principio inclusivo dell’Agape e non all’esclusivo Logos erotico. La differenza fondamentale tra la Parola spirituale (Verbum) e la Parola filosofica (Logos) è la stessa che tra il Dio trascendente cristiano, testimone della fede nell’in-visibile, e il dio aristotelico e cartesiano dei filosofi, garante dell’ordine razionale del mondo. L’Alterità trascendente, immanentizzata in polarità dialettico-politica, si traduce in conflitto, e il rapporto gerarchico in antagonismo esclusivo in senso schmittiano. Il razionalismo politico trasferisce il conflitto “naturale” nell’ordine della polis, normativizzandolo come “libertà civile”. Proprio la contiguità tra conflitto politico e conflitto di interessi economici, tipico della vita civile, crea i presupposti dell’economicismo contemporaneo, ossia dell’assolutizzazione del conflitto come criterio stesso di coesistenza sociale, facendo del conflitto il principio politico universale quale criterio della libertà. La contraddizione interna all’universo economico è la sua irresolutezza, tale che la stessa costituzione conflittuale dei rapporti umani richieda un intervento extra-sistemico ed eccezionale di carattere leviatanico, agente in scala macroscopica in modo analogo a come si rapporta il Potere sovrano verso i singoli homine sacri. In tal modo si origina e si giustifica razionalmente la figura demiurgica del Fuehrer, duce di un intero popolo quale Potere decisionista circa il dentro e il fuori la norma socio-politica. L’ipotesi contrattualistica pone all’inizio del rapporto politico la volontà umana libera da ogni recedente status personae di tipo religioso o familiare, costituendo il politico come un rapporto tra soggetti indipendenti e liberi di disporre di sé. Rispetto alla concezione classica aristotelica, quella moderna rimuove la realtà originaria della condizione familiare e di comunità topica, stabilendo come status di estraneità pre-politica la condizione naturale individuale, quella appunto bio-politica: biologica come destinazione extra politica, e politica in quanto fonte normativa di tale destinazione. Ma da qui a stabilire che 291


“la politica occidentale è fin dall’inizio una bio-politica” 650 è una forzatura storico-concettuale, poiché la rimozione della dimensione divina della sovranità nasce in età moderna, con il razionalismo assolutistico non riconoscente alcuna autorità superiore alla potestà regia. Esso ha operato nei termini di un rapporto diretto e identitario tra sovranità e potere, teso a eliminare ogni limite sovrannaturale e metastatuale, dalla Chiesa perorato. In tal senso, il superamento assolutistico della diarchia tra Chiesa e Stato è all’origine genetica del totalitarismo contemporaneo, agevolato dalla posizione concordataria della Chiesa, fondata sul presupposto politicistico e giuridico della sovranità, anziché fideistico e ontologico, che ha svolto in termini legalistici e dunque disponibili la Differenza metafisica tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, ossia tra la parte e l’Intero. La condizione intermedia tra norma-lità assiologica e etero-dossia individuale è stata considerata nella cultura cristiana la follia quale stadio propriamente umano attestante la sua labilità e finitezza: l’homo sacer bandito dal consesso sociale come estraneo, è il folle desocializzato. Rendendo parziale l’istanza teologica, la si è dialettizzata nel conflitto politico-giuridico tra enti giuridicamente sovrani. Isolato l’uomo dalla sua comunità originaria, familiare e religiosa, lo si è reso disponibile al potere bio-politico. Il cristianesimo aveva confutato l’ideale sociologico pagano, facendo dell’uomo una “persona” non riducibile né a natura né a ente di ragione. Ciò consentiva al dato naturale di non potersi isolare, e alla condizione razionale di non costituirsi come auto-sufficiente. Quanto all’ “essere puro” (on haplòs), esso è puro di determinazioni e quindi pieno e uno ma anche trascendente rispetto alla esistenza concreta, diveniente. Il rispecchiamento socio-politico della unità e totalità dell’Idea è un’istanza razionalistica moderna, superatrice di ogni mediazione metafisica e istituzionale tra Potere e singoli sudditi. Da qui la possibilità che il Fuehrer del Terzo Reich abbia un potere “tanto più illimitato, in quanto egli si identifica con la stessa vita bio-politica del popolo tedesco”, sicché “in virtù di questa identità, ogni sua parola è immediatamente legge”.651 Infatti, “quella di Fuehrer non è più una 650 651

G. Agamben, HS, pag. 202. Ivi, pag. 205.

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carica nel senso del diritto pubblico tradizionale, ma qualcosa che scaturisce senza mediazioni dalla sua persona, in quanto questa coincide con la vita politica del popolo tedesco. Egli è la forma politica di questa vita: per questo la sua parola è legge, per questo egli non esige dal popolo tedesco altro che ciò che in verità esso già è”. 652 Più esattamente, la sua attività politica è realtà esistenziale e creativa, anziché formale e predeterminabile. E questo poi è il senso della “rappresentanza esistenziale” di cui Schmitt nella Wertfassunglehre e già implicata nella “volontà generale” di Rousseau. La “integrità” del Fuehrer è la coincidenza democratica della sovranità tra potere e popolo, tra corpo fisico e corpo spirituale risotto al primo: animale parlante. “Un diritto che pretende di decidere sulla vita prende corpo in una vita che coincide con la morte”. 653 Qui il sensibile decade a mera “vita” “affermata in sé. Viene privato di ogni risonanza dell’Essere” (Heidegger). La distanza tra la vita e l’esistenza piena passa attraverso l’estraneazione (forza, politica) dall’Essere e la riduzione dell’esistenza a esperienza biologica informe, ossia priva di senso razionale, di conformità e un riconosciuto senso comune. Non è un caso che, come ricorda Foucault, la “nuova meccanica di potere” bio-politico moderno sia apparsa tra i secoli XVII e XVIII, ossia nel periodi di espansione del Potere razionalizzato; né che essa sia “assolutamente incompatibile con i rapporti di sovranità” tradizionali. 654 Infatti, l’assolutizzazione del Potere implica la sua espansione oltre i limiti del regno naturale, dominato tradizionalmente dalla Necessità incoercibile dalla volontà umana. Così come un sapere autoponentesi universale non può assumere che provvisoriamente un limite di ignoranza, parimenti un Potere legittimato dal sapere non può che agire affermandosi oltre ogni provvisorio confine del lecito, fino alla meta auspicata del controllo totale di ciò che gli è subordinato. Entro l’orizzonte aperto e mobile del moderno Potere, ciò che va progressivamente incluso nella sua orbita di controllo è la dimensione religiosa, ossia quell’ambito della vita spirituale che prima della 652

Ivi, pag. 206. Ivi, pag. 208. 654 M. Foucault, Il faut défendre la société (1997), tr. it., Milano, 1998, pag. 38. 653

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Riforma veniva considerata con-partecipe della stessa legittimazione della sovranità, ma che, dopo la scissione protestante dell’unità dei cristiani europei, aveva infranto e reso variabile la sua co-appartenenza alla comunità politica. Il senso profondo della famosa formula “cuius regio, eius religio” della pace di Augusta (1555) era proprio in questa istanza di ricomposizione dell’unità spirituale tra sudditi e Potere, costitutiva della mediazione che, in seguito alla costituzione dello Stato assolutista, verrà assunta dal diritto. In questo senso, la bio-politica nasce con lo Stato di diritto secolarizzato, ne è la sua espressione tecnica e il suo contenuto economico. Nello stesso senso, la bio-politica segna la regressione della razionalità del Potere dalla dimensione della politeia a quella dell’oikos, attraverso la declinazione de-valorizzata della razionalità a pura tecnica di potere. Questa moderna regressio ad naturam della convivenza umana socializzata libera le potenzialità insite nel processo della sopravvivenza polemica, provocando una dislocazione dei centri funzionali alla esistenza dei singoli e dei gruppi dalle strutture del Potere politico a quelle degli apparati produttivi, sicché i nomoi tradizionali di legittimazione del Potere, ancora ascritti dall’etica kantiana alla interiorità singolare, appaiono superati a favore di una risultanza oggettiva dei suoi contenuti eudemonistici, tanto più esaltanti la forza vitale quanto più sottoposti al criterio mortifero della necessità naturale, la cui economia di vita è coincidente con la sua economia di morte. Ciò spiega l’apparente “paradosso” tanatologico, in cui è rimasta irretita l’analisi di Foucault, per cui “al culmine della politica della vita si sia generata una potenza mortifera portata a contraddirne la spinta produttiva”.655 Il superamento in senso pluriverso della centralità del Potere monocratico, che andrà vieppiù a caratterizzare l’articolazione delle moderne società liberali industriali, è conseguente alla stessa funzionalità dell’economia politica come spettro delle sue molteplici attività particolari,nessuna delle quali può identificarsi col Potere, ma senza che nessuna di esse sia irrilevante per il complesso della sua sussistenza. La coesistenza contraddittoria dell’istanza formale dello ordine politico, che tende all’unità sintetica della molteplice realtà 655

R. Esposito, Bìos. Biopolitica e filosofia, Torino, 2004, pag. 33.

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sociale, con l’istanza poliarchica della vita economica, si riflette già nel sincretismo implicito nel termine di “bio-politica”. In realtà concettualmente esso esprime un ossimoro, che il lemma, rifacendosi al calco del bios politikòs aristotelico, tradisce, sicché la particella del “bios”, alludendo alla corporeità fisica, va intesa piuttosto come “zoé”, intesa come esistenza biologica. 656 In senso giuridicopolitico, invece, la congiunzione dei due termini vuole intendere “un unico, inscindibile, insieme che assume senso soltanto a partire dal loro rapporto”. Ma così inteso, esso costituirebbe un terzo genere, sintetico dei due originari, che R. Esposito indica col termine di “immunità”, la quale “non è solo la relazione che connette la vita al potere, ma il potere di conservazione della vita”, in modo tale che, “non esiste un potere esterno alla vita, così come la vita non si dà mai fuori dei rapporti di potere”.657 Il che sarebbe una ovvietà se non fosse concepita come “una relazione causale, di tipo negativo”, ossia garante di una “protezione negativa della vita”, in quanto agisce in maniera indiretta, che sottopone l’organismo sociale malato “a una condizione che contemporaneamente ne nega, o riduce, la potenza espansiva”, subordinandolo a “un potere costrittivo”, esterno e sovrano. 658 In cosa consiste il morbo sociale? Nella stessa “potenza vitale”, verso la quale, essendo “portata ad espandersi illimitatamente […] tutti i dispositivi del sapere e del potere svolgono un ruolo di contenimento protettivo”.659 Ma se così è, allora la “vita” e il “potere” non sono fusi in unità ideale ma posti in contrasto alternativo, ovvero, come da noi sostenuto, tragico. Esposito, sulla falsariga di Hegel, intende il rapporto tra vitale e culturale in termini dialettici (“dialettica immunitaria”), e dunque il primo come il “negativo” del secondo. 660 Questa natura antinomica emerge soprattutto in età moderna, quando si prende consapevolezza del carattere aporetico delle categorie politicoistituzionali poste a protezione della vita, che finiscono, in virtù della 656

Ivi, pag. 4. Ivi, pag. 41. 658 Ivi, pag. 42. 659 Ivi, pag. 43. 660 Ivi, pag. 45. 657

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loro natura negativa, per “rimbalzare sul proprio significato e ritorcersi contro se stesse”.661 In termini etimologici, la immunitas è la “forma negativa, o privativa, della communitas”; se infatti questa indica la “relazione che, vincolando i suoi membri ad un impegno di donazione reciproca, ne mette a repentaglio l’identità individuale, l’immunitas è la condizione di dispensa da tale obbligo e dunque di difesa nei confronti dei suoi effetti espropriativi”.662 Insomma, un correttivo giuridico di tipo privatistico teso ad affermare un’istanza individualistica in ambito comunitario, per cui “immune è il ‘non essere’ o il ‘non avere’ nulla in comune”. 663 Insomma, l’impolitico. La politica si è sempre preoccupata di salvaguardare la vita, per cui “tutte le civiltà, passate e presenti, hanno posto, e in qualche modo risolto, l’esigenza della propria immunizzazione”, anche se “solo quella moderna ne è stata costituita nella sua più intima essenza”, tanto che potrebbe dirsi che “non è stata la modernità a porre la questione dell’autoconservazione della vita, ma questa a porre in essere, e cioè a ‘inventare’, la modernità come apparato storico-categoriale in grado di risolverla”.664 L’equivoco di fondo del ragionamento di Esposito è di ignorare che la rappresentazione (Darstellung) della libertà del soggetto trascendentale “procede verso la regione di ciò che deve esser reso sicuro”, 665 in quanto la insicurezza è la condizione antropologica connotativa di uno status ontologico originario, da lui stesso ricordato citando la “nozione dialettica di compensatio” sviluppata da pensatori come Scheler, Plessner e Gehlen, 666 in virtù della quale ogni forma operativa costituisce una risposta storica a una mancanza, ossia a un non-essere interno all’orizzonte naturale, a partire dal quale la realtà culturale, propriamente umana, costituisce un’eccezione, temporale e transeunte. 661

Ivi, pag. 53. Ivi, pag. 47. 663 Ivi, pag. 48. 664 Ivi, pag. 52. 665 M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes, cit. da R. Esposito, Bios, pag. 54. 666 R. Esposito, Bìos, cit., pag. 44. 662

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L’intuizione platonica del Sofista, per cui il non-essere logico è in realtà un essere diverso,667 rende possibile la leggibilità del mondo secondo due diverse articolazioni: quella ontologica della metafisica razionalistica, che pone l’Essere a principio e causa di ogni fenomenologia ontica, e quella antropologica della cosmologia naturalistica, per cui l’esistenza storica dell’umanità non è un orizzonte assoluto, costituito da una normatività autonoma da ogni necessità vitale, ma da questa ne dipende. Nella prima ipotesi, la realtà significativa dell’esperienza umana è nella sua storia spirituale, cioè nelle opere della ragione che si rifanno al fondamento ontologico originario per cui l’Essere è il Tutto, e quanto lo voglia delimitare prima e dopo, ossia oltre, è astratto pensiero fantastico, immaginazione mitica. Nella seconda ipotesi, il fondamento dell’Essere, e dunque del Logos, è pre-istorico e dunque pre-razionale, e tale che la realtà onto-logica, ossia storico-umana (per intenderci, le civiltà delle diverse culture umane) sia una dimensione possibile a fronte di quella originaria, invece necessaria, cioè eterna. Ed eterna perché immanente a ogni determinazione possibile come suo risvolto oppositivo: il brutto rispetto al bello, l’ingiusto rispetto al giusto, etc. Ma questa realtà che neccessat, che è assunta come negativa all’interno dell’orizzonte dialettico dello storicismo razionalistico, fuori della relativa ontologia in realtà costituisce il fondamento originario imprescindibile di ogni determinazione onto-storica. In virtù della sua imprescindibile necessità, ogni determinazione storico-razionale che ne prescinda è a sua volta astratta dal fondamento veritativo di realtà, e come tale negativa rispetto al vero Essere cosmico, che non è quello ontologico ma il naturale. Ora, quando si tratta della conservatio vitae, e la si fa rientrare “a pieno titolo nella sfera della politica”, 668 non si chiarisce l’equivoco circa il senso della “vita”, se naturalistico, e perciò antropologicamente “positivo”, ovvero politico, e perciò razionalmente “negativo”. 667 668

Platone, Il sofista, XLI 257 b. R. Esposito, Bìos, cit., pag. 55.

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L’aporia emerge chiaramente a proposito della sovranità. 669 Infatti pur ponendosi la relazione tra politica e vita come costitutiva dell’ordinamento autoconservativo, la si rende significativa attraverso l’elemento razionalmente “negativo”, quello naturalistico, il quale, proprio perché indicato come negativo è nel contempo certo, in quanto realmente non eliminabile, e opposto, ossia astratto rispetto alla sintesi positiva del Potere. Da qui l’antinomia tra bios e zoè, che non è del solo Hobbes, ma anche del suo interprete (come già di Schmitt), il quale imputa all’uomo l’istinto belluino autodistruttivo, e alla natura il “fine autoconservativo”, attribuendo perciò il “punto di trascendenza da cui ricevere ordine e riparo” al movimento dialettico che si oppone alla natura “come il suo rovescio negativo”. 670 Ma se l’agire politico – questo è il punto dolente del costrutto argomentativo di Esposito – deve trascendere la dimensione naturale, è perché questa non è punto conservativa della realtà umana, ma al contrario distruttiva. Per cui, la risposta precipuamente politica alla tensione naturalistica non può essere naturalistica, come preteso erroneamente da Machiavelli e da Hobbes; per la semplice ma decisiva ragione che l’adozione di ogni “dispositivo immunitario”, concepito in analogia al “fine” della natura, comporta l’autodistruzione della realtà umana (l’Essere della metafisica), dal momento che – e in questo consiste il travisamento evangelicamente diabolico – quel “fine” è la Necessità della morte contro la quale la civiltà umana lotta tragicamente per affermare la sua ragion d’essere. E pertanto ogni edificio politico costruito in analogia alle leggi immanenti alla natura è destinato a perire. Essendo la Necessità della morte la finitezza dell’esistenza naturale in cui è immerso l’uomo in quanto realtà corporea, la risposta che la trascenda non può essere politica, se per politico intendiamo il metodo analogico al fine naturale. Ciò comporta di conseguenza che vada rigettata, o superata, anche ogni metodica razionale tesa a quel fine strumentale naturalistico. L’incomprensione di tale superamento inibisce la giusta lettura sia dell’escatologismo cristiano che lo sforzo teoretico di Hegel di riformare la dialettica in senso spiritualistico, contrario a quello 669 670

Ivi, pagg. 54 sgg. Ivi, pag. 56.

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naturalistico kantiano, che pone come termine epistemicamente fondativo di senso la certezza fenomenica, rimuovendo nel fantastico la trascendente dimensione noumenica. La tesi di Hobbes espressa nel De cive (1642), per cui non è, come credeva Aristotile, per socievolezza naturale che l’uomo si associa, ma per promuovere i suoi interressi particolari, per cui “non per disposizione naturale ma per educazione che l’uomo si adatta alla vita sociale”, postula una preventiva “causa finale” dei singoli, i quali, tendendo “naturalmente ad amare la libertà e il dominio sugli altri”, devono reprimere le loro tendenze aggressive in “previsione di ottenere con quel mezzo la propria preservazione”. 671 Sarebbe dunque il calcolo utilitaristico a correggere l’istinto naturale dei singoli, che socializzando perverrebbero a più miti consigli. È chiaro che, date le premesse meccanicistiche, solo una causa esterna e contingente può imporre un ordine politico. La debolezza funzionale di tale tesi è che, trattandosi di un patto leonino tra i sudditi e il Leviatano, il buon governo è una speranza, più che una certezza, poiché il Potere sovrano, per la comunità sociale che ne dipende, non è che la sostituzione artificiale della Necessità naturale. La debolezza teorica della fictio juris della rappresentanza della sovranità è originaria, poiché essa è una derivazione politica e non un presupposto naturale dei singoli. 672 Ciò vuol dire che la dialettica dei rapporti di forza tra i singoli e il Potere si svolge solo all’interno dell’ordine politico. ma se ciò è vero, ne consegue che il supposto potere singolare è solo la rappresentazione giuridico-formale della legittimazione ideologica del Potere, il “racconto autolegittimante” della sovranità moderna. 673 La domanda che ora viene da porsi verte sul motivo di una giustificazione razionale del moderno “ideologema immunitario” da parte del Potere, se il suo esercizio è intrinsecamente necessario alla sua funzione. Che cosa deve giustificare il Potere davanti ai sudditi se non il proprio inevitabile fallimento, considerata la precarietà storica di ogni ordine socio-politico, ossia la insuperabile contraddittorietà di una 671

Th. Hobbes, Leviathan (1651), tr. it., Milano, 2013, pag. 177. Ved. R. Esposito, Bìos, cit., pag. 58. 673 Ivi, pag. 59. 672

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forma istituzionale che abbia come esito la “desocializzazione” degli individui dalla comunità politica? In cosa consiste il suddetto fallimento politico se non nella impossibilità di determinare positivamente, secondo cioè forme rappresentative oggettive, l’elemento differenziale dell’essere umano rispetto alla condizione di natura? In altri termini, nella incongruità di stabilire una mediazione tra i due orizzonti, naturale ed esistenziale, di tipo puramente discorsivo razionale, e dunque solo logicamente omogeneo? Non è proprio questa finzione razionalistica omogeneizzante a creare le premesse gnoseologiche di una epistemologia debole, destinata ad essere empiricamente confutata dalla resistenza noumenica della rimossa realtà extra-razionale della originaria alterità umana rispetto al cosmo naturale? Rispetto a questa consapevole Differenza, il remedium mali dell’individualismo liberale, che ripete in scala privatistica singolare l’essenza macroscopica del Potere pubblico, è una ingenua proiezione sociologica della rappresentazione del subjectum di cui parlava Heidegger. Sostenere perciò che “la sovranità, in ultima analisi, non sia altro che il vuoto artificiale creato intorno ad ogni individuo” dal Potere,674 equivale ad affermare che è il Potere stesso che si auto limita a favore di ciò che logicamente lo nega, ossia quella autonoma pulsione naturale indicata da Hobbes come “libertà”, il cui incremento per concessione sovrana, secondo il paradosso di Tocqueville, è inversamente proporzionale al depotenziamento dell’autorità sovrana. E coerentemente, a sua volta anche l’incremento della libertà individuale, giungendo a vanificare la funzione sovrana del Potere, provoca la sua stessa dissoluzione nella naturalistica conflittualità anarchica delle origini pre-civili che il Potere aveva neutralizzato. La “antinomia strutturale, in cui si regge la macchina della mediazione immunitaria” non è, come crede Esposito, “il residuo di trascendenza non riassorbibile dall’immanenza”, 675 ma è bensì dovuta alla impossibilità di strutturare in termini razionai e oggettivi l’orizzonte trascendente della Differenza che costituisce e attraversa l’esistenza umana, in quanto tale, e che perciò permane sia nel singolo che nel consesso sociale, e che 674 675

Ibidem. R. Esposito, Bìos, cit., pag. 61.

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nessuna istituzione storica può assorbire e contenere nei termini di una normatività legale. Questa condizione differente dell’esistenza umana implicherebbe una ragione differenziale, sostitutiva della “ragione osservativa”, che nell’oggetto non vedesse la sua infinità, ossia la sua incondizionata “certezza di essere ogni realtà”, 676 ma la sua alterità rispetto alla realtà naturale. Una ragione non strumentale e finalizzata alla manipolazione della Natura attraverso l’uso distorto e improprio delle sue leggi, e soprattutto non universale, ossia presumente di essere valida tanto per l’uomo corporeo che per l’uomo spirituale. La pluriversalità della ragione differenziale non corrisponderebbe alla settorialità delle metodiche disciplinari delle varie branchie scientifiche in cui si articola oggi il sapere; e neppure alla nota distinzione del Windelband tra scienze idiografiche e scienze nomotetiche, poiché la vera essenza dell’oggetto della storia umana non è la sua presunta particolarità, cioè la soggettività trascendentale, ma la sua singolarità nel senso di Kierkegaard, ossia la costituzione dell’ esperienza umana come eventualità storica, tale cioè per cui è possibile narrare una storia. La storia esemplare dell’uomo è il racconto del Mito (Mythos), rispetto al quale la rappresentazione del Logos è la riduzione naturalistica, spiegata per nessi causali, alla maniera di fenomeni appunto naturali. Il “particolare” (idios) cui faceva riferimento lo storicismo neo-kantiano, non va riferita alla irripetibilità delle combinazioni accidentali degli eventi soggettivi, che finisce per risolvere la storia umana in una irrelata successione di momenti esteticamente unici, alla maniera di Croce, che vede nella “espressione” il momento differenziale, ma al carattere trascendente, e perciò simbolico, dell’agire umano, tale che la sua manifestazione fenomenica (volontà) non costituisca la sua intera significazione, non determinabile perciò oggettivamente come fatto, alla stregua di un oggetto di ragione scientifico. Gli avvenimenti umani non sono pertanto “fatti” (res gestae), né tampoco la loro narrazione è una historia rerum gestarum, poiché l’evento in cui si compendia la loro fatticità è la volontà, che è un agire significativo interno a un orizzonte 676

F. Valentini, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, Napoli, 2011, pagg. 85-175.

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di senso comune, culturalmente canonizzato. È dunque il canone culturale a dare significatività all’agire umano, a prescindere dalla portata particolare (storica) o universale (categoriale) di quella fonte istituzionale normativa, che ne consente la rappresentazione oggettiva. Perché una fonte istituzionale, supplente all’istinto naturale, se la preservation of himself fosse davvero, come sostenuto da Locke, “il primo e più forte istinto che Dio ha introdotto negli uomini”? 677 In realtà, quel presunto “istinto” è quanto di meno “umano” ci sia nell’uomo, non consentendogli la sopravvivenza, come sappiamo da Hobbes. Esso, piuttosto, rappresenta l’elemento differenziale da ciò che è più propriamente umano, che è la disposizione dell’uomo ad avere una coscienza interiore, cioè una fonte normativa autonoma da quella socialmente canonizzata e regolativa della volontà, in cui agisce l’intenzione, intesa come la relazione diretta, non istituzionalmente mediata, della coscienza col modo esterno. Da questa relazione di coscienza – diversa dalla relazione canonica – nasce la rappresentazione singolare del mondo che costituisce l’elemento discriminante di ogni persona, la cui identità coincide con la propria storia personale. La vera storia, pertanto, è la storia personale di ogni singolo uomo, basata sulla sua singolare rappresentazione del mondo. La storia oggettivata, collettiva, politica e sociologica, basata sui reperti della volontà umana, non è che una trascrizione naturalistica, secondo il metodo della conoscenza scientifica dei fenomeni naturali, dell’agire canonico dell’uomo razionalmente tipizzato, funzionale alla comunicazione interpersonale, interna all’orizzonte di senso stabilito dal Potere come di valore significativo pubblico. La coscienza intenzionale, quale foro interiore dell’uomo, non è comprensibile entro la sfera assiologica stabilita imperativamente dal Potere pubblico, il quale può anche averla mutuata da tradizioni religiose e culturali contestuali alla sua sovranità, ma ciò che conta è la determinazione del suo valore canonico erga omnes, cioè pubblico. Essa dunque è originariamente indipendente dal Potere, perché invisibile e ignota, laddove la forza del Potere deve presupporre la visibilità e la 677

J. Locke, Two Treatises of Government (1689), Primo trattato, cit. da R. Esposito, Bìos, cit., pag. 62.

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notorietà dell’agire sul quale incide la sua volontà sovrana. Se dunque la sovranità riconosce la “libertà” del singolo nei termini dell’habeas corpus, ossia della sua (parziale) autodeterminazione economica, l’immunitas che si produce da questo riconoscimento sovrano non inerisce al singolare foro interiore, ma pur sempre alla prassi pubblicamente significativa, ossia inerente all’ordine politico, cioè, finalmente, alla gestione sociale della violenza. Si può ora comprendere come la pretesa universalistica della “ragione osservativa” sia del tutto indebita, in quanto rappresentativa della sola esperienza umana oggettivabile secondo i canoni metodici della scienza naturale di cui si serve la storiografia razionalistica moderna, la quale esclude per statuto epistemologico quanto non è accertabile fenomenicamente e dunque confutabile empiricamente. Ciò che tralascia questa forma di conoscenza non è un elemento residuale, bensì l’essenza stessa di ciò che è “umano”, ossia il trascendimento della finitezza della vita naturale, la cui possibilità costituisce l’elemento differenziale dell’esistenza umana rispetto alla vita biologica di ogni altra specie vivente. Da ciò consegue che l’assunzione della definizione antropologica dell’uomo come “animale sociale”, riguarda l’aspetto culturale della sua socialità, ossia la risposta culturale al problema dell’adattamento della sua alterità originaria allo habitat naturale, all’ecosistema. Quanto alla sua gestione del Logos, costitutiva dell’altra peculiare caratteristica antropologica indicata da Aristotile, la sua declinazione strumentale, funzionale alla socialità politica finalizzata alla sopravvivenza, non dà ragione dell’elemento mitico insito nel legein inteso come criterio differenziale. Infatti l’attività logica non consiste nella sola distinzione esclusiva di senso universale, ma nella modalità affabulatoria della rappresentazione del mondo, cioè linguistica. Ma proprio l’orizzonte linguistico è quello originario rispetto a ogni possibile determinazione di senso, di cui quello tecnologico è una variante razionalistica e scientifica. È inevitabile, a noi pare, che ogni riconoscimento di libertà “immunitaria” da parte del Potere non può che nascere dall’ammissione che il suo linguaggio scientifico, rinviando a strutture razionali che rappresentano un ideale di compiutezza, presuppone strumenti logici di 303


validità e mezzi sperimentali di verifica che sono relativi agli statuti suppostamente universali della coscienza trascendentale, la cui dinamica dialettica si muove tra l’intuizione del particolare (idios) e l’astratta oggettivazione razionale. La concordanza a priori di questi momenti dialettici ripone la sua necessità formale sulla esclusione della pluralità dei significati possibili, dunque delle singole rappresentazioni, sorgenti dalla stessa esperienza della vita, la quale perciò deve essere negata perché con essa sia negata anche la pluralità dei significati, cioè la pluralità di quei valori di realtà che inficerebbe l’affermazione dei valori unici di intelligibilità formale. Ma il dogmatismo che sta alla base delle strutture razionali del Potere si scontra inevitabilmente con la varietà singolare delle possibilità delle rappresentazioni intenzionali, fino a provocarne una situazione di crisi istituzionale in cui emerge la faglia differenziale che separa l’esperienza sociale dall’esperienza coscienziale. Il superamento della frattura istituzionale dello stato di necessità non è scontato, per cui l’esito possibile della crisi politica può essere tanto la normalizzazione della contingente sacertà quanto l’eversione rivoluzionaria dell’ordine pregresso. Una visione della libertà relativa alla sola fisionomia materiale della fisicità si determina come riconoscimento della volontà individuale, ossia della libertà economica, quale sancita e regolata dal diritto privato. Ma questo riconoscimento presuppone il diritto pubblico, ossia l’ordinamento giuridico-politico, all’interno del quale ha senso la difesa di un diritto. Ogni teoria postulatoria di un diritto individuale precedente la realtà dello Stato non regge di fronte all’obiezione che qualunque “diritto” umano sorge all’interno del riconoscimento sociale,e che dunque è una emanazione del Potere che lo riconosce ridimensionano la sua portata universale. L’ipotesi di presunti “diritti naturali” si pone sullo stesso piano naturalistico di ogni diritto legale, che può essere legittimamente revocato con volontà sovrana contraria a quella che lo riconosce. Ciò che invece non entra nelle disponibilità del Potere sovrano, e perciò ne costituisce un limite insuperabile da ogni volontà negatrice, è la rappresentazione intenzionale del mondo da parte della coscienza singolare, la quale costituisce in interiore la relazione trascendente che 304


l’uomo stabilisce con la sua essenza spirituale, che per tutti è Dio. Questo ambito spirituale inaccessibile al Potere, per la sua essenza trascendente, non può essere oggettivato, né normativizzato in precetti positivi di valore comune, poiché non ha per contenuto la volontà, ma la libera disposizione dell’intenzione singolare, non perseguibile da alcun precetto normativo. Se pensiamo che Kant ha inteso la logica, in quanto scienza del pensiero in generale, esattamente come “un canone dell’intelletto e della ragione”, inteso come “l’insieme dei principi a priori dell’uso corretto di alcune facoltà conoscitive in generale”, sia pure limitato solo “a ciò che nel loro uso vi è di formale, qualunque sia il suo contenuto”,678 ci rendiamo conto della portata pervasiva della gnoseologia della ragione formale nella concezione moderna del governo razionale, intento a rimuovere le accidentalità singolari in vista del controllo unitario della molteplicità sociale, assunta kantianamente come una “totalità”. Se si elimina l’ipotesi di una relazione attiva di razionalizzazione della natura già attraverso il lavoro corporale, introdotta da Locke e fatta poi propria anche da Marx, che pone il fondamento dialettico di ogni strutturalismo materialistico, l’unica modalità di accesso relazionale al foro interiore è di tipo ermeneutico, rappresentato dal gesto simbolico, che evoca esemplarmente la condizione originaria e pre-sociale dell’uomo spirituale, trascendente ogni condizione storica (situata nel tempo) e fattuale (socio-politica), ossia la condizione arcaica narrata dal Mito, la cui compiutezza consegnata a un irreformabile passato ha l’indiretta funzione politica di limitare la deriva totalizzante dell’attualità del Potere, cioè l’assolutismo della volontà sovrana, e dunque di arginare katechonticamente l’illimitatezza della sua forza, assurta a criterio economico legittimante la violenza. Questa funzione non può essere rappresentata alla stregua di una volontà attiva da parte di una potestas sovrana, ma soltanto ispirata dall’auctoritas di un organo impolitico di tipo spirituale, che si rifà a un piano di esistenza in-naturale, e perciò propriamente umano, del tutto differente da quello economico-politico della esistenza sociale. Un piano che il Potere non deve riconoscere per ammissione immunizzante, ma che deve 678

I. Kant, Kritik der reiner Vernunft (1781), tr. it., Torino, 1967, pag. 127.

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ammettere per la sua stessa de-finizione, cioè per la legittimazione della sua funzione politica, che perciò non può essere meramente eudemonistica, ma che è eminentemente teleologica, poiché finalizzata alla possibilità dell’identità spirituale dell’uomo quale essere estraneo alla Natura. L’antropologia naturalistica hobbesiana, dominante nella cultura politica moderna, è invece, come già sottolineato da Leo Strauss, di tipo “non teleologico” e giustificata scientificamente sulla base di un razionalismo strumentale.679 Perciò essa può estendere il Potere sovrano fino a includere quello spirituale della Chiesa, inteso come concorrente sullo stesso piano sociologico-naturalistico di quello politico. la dimensione a-teleologica consente appunto a Hobbes di teorizzare lo Stato assolutista moderno, che può sommare sulla stessa figura sovrana tanto il “potere di persuasione” detenuto dalla Chiesa prima della conversione dei re e dei popoli pagani, che il “potere coercitivo” dell’autorità civile. La conseguenza di concepire il corpo come il proprium dell’uomo è di asservirlo alla natura, poiché esso ne dipende fisiologicamente. Lo stessa attività lavorativa, essendo indispensabile alla sopravvivenza, è sottoposta alla Necessità, ossia appunto al dominio della Natura, sicché l’ipotesi lockeiana di un fondamento proprietario dell’identità umana è del tutto arbitraria e sbagliata, come già notato da Marx nei Menoscritti del 1844. L’atto appropriativo, che stabilisce una sfera di disponibilità non comune, svolge la sua funzione immunizzante nella misura in cui funge da protezione dal conflitto, assunto pertanto come fisiologico all’interno della realtà sociale politicamente pacificata. E se ne comprende il motivo. Infatti soltanto un latente stato di inimicizia può legittimare la funzione derimente del Potere. soltanto se la relazione infra-comunitaria viene predisposta secondo criteri diversi da quelli politicistici, anche la funzione sovrana perde il suo significato funzionale. In questo senso il Potere sovrano non deve pervenire a una completa pacificazione sociale, ma deve riconoscere un ambito di libera conflittualità, sia pure regolata giuridicamente a scopo conservativo. Ciò elimina in radice ogni ipotesi di benevolenza nella concessione ottriata di libertà da parte 679

Ved. J.-C. Eslin, Dieu et le povoir, cit., pagg. 141-145.

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del Potere, il quale, per il solo fatto di giuridicizzarla, trasformando la libertà in proprietà, ne trasforma la concreta esperienza privata in un astratto ente pubblico. Il passo successivo sarà quello di astrarre la proprietà dal lavoro, quantizzando monetariamente la sua entità, liberandola dal “possesso empirico”, rendendolo puramente “intelligibile”, sicché “è il non possesso fisico a testimoniare del pieno possesso giuridico”.680 La spersonalizzazione della proprietà rende la concreta soggettività empirica una soggettività trascendentale, autonoma dal suo centro vitale propulsivo, ossia scevra di ogni finalità teleologica, e perciò acquisibile come impersonale meccanismo procedurale, il Mercato, agìto da una “mano invisibile” surrogatoria di quella provvidenziale. Il retro del soggettivismo kantiano è la dipendenza dall’oggetto, la cui inseità testimonia della realtà irriducibilmente estranea di una natura che perciò de-limita la validità di ciò che dovrebbe in teoria essere il contenuto della de-finizione logica. Se, infatti, è la realtà dell’oggetto a costituire il fondamento ontologico del Logos, il mondo-della-vita diventa il continuum da cui muovere per ogni stabile determinazione di senso razionale. Ciò comporta che l’elemento de-terminante di ogni giudizio di ragione non sia l’essenza della realtà, la sua Idea, ma i suoi contenuti dinamici, cioè i fenomeni, il cui divenire indipendente costituisce la condizione di validità di ogni giudizio trascendentale, rappresentandone l’elemento di certezza. E’ per questa condizione teoretica che la filosofia diventa scienza della certezza, metodica della comprensione del divenire, gnoseologia. Il sapere metodico, divenuto ragione strumentale, scienza della natura, cioè gnoseologia dei fenomeni empirici, assume come epistemologicamente rilevanti non più le essenze ontologiche, ma i modi delle manifestazioni dell’Essere, le forme culturali, la cui comprensione storico-genetica esaurisce l’ambito della conoscenza razionalmente possibile. Ciò si riflette nelle strutture governamentali in termini di funzionalità bio-politica. Se è la proprietà il criterio di immunizzazione del Potere, essa va intesa come possibilità di una forza privata di costituirsi relativamente in680

R. Esposito, Bìos, cit., pag. 67.

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dipendente dalla forza pubblica. Spostato il parametro di misura della libertà umana dalla rappresentazione trascendente del mondo alla forza economica di cambiarlo, viene a perdersi del tutto l’elemento valoriale di natura religiosa, anch’esso commisurato alla possibilità di incidere, in senso avvalorante o katechontico, sulla forza del Potere. L’incontro moderno di scienza e politica, col previo esonero di ogni rappresentazione metafisica, avviato dal criticismo kantiano confutatore della seconda scolastica, getta le basi del sapere tecno-logico e della naturalizzazione delle culture storiche e delle sue forme istituzionali secolarizzate. Il Potere come attività dello Stato di diritto e la politica degli Stati come politica economica sono le premesse della deriva biopolitica, conseguente alla riduzione dell’uomo a essere di natura, dedito al problema esclusivo della sopravvivenza biologica. A questo punto appare chiaro lo slittamento del senso della libertà dalla possibilità di emanciparsi dalla Necessità naturale, al potere di dar seguito attivo alla propria volontà, ossia al controllo della propria esistenza. Poiché non ha altra destinazione la libertà dell’uomo che quella di distinguere la propria diversità ontologica dalla determinazione naturale delle specie viventi, i suoi contenuti, relativi al fine soteriologico, non possono che essere negativi, mentre, sul piano esistenziale la loro positività consiste nella realtà stessa delle sue opere di adattamento culturale alle condizioni naturali. La “padronanza del soggetto individuale su se stesso” 681 può avere significato solo se riferito alla conoscenza di sé (gnothi seauton), cioè dei suoi limiti e della sua destinazione spirituale, mentre dal punto di vista storico-esistenziale non ha alcun senso che non sia ideologico, dal momento che ogni attività mondana dell’uomo, investendo la sua volontà, esprime rapporti e convenzioni sociali, ossia è un prodotto storico-culturale comunitario. Rapportare al sé soggettivo il prodotto della volontà, significa astrarlo dai rapporti reali e farne un feticcio ideologico, quel “non essere altro che sé”, che confonde l’inseità spirituale, legata alla rappresentazione intenzionale del mondo, che è il fine soteriologico stesso della “cura di sé”, con l’imputazione causale di un effetto fenomenico alla sua causa formale, che è il presupposto gnoseologico dell’oggettivismo 681

R. Esposito, Bìos, cit., pag. 70.

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razionalistico. Da qui l’errata teoria del “libero arbitrio come autoinstaurazione di una soggettività assolutamente padrona della propria volontà”,682 che sta alla base delle moderne concezioni liberali ed egalitarie della sovranità e della società. Nell’atto n cui la libertà si configura come possibilità di auto-determinarsi nel mondo ma dal mondo, essa perde di vista il suo fine soteriologico singolare per diventare rapporto giuridico-politico fra forze soggettive in competizione reciproca e verso ogni potere superiore che le limiti, dallo Stato a Dio. L’aspetto paradossale di questa rappresentazione moderna della società, della politica e del Potere legata alla “invenzione dell’individuo”, è la conversione nell’opposto di ogni ipotesi di controllo del caos, del disordine e dell’anarchia dovuta alla radicalizzazione dell’astratta volontà soggettiva in ogni ambito fenomenologico, fino alla negazione di principio o di fatto della stessa coesistenza sociale, intesa come ostativa al libero dispiegamento della volontà del singolo autore, l’unico supposto reale. La moderna questione del Potere è nella dialettica tra astratti diritti di libertà e concrete possibilità di affermarli con la mediazione dello stesso potere governamentale che in ipotesi le potrebbe limitare, sicché la “difesa dagli arbìtri che ne insidiano l’autonomia e, prima ancora, la stessa vita” viene dallo stesso organo che li attenta. Ma ciò si spiega con il trasferimento nel Potere della figura della Natura quale fonte della Necessità, e dunque con la trasformazione dello strumento di libertà sociale dalla forza naturale, a strumento di oppressione della libertà individuale, intesa non già come relazione al regno di Dio, ma come autonomia del soggetto socializzato entro il regno di Cesare dal suo potere e dallo stesso vincolo socialitario che pur lo definisce politicamente come titolare di diritti. 683 L’insidia, dall’angolatura individualistica, non è più vista nella Natura, ma nella stessa struttura sociale che originariamente doveva difendere l’umanità, politicamente organizzata, dalla Necessità mortifera degli agenti naturali. Questo paradossale travisamento antropologico, già teologicamente predisposto 682

Ivi, pag. 71. Corsivo nostro. Ved. M. Foucault, La question du libéralisme (1979), e H. Arendt, Freedom and Politic:a lecture (1961), cit. da R. Esposito, Bios, pag. 75. 683

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con la preminenza della voluntas tomista sulla intentio agostiniana, è un portato del razionalismo moderno e della sua trascrizione naturalistica della soggettività trascendentale come potere dell’individuo empirico a plasmare il mondo secondo la sua volontà. Non è un caso che la conversione del verum col factum conduca a risolvere nella prassi la volontà soggettiva, la quale, perdendo ogni natura trascendente, si oggettiva come relazione economica tra forze in competizione per affermare la propria particolarità. Il “modo di essere” della libertà non è propriamente la libertà, in quanto le modalità, per quanto imputabili a un attore singolare, sono espressioni simboliche di una realtà culturale collettiva che le stabilisce e le vieta, sicché “il diritto ad avere qualcosa di proprio”, essendo “in rapporto agli altri”,684 è stabilito da tale rapporto, cioè ne dipende. Ma la dipendenza è appunto ciò che nega per definizione la libertà. Non si esce dagli esiti contraddittori di tale dialettica che non si pensa la libertà come trascendenza dalla finitezza, e dunque in termini di Differenza, che, per non ingenerare equivoci con la posizione ontologica della metafisica naturalistica, possiamo indicare come “assiologica”, intendendo per Differenza assiologica quella che stabilisce ai fini dell’identità umana la alterità tra le ragioni dell’esistenza mondana dell’uomo storico nel mondo socio-culturale nelle contingenti condizioni naturali, e la coscienza della sua relazione con l’essenza spirituale che trascende la finitezza della vita biologica, a seguito della sua estraneità al mondo naturale. Tale coscienza di estraneità e tale relazione con ciò che trascende la finitezza mondana è propriamente la libertà dell’uomo, in cui convergono l’esperienza (dell’estraneità) e il bisogno spirituale di trascendenza (dalle condizioni della finitezza). Identificarla perciò con la “vita” (Hobbes) o con la “proprietà” (Locke) significa restare al di qua della consapevolezza e della esperienza della Differenza, e dunque a non riuscire a svincolare l’uomo da quella Necessità naturale che, negando la sua identità spirituale, nega anche la possibilità della sua libertà, rendendo necessario il conflitto, che è la condizione tipica della vita naturale, che ha per regola, non già la 684

R. Esposito, Bìos, cit., pag. 71.

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salvezza dell’uomo neppure come sopravvivenza biologica, ma la morte per la vita, e dunque l’autodistruzione dell’umanità. Il cambio di paradigma comporta il passaggio dal conflitto (agon) alla solidarietà (charitas). Ed è in questa metanoia che il senso polemico del dualismo platonico dell’Eros va trasvalutato in termini di relazione agapica. Che esistano plurime modalità di conoscenza, lo ammette anche Spinoza, che nel cap. VI del suo Tractatus theologico-politicus (1670) distingue una cognizione immaginativa da una discorsiva e da una intuitiva, attribuendo al primo genere il pensiero religioso, mentre la conoscenza filosofica è assegnata al secondo genere. Se nel trattato teologico prende decisive distanze dal pensiero della scolastica, nel successivo Tractatus politicus (1675-1676) espone, contro la teocrazia medievale, la sua concezione naturalistica dello Stato, fondato a suo dire sui soli bisogni umani, a partire dalle passioni, che perciò devono essere guidate dalla ragione. Gli uomini - egli scrive - per impulso naturale tendono ad associarsi o per il comune timore o pel desiderio di fuggire il danno comune. Ora, siccome il diritto dello Stato è definito dalla comune potenza della moltitudine, è logico che la potenza e il diritto dello Stato tanto più diminuisca quanto più esso dà motivo a molti di associarsi insieme contro di lui. 685

Tra lo Stato e la “moltitudine” pare sussistere solo una differenza quantitativa di forze, ma in realtà la costituzione razionale dello Stato introduce una discriminante che lo distingue dalla passionalità delle masse governate. Ciò comporta che la minoranza aristocratica dei governanti debba interpretare le istanze superiori della ragione al fine di non soccombere sotto le passioni distruttive dell’ordine socio-politico. La razionalità, pertanto, consiste nella rimozione delle passioni nelle decisioni di governo, le quali non sono predeterminabili avendo una genesi negativa. Ciò elimina ogni teleologia dalla ragion di Stato, la quale non sarebbe altro per Spinoza che la preminenza dell’interesse comune sugli interessi particolari. 685

B. Spinoza, Tractatus politicus, tr. it., Milano 1918, cap. III, § 9, pag. 45.

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La mancanza di fini ideali o trascendenti la comune utilità è ribadita in quel passo in cui si afferma chiaramente la visione antropologicamente pessimistica della natura umana, fondata sulla distinzione tra le passioni individuali e il razionale “bene comune”. Se gli uomini fossero tali per natura da desiderare sopra tutto quello che loro maggiormente è utile, non ci sarebbe bisogno di nessuna arte per mantener la pace e la buona fede. ma siccome la natura umana è di gran lunga diversa, bisogna in tal modo costituire lo Stato, che tutti: governanti e governati, velint nolint, facciano ciò che importa al bene comune. Cioè che o spontaneamente o per forza, siano indotti a viver secondo ragione e questo avverrà quando le istituzioni saranno così organizzate, che niente di quello che interessa il pubblico bene venga interamente affidato alla buona fede di alcuno in particolare. 686

Il “bene comune” è quello dettato dalla ragione, la forza impersonale che si impone su tutti come una necessità, e che perciò è esterna sostanzialmente ai liberi convincimenti umani (la “buona fede”), ossia a quella soggettiva “immaginazione” che rappresenta il primo grado di conoscenza umana. Spinoza non esclude punto che i patrizi elettivi non siano all’altezza dei compiti di governo, ma, se pure imperfettamente scelti dagli elettori di qualità inferiore alla loro, per la loro superiorità essi dovranno costituire comunque un “governo assoluto”, tale che, “quando si tratta di porne le basi bisogna fondarsi unicamente sulla volontà dell’Assemblea dei patrizi e non già sulla vigilanza della moltitudine che non ha diritto deliberativo né di suffragio”. 687 Insomma, una delega perpetua agli ottimati che ne legittimi la funzione, ma che non può cassare i suoi provvedimenti deliberativi, le sue decisioni di governo. Aveva già ammonito nel trattato teologico che “noi siamo tenuti a eseguire assolutamente ogni provvedimento del sovrano, quand’anche le sue decisioni fossero le più assurde del mondo” (§ XVI). È questa forza necessaria del Potere a fare di esso una potenza naturale, e in quanto tale razionale. In altri termini, la ragione non è 686 687

Ivi, cap. VI, § 3, pag. 56. Ivi, cap. VIII, § 4, pag. 87.

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correttiva della cieca forza della Natura ma la esprime umanamente, sicché la razionalità del Potere è nella sua forza di governo. E’ difficile distinguere in essenza la volontà sovrana da una qualunque deliberazione passionale, e infatti la differenza non risiede nella qualità degli atti volitivi, ossia nella loro destinazione finale, ma nella posizione politica dell’attore, per cui è razionale ciò che emana dal Potere, le cui decisioni perciò sono insindacabili dai governati. La “secolarizzazione” della politica iniziata dalla concezione del Potere di Spinoza risiede dunque nella declinazione naturalistica delle prerogative teocratiche riservate tradizionalmente a Dio, e che già erano state trasferite all’Imperatore cristiano dalla teologia politica di Eusebio. Spinoza non fa altro che attribuire al moderno sovrano laico una volontà assoluta da ogni limite e controllo, né superiore e divino, né inferiore e popolare. Ed è proprio tale assolutezza del Potere a fare del governo umano della società l’espressione razionale (ossia consapevole) della (cieca e spontanea) necessità naturale. A questo punto sorge la questione della contraddizione tra la pratica schiavitù umana e la teorica libertà politica, ossia della conversione dialettica di questa in quella. Essa sorge dalla posizione ontologica di Spinoza, che pone la Natura in luogo di Dio, fornendola di una volontà immanente, sostitutiva di quella trascendente della religione. Ma in cosa consiste tale volontà naturale se non nella negazione di quella rappresentazione particolare del mondo che in “buona fede” possiede ogni uomo immerso nel mondo-della-vita? Questo il punto cruciale. Il Potere afferma la sua volontà razionale in quanto più forte di ogni volontà particolare. Il criterio di ragione si sposta dal telos trascendente (ideale o sacro) allo scopo immanente del controllo sociale, ossia da una economia della salvezza per mezzo della fede a una economia della forza per mezzo della violenza con la quale si conculcano le volontà individuali dei governati. Spinoza anticipa il concetto weberiano dello Stato quale monopolista della forza, ma soprattutto teorizza il principio della rappresentanza del Potere in termini di un trasferimento a esso delle volontà singolari dei delegati, facendo della volontà sovrana la loro somma unitaria. Ciò comporta che la forza propria al Potere è la sua potenza unitaria a fronte delle singole volontà particolari. 313


Questa desacralizzazione del Potere politico ne segna anche la destinazione amorale, creando così quella differenza radicale tra concreta coscienza morale personale e astratta volontà di potenza statuale che romperà del tutto il rapporto fiduciario tra sudditi e regnanti che aveva caratterizzato il sistema gerarchico medievale, il cui collante sociale era di tipo religioso, cioè identitario, laddove nello prospettiva spinoziana esso acquistava aspetto meramente utilitaristico, invece solo accessorio nel sistema feudale. Con ciò non si vuol dire che l’antropologia medievale fosse ignara della natura lapsa dell’uomo, ma soltanto che le umane e universali passioni non costituivano la ragione positiva del Potere politico, ma quella negativa. Anche Spinoza sostiene che le passioni siano malefiche per l’ordine politico, ma non in quanto ostative alla salvezza dell’anima, bensì in quanto individuali e particolari rispetto all’istanza universalistica del Potere, nella cui univoca volontà andava ravvisato il senso razionale della sua manifestazione. Si compie così l’identità tra potenza e diritto, tipica dello Stato totalitario, legittimato plebiscitariamente a interpretare il bene comune della volontà generale. La centralità della forza (bìa) nel discorso politico moderno, ricupera l’unità che essa ha etimologicamente con la vita (bìos), che sono entrambe il giovamento arrecato al genius, che è, quale spirito vitale (psyché), distinto dall’io cosciente (animus), che pure è chiamato a servire.688 La doppia funzione, l’una vitale e l’altra di controllo cosciente, se da un lato afferisce alla inesausta lotta delle tensioni vitali in cerca di un equilibrio stabile, per altro verso postula l’istanza di un supervisore formale che ne legittimi l’esito, più o meno stabile o aleatorio, quasi a sottolineare la natura impropria di una coesistenza umana socializzata sotto un Potere politico. Ma proprio questo carattere non autonomo del politico confuta la pretesa originarietà della modalità politica in cui l’essere vive, e che farebbe della “dimensione politica del bios […] la potenza che fin dall’inizio informa la vita in tutta la sua estensione, costituzione, intensità”.689 Infatti, la “volontà di potenza”, in 688 689

R. B. Onians, The Origins of European Thought, tr. it. cit., pagg. 230-231 e 266. R. Esposito, Bìos, cit., pag. 82.

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considerazione della sua destinazione ateleologica, esaurisce il suo sforzo genetico e preservativo nella sua stessa dinamica vitale, il cui essere originario è il suo status originato, e perciò dipendente da un insuperabile prius che ne segna anche la destinazione. Tale arché può essere inteso come immanente alla stessa evoluzione della forza vitale, ovvero come condizione trascendente. Nella prima ipotesi, l’origine e la fine della vita biologica è la Morte (Thanatos), quel Nulla dal quale l’Essere del pensiero sorge e verso cui tramonta. Nella seconda ipotesi, la fonte arcaica trascendente la forza biologica, ne indica anche la destinazione escatologica, tale che l’élan vitale non commisuri la sua potenza con la sua corrispettiva destinazione mortale. Nella ipotesi naturalistica, ogni potenziamento dell’organismo vivente, singolare o statuale, implica un supplemento di forze che in ogni caso non riuscirà a soddisfare il bisogno nato dalla mancanza, per cui ogni strutturazione formale e materiale della vita politica nello Stato, mentre opera per Bios in realtà serve Thanatos. È la coscienza di tale circolarità vanificante ogni sforzo umano, personale e collettivo, a generare nell’uomo l’istanza di salvezza dalla incombente Necessità che chiude la sua finitezza in un destino naturale improprio; e improprio perché consapevole. Orbene, se la modalità politica desacralizzata e omologata al processo vitale, struttura un ordine giuridico (taxis) di convivenza regolato dalla forza maggiore del Potere, considerandolo “naturale”, la potenza delle passioni dovrebbe spontaneamente asservirsi allo scopo funzionale alla costituzione e preservazione della vita, ossia allo stesso organismo statuale. Ma ciò, come abbiamo visto, non accade, in quanto le passioni umane sono singolari e come tali unificate solo dalla forza razionale del Potere. A questo punto comprendiamo bene che la natura suppostamente passionale della singolare volontà umana, in realtà riflette una condizione coscienziale allotria rispetto a quella razionalmente predisposta dall’ordine politico, la quale dai contrattualisti è stata indicata erroneamente come originaria rispetto successivo al patto sociale, ma solo per finzione giuridica, ma la cui potenza vitale si è creduta essere del tutto omogenea a quella del Potere, salvo ad essere quantitativamente minore.

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In realtà, la singolarità delle passioni umane pre-politiche sta a indicare una dimensione coscienziale autonoma dall’ordinamento istituito dalla razionalità politica, il cui statuto normativo non è derivato dal Potere perché di altro genere rispetto alla potenza, che costituisce l’orizzonte della forza della volontà. Ed è in considerazione di questa alterità della coscienza individuale che va compresa la genesi della costituzione politica come spazio pubblico istituito dal Potere razionalizzatore al fine di rimuovere prescrittivamente le rappresentazioni singolari, stigmatizzate come passionali e giudicate perciò funzionalmente irrilevanti per il senso comune. La naturalizzazione della politica, intesa come modalità originaria di razionalità socializzata, ha comportato la marginalizzazione ontologica della sfera coscienziale individuale, divenuta il termine polemico della sintesi giuridica, rispetto al cui ordine prescrittivo universale, ogni rappresentazione impolitica del mondo costituisce una minaccia anarchica ed eversiva da superare. Il singolo individuo, in quanto interprete singolare del mondo, diventa l’antagonista oggettivo del Potere custode dell’unità ideale dello Stato, sicché la coesione politica della sfera pubblica, in quanto istanza unitaria razionalizzata, diventa da mera esigenza di controllo, un valore etico. La weberiana “etica della responsabilità” consiste esattamente in questa finzione ideologica di assumere l’interpretazione politica degli interessi particolari del Potere come rappresentativa degli interessi generali. Tale dilatazione del senso particolare (di un determinato gruppo sociale) al senso generale (dello Stato) è la rifrazione politica del movimento dialettico della ragione universale che idealizza il dato empirico del suo oggetto di giudizio. Allorquando, a seguito non soltanto della critica nietzscheiana al moderno, ma anche alla analisi teoretica che da Dilthey arriva a Heidegger attraverso Husserl e Yorck, tale oggetto non è più l’intuizione estetica del fenomeno ma la “vita” nel suo svolgimento spontaneo di affermare se stessa, anche la coscienza diventa rappresentazione del vivente e perciò “va concepita come un comportamento vitale”.690 Di conseguenza, le istituzioni storicoculturali predisposte dall’uomo per contrastare la tensione vitale che 690

Ved. H.G. Gadamer, WuM, pag. 297, ma il tema in pagg. 287-300.

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attraversa e coinvolge l’esistenza umana, anziché rapportarsi direttamente alla vita, paiono a Nietzsche che “non servono più a nulla”,691 in quanto idealistiche e non fisiologistiche. La “politica dei corpi” acquista in queste premesse fisio-logiche la sua ragion d’essere bio-politica. In questo quadro ermeneutico, la centralità del corporeo esprime la tendenza a rimuovere teoreticamente, e a negare politicamente, la fisionomia dell’uomo quale essere rappresentativo di sé e del mondo, ossia di coscienza, e alla sua riduzione a elemento del conflitto delle forze naturali e sociali, astratto dalla sua personalità trascendente, cioè dalla sua singolarità spirituale. La deriva naturalistica del razionalismo storicistico è già inscritta nella sua assunzione unilaterale dell’uomo quale fonte di volontà oggettivata dal pensiero, la cui interpretazione “riporta di nuovo, con movimento inverso, la ricchezza del mondo all’interno della soggettività, fluidificando quanto si era reificato e trasformando le res gestae in comprensione o in historia rerum gestarum”, mantenendo in tensione il “mistero della persona” e il “deposito di senso” del mondo storico. 692 Ma il “mistero” personale, se potesse rispecchiarsi fedelmente in realtà oggettiva, non sarebbe più tale ma solo l’antitesi astratta della sintetica fattualità concreta della volontà, l’unica storicamente accertabile e giudicabile. Il mistero, però, è tale non in quanto preceda il factum oggettivo della volontà espressa in azione, ma in quanto indipendente dall’azione perché trascendente ogni espressione volitiva. E trascendente ogni azione perché il mistero che avvolge la coscienza interiore, la singolarità intenzionale, non è in funzione della volontà, quale premessa incognita dell’azione fattuale che la disvela, ma fa sì che la volontà sia funzionale alla sua possibilità di essere e di non essere. Tale possibilità trascende la necessità che vincola ogni determinazione volitiva e costituisce il contenuto di libertà della coscienza intenzionale, la quale non è la somma unitaria delle singole

691

F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit. da R. Esposito, Bìos, pag. 83. R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze (2002), Milano, 2009, pag. 107. 692

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volizioni umane, ma bensì la singolare rappresentazione del mondo che ogni uomo può avere in quanto uomo. La differenza tra la rappresentazione del mondo (Darstellung) e la soggettività trascendentale (Cogito) è che la prima, diversamente dalla seconda, non consiste negli atti di pensiero oggettivati, ma include ogni esperienza (Erlebnis), conscia e inconscia, che la coscienza singolare ha del mondo, il quale pertanto esiste in quanto è una sua rappresentazione, un analogon singolare. La rappresentazione umana del mondo, essendo legata all’esperienza singolare di ogni uomo, non è una struttura formale di processi predeterminati e acquisiti come un istinto della specie, né come “un processo di determinazione di forze”, 693 ma è un percorso esistenziale in-determinabile, e perciò misterioso, ovvero una storia. Aver considerato come “storico” il prodotto oggettivo della coscienza razionale, anziché la forma soggettiva rappresentativa del mondo, ha condotto la coscienza teoretica a definirsi nei termini di una metafisica dell’Essere, di una ontologia, a fare della filosofia una metodica della conoscenza scientifica, una epistemologia, e dell’attività di governo una bio-politica. Ciò è la conseguenza del Grande Equivoco della theo-logia alessandrina di identificare il Logos Christos, mediatore divinoumano, col Logos della metafisica greca, confondendo l’Agape con l’Eros. Natura dell’Eros è di mantenere in vita il conflitto delle forze contrapposte, che non pervengono mai a un esito conclusivo, non perché, come riteneva Nietzsche, “quelle soccombenti conservano pur sempre un potenziale energetico in grado non solo di limitare la potenza di quelle dominanti, ma, a volte, di rovesciarne la prevalenza in proprio favore”,694 secondo una tipica dinamica possibilistica canonizzata dal liberalismo politico, ma in quanto l’esistenza identitaria di ognuna di quelle forze dipende dalla relazione dialettica che le de-finisce antiteticamente. In questo senso, ogni positività ontica si rapporta alla sua antitesi come il suo negativo, che è la vera determinazione comune a tutte le forze. Questa instabilità ontologica è il presupposto di ogni logica dialettica, il cui dinamismo polare può estendersi alla natura 693 694

F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1884-85, cit. da R. Esposito, Bios, pag. 87. R. Esposito, Bìos, cit., pag. 88.

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come attività vitalistica. Che altro è il materialismo dialettico? Lo “sfogo della forza” vitale di cui parla Nietzsche 695 non è che la irrequietezza della dialettica, trasposta naturalisticamente, che nell’impossibilità di definirsi positivamente se non attraverso il suo negativo, produce l’instabilità erotica del divenire e la tendenziale disgregazione politica. Ciò, infatti, che “non sopporta limiti, confini, margini di contenimento” 696 è l’universalità del Logos, che tende a espandersi indefinitamente in quanto indefinita precarietà di ogni definizione ontica. La nietzscheiana “volontà di potenza” è l’atto originario di posizione ontologica dell’Essere, la decisione metafisica della assoluta affermazione esclusiva del Nulla, ossia della universale Alterità del ni-ente, procedente con essa alla rimozione della coscienza della Differenza tra la singolare rappresentazione intenzionale e l’universale rappresentazione trascendentale. Lo scopo delle istituzioni storico-culturali è di impedire, o quanto meno di frenare, il processo di questo dinamismo negativo, stabilizzando prescrittivamente la prassi lecita conformemente al relativo modello ideale, interno all’orizzonte di senso pubblico stabilito dal Potere politico. Ciò che inequivocabilmente emerge in Nietzsche è che la tensione delle forze vitali sia distruttiva per l’esistenza, 697 e che dunque la stessa ec-sistenza umana sia il termine avversativo contro cui si accanisce la dinamica del divenire naturale, e che la imitazione logicopolitica non fa che esacerbare, fino al parossismo dell’auto-dissoluzione bellica ed ecologica. La “forma” del politico, ossia la de-finizione dello spazio pubblico significativo in quanto razionalmente giustificato, per il suo carattere prescrittivo e ascrittivo di senso, è la moschiana “formula politica”, ovvero la paretiana “derivazione” o la “ideologia” marxiana, che Niezsche indica come la “menzogna” della verità ontologica, che nasconde, non già il fondo naturalistico dell’uomo, ma bensì la differenza irriducibile che separa la coscienza intenzionale dall’idealtipo antropologico della rappresentazione naturalistica. 695

F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1885-87, cit. da R. Esposito, Bios, pag. 89. Ibidem. 697 Ivi, pag. 91. 696

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Circa i contenuti di tale Differenza assiologica, essa consiste nella capacità della coscienza intenzionale di dirigersi, diversamente dalla volontà, simbolicamente alla parte e al tutto, per cui ogni sua esperienza rappresentativa del mondo rimanda a una totalità di senso, relativa alla stessa rappresentazione analogica, tale che all’interno della coscienza intenzionale non vi siano contraddizioni, che sussistono solo all’atto della determinazione della volontà sulla base di referenti normativi esterni alla coscienza stessa. In questa possibilità totalizzante consiste la singolarità personale dell’essere umano, trascendente ogni determinazione positiva della sua volontà, e della stessa rappresentazione razionale del mondo che su di essa si basa, e rispetto alla quale la rappresentazione analogica è mitica. La coscienza mitica, diversamente da ogni apparato cognitivo, non può oggettivarsi in atti compiuti, e come tali giudicabili come fatti storici, ma ogni sua manifestazione rimanda simbolicamente alla singolare rappresentazione analogica relativa, la cui totalità la rende indipendente da ogni normatività esterna, naturalistica o politica. Se pertanto “l’intero processo di civilizzazione comporta conseguenze reciprocamente antinomiche, quali sono quelle appunto dell’agevolazione e dell’indebolimento della vita”, 698 ogni rappresentazione miticoanalogica trascende ogni antinomia ponendosi al di qua e al di là di ogni discorsività dialettica, essendo la fonte arcaica di ogni costrutto razionale. Il “misterio grande” (Leopardi) non va ricercato nella Natura, le cui leggi la scienza progressivamente va a discoprire scoprendo l’origine fantasiosa di tante ipotesi cosmologiche al loro tempo ritenute “scientifiche” sol perché razionali; ma va appreso nell’animo umano, nella sua capacità rappresentativa di pensare il tutto riferendosi alla parte. In quanto fonte mitopoietica, l’uomo, la sua coscienza, può dirsi al centro dell’universo, nel senso di rapportare alla sua concreta esperienza esistenziale le infinite relazioni del mondo. La soggettività trascendentale, nella sua illimitata possibilità produttiva di pensiero, è pur sempre limitata dalle sue stesse determinazioni oggettive, la cui certezza fenomenica ne costituisce pure il limite. Non a caso Gentile 698

R. Esposito, Bìos, cit., pag. 97.

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assolutizzava più di Fiche l’attività del Soggetto, considerando come “natura” i suoi stessi prodotti oggettivati. Ma questa indefessa attività creatrice, al pari della coscienza eidetica husserliana, avrà pur sempre come oggetto intenzionale il particolare, e non mai l’insieme. La coscienza mitica non è quell’astratto pensamento di alcunché di indeterminato prima della determinazione volitiva, come credeva il realista Croce, ma è l’intuizione del Tutto, che si esprime analogicamente nel frammento simbolico, a differenza del factum pratico, oggettivabile in ente fenomenico omologo al prodotto naturale. Ciò che la conoscenza simbolica, a differenza di quella scientifica, coglie nel frammento poietico è la sua rilevanza trascendente la mera determinazione fattuale, quella “cosa in sé” che rimane inaccessibile alla ragione, e che consiste nel Tutto, che la ragione determinativa non coglie. L’intuizione poetica non è mai la conoscenza del frammento astratto dalla sua rilevanza simbolica, ma è esattamente la coltura di questa relazione alla ragione misteriosa; e quando del frammento simbolico si vuol farne oggetto di scienza, ecco che la relazione col Tutto si infrange e il singolo giudizio determinativo si immerge nel mare magno del divenire degli enti naturali, propiziando infinite ipotesi ermeneutiche, ognuna delle quali confutabile e rivedibile incessantemente, come infinito e incessante è lo stesso divenire naturale. Solo riportando il frammento alla sua fonte originaria, alla coscienza mitopoietica da cui è sgorgato, sarà possibile ricondurlo al mistero della sua creazione, che è lo stesso mistero della creazione divina. La duplice consapevolezza, quella della relazione simbolica dell’atto umano con la sua coscienza mitica, e della sua singolarità che la rende perciò unicamente misteriosa, fa assumere alla verità una declinazione simbolica e non fattuale, consentendo di assumere a riguardo di ogni singola rappresentazione personale un valore che è relativo se è stimato coincidente con l’esistenza finita del singolo uomo, ma che è infinito se rapportato al significato trascendente quella singola finitezza empirica; ed è proprio nella convergenza dei due orizzonti del finito e dell’infinito nella stessa coscienza singolare noi possiamo rilevare la concretezza tragica della Differenza assiologica, di cui ogni esistenza umana è testimonianza. 321


Le conseguenze pratiche nelle relazioni inter-personali tra la prospettiva naturalistica ed erotica e quella spiritualistica e agapica sono enormi e radicalmente differenti negli esiti. Infatti, se la deriva naturalistica della bio-politica è regressiva verso la zoè della forzosa schiavitù dei molti a garanzia della superiore vitalità dei pochi privilegiati, impegnati a sostenere la lotta della “vita degli uni contro la non-vita degli altri”, 699 fino all’annientamento comune, la prospettiva agapica, assumendo come valore rilevante la capacità di immedesimare le molteplici singolari visioni rappresentative dell’uomo al modello trascendente che tutte le comprende, quello del Cristo Mediatore, ne valuta l’importanza in relazione, non alla forza del potere dell’uomo sull’uomo, ma alla capacità di trascenderla a favore del dono di sé all’Altro, che per ognuno è Dio. Liberare l’uomo dalla paura lupesca e belluina dell’altro uomo, significa emanciparlo dalla Necessità della natura, spingendolo a vedere anche in essa, come in ogni creazione divina e umana, il prodotto funzionale alla elevazione spirituale, ossia appunto alla capacità di “conoscere se stesso” come essere non riducibile ad animale naturale. La coscienza della Differenza assiologica, presente in misura diversa in ogni singola persona, se affermata culturalmente come valore comune socialmente preminente, crea una gerarchia spirituale di tipo carismatico, il cui riconoscimento pubblica limita in senso normativamente legittimante l’espansione indebita del Potere in senso assolutistico. Ciò implicherebbe un rapporto tra sapienza e potenza del tutto diverso da quello invalso nella nostra civiltà a partire dall’ontologia greca, ma in senso diametralmente opposto a quello auspicato da Nietzsche. Infatti, il “blocco del divenire” 700 è quello tentato da ogni struttura ideo-politica fondata sul principio di ragione, a partire dalla sofocrazia di Platone per finire al comunismo di Marx, in cui l’assoluto immanentismo, interpretato come assoluto realismo politico, ha condotto a negare la differenza tra regno naturale e regno sociale, nel senso della totale assimilazione della lotta politica a quella biologica, dove le parti sociali 699 700

R. Esposito, Bìos, cit., pag. 102. Ivi, pag. 103.

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in contesa sono omologate a enti naturalistici in lotta per la sopravvivenza. In realtà, dalle premesse ontologistiche non poteva che derivare una visione antropologica del tutto similare a quella di ogni altra specie zoologica, dal momento che la realtà fenomenica, l’ente, è quella visibile, e dunque naturale, che l’uomo può, da ospite estraneo, trasformare ma non creare né conservare senza negare il suo essere creativo di realtà simbolica. Soltanto partendo da questa dimensione simbolica si può pervenire a trascendere il divenire, senza proporsi di bloccarlo vincolandosi ai dispositivi costrittivi di una struttura sociopolitica modellata sul paradigma di un “infrangibile sistema di determinazione biologica [di] matrice animale”, 701 ma lasciandolo al suo destino naturale, preservando dall’edacità del tempo gli sforzi dell’ intelligenza umana in direzione di un’economia spirituale, non materiale, che accumuli ricchezza sapienziale utile a rendere più agevole il transito umano sulla terra. A tal fine, l’uso della forza per negare l’altrui vita a garanzia della propria è quanto di più anti-umano e diabolico possa pensarsi, poiché alla fine, in un mondo ridotto a natura domata, non c’è più niente da negare e su cui dominare. La sorte che tocca agli Stati totalitari, di dover inventare un nemico per sussistere, pervenendo anche a una distribuzione orizzontale del potere di uccidere all’intero corpo sociale.702 Che quella agapica sia la strada da percorrere è confermato, empiricamente, dall’esito mortifero della strada erotica, e teoricamente dalla conclusione cui perviene la stessa prospettiva biopolitica nietzscheiana, per cui a salvare la specie umana dal declino arrecato dalla civilizzazione sono predisposti “gli individui più liberi dalla sindrome autoconservativa, più inclini alla sperimentazione del nuovo, ma perciò stesso anche biologicamente più deboli”, 703 i quali si mettano a disposizione del bene comune in quanto “individuano la verità della vita in qualcosa che continuamente la sorpassa”. 704 Se ciò che sorpassa 701

Ivi, pag. 104. Ivi, pag. 115. 703 Ivi, pag. 109. 704 Ivi, pag. 111. 702

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la vita in senso meta-individuale è la salus publica autoconservativa della communitas, ciò che la trascende in senso meta-fisico è l’amore evangelico volto alla salvezza escatologica, che al posto del necessario processo naturale sostituisce la libera storia dell’uomo spirituale. L’Uebermensch inteso dunque come il santo cristiano, colui che vive nella piena comunione col trascendente. Tenendo conto delle condizioni di possibilità di un evento politico collettivo, relative alle sue modalità d’essere-così e non diversamente, la sua effettualità ne dipende sempre, per cui la supposta unicità storica va ascritta alla varietà delle azioni singolari che lo costituiscono, ma non allo schema ideale della sua interpretazione razionale, fissata in alcune determinazioni generali che lo compendiano. La determinazione più generale e caratteristica del fenomeno totalitario è la sua “lotta contro la trascendenza”; 705 ma poiché essa venne condotta teoreticamente da tutto il razionalismo scientista moderno nell’arco di qualche secolo, l’evento politico totalitario ne costituisce il suo rispecchiamento pratico e il suo inveramento storico. Ciò premesso, le ragioni ideo-logiche specifiche alle singole forme giustificative dei sistemi totalitari possono variare a seconda dei contesti culturali tradizionali e alle forze politiche che li interpretano, sicché la Germania weimariana poteva sviluppare anche la rivoluzione comunista, e nel qual caso l’evento totalitario avrebbe avuto forme istituzionali e criteri di legittimazione diversi da quelli che realizzarono il sistema nazionalsocialista, senza perdere con ciò il significato generale della sua costituzione ideale. In tal senso, il richiamo a una supposta “qualità del tutto particolare” del regime nazista, riferita al suo “esplicito richiamo alla biologia contro la filosofia”, non è pertinente a qualificare il motivo generale, ma solo relativamente ai suoi contenuti ideologici, per cui l’asserzione che “esso segna il vero punto di rottura nei confronti non soltanto di un generico passato, ma della stessa biopolitica moderna” 706 va intesa come una enfatizzazione dell’identità del Potere col suo rappresentante “esistenziale” nel senso di Schmitt, 705

Ved. E. Nolte, Der Faschismus in seiner Epoche (1963), tr. it., Carnago (Varese), 1993 pagg. 697-737. 706 Ivi, pag. 118.

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anziché istituzionale, ma la cui modalità carismatica non ha certo sostituito la forma statuale entro la quale essa ha esercitato la sua potestas, ma semmai l’ha esaltata. E ciò basta a confutare ogni pretesa “rottura” coi criteri di sovranità moderni. L’immane potere del Fuehrer gli derivò in quanto incarnazione dello Stato, come un novello imperatore pagano. A differenza dell’Imperatore eusebiano, il cui potere assumeva la sacralità della missione evangelizzatrice cristiana, quello pagano concentrava la sua potenza nella violenza della sua forza politica non solo praticamente illimitata, in quanto esclusiva di ogni interferenza con ciò che potesse trascenderla e quindi de-finirla. Infatti, l’assoluta affermazione dell’universalismo razionalistico giunge sino alla negazione di ogni confine di giudizio, partecipando così alla totale immersione nel processo della vita biologica, umanamente ristretta alla profilassi del corpo despiritualizzato, dominata dalla Necessità naturale. La stessa normatività giuridica riflette la certezza dell’oggettivo giudizio razionalistico, che ha per contenuto l’ente fenomenico, e non gli astratti universali empiricamente non confutabili della metafisica tradizionale. In tal senso, il diritto positivo dello Stato assolutista moderno e di quello totalitario contemporaneo prende le mosse, non già dal mito,707 ma dal Logos, mentre mitica è solo la credenza nella universalità del costrutto razionale, ossia la proiezione della totalità della rappresentazione della coscienza simbolica nel sistema di legittimazione scientifica del dispositivo della volontà. Dalla simbolizzazione della definizione razionalistica scaturisce la stessa dinamica dello sdoppiamento dialettico, la cui antitesi assicura la ragionevolezza dell’opzione tetica, la cui sintesi totalizzante rappresenta il lieto fine del processo fenomenologico della ragione. L’emancipazione moderna del Potere dal controllo della volontà, da quelle inibizioni provenienti dalle remore morali e dalle prescrizioni religiose, ha concentrato il campo d’azione della vita pubblica sul controllo del corpo, ossia sui bisogni materiali e la regolamentazione della loro soddisfazione. L’economia della sopravvivenza ha soppiantato del tutto l’economia della salvezza, assegnando alla sfera pubblica la 707

Ivi, pag. 127.

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prima e a quella privata la seconda. Assumendosi lo Stato il compito di salvaguardare la vita, si prende in carico di disporne, ma pur sempre nell’ambito della sfera pubblica, sicché il concetto foucaultiano della loro “neutralità” rispetto al Potere sovrano va corretto in questo senso.708 Non esiste un Potere “politico” che non sia esercitato entro la sfera pubblica, per cui è la determinazione di questa a stabilire i termini e i limiti del suo esercizio. La rimozione dalla sfera pubblica della sfera spirituale dell’uomo, sulla quale agiva l’auctoritas religiosa, ha eliminato dal campo del politicamente rilevante il significato trascendente e la destinazione escatologica della vita umana, piegandola sul suo mero significato biologico. La stessa teoria della attribuzione pattizia della sovranità, ricalca in chiave individualistica il modello aristotelico della koinonìa inter-familiare a scopo protettivo. La fase propriamente politica comincia, secondo la versione della Arendt, con l’esercizio della libertà degli uomini liberi. Ma cos’altro era questa libertà se non la dialettica delle volontà? Il mantenimento delle rispettive libertà dei consociati in ambito politico presumeva l’accordo ragionevole, cioè la possibilità di con-venire su una mediazione di tipo ideale. E’ in questa fase che interviene il ruolo derimente dei valori spirituali comuni, in virtù della cui comunanza, è possibile addivenire a un libero accordo reputato dalle parti ragionevole. Nel momento in cui tale koinonìa spirituale viene dichiarata priva di rilievo politico ed estromessa dalla vita pubblica, il rapporto politico perde il suo carattere di libertà per acquisirne uno di sola necessità: quella di essere garantiti dal più forte, verso la minaccia esterna al gruppo sociale; e quella di garantirsi contro il più forte, nei rapporti interni. Non esistendo più una mediazione spirituale in cui riconoscersi e attraverso cui legittimare le pretese debite e stigmatizzare le indebite, l’intera relazione tra le parti si gioca sulla rispettiva forza, ossia sul potenziale di violenza di ogni parte e quindi, finalmente, sulla paura di perdere la vita. Trasformare l’idea 708

“Dal punto di vista della vita e della morte, il soggetto è semplicemente neutro ed è solo grazie al sovrano che ha diritto a essere vivo o ha diritto, eventualmente, a essere morto. Comunque sia, la vita e la morte dei soggetti diventano dei diritti solo per effetto della volontà sovrana”: M. Foucault, I faut défendre la société (1976), tr. it. in S. Forti (a cura), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Torino, 2004, pag. 78.

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del contratto sociale da consesso dialettico degli uomini liberi, a rapporto giuridico, presuppone una antropologia naturalistica dei bisogni economici, che la bio-politica si assume la funzione di soddisfare. La nuova scienza galileiana, priva affatto di intima teleologia, rappresenta una Natura meccanizzata, attivata da un processo di forze antagoniste e prive di ogni fine che non sia la loro stessa affermazione e conservazione. Contro una tale Natura l’eventuale intervento divino può solo pensarsi come accidentale e momentaneo, non interferenze sostanzialmente con la ferrea necessità che ne regola l’andamento cosmico. Ne consegue che la forma razionale di Stato deve orientare le sue risorse verso un’economia della resistenza e della conservazione biologica non diversa da quella di ogni organismo naturale. Ed è nell’approntamento di questa funzione primaria che lo Stato moderno mette in atto dei “meccanismi molto più ingegnosi e – dal punto di vista economico – assai più razionali della grande assistenza, massiccia e insieme lacunosa, essenzialmente legata alla chiesa”. 709 Tutto sta nello intendere il valore strumentale del termine “razionale”, riferito alla sua funzionalità economica, e non più tradizionalmente ancillare al servizio teologico. Parimenti, lo Stato “razionale” diventa quello che predispone metodicamente al meglio le sue risorse economiche, finalizzate alla vita, e non già per il miglior trapasso nel regno della morte. In questo senso, la preservazione dello stato in vita coincide con la stessa possibilità di esercizio del Potere, sicché, come notato da Foucault, “il potere avrà dunque presa non sulla morte, ma sulla mortalità”, 710 ossia su una realtà spersonalizzata e oggettivata come evento pubblico, di significato politico. Ciò che rimanda al privato è il suo significato religioso. La appropriazione del valore pubblico della morte fa di essa un evento simbolico interno alla sfera politica, desacralizzato e statistico. L’assorbimento dell’esistenza personale all’interno della sfera pubblica è possibile solo in conseguenza di una visione di essa degradata a vita naturalistica, infrangendo la autonomia della sua totalità spirituale in modo tale da renderla in-sufficiente, in-completa, e pertanto abbisognevole di compensazione dialettica e politica. La riduzione 709 710

M. Faucoult, Loc. cit., pag. 83. Ivi, pag. 87.

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antropologica dell’uomo alla dimensione economica e politica, cioè alla sua natura,711 assicura al Potere la perdita della sua libertà di coscienza, cioè di rappresentazione del mondo, asservendolo all’empito erotico della voluntas dominandi, che legittima anche la sua dominazione passiva. Solo la parte si può dominare in nome della totalità, e se questa viene estroiettata nella realtà oggettiva dell’edificio sociale e statuale, l’uomo ne viene assorbito come elemento integrabile nella sua organicità. Ciò che è già integrale, come appunto la persona, ovvero totale come la coscienza rappresentativa, non può essere assorbito né integrato, ma, ciò che è più rilevante contro ogni pretesa giusformalistica, non può essere rappresentabile. L’irrapresentabilità della persona integrale, e ancor più della totalità coscienziale, rende incongrue e violente le forme politiche legittimate su questa pretesa, sicché il tentativo di razionalizzare la vita umana, individuale e collettiva, attraverso i potenti strumenti tecnici odierni troverà sempre l’ostacolo invalicabile di un nucleo irrazionale, costituito dal mistero umano. In esso “il principio universale della razionalizzazione trova la sua nemesi”, la sua conversione in forza irrazionale. La razionalizzazione universale, l’organizzazione tecnica che nega il mistero che sta a fondamento della vita, produce la perdita del vecchio senso della vita, l’angoscia, la tendenza al suicidio. […] L’uomo è l’organizzatore della vita, ma non può diventare a sua volta, nel profondo, oggetto di organizzazione; resta sempre in lui un elemento organico, irrazionale, misterioso .712

La funzione katechontica del mistero deriva dalla impraticabilità dell’uso della forza per la soluzione dei problemi vitali. Dove ogni relazione umana è relazione di forze riconoscibili e valutabili e soppesabili, alora tutto è rimesso alla quota di detenzione della forza. La logica economicistica del nostro tempo ne è la conseguenza. Il potere politico dei gruppi organizzati o degli Stati è un potere economico, che elegge la forza a criterio di legittimazione della violenza di Stato. La 711

Sulla irriducibilità dell’uomo alla sua natura, ved. V.N. Losskij, A l’image et à la ressemblance de Dieu, Parigi, 1967. 712 N. Berdiaev, La condizione spirituale del mondo contemporaneo (1931), tr. it., in Id., Pensieri controcorrente, Milano, 2007, pag. 51.

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forza sostituisce la verità, così come l’economia sostituisce la teoria. Se reale è solamente il fenomeno, allora la realtà più evidente è quella più forte. La civiltà dell’immagine ne è la conseguenza tecnica. Il mistero, dunque, è la rinuncia alla forza nelle relazioni umane, e quindi di riflesso la declinazione della forza come male, che non va combattuto col male, cioè con la forza stessa. La rinuncia alla forza, ossia al male, equivale al riconoscimento del limite della volontà, della finitezza umana. Ma anche del limite della singolare verità, e l’ammissione della sua possibile falsità. Tra tante verità possibili, l’uomo sceglie la propria cercando di affermarla come la più forte, come quella “universale”. Ma se ogni rappresentazione del mondo non è assicurata della sua verità, questa va cercata, non fuori di sé ma oltre sé, oltre la finitezza e in qualcosa che comprende la nostra intuizione del mondo senza negarla. E poiché il riconoscimento del limite del sé è affermazione dell’altro-dasé, questo non è una Idea ma è un Qualcuno, il Cristo che va oltre ogni singolo uomo restando nell’umano, nella sua concreta “integralità” (sobornost’) personale. È la via cristiana alla socialità solidale e incruenta, impolitica e personalistica, fondata nella verità del Mystero. La verità umana è la scienza, e la verità della scienza è nel suo limite umano. Una verità finita non può essere la Verità, ma solo il suo termine di relazione entro la finitezza. Se la Verità è nella relazione della finitezza con ciò che la trascende, tale relazione deve escludere lo strumento della forza, l’elemento naturalistico della volontà, e affidarsi al propriamente umano, la parola, il Logos, declinato stavolta non più in senso dialettico ed erotico ma trascendente e agapico. La potenza del Logos agapico non è nella forza di un sapere finito assunto come universale, ma nella consapevolezza della Differenza tra ogni sé e l’unico Sé che tutti li trascende, che chiamiamo Dio. La Verità della scienza è oltre, nella relazione del sapere finito con l’Infinito che lo trascende. L’affermazione della scienza come Verità, universale e fuori della relazione con l’Infinito trascendente, è falsa. “Lo scientismo”, che è il tipico sapere dell’uomo moderno, “è menzogna”. 713 Il decorso della menzogna non è però solo del nostro tempo, ma risale alla stessa risposta ontologica data alla questione dell’adattamento culturale 713

N. Berdjaev, Il paradosso della menzogna (1939), Loc. cit., pag. 23.

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dell’uomo alla natura da parte del pensiero greco; una risposta sociologica e politica, estroiettata nella realtà del mondo fenomenico, cioè nel campo proprio della natura fisica, affermato come l’oggetto esclusivo della Parola, come il contenuto stesso della sua verità creduta universale al pari della intuizione interiore. Questa proiezione analogica è l’origine della falsa coscienza di ogni metafisica razionalista, e segnatamente del razionalismo moderno. “Quando la coscienza, che produce i giudizi morali, si trasferisce dal profondo della persona ai collettivi e alla dinamica dei collettivi nella storia, qualsiasi menzogna può venire giustificata”.714 Ciò comporta una “deformazione della struttura della coscienza” in senso collettivo, per cui alla coscienza soggettiva viene negata l’obiezione della verità sui motivi della necessità collettiva, con un rovesciamento dei valori che antepone la menzogna alla verità, sicché “ciò che per la coscienza individuale costituisce una menzogna, per la coscienza collettiva costituisce una realtà, anche se questo contraddicesse la più chiara evidenza”. 715 La stessa “prigionia della mente” 716 testimonia a suo modo della Differenza assiologica tra una realtà oggettiva asserita come universale e l’intima resistenza del mystero della coscienza individuale che non si appaga delle menzogne socialmente condivise. Ciò comporta che la riserva morale della coscienza si dissocia dalla volontà come la libertà dalla necessità. In questo senso, la volontà, che è sempre “volontà di potenza”, sia essa personale che collettiva, come giustamente afferma Berdjaev, “può essere un attributo dell’individuo, ma ha sempre un carattere sociale”, e “non può essere realizzata altrimenti che con l’aiuto della menzogna”.717 Tanto più il Potere concentra la sua forza nel tentativo di affermarsi, tanto più con esso si afferma la menzogna. Forza politica, cioè volontà di potenza, e menzogna morale, cioè misconoscimento della libertà della coscienza singolare, sono consustanziali. Viceversa, negare la 714

Ibidem. Ivi, pag. 24. 716 Parafrasi dell’opera di C. Milosz, La mente prigioniera (1953, premio Nobel per la letteratura nel 1980, che tratta dell’adattamento della coscienza alla falsa verità del Potere comunista nell’Europa sovietizzata. 717 Ivi, pag. 25. 715

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menzogna è lo stesso che affermare la libertà, quale “principio opposto alla menzogna”, per cui “la liberazione autentica dell’uomo è liberazione dal potere della menzogna”. 718 I termini del conflitto, dunque, gli opposti principii della Libertà e della Necessità: la prima, caratterizzante l’essenza spirituale dell’uomo; l’altra, l’essenza fisiologica della natura. Non si può dunque fondare il mondo più propriamente umano, quello cioè inscritto nei valori della libertà personale, sui principi della necessità biologica, cioè sulla bio-politica, che è la scelta originaria del pensiero naturalistico greco, che con il sapere scientifico perviene a una Weltanschauung in cui viene per principio esclusa la Verità trascendente, e con essa la forza della libertà personale come principio socialitario. Il pampoliticismo totalitario è l’espressione sociologica del moderno scientismo ateistico. La fede nella vittoria sulla menzogna presuppone la fede nell’esistenza di una forza che si elevi al di sopra del mondo [naturale], la forza della Verità sovramondana, cioè di Dio. […] La coscienza personale determina il nostro rapporto con questa Forza suprema che è la Verità, ma non si tratta di una coscienza isolata dagli altri uomini, è una coscienza penetrata dal sentimento di fratellanza spirituale fra gli uomini, fratellanza nella Verità e non nella menzogna. 719

La negazione ideologica di questa “Verità sovramondana” è la democrazia quale religione della volontà umana, che viene “divinizzata perché viene affermata in modo formale, senza alcun legame con il suo contenuto”, per cui essa “significa l’autodivinizzazione umana e la negazione della fonte divina del potere”. 720 Ma la democrazia “come idea astratta autosufficiente, non subordinata a niente di superiore” 721 è la ragione universale, che, al pari dello Stato, non riconosce alcun principio superiore che la limiti, per cui il valore assoluto della decisione democratica è l’applicazione pratica, in ambito socio-politico, del principio razionalistico di universalità In questo senso, la decisione 718

Ibidem. Ibidem. 720 N. Berdjaev, Sulla democrazia (1931), tr. it. in Loc. cit., pag. 28. 721 Ibidem. 719

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maggioritaria, qualunque ne sia il contenuto, sancisce la volontà della ragione universale, stabilita non dialetticamente ma per ordalia elettorale. L’arbitrio umano diviene realtà politica, ovvero la volontà politica viene legittimata da una decisione maggioritaria. La finzione giuridica del legalismo formale non potrebbe assumere valore legittimante di verità se alla base non ci fosse una credenza nella sua necessità. La democrazia è dunque una fede meta-politica nel valore assoluto della volontà umana. Il vuoto formalismo democratico è il rispecchiamento del formalismo tecnico del metodo razionale. Affidando la giustizia e la verità alla “decisione della maggioranza dei voti”, ossia al criterio quantitativo, si deve presumere “la miscredenza e l’ateismo che stanno a fondamento dell’intera ideologia democratica”, rimuovendo “un’altra fonte, una fonte divina che non dipende dall’arbitrio umano”. 722 Come pure ha notato Berdjaev, il trionfo della democrazia va di pari passo sia con l’ateismo scettico che con “un terrore religioso” conseguente alla perdita anomica dei valori spirituali. “Essa procede parallelamente allo svuotamento dell’anima, alla perdita di Dio nell’anima”, per cui la sua affermazione è relativa al discredito della coscienza personale come fonte di verità trascendente, cioè alla perdita della coscienza della Differenza assiologica e l’ambivalenza di ogni contenuto in relazione alla sua sostenibilità quantitativa. “L’uguaglianza democratica significa la perdita della capacità di discernere le qualità della vita spirituale”, e in questo senso “testimonia la decadenza spirituale dell’umanità”. 723 Il sentimento del Mystero divino, presente nell’uomo come intuizione della Verità e dipendenza nella relazione con l’Infinito trascendente, è stato trasvalutato da una fede antropologica ottimistica, che al peccato d’origine ha sostituito la fiducia politica. Una fiducia irrazionale, fideistica, nella natura benigna dell’uomo, non di quello empirico ma collettivo, la cui “volontà generale” è lo stesso decreto della ragione universale. “La metafisica democratica afferma sì che il singolo uomo sbaglia, che è immerso nell’inganno e nella menzogna, ma dice altresì 722 723

Ivi, pag. 29. Ibidem.

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che la volontà di tutti, la volontà del popolo, la volontà collettiva è infallibile e giusta”.724 Ma, al pari di ogni ente nominale, anche il popolo non ha una realtà ontologica ma solo giuridica, e non può perciò avere una sua volontà. Questa è in realtà una combinazione di interessi diversi e contrapposti, che interessano tutti i gruppi sociali, compresi gli attori storici, del passato. Perciò “il popolo è anche un organismo mistico”, ossia è una “nazione”.725 Ma il popolo in senso democratico, quale “forma politica” della sovranità, non è la nazione. Il popolo sovrano non è il popolo nazionale. Questo una unità organica, mentre l’altro indica una unità meccanica. “La democrazia non può essere espressione dello spirito di un popolo, poiché lo spirito di un popolo si può esprimere solo in un organismo, mentre la democrazia è un meccanismo”. E un organismo è una unità gerarchica, comprensiva di soggettività uniche e irripetibili nella loro qualità singolare, sicché “la volontà del popolo non si può esprimere con una somma umana, con l’opinione della maggioranza”. 726 Questa considerazione confuta il principio naturalistico della uguaglianza meccanica degli individui chiamati a stabilire l’opinione della maggioranza, che di per sé può essere sbagliata e inadatta alla bisogna, perciò “il governo democratico è, alla fine dei conti, una finzione”, quella della “sovranità popolare” in cui non solo il popolo “affoga nella quantità meccanica”, potendosi esprimere “solo sul piano irrazionale” e non nel suo “spirito organico, integro e indivisibile”, ma in cui “perisce anche l’uomo”, che non è una creazione della quantità, ma una personalità trascendente. Senza questo riconoscimento ontologico, “l’autocrazia del popolo non si pone dei limiti nei diritti inalienabili dell’uomo e non garantisce l’intangibilità di questi diritti” personali.727 L’uomo concreto, la persona, non può essere considerato una astrazione quantitativa, un ente di ragione trasferito nella composizione politica della società democratica. La divinizzazione dell’uguaglianza meccanica, quantitativa, astratta e impersonale viene 724

Ivi, pag. 30. Ivi, pag. 31. 726 Ivi, pag. 32. 727 Ivi, pag. 33. 725

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considerata da Berdjaev come il vero “peccato originale” dell’epoca moderna, i cui esiti espressi dal suffragio universale hanno “insito qualcosa di non umano, di antiumano”. 728 La negazione dell’uomo qualitativo, cioè della persona spirituale concreta, a favore dell’ “uomo senza qualità” descritto da Musil, coincide con la stessa negazione della verità, e dunque la logica della ragione astratta coincide con la affermazione della barbarie. “L’ideologia democratica è un razionalismo radicale”,729 ossia una radicale barbarie anti-umana. Questa prospettiva assiologica ribalta il sistema socio-politico instaurato dall’ideologia razionalistica moderna, operando da fattore demitizzante e destrutturante l’architettura istituzionale delle democrazie quantitative, a partire dal principio di rappresentanza, indispensabile alla legittimazione della sovranità popolare e indicato invece da Berdjaev come “uno dei principi subordinati” alla “cultura spirituale”, e quindi alla differenziazione qualitativa della società storica, e pertanto tra quelli “relativi e transitori della vita sociale”. 730 La fede nella razionalizzazione totale della vita a opera della sola forza umana, deve escludere l’esistenza di zone di irrazionalità, che coincidono con residui non omologati ai principi universali della ragione scientifica. Uno di questi è lo Stato, il cui fondamento mistico non è compatibile con una società totalmente razionalizzata, sicché esso deve dissolversi per principio nella dinamica sociale stessa, quale sua funzione. Il passo successivo della razionalizzazione totalitaria è la scomparsa della società, la quale “viene ricondotta ai soli rapporti tra gli uomini”,731 fondati sugli interessi, cioè sulle ragioni tutte umane che muovono la volontà dei singoli, ridotti a enti bio-psichici. Va da sé che l’ “elemento irrazionale” irriducibile a ogni astratta razionalizzazione sociale è l’uomo stesso, con la sua personalità mysteriosa e singolare, con la sua vita privata, sottratta alla dimensione pubblica del Potere onnivoro che vorrebbe controllarla, facendo l’uomo “schiavo dell’utilità sociale, della maggioranza dei voti, dell’opinione pubblica, schiavo dei 728

Ivi, pag. 34. Ivi, pag. 36. 730 Ibidem. 731 Ivi, pag. 37. 729

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propri interessi”. Non a caso la lotta delle democrazie è rivolta contro “gli slanci creativi” dell’uomo di cultura superiore, il genio e il santo, prodotto tipico della società aristocratica, che “è rivolta alla persona e non alla massa”,732 unità amorfa e impersonale, che, a differenza della persona, non può essere pensata a immagine di Dio, e perciò non portatrice di valori superiori e simbolici ai quali si possa chiedere sottomissione leale e libera. La sovranità democratica può pretendere soltanto subalternità coercitivamente fisica dell’uomo ad altri uomini. “Il potere del popolo è il potere dell’uomo” che “non conosce limiti e attenta alla libertà e ai diritti della persona”, i quali “sono garantiti soltanto da principi che abbiano una natura sovra umana, che si eleva al di sopra dell’arbitrio umano”. 733 Il riconoscimento del valore socio-culturale della persona è coincidente con l’ammissione della struttura gerarchica della società, che confuta in radice ogni omologazione democratica al potere della forza del numero. La declinazione politica dello spazio pubblico ha creato un filtro intellettuale nel monopolio statale della istruzione nazionale, la quale ha risentito della influenza ideologica delle teorie democratiche sulla gioventù europea. La rivisitazione dei pregiudizi democratici non può non interessare la ridefinizione dello spazio pubblico in termini impolitici, tali da non porre come metodo di condotta sociale dei singoli e dei gruppi la dialettica del potere ma quella del solidale bene comune, fondato sui doveri. Invece “la democrazia”, afferma Berdjaev, “è diventata lo strumento degli interessi e delle passioni umana, l’arena della lotta per il potere e il predominio”; essa infatti “concepisce il potere come un diritto e non come un dovere”, ma proprio questa lotta per il potere è “la fonte del decadere della democrazia”, 734 che è insieme anche la decadenza della civiltà politica, ossia del rimedio tipico del razionalismo occidentale, a partire dal pensiero sociologico greco. E pertanto, “la crisi della democrazia non è una crisi politica, è prima di tutto una crisi spirituale”, in cui emerge l’spetto idolatrico del suo credo civile,che non andrebbe accreditato teologicamente. “L’unzione divina 732

Ivi, pag. 39. Ivi, pag. 40. 734 Ivi, pag. 42. 733

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non può poggiare su una quantità umana, sulla massa umana. L’unzione è un’elezione. La democrazia teocratica è la negazione dell’elezione”. 735 Dunque il primato dello spirito sulla carne, che comporta una conseguente educazione all’elevazione umana, opposta alla pedagogia della violenza e della concorrenza per il potere. Se si ha coscienza che al fondo della crisi politica c’è una crisi religiosa, la crisi delle moderne democrazie deve risolversi attraverso la riscoperta del senso trascendente della vita, e dunque nella nuova missione soteriologica del cristianesimo post-moderno. In che cosa consiste culturalmente questa missione? Nella ricostituzione di una unità organica, una comunità unita religiosamente, in quanto ispirata a un fine sovrappersonale, trascendente gli interessi dei singoli e dei gruppi in competizione per il Potere. Ciò comporta una nuova sintonia tra masse ed élite per la formazione di una nuova aristocrazia organica, che sia legata allo stesso vincolo morale tanto alle masse che ai ceti dirigenti. Solo il cristianesimo può rivolgersi agli umili e ai potenti usando lo stesso linguaggio della fede che trascende le divisioni sociali e le posizioni politiche, dando loro un fine comune perché spiritualmente accomunante. Ma ciò significa invertire il senso del processo tecnologico in atto nel mondo globalizzato verso la completa socializzazione della persona, che segna la realizzazione universale del principio politicistico greco. La totale socializzazione dell’uomo segna il compimento dell’integralismo politico della città antica, la cui dialettica degli opposti esiti della socializzazione comunista e dello individualismo di massa capitalistico nasconde la stessa matrice naturalistica e materialistica che i cristianesimo deve rifiutare allo stesso modo in nome della centralità della persona. È senza dubbio difficile porre l’accento culturale sulla persona allorquando i processi epocali vedono il protagonismo delle masse sempre più numerose e compattate dagli stessi problemi esistenziali. Ma la risposta cristiana non è rivolta al singolo astratto dalla sua comunità, ma deve proporsi di rendere possibile il valore personale proprio garantendone la centralità culturale all’interno di uno spirito comunitario che le nazioni politiche oggi hanno smarrito in nome di 735

Ivi, pag. 43.

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valori identitarii economicistici. La comunità in senso cristiano è quella che pone il legame interpersonale sulla figura divinoumana di Cristo, e non su un fantomatico patto politico o su un chimerico contratto sociale, che può essere garantito e sciolto dal Potere umano che l’ha costituito. Porre tra l’io e il tu la persona di Cristo significa fondare una comunità agapica, non parallela a quella politica, ma organicamente legata a una comune destinazione soteriologica, tale che le ragioni di Stato non possano mai più rendersi indipendenti e autonome dalle ragioni di Dio. Questa strada autonomistica, infatti, ha distrutto la civiltà, non solo cristiana, ma umana tout-court, e va perciò abbandonata per sempre. Solo all’interno di una comunità religiosamente fondata viene disinnescata la hybris del Potere assolutistico attraverso il controllo katechontico di un Governo morale della forza statuale, che impedisca che la persona sia trattata come pedina utile al servizio dei potentati politici ed economici. Ciò comporta il rovesciamento del principio della sovranità, da quello popolare e democratico a quello divino e theocratico. La lotta contro l’ideolatria democratica dev’essere condotta non in nome di un’altra parte di popolo che combatte contro la parte avversa, ma in nome di ciò che è veramente universale perché comune a tutti gli uomini: la realtà misteriosa della loro singolarità spirituale. Può esistere una soluzione tecnica più o meno scientifica, ma non può esistere una soluzione soteriologica più o meno umana. O è umana o non lo è. In questo senso, l’interrogativo parmenideo, che fonda la coscienza teoretica dell’uomo di ogni tempo, circa l’alternativa tra l’Essere e il non-essere, va reinterpretato il senso spiritualistico cristiano, dove l’Essere non è l’essenza naturalistica della metafisica pagana, di cui è intrisa la stessa teologia cristiana, ma l’Essere spirituale trascendente, per mezzo del quale ogni uomo è eterno, e in virtù di tale partecipe divinità, è chiamato, non a organizzarsi per la sua mera sopravvivenza biologica, ma a continuare la creazione. Questo è il suo fine, e in questo tèlos comune a ognuno egli si riconosce fratello all’Altro e solidale alla comune missione. L’eternità spirituale dell’uomo si manifesta nelle sue opere, così come il divenire tipico della natura si riflette nel dinamismo moderno, 337


disgregatore di ogni staticità organica e di ogni equilibrio esteticocontemplativo. La dis-organicità moderna ha frantumato l’intero concentrandosi nella parte per neutralizzarla, cioè dominarla facendole perdere la sua funzione simbolica originaria di richiamare il Tutto. Il razionalismo scientifico ha isolato ogni parte dall’insieme organico della sua significazione storico-culturale, rendendola astratta e insignificante fuori dal meccanismo della sua improvvisata fruizione tecnica. La rimozione dell’Insieme per la parte è la rimozione della distanza del trascendente per la scopia ravvicinata del dettaglio oggettivo, per la sua superficiale descrizione meccanica priva di profonda comprensione. La conoscenza delle relazioni causali ha sostituito la creatività dell’intuizione dell’insieme, che è verità. Il movimento diveniente origina dall’ imperfezione del molteplice che non giunge mai a unità, ma solo a provvisorie composizioni, poiché l’unità del molteplice è trascendente, e quindi distante da ogni interconnessione meccanica e puramente tecnica delle parti isolate dalla loro simbioticità organica. Lo sradicamento esistenziale dell’uomo appartiene alla stessa opera di scomposizione delle sue attività corporee dalla loro destinazione spirituale unitaria, dove l’osservazione empirica della vita ha soppiantato l’intelligenza dello spirito che la anima. La inintelligenza spirituale del nostro tempo coincide con la rimozione della Differenza assiologica, che obnubila la stessa ricerca metafisica a favore della pura cognizione tecnologica del mondo, ridotto a natura artificiale, che segna la conversione dell’opera umana creatrice di realtà spirituale a ripetitiva e inutile fatica di Sisifo. Infatti, l’oblio dell’Essere è il portato della scomposizione dell’unità organica del mondo-della-vita in settori resi astratti dalla ragione che ne ha fatto suoi oggetti di pensiero assoluti e fruibili al dominio della volontà. Come ricomporre l’unità perduta? Come ridare significato organico agli archivi della memoria? Come riconnettere le parole alle cose? Il tempo all’eterno? Nell’unico modo umanamente possibile: andando oltre la crisi, oltre la frattura metafisica tra uomo e Dio, e il conflitto tra cultura e natura, per tornare alle origini dell’Essere spirituale, di tutto ciò che si è manifestato come esser-che-è, ossia al Mito, che è la fucina della Parola, del Logos spirituale, in cui s’incontrano originariamente nella 338


loro coesistenza tragica la necessità della natura e la creatività della cultura. Questo futuro ritorno al passato ha i suoi tempi umani, la sua economia della salvezza, che ha diversi punti di vista escatologici a secondo delle singole esperienze culturali regionali del mondo, che non possono essere né unificate esteriormente né accelerate interiormente senza violentare i rispettivi patrimoni sapienziali. È nostro radicato convincimento che all’apice del percorso soteriologico vi è l’apocalisse di Cristo, ma questa nostra fede cristiana può essere solo comunicata e testimoniata, non imposta con eserciti e minacce. Anche per questa consapevolezza, dobbiamo prendere le distanze nette e chiare dall’ idolatria democratica, la moderna eresia monofisita sorta all’interno della cultura cristiana. Il rigetto della religione democratica comporta l’affermazione del primato della cultura sulla politica, della vita spirituale su quella materiale. Infatti, “con la democratizzazione la cultura in generale si abbassa di qualità e di valore”, poiché “si trasforma in civilizzazione”,736 ossia in organizzazione razionale della vita sociale, a detrimento della qualità della esistenza umana,concentrata sulla soluzione pragmatica dei problemi contingenti. La politica, nello incontro con la scienza, ha perduto la sua vocazione artistica per diventare sistema di dominio razionale, Potere di controllo fine a se stesso. Il potere razionalizzato è concepito come razionalizzatore, cioè come ordinatore delle diverse unità molteplici a un unico paradigma antropologico dell’homo politicus, dedito alla lotta per l’affermazione della volontà (più forte). Di fronte al Potere politico, tutti gli uomini sono considerati uguali, e dunque astratti dalla loro rispettiva singolarità spirituale. Tale considerazione ideologica dell’uomo rappresenta il criterio razionale che legittima la democrazia politica: l’uguaglianza universale, a seconda dei casi, davanti alla legge, alla società, nei diritti, al benessere, al partito, etc. Ideologica è la considerazione che sia possibile omologare la diversità personale, assunta come mera molteplicità fisica, al parametro unitario fissato dal Potere sovrano in una norma di legge formale. 736

N. Berdjaev, Sulla cultura, in Loc. cit., pag. 83.

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Questa esigenza politica nasce dall’idea naturalistica di origine greca che il dominio dell’uomo sull’uomo sia la condizione fisiologica della vita sociale, e che la stessa filosofia sia al servizio di questo ideale antropologico. entro l’orizzonte politico, la cultura può svolgere, cioè le è concesso, solo un servizio utile al Potere. Ciò comporta che il sapere perda la sua essenza simbolica per assumere un valore di cognizione realistica della realtà, conforme cioè alla volontà del Potere. La cultura, intesa come fattore di razionalizzazione del dominio politico, diventa tecnica politica, ideo-logia, applicazione logica di un’idea. La potenzialità espansiva dell’ideologia democratica è legata al suo carattere di civilizzazione, che “presenta segni comuni in tutti i popoli” in quanto di carattere materiale e non spirituale, mentre “la cultura è un fenomeno profondamente individuale e irripetibile”.737 Solo a condizione di trasformarla in sapere scientifico, la cultura può essere insegnata e appresa, diventando conoscenza oggettiva e formale destinata a tutti. L’educazione culturale ha carattere vocazionale e dunque individuale, mentre l’apprendimento scientifico è puramente metodologico e quindi impersonale. Il carattere impersonale della conoscenza scientifica è omogenea alla impersonalità della struttura burocratica del Potere razionale: sono consustanziali allo stesso principio universalistico di astratta egalità formale. Il fondamento dell’uguaglianza universale è naturalistico. Tutti sono uguali di fronte alla legge, cioè alla volontà del Potere, come lo sono di fronte alla Natura. La reductio ad unum della molteplicità esistenziale esatta da ogni Potere razionalizzato è il riflesso politico della reductio ad naturam dell’antropologia naturalistica che sostiene la metafisica occidentale. La conoscenza scientifica non è che la metodologia razionale di tale sistematica riduzione. Il carattere strumentale della conoscenza è funzionale tanto alla civilizzazione che alla democratizzazione, sicché la democrazia è il regime politico che adotta la scienza come modello di conoscenza e di formazione. Qual è la funzione della scienza, la sua utilità per la vita? Risiede nella sua fruibilità nella lotta dell’uomo contro la Natura per la sua sopravvivenza. La fede, evangelicamente, smuove le montagne ma non le domina. La preghiera della fede, da cui origina il culto sacro 737

Ivi, pag. 84.

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delle anime dei morti, e dunque la cultura, risulta in-utile alla bisogna della voluntas dominandi, laddove la formula della scoperta scientifica può applicarsi per vincere la resistenza delle forze, naturali e umane. Il movente della forza è oggettivamente rappresentabile nello spazio pubblico, dunque, mentre il movente della fede rimane misterioso e allocato in interiore homine. Con le finalità, anche il terminus ad quem della destinazione è diverso nei rispettivi casi. Il tempo della civiltà è il futuro, rispetto al quale il presente è una imperfezione da correggere e superare, mentre il tempo della cultura è l’eternità, rispetto alla quale il presente è in-differente dal passato e dal futuro, perché tutti li contiene. La forza del Potere è di pre-vedere il futuro dilatando il più possibile le condizioni del presente. La potenza della cultura è nella sua capacità di pensare l’Eterno. L’irruzione dell’Eterno nel presente dominato dal Potere è un evento eversivo, da neutralizzare. La razionalizzazione politica delle società moderne di cultura borghese ha sospeso la validità sociologica della tradizionale cultura metafisica, perché portatrice di valori singolari non omologabili, in quanto non diretti verso il futuro accertabile ma proiettati verso l’Eterno. Il tempo futuro accertabile è omogeneo al presente, così come il soggetto della conoscenza è consustanziale al suo oggetto nel conceptus. Se a luogo del concetto, dove il soggetto pensante imprigiona il suo oggetto e razionalmente lo domina, stabiliamo una relazione spirituale con l’Eterno, questo non potrà mai essere dominato come oggetto del pensiero soggettivo, ma costituirà sempre la Differenza tra il potere umano, massimizzato in quello di Cesare, e la possibilità infinita di Dio, la Cui volontà, essendo qualitativamente diversa da quella di potenza, non tendendo al dominio leviathanico dell’uomo, è un dono di amore, una grazia. La tipologia della relazione politica e quella della relazione mistica non differiscono per la quantità di potenza di Dio rispetto al potere di Cesare, ma per la alterità di rappresentazione dell’uomo e dei suoi problemi. Se il problema fondamentale dell’uomo, nella visione naturalistica, è la lotta contro la Natura per dominarne le forze e asservirle ai suoi scopi di sopravvivenza, nella visione spiritualistica in 341


cui si pone la cultura sapienziale quale conoscenza lato sensu religiosa e non-scientifica in senso moderno, l’obiettivo è l’eternità e dunque la lotta contro la morte. “La civilizzazione, diversamente dalla cultura, non combatte contro la morte, non vuole l’eternità. Non solo si rassegna al potere mortifero del tempo, ma anzi fonda sul flusso del tempo portatore di morte tutti i propri successi e le proprie conquiste”. In altri termini, “la civiltà è futurista”. 738 Il carattere eversivo dell’ordine politico rappresentato dalla cultura, non consiste dunque nella sua sottrazione di forza al Potere, ma nella delegittimazione delle sue pretese idealmente universalistiche e praticamente totalizzanti. La cultura, infatti, rappresenta l’elemento irriducibile alla sistemazione ideologica del pensiero e dell’esistenza umani, poiché il soggetto della cultura, essendo eterno, è l’unico veramente universale, e come tale divino e non antropologicamente umano. Non ci può essere una cultura che sia autentica e nello stesso tempo socialmente qualificata; il sapere socializzato è ideologia, sicché quando si indica la “cultura borghese” s’intende la moderna conoscenza scientifica, fondata sull’idea che l’Essere del pensiero razionale sia la realtà fenomenica, della Natura; ma questa idea scientifica è in vero una ideo-logia, non la Verità della vita spirituale che esprime la cultura. L’ideologia riduce l’uomo al parametro razionale, su cui commisura ogni aspetto dell’esistenza, materiale e spirituale. Solo la cultura esprime l’uomo nella sua intierezza universale, e perciò rappresenta il limite che il Potere deve negare per affermare il suo monopolio ermeneutico della ragione umana. Chi esprime la cultura detiene il Governo del mondo spirituale. La lotta tra Potere e Governo è quella tra autorità (auctoritas) culturale e sovranità (potestas) politica. Gli odierni termini storici di tale conflitto sono le culture religiose trascendenti che si oppongono alla religione secolare della sovranità democratica. La difficoltà delle prime, a partire dal cristianesimo, a sostenere l’impresa di opporsi all’invadenza della ideologia democratica, nasce non tanto dall’incertezza di fronte all’uso disinibito degli strumenti tecnologici di propaganda da parte del Potere economico globale, fautore della democratizzazione mondiale, quanto 738

N. Berdjaev, Loc. cit., pag. 85.

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dalla manifesta impotenza della cultura tradizionale di fronte alla scienza moderna, che ne è figlia, sia pure spuria, nata dal suo grembo metafisico. Confutare la democrazia politica significa sconfessare la conoscenza scientifica come sapere universale. Ma in nome di quale diverso sapere, se la filosofia e la theologia sono intrise della stessa sostanza ontologica dello scientismo moderno? La questione è cruciale, ed è irresolubile sul piano filosofico, poiché la filosofia è la matrice teoretica della scienza moderna. La strada della confutazione logica delle tesi ereticali sorte all’interno della tradizione theologica cristiana, è senza uscita, dal momento che lo strumentario tecnico-dialettico è comune all’intera tradizione metafisica occidentale, di cui il sapere scientifico è parte integrante e insopprimibile. La stessa pretesa priorità del sapere filosofico su quello scientifico nella determinazione dei suoi paradigmi metodologici, si fonda sulla loro scoperta intuitiva e punto logica, e tale che richiama surrettiziamente un indeterminato e perciò misterioso fondamento arcaico della conoscenza, che noi riteniamo veramente essenziale alla soluzione della questione cruciale. Infatti, il carattere intuitivo dei paradigmi della conoscenza razionale, filosofica e scientifica, ci riporta a una fondazione arcaica della conoscenza di natura mitica, come pure a una modalità di rappresentazione della realtà in sé contenente quelle indissolubili polarità che la conoscenza razionale pone come opposte ed esclusive, la cui presenza anima il mondo-della-vita e la precipua esperienza di esso che ne ha l’uomo. Non a caso, la maggiore e più duratura testimonianza della spiritualità cristiana occidentale ed orientale non sia costituita dalle summae teologiche e dai trattati filosofici, quanto dalle mirabili opere d’arte che, dalle chiese monumentali al patrimonio iconografico, hanno illustrato in sommo grado e per l’eternità l’intuizione cristiana dell’uomo. L’arte, dunque, costituisce quel linguaggio mitico e universale in grado di confutare l’arrogante pretesa del sapere scientifico di dire il tutto e il meglio sulla vita e sull’uomo; ed è la stessa arte che, per le sue insuperabili caratteristiche vocazionali, rappresenta la migliore e irrefutabile prova di quella singolarità spirituale dell’uomo personale, che nessuna rappresentazione razionalistica può annullare in una astratta unità formale, comprensiva 343


delle molteplici e promiscue esperienze dei singoli uomini, irriducibili ad alcun parametro omologante. Che cosa esprime l’arte? La tensione verso la trascendenza della finitezza ontologica, entro la quale il sapere razionale organizza i suoi metodi di conoscenza della certezza sensibile. L’arte esprime l’istanza intuitiva di non considerare le strutture razionali della conoscenza come definitive ed eterne, cioè universali, ma come provvisorie determinazioni dei problemi storici. Il legame del pensiero razionale con la sua storicità, cioè col tempo, ne fanno un’esperienza noetica diveniente, superabile come superata è ogni forma istituzionale umana. L’arte è l’intuizione della relazione del mondo finito con la sua matrice trascendente e infinita. L’intuizione artistica è intrinsecamente religiosa, per cui le sue forme simboliche, nella loro storica tecnicalità estetica, esprimono pur sempre un motivo indefinito che le trascende e le rende eternamente attuali: la presenza dell’Eterno e della totalità propria della realtà divina, cui rinvia la espressione estetica e che nessuna oggettivazione razionale può esaurientemente definire. Questo elemento irriducibile a ogni definizione razionale è lo stesso fondamento irrazionale e mysterioso che caratterizza l’esistenza di ogni uomo, non storico o politico o sociologico, ma universale, e perciò divino, che solo l’arte, e non la scienza o la filosofia, può a suo modo rappresentare. Il modo dell’arte di conoscere l’uomo è il modo altro rispetto a quello scientifico, peculiare all’intuizione della Differenza, che il pensiero filosofico raggiunge solo nell’intelligenza del suo limite, cioè negandosi come pensiero assoluto, sostitutivo della vita, e universale, valido etsi Deus non daretur. Sia l’arte, che l’intelligenza filosofica, pervengono a intuire dunque il fondamento tragico dello spirito umano, la multipolare dimensione mitica che il razionalismo socratico stigmatizzava nell’Eutifrone come un limite della conoscenza alla prassi, e dunque della scienza politica, cioè della ideologia. Il limite della Verità che si oppone con la sua complessità irriducibile, perché originaria, alla semplificazione del Potere, alla violenza consustanziale alla fondamentale decisione ontologica che l’Essere sia il Tutto; decisione ideologica che a ogni cristiano, a partire da Paolo, appare “follia”. La follia ontologica del 344


razionalismo è l’antro genealogico della violenza della civilizzazione scientifico-politica dell’Occidente, sia cristiano che moderno secolarizzato. Il germe patogeno dell’ontologismo è la sua concezione immanentistica, che riduce a realtà naturale (o storicistica) l’esperienza ontica e quella dello spirito umano. Questa prospettiva impedisce di scorgere – o, se scorto, di rimuovere – l’elemento trascendente, divino e universale, dell’esistenza umana, ridotta a fenomenologia del possibile attuale, che è necessità, e quindi privata della sua intrinseca possibilità di libertà. La determinazione attuale del possibile è la necessità quale ragione del fenomeno, intesa come causa sufficiente La ragione sufficiente di un fenomeno è la ragione della sua particolarità, sicché la necessità razionale dei fenomeni è la loro molteplicità. Da questa non si può risalire a una unità che non sia puramente formale, numerica, che astragga dalle ragioni particolari della varia molteplicità in cui consiste il mondo-della-vita. Orbene, qualunque opera strutturalmente unitaria si costruisce sul fondamento di tale astrazione logica, la cui funzionalità è legata al presupposto dell’uguaglianza naturale degli uomini. L’egalitarismo naturalistico è la legittimazione razionale del dominio universale del Potere sulla realtà molteplice della società umana e della stessa sovranità democratica. Rispetto alla visione monarchica imperiale di Dante, l’imperialismo democratico rappresenta una astrazione storica non diversa dall’idea marxiana di un proletariato mondiale e dell’ “universale intreccio dei mercati” di cui scriveva Weber a proposito della costituzione della società borghese come esito e insieme fattore del processo di razionalizzazione universale. Il senso razionale di tale astrazione è la scissione tra la forma strutturalmente unitaria e impersonale del Potere e la molteplice esistenza organica delle singole persone, che impedisce ogni ipotesi sociologica di re-integrazione dell’uomo nella comunità spirituale. Ma proprio questa esclusione costituisce l’aspetto fideistico del processo di razionalizzazione della civiltà moderna, il risvolto mitico della credenza nella sua necessità universale, che ne fa una religione secolare della “trascendenza pratica”, intesa come “l’unità tecnico-economica del mondo” promossa dalla società borghese, la cui 345


“missione” è quella di “promuovere l’emancipazione di tutti gli uomini alla partecipazione a questa opera”. 739 Ma la “sintesi” conseguita dalla società borghese è democratica nel senso della coesistenza dialettica e sincretistica di forse sociali e di motivi spirituali nel crogiuolo disincantato dello spazio pubblico, la cui unità formale è costituita e rappresentata dal Potere, attraverso il sistematico esproprio bio-politico di ogni rappresentazione trascendente del mondo, stigmatizzata come utopica o tollerata come manifestazione della sfera privata. L’esproprio della trascendenza equivale al monopolio politico dell’ universalità, declinata modernamente in termini secolaristici rispetto al modello religioso cattolico del monopolio ermeneutico della Verità scritturale. In entrambi i casi, una rappresentazione umana del mondo assurge a paradigma universalistico, la cui natura meta- ovvero infra-storica non pregiudica il suo carattere di necessità, che, in moderni termini disincantati, si indica come razionalità. Così come nessuna confessione religione “nel suo elemento umano può pretendere di essere depositaria della pienezza” della Verità rivelata, 740 parimenti nessun sistema ideologico-politico può pretendere di edificare la Città di Dio in terra dedicandola all’uomo in quanto opera umana, poiché tale pretesa poggia tutta sulla credenza ontologica che l’unità della realtà finita possa identificarsi con la realtà infinita del Tutto. In questo senso, la trascendenza “pratica” non è che la versione distorta dell’universalità spirituale interna alla finitezza, indicata impropriamente come Storia universale, la quale in verità è propriamente la singolare e paradigmatica storia di Cristo, l’unica veramente universale perché divina e spiritualmente trascendente, perciò comune a ogni uomo in quanto trascendente. Fuori dell’unità spirituale trascendente le singolarità empiriche e temporali, non vi è alcuna universalità sicché ogni unità interna alla finitezza della molteplicità ontica è una parvenza di unità, una rappresentazione analogica dell’unità mistica dello Spirito, tutta umana, fallace e transeunte. 739 740

E. Nolte, Op. cit., pag. 731. N. Berdjaev, Loc. cit., pag. 105.

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L’universalismo razionalistico, come quello theologico che ne è il modello religioso, è il prodotto spurio della vera universalità divina trascendente, quello del razionalismo emancipato dal Logos divino, che non è la parola filosofica, cioè il logos del discorso razionale, ma il Verbum arcaico dell’origine, il Mythos, non ascrivibile ad alcuna forma necessaria, ma rappresentabile solo per libere immagini figurate, verbali o pittoriche, comunque poetiche, e le forme artistiche derivate, architettoniche e musicali. Sono le espressioni estetiche che mutano, in quanto residuo naturale della creazione spirituale, mentre il contenuto trascendente resta eterno a testimoniare l’elemento divino che non passa. Ed è questo elemento eterno che non è presente nell’attualità del factum temporale, ma che pure non è Nulla. Il celebre frammento di Parmenide, dove si afferma che “l’essere è, mentre il nulla non è” va interpretato, non alla maniera platonica di Severino, ossia come passaggio dell’ente dal Nulla all’Essere, per cui ci sarebbe il tempo in cui l’ente sarebbe identico al niente,741 ma come in-esistenza del Nulla. Che l’Essere non sia, non significa che sia Nulla, ma che non è attuale, e dunque solo possibile. L’Essere della possibilità, non è la potenza (dynamis) aristotelica, relativa al processo necessario di sviluppo delle forme naturali. La Possibilità di cui si dice qui è relativa alla condizione di libertà originaria che precede l’attualità ontica di ciò che è temporalmente e fattualmente presente. La Possibilità che è condizione originaria d’essere dell’ente, non è il Nulla, che è la condizione relativa all’Essere e dialettica alla sua determinazione, ma è il Tutto, rispetto al quale l’ente è la possibilità presente, la libertà attuale. Il Tutto non è l’Essere, ma non è neppure il Nulla. Il Tutto è ciò che trascende l’Essere e il suo opposto Nulla, e da cui essi hanno origine. Che anche il Nulla abbia una sua realtà, lo sappiamo da Platone. Rispetto all’Essere, la differente realtà del Nulla è il divenire, e il divenire è Natura. Pertanto, il Nulla che si oppone all’Essere è la realtà della Natura che si oppone allo Spirito umano. La differenza tra l’Essere e il Nulla consiste nella affermazione ontologica quale realtà universale, esclusiva del divenire, e dunque della Natura. Quando l’Essere è, vi è in 741

E. Severino, Essenza del nichilismo, Milano, 19953, pagg. 20-243.

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quanto esclude il Nulla, cioè il divenire. Escludendo il divenire, l’essere si rappresenta come se fosse eterno, cioè universale presente, ossia fosse il Tutto. La decisione ontologica che l’Essere sia rappresentato come Tutto è l’atto originario della volontà esclusivo di ogni altra possibilità che anche l’altro sia. Questa tensione ontologica originaria è la condizione tragica non solo del pensiero ma dell’intera esistenza umana razionalmente pensata. Il pensiero razionale è quello che affermando l’universalità dell’Essere, esclude la possibilità del divenire, pensandolo come Nulla. Questa rappresentazione (Darstellung) metafisica della realtà esprime una credenza culturale, è una fede ontologica che ha valore religioso. Questa fede, nella società pagana, era circoscritta ai filosofi, era una religione aristocratica, che il cristianesimo, assorbendola nella propria elaborazione theologica, ha reso universale anche in senso culturale e sociologico, trasformandola in credo comune. Nel proporla come consustanziale alla fede in Cristo, il cristianesimo ha diffuso il razionalismo come fede cattolica, universale, neutralizzando la portata escatologica del messaggio evangelico in un sincretismo ideologico tipico della “voie romaine” della cultura occidentale. 742 Alla fine della parabola dell’autocoscienza del pensiero razionalistico, sono emerse le contraddizioni del sincretismo theologico del cristianesimo, riportando la cultura comune al paganesimo naturalistico delle origini culturali. Infatti, la lotta condotta dalla metafisica razionalistica contro la Natura, in realtà era condotta contro il divenire naturale, ma con gli stessi strumenti di cui si serviva la Natura per affermare la sua necessità, ossia quelli della forza maggiore, acquisita umanamente come “volontà di potenza”, e della legittimazione della violenza, acquisita come “sovranità”. La trasposizione razionalistica dell’orizzonte naturale in ambito umano è la società politica, ossia quel tipo di socialità in cui vige il principio della forza quale criterio derimente le vertenze tra amico e nemico. Principio squisitamente erotico, che sostiene idealmente la logica politica e di cui la democrazia è l’espressione cattolica neo-pagana moderna. 742

Ved. R. Brague, Europe, la voie romaine, Parigi, 1992.

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Il superamento della crisi della civiltà razionalistico-cristiana non può auspicabilmente consistere nel tentativo di realizzare un compiuto universalismo, ossia nel propagare la crisi a livello globale, secondo le intenzioni nefaste della inconsapevole potenza barbarica americana, del tutto digiuna del travaglio plurimillenario attraversato dalle civiltà storiche, di cui quella americana rappresenta solo l’escrescenza degenerata di quella europea, il cui razionalismo politico ha partorito il terrore giacobino, il comunismo sovietico, il fascismo e infine la democrazia capitalistica. Non servirà alla causa umana perseverare sulla strada politicistica e razionalistica, senza ricorrere a una autentica conversione spirituale, che non può essere fatta in nome e con le sole forze dell’uomo. Il senso del Mystero divino è proprio in questo limite umano nel realizzare l’ispirazione all’Infinito che pur anima le sue opere migliori. E se consideriamo le conseguenze del Grande Equivoco della letteratura razionalistica del cristianesimo, ci rendiamo anche conto delle sue potenzialità decisive per le sorti della smarrita umanità del nostro tempo. Perciò “il cristianesimo non può essere indifferente ai movimenti del mondo. ma esso sarà una forza nel mondo e per il mondo solo quando non dipenderà dal mondo e non sarà determinato dal mondo”.743 Ossia quando supererà come una storica rappresentazione culturale la tradizione theologica costruita sul Grande Equivoco, non per abbandonarla al dileggio nichilistico e alla supremazia incalzante della religione democratica, ma per inverarla in una nuova consapevolezza, quale travaglio altissimo ma ormai infruttuoso di una visione del mondo irrimediabilmente passata, e che non può essere più vivificata attraverso innesti attualizzanti e nuovi sincretismo, ma solo ispirare una sincera conversione allo spirito agapico del Vangelo. Una nuova intuizione del mondo-della-vita, dunque, ispirata alla Storia universale di Cristo, paradigma escatologico di ogni vera rinascita spirituale, perché comprensivo nella stessa esperienza esistenziale dell’elemento fisico temporale e di quello spirituale eterno. Questa intuizione cristiana non può che essere mistica, e perciò mitica nel senso della Verità trascendente, l’unica universale. Ogni altra unità, mondana 743

N. Berdjaev, Universalità e confessionalismo (1931), in Loc. cit., pag. 111.

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e basata sulle forze dei divenire piegate al servizio dell’uomo, non sarà che effimera e transitoria, come ha insegnato Agostino. A questo riguardo, va osservato che ogni unità fatta di cose e di interessi umani, è una tregua che nasconde in realtà le opposizioni di sempre dividono le rappresentazioni oggettivate dell’uomo. Nessuna trascendenza “orizzontale” potrà salvare l’uomo e l’umanità, poiché è il mondo stesso in-sufficiente per l’uomo. Il mondo, e ancor più l’uomo, va pensato a partire da Dio, e non a partire dell’uomo, poiché ciò lo confonderebbe con la Natura, anziché porlo in relazione con Dio. E, come abbiamo visto, la relazione con la Natura e con l’uomo naturalistico è lotta, mentre la relazione con Dio è nel segno della fraterna solidarietà. È la capacità empatica dell’uomo a distinguerlo dagli altri esseri viventi, che soggiacciono alle leggi della necessità naturale, mentre solo l’uomo vi si può sottrarre. In questa umana possibilità si nasconde il lato tragico dell’esistenza umana, sospesa tra l’abisso delle forze naturali e l’altezza delle sue opere spirituali. Non vi è infatti alcuna necessità spirituale, opposta alla necessità naturale, ma l’uomo è libero di determinarsi tra le opposte tendenze del suo animo. La libertà umana confuta la visione razionalistica greca, che pone nella ragione l’essenza peculiare dell’uomo. Ma l’espansione della facoltà razionale coincide con quella della necessità della Natura, che produce dunque un’assimilazione dell’uomo a un essere eterocondotto. La stessa creazione dell’intelligenza artificiale è la riprova del processo di disumanizzazione cui conduce questa ipotesi. La ragione avvicina l’uomo alla Natura ma lo aliena da se stesso e da Dio, poiché l’uomo, concependo Dio, non può ridursi a mera funzione pensante. Il pensiero razionale è pensiero della Necessità, non della libertà. E la Necessità divide ed esclude, rendendo l’uomo debole e infelice. Il percorso della salvezza è altro, ben diverso da quello politico-razionale oggettivo. L’uomo può essere conosciuto come un oggetto, un oggetto nel mondo degli oggetti [ma] è possibile anche un diverso modo di concepire l’uomo. egli infatti si concepisce pure come un soggetto, anzi, prima di tutto come un soggetto. Il mistero dell’uomo si palesa nel soggetto, nell’esistenza umana interiore. Nell’oggettivazione, invece, quando l’uomo è gettato al di 350


fuori nel mondo oggettivo, il suo mistero si infittisce ed egli conosce soltanto ciò che è estraniato dall’esistenza umana interiore. L’uomo non appartiene interamente al mondo oggettivo, ha un mondo suo proprio, un proprio mondo extramondano, un destino proprio che non ha misura comune con la natura oggettiva. L’uomo, come essere integrale, non entra a far parte della gerarchia naturale e non può esservi contenuto.[…] La natura umana è polarizzata. E se nell’uomo qualcosa si afferma secondo un polo, subito viene compensato nell’affermazione contraria secondo l’altro polo.744

Il percorso razionalistico, sopprimendo l’anelito trascendente, costruisce con la forza un edificio istituzionale che ignora volutamente la realtà che il pensiero logico indica come Nulla, ma che qualifica interiormente l’uomo quale coscienza singolare in grado di determinare il mondo creativamente con una propria rappresentazione. Quando la coscienza è costretta a dimidiarsi tra rappresentazione pubblica e rappresentazione privata della realtà, allora è costretto a scegliere tra la propria libertà e la necessità della forza del Potere. L’intervento delle religioni tradizionali facevano da collante tra i due momenti esistenziali, ma non è questa la funzione salvifica del Cristianesimo evangelico. La Parola di Cristo, e ancor più la sua vita, non sono in funzione del Potere, cioè della socializzazione della volontà legale a scapito della libertà di coscienza, ma all’opposto, Egli predica la centralità della Parola liberatrice dalla necessità della spada, non asservitrice. Solo la Parola che libera è Verbo di verità. Diversamente dall’Idea platonica, il Verbo cristiano non conduce all’unità astratta la concreta molteplicità, ma collega le personali singolarità alla comune con-prensione spirituale, che tutte le trascende. Solo lasciando sussistere la sua concretezza si può amare l’uomo come (un altro) se stesso. Questo percorso conprensivo è opposto a quello esclusivo della ragione e della politica. L’Idea conosce solo ciò che pone come suo oggetto di conoscenza, e quindi solo se stessa. Il Soggetto trascendentale pone la propria rappresentazione analogica come universale, nel modo di un sistema di relazioni logiche coerenti, ma la sua validità è sempre relativa alla finitezza esclusiva di altre analoghe rappresentazioni. L’accordo ideale 744

N. Berdjaev, Loc. cit., pag. 120.

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è sempre in ciò che le diverse rappresentazioni escludono, così come un patto politico è sempre in funzione del nemico comune. La ragione e la politica si fondano dunque sulla negazione dell’Altro-da-sé. L’Alterità è costituita, teoreticamente, dal Mito e, praticamente, dalla Natura. La soluzione che esse propongono è la riduzione dell’Altro a Nulla. Ma se è possibile annullare l’opera finita dell’uomo, non è possibile ridurre a Nulla l’uomo stesso, che non è opera umana. Ciò che l’uomo può disfare avendolo fatto è l’uomo fisico, astratto dalla sua personalità e reso oggetto anatomico. La carne può essere vulnerata e curata, ma la l’uomo non è sola , come invece è assunto dal pensiero razionalista e dal Potere politico. Lo Stato politico razionale, che è il prodotto tipico della metafisica greca e della scienza politica romana, non è risolutivo della tragica condizione umana, ma di essa ha assunto come reale solo la parte razionale, cioè fenomenica e oggettivamente comune: l’ideale astratto dell’ uomo universale, che misconosce la vera “cosa in sé” dell’uomo, la sua concreta singolarità trascendente ogni oggettivazione. L’idea che l’uomo possa identificarsi con le sue opere tradisce un pregiudizio naturalistico che assegna al fenomenico e all’oggettivo il primato sul mystero razionalmente insondabile dell’uomo, perché non posto dall’uomo, non oggetto della sua coscienza razionale e che rimane quindi ad essa inconoscibile. E’ impossibile conoscere l’uomo se lo si omologa all’ente razionale e naturale. Si può conoscerne la volontà, cioè la sua espressione operosa, ma non l’uomo nella sua originale integralità, che ha un suo nome proprio, una sua storia e un suo rapporto col mondo e con Dio in virtù dei suoi atti creativi. La creazione umana, che costituisce la presenza divina nell’uomo, è l’espressione del mystero imprevedibile della sua singolarità. Nella creazione l’uomo si emancipa dalla necessità naturale, dalla passività della condizione di bisogno, e si pro-pone come spirito libero. L’atto creativo “presuppone la libertà [e] non può essere spiegato a partire dalla natura [ma] esso diventa comprensibile solo se si parte dalla libertà [che] non è determinata da nessuna natura”. 745 Ciò significa che all’origine dell’atto creativo dell’uomo vi è la possibilità di tale libertà, una realtà in-determinata che precede ogni 745

N. Berdjaev, Loc. cit., pag. 125.

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futura determinazione d’essere. questa realtà della possibilità e della libertà non può essere la realtà storica, segnata dall’attualità dell’essereche-è, ossia dall’ente determinato. La realtà pre-istorica da cui sorge la creazione umana, dove regna la libertà in-determinata della possibilità, è la realtà in cui si forma la parola che de-finisce il mondo, è l’orizzonte del linguaggio (legein) non esclusivo, come quello logico, ma inclusivo: il linguaggio del Mito (mythos), in cui l’Essere coesiste col Nulla come Possibilità. L’atto creativo è la rappresentazione della Possibilità come dono di libertà che trascende la necessità della finitezza. Nell’arte l’uomo esprime la sua inseità originaria, la sua differenza dalla Natura, e dunque la sua relazione col divino. Infatti, “solo volgendo a Dio egli può trovare la propria immagine che lo innalzi al di sopra del mondo naturale circostante”. 746 Che cosa rivela l’atto creativo? Cosa rivela l’uomo con le sue creazioni? Negativamente, rivela che la sua esperienza esistenziale non può risolversi nella sua appartenenza sociale, ossia che l’uomo non è solo un essere politico, dipendente dai bisogni della Necessità naturale. L’uomo è qualcosa di diverso dalla sua natura sociale, nella quale egli è parte di un insieme che è astratto rispetto la singola concreta esistenza. Positivamente, la creazione rivela l’essenza personale dell’uomo come microcosmo, ossia come “un tutto [che] non può essere una parte” sociale. È anzi vero il contrario: la società è una parte della persona, non è altro che il suo aspetto sociale. E così la persona non è neppure una parte del mondo, del cosmo, anzi è il cosmo a essere una parte della persona. La persona è un essere sociale e cosmico, ha cioè un aspetto sociale e cosmico, un corpo sociale e cosmico, ed è per questo che non può essere pensata come una parte il relazione a un tutto sociale e cosmico. L’uomo è un microcosmo. 747

E come microcosmo non può essere oggetto del dominio di Cesare, come un mero individuo naturale. La persona, in quanto ha una sua rappresentazione del mondo, cioè una sua idea regolativa della realtà, un suo ordine ideale, “essa ha un carattere assiologico, è un valore”, 748 746

Ibidem. Ivi, pag. 126. 748 Ivi, pag. 127. 747

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cioè vive secondo una sua destinazione teleologica: di “diventare persona”, ossia un essere creativo della propria vita, un essere morale. La personalità morale è la rappresentazione esistenziale della universalità divina testimoniata dall’uomo. Soltanto “la persona può portare in sé un contenuto universale [che] nessuna realtà oggettivo può racchiudere, [poiché] ciò che è oggettivo è sempre particolare”. 749 La ragione distinguente e la logica esclusiva non possono rappresentare la persona, trasformandola in oggetto di una astratta relazione tra enti e in uno strumento politico. La relazione personale è sempre concreta se significativa, sicché l’uomo richiede una relazione concreta, non impersonale con l’Altro. Una relazione empatica, in grado di “percepire la sofferenza e la felicità”, 750 che sono stati della persona in quanto tale. La sofferenza e la felicità sono le polarità proprie della condizione tragica dell’uomo, sospesa tra l’appartenenza a una comunità politica, fondata sui bisogni naturali, e la comunione spirituale elettiva. Entrambe le vie mostrano la finitezza e la fragilità dell’uomo, ma sono risposte opposte alla stessa coscienza della sua incompiutezza. Ma allora, se l’uomo è incompiuto, in cosa consiste la sua totalità? La sua è una totalità partecipe, non egotica, come quella prospettata dall’idealismo. L’uomo non sconfina dalla sua finitezza naturale soltanto alleandosi con altre finitezze, come prospettato dal razionalismo politico. questa via non risolve il problema della finitezza, ma lo sposta nella consolatoria condivisione in una finitezza comune. L’unità che si ottiene politicamente è una condizione sempre precaria e volubile, parziale, perché in essa l’uomo non investe che la sua volontà. Lo scontro delle volontà è sempre scontro di rappresentazioni che si oppongono per affermarsi. La mediazione della ragione non è risolutiva del conflitto delle interpretazioni del mondo, poiché l’accordo di ragione si stabilisce sulla eliminazione delle particolarità concrete in conflitto e l’esclusiva considerazione degli astratti elementi comuni della loro trascrizione razionale, che non tiene in conto le sotterranee intenzioni degli attori umani, né le loro concrete esperienze esistenziali; sappiamo infatti che ogni descrizione razionale della realtà si costituisce 749 750

Ivi, pag. 128. Ibidem.

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escludendo dalla sua rappresentazione il divenire del mondo-della-vita. La coscienza razionale è una coscienza statica, mentre la coscienza singolare è storica, in divenire perché del divenire. Diverso il caso della comunione spirituale. In essa la persona non si presenta all’altro come parte di un insieme formale, ma come un tutto da scoprire, mysterioso, e perciò abbisognevole dell’Altro per avere coscienza di sé come personalità morale. Nella relazione spirituale con l’Altro, l’uomo si scopre persona, e quindi totalità consapevole della sua finitezza. Una totalità finita aperta al trascendente, questa la persona microcosmica. In questa apertura, in questa relazione spirituale con l’Altro, l’uomo si scopre persona creatrice del suo destino. La creazione del proprio destino personale rappresenta in scala microcosmica la creazione divina del mondo, che il linguaggio creativo, e in genere ogni opera d’arte, rappresenta simbolicamente. Il Logos della metafisica è una parola statica, un linguaggio stabilito per negare il divenire e rassicurarsi contro l’imprevedibile possibilità della coscienza singolare. Ciò presuppone che la libertà umana sia di carattere naturalistico, per cui occorra neutralizzarne la portata eversiva dell’ordine stabilito dalla ragione. Ciò è vero nei termini in cui viene considerato l’uomo esclusivamente come fonte di volontà, che può essere condotta a ragione, ossia conformata a un modello di prassi prevedibile e quindi controllabile. Il moderno homo oeconomicus nasce da questi presupposti, che sono però errati perché limitanti la natura umana. Se così fosse, la condotta umana non muterebbe una volta istradata nel solco dell’esperienza storica. Invece ogni uomo aderisce con la volontà a qualcosa a cui crede intimamente, ma con la stessa volontà può fingere di aderire a ciò a cui intimamente non crede. Il divario tra la coscienza intenzionale e la volontà pratica non può essere colmato con un atto costrittivo esterno, sicché ogni imperium è inevitabilmente aleatorio. Tale carattere inevitabile del Potere tradisce la sua struttura naturalistica di necessità, negatrice della libertà della coscienza umana. Il limite del Potere politico razionalistico è di contrapporsi (di fatto) alla libertà singolare, nell’atto di volerla interpretare razionalmente come libertà comune, facendone così una coscienza politica. Il Potere, contrapponendosi alla libertà di coscienza, 355


si determina come natura per l’uomo, come Necessità, cioè legge del(la volontà) più forte. L’ordine normativo del Potere è la proiezione politica dell’ordine metafisico degli enti di ragione immutabili. Il Logos è Necessità vincolante il discorso. Ma quale discorso? Il discorso della volontà. La politica è l’agire conforme al discorso razionale della volontà. L’idea che l’ordine politico possa essere risolutivo del problema esistenziale dell’uomo deriva dalla credenza ontologica che l’Essere del pensiero sia Tutto. Ma se l’ordine del pensiero, la metafisica, si determina per esclusione del divenire, quel Tutto razionale esclude l’uomo, la cui libertà di coscienza è considerata, a fronte degli enti eterni di ragione, Nulla. Il risvolto esistenziale del Potere razionalmente assoluto è la sua negazione dell’uomo. Questo è l’esito della bio-politica. La libertà della coscienza è lo spirito, sicché la ragione metafisica e politica negano l’uomo spirituale. La coscienza singolare, come fonte del divenire, cioè come storicità del soggetto trascendentale, è l’orizzonte all’interno del quale l’esistenza del soggetto si dà. Poiché l’orizzonte di coscienza si costituisce nella diversità (che per il Potere è opposizione) dal Potere, per l’esistenza singolare l’alterità dalla quale essa pro-viene è la realtà del Potere. Le conseguenze politiche sono (state) enormi nella civiltà occidentale, in quanto pervasa da una intestina contraddizione tra volontà di potenza e libertà di coscienza che infine è culturalmente deflagrata. Sulla riduzione dell’uomo alla sola volontà si sono edificate, con le scienze umane, anche le istituzioni socio-politiche europee, con l’aggravante moderna del Potere emancipato da ogni finalità teleologica e ridotto alla amministrazione economistica del bios. La bio-politica è dunque l’esercizio del Potere che esclude per statuto culturale l’uomo spirituale dallo spazio pubblico. La “gabbia d’acciaio” della razionalizzazione economica che circonda il libero spirito creatore finisce per soffocare la stessa civiltà, provocandone la decadenza, la quale non è altro che la condizione di disgregazione dell’integralità dell’uomo. Perciò la modernità razionalizzatrice della vita umana si costituisce in senso fondamentalmente anti-cristiano. L’uomo biologico, economico, è un mero essere mortale, privo di spirito creatore e 356


della presenza divina. L’essenza noetica del cristianesimo è la confutazione della credenza razionalistica, anzitutto della metafisica greca, che la scienza (episteme) sia l’unico modo della conoscenza del mondo, di Dio e dell’uomo; e di conseguenza che quello politico sia l’unico modo di convivenza umana nel mondo. 751 Il modo cristiano è comunitario, la “comunità esistenziale”, una “fraternità di uomini”, ossia una “società spirituale” ben diversa dalla “società oggettivata coercitivamente organizzata nello Stato”, che “resta nascosta dietro la società esteriore”.752 Ciò che sta “dietro” l’evidenza oggettiva è la storia della coscienza, il suo divenire nel tempo, ossia i modi della relazione che la persona ha col mondo circostante e con gli altri., che in termini comuni si dice “esperienza”. L’esperienza dell’uomo è la sua rappresentazione singolare del mondo, alla quale rimanda ogni particolare Erlebnis. Il continuo rimando di ogni esperienza particolare alla storia esperienziale del soggetto coscienziale costituisce la dinamica interna alla sua personale Darstellung. La rappresentazione del mondo della coscienza personale non è costituita di sola realtà attuale, come ha dovuto ammettere lo stesso Husserl, sicché la sospensione del giudizio nell’epoché fenomenologica sta a indicare proprio la impossibilità di considerare gli elementi attuali come gli unici dati della coscienza intenzionale. La coscienza ha una sua storia, senza la quale gli stessi fenomeni evidenti perdono il senso della loro relazione intenzionale. Socrate definisce il sapere una reminiscenza, ossia il “ricercare e apprendere” come un “ricordare” 753 La verità in interiore homine è reputata eterna da Socrate in quanto non appresa nei suoi termini logici, ma risvegliata mediante l’interrogazione maieutica, 754 dal che egli 751

“Solo la comunione dell’ “io” con il “tu” nel “noi” è veramente esistenziale e umana. La società, che raggiunge la sua forma estrema di oggettivazione nello Stato, rappresenta un’alienazione, una caduta fuori dalla sfera esistenziale. L’uomo si trasforma qui in un esser astratto, in uno dei tanti oggetti che si trovano posti di fronte ad altri oggetti”: N. Berdjaev, Loc. cit., pagg. 137-138. 752 Ivi, pag. 138. 753 Platone, Menone, 81 d. 754 Ivi, 86 a.

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suppone che l’anima che la contenga sia immortale. 755 Il sapere ricordato è per Platone il sapere inattuale, che dev’essere riportato dalla memoria alla sua attualità. Ciò significa che la verità, sia pure custodita interiormente nel ricordo, è tale solo se e in quanto riportata alla coscienza presente. Ma se la coscienza conosce il mondo nei termini di una rappresentazione storica – nei termini della sua storia personale -, allora la conoscenza intenzionale non è la stessa della conoscenza razionale fondata sul fondamento ontologico dell’Essere, poiché ciò che la coscienza razionale conosce è esclusivamente la realtà presente al suo giudizio logico, quella appunto oggettiva, costituita escludendo il divenire. Perché la ontologia esclude dalla conoscenza il divenire? Per la stessa ragione per la quale predilige il presente quale temporalità propria dell’ente. Perché nel presente e soltanto nell’atto presente che afferma l’Essere dell’ente è possibile escludere l’indeterminato Nulla del divenire. L’atto di giudizio affermativo di realtà, con cui l’ente viene posto in essere, esclude il niente dalla realtà ontica. Il principio di non contraddizione, sul quale si fonda la legittimità della conoscenza razionale, vale solo nel presente, mentre la realtà del passato e quella del futuro sono ammesse alla coscienza solo per atto di fede, come aveva intuito già Agostino. Nell’affermare che qualcosa è, si afferma nel contempo che l’altro dall’ente non-è, cioè è niente. Ciò può darsi validamente, cioè plausibilmente, soltanto nel presente: da qui l’esigenza del giudizio logico di dilatare il presente rendendolo un eterno presente, ossia un universale. Questa forma metafisica di rappresentazione della realtà ontica non è quella propria della coscienza intenzionale, la quale è invece una personale coscienza storica. Il tentativo intrapreso da Hegel di oggettivare i dati della coscienza intenzionale è stato vano, poiché la dinamica storica della coscienza singolare è nel segno della libertà creativa di realtà, laddove il metodo razionale della sua fenomenologia è sotto il segno della necessità, qual è l’astrazione formale rispetto alla concretezza del vissuto spirituale singolare.

755

Ivi, 86 b.

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L’universalità dell’uomo razionale non è l’universalità dell’uomo integrale; tra i due modelli corre la stessa differenza che tra la parte e il Tutto, ovvero tra il finito e l’Infinito, che il Cogito non può de-finire. La soggettività personale non è quella dell’Io empirico che si rapporta all’Io trascendentale, ma è il senso (inteso sia come significato che come destinazione o telos) di una vita singolare rispetto alla forma astratta di un processo razionale, nel quale nessuna esperienza personale potrebbe riconoscersi. La dialettica tra la vita e la conoscenza, che è immanente allo spirito umano, è propria dell’antropologia filosofica. 756 Sempre Socrate, nel Menone, sostiene che “la virtù è utile”, nel senso che se ne faccia un “retto uso”. 757 L’uso retto delle virtù è la “intelligenza, dal momento che tutte le cose relative all’anima, in sé e per sé non sono né giovevoli né dannose, ma, a seconda che s’aggiunga intelligenza o dissennatezza, diventano giovevoli o dannose. In base a questo ragionamento, essendo la virtù utile, deve essere una forma di intelligenza”.758 Cioè di conoscenza, la quale dunque, “in base a questo ragionamento, verrebbe ad essere ciò che è utile”. 759 Se è una forma di conoscenza, la virtù non è un dato di natura. 760 Ma la conoscenza vera, ossia la scienza, è conoscenza dell’essenza ( ) razionale. Il pregio della conoscenza scientifica è di fermare la “retta opinione” con “il ragionamento relativo alla sua causa” ( ), intendendo con questa relazione la “reminiscenza”. 761 Cioè, il fissaggio di una realtà empirica, che “si è verificata casualmente in modo retto”, 762 in un modello ideale, che la trasformi in paradigma universale, ossia eternamente presente alla coscienza. Or è chiaro il senso dell’interiorità mnestica della virtù secondo Platone; così come è chiara la analogia agostiniana tra la conoscenza logica e la verità ispirata dalla fede. 756

B. Groethuysen, Anthropologie philosophique (1928-1931), tr. it., Napoli, 1969, pag. 13. 757 Platone, Menone, 87 e – 88 a. 758 Menone, 88 c-d. Trad. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, Milano, 2014, pag. 956. 759 Ivi, 89 a, pag. 957. 760 Ibidem. 761 Ivi, 98 a. 762 Ivi, 99 a.

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Nel Menone vi è un’altra importante conferma del carattere metronico del Logos, inteso come misura (metron) della giusta e buona realtà. Infatti, allorquando Socrate interroga il servo di Menone, gli prospetta alcune figure geometriche in scala binaria o ternaria, per dimostrare al suo interlocutore dell’origine interna della conoscenza. Ma che cosa si apprende veramente dal dialogo? Per rispondere, bisogna rifarsi a quel passo del Timeo in cui si espone il principio materiale come principio spaziale, che è un terzo genere di conoscenza rispetto all’intelligenza, che inerisce l’insegnamento del ragionamento razionale, e all’opinione, che riguarda la persuasione irrazionale. 763 Questo terzo genere è quello dello spazio, “che è sempre e che non è soggetto a distruzione”. Esso si può intuire quasi in sogno, non essendo soggetto né di dimostrazione razionale né di persuasione; e in questa atmosfera onirica noi “diciamo che è necessario che ogni cosa che è, sia in qualche luogo e occupi uno spazio, mentre ciò che non è in terra né in qualche luogo in cielo, non è nulla”.764 Ciò vuol dire che la realtà di una forma geometrica è costituita dallo spazio fisico delimitato, ossia definito rispetto al vuoto, costituito dallo spazio che, non contenendo alcunché, non è “necessario”. La necessità dello spazio e della cosa reale si richiamano vicendevolmente, sicché non esiste uno spazio che non sia di qualcosa. Ma che cos’è questo qualcosa se non il contenuto della coscienza, quale spazio noetico che lo contiene? Qualcosa di reale è lo spazio abitato da ciò che è definito, delimitato da linee intersecate o da concetti logici, e pertanto reale è solo ciò che è compreso nella sua de-finizione, cioè nella sua finitezza. La de-finizione logica dello spazio e quindi del suo contenuto, è “ciò che abita in cielo”, nel cielo delle idee, mentre la finitezza geometrica dello spazio fisico delimita la realtà di “ciò che è in terra”, ma le due realtà, celeste e terrestre, si richiamano come il razionale e il reale. L’insegnamento che s’ha da trarre dalla lezione del Menone, è che la misura razionale delle cose (cioè dello spazio che esse abitano) definisce i confini della realtà, oltre i quali “non è nulla”. Razionale, dunque, è la misura che esclude dalla realtà quanto non è misurabile 763 764

Platone, Timeo, 51 e. Ivi, 52 a-b, tr. cit., pag. 1378.

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more geometrico. Il che vuol dire che reale è soltanto lo spazio, fisico e mentale, misurabile con la ragione, mentre il resto è niente. Una figura geometrica si può guardare dal di dentro dei suoi lati, o dal di fuori. La visuale interna è sempre relativa allo spazio delimitato, ossia condizionata dal senso del limite entro il quale si misurano le grandezze relative, laddove la osservazione esterna, non avendo prospettiva, si concentra sulla finitezza di quel limite, 765 sicché, quando affermiamo che “questa figura è un quadrato”, ci poniamo al di fuori di essa, assumendola come uno spazio unitario omogeneo. Se invece ci poniamo al di dentro, la prospettiva cambia a seconda del nostro punto di osservazione, il quale può farci apparire qualche punto lontano, piccolo, e qualcosa di vicino grande, oppure una sezione di edificio rettangolare o trapezoidale. Se la figura in sé non cambia, cambia invece la nostra immagine di essa; e poiché noi siamo sempre posto in una prospettiva, ogni punto di vista in sé è veritiero. La confusione tra l’in sé ontologico e l’in sé dell’immagine, ha la conseguenza, o di far coincidere le condizioni di verità delle cose con la loro identità, per cui le cose non esistono se non nella rappresentazione del soggetto, e quindi nella molteplicità delle possibili rappresentazioni soggettive, ovvero di escludere, a seguito della molteplicità delle rappresentazioni, la possibilità di una identità delle cose in sé, le quali dipendono esistenzialmente dalla prospettiva di un soggetto percipiente, per cui le cose non sono infine che collezioni di percezioni. 766 Per cogliere il significato unitario della figura bisogna dunque porsi in una prospettiva che sia al contempo interna ed esterna alla figura ideale e reale, ossia in una prospettiva in grado insieme di vedere percettivamente la relazione finita tra le cose, e di intuire la loro dimensione unitaria relativa all’infinito. Questo tipo di conoscenza non può essere quella del Logos razionale, che fissa la percezione nel presente della sua effettualità, ma soltanto una conoscenza simbolica, la quale, nel rappresentare la forma attualmente visibile, così com’è, rimandi alla forma non attualmente visibile, e perciò che non-è, che la conoscenza logica esclude per 765

Ved. H. Arendt, The human condition (1958), tr. it. Milano, 2014, pag. 185. Ved. R. Casati, L’immagine. Introduzione ai problemi filosofici della rappresentazione, Firenze, 1991, pag. 29. 766

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principio. Tale conoscenza simbolica è quella del Mito, che rappresenta la realtà in immagini che rimandano simbolicamente oltre i dati attualmente definiti dalla parola di senso razionale. La ulteriorità della rappresentazione simbolica è l’alterità esclusa dalla rappresentazione razionale del mondo come Nulla. Nel Gorgia infatti Platone considera il mito come un racconto che sembra “una favola” ma che in realtà è “un discorso vero”. 767 La verità del racconto non va certificata nei fatti, di per sé privi di significato qualitativo, poiché essi scorrono tutti nel processo del divenire allo stesso modo. Ciò che accade veramente, la sola cosa che il filosofo prende in considerazione, sono i cambiamenti che si producono nella configurazione della sua anima: la forma che prende la sua anima […] su cui i differenti eventi della vita hanno lasciato una traccia benefica o nociva. Ha importanza ciò che è diventata la mia anima e non che cosa mi è capitato nella vita.768

Lo scenario che non partecipa ma che è presente al processo fattuale è quello della coscienza umana, la quale si nasconde alla realtà ma è la realtà stessa come suo significato. Questo il senso autentico della storia, quale racconto della coscienza, e non dei nudi fatti. Il racconto mitico è la memoria dell’anima “sciolta dal capriccio degli avvenimenti”. 769 La filosofia, quale “funzione dell’anima” tesa “al compimento di sé attraverso la conoscenza”, 770 è il discorso della ragione che cerca di riportare a una forma unitaria, che coincida con la forma stessa della coscienza, le diverse e disparate esperienze esistenziali. La contemplazione platonica è la reminiscenza della propria anima staccata 767

Platone, Gorgia, 523 a. B. Groethuysen, Op. cit., pag. 24. 769 “La storia di una vita diventa la storia di un’anima, di una vita concepita fuori dei suoi accidenti. La vita vista attraverso i mutabili eventi, è l’irreale. Affinché l’anima giunga a riafferrarsi occorre che si liberi della mutevolezza di quello che accade. Restare nel divenire dell’esistenza, significa rimanere nella visione dei sensi. L’anima non trova la vera vita che nella contemplazione di ciò che è, nella vita filosofica”: B. Groethuysen, Op. cit., pag. 25. 770 Ibidem. 768

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dagli avvenimenti del divenire. In questa attività contemplativa l’anima disegna la sua storia spirituale autonoma dalla necessità del processo fattuale, dalla sequenza degli avvenimenti temporali, i quali, finché restano esterni alla storia della nostra anima, non hanno significato, non sono reali. Ciò vuol dire che la realtà del racconto mitico è l’orizzonte di senso all’interno del quale ogni storia dei singoli uomini attinge il suo particolare significato; è la vicenda della vita depurata dal caos del nudo processo avvenimenziale e resa universalmente significativa. Ma perché il suo potenziale significato possa giungere ad effetto occorre la sua traduzione in parola razionale, cioè in parafrasi de-terminativa e dunque contingente. È la determinazione del Logos che passa, laddove il significato mitico resta. Se la versione logica del racconto significativo vuole fissarsi in termini durevoli, divenendo essa universale, senza più ricorrere alla fonte del suo originario significato simbolico, quella versione deve cristallizzarsi in una espressione immutabile, in dogma, che fissi in un eterno presente la determinazione di senso razionale ottenuta in un certo tempo e luogo. Ma, a differenza del Mito, la versione razionalmente determinata è solo quella interna alla figura ideale de-finita; il significato non la trascende, mentre il racconto mitico esprime un significato che trascende ogni sua determinazione razionale, e che perciò è simbolico e non nominale, ossia letterale. Il senso letterale ha valore generale, rivolto a tutti. Il significato simbolico, invece, ha sempre un valore soggettivo, relativo all’anima a cui è destinato, e perciò l’intima parola dell’anima non si può insegnare, non essendo una espressione oggettiva, astratta dal significato interiore della singola coscienza. “Per comprendere l’oggetto contemplato, bisogna averlo inserito nella propria vita”, 771 ossia averlo reso significativo all’interno della propria storia spirituale, che, per la sua singolarità, non potrà mai appartenere a Cesare. D’altro canto, se il significato storico, nel senso di personalmente spirituale, rimanesse circoscritto al suo spazio esistenziale, non riuscirebbe mai a fare a meno della mediazione razionale, del significato generale e generico della legge del mondo temporale e spaziale in cui 771

Ivi, pag. 26.

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l’uomo si trova a vivere. È esattamente questo mondo che la rappresentazione simbolica vuole trascendere. Ciò implica che il punto di vista da cui porsi per la comprensione dell’uomo spirituale, della sua storia, non è quella della sua condizione empirica, di uomo politico ed economico intento a sopravvivere e a far fronte alle minacce naturali, ma della sua condizione ontologica, che Platone chiama ideale, per distinguerla da quella corporale, e che è lo hyperouranios topos. Bastava questo dualismo metafisico a segnare il limite epistemico dell’ontologia platonica rispetto alla Rivelazione cristiana della Incarnazione divina, invece si è voluto vedere la relazione dell’uomo con Dio alla stregua di quella dell’anima con l’Idea, non sospettando che l’Idea non fosse altro che la rappresentazione, resa universale dal Logos, della propria anima, il cui senso veniva consegnato allo strumento interpretativo della techne dialektikè in cui finisce per condensarsi in forma drammaturgica il senso stesso del dualismo metafisico. L’anima, che contrassegna la vita spirituale dell’uomo, venne ubicata fuori della sua esperienza concreta, in un indeterminato quanto irraggiungibile altrove rispetto alla sua condizione psico-fisica, che lo ha reso una figura dimidiata, perennemente instabile e contesa tra le opposte tensioni dell’Eros. L’impossibilità di spiegare l’elemento corporeo con quello spirituale, e viceversa, induce a ricorrere al racconto mitico, che diventa perciò l’antro oscuro in cui le ombre fanno le veci delle sagome vere e il luogo dove la filosofia si concilia con la vita.772 Non è difficile comprendere come questa connotazione esotica del Mito abbia richiesto una rappresentazione della verità depurata delle escrescenze fabulistiche platoniche e concentrata sul metodo della sua definizione, assegnata all’uso scientifico della parola filosofica, che si costituisce eliminando dalla sua prospettiva tecnica ogni elemento ultroneo, trascendente il dato attuale della coscienza. La vita e l’Idea restano distanti e non si lasciano riunire, perché tutto è piegato nel senso della spiegazione razionale, metodica e oggettiva, in cui si ravvisa la stessa salvezza dell’anima. Da rappresentazione di verità, il Mito scade a interpretazione indeterminata e falsa, quale appare nell’Eutifrone. 772

Ved. B. Groethuysen, Op. cit., pag. 31.

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Nel VI libro della Repubblica, trattando dei vari tipi di conoscenza, Socrate afferma che “due sono le realtà e una domina sul genere e sul mondo intelligibile, l’altra sul visibile”, invitando a dividere i due piani del visibile e dell’invisibile con una linea orizzontale, intersecata a sua volta da una linea verticale, 773 stabilendo una relazione di corrispondenza tra i gradi dell’Essere e quelli della conoscenza. Nel mondo sensibile, alle immagini corrisponde sul piano del conoscere l’immaginazione (), la quale, insieme alla credenza ( ), costituisce l’opinione ( ). Il loro rapporto è tra vero e falso, e “la immagine sta al modello, come l’oggetto dell’opinione sta all’oggetto della conoscenza”.774 Parlando della sezione dell’intelligibile, a un di presso afferma che gli scienziati fissano le immagini [geometriche] come ipotei, dopo di che non ritengono più necessario rimetterle in discussione né fra sé né con altri, appunto perché assolutamente evidenti; invece, prendono le mosse da questi principi e, passando a trattare quel che resta, con la massima coerenza finiscono per arrivare a quella verità che s’erano prefissi di raggiungere. [Con ciò per dire che] essi usano modelli visibili e costruiscono su di essi delle dimostrazioni;ma nel ragionamento non hanno per oggetto tali realtà,bensì le realtà a cui queste assomigliano, sicché quando ragionano hanno di mira il quadrato in quanto tale, la diagonale in quanto tale, e non quel quadrato, quella diagonale o quella data figura che vanno disegnando. Delle figure che compongono e tracciano, le quali corrispondono alle ombre e alle immagini che si formano sull’acqua, si servono come di immagini per cercare di vedere le realtà in sé che non si possono cogliere altrimenti che con l’intelligenza. […] Ora quest’ultimo genere di realtà l’ho chiamato intelligibile. 775

La caratteristica di questa conoscenza è nella sua natura ipotetica, fondata su immagini o copie della realtà, che le impediscono di risalire ai princìpi. Diversa la conoscenza intelligibile conseguita dal ragionamento con la dialettica, la quale procede “non trasformando i 773

Platone, Repubblica, VI 509 d. Ivi, 510 a. 775 Ivi, 510 c – 511 a. 774

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postulati in princìpi, ma procedendo dai postulati per quello che essi sono, ossia dei punti di appoggio e di partenza, per arrivare a ciò che non è più solo un postulato, al Principio di tutto”; in altri termini, “il ragionamento procede verso il termine e, senza far uso in nessun modo di alcuna cosa sensibile, ma solo delle Idee stesse con se stesse e per se stesse, termina nelle Idee”. 776 Viene tracciata la differenza tra la conoscenza artistica, fondata sui dati sensibili e su ipotesi che fungono da princìpi, e la conoscenza ideale o filosofica, colta dalla scienza dialettica. Ma qual è il legame tra i due saperi? È in quella che Platone chiama , che è la conoscenza dei “geometri”; la conoscenza dianoetica è intermedia “fra l’opinione e l’intelligenza”.777 Per far intendere la relazione fra i diversi saperi Platone ricorre al mito della caverna, dove il “luogo che ci appare alla vista, deve paragonarsi al luogo del carcere, e la luce del fuoco che brilla in esso alla forza del sole”, 778 che è poi la luce dell’Idea del Bene, “che è la causa universale di tutto ciò che è buono e bello […] nel mondo sensibile […] e ad essa deve guardare chi voglia avere una condotta ragionevole nella sfera pubblica e privata”. 779 Dunque, l’Idea del Bene si consegue attraverso l’educazione, che consiste nella “conversione” ( ) di tutta l’anima dalle tenebre alla luce, risalendo cioè dal divenire alla contemplazione dell’Essere. 780 In questa con-versione del modo di guardare la realtà risiede il valore, non soltanto intellettuale e privato, ma etico e pubblico della dimensione filosofica, la quale dunque ha un significato antropologico, che il cristianesimo mutua facendolo proprio e indicandolo col termine di . Nondimeno, il carattere politico della missione del filosofo lo obbliga a “tornare dai compagni in catene, e di condividere i loro onori e le loro fatiche, grandi o piccole che siano”. 781 Ma non è questa la strada 776

Ivi, 511 a-c. Ivi, 511 c-d. 778 Ivi, VII 517 b. 779 Ivi, 517 c. 780 Ivi, 518 c. 781 Ivi, 519 d. 777

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indicata da Cristo, come è noto. Per una ragione che è accennata dal discorso socratico di cui diremo, ma che non viene sviluppata in tutte le sue conseguenze culturali, che verranno colte invece dalla predicazione evangelica, e che pertanto costituisce il limite metafisico della visione platonica. Il passo significativo cui ci riferiamo è quello in cui Socrate spiega a Glaucone le ragioni dell’impegno politico del filosofo. È il dovere che deve obbligare all’impegno pubblico, per il vantaggio comune, per far cessare la lotta dei miopi uomini di potere, “che si azzuffano per delle ombre e sono in perpetua rivolta per il potere, come se fosse un gran bene”. Ma è vero il contrario, afferma Socrate, poiché lo Stato che è amministrato meglio di ogni altro e più pacificamente di ogni altro, è senz’altro quello in cui detiene il potere chi meno lo desidera; viceversa, lo Stato che è retto peggio sarebbe quello che ha uomini di governo di natura opposta a questa. […] Questa è la verità, caro amico: potrai avere uno Stato ben governato solo se riuscirai a trovare , per chi vorrà governarlo, un modo di vivere migliore del poter stesso. […] E sapresti tu trovare un’altra vita che ha in spregio il potere politico, che non sia quella dedicata all’autentica filosofia? […] Ad ogni modo, bisognerà rivolgersi al potere senza esservi spinti dal desiderio, altrimenti si andrà allo scontro con gli altri pretendenti. 782

Due sono gli aspetti problematici di questo discorso: il primato della filosofia sulla politica e l’intrascendibilità della dimensione politica quale orizzonte antropologico dell’uomo razionale. Riguardo al primo aspetto, poiché il Bene, quale Principio Primo trascendente descritto come l’Uno-in-sé nel Parmenide, produce tutte le cose, la generazione dev’essere simile, e poiché il Bene è “uno”, la processione benigna è affine all’Uno. Ciò implica che “la somiglianza sia una sorta di unità”. 783 La lettura neoplatonica di Proclo (437-485), grande diadoco della scuola di Atene, è fondata sul principio ermeneutico che l’articolazione delle parti che compongono la enciclopedia dialogica di Platone siano in funzione dell’unità del Tutto, la cui sinossi riflette l’ordinamento stesso del reale e di cui il Commento 782

Ivi, 520 c-521 b. Proclo, Commento alla Repubblica di Platone, tr. it. di M. Abbate, Milano, 2014, pag. 266. Da ora CRP. 783

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alla Repubblica costituisce una sorta di paradigma esegetico. 784 Secondo tale henologia, illustrata teoreticamente da Proclo negli Elementi di teologia,785 la molteplicità degli enti reali presuppone l’unità originaria, della quale dunque partecipa e a cui fa ritorno. Ma tale unità originaria, va intesa non tanto in senso cronologico quanto assiologico, 786 per cui la sua posizione primaria è dovuta alla sua alterità rispetto alla realtà molteplice, ossia alla sua trascendenza. Conseguire tale stato di unità, cioè parteciparvi consapevolmente, e trascendere la finitezza del molteplice diventa il compito virtuoso essenziale del filosofo, il quale diventa “un uomo migliore” se fa corrispondere le sue azioni ai valori che teoreticamente ha riconosciuto. 787 La questione essenziale, da cui discendono le altre per conseguenza, è che l’Uno è lo “assolutamente semplice” che non ha alcuna determinazione ontologica; ma se così fosse, non si spiegherebbe la sua produzione del molteplice, cioè delle molteplici determinazioni. Non si può produrre se non ciò che si è in potenza, per cui le determinazioni particolari successive erano già nell’Uno. Cos’è l’Uno? Se l’Uno fosse l’unità di una serie numerica, sarebbe inferiore al molteplice, ma l’Uno è ciò che contiene il molteplice, e pertanto esso è l’armonia del molteplice. Ma se è un insieme armonico, l’Uno è intrinsecamente molteplice. Ciò che comporta che la sua differenza rispetto alla realtà molteplice risiede nella conservazione della sua armoniosa natura molteplice, che gli enti da esso prodotti non hanno in quanto molteplici singolarità. L’Uno, possiamo dire, sia una molteplicità coesistente, mentre le molteplici singolarità sono molteplicità esclusive. Esclusive di che cosa? Dell’armonia originaria, ossia di quella unità primigenia di cui narra il Simposio e che Eros tende a ricostituire. 788 Il finalismo di Eros è tipicamente umano, e nasce da un bisogno di compiutezza che l’uomo avverte in quanto singolarità naturale che 784

M. Abbate, Proclo interprete della Repubblica, Saggio introduttivo a CRP, pag. XXX. 785 Trad. it a cura di E. Di Stefano, Catania, 1994. 786 Proclo, CRP, XII, 288 20-25; M. Abbate, Loc. cit., pag. XXXIII. 787 B. Groethuysen, Op. cit., pag. 35. 788 Platone, Simposio, 189 d – 193 d.

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anela, non alla naturalistica unione sessuale, il cui modello è l’androgino, ma alla comunione spirituale, il cui modello è Cristo. Questa tensione unitiva, pur fatta risalire a una origine divina, è stata invece interpretata da Platone come desiderio d’ordine ( ), ossia come armonia politica. Ma applicare concetti naturalistici alla realtà umana, non rende ragione della peculiare costituzione dell’uomo quale figura personale soggettiva, cioè creatrice di realtà, alla quale non si possono adattare concetti relativi a oggetti. 789 Le categorie naturalistiche chiudono la figura umana entro il cosmo della physis e ne fanno uno zoòn politikòn. Tale antropologia è passata anche nella theologia cristiana e segnatamente nel tomismo, il cui pensiero gerarchico parte da Dio e giunge fino alla materia inanimata, come se ci fosse un processo unitario di complessità variabile, quale appunto concepito in origine dal neoplatonismo. Da questo fondamento naturalistico deriva l’ontologia greca e la stessa concezione platonica della repubblica ideale, la quale doveva essere il luogo mondano dell’armonia celeste. Da qui il primato della filosofia, quale contemplazione dell’Essere ideale, e da qui anche la intrascendibilità dell’orizzonte naturalistico-politico dell’antropologia greca, che appunto omologava l’uomo a un essere di natura. Riprendendo l’immagine geometrica del Menone, lo spazio reale interno alla figura non può che essere una unità molteplice, la quae, però, è vista unitariamente solo da una prospettiva esterna, laddove all’interno la molteplicità politica non perviene all’unità prospettica esterna, evidentemente filosofica. L’obiettivo di Platone è di regolamentare la vita interna alla realtà politica con criteri di valore filosofici. La possibilità di conciliare le due realtà, che abbiamo indicato come interna ed esterna, deriva dal collegamento analogico universale, che, come illustrato nel Timeo e nelle Leggi, collega “tutti i livelli del reale”.790 Comprese le “ombre” interne alla caverna, che sono “realtà sostanziali” in quanto “immagini di corpi e di figure”, 791 ossia 789

N. Berdjaev, Loc. cit., pag. 121. Proclo, CRP, XII, 289 1-5. 791 Ivi, 290 10-15. 790

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rappresentazioni, per quanto false e imperfette. E pertanto “gli oggetti riprodotti dalle immagini stanno agli oggetti visibili così come gli oggetti del pensiero discorsivo stanno rispetto agli Intelligibili. Ora gli oggetti del pensiero discorsivo sono verisimilmente sia determinate forme che enti. Quindi anche gli oggetti riprodotti dalle immagini, in quanto sono immagini riflesse degli oggetti visibili, assumono in modo imprecisato una certa natura sostanziale in ciò in cui si trovano”. 792 Il luogo delle ombre è la realtà della caverna, ossia della città sregolata dove imperversa la violenza degli uomini che aspirano al potere. In questa dimensione umbratile, tra “gli oggetti riprodotti dalle immagini” vanno compresi “gli animali che si trovano intorno a noi e al contempo ciò che è vegetale e tutto il genere degli oggetti artificiali”. 793 Il disordine ambientale e la fallacia mentale sono testimonianti dunque da tale descritta promiscuità di elementi nella rappresentazione immaginifica, che imita i contenuti del pensiero discorsivo. Infatti, “questi oggetti visibili”, spiega Proclo, “sono appunto prima imitati dalle cose che vengono dopo di essi, intendo dire dagli oggetti riprodotti dalle immagini, mentre essi stessi a loro volta sono imitazioni degli oggetti del pensiero discorsivo”. 794 Oltre questo livello di coscienza, proprio del pensiero discorsivo, vi è quello della pura intellezione, in cui il pensiero non muove da ipotesi per giungere a conclusioni, ma “secondo verità”, che è “Principio di tutte le cose, al di là del quale non è lecito pensare nulla, dato che non è subordinato a nulla, bensì ad esso sono subordinati tutti gli altri principi”.795 Tale “Principio indimostrabile e anipotetico” è considerato da Platone come il Tutto. 796 Questa identità tra il Tutto, che è oggetto di intellezione, e l’Uno che è l’unità ideale del molteplice, costituisce la congiunzione di Bene e di Essere, che sta alla base dell’identità etica di Essere e pensiero (Logos), propria dell’ontologia greca, e da cui deriva

792

Ivi, 290 22-29; tr. it., pag. 271-273. Platone, Repubblica, VI, 510 a 5-6; Proclo, CRP, 291 1-10; tr. it., pag. 273. 794 Ivi, 291 26-28; tr. it., pag. 275. 795 Ivi, 292 1-8. 796 Platone, Repubblica, VI, 511 b 5-7. 793

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il dovere etico del filosofo di occuparsi delle sorti politiche della Città, che senza la luce della ragione è una caverna. La linea immaginaria che separa la realtà sensibile da quella intelligibile è l’orizzonte che divide l’antro oscuro dei pregiudizi dalla luce del cielo razionalista. Nella caverna mitica la considerazione dell’uomo è reificata, paragonabile a quella che interessa ogni altro essere vivente o artificiale. È questa la confusione propria della molteplicità disarmonica, radicalmente diversa dall’armonia della visione ordinata delle cose, cioè quella del metron razionale. Ma per avere questa prospettiva occorre posizionarsi fuori delle beghe politiche del mondo-della-vita, in quella alterità topizzata nell’iperuraneo, che è il mondo delle idee. La realtà ideale è un’altra realtà, rispetto a quella reale, ovvero è la stessa realtà reale vista nella prospettiva vera del Bene? La risposta che dà Platone, e con lui tutta la tradizione razionalistica, è la seconda, ossia che la realtà è unica, pur essendo diverse le prospettive. Il razionalismo moderno non ha fatto altro che spostare il topos iperuraneo in interiore homine, facendo della visione ideale quella del Soggetto trascendentale, conservando però la stessa corrispondenza tra le due prospettive, l’armonica e la disarmonica, della stessa realtà, indicando come vera e giusta e buona quella armonica, la realtà razionalmente ordinata. Ciò ci fa comprendere perché, pur nella consapevolezza della imperfezione del mondo sublunare, dove gli oggetti sono “in modo ammassato e indiviso”,797 il filosofo deve avere a cuore le sorti politiche della Città, di quella realtà e di quella vita che sono le uniche per l’uomo. L’ordinamento cosmico, come ci ricorda Proclo, 798 è costituito dunque dagli Intelligibili, che sono l’analogo delle sfere celesti, e che sono posti a modello divino dell’anima, quali universali che si riflettono nelle immagini particolari. A questo punto il diadoco platonico introduce una esegesi del Maestro che, soprattutto nella interpretazione del Timeo, ha condizionato, anche polemicamente, l’intera lettura cristiana di Platone: la conoscenza del Bene. Origene, ad es., diversamente da Clemente e dagli altri apologisti, vedrà nella versione platonica del Dio creatore dell’universo la differenza tra cristianesimo e platonismo, il quale intende 797 798

Proclo, CRP, XII, 294 1-2. Proclo, CRP, XII, 294 10-25.

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la conoscenza di Dio come sforzo intellettuale riservato ai filosofi, mentre il cristianesimo lo considera accessibile solo a Cristo. 799 Questa critica, però, non può toccare Proclo, che riconosceva, come vedremo, nella Teologia platonica “l’importanza della ‘fede’ di fronte all’impossibilità di avere una conoscenza piena dei principii divini”.800 Nella Dissertazione Proclo dunque osserva che Il Bene di cui parla Platone nella Repubblica, concedendo l’essenza alle cose conosciute (VI, 509 b 6 sgg.), è pertanto “celebrato come al di à sia dell’essenza sia dell’essere”, sicché, egli commenta, tale Bene “è trascendente [] rispetto alle stesse essenze più divine e sovraessenziale [] nel senso che è anteriore all’Essenza intelligibile”. 801 La trascendenza è vista dunque come anteriorità nel rapporto causale, per cui è possibile “per coloro che si elevano verso l’Intelligibile […] attraverso l’Intelligibile venire a contatto con l’Idea del Bene”. E pertanto, come giustamente conclude Proclo, parafrasando Platone, è nel Conoscibile che il Bene si fa vedere […]; infatti ciò che partecipa principalmente del Bene è l’Intelligibile che appunto a coloro che sono stati in grado di vederlo mostra da sé […] quale appunto sia ciò che, al di sopra dell’Intelligibile, è causa [] della luce insita nello Intelligibile” [stesso].802

L’intelligenza del mondo consegue alla intelligenza del cosmo, del quale Dio è creatore, sicché con le umane facoltà applicate al sapere metodico, cioè con la filosofia, si può pervenire alla conoscenza di Dio? Non è proprio così. Infatti, di seguito Proclo chiarisce la posizione di Platone in merito, dandone una versione estremamente interessante anche dal punto di vista cristiano. Ciò che afferma Platone è che “l’Intelligibile sostiene [Gestell di Heidegger] la visione del Bene. Dunque è nell’Intelligibile che il Bene si fa vedere, sebbene esso sia al di là [] di tutto l’Intelligibile”. 803 799

Origene, Contra Cels., VII, 42-43. Ved. g. Daniélou, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, cit., pagg. 132-133. 800 M. Bonazzi, Il platonismo, Torino, 2015, pag. 183. 801 Proclo, CRP, XII, 295 4-7; tr. cit., pag. 281. 802 Ivi, 295 12-16 , pag. 281. 803 Ivi, 296 3-6.

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Il senso della trascendenza è in quella alterità rispetto al Tutto intelligibile, alla soglia del quale si fa vedere, scorge, il Bene. Ciò vuol dire che il Bene è alla soglia del Tutto, cioè dell’Intelligibile, ossia del sapere per logoi, della filo-sophia, la quale perviene a comprendere l’intero finito, l’unità razionale del mondo offerto dalle immagini e purificato dalla ragione, ma niente di più. La ragione umana, il Logos, non va oltre.804 Così come non va oltre la certezza del sapere, che si basa sul presente, oggetto del giudizio. Tutto il resto, il passato della memoria e il futuro della speranza, diremmo con Agostino, è fede. Il legame tra filosofia e theologia, così come la relazione tra sapere e religione, nascono dalla convinzione, propria al platonismo, della trascendenza del Bene, e quindi dell’esistenza di un piano di realtà altro rispetto a quello sensibile. 805 Il contrasto tra platonismo e cristianesimo non nasceva sui contenuti della metafisica di Platone, che si adattavano bene alle esigenze sistematiche dell’incipiente teologia cristiana, ma sulla prospettiva escatologica che animava la fede in Cristo, a fronte delle istanze tutte terrene e mondane della filosofia. “La critica dei filosofi platonici altro non era che una variante sul tema del pericolo del cristianesimo: quello che il suo successo minaccia è la distruzione dei valori che avevano fondato la tradizione greco-romana”. 806 I valori, insomma, della Città, della società terrena, entro la quale e per la cui salvezza i filosofi dovevano mettere a frutto il loro sapere. Non fu dunque casuale, ma perfettamente comprensibile e consequenziale, che la filosofia di Platone, la prima teoria della razionalizzazione della cultura politica, diventasse nei primi secoli cristiani “il bastione e 804

“Prima della venuta del Signore la filosofia era ai Greci necessaria per giungere alla giustizia; ora diviene utile per giunger alla religione: essa è in certo modo una propedeutica per coloro che intendono conquistarsi la fede per via di dimostrazione razionale. […] Di tutte le cose che sono bune è causa Dio: di alcune in modo diretto, come per es. dell’Antico e del Nuovo Testamento, di altre mediatamente, come della filosofia”: Clemente Alessandrino, Gli Stromati, I, 5, 28, tr. it. Milano, 1985, pag. 90. Da qui l’idea che i veri filosofi fossero i cristiani, gli unici in grado di vivere integralmente la loro fede, secondo i dettami delle scuole greche: ved. Iustini, Apologia I, 4 8-9, cit. da M. Bonazzi, Op. cit., pag. 189. 805 M. Bonazzi, Il platonismo, cit., pagg. 87, 183. 806 Ivi, pag. 184.

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l’emblema di una tradizione secolare che la novità cristiana rischiava di far scomparire”.807 Proclo, commentando nella sua Teologia platonica la modalità di ascesa verso l’Intelligibile, afferma che Platone non abbia chiarito come si pervenga alle “sommità di tutti gli intellettivi”, che sono “indicibili”, per cui “Platone non lo ha più rivelato attraverso discorsi:infatti la connessione con quelli è ineffabile e si realizza attraverso tramiti ineffabili […] ed è attraverso questo ordinamento che si realizza la mistica unione alle cause intelligibili ed originarie”. 808 La stessa unione mistica intercorre per analogia tra le anime universali e quelle particolari, la cui purezza lascia fuori ogni questione relativa al mondo sensibile; in questo senso, “la vita che noi avevamo nell’intelligibile era completamente separata dal corpo”. Ma quali “le cause” che per Platone ci elevano a quelle altezze ineffabili? Le tre cause () che ci elevano [sono]: l’amore ( ), la verità () e la fede (). Che cosa è infatti ciò che collega alla bellezza se non l’amore? Dove si trova poi la pianura della verità se non proprio in questo luogo [il cielo]? Infine cosa è che causa questa iniziazione ineffabile se non la fede? Infatti non è attraverso intellezione () né attraverso giudizio() che in generale avviene l’iniziazione (), bensì attraverso il silenzio () unitario e superiore ad ogni forma di conoscenza, silenzio che è la fede a fornirci, fissando nella natura ineffabile e inconoscibile degli dèi le anime universali e al contempo le nostre. 809

Parole estremamente rivelatrici, che chiariscono il senso criptico delle affermazioni del Filebo circa la composizione delle cose, che hanno in sé l’Uno e l’Altro, il Limite ( ) e l’Illimitato ( ), la cui natura unica è l’Idea ( ). La dialettica, il cui procedimento caratteristico è la divisione, attraverso l’inserzione di “mediatori” () che “separano l’unità dell’essenza dall’infinità degli 807

Ivi, pag. 194. Proclo, Teologia platonica, IV, 9, 28 20 - 29 2, tr. it. di M. Abbate, Milano, 2012, pag. 491. 809 Ivi, IV, 30 20 – 31 16, tr. cit., pag. 493. 808

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individui”, attraverso una “enumerazione metodica delle relazioni interne che costituiscono un’essenza, [la] misura esatta di tali relazioni [e l’] applicazione del finito all’infinito per via di regolare progressione”, costituisce la traduzione in termini logici delle relazioni ontologiche che passano tra gli Intelligibili. Col metodo dialettico, la teoria delle Idee si trasforma. “Non si tratta più di collegare l’uno all’altro due mondi eterogenei, bensì di sapere come si collegano (o non si collegano) le realtà omogenee di uno stesso mondo: quello delle Idee”. Più correttamente “le realtà rese omogenee” dal metodo dialettico, che va a riformare il logicismo eleatico introducendo “la pluralità e la mediazione”. 810 Il metodo dialettico è la tecnica linguistica per tradurre l’Infinito nel finito, ossia per rendere umano il divino. Essa consiste in un’opera di semplificazione della realtà, ma anche di mistificazione nel momento in cui si perde la memoria della ineffabilità della realtà divina e la si sostituisce con la traduzione logica della parola umana. Ciò ha comportato una omogeneizzazione di realtà ontologicamente diverse all’interno di un quadro epistemologico della finitezza, proprio del naturalismo della metafisica greca. La theologia cristiana lato sensu alessandrina ha pensato anche l’uomo con le categorie della metafisica naturalistica greca, pensandolo come una “sostanza” (), cioè come una “res cui convenit esse in se et non in alio tamquamin subiecto inhaesionis”, ovvero come un ente la cui creatività spirituale è assimilata alla “functio dynamica relativa ad accidentia”, propria della , poiché “res ut habens ordinem ad esse”.811 Ma “il mondo spirituale non può affatto essere pensato come una parte del sistema gerarchico del cosmo”, come nel sistema di Tommaso d’Aquino, dove “la persona umana vi occupa un gradino intermedio tra l’animale e l’angelo, il che costituisce un modo di vedere naturalistico”. Ma la persona non è una res bensì “un soggetto attivo, un centro esistenziale”,812 la cui funzione non può, in base alla concezione cristiana, servire all’edificazione dello Stato ideale platonico, ossia 810

L. Robin, Storia del pensiero greco, cit., pag. 266. Ioannes di Napoli, Manuale philosophiae ad usum Seminariorum, II Psychologia – gnoseologia – ontologia, Genova, 1963, pagg. 480-481. 812 N. Berdjaev, Loc. cit., pag. 127. 811

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all’ideale della Giustizia socratica, sostanzialmente coincidenti, 813 poiché, in seguito alla Rivelazione, egli ha il compito di dedicarsi alla salvezza dell’anima, praticando la misericordia, e non la giustizia (). Anche la Repubblica platonica “è intensamente rivolta verso il mondo ultraterreno”, ma l’educazione spirituale è affidata alle “istituzioni sociali” al servizio della filosofia. Infatti l’uomo che fa progredire se stesso verso la beatitudine è inevitabilmente animato da spirito missionario per l’intera comunità. Perciò il filosofo non può essere giusto verso di sé senza essere un re-filosofo; non può ottenere la salvezza senza portarla alla sua società. Questo è il modo in cui la Repubblica concepisce la relazione fra l’etica e la scienza dello stato ”.814

Rispetto alle relazioni convenzionali praticate dal politico, il problema che sorge alla considerazione filosofica delle questioni di Stato è se al “nemico” corrisponda il cattivo e all’“amico” il buono. Perciò, posto che la “virtù” sia conoscenza, occorre che essa sia la conoscenza giusta. 815 È essa la “giusta misura”, dettata dall’accortezza di sapersi fermare prima di trasmodare nella ? Ma chi stabilisce il giusto ne stabilisce anche la misura, per cui la questione si sposta dal piano etico a quello propriamente politico o del Potere. Se infatti le istituzioni tradizionali () sono la proiezione della volontà del sovrano (), tutto ciò che ne diverge acquista valore di un comportamento passionale, dettato dall’egoismo, mentre ciò che è a esse conforme può essere solo dovuto a paura di spiacevoli ritorsioni, dettato quindi dal calcolo. 816 La distanza tra intimo desiderio e volontà indotta separa le convenzioni politiche, regolate per la convivenza, dalle condotte naturali, spontanee e determinate dallo spirito di sopraffazione. Tale distanza non può essere colmata, come pure avviene generalmente, per mezzo di pratiche penitenziali esteriori che non mutano l’intenzione autentica. Ciò che occorre è una dottrina di verità, orientativa della 813

A.E. Taylor, Plato. The man and his work (1927), tr. it. della VI ed., Firenze, 1968, pag. 412. 814 Ivi, pag. 414. 815 Ivi, pag. 416. 816 Ivi, pag. 421.

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prassi. A questo fine eudemonistico non si perviene, per Platone, sviscerando un’etica razionale limitata alla prassi soggettiva, ma sviluppando i suoi principi in riferimento alla vita sociale. Nella Repubblica, infatti il problema politico della giusta organizzazione di uno Stato è dichiaratamente introdotto non come fine in sé, ma perché si possano vedere la virtù umana e il vizio scritti a lettere maiuscole nella condotta di uno Stato o di u partito politico, e si possa così scoprire nella comunità il vero significato di molte cose che sfuggirebbero alla nostra osservazione se esaminassimo l’umanità soltanto bel singolo. 817

Ciò significa che il valore di una verità razionale è per Platone di natura sociale, ossia è acquisito dalle implicazioni politiche che la conclusione dialettica produce sulla comunità, intesa dunque come il terreno di inveramento empirico delle tesi teoretiche. L’etica platonica, dunque, va ascritta al , che Dodds ha indicato come caratteristica di una “cultura della vergogna” (shame culture), fondata non sull’intimo convincimento morale, ma sulla pubblica stima ( ).818L’opinione pubblica non è il moderno spazio del politico ma lo spazio politico ’, il  non simbolico ed esistenziale in cui deve misurarsi la portata effettuale del , del giudizio razionale. La filosofia è legata all’anima e ha “la missione di liberare l’uomo da questa vita, così come si svolge tra lui e i suoi simili”, ma è altrettanto un governo dell’anima legislatrice. 819 Perciò la salvezza dell’anima è propedeutica all’azione pratica come comunitaria, la quale, per le sue esigenze comunicative e pedagogiche, richiede una trascrizione scientifica delle conquiste teoretiche, tale che l’anima possa essere considerata “in completa analogia con il corpo”. 820 L’anima è un elemento impersonale, non è individuale come il corpo, e per interpretarla occorre ricorrere al mito, ma la cura dell’anima, “la terapia per eccellenza” è la filosofia, con la quale si offre una alternativa alla 817

Ivi, pagg. 424-425. E.R. Dodds The Greeks and the Irrational, tr. it. cit., pag. 59. 819 B. Groethuysen, Op. cit., pag. 35. 820 Ivi, pag. 36. 818

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fruizione che dell’anima può farne il politico. Attraverso il metodo dialettico, anche l’anima viene trattata alla stregua del corpo, ossia come un “dato” di realtà, per cui allo stesso modo che vi sono dei corpi più o meno capaci o dotati per una certa attività determinata, vi sono nell’anima attitudini che si tratta di conoscere per poter decidere in che cosa bisogna impiegarla. Ogni facoltà dell’anima che caratterizza questo o quel tipo d’uomo lo destina a un modo di vita particolare. Si è destinati a condurre questa o quella vita. L’anima è un destino. […] L’educazione, vista in questa prospettiva appare come il mezzo per dare un senso a dei tipi di costituzione psichica, e la legislazione come il raggiungimento di ciò che ogni vita particolare persegue, grazie alla valorizzazione delle disposizioni dell’anima in una funzione che corrisponde ad essa. 821 lo scopo sociale della filosofia è di incontrarsi con la funzione legislatrice al fine di costruire l’uomo integrale, “l’unità vivente”. Da qui il senso dell’impegno del filosofo nella vita politica, nella realtà del mondo-della-vita in cui la formazione teoretica, necessariamente privilegiante le ragioni dell’anima a quelle del corpo, viene spesa al servizio della comunità, in funzione di criterio di governo razionale della Città. Governo filosofico significa, non tanto indirizzo pratico, quanto indirizzo morale di completamento della personalità dell’ “uomo comune sensuale”, il quale, “a differenza dell’uomo filosofico, che porta in se stesso il proprio significato, lo riceve come conseguenza della sua integrazione, da parte del legislatore, nell’insieme politico”. 822 Si perviene alla questione essenziale all’antropologia greca: la socialità politica come rimedio alla mancanza originaria, nel cui ambito il progetto filosofico-politico della Repubbica costituisce una poderosa Entlastung, intesa nel senso di Gehlen della capacità umana di progettare con l’immaginazione le combinazioni utili a fronteggiare un bisogno vitale. Una immaginazione socializzata che da  individuale diventa “atteggiamento conforme”, , “punto di intersecazione

821 822

Ivi, pagg. 37 e 38. Ivi, pag. 40.

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comune” in cui si riconosce il gruppo sociale. 823 L’uomo del  è la persona storica concreta, rispetto alla quale il filosofo è una figura speciale, e in qualche modo astratta, che si completa nella figura del legislatore. 824 Questa tendenza espansiva della filosofia nel filosofare è l’indizio più significativo della natura finita dell’ontologia greca, il cui Logos apophantikòs deve espandersi universalmente per acquisire un valore scientifico, che, in ambito politico, diventa la misura sociale della sua razionalità. Il filosofo non è dunque una figura autosufficiente, in quanto non è l’unica nel panorama antropologico. Ed è nell’insieme delle varie parti in cui è composta l’anima, un insieme razionalmente ordinato, che il filosofo trova il suo posto nel mondo, cioè nella società. Ma l’uomo storico è un idealtipo, l’uomo ateniese, che trattato in senso filosofico diventa antropologicamente paradigmatico. In questa intersezione il fondamento naturalistico della visione dell’uomo greco acquista significato metastorico, universale. È in questa dimensione trascendentale che la posizione politica dell’uomo acquista un significato funzionale alla sua compiutezza spirituale, la quale, diversamente dalla formazione del filosofo, non può riferirsi alla sola dimensione teoretica ma deve comunicarsi in un ordinamento legale, la cui legittimità è teoreticamente razionale, ma in senso socio-politico è essotericamente mitica. Dalla confluenza dei due motivi possiamo indicare la loro sintesi nella definizione di mito-logia, intesa come una rappresentazione mitica di un ordine socio-politico razionalmente stabilito. Nel mito filosofico, la ragione è inclusa nella rappresentazione, ne diviene il linguaggio, maieuticamente derivato dal procedimento dialettico, della comunicazione dei suoi contenuti simbolici oggettivati. Lo sforzo di determinare ciò che resta comunque in-determinabile, destina i dialoghi platonici alla loro forma aperta e incompiuta, suscettiva di infinite riprese occasionali, che assegnano al filosofare il suo carattere occasionale e occasionato da spunti tratti dal mondo-dellavita. Lo scenario dell’esperienza sensibile viene, attraverso il dialogo, 823

A. Gehlen, Der mensch, seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940), tr. it., Milano-Udine, 2010, pag. 382. 824 B. Groethuysen, Op. cit., pag. 41.

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depurato delle sue scorie immaginifiche e superficiali, per trarne il senso razionale recondito, visibile al solo occhio della mente. Lo scopo del dialogo è di farlo emergere, affinché la considerazione dell’uomo e della sua esperienza di vita comprenda anche ciò che non si mostra all’evidenza sensibile, e che perciò la sua ignoranza potrebbe falsare il giudizio e soprattutto le decisioni politiche. Non si possono governare gli uomini se non si conosce anche la loro parte in ombra, l’anima profonda che motiva le loro singole scelte di vita, i loro caratteri e i comportamenti sociali. L’idea dell’anima, il suo concetto, la rende oggetto di pensiero, dato di ragionamento, universalmente comprensibile e dunque politicamente destinabile a funzioni sociali adeguate alla sua natura. Il compito del legislatore consapevole è di realizzare “una specie di organizzazione contemporaneamente corporale e spirituale” della comunità. 825 La diversa declinazione, filosofica e politica, dell’esperienza umana, considerata rispettivamente per l’aspetto spirituale individuale e per quello sociale comunitario, derivano dalle diverse prospettive in cui si pone la considerazione antropologica. Il giudizio  non coglie l’uomo nella sua intierezza, ma nella sua singolarità trascendente il dato empirico della sua esistenza sociale e temporale. Il giudizio , a sua volta, senza il primo rischia di pensare l’uomo in una generalità non meno astratta di quella puramente teoretica, perché priva del fondamento eterno della sua forma trascendente, nella sua “anima”, e perciò mitica. Nella funzione governamentale l’anima non ha qui solamente il compito di riflettere su se stessa, ma ha un ruolo da svolgere nell’insieme della vita; ha dei doveri nei confronti dell’unità vitale cui appartiene; ha il suo posto designato in un organismo. […] Essa è legata alla vita dalle funzioni che deve assolvervi ,

è “responsabile” davanti ad essa, in quanto “guardiana” e “sovrana” della vita.826 È nella sua missione sociale che la filosofia, quale governo dell’anima, si scopre funzionale al governo politico. 825 826

B. Groethuysen, Op. cit., pag. 44. Ivi, pag. 45.

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Rispetto alla sovranità bio-politica, quella intesa da Platone come funzione essenziale del sovrano filosofo potremmo indicarla come una sovranità religiosa, comprensiva tanto della  che della . Il governo filosofico-politico si rivolge non all’uomo spirituale, e neppure all’uomo naturale,  ma all’unità psico-fisica, appartenente tanto al cosmo naturale che al mondo divino delle Idee. Saranno questi “due motivi” quello “dell’uomo creatura della natura e quello dell’anima” a costituire nel Medio evo “la sfera del pensiero cristiano”. Ma ciò che costituisce l’elemento più considerevole e duraturo del retaggio platonico passato alla civiltà cristiana e quindi alla civiltà europea, è l’analisi dell’anima, mutuata dalla tradizione pitagorica, ossia “l’idea che la ‘salvezza’ o ‘purificazione’ dell’anima debba esser raggiunta attraverso la scienza ( ), non attraverso un rituale puramente esteriore”. 827 Per quanto protesta in interiore, tale analisi procederà attraverso gli strumenti della dialettica, animata da Eros, che costituirà il Logos come mediatore tecnico nella definizione dei rapporti tra cielo e terra, tra anima e corpo, e di conseguenza il filosofo come suo interprete vivente. Col metodo matematico le idee diventano enti di ragione, “oggetti dei quali veniamo a conoscenza”, e che ci introducono alla suprema “idea del Bene” ( ), che occupa la mente del filosofo dialettico, costituendo la “fonte della realtà () e dell’essere () di tutte le cose” e ciò che le mantiene legate.828 D’altronde il Bene, proprio perché scaturigine di ogni realtà, ha una essenza trascendente che non può essere determinata da un predicato positivo se non “analogicamente”, per cui ogni conoscenza scientifica del mondo, per quanto vada a riferirsi all’unica fonte di ogni sua manifestazione, non potrà mai condurci a “comprendere o razionalizzare completamente tale fonte”, che rimane perciò “un mistero sorprendente e inesauribile”. 829 Ciò comporta, per un verso, che la trascendenza del Bene sia riferita anche alla possibilità di una sua definizione razionale, e dall’altro che la sua natura logicamente incomunicabile destina la sua conoscenza a una 827

A.E. Taylor, Plato, tr. it. cit., pag. 441. Ivi, pag. 444. 829 Ivi, pag. 447. 828

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ineffabile intuizione personale, che per ognuno è quella vera. Da queste premesse si può pertanto affermare che “sul piano metafisico l’idea del bene [platonica] sia esattamente ciò che la filosofia cristiana ha inteso per Dio”.830 Il dio platonico è “la somma misura ( ) di tutte le cose”, 831 sicché compito virtuoso dell’uomo è essere simile a dio, ossia “misurato”. Per “misura” Platone intende non quella che potremmo indicare come la moderazione politica, fatta di saggia cautela ( ) ma anche a volte di cinica infingardaggine, ma intende la capacità, proprio del dio, di coniugare l’unità e la molteplicità, 832 la visione esterna e quella interna al mondo sociale. La saggezza filosofica del buon politico rasenta dunque una sorta di santità civile di esseri superiori quasi divini () 833 ottenuta dalla assimilazione al dio (  )834 per mezzo dell’educazione, che è la cosa più seria della vita. 835 Ma qual è la parola del dio? E quale è il segno oggettivo dell’assimilazione alla sua superiore virtù? E’ la stessa in entrambi i casi: la buona legge, emanata dal legislatore sapiente che, come un buon medico, non ordina semplicemente le sue prescrizioni ma cerca di “convincere il paziente a collaborare”. 836 La con-laborazione ideale consisteva nel convincersi, di preferenza razionalmente altrimenti per costrizione normativa, che la condizione offerta all’uomo dalla Repubblica ideale, ossia la sua completa socializzazione, fosse quella realmente naturale, in quanto informata non su convenzioni tradizionali o costumi religiosi, ma su princìpi di ragione universali. Questo carattere sociologico del pensiero greco era fondato sul presupposto antropologico che la condizione sociale dell’uomo fosse intrascendibile, per cui qualunque utopia relativa all’ottimo vivere non potesse 830

Ivi, pag. 449. Platone, Le leggi, IV, 716 c. 832 Il concetto è affermato anche nel Timeo, 68 d 4-7. Ved. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, Milano, 201022, pagg. 711-712. 833 Leggi, V, 739 d. 834 Ved. Teeteto, 176 b 1-3. 835 Leggi, 803 a – 804 c. 836 A.E. Taylor, Plato, tr. it. cit., pag. 743. 831

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escludere, ma anzi dovesse partire da, la condizione ritenuta naturale, e della quale la versione razionale offriva il modello ideale. la via greca alla salvezza dell’uomo passava per la Città e dunque per la struttura del potere politico. da qui la questione della qualità del legislatore. Se infatti la Città era malgestita, e all’uomo non era dato vivere altrimenti, se non scendendo a livello ferino o assurgendo a livello divino, occorreva pensare a uno Stato ideale retto dal legislatore perfetto, cioè razionalmente guidato. Ed è questo il disegno eu-topico del Platone redattore della Repubblica e delle Leggi. Ora, esattamente questo percorso fu ridimensionato dalla predicazione cristiana, che contestava la necessità della dimensione esclusivamente naturale, e quindi politica, dell’uomo, il quale pertanto non doveva dare tutto se stesso a Cesare, avendo in sé un’anima ( ) che non era lo “spirito” () che semplicemente animava il corpo ( ) ma lo trascendeva, perché di origine divina, e perciò immortale, ma non ideale. Il punto esterno della prospettiva che guardava alla società umana come una unità,composita da definita, non era più quello iperuraneo delle Idee che misurano dalla loro perfezione la realtà delle ombre sensibili, con la Rivelazione cristica diventava un punto interno alla soggettività, ma non in senso sociologico dello spazio politico, ma nel senso spirituale dello spazio della coscienza personale. Con l’Incarnazione, l’ineffabilità divina acquistava una sua visibilità concreta, che non andava riferita alla figura fisica di Gesù, ma alla integralità umana, perseguita dal filosofo greco mercé la ragione () erotica e conseguita dal santo cristiano con la fede () misericordiosa; l’una sul terreno propriamente politico, e dunque attraverso la sana legislazione, e l’altra attraverso la costruzione di una comunità ( ) impolitica ispirata dal Vangelo. Non si trattava più, cristianamente, di realizzare lo Stato ideale ovvero il governo razionale, ma di offrire all’umanità un paradigma esistenziale diverso da quello socio-politico della tradizione naturalistica pagana, non più fondato sulla cittadinanza ma sulla personalità spirituale. La “conversione” ( ) proposta dal Vangelo non consisteva nell’uniformarsi alle prescrizioni della legge razionale di Cesare, ma di aderire toto corde alla parola di Dio.

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Il carattere singolare della risposta della fede, eliminava la mediazione politica, incentrata sulla gestione razionale della violenza, sostituendola con la amministrazione apostolica, fondata sul volontarismo della fede. La volontà (), che era considerata la facoltà fondamentale dell’uomo razionale, veniva a perdere il suo esclusivo primato spirituale, conteso cristianamente dalla intenzione (), la quale nella parola greca indica a un tempo assennatezza, intuizione e arcaicità, mentre nel lemma latino (intentio) indica l’interiorità, la quale, per il suo carattere intimo e misterioso, sfuggiva del tutto al controllo del potere di Cesare, che poteva così esercitarsi solo sul comportamento esteriore del suddito destinatario della legge dello Stato. Ed era appunto il dialogo della intima volontà con la parola di Dio a costituire quella parte dell’uomo non disponibile dal Potere. Nel Protagora, che è il dialogo in cui si insegna che tutte le virtù consistono nella conoscenza, 837 e “la più completa ed antica esposizione del carattere e degli scopi dell’educazione sofistica alla virtù”, 838 Socrate chiede a Ippocrate “intorno a quale oggetto il Sofista rende abili a parlare”,839 e, di fronte alla difficoltà del suo interlocutore, conclude che i sofisti “non sanno se le cose che vendono siano buone o cattive per l’anima”.840 L’importanza del dialogo è la definizione della “azione virtuosa”, comunque espressa, come azione razionale, e della “azione ingiusta” come un “errore” d’insipienza. Ma poiché Socrate postula l’unità dei saperi particolari () nella conoscenza logica, l’errore politico non può che esser un errore filosofico, conseguente all’ignoranza di ciò che giova all’uomo, e che Socrate indica come “arte e scienza del misurare”, sicché “coloro che sbagliano […] sbagliano per mancanza di scienza”.841 Ma che cos’è dunque l’ignoranza? Consiste nell’“avere

837

Platone, Protagora, 349 d. A.E. Taylor, Plato, tr. it. cit., pag. 371. 839 Platone, Protagora, 312 d. 840 Ivi, 313 d-e. 841 Ivi, 356 d-357 d. 838

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un’opinione falsa e ingannarsi intorno alle cose che sono di grande valore”.842 Tale è anche la conduzione politica che abbia per scopo il vantaggio particolare, il successo, e che dunque si riduca al calcolo edonistico (), che è razionale in riferimento all’ottenimento dei beni economici, ma è sbagliato in relazione al Bene che è la virtù etica, rispetto al quale è una passione irrazionale. La riduzione di ogni virtù particolare, di ogni sapere specifico, all’unità del sapere tratto dalla dialettica, quello appunto logico, fa della filosofia lo strumento della salvezza dell’uomo. 843 La ragione unitaria delle scienze particolari, cioè la metafisica, consiste dunque nella riduzione della natura umana a pensiero razionale. Il pensiero razionale è quello che pensa l’Essere (). Questo Essere è l’essenza di ciò che è, cioè la realtà fenomenica della . L’anima razionale dell’uomo è quella che è omologa alle leggi della Natura, l’anima naturale. Naturale e razionale sono dunque, per l’idealismo greco, sinonimi. E poiché l’unità razionale si ottiene compulsando le istanze impulsive dell’anima irrazionale, la salvezza dell’uomo dipende dalla affermazione dell’anima razionale sulle passioni, che isolano l’uomo dall’insieme del cosmo razionale. 844 Essendo queste proprie dell’uomo semplice, ignorante della verità, che fa parte del gran numero ( ), il primato della ragione, la salvezza dell’uomo e il governo degli uomini passionali è tutt’uno. E in questo consiste la virtù politica della buona legislazione, non nell’arte della mera persuasione praticata insegnata dai sofisti. Lo stesso elenchos praticato su Protagora dimostra quanto sia incongruente un’arte non fondata sul vero sapere, la cui necessità non è refutabile. “Il filosofo (Socrate) che concepisce lo Stato non è un capo. E’ un maestro”,845 ossia un dialettico. Perciò Socrate nell’Eutidemo consiglia al suo giovane amico di applicarsi a perfezionarsi nello studio e nella pratica dell’ argomentazione, cioè del ragionamento logico, se voglia conseguire il sapere e non trastullarsi nei vuoti e ridicoli 842

Ivi, 358 c. Ivi, 356 e. 844 B. Groethuysen, Op. cit., pag. 92. 845 Ivi, pag. 50. 843

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ragionamento dei sofisti. Non si tratta per Socrate di “un problema di moda intellettuale [ma] di scegliere fra due generi di vita: da un lato una futile competitività, dall’altro il sapere”. 846 L’autentica rappresentazione mitica della Weltanschauung platonica è stata proprio la sua antropologia razionalistica, che, attraverso la successiva elaborazione aristotelica, è diventata il paradigma metafisico della cultura occidentale universalizzata dal cristianesimo, 847 e del quale la versione moderna scientista è una forma aggiornata di ciò che fu il naturalismo aristotelico rispetto all’animismo platonico. Il mito in Platone consiste, più esattamente, nella credenza che la rappresentazione razionalistica dell’uomo potesse esprimere in termini teoreticamente irrefutabili i contenuti e la struttura dell’anima umana. Questa ipotesi euristica, affermata come una fede epistemologica, ha sorretto l’intero impianto metafisico del pensiero europeo, costituendo il motivo diairetico di determinazione della realtà vera rispetto alle espressioni spurie e accidentali del pensiero non-scientifico. L’istanza pratica originaria di fruizione della rappresentazione razionale del mondo delle idee a scopi pedagogici e protrettici, divenuta techne dialektikè autonoma, ha soppiantato il finalismo spirituale trasvalutato da paideia politica a metodica gnoseologica, fine a se stessa. Questa stessa dinamica epurativa del fine trascendente e di trasvalutazione della originaria funzione ancillare del logos in criterio di invalidazione del sapere extra-metodico, si è riprodotta modernamente nei confronti dello spiritualismo theologico cristiano, soppiantato, come già il platonismo antico, dallo scientismo naturalistico, che costituisce appunto la forma aggiornata del mito razionalistico antico. Il dialogo platonico col quale la cultura occidentale altomedievale prese conoscenza dello schema generale del mondo della natura, ancor prima della riscoperta del fisicalismo aristotelico nel sec. XIII, fu il Timeo.848 In esso l’uomo è rappresentato come una figura estranea all’universo 846

J. Annas, Platone, in J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd, Le savoir grec (1996), tr. it. in Storia Einaudi dei Greci e dei Romani (2005), vol. XII, Milano, 2008, pag. 221. 847 “Tale è la potenza della concezione aristotelica della natura che noi la ritroviamo ovunque in seguito nei filosofi della vita a Roma, come in Sant’Agostino, nel Medio Evo, come nei tempi moderni”: B. Groethuysen, Op. cit., pag. 64. 848 A.E. Taylor, Plato, tr. it. cit., pag. 675.

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naturale, smarrita, di uno “straniero” la cui anima “non si sente a casa sua”. Di contro, l’immagine che dell’uomo dà Aristotile è di un essere perfettamente integrato nel cosmo naturale, che ingloba contemporaneamente ciò che vi è di più elevato e ciò che vi è di più basso. […] Non è più questione di un’anima che in un certo senso guarda l’uomo dall’alto in basso, ma di una unità formata dal corpo e dall’anima, quale si mostra a colui che l’osserva. […] Sa di far parte di un ordine universale, di stare al proprio posto in un insieme universale che comprende tutti gli esseri. Vive nella coscienza del tutto, degli esseri che sono al di sopra e al di sotto di lui, ha fiducia nella natura [di cui è] una creatura.849

La definizione razionalistica dell’uomo travalica la dimensione strettamente politica per acquisirne una cosmologica, tale che l’istanza originaria della sua integrazione nel microcosmo sociale diventa di portata ontologica, universale, di carattere non più empirico e contingente, legato alla funzione legislativa, ma necessario ed eterno. Da qui la natura mitica di tale rappresentazione, il cui sfondo non è più quello sociologico della polis ma quello ontologico del Tutto. Essa crede e pretende di essere positiva, ma lascia fuori dalle sue geometrie teoriche il mondo-della-vita e i suoi fenomeni spontanei, assegnati al caso (), e le vicende dell’uomo empirico, che possono solo raccontarsi, oggetto di narrazione letteraria. “La vita, concepita biologicamente, non ha storia”. 850 La storia, infatti, “è costituta da eventi e non da forze o da idee dal corso prevedibile”. 851 Tra la razionale realtà superna e le dinamiche della vita sociale, si aprì uno jato ben maggiore che nella visione platonica, poiché la cura politica del governo non poteva essere determinata del tutto dagli schemi naturalistici della natura umana, e quindi assegnati alla saggezza () dell’esperienza pratica.852 849

B. Groethuysen, Op. cit., pagg. 57 e 58. Ivi, pag. 79. Ved. H. Arendt, Op. cit., pag. 242. 851 H. Arendt, Op. cit., pag. 186. 852 Ivi, pag. 68. 850

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L’aspetto narrativo che assume il resoconto dell’esperienza umana nella sua concreta integrità reintroduce, anche in contesti culturali fortemente condizionati dalla Weltanschauung razionalistica e in cui prevale perciò una gnosi scientista, l’insopprimibile tendenza mitopoietica, che nell’arte esprime i suoi più alti documenti spirituali della civiltà occidentale, in grado di documentare non solo esteticamente ma contenutisticamente i travagli morali di un’epoca, riflessi alla luce delle più profonde e durature istanze trascendenti dell’animo umano. Che sono, poi, le istanze della personalità, che fronteggia la grigia e sorda impersonalità delle forze naturali, interne alla sua stessa conformazione fisica e che lo spingono in direzione dell’uniformità biologica. E la personalità si esprime come rappresentazione del mondo, come rapporto, cioè, tra la persona singola e il mondo esterno. 853 La rappresentazione del mondo è il modo più propriamente umano di abitarlo e di prenderne possesso spirituale, rapportandosi ai fenomeni che la coscienza incontra e che hanno attirato la sua curiosa o spaventata meraviglia. La forma mitica della rappresentazione è inclusiva della alterità del mondo, perché relazionale, mentre la forma razionale è esclusiva, perché dialettica. Per la modalità dialettica, la con-fusione dei termini del discorso è un errore sistemico; per il racconto mitico la fantasia è la virtù del pensiero. La visione razionalistica del mondo tende a stabilire un’armonia con la natura e le sue forze fisiche. 854 Per la concezione cristiana, invece, il referente è Dio e l’armonia va ricercata con la Sua volontà, la vera realtà positiva, che per il pensiero pagano era la natura. “L’opposizione tra i due modi di vedere”, quello naturalistico aristotelico, che vede nella natura lo specchio della perfezione, e “quello che scorge nell’uomo un elemento contronatura” che va adattato con l’educazione alla vita naturale, troverà in Agostino “il suo punto culminante”. 855 Il discrimine antropologico, nella concezione naturalistica pagana, è interno al genere umano, diviso tra il saggio consapevole di sé e l’uomo

853

Ivi, pag. 85. Ivi, pag. 88. 855 Ivi, pag. 90. 854

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privo di educazione. Solo il saggio è libero, capace di prendere posizione negli affari del mondo e della condizione umana. Questo concetto della libera personalità, che, regnando in modo assoluto nella sua sfera, sa di essere in pieno accordo con se stessa e con il cosmo, è in un certo senso il punto culminante della filosofia greco-romana della vita.856

Ciò che appare altro rispetto a tale personalità naturalmente libera è ciò che fuoriesce dal cosmo mondano in cui è inserita come realtà morbosa in quanto eslege rispetto all’ordinamento organico solidale. Da qui la centralità della vita come realtà positiva: “vivere tota vita discendum est et, quod magis fortasse miraberis, tota vita discendum est mori”.857

856 857

Ivi, pag. 96. Seneca, De Brevitate Vitae, VII, 3; cit. da B. Groethuysen, Op. cit., pag. 105.

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VIII AGAPE LA VIA CRISTIANA ALLA SALVEZZA

“Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Marco, II, 17) “Il cristianesimo non ha niente a che fare con la democrazia. Questo tentativo di accostare cristianesimo e democrazia è la grande menzogna del nostro tempo, una ripugnante sostituzione”. (Berdjaev)

1. Secondo Nygren, “eros e agape non vanno contrapposti l’uno all’altra in quanto giusti o errati, superiori o inferiori, ma in quanto uno è un valore cristiano, l’altro è estraneo al Cristianesimo. St tratta – egli chiarisce – di una differenza di natura e non di valore”.858 Ciò lascerebbe supporre che esistano due nature umane, e che dunque ne mancherebbe una universale e comprensiva di entrambe. Ma ciò è implicitamente negato dall’Autore allorquando definisce il “motivo di fondo” della concezione cristiana dell’Agape quale particolare “soluzione” offerta al “problema etico e a quello religioso”, 859 i cui termini hanno mutato col Cristianesimo radicalmente significato. Se infatti nella cultura antica il concetto di Bene aveva un significato individualistico di tipo 858 859

A. Nygren, EA, pagg. 20-21. Ivi, pag. 24.

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eudemonistico, inteso come piacere (edonisti), come perfezionamento morale (Aristotile), ovvero come atarassia (stoici), col Cristianesimo la “collettività” diventa “il punto di partenza delle sue riflessioni etiche”. 860 in tal senso, “l’agape, l’amore, è una nozione sociale, che non ha più nessun punto in comune con un’etica individualistica o eudemonistica”, perdendo la sua accezione utilitaristica per diventare una questione “autonoma”, consistente “nel problema del Bene in sé”. Parallelamente, anche la questione religiosa cambia l’originario carattere sociale funzionale al potere politico per diventare il problema “dell’eternità e della comunione dell’uomo con Dio”.861 Ciò che Nygren suggerisce, al di là dei motivi intellettuali con cui lo fa, è che la dimensione etica e quella religiosa cambiano di referente assiologico, che nella cultura pagana è il contesto politico, entro il quale la virtù singolare acquista il suo significato etico e il suo valore esistenziale, mentre nella prospettiva cristiana è Dio, che diviene il termine della relazione che la coscienza morale stabilisce col suo valore. Più che “egocentrica”, la religione pagana è sociologica, incentrata sull’uomo in quanto essere politico. nel Cristianesimo, invece, l’aspetto etico e quello religioso s’intrecciano, diventando “i due aspetti diversi della medesima questione”, che appunto è quella della relazione dell’uomo con Dio. Sicché “il Cristianesimo non conosce una comunione con Dio che sia indifferente dal punto di vista morale; esso è sostanzialmente una religione etica. Tanto meno conosce un’etica indipendente dalla religione. L’ethos del Cristianesimo è sostanzialmente un ethos religioso”.862 La ragione di questo spostamento di fondamenti assiologici dalla società alla divinità risiede nella circostanza che il metron di commisurazione del valore, non è più tradizionale e legato al consolidamento nel tempo di convincimenti radicati e tramandati come atavica esperienza comune, né a una validità di carattere ideale ricavata dal metodo razionale, ma è costituito da un evento esistenziale che è al contempo storico, cioè determinato nel tempo, ed escatologico, ossia eterno. l’evento cristico fa sì che il referente assiologico diventa da immanente a trascendente, e da politico-normativo ad esistentivo. Non più l’etica come corrispondenza dell’agire individuale a una formula di ragione, ma come imitatio Dei, 860

Ivi, pag. 25. Ivi, pag. 26. 862 Ivi, pag. 27. 861

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cioè come prassi ispirata da un sentimento di intima adesione mimetica all’esempio divino. L’amore è infatti un sentimento di spontanea identificazione con l’altro amato. Non vi è più un rispecchiamento tra virtù agente e valore ideale, ma una imitazione di esperienze, vissute dall’uomo con lo stesso sentimento col quale operava il modello divino vivente, il Cristo. L’amore, pertanto, non è una formula dottrinale, una theo-logia, che si possa insegnare come scienza razionale, ma una esperienza vissuta, un atteggiamento esistenziale, singolare come è il rapporto di ogni uomo con Dio, non più divinità sociale ma personale e trascendente. Il Dio cristiano non è dunque un concetto, fosse pure come in Anselmo, il più comprensivo, ma è, in quanto Amore, un atteggiamento dell’anima, incentrata sull’Altro anziché sull’Io, ossia un sentimento di relazione; una relazione che è trascendente in quanto trascende la soggettività,e con essa i suoi prodotti spirituali. La massima espressione della produzione del Soggetto spirituale era per il pensiero greco il concetto universale, nel quale la coscienza teoretica sussumeva l’intero Essere logicamente determinato. Nella prospettiva cristiana, la questione della conoscenza non si pone nei termini della con-prensività teoretica del mondo, e quindi della padronanza concettuale degli enti fenomenici, ma nella scelta morale di affermare la realtà dell’Altro come prioritaria rispetto al dominio, materiale o ideale, sul mondo da parte dell’Io. Partire dall’Altro significa che esso non è l’opposto da negare per affermare il Sé, ma è il principio stesso che dà senso morale alla presenza esistenziale dell’Io. In questa prospettiva, la ricerca teoretica sull’ottimo vivere non ha più senso, poiché l’optimum va rintracciato nel vivere stesso, quale opera d’amore della divina creazione di cui l’uomo fa parte, e il cui amore deve testimoniare. La mondanità dell’esercizio d’amore cristiano, colloca l’agere dell’uomo agapico in una dimensione storica e non iperuranea, che è lo stesso orizzonte fenomenologico dell’esperienza di Gesù. Ciò differenzia il martirio della fede in Cristo, e dunque la prassi agapica, dalla ricerca di un ”eros celestiale”, suggerita dal Convivio platonico, quale istanza teoretica volta a “stornare la mente dell’uomo da ciò che è temporale per rivolgerla alla vita ultraterrena, celeste”. 863 non si tratta perciò di due “concezioni” dell’amore, ossia due diverse rappresentazioni di una stessa idea, ma nel caso platonico e profano si tratta di una visione mentre nel caso cristiano di un vissuto esistenziale, cioè di una storia 863

A. Nygren, EA, pag. 33.

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spirituale entro la quale l’agape emerge come possibilità legata alla libertà personale dell’uomo. L’eidos platonico, per quanto fosse pensata come universale, determinava la sua possibilità solo entro l’uni-verso del linguaggio, all’interno del quale il logos razionale si determinava come l’unico dotato di senso ontologico, ossia determinativo di essenza. Questo processo determinativo corrispondeva ad altrettante modalità di negazione di quanto non rientrasse nella sua fondazione essenziale, o categoria. Infatti nel linguaggio co-esiste tanto il bello che il brutto, ma la categoria della Bellezza comprende solo gli enti a essa omologhi, cioè aventi la stessa unità logica, stabilita dalla definizione, a esclusione degli enti diversi, logicamente in-esistenti, e quindi ni-enti. In termini etici, il comportamento conforme alla ragione viene considerato virtuoso, ossia eticamente giusto. La giustizia, quale valore etico, assegna la qualità etica dell’azione sulla base di un giudizio razionale, distributivo. Questa distribuzione razionale del giudizio etico manca del tutto nella prospettiva agapica cristiana, la quale non determina una qualità razionale, definita dal Logos, riscontrata in un atto giudicato a esso conforme, ma stabilisce una relazione di partecipazione spirituale della condotta umana all’evento divino, alla Storia del Verbo incarnato, i cui “sforzi tendono ad un solo risultato: condurre gli uomini alla comunione con Dio”,864 riportando nella realtà della loro esistenza quel fondamento originario comune che è il vero creatore del mondo. Sulla base di tale originario fondamento, ogni essere creato stabilisce un legame di relazione con l’altro e con Dio. Solo questo sentimento di appartenenza comune può essere cattolico (), comprendendo veramente tutti perché non esclusivo d’alcuno,diversamente dall’universalità esclusiva del Logos,comprensivo solo dell’omologo. L’Agape, diversamente dall’Eros, è amore inclusivo perché comunione divina, non mera relazione umana stabilita secondo umane e imperfette modalità contingenti. Solo attraverso la mediazione divina si stabilisce l’amore cristiano, ove mediazione sta per partecipazione al fondamento originario comune, che non è Logos, cioè parola razionale, ma linguaggio creativo, poiesis, comunione poetica. Il linguaggio della creazione è l’Amore, la divina poesia, che diventa contenuto etico della vita religiosa, 864

A. Nygren, EA, pag. 47.

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ethos religioso. “La comunione con Dio non è una comunione basata sulla Legge [che retribuisce], ma fondata sull’amore [che dona]”. Da qui la tensione coi Farisei, fautori della “comunione posta sotto il segno della Legge”, ai quali Gesù oppone “la comunione retta dall’amore”.865 L’amore in senso cristiano non ha ragione perché non è causa determinativa ma libero dono, spontaneo e indipendente dalle qualità del destinatario, indifferente ai valori, in quanto “l’amore di Dio non si lascia imporre limiti dal comportamento dell’uomo”. 866 Nel senso che i limiti che la natura fisica, e la lotta per la sopravvivenza che la caratterizza, oppone alla storia spirituale dell’uomo non possono soverchiare l’amore creativo di Dio, che l’uomo può ritrovare andando alla radice del suo animo e della sua coscienza. L’elemento spirituale è annichilito dalla potenza della forza naturale, e perciò va riportato in vita, alimentato e appellato come elemento divino che “conferisce valore” all’esistenza umana. Esso è appunto l’amore, coincidente con la relazione a Dio, con la Sua presenza mediatrice. Poiché l’amore divino è atto gratuito e in-prevedibile dall’intelligenza umana né pre-vedibile da una qualche tecnica apostropaica, esso è inderivabile, ossia originario, in-causato, e pertanto liberamente donato all’uomo. Ciò significa che la presenza amorevole di Dio non corrisponde ad alcuna propiziazione umana, ma consiste in una relazione impari, che ha per protagonista il solo Dio. Tale disparità, temuta dai Greci come condizione minoritaria dell’uomo verso la potenza divina, non consiste in una forza fisica incombente che nella sua potenza annichilisce l’uomo, ma una potenza d’amore, generatrice d’amore. Questa dipendenza dall’amore di Dio fa dell’uomo consapevole della sua natura spirituale, e quindi della sua potenziale partecipazione all’amore divino. Che l’amore cristiano non sia una regola, cioè un precetto razionale, il cui carattere di astrattezza lo renda universalmente applicabile erga omnes, è attestato dal suo carattere rivelativo e non dimostrativo; infatti il precetto evangelico non parte dal significato razionale di un evento umano, riportato in senso normativo, ma dall’evento trascendente della presenza di Dio nella storia umana. “Le parabole di Gesù non sono mezzi di dimostrazione, ma mezzi di rivelazione. Non si fondano su di un razionale ‘così dev’essere’, ma su un atto di autorità ( ) ‘io vi 865 866

Ivi, pagg. 49-50. Ivi, pag. 56.

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dico’”.867 La rivelazione di “una nuova unione con Dio” attraverso di un atteggiamento esemplare di santità, diverso da quello umano, culturalmente regolamentato da un principio razionale di giustizia, di carattere appunto retributivo, considerato naturale. L’atteggiamento spirituale non è conseguente a una deduzione confermativa di fatti comunemente accettati dall’esperienza umana, ma tende a costituirsi come paradigma alternativo al modello naturale di tipo razionale e tendente alla giustizia. L’atto d’amore tende invece alla santità, cioè alla pre-minenza dell’Alter sulle ragioni dell’Ego, avendo quell’altro le fraterne fattezze divine. Lo sguardo amorevole non vede l’oggetto del pensiero da assimilare, ma il soggetto da contemplare. Non è l’idea a essere contemplata come presenza del Logos, ma è il Verbum che appare come uomo, incarnato in Colui che è santo per antonomasia, il Cristo. La versione razionalistica del Verbum giustifica ma non redime l’uomo e il suo mondo, lasciando intatte le ingiustizie che cerca di sanare attraverso la legge dell’equità. Solo la modalità agapica può redimere il male, trascrivendo in termini spirituali le emozioni naturali che la ragione umana cerca di canonizzare rendendole prescrittive. La redenzione dell’Altro coinvolge sempre, con l’amore, la propria. In Resurrezione Tolstoj coniuga la vicenda penale della rea alla espiazione morale di chi non era razionalmente imputabile di alcuna correità, colpevole però di non averla impedita, semplicemente pensando alla vittima con lo stesso sentimento di riguardo avuto per la propria sorte. Se la propria sorte viene prima di quella dell’altro, questa è già segnata dal peccato dell’Eros naturale, che pone la salvaguarda della vita biologica come principio regolativo dei rapporti umani. Per la vita spirituale, invece, conta la salvezza dell’altro, perché nel suo amore si rende omaggio a Dio. Una posizione “folle”, e del tutto innaturale, che l’esperienza umana smentisce, ma che pure, essendo storica, cioè del tutto temporale, è anche temporanea e non ha nessuna universalità necessaria, se non quella che le affida la credenza superstiziosa dell’uomo. La grande superstizione culturale della ragione umana è la credenza nella universalità del pensiero concettuale, che de-finisce l’Essere dal Nulla, decidendo ciò che della creazione sia da apprezzare degno di esistenza da ciò che la logica umana rinnega come in-esistente al suo discorso. La rivelazione cristiana smentisce appunto la pretesa verità del Logos, l’idolum tribus della civiltà antica, capace solo di formare la società politica, pensata come il dominio 867

A. Nygren, EA, pag. 63.

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di alcuni, detentori della sapienza, sui molti ignari. Ma senza la conoscenza dell’amore, ogni sapienza è stoltezza, che crede universale l’ordinamento puramente naturale. Il messaggio cristiano rivela l’unica vera legge universale, quella spirituale dell’amore, non retta della necessità (), che è dominio del Sé ( ), ma dalla libertà che è dono di sé (). Il  dell’Amore non è l’ordine della città (), ma la salvezza () dell’anima. L’uomo è messo di fronte a questa scelta, che non è etica ma esistenziale, poiché la salvezza non è fatta di singoli atti di volontà, ma è una storia spirituale che involge le segrete intenzioni morali dell’uomo, che non appaiono evidenti nel manifestarsi della volontà. Perciò nessuna giustizia umana può raggiungerle, ma solo nel rapporto con Dio esse possono avere il loro recondito significato, inaccessibile alla ragione dialettica umana, atta a sceverare il grano dall’oglio ma inetta a comprendere il Tutto, che di ogni uomo è la persona. Il criterio di valore cristiano è l’agape, non la ragione.868 Ciò vuol dire che l’amore spirituale non è realizzabile in conformità a un modello razionale, non è, cioè, un’opera della ragion pratica programmabile e dunque riproducibile. Esso è un sentimento che intenziona l’attività secondo un principio trascendente che non è dovuto a un calcolo o a un ragionamento umano, ma che ha l’unico scopo morale di servire Dio attraverso l’amore delle Sue creature. L’amore, pertanto, richiede per la sua esistenza la presenza dell’Altro, che è quella di Dio in noi e del prossimo fuori di noi. Se per amore si riesce a identificare Dio nell’altro, si compie la Sua volontà.La imprescindibile presenza dell’Altro fa dunque dell’amore un atteggiamento poietico, che crea le condizioni di una coesistenza umana senza dominio, ma inclusiva, e perciò alternativa a quella politica, fondata sulla logica dialettica esclusiva dell’altro. Se la pratica può rispecchiare un modello ideale, la creazione poietica ha per movente la sola libertà, che è il mistero intenzionale nascosto dietro ogni atto di volontà. In tal senso, l’atto creativo d’amore è, nella sua libertà, un dono; il dono di sé che si svela all’altro. La relazione agapica crea le condizioni per cui l’altro è come il sé; ma non nel senso della omologia razionale, ma in quello della 868

“L’amore cristiano si distingue nettamente dall’amore umano. Ciò che gli conferisce il suo carattere specifico è appunto il fatto che esso riceve la sua struttura dall’amore di Dio. non esiste pertanto nessun amore cristiano che non sia determinato dall’agape quale l’incontriamo nella comunione con Dio”: A. Nygren, EA, pag. 71.

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similitudine spirituale, ossia della co-appartenenza alla stessa origine divina. Questa origine deve costituire dunque la condizione fondamentale per l’attività spirituale, nel senso che l’amore si fonda sulla fede in Cristo, è un amore religioso. Poiché la relazione con gli altri è fondata sulla relazione con Dio, la prima dipende dalla seconda. Infatti, senza rapporto a Dio, non vi è amore in senso cristiano, ma manifestazioni dell’Eros. E dal omento che la relazione con Dio non dipende dall’ascolto umano, ma dalla libera risposta divina, ed essendo questa imponderabile e imprevedibile nella sua gratuità, non si può costruire una relazione spirituale razionalmente pianificata. Diversamente dall’esercizio pratico, l’atteggiamento agapico non dipende da un principio speculativo o dianoetico, come ad es. la prassi del medico dalla scienza medica,869 ma consiste nella relazione stessa, in quel  che si realizza per la sola disposizione d’animo () delle parti. Ciò implica due aspetti: il primo, che la relazione agapica è una prassi che, diversamente dall’attività etica, non si conforma a principi razionali, come l’  aristotelica, che è azione conforme a ragione, 870 e come tale necessaria. Infatti, solo il contenuto della conoscenza razionale o scientifica “non può essere diversamente da ciò che è ”,871 laddove l’evento agapico è libero di manifestarsi in quanto dono spontaneo del sentimento, non calcolo dell’intelletto. Il secondo aspetto è che, per la sua inderivabilità, la relazione agapica è una esperienza esistenziale in sé compiuta, ossia si compie col suo stesso manifestarsi, sicché nel suo svolgimento non c’è distinzione temporale ma solo durata. Per il primo aspetto, l’agape non implica la saggezza (), e dunque è potenzialmente cattolica; per il secondo aspetto essa è un evento escatologico. L’atto d’amore, realizzando l’unità spirituale tra gli uomini attraverso la comunione con Dio, non necessita per la sua perfezione di una mediazione istituzionale, ossia di un apparato legale e coercitivo, e inoltre la sua perfezione non è la moderazione ( ), né il suo scopo virtuoso la giustizia (), in quanto la qualità dell’ intenzione () non deriva dall’essere una virtù dianoetica, ma sussiste nel suo rivelarsi all’Altro, ossia di costituirsi come un evento (Ereignis). Accogliendo l’idea che “l’agape è il motivo fondamentale del Cristianesimo, cioè il 869

Aristotile, De anima, III, 10, 433 a 4-8. Aristotile, Etica a Nicomaco, I, 7, 1097 b-1098 a. 871 Ivi, VI, 3, 1139 b 21. 870

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motivo che conferisce a tutto il pensiero cristiano la sua originalità”, 872 dobbiamo ammettere che l’evento cristico, paradigma ispiratore dell’atteggiamento agapico, costituisca l’evento centrale fondativo del modo spirituale di coesistenza umana alternativo a quello politico fondato sulla ragione naturale. Se il motivo ispiratore della virtù politica razionalistica è la Giustizia, quale equa corrispondenza tra meriti personali e attribuzioni sociali, l’ consiste nel riconoscimento della formale dis-uguaglianza dell’uomo saggio () dalla massa degli , privi di virtù dianoetiche, e quindi giustamente subordinati all’Altro. Nel rapporto agapico, di contro, non conta il credito sociale né rilevano le qualità intellettuali delle parti, poiché il riferimento alla trascendenza divina stabilisce un piano di parità creaturale tra le parti, ugualmente colpevoli davanti a Dio, la loro difformità è superata dalla reciproca remissione dei peccati. Sicché in luogo della Giustizia retributiva, fondata sulla universale legge razionale, abbiamo il Perdono, fondato sulla Grazia, rapporto elettivo e gratuito dell’uomo con Dio (, II Cor 13, 11) fonte di “riconciliazione del mondo con sé in Cristo” (II Cor. 5, 18 sgg). Perdonare è rimettere i peccati, ossia abbandonarli al passato, al tempo naturale. L’obbedienza del seguace di Cristo è ben diversa da quella del servo politico, poiché se nel rapporto ispirato dalla conoscenza dianoetica è possibile astrattamente scindere in due l’anima razionale, distinguendo una scienza teoretica da una prudentia applicativa, nella relazione spirituale vi è coincidenza tra dire e fare, sentire e mostrare, essendo l’agape un poiein, che si manifesta come  spirituale, la cui intesa non è razionale ma intuitiva, e dunque non comunicabile né normativizzabile, cioè insegnabile e rappresentabile come modello ideale. La natura escatologica dell’evento agapico fa sì che esso non sia rappresentabile come rapporto di un soggetto con l’oggetto. La storia dell’uomo spirituale è una storia spirituale, che ha durata personale e non tempo diacronico, oggettivo. La storia spirituale non è oggettivabile, e dunque non rappresentabile in altro modo che non sia il suo evento. È racconto puro, ossia linguaggio creativo, una poiesis non trasponibile in un logos. Ed è questa intraducibilità logica la follia della fede per il filosofo, che non può trattare l’evento spirituale come un mythos, e fare quindi della storia spirituale una mito-logia, la cui 872

A. Nygren, EA, pag. 86.

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rappresentazione analogica prenda il posto dell’evento originale. Il poiein agapico è il fare l’amore di una relazione biunivoca, del tutto simile all’evangelico “fare la verità”. Non una verità teoretica, attività del , ma una  che coinvolge entrambe le parti. Nel processo dialettico del Logos, l’un termine negherà l’altro, ovvero lo asservirà nel dominio politico, in fine al quale rimane il solo Soggetto. Nella relazione agapico, invece, l’Altro è sempre presente a entrambe le parti, in quanto per entrambe è trascendente. Se per ognuno l’Altro è Dio, l’altro empirico che lo richiama non può essere soverchiato e negato. Se la mediazione istituzionale può essere umanamente perfettibile in quanto imperfetta, il Mediatore non può essere giudicato dalla ragione umana e fatto oggetto di pensiero, e non perché onto-logicamente perfetto, ma perché trascendente ogni rappresentazione razionale, e quindi non linguisticamente o praticamente manipolabile: Egli semplicemente e totalmente si manifesta. La manifestazione dell’Essere è il Suo farsi narrazione (), apoteosi del Verbum che si relaziona alla parola umana come l’Origine col tempo. In questa relazione avviene l’ quale storia spirituale, in cui la domanda non è disgiunta dalla risposta, che non è mai errata, perché coincidente con la domanda di Dio. Se Dio non risponde, non vi è amore, e dunque nessuna domanda d’amore. La relazione agapica deve presupporre la presenza incombente di Dio, che nessuna delle parti può appellare a sé in quanto ognuno, amando, ama l’Altro come () Dio ama ognuno che L’ascolta. Nell’agape è Dio che ama (I Gv. 4, 19), cioè vive, in noi (Gal. 2, 20). Questa  spirituale fa la  cristiana. Il  evangelico non è una finzione logica o una analogia rappresentativa ma la imitatio spirituale di un paradigma esistenziale, quello del Cristo, parola umana del Verbo divino. La Sua vita è verità vissuta, Logos vivente. Vivere l’amore equivale a credere nel paradigma di santità, confidare nella Sua presenza, aver fede ( ) in Lui. Dio è il Verbo, fondamento archetipo che si manifesta nel tempo come Logos Christos, la parola della Verità; che non è parola logica in senso del razionalismo greco, poiché l’essenza divina non è il Bene ideale che produce una morale razionale, ma è Agape che si manifesta come poiesis spirituale, esistenza vissuta nell’amore. Col Cristianesimo non vi è più il principio gnostico del Soggetto trascendentale autore del suo oggetto su

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cui si diparte e a cui giunge ogni pensiero, referente di ogni posizione ontologico, ma “il centro di gravità si è spostato dall’Io al Cristo”.873 Questa dislocazione comporta una visione del mondo che, dall’esperienza pratica dell’organizzazione razionale dell’attività materiale dell’uomo volta a soddisfare i suoi bisogni di sopravvivenza, è volta alla coltivazione spirituale dell’invisibile. La sapienza greca più sensibile al tema spirituale, quella della tradizione pitagorico-platonica, muoveva dalla sensibilità per ascendere gradualmente alla beatitudine divina. Lo stadio apicale del processo spirituale, quello noetico, segna un distacco del pensiero dalla realtà naturale, la cui mera esistenza non lascia cogliere la vera realtà del mondo, che è ideale, e cioè razionale. La gnosi idealistica stabilisce una dualità, tra mondo sensibile e rappresentazione ideale, tra etica e piacere, tra bellezza formale ed espressione estetica, che stabilisce “il principio di una scienza di ciò che esiste come qualcosa di indipendente” dalla realtà in cui l’uomo, che pure è l’origine del pensiero del mondo, è situato. L’antinomia tra concezione ideale della realtà, e relazione di tale realtà con l’esistenza umana, è propria di ogni visione metafisica idealistica.874 Più in generale, secondo Dilthey, ogni visione del mondo nasce dalla vita, che costituisce di essa “la radice ultima”. 875 . Ora, il fondamento della visione cristiana non è, come lo stesso Dilthey riteneva, la “coscienza della trascendenza della volontà religiosa”, 876 poiché ogni sentimento religioso si fonda su una tale coscienza. La peculiarità della cultura religiosa cristiana è che la trascendenza è essa posta alla radice della visione del mondo, sicché la fede del cristiano consiste nell’intuire che oltre la visione () del mondo fenomenico, esiste la verità spirituale, e cioè che il credente è colui che nel Gesù carnale intra-vede il Cristo pneumatico, invisibile ai sensi e iper-umano. In questo senso, per Clemente “la filosofia greca non coglie la totalità della verità”,877 in quanto si ferma alla visione del mondo naturale, rappresentata appunto come Idea della natura. L’Idea razionale non rappresenta la realtà spirituale, e perciò è imperfetta e parziale. Senza la 873

A. Nygren, EA, pag. 108. Ved. W. Dilthey, Weltanschaungslehre, tr. it., Napoli, 1998, pagg. 59 e 133-134. 875 Ivi, pag. 173 876 Ivi, pag. 142. 877 Clemente Alessandrino, Stromati, I 16, 80; ved. M. Simonetti, Cristianesimo antico e cultura greca, Roma, 20103, pag. 51 passim. 874

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dimensione trascendenza, dunque, la “vita”, il Lebenswelt, rimane come sospesa a se stessa, non fondata. Ma la fondazione del mondo della vita non è, per il cristiano, un semplice atto di volontà, ossia una causa () produttrice di effetti conseguenti e perciò prevedibili, ma un atto d’amore gratuito e del tutto libero da parte di Dio creatore. La certezza del mondo fenomenico, sulla quale si fonda la credibilità della sua rappresentazione scientifica, è quella, non della realtà storica dell’uomo Gesù, ma della Incarnazione del Cristo, che costituisce una totalità personale inconsutile, non divisibile in attività teoretica e vita pratica. Nella considerazione cristiana della realtà l’antinomia propria di ogni visione metafisica non può sussistere, in quanto la vita della persona umana, di ogni persona, non è separabile dalla sua identità spirituale, che coincide con il suo vissuto. L’aspetto totale della personalità in senso cristiano è nella sua storicità, ossia nel suo svolgimento nel tempo. La vita dell’uomo, così come quella della natura, non è fatta di momenti, ognuno dei quali è significativo in sé come oggetto di giudizio razionale, ma è una storia che si svolge e ha significato in quello svolgimento. Rispetto alle vicende naturali, che acquistano il loro significato terreno in relazione all’uomo, quelle umane delineano invece una storia che si dipana come relazione tra l’uomo e Dio. il semplice riferimento alla natura è dunque parziale e insufficiente a conoscere il senso delle vicende umane, che è appunto trascendente. L’opera precipua della gnosi razionalistica è stata quella di fondare il senso della realtà sulla relazione di ragione tra uomo e natura. Per il pensiero greco, l’autonomia della ragione da ogni fondamento trascendente ha fatto dell’orizzonte umano la stessa natura dell’uomo, sicché ciò che era il rapporto tra l’uomo e l’altro dall’uomo è diventato un rapporto tra uomo e uomo, un orizzonte politico intrascendibile. Il sentimento che muove la volontà di un siffatto ideale antropologico è l’Eros, un crogiuolo sentimentale di mancanza divina e di pienezza umana. Per il Cristianesimo dei primi secoli si trattò di conciliare l’attesa escatologica con le forme culturali pagane, che acquistarono maggiore rilievo in progressione inversa al “declino della sensibilità escatologica”.878 Non di meno, la questione della contaminazione culturale delle originarie forme semitiche in quelle ellenistiche era intimamente legata alla possibilità di diffusione della Parola evangelica in termini razionalmente significativi, ossia secondo modalità di pensiero 878

M. Simonetti, Op. cit., pag. 7.

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funzionali a una rappresentazione del mondo sostanzialmente naturalistica, e dunque inevitabilmente imperfetta rispetto alla visione cristiana della verità totale. Le antiche soteriologie offrivano risposte al bisogno di redenzione sentito dalle culture sensibili alla pietà orfica e misterica, ma erano sempre circoscritte a una dialettica di forze opposte, indicanti una natura umana in lotta con l’altra. “L’idea della duplice natura umana, dell’origine e della qualità divine dell’anima, della sua liberazione dal mondo sensibile, nonché della sua ascesa alla patria divina originaria, è la base comune su cui poggia la concezione dell’eros”,879 che spazia dalle teorie, come quella platonica, del corpo gabbia dell’anima, alle vie mistiche ed estatiche. Il motivo misterico costante è quello di far emergere l’anima divina e immortale dal temporaneo rivestimento sensibile, caduco e precario. La sua relativa gnosi era finalizzata alla conoscenza della natura trascendente la condizione naturale, e in questa istanza le risposte religiose e quelle filosofiche s’incontrano e concorrono per offrire una visione della vita in cui l’esperienza della morte sveli il suo mistero. È ovvio che tali risposte si basino sulla giustificazione della vita rispetto alla presenza incalzante della morte, ossia sulla necessità che l’Essere sia anziché il Nulla. Combattere la morte equivaleva a offrire ragioni alla vita, ossia alla scelta etica della sua preferenza alla morte. Il Cristianesimo, di contro, non pone l’Essere a fondamento di una ontologia razionale, il cui sviluppo presuppone la decisione originaria a favore del vivente, ma pone il Mistero dal quale ogni essere origina, e dunque fonda il suo sapere del mondo, non su un metodo di ricerca – la dialettica - di ciò che si presuppone essere, e dunque sia necessario confermare razionalmente, ma su una potenza creativa che non si rivela se non come amore, libero da ogni necessità razionale, e perciò mysteriosa. È ovvio che ogni prodotto della potenza divina sia esso stesso misterioso, in quanto partecipe di quella natura originaria, rispetto alla quale ogni determinazione razionale che cerchi di giustificarla, appare imperfetta e non penetrare la volontà imponderabile di Dio. La compiutezza escatologica si manifesta perciò quando il Mystero divino si manifesta come segno nel tempo. E dal momento che i segni del Mystero riconducono al Mystero stesso, essi non possono essere razionali ma appunto misteriosi, poiché l’interpretazione razionale di quei segni ne snaturerebbe il significato trascendente, riconducendoli là dove ogni 879

A. Nygren, EA, pag. 139.

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segno razionale necessariamente conduce, ossia al fondamento in virtù del quale essi sono comprensibili; a quell’Essere ontologicamente pensato come principio di ogni realtà significativa. Con la trasposizione del senso escatologico nel senso razionale della fede cristiana, ciò che è venuta meno con la dottrina della fede è stato esattamente il sentimento di mistero che avvolge la Verità originaria, ossia lo stesso Mystero di Dio, che è Dio. E pertanto, il Logos divino della fede cristiana è il Mystero, che nel tempo si è incarnato nel Cristo. La Verità di Cristo è il suo Mystero, il quale, rispetto alla rappresentazione dualistica della soteriologia pagana, consiste nella Sua totalità esistenziale, cioè nella Sua totale presenza al mondo come essere umano e divino. La totalità della Verità del Mystero di Dio è costituita dalla divinoumanità di Cristo, il Quale non è né l’immagine e neppure la figura dell’archetipo di un Mito, ma è una persona esistente, che ha una storia, coincidente con la Storia eterna dell’uomo, essendo il paradigma di ogni storia umana. Si comprende bene, quindi, come la natura eterna del Mystero divino presente in ogni storia umana, non potesse essere rappresentata da un universale logico, ossia con una astrazione concettuale, la cui validità formale presupponeva l’astrazione da ogni singolarità individuale, ossia dalla rimozione logica di quella concretezza esistenziale che invece era la destinataria e la depositaria della Verità evangelica. In tal senso, il Mystero cristiano era il contrario del Logos della metafisica greca. Come poteva dunque la forma razionale greca rappresentare il contenuto del Mystero divino? Come poteva la conoscenza parziale pensare la Verità totale? L’introduzione al Mystero trascendente, che in senso cristiano avveniva attraverso la relazione agapica, cioè la partecipazione dell’Altro alla koinonìa ecclesiale, era un processo soteriologico contrario al procedimento dialettico, logicamente esclusivo dell’opposto, introdotto da Platone. Ma questo procedimento esclusivo poteva determinarsi come metodo di conoscenza solo sul presupposto che la forma della realtà fenomenica potesse distinguersi dai suoi contenuti essenziali, gli unici razionalmente conoscibili, sicché la realtà vera non era questo mondo apparente ma quello ideale eterno. Col Cristianesimo, invece, il mondo dell’uomo era lo stesso mondo divino, non solo in quanto creato da Dio, ma perché abitato da Cristo, la cui esperienza di vita temporale ha inciso come Verità eterna in ogni uomo di ogni tempo. In tal senso, la storia dell’umanità non poteva essere rappresentata come vicenda antropologica di un essere naturale dotato di ragione, cioè come percorso della specie 403


umana, ma come la stessa storia spirituale di Dio fattosi uomo. L’uomo cristiano è l’oltre-uomo rispetto alla rappresentazione antropica naturalistica. Conformemente alle sue premesse metodologiche, il razionalismo ha rappresentato la storia umana come forma razionale dei molteplici contenuti esistenziali, astratti dalla loro transeunte singolarità, cioè dagli uomini stessi, pensando la singolarità come l’elemento caduco da escludere come il negativo accidentale rispetto all’essenziale positivo del concetto, mentre sulla persona il Cristianesimo ha fondato il fine stesso della vita. E’ chiaro che la Weltanschauung cristiana, rappresentata in termini metafisici, riproduce quella antinomia tra esistenza umana concreta e astratta religiosità che induce la filosofia a considerare il fondamento mysterioso della fede come una sopravvivenza mitica rispetto alla pura dottrina theo-logica, che fa del Logos lo stesso Verbo di Dio, e dunque della scienza umana lo stesso pensiero divino. Il Verbo di Dio è Amore, non Logos razionale, sicché ogni evento temporale trova il suo significato in relazione al fondamento originario. Non vi è alcun principio razionale nel cosmo cristiano, sicché non vi è alcuna soluzione razionale al dramma esistenziale dell’uomo poiché in esso si consuma lo stesso mystero divino, quello della Croce, in cui la morte, segno del tempo finito, diventa vita eterna. Ogni fede nella possibilità dell’uomo di risolvere il Mystero eterno in formula razionale è solo vana superstizione di chi, pur avendo il fuoco della sapienza in mano, ha smarrito la via della salvezza. Questo il senso delle parole di Paolo, per cui non vi è speranza né fede senza carità. Per i cristiani, la charitas è l’anelito a trascendere la propria finitezza naturale, protendendosi verso l’amore dell’Altro, anziché nella tensione erotica verso l’Ideale perduto e di cui l’anima, secondo il Fedro, ha conservato memoria (). L’Eros platonico è “aspirazione a partecipare alla vita divina” e “corrisponde nel mondo elle anime a ciò che è la forza di gravità nel mondo materiale”.880 Essa è forza cosmica, non spirituale in senso cristiano, poiché la sua necessità non implica una dedizione volontaria e libera, e perciò rimane indeterminata 881 come una categoria senza oggetto e una intenzione senza volontà. Perché la tensione odeporica si appaghi, qualunque segno mondano che la richiami può servire alla bisogna, così che essa non ha destinazione finale ma coincide con la stessa ascensione verso il modello ideale richiamato dal simbolo 880 881

A. Nygren, EA, pag. 139. Ved. Platone, Convito, 201 b.

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fisico, il cui possesso appaga la penìa erotica insita nella sua essenza contraddittoria. La dialettica platonica è la tensione erotica drammatizzata in ricerca logica dell’essere ideale. L’Agape cristiana, invece, ha origine e fine in Dio, che non è un modello ideale ma una realtà personale di cui ogni uomo è deposito vivente, perché la contiene come libertà spirituale di trascendere la propria finitezza, negando l’egoismo naturale a favore della considerazione dell’Altro, che per la fede è il Cristo mediatore divino e per il mondo è l’estraneo, che la ragione intende come opposto, da escludere da sé come niente. L’amore platonico è volto al possesso del valore simbolico, che occorre conoscere: da qui la ricerca razionale, che esclude ogni desiderio spontaneo, che muta con la qualità del suo oggetto. 882 Ciò significa che l’Eros platonico è uno strumento, che si determina come tecnica dialettica, per raggiungere la condizione divina. Non vi è relazione tra l’uomo e il valore superno, che rimane immoto nella sua compiuta idealità. Ciò condiziona anche il rapporto con gli dèi, la cui unica relazione che hanno con l’amore umano è di “esserne l’oggetto […] ma l’amore come atto e movimento avviene esclusivamente da parte degli uomini”, senza la partecipazione dell’Altro, ambito e venerato ma mai raggiunto. In questo senso, “l’eros è la via per la quale l’uomo ascende al divino, non la via per la quale il divino si abbassa fino all’uomo”. 883 La via ascensionale dell’eros è la dialettica, la cui meta esclusiva è il precetto dell’etica razionale, che insegna ad affermare la necessità metafisica dell’Essere e di negare il Nulla. Essendo però questo Essere un ideale, contrapposto al reale sensibile, la via erotica per giungervi è “una forma di fuga dal mondo”; 884 da qui l’insoddisfazione per lo stesso possesso dei simboli degli eterni valori, che li evocano e vi partecipano ma che non sono Idee. Sicché la ragione che ambisce conseguire l’ideale, è questo che vede nei signa che lo richiamano, ma non ciò che li incarnano, ossia la realtà concreta degli enti sensibili, inevitabilmente imperfetti rispetto al modello ideale-razionale per cui essi valgono. Non riuscendo ad appagare il bisogno del trascendente, l’anima alimenta la sua tensione rafforzando la volontà di possesso, il desiderio degli 882

A. Nygren, EA, pag. 151. Ivi, pag. 152. 884 Ivi, pag. 153. 883

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oggetti simbolo di valore, e in questa attività bramosa la coscienza si vede protagonista di questo processo voluttuoso, in cui la brama ideale si confonde con la potenza conquistatrice del valido reale. L’autore di questo processo è l’Ego, in cui si identifica il valore da conseguire con la tecnica per conseguirlo. Il razionalismo è il sistema di pensiero dell’egoismo erotico. È chiaro che il valore che la ragione erotica persegue è la conferma universale dell’Essere, ossia la sua eternità, esclusiva di ogni minaccia negatrice, e dunque la sconfitta definitiva della morte che insidia l’esistenza di ogni cosa. Ciò che è la morte per l’essere vivente, è la finitezza per l’Essere naturale. La risposta filosofica al  della finitezza è l’ascensione alla dimensione immortale delle Idee,885 il cui luogo metafisico è il linguaggio razionale, la logica dialettica quale strumento divino. Con Aristotile l’Eros diventa dinamica universale, forza cosmica che consente il movimento della materia verso il suo télos ( ), che è anche la sua causa efficiente. L’Eros di cui tratta Aristotile non è altro che l’Intelligenza cosmica di Platone intesa come l’attività demiurgica che è causa di tutto ciò che diviene. 886 Centrale è dunque l’attività erotica quale legge della universale della quale è attore il Demiurgo. L’Intelligenza, ossia la gnosi razionale, è il Logos erotico che muove il cosmo, ed esso è il Bene etico, il principio razionale dell’azione giusta, “la suprema regola” alla quale alla quale  deve attenersi per produrre il Bene. Tale Bene metafisico consiste nello affermare la decisione ontologica per cui l’Essere è da preferire al Nulla, la cui verità è una posizione di fede. Senza la premessa ontologica, la stessa attività dell’Intelligenza non potrebbe svolgersi come opera etica di razionalizzazione del mondo, ossia nella reductio ad Unum in cui il movimento erotico consiste.887

885

A. Nygren, EA, pag. 155. Ved. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, cit., pagg. 693 sgg. 887 “Parmenide ha introdotto nel pensiero greco la concezione secondo cui l’Intelligenza è possibile solo se ha l’essere come suo fondamento, e se si esprime nell’essere e per l’essere. Dunque, anche una Intelligenza suprema, proprio in quanto intelligenza, per il Greco non produce il proprio fondamento, ma lo presuppone. E proprio in questo senso, anche per Platone l’Intelligenza suprema implica come suo fondamento il Bene (e in generale l’essere delle Idee e i Principi primi e supremi”: G. Reale, Loc. cit., pag. 697. 886

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Il principio ontologico da cui muove l’attività erotica secondo Platone è l’Essere in-determinato che, rispetto all’ente determinato, costituisce il pone negativo interno allo stesso orizzonte ontologico,che nel Sofista è indicato come “diverso” (), ossia come possibile. “Dunque, il passare dal non-essere all’essere è un passare da una realtà informe ad una strutturazione di questa in funzione del modello di ciò che sempre è”.888 Ma il modello ideale è la posizione onto-logica che assume per fede che l’Essere in senso razionale sia fondamento universale e Principio causale () di ogni determinazione ontica. L’Essere eterno, che non diviene, è pensato come eterno, in quanto ideale, ossia in quanto presupposto dialettico funzionale al movimento del Logos erotico. E’ ovvio che, nella prospettiva naturalistica in cui si muove Aristotile, il principio ideale, in quanto presupposto metodico, può essere rimosso in una alterità assoluta che non ha alcuna incidenza veritativa né metodologica sul processo dinamico dell’attività erotica di determinazione razionale dell’informe. Ed è altrettanto chiaro che, una volta affermata l’identità della dynamis dell’Eros cosmico con il processo metodico del Logos, ossia con la dialettica razionale, la questione del “passaggio” dal non-essere originario all’essere determinato viene liberato di tutta la trama metafisica degli e dei in cui l’aveva rivestito Platone, e che Aristotile considera narrazione mitica di artefacta psichico-matematici non naturali.889 Con Aristotile, dunque, l’Eros platonico diviene dinamica del Logos universale, come la legge cosmica degli stoici. Tale riduzione della dinamica erotica a legislazione metodica universale avviene rimuovendo dal processo determinativo della realtà ontica il Principio indeterminato, custode delle opposizioni, e quindi della possibilità della co-esistenza del diverso, che la dialettica, diventata tecnica esclusiva al servizio della posizione tetica del Bene etico come postulato ontologico, non può ammettere per consegna metodologica. Ciò comporta che la differenza metafisica sostenuta dal dualismo platonico venga soppiantata da una visione monistica di tipo gerarchico “in cui ciò che è inferiore tende a ciò che è superiore e l’intero processo si muove verso la sua meta, il Divino, il quale, immobile di per sé, esercita la sua forza di attrazione su quanto gli è inferiore”.890 Ma il divino aristotelico, in quanto mero anelito, è più 888

Ivi, pag. 699. Ved. G. Reale, Loc. cit., pagg. 700 e 706. 890 A. Nygren, EA, pag. 160. 889

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simile a una fonte energetica naturale che a un dio, che Platone intende come “desiderio” e Aristotile come “benevolenza”, ma che comunque rimane al di là di ciò-che-è, quale fondamento dogmatico di fede ontologica, e come tale “principio non dimostrabile e non confutabile, e perciò la ragion d’essere della dimostrazione e quindi la premessa necessaria donde si concatenano tutti i passaggi della dimostrazione”, e quale causa esso è “il perché () di ciò che vien ricercato, onde sillogismo scientifico e struttura della realtà coincidono”.891 Se il Demiurgo di Platone “era buono” e volenteroso, 892 divino per Aristotile è la dynamis che movimenta il cosmo, cioè l’intelligenza erotica che, essendo razionale, fa di esso un cosmo noetico, la cui causa e principio è Dio.893 Il divino dunque è il Bene inteso in senso ideale, ossia il suo concetto razionale, che diventa metron del comportamento divino (). Il dio platonico che è “misura di tutte le cose” ( )894in Aristotile è lo stesso metron divinizzato, quell’Uno metafisico a cui deve pervenire ogni cosa molteplice. E pertanto, la legge cosmica che l’uomo deve secondare è di uniformarsi a Dio, alla legge divina, ossia “portare l’unità nella molteplicità e in questo modo fare ordine e produrre armonia in tutte le cose che dipendono dall’uomo, ossia nell’etica, nella politica (nella vita privata e pubblica), oltre che in tutte le opere tecniche ed artistiche”.895 La legge cosmica suppostamente divina non avrebbe bisogno di alcuna consegna etica alla  se fosse universalmente vigente, ossia necessariamente cogente. Ma se essa richiede la conformità dell’uomo, significa o che questi è libero di non uniformarsi, ovvero che la supposta volontà divina non sia punto una legge ma soltanto una possibilità, per cui tanto l’Essere che il Logos non siano che alternativi possibili al Nulla e al kaos. La metafisica greca (e quindi cristiana), muovendo dal Principio ontologico che l’Essere sia l’universale razionale e tutto ciò che non è a esso omologo è niente, concepisce il divenire del mondo come prodotto spontaneo della dynamis dell’Essere, e imperfetto, giustificando tautologicamente il movimento con la imperfezione ontica e questa con quello. Ma quale demiurgo creerebbe per amore una creatura imperfetta? 891

F. Adorno, La filosofia antica, cit., vol. I, pag. 288. Platone, Timeo, 29 e 1-3. 893 Aristotile, Metafisica, A 2, 983, 8-9. 894 Platone, Leggi, IV, 716 c 4. 895 G. Reale, Loc. cit., pag. 712. 892

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E quale artefice un’opera difettosa? Ciò comporterebbe che il demiurgo sarebbe esso stesso imperfetto, ovvero non tanto amorevole. Ma potrebbe anche significare che l’ordine cosmico, interpretato umanamente come ordine razionale, non corrisponda alla rappresentazione che ne ha fatto la ragione umana, i cui modelli ontologici riflettono soltanto le modalità razionali della sua comprensione; ossia che la Dartellung della metafisica greca sia solo una Weltanschauung, una ipotesi di realtà fondata su una credenza ontologica: che l’Essere sia Tutto e la sua conoscenza sia logica. Questa credenza ontologica, producendo una metafisica religiosa, fa della condotta razionale un atto di fede, e dunque una consegna etica che costituisca la misura () esistenziale e istituzionale della vita umana, privata e pubblica, individuale e sociale, teoretica e pratica. La visione ontologica, in quanto decisione metafisica per l’Essere anziché il Nulla, produce una legge deontologica regolatrice e interprete dei fenomeni naturali e umani. L’antinomia tra il modello ideale di cosmo e il prodotto dell’uomo, fa del mondo umano una realtà imperfetta, abbisognevole di correzione e di interventi razionalizzatrici finalizzati alla salvezza dell’umanità. La soteriologia greca era orientata all’esistenza sociale dell’uomo e dunque alla sua condizione politica; era pertanto una sociologia politica di carattere religioso: una religione politica. La visione ontologica, però, acquistando attraverso la filosofia una valenza universale, diventa una metafisica religiosa che in Plotino trova l’interprete più maturo di quello che Heinemann chiamò lo “schema alessandrino del mondo”, caratterizzato dalla “opposizione tra Dio e la materia che esso presuppone” e dal “tentativo di porre in relazione questi due poli introducendo fra di loro una serie di esseri intermedi”.896 Lo “schema alessandrino”, che sarà la base della costruzione teorica della Summa Theologica di Tommaso, rispetto alla metessi platonica e al metron aristotelico, insiste molto sulla relazione tra l’anima e le idee, ossia sulla questione per cui le cose derivano dall’Uno e tornano all’Uno.897 Si chiami Eros, o Emanazione o Agape, posta la realtà trascendente il mondo sensibile, sorge la questione della loro relazione. Non costituendo più il contesto sociale, con il retaggio delle sue tradizioni mitologiche e cosmologiche, il referente normativo della vita umana, ma intervenendo al suo posto la impersonale e oggettiva misura razionale, il divario tra normazione ideale e condotta 896 897

F. Heinemann, Plotin (1921), cit. da A. Nygren, EA, pag. 162. Ivi, pag. 163.

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individuale, e tra questa e la legislazione sociale, diventano una questione metafisica, poiché l’accreditamento fideistico dell’ontologia idealistica come modello eudemonistico implica il sapere come condizione del potere, ossia la retta conoscenza per la giusta prassi. Il primato del  nasceva in conseguenza di questa relazione tra realtà superna e mondo inferiore, la quale relazione era inscritta nel compito stesso dell’uomo quale essere di ragione, e come tale attratto dal fondamento spirituale da cui emana la sua anima divina. Il modello ideale platonico rappresentava, per un verso, una unità sostanziale concettualmente oggettivata in valore metafisico, tale che il Bene o il Bello fossero indicativi nominali di una essenza comune () alle analoghe cose molteplici, e per l’altro verso rappresentava un modello normativo di tutte le cose omologhe. Il passaggio dal senso nominale e indicativo al senso normativo e ottativo delle Idee è conseguenza della assunzione del metodo (dialettico come tecnica) razionale, ossia della funzione tecnica del linguaggio formalizzato e portatore di senso. Acquisita la filosofia come linguaggio del sapere, il metodo logico del filosofare diventa il linguaggio della struttura ontologica, per cui la sintassi metafisica acquista valore di codice naturale universale. Ciò ha comportato che i motivi logici di un sistema metafisico esaurissero i motivi razionali dei processi reali in divenire. La distanza tra i due orizzonti, quello idealistico normativo e quello empirico del mondodella-vita, era la stessa tra un progetto intenzionale di razionalizzazione del mondo sul fondamento della intelligibilità delle sue essenze, e una verifica razionale della struttura dell’esistente. Nel primo caso, la comprensione della realtà presuppone le forme ideali della sua conoscenza, il cui oggetto coincide con la essenza di quella realtà. In questo caso, è la realtà che ha da coincidere con le sue forme ideali, e se non vi è identità è perché la realtà diveniente è imperfetta rispetto al suo modello ideale eterno. Nel secondo caso, l’approccio noetico alla realtà presuppone il mistero della sua essenza, ossia un processo fenomenologico incognito, non formalmente pre-determinato, ma ugualmente comprensibile in base alla connessione di senso tra segni e significati, tra i quali sta la forza del pensiero. Ma quando la forza diventa sostanza, allora protagonista teoretico diventa il nesso connettivo, la tecnica formale, la logica del discorso, a scapito dell’organizzazione dell’esistenza, il cui significato razionale è riposto nel divenire interno a ciò che è stabilito dall’uomo 410


come significativo, dall’attività significativa dell’uomo. Tale stabilità del senso significativo dell’esperienza è ciò che i Greci chiamavano , e che per il razionalismo è la scienza dell’Essere. Ma il metodo scientifico conosce l’Essere scientificamente; che tale conoscenza sia quella giusta e vera non preclude la possibilità che l’Essere sia altro dallo oggetto scientifico, e che la sua esistenza non coincida necessariamente con la sua essenza logica, non sia, cioè, creazione del pensiero universale, ma solo del pensiero attuale, che cambia in relazione all’orizzonte culturale della coscienza ermeneutica. La determinazione dell’oggetto del pensiero considerato universale è esclusiva di ogni altra possibilità cognitiva, per cui l’affermazione dell’esistenza dell’ente del giudizio logico implica la sua necessità, la quale, essendo logica, si riferisce alla stessa logicità universale. Ora, che l’ente sia necessariamente reale in quanto oggetto di pensiero universale, è una credenza che ha la stessa necessità di ogni altra legittimazione razionale del mondo. Il collegamento della necessità esistenziale alla universalità logica costituisce una relazione che è razionale all’interno dell’orizzonte di senso della coscienza metafisica, ma che non ha alcuna necessità ermeneutica esterna alla sua fondazione ontologica. Proprio l’esclusione della necessità apre noeticamente alla possibilità che l’Essere sia eteron rispetto all’ente logico, pur razionale entro l’altra correlativa posizione di senso in cui è fondativamente inscritto. Tale possibilità fa sì che l’Essere sia nell’apparenza di ciò che appare anche altro da ciò che logicamente è nel concetto. E se è uno ( ) e molti () vuol dire che originariamente è altro dal suo apparire, ossia è in origine indeterminato. L’indeterminazione originaria è quella condizione per cui ogni apparire ontico dell’Essere si manifesti come una reductio della condizione originaria, per cui la sua determinazione razionale sia nel contempo una negazione della possibilità di essere altro da ciò che manifestamente è. L’alterità dell’ente, ossia la sua negazione, è niente relativamente alla sua determinazione, ma è la possibilità originaria rispetto all’attualità ontica. In questo senso, ciò che è presente alla coscienza non è la totalità dell’Essere ma soltanto la sua manifestazione. Ma se ciò è vero, anche la temporalità dell’Essere è altra da quella dell’ente, e poiché ogni manifestazione dell’Essere come ente temporale rimanda sempre alla temporalità originaria negata dalla determinazione attuale, rispetto al presente del tempo determinato, il tempo originario è l’eterno non-essere di ciò che è. E pertanto, il tempo originario, da cui 411


proviene la temporalità presente dell’ente, è il tempo pieno dell’eternità. Ma ciò vuol dire che l’origine da cui proviene l’ente e tende, non è il Nulla privativo d’essere, ossia il vuoto d’essere, ma la pienezza dell’Essere indeterminato, che, rispetto all’ente non è l’Essere categoriale che ne determina il senso, cioè l’Idea, ma è il Tutto. Ciò comporta che il Dio di Anselmo è l’Idea di Dio, cioè il dio dei filosofi, principio causale che genera per necessità ( ) il suo oggetto ideale,898 ma non il libero Creatore ex nihilo. La possibilità negata dalla determinazione è un maius rispetto alla reductio ontica, sicché la tendenza erotica dell’ente di tornare alla sua pienezza d’Essere originaria, ossia al Nulla da cui proviene e a cui appunto tende, costituisce la dinamica di ciò che, essendo, è imperfetto rispetto all’origine verso cui è mosso dalla stessa imperfezione. Infine, tale possibilità originaria che, rispetto all’atto creatore, è libertà, ossia pienezza di Essere e tempo, non è quel Bene ideale al quale, per Plotino, “aspira ogni anima” estaticamente, pur non conoscendolo, 899 ma è il Bene totale che si è donato all’uomo spontaneamente come esistenza terrena. In questo dono divino consiste l’Agape cristiana, che, priva di ogni necessità, si manifesta all’uomo come  dell’Eterno che si incarna nel tempo e si espone alla finitezza terrena, fino a immedesimandosi con essa nella croce. Al moto ascensionale dell’Eros, che tende al divino, corrisponde simmetricamente il moto digressivo dell’amore divino che giunge liberamente all’uomo indebolito dal peccato per ricordargli la possibilità della salvezza, confutando la credenza nel destino della necessità per cui la condizione presente sarebbe l’intera condizione umana, opponendo alla necessità causale la speranza della volontaria redenzione. La risposta cristiana all’amore divino, non è la cura di sé, ma l’accoglienza di Dio e di ogni Altro. La redenzione cristiana, possibile a ognuno e non al solo filosofo, che “coltivando in se stesso la ragione” è “preferito dalla divinità” per essere ricco in ispirito,900 segna un percorso soteriologico non esclusivamente riservato al processo dialettico del Logos, riabilitando così una concezione del fondamento dell’Essere di tipo spirituale, anziché razionale, per cui la fede ( ), pur accessibile potenzialmente a tutti, implicava una svolta esistenziale ( ) ben più radicale di una 898

Platone, Timeo, 28 a. Plotino, Enneadi, I, 6, 7. Ved. A. Nygren, EA, pag. 167. 900 Aristotile, Etica Nicomachea, X, 9, 1179 a. 899

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conversione filosofica, in quanto creava una relazione debitoria con Dio, che aveva per primo manifestato all’uomo il suo amore per lui immolandosi sulla croce. La fede in Cristo significava accettare quel sacro debito come pegno remissorio di un’intera vita dedicata ad estinguerlo. La libertà dell’uomo è in questa remissione, non richiesta da Dio se non in termini di perfezionamento morale. Non, pertanto, un affinamento spirituale in vista del potere politico, ma a scopo disinteressato di salvezza morale. Cambia la destinazione dell’economia dello spirito, dal potere alla santità. Il “sovvertimento” cristiano di tutti i valori pagani è ricordato da Paolo nella I Lettera ai Corinzi, quando egli afferma che Dio ha scelto “le cose che non sono, per ridurre al niente le cose che sono” (1, 27), operando così nel senso contrario alla comune ragionevolezza, e quindi all’orizzonte ontologico giustificato dal Logos (1, 23). Perciò “tanto sotto il punto di vista etico quanto sotto quello religioso l’agape contrasta inevitabilmente con la concezione antica”.901 La concezione religiosa antica, infatti, poneva nella divinità il modello antropologico dell’uomo razionale e politico; modello al quale l’educazione spirituale del virtuoso doveva assurgere per superare le naturali inclinazioni e limitatezze. La concezione cristiana, invece, rendeva Dio disponibile a contaminarsi liberamente con la finitezza umana per portare al conforto della carne la luce dello spirito. La  divina era l’aspetto scandaloso di un atteggiamento folle, irrazionale e quindi indegno di un dio. Ma la predicazione cristiana, rompendo il nesso necessario tra ragionevolezza e dignità umana, poneva in discussione ben più di una tradizione religiosa, quasi si trattasse di un culto esotico; la visione cristiana infrangeva dalle fondamenta l’ontologia naturalistica pagana, ponendo le virtù teologali, soprattutto la agape, in alternativa alle virtù eroiche del saggio pagano, e il percorso esistenziale della fede come viatico ben diverso da quello razionalistico della filosofia. Non più, quindi, la ragione ma la pietà assumeva valore soteriologico per il cristiano, deprivando così l’intera ontologia e la sua metafisica di valore rappresentativo della Verità, che le sole Sacre Scritture rivelavano. Una Verità che scende all’uomo, elimina la funzione della ragione come strumento tecnico di ascesa al sapere divino. Non si trattava di conoscere l’essere del mondo, ma di rivelare l’esistenza delle “cose che non sono” 901

A. Nygren, EA, pag. 178.

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ritenute degne del mondo, ossia di quel negativo esistenziale che la ragione dialettica considerava niente: i poveri, i deboli, i reietti. Ma una Verità che non appare alla luce della ragione non è soltanto un paradosso, è soprattutto un Mistero. La natura misteriosa della Verità cristiana, la rende incomparabile con la finitezza umana, ossia un valore che non si pone, come la sophia antica, al culmine di un processo cognitivo al quale l’uomo può comunque assurgere, ma si staglia come una assoluta alterità metafisica, non collegabile alla finitezza umana se non per graziosa intercessione di Cristo, il Mediatore. La condizione tragica dell’uomo antico viene risolta attraverso la mediazione del linguaggio filosofico, che stabilisce un ambito di legalità razionale di tipo mondano e alternativo a quello della cosmologia arcaica. Il razionalismo consisteva appunto nell’adozione dell’orizzonte linguistico in luogo dell’orizzonte cosmologico, e all’interno di esso distinguere la affabulazione fantasiosa della rappresentazione mitica, dalla consequenzialità dialettica del discorso razionale. Se al principio della realtà la metafisica greca poneva l’Essere, e quindi la determinazione ontica del Logos, il fondamento cristiano di ogni realtà, ontica e meontica, è Dio, il cui Verbum è Agape, non Logos. Non, cioè, un Essere determinato sulla base di un criterio distinguente ed esclusivo, come appunto la logica, ma un Essere in-determinato in quanto con-prensivo anche del niente, ovvero di ciò che la ragione dialettica esclude come irrilevante o erroneo: la bontà, la carità, la povertà, l’ignoranza, che sono disvalori a petto dell’eccellenza umana del virtuismo classico, che non li considera degni di riflessione noetica, essendo la parte oscura della esistenza umana, l’ombra della luce della ragione. La ragione diventa inutile se è Dio a rivelarsi come Verità. Sminuito il potere di accesso alla Verità, l’uomo perde la sua autonomia dalla sovranità divina, e la dimora terrestre, sia pure organizzata razionalmente nella polis, perde di valore assoluto rispetto alla destinazione celeste della salvezza. Soprattutto lo strumento comunicativo con la dimensione iperuranea, il linguaggio logico, perde la sua forza cogente, in quanto sostituito dall’Agape, che è spirito in-finito, non soltanto perché di natura divina, ma anche in quanto non determinabile secondo criteri di necessità razionale, e quindi spira dove vuole, non dove logicamente deve. Se non intervenisse la fede nella intenzione benevola di Dio, e dunque l’interpretazione della Croce come prova di quella bontà, la svalutazione della ragione come strumento del linguaggio cosmico abbatterebbe ogni 414


residua barriera di speranza che l’uomo saggio ha faticosamente eretto per fronteggiare l’onnipotenza degli dèi. L’Agape infatti, non essendo disponibile alla determinazione umana, e pertanto non asservibile ai suoi bisogni vitali, sarebbe un potere sconvolgente ogni equilibrio razionale tra uomo e Dio e tra specie umana e natura. Inoltre, dipendendo da Dio la relazione dell’uomo con la Verità, la condizione umana è segnata dal mistero della compassione divina. La verità dell’Essere è l’Essere, per cui tutto ciò che si determina a partire dall’Essere torna all’Essere come il molteplice alla sua unità originaria. Questo movimento è necessario al senso dell’ente come il verbo è necessario al soggetto per qualificarne l’azione. E il senso dell’ente è già originariamente fissato nel fondamento dell’Essere. Se dunque l’Agape divina è l’origine da cui proviene il senso di ciò che per il Logos ontologico è niente, la realtà del niente non può essere nominata dalla parola del Logos se non come negazione. L’azione dell’Agape è dunque quella, non di portare all’essere ciò che è niente, ché sarebbe come fare le veci del Logos, ma di “ridurre al niente le cose che sono”, ossia di trasvalutare l’ente in funzione dell’eteron, nel senso di leggere il significato del mondo a partire dall’antitesi, e non dalla affermazione della tesi. La Parola di Cristo non confuta la logica del mondo, stabilendo una comunanza con essa, ma la svaluta come il suo elemento caduco ed effimero. Il movimento noetico operato dal kerygma è di spostare la centralità del discorso dalla parola, quale enunciato significante verso cui tende l’intenzionalità, la quale mira a un significato che, empiricamente è un crogiuolo di rappresentazioni, mentre metafisicamente è un’essenza, ma che in ogni caso è una struttura razionale che rappresenta un ideale di compiutezza,902 al verbo originario, che non contiene un ethos affermativo di potenza, derivante dal significato decisivo di senso, ma una poiesis evocativa di senso, che non ascrive alle parole alcuna determinazione significativa, ma la lascia al libero accoglimento ermeneutico di chi si predispone a suo ascolto. Ciò consente al dono divino di seminare sul terreno di ogni singola coscienza senza inibire alcun percorso cognitivo, non essendo l’Agape un precetto dottrinale ma la rivelazione di un senso recondito dell’Essere, occultato dalla posizione metafisica che lo negava. 902

Ved. N. Mouloud, Langage et structures. Essais de logique et de séméiologie (1969), tr. it., Bari, 1976, pag. 77.

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Negare “le cose che sono” significa, in senso cristiano, rivelarne l’essenza finita al cospetto dell’Eterno, e dunque smentire la loro pretesa assolutezza ontica stabilendo la relazione del finito con l’Eterno, conseguente alla loro differenza originaria; relazione che solo la fede in Cristo può rendere possibile, senza però poterla mai superare. Ciò che, in ultima istanza, la rivelazione cristiana riporta in considerazione con la riabilitazione della narrazione mitica, sia pure in chiave veritativa ma non filosofica (come invece era il dialogo platonico), è la dimensione tragica dell’esistenza umana, che la rimozione razionalistica del divino aveva escluso dal senso logico dell’Essere. La rappresentazione mitica, infatti, aveva drammatizzato la differenza originaria in un dualismo metafisico di opposti elementi in competizione, concependoli come interni allo stesso orizzonte ontologico nel quale si muoveva la vita umana, divisa da quella divina solo dalla finitezza biologica. L’unità cosmica era stata ottenuta dalla filosofia attraverso l’affermazione ontologica dell’unica realtà pensata dal Logos, la cui verità risiedeva appunto nella sua conoscibilità razionale. Era la conoscenza – e dunque il metodo logico – il criterio di realtà ontologica dell’Essere, e che dunque ne stabiliva l’identità, ossia la riduzione del reale al razionale. Col Cristianesimo, la conoscenza, e dunque il Logos filosofico, perdeva il suo demiurgico potere soteriologico, poiché la differenza metafisica che sorreggeva la dialettica del Logos non veniva più concepita come interna alla sua dynamis, ma come relazione tra la compiutezza dell’Eterno, rivelatasi nel Cristo, e la storia esistenziale dell’uomo, in viaggio verso la salvezza () escatologica. L’ipotesi razionalistica sostenuta dalla sapienza filosofica di poter conseguire la salvezza dell’uomo, ossia la sublimazione della sua ontologica finitezza, nella strutturazione razionale della vita politica, veniva rigettata dalla rivelazione cristiana come un mito, che aveva affidato alla ragione umana un potere divino che essa non poteva avere, in quanto la sua conoscenza era relativa alla dimensione finita, quella del mondo fenomenico della physis, ma non perveniva alla intellezione della realtà in-finita, quella spirituale, che comprendeva l’anima divina dell’uomo. La differenza metafisica non era dunque tra ente singolare e la sua Idea universale, poiché essa era ancora inscritta entro l’orizzonte onto-logico che la visione cristiana relativizzava riportandolo alla sua dimensione naturalistica. La differenza veniva posta tra la divina compiutezza 416


escatologica, indicata come “salvezza” () e la finitezza della condizione esistenziale dell’uomo, sospesa tragicamente tra la salvezza dal e la perdizione nel mondo. La nuova consapevolezza cristiana implicava la fede in una diversa fondazione dell’Essere e dell’esistenza umana rispetto a quella ipotizzata dalla metafisica greca, che in luogo del potere della conoscenza razionale del Logos ponesse la forza in-potente dell’Agape, che agiva in senso soteriologico nell’uomo in virtù di quella fede, che mutava metanoeticamente la visione del mondo nella prospettiva della compiutezza escatologica. Nell’ambito dell’orizzonte escatologico in cui si poneva l’esperienza della fede cristiana, la compiutezza soteriologica si manifestava, esistenzialmente, come evento di relazione tra uomo e Dio, e spiritualmente come esperienza dell’eterno, nella quale convergevano in unità mistica le distinte partizioni temporali del passato, del presente e del futuro, che la ragione finita conosce come costitutive della realtà fisica della vita umana. In quell’ambito, in cui operava la rivelazione cristica, il linguaggio comunicativo non poteva più essere logico, e volto perciò alla definizione dialettica di un postulato ontologico, che era quello della certezza sensibile, ma carismatico, teso cioè a rivelare il Verbo della compiutezza, che era quello della fede nella salvezza spirituale. L’aspetto rivelativo del linguaggio carismatico indicava il movimento adeporico del messaggio cristiano, che partiva da Dio e giungeva allo uomo. Ciò comportava che l’adozione del linguaggio umano esprimesse con mezzi finiti un contenuto trascendente, e come tale in-determinato, ma ermeneuticamente aperto a molteplici determinazioni di senso. Questa possibilità adottiva del linguaggio umano per una comunicazione rivelatrice dell’Eterno, era consentita dal suo carattere veritativo, tale cioè da contenere nella sua espressione carismatica il rimando simbolico al non detto, pure custodito dalla enunciazione della parabola; ma non in termini dialettici di una implicita negazione dell’opposto, ma in quelli della con-prensione del significato immanente nel senso trascendente della parola. Questo movimento di oscillazione semantica tra il detto e il non detto, in cui il significato comprensibile della parola umana rimanda al senso misterioso del verbo divino, apre uno spazio simbolico che non può essere colmato dalla ragione, da una architettura razionale di tipo theo-logico, ma può pervenire a una rappresentazione topica si carattere singolare, e dunque relativa al senso esistenziale che ne dà ogni 417


esperienza personale, grazie alla mediazione del paradigma pontificale del Cristo. Ciò vuol dire che il senso della Parola evangelica si compie nella fede che essa suscita e si compendia nell’amore per Dio (Mt. 22, 37), e dunque nel processo di conversione del senso dell’esistenza umana verso la santità, che coinvolge ben più di una rappresentazione eidetica della realtà, e va ben oltre il mero theorein filosofico. La compiutezza del senso del kerygma cristiano non è nella comprensione razionale del messaggio evangelico, ma nella testimonianza della sua compiutezza, non quindi in una theo-logia ma nella imitatio Christi. Nel momento in cui la prospettiva soteriologica cristiana indicava il luogo della salvezza nell’anima anziché nella polis, la struttura razionale del mondo non poteva più rivendicare quella pretesa holistica che assegnava al potere di Cesare i destini dell’uomo, aprendo tra questo e Dio lo spazio della mediazione cristica, che assumeva l’agape e non la politeia in funzione di relazione. Il linguaggio tecnico dell’Eros, quello dialettico della filosofia, diventava a questo punto imperfetto perché esclusivo, laddove il linguaggio simbolico dell’Agape rimandava costitutivamente all’Altro per la sua compiutezza di senso, e perciò inclusivo e compiuto. Esonerando il sapere filosofico come linguaggio della salvezza, il Cristianesimo operava quel “sovvertimento di tutti i valori antichi” a cui allude Nietzsche nel III capitolo del suo Jenseits von Gut und Boese. Ma qual è il senso esistenziale di questo sovvertimento? Esso risiede nella modalità stessa dell’amore cristiano, il quale, essendo rivolto al suo oggetto per libero dono, non deve essere giustificato, e dunque non richiede l’elaborazione di un’etica razionale. La condizione della sua effettualità è il solo amore di Dio, inteso come causa efficiens e non già come teleologica causa finalis.903 Ciò implica che ogni rapporto agapico ha Dio come mediatore spirituale, per cui “l’amore di Dio si traduce immediatamente in amore cristiano per il prossimo”.904 903

A. Nygren, EA, pag. 189. Ivi, pag. 190. “L’eros, rivolgendosi al prossimo, non lo prende in considerazione in qualità di prossimo, ma come un oggetto che fa parte dell’idea del Bello o del mondo trascendente in genere e che può quindi diventare un mezzo per ascendervi. […] L’agape percorre il cammino inverso. Per lei è proprio l’amore di Dio, l’agape di Dio, il vero punto di partenza e il segno distintivo di quanto si chiama amore cristiano [per cui] l’uomo, che ha ricevuto tutto gratuitamente da Dio, è anche pronto a dare tutto gratuitamente. È inutile in questo contesto cercare una motivazione esterna all’amore del prossimo”: Ivi, pagg. 191-192. 904

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Questa fenomenologia esclude ogni movente razionale dell’amore di sé, che perde ogni valore nell’economia della salvezza cristiana. Il risvolto esistenziale è che l’attività pratica dell’uomo, volta a produrre ciò di cui egli è in potere di disporre, è un percorso di potenza ma non di salvezza per l’umanità. E poiché il bios theoretikòs è il momento noetico della praxis, quale ragione di potenza, la struttura razionale del discorso finalizzato alla determinazione del significato funzionale alle opere del Potere, non è un orizzonte soteriologico. Non è con le opere della ragione che si perviene alla salvezza spirituale, ma con la pre-disposizione all’ascolta della Parola di Dio, ossia con la messa in relazione della vita del fedele con la esperienza del Cristo, che non ha un significato concettuale ma paradigmatico: costituisce un modello esistenziale. Il contesto sociale funzionale alla koinonìa umana è il bios praktikòs, cioè il lavoro socializzato. L’unità familiare, come quella politica, nasce da questo rapporto funzionale, teso a coordinare le attività particolari al fine della fruizione della natura in soccorso dell’uomo, per soddisfare le sue esigenze vitali. La relazione sociale è strutturalmente sinallagmatica, ossia è intesa per lo scambio dei servizi reciproci: io ti nutro se tu mi difendi; io ti difendo e ti nutro se tu mi ammansisci gli dèi. Il lavoro è servizio: nei rapporti sociali, tutti sono servitori, anche se non tutti sono servi. Anche il detentore del Potere serve la sua funzione di governo. Se nell’etica dell’Eros vi è il conflitto tra Bene e Male, tra lo spirito e la materia, lo sforzo virtuoso è diretto ad elevarsi dal luogo imo della materia per ascendere alle altezze dello spirito. “L’etica dell’eros ha un carattere ascetico”. 905 È una questione di buona volontà, cui dispone l’educazione e la cura di sé. L’accordo della volontà con la bontà è un legame logico, determinato dall’idea di Bene vigente in un particolare contesto normativo. L’etica razionale socratica intendeva svincolare tale legame da un rapporto empirico e contingente, per destinarlo a uno di carattere necessario e irrefutabile in quanto razionale e universale. La Bontà in senso cristiano, non è una Idea, ma è l’esperienza stessa dell’agape di Dio, e in quanto esperienza non si può de-finire e oggettivare in senso concettuale. Alcuna parola può de-finire Dio, il cui Verbo può solo rivelarsi come evento di relazione. Tale relazione deve 905

A. Nygren, EA, pag. 195.

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presupporre la presenza di Dio quale manifestazione dell’agape, ossia come pienezza escatologica. Come potrebbe un’opera del prattein umano surrogare tale presenza divina? L’autore, per definizione, è colui che agisce in modo tale che l’opera prodotta sia indicata come sua. Nell’ambito dei rapporti sociali, l’attribuzione di un’opera all’attività umana presuppone la distinzione della fase progettuale (teorica) da quella realizzativa (pratica), per cui il pensiero della cosa vada distinto dalla realtà di essa. Se il pensiero dell’opera è imputabile a un soggetto autorale, la sua realtà effettuale è sempre sociale, poiché investe l’esperienza di molti autori, sicché in senso stretto nessuna opera umana è un atto di creazione ex nihilo, ma solo di trasformazione dell’ente in un eteron, ossia in qualcosa che non era evidente perché in-attuale, potenziale. Il potere dell’uomo è quello di attivare tale potenzialità, di attualizzare la possibilità dell’Essere. Questa fa la techne. In senso lato, il lavoro umano consiste nell’attività idonea a portare l’Essere dalla sua evidenza ontica attuale alla sua realtà potenziale attualmente in-esistente, dall’ente al ni-ente. Ma non era questo il processo noetico del concetto secondo il Sofista? E non era altresì questo l’intento divino, secondo la prima Lettera paolina ai Corinzi? Cosa hanno in comune queste tre diverse operazioni, che sembrano convergere tutte nello stesso scopo, che è quello di trascendere l’ente, andando oltre la sua ? L’apparizione sensibile dell’ente () è contigua al suo annientamento ( ) per opera dell’uomo, che non vive la realtà dell’Essere se non in funzione del suo mondo, ossia rapportandola alla sua rappresentazione (Darstellung) analogica. La Parola divina tende anch’essa a un mutamento della realtà ontica, ma che non incide sull’Essere creato, ma appunto sulla rappresentazione umana, rivelandone l’aspetto analogico e punto originale della sua ousia. L’analogon della rappresentazione ontologica del’Essere è la sua conformità alla sua definizione logica, la quale posiziona decisivamente il Logos al posto del Dio creatore, la vera origine (arché) dell’Essere, facendo del suo principio causale (aitìa) la causa finale, una destinazione etica di senso universale. Orbene, l’origine divina dell’Essere implicava che la distinzione razionale tra il  attuale e il  possibile era l’opera di quella destinazione de-ontologica dell’Essere che l’agape cristiana rivelava essere una rappresentazione ideale della potenza erotica

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umana, tesa a conformare l’Essere originario al suo analogon razionale, col fine di conoscerlo come suo oggetto disponibile alla sua volontà. I termini della volontà sono legati intimamente a quelli della intenzione, della conoscenza e della possibilità. La volontà consiste nella possibilità di realizzare l’intenzione. Per realizzare l’intenzione, non basta volere ma occorre anche conoscere. La conoscenza è la certezza di ciò-che-è, ossia la scienza dell’ente. Nihil voluit cui in praecognitum. Ma cosa si conosce dell’ente se non il suo significato, ossia la sua destinazione di senso, la quale è fondata sul suo essere: l’essenza (ousia) di un ente è la sua destinazione a partire dal suo essere; in questo senso destinale, l’ente rappresenta l’essere, nel senso che partecipa della sua essenza. Il senso dell’ente è dunque relativo alla essenza del suo essere di cui partecipa. L’essenza dell’Essere dell’ente è la stessa essenza dell’ente, per cui l’essenza è la forma ideale dell’ente, il suo eidos, presente sia nell’Essere che nell’ente. Se dunque l’eidos è una unità che contiene sia l’essere sia l’ente, l’eidos è in sé in-determinato. Solo nell’ente l’eidos si determina come eteron rispetto all’Essere indeterminato. Pertanto la determinazione ontica dell’Essere, cioè il suo essere ente, coincide con la sua provenienza. Solo in riferimento all’essere dell’ente in quanto ente, cioè all’ente attuale o presente, l’Essere indeterminato da cui l’ente proviene è ni-ente. Ma nella prospettiva dell’Essere da cui l’ente proviene, l’ente è mera possibilità d’essere, ossia è manifestazione dell’Essere, evento fenomenico. Ciò che l’ente manifesta è la possibilità dell’Essere come attualità. L’ente è l’Essere attuale, ovvero l’essenza temporalmente possibile. La possibilità dell’Essere è la sua onticità, ossia la sua presenza come ente, come ciò-che-è presente. Ciò-che-è presente è l’ente che manifesta l’Essere, che lo mostra come fenomeno presente. Ciò che si manifesta come presenza di ciò che non-è attuale, cioè l’Essere, è l’oggetto della apprensione sensibile, ovvero l’evento naturale. Naturale è il fenomeno che si compie nel suo essere presente, ossia l’ente la cui esistenza procede dalla sua possibilità alla sua attualità. Nel tempo di tale processione l’ente è, anziché non. Tale processione temporale è la sua durata come presenza, come ciò-che-è. L’ente è se stesso finché dura. Prima e dopo la sua durata, l’ente è niente. Ma qualcosa che insieme è e non-è è in-determinato, cioè è l’Essere insignificante, non-ancora determinato nel suo significato, e dunque privo

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di senso. L’eidos, quale Essere indeterminato, è ciò da cui procede l’ente come la sua possibilità ontica. Nel momento in cui Aristotile ammette la conoscibilità del solo Essere determinato in quanto ente, il possibile diventa in-conoscibile. E da tale momento l’eidos e il logos diventano sinonimi, indicanti entrambi la causa dell’ente.906 Ma questa fondazione ontologica è una posizione etica a favore dell’ente anziché del niente, ma non è legata ad alcuna necessità metafisica che non sia quella della conoscenza logica dell’Essere come prodotto naturale, ossia come ente fenomenico. In riferimento alla intenzione, questa esprime la possibilità in-attuale dell’Essere che può divenire possibile, cioè ente. L’intenzione è pertanto il pro-getto dell’ente, ciò che l’Essere potrebbe diventare se si attualizzasse in ente. L’intenzione indica dunque il senso possibile dell’Essere non ancora prodotto come ente. Essa temporalmente è il passato (astratto dalla sua attualità) e il futuro (astratto dalla sua possibilità) dell’ente, il cui essere è presente. Il presente della visione teoretica è l’aspetto della natura, la dimensione naturale del pensiero umano. Naturalità è presenzialità. La durata vissuta come presente indica la vita biologica. Tutto ciò che è, l’Essere, è l’ente come tutto, cioè come natura. In tal senso, l’ontologia è fisiologia, sapere naturalistico. L’Essere della conoscenza ontologica è dominato dalla necessità di essere ciò che è, ossia dalla durata naturale, che è il confino dell’ente al suo presente. Il possibile è l’estensione di ciò-che-è al passato e al futuro, ossia è l’abbandono dell’ente alla intenzione. Ma poiché tale estensione intenzionale è immaginaria, immaginare ciò che è necessario è pensare l’origine dell’ente come eidos indeterminato, ossia come l’Essere in cui coesistono sia l’ente che il niente. E il luogo originario di tale convivenza è il Mito. Il mito della possibilità dell’ente è la sua proiezione universale. In esso, la posizione (ciò-che-è) coesiste con l’immaginazione (ciò-chenon-è), facendo della conoscenza certa, quella naturalistica dell’ente, una conoscenza ipotetica, quella scientifica. La scienza (episteme) è la teoria dell’ente come possibile, ossia immaginato come un presente esteso nel passato e nel futuro, ossia come durata in-determinata. La narrazione dell’attualità dell’Essere universale è una mito-logia, nota come metafisica, la quale, conoscendo l’ente nella sua universalità, e dunque l’ente come se fosse l’intero Essere, è la scienza di ciò che non esiste, 906

Ved. W.D. Ross, Aristotle (1923), tr. it., Bari, 1946, pag. 109.

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esistendo solo l’ente presente, mentre l’ente passato e quello futuro non sono presenti, e dunque non esistono, sono immaginari. La conoscenza universale è il mito ontologico dell’ente pensato come tutto l’Essere, anziché come il solo Essere presente e determinato e perciò de-finito: il mito dell’ente in-finito. Su tale mito-logia è fondata la scienza della cultura occidentale. L’esigenza filosofica di fondare il sapere su una episteme incontrovertibile nasceva dalla paura di precipitare nel vortice delle trasformazioni spontanee e caotiche di una vita pervasa dal movimento incessante dell’Essere: panta rei. A difesa dal divenire Platone immaginò una sophia divina che scongiurasse l’inabissamento dell’uomo nel groviglio dei movimenti impetuosi della natura marina, e che lo ancorasse alla solida terra delle eterne verità. non fu a caso che egli dipinse Eros come bicefalo, per un verso volto alla finitezza umana e per l’altro alla brama, consapevole che le forze elementari che scuotevano il cosmo erano contraddittorie e opposte. L’armonia del Logos avrebbe dovuto contenerle, non ridurle all’universalità del solo essere. Tant’è che la domanda essenziale del perché l’Essere anziché il Nulla? si è risolta a un atto di volontà: perché io lo voglio!, che non è una risposta vera, convincente, incontrovertibile. La volontà di decidere che qualcosa sia anziché non, è pur sempre umana, e ha tutta la debole arroganza dei mortali. Non è la risposta divina che ricercava Platone. Probabilmente perché essa era nella domanda stessa, alla quale all’uomo non era dato trovare risposta. In questo senso va inteso il filosofare platonico, come una infinita domanda, riformulata secondo quella possibilità appunto infinita che liberasse l’uomo dalla sua costitutiva finitezza, che era quella del suo stato naturale. E dunque un domandare dell’Essere che superasse la natura finita del nous e conducesse il noein nelle sfere superne delle Idee, per il tramite del Logos era ciò che l’uomo poteva esigere dal suo daimon insofferente della condizione umana. Questo daimon insofferente della natura umana, che considerava l’umano contraddittorio al naturale, era lo Spirito, la inquieta “potenza trasformatrice” in cui consiste la volontà, la quale, inappagata da ciò che è, si prodiga in un agire continuo diretto a colmare l’originaria mancanza di “ciò che non esiste”,907 ossia la potenza creatrice degli dèi. 907

Ved. il mirabile saggio di P. Valèry, La politique de l’Esprit, notre souverain bien (1932), tr. it. in In morte di una civiltà,Torino, 2018, pagg. 65-89.

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La volontà decisiva, cioè la potenza dell’uomo, ha stabilito il discrimine di ciò-che-è da ciò-che-non-è per mezzo del Logos, che è la potenza esclusiva della volontà razionalmente metodica divenuta scienza, episteme. Essa ha stabilito con l’Essere anche il relativo sapere, assegnandogli la conoscenza del (solo) Essere (che è) in quanto ente, abbandonando al caso quanto estraneo all’ente, giudicato niente. Proprio il niente, escluso dall’attualità della conoscenza del mondo, rivendica la sua parte di realtà, assegnata dalla volontà all’immaginazione creativa. Le due facce dell’Eros, quella affermativa e quella negativa, astratte l’una dall’altra come theorein e come prassein, si contendono l’animo umano in un perenne equilibrio instabile che, se per un verso, quello razionale, stabilizza il bios umano in un mondo ordinato, la polis, per l’altro verso, quello in-razionale dello Spirito, crea indefinitamente mondi alternativi, che hanno ad oggetto l’eteron escluso dalla decisione per l’ente, e che per il Logos è niente. Se per Spirito intendiamo l’anima immaginativa e la potenza creatrice del daimon volontaristico dell’uomo descritto dalla antropologia razionalistica della civiltà greca, e quindi europea, allora dobbiamo assegnare alla civiltà che vi si riconosce, quella appunto europea, una dimensione nichilistica scaturente intrinsecamente dalla stessa istanza d’ordine della visione razionalistica del mondo, di cui quella dimensione è il risvolto opposto e negativo. E pertanto, dalla stessa decisione per l’Essere anziché per il Nulla, nasce l’esigenza della rivalsa di ciò che dal mondo razionalmente inteso è escluso: il sentimento, la pietà, la fantasia, la debolezza, la povertà, la malattia, ovvero tutta la fragilità dell’esistenza umana che l’Agape accoglie nella sua visione dell’uomo escluso dal mondo. Con una differenza radicale rispetto a ogni rimostranza spirituale oppositiva: l’Agape non si costituisce come sentimento avverso all’universo ontico stabilito dal Logos, ma come sapere vero rispetto alla falsa coscienza epistemologica della gnosi razionalistica, che ha inteso la salvezza dell’uomo dalla sua finitezza naturale in termini politici, anziché spirituali. Il Cristianesimo insegna che lo Spirito non è l’opposto della stabilità della volontà politica, ossia il dis-ordine anarchico, che è forza omogenea a quella che contrasta e a sua volta destinata a stabilizzarsi e incontrare altra opposizione, ma è un altro modo di pensare l’Essere come fonte del polemos, che non insegue vane rivendicazioni di primati e di rivincite, ma chiede una metanoia che con-prenda ciò che la ragione distingue e la politica divide: una nuova visione dell’uomo come persona 424


compiuta, costituita di carne () e di spirito (), indistinguibili, e perciò non conoscibili dalla ragione metodica, il Logos posto a presidio dell’Essere universale. L’Agape non è lo spirito distruttivo dell’ente razionale della civiltà greca, non è la forza ispiratrice della rivoluzione politica dei movimenti sociali, ma è lo spirito trascendente il mondo politico, perché fondato su quella Verità divina vagheggiata da Platone come sublime sophia. Ma in cosa consiste il sapere, inteso come verità dell’uomo? Per rispondere occorre rifarsi alla condizione umana. L’uomo è caratterizzato da una fondamentale differenza rispetto a ogni altra specie naturale: quella di non appartenere integralmente alla natura, cioè di non farne parte come suo elemento, ma in qualità di ospite. Infatti, l’uomo, e soltanto l’uomo, è costretto ad adattarsi artificialmente all’habitat naturale, creando un suo mondo attraverso il lavoro, che consiste appunto nell’opera di adattamento alle condizioni naturali in cui l’uomo vive come ospite. Questo fa sì che egli non sia natura ma in relazione con le condizioni naturali a cui deve adattarsi. I processi di adattamento messi in opera dall’uomo per far fronte alle necessità naturali rappresentano le culture umane. È tutto qui il travaglio culturale dell’umanità, nel suo processo di adattamento alla natura? In senso antropologico, è tutto qui. Lo scopo dell’adattamento naturale è la sopravvivenza. È però a questo punto, da questo momento in poi, che insorge il thauma riflessivo dell’uomo, il suo problema in senso lato filosofico, e con esso le risposte del sapere. La questione essenziale che sorge dalla riflessine dell’uomo riguarda ciò che la natura, intesa come sistema di forze impersonali che lo fronteggiano, pretende da lui, e che l’uomo stesso non è disposto a concedere, se non dopo strenua resistenza. Ebbene, ciò che la natura pretende dall’uomo è di essere natura, anziché umanità, e quindi di piegarsi alle sue leggi cosmiche. Ma qual è il modo di conciliare l’uomo con la natura? L’uomo ha soltanto un modo per essere elemento naturale, quello di morire; è la morte a costituire la possibilità che ha l’uomo di identificarsi con la realtà del eco-sistema naturale. la natura chiede all’uomo di non resistere alle sue forze, e di annullarsi come specie diversa. Se infatti le altre specie viventi sono parti della natura in quanto sono la natura stessa determinata come specie vivente particolare, l’uomo è una specie che non appartiene alla natura ma con essa stabilisce soltanto relazioni di compatibilità, attraverso l’adattamento culturale. 425


L’interrogativo filosofico dal quale nasce la risposta del sapere consiste nella constatazione che la lotta ingaggiata dall’uomo con la natura per sottrarsi alla sua richiesta di morte non può essere vinta, per quanto sforzi egli faccia per resistere alla volontà mortifera, poiché, seppure dopo lungo e faticoso lavoro, l’uomo muore un poco ogni giorno, e pertanto ogni sforzo di resistenza sarebbe comunque vano. Anche in caso di una sua ipotetica vittoria sulla natura, pervenendo alla distruzione dell’ambiente biologico, l’uomo si condannerebbe alla sua fine. Che fare dunque? Il sapere sorge negli stessi termini della risposta a questo interrogativo esistenziale. L’uomo, prendendo consapevolezza della sua condizione esistenziale, si interroga, e ciò facendo scopre di possedere la facoltà unica di ragionare. La ragione ispira le risposte alla domanda fondamentale dell’uomo riflessivo: perché essere (uomini) anziché non essere (e cioè essere natura)? Da qui sorge la differenza ontologica tra la realtà data all’uomo come necessità di asservirlo alla sua volontà di annientamento, e la realtà desiderata di sopravvivere in quanto uomini per sconfiggere la morte naturale. La realtà differente da quella naturale di essere uomini è la realtà spirituale. Lo spirito è il mondo umano in cui l’uomo si emancipa dalla natura e dalla sua legge di morte, dismettendo la condizione di mortale. Solo lo spirito può vincere la morte, cioè la necessità imposta dalla natura, e sopravviverle. Questa consapevolezza di ragione induce l’uomo ragionevole a non immedesimarsi con la volontà di morte della natura, evitando di limitarsi a fronteggiare i suoi pericoli esaurendo ogni suo sforzo in questa vana impresa, ma di prodigarsi a costruire opere che vincano la morte, ossia l’edacità del tempo, e perciò a loro modo immortali. Il modo proprio all’uomo di vincere la morte è un modo spirituale, non naturale; e poiché ciò che caratterizza l’essere naturale è la temporalità, il modo spirituale è in-temporale. Temporale è sinonimo di parziale, di frammentarietà, poiché il trapasso del tempo è quello della trans-formazione dell’essere in altro se stesso, in cui ogni momento del trapasso è un frammento, mentre spirituale è sinonimo di integrale, di totalità, condizione nella quale l’uomo è se stesso senza soggiacere alla legge mortale del tempo naturale. La totalità non è dunque la possibilità di accrescere indefinitamente la vita biologica resistendo alla morte naturale, come ritengono ingenuamente gli scienziati che si illudono di vincere la natura sul suo terreno mortale, ma bensì quella di mutare la condizione umana in senso 426


spiritualistico, operando sul piano dell’in-temporale. Ciò comporta il superamento della dimensione del conflitto, ossia la condizione politica, e addivenire a un’altra modalità di coesistenza rispetto a quella tradizionalmente naturale, propria della socialità politica, caratterizzata dalla relazione di lotta e di pace tra gli uomini considerati esseri sottoposti alle leggi di natura, e perciò precari e mortali. Questa condizione, entro al quale si è affannato l’uomo antico ed è tornato ad affannarsi l’uomo moderno, è ispirata e soggiogata da Eros, che è quella “potenza trasformatrice” di cui parlava Valéry, che rigetta la stabilità in cui la natura costringe l’uomo per sopravvivere. 908 Nondimeno, la filosofia erotica non perviene alla piena consapevolezza della differenza della natura umana dalla natura essenzialmente biologica del corpo, concependo tale differenza come la distanza platonica tra un modello siderale di perfezione immobile ed eterna e le sue manifestazioni fenomeniche caduche e transeunti, non accorgendosi che per tal via non si perveniva a una vera metanoia spirituale, ma solo a una coscienza della distanza tra l’ideale immaginato e il reale vissuto. La distanza tra il pensiero e la vita è stato colmato dal pensiero filosofico attraverso la razionalizzazione crescente delle tecniche di adeguamento alle leggi di natura, tale da perfezionare progressivamente i termini del rapporto, col risultato implicito di avvicinare l’uomo alla natura e di allontanarlo in proporzione inversa dalla sua differenza ontologica, riducendolo alla sua datità fisica e alienandolo perciò spiritualmente. Se la datità fisica è l’insuperabilità della condizione naturale di mortale, la condizione spirituale è l’umanità salvata dal tempo, emancipata dalla condizione naturale di essere finito. La cognizione scientifica garantisce la perfettibilità entro la finitezza, ma non la salvezza dalla mortalità naturale. E pertanto destina ogni sforzo a lottare contro la natura servendosi delle sue leggi e quindi infine al trionfo di essa. Il Logos della filosofia greca ponendo l’Essere come principio ontologico, decide per l’ente, considerando Niente ciò che non è Essere, ossia al principio di tutte le cose. Ma ciò che è portato dell’Essere non può che essere l’Essere stesso nella sua manifestazione temporale, sicché ogni trasformazione dell’ente in altro ente non fuoriesce dall’Essere ma lo conferma come destino insuperabile. Lo scopo della scienza e della sua potenza tecnologica si riduce dunque a rafforzare l’in-autentico principio cosmico della natura 908

P. Valéry, Loc. cit., pagg. 77-78.

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che vuole asservire l’uomo alle sue leggi temporali, rendendo tanto più potente l’uomo quanto più soggiogato ai vincoli naturali. Al contrario di quanto ritenesse Heidegger, l’uomo greco non ha obliato l’Essere, ma l’ha posto a modello e principio di ogni ente, essendo l’Essere stesso un ente idealizzato. In tal senso, l’Essere greco rappresenta una falsa totalità, una unità puramente numerica di frammenti fenomenici temporali, ma non la totalità della condizione dell’uomo spirituale. Non vi è totalità nella dimensione naturale, in quanto ciò che indichiamo come Natura è la congerie frammentata delle manifestazioni della vita nel tempo. L’unità ideale della Natura è la rappresentazione di quelle manifestazioni vitali, astratta dal loro concreto divenire, ossia dalla dimensione temporale mortale. Soltanto lo Spirito, il differente dalla Natura, vince la morte naturale, l’essenza mortale della Natura. Non vi è Natura senza morte. Da questa consapevolezza prende le mosse la rivelazione cristiana, che intende superare la dimensione naturalistica, non dell’esistenza biologica dell’uomo, ma della sua modalità di convivenza, offrendo una alternativa alle forme storiche di socialità politica che avevano travagliato la esperienza antropologica, senza per altro offrire alcuna possibilità di salvezza all’uomo dalla sua condizione mortale. In tal senso la predicazione spiritualistica cristiana intende rappresentare l’oltre-uomo della condizione naturale e la ri-nascita dell’uomo quale essere spirituale. Donde nasce la tensione dell’uomo a superare la propria condizione statica se non dalla presa d’atto della sua insufficienza naturale? La risposta filosofica che si è dato, nondimeno, nonostante la magnificenza bimillenaria della sua elaborazione teoretica, è soltanto una rappresentazione del mondo fondata su una decisione ontologica interna all’orizzonte naturalistico dell’esperienza originaria. Non è la “verità” del mondo, ma soltanto la sua versione razionalistica, fondata sull’idea dello Essere come totalità esclusiva. Da questa premessa ontologica consegue che ogni attività di esclusione dalla realtà del non-essere sia un impegno, teoretico e pratico, di affermazione dell’Essere tesa a confermare lo statuto ontologico originario quale credenza che soltanto l’Essere è. Orbene, questa credenza ontologica, il cui sapere relativo è la scienza, genera conflitto, assurgendo il polemos a misura di tutte le cose. La misura (metron) universale del conflitto è il Logos, ossia l’attività del pensiero che stabilisce la misura delle cose secondo una ponderazione calcolante (). Ragionare per i Greci era, a partire da Pitagora, calcolare la misura delle cose, esattamente ciò che ha finito per essere 428


chiaro allo scientismo moderno a partire da Galileo. Ma questa operazione noetica presupponeva appunto la riduzione dell’esperienza umana a processo naturale, ossia alla sola pre-disposizione verso la morte, all’assimilazione mortale. Il senso metafisico della risposta filosofica era dunque l’intrascendibilità dell’orizzonte naturalistico, entro il quale ragionava il Logos. L’attività logica consisteva pertanto nell’elaborare parole razionali secondo la misura, ossia coerenti col presupposto ontologico primario. Il metodo dialettico tende appunto a stabilire la corretta misura in parole dotate di senso onto-logico, a esclusione delle altre, ontologicamente incompatibili perché legate alla casualità e non metodizzabili. Nella vita activa l’opera di razionalizzazione della prassi, cioè dell’attività del lavoro umano finalizzato a secondare la misura universale dell’adattamento naturalistico, consiste nell’economia degli sforzi utili a ottenere l’asservimento della materia, e dell’uomo ridotto a corpo biologico, alla volontà. Tale ragione economica riferita alle relazioni umane si chiama politica, in cui consiste l’attività metodicamente perseguita di escludere l’altro in-compatibile con la propria volontà e indicato come il nemico. E’ chiaro che la predicazione evangelica, mutando i termini del rapporto dell’uomo con l’altro, presuppone una revisione della credenza ontologica originaria nel senso della Differenza della dimensione naturale, destinata alla morte, scandita dalla frammentarietà dei momenti biologici del loro accadimento temporale, da quella naturale, che agisce nel senso della eternità, cioè della compiutezza di significato dell’evento concreto. L’avvenimento compiuto è quello che trascende il tempo e si manifesta nella sua integrale in-temporalità escatologica, che viene prima di ogni tempo, ossia che precede originariamente la posizione ontologica di cui il Logos è misura universale. Ma se la parola logica determina l’inizio del discorso ragionevole, ciò che la precede, e che per il Logos è Niente, è una dimensione più comprensiva di quella che si determina a seguito della posizione ontologica, dalla quale la determinazione ontologica origina. Tale dimensione originaria che partorisce il Logos esclusivo del ni-ente è la parola in-distinta, comprensiva di ciò che è logico e di ciò che non lo è: il Mythos, entro il cui orizzonte l’essere e il non-essere coesistono anziché escludersi, facendo della parola la madre di tutte le cose. Se dunque il Mito, quale luogo simbolico della Parola, è l’origine arcaica di ogni determinazione di ciò-che-è distinto da ciò-che-non-è, esso 429


rappresenta il luogo della unità indistinta dello spirituale e del naturale, ossia di quella dimensione nella quale l’uomo non è costretto a risolversi in essere biologico e politico destinato alla morte; dimensione che, come sappiamo, è quella del tempo. una dimensione in cui l’uomo, viceversa, è libero di determinarsi in senso razionale, ovvero di rimanere entro la vita logicamente indistinta, propria della sfera religiosa. La differenza tra una rappresentazione razionale e una religiosa consiste nell’assumere dell’esperienza umana, rispettivamente, a) la sua processualità naturale necessaria, scandita dalle fasi temporali che portano alla morte dell’essere biologico e dei suoi sforzi di adattamento razionale entro la sfera esistenziale della socialità politica, e b) la sua manifestazione di significato simbolico, in cui ogni evento fenomenico rappresenta il tutto, la cui realtà è la dimensione del sacro, atemporale, o dell’eterno. Il procedimento metodico della rappresentazione razionale dell’esperienza umana è la storiografia, in cui consiste l’uso della parola descrittiva della sequenza cronologica degli eventi umani strutturati in senso causalistico. La rappresentazione invece degli eventi umani aventi un valore simbolico di senso sacro è la ierofania, cioè la descrizione dell’apparizione del sacro. La rappresentazione storica, descrivendo un processo ermeneutico incentrato sull’evento di senso razionale, ha come oggetto il fenomeno unico e originale, che irrompe nel tempo secondo una sequenza dinamica occulta da portare alla luce del discernimento logico. La storiografia, da Tucidide in poi, tende a svelare il disegno razionale che si cela dietro i nudi fenomeni, al fine di rendersi logicamente giustificabili. La giustificazione razionale diventa perciò la misura della loro necessità storica, ossia il criterio della loro derivabilità metafisica dal principio ontologico. Storicità, razionalità e appartenenza all’Essere sono perciò sinonimi, concetti equivalenti. La rappresentazione simbolica, invece, descrive, anziché un processo logicamente consequenziale di eventi originali, una forma archetipica che si manifesta storicamente, cioè nel tempo, per “rivelare il sacro nella sua totalità, anche se gli uomini, alla cui coscienza il sacro si ‘mostra’, si appropriano solo di un aspetto o di una modesta particella di esso”, poiché “nella ierofania più elementare è già detto tutto”.909 In realtà, il valore simbolico dell’apparizione del sacro risiede nella sua espressività totale, che include la parola in quanto cifra del Tutto (Ganz), 909

M. Eliade, Le chamanisme et les techniques archaiques de l’extase (1951), tr. it. di J. Evola, Roma, 1974, pag. 13.

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che non è una unità formale, cioè una Idea platonica o un concetto logico, ma è trascendente rispetto alla modalità d’essere dell’esser-mondo. Per trascendenza s’intende “l’assolutamente altro” dal mondo, rispetto al quale quel Tutto è nulla, ma che in realtà “è l’essere autentico”, in quanto non è un “essere secondo”, qual è il mondo, prodotto di creazione, ma è “fondato in se stesso”.910 La reiterazione delle manifestazioni del sacro (ierofanie) rivela, per un verso, la compresenza di ogni momento fenomenico al Tutto, e per altro verso che il proprio del trascendente è la sua in-temporalità, e dunque il suo non-essere ente temporale. Da qui il carattere negativo dell’alterità del Tutto rispetto alla positività di ogni determinazione ontica, che caratterizza la sua differenza nei confronti dell’Essere. L’ammissione della Differenza tra l’Essere e il Tutto postula l’esistenza di una matrice arcaica originaria dalla quale ogni determinazione temporale proviene come una presenza ontica, la cui conoscenza razionale rimanda ad altri correlati fenomeni omologhi, la cui condizione di possibilità di senso logico è il prodotto della astrazione dal loro valore simbolico, che costituisce invece l’oggetto precipuo della considerazione religiosa. Avendo in comune l’orizzonte temporale, tanto i fenomeni storici che le ierofanie convergono nella medesima esperienza esistenziale del mondo-della-vita, la quale, perciò stesso, ossia per questa con-presenza delle rispettive differenze, è in sé tragica, e come tale può essere conosciuta veramente soltanto dalla coscienza tragica, idonea a sviluppare un sapere tragico, ovvero un sapere della, o fondato sulla, Differenza. La dialettica della rappresentazione mitica, ove ogni evento è stabilito sin dall’origine ne varietur, con la rappresentazione razionale, in cui ogni evento è posto in sequenza causale con altri, stabilisce, entro l’orizzonte della temporalità, il carattere di storicità dell’esperienza umana, al quale appartiene anche il sapere tragico.911 È il carattere storico delle ierofanie a far assumere alla forme della coscienza religiosa la loro diversa e particolare articolazione contestuale alle relative culture umane, ma “il processo di sacralizzazione della realtà è sempre lo stesso”, per cui “la dialettica del sacro ammette ogni reversibilità: nessuna ‘forma’ esclude una degradazione e una decomposizione, nessuna ‘storia’ è definitiva”.912 910

K. Jaspers, Von der Wahrheit (1947), tr. it., Milano, 2015, pag. 219. Da ora VdW. K. Jaspers, VdW, pag. 1837. 912 M. Eliade, Le chamanisme, tr. it. cit., pag. 14. 911

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Ciò implica che l’orizzonte della storicità della vita religiosa consente una maggiore o minore presenza del sacro, tale che la sua variabile articolazione culturale rappresenti una corrispondente apertura alla rappresentazione razionale del mondo, la quale, nella prospettiva del pensiero metafisico, ha inteso costituirsi come sapere assoluto, superando tanto la coscienza mitica che la coscienza tragica mercé la fondazione ontologica del Logos. La pervasività della logica dell’Essere entro la dimensione della storicità dell’esperienza umana ha comportato l’assunzione entro la rappresentazione razionale del mondo del carattere intemporale delle forme razionali, proprio del Mito, e del significato universale dei fenomeni oggetto del pensiero metafisico, proprio invece della natura simbolica delle manifestazioni del sacro. In questo senso, la storia della metafisica razionalistica consiste in un tentativo costante di sostituzione per confutazione delle rappresentazioni tragiche del mondo e delle sue narrazioni mitiche, allo scopo di affermare l’unità di senso ontologico della realtà, esclusivo di ogni altra interpretazione. Su questa dinamica polemica ed esclusiva di ogni gnosi allotria è fondata la cultura razionalistica e la civiltà occidentale, sospesa tra l’affermazione della verità ontologica e la liberazione del Logos dal suo fondamento miticoreligioso. La tensione tragica, per quanto domata dalla grande teologia cristiana, è stata dunque latente attraverso l’intero percorso storico della cultura europea, assumendo in età moderna un rilievo vieppiù politico per via della progressiva secolarizzazione intellettuale, che parallelamente alla razionalizzazione dello Stato assolutistico promosse una rappresentazione del mondo immanentistica e monistica. Il sapere tragico, che in alcune epoche raggiunge cospicui vertici letterarii, come in Euripide ed Eschilo nell’antichità, in Calderòn e Racine nell’era cristiana e in Shakespeare in età moderna, consiste nella presa di coscienza della realtà ontologica della Differenza, le cui ricadute esistenziali nella vita umana sono la trascrizione della tensione che separa e unisce il divenire, con le sue istanze di libertà, all’eterno e ai suoi irreformabili statuti etici. L’instabilità della condizione umana è conseguente alla presa d’atto della necessità di muoversi a volta nelle situazioni limite, che sono tanto esterne che interne alla coscienza. Ma proprio la coscienza tragica dell’esistenza umana costituisce l’argine che impedisce la tracimazione antropologica nella naturalità, nella assimilazione naturalistica della specie al destino di morte del ciclo della 432


vita biologica. La presa di coscienza del totalmente altro, per il verso religioso spinge la coscienza a considerare il fondamento sacro della esistenza, per il verso razionale a sviluppare una prassi conforme al sistema di valori elaborati dialetticamente dal Logos. Come ha ben detto Jaspers, “dove compare la coscienza tragica si è perso qualcosa di straordinario, una sicurezza senza tragicità e una ingenuità tutta umana, naturale e sublime al contempo, un sentirsi-a-casa nel mondo e una ricchezza di visioni concrete”,913 che la coscienza della Differenza non consente più, lacerata com’è dal bisogno della mediazione catartica. Da tale esigenza nascono la risposta filosofica del mondo e la rivelazione religiosa.914 La filosofia relativizza le disarmonie inserendole nell’unità formale del sistema di ragioni universali, delle quali l’uomo si fa portatore e interprete, sublimando così il dolore della lacerazione della coscienza tragica. La soluzione religiosa, segnatamente quella cristiana, solleva la coscienza dal piano dell’estasi poetica, che narcotizza il dolore con la bellezza della sua rappresentazione, e la espone alla responsabilità della scelta morale per la redenzione dal peccato originale, consistente nell’inappartenenza dell’uomo né al solo regno naturale e neppure a quello solo spirituale, ma potenzialmente a entrambi e a nessuno. Questa condizione-limite, propria di una sacertà tutta umana e sospesa nell’angoscia, costituisce il terreno di coltura tanto dell’abiezione che della virtù, potendo la scelta piegare verso il mimetismo naturalistico della perdizione spirituale, in cui la coscienza rimane indifferente ai valori e quindi ai doveri della redenzione, oppure innalzarsi verso la sublimazione della finitezza originaria per mezzo della grazia divina.915 913

K. Jaspers, VdW, pag. 1839. Ivi, pag. 1843. 915 Non è del tutto esatto ciò che riferisce Jaspers a proposito della presunta inesistenza di una tragedia cristiana, poiché la stessa ammissione del Mystero come fondamento della fede e della esistenza escatologica stabilisce una relazione nella Differenza che solo la mediazione cristica può colmare, dove perciò l’intercessione della Grazia elimina ogni determinazione pontificale dell’uomo, sia essa di natura noetica (come nel coscienzialismo greco) che pratica (come nel politicismo moderno). Ved. VdW, pag. 1845. È stato il sincretismo teologico a occultare l’elemento tragico del pensiero cristiano, che riemerge appena l’architettura di una fede razionalizzata mostra i suoi limiti a fronte della imprescindibile istanza di santità in cui si manifesta il sacro all’interno del religioso. 914

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La soluzione filosofica è nel senso della decisione ontologica che libera la coscienza dalla dimensione tragica a favore della positività esclusiva dell’ente di ragione, il cui movente sotterraneo è l’erotismo della volontà. La soluzione redentiva invece propone una liberazione dal tragico attraverso la trascendenza del sé nell’altro, la quale non costituisce una fuga dal mondo, ma realizza un agire non irretito dai vincoli istituzionali della socialità politica, di carattere anti-economico quale è il dono della carità: l’agape. L’agape cristiana trascende tanto la contemplazione del filosofo, che misura la propria libertà dalla distanza teoretica dall’incoerenza del mondo-della-vita, quanto la prassi della socialità politica, in quanto libera l’agire dalla misura del calcolo razionale, ossia dall’economia del politico, in vista di una gratificazione che non è del soggetto attore ma dell’Altro, avvertito non come il deuteragonista dialettico o polemico, ma come il destinatario del Bene. Se il filosofare tende al riscatto del soggetto, e il politicare all’affermazione della sua volontà, declinando l’erotismo dell’affermazione di sé come l’ispirazione dialettica della storia umana, il dono agapico di sé stabilisce rapporti inter-personali non commensurabili secondo il metron della ragione logica, rendendo vano ogni discernimento del giusto e dell’utile nelle relazioni umane. Ciò che resiste al tempo e supera le discordie tra gli uomini non sono gli astratti ideali dei filosofi, ma il gesto simbolico che richiama la presenza divina nell’Altro, che diventa il mezzo per giunger alla consapevolezza di sé. Se l’Altro nell’orizzonte filosofico era l’ostacolo da superare dialetticamente, nella prospettiva cristiana esso diventa lo strumento della presenza divina nell’uomo. una posizione che ribalta l’antropologia razionalistica, facendo della finitezza umana non soltanto l’occasione per la relazione con l’infinito, ma la dimensione privilegiata per superarla trascendendola con la imitatio Dei. Come la rappresentazione (Darstellung) del mondo in concetti costituisce l’ambito di verità della ragione umana, così l’immagine del sacro si manifesta entro le forme simboliche in cui è trascritta dalle culture umane. Lo jato che permane tra i contenuti rappresentativi e simbolici e le loro rispettive forme riflette la Differenza insuperabile tra la condizione umana e i suoi referenti normativi, naturali o trascendenti. Posto al limite tra la Natura e lo Spirito, l’uomo sviluppa, attraverso l’esperienza del mondo, una coscienza tragica che sta al fondamento della sua riflessione noetica. L’esperienza umana del mondo è l’incontro con la sua 434


incompiutezza, cioè l’esperienza della sua finitezza, che si manifesta come “il fallimento di ogni manifestazione di qualcosa di comiuto”. 916 La soluzione greca al problema della incompiutezza umana verte sul binomio correlato di ragione e politica, con le quali la sapienza antica ha cercato di conciliare la coscienza con la natura, scoprendo le leggi cosmiche per applicarle eudemonisticamente alla vita sociale, intesa come solidale risposta collettiva ai bisogni individuali. La rimozione della trascendenza del sacro, ha circoscritto ogni anelito di totalità e di universalità entro l’orizzonte della socialità razionalistica e politica, pervenendo in età moderna al compiuto immanentismo della potenza con lo Stato totalitario, la forma più estrema di ideo-logia della redenzione sociale. L’unilaterale totalità dell’immanentismo assoluto, pervenendo alla sua compiutezza, si capovolge nel suo opposto logico, metodicamente escluso dalla posizione ontologica originaria, sicché l’assoluta libertà che si credeva conseguita nell’asservimento totale alle leggi naturali, rivela il suo volto demoniaco di morte a cui conduce l’integrale mimetismo naturalistico, incentrato sulla guerra distruttiva dell’Altro come negativo / nemico. Proprio l’auto-distruzione come esito tragico della volontà di annientamento dell’Altro, rivela la “dialettica dell’illuminismo” della risposta razionalistica greco-moderna, e perciò la impercorribilità soteriologica della via naturalistica per l’uomo, il quale, per quanto ridotto ai termini della pura calcolabilità meccanica, non può ridursi a mera esistenza biologica politicamente garantita. L’angoscia, quale sensazione di spaesamento anomico che invade la coscienza tragica, rivela la condizione tragica in cui è immersa l’esistenza umana, ma non la costituisce. La condizione tragica non è “il pessimismo”,917 ma è quella propria dell’esistenza umana, anche vissuta inconsapevolmente, poiché la condizione mediana dell’uomo tra natura e spirito non è legata a un atto di volontà e di decisione, ma a uno status antropico originario, la cui vacuità costituisce lo spazio storico della esistenza, che va colmato dal vissuto culturale dell’uomo. Questa condizione originaria è negativa rispetto a ogni possibile determinazione culturale, sicché la stessa posizione ontologica della metafisica greca rappresenta la nascita dell’Essere dal Nulla originario, pur rimosso in quanto in-determinato. Il Nulla pre-metafisico è lo status vacuum della 916 917

K. Jaspers, VdW, pag. 1847. Ivi, pag. 1853.

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condizione umana originaria, la quale, segnando la soglia intrascendibile della sua condizione, è il luogo stesso del sacro, al quale riporta ogni rappresentazione analogica di tipo mitico, religioso e poetico. Non a caso, il Mito, la religione e l’arte sono le tre forme rappresentative contro le quali la metafisica si è costituita come sapere alternativo di verità. Il superamento della posizione metafisica dell’ontologia greca avviene col Cristianesimo, il quale pone a fondamento di ogni sapere, non la relazione razionale dei fenomeni in sequenza causale, cioè il movimento logico del pensiero dialettico, ma il Mystero, facendolo coincidere con la stessa verità ricercata invano dalla filosofia. Mystero divino e inpenetrabile dalla ragione umana, e perciò sacro, non oggettivabile in termini definitorii, che resta oltre ogni determinazione di pensiero e simbolica, e perciò arcaica e trascendente. La trascendenza del Mystero è la sua divinità, o sacertà, mentre la sua totalità con-prensiva di ogni possibilità e quindi di ogni opposizione, è la sua arcaica in-temporalità. Il Logos, che è la parola determinativa di senso uni-versale, non può essere il linguaggio arcaico, che deve riflettere la plurivocità della condizione originaria, antecedente ogni determinazione formale e temporale. Il linguaggio che esprima a un tempo la storicità della sua forma e la cifra della sua valenza simbolica è quello poetico, funzionale alla narrazione mitica e alla rappresentazione religiosa. La poesia è sul piano del linguaggio ciò che la poiesi aristotelica è sul piano della prassi: un agire creativo, a un tempo emulo della potenza divina e mimetico delle forme espressive della natura. Se “il passaggio è il luogo del tragico”, 918 ebbene il suo orizzonte linguistico è la poesia, nella quale convive l’antico e l’originale. Ma tale passaggio non è la processione progressiva da un punto determinato a un altro, poiché, come abbiamo visto, la storicità delle manifestazioni del sacro non sono che conferme della sua totalità, sicché ogni novità espressiva è un calco originale della condizione eterna, che è una. In questo senso precipuo, la storia di ogni singola esistenza personale, nella sua originalità fenomenologica, riprende individualmente e nelle sue condizioni temporali e culturali la vita eterna di Gesù il Cristo, il modello simbolico arcaico di ogni possibile storia dell’uomo. In questa luce simbolica va interpretata la tragedia storica di una persona o di un popolo, come pure il genere letterario del tragico: come rappresentazioni di vita e di pensiero della condizione umana originaria, che in quanto tale, è 918

K. Jaspers, VdW, pag. 1855.

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immanente a ogni cifra espressiva della storicità umana, sia essa teorica che pratica. L’astratta polarizzazione di questa esperienza originaria dell’uomo ne coglie l’aspetto tragico nella sua unilaterale determinazione simbolico-espressiva, la quale, però, non può dare ragione di sé senza rapportarsi al suo opposto negativo, nel quale riflette la tragica alterità agonistica di ogni posizione umana. La tensione di tale agòn tende al suo superamento mediato, che, per quanto vengano ipostatizzate in senso drammatico le forze che lo animano, resta pur sempre interno all’esperienza dell’uomo, la cui “grandezza sta proprio nel diventare un tale medium: in quanto tale egli viene infatti animato e diventa identico a quelle potenze”.919 Già in questa capacità di immedesimazione drammatica alle forze metafisiche che lo dilaniano, l’uomo attesta la fatica insita nella mimesi che gli è necessaria alla comprensione e al superamento della sua condizione originaria, non tentati da alcuna altra specie vivente. Il processo di adattamento umano è l’opera della sua sapienza culturale, della sua mediazione tra cielo e terra, ossia della stessa storicità della sua esperienza esistenziale, la cui referenza formale sta a indicare la derivazione sociale delle forme simboliche espressive della sua individualità, laddove i termini specifici di essa attestano il mistero che la presiede, e che fa di ogni uomo espressione unica della specie collettiva, sia in senso biologico che socio-culturale. Ciò che non si può umanamente trascendere è dunque il Mystero arcaico della sua ambigua condizione originaria, da cui di diparte ogni rappresentazione culturale e alla quale ogni esperienza simbolicamente rimanda. Ogni affermazione per quanto escluda la sua negazione, la porta seco, poiché la tensione che tenta l’universalità del vettore storico-razionale non prendendosi cura di ciò che permane indistinto all’origine, lo reca involontariamente alla sua compiutezza originaria, ossia lo subisce come destino. La catastrofe sopraggiunge alla vittoria come il negletto che rivendica la sua esistenza. Il destino è la presenza indesiderata e rimossa del Negativo che appare alla fine del’affermazione assoluta dl Positivo, che la metafisica greca chiama Essere e il Logos determinazione razionale dell’ente. La superiorità della coscienza tragica è nella previsione della presenza destinale del Negativo che immane nel trionfo della ragione assoluta. Contrariamente a quanto pensava Jaspers, l’universale non vince mai, 920 919 920

K. Jaspers, VdW, pag. 1857. K. Jaspers, VdW, pag. 1857.

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poiché l’ordine morale del mondo è nell’equilibrio delle potenze tragiche, e non già nel trionfo di una sull’altra. L’ordine universale è la del Logos, non già l’equilibrio delle potenze antagoniste che coesistono originariamente nel Tutto. Esso si consegue trascendendo l’antagonismo, facendolo cioè coesistere e quindi neutralizzandolo, in nome di una ragione superiore, più originaria della posizione ontologica, che è la “colpa” costitutiva dell’uomo in quanto essere dis-adattato verso la natura eppure in parte naturale. la colpa originaria è di non essere né divini né naturali, ma un terzo genere che ha dell’uno e dell’altro elemento metafisico, il genere storico-culturale. Anche l’innocente è colpevole perché non può essere sottratto alla sua condizione originaria se non accogliendola appunto come colpa arcaica e comune. La coscienza di questa condizione generica genera l’idea della colpa collettiva, per cui “tutti gli uomini sono solidali” nel sentirsi colpevoli del male del mondo, “e questo è un fatto legato alla radice comune della loro provenienza e della loro meta”.921 Questa colpa originaria e comune è ben più radicata nella coscienza umana del principio di colpevolezza individuale per azioni determinate, escogitata dal senso esclusivo della giustizia razionale come imputabilità giuridica. Ma ciò che la giustizia formale esclude, la coscienza morale include. Nell’assurdo senso di colpa provato dal nobile Dmitri nei confronti della servetta sedotta Catiusha nel romanzo Resurrezione di Tolstoj risiede per intero l’atmosfera di partecipazione morale alle vicende della povera ragazza, tanto più innocente agli occhi del giovane quanto più colpevole agli occhi della giustizia terrena, che per deliberata ignoranza della condizione umana originaria non risale alla colpa comune, credendo così di esorcizzarla. La convenzionale rimozione, però, non può incidere sull’animo umano più di quanto la memoria può ingannare l’ignoranza, e non a caso la coscienza cristianamente ispirata del grande Russo descrive una storia che, pur nella sua contestualità simbolica, trascende sempre in senso totalizzante 922 l’individualità dei protagonisti, come nessuna vicenda storiografica potrebbe. La colpa originaria dell’uomo è la sua estraneità al mondo della natura in cui si trova a vivere in quanto essere spirituale. Qualunque remedium mali escogitato dal’uomo per vincere la sua condizione originaria la conferma surrettiziamente, essendo ogni sua azione determinata dalla 921 922

Ivi, pag. 1859. “Il senso della colpa è sempre totalizzante”: K. Jaspers, VdW, pag. 1861.

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finitezza e perciò richiamante la possibilità della sua alterità. Nella possibilità risiede la libertà dell’uomo di determinarsi secondo coscienza o secondo volontà, perseguendo la ricerca di autenticità oppure il mimetismo sociale. La coscienza tragica non si dà che nella libertà, ossia nella responsabilità morale, che diviene pertanto l’orizzonte di coscienza inclusivo di ogni esperienza umana. Il senso profondo del perdono cristiano è in questa inclusività di accogliere in una visione totalizzante dell’uomo anche le parti che sono fallaci secondo l’ottica giustizialista della ragione esclusiva, sicché l’atteggiamento spirituale corrispondente all’atto del perdono cristiano è la carità, intesa come partecipazione alle vicende dell’Altro in quanto unito all’Io dal vincolo originario del peccato. Nell’orizzonte caritatevole non ha alcun senso il principio di colpevolezza giuridica, poiché non è l’infrazione di una legge a stabilire l’imputabilità di un uomo di fronte alla sua condizione morale, ma il grado della sua responsabile partecipazione al male. La grandezza morale, dunque, viene dalla fedeltà all’intenzione di trascendersi, ossia dal valore spirituale del suo contenuto. Questo parametro di giudizio interrompe la dinamica della processualità onto-logica, assumendo rilevante della storia dell’uomo la sua relazione col tutto, anziché la sua possibilità di affermare la volontà positiva sulla totalità incombente come Negativo, secondo la decisione metafisica della cultura greca a favore dell’Essere anziché del Nulla. La soluzione greca non può mai pervenire alla verità poiché l’assume come relativa alla sola datità ontica,laddove “una scoperta fondamentale del sapere tragico è la spaccatura dell’esser-vero, o anche la non-unità della verità”. 923 Ciò comporta che la verità non è un dato di coscienza, un “oggetto”, ma un processo agonistico di elementi in potenziale contrasto reciproco. Ma il contrasto (polemos) nasce all’atto della conoscenza della loro differenza. È il sapere della Differenza a essere “terribile”, in quanto “non giova a chi sa”.924 Infatti, il sapere, determinando le differenze, cerca di eliminarle, sviluppando conflitto. Il sapere è volontà di dominio delle differenze, ossia tentativo di rimuovere la Differenza, attraverso un’opera di semplificazione del molteplice in senso universale. Il tentativo più cospicuo fu intrapreso dalla metafisica greca con la sua ontologia, che decise della universalità dell’Essere esclusivo del Nulla. Su questo fondamento ontologico il pensiero del Logos ha rappresentato la realtà 923 924

K. Jaspers, VdW, pag. 1865. Sofocle, Edipo a Colono, cit. da K. Jaspers, VdW, pag. 1865.

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come fenomenologia dell’Essere, procedendo a una negazione metodica del Nulla. Questo orizzonte di coscienza doveva escludere la tragedia, maturando l’illusione dell’autonomia teoretica dell’intelligenza razionale, con la cui “forza” Edipo aveva battuto la Sfinge. Una vittoria tanto orgogliosa quanto fragile, poiché compensata dal terribile segreto che avvolge inesorabilmente la sua vita. Quando la verità si vuole distinta dalla vita – che è l’attività propria del filosofare -, ciò che viene rimosso dalla ragione esclusiva riemerge come impeto informe e sciagura improvvisa e indomito dolore. Allora lo scenario univoco del tempo viene sconvolto, mettendo in discussione il primato delle facoltà umane ritenute virtuose e la sua stessa posizione nel mondo creato dalla ragione a sua misura esistenziale. L’angoscia () non è che la rivelazione della Differenza come incongruità del rimedio ontologico a esorcizzare il Negativo, ossia la possibilità che il mondo non sia fatto per l’uomo. L’edificio razionale del suo mundus appare una roccaforte assediata dal Fato, che esige oblio e ignoranza della Differenza, acché la vita umana venga assorbita dall’incoscienza della morte. L’uomo conosce la realtà della morte, sa di dover morire, e questo sapere lo allontana dalla vita naturale, ponendolo nella condizione limite di prepararsi all’evento ineluttabile. Secondo due modalità essenziali: accettare il destino, asservendosi alla forza della Natura, ovvero opporglisi, sfidando la sua forza con le sue stesse leggi. La civiltà razionalistica ha riservato alla morte uno spazio di eccezione, relegandola nella fattualità incidentale. Eppure, la morte è la condizione fisiologica dei mortali, ossia l’elemento non provvisorio ma costante e universale che sottostà a ogni determinazione storica della volontà umana, singolare e culturale, rimosso dalla civiltà della ragione allo stesso modo del Negativo, rimosso dall’ontologia. La sua incompatibilità col sistema della vita umana è legata alla sua imprevedibilità, e quindi alla indisponibilità a entrare al servizio del potere umano. Se gli dei, pur defraudati del sapere, conservano un potere sull’uomo, ebbene esso consiste nella indifferenza che essi hanno verso la morte. Ciò vuol dire che la Differenza stessa non è che la Morte, sicché la scoperta dell’una coincide con la esperienza della altra. Il sapere della Differenza è pertanto in essenza sapere della Morte. Se assumiamo il mondo razionalizzato dall’uomo come l’orizzonte normativo entro il quale le sue azioni e produzioni assumono un significato riconosciuto, e quindi sono dotate di senso assiologico, possiamo considerare lo stato di eccezione (Ausnahmezustand) come “il 440


dispositivo originale attraverso cui il diritto si riferisce alla vita e la include in sé attraverso la propria sospensione”. 925 Il processo di neutralizzazione istituzionale della Morte come condizione eccezionale del diritto, riflette la posizione originaria della metafisica di escludere il Negativo dalla fisiologia della vita razionale, noetica, relegandola nell’informe manifestazione della vita biologica. L’interrogativo amletico rivela e al tempo nasconde la questione metafisica essenziale della civiltà europea, poiché ponendo la questione della scelta si ferma alla soglia della coscienza tragica, ma pure stabilisce la necessità dell’opzione ontologica che ne presuppone già l’intrascendibilità. Ponendo al centro della Sua predicazione il Mystero divino, Gesù ha smentito la necessità di quella opzione metafisica, assegnandola alla volontà dell’uomo storico. L’inserzione del Mystero nella storia rimette in discussione il processo della civiltà, su un piano escatologico che il razionalismo ha confinato appunto nello stato di eccezione. Riportando al centro della Sua predicazione la possibilità del trascendimento del piano politico, Gesù non a caso ha situato la morte all’interno della storia spirituale dell’uomo, come punto di partenza della nuova vita cristiana. La conversione () cristiana ribalta il piano assiologico della civiltà pagana, ponendo la morte non più come stato di eccezione dell’orizzonte normativo dell’esistenza politica, ma come il luogo della mediazione escatologica tra la dimensione naturale della vita comune e la dimensione spirituale del singolo. Ciò comporta che la vita naturale divenga la parentesi eccezionale della vita spirituale, eterna. Rispetto alla finalità della Natura, che pone la morte come esito conclusivo della vita, la prospettiva cristiana ribalta la meta, ponendo la morte come occasione di sublimazione (spirituale) della vita (biologica). Se non si tiene conto di questa prospettiva assiologica rovesciata, sarà arduo intendere il senso originario della critica di Heidegger alla metafisica greca. Lo stato di eccezione giuridica reinserisce all’interno della  del mondo razionale la vita biologica (“il vivente”) espunta come negatività rispetto alla struttura onto-logica formalizzata, sicché, attraverso la “dislocazione di una misura provvisoria ed eccezionale” si riabilita surrettiziamente quell’elemento di “indeterminazione” 926 che da sempre immane come caotico retaggio biologico e che i custodi del senso universale del Logos si sono adoperati ad allontanare dalle mura turrite della 925 926

G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, 2003, pag. 10. Da ora SdE. G. Agamben, SdE, pag. 11.

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città politica. Questa immanente potenza negativa tenuta a bada dai custodi del Logos è la nuda forza naturale, priva di ogni intrinseca teleologia che non sia l’affermazione dei più forte. Questa mera forza, sul piano pre-politico della socialità originaria, era costituita dalla relazione prettamente economica familiare, legata alla koinonìa topou, che costituiva per Aristotile la premessa della costituzione civile. Nella condizione naturale, il dominus politico agisce come il patriarca economico, che esercita la sua forza di decidere della vita e della morte dei sottoposti in virtù della mera detenzione, e di cui sarà privato solo a seguito di un atto di forza che condurrà alla sua morte. Rispetto alla condizione pre-politica hobbesiana o rousseauviana, lo stato di eccezione è un vichiano ricorso post-politico all’origine pre-politica. Un ricorso indotto dal potere politico stesso, che intende inglobare in sé non soltanto l’universalità del sistema normativo razionale, ma anche quel mondo-della-vita espunto strutturalmente dal sistema come potenza negativa. All’interno del mondo-della-vita le regole della sopravvivenza biologica dei gruppi sociali sono informati al criterio della forza, che è la misura interna all’orizzonte economico della società civile. Socializzando la politica, si universalizza la dimensione naturalistica della forza economica in sostituzione del criterio legale razionale, che tenendo a bada la forza naturale, la distingueva dal criterio di socialità politico. lo stato di eccezione, rimuovendo la distinzione tra vitale e razionale, rende intrascendibile il mondo-della-vita, assumendo il criterio che lo informa, la forza, come a sua volta universale. Questa reductio ad unum operata dal potere bio-politico, persegue sul terreno della socialità la stessa operazione uni-versalistica a sua volta esperita dal Logos esclusivo nei confronti della plurima indeterminatezza del Mythos Ciò che il Logos metafisico intendeva perseguire, cioè il monismo ontologico, il potere reso assoluto dello Stato moderno di diritto ha inteso praticarlo sul piano socio-politico, eliminando, con la teoria della rappresentanza democratica, la distinzione tra piano economico vitale e piano politico razionale, pervenendo a un potere totalitario, detentore cioè di una plenitudo potestatis pleromatica.927 927

G. Agamben ha ricordato che “lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista […], introdotta per la prima volta nella costituzione del 22 frimaio dell’anno VIII”: SdE, pag. 14. Si comprende la ragione dalla circostanza che lo Stato rivoluzionario non si limitava a rivendicare l’autonomia del politico dal morale ma esigeva l’eliminazione di ogni

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L’istanza ontologica monistica, così come quella politica egalitaria, nascono entrambe dalla rimozione logica della Differenza, la cui ammissione segnerebbe l’impraticabilità teorica del criterio universalistico, surrogato razionalistico della tradizionale legittimazione divina della verità. Tale criterio di legittimazione nasce con la decisione normativa scritturale, che, diversamente dalla normativa tradizionale orale, proiettata irreversibilmente nel passato, stabilisce per il futuro i criteri di ortoprassi, rendendoli perciò modificabili quanto ogni previsione. Contro l’aleatorietà delle statuizioni rivolte al futuro, occorreva un criterio preferenziale tra ipotesi normative alternative, tale da rendere quella prescelta come l’unica necessaria, in quanto dotata di senso inequivocabilmente universale. Epistemica è infatti la verità di ragione che si fonda su se stessa, e non sulla tradizione orale o divina. Lo sfondo aporetico di ogni statuizione normativa siffatta è che la sua forma rappresentativa può servire a qualunque contenuto volitivo, restando legata a una insuperabile contingenza, che è la stessa che si determina nella scelta tra l’ossequio morale all’interna intenzione e la mera convenienza della volontà utile. L’invenzione etica della necessità razionale in realtà rimane esposta all’indeterminazione dei suoi contenuti normativi, la cui definizione arbitraria rimette alla coscienza finita di stabilire imperativamente quel limite () che soltanto la Differenza potrebbe costituire necessariamente in quanto insuperabile. L’affermazione contraddittoria di una volontà umana stabilita come necessità razionale ma ridotta a forza naturale dotata di senso, provoca una strutturale instabilità normativa, che è tipica degli Stati costituzionali moderni e che diventa parossistica negli Stati totalitarii contemporanei, allorquando i desiderata del Potere politico vengono immedesimati con le ragioni stesse della Storia quale mondo legale umano, giuridico ed extranaturale, ma interpretate ideologicamente come universali e cogenti quanto quelle, indipendenti dall’uomo, della Natura. La riduzione alla finitezza (reductio ad finitum) dell’intera esperienza umana, conseguiva alla previa declinazione pan-politicistica delle relazioni sociali, così che il motivo dominante di questa progressiva assimilazione dell’uomo alla specie naturale attraversava le forme culturali storiche della convivenza come sovrastrutture dell’impianto (Gestell) economico primario. Non è un caso che l’odierno dominio della limite alla forza del potere democratico, interpretata appunto come una plenitudo potestatis pleromatica : Ivi, pag. 15.

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tecnica coincida con la razionalità economica capitalistica, intesa appunto come universalizzazione della forza politica socializzata. Nello stesso senso, gli attuali regimi politici di democrazia capitalistica non sono che varianti parlamentaristiche dello stesso motivo totalitario sotteso ai regimi fascisti e comunisti, derivanti da una stessa matrice ontologico-politica monistica. La trasformazione del Potere politico in potenza tecnico-economica avviene riducendo ad unità funzionale alla relazione di forza ogni manifestazione sociale, interpretata come volontà di affermazione della univoca condizione naturale come paradigma universale. La lotta intrapresa dal Logos contro la trascendenza della verità, prosegue in età moderna come riduzione della socialità dotata di senso razionale allo esclusivo movente economico. Tale movente, a sua volta, anteponendo la salus individualis a quella comune e indeterminata dell’ , rappresenta un perenne stato di eccezione rispetto a ogni normazione generale ed astratta, sicché l’economia della forza socializzata finisce per ridursi alla forza della volontà più forte, che Schmitt nella sua Politische Theologie chiama “sovrana”.928 In termini economici, al monopolio delle risorse; in termini giuridici, al giudizio soggettivo di necessità. 929 Ciò implica che ogni deliberata suddivisione politica della forza economica non può incidere sugli equilibri spontanei delle sue dinamiche se non incidentalmente o per negarli, in quest’ultimo caso ristabilendo un ordine normativo gerarchico autonomo dalla reale detenzione della forza sociale, ovvero indipendente dal criterio economico. Infatti, economicamente milioni di sudditi sono più forti del ceto aristocratico, il cui dominio minoritario non dipende dalla forza in quanto tale ma dalla sua legittimità extra-economica, di carattere carismatico. In natura invece, il vecchio leone indebolito dagli anni viene inesorabilmente spodestato dal giovane maschio più vigoroso e abbandonato alla voracità delle jene. Ma lo stesso avviene nel processo costituente, dove la volontà di determinazione sovrana a stabilire un ordine normativo è di natura pre-giuridica, stabilendo la priorità della Existenzfrage sulla Essenzfrage.930 L’ordine

928

Per la problematica, ved. M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Brescia, 1990, pagg. 147-195. Sul concetto di sovranità, ved. H. Quaritsch, Souveraenitaet Enstehung und Entwicklung des Begriffs in Franchreich und Deutschland vom 13 Jh. Bis 1806, Berlin 1986. 929 Ved. G. Agamben, SdE, pagg. 40-41.

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esistenziale pre-giuridico è ovvero tende all’ordine politico? In altri termini, può esistere un ordine politico pre- o extra-giuridico? La distinzione schmittiana tra norma (Norm) e decisione (Entscheidung) stabilisce la differenza tra un costrutto giuridico generale ed astratto, e un provvedimento politico eccezionale, ossia ispirato dalla contingenza fattuale e non dalla previsione ideale. Tale differenza è la stessa che tra una relazione di doverosità e una di necessità, inscritte entrambe nell’ordine dell’adattamento umano alle condizioni naturali; ma mentre il dovere giuridico è determinato da una situazione tipica, la fattispecie, la decisione eccezionale risponde a un evento imprevisto, che richiede un adattamento complementare a quello normale e normato. È vero, come asserisce Schmitt, che sia “la norma come la decisione, rimangono nell’ambito del giuridico”,931 ma come l’ideale sta all’esistenziale. La condizione esistenziale è quella in cui ciò che è umano viene a trovarsi di fronte a ciò che gli è estraneo e lo sovrasta, e dunque è avvertito come il naturale rispetto al razionale. Il mondo umano, quale mondo-di-ragione, è caratterizzato dalla sua prevedibile fenomenologia, ottenuta attraverso la sistematica esclusione dell’elemento naturale-negativo-casuale dalla sequenza onto-logica eletta come significativa entro l’orizzonte di senso della socialità politico-culturale. L’eccezione è l’elemento negativo che irrompe nel mondo positivo-razionale come il vitale irrompe nel normale e la morte nell’Essere. In questi varchi, in cui la potenza extra-umana riafferma le sue ragioni ostili contro le difese umane, urge una risposta occasionale, che ristabilisca l’unità formale infranta. Eppure il meccanismo è lo stesso per ogni infrazione giuridica, allorquando la pena interviene a correggere l’ordine normativo infranto. Qui, però, a stabilire l’infrazione non è la volontà umana ma il caso. E cosa mette in luce il caso? Esattamente la Differenza tra ciò che è stabilito dall’uomo, e quanto invece immane alla sua realtà artificiale come l’imponderabile negativo. L’incidenza del Negativo nel mondo umano svela l’essenza tragica della condizione umana, che smentisce l’asserita uni-versalità del processo fenomenologico della ragione, governabile dall’uomo quale soggetto artefice e interprete del mondo. Lo stato di eccezione è lo spazio in-frequente, e perciò eccezionale, di sospensione del normale (e dunque del normativo) attraverso accorgimenti in-previsti di ristabilimento 930

Ved. H. Hofmann, Legitimitaet gegen Legalitaet. Der Weg der politischen Philosophie Carl Schmitts, Berlin, 1964, pag. 68. 931 C. Schmitt, Teologia politica, cit. da G. Agamben, SdE, pag. 47.

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dell’ordine infranto. Questi accorgimenti eccezionali sono tecnici, e non magici, nei termini n cui fruiscono delle possibilità inscritte nella virtù umana di farvi fronte, ossia sono accorgimenti razonali. Rimedi come il miracolo o la magia, non sono inglobabili, sia pure ex post, entro l’ordine normativo, e quindi non potrebbero rientrare im Rahmen des Juristischen. L’eccezione di cui si tratta qui è il normabile, l’intervento non previsto come tale, nelle sue modalità, ma possibile entro l’ordine giuridico. L’irruzione della possibilità entro la necessità stabilita dal diritto è, però, di per sé sconvolgente, in quanto confuta l’assunto dogmatico di fondo di ogni statuizione giuridica, che è il suo stesso criterio di legittimazione: ossia la sua necessità. Necessario è ciò che non potrebbe essere altro da ciò che è. Ma l’evento eccezionale smentisce questo assunto, mostrando che l’altro imprevedibilmente emerge dal Nulla cui era confinato dal Logos per affermare la sua alterità, la possibilità cioè che la realtà ontica potrebbe essere altra da ciò che è, ovvero potrebbe anche non-essere. E la possibilità che l’ente non-sia, smentisce appunto la sua necessità ontologica, la sua ragion d’essere. Il provvedimento eccezionale del sovrano, intervenendo a colmare lo jato aperto dalla rivelazione della Differenza, diventa risolutivo nel ristabilimento dell’ordine normativo. Ciò vuol dire che la sovranità non è un atto eroico di un demiurgo che intervenga da deus ex machina, come appunto interveniva nelle tragedie per sbrogliare il nodo avvenimenziale della storia umana, ma è la volontà umana di agire in condizione di possibilità, ossia di libertà, in vece di un dio. Sovrano è colui che eccezionalmente interviene al posto di Dio, e cioè con strumenti tecnici e dunque razionalmente giustificabili, e perciò stesso ripetibili, ossia normabili. Il ristabilimento dell’ordine normativo consiste dunque nella normabilità della decisione eccezionale sovrana. Ovvero, come scrive Schmitt, per la sua sussistenza “si deve creare la situazione, nella quale possano valere norme giuridiche”. 932 Riportare a sistema l’accidentale e imprevisto lo assimila al già noto, togliendogli l’aura del mistero e della paura che accompagna originariamente il  filosofico. Lo stato di eccezione, non di meno, non “introduce nel diritto una zona di anomia, per rendere possibile la normazione effettiva del reale”, come sostiene Agamben,933 ma assimila l’anomia come possibilità giuridica, da extra-giuridica che era originariamente, trascrivendola in termini sistemici, attraverso un atto ermeneutico di 932 933

Cit. da G. Agamben, SdE, pag. 49. Ibidem.

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omologazione del diverso all’uguale, in cui consiste la razionalizzazione della realtà, colla quale, pervenendo a una corrispondenza formale dell’ente fenomenico alla sua corrispondente idea, si sopprime la Differenza. Lo stato di eccezione è pertanto il luogo giuridico simbolico della realtà della condizione tragica dell’umano, rimossa attraverso la rappresentazione (Vorstellung) ontologica universale, che, in ambito giuridico, legittima la vis obligandi di una decisione sovrana avente “forza di legge”. In cosa consiste detta “forza”? Nella possibilità di colmare con atto imperativo, cioè efficacemente, la distanza che separa la norma (il dettato normativo sul caso astratto e generale, ideale) dalla sua valenza concreta (applicazione al caso reale). Tale forza, come detta, non è normativa ma precede la normazione, e non è politica, in quanto non razionalmente efficace, in virtù della sua cogenza logica, ma è carismatica. Allorquando Weber chiarisce che la “legittimità” di un potere coincide con la “possibilità” che la propria pretesa “valga” a garantire la sua sussistenza attraverso l’uso dei mezzi prescelti, attribuisce alla validità dell’esercizio del potere un carattere fideistico che riveste la credenza nella sua necessità di un carattere “sacro” ovvero carismatico, 934 intendendo per questo un legame che trascende la relazione di potenza economica e con essa il nesso razionale di causalità che collega la possibilità di esercizio con la forza normativa. L’elemento sacrale del Potere ne rappresenta il carattere trascendente, senza il quale lo jato tra normalità ed eccezionalità della sua vigenza non potrebbe essere colmato. E poiché la reductio razionalistica tende a espungere dal sistema normativo ogni ingerenza allotria al processo causale auto-poietico, lo stato di eccezione rappresenta lo squarcio dell’edificio giuridico attraverso il quale viene in evidenza il carattere convenzionale della relazione politica, e per essa della stessa necessità della relazione formale logicamente costituita tra eventi posti in sequenza causale. In altri termini, lo stato di necessità mostra come la necessità della relazione causale tra eventi, esplicativa di senso razionale, non sia altro che una credenza, convenzionalmente tributaria di un significato metafisico e sociale punto necessario, ma soltanto possibile, e perciò non uni-versale. La convenzionalità nella sua necessità metafisica costituisce il carattere fideistico della asserita universalità del valore del Logos quale esplicatore ed interprete del senso razionale del mondo. 934

Ved. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft (1922), tr. it., Milano, 1968, vol. I, pagg. 209 e 210.

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La dimensione contro la quale si scontra e combatte la Necessità razionale è la Possibilità che essa non sia universale, e dunque sia solo contingente, come appunto viene in evidenza nello stato di eccezione, in cui si lacera la connessura convenzionale che rende (apparentemente) conchiuso il sistema normativo, che i romani indicavano col termine di “iustitium”, “quando ius stat sicut solstitium dicitur”, e che Aulo Gellio definiva appunto “iuris quasi interstitio quaedam et cessatio”. 935 A questo punto è chiaro quale sia l’hostis contro cui combatte il Logos per affer mare la sua universale necessità: è l’Alterità quale il Negativo che si oppone alla positività del reale razionale, ossia alla decisione ontologica fondamentale a favore dell’Essere anziché del Nulla. Ciò che rende eticamente valida la decisione ontologica per l’Essere è la credenza nella sua necessità universale e non contingente, con la quale si esclude statutariamente la possibilità della sua relatività, e cioè della possibilità che il senso razionale del mondo non sia l’unico parametro assiologico possibile. La legittimazione universale della verità di ragione fa di questa un valore etico, e di converso il carattere etico della verità di ragione fa di essa un valore universale. La struttura chiusa del sistema razionale si fonda dunque su una fondamentale tautologia, che la credenza nella sua necessità rende “sublime”, ma che comunque viene smentita nelle situazioni-limite in cui l’esperienza e la scienza umane discoprono la Differenza, che viene derubricata dalla fede ontologica come “stato di necessità”, ma che in realtà costituisce il fondamento originario (arché) di ogni orizzonte di senso. Il carattere arcaico della Differenza è dato dalla sua natura trascendente, tale cioè da non poter essere riducibile ad alcuna relazione di assimilazione negatrice della sua alterità. Questo suo non poter essere ne costituisce la vera e insuperabile Necessità, e pertanto l’indisponibilità da parte della volontà umana. Dalla consapevolezza di questa Necessità insuperabile sorge la coscienza tragica dell’uomo, quel  a partire dal quale ha inizio la risposta filosofica, il cui criterio di legittimità universale renderà alternativa a quella mitico-religiosa tradizionale. Lo stato di eccezione (iustitium) sospende la credenza nella necessità del sistema giuridico-razionale e riabilita, sia pure occasionalmente, la natura trascendente del sacro, non più assunto come immanente al sistema normativo eticizzato. Reintroducendo la possibilità entro la necessità razionale, viene messa tra parentesi la (fede nella) sua universalità, 935

Cit. da G. Agamben, SdE, pag. 56.

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rendendo naturali i rapporti umani col sospendere le prescrizioni giuridiche ed etiche, considerandoli alla stregua di quelli invalsi tra esseri di natura, dediti esclusivamente alla loro sopravvivenza biologica. Ciò che è l’ultima necessitas del sistema giuridico per la salvezza dell’homo naturalis, è l’ per la salvezza dell’homo spiritualis: ossia la condizione-limite in cui si trova la coscienza, sospesa esistenzialmente tra razionalità etica e necessità naturale, e metafisicamente tra finitezza ed eternità. In questo spazio tragico va ambientata la libertà morale della scelta storica di aderire a uno o altro dei due estremi dell’alterità, non col fine di annullare economicamente l’umanità nella animalità ovvero rispettivamente nella ascesi spirituale, alla maniera formale kantiana della universalizzazione etica della contingente decisione, ma col fine opposto di garantire quella possibilità che ogni universalità giuridico-formale nega in principio. In questo senso, salvaguardare lo spazio tragico della coscienza morale equivale a garantire la stessa libertà esistenziale dell’uomo. Nell’orizzonte dello spazio tragico va interpretata la vicenda storica di Gesù di Nazareth quale rappresentazione simbolica della kenosis divina, ossia come sospensione del tempo naturale per irruzione del Mystero escatologico nel mondo. Nell’ambito rappresentativo di tale evento simbolico è possibile assegnare alla modalità agapica delle relazioni umane il suo senso significativo trascendente ed escatologico, alternativo al modo precipuamente giuridico della socialità politica razionalizzata. Ciò implica la sostituzione della dicotomia metafisica di Essere e Nulla, e della conseguente opposizione razionalità / irrazionalità, ente / niente, con l’alterità di Storicità e Tragicità, quali poli non dialettici ma archetipi della Differenza, che distinguono la sfera fenomenologica della finitezza, dominata dal principio di necessità, dalla sfera della trascendenza, dominata dal principio di libertà. È chiaro che ogni tentativo umano di costituire un mondo di libertà entro la dimensione naturalistica della finitezza, dominata dalla Necessità, è destinato a fallire, poiché, come sappiamo, il principio direttivo della vita biologica inscritta nelle leggi di natura è l’eccezione della vita nella regola della morte. Capovolgendo i termini di priorità nella speranza di rendere universale una condizione contingente, non emancipa l’uomo dalla condizione naturale ma lo avvolge nelle sue spire immanenti, rafforzando la sua dipendenza dal destino mortale giustificandola razionalmente. Ma ascrivere la condizione umana alla civiltà, e dunque alla storia della specie, anziché alla esistenza 449


singola di ogni uomo, non fa del genere umano una stirpe divina di immortali, ma sposta il momento della verifica confutativa del senso razionale del mondo alla fine dei tempi, a quell’  che così viene escluso dalla vicenda umana come una condizione-limite, una eccezione appunto, rispetto allo stato fisiologico della normalità etico-giuridica della socialità politica. Non di meno, il differimento della verifica empirica di un assunto fideistico non lo priva del suo carattere ipotetico, rendendo anzi la tragedia della vita un gioco regolamentato di volontà eudemonisticamente tese a conseguire in maniera sistematica una effimera  di carattere economico-materiale: in pratica, a prolungare tecnicamente la sopravvivenza biologica nelle migliori condizioni possibili offerte dalla lotta contro la Necessità della morte. La rimozione della realtà ipotetica del costrutto rappresentativo razionalistico del mondo, rende lo stato di eccezione un vacuum che da giuridico diventa esistenziale e metafisico, poiché lo spazio che essa disvela non è accompagnato dalla coscienza della vera necessità, ma solo dalla meraviglia scandalizzata della profanazione della fede ontologica che aveva sostenuto il mondo razionalizzato, creato a difesa del destino mortifero della Natura. All’interno dell’orizzonte di coscienza razionalistico, il Mystero della Rivelazione cristiana assumere un carattere di minaccia all’assetto ontologico del Logos universale, che va neutralizzata trasferendone i contenuti trascendenti dal piano suo proprio della Tragicità a quello improprio della Storicità, trascrivendo di conseguenza in termini razionalistici le vicende simboliche, neutralizzando per tal via la portata escatologica del messaggio evangelico nella modalità del racconto mitico, depotenziandone la portata sacra in fenomeno religioso. È stato così che il messaggio della Verità, cioè della Rivelazione della Differenza, è divenuto una rappresentazione theo-logica, in cui il Logos rappresentava il divino e lo giustificava razionalmente. Ma poiché ogni giustificazione razionale avviene per universalizzazione della fede nella posizione ontologica, lo strumento ancillare si è col tempo emancipato in posizione dominante, espungendo dal sistema rappresentativo il fine trascendente, la stessa Rivelazione di Dio, divenuta una Idea platonica. La rappresentazione razionalistica del Mystero divino come fenomenologia della storia sacralizzata, costituisce la versione culturale moderna della metafisica greca.

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La questione dell’efficacia del comando politico (potestas) “in assenza di ogni prescrizione e determinazione giuridica”, proprio dello stato di iustitium, viene inquadrata entro la categoria neutrale della mera fattualità della auctoritas, “il cui apprezzamento, una volta scaduto il iustitium, dipenderà dalle circostanze”,936 ossia dai concreti rapporti di forza politici, che ristabiliscono i criteri di valore sospesi dalla messa in mora del diritto. Ma questa soluzione sospensiva di ogni indicazione prescrittiva (nomos) non riflette altro che la condizione anomica originaria in cui la coscienza viene a trovarsi fuori della presunta necessità del sistema logo-ico, dominato cioè dal processo causale del Logos universale, condizione che rimette alla volontà di determinarsi secondo coscienza, ossia secondo intimo convincimento intenzionale ovvero secondo pratica opportunità. Ed è esattamente questa condizione anomica originaria che viene occultata con la posizione ontologica, che decide per l’Essere anziché per il Nulla, inteso appunto come tale condizione di indeterminazione anomica. Ed è la stessa condizione che la conversione (metanoia) cristiana ricupera al fine di mutare l’orientamento dell’agire umano in senso diverso dalla prassi economico-politica, dominata dall’istanza affermativa della volontà propria opposta a quella altrui, e volta invece alla con-prensione del sé nell’altro, che per ogni uomo è Cristo. Questo movimento verso l’altro fa della relazione una koinonìa ben diversa dalla socialità politica, non basando sulla forza il proprio criterio di legittimazione ma sulla carità, ossia sulla possibilità di rapportarsi all’altro, non solo relativamente alla sua capacità dialettica di stabilire relazioni di senso condivise, ma entro l’orizzonte della coscienza tragica, assumendo perciò della esperienza dell’altro anche quanto non afferisce alla sua compatibilità con la nostra istanza primaria di affermazione, non rimuovendola sol perché logicamente insussumibile nella struttura formale della coscienza razionale. E ciò nella consapevolezza che l’affermazione del sé non può rimuovere che momentaneamente e contingentemente la insuperabile frattura che la posizione ontologica determina nei confronti di ciò che originariamente la trascende, e che il Logos occulta sostenendo l’esclusiva realtà dell’ente attuale. Da questa consapevolezza nasce la pre-disposizione della coscienza ad amare l’Altro, non già come oggetto strumentale della propria affermazione, ma come condizione stessa di rappresentazione del mondo. 936

G. Agamben, SdE, pag. 65.

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Nell’orizzonte della carità cristiana, lo stato di eccezione perde i suoi connotati negativi di indeterminazione anomica (Entsetzung) per acquistare il valore di una occasione di conversione spirituale alla vera origine, sostituita falsamente dall’idolum tribus metafisico, cioè da quell’Essere al quale ogni fenomeno contingente va commisurato quale accidentale rispetto al necessario metron onto-logico. Lo skandalon rappresentato dall’amore cristiano consiste appunto nella rimozione dalla coscienza interiore della credenza nella necessità di una rappresentazione del mondo come tensione polemico/amicale che era invece soltanto il prodotto di una fede metafisica, di origine naturalistica, che la rivelazione della Differenza confutava inesorabilmente, escludendo perciò dalla decisione (Entscheidung) ontologica ogni crisma di necessità, mostrando di contro come la conseguente volontà di potenza nascondesse sotto l’egida del diritto la sua nuda violenza (Gewalt). La forza del diritto, dunque, privata della credenza nella sua necessità universale e mostrando la sua natura violenta, va ascritta alla necessità che domina la vita biologica di quella Physis che la coscienza antica aveva divinizzato nella rappresentazione tragica della condizione umana e dalla quale la rappresentazione razionalistica del mondo tentava di sfuggire concependola come temporanea ed eccezionale. Ma proprio questa rimozione della condizione tragica dell’uomo fa della rappresentazione razionalistica della condizione umana un mito fenomenologico, che trova in Aristotile il suo principale teorico antico e in Hegel il suo maggiore interprete moderno. In entrambi i pensatori, infatti, la condizione ontologica viene rappresentata come l’orizzonte intrascendibile della esistenza (Aristotile) e della coscienza (Hegel) umane. Se la in-differenza dell’Essere è il nomos che ispira il Logos, l’orizzonte normativo diventa la struttura razionale dell’occultamento metafisico della verità della Differenza, e la stessa potenza sovrana appare come la potestas che reprime la coscienza della Differenza attraverso lo strumento dell’assimilazione razionale del diverso nell’uguale e della neutralizzazione giuridica dell’altro come nemico. In questa attività potestativa, il Potere decisionale manifesta la sua sovranità (Herrschermacht) facendo violenza alla condizione umana sostituendola con una sua rappresentazione ideo-logica, all’interno della quale essa esplica le sue possibilità di dominio, a un tempo fattuali e razionali. Infatti, solo all’interno del suo orizzonte di senso razionale la prassi 452


umana acquista il suo senso normativo. La considerazione teorica perciò di una zona neutra di in-determinazione rende in-possibile ogni determinazione di valore della volontà, la cui manifestazione perciò è suscettibile di arbitraria considerazione assiologica, la cui stessa possibilità confuta l’assunto di principio della necessità di ogni statuizione giuridica. In questo senso Schmitt cerca di portare a sistema la condizione eccezionale dello stato di anomia, facendolo apparire alla stregua di un problema che si pone alla coscienza filosofica. Non sussisterebbe filosofia senza soluzione del mistero, così come non vigerebbe alcun diritto senza sistematicità normativa. La possibilità di una indeterminata e neutra “cosa in sé” farebbe perdere sia alla ragione filosofica che alla effettualità del diritto il loro crisma di necessità, ossia la loro legittimazione universale. Ciò che infatti si registra nel diritto circa la incomponibilità della “frattura che divide il corpo del diritto” nello stato di eccezione, che si verifica appunto allorquando “tra Macht e Vermoegen, fra il potere e il suo esercizio si apre uno scarto che nessuna decisione può colmare”,937 vale anche per il pensiero filosofico in genere, che deve superare la differenza costituita dal noumeno per affermare la potenza universale del Soggetto trascendentale, mercé la asserita corrispondenza tra sovranità e trascendenza, che omologa l’uomo a Dio, così come chiarito da Schmitt nella sua Teologia politica.938 La normalizzazione dello stato di eccezione operata dal nazismo nel senso della dilatazione del tempo incidentale, snatura il rapporto del poter sovrano con il normale orizzonte assiologico in relazione al quale la situazione eccezionale rappresenta un Grenzbegriff che ha “la funzione di rivelare la struttura della realtà giuridica, cioè il suo non essere esaurita dalla sfera della realtà oggettiva e positiva”. 939 La dilatazione dello stato di eccezione, negando la sua incidentalità e contingenza, ed equiparandosi alo stato di normalità giuridica, nega la necessità etica di questa e quindi la sua asserita universalità logica, riaffermando nella coscienza tragica la verità della Differenza rimossa dalla decisione ontologica. Ciò implica che il carattere esclusivo della decisione ontologica non può riconoscere al Negativo altro-da-sé gli stessi diritti universali, ma deve assumerlo come evento incidentale e temporaneo, al pari di una sommossa rispetto alla pace politica. Invece, “quando l’eccezione diventa la regola, la 937

G. Agamben, SdE, pag. 73. Ved. G. Agamben, SdE, pag. 74. 939 Ved. M. Nicoletti, Trascendenza e potere, cit., pagg. 149-150. 938

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macchina non può più funzionare”, e “ogni finzione di un nesso fra violenza e diritto viene qui meno: non vi è che una zona di anomia, in cui agisce una violenza senz’alcuna veste giuridica”, come messo in luce da Benjamin.940 Dalla rimozione della soprastruttura giuridica del politico si svela, come stato d’eccezione, il fondo biologico dell’ esistenza, che è violenza, sforzo di sopravvivenza, mimetismo zoologico, “pura esistenza”, stato di natura. Ma la situazione eccezionale della condizione naturale non consiste nella sua temporalità breve, la quale, come nel caso ricordato del nazismo, può dilatarsi più o meno significativamente ed è comunque una sua conseguenza, ma nella decontestualizzazione della convivenza da ogni esperienza culturale e finalità assiologica, ossia fuori di quel processo di adattamento antropologico che costituisce il tratto tipico e proprio dell’esistenza umana. Lo stato d’eccezione non è propriamente una regressione culturale verso forme minimali di convivenza meramente economica, ma una regressione antropologica verso modelli zoologici estranei all’umano, e perciò acquisibili solo temporaneamente e precariamente. Ciò che nello stato d’eccezione insorge è la condizione umana de-moralizzata, di cui la sospensione anomica del diritto è la manifestazione istituzionale, ma non costituisce l’origine dell’infermità socio-culturale. Questa va rinvenuta nella coattiva riduzione della esistenza umana alla esclusiva condizione di finitezza, recisa da ogni mediazione culturale col differente trascendente. in altri termini, allorquando la relazione tra il modello ontologico ideale e la realtà empirica del mondo-della-vita sia costituita arbitrariamente come assoluta, e perciò denegante la singolarità della persona umana, la cui unicità non è rapportabile all’astratta omologazione egalitaria pretesa dalla relazione ideo-logica. La condizione de-moralizzata consiste nella pretesa, funzionale all’assicurazione del Potere di controllare la prassi sociale, di considerare significativa ai fini della rilevanza di senso sociale la sola volontà degli agenti, a esclusione di ogni relazione del mondo con la loro individuale intenzione, la cui incontrollabile intimità rende incerto il controllo politico. In questo senso, il Potere agisce sul controllo delle volontà individuali attraverso il monopolio ermeneutico del significato sociale della comunicazione umana, consentendo o inibendo la partecipazione degli attori sociali allo spazio pubblico significativo, da esso definito e custodito. La violenza che pertanto il Potere esercita sulla 940

Ved. G. Agamben, SdE, pagg. 75-77.

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condizione umana, può essere manifestato in guise diverse, dal silenzio alla tortura, ma tutte convergenti verso l’unico scopo essenziale di direzionare la molteplice volontà nell’univoco senso semantico indicato come dal Potere stesso come socialmente significativo, e dunque pubblicamente rilevante. La creazione e la custodia dello spazio pubblico rappresentano le manifestazioni più cospicue del potere di controllo socio-politico. La riduzione dell’espressività umana socialmente rilevante alle sole manifestazioni della volontà pubblica sono il portato ideologico della fondazione ontologica e della correlata metafisica idealistica del Logos, la quale, eliminando ogni forma di mediazione tra il modello e il fenomeno, considerata accidentale ed empirica, ha stabilito come significativa la sola espressione fattuale della volontà umana, entro lo scenario pubblico ideale della Storia, lo spazio pubblico universale dell’umanità naturalizzata, della cui fenomenologia lo storicismo è la trascrizione razionale. La realtà metafisica della Differenza trova il suo riscontro esistenziale nella relazione insuperabile tra intima coscienza e pubblica volontà, registrata dalla tragedia antica, in cui agivano le ragioni trascendenti di valore assoluto e le opportune ragioni sociali, le uniche che il Potere considera appunto rilevanti perché oggettive, ossia omologate al modello di prassi assiologicamente valido. L’oggettività del comportamento prescritto dalla norma astratta e universale della legge è non a caso il requisito essenziale di ogni fattispecie giuridica, che nella pre-visione della volontà retta fa consistere il suo carattere prescrittivo. Nell’atto in cui la predicazione evangelica delocalizza la verità dal luogo pubblico, controllato dal Potere, all’interiorità della coscienza, governata da Dio, si determina uno spostamento del baricentro del comando dalla generica e uniforme collettività in direzione della individuale soggettività, facendo di ogni singolarità personale un luogo di elaborazione di valori non controllabile dal Potere politico, che tende perciò a negarlo privandolo di ogni significazione pubblica. La privatizzazione delle fedi religiose, come delle rappresentazioni metafisiche, determina la esclusione della loro rilevanza semantica dallo spazio pubblico, e il loro declassamento noetico a mitologia culturalmente marginale. La relazione tra norma giuridica e realtà sociale non è pertanto l’unico scenario in cui si determina il profilo dell’esistenza umana, ma è quello in cui quella relazione viene esaltata come l’unica veramente significativa 455


per l’uomo. Il luogo interiore, soggettivo e misterioso, in cui si sviluppa l’altra relazione esistenzialmente significativa, quella tra la coscienza intenzionale e l’Altro, che diventa perciò il mediatore speculare alla struttura giuridica, ispiratore di una normazione concreta e individuale, che rispetto a quella astratta e generale del primo, non è sopprimibile dal Potere, non essendo una creazione giuridica. La relazione vichiana tra verum et factum è a proposito illuminante, in quanto mostra chiaramente la indisponibilità di quanto non creato dall’uomo, e dunque non rapportabile alla dimensione del lavoro inteso come trasformazione del mondo. Se un lavoro c’è e una trasformazione interviene nella coscienza intenzionale dell’uomo è in hinteriore, e non oggettivabile in termini assoluti, poiché la sua manifestazione fenomenica non è mai esaustiva della intenzione che la ispira, la quale rimane un mistero inviolabile per il Potere. L’ignoranza sistematica di questo orizzonte di coscienza è la premessa metodologica della razionalizzazione del Potere, il quale è tanto più efficiente quanto maggiore è la sua capacità di rimuovere dall’ambito dello spazio pubblico la rilevanza del foro interiore fruendo del servizio giuridico. Si comprende pertanto la necessità, avanzata anche da Schmitt, di definire i confini del giuridico in coincidenza con quelli dello spazio pubblico, tali da non lasciare incustodito alcun luogo franco. Ciò che è il concetto per la filosofia greca è l’imperium per il diritto romano, inteso come autorità valevole erga omnes e finalizzata alla riduzione in obbedienza di tutti i comportamenti all’unico modello di prassi ritenuto legittimo, ossia valido. All’autorità del Logos fa riscontro l’autorità legale, entrambi tendenti alla reductio ad unum delle molteplici volontà. Per addivenire a questo esito è indispensabile de-finire l’ambito di validità semantica del significato pubblico della volontà umana. Se lo sforzo della filosofia era di concepire un metodo razionale in grado di garantire la legittimità dell’assunto ontologico fondamentale contro ogni opinione contingente, e cioè in grado di giustificare in senso universale la sua necessità, lo sforzo del diritto era di ideare un sistema normativo in grado di legittimare razionalmente ogni comando politico, assumendo la pace sociale come corrispettivo della universalità del sistema logico. E così, tanto il sistema metafisico che quello giuridico cercano la loro rispettiva legittimazione in un principio che trascenda lo strumento operativo della loro efficacia teorica e pratica: la credenza nella sua necessità, ontologica nel caso della metafisica, e carismatica nel caso della vita politica. Questo elemento aggiuntivo alla reine Gewalt 456


strumentale è quello che in realtà fonda strutturalmente tanto il sistema filosofico che quello giuridico dello Stato, ed è lo stesso che entra in collisione concorrenziale con il fondamento di fede trascendente predicato dal Cristianesimo, secondo quanto emerge dalla stessa domanda che Pilato rivolge a Gesù circa la natura della verità. La rottura teologicopolitica si consuma nella opzione trascendente, che contesta la legittimazione universale del Potere, rivelandone il carattere meramente rappresentativo, e dunque ideologico, del suo oggetto, il Gewalt. La definizione della “purezza” (Reinheit) offerta da Benjamin in una missiva del 1919 conferma quanto qui asserito. È un errore presupporre una purezza che consiste in se stessa da qualche parte e che deve essere preservata […]. La purezza di un essere non è mai incondizionata e assoluta, è sempre subordinata a una condizione. Questa condizione è diversa secondo l’essere della cui purezza si tratta; ma non risiede mai nell’essere stesso. In altre parole, la purezza di ogni essere (finito) non dipende mai da questo stesso essere […]. Per la natura,la condizione della sua purezza che sta fuori di essa è il linguaggio umano.941

La condizione originaria del Gewalt è pre-razionale e pre-civile quanto lo status naturae, e la sua eccezionalità risiede nella astrazione in quanto Grenzbegriff da un contesto assiologico qualificante, che ne giustifichi normativamente la destinazione. La possibilità di connettere razionalmente la violenza con un contesto normativo che la legittimi sfuma nel momento in cui la predicazione cristiana rimuove, col fondamento sociologico della convivenza, anche il relativo criterio politico della pace, il cui valore assiologico è relativo al contesto polemico rispetto al quale rappresenta il remedium mali. Se infatti la modalità di convivenza umana cambia di paradigma, e da quello naturalistico-politico passa a quello spiritualistico-caritativo, o se vogliamo da quello erotico a quello agapico, il dispositivo giuridicorazionale della legittimazione del Potere perde di senso teleologico, non essendo la pace, cioè lo scopo politico del diritto, il tèlos della relazione comunicativa degli uomini, ma la salvezza spirituale, che afferisce allo spazio intimo della coscienza intenzionale, e non già a quello pubblico della volontà.

941

W. Benjamin, Briefe, cit. da G. Agamben, SdE, pag. 79.

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Rimossa la necessità dalla violenza, cade con questa anche il motivo giuridico-razionale della sua fruizione sociale, ossia la struttura stessa del sistema politico, che rimane in-giustificabile alla coscienza cristiana, e perciò non necessaria. Uno strumento normativo non necessario non può credersi universale, ma semmai opzionale e possibile, ossia arbitrario. L’inserzione dell’arbitrio nel sistema giuridico-politico viene a questo punto ad assumere un rilievo tutt’altro che contingente ed eccezionale, rappresentando di contro la faglia non varcabile della Differenza, che rende il dispositivo tecnico dell’Ausnahmezustand un incongruo sofisma dialettico, vertente a discernere “all’interno stesso della sfera dei mezzi, senza riguardo ai fini”, la presunta legittimità della violenza.942 Nella prospettiva cristiana, la giustificazione non si ottiene più attraverso il costrutto razionale della linguaggio, cioè attraverso il metodo dialettico, esclusivo delle false possibilità logiche, ma attraverso la corrispondenza con la Parola rivelata; una corrispondenza non di senso onto-logico ma intenzionale-esistenziale, impegnante non il solo nous, ossia la rappresentazione del mondo, o la praxis formalizzata dalla normativa legale, ma l’intera personalità, il cui agire non era costituito da acta o da facta in sé considerati, bensì dalla destinazione stessa della personale esistenza a un fine spirituale trascendente la stessa finitezza umana, e dunque anche la socialità quale risposta collettiva funzionale all’adattamento biologico della specie alla natura, un fine cioè escatologico, non oggettivabile. In tal senso la posizione radicale ed estrema dello stato di eccezione, che corrisponde alla “vita” biologica, nella dimensione escatologica è ascesi impolitica, che non si oppone al destino mortale della carne ma lo sublima donandola alla testimonianza dell’Altro, secondo la fede nella Verità rivelata dalla Parola divina, sconosciuta a Pilato, che credeva nella parola normativa di Cesare. La Parola di Cristo è “pura” nel senso di Benjamin, in quanto cioè “non è strumento al fine della comunicazione, ma comunica immediatamente se stessa”,943 per cui il linguaggio del Mediatore è la Sua stessa esistenza nella intierezza della testimonianza della fede, fino al martirio della carne, tributo al destino di morte della natura, la quale, a sua volta creatura divina, si inscrive nel disegno escatologico come elemento economico della salvezza divina. Ascritta a un prima e a un dopo, la forza della Natura, che nell’orizzonte del politico diventa la misura della stessa 942 943

Sono ancora parole di Benjamin, riportate da G. Agamben, SdE, pag. 80. Cit. da G. Agamben, SdE, Ibidem.

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capacità adattiva della ragione umana, viene trasvalutata nell’orizzonte cristiano in funzione soteriologica strumentale al Mystero divino, che si assume dunque, attraverso la Rivelazione, come inizio arcaico e come fine escatologico dell’esperienza intermedia dell’uomo, ossia come la vera Totalità fittiziamente ascritta all’Essere, posto come inizio ( ) dalla decisione ontologica. Nella prospettiva escatologica, la “vita” biologica non è il fine della esistenza umana, garantito dal diritto e dalla politica, ma il passaggio verso la salvezza spirituale, garantito dalla Verità-Parola, dal Verbo divino. Rispetto al fideismo ontologico antico, il credo cristiano non sostituisce semplicemente gli antichi dèi col Dio ebraico, ma de-storicizza l’universalità che il naturalismo greco e il monoteismo ebraico avevano reso immanente perché interno all’esperienza umana nel tempo. Diversamente da quanto si è a lungo creduto, la Rivelazione cristiana non ha sacralizzato il mondo umano desacralizzando la natura, ma ha reso trascendente la unione spirituale che la metafisica pensava come unità ideale, introducendo nel pensiero la coscienza della Differenza tra finito e infinito, tempo ed eterno, che non sono elementi dialettizzabili e riducibili l’uno all’altro, poiché appartengono a dimensioni diverse dell’esistenza umana. Tra le due dimensioni non vi è passaggio di ragione, o altra forma di mediazione formale, quale le istituzioni giuridiche, ma relazione tra la sfera della vita finita, inerente all’uomo quale abitatore del tempo, e la sfera della coscienza, inerente alla presenza spirituale nell’uomo di Dio. L’esperienza della Differenza tra le due dimensioni esistenziali non è conseguenza di una nozione teoretica, ma scaturisce dalla stessa esistenza dell’Uomo, che per ogni umano è Cristo. Nella nuova figura cristica viene compresa, in termini esistenziali di storia personale, la nuova rappresentazione antropologica dell’uomo personale, custode della relazione singolare (spirituale) con Dio e della relazione naturale (razionale) col mondo. Non vi è storia se non personale, poiché soltanto l’esistenza dell’uomo comprende le due dimensioni della Differenza. In questo senso spirituale, la storia dello uomo è il luogo della vita temporale dove s’interseca l’esperienza dello eterno, cioè la dimensione escatologica trascendente la vita biologica. Aver interpretato theo-logicamente la mediazione di Cristo come Logos è all’origine del Grande Fraintendimento Culturale che ha prodotto la teologia politica europea e la civiltà razionalistica occidentale.

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La conseguenza più rilevante del Grande Fraintendimento è l’universalizzazione dello stato di eccezione quale anomia collettiva istituzionalizzata, la quale, per il versante culturale, ha trasformato il paradigma storico personale introdotto dal Cristianesimo in Storia dell’umanità, proiettando l’ della coscienza individuale in processo della coscienza collettiva, rendendo temporale il trascendimento del tempo interpretato come progresso messianico, e per il versante politico, ha creato il sistema totalitario attraverso l’unità immanente della forma Stato, equivalente istituzionale dell’assoluto divino nella forma della rappresentazione (Hegel). Ciò ha comportato che l’intermezzo eccezionale dello iustitium diventasse l’orizzonte immanentistico intrascendibile944 entro il quale il Potere sovrano potesse definire lo spazio pubblico come luogo sacro in cui la pace dell’ordine normativo era garantita dalla guerra della tensione politica. La sacertà del luogo pubblico consisteva nella coesistenza degli opposti scopi, rispettivamente di pace del giuridico e di guerra del politico, in uno stesso fine totalizzante garantito dal sovrano, secondo la figura cesaristica della teologia politica eusebiana dell’Elogio di Costantino, riabilitata in un contesto secolarizzato dalle teorie statalistiche di Marsilio da Padova, a scapito della teologia politica tomista espressa nel De regimine principum, che prevedeva la subordinazione della potenza terrena alla Grazia.945 Entrambe tali visioni mirano, sia pure in senso inverso, a una unità per subordinazione dell’altro termine dialettico, tentando di risolvere la Differenza ontologica in opposizione logica. Errore che non fu commesso dalla teoria imperiale di Dante espressa nel Monarchia, comprensiva della duplice figura dell’Imperatore e del Pontefice a rappresentare ognuno la rispettiva beatitudine destinata all’uomo quale essere terreno ed essere eterno.946 Non di meno, fu Dante per primo a concepire sul piano politico-istituzionale l’idea di uno spazio storico universale che riflettesse 944

E. Nolte individuò nella lotta contro la trascendenza l’istanza razionalistica che legittimò l’ideologia totalitaria fascista: Der Faschismus in seiener Epoch, cit. 945 Ved. W. Dilthey, EdG, pag. 440 e 442. Agamben fa risalire la formula del basileus nomos empsychos al trattato di Diotogene Pitagorico Sulla regalità: ved. G. Agamben, SdE, pagg. 89 sgg. 946 Ivi, pag. 441. Sulla “dottrina della sinfonia” tra Imperatore e patriarca elaborata, sulla scorta della Novella VI di Giustiniano, dal codice di Basilio I, l’ Epanagoguè, promulgato nell’885, ved. J-C Eslin, Dieu et le pouvoir, Paris, 1999, pagg. 73 sgg.

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il modello ideale di società virtuosa concepita da Platone nella Repubblica in scala di polis, oggi perseguita dall’ideologia democraticocapitalistica propugnata dagli USA, eredi contemporanei dello imperialismo totalitario di segno razionalistico-immanentistico. Lo spazio dell’eccezione giuridica viene a sovrapporsi a quello della elaborazione del lutto pubblico,947 in ragione della comune celebrazione della morte quale dimensione dell’esperienza naturale in cui la condizione anomica spinge l’esistenza umana de-moralizzata. La morte, infatti, sospende il processo della vita propria concludendo quello del morto. Nella insuperabile distanza tra l’esperienza diretta e quella esperita per partecipazione emerge e si consuma lo scandalo ( ) del lutto, che sospende il tempo della vita e i riti di adattamento alla natura, compreso quelli giuridici del sistema politico in caso di morte del sovrano. Questi infatti, rappresentando esistenzialmente l’unità totalizzante del Logos e del Nomos, con la sua morte evidenzia il carattere provvisorio della sua sacertà e il predominio della fatalità mortale della condizione naturale, rispetto alla quale, il temporaneo potere sovrano decisorio costituisce l’eccezione. Sicché, durante il suo esercizio in vita, il Potere sovrano stabiliva la regola della normalità, consistente appunto nella rimozione della morte. Sopraggiunta questa, la regola normativa viene a sua volta sospesa, poiché i termini della vigenza vengono sovvertiti a favore della preminenza della morte, e pertanto lo stato di eccezione è stabilito in relazione al contesto normativo vigente pro tempore. Durante la vita, è la morte altrui la condizione eccezionale dei superstiti, mentre nella dimensione mortale passiva, eccezionale appare l’esperienza vitale conchiusa con la morte. La fictio juris della duplice corporeità del re, quella nominale e quella reale, rappresenta l’éscamotage razionalistico ideato dal diritto per superare lo stallo anomico determinato dall’evento mortale, senza però che il dispositivo normativo possa del tutto cancellare l’assenza, cioè elaborare compiutamente il lutto, in quanto la storia personale del sovrano defunto rimane comunque sua e diversa da quella della nuova figura simbolica della vita assoluta. La diversità delle storie personali dei sovrani, e degli uomini in genere, marca l’insuperabile Differenza che intercorre tra la finitezza della vita naturale del soggetto individuale e il senso normativo della vita del soggetto collettivo, che il rispecchiamento idealistico ha cercato di colmare attraverso la logica dell’identità simbolica, che nel regime monarchico antico è forma di 947

Ved. G. Agamben, SdE, pagg. 84 sgg.

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rappresentanza divina, mentre nel moderno regime democratico è di rappresentanza nazionale. La compresenza del Logos e del Nomos nella stessa persona del sovrano, con le caratteristiche sopra evidenziate, rappresenta sul piano sociopolitico la convergenza di necessità e possibilità quale dialettica dell’immanenza, espressiva della totalità relativa alla sfera della finitezza, che potremmo indicare come razionalizzazione della pace, nel cui orizzonte va compreso il dispositivo giuridico del contraddittorio stato di eccezione, e della simmetrica “anarchia legale” delle feste anomiche tradizionali, nelle quali “la massima soggezione della vita al diritto si rovescia in libertà e licenza”, e la commistione “del carattere luttuoso di ogni festa e del carattere festoso di ogni lutto” mostra tanto la “distanzia” quanto la loro “segreta solidarietà […] come un campo di forze percorso da due tensioni coniugate e opposte: una che va dalla norma all’anomia e l’altra che dall’anomia conduce alla legge e alla regola”. 948 In questo percorso dialettico, che si svolge come una tragedia dall’equilibrio precario e irrisolto, procede il Geist hegeliano, che risolve nel concetto la necessità, intesa come “passare” della coscienza del soggetto “nell’unità di sé e del suo contrario”.949 Ma tale processo, nella sua unità finita, deve produrre al suo interno la tensione tragica per confermare dialetticamente la supremazia della posizione originaria, che sul piano politico equivale al dominio della volontà decisionista. Essa è una parodia razionalistica della tragedia spirituale della Differenza, che non può trovare sintesi se non in una rappresentazione mito-logica, qual è appunto la Fenomenologia hegeliana. La dialettica del finito tra la vita e il diritto è infatti il prodotto di una rappresentazione (Darstellung), la cui determinazione normativa non può eliminare dal “contratto”, privato o sociale “un certo margine di libertà”, in cui anche “ciò che viene fatto con diritto” necessita comunque di un certo grado di “fiducia” (Vertrauen),950 ossia di legittimazione fideistica. Questo presupposto fiduciario trascritto in termini normativi è l’auctoritas (da augere) di retaggio tradizionale (patrum) orale e perciò non codificata ma a suo modo vigente come riconosciuto canone etico, che ha la funzione katechontica di arginare la volontà potestativa (potestas) del Potere sovrano, in guisa carismatica. Il valore morale 948

G. Agamben, SdE, pag. 93. G.W.F. Hegel, FdG, tr. it., Firenze, 1960, vol. I, pagg. 303-306. 950 K. Jaspers, VdW, pag. 1335. 949

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dell’auctoritas è nel suo potere carismatico, che implica l’adesione intenzionale al suo precetto, sentito come intimamente aderente alla presente condizione esistenziale. L’elemento fascinoso dell’auctoritas deriva, come ha compreso Agamben, dalla sua “potenza impersonale”, 951 che perciò non deriva dalla persona giuridica dell’auctor ma dalla sua figura simbolica, la “condizione personale” di pater,952 ultra-rappresentativa rispetto all’atto formale in cui consiste il vincolo giuridico, e tale da legittimarlo col crisma della necessità della sua effettualità. In tal senso, l’auctoritas rappresenta la potenza originaria che presiede a ogni volontà umana, circoscrivendola all’ambito della sua legittima possibilità, che è la sua compatibilità con le leggi eterne del cosmo naturale. La tradizione autorevole, che lega la sua condizione di autorevolezza dalla conferma della originaria modalità di adattamento della volontà umana alla potenza naturale e divina, diventa supporto autoritativo di perfezionamento carismatico della volontà dell’attore giuridico, la cui volontà determinata acquista valore di volontà universalmente riconosciuta e quindi collettiva. L’atto giuridico formale è, poniamo, il rito nuziale, mentre l’auctoritas è l’avallo paterno, che legittima la volontà legale perfezionandola di riconoscimento carismatico. A questo punto è facile identificare la forza carismatica dell’auctoritas con il consenso universale accordato dalla comunità civile originaria attraverso i suoi rappresentanti etici, i seniores custodi delle statuizioni dei patres, alla fondazione mitica del mondo quale comunità politica. Il legame verticale che si stabilisce tra norma generale e atto particolare, viene integrato dal legame orizzontale storico, confermativo della tradizionale validità del rito legale. L’auctoritas stabilisce la conformità del presente al passato, la continuità carismatica che presiede a ogni interruzione. La continuità del carisma stabilisce quel legame morale tra gli avvenimenti che la sequenza temporale non può garantire per via della sua particolarità. Nei casi alterni in cui riattiva o sospende la potestas la auctoritas, quale “potenza che accorda la legittimità”, agisce come equilibratrice esistenziale delle sfasature temporali, che proprio nelle fasi di crisi di legalità emergono con impeto anomico. Ciò che manca di sincronia nei tempi eccezionali è la relazione tra il tempo avvenimenziale, che scandisce la volontà umana, e la temporalità immanente della Natura, 951 952

G. Agamben, SdE, pag. 99. Ivi, pagg. 102, 108.

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quale forza primigenia, che preme ai confini del mondo razionalizzato a rivendicare le sue perenni prerogative di morte. Sia l’atto cerimoniale del diritto, che l’evento sociale eccezionale sono manifestazioni che introducono nella situazione in equilibrio un elemento innovativo perturbatore, la cui dynamis altera lo status quo ante, minacciando la normale staticità: che vuol dire pace, prevedibilità e conformità del nuovo al vecchio; in una parola, tipicità. L’evento razionalmente riconoscibile è il fenomeno presente da sempre alla coscienza, e perciò noto, privo di mistero; in una parola, privo di alterità. Il diritto esprime in grado sommo l’istanza tipizzante della coscienza umana che lega la sua stabilità esistenziale alla fede ontologica che sorregge la sua struttura mondiale, il mondo in cui l’uomo abita. L’evento ignoto è potenzialmente dissolutore, e perciò deve essere omologato alla rassicurante tipicità, cioè tradotto dall’ignoto al noto. Ciò che avviene nella linguaggio avviene anche nel diritto e in ogni forma strutturata della coscienza assimilatrice della alterità. L’Alterità metafisica che minaccia la stabilità della realtà ontologicamente fissata dalla decisione originaria per l’Essere, è il Nulla, che si manifesta nel tempo come evento irrazionale e anti-giuridico, inprevedibile e perciò misterioso, non sussumibile entro l’orizzonte di fede che circonda la stabilità ontologica dell’esistenza normale, che il Potere ha riconosciuto come interno allo spazio pubblico. La stessa filosofia, prima di essere adottata nello spazio pubblico come opinione socializzata, è una dottrina privata, della quale il Potere diffida e dalla quale si sente minacciato. La minaccia che il mistero incognito arreca metafisicamente è di attentare all’Essere, cioè all’ordine costituito, alla pace sociale e al legittimo potere politico, insinuando anomia, disordine e anarchia. Sono le accuse che ogni potere costituito muove a ogni Socrate: di preferire il Nulla all’Essere, il negativo al positivo, la alterità alla tipicità. Va precisato che l’Alterità metafisica, per fronteggiare la quale si sospende l’ordine giuridico del cosmo razionalizzato, proprio perché è avvertita come esterna all’universalità razionale, che essa minaccia nel contestare la sua pretesa ontologica fondativa della realtà, è necessariamente negata come originaria. In questo senso, l’affermazione dell’universalità, e cioè dell’assolutezza, del Logos coincide sempre con la negazione della arcaicità di un Nomos pre-ontologico, di una legislazione divina, giudicata dalla filosofia come mitica. In ambito giuridico, la costituzione dello Stato assolutistico, rendendo assoluta anche la volontà potestativa del 464


sovrano superiorem non cognoscentem, ha rimosso la superiorità della auctoritas quale limitante l’assolutezza della volontà normativa del princeps. Una superiorità non gerarchica, ma carismatica, come sappiamo, la quale non di meno “coincide con la neutralizzazione della legge” proprio in quanto costitutiva di “una figura più originaria del potere”. 953 Senza infatti il riconoscimento di tale anteriorità simbolica, il Potere non avrebbe avuto ragione di riconoscerne il carisma. È con la volontà assolutistica del sovrano moderno che la negazione di quell’anteriorità carismatica porta al Potere totalitario delle democrazie contemporanee, che, instaurando un novus ordo, sospende la vigenza della legittimità tradizionale a favore di una legalità appunto assoluta, emancipata da ogni vincolo carismatico. È chiaro che nell’atto di negare ogni limite alla volontà di affermare l’Essere, il sovrano totalitario assumeva nel suo potere anche quello originario riservato alla Natura, di destinare la morte. Il diritto assoluto di affermare la vita assumeva dunque in sé anche quello originario e indisponibile di affermare la morte. Una logica che abbia perduto il metron finisce per perdere anche il Logos, che è la forma del positivo della zoè, ossia quel bios culturale nel cui orizzonte di senso razionale assume valore spirituale l’attività umana, regolata dal diritto, il cui “fondamento di validità” (Geltungsgrund) risiede appunto per Smend nella “vita” quale “senso vitale (Lebensinn) normato e assegnato”.954 Ora, se pensiamo all’evento più atipico della storia umana, l’Incarnazione di Dio, e alla razionalizzazione theologico-politica entro le categorie di pensiero della metafisica greca e delle istituzioni giuridico-politiche romane, che ne ha subito la fede nella sua traduzione in religione, riusciamo ad avere un paradigma macroscopico della dinamica dell’omologazione ontologica e della canonizzazione giuridica che ha ricevuto al figura di Cristo quale modello ideale di sovrano, compendiante nella stessa figura di rex absolutus sia la potestas che l’auctoritas. Ogni tentativo di risolvere l’un aspetto nell’altro, a partire dal Nulla nell’Essere, incontra l’ostacolo dialettico della sua reversione, poiché l’opposizione della Differenza finisce per risultare una scissione del Sé nel suo doppio ideale, rappresentato come il prodotto oggettivo di una volontà poietica resa magica dalla fede ontologica. Il modello divino del Cristo, umanandosi nell’esperienza di un tempo storicizzato e reso anche esso frammento dell’unità ideale originaria, è stato del tutto travisato e 953 954

Di diverso avviso G. Agamben, SdE, pag. 108. Cit. da G. Agamben, SdE, pag. 109.

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piegato alle istanze dell’adattamento antropologico alla forza della Natura, che si fa legale nel diritto e riemerge come eslege nella morte fisica. All’interno del mondo adattato, razionalizzato e giuridicizzato, le tracce della Differenza sono ravvisate in ogni infrazione alla legalità, in ogni eresia intellettuale e in ogni ribellione all’ordine politico, interpretate come eventi eccezionali e temporanei, contro i quali si predispongono dispositivi correttivi. Il rapporto preferenziale con la Natura è stabilito dalla metafisica greca in considerazione della visibilità dei fenomeni naturali, sulla quale viene edificata l’intera struttura rappresentativa dell’Essere, sicché la stessa dialettica del Logos è concepita come un confronto di possibilità fra forze sostanziali, volitive e oggettivabili, e perciò disponibili.955 Senza trascurare che anche l’organicismo politico antico e medievale viene modellato sul riscontro del corpus politicum dello Stato al corpus morale dell’ordinamento teologico, laddove il dispositivo democratico tardo-moderno conserva nella teoria del pactum societatis (Gesellschaftsvertrag) il presupposto naturalistico della componibilità delle volontà individuali in una unità soggettiva sovrana rappresentativa della personalità giuridica dello Stato. La crisi dell’impianto mediatorio escogitato dal formulario giuridico è rapportabile ogni volta alla difficoltà di contenere entro la sfera universale del finito le tensioni escatologiche che emergevano in occasione dell’irruzione in essa dell’Alterità, sotto forma di “fortuna” (Machiavelli) ovvero di evento imprevedibile e fatale, che lacerava il tessuto normativo che proteggeva il mondo. Allo stesso limite che venne riconosciuto coi diritti individuali alla volontà sovrana fu attribuito un’origine “naturale” al diritto che li stabiliva, legittimando il pactum subjectionis teocratico. L’antinomia tra volontà eterna di Dio e libere volontà individuali vulnerò l’impianto monolitico della metafisica teocratica della società medievale, inserendovi la problematica realtà del mondo-della-vita, non espungibile in conseguenza della disposizione divina stessa che storicizzò la volontà di Dio. La dottrina medievale della società portata dal Cristianesimo si avvale anzi tutto dell’idea di una volontà divina che contiene come fine una serie ascendente di mutamenti e realizza questo fine nella serie temporale di singoli atti compiuti a suo arbitrio in interazione con altre volontà. La volontà entra nel tempo. Ma ogni qual volta la metafisica medievale vuol conciliare 955

Ved. W. Dilthey, EdG, pag. 446.

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col piano divino il sistema greco di verità eterne, appare chiara l’insolubilità della contraddizione.956

Rispetto alle vicende rappresentate nelle tragedie, in cui il contrasto emergente dalla scoperta della Differenza cerca una composizione divina, interna al mondo che originariamente l’ha determinata, 957 la narrazione evangelica, per quanto puntellata di vicende esemplari, porta in evidenza simbolica due momenti cruciali, la nascita e la morte di Gesù, che racchiudono l’inizio e la fine di ogni esistenza umana naturale, ma che non costituiscono in se stessi dei valori assoluti, bensì significativi in relazione al valore trascendente di cui sono espressione fisico-temporale. Ciò rende necessaria una lettura di essi che tenga conto della loro inesauribilità ermeneutica sul piano della finitezza, dovuta alla modalità stessa del rapporto tra elementi simbolici dei quali soltanto quelli fenomenici sono storicizzabili, mentre quelli trascendenti restano mysteriosi. Questa dipendenza dal Mystero divino è il migliore argine alla hybris del riduzionismo onto-logico proprio del razionalismo filosofico, che, già immanente nel sincretismo teologico medievale, afferma le sue pretese universalistiche in età moderna, rimuovendo dal suo orizzonte teoretico proprio quel Mystero originario, che per la metafisica greca era il Nulla e per la fede cristiana era invece la realtà trascendente di Dio. La fine della metafisica è legata alla rimozione moderna degli eterni, ossia alla rappresentazione idealistica della realtà trascendente risalente ad Agostino e alla teologia alessandrina, ma non ha comportato il superamento della logica dialettica legata alla ontologia naturalistica greca, pervenendo così con lo scientismo alla metodica assolutizzazione della dimensione della finitezza per esclusione di ogni traccia in essa di (rappresentazione della) trascendenza. Ma ciò che la coscienza ingenua (che Sciacca chiamava “stupidità metafisica”) considerava un “progresso” del pensiero, cioè la risoluzione in esso dell’Essere, era in realtà la condizione ontologica della leggibilità del mondo in termini razionali. “L’equivoco dell’idealismo moderno è di considerare l’infinito il costitutivo intrinseco del finito”, identificando “il bisogno dell’assoluto con la totale immanenza di esso nell’esperienza umana”, pervenendo così al “positivismo”.958 Il percorso anti-idealistico era già stato tentato da Aristotile, al quale risale l’idea tomista di Dio quale Primum movens, per 956 957

W. Dilthey, EdG, pag. 447. M. Pohlenza, La tragedia greca, tr. it. cit., vol. I, pag. 157.

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cui l’assimilazione nell’orizzonte teologico medievale della metafisica aristotelica non fece che procrastinare il tempo dell’esito nichilistico in cui si era cacciato lo stesso pensiero cristiano identificando la Verità trascendente con il Logos quale fondamento del pensare. La condizione per pensare l’Essere indipendente dal suo fondamento arcaico, e quindi la pretesa della filosofia di costituirsi autonoma dal suo fondamento, “come sistema di idee chiare e distinte, come scienza, come costruzione critica dell’esperienza, come morale autonoma, come Ragione che adegua il reale”, è di “dimenticarsi dell’uomo”, quale orizzonte della concretezza in cui si rinviene la presenza della Verità quale aspirazione all’Altro, la cui realtà trascendente è Dio.959 Ciò che Sciacca chiama il “senso creaturale dell’essere” consente di definire la posizione autonoma dell’uomo tra Dio e la Natura,verso i cui estremi è chiamato a scegliere il suo orientamento morale, che in virtù di quella autonomia è libero e dunque responsabile. Il “vincolo creaturale” stabilisce una relazione dell’uomo con Dio che gli impedisce quel “salto nel buio” che è la perdita della “misura” della stessa intelligenza umana di essere “meno” di Dio e “più” della Natura, e che gli dà “la verità di se stesso e dei suoi simili”.960 La ricerca della verità dell’Essere, segnata dal limite, ossia dalla intelligenza della Differenza, consente alla coscienza di conoscere i problemi essenziali della realtà naturale e della sua condizione storica attraverso la relazione tra Mystero e gnosi che induce l’uomo a realizzare la propria “libertà” come dialettica tra finito (sé) e Infinito (Dio). Ciò importa che il Logos, cioè la ragione naturale, riconosca che la Verità sia prima dell’Essere, e che in quanto pre-logico non sia razionalmente giudicabile, ma che costituisca il “lume oggettivo dell’intelligenza”, la quale è una “attività primaria rispetto alla ragione, che perciò è attività derivata”.961 È l’intelligenza a stabilire pertanto la Differenza metafisica tra la Verità fondante e la ragione fondata, cogliendo il limite (metron) tra la ragione mondana e l’intelligenza teistica. Nella conoscenza del limite, la intelligenza provoca quella insoddisfazione verso la storia e la condizione esistenziale presente, provocando quella “rottura con quel che è stato ed 958

M.F. Sciacca, Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, Brescia (1944), 19462, pagg. 289-290. Da ora PD. 959 Ivi, pagg. 365-366. 960 M.F. Sciacca, L’oscuramento dell’intelligenza, Milano, 1970, pag. 28. Da ora OdI. 961 Ibidem.

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è” 962 che per Valéry è caratteristica dell’uomo di spirito europeo, carico di una “potenza di trasformazione”, che era assente allo spirito greco ed è propria invece di chi ha conosciuto la “inquietudine” della Rivelazione cristiana.963 Non il Logos, dunque, ma la Verità è il fondamento del pensare. La recta ratio è collaborazione di ragione e intelligenza, distinzione e armonia del pensiero nel fondamento della Verità. La Differenza tra finito e Infinito, temporale ed eterno, umano e divino, caratterizza il processo storico sia della coscienza che dell’esistenza dell’ uomo, sicché la definizione della realtà razionale, da parte del Soggetto trascendentale, e quella dello spazio pubblico, da parte del Potere politico, non possono essere esaustive nella comprensione del Tutto, che in sé non è contraddittorio in quanto dialettico, ma in quanto tragico, non potendo comprendere nella loro unità formale ciò che la trascende. L’eccezione concreta, a un tempo metafisica ed esistenziale, al sistema dell’adattamento antropologico è costituita dall’uomo, la cui caratteristica originaria è la sua “integralità”. La “persona integrale” non è solo l’autore di atti teoretici, quale soggetto trascendentale, o di azioni pratiche, quale individuo sociale, ma è il depositario della Verità, colui che,come direbbe Jaspers, discopre il senso dell’esistenza attraverso l’intuizione della Trascendenza, con quella origine divina senza la relazione con la quale l’uomo in se stesso è privo di identità.964 Ed è questa la condizione in cui si trova infatti l’uomo disintegrato ed esposto sia al volere divino, che alla forza della Natura. Come ha ben compreso G. Bontadini, “il teismo teologico, che è basato sul concetto, e rende assoluta una specie di lontananza, il distacco di Dio dalla creazione, è una razionalizzazione dei misteri divini, come il panteismo, che identifica creatore e creatura”.965 Ma la stessa libertà, astratta dalla Verità, diventa arbitrio, capriccio, ribellismo e ricerca fatua di un amore estetico e ludico privo di appagamento, come pel seduttore di Kierkegaard. Senza la relazione con l’Altro, la dimensione della finitezza, per quanto dialettizzata nel rispecchiamento idealistico, non può pervenire ad alcun fine soteriologico, inconseguibile per il mezzo della compiutezza legale garantita dal diritto o della pacificazione sociale garantita dal politico, 962

M.F. Sciacca, OdI, pag. 31. P. Valéry, In morte di una civiltà, cit., pag. 92. 964 M.F. Sciacca, PD, pag. 240. 965 Cit. da M.F. Sciacca, Ivi, pag. 228. 963

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poiché ogni Nomos della terra non può sopprimere la tensione belluina immanente alla finitezza della storia naturale. Diversamente, il processo della storia spirituale di ogni persona è escatologico, poiché solo nella relazione con Dio l’uomo prende coscienza della Differenza rispetto alla dimensione naturale.966 In questo senso la coscienza della Differenza coincide con il superamento del destino di morte di ogni essere finito nel sentimento di appartenenza all’infinito, a quella realtà trascendente che la ragione non può oggettivare. Il Tutto, proprio perché trascende la finitezza, non si svela alla ragione naturale, così che ogni rappresentazione e ogni forma di comunicazione non riescono ad attingere alla Verità, tale che possa chiarire l’esistenza nella sua totalità. “Pensare è appunto un continuo aprirsi di orizzonti, di punti di vista, ognuno dei quali è limitato e non può includere la totalità. la filosofia è ricerca del pensiero, che è eterno problema: non filosofia di soluzioni ma perenne problematicità”.967 Ciò vuol dire che la metafisica materialistica del naturalismo antico propone dell’uomo una concezione riduttiva, ristretta alla mera esistenza bio-economica, facendo della sua singolarità concreta un individuo. L’individualismo è quella concezione antropologica per la quale l’essere umano sia un prodotto dell’esigenza adattiva del corpo (anche sociale, collettivo) all’ambiente (anche artificiale della Città politica) che lo alimenta e lo sostiene. Secondo A. Carlini, dopo il cristianesimo non è più possibile parlare di Dio alla maniera di Aristotile in una metafisica comune alla cosmologia, “poiché per i cristiani Dio è Personalità spirituale, pura e non più ‘essere’ semplicemente, né l’Essere, né l’abusatissimo scolastico Ens realissimus”, per cui “il problema della esperienza, e quindi quello della scienza, va trattato con assoluta indipendenza da quello teologico”.968 Il tomismo, pregno di aristotelismo, ha costruito una metafisica come scienza dell’Essere, filosofia delle cose in sé, basata su l’essere stesso, dando vita così al “mito del naturalismo”, tipico della cultura greca. L’idea cosmologica, nel Medioevo, è stata confusa con l’idea teologica. “La filosofia moderna ha cercato di distinguere le due idee e ha preso come punto di partenza l’idea psicologica, dove le altre due trovano i loro presupposti”.969 966

Ivi, pag. 232. Ivi, pag. 241. 968 Ivi, pag. 285. 969 Ivi, pag. 286. 967

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E psicologica è l’idea che Dilthey ha di Libertà quale liberazione del pensiero da una “fitta selva di tradizioni”, 970 che poi nient’altro erano che le strutture sociali organizzate dal diritto per mediare tra il Potere e l’individuo. Non a caso lo storico individua la svolta moderna nella “differenziazione ed emancipazione dei nessi finalistici della società”, ossia in una nuova formazione spirituale, quella della scienza positiva, poggiantesi “sull’autocertezza dell’esperienza religiosa, sull’autonomia della Scienza, sulla liberazione della fantasia nell’Arte, in antitesi con la precedente chiusura religiosa”.971 Dalla posizione del soggetto conoscente nasce l’individualismo moderno, e dalla “considerazione oggettiva” della realtà, non più legata al nesso metafisico unitario, sorge “una libera molteplicità di modi di vedere il mondo”.972 Ma la Stimmung moderna non è all’origine dell’eclissi della metafisica medievale, se non nei termini della più piena comprensione dell’intestina tensione che animava il sincretismo teologico tra fondamento e teocratico e metodo razionalistico di giustificarlo, con una sostanziale inversione della priorità del metodo sul fondamento, la cui auto-fondazione religiosa equivaleva ad una omologazione della theo-logia alle altre discipline scientifiche. Semmai, all’inverso, è lo sviluppo dell’astrattezza teologica a creare le premesse eversive dell’ordine metafisico tradizionale, di cui l’individualismo era il referto psicologico di un mutamento sociologico sradicante e potenzialmente anomico, in cui le consolidate certezze venivano messe in mora da una creatività noetica che lasciava implicito e sottaciuto il fondamento fideistico della sua ontologia. Ciò consentiva ai poteri oggettivi di potersi dispiegare liberamente senza più remore morali e confini di legittimazione, col risultato della dilatazione esponenziale dello spazio pubblico funzionale al Potere e la simmetrica riduzione del pensiero critico alla sempre più irrilevante dimensione privata, al cui carattere di soggettività veniva commisurato il grado di relatività di quel sapere di verità. Che poi era un modo per dichiarare relativa la verità per assimilandola alla rappresentazione magica di un sapere mitico.973 In realtà, il fondamento pattizio della moderna legalità non è altro che il riconoscimento comune, fondativo della comunità sociale, della decisione ontologica originaria, ossia, ancora, delle modalità culturali di adattamento 970

Ved. W. Dilthey, EdG, pag. 452. Ivi, pag. 453. 972 Ivi, pag. 454. 973 Ved. W. Dilthey, EdG, pagg. 458-459. 971

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del gruppo alle necessità della Natura. Il pactum societatis è la convenzione sulla comune credenza nell’atto di fede che sta a fondamento etico della validità della decisione ontologica che distingue l’uomo dall’essere naturale, sottomesso alla necessità della morte, contro la cui forza l’uomo resiste per affermare la vita spirituale. Con-venire alle stesse forme culturali e alle stesse norme di socialità, fa tutt’uno. L’idea moderna che il fondamento ontologico e della socialità possa essere rimosso a favore del solo metodo di analisi razionale del prodotti umani, lascia impregiudicata la questione che sta alla base del legame sociale, ossia la ragione per la quale i pacta sunt servanda. Se infatti il carattere deontologico del diritto fosse attribuibile alla forza cogente delle norme, in quanto formalmente costituite, allora l’elusione del fondamento fideistico della socialità si sposterebbe magicamente sul metodo sistematico, secondando una superstizione moto invalsa nei giuristi razionalisti, i quali proiettano la creatività del Cogito individuale nella soggettività collettiva del sistema, la cui unità ideale viene rappresentata, altrettanto magicamente, dal Potere politico, meglio ancora se individuale. Ma ben altra è la motivazione che dirige la volontà deontologica dei soggetti al diritto, di natura morale, la cui forza è in stretto rapporto con la auctoritas della sua legittimazione trascendente. È nella situazione in cui tale legittimazione morale viene meno che lo spazio pubblico non può più essere garantito dal Potere, la cui nuda forza appare del tutto disarmata di fronte al ritiro della fiducia collettiva originaria che ne sosteneva la potestas. Il distacco moderno della scienza positiva “dal tutto della cultura intellettuale che in qualità di metafisica aveva tratto il proprio alimento dalla totalità delle forze dell’animo”, 974 in realtà porta a effetto universale quanto era implicitamente e strutturalmente connesso allo stesso metodo razionale di analisi della realtà, fondato sulla “percezione esterna”, ossia su quella vista (), che caratterizzava la cultura greca e che il cristianesimo aveva superato in considerazione di una prospettiva aperta sul trascendente, ossia su quella vista interna (veritas in interiore) che consentisse il superamento del naturalismo classico dell’animal rationale. La scienza naturale del sec. XVII portò a perfezionamento le premesse epistemologiche del razionalismo naturalistico classico, universalizzando il suo punto di vista a scapito del fondamento fideistico, erroneamente attribuito alla dimensione religiosa, laddove era intrinseco 974

W. Dilthey, EdG, pag. 460. 472


alla stessa posizione ontologica originaria dalla quale prendeva le mosse la scienza. Ciò che prescriveva l’antica fede ontologica, distinguendola dalla nuova cristiana, era l’ossequio alla necessità che i fattori naturali, quali elementi dell’Essere, esercitassero un condizionamento insuperabile sull’esistenza umana, la quale pertanto si caratterizzava per l’adattamento armonico che, attraverso l’intelligenza delle sue leggi, l’uomo era costretto a sostenere per la sopravvivenza della specie. L’orizzonte naturalistico era per la cultura antica insuperabile, e tale che la stessa vita degli dèi immortali ne fosse soggetta. Ciò che invece ascriveva all’uomo la nuova fede cristiana era la possibilità di emanciparsi dalla necessità della vita naturale e stabilire un preferenziale rapporto spirituale con Dio, fondato sull’ascolto della verità interiore, presente alla coscienza intenzionale. La prospettiva rovesciata della verità cristiana tendeva a liberare l’uomo dalle catene della necessità naturale, aprendogli la prospettiva di una dimensione trascendente la realtà ontologica, nella quale l’uomo ritrovasse, attraverso la fede rivelata, quel rapporto con l’Originario che la credenza metafisica dell’Essere come totalità aveva occultato per ignoranza del vero fondamento arcaico universale, indicato come Dio. Se nella prospettiva naturalistica lo strumento di accesso alla verità della legislazione cosmica è costituito dalla scienza, che stabilisce relazioni necessarie e invariabili tra i fenomeni della realtà apparente, nella prospettiva spiritualistica cristiana la relazione con la Verità trascendente è assicurata dall’opera del Cristo quale Mediatore divino-umano tra le due dimensioni del finito temporale, a misura di ragione, e dell’infinito eterno, a cui si accede con l’intelligenza della Differenza. Ora, proprio la realtà della Differenza viene rimossa dalla gnosi scientista, che assume come universalmente valido solo il conoscere legato al metodo del calcolo quantitativo delle cause teorizzato da Galileo, per il quale il movimento del mondo aveva come suo principio la necessità meccanica immanente al moto stesso. La conseguenza antropologica principale fu il ridimensionamento dell’esperienza umana entro l’orizzonte della necessità cosmica, ossia il riordino della lettura dell’esistenza umana entro le coordinate di una realtà naturale, sulla quale la volontà dell’uomo poteva avere la meglio solo superandola in efficienza attraverso l’uso razionale della tecnica, cioè delle sue stesse leggi piegate al dominio umano.

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La libertà cristiana, tradotta in termini di potere tecnologico, entrando in conflitto con la Natura, crede di soggiogarla, mentre invece ne asseconda la volontà di morte, perpetrando quella illusione tipica dell’età moderna che travisa la vera fede nella libertà spirituale in una idolatria della potenza fisicalista del meccanismo universale, col quale si è creduto di sostituire l’autorità divina, declassata a “fede psicologica”.975 La “eternità”, intesa razionalisticamente come temporalità dell’Idea, distinta dalla temporalità della natura, sono i termini del rispecchiamento concettuale – inteso come assoluta intemporalità - della realtà sensibile dell’ente naturale intuito come oggetto di pensiero. La temporalità dell’Idea è il concetto universale dell’ “ora” dell’intuizione sensibile, ossia la sua “suprema realizzazione” (Marcuse) come tempo universale. Il Fallen nel tempo dell’ente è solo il suo rispecchiamento reale e oggettivo. Il movimento della sostanza diventa enigmatico, poiché l’assolutezza della sostanza non è altro che la sua stessa finitezza, in cui si manifesta il suo divenire altro da sé come relatività del suo accadere. Il movimento possibile dell’Essere entro la assoluta finitezza della pura ragione consiste nel suo svolgimento modale dell’ente, in quel trapasso inquieto da un modo d’apparenza ad altro nel quale è circoscritta la sua falsa redenzione dalla sua condizione finita. L’esisto scientista della gnosi moderna è già inscritto nell’onto-theo-logia naturalistica greca.976 L’esigenza fondatitiva dell’ontoteologia si esaurisce nel circolo infinità-autocoscienza, risolvendo così le stessa possibilità dell’ontologia tradizionale “in quanto dissolve dia-logicamente il problema del cominciamento nel circolo della parousia dell’assoluto dinnanzi a se stesso. L’autarchia dell’assoluto risolve in sé l’enigma dell’arché, la domanda sul fondamento dell’apparire fenomenico dell’ente, immunizzando l’essere dal medesimo bisogno di fondazione ontologica”, portando così a termine la parabola della metafisica (Vollendung), il cui spazio si apre con “la domanda greca sull’essere (rivolta all’essenza incondizionata del logos)” e si chiude con quella moderna, “rivolta alla fondazione soggettiva dell’essere”. 977 2. La vita, intesa non in senso biologico, alla Gehlen, ma nel senso heideggeriano di mondo del Dasein e suo contenuto di senso, è una 975

Ved. W. Dilthey, EdG, pag. 466. Ved. le lezioni di Heidegger sulla Fenomenologia di Hegel del 1930-1931, tr. it., Napoli, 2001. 977 M. Vegetti, Hegel e i confini dell’Occidente, cit., pag. 88. 976

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dimensione comprensiva dello spazio pubblico dell’agire politico che, nella concezione greca della Arendt, lasciava fuori la vita biologica. 978 Ciò che la politica nella dimensione del koinòn tralasciava era la relazione con la natura, cioè il rapporto simbiotico che occupava gli idioi, dediti a provvedere alla sopravvivenza, anziché alla gestione della libertà emancipata dai bisogni materiali. La vita naturale, intesa come lotta contro la morte, differiva dalla vita politica, intesa come lotta per il senso razionale dell’esistenza umana, il quale escludeva la morte quale dimensione propria della natura, avendola già superata nella contesa biologica del lavoro, assegnato al servizio degli idioi. La politica escludeva la vita naturale, propria del mero vivente povero di mondo (weltarm), come la ragione escludeva l’opposizione del niente, affermando l’Essere anziché il Nulla. Sicché l’esclusione del naturale dal politico equivaleva al superamento della morte con la libertà. L’identità di vita naturale e di morte era dunque implicita nella costituzione della dimensione politica come techne. La volontà teoretica, cioè il concetto, si distingue dalla volontà pratica, cioè dall’azione, come l’appropriazione ideale del mondo si distingue dal possesso materiale. La proprietà, che indica “la porzione posseduta privatamente di un mondo comune”, consente la condizione politica in quanto aliena l’uomo dalla promiscuità col mondo naturale. In questo senso, “l’espropriazione [di beni terreni] e l’alienazione dal mondo coincidono”.979 Ma poiché non ogni bene naturale è disponibile, la espropriazione indica un trasferimento di beni posseduti da altri, che per tale esproprio vengono privati del loro posto nel mondo, cioè della loro pregressa condizione politica. In età moderna, diversamente che in passato, la mobilità dei beni materiali espropriati non comportò una nuova redistribuzione della proprietà che si limitò alla soddisfazione di bisogni, e dunque solo un nuovo equilibrio di potere politico delle classi sociali, ma provocò un “processo generatore di ulteriori espropriazioni, di maggiore produttività e appropriazione [che] si propagò per tutta la società e fece scaturire un flusso di ricchezza che si accrebbe 978

Ved. R. Esposito, Bios, cit., pag. 167. H. Arendt, The human condition (1958), tr. it. Vita activa, Milano, 2014, pag. 187. Da ora VA. 979

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costantemente”.980 Ciò ci aiuta a capire come il “processo vitale” che sta alla base delle dinamiche socio-politiche esiga dall’uomo di “sacrificare il mondo e l’appartenenza dell’uomo al mondo”, la quale va intesa non solo in ordine alle relazioni di lavoro e di trasformazione della natura, ma soprattutto in riferimento alla stabilità e durevolezza degli assetti istituzionali, tradizionalmente creati per stabilizzare il mondo e quindi le strutture di relazione umane con esso. La mobilità delle ricchezze, assumendo caratteri diffusi, generalizzandosi come normale fenomeno sociale, ruppe l’identificazione della proprietà con un nucleo familiare, facendo della società il “soggetto collettivo del processo vitale”, titolare a sua volta di una astratta e comune proprietà costituita dal “territorio dello Stato nazionale”. 981 La dinamica espropriativa del mondo socializzata è attivata da una intrinseca contraddizione tra l’astratto possesso collettivo dei beni nazionali e la concreta concentrazione monopolistica delle ricchezze di una nazione, per cui la sostituzione della proprietà familiare antica con la moderna appartenenza sociale a una classe o a un territorio nazionale non implica la stessa fruizione collettiva, propria di una comunità dei beni, ma “produce il simultaneo declino sia della sfera pubblica sia di quella privata”.982 Ossia causa tanto la contrazione della proprietà privata, condizione funzionale alla libertà politica, quanto della stessa libertà politica. Ciò significa che la libertà politica sia solo quella degli antichi, censitaria e aristocratica, basata quindi sulla relazione di discriminazione sociale tra subalterni servili e altolocati fruitori, mentre ogni sua moderna versione universalistica sia destinata a dissolversi? Non solo. Significa molto di più, ossia che la libertà politica sia insuscettibile di costituire un modello esistenziale universale, in quanto la forma di governo razionale, per intrinseca costituzione teorica, non può non essere esclusiva di ciò che dialetticamente la definisce a contrario, i molti () da parte dei pochi ( ). Questa dialettica intrinseca alla ragione politica spiega anche la polarizzazione che avviene in ogni struttura politica, compresa in quella democratica, 980

Ivi, pag. 188. Ivi, pag. 189. 982 Ivi, pag. 190. 981

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parlamentare o plebiscitaria, tra ceto governante e ceti diretti, e tale che essa, pur mutando tipologia morfologica e nomenclatoria, si riproduca fisiologicamente, a prescindere da una esplicita volontà costituente. La principale conseguenza teorica è che la forma politica della libertà, per conservare la sua destinazione teleologica di liberazione dal mondo della necessità naturale, deve servirsi di assetti istituzionali stabili e duraturi, tali cioè da vincere i disagi e la paura di fronte alla necessità delle soperchianti forze naturali, attraverso rimedi in qualche modo razionali. Ma se può servirsi di un razionale ordinamento giuridico a fondamento della sovranità, 983 non può legittimare a sua volta tale fondamento in termini razionali, poiché la razionalizzazione del criterio politico della libertà in termini di universale possibilità di conseguimento, entra in collisione col principio esclusivista ed oligarchico di libertà politica. Pertanto, o il sistema politico rinuncia alla (riconosciuta) libertà di pochi in cambio della (costrittiva) servitù di tutti, rischiando il collasso del sistema per la sua conversione in struttura di relazioni polemiche, costretto a spostare indefinitamente il polo dell’alterità dialettica, cioè della polemica politica, o verso l’esterno o vero l’interno del koinòn originario; oppure fonda la legittimità del sistema politico non già sulla razionalità dei suoi assetti istituzionali di potere, ma bensì su un fondamento unitivo trascendente la razionalità del potere, e quindi sulla distinzione tra la razionalità degli strumenti tecnici funzionali al governo, e il fine (telos) trascendente al quale il governo è ispirato. Questa duplice configurazione dello Stato, distinto in servizio operativo di tipo razionale, assegnato alla potestas politica, e principio trascendente di governo, custodito dall’auctoritas religiosa, ha caratterizzato il modello europeo di Stato cristiano fino alla Rivoluzione francese. Il principio della rappresentanza politica della nazione da parte di una minoranza, eletta o nominata, è entrato in crisi non in quanto i rappresentanti abbiano costituito una oligarchia burocratica di potere, poiché ciò è inevitabile quanto che il piccolo numero sia più potente del grande, ma in quanto quella minoranza, nei regimi democratici, si sia arrogata, oltre la funzione rappresentativa politica di interessi sociali, 983

R. Esposito, Bios, cit., pag. 162.

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anche la funzione di governo, qualitativamente diversa dalla rappresentanza politica. La confusione della funzione potestativa con quella governativa ha esposto il sistema etico-politico a una tensione polemica, interna tra forze rivali in competizione per il potere, ed esterna, tra Stati sovrani, che alla fine l’ha fatto implodere. La sostituzione del sistema dualistico medievale con quello monistico moderno ha portato gli Stati a estinguersi, o per implosione interna, a seguito di una guerra civile permanente, o per distruzione esterna, a seguito di una guerra militare fra Stati. L’esperienza storica degli Stati europei moderni illumina l’istanza platonica del duplice riferimento, interno ed esterno, nella costituzione della Repubblica ideale, ma sopra tutto sulla superiorità del modello statuale cristiano, theologicamente fondato, su quello razionalistico del moderno Stato totalitario di diritto. Il baricentro del moderno punto di osservazione fu spostato dal fondamento trascendente, che faceva dell’uomo una realtà divinoumana singolare, al fondamento naturalistico, il quale, diversamente da quello antico, soppiantato dal cristianesimo, non aveva più alcun limite divino, ma solo quello stabilito dalla posizione dell’uomo nel mondo, che era diventato non meno relativo di quello della terra nell’universo a seguito delle scoperte di Galileo. Non più le somme theologiche ma le leggi cosmiche, matematicamente calcolate, furono i “princìpi-guida per l’azione sulla terra”.984 Il senso della ricerca cambiava e dal movimento verso la ineffabile verità trascendente si dislocava orizzontalmente nei termini di un infinito ridotto al formulario algebrico dell’ordine matematico de-spazializzato. L’astrazione matematica non è di tipo anagogico ma cosmologico, poiché i suoi simboli non rimandano a una verità trascendente e cardinale assoluta, ma a una verità relativa alla posizione prospettica, infinitamente mobile perché non più geo-metrica ma extra-terrestre, che guarda alla natura col distacco, non del sapiente in ispirito, ma del consapevole della sua irrilevanza cosmica. L’assolutezza del fondamento metafisico si è tradotta modernamente in parametro universale di misurazione di ogni relatività spaziale, per cui “tutto ciò che si svolge sulla terra è divenuto relativo da quando la relazione della terra con 984

A. Arendt, VA, pagg. 190-195.

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l’universo è divenuta il punto di riferimento di ogni misurazione”. 985 Con la conseguenza decisiva che il sapere non è più finalizzato alla comprensione dei fenomeni naturali e umani, ma alla sola conoscenza delle loro più o meno stabili relazioni fattuali. Di conseguenza anche il principio causale, per la sua indeterminatezza, viene a perdere il suo tradizionale valore euristico, per cui l’inferenza logica non assicura più la plausibilità del discorso filosofico, il quale non può più prendere l’abbrivio dalla percezione dei sensi per stabilire le sue connessioni ideali, poiché ogni pregressa certezza sensibile è diventata problematica e dubbia, illusoria e apparente. Perduta la fiducia nella visione corporea, anche l’analisi filosofica veniva a perdere il suo sostrato di certezza sensibile su cui far lavorare la ragione. Il dubbio (dubito) diventa così, a partire da Cartesio, equivalente allo stesso pensiero (cogito), sicché il suo inveramento non fu più demandato alla coerenza delle teorie ma dalla conferma pratica dei suoi postulati ipotetici. Da qui il primato del fare sul pensare, ossia la certezza che proviene dal prodotto umano, corrispondente empirico alla certezza coscienziale del cogito quale atto di pensiero. Un fare umano condotto con criteri di conoscenza umani. L’antropocentrismo da morfico divenne mentale, essendo la struttura mentale dell’uomo la fonte stessa della certezza sensibile, non più però delegata ai sensi ma alla reductio ad mathematicam di ogni processo logico, tale che tutti i rapporti reali siano trascritti in termini artificiali di relazioni simboliche. Il fondamento interiore di ogni ipotesi scientifica fa della rappresentazione umana del mondo lo scenario entro il quale agisce il senso (telos) di ogni processo storico appellato a verificarla, alla stregua di un esperimento. In questo senso, è difficile distinguere una ipotesi scientifica da un’ipotesi ideologica, essendo entrambe schemi mentali dipendenti dall’alea della posteriore verificazione empirica, dalla coscienza stessa predisposta come significativa. Pertanto, la ricerca della realtà esterna, ossia di ciò che non è umano, riporta sempre all’uomo.986 Ciò significa che ogni corrispondenza tra ipotesi ideale e verifica empirica non contrassegna né la veridicità dell’ipotesi e 985 986

Ivi, pag. 200. Ivi, pag. 213.

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neppure quella della realtà, ma soltanto la coerenza formale delle supposte relazioni reciproche. Se dunque Platone aveva stabilito un ordine mondano quale rispecchiamento di quello ideale, dopo Galileo l’accesso al mondo è consentito solo per il tramite della coscienza, “il senso interiore” divenuto “la sola garanzia di realtà” per il filosofo, il quale quindi “non si volge più dal mondo della caducità ingannevole a un altro dominato da una verità eterna, ma si distoglie da entrambi e si ritira in se stesso” 987 e si fa creatore, Soggetto trascendentale. D’altro canto, la Natura, potendo essere conosciuta solo attraverso i processi che l’ingegno umano riusciva a rifare sperimentalmente, divenne essa stessa “un processo, e tutte le cose naturali particolari derivarono il oro significato solamente dalle loro funzioni nel processo generale”, sicché “al posto del concetto di Essere troviamo ora il concetto di processo”. La differenza tra Essere e processo risiede nella manifestazione del primo, la cui natura è il rivelarsi, e l’invisibilità del secondo nel prodotto finale. 988 Non più le Idee, i modelli e le forme delle cose, ma i processi sono la guida del fare, tanto più scopertamente accessibili alla comprensione quanto più dipendenti dalla creazione umana, il cui processo generale fu indicato come Storia, che fu l’orizzonte della natura intieramente umana. La scoperta moderna della storia e della coscienza storica dovette uno dei suoi maggiori impulsi non a un nuovo entusiasmo per la grandezza dell’uomo, per le sue imprese e le sue sofferenze, né alla credenza che il significato dell’esistenza umana si trovi nella storia del genere umano, ma alla disperazione della ragione umana, che sembrò adeguata solo se posta di fronte a oggetti fatti dall’uomo. 989

La preferenza accordata modernamente allo homo faber è legata indubbiamente alla disponibilità offerta dalla realtà, in sé razionalmente insignificante, a essere coinvolta in un processo umanamente sensato. E quale processo umano più importante che la costruzione dello Stato? In ogni progetto politico resta implicito il motivo originario del rapporto 987

Ivi, pag. 217. Ivi, pag. 220. 989 Ivi, pag. 222. 988

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dell’uomo (modernamente, della sua coscienza) con l’estraneità della natura, avvertita come realtà limitante la libertà operativa dell’uomo e la cui sensazione di dolore costituiva il sentimento corrispettivo alla certezza interna del cogito e del ragionamento matematico. 990 L’azione, intesa come posizione della personalità nel mondo attraverso la mera presenza singolare e originale dell’uomo alla vita degli altri uomini, non mediata da strumenti materiali, “è l’attività politica per eccellenza”. E in quanto presenza esistenziale, l’attività politica è inerente strettamente alla vita, ossia alla natalità umana, anziché alla mortalità, distinguendosi perciò la categoria politica dalla metafisica. 991 L’aspetto “miracoloso” della natalità è nella sua negazione del ciclo naturale, la cui ripetitività è necessitata dall’esito ineludibile della morte.992 Ed è sorretta dallo stesso principio creativo che determina la precipua condizione umana, cioè il suo status relazionale, che fa di esso appunto una “condizione” e non una “natura”. Qualunque elemento entri a far parte del mondo umano, diviene parte della condizione umana. L’urto della realtà del mondo con l’esistenza umana è percepito e accolto come una forza condizionante. L’oggettività del mondo – il suo carattere oggettivo o cosale – e la condizione umana si integrano reciprocamente; poiché l’esistenza umana è un’esistenza condizionata, sarebbe impossibile senza le cose, e le cose sarebbero un coacervo di enti privi di relazioni, un non-mondo, se non condizionassero l’esistenza umana.993

Ciò vuol dire che l’atto umanamente vitale, l’agire, non coincide con la partecipazione anonima ed eterodiretta al processo biologico, sicché la “nascita” di cui parla la Arendt è la capacità solo umana di essere presente al mondo nella modalità relazionale che lo trasforma per il solo agire di quella stessa presenza. 994 Il senso dell’azione politica è lo stesso 990

Ivi, pag. 231. Ivi, pag. 8. 992 Ivi, pag. 182. 993 Ivi, pag. 9. 994 Per una incomprensione del senso qui considerato della nascita, ved. R. Esposito, Bios, cit., pag. 195 sgg. 991

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del processo sintetico della mente razionale, che volge in positivo, ossia in rappresentazione del mondo, la relazione della coscienza con l’altroda-sé costituito dal mondo oggettivo o cosale, che è un niente (un “nonmondo”) fuori di quella relazione umana e umanizzante. E pertanto questa relazione attiva consiste nell’affermare l’in-esistenza del mondoaltro, non nel senso della sua immaterialità biologica, ma nel senso del significato, ossia della sua destinazione finale, che solo l’agire umano può destinare alle cose. È manifesto come l’agire venga dalla Arendt assimilato ontologicamente al dire, secondo il noto paradigma aristotelico, sicché la stessa relazione umana viene fatta coincidere con la relazione dialettica, a quel travaglio maieutico del senso da cui nasce la definizione significante delle cose. Come infatti afferma Platone nel Simposio, la nascita è fondamentalmente atto creativo di Eros volto al Bene eterno, unità del molteplice. Tu sai che la creazione è qualcosa di molteplice. Infatti, ogni causa per cui ogni cosa passa dal non essere all’essere è sempre una creazione; cosicché le produzioni che dipendono da tutte quante le arti sono creazioni, e tutti gli artefici di queste cose sono creatori. […] L’amore è tendenza a essere in possesso del bene per sempre [e questo atto] è un parto nella bellezza, sia secondo il corpo sia secondo l’anima. […] Tutti gli omini sono gravidi secondo il corpo e secondo l’anima. […] L’unione dell’uomo e della donna comporta un parto. E questa cosa è divina. Nell’essere vivente mortale vi è questo di immortale: la gravidanza e la generazione. […] E perché, allora, amore della generazione? Perché la generazione è ciò che ci può essere di sempre nascente e di immortale in un mortale. […] Di quelle cose che appunto all’anima conviene concepire e partorire [sono] la saggezza e le altre virtù, delle quali sono genitori tutti i poeti e quelli fra gli artefici che vengono chiamati inventori. Ma saggezza di gran lunga più grande e bellissima è quella che riguarda l’ordinamento delle Città e delle case, e si chiama temperanza e giustizia.995

L’atto creativo umano è della stessa sostanza di quello divino, perché finalizzato a porre in essere ciò che per natura non è, ossia il Bene, che è unità rispetto agli enti molteplici naturali. Pur nell’analogia di ogni creazione d’amore, il Bene primario dell’uomo è quello che è finalizzato 995

Platone, Simposio, 205 b-209 a; tr. it. cit., pagg. 512-516.

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alla creazione della Giustizia, ossia all’armonia dell’ordinamento buono della Città, senza il quale essa rimarrebbe solo il luogo della convivenza degli uomini. Il senso teleologico della creazione umana è dunque il compimento ontologico dell’unità ideale, che l’uomo consegue sia nella natalità del nuovo prodotto unitario della coppia, che nel prodotto artistico. Questo salto ontologico della creazione non è un “parto” ex nihilo, ma piuttosto una trasvalutazione miracolosa e quindi divina della materia molteplice nell’unità del valore trascendente. Non è, cioè, una trans-formazione artificiale del prodotto da una in altra forma, ma appunto la “creazione” di un evento originale, che non è dato dalla unità di due ma che ne deriva, ne pro-viene. L’eccedenza di tale evento è l’essenza dell’atto creativo, originale e non pre-vedibile, perché non meccanico. La condizionatezza dell’esistenza umana non è mai determinazione naturale in quando l’interazione col mondo esterno non è solo ricettivo ma è creativo di realtà. La creazione spirituale è tanto più attiva quanto più la coscienza travalica i dati percettivi dell’immediatezza della realtà sensibile (horatòs), che producono la congettura (eicasìa) e la falsa opinione (dòxa), procedendo a individuare i nessi fenomenici, come nel discorso matematico (diànoia), fino a giungere alla realtà intelligibile (noetòs), che, oltre la scienza (epistème), perviene infine alla intuizione (nòesis) dell’Idea del Bene.996 La Giustizia che diventa ordinamento politico è la forma ideale che diventa realtà istituzionale: questo il senso razionale dell’agire politico. D’altro canto, l’evento della nascita di nuovi cittadini comporta che lo status raggiunto dal sistema sia compromesso dalla novità della loro presenza. Ciò vuol dire implicitamente che la struttura giuridicoistotuzionale allestita perché duri conformemente all’eternità delle Idee, non è sufficiente a garantire la sua funzionalità storica, ma necessità di un’attività di continuo adattamento al nuovo che corregga la rigidità del dettato normativo con la duttilità della gestione operatva del Potere. Questi due momenti strutturali, l’uno con-fermativo del sistema e l’altro de-formativo, sono costitutivi della dinamica interna all’unità statuale, la quale, pertanto, non può definirsi nei soli termini della forza del Potere (potestas), ma deve integrarla con la temperanza della saggezza (auctoritas) del Governo. La variabile declinazione dell’agire politico, oscillante tra forza e temperanza, implica l’incongruità dei regimi legislativi che vogliano accentuare l’uno dei due aspetti essenziali a 996

Ved. F. Adorno, La filosofia antica, cit., vol. I, cit., pag. 210.

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scapito dell’altro, in modo da negare la libertà creativa dell’uomo teoretico per garantire con la forza coattiva la sicurezza delle ragioni comuni; ovvero, di compromettere la stabilità del sistema politico al fine di garantire la libera espressione anarchica dei singoli cittadini. Come Erodoto aveva ricordato, “la più amara sofferenza dell’uomo è di avere molto sapere e nessun potere”.997 D’altro canto, anche l’eccessiva filosofia guasta lo spirito del politico per eccesso di dubbi. Il giusto mezzo, la , è costituito dall’armonia delle contrastanti istanze interne alla virtù politica, che vanno entrambe coltivate da uomini predisposti a seguirle. Ma come conseguire un sapere che sia insieme determinato dalla ragione e moderato dalla saggezza, evitando l’assorbimento dell’una nell’altra istanza? La questione resta implicita in ogni soluzione di giusto mezzo, la quale, peraltro, provenendo da fonte filosofica, cerca di occultare l’aspetto aporetico della stessa risposta razionale. Questa, infatti, non può esimersi da offrire una soluzione senza contraddirsi, poiché vi inserisce un elemento empirico di buon senso, imponderabile e del tutto ascrivibile a qualità umane personali e non oggettivabili, e di conseguenza non insegnabili quali prodotti di scienza e lasciati alla libera determinazione del politico. se la determinazione politica è libera, essa non è razionale nel senso della necessità logica, ma neppure irrazionale nel senso della assoluta illogicità della sua arbitrarietà. Ma un agire politico che sia insieme razionale e libero non può essere quello propugnato dal Logos, il quale garantisce la fondatezza delle sue determinazioni proprio dalla esclusione della contraddizione dal suo essere così e non altrimenti. Ciò che ripugna al filosofo, intento per un verso a negare legittimità normativa ai costumi religiosi e per l’altro a confutare le tesi eristiche dei sofisti, è il riconoscimento della incongruità del solo strumento filosofico per il governo della Città, come dimostrato peraltro dalle stesse disavventure politiche di Platone quale consigliere del tiranno. La stessa previsione aristotelica della facoltà, mediana tra la pura contemplazione e la attività pratica, della poiesi sta a dimostrare l’esistenza di un tertium tra verità ed errore, ossia tra essere e non-essere, che ha una sua precipua realtà ontologica, la quale, per avere dell’una e dell’altro opposto, li comprende entrambi. E se li comprende, avendo in sé tanto la verità che l’errore, sia l’essere che il non-essere, deve essere a sua volta originaria alle singole realtà reciprocamente opposte. Ma ciò che è all’origine di 997

Erodoto, Storie, IX, 16.

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ogni ente e di ogni niente è anche all’origine dello stesso Essere, e dunque dello stesso Logos che procede dall’Essere. Questa unità originaria e composita che precede ogni verità e ogni errore, comprendendoli dunque entrambi, è la realtà del Mito (Mythos), il linguaggio ibrido che è la fonte di ogni dire, sia di quello sensato dei filosofi che di quello insensato degli incolti. E soltanto il linguaggio mitico può, perciò, parlare a entrambi, facendoli coesistere in una stessa comune unità culturale e politica, senza contrapporli ma in armonia. Ma se le cose stanno così, la stessa filosofia deve rifarsi a una pre-scienza originaria, e la stessa ontologia deve procedere da una condizione arcaica che, rispetto all’Essere universale della metafisica è il non-Essere universale da cui proviene. Da qui, a noi pare, il senso della creazione divina di cui parla Platone nel Simposio, rievocato implicitamente con pudore filosofico dalla Arendt. Il Mito, quale topos letterario è fabula che narra la coesistenza di motivi razionalmente opposti ma con-presenti nella realtà trascendente quella naturale e finita, dove non potrebbero coesistere senza scontrarsi. La dimensione dialettica della ragione umana finita non può ammettere la differenza coesistente degli opposti, che giudica secondo la logica esclusiva. La recisione del Mito quale luogo arcaico di provenienza del Logos nasce dal bisogno di coerente certezza dell’Essere come unità degli enti mondani. Il trascendente è ciò che non può essere rappresentato come un dato che è nel mondo, ma solo come una presenza simbolica nella coscienza (mitica) che richiama ciò che non-è. (presente, finito e naturale). Il richiamo della presenza è il sentimento di incompiutezza (penìa) che suscita la realtà del mondo quale dimensione della finitezza ontologica e del conflitto dialettico. Un mondo abitato da dèi immortali non potrebbe essere razionalmente ordinato, poiché l’ordine politico presuppone la caducità dell’altro opposto, dell’antitesi dialettica. Ciò che è immortale invece non può essere escluso dall’agone della convivenza. Perciò la repubblica filosoficamente ordinata deve escludere ogni traccia di presenza divina (mitica e poetica), non suscettibile di essere dialettizzata ed esclusa dal sistema razionale di potere. Ora ci è chiaro che l’ordine filosofico del potere politico tende implicitamente ad escludere dalla Città la stessa filosofia quale attività teoretica, della pura contemplazione delle Idee, le quali sono appunto molteplici e differenti. Questo è il presupposto platonico della dottrina agostiniana delle due Città. 485


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