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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da
Costantino Marco
MARCO EDITORE
Segretario di redazione: Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.
In copertina: Platone (Raffaello, La scuola di Atene, dettaglio, Musei Vaticani) Copyright by Costantino Marco, 2021 Coscienza storica
Coscienza Storica Nuova Serie 10
Platonismo e idealismo
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di Costantino Marco
I
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Platonismo e idealismo di Costantino Marco
… solo la retta filosofia rende possibile di vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati. (Platone, Lettera VII)
1. La critica platonica parte dal soggettivismo relativistico dei sofisti e coinvolge la teoria del divenire di Eraclito, incapaci a giungere a una verità stabile (epistéme), trascendente le singole rappresentazioni interessate. L‟interesse dell‟opera platonica risiede nella critica congiunta anche alle teorie di Parmenide sull‟Essere, che negavano il divenire asserendo la realtà delle sole opposizioni dell‟essere e del non-essere. Questa sapienza è criticata come “falsa” e puramente negatrice: sofistica. Il pensiero sofistico è retorico, non mirante alla verità (alètheia) di ciò che è, ma alla verisimiglianza (eikòs) di ciò che appare e di cui si può fruire utilmente. La Grecia del sec. V è preda dell‟opinione democratica e dello scontro degli interessi di parte che mettono in secondo piano o trascurano del tutto ogni fondamento di verità oggettiva, soggettivizzando e relativizzando ogni rappresentazione della realtà. La misura dell‟utilità privatizza ogni considerazione dell‟interesse pubblico, e lo stesso pensiero diventa funzionale alla causa privata. L‟accezione limitativa del filosofare come pensiero “privato”, competitivo con quello riconosciuto verace dall‟opinione pubblica, diventa per i sofisti positiva asserzione di un sapere non socializzabile, che fa della sua condizione privata la ragione stessa della sua perorazione “eristica”, anziché dialetticamente protesa a conseguire una verità condivisa. 5
La critica filosofica, fermandosi alla tecnica confutativa, non prelude ad alcuna verità positiva, ad alcuna affermazione di fede ontologica, e ristagna in un pensiero meramente negativo, indifferente a ogni contenuto e anti-logico. Infatti la sofistica, in quanto pensiero negativo, non è filosofia ma anti-logia, ossia critica razionalistica di ogni rappresentazione positiva dell‟Essere, di ogni lògos. E quale critica razionalistica del léghein, della narrazione mitica, distingue questa dall‟éinai, dall‟Essere, ma non va oltre la sua negazione, lasciando impregiudicata la questione della verità come identità con ciò-che-è (on) al di là di ogni apparenza. Il termine “sofista” acquista nel sec. IV una accezione spregiativa che Isocrate, nell‟Encomio di Elena, equipara a retore ciarlatano e imbonitore che servendosi di argomenti assurdi sostiene che sia impossibile dire il falso, per cui ogni opinione si equivarrebbe. In questo senso viene usato il termine da Platone, che dalla schiera dei sofisti esclude la dignitosa figura filosofica di un Gorgia o di un Protagora.1 Il precedente dialogo, introduttivo al Sofista, è il Teeteto, che è il resoconto che Euclide di Megara riferisce a Terpsione del suo incontro con Teeteto, già elogiato da Socrate che aveva dialogato con lui. Anche questo dialogo viene riportato da Euclide e costituisce il Teeteto vero e proprio. Ma alla fine del resoconto, Socrate interrompe il dialogo, proponendosi di riprenderlo l‟indomani. La ripresa costituisce il contenuto del Sofista, che verte sulla definizione del termine. La molteplicità delle accezioni (smenos) presenterà ben sette definizioni, l‟ultima delle quali, conclusiva del dialogo, è di illusionista della parola e tecnico dell‟inganno. La questione centrale del dialogo verte sul problema dell‟Essere. Secondo Parmenide, che inizia la filosofia, “la stessa cosa è pensare ed essere”. E poiché l‟Essere è immutabile ed eterno, anche il pensiero è unico e identico. Per Protagora, invece, l‟Essere muta col pathos del soggetto che lo pensa, infinitamente. Anche per Platone l‟Essere è il fedele correlato del lògos, espressione del pensato. Essere, dunque, è ciò di cui si dice “è”: il lògos racchiude l‟Essere. Ma quale lògos? 1
1. Ved. G.B. Kerferd, I sofisti, Bologna, 1988. Fu lo stesso Platone che per primo usò il termine di “filosofia” in senso tecnico per “indicare lo sforzo, qual era compiuto nell‟Accademia, per raggiungere un sapere che vada alle radici prime di ogni essere e per conoscere il vero, come termine, insomma, per designare quella „dialettica‟ che conduce al regno dell‟essere immateriale”: M. Pohlenz, Der hellenische Mensch (1947), tr. it. L‟uomo greco, Firenze, 1962, pag. 363.
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Il lògos cui si riferisce Platone è diàlektos, dove dia- sta a indicare la relazione con il noein di colui con cui si dialoga in merito al “dire sì” (phàskein) o “dire no” (ouphaskein). Il lògos di ognuno nel dialogo diventa dialégesthai, pensiero scambievole, in cui l‟Essere viene affermato o negato. Solo il pensiero può comprendere e superare la relatività del sensibile con le categorie ideali, distinguendo l‟Essere dal non-Essere. L‟unità trascendentale viene indicata da Platone come “anima”, che ha funzione logica e non psicologica. Infatti, le categorie (koinà), diversamente dai sensi, non hanno un organo proprio, per cui è l‟anima che applica le idee comuni. L‟eidos, quale Unità, non essendo deducibile dal Molteplice, è a priori. Questa posizione teoretica, in cui è presente il criticismo platonico, sviluppato nel Menone, è però “formale” e non propriamente “dialettica” in senso hegeliano, in quanto pone gli opposti come irrelati. Infatti, il Molteplice è l‟opposto dell‟Uno, che Molteplice non-è. La differenza ontologica fra le due realtà opposte consiste nella predicabilità dell‟Uno e nella esperibilità del Molteplice. Ossia, del Molteplice si ha esperienza evidente, mentre dell‟Uno si può solo avere cognizione ideale, predicativa. E poiché la realtà dell‟Uno non-è evidente, cioè sensibile, ma appunto ideale, la sua predicabilità non è opinabile ma apodittica, oggetto di fede. L‟uno “è” perché, pur non esistendo empiricamente, io credo e affermo che sia. L‟idea, quindi, è, non in quanto esista, ma perché io ne affermo l‟Essere. E‟ una fede ontologica: credo ergo est. L‟affermazione d‟Essere, quando è esclusiva del non-Essere, è eristica: “è” solo ciò che si afferma essere, mentre il resto è Niente, non-essere. Se affermare l‟Essere è conoscerlo, allora si conosce solo quanto si può predicare: oltre il dire, c‟è il Niente. L‟essenza degli enti è rivelata dai nomi, per cui il linguaggio è il deposito della conoscenza, non lo strumento del sapere. Conoscere è nominare, e viceversa. Ma nominare le cose basta a indicarne la verità? Dal caso affermativo ne consegue l‟impossibilità dell‟errore, per cui ogni cosa è, e di converso ogni affermazione di non-essere è assurda. In tal caso, però, come sarebbe possibile, senza l‟indicazione del falso, affermare che solo la verità “è”? si resterebbe nel mondo delle opinioni delle affermazioni opinabili, e non della conoscenza vera. Da qui l‟esortazione platonica del Cratilo (che verrà ripresa a distanza da Husserl) di lasciare i nomi e volgersi invece alle cose al fine della conoscenza. Liberato il linguaggio dal contenuto della conoscenza, esso acquista 7
valore strumentale nella costruzione del sapere come relazione sin-tattica e dia-logica. Troviamo in questa distinzione tra “linguistica”, intesa come indicazione dei nomi (symploké onomàton), e logica, intesa come la loro relazione ideale (symploke eidòn), la radice della critica razionalistica al racconto mitico. Il nodo centrale del discorso consiste nell‟assumere lo stesso Uno, sia quando se ne afferma l‟esistenza (“è”) che quando la si neghi (“non-è”): in entrambi i casi esso viene definito. Anche nel caso dunque esso non-sia dev‟essere conoscibile e distinto dalle altre cose. Infatti, il non-essere non-è l‟Essere, ma è altro dall‟Essere che è. L‟unità ideale, essendo un pensiero (noema), come tale è sempre pensiero di sé, cioè idea che è se stessa, e perciò immutabile. In quanto idea in sé, essa è indeterminata: il Bello, il Bene, il Buono, etc. in questo casi l‟Essere è se stesso, intransitivamente soggetto e oggetto. Nel pensiero, l‟unità ideale è l‟unica realtà dell‟idea, per cui non si pone il problema della Molteplicità, in quanto ogni idea è l‟idea, ossia una idea, la stessa. In questo consiste la “sublime tautologia” (Croce) delle categorie spirituali quali pensiero dell‟universale. L‟unità ideale deriva dall‟indeterminatezza, consistente nell‟unità del soggetto con l‟oggetto, cioè con se stesso: il Bello è (il) Bello, etc. Se questa condizione di indeterminatezza costituisce la perfezione, la verità del concetto è l‟identità del soggetto con l‟oggetto, ossia la corrispondenza dei due termini. E tale perfezione la si ottiene con l‟astrazione concettuale, ossia astraendo dalle diversità reali, ossia dalle determinazioni molteplici. La realtà del Molteplice nasce con la determinazione dell‟Idea, ossia con la distinzione del suo opposto. Omnia determinatio est negatio. Ma l‟opposizione, ossia la esclusione dal‟Idea, è il giudizio di determinazione e di distinzione tra ciò che è (partecipe dell‟Idea), da ciò che non-è (partecipe dell‟Idea), e perciò escluso dalla partecipazione-comunione ideale. Ciò vuol dire che l‟Idea è sempre se stessa, sempre è, e che ciò che può essere o non-essere è il soggetto molteplice reale. In altri termini, la essenza ideale è sempre se stessa, mentre la natura reale è legata alla possibilità della partecipazione all‟Idea, ossia al suo poter-essere o non partecipe dell‟Idea. Il poter-essere, la possibilità, è la condizione propria del Molteplice, così come la necessità (che l‟Idea sia sempre se stessa) è propria dell‟Uno. La possibilità è il divenire, il quale appunto consiste nella possibilità che le cose molteplici siano o non-siano partecipi dell‟Idea. Il giudizio di partecipazione ideale è il giudizio determinativo o 8
di realtà ideale: ossia la distinzione tra l‟Essere e il non-Essere ideale delle cose. Tale distinzione, però, non può essere “ideale”, cioè interna all‟Idea, che è Una, ma è “reale”, ossia giudizio sulla qualità dei fenomeni, giudizio storico, inerente la realtà del Molteplice, e quindi giudizio “pratico”, e come tale fallace, perché legato alla fallibilità dell‟intelletto soggetto all‟influenza della volontà. Se infatti la distinzione fosse interna alle idee, l‟Essere e il non-Essere si equivarrebbero, e non sarebbe possibile determinarli. L‟Uno è la stessa Idea. La distinzione nasce dal giudizio di realtà circa gli enti molteplici, i quali possono-essere. La realtà del non-Essere non è ideale, ma reale, cioè inerente alla realtà delle cose molteplici, la loro possibilità d‟Essere. Il regno delle idee è della necessità, che è l‟opposto della possibilità. Aver trasferito razionalisticamente il Negativo entro l‟Idea, è equivalso a negare la differenza tra la necessità (dell‟Idea) e la possibilità (del Molteplice), facendo equivalere alla stessa realtà il valore (è) e il disvalore (non-è). Per cui, che “l‟Essere sia e il non-Essere non-sia” non chiarisce la questione della realtà del Negativo. La realtà del non-Essere, non-è la realtà ideale, la quale è sempre e solo se stessa. Di conseguenza, la realtà del Negativo è la realtà pratica del Molteplice divenire o della possibilità. Il Negativo, dunque, è la stessa possibilità d‟Essere del Molteplice. Trasferire la possibilità degli enti molteplici nell‟Idea, ossia idealizzare la realtà storica, significa annullare la necessità (che l‟Idea sia), e inserire il divenire nella fede o giudizio di realtà, che dunque diventa “relativo”. Il relativismo dei valori è la conseguenza dell‟idealismo storicistico. Infatti, l‟idea che l‟Essere e il non-Essere siano lo stesso (Uno), ha condotto alla inconoscibilità dell‟Essere, indistinto dal non-Essere, e quindi alla ingiudicabilità della realtà molteplice, della Storia. Se infatti l‟Essere e il non-Essere sono lo stesso, niente è giudicabile, ossia distinguibile ontologicamente. Il trionfo del Negativo (cioè del Molteplice) sul positivo (l‟Essere Uno), equivale al dominio della realtà molteplice (del relativo o della possibilità) sulla realtà ideale e necessaria, definita dalla distinzione. Data l‟equivalenza ontologica tra ideale e reale, tra Verità e Storia, la realtà molteplice non è più distinguibile sulla base dei valori ideali eterni, ma è soggetta al giudizio della volontà, cioè alle distinzioni pratiche, etico-politiche o ideologiche. Il relativismo ontologico, o per meglio dire “ideologico”, eliminando il problema della Verità dell‟Essere, sostituita con la volontà-d‟essere, ha 9
emancipato la ragione dalla fede ontologica che ne era il fondamento, appunto, ontologico, per cui il razionalismo assoluto, slegato dalla verità di fede, è diventato preda della volontà di potenza, cioè della logica della possibilità, che è quella stessa della forza economica del politico. La dimensione politica della realtà storica è quella della gratuità o infondatezza ontologica di ogni affermazione d‟esistenza, basata non già sulla necessità ideale, e quindi sulla fede ontologica nel fondamento di realtà, ma sulla convenienza e opportunità, e cioè sull‟interesse dell‟opinione legata al pathos umano. Questo segna il trionfo della sofistica sulla dialettica e del filodosso sul filosofo. La mentalità culturale propria della sofistica è il relativismo storicistico, mentre la società storica che vede il trionfo del retore filodosso è contrassegnata dal mercato economico delle forze politiche e delle opinioni ideologiche, ossia dal regime liberal-democratico. Il metodo usato da Platone per definire l‟oggetto della ricerca speculativa, è quello diairetico, illustrato nel Fedro, il quale, diversamente dal metodo sillogistico usato da Aristotile, non viene circoscritto a un ambito prescientifico e inferiore, ma investe sia il mondo ideale che quello empirico. Non a caso, dunque, occorreva fare i conti teoretici con l‟ontologia di Parmenide, il quale ammoniva a “frenare il pensiero” al fine di non “forzare ad essere, mai, ciò che non è”. Se il falso, o l‟errore, è il non-Essere, allora non sono pensabili né dicibili false rappresentazioni. Ma il non-Essere, come abbiamo detto, non è riferibile all‟Idea, la quale è e non può non-essere, e dove regna la necessità, ma al giudizio definitorio discriminante il molteplice mondo empirico, in cui regna la possibilità. Il falso, dunque, è riferibile al Molteplice, ossia alla possibilità che un ente non sia in koinonìa con l‟Idea, ma sia altro da ciò che l‟Idea è; sia, appunto, Molteplice. Questa discriminante entro il Molteplice – tra ciò che è da ciò che non-è in partecipazione ideale - introduce un criterio gerarchico tra gli enti, che sono o non-sono partecipabili, e perciò soggetti di giudizio. La distinzione, pertanto, pertiene al giudizio ma inerisce alla possibilità, cioè alla realtà del mondo empirico. In tal senso, l‟essere copulativo del giudizio costituisce la mediazione tra l‟Idea (Una) e il mondo empirico (Molteplice). L‟Essere, dunque, del giudizio è terzo tra i due elementi, e non è né ideale né pratico, ma ciò che li costituisce in unità-distinzione, la mediazione. L‟Essere del giudizio è il contenuto della fede ontologica, il “senso” della realtà, inteso come la “direzione” verso l‟ideale Uno o 10
verso il pratico Molteplice. Non-è né la necessità né la possibilità ma insieme la necessità possibile: la sintesi o mediazione, costitutiva della scelta morale o libertà. La definizione ontologica di Parmenide, per cui “l‟Essere è e il nonEssere non è”, induce all‟errore, in quanto lascia indeterminato il nonEssere, facendone un Essere. La frase va completata nel senso che stabilisce ciò che non-è, definendolo correttamente: “il non-Essere non è l‟Essere”. L‟Essere è l‟Idea, e il non-Essere è il Molteplice. Che l‟Essere sia o non-sia, non è un principio, cioè una definizione ontologica, ma un giudizio, cioè una affermazione di fede e non una necessità logica. Come Idea, l‟Essere “è”; ma in senso empirico, in virtù della sua possibilità, potrebbe anche non-essere. Ciò vuol dire che l‟essenza dell‟Essere è indeterminata fuori del suo principio di fede, determinante la necessità d‟essere di ciò che è. Fuori di tale determinazione d‟essere, c‟è solo la possibilità del divenire. L‟affermazione di Parmenide, secondo cui “ciò che non è” si riferisce al Niente, è errata, poiché il non-essere, riferito all‟Essere, è il divenire, l‟altro ontologico, il quale non è il Niente, ma il Molteplice. La qualità del Molteplice è il divenire. Trasferita nella realtà ideale, tale qualità opera una distinzione entro l‟Idea, assumendola sotto forma di realtà sensibile, per cui la Bellezza diviene le cose belle, la Bontà le cose buone, etc. Ma, essendo l‟Idea Una e non Molteplice, se le cose belle sono distinte dalle buone, la Bellezza è la stessa Idea del Bene in quanto uguale a se stessa, e come tale Una e non Molteplice. Se anche le cose belle fossero buone, esse non sarebbero molteplici ma uno, e non sarebbero enti ma idee. Ciò vuol dire che il Bello, il Buono etc. sono giudizi empirici, e non ideali, in quanto determinazioni finite, storiche, dell‟unica Idea eterna. La natura o essenza dell‟Idea è tale che la sua determinazione finita – cioè la sua affermazione esistenziale, coincidente col suo giudizio d‟essenza – si manifesta come ente molteplice. Questa condizione ha indotti molti, a partire da Aristotile, a ritenere che l‟Idea o sostanza fosse inesistente, e unicamente reali solo le sue determinazioni empiriche. L‟esclusione della sostanza ha reso Uno il Molteplice, nel senso che ha reso uguali gli enti mondani nel loro essere ovvero non-essere relativi. Infatti, ogni determinazione d‟essere o di non-essere degli enti, non li annienta come enti, i quali tutti sono ciò che sono, cioè enti, a prescindere dalla loro partecipazione all‟Essere. E ciò che tutti gli enti sono è appunto il loro 11
essere enti, cioè realtà molteplice. La realtà propria degli enti molteplici è il loro essere se stessi, cioè il loro esistere. La molteplicità, che è qualità dell‟esistenza, trasferita nell‟Idea in virtù dell‟identità storicistica di Essere e divenire, genera il pluralismo ideale, cioè il relativismo. Affermare che “le cose non sono”, significa asserire che esse “non sono idee”, ma appunto cose. Le cose che “non sono”, sono le cose che “esistono” meramente, senza alcuna determinazione. Dire che “le cose che non sono” (me ònta) sono “qualcosa”, è appunto dirle esistenti. Affermare che qualcosa che non-è, è pur qualcosa, è contraddittorio, poiché ciò che non-è esiste come Molteplice, e non può essere “qualcosa” che “è”, cioè una Idea, che è una e non qualcosa molteplice, che può essere o non così com‟è. Il predicato di esistenza presuppone l‟esistenza per la determinazione ideale. Dire che “qualcosa è”, significa dire che qualcosa esiste. In questo caso indeterminato, l‟essere della copula sta a indicare esistenza e non determinazione ideale. Dire che “qualcosa è bella”, significa che la cosa ha una realtà determinata, cioè una esistenza qualificata idealmente: essa partecipa dell‟Idea di Bellezza. Che però essa non sia la stessa Idea, è dato dalla circostanza della sua stessa determinazione come cosa “bella”, distinta da “buona” etc., ossia come ente molteplice. Se fosse Idea, essa sarebbe una o non più, la stessa e non distinta, così come il Belo e il Buono sono lo stesso Uno ideale. Attribuire la pluralità all‟Idea è lo stesso che attribuire l‟unità al Molteplice, cioè una contraddizione affermata sulla astratta identità dell‟Idea con le sue determinazioni empiriche. Questa contraddizione è all‟origine del pensiero ontologico moderno, ma risale all‟idealismo platonico. Essa infatti nasce con la credenza nell‟identità di Essere e Idea. L‟Essere è e insieme non-è perché è mediazione, per cui affermare che l‟Idea è e insieme non-è, assumendo la sua uguaglianza o identità con il suo Essere, significa che essa – come l‟Essere – è indeterminata, ossia è Molteplice. E poiché un‟Idea che sia Molteplice, non è Idea ma appunto Molteplice, l‟unica realtà ontologica è quella del Molteplice. Dire che “qualcosa è”, ma non dire ciò che è, è non-dire in senso predicativo ma affermare in senso esistentivo, per cui ciò che non-è in senso ideale, è in senso esistenziale, cioè esiste. E affermare che “qualcosa esiste” equivale a non dire niente del suo Essere ideale. Di contro, affermare che qualcosa non-è, non significa attribuire contraddittoriamente l‟essere al non-essere, ma solo affermare l‟esistenza 12
di ciò che esiste. In tal senso, l‟ente è in quanto esiste, a prescinde dalla sua partecipazione all‟Essere ideale, e nel contempo non-è l‟Idea. Da qui la contraddittorietà del Molteplice e la sua possibilità di determinarsi nel senso dell‟Essere. Ed è tale possibilità a costituire la fonte dell‟errore, di cui manca la necessità ideale di ciò che è e non può non-essere. Se si introduce la possibilità entro l‟Essere, il suo opposto dialettico non è più l‟ente, cioè il Molteplice rispetto all‟uno ideale, ma il Niente come negazione dell‟Essere. Il nichilismo è il portato del razionalismo idealistico e della asserita astratta identità dell‟Idea con le sue determinazioni empiriche. Secondo tale astratta identità, l‟Essere come Idea ha come opposto non già il Molteplice, ma il non-Essere come nonIdea, come Niente. E rispetto al Niente, l‟Essere è Tutto. E poiché tale Essere-Tutto è lo stesso Molteplice, fuori del Molteplice non c‟è Niente. L‟assolutezza del Molteplice è il dominio della possibilità, ossia del divenire, in cui ogni determinazione positiva è solo l‟affermazione del potere della volontà. Questo naturalismo, che è alla radice del nichilismo moderno, nasce dal Mito idealistico della civiltà antica, per la quale l‟Essere sia l‟Idea. Per evitare il risultato assurdo cui perviene l‟idealismo antico e il razionalismo moderno, occorre tener distinto l‟Essere predicativo dall‟essere esistentivo, per cui di ciò che non-è si può dire che esiste, e non nulla, come invece voleva Parmenide. Parimenti, di ciò che nonesiste (come Molteplice) si può dire che è (come Idea), poiché ciò che è idealmente è il suo Essere indeterminato, ovvero l‟Essere in sé, che, rispetto all‟Essere-determinato come ciò-che-è, ossia l‟ente, è trascendente. L‟indeterminatezza dell‟Idea è l‟Idea in sé, la sua trascendenza, mentre l‟indeterminatezza degli enti è il divenire, la sua molteplicità. Trascendenza e molteplicità sono concetti opposti e contraddittori, i quali negano logicamente ogni possibile identità ontologica. Confondere le due determinazioni equivale appunto a identificare l‟Uno e il Molteplice, l‟Essere ideale con l‟esistenza empirica, facendo di questa una realtà assoluta e idealmente indeterminata, e con ciò impedendo allo stesso pensiero di distinguersi dalla volontà. I potere della volontà esautora la forza della determinazione del pensiero, affidandola alla cura dell‟uomo, ossia alla sua discrezionalità. La Storia umana diventa lo scenario della sua volontà d‟ordine idealizzata, e la materia del suo demiurgico potere modellante. Gli uomini tentano con gli 13
dèi ciò che questi fecero con i Titani, esautorarli del loro potere. la questione del Potere diventa il senso stesso della vita umana, adoperata nel tentativo di dare ordine al caos mondano. La possibilità insita nel Molteplice, senza alcuna necessità, diventa l‟essenza della volontà poietica, alla cui riuscita pratica è affidata non solo l‟esistenza ma l‟essenza stessa dell‟Essere, il quale solo manifestandosi come ente fenomenico testimonia di sé. L‟eclissi della trascendenza coincide con l‟apoteosi dell‟esistenza, che fa dell‟Idea un ente tra enti. Primus inter pares, ma anch‟esso non necessario, e perciò disponibile alla fruizione umana. La necessità dell‟Idea è la sua trascendenza, ossia la sua unità o indeterminazione, che è la sua negatività rispetto alla determinazione degli enti molteplici. Senza la sua trascendenza, l‟Idea perde la sua unità e Uno diventa l‟Essere. Ma se Uno è l‟Idea e insieme l‟Essere, sarebbero due, cioè Molteplice, per cui l‟Idea-Uno deve identificarsi con l‟Essere perché questo sia Uno, ossia l‟Idea deve annullarsi come Idea-in-sé e identificarsi con l‟Essere molteplice. Ma questo annullamento è appunto determinato dalla volontà, e non dalla necessità, perché l‟identità di Essere ed Idea è contraddittorio, e solo la astratta volontà, ossia la volontà astratta dalla verità, può affermarlo reale, facendo del Niente l‟Essere, ossia un Essere-Non. L‟Essere contraddittorio è Uno (come Idea) e Molteplice (come possibilità esistentiva), partecipando sia dell‟Idea che delle cose mondane. In questo modo la volontà perviene all‟identità di Essere ed esistenza, per cui l‟Uno è se stesso perché non può essere molti; il Molteplice non può, d‟altronde, essere Uno senza essere diverso da sé stesso, e cioè contraddittorio. E poiché l‟Uno e il Molteplice entrambi “sono” in quanto ognuno “è” se stesso, l‟Essere è tanto Uno che Molteplice. La contraddizione ontologica è superabile solo trasferendola sul piano logico, facendo dell‟identità la stessa contraddizione dialettica. Infatti, poiché l‟Essere è altro (in quanto identico sia all‟Uno che è, sia al Molteplice, che pure è), esso, in sé, non-è niente: è Negativo. Sicché è il Negativo la mediazione e distinzione tra l‟Uno e il Molteplice, senza la quale l‟Uno e il Molteplice sarebbero identici. Ciò che li media e li distingue è dunque il loro reciproco non-essere l‟altro: la loro negazione, non l‟affermazione. In tal senso precipuo, la logica negativa è dialettica, e la dialettica è una logica del Negativo.
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Uno
Idea è
Molteplice
Divenire
l’Essere partecipa tanto dell’Uno che del Molteplice. Se l’uno è, anche l’essere è Uno. Se il Molteplice è, anche l’essere è Molteplice. L‟Essere è sia Uno che Molteplice, cioè è altro-da-sé, quindi non-è se stesso. L‟essere altro da sé è un non-essere se stesso, un Negativo. Solo determinandosi come Uno ovvero come Molteplice, l‟Essere è, ed è come altro. Determinandosi, distingue, per cui l‟Essere media l‟Uno e il Molteplice. L‟Essere in sé, fuori della mediazione onto-logica, non-è, e pertanto non è conoscibile in sé, ma solo come altro, ossia ancora come Uno o come Molteplice. In tal senso solo se identificato con l‟Essere, Dio stesso diventa inconoscibile, così come diventa contraddittoria ogni identità dell‟Essere senza la mediazione del suo opposto negativo. Per cui l‟identità dell‟Essere con l‟Idea, ossia con l‟Uno,escludendo il Molteplice divenire, finisce per convertirsi nel suo opposto dialettico, essendo ogni determinazione anche una negazione. Ad esempio, affermare che l‟Essere è Uno, significa dire che l‟Uno non-è il Molteplice, ossia che l‟Uno è se stesso e insieme non-è Molteplice. L‟Essere pertanto è e insieme non-è ciò che afferma o nega, per cui la conoscenza dell‟Essere, l‟ontologia, è conoscenza dell‟Uno (Idea) e del Molteplice (Divenire), ossia è insieme filosofia è storia, e la sua ragione, la logica dell‟ontologia, è dunque dialettica. Una dialettica negativa, in quanto l‟Essere in sé è negativo, e come tale è inconoscibile fuori di ogni determinazione, per cui niente può dirsi dell‟Essere che non sia riferito all‟Uno o al Molteplice. La determinazione promiscua, con la quale insieme il nome si viene a indicare sia l‟Essere che l‟ente, è una persistenza tipica del linguaggio mitico, dove l‟alètheia si confondeva con l‟orthòtes del nome, e solo successivamente, a partire da Socrate e soprattutto con Platone, il pensiero filosofico svilupperà una differenza tra nominazione linguistica e costrutto logico.2 La distinzione della alètheia dal compendio mitico del 2
Ved. G. Calogero, Storia della logica antica, vol. I, L‟età arcaica, Bari, 1967, pagg.
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lògos naturalistico è conseguente alla critica del fondamento di fede ontologico che oppone l‟espressione verbale (tì esti;) ai contenuti logici della conoscenza (tì lègeis;), e che è oggetto del Cratilo platonico. La principale conseguenza per aver portato la negazione all‟interno dell‟Uno per stabilir l‟identità con il Molteplice, è quella di aver ridotto la mediazione dell‟Essere a una negazione assoluta, facendo di ciò-che-nonè un modo d‟Essere, alla maniera sofistica stigmatizzata da Parmenide. Infatti, affermare che il Bello è (un‟Idea) il non-Brutto (un‟altra Idea), equivale a porre il Bello alla stregua del Brutto, come due. E poiché l‟Idea è Una o non-è Idea, quando sono due o sono identiche, e cioè un‟Idea, o sono entrambe false, e cioè non-idee ma enti. Se l‟Essere è, esso è nel contempo non-essere. Il suo Essere qualcosa e il suo non-essere qualcos‟altro, sono o l‟Uno o il Molteplice. Non c‟è negazione dell‟Uno che non sia l‟Essere del Molteplice, e viceversa, per cui affermare la negazione dell‟Uno distinta dall‟Essere del Molteplice, e viceversa, equivale a trasformare quella negazione in un‟astrazione ontica, in un Essere-Non, e attribuirle realtà d‟Essere in quanto realtà esistente. La dialettica è conoscenza dell‟Essere, non dell‟Idea o del Molteplice, essendo l‟Essere passibile di contraddizione logica, in quanto indicante insieme l‟Essere dell‟Idea e la sua determinazione esistenziale possibile. Trasferire la contraddizione dal piano della logica a quello dell‟ontologia è usare il linguaggio (dialègesthai) come téchne sofistica a scopo utilitaristico. Secondo il principio di identità, per cui l‟Uno è l‟Uno e il Molteplice è il Molteplice, ed essendo indimostrabile la derivazione dell‟Uno dal Molteplice e viceversa, Platone concepisce i nomi come “immagini delle cose”3 e la conoscenza (gnòsis) come il permanere rispetto alla “corrente” e al “movimento” di cui parlano gli Eraclitei.4 Il superamento dialettico di questa differenza ontologica è avvenuto pensandolo all‟interno del principio di identità, come “passaggio” metettico dall‟una all‟altra realtà ontologica, attraverso una sorta di manipolazione dell‟Essere conseguente all‟assimilazione accennata dell‟Essere all‟Idea. Affermare, come fa 39 sgg. 3
Platone, Cratilo, 439.
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4. Ivi, 440b-c.
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Parmenide, che “l‟Essere è, e il non-Essere non-è”, significa introdurre nell‟Essere la distinzione ontologica tra l‟Uno e il Molteplice, che invece è soltanto logica, in quanto l‟Essere-che-è e l‟Essere-che-non-è sono lo stesso Essere, il quale si distingue come terzo rispetto all‟Uno e al Molteplice in quanto in sé non è né l‟Uno né il Molteplice, ma è l‟Uno e insieme il Molteplice. Voler identificare l‟Essere con uno solo dei due elementi ontologici, signifca assimilarlo all‟uno ed escluderlo dall‟altro, negando la sua natura dialettica e la sua funzione logica di determinazione e di distinzione. Affermare infatti che soltanto l‟Essere è, mentre il non-Essere non-è, equivale a sostenere che l‟affermazione dell‟Essere avvenga attraverso la negazione dell‟altro Essere. Se l‟Essere è solo ciò che è, ossia l‟Essere determinato, tutte le determinazioni molteplici si equivalgono, e sono Uno in quanto tautologicamente identiche ed equivalenti. In tal caso, la distinzione ontologica diventa esclusione ontica, e non solo opposizione logica. Da questo sofisma deriva il principio dell‟uguaglianza universale degli enti-uomini, e con esso la riduzione di ogni eguale alla totalità dell‟Uno, sicché il principio di identità (e non contraddizione) si risolve nella soppressione (politica) della contraddizione. L‟ontologia di Parmenide, non chiarendo il senso dialettico dell‟Essere, come mediazione tra l‟Uno e il Molteplice, lo identifica col Tutto. Ed è in questa riduzione ontologica del Tutto a un suo elemento la radice della violenza metafisica e storica. Essa consegue alla credenza che l‟Essere sia l‟Idea, e questa sia l‟Uno. Il suo concetto è astratto in quanto rimuove dall‟Essere il negativo, assumendolo come positività assoluta: solo l‟Essere è, e il suo Essere è la negazione dell‟altro, che è non-Essere, cioè il Molteplice. Ma l‟Uno e il Molteplice coesistono nell‟Essere come il reciproco opposto, e sono lo stesso (Essere in quanto) negativo dell‟altro. Solo determinandosi come Uno o come Molteplice, l‟Essere perde la sua negatività, e quindi la stessa identità degli opposti, per cui l‟Essere Uno si distingue ontologicamente dall‟Essere Molteplice e l‟Essere dell‟Uno non è lo stesso Essere del Molteplice ma logicamente l‟uno contiene l‟altro come l‟esistenza di ciò-che-è contiene la sua essenza (l‟Essere). Per la sua duplice natura, ontologica e logica, l‟Essere non ha come opposto il Niente, ma solo il non-Essere, il quale, se non è il Niente, non è neppure semplicemente l‟altro. Il non-Essere è ciò che l‟altro non-è, ossia è l‟altro dell‟altro. E poiché l‟altro è sempre l‟altro dell‟altro, solo in quanto “altro” ogni altro si equivale all‟altro. Ma come Essere 17
determinato, ossia come Essere-che-è, ogni altro è solo se stesso. Ciò che dunque ogni altro ha in comune con ogni altro-da-sé, è il Non-Essere, cioè il non-Essere altro ma sé; e non ha in comune l‟Essere, che lo equipara solo a se stesso. Ciò vuol dire che l‟Uno non può essere il Molteplice (cioè l‟altro) ma solo essere necessariamente ciò che è. La necessità, infatti, è propria dell‟Uno come Idea, e non dell‟uno fra tanti, cioè del possibile Molteplice. Per questo è opportuno indicare l‟Uno come Idea e non confonderlo col numero, ossia con l‟unità del Molteplice, che invece costituisce la credenza dell‟identità ontologica propria dell‟idealismo antico e del razionalismo moderno. L‟altro rispetto al‟Idea è il Molteplice. Ma poiché il Molteplice contiene tante unità, e l‟altro dell‟unità non può essere il numero, che contiene l‟unità, è opportuno indicare il Molteplice come il Divenire, per non confonderlo col numero. L‟Idea e il Divenire sono elementi costitutivi del Tutto, l‟un l‟altro irriducibili a sé e al Tutto. E poiché sono reciprocamente altri e irriducibili a sé, non possono essere né Uno fra loro né Uno col Tutto. Ciò vuol dire che fra essi e il Tutto c‟è un terzo elemento che li distingue e li accomuna in questa distinzione reciproca: l‟Essere come Negativo o Altro rispetto all‟Idea, al Divenire, al Tutto e fra di loro. Solo l‟Essere è ognuno degli elementi e nessuno di essi soltanto. L‟Essere non è Tutto perché fuori della determinazione esso è Niente, cioè inesistente e perciò non-dicibile e quindi a-logico. Determinare l‟Essere equivale a indicarlo come Uno o come Molteplice. Il linguaggio dell‟Essere determinato è la logica, il costrutto enunciativo dotato di senso razionale. L‟Essere determinato è l‟Essere distinto dal suo opposto, e perciò o l‟Idea o il Divenire. Ciò vuol dire che la determinazione dell‟Essere è logica ed esistentiva, e si esprime nel giudizio di realtà: giudizio determinativo e distinguente. Senza la distinzione, l‟Essere in sé equivale al non-Essere in sé, in quanto l‟Essere di ogni elemento del Tutto è il non-Essere di ogni altro, e ogni determinazione logica equivale a una alterità ontologica, pertanto l‟Essere comune di ogni elemento è il loro negativo, il loro non-Essere l‟altro-dasé, il Niente, che perciò è l‟opposto del Tutto. Rispetto alla determinazione positiva di ogni elemento del Tutto, e perciò del Tutto stesso, l‟Essere è il Niente, che perciò è elemento anch‟esso del Tutto. L‟Essere, dunque, è l‟unico elemento del Tutto che è se stesso e, come Negativo, l‟opposto di ogni altro, senza esserne il distinto, perché per 18
essere distinto dev‟essere determinato, e come determinato, essendo l‟altro, è altro da ciò che è in sé e appunto Uno o Molteplice. La negazione “non”, fuori dalla sua relazione con l‟essere (in senso esistenziale), inerisce a grandezze o entità relative al Molteplice ed esprime una equivalenza oppositiva. Es.: il non-grande, equivale al piccolo; il non-sano, al malato, etc. Nella relazione con l‟Essere (nell‟uso copulativo), la negazione non indica l‟opposto reale, ma l‟altro ontologico. Es.: non-Bello = Brutto. Ma Brutto non ha una realtà ideale positiva, non ha lo stesso Essere del Bello ma è l‟opposto di ciò che è idealmente Bello, ossia è l‟altro dal‟Idea di Bello. E l‟altro dall‟Idea è appunto il Molteplice, per cui ogni opposto negativo di un‟Idea è un ente molteplice. Assumere l‟ente come Idea o nell‟Idea, stabilendo una relazione di equivalenza o di partecipazione ontologica, significa astrarlo dalla sua condizione di Molteplice e definirlo idealmente come Essere ideale: giudicarlo, cioè, logicamente. Ma la determinazione logico-ontologica, il giudizio di realtà, non potrà mai stabilire una equivalenza tra l‟Essere del giudizio e il suo opposto, per cui il non-Bello non ha una realtà d‟Essere idealmente opposta all‟Essere Bello. Il non-Bello, dal punto di vista del giudizio di realtà, è il Niente ideale, l‟altro ontologico, ed “è” solo in quanto ente molteplice, e cioè come opposto all‟Uno o all‟Idea. Ogni opposto all‟Idea, non è “ideale”, ma altrimenti che ideale, e cioè Molteplice. Ciò che non-è ideale, appartiene dunque al Divenire. Pertanto, ogni opposizione logica all‟Idea determina una condizione puramente esistenziale di ciò che non-è ideale. Ma se ogni opposizione all‟Idea è altro dall‟Idea, esso è, in quanto Divenire, anche altro da ogni Idea, e non può essere distinto da essa. La distinzione infatti non può riguardare l‟Uno ma il Molteplice. Solo entro il Molteplice si può distinguere, mentre nell‟Uno non c‟è che unità, e non distinzione. Le Idee “diverse” sono in realtà enti diversamente giudicati dalla stessa Idea, che li determina in modi diversi a seconda della relazione che l‟ente ha con gli altri enti molteplici. Per cui ogni determinazione ideale, ogni giudizio logico, inerendo la relazione fra enti molteplici, è a sua volta molteplice, ma ciò non implica che l‟Essere ideale sia Molteplice. L‟Idea è sempre Idea, e come tale Una; diverse sono le sue determinazioni, che riguardano il Molteplice. I molti giudizi di bellezza riguardanti altrettante cose belle, non sono molte Idee, ma solo molte cose, per cui il giudizio logico di (partecipazione di) essenza non 19
potrà mai stabilire una equivalenza ontologica tra l‟Idea e la cosa giudicata idealmente. Ciò vuol dire che la differenza ontologica tra l‟Idea di bellezza e le cose giudicate belle resterà insuperabile, e che, la partecipazione della bellezza alle cose belle non comporta l‟immanenza della bellezza, la quale, in quanto Idea, è trascendente le singole determinazioni empiriche, ossia le singole partecipazioni, che perciò sono di carattere logico, e non ontologico. La metessi, dunque, non indica “passaggio” dall‟Idea all‟ente o viceversa, cioè consustanzialità ontologica, ma solo “analogia”, ossia partecipazione logica. La trascendenza dell‟Idea garantisce la sua verità, non il giudizio logico, che può anche sbagliare i termini della relazione fra gli enti. Questa relazione, che definisce il mondo del discorso filosofico nell‟ambito dell‟ orizzonte situazionale della totalità storica del Divenire, costituisce il contenuto del giudizio storiografico, di ciò che chiamiamo un orizzonte situazionale di senso. Il giudizio d‟Essere di un ente partecipe dell‟Idea e perciò determinato nel suo Essere ideale, è un giudizio “elettivo”, ossia un‟affermazione di elezione inerente una realtà che attraverso quella determinazione viene sottratta al Divenire e stabilita nell‟Essere come modello o analogon dell‟Idea. Questo stabilimento dell‟Ente nell‟Essere dell‟Idea come rappresentante dell’Idea, è mutuato dall‟originaria fondazione ontologica dell‟Essere come Idea. E ogni giudizio di realtà non fa che rielaborare questo originario giudizio d‟Essere, il quale appunto attribuisce realtà ideale agli enti eleggendoli a rappresentanti dell‟Idea e con ciò emancipandoli dal divenire della loro condizione ontologica. Che qualcosa partecipi della Bellezza, non significa che l‟ente partecipato sia l‟Idea. E ciò perché l‟Essere, determinandosi, nello stesso tempo nega dialetticamente il suo opposto, e quindi è molteplice e non Uno come l‟Idea. Stabilire una identità tra l‟ente bello e la Bellezza significherebbe affermare che qualcosa del Molteplice fosse uguale all‟Uno. Stabilire la partecipazione significa invece che l‟Essere dell‟ente trascende la sua finitezza ontologica, così come ogni Essere determinato trascende la negatività insita nel suo non-essere-altro, ma non la elimina. Ciò che è bello, trascende la sua condizione finita partecipando dell‟Essere della Bellezza, ma non perciò si libera della sua condizione di ente molteplice soggetto al divenire, essendo pur sempre qualcosa e non Uno, cioè ente e non Idea. La rimozione metafisica della trascendenza va di pari passo con la negazione della differenza tra essenza ed esistenza, stabilendo 20
quell‟identità tra Idea ed Ente partecipato che consente l‟idealizzazione del mondo finito e la transizione relativistica della realtà ideale, assoggettandola al Divenire. L‟uso copulativo al negativo (A non-è B) equivale all‟uso esistenziale positivo (A è): A esiste come A e partecipa del Molteplice. Per cui, dire del non-Essere equivale a dire del Divenire, ossia significa parlare di realtà empiriche e non ideali. Il dire sofistico trasferisce la dialettica dell‟Essere nell‟Essere dell‟Idea, rendendo equivalente la determinazione d‟essere e la sua negazione, stabilendo perciò una (falsa) equivalenza fra l‟Idea e il Divenire, tra l‟Uno e il Molteplice, tra l‟essenza e l‟esistenza, tra l‟opinione utilitaristica e il giudizio logico, e quindi affermare di ciò che è, che non è, e viceversa. Ogni determinazione d‟Essere è positiva in ciò che afferma, e negativa in ciò che nega. La determinazione positiva è finita, mentre la negazione è infinita. Proprio perché l‟infinito è una determinazione negativa, al Molteplice non gli può essere “connaturato l‟infinito”, come vorrebbe Platone. Il Molteplice, come realtà infinita, è realtà negativa, ossia indeterminato non-Essere. E ciò che non-è Molteplice, è l‟Uno. A sua volta, l‟Uno, prima di ogni determinazione d‟Essere, è indeterminato, e perciò in-finito. Infinito è il numero indeterminato, ossia non-è un numero, e perciò di esso non si può dire. L‟infinito è l‟immaginario, l‟indeterminato Essere che non-è; lo spazio della dòxa, non del lògos, del pensiero logico. La logica platonica è dialettica, e il lògos, come méthodos o téchnhe, come scienza del pensiero o della ragione, diventa scienza o metodica del dialogare, ossia dialektiché téchnhe e dialektiché méthodos, cioè un processo dialogico dotato di regole. Le idee sono posizioni del pensiero in relazione logica, la quale nel Fedro, nella Repubblica e nel Sofista viene spiegata come quella relazione tra lògoi (opposti agli onta, cioè alle cose sensibili) che rende possibile la scienza come dottrina delle Idee. La molteplicità delle Idee è resa possibile dalla presenza degli onta nei lògoi, per cui la relazione tra enti diventa relazione tra Idee. La trasposizione sul piano ontologico delle relazioni logiche costituisce il contenuto metafisico della dottrina platonica delle Idee, la quale perciò non è una scienza della logica, ma una visione dell‟Essere, cioè una mito-logia. Come aveva a suo tempo avvertito il Natorp, per comprendere Platone è indispensabile tener conto che
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l‟essere delle Idee debba significare qualcosa di più che semplicemente l‟essere logico, [e] tutto ciò che appartiene al capitolo della logica, alla dottrina del concetto, de giudizio o della scienza stessa […] non è che l‟anticamera della dottrina delle idee di Platone, che notoriamente è una metafisica e non semplicemente una logica. In questo dunque consisterebbe il nostro errore, nell‟aver voluto forzatamente fare della dottrina delle idee una logica libera dalla metafisica. [Ma] dove mai Platone ha separato una metafisica dalla logica o dalla dottrina della scienza? La separazione tra metafisica e logica deriva piuttosto, come tutti sanno, da Aristotele […], da una ingiustificata intrusione nell‟interpretazione di Platone di concezioni di scuola aristotelica che le sono del tutto estranee [e di cui] in tutta l‟opera di Platone non è 5 dato scoprirne traccia.
2. Abbiamo già di sopra chiarito il ruolo della volontà nel tenere insieme, in un accordo convenzionale, che Platone chiama homologìa, cioè affermazione con-venuta, accordo dialettico, senso univoco di una interpretazione, la cui verità riposa appunto nel suo con-senso, nel suo significato convenuto, pubbico. La ragione umana è la ragione pubblica, ossia la verità convenuta di una struttura giuridico-sociale entro la quale e per mezzo della quale i singoli e i gruppi vivono storicamente insieme. Asserire che l‟uomo sia un animale “razionale”, significa che egli struttura la sua ragione entro le convenzioni ideali della sua convivenza sociale, fuori delle quali la sua intelligenza del mondo è preda delle passioni. L‟uomo singolo, fuori della vita sociale, è preda delle passioni, anziché essere guidato dalla ragione, per cui questa è indisgiungibile dalla socialità. La ragione, dunque, non è virtù dell‟uomo, ma qualità della società. Ragione è società sono indisgiungibili. Questo non vuol dire che la semplice socialità sia di per sé razionale, per cui qualunque convivenza è improntata alla razionalità. Significa piuttosto che la socialità è la condizione della retta ragione, della ragionevolezza, e che la ragione sociale è quella che costituisce il patrimonio d‟esperienza utile a fornire all‟uomo la giusta interpretazione del mondo e della vita, che perciò inevitabilmente sono gli orizzonti antropologici della sua cultura; una cultura appunto “sociale”. Fuori della socialità, l‟uomo non può essere umanamente razionale. 5
P. Natorp, Ueber Platos Ideenlehre, Berlino, 1914, tr. it. in Appendice a Il sofista, a cura di M. Vitali, Milano, 1996, pagg. LXX-LXXIV. Per una visione di insieme del platonismo second Natorp ved. Platos Ideenlehre. Eine Einfuehrung in den Uidealismus (1903), trd. it. Milano 1999.
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La premessa è che gli uomini perlopiù siano preda delle passioni, per cui la condizione sociale per essi non è una scelta negoziabile ma una necessità essenziale, naturale, legata cioè alla loro stessa natura, umana. Solo una minoranza tra loro riesce a dominare le passioni con la ragione (col lògos), stabilendo quei princìpi normativamente vincolanti che si traducono in istituzioni sociali, in regole di condotta comune, in prassi socializzata. Il lògos è lo strumento dell‟autocoscienza dialettica acquisita attraverso il dialogo che la coscienza intrattiene con le passioni umane. Filosoficamente, le ragioni della coscienza sono le ragioni che hanno per oggetto l‟opinione pubblica, ossia quella parte di ragione pubblica non adeguatamente mondata di passioni umane, di pàthos. La logica è l‟esercizio dialettico per vincere le passioni, che si esercitano con la chiacchiera, anziché con il discorso razionale. La ragione logica spesso sopravanza la ragione pubblica, la quale può aver smarrito la sua natura logica diventando preda delle passioni private. In tali casi, la ragione logica del filosofo, cioè la coscienza filosofica, è la vera ragione pubblica, sostitutiva di quella comune degenerata in passione. Il potere della passione è la forza della violenza e dell‟usurpazione, contro la giustezza delle regole etiche. La violenza privata, è arbitrio e capriccio delle passioni non domate dalla ragione; ma quando è pubblica, la violenza passionale è tirannide e ingiustizia non solo morale ma anche sociale. La ragione pubblica non sempre, dunque, coincide con la logica, né sempre coincide con la forza politicamente dominante. Per questo la ragione pubblica può essere impersonata dal filosofo o da minoranze illuminate politicamente deboli, anche contro l‟opinione comune, che, al cospetto del lògos, è solo la dòxa storicamente imperante in un determinato contesto sociale. Quando la passione diventa potere politico, da privata non diventa passione pubblica senza il concorso del consenso dell‟opinione pubblica; ma come le ragioni private non diventano pubbliche senza la mediazione del governo legittimo, così la passione sociale, anche quando forza politica dominante, non diventa ragione pubblica senza il vaglio della coscienza dialettica. La socialità è la condizione della razionalità, ma non coincide con essa. La ragione pubblica, quindi, non coincide con il consenso sociale. E quando avviene questa coincidenza, a dominare è l‟idea che il pubblico si identifichi col maggior numero, ossia con l‟opinione comune (dòxa). In 23
tal caso, a dominare non è la ragione pubblica o la logica, ma le passioni delle masse, ossia la maggioranza delle passioni private, che non formano unità logica ma potenza politica del numero. Nondimeno, la ragione pubblica non è la coscienza comune, preda delle passioni singolari o collettive, ma può avvenire la loro coincidenza allorquando la coscienza comune e la ragione pubblica si riconoscano nella coscienza logica, che costituisce la loro ragione comune. La passione sociale è più pericolosa per la ragione di quella lo sia quella privata, poiché induce a ritenere che la ragione pubblica sia quella stessa della forza politica. Ma è proprio in questi casi che l‟unità morale della ragione pubblica si scinde tra coscienza comune e coscienza logica, la cui privatezza rispetto a quella comune non esclude la sua natura idealmente “pubblica”, e quindi la sua legittimazione di verità rispetto all‟opinione meramente più forte. Proprio perché le passioni private possono impadronirsi della forza pubblica e trasformarsi in ragioni politiche comuni, la logica deve costituire il discrimine invalidante e convalidante di ogni potere pubblico, ossia costituire la sanzione morale della sua legittimazione razionale. E ciò può sussistere solo riconoscendo la differenza tra la verità ideale e la forza sociale, ossia la necessità della sanzione morale per la legittimità della ragione pubblica, la quale, di per sé, può anche essere una mera opinione condivisa, tanto poco logica quanto una privata. Ma se ciò è vero, non può esserlo che l‟opinione, solo perché socialmente condivisa, sia quella razionalmente “pubblica”, dovendo essere la ragione pubblica appunto una “ragione”, e non una “passione” sociale. Ciò vuol dire che la socialità, come condizione esistenziale, non è coincidente con la “ragione” ideale, e che solo se per “socialità” intendiamo lo stesso che “razionalità”, possiamo dire che la ragione pubblica coincida con la logica. “pubblica”, dunque, è la ragione logica, non l‟opinione comune, per cui non si può identificare la forza politica delle opinioni o passioni private con la razionalità del governo sociale della cosa pubblica. Il Governo rappresenta la ragione pubblica, e non la forza politica delle passioni private, che restano comunque opinioni, rispetto alla verità di ragione, anche se hanno dalla loro la forza del consenso sociale. Soltanto quando l‟opinione privata ha un fondamento logico, essa può contare come ragione di valore pubblico. Ma quando l‟opinione privata ha solo un fondamento politico, ossia conta per la sua forza sociale, per l‟incidenza del suo consenso diffuso, la sua dominanza nei più non può 24
essere identificata con la ragione pubblica, il cui valore morale non è dovuto alla sua condivisione sociale ma alla sua pregnanza logica, cioè alla sua verità. questa è la ragione per la quale il Governo è stato sempre affidato ai pochi e mai per troppo tempo ai molti. Infatti l‟esercizio della ragione pubblica è molto più arduo e delicato di quello della forza politica, che può contare sul gran numero, e perciò razionalmente affidabile a minoranze raffinate e aristocratiche e non alle incolte masse plebee e ai loro demagogici rappresentanti. Nei tristi periodi oclocratici in cui ciò non avviene, la politica decade a violenza pubblica e il potere è preda delle passioni private politicizzate. Questi periodi democratici sono quelli in cui gli uomini migliori si ritirano a vita privata, i costumi civili decadono e la vita sociale involgarisce. Sono i tempi in cui il filosofo compiange se stesso e la sua saggezza più che le masse ignare e la loro beata insipienza. 3. Trovare l‟unità di senso nel Molteplice divenire, significa trovare la ragione delle cose, cioè il legame logico che unisce cose e situazioni apparentemente slegate. Ciò vuol dire che l‟apparenza nasconde o rimanda il senso nascosto, ossia ideale, delle cose. Le cose del mondo reale sono, in se stesse, non-significative, ma la loro rappresentatività è legata al senso ideale riposto e che il logico – l‟interprete – deve individuare. Tale senso ideale non appartiene al divenire in quanto svolgimento del Molteplice, ma appunto all‟Idea che ne ha l‟interprete. Tale Idea no più fantasiosa di quanto lo sia un Mito prima di essere sottoposto alla critica razionale. Ogni Idea, come ogni Mito, si fonda sul presupposto che l‟unità di senso dell‟interprete sia l‟unità di senso della rappresentazione reale. Ossia, che l‟Idea della realtà corrisponda alla realtà fenomenica. In questo rapporto di identità tra Idea e Mondo reale consiste la verità. tale corrispondenza logica è sancita con l‟affermazione di un giudizio ontologico, per il quale la rappresentazione ideale “è” uguale alla Realtà: R = R. Il principio d‟esistenza stabilisce l‟equazione tra Essere ideale ed Essere reale, per cui l‟Idea del Mondo, cioè il Mondo ideale, “è” il Mondo reale. La realtà “è” ciò che ne pensa l‟Idea. Ma è necessariamente così? Esiste veramente tale rapporto d‟eguaglianza? Da questo interrogativo nasce la “critica” al Mito, alla rappresentazione ideale della realtà. La ragione critica mette in discussione la necessità del legame ontologico, chiedendosi se sia “vero” o “immaginario”. Ma l‟interrogativo critico non riguarda il principio di 25
corrispondenza, ma la sua rappresentazione ideale, la quale diventa, da “necessaria”, come affermata dal Mito, “possibile”. La possibilità libera il legame ontologico dalla necessità propria del legame logico, e interpone tra l‟Idea e il Mondo la mediazione della “credenza”, cioè del libero convincimento umano, in base al quale la loro relazione d‟Essere viene creduta necessaria o non. E‟ la credenza in tale necessità a fondare la relazione logica con l‟uguaglianza ontologica, stabilendo la relazione dell‟essenza con l‟esistenza. La critica investe tale relazione, inverando o confutando la credenza, con gli strumenti della dialettica, distinguendo il piano dell‟essenza ontologica da quella dell‟esistenza, mettendo in discussione la necessità logica della relazione. Il racconto mitico è il prototipo della credenza religiosa, la quale consiste in una rappresentazione del Mondo contenente un principio di realtà, un giudizio d‟Essere che comprende la (fede nella) sua esistenza. La credenza in quel giudizio è la fede stessa nella realtà ideale, ossia nella fedeltà della rappresentazione al Mondo rappresentato. L‟”essere” di quel giudizio, di quella credenza di realtà, è il fondamento ontologico del mondo che logicamente ne consegue. La relazione consequenziale stabilisce la necessità del rapporto tra essenza ed esistenza, per cui è la fede al fondamento di quella relazione. L‟analisi filosofica del Mito, volendo intaccare quel fondamento, investe la credenza, criticando la necessità della relazione. La religione, coltivando il culto dell‟Essere, conferma il fondamento ontologico della realtà, senza il quale il mondo non sarebbe, cioè non sarebbe definibile razionalmente, e resterebbe misterioso e in preda al thàuma, alla paura interrogante sul mondo. Il thaumazein è la condizione pre-logica di sospensione ontologica, la “crisi di presenza”, che anela alla definizione razionale della realtà. La pìstis è la condizione metafisica che sostiene la risposta razionale al thàuma. E‟ la fede che dà sostegno all‟Essere, come la religione è il fondamento ontologico della realtà, senza il quale il giudizio copulativo scade a criterio meramente esistentivo, impendendo la relazione analogica tra enti, i quali resterebbero non logicamente congiunti in unità ideale, e quindi in rapporto naturalisticamente polemico, meccanicamente risolvibile in scontro esclusivo di forza. Non a caso, la crisi religiosa dell‟ordine cosmico si manifesta come esaltazione della volontà di potenza, cioè di affermazione esclusiva del sé, individuale e di gruppo, negatrice di ogni comune convivenza 26
al‟insegna di valori ideali, anziché di relazioni politiche. L‟esaltazione della politica sul governo, è l‟indice della perdita di incidenza dell‟unità valoriale costitutiva della comunità umana e del conseguente degrado morale della società. Lo stesso concetto naturalistico antico e razionalistico moderno di “società”, sta a indicare tale perdita di comunione ideale fra gli uomini, sostituita con relazioni puramente formali, sancenti giuridicamente equilibri di forza politici, pronti a infrangersi col venir meno delle ragioni utilitaristiche della tregua. In questo senso, il processo di moderna razionalizzazione del mondo è il portato della naturalizzazione dei rapporti umani conseguente alla crisi epocale della civiltà cristiana. Il malinteso “progresso” della civiltà segna in realtà il suo regresso ad naturam. La critica filosofica, emancipata dalla fede ontologica, diviene analisi razionalistica del Mito. La filosofia, pertanto, criticando logicamente il Mito chiarisce il senso dell‟esistenzialità in termini logici, rileggendo l‟ “essere” ontologico fuori della relazione analogica con l‟Idea, in sé. E noi sappiamo che l‟Essere in sé è il Negativo di ogni determinazione. Il Negativo della narrazione mito-logica astrae la rappresentazione fantastica, la poesia della realtà, e la presenta come una fabula priva di senso razionale, custodito invece dalla critica. Il discrimine tra la relazione esistenziale-analogica e la relazione logico-ontologica, distingue la rappresentazione fantastica da quella razionale, la poesia dalla filosofia e le rispettive narrazioni dalla realtà. Solo l‟uso copulativo dell‟ “essere” stabilisce la relazione logica tra realtà e Idea. L‟essere esistenziale, invece, stabilisce mere relazioni analogiche tra enti finiti, il cui rimando metaforico ad altre analogie possibili non assurge mai a giudizio logico, dialettico, restando nell‟ambito dell‟identità ontologica del Molteplice con se stesso. L‟analogia non può conseguire l‟unità logica, ma solo rimandare ad altra similitudine, lasciando logicamente aperta – cioè non necessaria – la definizione dell‟Essere. Da qui il pathos della rappresentazione fantastica, che caratterizza la rappresentazione poetica della realtà, che tocca il sentimento della vita finita, anziché la ragione dell‟Essere. Per Platone, l‟unità logica della rappresentazione razionale del Molteplice era costituita dall‟Idea, la quale, criticando il Mito, tendeva a sostituire l‟analogia come relazione fantastica della rappresentazione poetica della realtà. Ma, essendo il concetto stesso di Idea mutuato sul modello analogico degli enti finiti, stabiliva una relazione logica tra essi tutta interna al Molteplice, e quindi sorretta dal 27
principio non dialettico di identità ontologica, proprio di ogni realismo empiristico. La congettura, ossia la teoria ipotetica della realtà, così come l‟intende l‟empirismo, rimane al di qua della definizione logica, in quanto non stabilisce una relazione dialettica tra il finito (l‟osservazione empirica o l‟oggetto della definizione) e l‟Idea (il principio d‟Essere della realtà che chiude in unità il mondo finito). Rimane, cioè, nell‟ambito delle relazioni analogiche tra enti. Le scienze (naturali o empiriche) stabiliscono delle relazioni prive del fondamento d‟Essere proprio della credenza ontologica, ossia senza fondamento ontologico. La loro decantata “oggettività” è legata alla astrattezza immaginativa delle loro relazioni analogiche, che restano di tipo intuitivo-fantastico anche quando condotte con criteri metodico-razionali, comunque interni alla realtà Molteplice. In realtà, la loro supposta “avalutatività” è costituita dalla cosciente ignoranza del fondamento ontologico (episteme), senza il quale la ragione diventa tecnica razionalistica, metodica analitica, ma non criterio di verità. Questo si consegue solo attraverso la logica dialettica, la quale presuppone il giudizio di realtà, cioè la fede ontologica che la realtà idealmente “sia”, e non solo che essa empiricamente “esista”. Senza la relazione ideale, ossia il criterio di partecipazione, gli enti mondani restano logicamente irrelati, ognuno chiuso monadisticamente nella sua inseità esistentiva e abbandonato al divenire, che è l‟opposto dell‟Essere eterno, senza il quale l‟esistenza è movimento interno al Niente. Com‟è detto nel Sofista, “Ogni volta che un tecnico qualsiasi porti ad essere qualcosa che prima non era, diciamo che colui che porta ad essere, fa; e ciò che è portato ad essere, è fatto” 6. Il “fare” è dunque un creare dal nulla; ma anche trans-formare, ossia mutare forma alle cose. Nel primo caso, l‟essere è il prodotto nuovo, che prima “non era”; nel secondo caso, l‟essere prima e dopo è lo stesso, di forma cambiata. La capacità di fare è chiamata da Platone poietike, ossia “tecnica di produzione”, distinta dalla “tecnica di acquisizione” o ktetike, la quale non “produce” ma “apprende”, consistendo “nell‟impossessarsi, per mezzo di parole e di azioni, delle cose esistenti in natura o già prodotte; oppure nell‟impedire ad altri di impossessarsene”.7 Questa precisazione riduce l‟accezione del “fare” al primo caso, relativo alla produzione ex 6
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Platone, Il sofista, IV, b, 219. Ivi, IV, c.
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nihilo, rendendo paradigmatica la produzione umana come sottrazione dell‟ente (cio-che-è) dal niente e quindi la poiesi come mediazione tra il non-essere e l‟essere delle cose. Ma in che consiste il non-essere del prodotto del fare, che porta in essere l‟ente-che-è? Il non-essere ciò che, dopo il fare, è, è il non-essere “cosa”, cioè non essere ente. Il non-essere un ente è essere un‟Idea, sicché “fare” vuol dire passare da un’Idea a un ente. Ed è esattamente questo il movimento concepito dalla logica razionalistica come l‟attività stessa del pensiero umano come “tecnica di produzione”, delle “cose” e delle idee come “cose”, essendo cose e idee enti interni al Molteplice. Quindi la condizione ontologica per l‟affermazione della potenza del fare umana è il vuoto ideale, il niente metafisico, cioè il nichilismo pensato al modo di Nietzsche. Resta, nondimeno, l‟altro aspetto del “fare”, la creazione di forme ideali da materiali naturali informi: una statua dalla pietra. Qui l‟essere quale prodotto del fare è il fare stesso come tecnica di produzione. E, viceversa, il “fare” quale mediazione tra il non-essere e il prodotto fatto è l‟essere stesso come creazione. Fare dunque qualcosa significa de-finire quanto prima del fare era altro da ciò-che-è, e che rispetto all‟essere era nonessere ciò-che-è. E‟ l‟essere come prodotto attuale del fare a costituire la mediazione tra realtà opposte, le quali o non-sono, ovvero sono fatti, prodotti del fare. “Fare” significa passare dal non-essere ciò-che-è all‟essere-attuale. Ma poiché ogni cosa tra-passa in altra naturalmente, il passaggio proprio al “fare” consiste nell‟intervento umano, nell‟artificio. Il passare dell‟acqua dallo stato solido a quello liquido, non è un “fare”. Il “fare” presuppone l‟intervento creativo che porti in essere qualcosa che in essere non era. Il fare è dunque il modo d‟essere proprio dell‟attività umana. Cosa distingue l‟attività umana, il “fare” dell‟uomo, dall‟opera della natura? Non può essere la materia, essendo questa naturale per definizione. E‟ dunque la forma della materia. Fare equivale a formare, a dare forma alla materia naturale. sicché, portare in essere significa dare una forma a ciò che per natura non l‟ha. E dare una forma alla materia significa distinguerla dal processo informe del Divenire, ossia umanizzarla rendendola cosa-altra da ciò che cosa non-è. E ciò che non è cosa è pensiero. “Fare” pertanto significa trasformare la materia in oggetto di pensiero. Portare in essere = dare forma di cosa al pensiero = formare la materia. Ossia, ciò che “è”, è il prodotto formale del pensiero. 29
Ciò che distingue il “fatto” dall‟essere della materia informe non è dunque l‟esistenza, che appartiene a ogni ente molteplice, ma l‟essere prodotto del pensiero. Prodotto fattuale. Un‟Idea non si produce, semplicemente “è”. Non si può manipolare e trasformare ciò che “è” in sé, che non sia prodotto del fare umano. Ma se l‟Idea non è prodotto umano, il pensiero che produce non è propriamente ideale. Ciò vuol dire che il pensiero del fare, rispetto all‟Idea, è un pensiero che si può trasformare a sua volta in fatto, che si può produrre, cambiare forma. Appartiene, cioè, al Divenire. Ma se è così, anche il pensiero del fare è uguale ontologicamente ai fatti prodotti, e questi a ogni ente mondano. Non si esce dal naturalismo. E infatti l‟idealismo realistico di Platone è naturalistico, come ogni razionalismo. Quale è, infatti, la differenza tra la produzione umana e quella naturale se entrambe sussistono entro il Molteplice divenire? La differenza risiede nella duplice natura del “fatto” umano, del suo “essere”, il quale ha in sé sia l‟esistenza mondana, soggetta al divenire, che l‟essenza ideale, che non diviene e resta. In tal senso, la forma del “fatto” perisce come materia formata e persiste come idea formante, come forma ideale. Ma questa duplice natura d‟essere e di non-essere, è propria, come sappiamo, dell‟Essere dialettico, determinativo e insieme negativo. Ma non dell‟Idea platonica. 4. La distinzione tra diverse “tecniche” proposta dal Sofista inaugura quella tra teoresi e pratica, ma in un senso da determinare. Il “fare” produttivo di senso, ossia l‟attività teoretica, viene compreso da Platone tra le “tecniche di acquisizione” del sapere, ossia dell‟ “apprendere e del conoscere”, le quali “si impossessano, per mezzo di parole”, di idee e di concetti “già prodotti” da altri. Non si tratta in questo caso dell‟arte maieutica socratica, né della logica dialettica. Si tratta invece di un trasferimento o “passaggio” dell‟ “essere” al “fatto” e di questo in altro “essere” e in altro “fatto”. Si tratta, cioè, di una equazione per cui A = B, ovvero in un rapporto analogico, per cui B è rappresentato come A. non potrebbe trattarsi di portare in essere un‟Idea, poiché l‟Idea “è” in sé eterna, e non già “fatta”, per cui si può solo evocare il suo essere, e non crearlo o farlo. Da qui la teoria anamnestica. Il “fare” viene dunque inteso da Platone come intervento creativo dell‟uomo nell‟ambito del Molteplice, il regno della finitezza, nel quale gli enti vengono dal niente grazie all‟attività umana che li pone in essere come “fatti” appunto 30
umani, non presenti in natura. Questa attività, socializzata, costituirà il concetto marxiano di “lavoro”. Tale attività creativa non può in nessun modo riguardare il mondo delle Idee, in cui ciò che “è” può essere solo rivelato, ma non creato o posto in essere. L‟essere del “fare” è in senso ontico-esistenziale, non logicoontologico, per cui porre in essere come “fare” significa “produrre” u ente dal ni-ente. L‟attività propriamente umana si esplica operando sul Niente, inteso come natura, ossia niente-di-umano. Tutto ciò che riguarda invece l‟uso dell‟esistente, non è propriamente “produzione” ma “acquisizione”. Cosa hanno in comune le due “tecniche”? L‟appartenenza di entrambe al Molteplice, come si evince anche dal loro dividersi progressivo in cui consiste la diaìresis, o classificazione empirica dei generi e sottogeneri. Da ciò consegue che l‟Essere in sé, come indeterminato, è l‟Idea, mentre l‟Essere determinato come “fatto” è l‟esistente, che appartiene dialetticamente all‟Idea e al Molteplice come possibilità. Il “fatto”, dunque, come ente non-è l‟Idea ma il prodotto del fare: ciò-che-è. L‟essere-che-è, è l‟ente “fatto” dall‟uomo, e consegnato al Divenire. L‟Essere come Idea è indeterminato, in sé, trascendente il Divenire. Proprio perciò, ossia per non essere determinato, esso è inesistente, ideale appunto, e in quanto non-esistente, è ineffabile, non-nominabile come ente, e dunque anche inconoscibile. I tre attributi essenziali dell‟Idea sono dunque negativi. Il lògos trascendente è dunque muto, ossia astratto dal dire del mondo reale, dall‟essere-che-è. Il silenzio dell‟Essere trascendente deriva dalla identità di essere e di parola. Il lògos è la parola dell‟essere (ossia il racconto dell‟Essere determinato, del mondo esistente): il Mythos. L‟essere-di-cui-si-dice è la realtà esistente, il “fatto”, e non il Lògos in sé, indeterminato. La realtà-dei-fatti è il mondo dell‟attualità dell‟essere-che-è “fatto”: da qui la poiesi idealistica, che da Platone discende fino a Gentile e che si converte nel prassismo di Marx. In Platone, la parola (lògos) evoca l‟Idea, per cui la logica è la tecnica della produzione ideale, in analogia con la produzione fattuale. La produzione del “fare” porta all‟evidenza cio-che-non-è. L‟essere-che-è “fatto”, l‟essere-attuale, è dunque il fenomeno fattuale, il prodotto della creazione umana. La produzione umana può intervenire sull‟elemento sensibile, ma non su quello ideale. A meno che la stessa Idea non sia pensata come un ente, cio-che-è, e perciò a sua volta oggettivata. Concependo l‟Idea come essere trascendente, il portare in essere ciò che non era, non interessa 31
l‟essenza ideale del “fatto”, ma solo la sua esistenza, che appartiene al Divenire. E poiché si può dire di ciò che “è”, l‟Essere trascendente rimane in silenzio, muto, in-espresso. Ma poiché l‟essere-che-è, di cui appunto si dice che “è”, nasconde nel suo essere attuale l‟Essere ideale trascendente, e di cui non si dice, il giudizio di essenza, che disvela quanto occultato dal dire mitico, porta in evidenza il trascendente nominandolo come Essere in sé. La rottura del silenzio sull‟Essere è affidata alla parola pensata ed espressa logicamente, secondo il lògos, il quale non dice di ciò-che-è, oggetto del racconto mitico, ma di ciò che non-è attuale. E ciò di cui si dice non essere attuale, cioè reale, è eterno, ossia ideale. Il contenuto teorico della scienza come sapere di ciò-che-è (gnosis) è gnoseologia dell‟esistente, esistenzialismo. Il contenuto logico della conoscenza di ciò-che-non-è (theorein) è ontologia, metafisica. Dato che l‟esistente è un prodotto umano, come tale è conoscibile nella sua inseità. Verum et factum convertuntur vel reciprocantur. Ma che giudizio si può dare dell‟esistente se non, appunto, un giudizio di realtà? Ossia di equivalenza del “fatto” con se stesso come Idea del fatto? Il giudizio di realtà descrive analogicamente il fatto con il suo modello ideale, e tautologicamente il suo modello astratto con il se stesso reale. In tal modo l‟essere e (l‟essere-) fatto vengono a coincidere come un‟ unica realtà. Per l‟idealismo, essa è interna all‟Idea, per tutta la realtà è prodotto ideale. Per il realismo, essa è interna alla prassi, per cui tutta la realtà è produzione pratica. Le categorie di giudizio che rappresentano la realtà, possono distinguere il “fatto” da altri fatti, ossia le forme dell‟essere determinato, la loro attualità storica, ma non possono trascendere l‟esperienza della loro produzione, la loro realtà fattuale, la fatticità. Il “fatto” viene descritto attraverso il suo processo produttivo: “come” il fatto “è” prodotto, la sua “storia” umana, sociale. La storiografia e sociologia dei “fatti” umani. Il giudizio logico, che non dice ciò che l‟essere “è”, essendo l‟essere attuale il contenuto della fede ontologica, discorre su l‟Essere che non-è (attuale), che trascende l‟attualità, e nomina l‟Idea. L‟Essere dell‟Idea non è l‟esistenza del fatto, l‟essere-attuale, ma la sua essenza in ombra, meta-fisica. La logica, distinguendo i due momenti, discorre dell‟ente assumendolo come “cifra” – direbbe Jaspers - dell‟Essere ideale. In questa distinzione, la logica diventa “dialettica”: assume per fede la realtà che-è, e la critica per ciò che dev‟-essere, negandola quindi nel suo 32
essere. Confondendo i due piani di realtà a seconda della convenienza, secondo un criterio utilitaristico, significa pensare in maniera sofistica, sostituendo al metodo della necessità logica la tecnica della persuasione retorica (pithamourgike). Nel Sofista Platone ne indica due: “una agisce nella vita privata, l‟altra nella vita pubblica” 8 In quella privata, una mira al guadagno, un‟altra al dono. Quella che mira al guadagno, una cerca di sedurre con le lusinghe (tecnica di adulazione), un‟altra spaccia per insegnamento della virtù il procacciamento di denaro, ed è tecnica propria del “sofista” (I definizione). La tecnica di acquisizione viene divisa in tecnica della caccia e in tecnica dello “scambio” (allaktikòn). Lo “scambio dei doni” (doretikòn) va distinto dallo “scambio commerciale” (agorastikòn). In ambito commerciale, quello internazionale (emporike) “una parte opera attraverso transazioni monetarie, scambiando beni di prima necessità che servono a nutrire il corpo, ma altra parte invece scambiando beni culturali per le esigenze dell’anima”. 9 Del commercio dell‟anima (psychemporike), parte è “tecnica declamatoria” (epideiktike), altra parte è “vendita di nozioni” (mathematopolike): la prima è “vendita di tecniche” (technopolikòn), l‟altra è tecnica sofistica (II definizione), consistente nella “compravendita di nozioni e discorsi sulla virtù”. Esiste anche il caso che tale commercio al minuto (III definizione) si stabilisse da qualche parte, e il venditore “un po‟ comprasse un po‟ escogitasse da sé nozioni e discorsi sulla virtù e li vendesse allo scopo di camparci la vita”, secondo la tecnica sofistica (IV definzione). Dalla tecnica di acquisizione, una parte riguardava la lotta (agonistike), che possiamo dividere in “emulazione” (amilletikòn) e “competizione” (machetikòn) con le sue divisioni in “colluttazione” (hiastikòn), che è “la competizione che si pratica opponendo corpo a corpo”, e in “contestazione” (amphisbetetikòn), che è la competizione che “si pratica opponendo discorso a discorso”. “ma anche la contestazione si presenta come tecnica duplice”: “quando si svolge per mezzo di lunghi discorsi, opposti a discorsi altrettanto lunghi, pubblicamente, sul giusto e l‟ingiusto, si tratterà del genere giudiziario 8 9
Ivi, IX, 122, d. Ivi, X, 223 e.
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(dinanikòn) […]. Quando, al contrario si svolge in modo spezzato, opponendo domande a risposte, siamo forse soliti chiamare questa tecnica altrimenti che antilogica (antilogikòn)”. In senso “strettamente tecnco”, la contestazione “intorno al giusto e all‟ingiusto” la chiamiamo “disputa eristica” (eristikòn). Questa, per un verso “conduce a dispendio e rovina di ricchezze” (chrematophthorikòn), per altro verso “invece mira ad accumularne” (chrematistikòn). “Quando si arriva a trascurare i propri affari domestici, per il piacere stesso della discussione, ma senza alcuna indulgenza al piacere degli ascoltatori”, a ciò si dà il nome di “chiacchiera” (adoleschikòn). Quando invece si tratta di “far soldi attraverso sottigliezze eristiche, in rapporti privati”, allora ci troviamo ad avere a che fare con “quel fantasmatico animale che stiamo inseguendo: il sofista!”, il quale “non è altro che un tipo tutto dedito ad accumulare ricchezze – per mezzo dell‟eristica – che è parte della tecnica antilogica” (V definizione). La tecnica, quale “complesso delle attività” volte a uno scopo, “è del tutto indifferente, dal punto di vista del metodo” rispetto al da farsi,10 cioè allo scopo. L‟astrazione del metodo dal suo scopo, isola la potenza del fare da ciò che va fatto. Questo significa la predominanza dell‟agire sull‟Essere molteplice, sugli enti. E quindi l‟equivalenza dell‟agire all‟Essere ideale. Infatti, se l‟azione è relativa al suo scopo (per cui è buona, efficace, maldestra o utile, a seconda del “fatto”), l‟agire, come metodo indifferenziato, come metodo in sé, è infinità indeterminata e in giudicabile in quanto mera potenza e pura possibilità d‟essere. E‟ dunque un‟Idea. La potenza del fare come Idea (= poiesi) costituisce l‟orizzonte metafisico della logica platonica. Una delle tecniche è quella “diacritica” (diakritike) o della distinzione o della purificazione (katharmòs), di cui esistono “due tipi”: “uno che riguarda l‟anima, e l‟altro, del tutto separato dal primo, attinente al corpo […]. La purificazione è una tecnica capace di lasciare il meglio e di rimuovere quanto vi può essere di nocivo”,11 la tecnica, come metodo, serve ad attribuire agli enti una definizione, ossia a classificarli per unità logica. L‟unità logico-ideale di ogni procedimento metodico (o tecnico) è la tecnica stessa come metodo universale e neutro. Rispetto alle cose visibili, cioè ai “fatti”, la tecnica è l‟astratto e indeterminato fare, il procedimento metodico in sé, assunto come Idea. L‟Idea della Potenza 10 11
Ivi, XIV, 227 c. Ivi, XV, 227 a.
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del Fare. La poiesi, dunque, è l‟attività umana di portare in essere gli enti che non-sono. Uscire dal Niente e Fare sono sinonimi. Uscire dal Niente e determinare, sono anch‟essi sinonimi, per cui, se l‟Essere è l‟Idea, anche Fare ed Essere sono sinonimi. Tale Essere, non di meno, si determina sempre entro l‟orizzonte poietico della volontà umana o creatività. Le successive determinazioni generiche e speciali di tali attività, riportano tutte al fondamento logico del Fare. Lògos e Poiein sono sinonimi. Ma questo Essere poietico, non è l‟Essere in sé e per sé, ma l‟Essere che diviene, il Molteplice, il cui prodotto reale – ciò-che-è – è un divenuto, un “fatto”. Da qui la radice dell‟attualismo come teoresi del pragmatismo rovesciato. L‟Essere poietico o dell‟attività del fare, è l‟Essere della produzione, l‟Essere artificiale dello homo faber: l‟essere storico in senso vichiano. Essendo un prodotto in divenire, l‟Essere storico è il divenire stesso dello Spirito umano come Fare metodicamente rivolto a uno scopo pratico, come techne. La Storia come divenire tecnico è il processo temporale delle forme ideali del Fare, di cui la storiografia è la narrazione e lo storicismo la sua gnoseologia. L‟Idea come lògos poietikòs è la proiezione astratta del Fare, pur sempre relativa al processo produttivo e tecnico. Per distinguerla dall‟Idea come Essere trascendente il processo del Divenire e non soggetta al mutare della produzione umana, l‟Idea in senso storico va indicata come “Ideale”. L‟Ideale è il modello astratto del Fare come procedimento tecnico. L‟Ideale è l‟Essere creduto come valore poietico. Ideale è dunque il dover-essere inteso come modello valoriale di ogni processo d‟essere, cioè dell‟Etica. L‟Etica è l‟Ideale dover-essere: l‟Essere come deve-essere perché sia considerato un prodotto di Valore. Ma l‟Etica, come miglior-fare, come Fare ideale, è la miglior tecnica, per cui l‟Etica è l‟Ideale del miglior fatto, cioè la giustificazione razionale del successo. Intesa come deontologia della prassi, come miglior doveressere, l‟Etica idealistica conduce alla tipica malattia dell‟anima razionalistica, il machiavellismo. Secondo Platone vi sono due malattie del‟anima: la prima è la “malvagità”, l‟altra è la “ignoranza”. Per la malvagità, il rimedio è la “giustizia penale” (kolastike), per l‟ignoranza la tecnica del risanamento o lo “insegnamento” (didaskalike). L‟ignoranza (àgnoia) più grande è “quella di chi crede di sapere e non sa”, e che “è probabilmente la causa di tutti i nostri errori di pensiero”, 35
che possiamo indicare come “mezza cultura” (amathìa). L‟educazione che consente di uscirne è, per i singoli mestieri, l‟istruzione didascalica, mentre per il sapere come l‟intendono i filosofi è la “cultura” (paideìa). Nell‟ambito dell‟istruzione domestica, l‟errore si corregge con la “ammonizione” (nouthetetike), mentre l‟errore teorico delle false opinioni si corregge con la “confutazione” (élegchos), che è “la forma più grande e più valida di purificazione”, la quale libera la coscienza “dalle opinioni che sono di impedimento all‟apprendere, rendendola pura e convinta di sapere soltanto le cose che sa, e nulla di più”. E “questo è l‟atteggiamento più bello e più saggio, quando diventa abito mentale”, 12 costituendo la “nobile sofistica”. Il sofista, generalmente, è un “anti-logico”, un “esperto del contraddittorio”, un tecnico della comunicazione, insomma. “Bene, ma contraddizione su che cosa?” “La caratteristica principale di questa tecnica antilogica, in sostanza, sembra essere la capacità di porre in discussione ogni cosa”. Ma “è possibile che un uomo sappia tutto, su tutte le cose?”. “Se fosse così, la stirpe umana sarebbe beata come gli dèi”. Se uno che non è onnisciente non può contraddire gli specialisti, “in che cosa consisterà questo meraviglioso segreto che dà ai sofisti tanto potere? […] di persuadere i giovani che essi sono su tutto i più sapienti di tutti”, inducendoli a credere di essere “più intelligenti degli altri grazie a questa loro abilità nel contraddire”, e persino “a farsi loro discepoli in questa tecnica, e per di più, sborsando denaro”. In realtà, la loro “scienza dell‟avere opinioni su ogni cosa” (doxastike), non è “scienza di verità”, ma “tecnica mimetica” (mimetikòn). A confutare le false verità delle “antiche opinioni” facendo “crollare rovinosamente” i suoi “seducenti fantasmi sonori” è “il peso delle esperienze che la vita impone”. Ciò vuol dire che è la realtà della vita, l‟esperienza, a confutare le seduzioni ideologiche, essendo la realtà della vita più “vera” delle false immagini offerte dai sofisti. Ma la conseguenza di ciò è che la realtà della vita sia “la” realtà, quella cioè che supera ogni manipolazione tecnica a opera di visioni artificiose. E‟ in questa teoria la radice del‟empirismo gnoseologico e dell‟individualismo etico. Qualunque sia il movente individuale, la realtà è il banco di prova della sua veridicità: la esperienza confuta ogni 12
Ivi, XVII, 230 d.
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opinione e congettura. La falsa tecnica, la sofistica, è dunque quella che contraddice la realtà della vita, la cui esperienza ha infine la meglio. Il sofista “appartiene alla stirpe degli incantatori, essendo un mero imitatore delle cose” la cui “attività […] è di quelle che hanno a che fare con lo scherzo e il gioco”. 13 Altra tecnica considerata da Platone nel Sofista è quella di produrre immagini: la mimesi. Questa è di due specie, la “icastica” (eikastike), riproducente una copia esatta (eikon) della realtà secondo le “misure del modello”; e quella della “apparenza” (phàntastike). L‟icona e l‟apparenza sono i due modi mimetici, l‟uno della riproduzione del vero, l‟altro teso a mistificare la realtà. Ciò che nel Cratilo Platone definisce la “giustezza dell‟immagine”, o “immagine corretta” (eikònos orthoteta), presuppone il rapporto tra il vero e il modello icastico, ossia, nel nostro caso, la verifica dell‟esperienza. Non si esce dal circolo empiristico. Platone infatti non ne esce allorquando nel Sofista dichiara che gli è “estremamente difficile capire […] come possa uno, parlando, dire qualcosa di falso e pensare che questo qualcosa veramente esista, e dicendo questo, non ritenersi in contraddizione”. 14 La difficoltà a uscirne è nel concepire la relazione tra modello ideale e copia reale senza la mediazione della credenza nella sua corrispondenza, senza cioè la considerazione della natura dialettica del‟Essere, a un tempo Idea ed esistenza. Tra il modello e la copia della realtà si interpone la fede nella sua corrispondenza, la stessa che la fa ritenere ai giovani inesperti e fidenti la bontà e veridicità delle tesi mimetiche dei sofisti. La logica, quale “metodo” della ragione dialettica, può confutare ogni “tecnica mimetica”, distinguendo l‟arte icastica da quella sofistica. E‟ la logica a invalidare la neutra tecnica dialogica, assegnando al suo dire strumentale ciò che “è” corrispondente al “vero”. In tal senso, la logica dialettica (e non l‟esperienza) confuta la credenza in quanto tale, mostrandone la fallacia, anche quando asserita in buona fede, ossia senza l‟artificio antilogico del discorrere dei sofisti, i quali operano in mala fede. Anche in questo caso, l‟affermazione o giudizio di realtà presuppone una “fede”, che ogni dialogante ha, e che i sofisti adottano per “scherzo” menzognero, senza convinzione. Per puro spirito di contraddizione. Non ogni contraddizione è “sofistica” in senso malevolo, esistendo anche una contraddizione “nobile”, la “nobile sofistica” propria di ogni interlocutore 13 14
Ivi, XXII, 235 a. Ivi, XXIV, 236 e.
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logico-dialettico. 5. Se l‟Essere è platonicamente l‟Idea nella sua indeterminatezza, l‟ente, ciò-che-è, è l‟essere determinato. La determinazione indica la condizione finita dell‟ente, distinguendolo da quella infinita dell‟Idea. Rispetto all‟Essere, l‟ente è non-Essere. In senso esistentivo, invece, il non-essere è l‟opposto di ciò-che-è, ossia di qualche cosa, cioè di qualcosa di determinato. Chi non dice “qualche cosa”, non dice niente in assoluto, per cui chi crede di dire ciò che non-è, non “dice” neppure. “Essere” viene usato sia in senso esistentivo che in senso copulativo. Ciò che verbalmente “è”, è sempre determinato in senso logico rispetto al suo opposto altro, ma non sempre “è” qualcosa di esistente, per cui si può dire di “qualcosa” senza che essa “esista”. In tal senso, chi dice di qualcosa di cui crede l‟esistenza, ovvero di qualcosa che sia in senso logico, parla di “qualcosa”. Chi, di contro, confuta l‟essere di questo “qualcosa”, sia nel senso dell‟esistenza che nel senso del‟essenza, dice di qualcosa che nonè, negando l‟essere che era creduto fosse. Entrambi dicono qualcosa di ciò che non-è, e comunque “dicono”. Ed è quindi il dire a creare il suo oggetto. Lo Straniero adduce ad es. il “numero”, considerandola “una cosa che è”. 15 In realtà il numero, “come complesso e totalità”, è indeterminato e di esso non si può propriamente dire che “è”, né quindi riferirgli l‟unità o la molteplicità degli altri numeri.16 A questo punto, l‟analogia tra il numero indeterminato e “una pluralità di cose che non sono, o una singola cosa che non è”, non è pertinente, mettendosi sullo stesso piano l‟essere indeterminato con cose che “non sono”, ossia con enti esistenti ma contestate logicamente, ovvero con cose logicamente ammesse ma erroneamente credute esistenti. Infatti, “qualche cosa” e “numero” indeterminato sono opposti come l‟indeterminato e il determinato. Dell‟indeterminato si può dire solo che è in senso logico, mentre non si può dire che è in senso esistenziale; della cosa determinata, invece, si può dire che è e che non-è logicamente ed esistenzialmente. Dire di qualcosa che “non è”, gli si attribuisce l‟unità. Ma questa unità è numerica, non concettuale. Anche i molti sono plurimi e possono essere concettualmente unitari, per cui attribuire l‟essenza è cosa diversa dall‟attribuire l‟esistenza. L‟esistenza di ciò che è, è attribuibile per atto 15 16
Ivi, XXVI, 238. Ivi, 238 b.
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di volontà, ossia per fede. L‟essenza di ciò che esiste, è anch‟essa attribuibile per via di fede. La fede dunque interviene a determinare sia l‟essenza che l‟esistenza. Nel caso in cui è l‟esistenza di ciò che esiste ad essere attribuito, tale attribuzione non può compromettere l‟esistenza stessa, la cui oggettività rende superflua l‟attribuzione di esistenza, non essendo possibile logicamente negarla se non occultandola per mala fede. In altri termini, l‟attribuzione di esistenza è controvertibile quando inerisce cose non evidenti, sia in senso logico che fenomenico. Le cose evidenti, non sono controvertibili. Ciò vuol dire che la controversia di attribuzione di realtà fa parte del processo dialettico, l‟esito del quale deciderà della giustezza e fondatezza dell‟attribuzione. Ed è tale esito a decretare l‟evidenza dell‟Essere logico, ossia la sua realtà d‟Essere. Ma tale esito dialettico non ha niente a che vedere con “l‟esperienza della vita”, essendo tale esperienza il prodotto morale di quell‟esito dialettico, e come tale un “fatto” umano prodotto in conformità di quell‟Essere giudicato esistente perché logicamente evidente. Come sopra abbiamo detto, l‟Idea che è modello deontologico (paràdeigma) fonda il suo Essere sulla fede nella sua essenza, la quale la rende esistente sotto forma di prodotti analoghi. In questo senso, è l‟essenza che fonda l‟esistenza, attraverso la volontà di fede. Pensare il non-essere come Essere, è possibile solo assumendolo come realtà opposta all‟essere-che-è, cioè all‟attualità, o pensandolo come Idea (si può infatti pensare l‟Idea, che non-è “qualcosa” di empiricamente reale), ovvero pensandolo come immagine fantastica. Sia l‟Idea che l‟immagine fantastica “sono” in-esistenti come fenomeni reali, ma di essi si può ben dire che “sono” in senso logico e immaginativo. Il loro essere è tale che non appartiene al mondo sensibile, ma a quello simbolico. Si può pertanto “attribuire ciò che è a ciò che non è” correttamente, stabilendo che ciò che è ideale non è reale, e viceversa. “pensare il non-essere in sé e per sé” diventa “assolutamente impensabile, indicibile, impronunciabile, inesplicabile” quando si coniuga il “pensare” come il “fare”, ossia nel senso del portare in essere ciò che non-è. Questa poiesi del pensiero pone il pensare come mediazione tra l‟Essere e il non-essere, tra l‟Idea e l‟Ente, lasciando nell‟indeterminatezza caotica della immaginazione ogni realtà che non abbia passato il lavacro logico del dire. La logica, dunque, acquista per l‟idealista Platone la funzione che è della istituzione sociale, ossia quella di assicurare la stabilità 39
dell‟ordine cosmico, inteso idealisticamente come ordine ideale. La logica, quale istituzione della necessità, garantisce all‟umanità lo stesso ordinamento che la Natura garantisce a tutti gli esseri viventi. Ma perché, allora, la logica se c‟è già l‟ordine naturale? Ed è per rispondere a questo essenziale quesito che Platone concepisce il dialogo contro il “sofista”, colui che infrange l‟ordine naturale scomponendo l‟armonia logica delle idee. La concezione idealistica dell‟ordine cosmico assorbe nell‟armonia ideale l‟ordine sociale, facendo di quest‟ultimo la proiezione speculare della prima. Ciò sarebbe già in natura, se l‟uomo non possedesse di suo la volontà di emanciparsi dall‟ordine naturale, infrangendolo per scopi utilitaristici. L‟infrazione dell‟ordine logico-naturale consiste nell‟uso improprio della volontà. Una volontà libera di determinarsi secondo criteri arbitrarii e non logici, costituisce una infrazione all‟ordine naturale delle cose, alla armonia cosmica indicata come il Bene e il Bello. Tale libertà volitiva costituisce una minaccia al governo del caos, inficiandolo a danno dell‟ordine generale, cosmico. E poiché è possibile che il disordine prevalga sull‟ordine delle cose, è necessario che il filosofo pensi tale ordine nella sua assoluta necessità logica, indicando la fonte della verità e quella opposta dell‟errore. Stabilita che la verità è l‟ordine logico delle cose, la parte oscura, del disordine e dell‟errore illogico, è rappresentata dal Sofista, di cui abbiamo già visto le cinque essenziali definizioni platoniche. Ma ad esse manca quella forse più importante, per la portata delle sue conseguenze sociali. Il sofista, infatti, fondamentalmente, è colui-che-non-crede, l‟infedele. Ma non lo “scettico” che mette “tra parentesi” la fede tramandata per rielaborarla secondo il metodo dialettico. Altrimenti il primo sofista sarebbe Socrate, modello di filosofo scettico, che, prima di asserire alcunché “si guarda intorno con circospezione”, secondo l‟etimologia dell‟espressione della skepsi. No, il sofista è qualcosa di più di uno scettico. E‟ colui che a partire dalla sua scepsi, ispira una fede alternativa a quella comune, quella di cui si fa portatore la sua libera volontà, facendo leva sulla circostanza che il suo pubblico, diversamente da lui, abbia una qualche fede, rispetto alla quale, la sua è un‟anti-fede, una fede contraria; ma non nel senso di essere un‟altra fede, bensì il contrario della fede, la miscredenza, che è la sintesi di quella “malvagità” e di quella “ignoranza” che a dire di Platone costituiscono, come pure abbiamo visto, le due forme essenziali di malattia dell‟anima. In altri 40
termini, il sofista è il modello dell‟ideologo rivoluzionario, che non crede in niente. Il sofista è il modello classico del nichilista. Il sofista organizza il consenso servendosi dell‟arte oratoria. Egli non fa evincere maieuticamente la verità, ma la sostituisce con la credenza imbonitoria, che irretisce lo spirito ma non lo illumina d‟intelligenza. E‟ il modello del tribuno della plebe, e insomma del politicante in cerca di consensi. Egli è la controfigura del filosofo, il quale non ricerca consensi affiliatori, ma adesioni alla verità comune, che per essere di tutti non appartiene a nessuno in particolare: è “pubblica”. E come tale non può essere monopolizzata dal potere, politico o privato che sia. Il concetto filosofico di “pubblicità” della verità sposta il suo baricentro dalla socialità politica alla comunità ideale, costituendola come tutrice del Vero, contro ogni indebita interferenza dell‟utile, di cui si fa campione ideologico appunto il sofista, il mercante di idee, il maneggione di parole, il retore bottegaio in cerca di utili consensi. In una parola, il politicante. Il dialogo platonico sul Sofista costituisce la prima e probabilmente la maggiore confutazione filosofica della politica come arte demagogica di produrre il consenso seducendo retoricamente le masse. Ossia il maggior manifesto filosofico di critica della democrazia e della sua logica economicistica, condotta in nome del governo del lògos, rappresentativo dell‟ordine razionale, contro il liberismo politico, rappresentativo del disordine ideale e sociale. Per sedare il disordine, occorre pensare alla struttura essenziale dell‟ordine, quella ideale, della quale l‟ordine sociale deve essere il “rispecchiamento”, l‟analogon speculare. L‟astrattezza dell‟idealismo platonico è nel concepire l‟Idea come priva di contraddizioni, senza negatività, come concetto d‟Essere assoluto. L‟assolutezza del concetto idealistico deriva per sottrazione del non-vero dal vero. E il non-vero rispetto alla necessità logica è la credenza fideistica, ossia il fondamento stesso dell‟ontologia sulla quale ogni dialettica si sviluppa come da una premessa prima. La critica della fede, che Platone condurrà segnatamente nell‟Eutifrone, è il complemento metafisico del suo idealismo. La fede è per Platone ciò che è l‟immagine rispetto al modello della verità. non essendo intaccabile la verità del‟originale, la corruzione teoretica è nell‟icona della fede, nella credenza acritica. “L‟essere e il non-essere sono intrecciati l‟uno all‟altro”, per cui “il non-essere ha pure un suo modo d‟essere”, che non-è “vero” ma “partecipa” dell‟essere. Platone giunge all‟essenza dialettica 41
dell‟Essere, ma la riferisce all‟immagine del vero, all‟ikona. In realtà, tutto l‟Essere inteso come prodotto del Fare “è” iconico, ossia è copia reale di un modello ideale (creduto vero). Il mondo prodotto dall‟uomo, il “fatto” storico, è “immagine” fattuale di una realtà ideale ritenuta modello della pratica. Ciò che “contrasta con le cose che sono” (credute vere), e perciò non le riflette in “immagine”, è “opinione”, cioè giudizio falso rispetto a quello vero, al modello di realtà. E “l‟opinione falsa afferma cose che non sono”, nel senso che opina che non siano “vere”, non che non esistano. Da qui la possibilità che qualcosa sia (cioè esista) e nello stesso tempo che non-sia vera, per cui “bisogna pure [ammettere] che le cose che non sono [vere] abbiano un oro modo d‟essere, altrimenti non vi sarebbe menzogna su alcunché, né errore benché minimo”. 17 La dialettica platonica non contempla il negativo, è interna alla logica formale, identitaria, per cui l‟essere-altro da quello vero definisce una realtà ontologicamente parallela a quella logica, tale da minarne la stabilità. Ed è il monismo ontologico dell‟idealismo platonico, ossia il suo razionalismo, a creare i presupposti del rovesciamento dialettico della coerenza logica in conformità della prassi, trasferendo il principio della necessità ideale nelle relazioni sociali. E questo è reso possibile dall‟eliminazione della fede come libero convincimento ontologico, il cui principio assiomatico legittima la stessa necessità del processo logico, della dialettica filosofica. Senza, infatti, l‟azione del negativo dialettico, ossia dell‟interlocuzione, è inibito lo stesso sviluppo argomentativo del discorso logico. E questa negazione in buona fede, va distinta da quella pregiudizialmente sofistica. Ma mentre Platone l‟ammette nel discorso dialettico, come momento confutativo, la nega nella realtà effettuale come momento politico non necessario alla positività dell‟essere sociale. Ciò vuol dire che la realtà ontologica in cui si sviluppa il processo della dialettica logica, non è la stessa realtà pratica in cui si sviluppano i processi fenomenici, quella della società politica, nella quale il ruolo del negativo non serve a definire la essenza della positività, ma la ostacola, e perciò l‟antinomia non va superata ma eliminata. La negazione dialettica della fede nel discorso logico si traduce in ostilità nemica della libertà d‟azione nel processo politico. Ma allora come definire la analogia tra mondo ideale e mondo reale se tra le due dimensioni di realtà non è possibile trovare una qualche fedele corrispondenza? 17
Ivi, 240 e.
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La logica dialettica platonica è ancora ontologicamente monistica, poiché la realtà “falsa” e quella “vera” si contendono l‟Essere, che è Uno, fronteggiandosi come in una sfida a eliminazione. Se c‟è l‟una, non-c‟è l‟altra. Il mondo non può ospitarle entrambe. Non di meno, esse “sono” entrambe, e “non serve a niente ripetere, con Parmenide e con il senso comune, che il non-essere è impensabile e inesprimibile, dal momento che le formule stesse che negano il non-essere non lo possono negare senza pensarlo ed esprimerlo […]. Bisogna attaccare il pensiero del padre [ossia di Parmenide], altrimenti, se non ne abbiamo il coraggio, non resta che lasciar stare tutto”. 18 Ma il parricidio non risolve la questione dell‟eredità ideale, ossia la questione ontologica. Infatti, anche Platone, come Parmenide, definisce l‟Essere partendo dal presupposto della sua realtà, cioè che l‟Essere “è” qualcosa, che va poi qualificato. Ma partendo dalla sua definizione, lo si tratta da ente fenomenico, ossia da Molteplice, e come tale manipolabile e cangiabile indefinitamente, per cui partendo da una “definizione” si giunge alla indeterminatezza del divenire. Proprio perché si è pensato l‟Essere come “qualcosa”, questo qualcosa di determinato, che-è, ha sostituito l‟Essere ideale, trascendente il finito e determinato, e la sua esistenza ha preso il posto del‟essenza, finendo per escluderla. D‟altronde, pensando l‟Essere come qualcosa, cioè come un ente, e poiché ogni ente diviene qualcos‟altro, che non-era, pensare l‟Essere è stato pensare il Fare, cioè il pensare come la trasformazione in divenire del ni-ente (cioè, di ciò che ancora non-è) in ente (cioè, in ciò-che-èfatto), concependo elitticamente il processo del pensare come lo stesso del fare, ossia come il portare in essere ciò che essere attuale non-era. L‟esistenzialismo e il pragmatismo sono le due facce dell‟ontologia idealistica. In questa logica, il “non-Essere” equivale al non-ancoraattuale, ossia alla possibilità, dando all‟attualità il dominio del concetto. E poché l‟attualità dell‟Essere è la sua esistenza, ecco che ciò-che-è esistente, l‟ente, diventa la realtà di ciò che è logicamente, e viceversa, l‟in-esistente come non-essente. L‟equazione (confusione) di Essere ed esistere, conduce a considerare anti-logico ogni dire su ciò che non-esiste, ossia che non-è-attualmente-in-essere. E ciò che è anti-logico è fantastico, ossia “mitico”. Il realismo ontologico, portando a pensare solo ciò che “è” (fatto), ed 18
Ivi, 242.
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essendo la produzione l‟attività del “fare”, la stessa realtà logica diventa produzione umana, compresa dunque la stessa conoscenza: da qui il gnoseologismo soggettivistico. Il realismo ontologico non può concepire l‟Essere come Idea senza indicare con due nomi una stessa cosa, cadendo così in contraddizione. Infatti, se l‟Idea è l‟opposto del Molteplice, essa è Una, e se ha tanti nomi, ma non tutti indicano quella “vera”, deve potersi ammettere l‟esistenza di tante idee, anziché l‟Idea in tanti nomi, pertanto asserire l‟Uno ed asserire i Molti, contraddittoriamente, confuta la postulata equazione. “Accettando che vi sia un nome e che questo sia altro dalla cosa, si parla già di due cose”. 19 “Accettare” sta per “affermare”, cioè esprimere un giudizio, ed esprimere un giudizio significa dare realtà d‟essere a qualcosa. Ma dare questa realtà significa asserire che qualcosa “è”. E affermare che “qualcosa è”, significa credere nella sua esistenza. Senza tale credenza, l‟Essere non sarebbe, ovvero sarebbe un non-essere. Da ciò consegue che ogni affermazione d‟Essere implica una fede nella sua esistenza. E poiché ogni cosa che “è”, per definizione è un “fatto” che è stato tratto dal non-essere, ogni cosa che “è”, è un prodotto umano, un “fatto”. Per cui, credere che qualcosa “sia”, equivale ad affermare che quel qualcosa sia “fatto”. E poiché l‟autore del fatto è la poiesi dell‟uomo, Fare e affermare l‟Essere coincidono nella stessa credenza, sicché tutto ciò che “è”, essendo “fatto”, esprime la credenza che solo ciò che è umano sia Essere. Da qui le premesse dell‟umanesimo razionalistico e l‟ateismo conseguente, ossia quella identità di “opinione” e “verità”, e quella miscredenza radicale che la filosofia aveva in animo di confutare come sofistica. Ma da qui inoltre il peso superlativo affidato alla volontà umana di decidere del bene e del male, del giusto e dell‟ingiusto, del vero e dell‟erroneo sul solo fondamento di ciò che egli pone come Idea relativa a quel valore. una volontà legata alla possibilità d‟Essere, ossia “volontà di potenza”, la quale segna nietzscheianamente il “destino nichilistico” del pensiero occidentale. In realtà solo di quello idealistico e razionalistico. Infatti, è pur vero che dal realismo greco al‟idealismo trascendentale, e dal soggettivismo razionalistico all‟esistenzialismo e al pragmatismo logico, corra un filo metafisico unitario e coerente, ma è possibile un altro approccio alla conoscenza dell‟Essere, che già prima di Hegel, Herder 19
Ivi, XXXII, 244 d.
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adombrava nella sua Metacritica alla Critica della ragion pura kantiana, dove, chiedendosi all‟inizio della seconda parte, “Che cos‟è la ragione?”, la paragona a “un giudice” il quale “dapprima stabilisce una legge, in secondo luogo riconduce a quella legge un‟azione o un caso su cui poi ritorna nel trarre le conclusioni” del suo giudizio. Orbene, “nella lingua razionale degli uomini”, aggiunge Herder significativamente, “un verdetto o una sentenza della ragione ha dunque forza di legge”. Una forza unica e inappellabile, perché “in questa corte di giustizia non vige un doppio codice, non ci sono cioè antinomie e ragioni contrapposte”, proprie dell‟intelletto, rispetto al quale la ragione agisce a “un livello superiore”, in cui vengono superati i “princìpi” che distinguono il “vero” e il “falso”, ciò che “è” da ciò che “non è”, al fine di pervenire a una “decisione” che è “l‟atto di giudizio dell‟anima”, che è unico e inappellabile in quanto fa, tacito o esplicito, appello a una “premessa incondizionata”.20 Intesa la ragione come giudizio di verità e come sintesi ideale di posizioni opposte, la pone su di un piano trascendente sia l‟indeterminatezza dell‟Idea che la finitezza del Molteplice, e che si appella non alle cause particolari delle opposte determinazioni dell‟Essere e del non-Essere, ma a una “premessa incondizionata”, dalla quale discende come corollario logicamente conseguente la verità del giudizio razionale. Verità che, essendo Una, deve logicamente riguardare il Tutto. 6. Considerato l‟Essere come l‟Unità di tutti gli enti esistenti, esso (come Uno e Molteplice) si equivale al Tutto, per cui Essere = Uno = Molteplice = Tutto. Se l‟Uno è tale perché indivisibile, come può identificarsi col Molteplice? E se l‟Essere è Uno come può dirsi Molteplice? D‟altro canto, se per il fatto che gli si attribuisce l‟uno, l‟essere non fosse la totalità, ma la totalità sussistesse di per sé, l‟essere si troverebbe privo di se stesso. […] Ma secondo questo ragionamento, l‟essere privato di sé stesso, sarà non-essere […]. E se essere e totalità posseggono, ciascuno separatamente dell‟altro, la propria natura, l‟insieme delle parti sarà maggiore dell‟uno […]. Ma d‟altra parte, se la totalità stessa non fosse assolutamente, ciò riguarderebbe direttamente anche l‟essere, il quale non soltanto non sarebbe, ma non potrebbe neppure giungere mai all‟essere […]. Perché 20
J.G. Herder, Metakritik zur Kritik der reiner Vernunft (1799), tr. it., Roma, 1993, pagg. 120-122.
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ciò che nasce, sempre nasce come totalità: se non si pone la totalità tra gli enti, non si 21 può parlare né di essenza né di nascita, in quanto nascita all‟essere.
Il realismo ontologico, o giunge all‟olismo (idealismo e realismo), o nega la realtà dell‟Essere (empirismo), per cui o la società, quale riflesso dell‟Idea, come nel platonismo, è Tutto, ovvero non esiste, come nell‟empirismo negatore dell‟unità sociale come insieme superiore alle parti. Platone, dopo gli unitaristi, tratta dei materialisti 22 i quali affermano essere soltanto ciò che si può toccare e afferrare: essere e corpo per loro sono la medesima cosa; se qualcuno osa dire che vi è qualche altro elemento, privo di corpo, e che anche questo “è”, lo coprono di disprezzo e non vogliono ascoltare altro […]. Ecco perché gli avversari di costoro si arroccano prudentemente nelle regioni del cielo e dell‟invisibile, e con tenacia sostengono che il vero essere consiste soltanto in certe forme incorporee e puramente intelligibili, [attribuendosi] ai corpi e alla cosiddetta verità degli altri […] non l‟essere, ma il continuo movimento del divenire. 23
Lo Straniero del Sofista platonico cerca dunque di “cogliere il principio dell‟essere dagli uni e dagli altri, così come ciascuno dei due lo intende”, partendo magari da quelli che “pongono l‟essere nella forma”. E tuttavia occorre trattare anche coi materialisti. Essi ammettono l‟anima tra le cose che sono [e] che vi sia anima giusta e anima ingiusta?, o saggia e stolta? […] Allora concederanno che ciò che può aggiungersi a qualcosa e staccarsene, è qualcosa [e che] esiste quindi giustizia, esiste intelligenza e le altre virtù e i loro contrari, [ossia che] esiste finalmente l‟anima in cui queste entità si ingenerano.
Bisogna a questo punto appurare quale sia “il principio connaturato e comune in base al quale affermano che le cose corporee e incorporee, „sono‟ ”. In base a quale “principio” dunque le cose tutte “sono”? Ciò che possiede potenza, come che sia, in quanto capace, sul piano attivo, di produrre cosa altra da sé, quale che sia; o, sul piano passivo, di subire una menché 21 22
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Platone, Il sofista, 245, b-d. Ivi, 246-248. Ivi, XXXIII, 246 a-c.
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minima influenza, da parte del benché minimo agente, fosse pure per una volta sola, ebbene, tutto ciò, realmente, possiede “essere”. E credo, anzi, di poter avanzare questa 24 definizione: l’essere non è altro che potenza (dynamis).
Fuori dell‟identità col Fare, ogni oggetto del pensiero non è. Quanto agli idealisti, essi distinguono tra “divenire” ed “essere”, asserendo che Col corpo siamo partecipi del divenire per mezzo della sensazione, mentre con l‟anima, attraverso il pensiero, partecipiamo alla realtà dell‟essere. [Affermando] inoltre che l‟essere permane sempre ugualmente nel medesimo modo, mentre il 25 divenire è in continuo movimento.
Ma in che consiste questo “partecipare, sui piani rispettivi del divenire e dell‟essere” ? Si parla di “interazione, passiva o attiva, che si verifica tra elementi in reciproco contatto, per opera di una certa potenza”. I materialisti, i “figli della terra”, “obiettano che potenza, come attitudine passiva o attiva, appartiene, sì, al divenire, ma che non è il principio che conosce, mentre l‟essere è ciò che viene conosciuto”. 26 Qui si tocca il punto nodale. L‟Essere come “fatto” è oggetto di conoscenza, per cui la conoscenza stessa consiste nella rievocazione della genesi della produzione fattuale. Anamnesi storica e processo conoscitivo dunque coincidono col Fare, come l‟oggetto conosciuto col “fatto”. La conoscenza dell‟oggetto (il “fatto”) è la genesi del suo Essere fattuale, il processo storico della sua produzione o messa in essere. Il conoscere come attività e l‟essere conosciuto come passività sono lo stesso Essere, in relazione di partecipazione dinamica, cioè nei suoi modi di potenza. Ma proprio per la sua persistenza, tale Essere modale stabilisce un‟equazione tra le due modalità, tale che il conoscere e il conosciuto siano l‟atto e il fatto medesimi. Da questa eguaglianza deriva l‟identità idealistica di Soggetto e Oggetto. Platone s‟inganna pensando che l‟Essere conosciuto, come oggetto di conoscenza, si muove e muta stato “a causa della passività”. Infatti, le due modalità dell‟Essere sono gli elementi distinti astrattamente dell‟unico Essere reale, “fatto”, il quale è in potenza ciò che è in atto. E le due 24
Ivi, XXXIV, 247 e. Ivi, XXXV a. 26 Ivi, XXXV, 248 c-d. 25
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modalità correlate dell‟Essere possono distinguersi solo astraendo il “fare” dal “fatto” come conoscenza e oggetto conosciuto. Ma nessuno dei due momenti è qualcosa fuori della loro relazione concreta. Non si dà conoscenza che di un oggetto conosciuto, il quale non-è fuori della sua conoscenza. Pensare l‟Essere solo come “fatto” in quiete e senza movimento, significa astrarlo dal suo fare-sé come potenza di cui esso fatto è atto, cioè fuori della sua relazione. Parimenti, indicare come “mente” l‟intellezione e “corpo” l‟Essere, attribuendo solo a quest‟ultimo la “vita” e il movimento, significa negare l‟identità ontologica per mezzo di una logica astratta. Sta qui la contraddizione del realismo ontologico che si auto-confuta logicamente. L‟attività conoscitiva, rispetto alla stato passivo dell‟oggetto conosciuto, si differenzia per il suo carattere apofantico, consistente nel giudizio di realtà. E‟ tale giudizio che fa mutare stato all‟oggetto della conoscenza, attribuendogli l‟Essere. Attribuire l‟essenza a qualcosa, ossia giudicarla, significa determinare la realtà, distinguendola da ciò che non-è. Qualcosa che non-è posto in Essere, non significa che non esiste, ma che non è distinta da ogni altra cosa molteplice. Il giudizio di realtà, qualificando l‟oggetto conosciuto, lo rende partecipe dell‟Essere. Partecipe della credenza nell‟Essere, che qualifica l‟ente esistente e lo sottrae al divenire mettendolo in relazione con l‟Essere. L‟oggetto riceve l‟Essere attraverso il giudizio di realtà, a può anche esserne privato tornando alla condizione di mero esistente, per cui non è l‟oggetto che “si muove, a causa della passività”, ma è l‟attribuzione d‟Essere del giudizio ad essere dinamico, variando in relazione alla fede nella realtà di quella relazione logica. Non considerare l‟elemento volitivo del giudizio, equivale a non considerare la possibilità insita in ogni affermazione di non essere “vera”, e quindi di stabilire la verità dell‟Essere come “ideale”. La verità “ideale” è un modello di verità pensato come Idea, ossia privo del negativo, senza la possibilità legata alla volontà della fede ontologica. Ed è questa identità con l‟Idea a far ritenere che la verità sia “stabile” e che il movimento appartenga all‟oggetto. In realtà, il movimento appartiene all‟Essere del giudizio, soggetto al dinamismo della volontà, e non all‟oggetto, il quale, fuori della relazione con l‟Essere, semplicemente esiste al pari di ogni ente fenomenico. E in quanto ente, come ogni ente, appartiene al Divenire, e non all‟Essere. Solo il giudizio lo rende partecipe dell‟Essere, conoscendolo come suo oggetto relativo. La relazione con l‟Essere, 48
attraverso la partecipazione logica, lo rende, da ente-che-diviene, “oggetto”, ossia prodotto dell‟attività umana. Il divenire indica dunque la possibilità che l‟ente sia oggetto, e quindi divenga altro-da-ciò-che-è, cioè una esistenza qualificata. Tale possibilità è dovuta al giudizio, ossia alla fede che relaziona l‟esistente all‟Essere, facendolo “smuovere” dal suo fondamento d‟esistenza. “La fede smuove le montagne”, nel senso che rende possibile la loro oggettività logica, facendole divenire oggetto di pensiero, esistenza qualificata dal giudizio di realtà. Giudicare A come B, affermando che A è B, significa stabilire una relazione logica, basandola sulla credenza nella sua sussistenza, cioè su una fede ontologica in cui consiste i giudizio di realtà. Ma il giudizio d‟Essere o di realtà, essendo un atto di fede, è un dato culturale, legato all‟Idea come modello ideale. Il giudizio di realtà verte sulla credenza circa ciò che è l‟Essere, ossia sulla definizione. Giudicare un fatto come “bello”, significa ri-conoscere in esso l‟immagine della Bellezza, credere che essa sia rappresentata nel fatto. Ma questo giudizio di realtà, non conosce la Bellezza in sé, in Idea. La Bellezza ideale è priva di determinazioni, è trascendente ogni sua rappresentazione fattuale o simbolica. Per questa ragione, il giudizio estetico è soggetto al divenire, muta culturalmente, essendo stabilito sul piano dell‟analogia tra i “fatto” oggetto di giudizio, e la forma della sua rappresentazione. Tale forma idealizzata consente il giudizio analogico per cui il fatto “è” bello, ossia è prodotto nella forma creduta bella, conforme cioè al modello di Bellezza giudicata come Essere ideale. Il giudizio di conformità ideale è analogico ed empirico, oggetto di credenza, e quindi storicamente mutevole come la volontà. La forma è creduta immanente al fatto e tale da costituire Uno. Ma essendo la forma mutevole, essa non-è l‟Idea, ma appunto la credenza culturale nella sua immanenza o identità reale. Sia l‟idealismo che il realismo identificano l‟Essere del giudizio di realtà con uno dei termini della relazione logica: l‟idealismo con l‟Idea, il realismo con l‟oggetto della conoscenza. In realtà, l‟Essere copulativo della relazione logica è mediano tra i due e terzo, distinto da essi per la sua natura dialettica. E‟ l‟inconsiderazione di tale mediazione a rendere identici i termini della relazione logica. La mediazione consiste nel giudizio di realtà, ossia nella predicazione, che è fede nell‟attualità della relazione ideale, per cui A partecipa di B, anziché non. La questione della fede inerisce il principio di realtà, cioè il giudizio 49
d‟Essere, nel duplice senso dell‟essenza e dell‟esistenza, come abbiamo visto. Giudizio (fede) che è dialettico. Stabilita l‟identità di conoscere e fare, la conoscenza dell‟Essere è conoscenza del suo far-si; conoscenza di sé o auto-coscienza. Ma tale conoscenza afferma un giudizio di realtà che è la realtà stessa nel suo definirsi come “fatto”, per cui non si esce dall‟identità affermata dal giudizio di realtà del soggetto che conosce e fa, ossia affermata dalla credenza ontologica, consistente appunto nel credere nell‟identità dell‟Essere logico con l‟Essere ontologico, ossia dell‟esistente con l‟essente. La negazione critica di questa identità fondata sulla fede, è opera della filosofia, della critica filosofica, che distingue l‟essere esistente dall‟Essere essente attraverso la negazione logica. La critica filosofica rompe l‟identità Soggetto-Oggetto, interponendo tra i due elementi del giudizio la Negazione la variante dialettica del nonEssere entro l‟Essere del giudizio, distinguendo la verità di fede dalla verità logica. In questo processo dialettico, la logica assume la funzione di una “tecnica” del discorso razionale, costituita dal momento scettico della negazione e dal momento predicativo dell‟affermazione apofantica. Il primo momento è costituito dalla contraddizione anti-logica, il secondo dall‟asserzione logica. L‟antilogia è la tesi propria dello scettico, che, se non accoglie la reputazione logica, diventa tesi sofistica (antilogikòn). La logica, invece, è il procedimento che supera il momento scettico e puramente contraddittorio e giunge al giudizio, che ferma il movimento dell‟esistenza andando oltre la disputa eristica (eristikòn), e cioè nel luogo stabile dell‟essenza o della scienza (episteme). Giudicare logicamente significa dunque “stabilire” l‟Essere di ciò che è. Stabilizzare l‟esistente sottraendolo al divenire. E quindi idealizzare la realtà portandola al modello dell‟Idea. Ossia, trasformarla in una realtà priva del negativo. Una realtà assoluta, astratta dal non-essere, e perciò “vera”. Il giudizio segna la vittoria della conoscenza (gnòsis) sulla ignoranza (àgnoia). Se, però, conoscere è giudicare, ossia affermare l‟Essere sul Divenire, la conoscenza stessa non può coincidere col metodo dialettico, ossia con la disputa (agonìa) eristica, ma deve risolversi in un fondamento d‟Essere, in una affermazione epistemica, non di natura meramente logica, cioè discorsivamente tecnica, ma decisivamente ontologica. In tal senso, la conoscenza, sia come Logica che come Fare, corrisponde alla ragione metodica dell‟intelletto, la quale sistematizza in senso razionalmente 50
coerente, e quindi logicamente chiuso, il processo ideale che conduce all‟identità logica del Soggetto con l‟Oggetto (A è B). Ma questo processo metodico stabilisce appunto una relazione di identità, che è tautologica, e non dialettica, facendo coincidere l‟Essere del “fatto” con l‟Essere del fare, ossia l‟Essere con se stesso: il conoscere con il fare, e la conoscenza con la produzione. Tale conoscenza “razionale” o “scientifica”, non è veritativa ma identitaria, puramente metodica e non dialettica. Solo il giudizio della “ragione” assevera la verità dell‟Essere come essenza dialettica, introducendo nell‟identità la Negazione, e cioè nell‟Essere (dell‟Idea) il Divenire (dell‟Ente), e nel divenire (dell‟oggetto) l‟Essere (del giudizio), impedendo che la credenza (pìstis) nella loro relazione logica diventi identità ontologica, ossia negazione sofistica e affermazione dogmatica. E‟ questo il senso del‟incursione critica, distinguente, della filosofia circa la rappresentazione mitica dell‟Essere come Idea eterna e immutabile, identica a sé. Quale sarà allora l‟atteggiamento del filosofo e di chiunque comprende la rilevanza di questi problemi? Sarà necessariamente quello di rifiutare l‟immobilità del tutto così come è concepita sia da coloro che ne sostengono l‟assoluta unità, sia da coloro che lo interpretano come molteplicità di idee fisse e immutabili […]. Il filosofo sa che entrambi i princìpi, l‟immobilità e il movimento, sono chiamati a costituire l‟universo 27 dell‟essere e delle cose.
Le attribuzioni o determinazioni logiche sono (o non) qualità ontologiche? Ossia, sono o non necessarie a partire dalla posizione dell‟Essere? Il problema della partecipazione viene da Platone impostato come problema logico della predicazione, secondo tre ipotesi: 1. che nulla partecipa – è predicabile – di nulla; 2. che tutto partecipa – è predicabile – di tutto; 3. che solo alcuni rapporti di partecipazione-predicazione sono possibili. 28
Nel caso 1: Se il movimento e la quiete non sono partecipabili con l‟Essere, come li si può distinguere l‟uno dall‟altra? Come si potrebbe dire che le cose “sono” in movimento, ovvero che “sono” in quiete? L‟identità di logica con ontologia, stabilisce una relazione tra l‟essere del 27
Ivi, XXXV, 249 d.
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Ved. M. Vitali, Introduzione a Il sofista, tr. it. cit., pagg. 100 sgg., nn. 136 sgg.
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discorso e l‟essere della realtà che attribuisce valore ontologico ad ogni determinazione logica, e viceversa, valore logico a ogni datità reale. La conseguenza di tale identità è l‟indeterminatezza dell‟Essere, che rende “logica” ogni esistenza reale, empirica, e “reale”, cioè esistente, ogni determinazione logica. In tal caso, la relazione non è di partecipazione ma di corrispondenza, e su questo presupposto identitario si costruisce ogni teoria logica del “rovesciamento” e della “rivoluzione” in senso etimologico di ritorno al modello ideale, cioè alla conformità dell‟essere reale all‟essere logico. Nel caso 2, che tutto fosse partecipabile con tutto, la reciproca relazione del movimento con la quiete creerebbe una situazione “impossibile”, cioè contraddittoria, in quanto la quiete sarebbe in movimento, e il movimento in quiete. L‟equazione di “possibile” con “sostenibile”, di realtà con logicità, è la stessa che sorreggeva la logica del don Ferrante di Manzoni, per il quale la peste non poteva esistere per deduzione logica. In questi casi, il criterio logicamente consequenziale, per quanto tecnicamente, ossia formalmente, corretto, ha per fondamento un giudizio di realtà che funge da premessa logica. Perché tale fondamento sia veritativo e non semplicemente assertivo, l‟Essere del giudizio definitorio non dev‟essere postulatorio, assiomatico, ma dialettico, ossia tale da contenere in sé il suo opposto, la possibilità di non-essere, il Negativo. Infatti, solo l‟Essere dialettico consente l‟emersione dell‟elemento fideistico insito in ogni giudizio, e, con la sua reputazione, il movimento entro l‟Essere che “è”, nella quiete del presente giudizio predicativo. La terza ipotesi, ottenuta per esclusione, ricalca il modello linguistico, logico per eccellenza, quella della “grammatica” (grammatike), quale “tecnica” delle combinazioni verbali. La tecnica “in grado di determinare se vi sono generi atti a interporsi fra gli altri, sia in guisa di legame nella combinazione, sia come causa separante nel processo inverso della divisione” costituisce una “scienza rigorosa” basata sul “ragionamento metodico”: la “dialettica” (dialektike episteme), consistente appunto nel “saper suddividere per generi, e non pensare una specie identica se è diversa, né diversa se è identica”.29 Dialettica come “saper distinguere per generi” (diakrìnein katà génos), ossia tecnica del “sapere come possono o non possano i generi rapportarsi reciprocamente”. Il pensiero ordina la realtà (come trascrizione di parole) logicamente. 29
Platone, Il sofista, XXXVIII, 253 b-e; XXXIX, 253 d.
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Il sofista si ferma al dis-ordine, al caos, senza giungere al sistema compiuto, nel quale ogni parola-cosa è ordinata metodicamente secondo una coerenza logica. Da qui la differenza rispetto al filosofo, il cui “ragionamento [è] sempre guidato dall‟idea dell‟essere”, la “divina ragione” al cospetto della quale “gli occhi della moltitudine […] non riescono a reggere”. 30 Platone intende la “idea dell‟Essere” come il sistema logico entro il quale l‟Essere viene pensato come privo di opposizione, di negazione, di contraddizione, e quindi identico a se stesso, dove l‟identità esprime l‟Essere stesso. Rispetto all‟Essere dialettico, l‟Essere ideale è privo di quella contraddizione in cui si attarda il sofista, e si dispiega come puro giudizio di realtà che “è”. L‟idea platonica dell‟Essere non contiene la negazione nella sintesi, alla maniera hegeliana, ma è depurata della negazione, per cui la tecnica dialettica viene intesa da Platone come processo logico di esclusione della contraddizione-negazione. E‟ una logica esclusiva, non già comprensiva del Negativo. E non è difficile capire che a essere escluse dal ragionamento dialettico sono le ragioni dell’altro, intese polemicamente come le posizioni di contrasto che tendono a negare le proprie. Questa oggettivazione delle posizioni negative, in virtù del principio identitario, configura uno scontro appunto esclusivo, per la cui affermazione dialettica si contendono le parti polemiche. Per questa ragione, l‟Essere è indicato come un ente (òn), ossia come un dato reale, e non già come la realtà infinita del verbo (èinai), ossia come un processo dal quale emerga il giudizio della ragione. Ed è facile intendere a questo punto quanto questa impostazione dialettica della ricerca della verità abbia influito sulla formazione della mentalità politica nella cultura classica precristiana. La partecipazione, come abbiamo visto, consiste nella ammissibilità logica delle relazioni tra generi. I generi principali sono tre: l‟ “essere” (tò òn), la “quiete” (stàsis) e il “movimento” (kìnesis). Di essi solo l‟essere partecipa di entrambi gli altri, che appunto “sono”. Ognuno è diverso dall‟altro e uguale a se stesso. Da notare che Platone riferisce “il diverso” (thàteron) e “l‟identico” (tautòn) come altrettanti generi, e non li riferisce all‟ “essere” quali suoi elementi costitutivi. Ma neppure la “quiete” e il “movimento” sono pensati in relazione reciproca di negazione, ma bensì 30
Ivi, XXXIX, 254 b.
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come condizioni assolute, astratte dall‟altra. Ciò vuol dire che l‟Essere di cui parla Platone, ossia l‟essere in generale, è ciò che viene nominato: l‟ente come parola, la cosa come nome. Concepito l‟essere come genere tra generi, e pensato l‟Essere come Idea, alla maniera assoluta di cui si è detto, allora Essere (che è) e Identico (in sé) sono pensati come “un‟unica cosa”.31 Proprio perché pensato come “cosa”, l‟essere (tò òn) può venire identificato col “fatto”, e il processo dialettico della conoscenza col Fare. Ed è per la stessa ragione che l‟Essere venga concepito come “immensamente differente” dal Diverso, pensato come in sé, anziché in relazione all‟Identico. In altri termini, pensando l‟Essere come un “genere”, anche i suoi elementi dialettici e opposti sono pensati come “generi” irrelati e reciprocamente esclusivi. L‟assunzione dell‟essere come ente costituisce il realismo ontologico di Platone. Ente fra enti. Per cui il pensare acquista significato di riconoscere e nominare l‟Essere tra le false rappresentazioni e le false denominazioni. Il giudizio di ragione è fatto coincidere con la “scelta”: aut-aut. Ossia con l‟atto di volontà, proprio della fede. Rispetto all‟Identico (essere = essere), il falso è il Diverso (dall‟essere che è; l‟altro come non-essere, e non come possibile). E acquisito il suo essere-diverso come un‟Idea (sia pure negativa), le cose “diverse” tra loro partecipano tutte dell‟”idea del diverso”: e quindi sono eguali nella diversità, essendo tutte partecipi della stessa Idea. Uguali in Idea, e quindi non propriamente “diverse”. La diversità presuppone l‟identità, come il non-essere l‟essere, per cui il negativo non può essere una Idea in senso platonico, ma il contrario di un‟Idea concepita come ente unitario reale: un opposto che è “nemico”. Tesi contraddittoria che conduce al risultato opposto all‟assunto di partenza. Infatti, poiché ogni genere “è”, tutti i generi “sono” partecipi dell‟Essere, e quindi sono idealmente identici nell‟unità dell‟Essere. Ma proprio l‟esigenza identitaria, che identifica appunto l‟essere ideale con l‟esistenza reale, è al fondo della concezione totalistica della metafisica platonica, la cui ontologia rovesciata è il modello della società totalitaria. Infatti, assunto in senso assoluto, cioè esclusivo, ogni opposto “è” una realtà “in sé”, la cui definizione d‟essere necessita dell‟Identità a se stesso. In termini poietici, la “dialettica” come processo del “fare” eliminatorio del negativo, diventa una tecnica di assimilazione del 31
Ivi, XLI, 256 b.
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Diverso a sé stesso, ossia di quella trasformazione ontologica, di quella metabasis eis allo genos, stigmatizzata da Parmenide. Ogni volta che l‟Idea si determina come ente, deve riconoscersi attraverso l‟Identità della sua determinazione col suo Essere, per cui l‟oggetto del suo Essere, l‟ente, dev‟essere sempre identico a sé. Per cui, qualunque cosa che “è”, entrando in relazione con l‟Idea, il suo essere è sempre identico all‟Idea stessa che o riconosce come suo oggetto o “fatto”. E dunque ogni ente che “è”, è l‟Idea stessa nella sua attualità d‟essere. Così, ad es., se il movimento deve entrare in relazione ideale con la stasi, la Stasi (come Idea) “è” Movimento solo in quanto il Movimento stesso è identico alla Stasi, cioè alla stessa unica Idea. Ma poiché Stasi e Movimento “sono” due e non Uno, la loro relazione è impossibile. A meno che non partecipino a loro volta entrambi del Diverso, essendo così tutti e due “diversi”, e quindi identici in idea. In tal senso la partecipazione ideale designa l‟identità di reale e razionale, facendo del processo dialettico la modalità metodica dell‟identificazione, nel duplice senso di unità identitaria e di riconoscimento dell‟Essere con se stesso. 7. Il processo dialettico è dia-logico e anamnestico: racconto in cui l‟Essere, attraverso l‟altro, ritrova sé stesso. Il racconto trasferisce l‟evento reale – oggettivo – nel ricordo, che è il luogo della soggettività. Il passaggio dal reale alla memoria trasforma l‟evento in oggetto del pensiero.: “La reminiscenza è l‟affluire della intelligenza perduta”.32 L‟oggettivazione riporta gli eventi passati alla coscienza presente, come se “apparissero” allo sguardo dello spettatore ideale. La memoria è questa presentificazione del passato alla coscienza attuale dello spettatore assente. Portare gli eventi alla coscienza, significa presentificarli, renderli presenti. Presentificare significa condurre gli eventi passati alla presenza dello spettatore, rendendoli attuali, con-presenti. La relazione logica tra gli eventi è una relazione di attualità, cioè di con-presenza. Tale relazione, che unifica eventi passati nell‟attualità del presente, raccontandone dialetticamente il percorso del loro essere logico unitario, inerisce la storia degli eventi, cioè il racconto di ciò che essi “sono” nell‟Idea che li determina unitariamente; oppure descrive il percorso dell‟Idea a sé stessa? La risposta di Platone è nel primo senso, essendo gli eventi nel loro Essere ideale eterno. La risposta di Hegel è invece 32
Leggi, lib. V, 732 b-c.
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nell‟altro senso, essendo l‟Idea il divenire dell‟Essere in se stesso. La differenza tra le due prospettive teoretiche non consiste, come pure si è autorevolmente creduto, nella “storicizzazione delle categorie ideali”, ma nel concepire il movimento, non già come movimento dell’Idea, la quale, determinandosi non è più sé stessa ma il suo oggetto reale, che è un ente, e non già un‟Idea, bensì come movimento della volontà, ossia della possibilità della fede ontologica che l‟Essere sia anziché non. Pensato come movimento dell’Idea, questa perde il suo carattere di assolutezza ed eternità, a favore di una concezione relativistica del giudizio di realtà, e quindi della stessa verità, pensata come giudizio logico. Questo pensiero logicistico caratterizza lo storicismo razionalistico e il relativo nichilismo metafisico. Il pericolo teoretico insito in ogni ricostruzione logica della realtà, è l‟inferenza che il metodo razionale sia la “vera” realtà, secondo un rapporto identitario da conseguire, non solo logicamente, ma anche empiricamente. La “vera” realtà non è (più) quella che ispira il thàuma e che richiede risposte narrative razionalmente rassicuranti, narratologiche, ma la realtà ricostruita secondo il metodo, strutturata cioè in riferimento alle connessioni logiche della scienza. Ora, la coerenza, come corrispondenza logica, si ottiene metodicamente confutando la contraddizione, ossia trascegliendo l‟Essere positivo, che “è”, dal negativo. E quindi stabilizzando il processo euristico privandolo dl movimento, provocato appunto dalla presenza della negazione. Vinta la negazione, l‟Essere si stabilizza in senso epistemico. Da qui l‟idea che l‟essere logico sia il “vero” Essere, quello mondato delle sue contraddizioni esistenziali, del suo essere apparente. In realtà, data la natura dialettica dell‟Essere, l‟essere logico è l‟essere affermato, giudicato esistente ossia l‟essere “creduto” esistente. La rimozione della fede ontologica dal discorso euristico crea un Essere astratto dal suo negativo, un ente in sé, identificato con il tò òn esistentivo. Ma tale Essere è appunto il concetto platonico di Idea, ricavato a posteriori dall‟eliminazione delle contraddizioni dialettiche, e quindi “oggettivamente” prodotto dal pensiero, e posto a modello categoriale di ogni definizione. Ma proprio l‟oggettivazione del positivo, escludendo il negativo, deve a sua volta oggettivarlo per negarlo come non-identico all‟Essere. “Quando diciamo che non è l‟identico, negativamente, indichiamo con questo termine la relazione col diverso”. 31 Platone annovera tra i cinque 56
generi anche l‟Essere, che considera diverso dal Movimento, il quale pertanto “è” e insieme “non-è”, concludendo che esiste dunque, di necessità, il non-essere, sia in relazione al movimento, sia in relazione alla totalità dei generi. Nell‟ambito di questa totalità, la natura del diverso, rendendo ciascun genere diverso dall‟essere, lo fa non essere. E di tutte le cose esistenti, allo stesso modo e nello stesso senso, diremo correttamente che non sono; ma, per converso, poiché partecipano dell‟essere, diremo che sono, e le chiamiamo 33 “enti”, cioè “cose che sono in quanto sono”.
Qui, per “ente, si intende chiaramente il mero esistente, l‟inqualificato, che partecipa dell‟essere in quanto Molteplice, non in quanto determinato. L‟Essere in sé stesso, considerato come “genere”, essendo a sua volta “diverso” dagli altri generi, anch‟esso “non-è” al pari degli altri. La conseguenza è che “in ciascuno dei generi, dunque, l‟estensione dell‟essere è certamente grande, ma il non-essere è quantitativamente illimitato”. Infatti, “per quanto gli altri generi sono, tanto l‟essere non è”, e poiché l‟essere “è uno in sé stesso”, gli altri, “per quanto sono illimitati, a loro volta non sono”. 34 La preponderanza ontologica va dunque al nonEssere, rispetto all‟Essere in sé, considerato come “genere” distinto, e poiché il Negativo va inteso come il Diverso, l‟assunto traduce soltanto la predominanza del Molteplice sull‟Uno. La negazione (apòphasis) “non è il contrario del termine negato” 35 ma solo “qualcosa di diverso dai termini che lo seguono”. 36 Per cui il non essere non è l‟inesistente, ma il diverso. Ma, se ogni ente “è”, anche l‟ente diverso “è”, per cui il non-essere deve sempre riguardare la qualità dell‟Essere, e non già la sua esistenza, comune a ogni ente, anche a quello che logicamente “non-è”. Da ciò consegue che, se tutti gli enti “sono” (esistenti), solo quelli qualificati di essenza “sono” rispetto a quelli che “non-sono” determinati, i quali ultimi, “non sono”, non in quanto non esistono, ma in quanto non sono determinati alla stessa maniera dell‟ente che lo “è”. Quindi l‟affermazione di Platone, secondo cui il non-essere è il diverso, è relativa propriamente all‟essenza, non all‟esistenza. Infatti, la negazione che 33
XLI, 256 b-c. Ivi, XLI, 257. 35 Ivi, XLI, 257 b. 36 Ivi, XLI, 257 c. 34
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precede un ente non contraddice l‟essere ma indica qualcosa di diverso. Ma la diversità interessa le cose sensibili, ossia le esistenze molteplici, non può riguardare le entità ideali ed essere assunta in senso ontologico. Infatti la dialettica interna all‟Essere riguarda il rapporto che l‟essenza ha con l‟esistenza, mediato dalla volontà o fede ontologica. Concepire il principio di alterità all‟interno dell‟Idea, ossia in ambito ontologico, significa introdurre il Molteplice nell‟Uno, ossia il divenire nell‟Essere, vanificando la logica della distinzioni, ossia il senso stesso della dialettica, con conseguenze catastrofiche per il pensiero. Infatti, perduto il senso della differenza ontologica tra ciò che è e ciò che non è un‟Idea, ha trasformato ogni Idea in un ente, e ogni ente in una realtà essenziale, per cui ogni “fatto” umano, ogni prodotto storico, ha la stessa dignità ontologica. Avendo dunque ogni cosa dignità storica, tutto si equivale, e ogni distinzione interna al concetto d‟Essere è puramente empirica, essendo rilevante solo la distinzione tra l‟essere e non-essere lo stesso. Dal punto di vista logico-dialettico, si ha soltanto la Bellezza e la nonBellezza, la Economica e la non-Economica, ma non la grande e la piccola poesia, l‟azione domestica e la grande impresa politica. Il giudizio si muove all‟interno della scienza empirica o classificatoria. Non a caso Platone afferma a proposito della “natura del diverso” che essa gli appare come frantumata in piccole parti, proprio come accade alla scienza [la quale] è una, naturalmente, ma ogni singola parte di essa, riguardante un suo determinato oggetto, ed un campo ben delimitato, ha una denominazione propria [e] per questo si dice che vi sono molte tecniche e molte scienze […]. Ciò vale anche per le molte parti del 37 diverso.
La domanda decisiva è: “esiste una parte del diverso che sia opposta al bello?”. Non solo esiste, afferma lo Straniero, ma è anche “fornita di nome. Ciò che infatti siamo soliti dire „non bello‟, questo non di altro è diverso che dell‟idea del bello”. Ci muoviamo dunque nel campo delle idee, e non degli enti. Ma a un di presso ecco ripresentarsi la confusione e l‟indebita estensione del discorso logico nel campo ontologico. “Ti pare che il „non bello‟ – chiede lo Straniero a Teeteto – sia altro che un ente staccato da un determinato genere, e per converso a sua volta contrapposto ad un altro ente determinato?” Dal senso copulativo si passa a quello esistenziale, per cui il giudizio 37
Ivi, XLII, 257 c-d.
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predicativo negativo si converte in giudizio di difformità indeterminata e allusivamente (cioè indirettamente) positiva. Infatti, l‟affermazione indiretta, ossia il giudizio positivo in forma negativa del suo contrario, elimina il non-Essere come realtà pensabile, e quindi elimina il Niente dal novero della pensabilità, positivizzando ogni forma ideale in analogia all‟esistenzialità di ogni ente molteplice, che è in quanto esiste. La corrispondenza dell‟essere con l‟esistere è all‟origine della relativizzazione di ogni valore e della predominanza della volontà di affermare l‟ente come Essere. La conclusione platonica è che venga a costituirsi “una contrapposizione di essere ad essere”, per cui “ugualmente sono” tanto “il bello” che “il non bello”, tanto “il non giusto” che “il giusto”, i quali “non sono per nulla uno più dell‟altro, quanto all‟essere”, equiparati al “non grande” e al “grande in sé”, cioè a valori quantitativi. Stabilita l‟analogia tra enti e grandezze reali, ed essenze e valori ideali, occorre universalizzarla “per tutte le altre cose”, poiché Una volta riconosciuto che il diverso partecipa per sua natura dell‟essere, bisogna di necessità ammettere che le sue parti ne partecipano in misura non minore che le altre cose. [Infatti] se si mettono a confronto, in opposizione reciproca, l‟idea stessa dell‟essere e una delle parti del discorso, questa non avrà, se è lecito dirlo, meno essere di quella? Non solo, ma questa parte del diverso non potrà significare il contrario, bensì soltanto una cosa diversa da quella, cioè dall‟essere, [e che non potrà che essere] il non essere [il quale pertanto] ha una sua stabile natura […], tanto da 38 costituire un genere determinato nel novero dei molti altri che sono.
Si perviene alla realtà del non-essere in maniera capziosa ed elittica, mettendo in opposizione “l‟idea dell‟essere” e l‟esistenza di “una delle parti del discorso”, per cui, stabilita l‟equazione di essenza ed esistenza, non si possa “significare il contrario” dell‟Essere, “bensì soltanto una cosa diversa dall‟essere” considerato però come genere empirico e annoverabile tra i “molti altri che sono”. 39 Ci pare difficile condividere l‟affermazione del Taylor, per cui nel Sofista si getterebbero le basi della logica scientifica rispetto a quella ancora confusa di Parmenide, poiché la distinzione tra l‟uso predicativo e l‟uso 38
Ivi, XLII, 257 e – 258.
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Ivi, XLII, 258 a-c.38. Ivi, XLII, 258 a-c.
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esistentivo dell‟essere non viene adeguatamente chiarificata, ma appena adombrata e solo a tratti intuita.40 Quello che nondimeno emerge chiaramente dal discorso di Platone è che “al non-essere è stato dato di essere”, ma averlo pensato come “genere determinato” ha condizionato la sua concezione in termini di alterità, ossia di indeterminata possibilità, inducendo a credere che ogni ente mondano, in quanto esistente, possa, e perciò solo debba, essere anche in senso logico, per cui un‟Idea, per essere “vera”, debba comprendere ogni possibile determinazione: essere, cioè, “universale” nel senso di idealmente indeterminata ma comprendere nel suo Essere ogni possibile determinazione esistenziale. Da qui l‟idea dell‟infinita possibilità compresa in ogni universale, ossia la concezione dell‟universale potenza della categoria e dello Spirito umano come infinita poiesi. Nessun ente può essere lasciato alla sua mera esistenza naturale, ma ognuno per essere va concepito come prodotto dello Spirito poietico. La “potenza” dell‟Idea è di assoggettare l‟ente, di oggettivarlo facendone un prodotto spirituale, asservendolo così al destino dell‟Idea, ossia allo scopo del pensiero. Infatti, una volta pensato, l‟ente perde la sua inseità ontica per assumere la sua datità oggettiva, di prodotto della sua fonte di realtà. Il pensiero pertanto, liberato dall‟aleatorietà della finitezza volitiva della fede ontologica, che ne costituiva la riserva morale, si dispiega come l‟indeterminata potenza che ricerca la sua infinita attualità determinativa, in un prosieguo incessante di attività razionalizzante chiamata, volta a volta, Spirito o Storia o Civiltà. Una attività di pura potenza, priva di limite, di negativo, del dubbio della fede ontologica, è volontà immaginativa, la cui determinazione sensibile, sentita come limite, viene abbandonata alla sua esistenza finita appena entra in contraddizione con la rappresentazione ideale che essa dovrebbe oggettivare. E allora la volontà assoluta, torna dalla forma reale insoddisfacente a quella ideale del desiderio, riprendendo slancio in direzione di altre più consone rappresentazioni, fino alla prossima smentita, e così via per sempre. L‟esistenza reale come volontà determinata non può conchiudere la ragione dell‟Idea, la sua essenza, ma solo oggettivarla alla stregua di un ente sensibile, allocandola in uno spazio e in un tempo anch‟essi sensibili, e come tali compresi in un genere. La stessa attività poietica è creatrice di tempo, il quale, negando l‟Essere dell‟Idea eterna, è processo negativo, per cui non l‟Essere è 40
Ved. Vitali, Introduzione cit., pag. 103, n. 151.
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tempo, ma bensì la negazione dell‟Essere lo è. Il finito diventa così il negato, e l‟atto del fare omologato a quello del negare. L‟azione dunque è negazione dell‟identico che viene tratto fuori dall‟unità dell‟Idea e posto nella differenza, nel Molteplice, è la temporalità della volontà determinata. Nell‟Idea, dunque, si annida la sua stessa negazione, per cui ogni determinazione d‟essere racchiude anche una corrispettiva negazione, una affermazione di non-essere. Il limite dialettico è dunque nella stessa Idea, nel rapporto che essa ha con se stessa, nella sua volontà, ossia nella forma della sua libertà. Un limite che Parmenide ingiungeva di non superare. Noi, invece, - afferma lo Straniero – non soltanto abbiamo dimostrato che il nonessere è, ma siamo anche riusciti a far emergere il genere stesso del non-essere. Dimostrando infatti che la natura del diverso “è”, ed è distribuita nella partecipazione a tutti i generi tra i quali si danno rapporti reciproci, abbiamo osato dire che ogni singola parte del diverso, contrapposta all‟essere, “è”, ed è il non-essere.41
Questo “non-essere”, inteso come diverso, esprime una ontologia positiva che sostituisce la concezione del non-Essere assoluto, come “contrario assoluto” (Ibidem). Il punto di distanza è „affermazione che “l‟essere e il diverso si estendono a tutti i generi e partecipano l‟uno dell‟altro”, da cui consegue che “il diverso partecipa dunque dell‟essere”. 42 ma la tesi platonica fondativa della sua ontologia positiva è che l‟Essere, “partecipando del diverso, è altro dagli altri generi”, ossia “soltanto se stesso”, distinto e diverso dunque dal “non-essere” che è sé stesso. Aver drammatizzato l‟opposizione di due Esseri, rendendoli ognuno “genere” astratto dal suo opposto, ha impedito la concezione della “dialettica” come processo interno all‟unico Essere, tale che la sua co-essenza scongiurasse la risoluzione dell‟astratto uno nell‟altro astratto, e il giudizio in una tensione assimilatrice dell‟altro all‟oggetto di sé. La tensione degli astratti Esseri è all‟origine dell‟ordine cosmico come sistema della ragione, come ordine razionalistico del mondo altrimenti caotico. Secondo Platone, l‟Essere in sé, come “genere”, “in innumerevoli relazioni, non-è”, al pari degli altri generi, i quali, “in mille relazioni „sono‟, in mille altre „non-sono‟ ”, ed egli chiama questa teoria “legge di 41 42
Ivi, 258, XLIII d-e. Ivi, XLIII, 259 a-b.
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correlazione dei contrari”, la quale elimina l‟opposizione interna all‟Essere, facendo così di ogni “contrario” una realtà ontologicamente positiva. Proprio sul presupposto che ogni realtà sia positiva, cioè determinata, riposa la possibilità della comprensione degli enti nel sistema razionale, ossia la possibilità stessa della scienza come sapere ordinatore di ciò-che-è. Il sapere scientifico, eliminata l‟opposizione interna all‟Essere, e assunta la realtà determinata come assoluto essente, nella sua astratta attualità d‟Essere senza movimento, deve ammettere anche il divenire come un presunte futuro, proiettandolo come momento della “confutazione”, intesa anch‟essa come realtà “attuale”, sia pure a venire. Ma tale ammissione, qualificando come “ipotesi” la teoria scientifica dell‟Essere, inerisce la stessa esclusione della sua verità (episteme); e non a caso Platone nel luogo cit. chiama la “legge di correlazione dei contrari” una “credenza”, cioè un postulato di fede, non logicamente necessario fuori del suo costrutto teorico ipotetico, facendo dunque della stessa teoria scientifica dell‟Essere una “dòxa”, un‟opinione, sia pure razionalmente strutturata. Infatti, stabilendo che l‟Essere sia un “genere” tra altri generi, Platone lo ha reso oggettivo, finito, privo di auto-coscienza, e dunque mortale e molteplice, identico a l‟esistenza particolare, cioè alla sua stessa determinatezza. E poiché privo di coscienza, l‟Essere è materia, e non distingue razionalmente sé dalla sua determinatezza. Ma proprio perché non è cosciente di sé, finito e molteplice, l‟Essere non può razionalmente identificarsi all‟Idea. L‟identità non è fondamento razionale, ma volontà di fede, credenza. In questo precipuo senso, la concezione platonica che l‟Essere sia un‟Idea è un Mito, e come tale abbandonato dal naturalismo coerente di Aristotile. “Ogni singolo elemento” va mantenuto nel suo “contesto” strutturale, che Platone chiama symploke, ossia “combinazione reciproca delle idee” (metaxy tou apeìrou te kai tou henòs). Tale struttura è “logica” nel senso che riguarda il lògos, e quindi relativa all‟ordine del discorso corretto, cioè metodico, che fa della “parola uno dei generi dell‟essere”. Senza “discorso” non esisterebbe la “filosofia”, intesa dunque come “comprensione” e “comunicazione” dei “generi”. E senza discorso, ossia “se risultasse non essere affatto, non saremmo più in grado di dire alcunché”; cioè, senza “comunicazione” non esisterebbe neppure una “partecipazione” di alcunché all‟essere di alcunché d‟altro.43 In altri 43
Ivi, XLIV, 260 b.
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termini, organizzare il mondo in termini logici equivale a strutturarlo linguisticamente nell‟ordine del discorso razionale, nel cui ambito a noi è possibile comunicare e comprendere il diverso nell‟unico Essere. Posta l‟unità e compresenza di ogni cosa nell‟Essere, resta da definire il posto del non-Essere, ossia se esso sia in grado di mescolarsi all‟opinione e al discorso” che ineriscono per definizione all‟Essere. Infatti, “o il non-essere non si mescola ad opinione e parola, e allora tutte le opinioni e tutti i discorsi risultano veri; o questa mescolanza è possibile, e di qui nascerebbe opinione falsa e discorso falso. Che cosa è infatti l‟errore nel 44 pensiero e nel discorso, se non un opinare o dire ciò che non è?
Insomma, ammesso l‟errore, ammesso “l‟inganno” (apate), ossia la fantasticheria, l‟immaginario e l‟apparenza. Torna qui la “mimesi dell‟apparenza”, per la quale il non-essere non sarebbe esprimibile e quindi non sarebbe neppure apparente. L‟errore non esisterebbe, secondo il sofista. Ma il sofisma viene smascherato dalla conclusione che “il non essere partecipa dell‟essere”. In quali termini? Platone torna al modello linguistico in funzione analogica, ma considerando i “nomi”, anziché le “lettere” dell‟alfabeto, assumendoli come “elementi di una grammatica combinatoria che governa le associazioni e i rapporti”. 45 Questi elementi nominali (onòmata) sono significativi in senso unitario in quanto significativi nell‟ambito di un discorso che li comprende: sono, cioè, “nomi” in quanto espressivi (segni) di un‟azione (rhoe). Il significato correlato al segno fonico (o parola) è l‟Idea.46 Per Platone, si danno “due specie di segni fonici significanti, in relazione ad un significato, cioè all‟idea […]. Una è la specie dei nomi (onòmata), l‟altra quella dei verbi (rhemata)”, che significano “le azioni”. I “nomi” sono “segni fonici che indicano coloro che compiono quelle azioni […]. Orbene: se noi pronunciamo una sequenza continua composta di soli nomi, non potrà mai nascere un discorso; lo stesso, d‟altra parte, se pronunciamo una sequenza di verbi senza alcun nome”.47 Senza “un processori commistione e di combinazione tra nomi e verbi” non può nascere un discorso, che dia “indicazioni sulle cose che sono, o che 44
Ivi, XLIV, 260 c. M. Vitali, Loc. cit., pag. 105, n. 159. 46 Platone, Il sofista, XLV, 261 e. 45
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Ivi, XLV, 262.
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divengono, o già accadute, o che accadranno”, ossia che “esprima un senso compiuto”.48 Nondimeno, la tessitura del discorso deve riguardare “qualche cosa” che inerisca a una realtà giudicabile in sé, indipendentemente da ciò che di essa si dica nel discorso. Questa realtà in sé, di natura onto-logica, Platone la chiama “qualità determinata”, identificandola con una affermazione o negazione che abbia valore di verità, e che consenta perciò il giudizio di realtà riguardante il discorso logico. Ma “determinata” da che? Cosa “qualifica” tale realtà originaria, pre-logica, e sul cui fondamento ontologico va commisurato il giudizio di realtà? “Vera è quella [proposizione] che dice su [qualcosa di cui si parla nel discorso] le cose che sono come sono”, ossia indipendentemente da quello che di esse si dica, si opina. “Falsa, [è] quella [proposizione] che dice di [qualcosa] cose diverse da quelle che sono”.49 Questa relativizzazione del discorso opinabile ha dunque come guida veritativa, non già il senso dialettico interno al discorso logico, essendo questo manipolabile sofisticamente dalla tecnica combinatoria dei lògoi, ma un dato di realtà inopinabile al quale va corrisposta la recta ratio dell‟argomento logico, il quale pertanto conferma e rende cosciente, ossia svela, ciò che originariamente “è” già in sé ciò che “è”, indipendentemente da ciò che si pensi di esso. Questo vuol dire che il “vero” e il “falso” non sono nel discorso, ma prima di esso, e in esso vengono solo ri-velati. Già nel Cratilo si era detto che “il discorso che dice le cose come sono (tà ònta hòs éstin) sarà vero, quello che le dice come non sono (hos ouk éstin), falso”.50 Ciò significa stabilire una differenza tra la “asserzione”, che afferma il vero o il falso, e lo “enunciato” usato all‟uopo, che può pertanto servire asserzioni diverse, vere o false. La verità è dunque relativa non all‟enunciato, che può essere costruito tecnicamente in modo corretto, ma all‟asserzione, la quale non riferisce al costrutto linguistico formalmente corretto la sua plausibilità, ma alla corrispondenza del dire ai dati di realtà extra-linguistici, ontologici. Le asserzioni, dunque, possono essere significative ma non necessariamente vere. Il significato logico, riguardando il contesto linguistico convenzionale, inerisce qualità 48
Ivi, 262 d. Ivi, XLVI, 263 b. 50 Platone, Cratilo, 385 b 7. 49
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empiriche del discorso, relative a condizioni di fatto, che possono essere vere o false indipendentemente da quel contesto di significato. La verità del discorso, invece, inerisce alla corrispondenza del significato logico alla realtà ontologica, che non è soggetta a variabili condizioni di fatto ma le trascende per la sua indisponibilità a essere modificata dalla volontà dell‟attore del discorso. Per questo la relazione ontologica non è combinatoria e soggetta a una pura rappresentazione logico-formale, retoricamente strutturata secondo un ordine semanticamente coerente, in quanto non descrive alcun “fatto”, soggetto alla sua possibilità d‟essere o di non-essere, ma esprime solo se stessa, ossia la sua incoercibile necessità d‟Essere ciò che è. Resta da stabilire come possa essere conosciuta tale verità fuori del discorso logico. Il “discorso” logico (lògos) coincide con lo stesso “pensiero” (diànoia); questo “si svolge internamente, senza emissione di voce, come in un dialogo dell‟anima con sé stessa”, mentre l‟altro consiste in “quella corrente fonica che, partendo dall‟anima, viene emessa attraverso la bocca”. Il pensiero consta di “affermazione e negazione”, che nel “silenzio” interiore si chiama “opinione”, la cui “sensazione” che la provoca di chiama “immaginazione”. Da qui deriva che il pensiero può essere “vero” o “falso” e consistere in una “mescolanza di sensazione e di opinione”, cioè in un atto di “immaginazione”.51 La realtà interiore, silenziosa, è fatta di parole, con le quali si articola il “discorso”, la cui natura intima è ciò che propriamente si dice “pensiero”. Questo non fa che affermare o negare la verità, che dunque preesiste al pensiero. Per tale possibilità, il pensiero è “opinione” (dòxa), che va verificata della sua consistenza ideale. Ammettendo “la possibilità di un discorso falso e di un‟opinione falsa, non si potrà più negare che esistano imitazioni delle cose che hanno essere, e che da questa disposizione imitativa possa risultare una tecnica dell’inganno (apatetike). 52 La tecnica sofistica è “mimetica”, essendo la “mimesi […] produzione di immagini” (eidolopoiike), anziché di “enti reali”. Ma ciò significa che l‟opinione, in quanto produzione di immagini, è immaginazione, la quale consiste nella stessa produzione umana. I prodotti umani sono derivati, perché si servono di “materiali naturali”, i quali sono a loro volta “prodotto di una tecnica divina”. “Divino” è ciò che non dipende dalla produzione umana, ma da una produzione “spontanea” o “per natura”. E‟ 51 52
Platone, Il sofista, XLVI, 263 d-e; XLVII, 264 a-b. Ivi, XLVII, 264 d.
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chiaro che la produzione divina, non quella umana, consta a sua volta sia di “cose reali” (autopoìetikòn) che di “immagini” (eidolopoiikòn), per cui quest‟ultime, come sappiamo, possono riguardare copie perfette (mimesi icastica) ovvero semplici apparenze (phantastikòn). Ma copie di che cosa, se non dell‟Essere? E dunque apparenze dell‟Essere “falso”. La tecnica mimetica può esercitarsi sulla “non conoscenza” (agnosìa) del modello imitato, ovvero nella sua “conoscenza” (gnosis). Quando il modello sono le Idee, quelli che le imitano avendone “una pallida idea, cercano di far vedere che le posseggono realmente, facendo ogni sforzo, con azioni e con parole, per imitare quelle che, in realtà, non sono altro che loro vaghe opinioni”. 53 Dunque, l‟imitazione basata sulla “opinione” (dòxa) si dice “dossomimetica”, mentre invece quella che copia la “scienza” si dice “mimetica scientifica”. Quanto al sofista, “è certo uno che pratica l‟imitazione”, ma non è “tra coloro che posseggono scienza”, per cui è “un uomo dossomimetico”, il quale, se “crede sinceramente di sapere ciò su cui non s‟è fatto che qualche opinione”, è un “semplice imitatore”; mentre, se “vive nella continua paura e nel continuo sospetto di non sapere […] rotolando rimbalzando da un ragionamento all‟altro”, egli è un “simulatore”. Pronunciando “lunghi discorsi”, è “politico o oratore di piazza”; se invece agisce in privato con “brevissimi interventi” che costringono l‟interlocutore a “cadere in contraddizione”, egli è appunto “sofista” (sophistes).. Platone lascia cadere un argomento che invece è decisivo ai fini della determinazione della “scienza”, e relativo non alla differenza tra il vero e il falso discorso, ma alla “verità” in sé. Questa trascende l‟attività umana (anthròpinon) e ne è all‟origine, in quanto materia della sua trasformazione. La verità è “divina” non in quanto inalterabile, ma in quanto è in sé perfettamente sussistente, non destinata naturalmente ma solo umanamente a uno scopo. Infatti, la verità è ciò-che-è-perché-è. Ma essa può essere alterata dall‟azione umana. Le stesse false immagini del vero, non sono riportabili alla produzione naturale o mimetica divina, ma alla mancanza umana di comprensione, all‟opinione errata dell‟uomo, che altera ciò che non è soggetta ad opinione in quanto non diviene, ma persiste in eterno nel suo essere ciò-che-è. Vuol dire che l‟intervento umano non perfeziona gli enti divini e naturali, ma può alterarli, sicché la 53
Platone, Il sofista, LI, 267 e.
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determinazione dell‟Essere costituisce una infrazione all‟ordine naturale, il quale ordine, rispetto all‟essere delle cose umane, alla determinazione razionale del cosmo, è un non-Essere. Da qui l‟affermazione che “la tecnica di produzione, nel suo complesso, è una potenza capace di portare ad essere cose che prima non erano”.54 Il non-Essere, quale realtà opposta alla creatività umana, alla produzione d‟essere, è il luogo ideale in cui l‟Essere non esiste, ma esiste qualcos‟altro dall‟Essere: la verità. La verità è dunque la condizione d‟essere di ciò che non-è Essere. E poiché ciòche-è in essere è l‟ente, la realtà dell‟Essere è la sua esistenza come ente. Ma è tale identità ontologica a costituire a sua volta una insanabile contraddizione logica, poiché l‟esistenza dell‟ente, ossia di ciò-che-è, è legata alla sua possibilità, cioè alla sua attualità d‟Essere, ma a nessuna necessità. Infatti, ciò che è necessario che sia, non può non-essere. E ciò che non-è, non è neppure necessario. Ma come può l‟Essere necessario non esistere in qualche modo? Da questa necessità nasce l‟idea che l‟Essere possa esistere in altro modo rispetto alla sua attualità, in modo diverso da quello che attualmente “è”. Così, l‟Essere necessario, non potendo non-essere, può essere in altro modo rispetto alla sua necessità attuale, cioè rispetto alla sua determinazione come ente. Ciò significa che la possibilità è una modalità dell‟Essere al pari della necessità, e che la sua sussistenza non esclude dall‟Essere la necessità che l‟Essere sia, ma solo l‟assoluto non-Essere (tò medamòs òn). Questa stessa esclusione, non essendo riferibile all‟Essere senza negare l‟Essere stesso, cioè la sua necessità, è dunque riferibile solo all‟esistenza di ciò-che-è, ossia all‟attualità dell‟Essere. Ma la possibilità che l‟ente non-sia, conferma solo la necessità dell‟Essere, non già la necessità dell‟esistenza, ossia la necessità dell‟attualità dell‟Essere, consistendo in questa non-necessità la stessa possibilità, per cui la possibilità di esistenza, contraddicendo l‟idea di una necessità riferita all‟esistenza, entra in contraddizione con la creazione divina dal niente, poiché tale “ni-ente” è l‟Essere. E perciò, trarre l‟essere dal niente, non può che significare attualizzare l’Essere nel senso dell‟esistenza, nel senso dell‟ente. L‟Essere-attuale è dunque l‟esistente, ciò-che-è, l‟ente, il quale “è” l‟Essere determinato. Se ciò è vero, non si può trarre l‟Essere dal Niente, ma solo l‟esistenza dell‟ente dall‟Idea dell‟Essere, poiché il niente fa parte dell‟Essere come l‟opposto della sua attualità. Da qui la natura dialettica dell‟Essere, che 54
Ivi, XLIX, 265 b. pessimismo
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“può” essere o non-essere attuale, cioè ente, senza smettere di essere necessariamente se stesso, cioè appunto Essere. La possibilità di nonesistere fa parte dell‟Essere, che può essere attuale o non senza smettere di Essere. La possibilità, dunque, essendo elemento dialettico dell‟Essere, fa parte dell‟Essere, e non dell‟esistere, poiché esistere significa essereattuale, e ciò che è attuale “è”, e non può non-essere. Da qui la differenza tra l‟esistenza (sempre attuale) dell‟Essere e la possibilità (sempre inattuale). L‟attualità dell‟Essere come ciò-che-è, cioè ente, coincide con la sua necessità; viceversa, la possibilità riguarda sempre l‟Essere indeterminato, e quindi inattuale. Per cui la locuzione “trarre dal niente” è ontologicamente sbagliata, in quanto ogni esistenza è tratta dall‟Essere. Parimenti, la locuzione “portare ad essere” , vuol significare in realtà “portare ad esistere” ciò che prima dell‟esistenza non-era “attuale”. L‟attualità dell‟Essere, ossia la determinatezza dell‟esistenza, è l‟affermazione della necessità sulla possibilità insita nell‟Essere a nonessere-attuale, cioè a non-esistere, riguarda l‟apparenza dell‟Essere, ossia l‟Essere privo della sua possibilità, senza il Negativo. E quindi l‟Essere astratto. La possibilità, e non l‟attualità, costituisce dunque la concretezza dell‟Essere in quanto Essere e non ente. Considerare l‟esistenza come la realtà dell‟Essere – e non invece come la sua sola possibilità attuale, la sua attualità – significa identificare l‟apparenza con l‟essenza, ossia il fenomeno con l‟Essere stesso. L‟errore ontologico consiste nell‟identificare l‟Essere dialettico con l‟essere attuale, con l‟ente, il quale è l‟Essere astratto dalla sua possibilità, dal suo Negativo. E poiché il Negativo fa parte dell‟Essere, ogni assunzione astratta dell‟Essere coinvolge anche il Negativo, ed è questa la ragione del divenire di tutte le cose che “sono”, le quali, partecipando dell‟Essere come sua determinazione attuale, nello stesso tempo che “sono” anche “non-sono”, ed essendo attuali sono anche transeunti, per cui tutto ciò che “è” al tempo stesso “diviene”, ossia rientra nella possibilità dell‟Essere di essere qualcosa d‟altro da ciò che è attualmente. Ma questa è la ragione inoltre per cui ogni scienza, formulando ipotesi di realtà attuali, è destinata a essere smentita, poiché ogni sua teoria gnoseologica si costituisce sull‟attualità di ciò che “è”, a esclusione dell‟Essere possibile, la cui possibilità contraddice l‟attualità facendola divenire altra da sé. In tal senso, ogni teoria scientifica è astratta, in quanto fondata sull‟Essere attuale, astratto dalla sua possibilità, e poiché essa non conosce l‟Essere nella sua verità, è una “opinione”, la quale, 68
come ogni opinione, allo stesso modo in cui afferma l‟Essere nella sua attualità, cioè esistenza, lo nega nella sua possibilità. Sia l‟affermazione d‟Essere che la negazione hanno lo stesso oggetto, il quale è per l‟appunto oggetto di “opinione” controvertibile. Soltanto ciò-che-è è opinabile, riguardando nello stesso tempo anche la possibilità di nonessere-attuale. Tutto il sapere fondato sull‟apparenza dell‟Essere attuale, cioè sui fenomeni, è una conoscenza “mimetica”, basata sulla “opinione” (dòxa), e perciò controvertibile da un‟opinione diversa. Ogni resoconto storico, essendo fondato sull‟opinione di ciò che è o non-è, rappresenta una realtà astratta dalla sua possibilità, e quindi espressione di un pensiero esclusivo, e non dialettico. Ogni rappresentazione della realtà astratta dalla sua possibilità, è contraddittoria, e come tale suscettibile di essere presa ad oggetto di altra opinione, la cui affermazione di realtà libera la precedente opinione della sua necessità trasformandola in phantasìa, in racconto immaginativo, mitico. Rispetto alla concretezza dell‟Essere dialettico, l‟essere astratto oggetto della storiografia assume come reale solo l‟Essere-che-è, l‟apparenza, fissata nella sua attualità. Proprio perché astratto dal suo divenire, l‟essere storico è “mimetico” e non “vero”, e come tale la sua rappresentazione è sofistica. Ogni rappresentazione razionalistica o scientifica, che eluda dalla conoscenza dell‟Essere la realtà opposta a quella attuale e fenomenica, è un pensiero “mimetico”, e come tale “sofistico”, inerente indifferentemente all‟affermazione o alla negazione della stessa realtà dell‟Essere, e quindi teoreticamente la sua relatività lo costituisce come una forma di dossologia, e non di vera sapienza. 8. Dal momento che la realtà apparente occupa l‟orizzonte della conoscenza umana, lasciando in ombra il lato oscuro dell‟Essere, la conoscenza storica, che riguarda tale apparenza contingente, lascia in ombra la stessa necessità che, riferita all‟Essere, ne costituisce il suo “mistero”. La vita umana appare infatti ad Esiodo un “mistero”, in quanto gravata della necessità (ananche) che ogni suo aspetto sia precario e mortale. La meraviglia e l‟angoscia originaria dell‟uomo – il thàuma – coincide con l‟esperienza stessa dell‟Essere, della sua contraddittoria costituzione dialettica, che è la realtà della vita. La risposta al male di vivere è il “mythos”, la “fabula”, il racconto rassicurante intorno al destino mortale dell‟uomo. Il mito di Prometeo narrato nella Teogonia tratta del destino infelice dello homo faber, che rubando la potenza del 69
fuoco agli dèi, si vota alla sua infelicità mondana, pagando la sua astuzia e la sua frode con il “gran cordoglio” che Zeus gli inviò sotto forma di gioioso “malanno”, ossia creando per lui la donna, Pandora, che aprì vaso che racchiudeva i mali ai quali l‟uomo deve la sua infelicità esistenziale, lasciandovi dentro solo la speranza, lo strumento per lottare contro gli stessi mali: l‟attesa del bene futuro, la quella virile fermezza che secondo Archiloco consentiva di superare il dolore. Dunque per Esiodo i mali stessi contengono in sé il germe da cui può nascere il loro superamento. [Il lavoro per l‟uomo è sudore, ma] non è una maledizione che,come nell‟Antico Testamento, gli venga da Dio in funzione della sua caduta, ma è connesso con la sua natura e può convertirsi in una benedizione. Infatti il lavoro è il mezzo per vincere il peso dell‟esistenza e per raggiungere con la propria attività una condizione soddisfacente. La vita non è facile, ma rimane la speranza, e non esiste ragione di 55 abbandonarsi ad una stanca rassegnazione o,peggio, ad un disperato pessimismo.
Il thàuma originario dell‟uomo è la condizione contraddittoria del vivere, che espone l‟uomo al dolore e al bisogno di superarlo col lavoro. Il lavoro si presenta già in Esiodo come il rimedio al male di vivere. Il lavoro è la trasformazione del male in bene, la conversione degli enti divini o naturali in opere umane. Il destino dell‟uomo è in tale trasformazione operosa, che trasforma la materia in realtà spiritualizzata, in “fatto” del suo lavoro. Il “fatto” manuale di Esiodo diventa opera intellettuale n Platone, il quale, nel Simposio, fa del‟Eros il figlio di Poros e di Penìa, la creatura degli opposti genitori di ogni desiderio umano, che perciò ha dell‟uno e dell‟altra l‟essenza ideale. Questa cognizione doveva moderare ogni pretesa umana e dare equilibrio e moderatezza alla stessa fortuna, per scongiurare la sventura provocata dall‟invidia degli dèi (), ossia la superbia () emulativa. Ma l‟invidia divina è la stessa instabilità delle opere umane, ossia la condizione dell‟esistenza precaria dell‟uomo. Da qui l‟ambizione più alta per il Greco, essere ricordato, la memoria dei posteri, ossia la gloria, che sconfigge la misura umana, il limite toccato ai mortali, che segna la differenza dalle cose divine e stabilisce l‟ordine cosmico. A partire da Eschilo, i tragediografi attici “considereranno loro compito specifico esporre a tutto il popolo la storia sacra secondo l‟interpretazione 55
M. Pohlenz, L‟uomo greco (1947), tr. it., Firenze, 1962, pag. 150.
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della propria fede e risolvendo nello stesso tempo, e in tale quadro, i più astrusi enigmi della vita umana”. 56 L‟azione umana e la sofferenza che oppone il destino al volere degli uomini sono i termini dialettici della tragedia, la sua “anima”. 57 In questo ordine universale da una parte è stabilito che l‟uomo possa prendere liberamente le sue decisioni, dall‟altra che egli sopporti le conseguenze dei suo operato. […] Il conflitto tra il volere dell‟uomo e il destino posto fuori dell‟uomo […] trova la conciliazione […] nella fede in un giusto ordine universale, il cui garante è 58 l‟onnipotente Zeus.
Se umana è la contraddizione, e umano pertanto il Male, cos‟è “divino”? abbiamo stabilito che l‟Essere è contraddittorio, e dunque diviene. E che l‟opera umana cerca di trasformare il divenire universale dell‟Essere in un prodotto stabile, durevole, capace di sopravanzare per quanto possibile l‟edacità di ogni cosa, ossia di fronteggiare il destino. Tale attività umana consiste nel trascegliere dell‟Essere l‟elemento positivo, attuale, fenomenico, negando allo stesso modo l‟elemento negativo, che produce il movimento dell‟Essere e quindi ne contrasta l‟attualità positiva. Trascegliere significa distinguere, e distinguere vuol dire separare nel giudizio ciò che “è” da ciò che “non-è” attuale, chiamando questa attualità dell‟Essere “realtà” e l‟inattualità “fantasia”, ovvero “scienza” del certo e “immaginazione” del possibile, che sono tutti sinonimi di “essere” e “non-essere”. Identificando l‟Essere dialettico con la sua effettualità determinata, cioè con la sua attualità, il giudizio di realtà definisce l‟Essere-che-è come ente, per cui la conoscenza “scientifica” della realtà fenomenica inerisce alla sola realtà esistentiva, alla fattualità della “cronaca”. La realtà dell‟Essere dimidiato del suo opposto negativo, della sua possibilità inattuale, è il prodotto dell‟attività umana, la quale perciò consiste nel separare l‟Essere dal suo Negativo e utilizzare il solo positivo come strumento della volontà dell‟uomo di costruire una realtà priva di divenire, stabile nel suo essere attuale analogo all‟Essere ideale. L‟Essere-che-è, l‟ente fenomenico, “è” la realtà oggetto del giudizio, e 56
M. Pohlenz, Op. cit., pag. 157.
57
Ivi, pag. 158.
58
Ivi, pagg. 159 e 161.
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che esiste solo in virtù di quello. E‟ questa realtà idealizzata a costituire l‟essenza della volontà umana, la sua attività storica. L‟idealizzazione della realtà avviene attraverso una rappresentazione dell‟Essere che è il contenuto del “racconto” mitico. Il giudizio di realtà, l‟opera trasformatrice dell‟uomo, la sua attività poietica in generale, pratica e noetica, si fondano tutti su una originaria scelta ontologica che assume dell‟Essere solo ciò che “è”, negando ciò che di esso “non-è”. Su questa scelta ontologica, che si basa su una intuizione di fede, - cioè su una credenza secondo la quale l‟Essere “vero” è, e quello “non-vero” non-è. L‟uomo storico edifica le sue forme di civiltà, espressive della rappresentazione che egli fa dell‟Essere. Il fondamento epistemico della conoscenza umana, da cui procede ogni logicamente conseguente rapporto di verità analogica, consiste in una scelta ontologica originaria, la quale, nella cultura greco-classica, è stata quella di preferire l‟Essere al non-Essere, indicando come “realtà dell‟Essere” la sola forma fenomenica degli enti, indicata come Idea, come Civiltà o come Storia. Il mondo “reale” della vita, oggetto della conoscenza “certa”, ossia della scienza, “è” in quanto astratto dalla negatività dell‟Essere, dal suo “mistero”. Ma tale conoscenza astratta conosce l‟Essere nella sua “attualità”, e non nella sua “verità”, che è aletheia, priva dell‟oblio del Negativo. La verità dell‟Essere trascende la scelta ontologica, oggetto della conoscenza umana, giungendo a concepire l‟Essere stesso nella sua condizione originaria, pre-giudiziale. Per tale ragione la tecnica logica approntata da Platone nel Critone e nel Sofista non può costituire il linguaggio della verità, ma solo il linguaggio della ragione strumentale, funzionale alla attività umana trasformatrice dell‟Essere in Essere-attuale, in ente esistente. Il linguaggio veritativo non è “poietico”, in quanto non opera nel senso della trasformazione del‟Essere in altro-da-sé, in diverso, ma si limita a contemplare l‟Essere nella sua inseità eterna e incorruttibile, non disponibile alla fruizione umana. L‟Essere dialettico, che è e insieme non-è, non è l‟essere della Storia cronachistica, che diviene altro dall‟Essere originario come prodotto umano, “fatto”. Ogni “fatto” umano è intrinsecamente contraddittorio in quanto è posto dalla coscienza come suo prodotto, e come tale ideale; nel contempo, però, come ente esso è legato al divenire, e quindi in opposizione con l‟Essere ideale. Non essendo né prodotto eterno e neppure mera entità naturale, il 72
“fatto” umano nega con l‟esistenza ciò che l‟esistenza stessa afferma, ossia l‟Essere, e questa affermazione che è negazione costituisce il destino stesso della libertà del volere umano, sospeso tra la possibilità e la necessità dell‟Essere. In questo senso la Storia umana è processo di Libertà, ma tale travaglio non “libera” l‟uomo dalla necessità dell‟Essere, ma lo induce a creare una realtà parallela a quella divina e artificiale, in cui l‟incessante possibilità dell‟Essere coincida con l‟attività umanamente controllata del Fare, la cui razionale organicità, nel mentre lo emancipa dalla necessità della natura, lo vincola alla necessità non meno cogente del sistema regolamentale. Da qui la insuperabilità della tragedia esistenziale dell‟uomo, dovuto al destino stesso della sua volontà razionale, in lotta sia contro la necessità dell‟Essere divino o naturale, che contro la necessità dell‟essere sociale e della sua civiltà. La scelta per l‟Essere-che-è è il fondamento della logica strumentale e formale, che giudica la realtà distinguendo ciò che “è” da ciò che “non-è” logico, ossia razionalmente coerente col fondamento d‟Essere originario, che Platone chiama Bene, il quale costituisce anche il fine del metodo dialettico, che lo identifica col suo principio. Nel Fedone, Platone chiama “divino” il Bene, che è l‟essenza di Dio. Ma proprio in quanto identificato col Bene – ossia con l‟essenza dell‟Essereente – Dio stesso è concepito da Platone come un ente, sia pure sommo. Il Bene o l‟essenza dell‟Essere esistente, è la sua forma ideale. “Ideale” non è l‟Essere in sé, ma l‟Essere pensato dall‟attività umana come la sola realtà ontologica, quella cioè mondata del Negativo e quindi astratta dal divenire. Tale realtà ideale astratta viene chiamata “anima”, e il Negativo “corpo”. Perfezione assoluta possiede veramente soltanto lo spirito immateriale, la forma pura; ma presupposto di ogni movimento e d‟ogni vita è che l‟essere singolo, l‟essere legato alla materia, tenda, consapevolmente o no, a quella perfezione, mentre il finalismo immanente alla natura fa sì che già l‟individuo attui tale tendenza nello ambito della 59 sua sfera.
Se l‟essere-che-è viene dal Niente, l‟Essere in sé, prima della sua esistenza, è Niente, e non Essere. La sua determinazione segnerebbe con l‟esistenza anche la trasformazione della sua essenza. Solo se il Niente fosse consustanziale all‟Essere, la determinazione d‟essere equivarrebbe a 59
M. Pohlenz, Op. cit., pag. 169.
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una privazione del negativo, tale che l‟ente, ossia l‟esistenza, sia la forma astratta dell‟Essere dialettico. Se l‟esistenza dell‟Essere come ente è il risultato dell‟attività umana, questa consiste nella rimozione del divino dalla natura originaria, che il “fatto” umano abbandona e nega. Il divino e non-umano è il Niente che viene rimosso dall‟Essere per affermarne l‟esistenza, e a cui l‟ente stesso è diretto per suo divenire altro da sé. Il Niente in cui ogni esistenza è sospesa tra il prima e il dopo della sua attualità, è la realtà divina da cui tutto ha origine e a cui tutto tende. L‟attività umana che opera il “passaggio” dall‟Essere all‟esistente, dall‟Idea all‟ente, segna la civiltà storica; e tale “passaggio” all‟esistenza è la Storia dell‟umanità, l‟entrata nel tempo profano, nella creazione della realtà positiva astratta dal Negativo originario, principio di ogni esistenza. L‟emancipazione dell‟esistente dall‟Essere in sé coincide con la profanazione del divino, 60 inteso come Niente che viene abbandonato nella separazione come il Negativo dal Positivo. Negativo in cui si compendia tutto ciò che “non-è” e che rimane all‟Essere originario come il Niente da cui proviene e ritorna ogni esistente. La civiltà nasce come negazione di una negazione e affermazione dell‟essere, di ciò che l‟Essere “è” attualmente come ente. La scelta ontologica a favore dell‟esistenza suppone un ottimismo etico, che il Bene sia conseguibile solo a partire da quella scelta, che essa sola sia in grado di assicurare all‟uomo la felicità (eudaimonìa) sotto forma di ordine razionale del mondo o Bene. Il kosmos come prodotto di ragione e creazione artificiale dell‟uomo, è la proiezione teleologica di quella credenza ontologica. La visione naturalistica classica assegnava alla ragione umana il compito di conformarsi all‟ordine divino, ma non si dava ragione dell‟ordine sociale artificiale, assumendolo come un dato anch‟esso di natura. Per la visione antropocentrica moderna, la ragione umana corregge la stessa opera divina, perfezionando l‟ordine naturale della creazione spontanea. A parte il Protagora, il dialogo platonico dove si fa viva l‟esigenza del Bene o unità ideale del mondo sulla molteplicità delle opinioni, è il Critone, dove Socrate esplicitamente dichiara di preferire le opinioni degli “assennati” a quelle dei “dissennati”, ossia il giudizio dell‟ “esperto” a quello di “tutti gli altri insieme”. 61 Solo il parere dell‟unico 60
La “città terrena” inizia con l‟omicidio di Abele da parte del fratello Caino. Ved. K. Loewith, Significato e fine della storia, tr. it., pag. 195. 61
Platone, Critone, 47 a-c.
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() che è competente può meritare il rispetto del saggio, per cui “non dobbiamo darci affatto pensiero di quello che di noi potrà dire la gente, ma solo di quello che dice colui che si intende delle cose giuste e di quelle ingiuste, il quale è uno solo ed è la sua stessa Verità” ().62 L‟Uno, dunque, è la Verità, ossia il Bene. In riferimento all‟opinione pubblica, l‟Uno non è il giudizio occasionale dei molti, passionale e mutevole, ma quello della ragione, che interpreta “l‟unità civica” (), la koinonìa ideale o etica della cittadinanza, e la rappresenta logicamente, non quantitativamente, per rappresentanza numerica, cioè idealmente e non democraticamente. E‟ in virtù di questa ideale cittadinanza che Socrate può interpretare i nòmoi della pòlis a maggior ragione degli stessi cittadini e degli stessi organi istituzionali, ai quali legalmente nondimeno deve ubbidire, anche se incompreso e ingiustamente condannato. Proprio il Critone, insieme alle Leggi, costituisce il paradigma teorico della “volontà generale” su cui ragionerà Rousseau per distinguerla logicamente dalla volontà popolare, da quella “opinione dei più” che Socrate invita a non considerare decisiva ai fini della determinazione del Bene. Da queste premesse consegue l‟ammonimento platonico a non commettere in nessun caso l‟ingiustizia, sia pure a risposta di un‟altra ingiustizia, poiché perseguire il Bene è un valore non circostanziale ma universale, non condizionato da situazioni contingenti, quale, ad es., il rischio della stessa vita di un innocente. Ma cosa intende Platone per “ ”? 63La “unità civica” o “dei cittadini” è la rappresentazione plastica, la prosopopea, dell‟opinione pubblica, che in un momento storico determinato propende per una certa tesi, socialmente dominante e simbolicamente rappresentata dalla folla o dalla piazza. Il “to koinon” è il neutro volto della folla che testimonia la sua opinione, senza però alcun necessario supporto di ragione. La folla congiunta nel comune giudizio, unita dalla stessa opinione, non rappresenta la ragione, il lògos; non è l‟unità ideale che incarna il giudizio veritativo, ma l‟unità politica, ossia la forza sociale, che non impersona di per sé il Bene ma la semplice volontà pratica del 62
Ivi, 48 a.
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Platone, Critone, 50 a.
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numero. L‟unità politica è una koinonìa contingente, maggioritaria ma non razionale, e perciò esposta a variazioni umorali e contingenti, molteplici e anche contraddittorie. E‟ l‟unità della dòxa condivisa, dell‟opinione transeunte, a fronte della eterna unità del Vero, che è l‟essenza razionale del Bene, e che costituisce la meta e il fine della saggezza, qualità non di appannaggio del popolo passionale. Anche quando la forza sociale, il potere politico, possono decretare sulla vita e sulla morte dell‟uomo, infierendo sulla parte politicamente più debole, non potranno avere la meglio, in virtù del loro potere, sulle ragioni ideali, che permangono salde e intatte al di là di ogni conferma o comprensione contingente. Critone perora la causa maggioritaria presso chi incarna la ragione ideale. La causa di Critone è perduta in partenza, poiché le ragioni ideali alle quali Socrate aderisce non valgono in virtù di quell‟adesione, ma resterebbero tali anche quando, per ipotesi, Socrate si lasciasse persuadere stoltamente dal generoso ma ingenuo amico e discepolo. Ciò che vale, infatti, è indipendente dal riconoscimento umano, perché l‟Idea trascende la realtà fenomenica, e merito precipuo dell‟uomo, la sua virtù (areté), è riconoscerla e seguirla, non contrastarla o negligerla. Il discorso del filosofo, osserva Socrate, non è la ciarla del bambino, che perde il suo senso appena dismesso il gioco che assegna le parti ludiche.64 Il popolo è “bambino” , e può scambiare la discussione teoretica dei filosofi come un perditempo, un gioco, appunto; ma bambini non sono i filosofi, i quali non rinnegano i loro princìpi sol perché ne hanno da temere le conseguenze (come invece insegna l‟etica utilitaristica). Proprio perché il “corpo sociale” dei cittadini non può pareggiare lo “spirito” delle leggi, che lo trascende, il saggio non può premettere alla verità ideale la sua fisica incolumità e sottostare pertanto alla forza politica dimentico delle ragioni morali del suo dissenso. Politicamente Socrate ha perduto, e perciò è perduto di fronte al verdetto penale. M nella regione dove lui rappresenta il Bene e il Vero, il luogo ideale ed eterno delle Idee, egli è vittorioso e sarà riconosciuto tale da quanti avranno la possibilità di raggiungerla. Ognuno si sceglie il suo posto al mondo, ed è responsabilità degli altri riconoscerne la giustezza o l‟incongruità. 64
Platone, Critone, 49 a-b. Sulle analogie e differenze tra la figura di Socrate e quella di Gesù, ved. A. Boudart, Socrate e Gesù. Due ideali a confronto (1999), tr. it., Lungro di Cosenza, 2002.
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Alla sua veneranda età, Socrate non può cambiare il suo posto di filosofo con quello del sofista opportunista, che cerca di ammansire il pubblico con gesti pietosi e ad effetto, imbonendo la giuria con falsi pentimenti e per private ragioni familiari. Era in gioco con lui, non la sorte personale, del singolo marito e cittadino e padre e amico, ma la prova stessa della credibilità del retto filosofare, non sofistico e retorico. Un filosofare sofferto sino all‟estremo rigore logico ed estreme conseguenze esistenziali, che costituiranno il prodromo morale della stessa passione religiosa del Cristo. 9. Lo sforzo filosofico di Platone fu quello di dimostrare che dietro, od oltre, la realtà sensibile, oggetto della conoscenza scientifica, vi è una realtà ideale, invisibile ed eterna, che l‟esperienza e l‟osservazione empirica non possono cogliere. Una realtà, quella ideale, che non si lascia cogliere dai fallaci sensi umani a riprova della sua perfezione, testimoniata anche dalla necessità di una metodica introspezione spirituale da parte del filosofo, l‟unico che, coi suoi ragionamenti a priori sia in grado di conoscerla. Se il Fedone, che a detta di molti costituisce il documento teoretico fondativo della metafisica occidentale, rivela l‟importanza dell‟aura esistenziale in cui maturano le riflessioni filosofiche, rappresentando lo scenario surreale della vigilia di morte di Socrate come la premessa emozionale della razionalizzazione degli eventi mondani, è nell‟Eutifrone che Platone descrive la natura corrosiva del pensiero “dialettico” nei confronti delle false verità tradizionali, alle quali la ragione oppone un atteggiamento disincantato e dissacratore, tendente a dimostrare l‟inconsistenza logica delle credenze mitiche non suffragate da una legittimazione razionale. Questo dialogo, dove l‟ironia socratica sembra indulgere implacabilmente sull‟ingenuo fideismo di Eutifrone, fino a infierire in senso dissacratorio sui suoi motivi più riposti, se sogguardato dal punto di vista della fede ci appare in tutta la sua drammaticità morale, opponendo due modalità di parricidio ideale, perpetrato, o in nome della fede, come quello prototipico di Urano, o in nome della ragione, ma in ogni caso inevitabilmente, come se fosse l‟esito necessario di una contesa ineludibile, perché ingaggiata dai rappresentanti delle opposte culture ateniesi: quella del disastro e quella della speranza. Sotto questa luce religiosa, Platone – e Socrate per lui – non appare come 77
il cinico dissacratore della tradizione mitologica, ma invece, al contrario, come la sofferta coscienza proprio della sua religiosa inconsistenza, inetta a fondare epistemicamente il senso della verità, e quindi dello stesso discorso logico che su quel fondamento deve poggiare per essere credibile. In questo senso, la critica alla religione mitologica coincide con la ricerca di una più adeguata fondazione protologica del discorso filosofico, della quale egli dava acquisita l‟importanza per il filosofo consapevole. L‟interrogativo che aleggia implicitamente in tutto il dialogo, e che è reso ancora più pressante dal contesto tragico-comico che fa da cornice al dialogo, dominato da una figura alquanto caricaturale come quella di Eutifrone che tenta una causa contro suo padre ritenendo empio il suo comportamento, è : “Come poteva un tale fondamento ontologico impedire la catastrofe della civiltà greca?”, di cui Platone era spettatore, e che nella condanna a morte di Socrate aveva raggiunto il suo tragico acme. Di quella catastrofe Eutifrone era l‟erede morale inconsapevole, che avrebbe perpetrato il suo delitto di parricidio, non a causa del pensiero di Socrate, ma senza quel pensiero, che perciò viene rappresentato da Platone non come causa ma come il rimedio del male. Male che andava pertanto individuato fuori della filosofia, ossia entro lo stesso pensiero mitologico che l‟aveva favorito e legittimato. La riforma filosofica platonica aveva dunque il sotterraneo scopo di emendare la tradizione di quegli elementi fideistici che avevano minato la consistenza razionale dei fondamenti ideologici della socialità greca, ossia si proponeva di rivederne criticamente le premesse, alfine di scongiurarne l‟altrimenti inevitabile epilogo oclocratico e dissolutorio. Platone, attraverso lo strumento tecnico-letterario del dialogo drammatico, si propone di osteggiare la decadenza culturale del suo tempo cercando nuove forme mitopoietiche di rappresentazione della realtà, più efficaci di quelle sperimentate dalla classica tragedia attica. Il Socrate platonico è il nuovo Edipo sofocleo, un eroe morente che però non fugge in cielo a Colono ma accoglie il suo destino terreno con una fermezza divina; che non è cieco, ma anzi con l‟occhio della mente vede più lontano dei suoi stolti aguzzini. E proprio a proposito dell‟Eutifrone, come non pensare all‟Edipo re, le cui disgrazie sono ambientate in un contesto di umanità illusa di sapere ciò che invece non sa? Se Sofocle imbastiva le sue tragedie sulla trama di miti conosciuti, creando perciò un durevole effetto catartico che affondava nei sentimenti primigeni dell‟uomo, Platone 78
rifonda il mito sostituendo al suo pensiero non semplicemente un‟altra versione, razionalmente equivalente, ma una versione “vera”, logicamente fondata e capace di superare le prove più dure della vita in quanto offerente una visione del mondo non circostanziale e solo contestualmente credibile per retaggio religioso, ma universale ed eterna, perché fondata sulla realtà immortale e necessaria delle Idee. La tecnica drammaturgica platonica affida al nuovo corso del pensiero una missione essoterica a scopo divulgativo, in grado di rappresentare, attraverso i protagonisti filosofici, un nuovo modo di concepire il mondo e i rapporti umani. E nell‟ottica delle intenzioni pedagogiche del pensiero platonico va anche inquadrato il problema dei rapporti tra la sua produzione scritta, destinata alla divulgazione erga omnes e le dottrine orali, limitate a un confronto dialettico tra filosofi iniziati alle questioni più sottili e delicate. 65 Eutifrone è un dialogo che può apparire “aporetico” solo se considerato spaiato dagli altri aventi per contenuto la Verità e la conformità ai suoi dettami. Essendo sacro, ossia immutabile e non dipendente dalla volontà umana, il contenuto del Bene, la stessa Verità, “santo” è chi se ne fa portatore fedele, ed “empio” chi vi si oppone o lo nega. Eutifrone è l‟accusatore in un processo in cui egli, querelandosi contro suo padre, accusandolo di omicidio di un suo servo, figura nella parte di un ideale parricida, situazione simile a quella in cui viene a trovarsi Socrate, accusato a sua volta di aver attentato alla religione dei padri, e perciò parricida a sua volta. Casi apparentemente analoghi, ma a parti invertite, in riferimento alle posizioni processuali. L‟analogia consiste nella legittimità in cui, nei rispettivi casi, è tenuto il parricidio secondo l‟ordinamento della città, e secondo l‟ordine del ragionamento logico. Il dibattimento penale, dunque, segue il suo corso, in cui ogni parte ha il suo ruolo precostituito dalle leggi. Ma, parallelo ad esso, Eutifrone e Socrate ingaggiano un dialogo filosofico in cui le parti non sono prefissate e dove i deuteragonisti si fronteggiano pariteticamente in vista di un responso per entrambi soddisfacente perché improntato sul criterio del Vero e del Giusto, e non sull‟opinione dei giudici, potenzialmente fallace e mutevole. 65
Sulla questione e la relativa letteratura, ved. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte” (1984), Milano, 2010 22.
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Rispetto agli altri dialoghi socratici, qui non abbiamo un dialogante filosofo, però,ma un sofista inconsapevole, che non sa di non sapere e crede stoltamente di sapere ciò che in realtà non sa. E Socrate vi figura come un ironico apprendista che chiede al presuntuoso maestro di accoglierlo come suo discepolo e insegnargli le sue verità. Eutifrone appalesa la sua stoltezza accettando l‟offerta di Socrate, ingaggiando con lui un dialogo dove egli presume di avere la parte del maestro e la condiscendente sicumera di chi possieda la verità a buon mercato, ossia senza la necessaria verifica critica della dialettica. Infatti Eutifrone si ritiene portatore di verità tradizionali, rifacendosi, per analogia del suo caso, al parricidio di Zeus verso il padre Cronos e di questi verso il padre Urano, chiamando il comportamento degli dèi a modello del suo proprio. Ma contro la “azione” di cui discetta Eutifrone, Socrate oppone la “idea”, e all‟ “esempio” la “essenza” dell‟agire. La questione parrebbe tutta teorica e di principio, ossia formale. In realtà, la convergenza sui principi non risolve la questione della conformità ad essi nell‟agire pratico. L‟esortazione che in chiusura di dialogo Socrate fa a Critone di adeguarsi alla via indicata dal dio, che è quella stessa desunta dalla ragione, qui diventa problematica, perché la controversia non è se la volontà divina vada seguita, ma se le azioni umane siano o non conformi a essa. La questione, dunque, non è propriamente sulla “essenza”, ma su ciò che vi corrisponde umanamente,e quindi sulla corrispondenza della prassi al modello ideale, individuato il quale non si risolve il problema della sua conformità. In altri termini, la discussione no verte (solo e tanto) sull‟Essere ideale, ma (soprattutto e principalmente) sul dover-essere, ossia sul giudizio storico o pratico. Il metodo dialettico che abbiamo desunto dal Sofista, discerne ciò che dell‟Essere va giudicato essente, cioè attuale, da ciò che viene negato all‟esistenza. La scelta qui non è tra l‟Essere e il Nulla, ma tra l‟essere dell‟ente e il non-essere come altro. Non è in discussione, cioè, l‟Essere dell‟Essere, la sua sussistenza, ma l‟essere dell‟Essere, ossia la qualità determinata dell‟ente. Solo sull‟ente è possibile un giudizio controverso, in considerazione della natura molteplice degli enti, che possono esistere senza essere determinati, ossia senza partecipare delle qualità ideali dell‟Essere. L‟Essere, invece,essendo Uno, non è suscettibile di controversia. Ma è a questo punto che la questione si complica, poiché il giudizio degli dèi viene da Socrate spostato apparentemente sulla “essenza” ideale, mentre in realtà esso concerne il giudizio ontologico sotto “forma” di giudizio 80
logico: ossia la scelta dialettica dell‟essere anziché del non-essere. Ma che anche il non-essere esista, ormai lo sappiamo bene, per cui la scelta che si pretende ontologica è in realtà il prodotto del giudizio logico, che fa credere nell‟identità dell‟essere con l‟Essere e del non-essere col Nulla. Ma questa è appunto una credenza, un giudizio fideistico, che non può riguardare l‟Idea, che solo logicamente ed esistentivamente “è”, ma che in se stessa coincide con l‟Essere dialettico, che insieme è e non-è, senza smettere di essere se stesso. Se dunque l‟Essere è inclusivo del non-essere-attuale, ossia ha in sé la possibilità d‟essere, e quindi di divenire, il giudizio logico distingue ciò che “è” dal divenire stesso dell‟Essere, cioè dalla negazione della sua attualità, che pure è compresa nella sua costituzione dialettica. Ma questa stessa distinzione si basa sulla credenza che la determinazione positiva dell‟Essere, il suo essere-ciò-che-è, sia l‟Essere stesso. Questa credenza può essere contestata dalla credenza opposta secondo cui l‟Essere sia il non-essere attuale, cioè un‟Idea, e quindi il Vero e il Giusto. Questa logomachia è appunto lo scontro delle opinioni, che affermano e negano con la stessa e opposta fede, ma senza una fondata ragione. Portare la questione dal piano ontologico a quello logico, come propone surrettiziamente Socrate, ingenera la spirale dialettica in cui si avvolge Eutifrone, ma non è risolutivo, poiché anche il giudizio logico basa la sua legittimità razionale sul fondamento di credenza che l‟Essere sia l‟ente astratto dal suo divenire, ossia un‟Idea. Ed è questa logica formale che Platone chiama “dialettica”, la cui astrattezza emerge quando, come nell‟Eutifrone, è in discussione proprio la corrispondenza dell‟ente con l‟Essere, in cui paradossalmente viene praticamente negata nell‟atto stesso in cui viene teoricamente affermata. L‟esito paradossale e contraddittorio è inscritto nello stesso metodo “dialettico” in senso platonico, ossia entro lo stesso giudizio formale, il quale, distinguendo il diverso da ciò che “è”, crede di escludere dall‟Essere il non-essere, ritenendolo il Nulla, mentre il non-essere è soltanto l‟altro da ciò-che-è-attuale, ossia l‟essere-possibile, il divenire potenziale dell‟Essere incluso nella sua essenza dialettica. L‟errore ontologico è provocato dalla credenza che l‟Essere sia l‟ente (= ciò-che-è), cioè il solo Essere attuale; credenza che consente la sola possibilità del giudizio distinguente tra ciò che “è” da ciò che “non-è” attuale, ma che non consente la distinzione fondamentale tra essenza ed esistenza, concependo l‟essenza come una esistenza senza divenire, il 81
modello astratto di un ente: una Idea, appunto. Il giudizio logico afferma l‟ente negando la sua possibilità, ovvero afferma l‟attualità dell‟Essere negando il divenire dell‟Essere, trasformando questo in ente ideale. Il passaggio dall‟Essere all‟ente coincide col giudizio di esistenza, la cui affermazione nega il negativo immanente all‟Essere astraendo l‟ente dal divenire. Questa attività è ciò che Platone chiama “dia-lettica”, che nel campo pratico costituisce la produzione del “fatto”. In tal senso il prodotto che partecipa dell‟Essere attraverso il giudizio di realtà è un participio: un fatto che è prodotto del Fare. Ogni ente partecipa dell‟Essere come prodotto del Fare, la cui attività è il risultato di un giudizio distinguente ciò che “è” fatto da ciò che non lo è, e che rimane all‟Essere originari come possibilità. E poiché ciò che rimane all‟Essere non-è “fatto” umano, prodotto del suo giudizio di realtà, il residuo ni-ente immanente all‟Essere è divino. Divino è pertanto ciò che non-è posto in essere, che non è attuale, e che rimane possibile nella volontà degli dèi, e pertanto inconoscibile. Da questa consapevolezza ha origine il sentimento del Mistero e la teoria della inconoscibilità del Lògos, che tanta parte avrà nella cultura cristiana, e sarà oggetto della gnoseologia negativa di Cusano, quale risultato estremo della logica platonica. Lo sviluppo interno di questa logica supera, come abbiamo visto, l‟assioma della fede ontologica che l‟Essere “è” (l‟ente), scoprendo all‟interno dell‟Essere anche la sua possibilità d‟essere ciò-che-non-è, di essere, cioè, altro-da-ciò-che-è. Il giudizio di realtà, astraendo dalla possibilità d‟essere dell‟Essere, ossia di essere ciò-che-non-è-attuale, e di esser-altro-da-ciò-che-è, distingue l‟ente dal ni-ente, affermando l‟identità dell‟Essere con l‟ente e negando il divenire. Astraendo la attualità dalla possibilità, cioè l‟ “è” dal “poter-essere-altro-da-ciò-che-è”, il giudizio logico attua la de-finizione dell‟Essere, la sua riduzione ad ente, circoscrivendolo alla sua attualità di esistente e negando ciò che non-è, il ni-ente. Il passaggio dall‟Essere all‟ente avviene nel giudizio definitorio, che distingue appunto l‟ente dal suo opposto ni-ente. Il passaggio opposto, dall‟ente all‟Essere avviene con la confutazione, la quale nega l‟Essere dell‟ente e lo destina al ni-ente, ossia alla sua possibilità inattuale, alla sua indeterminatezza. Il giudizio di in-esistenza destina l‟ente al divenire, che è la possibilità insita nell‟Essere di essere. L‟esigenza socratico-platonica di de-finire il santo, esprime il tentativo di stabilire un nuovo approccio 82
ermeneutico alla divinità, parallelo a quello intrapreso dal logico tramite la dialettica nei confronti della dossologia sofistica. Questa volta la dicotomia tra essere e non-essere viene applicata al divino. Socrate ripensa la tradizione mitologica, alla quale si rifà la religiosità di Eutifrone, facendo proprio il concetto di Platone66 per cui essa, con i suoi racconti esecrandi, sarebbe priva di consistenza etica, e perciò inadatta a servire da fondamento di una morale accettabile. L‟atteggiamento antimorale della mitologia consisterebbe nel fatto che, seguendo il comportamento degli dèi, gli uomini giustificherebbero ogni loro colpa terrena. Compresa quella di Eutifrone, che trascina in tribunale il proprio padre “credendo di compiere azione assolutamente santa fondandosi appunto sull‟imitazione di quegli dèi”. 67 Va dunque cambiato il paradigma ideale, il modello assiologico. Assunto che “noi non abbiamo alcun bene che non ci provenga dagli dèi”, occorre ripensare al contenuto del Bene in relazione alla nostra coscienza, cioè alla ratio che lo giustifica logicamente. Ed è tal giudizio di ragione a definirne la “realtà”. Sicché, “si deve sempre rappresentare Dio quale è in realtà, sia che uno ne tratti nei canti epici, sia nella lirica, sia nella tragedia […]. E dunque, Dio è buono nell‟essere, e deve essere anche detto in questo modo”. 68 Si noti l‟identificazione della “realtà” di Dio con la sua “rappresentazione”, e questa con il suo “essere”, ossia col giudizio logico che, assunto come fede ontologica, sostiene la legittimazione del comportamento conforme e la stessa definizione dogmatica. La conseguenza della definizione della “realtà” di Dio, cioè della sua essenza ed esistenza congiunte, è che non tutti i comportamenti umani sono conformi all‟essere divino, ma solo quelli partecipi del suo essere, ossia giustificabili secondo il giudizio definitorio che ha definito il suo “essere” distinguendolo dal suo “non-essere”. Per cui “dei beni non si deve attribuire la causa a nient‟altro [che agli dèi], mentre dei mali si dovrà cercare qualche altra causa, ma non Dio”. 69Comprendiamo dunque quale 66
Ved. Platone, La repubblica, II 377-378.
67
G. Reale, Analisi e interpretazione dell‟Eutifrone, in Platone, Eutifrone, tr. it. di G. Reale, Milano, 2001, pag. 27. 68
Platone, La repubblica, II 379 a-c.
69
Ibidem.
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sia “la santità” per Socrate-Platone: è lo stesso Bene () conosciuto come “essere” e perseguito come “fare” razionale. Nel dialogo, “questa risposta manca, nel senso che non viene esplicitamente formulata: ma è proprio l‟articolazione e la dinamica dialettica del dialogo che irresistibilmente spinge a trarre questa conclusione”.70 La “realtà” dell‟ “essere” è la stessa “definizione”logica, in base alla quale il giudizio distingue ciò che “è” da ciò che “non-è” sussumibile in essa, ossia comprensibile secondo la sua stessa definizione. Comprendere, dunque, significa far rientrare l‟ente (la parte) nell‟Essere (creduto il Tutto). L‟incomprensibile è ciò che non rientra nell‟Essere del giudizio definitorio: nel caso del Bene, il male; del Vero, l‟errore; del Bello, il brutto; nel caso della “santità”, la “empietà”. Quanto alla identità del concetto di “essere” nel mutare dei casi e delle circostanze accidentali della formulazione del giudizio, essa stessa va intesa come permanenza entro il sistema razionale de-finito come “essere”. Infatti, mutato il sistema – ossia venuta meno la credenza nell‟identità dell‟Essere con l‟ente - , cade la definizione e cioè verità ed essenza del concetto d‟essere ivi contenuta, cioè la “Forma” () o “Idea” (), che sono sinonimi di “essere” della definizione, distinto dal “non-essere”. Esse sono ciò per cui le cose sono ciò che sono e non altro. E questo “essere” secondo l‟Idea ha valore ontologico, e non solo logico, per cui non è solo un modello razionale (), ma l‟Essere stesso. Sicché il modello formale funge anche da modello normativo: “normatività ontologica” dell‟Idea, secondo cui lecose che “sono” anche “devono essere”. E su tale normatività si fonda l‟etica razionalistica critica della tradizione religiosa e del mito. Se la indica l'essenza delle cose, ciò che le rende quello ch sono e che non muta, l‟elemento variabile, e cioè diveniente, delle cose è indicato come accidentale affezione (). Tale affezione non è altro che la possibilità dell‟Essere legata al suo divenire, ossia all‟elemento dialettico negativo. La possibilità, rispetto all‟essenza, è il divenire rispetto all‟essere-che-è, cioè all‟esistente o ente. Non potendosi ignorare il divenire dell‟Essere, e neanche assumerlo alla stessa stregua dell‟essere-attuale lo si qualifica come elemento accidentale dell‟Essere stesso. E poiché, per definizione, l‟essere “è” la realtà della ragione, l‟oggetto del giudizio, l‟ente della 70
G. Reale, Loc. cit., pag. 32.
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definizione, il positivo ontologico e il valore deontologico, il non-essere accidentale è l‟irrazionale, ciò che non-è compreso nel sistema, cioè il divenire stesso dell‟Essere rimosso dalla definizione e dalla scelta ontologica. L‟essenza () è la Forma razionale del sistema, ossia il Modello () d‟Essere definito come essere-attuale o ente. E tale Essere de-finito è l‟Idea, modello razionale universale di ciò che è sempre presente, eterna attualità di ciò-che-è. 10. L‟aporeticità dei dialoghi platonici è direttamente collegata alla loro natura etico-politica polemica verso le istituzioni democratiche del tempo. Il non-detto polemico dei dialoghi, che viene lasciato alla catarsi dei lettori, è la critica del sistema democratico fondato sull‟opinione (dòxa) dei molti (oi pollòi). Socrate rappresenta la ragione politicamente e socialmente minoritaria che si oppone alla ragione dominante, sostanzialmente irragionevole e stolta, e come tale ingiusta. L‟irragionevolezza o stoltizia dei potenti accusatori è l‟espressione etica dell‟ingiustizia e l‟espressione teoretica della sofistica. In che cosa consiste l‟atteggiamento pratico irragionevole e stolto? Nel seguire acriticamente, per sola volontà di fede, i dettami della tradizione, cioè della credenza comune. Socrate è accusato di contravvenire ai precetti di fede tradizionali e di opporsi pertanto all‟opinione pubblica. Nell‟Eutifrone è già in nuce il tema della caverna della Repubblica; caverna intesa come il luogo del comune sentire del popolo insipiente e stolto, rappresentato da Eutifrone, il sacerdote dogmatico e fariseo che vuole emulare l‟esempio degli dèi denunciando pubblicamente il padre. Platone intuisce che l‟elemento critico della ragione deve incidere sulla credenza mitica per confutare le false opinioni della tradizione, e all‟uopo concepisce il dramma che ha investito Socrate contro la Città come la rappresentazione ideale, paradigmatica, del conflitto tra ragione aristocratica e opinione collettiva. Rispetto all‟opinione collettiva, la posizione filosofica di Socrate è paradigmaticamente anti-politica e antisistemica, cioè eminentemente “privata” rispetto alla dimensione “pubblica” delle credenze tradizionali. Simbolo di tale credenza pubblica è la “religione”, intesa come la versione fideistica della mitologia, che funge da controparte irrazionale rispetto alla ragione. I dialoghi platonici sono concepiti come la prosopopea rappresentativa delle opposte tesi dialettiche, che nel Critone giungono a rappresentare le Leggi e la Città come personaggi ideali, accanto a quelli fisico-personali di Socrate e di 85
Critone. Il dramma dialettico è a personaggi fissi e a maschere variabili. Da una parte, c‟è sempre il rappresentante della Ragione;dall‟altra, il rappresentante dell‟Errore. Il primo rappresenta la positività dell‟Essere, la “realtà” ideale; il secondo, invece, la negatività del divenire, dell‟instabile opinione irrazionale, la contraddizione. La sequenza drammaturgica dei dialoghi platonici costituisce la molteplice rappresentazione di uno stesso tema teorico, in cui si fronteggiano le maschere dell‟eterno dramma metafisico logicamente dialettizzato della Ragione e della Credulità. Sia la Ragione che la Credulità sono intrise di fede, ossia di religiosità. In tal senso Socrate ci appare come un grande testimone della fede filosofica, uno spirito religioso grandioso. Ma la fede come non ha gli stessi contenuti teoretici della fede filosofica, e perciò non può avere per Platone lo stesso valore morale. Solo la fede nella Ragione ha un valore morale positivo, laddove la fede nelle opinioni irragionevoli è piuttosto superstizione, e come tale va emendata criticamente. Rispetto ai dialoghi più maturi, l‟Eutifrone e la stessa Apologia, insieme al Critone e al Fedone, sono le prove letterarie della fase più soggettivistica e privatistica della visione filosofica platonica; quella fase, cioè, caratterizzata dall‟istanza formativa e spiritualistica della filosofia, quale processo religioso di tipo razionale riservato a singoli iniziati, educati al metodo esoterico della logica dialettica, alternativo a quello dominante nella ingenua opinione volgare. Virtù aristocratica ed esclusiva, la filosofia costituiva l‟antitesi teoretica e morale della politica, fondata sulla forza sociale e sulla manipolazione sofistica dell‟opinione volgare. E proprio su questa opinione occorreva incidere, attraverso la rappresentazione drammaturgica, la forma più essoterica di comunicazione ideologica, per cui i dialoghi platonici, inscrivendosi nella tradizione drammaturgica classica, proponevano contenuti anti-mitici alternativi a quelli tradizionali, mitici. I miti filosofici dei dialoghi platonici rappresentavano in modo letterariamente tradizionale contenuti opposti a quelli dei miti tradizionali rappresentati dalla tradizione letteraria. A questa fase anti-politica, in Platone segue la fase della maturità teorica, che prende a vedere la fase precedente come pre-politica, propedeutica a quella della rinascita filosofica della società. Questa fase, più propriamente mirante a una influenza sociale della filosofia, rappresenta 86
lo sviluppo teorico dell‟idealismo platonico in senso costruttivi stico e razionalistico. 71Nonbasta più, secondo la maturata coscienza filosofica di Platone, contrapporre alla violenza politica la forza della Ragione, e alla morte del corpo la libertà dello spirito. Occorre in più liberare l‟uomo dalla prigione dei pregiudizi e spostare sul piano della prassi il processo dialettico delle idee. La possibilità di questo “rispecchiamento” praticosociale della funzione liberatrice della dialettica, era consentita dalla concezione stessa dell‟Essere come Forma e Modello universale della realtà sensibile, per cui bastava trasferire sul piano fenomenico l‟opposizione dialettica per averne l‟analogo sociale. Tale conversione era a sua volta pensata ontologicamente possibile a seguito della polarità non mediata della logica platonica, che pensava il Negativo come alterità e non come Divenire, ossia come un altro ente, opposto antiteticamente all‟ente positivo del giudizio di realtà, un ni-ente creduto ontologicamente speculare a ciò-che-è. Indicando come ni-ente (non-ente) il Divenire, si perdeva la cognizione del processo dialettico e del movimento del Molteplice, assegnando al solo ente oggetto del giudizio definitorio dignità di “essere”, a fronte del quale ogni altra realtà era “niente” (ovvero: errore, falso, brutto, immorale, etc.). Identificato l‟Essere con l‟ente, era quindi possibile vedere nella realtà fenomenica la stessa dialettica del pensiero, che distingueva i “veri” enti, meritevoli a giudizio umano di “essere”, dai “falsi”, suscettivi di “non-essere”. L‟eliminazione del negativo come irrealtà era lo stesso atteggiamento che in sede pratica era stato riservato a Socrate, eliminato fisicamente. Platone non contesta la “eliminazione” del negativo, contemplata dalla sua logica dialettica, ma che essa fosse logicamente giustificata nel caso di Socrate. Per evitare simili errori occorreva a suo dire fondare la “eliminazione” su basi logicamente più solide. Platone nella Repubblica afferma che il Bene è ciò che non diviene, ossia che il non-essere sia il Divenire. Ma questo non-essere, identificato con l‟opposto dell‟essere (= Essere-attuale = ente), viene pensato come il niente, per cui un attributo dell‟Essere, la possibilità, viene considerato “niente”, mentre esso è l‟Essere-possibile o inattuale. Il Negativo, 71
Possiamo dire che il processo a due fasi della socializzazione della filosofia, una interessante l‟influenza culturale dell‟opinione pubblica, l‟altra la dirigenza politica dello Stato, rappresenta il modello di quella che sarà nel sec. XX la omologa teoria del potere di Gramsci.
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espunto logicamente dall‟Essere, ne diventa l‟opposto ontologico, ossia il Divenire, e pensato come opposto logico, esso si ritiene superabile alla stregua della negazione logico-dialettica. L‟astrazione logica, dunque, ha come conseguenza ontologica l‟esistenza dell‟astratto logico come opposto reale, sicché il negativo dell‟essere-attuale, cioè dell‟ente-che-è, fenomenizzato come altro dall‟ente diventa da ni-ente logico un ente diverso, ossia un Essere logicamente negativo, cioè astratto, ma ontologicamente reale. Questo Essere-diverso, distinto dall‟Essere-che-è, è un ente-non-ente, una realtà confinata nella sua astratta possibilità d‟essere non meritevole di positività. Ma poiché il Negativo, e cioè la possibilità, è intrinseco all‟Essere in sé, negare il Divenire equivale a negare l‟Essere stesso. Da qui l‟auto-confutazione di ogni astratto razionalismo, e l‟auto-distruttività di ogni sistema socio-politico fondato sull‟ontologia razionalistica dell‟astratto presente. “santo è ciò che io sto facendo ora”, afferma Eutifrone in risposta a Socrate (5 d-e). L‟azione attuale è l‟analogo di un‟Idea, la santità, e di conseguenza l‟azione omissiva, la non-azione, è l‟analogo dell‟irragionevolezza, ossia l‟empietà. Asserito un modello “formale”, il comportamento “conforme” diventa “giusto”, cioè logicamente coerente. Ma, asserisce Socrate, il modello ideale può essere “falso”, come nel caso della mitologia. Chi stabilisce la verità del modello? Per Socrate è la Ragione; per Eutifrone è la Credenza degli uomini, i quali “ritengono che Zeus sia il migliore e il più giusto di tutti gli dèi”. 72 Compito della Ragione è dunque di confutare tale credenza. La Ragione sta di fronte alla Credenza e ne contende la fede. Abbiamo due verità, e due fedi: una falsa e una vera, ognuna delle quali asserisce di essere l‟unica vera accusando l‟altra di falsità. La “dialettica” è concepita da Platone come metodo razionale esclusivo, non inclusivo al modo hegeliano, per cui solo una delle due verità può essere la unica. La conseguenza di tale impostazione razionalistica è che la Ragione, per affermare se stessa, deve negare la Credenza, la verità-di-fede. Il razionalismo platonico si definisce attraverso un‟opera di transvalutazione di tutti i valori tradizionali, ritenuti fallaci in quanto irrazionali, e irrazionali in quanto illogici. Ma poiché la fede ontologica è ineliminabile dal fondamento d‟Essere del 72
Ritroviamo qui la stessa credenza registrata da Michels circa le qualità superiori a quelle comuni attribuite ai capi politici dai loro sodali.
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giudizio di realtà della Ragione, la lotta contro la Credenza si dispiega come la lotta contro ogni fede, e quindi contro la stessa fede posta a fondamento della realtà razionalmente pensata come cosmo razionale. Da qui l‟esito inevitabilmente irrazionalistico di ogni razionalismo storico, la cui affermazione culturale è prodromica di una conseguente visione del mondo anti-razionalistica e superstiziosamente idolatrica. Infatti, eliminare dal giudizio di realtà la fede nella realtà, significa eliminare il dubbio che è all‟origine del ragionamento, il cui esito razionale è l‟opposto logico dell‟affermazione della mera volontà, ossia della nuda credenza. Una fides sine rationem è una pura credenza quale affermazione di nuda volontà. Una ratio sine fidem, a sua volta, è una tecnica combinatoria di parole, un‟arte sofistica legata all‟interesse utilitaristico di chi la pratica. La lotta congiunta contro la sofistica e contro la credenza dogmatica della tradizione, ha condotto Platone a combattere la stessa fede filosofica, nata dal dubbio che la fede in cui si crede sia la verità. Da questo thàuma sortisce il discorso filosofico, che rielabora il Mito ontologico, ma che non può eliminarlo senza eliminare col thaumazein lo stesso noein, cioè col dubitare lo stesso filosofare. La morte di Socrate non è logicamente diversa dal parricidio di Eutifrone. Entrambe sono le conseguenze della logica esclusivistica del procedimento “dialettico” in senso platonico. A parti rovesciate, come potrebbe Socrate avere la meglio su Mileto, o sullo stesso Eutifrone, avendo la possibilità di affermare la sua essenza, la sua idea dell‟Essere, contro quella ritenuta logicamente falsa dell‟avversario, se non appunto negando l‟essere opposto e falso, giudicandolo non-essere, ossia niente? Da qui la ricaduta politica del contenzioso teoretico, la piega sociologica che la contesa dialettica assume nel momento in cui si trova di fronte alla scelta radicale di testimoniare l‟Essere anche a costo della morte fisica, ovvero affermare l‟Essere con la forza sociale, ben oltre il dialogo dialettico. I due opposti logici, drammatizzati in senso ontologico e personificati in senso sociologico, diventano elementi politicamente contrari, fisicamente “nemici” in senso schmittiano. La deriva politicistica della teoresi platonica era già inscritta nella logica dialettica, la cui pericolosità sociale venne razionalmente accertata dai custodi della fede tradizionale, dell‟opinione socializzata in verità comune, il quali scorsero in Socrate un “nemico” politico, un eversore sociale, che minacciava l‟etica pubblica. La filosofia, nell‟atto di voler diventare opinione pubblica uscendo dalla 89
privata sapienza, incontra la resistenza delle credenze tradizionali custodite dal Potere attraverso il controllo delle istituzioni sociali e giuridiche. Per questa ragione, Platone concepisce, ai fini di una vittoria filosofica della Ragione, una riforma politica della società, che elimini l‟ostacolo istituzionale pubblico alla affermazione della vera verità, quella logica. Già nell‟Eutifrone Platone adombra i futuri sviluppi inevitabilmente politici della sua fede filosofica, quando fa dire a Socrate che “gli Ateniesi, se ritengono che uno eccella per il suo sapere, non si preoccupano gran che, purché egli non intenda far da maestro agli altri. Ma se ritengono che uno, essendo sapiente, sappia rendere anche altri sapienti come lui, allora si irritano, sia per invidia, sia per qualche altro motivo”. 73 “Rendere altri sapienti”, vuol dire convertirli alla nova fede abbandonando la vecchia, tradizionale. Se tale processo, da singolare e privato diventa pubblico e collettivo, acquista un indubbio valore socialmente eversivo dell‟ordine costituito, e deve essere politicamente giudicato e condannato. La risoluzione politica del‟idealismo platonico è dunque logicamente implicita nella sua metafisica, la cui ontologia monistica è ricavata dalla riduzione della logica a “dialettica”, a metodo esclusivo di affermazione della verità identificata col giudizio definitorio di realtà. Giudicare significa de-finire, ossia ridurre l‟Essere a ciò-che-è, a ente. Questo processo di identità della definizione logica alla riduzione ontologica coincide con l‟attività dell‟uomo intesa come opera nei confronti dell‟Essere. L‟attività umana di riduzione dell‟Essere a ente, finitizzando l‟universalità ideale dell‟Uno, lo riduce a entità molteplice, ossia all‟opposto ontologico. L‟universalità del Molteplice è il Fare, che è universalità finita opposta all‟universalità dell‟Idea, che è infinita. Per tale carattere di finitezza, anche l‟universalità degli enti, l‟entità, è “molteplice”. Le entità molteplici sono indicate come “categorie”, cioè universalità finite, relative agli enti. E come gli enti sono molteplici, così lo sono le categorie, le quali, similmente agli enti, configgono tra loro nel dominio sugli stessi enti oggetto di definizione o “giudizio”. Come ha ricordato Heidegger, la “categoria”, come “parola del pensiero filosofico”, è un riconoscimento pubblico (agoreùein) di un‟autorità che agisce dall‟alto (katà) che qualcosa è ciò che si dichiara essere e non 73
Platone, Eutifrone, 3 c-d.
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altro. La pro-posta che qualcosa sia riconosciuta di valore pubblico da parte di un “giudizio” di realtà, è il contenuto della opinione politica, che invoca una asserzione metafisica sulla verità dell‟ente. La pro-posizione politica invoca che l‟ente pre-posto sia convocato in giudizio pubblico e riconosciuto dalla comunità (agorà). La condizione di legittimità del giudizio pubblico, è che il riconoscimento venga dall‟alto, che sia cioè un atto di governo, una decisione sovrana, che ri-conosce che qualcosa sia ciò che sostiene di essere, cioè un‟opinione vera che si manifesta per ciò che è (tò eìdos). Il giudizio categoriale, la decisione sovrana, stabilisce che l‟ente (ciò che si manifesta per come appare) sia corrispondente al modello ideale d‟Essere, alla sua “idea”. Tale corrispondenza è la sua verità, che perciò è ideale. La verità, dunque, è un giudizio di realtà essenziale, ontologico, di conformità ideale di un ente al suo Essere ideale. Ma la sua espressione dev‟essere formale, e cioè pubblicamente riconosciuta per decreto sovrano. Da qui la ricaduta politica su chi dev‟essere l‟autorità di governo adatta a giudicare sulla verità. Quando Socrate chiede a Eutifrone se egli creda che quanto si tramanda circa gli dèi siano per lui “cose vere”, 74 alla risposta affermativa egli soprassiede sbrigativamente, insistendo sulla definizione di “santo” e della relativa “Idea”, 75 non ritenendo rilevante ciò che invece per Eutifrone – e con lui per tutti i tradizionalisti – è essenziale: la fede che rende possibile l‟esistenza degli dèi e l‟efficacia del loro esempio presso i fedeli, e nel caso presso l‟intera comunità cittadina. Socrate sottovaluta l‟elemento fideistico a favore dell‟elemento razionalistico, ma tale atteggiamento può essere solo di colui che la stessa fede di Eutifrone non ha, avendola perduta, e che è alla ricerca di un‟altra giustificazione a sostegno della uova. E proprio perché ne è privo, l‟attenzione e la rilevanza accordata alla ragione è per Socrate un surrogato di fede, sostitutivo dell‟antica. Il metodo maieutico non a caso parte da una dichiarazione di ignoranza, da una ammissione di non-fede, a premessa della ricerca di una, che è la verità ignota in cui sfocerà il ragionamento dialettico. Socrate non si avvede che l‟adozione del metodo dialettico per conseguirla, presuppone già una fede nella veridicità del metodo, sostitutivo di quello tradizionale. Infatti, solo la fede nella ragione può portare il filosofo a ritenere le conclusioni logiche imperative per la sua volontà. Mentre per Eutifrone le conclusioni della ragione dialettica non 74 75
Ivi, 6 c. Platone, Ivi, 8 a.
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comportano la “prova” della fede, e neppure il motivo confutatorio che possa cancellarla. Ma proprio la necessità di presupporre la “fede” nella ragione come condizione di accettazione dei suoi esiti dialettici, spinge Platone a identificare il metodo dialettico come il linguaggio universale dell‟uomo razionale. L‟universalizzazione del metodo e del linguaggio razionale comporta una definizione antropologica del suo fruitore che discrimina sul piano umano coloro che non lo volessero adottare: i “barbari”, gli “apolidi”, o il branco selvatico incapace di darsi un ordinamento di convivenza razionale. Il linguaggio filosofico diventa dote antropologica, non più di anime elette e di spiriti aristocratici, ma del “vero” uomo, quello appunto “universale”. La negazione della possibilità, trasferita dal piano logico a quello antropologico, si traduce in negazione della specie umana non logicamente affermata nel suo essere, ossia definita. E come ogni definizione, anche quella antropologica implica la sua contraddizione, per cui nell‟atto di asserire la universalità dell‟homo rationalis vel politicus, ammette l‟esistenza di uomini “non-razionali”, quale riflesso esistenziale del loro non-essere razionale e politico. Ma dove passa il discrimine tra l‟essere e il non-essere razionale o religioso? Se volessimo pensare la differenza tra l‟uomo antropologicamente “politico” e gli altri esseri sociali di altre specie animali, dovremmo risalire al‟elemento caratteristico della precipua socialità umana: la struttura gerarchica della società, basata su valori comuni accettati come veri e perciò imposti al gruppo per definirlo e legittimarlo nel rapporto con gli altri gruppi. Non che altre forme di socialità non abbiano un carattere gerarchico: si pensi al branco di lupi o di scimmie, che scelgono il capo-branco e lo seguono fino a nuove sfide di forza; ma solo la specie umana struttura in forme stabili la gerarchia dei rapporti sociali sulla base di una gerarchia di valori condivisi. Così, per fare un altro esempio di comunità naturalmente gerarchica, le api riconoscono per istinto la regina e la seguono proteggendola. Ma la società delle api non è una comunità alla maniera umana, poiché la differenza gerarchica tra le api non è basata su valori morali, ma su distinzioni biologiche, funzionali alla conservazione appunto biologica del gruppo naturale. sicché le capacità dell‟ape regina e quelle del lupo capo-branco alla fine sono relative alla loro possibilità di garantire la conservazione del gruppo dalle minacce della vita. Ma né le api né i lupi strutturano la gerarchia di gruppo sulla 92
base di legittimazioni morali, le quali hanno il fine di accordare all‟ordine sociale un carattere di necessità e quindi di conservazione. La necessità morale motiva la conservazione del gruppo umano, e non viceversa. Ed è questa la ragione per cui un re indebolito dall‟età non venga soppresso e sostituito, ma venerato nella sua funzione quanto e più di uno giovane e sano. La stessa ragione per la quale gli uomini hanno sempre osservato i culto degli avi, facendo della loro memoria la loro “cultura”. E‟ infatti la funzione istituzionale, trascendente la persona fisica che l‟incarna, a essere onorata, per cui un re demente o infermo continua a essere il re. Una funzione moralmente strutturata, oggettiva l‟ordine gerarchico e lo rende idealmente perpetuo, creando gerarchie tradizionali, ossia la distinzione sociale e morale tra aristocrazie e popolo comune. Tale gerarchia oggettivamente strutturata impedisce la guerra civile, cioè la contesa per la successione del potere sociale, e tanto più è strutturato l‟ordine sociale, più è pacifico il rapporto politico. Le guerre civili persistono tra gli uomini, ma occasionalmente, come eccezioni sociologiche, ma non sono la regola della vita civile secondo l‟ordinamento sociale. L‟ordine gerarchico, la struttura sociale delle differenze tra gli uomini, è la condizione morale della pace politica, che è il fine etico della stessa socialità. Il razionalismo, la cui tendenza anti-tradizionalista è conseguente alla sua posizione teoretica, mettendo in discussione i valori tradizionali, contesta i fondamenti ontologici dell‟ordine cosmico che lo sostengono moralmente e lo legittimano razionalmente. Il suo effetto etico-politico è di compromettere la credibilità socio-culturale delle storiche aristocrazie, che non sono soltanto “classi dirigenti” ma interpreti dei valori fondativi della antropologia sociale, minando quindi la loro funzione di governo e di garanzia della pace sociale. In mancanza di nuovi valori, sostitutivi degli antichi, l‟opera di discredito morale della tradizione diventa metodica e universale, basata sul solo principio della negazione dell‟esistente, che costituisce il momento sofistico di ogni scetticismo razionalistico. Sul piano socio-politico, la negazione di una aristocrazia elettiva porta alla destrutturazione dell‟ordine tradizionale, la cui critica metodica viene assunta come valore teoretico universale. L‟universalismo antropologico del criticismo razionalistico ha come riflesso sociologicopolitico il sistema democratico, che si afferma in conseguenza della dissoluzione delle aristocrazie tradizionali e nelle more della costituzione di nuove. 93
L‟uguaglianza antropologica degli enti politico-sociali abolisce ogni ordine gerarchico moralmente strutturato, sostituendolo con quello occasionale delle funzioni pubbliche, alla stregua della selezione naturalistica delle altre specie animali. Da questo punto di vista funzionalistico, l‟ordine sociale razionalistico rappresenta una forma di cultura antropologica molto meno raffinata delle civiltà religiose tradizionali, fondate su un ordine morale trascendente. Ma proprio la ricaduta naturalistica dell‟ idealismo platonico conferma la legge del contrappasso ontologico di ogni astratto razionalismo. La risposta alla domanda di Socrate circa ciò che è caro agli dèi, per Eutifrone è risolutiva: “santo, dunque, è ciò che è caro agli dèi; empio, invece, è ciò che non è caro agli dèi”. 76 La verità della fede viene da Socrate sostituita con la verità di ragione, la quale penetra con la logica umana il mondo divino, distinguendo in esso la realtà sostenibile e quella illogica. Questa operazione di razionalizzazione del cosmo divino avviene destrutturando la realtà unitaria del racconto mitico in elementi logici, col solito metodo dialettico. Per chi ha fede nell‟unità cosmica, il “disaccordo” fra gli dèi non può avere ragioni umane, e neppure dunque i fini delle umane vertenze di mortali che, necessitati a difendersi dai pericoli che attentano alla loro vita, ricercano la pace e la sicurezza. Ma è questa la stessa logica degli dèi immortali? Ha senso per essi distinguere il giusto dall‟ingiusto, il vero dal falso, il bello dal brutto, non avendo per essi tale distinzione alcun effetto che non sia ludico? Essere “nemici” per i mortali significa mettere a repentaglio la propria incolumità, per cui on esserlo costituisce una risorsa vitale. Ma per gli dèi immortali non può avere lo stesso valore. Eutifrone acconsente all‟ipotesi di Socrate che il dissenso fra gli dèi sia lo stesso, cioè abbia lo stesso valore, di quello tra gli uomini, mentre dovrebb‟essere il contrario, essendo quello divino il modello etico. Questo aspetto è decisivo per l‟andamento del discorso filosofico. Infatti, stabilita l‟identità fra modello divino e copia umana, il rapporto può invertirsi, così che la logica che presiede la condotta umana divenga parametro di giudizio dei rapporti fra gli dèi, stabilendo di conseguenza che il loro presunto comportamento non sia “vero” in quanto logicamente non credibile. Ed è su questo presupposto che si fonda la critica avanzata dal razionalismo al Mito: che il suo racconto cosmologico non sia una 76
Ivi, 6 e – 7 a.
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rappresentazione logicamente credibile, cioè degna di fede in base al parametro valoriale della ragione. Ma perché la ragione sia più degna di fede della credenza nel Mito, è anch‟essa una questione di fede, e come tale assunta come “verità”. La verità di fede è opinione religiosa, il cui giudizio distingue il “sacro” dal “profano”. E “sacro” (o “santo” = hosiòn) è ciò che è immutabile e non controvertibile, mentre “profano” (o “empio” = hanòsion) è l‟opinabile in quanto mutevole e manipolabile. Contesa sul piano della “fede”, la verità stessa e una “opinione” creduta immutabile ed eterna, e in quanto tale razionalmente “necessaria”, ossia credibile e degna di fede. Entro il sistema razionale la fede nella ragione diventa verità di ragione. Per la logica umana, la volontà degli dèi è contraddittoria, per cui le medesime cose sono odiate e sono amate dagli dèi, e perciò queste stesse cose verranno ad essere, ad un tempo, odiose e care agli dèi […]. E, dunque, le medesime 77 cose saranno sante e non sante, Eutifrone, in base a questo ragionamento.
Ma è proprio la contraddizione la natura dell‟Essere in sé, che include la Negazione come interna opposizione, mentre la distinzione del giudizio logico è interna alla sola ragione umana, la quale diventa per Socrate il luogo esclusivo della verità, alternativo al luogo del Mito. Così Socrate, per confutare la fede di Eutifrone, le oppone il criterio della giustizia umana, che stabilisce se la pena vada comminata e quando. “Io credo, o Eutifrone, che coloro che litigano, litighino sulle singole azioni: siano essi uomini, siano essi dèi, posto che anche gli dèi litighino”.78 La realtà degli dèi viene equiparata a quella degli uomini, ed è quest‟ultima a costituire il valore ontologico della verità-logicità, per cui l‟identità dell‟Essere con l‟ente viene compiuta dalla parte dell’ente, sul versante della realtà molteplice, in cui, in virtù di quella identità essenziale, si frantuma l‟unità dell‟Essere ideale mercé la distinzione dialettica e il giudizio logico di realtà. Il passaggio dalla realtà ideale dell‟Essere-in-sé alla realtà fenomenica dell‟Essere-che-è ente realizza il processo di de-mitizzazione del sacro proprio di ogni pensiero razionalistico. Di fronte alla fede illogica di Eutifrone, quale atteggiamento assume Socrate? L‟atteggiamento filosofico del logico che traduce in termini di ragione gli elementi della credenza dell‟uomo religioso, enucleando da 77
Ivi, 8 a . Ivi, 8 e.
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essa gli elementi razionalmente credibili e degni di fede, dagli altri, negati ed esclusi come irrazionali e quindi indegni di fede. Dunque il metodo razionalistico di conoscere la realtà consiste nella riduzione del complesso in semplice, cioè in una semplificazione dell‟Essere per esclusione del diverso. Ma che fine fa la fede di Eutifrone? Quale sarà il destino affettivo delle sue credenze alla luce della analisi logica socratica? La logica dialettica agisce sull‟elemento razionale del Mito, che viene rielaborato in termini logicamente credibili, ma non su quello fideistico, che permane come contraddizione espunta dal discorso logico e dialetticamente distinto come altro. Socrate suppone che la fede scompaia dal discorso a seguito della confutazione razionale, in quanto considera la fede stessa una conseguenza del discorso, e non già un presupposto, per cui la concepisce come l‟effetto e non come il fondamento della lògos. In realtà, così come la fede nel lògos è il presupposto della credibilità del metodo dialettico, altrettanto avviene nel caso della fede nel Mito, per cui la fede permane o cessa in relazione, non alla sua giustificazione razionale, ma ai fini che essa è destinata ad assolvere: l‟intuizione del mondo in risposta al thàuma originario. La fede è ciò che convalida il Mito assegnando al suo racconto un significato razionalmente rassicurante. E‟ la fede nella ragione che dà significato, cioè valore rassicurante, all‟argomento razionale, il quale, in sé, senza quella fede, è inadatto a costituirsi come credenza rassicurante. Infatti, poiché è riduttiva della realtà ontologica dell‟Essere, il lògos (come ratio) deve pre-supporre la totalità dell‟Essere-in-sé su cui esercita la sua critica logicamente riduttiva ed oggettivamente. La riduzione dell‟Essere a ente oggetto di giudizio avviene nella definizione che determina l‟Essere come ciò-che-è, sicché la verità dell‟ente “è” logicamente nel giudizio stesso che lo qualifica e lo determina, ma ontologicamente la sua realtà è pregiudiziale e interna all‟Essere stesso in sé, che pre-esiste all‟ente come totalità inclusiva della negazione espunta dal giudizio definitorio e dialetticamente distinguente. L‟Essere totale, in sé, rispetto all‟Essere-attuale, è comprensivo della possibilità, la quale è sempre ni-ente rispetto all‟attualità dell‟ente, oggetto del giudizio definitorio. L‟Essere-che-è, l‟essente, rispetto all‟Essere totale, comprensivo del possibile, è a sua volta, in quanto ente, il negativo opposto dell‟Essere, per cui l‟assunzione di un astratto opposto come l‟unica realtà del‟Essere, è dovuta alla fede nel rispettivo giudizio di realtà, cioè alla credenza o che l‟Essere sia l‟ente, ovvero che 96
l‟ente sia l‟Essere. Ed è questa la ragione della loro convertibilità nel loro opposto logico, per cui la fede razionalistica nell‟Idea genera la credenza idolatrica nel Molteplice divenire e il culto edonistico della realtà finita, e viceversa la credenza dogmatica nel Mito genera il fideismo razionalistico. La virtù del Mito consisteva nella sua polivalenza ermeneutica. Diversamente dalla definizione, che afferma negando, cioè escludendo, il Mito rappresenta l‟Essere nella sua totalità intuitiva, la quale non coinvolgeva solo l‟essenza ideale del racconto, ma anche l‟aspetto deontologico e quindi pedagogico. Come infatti è stato ricordato, i tragediografi greci, che parlavano continuamente dei miti familiari del loro popolo […] potevano presupporre vere tante cose e andare subito al sodo senza alcuna spiegazione introduttiva, essendo certi che, qualunque fosse l‟interpretazione da essi data a una antica storia, questa sarebbe stata subito apprezzata nel suo valore completo. Così essi erano in grado di scrivere opere dotate di impressionante originalità, nelle quali davano libero corso alle loro idee entro i limiti di una struttura tradizionale, che imponeva loro la propria serietà e le obbligava a mettere in pratica le proprie esigenze. [Pertanto] la tragedia mostra su vasta scala in che modo possono essere adoperati i miti per interpretare certi controversi problemi di ampia portata e di enorme significato […].79
La tragedia, in altri termini, stilizzava in forme personali, personificava, gli elementi della totalità dell‟Essere, inclusi dunque quelli negativi che la ragione espunge, al fine di rappresentarli nella loro funzione dialettica, consentendo, con il riconoscimento, anche la catartica difesa. La conoscenza della realtà offerta dal mito, al di là delle singole posizioni in tragedia, e quindi oltre i punti di vista dei protagonisti, necessariamente diversi e configgenti, convergeva sulla medesima risoluzione morale della crisi esistenziale simbolicamente rappresentata sulla scena. E su questa convergenza morale si costituiva l‟unità etica del pubblico, ossia della comunità politica, nella quale veniva garantita allo spettatore “la sua continuità con se stesso”. La mestizia tragica scaturisce dalla presa di coscienza di sé che lo spettatore opera. 79
C.M. Bowra, L‟esperienza greca da Omero al 404 a. C. (1957), tr. it., Milano, 19863, pagg. 139-140.Per la teoria platonica dell‟esperienza ved. P. Natorp Platos Ideenlehre, trd. It. cit. Pagg. 297-303.
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Nell‟evento tragico egli ritrova sé stesso, poiché ciò che in esso gli si fa incontro è il suo mondo come egli lo conosce nella propria tradizione religiosa o storica. […] Per il poeta, la libera invenzione è sempre solo un aspetto di una funzione mediatrice delimitata dall‟esistere di una certa tradizione. Egli non inventa in modo libero la sua favola, anche se ciò è quanto si immagina. […] La libera invenzione del poeta è solo 80 la rappresentazione di una verità comune, che si impone anche al poeta.
La creatività artistica rielabora la rappresentazione degli elementi essenziali e costanti della verità comune che costituisce l‟identità morale del pubblico-comunità, assumendoli come fondativi della stessa significatività del mondo e della realtà della vita. Perché allora nasce il bisogno di ripensare l‟Essere tradizionale in termini non già di una più o meno originale sceneggiatura, ma di una ri-fondazione ontologica? Perché, insomma, si è spinti a definire l‟ente e a negare il niente? La questione ci riporta al thàuma originario: la morte. Vivere è l‟opposto di thaumazein. La paura della morte è la meraviglia provata per il divenire degli enti. Il dubbio metafisico, riproposto nell‟Amleto di Shakeaspeare, tra l‟ “essere” e il “non-essere” chiede di essere sciolto. La risposta a questo thàuma è l‟affermazione che solo l‟ente “è”, mentre il divenire è “ni-ente”. Esorcizzare la paura equivale a negare realtà “vera” al divenire, affermando che la “vera” realtà dell‟Essere è la sua entità, non già la sua ni-entità. Vivere dunque significa rimuovere il divenire , eliminarlo dall‟Essere-che-è e considerarlo in-esistente. La lotta per il Bene è la affermazione dell‟ente contro il suo divenire ni-ente, ossia la conferma della tradizione contro la possibilità d‟altro-da-ciò-che-è attuale. Il dubbio porta a distinguere l‟ente particolare e finito dall‟Essere totale ed eterno. L‟ente, nel thàuma, appare isolato ontologicamente dal suo senso metafisico, irrelato cioè dagli altri fenomeni reali. La riposta rassicurante riafferma l‟identità dell‟Essere con l‟ente, riconciliando dunque l‟enigma con la verità. Questa parabola comprende lo sviluppo e l‟esito di ogni rappresentazione drammatica, compresa quella contenuta nei dialoghi platonici. La differenza di questi con la tradizione drammaturgica è che in essi il Mito non viene semplicemente rielaborato ma viene radicalmente trasvalutato. La figura di Eutifrone viene ridicolizzata da Socrate, il quale non coglie 80
H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), tr. it. a cura di G. Vattimo, Milano, 19863, pagg. 166 e 167.
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perciò il senso tragico della fede, rispetto al quale l‟ironia socratica risuona come futile leggerezza e malcelata incomprensione del dramma della vita. L‟ironia del filosofo qui è paradossale, in quanto delimita, ovvero de-finisce, il senso tragico dell‟esistenza etica entro il perimetro di una razionalità che opera rimuovendo con il dubbio e la paura anche la stessa fede ontologica. Di fronte alla complessità e contraddittorietà della narrazione della divina indisponibilità dell‟Essere, Socrate oppone la logica dei mortali, costretti a vivere entro la sola dimensione della esistenza finta, e perciò ignari della complessità dei moventi vitali del Negativo, che è possibile esperire solo nella dimensione dell‟eterno, ossia nella condizione che ignora il thàuma del divenire e della morte. Gli dèi amano e odiano nel contempo, e perciò le loro vicende epiche sembrano legate al capriccio del caso. I mortali, invece, sono costretti entro l‟economia del tempo finito a trascegliere il senso della vita distinguendolo dal non-senso di ciò che perisce e che pure è inevitabile, e quindi esistenzialmente minaccioso. Ciò vuol dire che la lotta stessa per l‟esistenza e per il senso positivo della vita è priva di senso di fronte all‟inevitabilità dello scacco finale, della morte, cioè. Ed ecco che i mortali, per superare il Negativo e affermare l‟Essere dell‟ente, spostano il tempo della fine attraverso le generazioni, superando la personale finitezza con il progetto societario, il fine collettivo, che è durevole a suo modo indefinitamente. Ma la crisi epocale che si apre con la caduta di Atene del 404 a. C. dimostra che la stessa costituzione societaria è soltanto un prodotto umano, e perciò deperibile e anch‟esso transeunte. Da qui il bisogno di stabilire ciò che dura entro l‟edacità del tempo diveniente, de-finendolo in termini ideali. L‟Idea è ciò che si sottrae al tempo e che perciò è linguaggio divino. La logica sottrae dunque al tempo l‟essenza degli enti e la indica con la definizione del concetto. Ma dichiarare l‟esistenza, anche se l‟intenzione teoretica è quella di essenzializzare l‟ente, significa trasformare l‟Essere in ente, trasferendo nel finito l‟essenza partecipata dell‟eterno. Perciò l‟impresa alla fine risulta vana, poiché opporre agli dèi la logica umana significa sfidarli sul loro terreno di sacertà, profanando la loro infinita esistenza con l‟empia esistenza mortale. La sfida di Socrate non è diretta contro Eutifrone, ma per suo tramite essa ha di mira gli dèi che il fedele venera e cerca di emulare. L‟ironia razionalistica è il tono emotivo della hybris, che intende infrangere l‟ordine divino provocando la fede dei credenti. In tal senso 99
l‟azione di Socrate cor-rompe l‟ordine mortale, chiamando al proselitismo razionalistico i membri del corpo sociale. E minando la credibilità delle istituzioni etiche, Socrate attenta alla stessa durata intergenerazionale della civiltà positiva che l‟uomo sociale oppone alla morte, al divenire. La filosofia, quale religione “privata”, corrompe la tradizione della fede pubblica, ossia la compattezza stessa del corpo sociale e l‟accettato ordine costituito. Attentare al divino significa portare l’Essere all’ente, profanando il sacro sacralizzado il finito, identificandoli come Uno. E ciò è logicamente possibile o negando il Molteplice, ovvero, affermando come Molteplice anche l‟Uno. Ma esattamente questo epilogo dialettico è ciò che Socrate rappresenta a Eutifrone come contraddittorio nell‟essenza divina, a un tempo giusta e ingiusta, santa ed empia; contro al quale contraddizione egli oppone la coerenza dell‟unità logica. Non si esce dal circolo identitario ontologico-logico se non ammettendo il dualismo metafisico, sostenendo cioè che l‟esistenza dell‟ente – di ciòche-è – sia indipendente dall‟Essere attuale, per cui ciò che “è” logico non è necessariamente esistente. Ma questo avrebbe implicato la dicotomia irresolubile fra coscienza soggettiva e coscienza collettiva, negando che l‟ideale di verità dell‟una potesse sostituire l‟opinabile esistenza dell‟altra, ossia che la logica potesse soppiantare la coscienza ingenua. Negare l‟identità ontologica significava negare il monismo ontologico, ammettendo la possibilità nell‟Essere accanto alla necessità, assegnando pertanto alla libera volontà umana quel ruolo arbitrale che solo il Cristianesimo le riconoscerà. Nell‟ambito della tradizione comunemente accettata, questo problema non si poneva, essendo la coscienza individuale il riflesso stesso della coscienza sociale. Ma, infranta storicamente questa identità sociologica, cosa preme maggiormente alla ragione umana? Orientarsi tra le diverse soluzioni proposte dal lògos, scegliendo tra esse ciò che è la buona. Se dunque l‟uomo genericamente propone diverse opzioni di realtà, non tutte rispondono a un criterio di razionalità accettabile. Non basta perciò “dire”, narrare, esporre una soluzione, ma occorre “ben dire” (eu legein), ossia affermare nel senso logicamente corretto. La critica che il “ben dire” può avanzare legittimamente al mero “dire” è di non riuscire a contrastare efficacemente il divenire, il caos. La critica trova una sua legittimità morale a partire dalla condizione antropologica dell‟uomo, il quale, diversamente dalle altre specie, anche socievoli, non ha un 100
indirizzo esistenziale naturalmente preordinato dall‟istinto, ma è indotto dalla sua stessa natura ad auto-dirigersi, creando da sé una natura artificiale detta “società”. Le risposte che l‟uomo si dà per sopperire alla sua condizione antropologica sono risposte sociali, legate cioè alla organizzazione politica della vita in comune. In conseguenza di questa premessa sociologica, la critica filosofica agli assetti socio-culturali tradizionali, ossia alla struttura religiosa della convivenza umana, muove nella direzione contraria ad essi, alla stabilità della struttura socio-religiosa, promuovendo un altro modo di concepire l‟esistente, ossia la convivenza, basandola sulla razionalità logica quale fonte della legittimità dell‟ordine sociale alternativa a quella tradizionale, giudicata “mitica” In tal senso, il “ben dire” coincide con l‟asserzione dell‟ordine logicorazionale della società, alternativo alla cosmologia religiosa del Mito. Ed è questo il senso originario e finale della contesa razionalistica, che interessa i fondamenti della convivenza sociale. La legislazione non è fondata sul paradigma divino, ma su quello umano. Eutifrone dichiara infatti che “santo” è “ciò che tutti quanti gli dèi amano”, ed “empio […] ciò che tutti quanti gli dèi odiano”, 81 mentre Socrate contesta questa pretesa, chiedendo di “sottoporla ad esame”.82 Il filosofo capovolge l‟ordine valoriale, ponendo il “fatto” a definizione della “cosa”. Se qualcosa viene prodotto o se qualcosa patisce, non in quanto è cosa prodotta esso viene prodotto, ma, viceversa, in quanto viene prodotto è cosa prodotta. E, così, non in quanto è cosa paziente una cosa patisce, ma, viceversa, in quanto patisce essa è 83 cosa paziente.
In altri termini, non esistono le cose in quanto sono, ma sono in quanto esistono; e poiché esistono in virtù dell‟agire umano che li porta in essere (ex sistere), solo il “fatto” propriamente “è” così come “esiste”, nei termini cioè in cui viene prodotto e definito. L‟atteggiamento razionalistico nega ogni trascendenza ontologica, 81
Platone, Eutifrone, 9 e. 79.
82
Ibidem.
83
Ivi, 10 c.
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ponendo l‟esser-fatto come l‟unica realtà vera del lògos, affermando con ciò l‟identità dell‟Essere con il giudizio logico, con la logica. In tal senso, il razionalismo è la radice teoretica di ogni pragmatismo e di ogni antropologia storicistica. Si noti la similitudine stabilita da Socrate tra “ciò che è prodotto” con “ciò che è amato”, già negata distinguendo la “essenza” dalla “affezione” (pàthos). Ora invece il “fare” decide anche dell‟ “amare”, come sua ragione, per cui solo ciò che è umanamente ragionevole merita considerazione anche affettiva. Si sovverte così l‟ordine divino eterno a favore dell‟ordine umano, non più storico ma meta-storico, perché meta-fisico, facendo della definizione logica la fonte della sacertà, anziché la volontà degli dèi. “Ciò che è caro agli dèi non coincide col santo, e neppure il santo coincide con ciò che è caro agli dèi”, per cui “il santo viene amato in quanto è appunto santo […], non in quanto viene amato è santo”. 84 La santità non è stabilita dagli dèi, ma dalla logica, dal giudizio umano che parla il linguaggio della verità, e non quello capriccioso della mitologia divina. Il termine del confronto si sposta dalla condizione esistenziale dell‟uomo, come essere finito e mortale, alla condizione ideale, rispetto alla quale la volontà arbitraria degli dèi non ha alcuna autorità morale. La verità è stabilita dalla logica, assurta a legge universale e a ragione, sociale ed affettiva, del mondo. La scissione tra fides et ratio viene consumata dal razionalismo come critica dell‟unità del Mito, come de-mitizzazione della cosmologia religiosa, operata in nome del criterio universale, cioè umano e divino, di conoscenza razionale della realtà, quello della logica. Socrate non parla infatti in nome del suo solo “demone”, ma a nome del “lògos” rettamente inteso, cioè dell‟eu légein o recta ratio, che è la fonte di legittimazione morale, superiore a ogni presunto volere divino e a ogni assetto sociale tradizionale. E‟ l‟universalità del linguaggio logico a trasformare la dialettica in filosofia politica. Sicché, una volta stabilito l‟interesse precipuamente politico dell‟impegno filosofico razionalistico, può cadere anche la pretesa di giudicare la presunta volontà degli dèi, abbandonata alla fede ingenua dei credenti, contando il risvolto pratico dell‟universalismo logico, ossia il criterio di legittimazione morale dell‟ordine sociale e il fondamento etico della politica. Stabilito che l‟unico criterio legittimamente “vero” del pensare sia il fare ossia la coincidenza del 84
Ivi, 10 e.
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pensato col fatto, la mitologia tradizionale può continuare a sussistere come opera di fantasia, come prodotto dell‟immaginazione umana, testimonianza della ingenuità di una umanità pre-logica e pre-istorica, reperto culturale del tempo in cui i mito favolistico dominava al posto del racconto logico, della “vera” storia quale prodotto esclusivamente umano. Il razionalismo è la legittimazione culturale di ogni umanesimo assoluto e ateo. La distinzione tra “sacro” e “profano” intrapresa dal razionalismo socratico è all‟origine della visione umanistica e storicistica dell‟esperienza dell‟uomo, che ha rubato il fuoco della creazione agli dèi auto-definendosi portatore del lògos, della legge universale di cui lui è portatore, e quindi legis-latore, fondatore cioè dell‟ordine logico della società e della buona convivenza. La fede viene ad assumere, agli occhi del razionalista, valore di attributo e non di definizione della sacertà, sicché si delinea la distinzione tra ciò che “è” da ciò che “si ritiene” che sia, e la “essenza” della santità distinta da ciò che viene amato da tutti gli dèi. Solo ciò che “è” santo lo definisce, mentre l‟essere amato è una sua “proprietà accidentale”, 85 che può dunque anche mancare. Ciò che è santo, lo è in virtù della sua essenza, “sia che esso venga amato dagli dèi, sia che risulti suscettibile di qualsiasi altra affezione”, 86 compresa la paura, dunque, e il disprezzo verso gli dèi. L‟unità di sacertà e giustizia viene rotta, per cui “il santo è tutto giusto, ma ciò che è giusto non è tutto quanto santo”, e quindi “una parte solo di ciò che è giusto è il santo, mentre l‟altra parte è l‟altro dal santo”. 87 La rottura dell‟unità religiosa comunitaria infrange non soltanto la comunione ideale dei cittadini, ma anche la solidarietà politica. Infatti, la giustizia logicamente pensata, operando una distinzione dalla giustizia effettuata, scinde col tempo sociale anche la società stessa in opinioni partigiane in mutua contesa, ossia in partigiani di diverse opinioni in competizione sociale. I partiti politici hanno qui la loro nascita ideale, da questa frantumazione ideologica della società in “parti”, ognuna delle quali è fautrice di una sua visione della realtà, e quindi di una sua partigiana idea di giustizia e di ordine sociale. Nel omento in cui l‟Idea si finitizza in entità concettuale appunto de-finita, la sua espressione reale diventa parte del Molteplice, ente fra enti, perdendo la sua originaria 85
Ivi, 11 a. Ivi, 11 b. 87 Ivi,12 a. 86
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necessità logica nell‟atto in cui assume la forma fenomenica di una attuale possibilità. L‟Essere possibile è l‟ente, la cui datità coincide con la perdita della sua unità originaria e l‟acquisizione dell‟essenza molteplice. Divenendo ente tra enti oggettivi, la verità oggettivata diventa idealità finita e come tale opinabile, ossia diventa una “opinione”. L‟essenza della santità non è la “fede”, la credenza, il pathos religioso, ma la giustizia, ossia l‟essere del concetto definito dal giudizio logico, che dice “l‟opposto di ciò che disse il poeta”, ossia dell‟uomo che narra fantasticamente. Una volta, quando la poesia coincideva con la verità e il poeta era il logico, la “paura” degli dèi andava insieme alla “vergogna”, senza distinzione. Ma, logicamente, “la paura” (entha) “ha una maggiore estensione della vergogna” (aidòs), per cui “la vergogna è una parte della paura”, e allo stesso modo “il santo è una parte del giusto”. 88 Ciò significa che quanto è definito logicamente, l‟essenza, non varia, mentre cambia lo stato d‟animo che la riguarda e che costituisce un‟affezione accidentale. La logica occupa quindi ogni spazio essenziale, lasciando al pàthos il residuale, senza vera importanza ai fini della definizione di ciò-che-è. “Se, dunque, il santo è una parte del giusto, bisogna, evidentemente, che noi troviamo quale parte del giusto sia il santo”.89 Eutifrone, il fedele, capitola di fronte all‟arte euristica di Socrate, affermando, come l‟interlocutore voleva, che anche a lui “pare che sia pia e santa quella parte del giusto che concerne la cura per gli dèi; l‟altra parte del giusto, invece, è quella che riguarda la cura per gli uomini”. 90 Circa il tipo di “cura” che riguardi gli dèi, cioè la “santità”, Eutifrone afferma che essa consiste nell‟ “arte di servire gli dèi”. Ma Socrate incalza chiedendogli “qual‟è mai quel meraviglioso effetto che gli dèi perseguono, avvalendosi dei nostri servigi?”, 91 ottenendo da Eutifrone la desiderata risposta: se uno è capace di dire e di fare cose gradite agli dèi, pregando e sacrificando, queste sono azioni sante; e siffatte azioni sono quelle che salvano le famiglie e le città. Invece, le azioni contrarie a quelle gradite agli dèi sono empie: e sono queste che
88 89
90 91
Ivi,12 c-d. Ivi, 12 d. Ivi, 13 d. Ivi, 13 e.
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sovvertono e rovinano ogni cosa.
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La risposta di Eutifrone è oltremodo significativa, perché pone la volontà degli dèi come criterio di legislazione del mondo umano. Ma essa non soddisfa Socrate, il quale pretende una “definizione” che vincoli ogni futura condotta umana e liberi dal capriccio divino la vita dei mortali. La fede dev‟essere tramutata in “scienza (epistéme) del chiedere e del donare agli dèi […] ciò di cui da essi abbiamo bisogno”, 93 “dando loro le cose di cui hanno bisogno da noi”, ossia “un‟arte di commerciare gli uni con gli altri”. 94 Ma ha senso questo commercio per gli dèi? Di cosa essi potrebbero aver bisogno da noi? “Onore e venerazione”, 95 risponde Eutifrone, ossia “ciò che è caro agli dèi”, e da cui si era partiti, è il riconoscimento della loro potenza, della loro superiorità sugli uomini. Ma non è forse questa la pretesa che anima ogni rapporto sociale? Non è forse questa la meta di ogni contesa circa il Potere? E trasferendo nel mondo umano la grandezza divina, non si è così trasferita nell‟umanità la lotta che la fede negli dèi aveva sopito tra i pochi che governano le sorti del mondo e i molti che vi si adeguano? La rottura del patto di fede tra uomini e dèi, non elimina la questione del Potere, ma la rende umana, dispensando gli dèi dal ruolo dirigente tradizionalmente goduto e che aveva garantito agli uomini la pace sociale, che ora è perduta e che torna ad essere un obiettivo politico da conseguire. Eutifrone fugge dal circolo vizioso che avvolge il ragionamento di Socrate, rifugiandosi nella sua fede e abbandonando Socrate ai suoi dubbi. Ma per questo il dialogo risulterebbe aporetico? O non piuttosto perché Eutifrone va per la sua strada e Socrate per la sua? Platone pare rifuggire dal circolo vizioso, ma in realtà lo considera tale sol perché non ha ottenuto un risultato virtuoso per Socrate. Il “circolo” infatti sarebbe stato “virtuoso” ovemai Eutifrone avesse abiurato alla sua fede e aderito a quella socratica. Ma finché la fede antica lo guida, è Socrate a fare la parte del sofista, buono a contraddire ma non a concludere. Fu dunque vera fuga quella di Eutifrone, o non piuttosto fastidio verso l‟oziosa logomachia del filosofo sofistico? 92 93
94 95
Ivi, 14 b. Ivi, 14 d. Ivi, 14 e. Ivi, 15 a.
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11. Il tèlos della Repubblica platonica è di definire lo Stato “perfetto”96, ossia la costituzione politica ideale, non suscettibile di variazioni empiriche. Nondimeno, tradendo l‟origine empirica della rappresentazione idealistica, per Platone la comunione o “armonia” di donne uomini e figli, doveva costituire una comunità sociale sul modello familiare, perché “tutti credessero d‟esser tutti della stessa stirpe”. 97 Le ragioni di tale credenza naturalistica non erano dunque ideali, e ancor meno giustificabili tenuto conto della asserita superiorità delle forme ideali rispetto ai fenomeni naturali, espressa a proposito del concetto di “deviazione dei corpi celesti” () è lo stesso di Politico, 269 e, indica l‟imperfezione dei corpi naturali a paragone con la perfezione divina, e la conseguente impossibilità dei corpi celesti di mantenere orbite perfette e immutabili. Questo concetto può essere ripreso a proposito dei cicli storici degli assetti istituzionali degli Stati e delle altre forme sociali, la cui mobilità e decadenza è rapportabile appunto alla imperfezione della natura umana che li ha costituiti. Da ciò dovrebbe dedursi la natura divina della repubblica platonica, la cui “perfezione” dovrebbe superare ogni limitazione dei prodotti umani. Infatti, nel dialogo si racconta dell‟eredità legislativa greco-arcaica ispirata da Atena, 98 la quale, “come studiosa della guerra e insieme della scienza, scelse e dapprima popolò quel luogo [cioè Atene ]che doveva produrre gli uomini più simili ad essa”, cioè gli Ateniesi, che “vivevano con siffatte leggi e ancor meglio governati, superando tutti gli uomini in ogni virtù, come si conveniva a figli e alunni degli dèi” 99. L‟origine divina della legislazione ateniese aveva lo scopo di accreditare sia a) l‟immutabilità delle norme di vita sociali, non soggette alla variabilità degli interessi politici, che b) la natura non-politica del Governo sociale. E poiché la politica è espressione degli interessi 96
Platone, Timeo, I, 17 c. La presente versione è tratta da Opere, Roma-Bari, 1974, vol. II, trad. di C. Giarratano. 97 98
99
Ivi, I, 18 d. Platone, Timeo, III, 23 e.
Ivi , III, 24 d.
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economici delle classi sociali, queste dovevano stabilizzare il proprio status economico per stabilizzare la regolamentazione delle loro istanze politiche, al fine di non provocare, con la loro instabilità socioeconomica, spinte politicamente interessate al cambiamento degli assetti istituzionali. Platone ribadisce la distinzione essenziale tra “ciò che sempre è e non ha nascimento”, cioè è inderivato e originario, e quindi ideale, e come tale “si può apprendere con l‟intelligenza mediante il ragionamento”, e ciò che invece “è e insieme non-è” e che “nasce sempre e mai non è”, in quanto prodotto sensibile e umanamente imperfetto, perciò “opinabile e soggetto all‟opinione mediante la sensazione irrazionale, perché nasce e muore e non esiste mai veramente”. 100 La perfezione insita nel modello originario si produce come bellezza, che è la forma propria di ciò che è sempre uguale a se stesso, laddove ogni prodotto derivato da un imperfetto “modello generato” è anch‟esso imperfetto come il suo modello, e quindi “non bello”. 101 Ogni cosa deve pertanto considerarsi prioritariamente se originaria, cioè “è stato sempre, senz‟avere principio di nascimento”, o derivata, e cioè “se è nato, cominciando da un principio”. Se è nato, “si può vedere e toccare ed ha un corpo”, cioè è sensibile, “e le cose sensibili, che sono apprese dall‟opinione mediante la sensazione […] sono in processo di generazione e generate”. 102 Se noi giudichiamo buono questo mondo, e buono pertanto il suo artefice, dobbiamo di conseguenza pensare che egli “guardò al modello eterno”, e quindi “il mondo così nato è stato fatto secondo modello, che si può apprendere con la ragione e con l‟intelletto, e che è sempre nello stesso modo”. 103 Il principio () naturale è per Platone, come per tutto il pensiero greco, l‟origine () di ogni cosa, per cui “i discorsi” relativi alle cose “delle quali sono interpreti” devono considerarsi come se con esse avessero una “qualche parentela”. E pertanto, “quelli intorno a cosa stabile e certa e che risplende all‟intelletto, devono essere stabili e fermi e, per quanto si può, inconfutabili e immobili”, mentre quelli che ineriscono a qualcosa che “raffigura quel modello ed è a sua immagine, 100
V, 27 d – 28 a. Ivi, V, 28 a-b. 102 Ivi, V, 28 b-c. 103 Ivi, V, 29 a. 101
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devono essere verosimili e in proporzione di quegli altri: perché ciò che è l‟essenza alla generazione, è la verità alla fede”. 104 Platone stabilisce una fondamentale correlazione tra “essenza” delle cose, che si trasmette nella “generazione” di esse, e “verità” di fede, che permane al di là delle opinioni mutevoli, di cui il discorso diventa il luogo di mediazione. Ciò vuol dire che la relazione tra essenza delle cose, ossia razionalità, e fondamento di fede, ossia verità, deve sussistere anche sul piano verbale. Ma poiché tale relazione inerisce valori eterogenei, quali la oggettiva realtà naturale e la soggettiva credenza ontologica, ed è in ogni caso prodotto umano, la tecnica di affabulazione risente sia della esigenza di veridicità che dei limiti delle umane possibilità espressive, per cui “i ragionamenti” che ne trattano, per quanto possibilmente “concordi”, ossia logicamente coerenti, non possono esserlo “pienamente”, ossia “esatti” in ogni loro parte, sicché all‟uomo conviene esprimere la veritiera natura delle cose sotto forma di “favola verosimile”, cioè di Mito, senza cercare di oltrepassarne dialetticamente la espressività simbolica. 105 Questa giustificazione platonica del Mito quale luogo della verità allude sia alla superiorità simbolica dell‟espressione orale, il “canto”, sulla tecnica espressiva del ragionamento, cioè la dialettica, e sia alla comprensione della logica entro il racconto mitico quale suo momento di inveramento. Infatti, essendo il Mito l‟espressione simbolica di idee astratte, la loro trascrizione razionale presumeva la versione simbolica, la cui forma rappresentativa fu adottata quindi dai filosofi per esprimere, attraverso le allegorie, contenuti teoretici di verità. A sua volta, il Mito, proprio a seguito della sua versatilità rappresentativa di contenuti anche filosofici, si prestò, a partire dal I sec. d.C., a un utilizzo esplicitamente religioso da parte delle correnti di pensiero gnostiche. 106 Ma non fu un caso che tale tentativo religioso da parte di Filone d‟Alessandria “di mettere d‟accordo la sua fede giudaica con la filosofia platonizzante” avesse per oggetto proprio la filosofia platonica, essendo Platone per primo a servirsi del Mito in senso precipuamente allegorico-teoretico funzionale a un disegno ideale di tipo religioso, che costituirà il paradigma di ogni mito-logia idealistica. 104
V, 29 b-c.
105
V, 29 d. H. Jonas, The gnostic religion (1953), tr. it., Torino, 1973, pagg. 107-108.
106
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Rispetto alla rappresentazione meramente simbolica, legata al dato sensibile, per cui “la significazione del symbolon si fonda sulla sua concreta presenza”, attraverso la quale esso “acquista la sua funzione rappresentativa”, quella allegorica, appartenendo alla sfera del logos, emenda retoricamente l‟elemento “scandaloso” della tradizione religiosa, mettendo in luce “sotto di esso, verità valide”. In tal senso, l‟espressione allegorica ha una intrinseca funzione di interpretazione teologica del Mito, che manca alla funzione anagogica del simbolo, anche se entrambi “trovano per eccellenza la loro applicazione nell‟ambito religioso”, per la ragione che “non è possibile conoscere il divino se non in base al sensibile”. 107 Infatti, “l‟inscindibilità tra aspetto visibile e significazione invisibile, il coincidere delle due sfere, sta alla base di ogni culto religioso”, per cui il dato sensibile caricato di valore simbolico diventa cifra del Mistero, “indizio di qualcosa di misterioso” che “presuppone un legame metafisico tra visibile e invisibile […]la cui decifrazione è riservata agli iniziati”. 108 L‟allegoria, realizzando tale unità significativa non attraverso la sola espressione simbolica ma “attraverso il rimando a qualche cosa d‟altro”, istituisce un rapporto convenzionale e dogmatico che “permette di usare rappresentazioni sensibili per indicare ciò che non ha figura sensibile”, 109 donde deriva la sua fruizione logico-religiosa. Se il tratto tipico della gnosi è il dualismo metafisico,110 caratteristica dell‟idealismo è il tentativo di superarlo in virtù di una metafisica monistica, che, espungendo dialetticamente la vera ed eterna essenza dalla falsa e accidentale esistenza, stabilisce una corrispondenza tra la realtà ideale e la realtà fenomenica che da logica diventa ontologica. Il senso metafisico di tale corrispondenza è offerta da Platone nel Timeo allorquando afferma che “l‟artefice” della generazione dell‟universo, essendo “buono” e perciò “non invidioso” per alcuna cosa imperfetta, “volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano”.111Orbene, la similitudine che intende Platone consiste nella assimilazione logica di tutte le cose partecipabili del logos al modello ideale, attraverso il metodo dialettico, che elimina dall‟essere ciò che essere non-è, facendo dell‟ente (ciò-che-è) la sola vera realtà ontologica, 107
H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pag. 100. Ivi, pag. 101. 109 Ivi, pag. 102. 110 H. Jonas, The gnostic religion, tr. it. cit., pag. 63. 111 Platone, Timeo, VI, 29 e. 108
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corrispondente reale a quella ideale. L‟identificazione di razionalità esistenziale e di logicità ideale è corrispettiva all‟identità di Essere e Idea, e di metodo e verità. Se alcuno accetta questa dagli uomini prudenti come la principale cagione della generazione e dell‟universo, l‟accetta molto rettamente. Perché dio volendo che tutte le cose fossero buone e, per quant‟era possibile, nessuna cattiva, prese dunque quanto c‟era di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente, e lo ridusse dal disordine all‟ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello.
Platone indica chiaramente che la produzione demiurgica non interessa l‟informe materia dell‟apparente esistenza, che, in quanto imperfetta, “si agitava sregolatamente” e in quanto priva di metodo razionale “disordinatamente” in cerca della sua forma ideale, ma interessa invece la vera realtà, quella logica, cioè consustanziale al logos universale. L‟intervento razionalizzante di assimilazione dell‟altro al sé, coincide con “l‟ordine” razionale (), considerato “migliore” dell‟ordine della vita naturale (), che è “disordine” per la ragione. In questo “passaggio” da una condizione d‟ordine spontaneo a una condizione d‟ordine razionale si determina il processo della attività spirituale, consistente appunto nella de-finizione di ciò che della rappresentazione mitico-religiosa costituisce l‟elemento filosoficamente vero logicamente distinto da quello fantasticamente falso. Ora né fu mai, né è lecito all‟ottimo di far altro se non la cosa più bella. Ragionando dunque trovò che delle cose naturalmente visibili, se si considerano nella loro interezza, nessuna, priva d‟intelligenza, sarebbe stata mai più bella di un‟altra, che abbia intelligenza, e ch‟era impossibile che alcuna cosa avesse intelligenza senz‟anima. Per questo ragionamento componendo l‟intelligenza nell‟anima e l‟anima nel corpo, fabbricò l‟universo, affinché l‟opera da lui compiuta fosse la più bella secondo natura e la più buona che si potesse. Così dunque secondo ragione verosimile si deve dire che questo mondo è veramente un animale animato e intelligente generato 112 dalla provvidenza di dio.
L‟ordine cosmologico razionale suppone un giudizio di realtà ontologico, per cui l‟ordine spontaneo sia disordine, e che il vero ordine naturale sia quello razionale, ossia quello fornito di “anima intelligente”, di logos. La 112
Platone, Ivi VI, 29 e-30 a-b.
110
cosmologia idealistica è pertanto espressiva di una ontologia, fondata su un giudizio di realtà, che coincide con lo stesso criterio di razionalità immanente al giudizio logico. In altri termini, la dialettica, come tecnica di distinzione logica tra ciò-che-è e ciò-che-non-è razionale secondo il fondamento ontologico di realtà, presume tale fondamento, che è criterio di ragione per il metodo ma che in sé è del tutto fideistico, pre-logico e perciò mitico rispetto alla sua rielaborazione filosofica. Il rapporto di religione e filosofia è dunque dialettico in quanto concernente lo stesso fondamento di realtà mito-logico, in quanto tale rappresentabile in termini vero-simili. Nello jato tra la verità ideale e la realtà fenomenica si sviluppa l‟attività del “ragionamento” teoretico, che è ricerca espressiva dell‟unità simbolica dell‟Essere. E‟ ovvio che si perviene all‟unità solo in quanto è possibile comporre la difformità in senso correttivamente conforme, ossia nel senso della perfezione “bastante a se stesso” e tale da realizzare in sé le proporzioni armoniche delle sue parti (). Tra la perfezione divina e l‟imperfetto mondo sensibile, il demiurgo pose l‟anima, destinata a “governare il corpo” come questo a “obbedirle”,113 di essenza intermedia tra l‟Uno e il Molteplice, che “partecipa della natura del medesimo e di quella dell‟altro”, ossia dell‟essere e del non-essere,114 consentendo di distinguerle e di pervenire quindi alla verità sia considerando l‟una – l‟elemento sensibile - che l‟altra natura – quella razionale - delle cose, conseguendo lo stesso risultato finale appellandosi tanto alla credenza nel vero quanto alla scienza.115 La superiorità dunque della produzione divina del mondo risiede nella sua armonia fisica e metafisica attraverso la presenza dell‟anima, che essendo eterna appunto anima, cioè rende vivo, il mondo come un “animale eterno”, 116 ossia un essere animato di eternità. D‟altronde, l‟eternità si addice pienamente al divino, ma imperfettamente al sensibile da esso generato, per cui il demiurgo del mondo crea una “immagine mobile dell‟eternità”, soggetta cioè alla mobilità delle imperfette cose finite e numerabili, distinta dalla eternità “che rimane nell‟unità” ideale sempre uguale a se stessa. Alla forma temporale 113
Ivi, VIII, 34 b-c.
114
Ivi, VIII, 35 a. Ivi, IX, 37 a-c. 116 Ivi, X, 37 d. 115
111
numerabile, appartengono e scansioni del passato e del futuro generate dal tempo, mentre a quest‟ultimo “conviene veramente” il “solo è” eternamente presente, “che è sempre nello stesso modo immobilmente”.117 Il posto dell‟uomo è intermedio tra gli dèi immortali, avendone simile l‟anima del mondo, e gli animali, soggetti al turbamento del loro stato naturale, e perciò Platone afferma che è “duplice la natura umana”.118 L‟anima, che contrariamente agli elementi materiali dell‟acqua, dell‟aria e della terra è “invisibile”, appartiene unicamente all‟essere intelligente, per cui bisogna che l‟amico dell‟intelligenza e della scienza ricerchi prima di tutto le cause della natura ragionevole, e in secondo luogo tutte quelle che si generano da altre che sono mosse e di necessità ne muovono altre. E così bisogna fare anche noi: dobbiamo esporre queste due specie di cause, distinguendo quelle che compiono con intelligenza il bello e il bene e quelle che sprovvedute di ragione operano ogni volta a caso e 119 senz‟ordine.
La “vista” dei fenomeni, cioè la contemplazione, è la premessa che ci consente di ragionare su di essi, secondo un parallelo tra quanto avviene nel mondo stabilito dagli dèi e quanto in quello della nostra mente, i cui “giri irregolari” potessimo correggere “imitando i giri della divinità che sono regolari”. 120 L‟intelligenza, che ha sede nella mente, governa la necessità, a cui sono legati gli elementi corporali, attraverso la “savia persuasione” di rivolgere finalisticamente “al bene la più parte delle cose che si generavano”. 121 Oltre al principio dello spazio () e a quello della materia, Platone nel § XVIII introduce un terzo , che è una “specie difficile e oscura” da trattare a parole, perché di genere misto come quello dell‟anima, “intermedio tra l‟elemento corporeo-divisibile e quello incorporeoindivisibile” […] i quali riportano, così come identità e differenza nel
117
Ivi, X, 38 a.
118
Ivi, XIV, 42 a.
119
Ivi, XVI, 45 d-e Platone, Timeo, XVI, 47 c.
120
121
Platone, Timeo, XVII, 48 a.
112
conoscere, all‟unità e alla molteplicità” 122 è il “ricettacolo di tutto ciò che si genera, quasi una nutrice”. 123 Questo terzo elemento, in realtà è il fondamento degli altri due, così come il Mito è l‟orizzonte di senso dell‟Essere, entro il quale orizzonte si determinano i due astratti elementi della fabulazione fantastica e della distinzione razionale, per cui nella concreta unità mito-logica “il ricettacolo [fisico] e lo spazio [ideale] sono [simbolicamente] una sola e medesima cosa”,124 esprimibile solo in senso figurato, allegorico e metaforico. Lo stesso movimento delle nature sensibili, che si mischiano e si trasformano, e “cambiando tutte di sede […], mescolandosi con se stesse e fra loro, son divenute infinite di varietà”, richiede una rappresentazione che non può essere perfetta ma solo “verosimile”, 125ossia allegorica e tale da raffigurare la “diversità”, causata dalla “diseguaglianza”, e quindi il “movimento”, ossia il divenire altro delle cose, che “nell‟uniformità non può mai esistere”.126 Diversità e diseguaglianza sono dunque intimamente legati al movimento, che Platone raffigura plasticamente come dovuto a una mutazione della “grandezza” degli elementi fisici, che provoca lo spostamento della loro “posizione nello spazio”. In tal modo, egli scrive, “la diseguaglianza si genera in perpetuo e produce un movimento perpetuo di queste cose, che è, e sarà continuamente”.127 E pertanto essendo gli elementi originari “in disordine, dio mise in ciascuna [cosa], e con se stessa e con le altre, una giusta proporzione in tal grado e maniera ch‟esse potessero esser simmetriche e proporzionate”, sostituendo alla loro disposizione casuale l‟ordine derivato dall‟attribuzione qualificativa del “nome” a ciascuna cosa, distinguendola da ogni altra. 128 Non è difficile leggere, dietro la rappresentazione “verosimile” di questa cosmologia naturalistica, ripresa nella topica corporale dei caratteri della natura umana, un senso recondito e figurato inerente alla condizione umana, anch‟essa partecipe della realtà universale, e perciò destinata alle stesse leggi necessarie che regolano la condizione dei corpi celesti e degli 122
H. Kraemer, Platone e i fondamenti della metafisica, a cura di G. Reale, tr. it. Milano, 20016, pag. 208. 123 Platone, Timeo, XVIII, 49 a-b. 124 Aristotile, Fisica, IV, 209 b, 11-13. 125 Platone, Timeo, XXII, 57 c-d. 126 Platone, Timeo, XXIII, 57 e – 58 a. 127 128
Ivi, XXIII, 58 c. Ivi, XXXI, 69 b.
113
elementi terrestri. E infatti quale insegnamento politico può trarsi da questa rappresentazione cosmica se non quello di evitare, da un lato la stasi dell‟uniformità, e dall‟altro il movimento caotico dell‟assurda diseguaglianza, attraverso la riproduzione quanto più fedele dell‟ordine divino eterno? Il senso dunque della razionalizzazione dell‟ordine sociale a opera della filosofia è riposto nella capacità di collegare il microcosmo sociale al macrocosmo siderale, secondo un piano di verosimile equivalenza in cui vi è già tutto implicato il motivo rivoluzionario intrinseco a ogni razionalismo idealistico. È la natura composita dell‟uomo, la cui “anima immortale avvolta in un corpo mortale”, convive con un‟altra anima, “quella mortale, che ha in sé passioni gravi e irresistibili”, 129 a indurre l‟uomo a ricercare la parte razionale e immortale di sé, distinguendola dalla parte caduca e irrazionale, affinché, così nella divina tutto si corrisponde, anche nell‟uomo “la forza dei pensieri, ch‟esce dalla mente, vi si potesse riflettere [nelle sue parti fisiologiche] come in uno specchio che riceve le figure e fa vedere le immagini”. 130 Un‟immagine particolare, non a caso criptica e da “discernere col ragionamento” interpretando razionalmente “tutte le immagini vedute” nella sua rappresentazione simbolica, è la “divinazione”, la cui incoscienza libera l‟uomo dall‟opposta tensione della ragione e delle avverse passioni, “correggendo anche la [sua] parte inferiore, affinché [anche l‟uomo] toccasse in qualche modo la verità”. 131 Il carattere della divinazione è ambiguo, sospeso tra la stoltezza e la coscienza, segno della sua indipendenza da ogni umana disponibilità, che potrebbe decidere di una sua indebita e pericolosa fruizione. Solo il “savio” può infatti interpretare le immagini ispirate della visione divina, mentre “chi è preso da furore [per aver perso la ragione a causa di una malattia o perché divinamente ispirato] e rimane ancora in questo stato non è in grado di giudicare le sue visioni e le sue parole”. 132 La costituzione fisica dell‟uomo, seppure obbedisce a un divino disegno 129
Ivi, XXXI, 69 c.
130
Ivi, XXXII, 71 b.
131
131. Ivi, XXXII, 71 e.
132
Ivi, XXXII, 72 a.
114
cosmico, ed è strutturata per razionali simmetrie organiche, non risponde comunque a un disegno di dominio fisico sul resto della creazione, ma semmai è finalizzata all‟esaltazione del governo razionale della mente sul corporeo, ossia della qualità delle azioni umane sulla loro possanza. E pertanto “gli artefici della nostra generazione, considerando se convenisse creare una stirpe più longeva e peggiore o una migliore e di vita più breve, giudicarono che a una vita più lunga e più cattiva si dovesse assolutamente preferire una vita più breve e più buona”. 133 Il tema della qualità della vita umana, a preferenza della quantità, presente incidentalmente anche nell‟Emilio del Rousseau, introduce surrettiziamente, al di là delle esplicite ammissioni dell‟Autore, il tema della funzione del governo razionale sull‟universo corporale, ossia della “intelligenza” sul “nutrimento”, che possiamo tradurre nei termini del controllo politico dell‟economia. Già qui Platone esprime a suo modo, attraverso immagini fisiologiche, la differenza ontologica tra la funzione di Governo, di natura razionale e pertanto divina, e le altre funzioni organiche del corpo sociale, subalterne a quella direttiva del primo; differenza che sta all‟origine della discriminazione sociologica tra ceto dirigente, intellettualmente produttrice, e massa economicamente produttiva, diretta. Queste “due nature” umane, sia pure ammantate di connotazioni naturalistiche nella cosmologia platonica, e a prescindere dalla modalità delle loro possibili combinazioni strutturali, costituiscono l‟embrione idealistico di ogni tema escatologico, perché introducono entro il tema antropologico un motivo teologico, che diventa dominante ogni qualvolta non venga rimossa la questione della differenza ontologica, e che invece viene considerato allotrio alla sfera politica o esistenziale dell‟uomo nel caso di quella rimozione. Al motivo teologico corrisponde inseparabilmente il tema del Governo sociale, che costituisce il riflesso politico della speculare posizione teoretica. A proposito si può dire che il pensiero politico di Platone è la proiezione sociologica della sua teoria antropologica, fondata sull‟intuizione metafisica del dualismo cosmico, di cui l‟idealismo rappresenta una risposta filosofica, cioè razionalistica, mentre lo gnosticismo ne rappresenta una di tipo religioso, cioè mistica. Le due risposte restano distinte sul piano della rispettiva giustificazione teoretica, ma del tutto simili su quello delle conseguenze pratiche, perché entrambe tendono in modi diversi a superare quel 133
Ivi, XXXIII, 75 b-c.
115
dualismo ontologico attraverso una sua reductio ad unum, che per l‟idealismo è di tipo logico, mentre per lo gnosticismo religioso è di tipo etico. L‟idealismo platonico, pertanto, da teoria filosofica diventa teoria religiosa nel momento in cui postula la necessità di una missione escatologica legata ai suoi stessi presupposti ontologici, tale da negare questi affermando quella, traducendo le sue verità di ragione, teoretiche, in motivi assiologici, di tipo pratico, e quindi politici. Questa conversione escatologica del dualismo ontologico in un monismo logico, è doppiamente fallace: sia in senso religioso, in quanto creduta di natura ontologica, mentre è soltanto il risultato di una interpretazione logica, quella appunto idealistica; e sia in senso filosofico, perché intimamente contraddittoria, negando praticamente ciò che afferma in principio, ossia che la diversità e non l‟uguaglianza sia la ragione finale del mondo, e pertanto soluzione imperfetta e mobile quanto il divenire, anziché immobile ed eterna come l‟Uno cui essa ambisce. Quando al motivo gnostico, religioso e quindi pratico, si lega la teoria idealistica, filosofica e quindi teoretica, l‟ontologia eterna diventa una deontologia storica, e la verità divina, che è una e perciò immobile, prende i segni delle umane passioni, che sono molteplici e perciò conflittuali. E proprio il passaggio dalla divina all‟umano segna, col tramonto del sacro, ossia dell‟universo di senso mitico, il trionfo del pensiero profano, conferito appunto dall‟universo di senso politico, ossia di quel razionalismo sofistico protagonista di ogni contesa polemica, contro cui era insorta l‟istanza dialettica del governo sulla umana ragione. Nella prospettiva idealistica di Platone, la dialettica è la del governo umano del mondo; un governo scientifico degli uomini naturali da parte dei filosofi, uomini semi-divini, la cui padronanza del logos rendeva simili agli dèi. Lo strumento privilegiato della logica idealistica si affermava su ogni altra rappresentazione del mondo, costituendo pertanto il luogo privilegiato dell‟esercizio del potere umano sul mondo emancipato, non soltanto dal kaos della “ignoranza” umana del vero, che insieme alla “pazzia” rappresenta una delle due forme della tipica “malattia dell‟anima”, la “stoltezza”, 134 ma anche da ogni imponderabile interferenza divina, essendo divino il governo stesso dei sapienti. Se il motivo teoretico fa della filosofia la concorrente scientifica della mitologia religiosa, è la supposizione gnostica per cui la “sapienza” è il 134
Ivi, XLI, 86 b.
116
nutrimento della parte “divina” dell‟uomo e “l‟ignoranza la più grande delle malattie”135, a fare dell‟idealismo platonico il modello dialettico di ogni razionalismo irenico, di ogni messianismo escatologico fondato sul potere della ragione. La misura della saviezza razionale è la temperanza, il giusto mezzo tra passioni opposte, che rendono l‟anima umana “inferma”, disponendola contro la sua volontà, e a seguito di un “allevamento senza educazione”, alla malvagità, 136 con ricadute pedagogiche sul piano della vita civile inevitabilmente negative. Infatti, quando a corpi così mal formati si aggiungono cattive istituzioni civili e si fanno cattivi discorsi in privato e in pubblico per le città, né dai giovani si apprendono insegnamenti che in qualche modo rimedino a questi mali, allora tutti noi, che siamo cattivi, diveniamo cattivi per quello due cagioni senza punto volerlo. E di questo bisogna incolpare ogni volta i genitori più che i figli, e gli educatori più che gli educati, e si deve cercare, per quanto si può, mediante l‟educazione, i costumi e gl‟insegnamenti, di fuggire la malvagità e di conseguire il suo contrario.137
La “sola salvezza” ai “due mali” della “stupidità” e della “ignoranza” è, ancora una volta, di tenere in armonia le parti naturale e divina dell‟uomo, e quindi “non esercitare né l‟anima senza il corpo, né il corpo senza l‟anima, affinché entrambi difendendosi conservino l‟equilibrio e la salute”, consentendo così a chi “vuole essere chiamato a ragione uomo veramente bello e insieme buono” 138 di poterlo realmente essere. Dell‟uomo equilibrato Platone a un di presso tesse l‟elogio, indicandone la virtù nell‟autonoma armonia dei movimenti della sua mente con quelli dell‟universo,139 che costituisce poi il governo di sé e della “parte corporea”, essenziale perché “si possa vivere [in modo] più conforme alla ragione”. 140 A ragione di ciò, Dio ha assegnato a ogni uomo la “specie più alta dell‟anima […] come un genio tutelare” che “ci solleva da terra alla nostra parentela nel cielo, come piante non terreni ma celesti”.141 L‟equilibrio cosmico si regge dunque sulla diversità delle nature umane, 135
Ivi, XLII, 88 b. Ivi, XLI, 86 d-e. 137 Ivi, XLI, 87 a-c. 138 Ibidem. 139 Ivi, XLII, 89 a. 140 Ivi, XLIII, 89 d. 141 Ivi, XLIII, 90 a. 136
117
ricavate dalla differenza ontologica, radice di quella antropologica, che si riflette nell‟orizzonte morale come distinta disposizione verso l‟una o l‟altra natura, quella divina e quella mortale. E così, l‟uomo che s‟abbandona alle passioni e alle contese e molto vi si travaglia, di necessità non concepisce se non opinioni mortali e proprio niente trascura per divenire, quanto si può, mortale, perché accresce la parte mortale: quello invece che si è applicato allo studio della scienza e alla ricerca della verità ed ha specialmente esercitato questa parte di se stesso, se raggiunge la verità allora è del tutto necessario che abbia pensieri immortali e divini, e per quanto la natura umana possa partecipare dell‟immortalità, non ne lasci nessuna parte, e come quello che coltiva la parte divina e serba in 142 bell‟ordine il genio che abita dentro di sé, sia sopra tutti felice.
Al di là dei precetti igienici, ciò che preme maggiormente in questo dialogo a Platone è di stabilire il principio della necessaria corrispondenza, ai fini della “ottima vita”, dei movimenti dell‟umano agire con le “armonie dell‟universo”, che vanno tenute come il modello universale che rende simile la natura umana a quella “antica” divina, e parimenti “il contemplante e il contemplato”. 143 Nondimeno, la tensione antropologica verso la sublimazione nel divino riveste essa stessa un carattere proprio alla natura umana, che è quello del polemos, sicché l‟esercizio agonistico della virtù dialettica ha come obiettivo implicito di avere la meglio su quanto fronteggi e resista al dispiegamento delle risorse teoretiche funzionali al ben-vivere secondo ragione. Ciò comporta che gli stessi residui naturalistici persistenti nell‟agire umano, come mentalità, usi e costumi di retaggio tradizionale, vengano revisionati al lume della sapienza superiore del Lògos, riconosciuto come l‟istanza suprema, superiore anche a quella delle costumanze religiose. E dunque se per affermare la sovranità della ragione sulle inferiori pulsioni vitali che animano l‟esistenza biologica e sociale dell‟uomo occorre ingaggiare una lotta per la supremazia spirituale, essa ha per scenario anzitutto la coscienza umana. La polemica con la propria natura elementare, derivata dalla educazione spontanea dell‟uomo socializzato, impegna propriamente il filosofo che intenda scoprire, dietro il velo che riveste le forme culturali consolidate, 142
Ivi, XLIII, 90 b-c.
143
Ivi, XLIII, 90 d.
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l‟essenza più intima e più radicale dell‟uomo, che resta celata sotto l‟opinione comune dominante. E in questa tensione che sdoppia il volto dell‟Essere si rivela la distanza tra la realtà apparente in cui è immersa la coscienza comune e quella vera attinta dal pensiero noetico. Forse più che nella Repubblica è nelle Leggi che Platone si prodiga per superare la dimensione naturalistica dell‟antropologia greca propugnando di attingere a un ordine ideale superiore a quello immanente alle costituzioni sociali tradizionali, entro il quale sia possibile ridefinire l‟ordine valoriale non più sul parametro del labile potere politico, legato alle condizioni contingenti dei temporanei rapporti di forza, ma su quello ben diverso e più solido del governo sapiente, esercitato in virtù della sua ispirata corrispondenza con l‟orcodine non transeunte della realtà ideale. In quest‟opera ritroviamo in nuce non soltanto i motivi della sublimazione degli impulsi vitali in vista della civilizzazione, ma soprattutto i prodromi della lotta per la supremazia dello spirito sulla carne oggetto della soteriologia cristiana, e inoltre, magari in filigrana, anche il paradigma archetipo della trasvalutazione antropologica dell‟uomo naturaliter passionalis, nell‟oltre-uomo totus rationalis.
12. Nelle Leggi troviamo da subito il fondamento assiologico delle costituzioni politiche greche, allorquando si afferma che “lo Stato di buona costituzione” consiste nell‟ “esser amministrato e organizzato in modo da vincere in guerra tutti gli altri”, conformemente a un “rapporto di guerra” che non vale solo “per gli Stati verso gli Stati”, ma anche “fra villaggio e villaggio”, “per una famiglia nei confronti di un‟altra” e “per un singolo uomo nei confronti di un altro uomo”. 144 Il fondamento polemico, che costituisce il “vero principio” da cui si origina ogni discorso costituzionalistico e genericamente politico, “fa essere nemici tutti a tutti” sia “pubblicamente”, e cioè nell‟ambito delle relazioni sociali, che “privatamente”, ossia “in ciascuno di noi contro se stesso”. Infatti, il principio polemico non è riservato alla sfera pubblica e relativamente alla dimensione propriamente politica della socialità, ma esso ha un valore universale che investe ogni rapporto umano, compreso quello che il singolo uomo ha con la propria natura, e dunque in tal senso “vincere se stesso è la prima e la più bella di tutte le vittorie”, mentre 144
Platone, Leggi, I, III 626 c-d.] La versione italiana è quella di A. Zadro per le Opere, vol. II, Roma-Bari, 1974.
119
invece “cedere a se stesso è la cosa peggiore e la più vergognosa”. 145 Ma qual è la natura custodita da ognuno e che è bene vincere in se stessi? Nella prospettiva platonica, il rapporto che l‟uomo ideale stabilisce con il se stesso naturale rappresenta il paradigma esistenziale della lotta che il pensiero filosofico dei pochi giusti deve condurre contro i pregiudizi correnti di cui è preda la moltitudine. A seconda della prevalenza dei molti sui giusti, ovvero di questi sui molti, è possibile stabilire la qualità dello Stato, che dunque deriva originariamente, prima di ogni forma legale e sistema istituzionale, da un ordine antropologico, in conformità del quale viene assegnata la legittima forza sociale. Ciò vuol dire che la situazione sociale di fatto può determinarsi secondo diverse e molteplici modalità politico-istituzionali, come confermato dalle diverse costituzioni politiche storiche e dagli stessi cambiamenti intervenuti ad Atene in conseguenza della vittoria di Sparta, ma non perciò ogni situazione, so perché sussistente, sia anche la migliore possibile. E pertanto Platone, svincolando la realtà di fatto da ogni necessità razionale, stabilisce tra la realtà e il pensiero un rapporto di mutua determinazione che dischiude al tradizionale mondo sociale una prospettiva di possibilità fino ad allora neppure concepibile entro gli schemi formali del naturalismo sociologico arcaico, la quale, pervenendo a un criterio teorico, si sarebbe rivelata nel contempo utile a stabilire “ciò che è giusto e ciò che è sbagliato” secondo la “vera natura” delle leggi. Questo legame di funzionalità che il pensiero filosofico stabiliva con la realtà sociale, conferiva al legislatore un compito meta-politico, di superamento della dimensione polemica, in vista dello stabilimento della pace, la quale, diversamente dalla soluzione cruenta derivata dalla “distruzione di una parte e la vittoria dell‟altra”, mira alla “riconciliazione” sociale, al “fine migliore” rispetto alla “guerra”, ossia al fine etico della “benevola concordia”. 146 E dunque, così come il fine della persona ragionevole è quello di vincere la natura finita a favore della superiore visione razionale delle cose, il fine del legislatore è quello di ordinare “le opere della guerra in funzione della pace, piuttosto che quelle della pace in funzione della guerra”, facendo della politica, anziché un‟arte bellica, una “cura” utile alla “felicità di uno Stato”. 147 La dimensione della pace e della concordia sociale, superatrice della condizione propriamente politica del polemos civile, è quella del 145
Ivi, III 626 d-e. Ivi, IV 268 b-c. 147 Ivi, IV 268 d-e. 146
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Governo, che per Platone costituisce l‟ambito etico dell‟ottimo vivere sotto le migliori leggi. Il legislatore, infatti, non deve a suo dire, preoccuparsi del solo coraggio contro i nemici, poiché esistono “due specie di guerra”, la “guerra civile”, la più dura e cruenta, e quella “contro i nemici esterni e stranieri”. 148 Se dunque la legislazione si occupasse di una sola delle virtù utili in guerra, il coraggio, senza curarsi della giustizia, della saggezza e dell‟intelligenza, che “sono migliori del solo coraggio preso per sé”, non si potrebbe contare sulla fedeltà alla causa comune, che per Teognide costituisce “la più alta virtù” che conta decisamente “nei momenti più difficili e che si potrebbe chiamare anche la perfezione del giusto”. 149 Considerati i beni “umani” quali la salute, la bellezza e la forza fisica, e quelli “divini” come l‟intelligenza, la temperanza, la giustizia e il coraggio, “il legislatore deve far osservare quest‟ordine nella stessa misura”, al fine di preordinare ogni norma “in funzione di questi valori”, che sono anzitutto divini e quindi umani, e tutti ordinati “all‟intelletto, che tutti li governa”. 150 E dunque l‟unità auspicata delle diverse virtù sotto l‟egida della ragione a costituire il Governo ideale dell‟uomo, quella “perfezione” che è la meta del “giusto” legislatore. Nella II Lettera a Dionisio, Platone afferma che la sua “grandezza” consiste “nel seguire la ragione”, ossia nel perseguire la coerenza tra dottrina e comportamento pratico.151 E, a proposito del giusto, fa dire a Socrate nell‟omonimo trattatello, che “il giusto è in funzione dell‟uso che ne facciamo”, 152 ma anche che è “la parola” lo strumento del giudizio idoneo a distinguere il giusto dall‟ingiusto,153 sicché l‟uso “opportuno” è rinvenibile solo all‟interno dell‟orizzonte di coscienza razionale, in cui regna l‟uso discriminante della parola, per cui “il giusto è giusto in virtù della sapienza”, 154 che è la “opportunità” () in senso teoretico, non confondibile pertanto con alcun relativismo pratico. La conseguenza è che non si può perseguire alcuna giustizia senza prima determinare un 148
Ivi, V 269 c-d. Ivi, V 630 b-c. 150 Ivi, VI 631 c-d. 151 Platone, Lettere, II 310 c. 152 Platone, Sul giusto, I, 372 a. La versione italiana è di G. Sillitti, per le Opere, ed. it. cit., vol. II. 153 Le Leggi, I, III 373 d. 154 Ivi, VII 375 c. 149
121
criterio di giustizia, trasferendo la situazione reale nell‟ambito ideale, dove la relatività degli assunti particolari viene a perdere la sua pregnanza esistenziale, il carattere, cioè, volontaristico e interessato dell‟azione, a favore di una consapevolezza che sfugge alle dinamiche dei moventi pratici, governato dalla “ignoranza” del valore della parola, tramandata agli uomini come eredità di “ingiustizia” dagli ignari “antenati”. 155 Abbiamo tutti gli ingredienti dell‟analisi razionalistica: la tradizione foriera di pregiudizi, l‟astrazione concettuale dalla molteplicità del divenire, il luogo privilegiato del lògos per determinare dialetticamente il vero (giusto) dal falso (ingiusto). Ma abbiamo soprattutto la risposta che ogni forma di razionalismo avanza a soluzione dell‟esigenza unitaria del pensiero teoretico, ossia che tale unità si consegua nel concetto. In più, la novità dell‟idealismo platonico consiste nell‟asserzione che anche l‟unità sociale si consegua col concetto, alla stregua di quella teoretica. La “parola” diventa dunque il collegamento funzionale all‟esigenza di unità riscontrabile tanto nel mondo sociale che in quello morale. Ed è tale comune modalità di costituzione unitaria a stabilire la centralità anche politica della filosofia, la quale diviene, da esercizio retorico sofistico, il luogo universale della conciliazione degli opposti, ovvero della pace sociale. Orbene, proprio tale risposta idealistica alla questione dell‟unità del molteplice rappresenta la dimensione fideistica più saliente del pensiero platonico, e in senso lato dell‟intera tradizione razionalistica che, attraverso il cristianesimo, si costituirà come l‟universo di senso culturale della civiltà occidentale. Infatti, che il concetto logico, a cui si perviene attraverso il metodo dialettico, sia il fondamento unitario dell‟Essere è una mera petizione di principio, una credenza di fede ontologica, che espunge dall‟Essere ogni insussumibile alterità, ma non soddisfa punto quell‟esigenza unitaria che pure afferma deontologicamente di soddisfare. E così come soprattutto nel Sofista e nel Parmenide emerge l‟insopprimibile dualismo ontologico di fronte alla riconosciuta realtà del diverso, nelle Leggi s‟impone sin da subito la differenza tra la pacificazione politica per esclusione dell‟alterità e la giusta pace del Governo di sapere, sofocratico. Come abbiamo visto, e vedremo in seguito, la metodica dialettica o esclusiva, se costituisce la forma ideale della prassi politica, non è compatibile con l‟istanza di giustizia avanzata dalla ragione morale al 155
Ivi, VIII 375 c-d.
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cospetto della condizione polemica immanente alla vita, pratica e teoretica, dell‟uomo. Per la semplice ragione che non colma la distanza metafisica e antropologica tra la dimensione in cui regna la parola (quella noetica) e la dimensione politica in cui regna il conflitto (quella sociale), se non a condizione di trasceglierne una a detrimento dell‟altra. Ed esattamente questa è la proposta filosofica di Platone a favore del Governo giusto di sapere. Sennonché, come abbiamo testé asserito, essa si fonda sulla credenza che la determinazione logica dell‟ente corrisponda alla determinazione ontologica dell‟Essere. e su questa creduta analogia metafisica Platone tende a sostituire l‟unità mitica della rappresentazione cosmologica naturalistica tradizionale con l‟unità logica derivata dalla rappresentazione dialettica dell‟Essere ideale. E su questa premessa deontologica il filosofo cerca di realizzare l‟ordine sociale conformandolo all‟ordine ideale e garantire così l‟ottimo vivere sotto la giusta e perfetta legislazione. Il contenuto legislativo viene da Platone equiparato al giudizio logico, ossia alla decisione, per cui, stabilito che in ogni uomo si contrappongano le opposte tensioni del “dolore” e del “piacere”, e che sono “giusti e retti gli uomini capaci di comandare a se stessi, disonesti gli altri”, sulle loro contraddittorie pulsioni, “che stanno dentro di noi come fossero nervi o una specie di fili e ci trascinano e, poiché sono contrarie fra loro, ci inducono ad azioni contrarie”, “si esercita il ragionamento” che infine “decide”, esprimendo un giudizio razionale. Ed è appunto “quest‟atto divenuto poi comune decisione di uno Stato [che] si dice „legge‟ ”. 156 L‟equiparazione di “legge” a “ragionamento” racchiude l‟intero senso del discorso platonico sull‟ottimo Stato come governo di sapere. La differenza rispetto alla soluzione politica risiede nella natura “dolce e delicata” del ragionamento, il quale è pertanto “mite e non violento”. 157 Il superamento della dimensione violenta della politica avviene dunque per Platone col trasferimento delle sue opposizioni polemiche sul piano delle relazioni ideali del “discorso”, in cui vige l‟ordine logico della “parola”, con la quale vanno curate le affezioni malvagie dell‟anima.158 Ma la condizione di tale traslazione è l‟identificazione, tutta idealistica, della vita dello Stato con la vita della coscienza soggettiva, ossia con 156
Ivi, XII 643 b - XIII 644 b-e. Ivi, XIII 645 a. 158 Questa l‟accezione platonica di “politica” quale “arte che di deve curare [dei] problemi [relativi] alla natura e condizione delle anime”: Ivi, XVI 650 b. 157
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l‟immedesimazione della realtà sociale con la realtà spirituale. E l‟idea della omogeneità dell‟organismo sociale con la coscienza umana, e la conseguente estensione del concetto di armonia virtuosa alla condizione sociale, costituisce il lascito idealistico a ogni futuro razionalismo olistico. La spiritualizzazione della vita sociale intesa come organismo affetto di tutti i mali e rimedi proprii alla natura umana, tralascia la considerazione della funzione dei corpi etici intermedi nella formazione educativa dei cittadini, attribuendola alla sola filosofia, al solo sapere teoretico, il quale si serve della politica come strumento funzionale allo scopo sociopedagogico. E poiché la filosofia consiste nel pensiero del filosofo, è questi a rappresentare quella funzione propria all‟istituzione pedagogica impartita attraverso la politica. nella figura platonica del filosofo vi è tratteggiato in nuce il ritratto dell‟educatore pubblico che tanta parte avrà nei regimi di democrazia moderna, il quale, diversamente dal ruolo essenzialmente privato dell‟aio e del sofista, come del resto anche dello stesso filosofo tradizionale, assume una funzione pubblica, riconosciuta dal Potere. La concezione idealistica del sapere filosofico come sapienza socializzata tende a rimuovere tutta quella varietà di condizioni particolari che caratterizza la molteplice compagine sociale di uno Stato e che, rispetto all‟armonia virtuosa della coerenza razionale, rappresenta il principale motivo di disordine ideale, e quindi di scompaginamento politico. La prospettiva idealistica assume pertanto la molteplicità del divenir dell‟essere sociale come la causa del disordine politico, da correggere attraverso un ordine sistemico, razionalmente concepito, tendente alla stessa stabilità goduta dalle forme ideali. In Platone sorge, non già l‟idea della politica come architettura sociale, sempre rivestita dal Potere, ma l‟idea di una politica intesa non più come arte demiurgica di un legislatore ispirato, ma come scienza di Governo logicamente guidato. Rispetto alla volontà arbitraria del Potere politico tradizionale, il Governo platonico della società assume il ruolo che il filosofo ha verso il discepolo, il padre verso il figlio e il dio verso l‟uomo: quello di formare le coscienze e dirigere i destini umani, presumendo che i più non possano farlo da sé, ossia nella convinzione antropologica che il dispiegamento delle potenzialità umane inerisca a un processo di sviluppo indipendente dalle doti connaturate al genere umano, e attivabile soltanto attraverso un metodo educativo. Diversamente dalla condizione degli altri enti naturali, il cui sviluppo potenziale è inscritto nella legge biologica dell‟esistenza, 124
nell‟uomo l‟attivazione delle sue risorse spirituali è legata alla paideia filosofica, incentrata sulla parola e precipuamente sulla tecnica dialettica. Attraverso l‟uso filosofico della parola, l‟uomo diventa pienamente se stesso, ossia virtuoso. La virtù consiste dunque nel possedere in pieno il governo delle umane possibilità. Ed è tale pienezza di governo a fare la differenza tra il mero uomo naturale e il filosofo, e parimenti, tale dispiegata possibilità socializzata costituisce il valore aureo del Governo illuminato dal sapere, ben distinto qualitativamente dal mero esercizio arbitrario del potere politico. E proprio in questa istanza idealistica di partecipazione sociale alla verità filosofica si annida l‟origine dell‟universalismo razionalistico, quale tipico motivo deontologico di ogni morale razionale, concepita come valore erga omnes, commisurato appunto alla sua destinazione universale. In Platone la politica perde il suo carattere bio-politico, naturalistico, per assumerne uno pedagogico ed apparentemente eudemonistico ma che in realtà, inerendo alla destinazione esistenziale dell‟uomo, investe lo stesso suo profilo antropologico. Certo, la terminologia platonica, riferendosi al piacere e al dolore, è ancora naturalistica, ma dietro la terminologia comune la vera posta in gioco è la definizione di un‟antropologia emancipata da ogni tradizionale naturalismo; diversamente dal cristianesimo personalista, ancora declinata in senso sociologico, ma surrettiziamente destinata a trasvalutare in senso spiritualistico l‟idea dell‟uomo. L‟analisi di chi studia le leggi verte quasi totalmente sul piacere e sul dolore, negli stati e nel costume d‟ognuno; questi come due fonti scorrono liberamente per natura, e chi attinge a loro nel luogo nel tempo e nella misura giusta è felice, lo Stato, l‟individuo e ogni essere vivente, chi invece lo fa 159 senza discernimento e fuori di ogni opportunità [ ], vivrà infelice.
Se proviamo a rimuovere il motivo essoterico eudemonistico, sotto la crosta naturalistica che riveste la sociologia politica platonica rinveniamo un nucleo problematico esoterico di carattere teleologico che sarà ripreso espressamente dal cristianesimo in chiave teologica, ma che, nonostante la sua cripticità, costituisce il motivo saliente e più duraturo della sua concezione filosofica umanistica. La stessa predicazione pedagogica, letta nella traccia del motivo recondito, acquista un significato assiologico 159
Platone, Leggi, I, VIII, 636 d-e.
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unitario a cui va condotto ogni contenuto afferente ad aspetti particolari non esplicitamente contemplati dal discorso esplicito, ma sottesi comunque ermeneuticamente ad accreditarlo. Da qui l‟opportunità di una esegesi trasversale dei testi platonici, tesa a trascrivere attraverso il senso testuale quello recondito ma principale, custodito dalla rappresentazione mitica e dall‟autentico suo contenuto teoretico. Il rapporto tra l‟unità del Mythos e la differenza stabilita dal Logos va inteso in senso certamente assiologico, come indicato da Aristotile in riferimento ai due Princìpi primi, 160 ma anzitutto in senso onto-logico, dal momento che la causa formale delle Idee è l‟Uno, ossia il Mito, quale fondamento veritativo del Logos. Tra i due sensi non si stabilisce una corrispondenza univoca ma rovesciata, poiché l‟unità del Bene affermata come valore morale ed etico-sociale, viene acquisita teoreticamente attraverso il procedimento dialettico, intrinsecamente polemico ed esclusivo, per cui ciò che è unitario per costituzione originaria, il Mito, lo diventa per costituzione formale a seguito del discernimento logicoconcettuale. Ciò comporta che l‟unità logica sia una costituzione derivata, e il suo valore assiologico benefico, che nel Mito è originario, è qui il portato di una tensione deontologica. Ma se il Bene è in sé l‟Uno, e l‟Uno è il Mito, ossia l‟unità ontologica, per conseguire l‟unità del Molteplice bisogna trasfigurarlo logicamente, facendo di esso una unità ideale. Nella trans-formazione del Molteplice in Uno consisteva la razionalizzazione della realtà attraverso il discorso dialettico, che procedeva così alla idealizzazione del naturale attraverso una razionale. Mitica diventa per Platone la condizione naturale, diremmo il mondo-della-vita, la cui unità indistinta non soddisfa il bisogno d‟ordine dell‟uomo, che ricerca pertanto attraverso la ragione una più coerente unità ideale, che lo emancipi dall‟edacità della condizione in divenire della imperfetta realtà molteplice. L‟imperfezione e il Male diventano quindi sinonimi di condizione irrazionale dell‟esistenza, che si perpetua per mera tradizione. Nella cultura tradizionale domina la rappresentazione mitica della realtà, la cui falsa unità, plurivoca, va sostituita con la vera e univoca unità ideale, acquisibile non con l‟esperienza del politico e l‟arte creativa del poeta, ma col metodo logico dell‟uso tecnico della parola da parte del filosofo. Poiché l‟unità logica o filosofica è seconda rispetto a quella mitica prima, 160
Aristotile, Metafisica, A 6, 988 a 14-17.
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essa è conseguibile, socraticamente, solo all‟atto della sua determinazione verbale, la quale peraltro rimane ermeneuticamente aperta a successive considerazioni teoretiche non presenti esplicitamente nel testo scritto che le ha ispirate, e che si pone rispetto ad esso come l‟espressione verbale rispetto al contenuto concettuale. Sono i famosi di cui parla Aristotile. 161 L‟immagine poetica, veicolata dall‟espressione orale, coglie l‟immagine di ciò che l‟Essere “è” non attualmente ma così com’è attraverso la sua attualità. Essa anticipa l‟attualità in quanto la supera senza fermarsi ad essa, ossia farla coincidere con l‟Essere stesso. In tal senso, l‟immagine dell‟Essere trascende l‟attualità del suo essere-presente e rimanda al nonessere-ancora o alla sua inattualità o appunto trascendenza. Ciò che invece coglie l‟attualità dell‟Essere e lo conosce per ciò-che-è, è il concetto logico, che distingue ciò che “è” attualmente l‟Essere da ciò che “non-è” attuale. Rispetto alla sua attualità concettuale, ogni rappresentazione dell‟Essere non attuale, è una “immagine”, ossia un “pre-concetto” che avanza la sua validità d‟essere anche rispetto a ciò che l‟Essere attualmente non-è. Ogni conoscenza dell‟Essere ha inizio con la presa di coscienza della sua immagine, ma per il razionalismo essa non è la vera conoscenza, in quanto confonde nella stessa rappresentazione l‟Essere che è dall‟Essere che non-è attuale, mentre essi vanno nei due casi logicamente distinti. Una volta distinto l‟Essere che è dall‟Essere che non-è, il concetto logico astrae l‟Essere attuale dalla sua negatività e lo pone come l‟Essere di verità, rispetto al quale l‟Essere negativo è il falso. Ma poiché l‟attualità è relativa all‟inattualità, la sua verità deve coincidere con la sua attualità eterna, per cui l‟Essere vero non è solo quello attuale ma anche quello eternamente attuale, non soggetto cioè a mutamenti nel senso del nonessere. E poiché ciò che muta e trapassa è ciò che è imperfetto, l‟Essere vero ed eterno deve essere anche perfetto, essendo quindi la perfezione uno dei suoi caratteri essenziali Ciò premesso, ci rendiamo conto delle parole di Platone quando nel Fedro osserva che la scrittura è arte della memoria (mnemosyne) e non della sapienza, per cui “i migliori scritti non sono altro che strumenti della memoria per coloro che sono già sapienti” (278 a). Egli, da razionalista, intendeva dire che l‟espressione concettuale fermata in immagine 161
Aristotile, Fisica,
-17.
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scritturale, in rappresentazione drammaturgica, può solo evocare la presenza dell‟Essere quale si è manifestata in quella circostanza attuale, ma non può esaurirne l‟essenza trascendente, ogni volta evocabile in una sua precipua attualità da parte del pensiero logico in atto, che è orale se veicolato dall‟oralità dialogica, o scritto nella misura in cui è rappresentato dalla forma scritturale. Parimenti, anche l‟immagine dell‟Essere può essere orale o scritta, senza che la sua rappresentazione ne condizioni l‟essenza, che è trascendente e non contenibile entro la forma attuale della sua espressione contingente. La memoria rievoca l‟attualità di ciò che è stato attuale, e la rende presente alla coscienza attuale, secondo quanto già intuito da Gentile. Il sapere attuale di ciò che già si sapeva rende presente ciò che presente non è ma possibile. La possibilità,che comprende attualità e l‟inattualità dell‟Essere, è il suo carattere essenziale, che dunque, per non essere esclusivamente attuale, non è necessariamente concettuale, come ritiene invece il razionalismo, ma intuitivo. Il carattere veritativo dell‟Essere, ossia la sua possibilità di essere attuale o inattuale, non può essere conosciuto concettualmente, in quanto il concetto logico coglie solo l‟attualità dell‟Essere, ma solo simbolicamente, ossia attraverso immagini che trascendano l‟attualità senza poterla definire e distinguerla logicamente dall‟inattualità. La conoscenza simbolica è quella che consente di conoscere dell‟Essere il suo carattere essenziale, che è la possibilità, la quale, in quanto trascendente ogni attualità concettuale, può essere solo intuita. Ed è questa intuizione dell‟Essere a precedere e seguire ogni sua rappresentazione logico-concettuale, contenendola in una immagine trascendente l‟attualità, che è quella del Mito, da cui procede ogni pensiero logicamente distinguente, e distinguente appunto l‟attualità d‟essere dalla più comprensiva possibilità immaginativa di ciò che può essere. Ed è l‟intuizione della possibilità a ritrovare nell‟attualità il già saputo, facendone il ri-saputo, ri-elaborandolo in termini attuali. In tal senso le “pre-conoscenze devono essere continuamente rivedute sulla base di ciò che risulta dall‟impatto con i testi”, e “per converso a loro volta gli scritti rendono comprensibili le dottrine non scritte”, in quanto il già detto richiama sempre il possibile dirsi, per cui le “pre-conoscenze devono essere continuamente rivedute sulla base di ciò che risulta dall‟impatto con i testi”.162 Ma, nondimeno, non va confuso il processo 162
G. Reale, Introduzione a Per una nuova interpretazione di Platone, cit., pag. XXII.
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dialettico con l‟oralità, ossia il contenuto teoretico con lo strumento espressivo, facendo del commodum della scrittura il proprium della forma concettuale. Quanto alla difficoltà di comprender Platone, essa è legata a due ragioni fondamentali. La prima inerisce alla circostanza che la sua offerta teoretica costituisce la filosofia quale si è sviluppata nella tradizione occidentale a partire da lui, e inoltre dal fatto che la sua esposizione conserva l‟involucro mitico dal quale si trae maieuticamente il pensiero logico a seguito del superamento dialettico del residuo non-logico e fantastico. Solo a seguito del trasferimento sul terreno logico, la rielaborazione ha potuto concentrarsi sul procedimento sistematico, lasciando alle spalle il fondamento ontologico sul quale si basava il suo originario orizzonte di senso. “Ridurre a sistema” Platone, significherebbe appunto trarre dal processo della sua scaturigine dialettica, i risultati dottrinali, assumendoli come un dato derivato, salvo poi accorgersi che essi venivano anche presupposti come pre-giudizi. Questa constatazione dovrebbe indurci a ritenere, non tanto che gli siano la chiave di accesso al pensiero di Platone, come pure è ovvio trattandosi di dati intuitivi della coscienza, quanto soprattutto che la presunta ignoranza degli esiti teoretici del processo dialettico deriva dalla posizione interna alla dimensione mitica e non ancora elaborata da cui derivano i successivi dati logici, già tutti inscritti nella possibilità custodita dall‟Essere di cui essi sono la definizione attuale, e non la realtà totale. Questa adombrata consapevolezza spinge Platone a distinguere i risultati dialettici, registrati dalla scrittura dialogica, dal contesto occasionale della loro produzione, considerando questo transeunte e quelli duraturi e, nei termini della loro definizione, motivo di ulteriore elaborazione critica. Essendo un processo in fieri il pensiero platonico non può essere “sistematico”, in quanto la sistematicità inerisce una fase del pensiero superato da altro pensiero che l‟abbia definito, per cui il pensiero di Platone è sistematizzabile solo da quello dei filosofi che l‟hanno ripensato, ma non in se stesso. Esso, inoltre, costituendo la scaturigine di ogni successivo pensiero filosofico, è a sua volta tanto mitico quanto logico in una misura maggiore di ogni successiva rielaborazione filosofica operata da altri pensatori. D‟altronde, poiché ogni rielaborazione razionale dell‟Essere scaturisce da una sua pregressa definizione, e questa non è che il risultato di una sua attualizzazione logica, non è possibile cristallizzare la conoscenza 129
ontologica sul mero dato logico dei concetti contingenti e transeunti, ma intenderla nei termini del fondamento che li sostiene e che ne comprende la stessa loro varia possibilità. Ora, esattamente questa confusione è operata dalla conoscenza scientifica , la quale, identificando il contingente concettuale con il fondamento ontologico, è costretta a rivedere continuamente le proprie credenze metodologiche, superandole come “errori” o “superstizioni” e cambiarle per nuove ipotesi cognitive, a volte del tutto innovative e “rivoluzionarie”, i “paradigmi” nel senso del Kuhn, i quali “forniscono modelli che danno origine a particolari tradizioni di ricerca scientifica con una loro coerenza”.163 Orbene, questi “paradigmi scientifici” non sono altro che i modelli logici, scambiati per fondamenti ontologici, derivati dalla teoria delle Idee di Platone. Che tali modelli paradigmatici non esprimano un sapere fondamentale ma solo un‟opinione più o meno condivisa, è attestato dalla circostanza che la loro credibilità teoretica è relativa alla loro condivisione comunitaria quale “unità di misura” o “criterio per scegliere i problemi che, nel tempo in cui si accetta il paradigma, sono ritenuti solubili”, ossia alla loro assunzione a valore socialmente accettato.164 La funzione “modellatrice” dei paradigmi scientifici è quella stessa che viene svolta dalle istituzioni storiche garantite dal Potere, sicché il loro legame con la struttura politica che li mantiene in vigenza è, in linea di principio e di fatto, storicamente insopprimibile. E dunque, quando Platone afferma che In ogni compagnia, in ogni comunità, per qualsiasi specie di attività sorga, è giusto che sempre ci sia un capo di ciascuna”, intendendo per esso “non un capo d‟eserciti che dovrà dirigere gruppi d‟uomini negli scontri ch‟essi sosterranno in guerra fra loro, nemici contro nemici, ma di un benevolo capo d‟amici che in pace s‟uniscono ad amici, 165
il filosofo intende implicitamente e fuori testo che il compito fondamentale di ogni Governo è di assicurare politicamente, con la pace sociale, anche l‟unità scientifica della comunità, senza la quale non sarebbe possibile la comune conoscenza della realtà. La doxa ha bisogno 163
Ved. T.S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions (1962), tr. it., Torino, 1969, pag. 30. 164 T. S. Kuhn, Op. cit.., tr. it. pag. 58. Ved. B. Barnes, La dimensione sociale della scienza, tr. it., Bologna, 1985. 165 Leggi, I, X 640 b.
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del Potere per affermarsi, e muta con esso. Solo la conoscenza della verità, appellandosi a un sapere superiore a quello dell‟opinione comune, può affermarsi autonomamente dalla garenzia offerta dal Potere. Ma tale sapere filosofico, non socializzato, intenda anch‟esso affermarsi autoritativamente come opinione comune, ecco che è costretto a tradire la sua natura esoterica e comunicarsi come sapere universale attraverso l‟egida del Potere. La contraddittoria sorte della visione platonica deriva però non già dall‟atteggiamento incoerente del filosofo, ma dalla natura ambigua della sua dottrina delle Idee, credute fondamenti di realtà ontologica e invece solo mere proiezioni ipostatiche dell‟ente fenomenico operate dalla astratta logica dialettica. Questa logica, funzionale alla determinazione dei concetti, astratta dal suo fondamento ontologico, diventa una mera “ipotesi” epistemologica, confermata da riscontri positivi ma pur sempre confutabile empiricamente attraverso riscontri negativi, la quale non perviene ad alcuna “verità” o “valore” – epistemologicamente rimosso per statuto in quanto dato extrascientifico – e rimane dunque circoscritta all‟ambito di certezza della sua efficace applicazione significativa. Ora, si dà il caso che le ipotesi che abbiano una maggiore probabilità d‟essere confermate empiricamente sono quelle circoscritte a situazioni ed eventi già determinati e perpetuati tradizionalmente come retaggio d‟esperienza comune. Le tradizioni culturali nascono dal bisogno di certezza ingenerato dai problemi d‟esistenza e dalle risposte efficaci che lo soddisfano, e perciò testimoniano della tendenza umana a consolidare il rapporto d‟efficacia nei termini assicurati dall‟esperienza. E quando Platone scrive che bisogna che l‟educatore si sforzi di volgere coi giochi i desideri e i piaceri dei fanciulli là ove, giunti, troveranno il compimento della loro perfezione di adulti. La testa dell‟educazione è, noi diciamo, un allevamento appropriato che il più possibile indirizzi l‟anima del fanciullo che gioca all‟amore di ciò in base a cui dovrà, diventato uomo, essere perfettamente in possesso di quella che è la virtù connessa alla sua professione.166
egli intende affermare la necessità di educare l‟uomo a conformarsi a quelle certezze che costituiranno il senso stesso della sua vita e la legittimazione morale di ogni relativa incombenza che in essa si 166
Leggi, I, XII 643 c-d.
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presenterà. Ma questa situazione umana, che è teoretica quanto esistenziale, trova il suo momento di verifica, che le impone continue revisioni prospettiche e teoriche, nella istanza propriamente razionalistica di assicurare a ogni ipotesi epistemologica una validità universale, tale cioè da prescindere, come già la determinazione dei concetti logici, da ogni fondamento e relativo orizzonte di verità entro il quale stabilire i limiti della loro validità. Fuori infatti di quell‟orizzonte di senso veritativo entro cui ha significato la risposta teorica soddisfacente alla domanda filosofica, ogni risposta diventa ipotetica e aleatoria e destinata a mostrare i suoi limiti d‟efficacia essendo chiamata a rispondere a istanze non contemplate dai suoi moventi originari, che perciò si rivelano inadeguati ai bisogni nuovi e imprevisti. Questa dinamica auto-confutativa della scienza moderna, in realtà è antica quanto il pensiero filosofico, ovvero la sua prescritta validità di principio a costituirsi come conoscenza universale astratta da ogni fondamento di verità. Possiamo a questo punto renderci conto come la ricerca maieutica a definire il significato dei termini usati dal dialogo filosofico, tendesse implicitamente a individuare attraverso quel significato l‟orizzonte di senso che lo definisse come il di tutto il processo dialettico; quel fine teoretico che in realtà era anche la sua , ossia il suo fondamento veritativo. La rimozione dell‟uno comportava anche la rimozione dell‟altra, sicché la conoscenza filosofica, per conservare il suo postulato di universalità, ha accettato di declinarsi in termini probabilistici di “scienza normale”167, circoscritta non più per luogo ma per tempo. E‟ 167
Mentre la “normalità” costituisce la misura del riconoscimento degli eventi anomali, è la “anomalia” che per Kuhn apre alla formazione di nuovi “paradigmi”. Infatti, “tutte le crisi cominciano con lo sfocamento del paradigma e con il conseguente allentarsi delle regole che governano la ricerca normale”. “Tale presa di coscienza dell‟anomalia”, egli afferma, “apre un periodo in cui le categorie concettuali vengono riadattate, finché ciò che inizialmente appariva anomalo sia diventato qualcosa che ci si aspetta. A questo punto la scoperta è stata compiuta”: Op. cit., pagg. 111 e 88. Il ricorso all‟analogia delle rivoluzioni scientifiche con le rivoluzioni politiche, la dice lunga sulla natura fideistica delle credenze scientifiche, le quali fondano la loro validità sulla doxa. E infatti, com‟egli confessa candidamente, la “decisione” circa l‟abbandono del vecchio paradigma a favore dell‟assunzione di uno nuovo “può essere presa soltanto sulla base della fede”, dal momento che “tanto nelle rivoluzioni politiche come nella scelta dei paradigmi, non v‟è nessun criterio superiore al consenso della popolazione interessata”: Ivi, pagg. 190 e 122.
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chiaro che la declinazione pragmatistica del sapere di certezza di modo scientifico è tanto funzionale ai bisogni pratici dell‟uomo quanto distante dal motivo teoretico originario relativo al sapere di verità.168 Ma la natura pratica era già all‟origine della ricerca filosofica, che Platone, mutuando l‟istanza teoretica da Socrate, concepì nei termini di un pensiero universale. Infatti, Platone, mentre in un primo tempo, sotto l‟influenza del seguace di Eraclito, Cratilo, riteneva che degli enti mondani non potesse darsi scienza, in quanto le cose sensibili sono soggette a divenire, “successivamente, Platone accetta da Socrate il metodo della ricerca dell‟universale e della definizione [che] Socrate aveva applicato […] solo alla sfera etica [e che invece] Platone estese alla realtà nella sua totalità”.169 Ciò significa che la stessa ricerca filosofica come pensiero dell‟universale, è in se stessa fondata sul modello di una teoresi pratica, che rimane il fondamento non solo dell‟intera metafisica platonica, ma di ogni pensiero di sapere in teso come scienza razionalistica, ossia, in senso lato, di ogni idealismo filosofico. Infatti, Platone pensava che, essendo gli oggetti sensibili in continuo divenire, le definizioni e i concetti universali non potessero riferirsi ad essi ma a una realtà distinta dalla loro che egli chiama delle “Idee”, alle quali le cose sensibili si rapportano per “partecipazione”, ossia per causas. “Tuttavia le Idee o Forme non sono le cause prime e ultimative”, contenendo esse stesse degli “elementi costitutivi” o principi primi quali l‟Uno e la Diade di grande-e-piccolo, che Aristotile denomina rispettivamente “forma” e “materia”. Sicché l‟Uno è “causa formale” delle Idee, che a loro volta sono “cause formali” delle cose, mentre la Diade ne è la “causa materiale”.170 E‟ chiaro che essendo primi i Princìpi supremi cui fa riferimento Aristotile, e per esso lo stesso Platone, sono quelli fondanti sia le Idee, cioè la realtà dei concetti universali, che la realtà sensibile degli enti in 168
[Chiunque abbia dimestichezza con la gnoseologia crociana conosce la consapevolezza del filosofo italiano circa la differenza radicale dei due modi della conoscenza spirituale, consapevole dei quali era anche, tra gli altri Scheler. Ma l‟orizzonte logici stico entro il quale si muoveva la gnoseologia crociana non consentiva di far seguir a quella consapevolezza il superamento della metafisica idealistica attraverso la critica della falsa ontologia platonica, concetrata, come direbbe Heidegger, sull‟ ente anziché sull‟Essere. 169 170
G. Reale, Op. cit., pag. 38. Aristotile, Metafisica, A 6, 988 a 9-14. Ved. G. Reale, Op. cit.,, pagg. 38-39.
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divenire, ossia l‟Essere nella sua totalità. Ma tale Essere totale in verità è l‟Essere pensato appunto in senso universale, cioè filosoficamente per concetti logici, esclusivo e distinto dai suoi fondamenti originari, che dunque non possono essere logici anch‟essi, ma d‟altra natura, ovvero mitici. Il Mito, fondativo della realtà, è la scaturigine prima e originaria di ogni pensiero filosofico, e quindi della stessa scienza. Ogni rappresentazione filosofica contiene la sua scaturigine mitica e si costituisce pertanto come una rappresentazione mito-logica, ossia una elaborazione logica del Mito. L‟elemento propriamente mitico, in tale rappresentazione, è l‟orizzonte dal quale scaturisce il pensiero logico, la situazione contestuale che funge da materia discorsiva: nel caso dei dialoghi di Platone, i temi oggetto dei simposi amicali. E infatti da quei dialoghi sorge il pensiero propriamente filosofico, il quale prende a sussistere autonomamente dall‟occasione del suo sorgimento e quindi ad essere rappresentato altrimenti in nuove forme, le quali, a loro volta, saranno oggetto di successive elaborazioni filosofiche. Tale movimento in divenire, interessa le espressioni formali ma include gli stessi contenuti formali, i quali sono sempre relativi al contesto della loro rappresentazione. Da ciò consegue a) che c‟è una persistenza dei contenuti attraverso la molteplicità delle forme espressive, e b) che tale persistenza di contenuti resta comunque relativa alla possibile varietà delle forme espressive, per cui c) che il rapporto tra forme espressive e contenuti formalizzati è dialettico ma non di coincidenza. Tale distanza ha indotto Platone a ritenere in un primo momento che le Idee fossero eterne, salvo poi a scoprire che la loro durata dipendeva dai fondamenti veritativi sui quali si basavano, ancor prima che dalla varietà delle sue contingenti forme espressive. E poiché tali fondamenti rimanevano impliciti e, per così dire, in ombra rispetto all‟evidenza delle forme e dei contenuti rappresentativi, la loro scoperta non poteva essere esplicitata nei testi dialogici ma soltanto intuita come realtà prima nonscritta (agrafa dogmata) della quale tener conto, non già per inverare il contenuto logico dei dialoghi, che resta consegnato ai testi, ma bensì per confutare che la realtà delle Idee sia in verità eterna e universale, anziché relativa all‟orizzonte di senso veritativo costituito dal fondamento fideistico mitico. Questa consapevolezza della relatività delle Idee doveva indurre il critico a de-finire l‟universalità della loro validità erga omnes al contesto rappresentativo entro il quale esse conservano la loro significatività 134
simbolica e non assoluta. Proprio su questa assolutezza dell‟universalità ideale ha invece insistito la filosofia razionalistica, che non ha tento conto della relatività delle forme ideali ai loro fondamenti fideistici, per cui ha inteso costruire sulle Idee, anziché sui loro fondamenti, il senso stesso della realtà. Questa impresa, valorosa ma in sé impossibile, ha potuto perseguirsi a condizione di conservare alla filosofia, al di là della molteplicità delle sue forme rappresentative, lo stesso contesto dinamico entro il quale essa ha potuto costituirsi come elaborazione del Mito, ossia il contesto politico dal quale il pensiero filosofico sorse originariamente come stabile valore etico contrapposto alla forza transeunte del Potere. La ricerca di tale stabilità ideale divenne, già con Platone, la misura della stessa validità della stabilità sociale, e di fronte alla constata impossibilità di conseguirla, si giunse da parte dei filosofi a conservare, nella mutabilità delle forme e dei relativi contenuti ideali, la astratta metodica della loro parallela dinamica, legando a ogni forma storica il suo contenuto ideale, e a ogni cambiamento della prima il segno estetico del mutamento relativo dell‟altro, credendo in tal modo di mantenere l‟istanza universale nel metodo scientifico e il suo fondamento di verità nella consapevolezza della sua relatività. Questo éscamotage teoretico non ha salvato né il sapere filosofico, ridotto a scienza di certezza, né tantomeno i valori etici che avrebbero dovuto in ipotesi guidare la prassi politica, ma ha condotto invece la civiltà politica a una crisi infinita quanto il pregiudizio ideale che ne sostiene la sua presuntiva universalità, trascinando con sé la stessa risposta metafilosofica alla crisi della civiltà politica costituita dalla rivelazione cristiana, la quale a sua volta è stata rappresentata in termini filosoficamente universali, e quindi tali da poter essere a sua volta rielaborata criticamente e superata da altra e più alta coscienza critica, partecipando così a quel processo auto-affermativo e auto-confutativo di verità ideali che Nietzsche indicava come “nichilismo storico”. La tesi per cui lo scritto per Platone somiglia alla pittura,171 (ut pictura poesis) vuole sottolineare che il suo carattere di “immagine” o di “copia” del discorso orale è semplicemente “inferiore al modello originario”.172 Ma il rapporto tra oralità e scrittura è quello tra espressione originale e copia conforme? Ovvero muta in conseguenza della dinamica dialogica interna al soggetto della coscienza pensante, e non più legato alla 171 172
Fedro, 275 d 4. Ved. G. Reale, Op. cit., pag. 81.
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drammaticità corale dei dialoghi platonici mutuata dalla tradizione tragica greca? La questione è meno ovvia di quanto possa apparire, e ci introduce ai limiti della rappresentazione idealistica di Platone, e anche, però, a quella formalistica della tradizione ermeneutica schleiermacheriana. Infatti, per Platone l‟oralità di origine tragica rappresentava in maniera plastica e spontanea il travaglio fenomenologico del Lògos alla ricerca di sé. La maieutica è l‟arte di mimare il travaglio del pensiero logico. Non, cioè, di ogni pensiero, ma soltanto di quello concettuale della techne dialektiké, per cui i limiti rappresentativi della scrittura, sono gli stessi limiti teoretici della logica e del suo metodo. Platone riteneva, invece, che il pensiero si sviluppasse di per sé in termini dialettici, per cui a fronte della rappresentazione mitica di cui erano rievocazione le tragedie e, a suo tempo, i racconti omerici, le nuove forme rappresentative, guidate dalla tecnica dialettica, dovessero manifestare, attraverso i concetti, le Idee, le realtà eterne. E così come i testi drammaturigici fissavano in segni astratti e muti la mobilità drammatica delle rappresentazioni sceniche, anche i testi letterali dei dialoghi filosofici ritraevano di questi il solo astratto momento documentario, privo di tutta l‟atmosfera della tensione spirituale e la mimica la cui suggestione plastica solo il concreto parlato poteva rendere, e che costituiva ciò che nel Fedro viene indicato come il “discorso vivente”, “del quale il discorso scritto può dirsi, a buona ragione, un’immagine” ().173 Ciò che la pagina scritta () non rende è il travaglio del parto teoretico, che si svolge nell‟anima (), e non sulla carta. Là dove, cioè, avviene che alla semina segua il raccolto dei frutti del pensiero. Di tale intimo travaglio spirituale, la pagina scritta “rievoca” () il “racconto” (), ossia è un , una mitologizzazione, che “per gioco innocente” () trascrive quanto viene escusso dialetticamente nel dialogo “circa le cose giuste, belle e buone” ( ). 174 “Serio” è il travaglio del parto teoretico, orale, “gioco” la sua trascrizione pittorica, scritta. Perché? La ragione essenziale è legata al procedimento dialettico, che richiede la partecipazione attiva di chi ascolta, oltre che del parlante, senza la quale il dialogo si arresta. Ed esattamente questa funzione maieutica realizzata dal dialogo orale a mancare nel rapporto tra scrittore e lettore, che restano 173 174
Fedro, 276 a 8-9. Fedro, 276 c 3; 278 a 1-4. Ved. G. Reale, Op. cit., pagg. 83 sgg.
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distinti e separati, lontani dalla drammaturgia del dialogo in atto, sincronico L‟attualità viene perduta nella diacronia della lettura, la quale per riattualizzare il dialogo deve riportarlo immaginativamente alla sua originaria fenomenologia, e riviverlo così come se fosse presente. E‟ questa la dinamica mnestica della “reminiscenza” in senso platonico, che tornerà ogni qualvolta l‟interprete si trova a con-fondersi attraverso il documento nel contesto originario del quale esso è testimonianza muta, e a volte mutila e incerta. Alla base di questa teoria attualistica del Verstehen c‟è appunto sottesa la teoria platonica per cui l‟icona dell‟Essere lo rappresenta ma non ne dice il movimento, che invece dell‟Essere vero è la sua essenza dinamica. Da qui lo screditamento dell‟arte in generale, la quale ritrae dell‟Essere la sola immagine plastica ma non dinamica, fermandosi al simile. L‟aspetto più singolare di tale teoria è il contrasto tra la teoria delle Idee come rappresentazione della realtà eterna, e quindi immobile e immodificabile, e la teoria della essenza dinamica dell‟Essere conosciuto attraverso l‟attività dia-logica. Da questo contrasto bisogna partire per comprendere la diversa ipotesi ermeneutica circa il senso delle dottrine scritte e di quelle non scritte di Platone. Infatti, l‟ipotesi scritturale (antonomasticamente attribuita a Schleiermaker) fonda il suo criterio ermeneutico sulla teoria teleologica delle Idee come realtà eterna, laddove l‟ipotesi dell‟oralità (attribuita oggi alla scuola di Tubinga e di Milano) considera essenziale il motivo ontologico relativo ai primi Principii. La teoria scritturale si sofferma sul carattere teleologico in quanto pone come fine della conoscenza dialettica il conseguimento del concetto universale di realtà, che consente alla molteplice caducità degli enti finiti di potersi de-finire ed eterizzare in forme durevoli. La teoria dell‟oralità, di contro, si sofferma sulla considerazione di carattere ontologico della essenza dell‟Essere, e la scopre non-dinamica, e perciò fondamentale e originaria rispetto a ogni possibile dinamismo. Ne consegue che, mentre le Idee sono utili a impedire il kaos dell‟esistenza finita attraverso la sua formalizzazione logica, i primi Principii sono veri proprio perché restano coperti alla realtà dinamica e distanti dalla stessa edacità della sua finitezza. Non già lontani e iperuranei come le Idee, ma più radicalmente in-differenti e in-distinti, “totali”. La totalità della verità è pertanto più comprensiva dell‟universalità delle Idee, e come tale deve includere quella dinamicità dialettica che la scrittura non rappresenta ma solo tutt‟al più rammemora. 137
La falsa totalità delle Idee è appunto quella che rimuove il dinamismo drammatico del travaglio teoretico a favore della staticità del solo suo parto concettuale, per cui solo attraverso la concreta processualità dialettica della drammaturgia orale è possibile per Platone rendere compiutamente il senso totale dell‟Essere, che pertanto non è un senso logico-concettuale, ossia ideale e relativo alla finitezza degli enti mondani, ma spirituale, inerente alla dimensione fondamentale e assolutamente originaria. La distinzione tra una verità per gli enti fisici e la verità per le essenze meta-fisiche si riproduce inevitabilmente anche nelle relative chiavi interpretative della filosofia platonica, assegnando preferenzialmente all‟una o all‟altra il primato ermeneutico. La funzione della filosofia in senso socratico era stata quella di stabilire sopra il processo spontaneo del divenire, foriero di ingiustizie e di instabilità politica, una costellazione di valori che fossero di orientamento per la prassi. E Platone adotta questa istanza direttiva ricercando attraverso la dialettica quei concetti che fungessero da guida discriminante per scongiurare le derive critiche che la società greca stava culturalmente attraversando e che mettevano a repentaglio la stessa sopravvivenza della sua civiltà. In seguito, allorquando Platone intuisce la natura relativa dei concetti ideali, il senso della ricerca filosofica, che ormai investe ogni campo della realtà, non può concentrarsi alla definizione degli universali, ma allargarsi alla determinazione dei principi fondativi di ogni pensiero, logico e comune. In questa prospettiva allargata, il fine del filosofare non si arresta più alla determinazione del senso ideale a confutazione del senso comune, ma punta al rinnovamento spirituale degli uomini, o almeno di una minoranza di sapienti, attraverso l‟attività politica dei quali sia possibile formare nuovi assetti sociali filosoficamente ispirati. Questa nuova prospettiva filosofica configura in nuce due aspetti essenziali che verranno evidenziandosi e definendosi nel prosieguo della storia culturale dell‟Occidente: da un lato, la connessione di politica e filosofia, tipica di ogni prospettiva culturale razionalistica (= istituzionalismo); dall‟altro, la funzione pedagogica della filosofia come strumento teoretico funzionale al progresso spirituale e civile dell‟uomo (= profetismo). La critica del Fedro ai limiti della scrittura come mero strumento mnemonico di istruzione didattica è inerente anche ai limiti di un indottrinamento filosofico che non coinvolga la trasformazione spirituale dei destinatari, sicché lo stesso insegnamento accademico deve predisporsi alla metanoia, 138
rendendo quello filosofico un servizio di pedagogia sociale. L‟oralità di cui si compiace Platone caratterizzando il filosofo, costituisce l‟espressione pedagogica protretticamente funzionale all‟educazione spirituale in grado di asseverare e dimostrare dialetticamente i contenuti della sue affermazioni, distinguendosi chiaramente dai meri poeti, logografi e legislatori che, pur affermando ciò che dicono o scrivono, non sarebbero in grado di giustificarlo logicamente.175 E dunque se l‟uomo non può giungere, da mortale, a conseguire la sapienza, ovvero la perfetta coincidenza di sapere e di vita, concesso ai soli dèi, almeno deve tendere a raggiungere l‟amore del sapere, la filosofia appunto, che dedica alla conoscenza dei fondamenti e alla diffusione del sapere conforme ad essi le energie migliori a cui l‟uomo virtuoso possa onorevolmente dedicarsi per il bene suo e di quello comune. E‟ molto probabile che Platone, stabilendo il nuovo orizzonte di pensiero entro cui muovere la ricerca conoscitiva, intendesse stabilire una differenza significativa tra la produzione letteraria tradizionale, puramente idolatrica, ossia asseverativa dei suoi contenuti, dal sapere critico, in grado cioè di giustificare dialetticamente le conclusioni logiche del ragionamento filosofico. Altrettanto chiaro pare che la sua produzione intellettuale () rifletta la nuova prospettiva della conoscenza filosofica auspicata universalmente. La filosofia, pertanto, non consiste in un sapere statico, ossia dogmaticamente affermato e non logicamente dimostrato, ma un sapere di ragione, un sapere critico, che non sorge dalla contemplazione dell‟Essere ma dalla sua definizione logica. E‟ dunque un sapere dinamico e appunto dialettico, ossia presuppone la socialità () dell‟interlocuzione, di cui intende costituirsi come novella ragione universale. Inoltre, la sua conoscenza non somiglia alle altre , ossia non deriva da constatazioni di carattere empirico ovvero da calcoli sperimentali, ma scaturisce dalla scintilla dell‟intuizione intellettiva, la cui luce nasce all‟interno dell‟anima e si alimenta del suo stesso essere.176 In tal senso, essa non può essere trascritta in segni grafici, ma solo rivissuta come esperienza , in interiore homine. Platone qui intende riferirsi ai limiti che la parola comune, nonfilosofica, indicante cose sensibili, incontra nel comunicare aspetti della realtà non essenziali ma contingenti e apparenti, laddove la parola 175 176
Fedro, 278 b-e. Lettera VII, 341 c 5 – d 2. Cfr. G. Reale, Op. cit., pag. 97.
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filosofica deve risalire da questo livello di coscienza a uno superiore e non evidente, il quale può essere evocato solo attraverso l‟uso appropriato delle parole del discorso predisposto secondo la tecnica dialettica. Ma, soprattutto, l‟intuizione dell‟Essere, pur pervenendo dall‟uso logico delle parole, coglie l‟Essere nel suo fondamento, la realtà intelligibile, e non attraverso le sole forme universali della conoscenza ideale. E poiché sono tali forme ideali a inferirsi attraverso il dialogo, la scrittura dei testi si fermano al livello di coscienza di esse, senza superarlo intuitivamente. Il che, però, non esclude che chi già ne sappia possa ritrovare anche nella testimonianza scritta le tracce del superiore percorso intuitivo, e quindi possa rinvenire in essa una qualche utilità che invece non coglierebbero le persone sprovvedute, cioè i più, i quali o ne deriderebbero o le sprezzerebbero come inutili e incomprensibili.177 D‟altronde, l‟eredità pedagogica dei discepoli di Platone consistette esattamente nella custodia di quelle dottrine non scritte () e perlopiù esoteriche che fondavano quelle trattate nei dialoghi (), per cui la loro stessa trattazione sembrerebbe confutare l‟indicazione magistrale di Platone. Alcuno autorevolmente ha creduto di scorgere in questa apparente contraddizione didattica una mera questione di opportunità “etico-pedagogica”, legata alla circostanza che mentre Platone “era discepolo diretto di Socrate e aveva ancora mantenuto la convinzione della spirituale supremazia della dimensione della oralità dialettica su quella della scrittura, […] i discepoli di Platone erano ormai lontani da Socrate quanto bastava per non sentirsi vincolati così radicalmente a quelle convinzioni etico-educative, e, quindi, per ritenere di poter mettere per iscritto tutta quanta la filosofia, senza operare restrizioni e limitazioni di ambiti. […] Pertanto, il divieto di scrivere intorno a certe cose, in Platone dipende unicamente da una teoria dell‟insegnamento e dell‟apprendimento, legata ad una dimensione culturale arcaica, ossia alla convinzione radicale circa la superiorità comunicativa della dimensione della oralità su quella della scrittura”.178 Tesi a dir poco riduttiva, che si direbbe ingenua se non fosse soprattutto fuorviante. Infatti, l‟ipotesi che Platone ritenesse si potesse contravvenire al precetto esoterico delle sue dottrine ontologiche, implicherebbe l‟esistenza di un pre-giudizio di 177
Platone, Lettera VII, 341 d - 342 a. Ved. G. Reale, Op. cit., pagg. 104-105. G. Reale, Op. cit., pagg. 106-107; Kraemer, Platone e i fondamenti della metafisica, Milano, 1982, pag. 131. 178
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carattere culturale di cui il maestro sarebbe stato vittima, e che i discepoli più avveduti avrebbero superato storicizzando, per così dire, la sua natura empirica, consistente nella vicinanza e influenza di Socrate. Ma che un motivo metafisico così radicale potesse essere decisivamente ispirato da una situazione contingente e sostanzialmente effimera, è non soltanto poco credibile, ma appunto fuorviante. Nel senso che confonde la “oralità” come processo dialettico del logos dall‟oralità come tecnica espressiva della comunicazione. La funzionalità tecnica è relativa alle condizioni culturali del fruitore, sicché la memoria, al pari della versificazione, può essere sostituita con altri mezzi espressivi più comodi ed efficaci. In questo senso, l‟oralità non è il semplice dire in parole ma la forma adeguata a quel dire, per cui le opere di Omero, declamate in pubblico ovvero lette nel silenzio della privata scrittura, forniscono in entrambi i modi comunicativi lo stesso effetto emotivo ed estetico. Ma è questa l‟oralità cui si riferisce Platone? Oppure con essa intendeva il processo dialettico del dialogo, consistente nell‟inter-loquire ovvero domandare e rispondere, proprio della maieutica filosofica? A noi pare evidente che è nel secondo senso che va intesa l‟oralità, e non certo come strumento di comunicazione. Ma l‟equivoco non è così innocente come sembrerebbe a una superficiale considerazione, poiché coinvolge nel processo dialettico una valutazione storico-temporale che è del tutto assente in Platone, e che anzi, se vi fosse, verrebbe considerata nella sua prospettiva idealistica del tutto allotria e accidentale in quanto afferente alla realtà transeunte che la filosofia tende per statuto teoretico a superare in vista della realtà eterna. Se infatti fosse il condizionamento psicologico a determinare le modalità metafisiche di un sistema di pensiero, l‟intero impianto teoretico ne sarebbe compromesso, e non soltanto eventuali elementi secondari. Ma così non è in Platone, in quanto l‟oralità e la maieutica sono i termini correlativi di uno stesso processo dialettico, così come, per altri versi e condizioni, lo sono nel caso della psicanalisi, altra scienza del dire figlia di quella socratica. Ovviamente, i testi filosofici platonici fruiscono della tecnica dialogica anche in senso modale, non conoscendo ancora altra modalità espressiva. Ma il punto decisivo è che la struttura drammaturgica del pensiero filosofico, al fine della enucleazione del senso del discorso teoretico, possa svolgersi anche in interiore homine oltre che nel dialogo orale. In questo caso, essa rimarrebbe comunque dialettica anche se non dialogica in senso drammaturgico tradizionale. Allora, la scrittura filosofica 141
presupponendo la premessa dialettica, non ne trascriverebbe più soltanto la fase propedeutica e concettuale, ma considererebbe nel suo discorso anche i fondamenti primi del pensiero, pre-concettuali ed intuitivi, per cui ciò che per Platone era la “oralità” in senso tecnico può diventare processo interiore affinato e solitario del filosofo, ma in quanto processo maieutico essa è ineliminabile quanto la parola stessa per il pensiero. La filosofia pertanto costituisce l‟esaltazione della parola quale linguaggio filosofico. In tal senso la “oralità” rappresenta il genus del linguaggio di cui la filosofia costituisce la specie logica. In tal senso, Platone, biasimando tutti gli scritti del passato e del futuro, non intende con ciò condannare la scrittura, ma soltanto quel pensiero scritto che non dovesse contenere il processo orale del filosofare, ovvero sprovvisto di pensiero logico, così come nei dialoghi ha confutato il pensiero mitico, anche quando oralmente espresso. E pertanto la stessa scrittura del dialogo filosofico, senza il previo processo dialettico di cui essa è trascrizione di senso, resta pura manifestazione estetica, un “gioco” privo di contenuti teoretici, privi cioè di quel processo dia-logico propriamente filosofico che lo differenzia da una pura rappresentazione drammaturgica. Perciò, ai fini di una corretta interpretazione del senso platonico della “oralità”, è opportuno intenderlo in riferimento alla sua idea dell‟arte come (filosoficamente falsa) mimesis.179 In secondo luogo, la constatazione da parte di Platone che il dialogo maieutico non rappresenta l‟apice della riflessione filosofica, significa che la “parola”, anche quella orale, non giunge alla comprensione dell‟Essere, ma tutt‟al più a indicarlo concettualmente, cogliendone la realtà ideale, e ad esprimerlo, cogliendone la realtà apparente. Ma esiste un altro livello di realtà, e di conseguenza un altro livello di coscienza, che la filosofia, in quanto processo ermeneutico inerente all‟Essere ideale, non può cogliere. E poiché la parola filosofica costituisce l‟orizzonte di coscienza massimo del linguaggio razionale dell‟uomo, quello logico, i limiti della filosofia 179
Da notare che l‟asserzione per cui “il lavoro dello storico [della filosofia] starebbe nel distinguere, di volta in volta, ciò che costituisce [il] dato oggettivo da ciò che è invece interpretazione di questo dato” (G. Reale, Op. cit., pag. 110: il corsivo è nel testo) contraddice intrinsecamente lo stesso decantato “circolo ermeneutico” proprio dell‟interpretazione storica dei dati di coscienza, per cui affermare che, nonostante la scorretta interpretazione di Aristotile, su cui si appoggia euristicamente l‟autore per suffragare la sua tesi ermeneutica, “la teoria delle Idee esiste oggettivamente” (Ivi, pag. 111), significa privare la “teoria” della sua processualità dialettica, che tanto a cuore stava a Platone.
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sono gli stessi limiti della comprensione razionale dell‟uomo e dei suoi strumenti linguistici espressivi. Qual è l‟oggetto di questo ulteriore livello di coscienza solo lambito dal sapere filosofico e che Platone indica come i “Principi primi”? A noi pare che il più alto grado di coscienza del pensiero abbia come suo oggetto la natura positiva e insieme negativa dell‟Essere, ossia la sua “dualità” metafisica, per la quale la sua affermazione ontologica sia diversa dalla sua negazione dialettica. Il livello di coscienza del sapere filosofico appartiene al suo momento dialettico, che, attraverso il metodo logico, conosce dell‟Essere la sola realtà negativa, affermandola come positiva, ossia nei termini di una essenza ontologica. Dal gioco della esclusività logica inerente al metodo dialettico, nasce l‟ironia come consapevolezza del dualismo metafisico, irriducibile a ogni scarto logicoconcettuale. Infatti, il concetto logico de-finisce e de-termina il Molteplice portandolo all‟Uno, ma questa unità logica, che Platone credeva ontologica, è in realtà solo ideale, ricavata cioè dalla negazione dell‟opposto dialettico, il quale, nondimeno, co-esiste nell‟Essere come diverso. Il fenomeno negativo, esistente nell‟Essere come realtà indeterminata, che logicamente si oppone all‟Essere determinato, cioè all‟ente concettualmente definito, si manifesta ontologicamente come diverso, e quindi come esistenzialmente possibile. Ma proprio la differenza tra la possibilità ontologica e la necessità logica crea quel dualismo metafisico che consente di intuire i limiti della parola filosofica, circoscrivendola al suo orizzonte di senso esclusivo. Che l‟ordine logicoideale sia anche il migliore possibile, è un giudizio etico, che inerisce alle ragioni politiche su cui si basa. Ma fuori di quell‟universo di senso politico, il Bene perde la sua pur asserita universalità, relativa appunto alla dimensione logico-esclusiva, e non già al suo fondamento ontologico, inclusivo di quella diversità non contemplata dal concetto logico, che conosce ciò che è comune agli enti, e fa sì che essi concordino, e che Platone nel Fedone, distinguendola da quella meramente fisica, chiama la loro “vera causa” (), alla ricerca della quale egli intraprese la “seconda navigazione” (). Essa consiste nel “prendere per base un postulato che sembri il più fondato, giudicare vero ciò che concorda con esso, sia rispetto alle cause sia rispetto alle altre cose, e ciò che non concorda giudicarlo non vero”.180 180
Platone, Fedone, 100 a 4-7.
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Alla fine della ricerca si giunge all‟Idea di ciò che è “in sé e per sé” (’), e di cui gli enti partecipano. La preferenza accordata a questa causa ideale o intelligibile rispetto ad ogni altra, il filosofo pensa “sia la risposta più sicura da dare a sé e agli altri” ( ) 181, ma questa sicurezza è appunto “creduta” essere la migliore, è una decisione culturale, ma non è ontologicamente fondata su alcuna necessaria verità. Anche noi possiamo affermare che la platonica “seconda navigazione” costituisce una conquista che segna, in un certo senso, la tappa più importante nella storia della metafisica. Infatti, tutto il pensiero occidentale sarà condizionato, in modo decisivo, proprio da questa distinzione, sia in quanto o nella misura in cui l‟accetterà (e questo è ovvio), sia, anche, in quanto o nella misura in cui non l‟accetterà; infatti, in quest‟ultimo caso dovrà giustificare polemicamente la non accettazione di tale distinzione, e da questa polemica rimarrà pur sempre dialetticamente condizionato.182
Ma non per la ragione addotta dal commentatore, bensì perché si ravvede in tale teoria platonica nient‟altro che un‟ipotesi epistemologica, non diversa da quella dei fisicalisti, sulla base della quale la civiltà razionalistica ha creduto di fondare la sua fede culturale, che però ormai è stata ampiamente confutata storicamente dalla sua stessa pretesa valenza universale di costituirsi come l‟unica in grado di conoscere veramente l‟Essere. Ma l‟unità logicamente ottenuta, a scapito della sua esclusività rispetto a ogni diversità ontologica, costituisce soltanto la fede culturale di una civiltà che ha preteso di rappresentarsi come “universale” in virtù di questa sua decisione onto-logica, la quale, divenuta, da risultato, presupposto fideistico, viene da Platone concepita come il fondamento stesso, ovvero il postulato primo, di ogni pensare. E così l‟ logica diventa l‟ del pensiero, trovato il quale non si doveva andare oltre nella ricerca.183 Si prenda il caso emblematico dell‟uomo virtuoso, il ben educato (). Ponendo che “l‟educazione nasca dalle Muse e da Apollo”, ossia che abbia un origine mitica, secondo l‟opinione tradizionale; per 181
Ivi, 100 d 8-9. G. Reale, Op. cit., pag. 153. 183 Fedone, 101 e 2, 107 b 10. 182
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formulare un giudizio inerente alla sua capacità “di cantare bene e anche di danzare bene”, occorre a noi avere “la nozione del bello nel canto e nella danza” al fine di conoscere “chi è educato e chi è ineducato”, altrimenti, senza la quale “non potremmo nemmeno riconoscere se e dove sia una salvaguardia dell‟educazione”.184 In altri termini, la conoscenza ideale non è diretta alla contemplazione dell‟Essere ma è funzionale al controllo sociale della prassi umana, ossia è una virtù etica propria delle istituzioni politiche. L‟orizzonte di senso ideale è dunque, nella prospettiva platonica, di natura pragmatica, anziché noetica, per cui la qualità e correttezza logica dei giudizi è legata alla capacità di distinguere la “virtù” dal “vizio” dell‟ “anima” sociale, coerentemente alla prospettiva intrascendibile della shame-culture greca, la cui ragionevolezza è tutta interna alla dimensione politica, che costituisce il referenze esistenziale dell‟astratto modello ideale, conformandosi al quale i prodotti reali persistono nel tempo conservando per millenni le stesse forme.185 Queste, nondimeno, sono sempre relative al “gusto” (Geschmack) in senso morale kantiano della Kritik der Urteilskraft di sensus communis.186 Infatti, il “costume” locale ai Greci “sembra di gran lunga il migliore rispetto al costume di tutti quelli che ora vivono in ogni Stato e dovunque”.187 Ciò suppone che la logica idealistica nella prospettiva platonica originaria manca ancora di quell‟astratto universalismo meta-politico che verrà introdotto dal Cristianesimo cattolico proprio a superamento della pregressa dimensione sociologica greca, e che troverà, a partire da Costantino, nel concetto di Imperium la sua nuova declinazione etico-politica. In effetti, però, ciò che caratterizza la dimensione sociologica dell‟idealismo greco non è tanto il suo orizzonte spaziale circoscritto, quanto la distinzione politica della distinzione logica del Bene dal Male, per cui “quello che il volgo dice bene, non è correttamente detto bene” mentre “quelli che sono detti mali 184
Leggi, II, II, 654 a – e. Leggi, II, III, 656 e – 657 a. 186 A questo proposito, il concetto di cultura come Bildungsgesellschaft, che F. Heer (Aufgang Europas) fa risalire alle scuole del Rinascimento, è assai poco “moderno” quanto invece lo sia “classico”, e risalente proprio a Platone, il cui idealismo politico costituì l‟implicito paradigma sociologico del moderno concetto di “ingenio” dell‟hombre en su punto, cioè “discreto”, formulato da B. Gracian in alternativa al modello cristiano tratteggiato dal Castiglione. Ved. H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pagg. 59 sgg. 187 Leggi, II, IV, 658 e. 185
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sono beni agli ingiusti, ma per i giusti sono mali [e] i beni per i giusti invece sono beni realmente, [anche se] per gli altri [gli ingiusti, cioè] sono cose cattive”.188 Ciò che per la prospettiva ontologica cristiana sarebbe stato impensabile. Inoltre, il fine eudemonistico della saggia legislazione, di coniugare “cosa bella e buona” col “far contenti”, ossia col “piacere”, è proprio di chi ha a cuore “la vita giusta”, che non è propriamente l‟ideale della vita santa cristiana, ma semmai la sua negazione, essendo la carità, e non la giustizia, il criterio regolatore della morale predicata dal Cristo. Ma cos‟è giusto secondo Platone? In quanto riflesso pratico del concetto ideale, giusto è ciò che perviene a coerenza logica con l‟Idea, e che di conseguenza la esprima in ogni manifestazione reale. Di conseguenza il legislatore “deve cercare di scoprire […] con ogni mezzo come ottenere che tutta una siffatta società com‟è lo Stato stesso, sempre, su queste cose, per tutta la sua vita, esprima una stessa sola opinione, nei canti, nei racconti, nei discorsi, quanto più è possibile”, 189 garantendo pertanto la loro sistematica coerenza col principio razionale che eticamente li giustifica e sostiene l‟ordine politico. Il fine dello Stato finisce col coincidere con la soluzione del problema della scelta tra opzioni teoriche diverse, ossia con l‟affermazione del “giudizio del migliore”, al quale venga accordato di principio la maggiore “autorità”.190 La traslazione del giudizio teoretico alla funzione di governo, Platone la immagina consustanziale allo stesso principio di “verità”, il quale pertanto deve poter comprendere tanto l‟ordine morale che l‟ubbidienza politica. E su questa istanza deontologica il filosofo stabiliva la legittimazione morale del Potere in mani ai migliori, ossia ai più consapevoli del nesso logicamente necessario tra autorevolezza e autorità. Egli, in altri termini, si avvedeva che il passaggio dalla dimensione dell‟autorevolezza intellettuale a quella politicamente autoritativa poteva realizzarsi soltanto in condizioni di monopolio del Potere, la cui ipotesi sofocratica costituiva il paradigma di ogni assolutismo illuminato. In questa chiave dottrinale “non scritta” va interpretata la distinzione platonica tra teorie esoteriche ed esoteriche, che aveva una sua intrinseca valenza sociologica, relativa alla distinzione tra valori comuni e universalizzabili, e fondamenti teorici esclusivi che ve li sottendevano, riservati a una aristocrazia di pensiero e politica. Ma proprio tale 188
Leggi, II, VI, 661 a – d. Leggi, II, VIII, 664 a. 190 Leggi, II, VIII, 663 c-d. 189
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distinzione, rilevata sull‟universalismo morale di origine socratica, doveva condurre Platone a ricercare, a fronte delle ragioni comuni funzionali alla convivenza sociale, i fondamenti incontrovertibili, appannaggio di pochi iniziati, di una legittimazione del Potere aristocratico. In tal senso, va stabilito un parallelismo tra dottrina della conoscenza e teoria politica che, per un verso, accredita razionalmente l‟istanza di coerenza morale tra ragione ideale e prassi, e per l‟altro distingue l‟universalità dei motivi etici valevoli erga omnes, dalla esclusività culturale della loro concreta gestione politica, per cui si possono rinvenire in questa coscienza teorica i prodromi delle moderne sociologie elitistiche. 13. Ma probabilmente l‟aspetto più significativo di questo doppio registro teorico, l‟uno volto alla validità dei valori e l‟altro alla esclusività della loro gestione sociale, è la novella necessità culturale da parte dell‟aristocrazia ateniese di giustificare razionalmente la loro superiorità morale sul popolo, espressa tra le righe allorquando, ad es., Platone fa dire all‟ospite ateniese che In tutto ciò cui si accompagna un godimento deve esserci questo: o che il godimento da solo ne costituisca l‟aspetto più importante o che la cosa abbia anche un qualche intimo valore o perfezione e che in terzo luogo sia anche utile a qualche cosa. [Ciò premesso, vi è da di re che] sarà piuttosto l‟uguaglianza qualitativa e quantitativa, per dire tutto l‟insieme, che realizzerà il grado di perfezione di queste, non il piacere. [Da ciò consegue che] si dovrebbe da parte nostra affermare che per nulla conveniente è giudicare un‟imitazione in base al piacere o all‟opinione non vera (e neppure ogni altra eguaglianza; infatti non se a un uomo pare, o perché non gli piace qualcosa, l‟uguale è uguale e il simmetrico simmetrico in generale), ma se soprattutto si giudichi con la verità, e con nessun‟altra cosa affatto. 191
Il che implica che la preferenza accordata alle ragioni logiche su ogni altra ragione, teorica e sociale, costituisce la caratteristica propria del Governo aristocratico rispetto ad ogni altro, anche storicamente possibile, ma non razionalmente giustificabile al pari di quello filosoficamente fondato. I fondamenti filosofici, “non scritti”, sono quelli non divulgabili presso la 191
Leggi, II, X, 667 b - 668 a.
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gente comune, destinataria invece di un messaggio alla sua portata. Essi restano impliciti in ciò che si rende noto al pubblico, essendo l‟esito di un lungo travaglio teoretico che li ha rivelati alla coscienza del filosofo. Colui che fosse stato in grado di ripercorrere tale travaglio, attraverso il necessario itinerario spirituale della mente, avrebbe potuto condividerne i contenuti, oralmente comunicabili. Ma ciò che costituiva per Platone lo scopo socialmente decisivo della divulgazione filosofica era l‟adeguamento della condotto di vita dei cittadini ai principi ideali propugnati dalla dottrina delle idee, ossia, di conseguenza, la affermazione della preminenza anche politica del pensiero sulle attività pratiche della vita sociale. In altri termini, Platone mirava a edificare una vita sociale il cui modello ideale fosse l‟accademia, la comunità accademica, in cui predominava il fine teoretico della vita, la conoscenza. Il problema politico che il filosofo si poneva era quello di stabilire un collegamento tra le verità di dottrina, conseguite dai filosofi attraverso il loro tirocinio spirituale, e la qualità della vita sociale, fruibile anche dagli incolti e ignari cittadini. La morte di Socrate mise in luce non solo la distanza tra la dottrina e il Potere, ma soprattutto l‟impotenza politica del sapere in una società fondata su principi valoriali non conformi alle Idee. Se dunque il Potere ignaro della verità poteva mandare a morte il migliore degli uomini, avrebbe potuto anche distruggere le stesse basi della civiltà e sprofondare la vita civile nella barbarie, come di fatto avvenne in gran parte ad Atene con il governo oligarchico. La instabilità delle istituzioni è l‟esito di una più profonda e radicale fragilità etica, dovuta alla indeterminatezza razionale dei fondamenti sui quali è stabilita la vita sociale, di natura mitico-religiosi. La revisione logica di tali fondamenti era il preludio inevitabile di ogni riforma istituzionale. Ma, a differenza della originaria attività privata del filosofo socratico, la nuova dimensione dell‟impegno teoretico doveva esplicarsi attraverso una prospettiva profetica di coinvolgimento politico al cambiamento degli assetti sociali coerente ai principi ideali. La risposta platonica alla crisi della civiltà greca restava circoscritta alla dimensione della vita della polis, ma non era di carattere politico bensì filosofico. Non nel senso che fosse impolitica, come sarà invece la risposta cristiana, ma che poneva la filosofia a guida dell‟azione politica, la quale pertanto veniva a perdere quel carattere tecnicamente neutro che invece aveva mostrato di avere a seguito della eccessiva indeterminatezza teorica dei fondamenti etici che sostenevano la vita associata tradizionale della polis, e che verrà ribadito 148
a suo tempo dal pensiero razionalistico moderno. L‟idealismo platonico consiste dunque in questa preminenza della coscienza teoretica entro l‟orizzonte sociologico dell‟esperienza civile greca, affermata nei modi del Potere, ossia politicamente. La declinazione politica del sapere filosofico costituiva l‟essenza del Governo sofocratico. La “prova” () filosofica cui Platone sottopose Dionigi di Siracusa, testimoniata dalla Lettera VII, scritta intorno al 353 a. C., tendeva a sondare la attitudine che il tiranno avesse nel farsi carico e interprete delle dottrine ideali, lasciandosi guidare dal portatore della sapienza filosofica, ossia, nel caso, da Platone stesso.192 Questa “prova” consisteva nel convincimento da parte del re che “la conoscenza di queste cose [di maggior valore] non è affatto comunicabile come le altre”,193 ossia non rientra nel sapere comune della tradizione culturale, ma è frutto di una sorta di rivelazione intuitiva sgorgata dalla coscienza filosofica teoreticamente allenata alla pratica dialettica. Con ciò Platone intendeva dire che la sapienza idealistica non era rintracciabile presso altre fonti sapienziali, così come non poteva essere desunta dalla tradizione mitologica, ma costituiva il risultato di un procedimento metodico pedagogicamente perseguibile con l‟esercizio logico della dialettica, ossia oralmente. L‟oralità era la condizione pedagogica dell‟affermazione del filosofare quale metodo di pensiero e di governo: il Governo del Lògos. Altri metodi di apprendimento dell‟arte del governo erano da considerare, da parte del legislatore filosofico, come impropri rispetto al metodo dialettico, l‟unico in grado di far scaturire “le cose più serie” () dal discorso comune, rispetto al quale il ragionamento filosofico si costituiva come il livello logico, esclusivo di ogni elemento razionalmente incoerente e quindi inessenziale, in cui si attingeva ai “principi primi e supremi della natura delle cose” ().194 L‟ipotesi di divulgare per iscritto il processo teoretico della dialettica, era in palese contraddizione con il carattere proprio dell‟esito dialettico, che dalla realtà nota, quella fattuale, risaliva per induzione logica a quella ignota. Condizione infatti del filosofare era la dotta ignoranza socratica, che, oppostamente alla sofistica, non articolava il ragionamento per 192
Ved. G. Reale, Op. cit., pagg. 94 sgg. Lettera VII, 341 c 5-6. 194 Lettera VII, 344 c 6, d 4-5. 193
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affermare una tesi, ma per scoprirla,195 per cui non avrebbe avuto senso mettere per iscritto una risposta incognita. Infatti, il catalogo delle “dottrine non scritte” () poteva ridursi “ai minimi dettami” (),196 in quanto il contenuto di ognuno di essi scaturiva in ragione di ciò che ne era la premessa fenomenologica, e variava appunto in riferimento al contesto umano del mondo-della-vita, che è di natura socio-politica e linguistica. Ciò significava che la definizione ideale era sì fondata su principi primi eterni, ma nasceva in relazione ai problemi storici dei quali costituiva la risposta razionale.197 E se i problemi storici erano quelli inerenti alla vita sociale degli uomini comuni, politicamente organizzata, la loro articolazione razionale era il prodotto logico di una discussione linguisticamente condotta dai tecnici del dialogo, i filosofi. E dunque in riferimento a queste primarie condizioni essenziali, l‟eventuale resoconto scritturale costituiva un posterius, del tutto accidentale e “ipomnematico”, cioè funzionale alla memoria, dell‟evento primario, che era il dialogo filosofico, appunto, condotto secondo il metodo dell‟oralità dialettica inventato da Socrate. E proprio la consapevolezza del duplice livello di coscienza degli stessi problemi sociali, induceva il filosofo ad articolare in senso gerarchico la priorità dei fondamenti ideali sui comportamenti politici, e dunque la superiorità etica dei sapienti sui potenti. E giacché la potenza politica della società tradizionale era fondata sul valore militare, ecco che la supremazia del valore sapienziale rappresentava una rielaborazione in chiave razionalistica degli stessi fondamenti mitici delle tradizionali costituzioni politiche, ossia delle ideologie che legittimavano culturalmente la società greca. Era evidente a Platone che per superare la crisi politica si doveva giungere a una rifondazione dei valori meta-fisici sui quali si fondava l‟etica della città. E dunque, nelle Leggi, si chiede quale sia “stata l‟origine delle costituzioni dello Stato”, a partire dalla quale “bisogna ogni volta guardare la evoluzione degli Stati nel loro vario muoversi verso il bene o verso il male” per cercare “di capire la causa di 195
Da questo “disvelamento” logico del filosofare il senso della verità come su cui tanto ha insistito Heidegger. 196 Lettera VII, 344 e 2. 197 I dialoghi platonici vengono definiti da Reale come “paradigmi di metodo”, e da H. Kraemer come”schemi ideali di dialogo”, i quali, sottolinea opportunamente lo studioso tedesco, “possono solamente preparare la concreta applicazione del dialogo reale, ma non possono sostituirlo”: cit. in G. Reale, Op. cit., pag. 115.
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questo divenire”.198 Partendo da un grado zero di civiltà, a seguito di una inondazione distruttiva di ogni cultura tradizionale, il superstite genere umano dovette combattere contro “una sconfinata paurosa solitudine” in cui “ dello Stato, della costituzione, della legislazione” non era rimasto “nemmeno il ricordo”, costringendolo, “dalle sole cose rimaste” a derivare sino a noi “tutte queste cose come sono ora; gli Stati, le costituzioni, le arti, le leggi, e molta cattiveria, e molta virtù”.199 Con la civiltà era scomparsa la guerra e la rivalità tra genti non costrette, tanto eran poche, a “combattersi per mangiare”, ossia a lottare per la sopravvivenza, sicché “fra di loro si amavano, si volevan bene”. Poveri dunque non erano, ma nemmeno ricchi, poiché erano “senza ora e senza argento […] erano buoni in grazia di questa vita e di quella che si dice semplicità”, secondo costumi “nobilissimi”, essendo noto che “nella società dove non sia presente ricchezza né povertà […] non sorge violenza né ingiustizia, e rivalità ed invidie non possono nascere”, credendo vera ogni cosa “che sentivano definire bello o brutto”, come ogni racconto “che si tramandava degli dèi e degli uomini […] e vi si conformavano, essendo appunto uomini semplici”.200 E proprio in virtù della loro condizione, quegli uomini “non potevano aver bisogno di legislatori” né della “scrittura”, vivendo “seguendo i costumi e le leggi che si dicono tramandate dagli avi”, secondo la forma politica patriarcale già ricordata da Omero. In seguito, le famiglie sparse “si radunano in comunità più numerose e formano organismo politici più grandi”, pur conservando consuetudini ed educazione diverse da tramandare ai figli.201 Ma l‟unione genera il bisogno di scegliere il meglio tra le diverse tradizioni disponibili, e così sorge il ruolo dei legislatori, che scelgono i magistrati, costituendo così una aristocrazia, e dagli antichi re e capi una monarchia.202 Ma, in considerazione della fine dei regimi che pur con volenterosa intenzione sono stati costruiti nel tempo, Platone si chiede se il giudizio benevolo espresso su di essi non fosse dipeso dalla circostanza di aver “creduto di essere alla presenza di una cosa che risultasse buona e realizzata in modo da produrre meravigliosi effetti per il fatto che qualcuno di quella cosa sapesse usare bene in qualche modo e che noi ora 198
Leggi, III, I 676 a - c. Leggi, III, II 677 e – 678 a. 200 Ivi, III 678 e - 679 c. 201 Ivi, III 680 a – 681 c. 202 Leggi, III, IV 681 d - e. 199
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forse proprio su di essa non avremmo pensato come dovevamo, né secondo la sua natura”,203 lasciando intendere che un conto è la fruizione opportuna per tempo e luogo, legata alle circostanze favorevoli e a occasionali capacità umana, altro conto è la validità di un sistema concepito secondo un criterio razionale e la cui funzionalità non è dipendente dalle variabili circostanze storiche, e neppure dai desideri umani in quanto tali, poiché essi possono essere fallaci. E infatti è opportuno che la volontà segua l‟intelligenza delle cose, e non sia l‟intelligenza a seguire la volontà dei desideri, essendo l‟intelligenza delle virtù la “prima che tutte le altre conduce”.204 Da qui l‟individuazione della “ignoranza” del vero la causa della decadenza dei regimi politici, e la “conseguenza” per il legislatore di “cercare di ingenerare negli Stati quanto più può la vera intelligenza e di bandirne quanto più può la stolta ignoranza”, che consiste nel contraddire “alle conoscenze, alle opinioni, al discorso della ragione, a ciò che per natura è a capo”, avvenendo nello Stato che “la plebe non obbedisca ai governanti e alle leggi”, al pari di quanto avviene nell‟anima di quegli uomini che non fanno seguire a “i bei discorsi” le conseguenze di un comportamento coerente, ma “tutto il contrario di quello ch‟essi dicono”.205 La necessità del comando è da Platone legata a una condizione naturale, ma tra le ragioni del comando ne esiste una propriamente umana che è a suo modo anch‟essa naturale, nel senso però del “potere naturale della legge su chi volontariamente la accetta e non per violenza […], quello cioè che ordina che chi è sapiente ed intelligente comandi e governi e guidi e chi è ignorante lo segua”.206 Qui vengono in luce due principi essenziali della teoria platonica del potere; il primo, relativo al rapporto di necessità naturale che lega gerarchicamente l‟inferiore al superiore ai fini della coesistenza pacifica; l‟altro, inerente la precipua condizione umana, in cui prevalente è il rapporto d‟intesa intelligente tra chi è più dotato per le funzioni di governo e chi di quel potenziale ne può usufruire per lo stesso suo benessere esistenziale. Platone vuole intendere, insomma, che il generico e naturale “comando” del più forte, non può espletare nel campo dei rapporti umani l‟intero esercizio del potere, consistente anche e soprattutto nel “governo” sociale e nella “guida” etica del consorzio 203
Leggi, III, VII 686 c - d. Leggi, III, VII 687 e – VIII 688 b. 205 Leggi, III, IX 689 b. 206 Leggi, III, X 690 b-c. 204
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umano. Compiti che non sono “contro natura” per l‟uomo, ma appartenenti a una natura tutta umana, fatta di leggi razionali, che non possono essere semplicemente imposte ma che devono essere accettate dall‟uomo in quanto valutate opportune e sagge. Il rapporto sociale tra servo e padrone viene trasfigurato in Platone in senso razionalistico di un rapporto pedagogico, stabilito sull‟intelligenza reciproca, che prende il posto della forza. Nel legame naturalistico, in cui prevale appunto il rapporto di forze, l‟esercizio del potere è una conseguenza necessaria di un dato oggettivo, non dipendente dalla volontà di chi lo esercita e di chi lo subisce. Nel legame razionalistico, diversamente, il rapporto tra le parti è volontaristico, nel senso che esso viene del tutto sganciato dalla fattualità della loro condizione naturale, e affidato al reciproco riconoscimento dei rispettivi ruoli sociali, che a seguito di tale riconoscimento di forma legale diventano naturali: di legge naturale. E pertanto, la società umana, confermata da rapporti di legge razionali, costituisce un sistema super-naturale in cui i rapporti non sono più vincolati alla contingenza casuale delle condizioni di fatto, sempre mutabili per situazioni e tempi, ma stabiliti sulla base di una legislazione razionale che li definisca ne varietur, emancipandoli così dalla decadenza culturale e dalla cronica instabilità istituzionale. La società platonica è dunque pensata come un sistema di convivenza sociale meta-fisico, e perciò razionale. La razionalità in senso idealistico platonico è sì un disegno di emancipazione dell‟uomo dai vincoli naturalistici, ma concepito in termini di un‟altra e più vera natura, quella ideale, propria sola all‟uomo, essere filosofico. Sul fondamento di questa coscienza filosofica è possibile per Platone stabilire un processo di denaturalizzazione, intesa razionalisticamente come analisi dialettica di demitizzazione. Su questo presupposto, a partire da Platone, che universalizza il metodo etico socratico, il pensiero filosofico occidentale ricerca una condizione antropologica dell‟uomo che sia strutturata sul pensiero () anziché sulla vita () dell‟Essere. I termini in cui Platone, e la successiva tradizione idealistica, cristiana e razionalistica, hanno pensato l‟Essere, sono termini concettualistici, cioè logicistici, legati alla realtà degli enti di pensiero, e quindi onto-logici, e non già esistenziali, cioè inclusivi delle condizioni storiche di pensabilità. Non a caso la filosofia, ridotta viepiù a tecnica di pensiero, a logica, nel prosieguo dell‟esperienza culturale della civiltà umana ha finito per fungere da sostegno metodologico a un pensiero più comprensivo, e 153
comunque inclusivo di quella realtà che il piano dialettico idealistico escludeva dalla considerazione razionalistica del mondo. in questo senso, e in questi termini, si può dunque affermare che l‟esperienza teoretica della filosofia in senso idealistico è nata con Platone ed è con lui altresì morta, in quanto egli ha per tempo inteso che il processo maieutico proprio del filosofare evocava proprio quella realtà originaria che l‟analisi dialettica metodicamente condotta escludeva dal pensiero logico dell‟Essere, ovvero quella totalità che a suo modo il Mito aveva da sempre cercato di rappresentare con la sua (logicamente) indefinita affabulazione. E proprio l‟esigenza di realizzare in senso effettuale le forme di pensiero ricavate dall‟analisi dialettica, consegnando la filosofia a una destinazione politica, ne indicava surrettiziamente anche i limiti teoretici, insiti appunto nel suo metodo esclusivo e quindi contraddittorio per la pretesa di pensare l‟Essere nella sua essenziale totalità. Dando infatti a questo filosofico concetto di totalità un‟accezione intrinseca alla molteplicità fenomenica del mondo-della-vita, il discernimento logico di ciò che fosse proprio alla realtà di ragione e di quanto ne fosse estraneo, risultava incongrua la pretesa idealistica di poter rappresentare il Tutto, destinando la sua verità a un altro mondo, divino, e perciò inattingibile all‟intelligenza umana, dichiaratamente uni-versale, e perciò filosofica. Paradossalmente, la filosofia, allorquando declina di assolvere a compiti circoscritti alla funzione sociale, e si vota a compiti ontologici e metapolitici, finisce per dotarsi di una coscienza critica del tutto elittica rispetto a quella comune, per cui la sua stessa intelligenza del mondo umano la costringe ad isolarsi dalla realtà sociale, tipica dell‟umanità, ossia all‟impotenza politica. La consapevolezza di questa contraddizione attraversa pressoché tutto il pensiero più maturo di Platone, il quale cerca di porvi rimedio ipotizzando la possibilità di un sistema sociale perfettamente razionale in grado di eleggere il sapere filosofico a guida politica alternativa a quella fissata dai tradizionali principi naturalistici di socialità ammantati di rivestimenti mitici. Se questo è chiaro, sarà chiara anche la ragione profonda dell‟opera di de-mitizzazione intrapresa, sulla scorta dell‟opera pedagogica socratica, dalla filosofia idealistica. Il passaggio dal paradigma mitico a quello filosofico conteneva una radicale difformità di vedute, consistente nella differenza di approccio ermeneutico alla realtà da parte della nuova prospettiva rispetto alle forme di sapere tradizionali, legate al paradigma mitico-religioso del cosmo. E, inoltre, se le forme di sapere tradizionali si erano sedimentate 154
nel corso di un lungo tempo di assimilazione nella cultura e nella mentalità di innumerevoli generazioni, i nuovi paradigmi gnoseologici erano del tutto inusuali al di fuori di ristrette cerchie teoretiche, per cui la battaglia da sostenere si dispiegava contro due fronti pedagogici opposti e simmetrici, quello della credenza tradizionale e quello della divulgazione innovatrice. Se il primo fronte poteva affrontarsi con i tradizionali strumenti didattici della formazione accademica, il secondo, per la vastità dell‟impegno e l‟eterogeneità della destinazione sociale, richiedeva l‟apporto di copertura del potere politico, che pertanto doveva essere coinvolto nell‟opera di trasmutazione dei valori comuni. Ed è esattamente questa destinazione universale della filosofia a trasformare lo scopo della conoscenza da sapere noetico esoterico ed elitario, oralmente coltivabile, a istruzione tecnica finalizzata all‟uso pratico, a scienza di massa divulgabile attraverso gli scritti essoterici. I due distinti momenti della conoscenza rimanevano interni al sapere filosofico, ma la loro diversa destinazione ne mutava, con il rispettivo pubblico, anche il senso complessivo della ricerca; nel primo caso, finalizzata a una metanoia spirituale individuale, in grado di emancipare il filosofo dalla dimensione esclusivamente politica della realtà sociale introducendolo in un orizzonte di coscienza meta-fisico, e nel secondo a cambiare la struttura della tradizionale convivenza umana (cosmos) incidendo imperativamente sulle forme istituzionali della vita sociale (taxis). Il passaggio da una destinazione puramente noetica della conoscenza, a una di tipo sociopoitico, è consentito dalla e consistito nella prospettiva universalistica della filosofia idealistica. L‟idealismo muta sia il senso della conoscenza che la sua destinazione finale, concependo la filosofia, da originario strumento privato di emancipazione dalla mentalità comune, a guida della vita collettiva e lo strumento irenico dell‟umanità, ossia come una novella religione razionalistica sostitutiva della tradizionale religione mitica. Questa istanza universalistica della filosofia, fondativa essa stessa dei principi sui quali si basava e di cui costituiva la rielaborazione critica, assumeva per statuto epistemologico la ragione come unico criterio di conoscenza dell‟Essere e quindi valutativo del Bene singolare e sociale dell‟uomo. Una ragione che, in virtù della sua missione redentrice, veniva a costituirsi come ragione pubblica, ossia socialmente riconosciuta di valore comune, e quindi doxa. Per cui l‟universalizzazione del sapere filosofico, che in ipotesi ne avrebbe sancito la sua validità legislativa erga omnes, trasformava la filosofia in opinio communis, in opinione pubblica, 155
in sapere socializzato, prendendo il posto dell‟antico sapere tradizionale mitico-religioso. e pertanto il fine irenico della filosofia coincideva con la sua costituzione a religione socializzata, che poneva i sapienti al posto degli antichi dèi nella direzione del mondo umano. In questo senso, lo scopo universalistico della filosofia coincideva con l‟affermazione del potere umano su quello divino, ossia nell‟assoluta umanizzazione del mondo storico, attraverso l‟uso sistematico della ragione come strumento di emancipazione universale. L‟umanesimo e il razionalismo, nella prospettiva universalistica dell‟idealismo filosofico, erano aspetti complementari di una stessa rivoluzione antropologico-culturale, inaugurata da Socrate e teorizzata da Platone, che poneva la sapienza al centro e come scopo finale di ogni Potere. Non c‟è, amici miei, natura d‟anima mortale che possa mai reggere il supremo potere fra gli uomini se giovane e non tenuta da responsabilità, senza gravarsi la mente della peggior malattia, la stolta ignoranza, ed aver odio dagli amici più stretti [ossia i filosofi], e quando ciò avviene in poco tempo il giovane distrugge il suo pensiero e annulla tutta la sua potenza. Guardarsi da questo sulla base della conoscenza della giusta misura [adottando cioè il metodo della ragione, della metodica riflessione razionale] è proprio del grande legislatore.207
La legislazione razionale diventa in Platone lo strumento politico della nuova sovranità filosofica, che vede nel sapiente demiurgo la figura antonomastica del reggitore di Stati, che ha per fine “il governo che è maggiormente stabile”.208 Egli, facendosi interprete e propugnatore di un ordine razionalmente stabilito su una coerente gerarchia di valori spirituali, deve anteporre “i beni dell‟anima saggia e temperante” alla “bellezza” e ai “beni del corpo”, e dunque a quelli relativi “al patrimonio e alle ricchezze”, poiché “se un legislatore o uno Stato esca da quest‟ordine nell‟assegnare i primo onori alla ricchezza e ponga con gli onori che attribuisce qualcuna delle cose che seguono per valore fra quelle che precedono, non farà un‟opera né santa né politica”.209 La priorità accordata alla sapienza anche nella vita socio-politica, stabilisce una gerarchia di valori interna ad essa che pone il Governo al di 207
Leggi, III, XI 691 c-d. Ibidem, 692 b-c. 209 Ivi, XIII 697 c. 208
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sopra delle altre attività politiche, pur necessarie alla vita dello Stato, quali la milizia e l‟economia, tale da porre al centro dell‟attenzione generale dei cittadini quei valori filosofici fondativi della nuova socialità che sono scaturiti dal travaglio teoretico della dialettica. Il passaggio dal Potere tradizionale, di origine mitico-religiosa, a quello razionale, filosoficamente fondato, poteva avvenire parallelamente al trasferimento dall‟antico al nuovo paradigma assiologico quel carattere carismatico indispensabile a costituire qualunque verità di ragione come una verità di fede comune, e pertanto l‟intervento del Governo illuminato aveva per Platone il compito preciso di stabilire d‟autorità acché questo “convincimento” originariamente privato diventasse di carattere pubblico, fondando su questa scelta il criterio razionale della stessa amministrazione dello Stato. Un Governo illuminato è quello che non ordina semplicemente, ma convince i sudditi a seguire le sue indicazioni politiche, adottando così per la sua guida un criterio di razionale accesso agli scopi della sua volontà, sostitutivo del criterio puramente naturale della forza soverchiante. Due sono “le madri delle costituzioni politiche”, afferma Platone in questo dialogo attraverso l‟Ateniese: la monarchia, e la democrazia, dalle quali discendono gli altri regimi storici come loro “variazioni”. La loro stessa duplice possibilità dimostra empiricamente la loro natura imperfetta, soggetta alla corruzione e alla decadenza naturale. Ora, alla stregua di quanto dichiarato nel Fedone, fintanto che l‟analisi si ferma alla considerazione fisiologica dei regimi politici, e non filosofica, ogni teoria nell‟atto di dimostrare la sua plausibilità razionale incontra la plausibilità di altre ipotesi razionali, finendo per non assolvere al compito esplicativo che si era prefissa, assumendo il carattere di opinione (dòxa), per cui lascia impregiudicata la ragione della preferenza dell‟uno all‟altro regime. Ragione che, prima di essere fisica, è di carattere meta-fisico, ossia assume un rilievo di natura ontologica, legata alla generazione e alla corruzione della realtà sensibile.210 Il problema è dunque quello di determinare le ragioni della preferenza, giustificandole secondo un criterio che non può essere quello relativo alla singola sussistenza dell‟uno e dell‟altro regime, ma che doveva coinvolgerli in un‟unica comune considerazione, e che quindi li comprendeva andando oltre la loro specifica differenza. 210
Fedone, 97 b. Cfr. G. Reale, Op. cit., pagg. 142-143.
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E perciò va distinta il mezzo, che è la “causa naturale” dei fenomeni naturali, che li determina così come sono, dalla loro “vera causa” (), che intellige la loro essenziale realtà, che sfugge all‟analisi meramente fisiologica, che stabilisce solo ciò che le cose sono in quanto sono, cioè come appaiono. La visione naturale, sensibile, delle cose non è quella “vera”, ma quella appunto apparente., la quale, per quanto diretta e proprio perché tale e non mediata dall‟intelligenza dei logoi, è ingannevole. Sopra di essa, ne esiste un‟altra, meta-fisica, inerente anch‟essa all‟Essere, ma non sullo stesso piano, in grado di sciogliere le contraddizioni rilevate all‟analisi fisiologica. E‟ ciò che Platone chiama omericamente la “seconda navigazione”, da intraprendere coi remi quando la bonaccia arresta la corsa delle navi a vela. Il suo itinerario consta di due tappe: la prima raggiunge il piano delle Idee, l‟altra il piano dei Princìpi. La coscienza della realtà metafisica si ripercuote sulla conoscenza della realtà in termini decisivi, poiché la scoperta delle cause vere riduce la portata delle cause naturali a livello strumentale, funzionale al primo, per cui la spiegazione dei fenomeni naturali rimanda alla loro vera natura, invisibile e insensibile.211 La prima tappa della “seconda navigazione” conduce dunque alla coscienza della realtà ideale, a quell‟unità categoriale di cui partecipano le cose molteplici, ossia l‟Uno. Ma essendo anche le Idee molteplici, esse devono di necessità richiamare un Principio primo (), scoperto il quale “non occorre cercare niente che vada oltre di esso” ().212 L‟esigenza di unificare ulteriormente ciò che costituisce l‟essenza comune al Molteplice, indica, sia pure in Platone in forma ipostatica, quel nesso dinamico tra unità e molteplicità che ogni pensiero stabilisce con la realtà nell‟atto stesso della sua rappresentazione. Ma così come le Idee sono state concepite alla stregua di forme meta-fisiche e ipostatiche, anche i Princìpi sono stati pensati come realtà primigenie oggettivamente esistenti, sia pure appartenenti a una dimensione indefinibile. Ora, se a caratterizzare le Idee è la loro natura intelligibile, tale che esse possono identificarsi come una facoltà dell‟anima, che è quella di costituire in unità il molteplice attraverso un processo teoretico, consistente nella universalizzazione dei dati sensibili della realtà. L‟universalizzazione può essere intesa in due modi differenti. Il primo 211 212
Ved. G. Reale, Op. cit., pag. 154. Fedone, 107 b 10.
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modo, è quello di pensare l‟universalità come individuazione tra gli elementi sensibili dei comuni dati formali, le essenze ideali, di cui gli enti fenomenici partecipano. In questa accezione, universalizzare significa cogliere nel molteplice l‟elemento comune, determinandolo come fondamento ideale di tutto ciò che di esso partecipa. Il secondo modo di pensare l‟universalità è quello di ritenere che il processo astrattivo operato sugli elementi molteplici al fine di unificarli sussumendoli in un dato unitario comune consista in una trasformazione ontologica, per la quale ciò che nella realtà sensibile è un ente reale, nella dimensione universale diventa un ente ideale, puro oggetto del pensiero privo di esistenza propria. Mentre il primo modo assume l‟essenza ideale come immanente agli enti sensibili, la quale verrebbe dal pensiero solo individuata e riconosciuta ma non alterata, il secondo modo la intende come una superfetazione estrinseca e puramente nominale, che può essere rimossa come retaggio di una rappresentazione immaginativa dell‟Essere. I due modi diversi di intendere l‟universalità, quello idealistico e quello realistico, si sono combattuti e affrontati e confutati a vicenda nel corso dell‟intera storia del pensiero filosofico, senza mai però smettere di costituire i termini dialettici di una stessa posizione teoretica a essi comuni, quella appunto di concepire la verità filosofica in termini di universalità dei dati di pensiero, ossia di razionalità. Razionale, secondo questa prospettiva, è solo il pensiero universale, e pertanto universalità e razionalità sono termini sinonimi e costitutivi della verità filosofica. Questo modo di intendere il processo della conoscenza della realtà risale a Socrate ma è proprio del sistema di pensiero di Platone, che per primo l‟ha definito e metodizzato nei suoi Dialoghi facendolo quindi acquisire a tutta la tradizione di pensiero rapportabile al modo di pensare filosofico. Si può dunque affermare che l‟orizzonte di senso proprio del filosofare è costituito dal pensare per universali, e la crisi di questo modo di pensare coincide con la stessa crisi della filosofia come orizzonte di pensiero della verità. se questo è chiaro, lo è anche la considerazione che il discorso sui fondamenti del pensiero platonico è coincidente con il senso stesso della filosofia come pensiero della realtà, e che la critica di quei fondamenti inerisce alla stessa validità gnoseologica dei suoi metodi teoretici. E pertanto, ogni cambiamento di paradigma che si produca all‟interno del modo di pensare filosofico non costituisce un autentico inveramento del pensiero platonico, ma soltanto una sua rielaborazione ermeneutica, priva 159
di autentica novità epistemologica. Come avviene il processo di universalizzazione? Ce lo spiega Platone nel Fedone allorquando afferma che pensare filosoficamente equivale a a ragionare, ossia ad astrarsi dai dati sensibili molteplici e raccogliersi nell‟unità dello spirito interiore per cogliere l‟Essere.213 E dunque “l‟anima del filosofo” () cos‟altro è se non appunto la coscienza soggettiva, quell‟Io cogitante a partire dal quale e intorno al quale si è sviluppato l‟intero pensiero filosofico. E cos‟altro è, alla luce di questa consapevolezza, l‟estrema unità originaria del pensare razionale se non, appunto, la coscienza universale del Soggetto trascendentale, che è Uno in quanto trascende il molteplice, costituendo l‟autentica di ogni discorso filosofico? Se ciò è vero, allora è persino ozioso cercare di stabilire se i Princìpi primi vengano prima o dopo il pensare per universali, confondendo il tempo logico col tempo cronologico. Infatti la “seconda navigazione”, che consegue il pensiero delle “cose insensibili” (), empiricamente segue la “prima”, che la ricognizione dei dati naturali dell‟esperienza sensibile, ma logicamente è prima, poiché essa fonda la coscienza filosofica che critica i dati sensibili in chiave di ragione universale. E in quanto fondamento di determinazioni finite, la coscienza teoretica non può essere essa stessa finita, cioè determinata, ma in-finita (), e in quanto indeterninata possibilità d‟essere, non fissabile per iscritto come qualcosa che è stato, in divenire e causato. I due modi diversi di intendere il pensiero dell‟Essere, possono dar vita a due modi corrispettivi di pensare l‟Essere: come “due specie di esseri” ( ), ovvero come “due piani dell‟essere”, uno fisico, non conoscibile in quanto mutevole, e l‟altro meta-fisico, conoscibile in quanto eterno. Mutevole è solo ciò che contiene il suo opposto, ossia ciòche-non-è, il negativo, il falso. Invece, veramente conoscibile è solo ciò che non muta, il puro Essere. Tenendo conto del primo modo di pensare l‟universale, dobbiamo inferire che razionalmente conoscibile è soltanto la realtà essenziale degli enti molteplici, per cui il metodo dialettico, distinguendo l‟essere dal non-essere delle cose, ne coglie col pensiero la parte intelligibile, quella appunto veramente conoscibile, giungendo per tal via esclusiva a una reductio ad unum della realtà altrimenti molteplice e in divenire, e perciò inconoscibile. 213
Fedone, 65 c 5-9.
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La conseguenza etica di questa teoria gnoseologica è che l‟ente umano non è conoscibile nella sua realtà esistenziale, che è quella sociale e politica, ma soltanto nella sua trasfigurazione ideale, che è quella teoretica, per cui il metodo filosofico, valido a determinare le essenze ideali degli enti, si rivela come incongruo sul piano della concreta realtà sociale, caratterizzata dalla commistione di Bene e Male e perciò in divenire al pari di ogni realtà sensibile e naturale. Ai fini dunque della conoscibilità razionale della condizione umana, e quindi della fruibilità teoretica del metodo filosofico sul piano della vita sociale, era necessario trasfigurare quella stessa realtà e condizione umane portandole su un piano meta-fisico e meta-politico, nel quale fosse possibile conoscerle razionalmente, nella loro eterna verità ideale. Questa operazione teoretica, comportando un passaggio dal piano di realtà concreto al piano di realtà ideale che implicava la fattualità delle determinazioni reali oggetto di analisi filosofica, cronologicamente si poneva a posteriori rispetto a ogni possibile intervento correttivo, sicché solo attraverso l‟azione politica preventiva si poteva ovviare a questo inconveniente, facendo sì che i comportamenti umani fossero razionalmente indirizzati al fine etico prima di ogni verifica filosofica, e così lasciando alla politica un compito di profilassi universale preventiva che avrebbe reso definitivo il pensiero filosofico circa il miglior vivere, e perciò stesso anche ormai inutile. E dunque era nello spirito stesso dell‟universalità filosofica il germe della sua stessa sociale esautorazione a opera della politica. Ma come ottenere l‟universalità, ossia la “perseità” e “immutabilità” delle Idee? Allo stesso modo in cui si otteneva l‟unità del molteplice, astraendo i fenomeni reali dalla dinamica del loro divenire, che per l‟uomo è esistenziale. apparentemente, Platone avrebbe scoperto, con la metafisica, la dimensione spiritualistica dell‟uomo, ma in realtà la sua teoria idealistica è ancora interna al naturalismo greco, in quanto tratta dell‟uomo come di un ente naturale, di cui sarebbe possibile astrarre dall‟esistenza il suo elemento dinamico, ossia la socialità, per considerarlo alla stregua di un ente astratto di pensiero. E poiché l‟idealismo tendeva a un totale spiritualismo umanistico, il monismo razionalistico veniva ottenuto grazie alla “messa tra parentesi” della condizione esistenziale dell‟uomo, la sua socialità politica, che la filosofia avrebbe dovuto trasvalutare a fini eudemonistici. In tal senso, la determinazione dell‟ottimo vivere spirituale avrebbe coinciso con l‟ottimo vivere sociale. E ciò attraverso la sostituzione della dinamica 161
politica, ossia dei conflitti sociali legati alla condizione imperfetta di vita, con il Governo sapiente, stabilito sui fondamenti durevoli e giusti del pensiero razionale degli universali. Solo trasformando la realtà sensibile in realtà ideale, si sarebbe potuto superare il movimento della decadenza delle istituzioni, relativo al divenire delle imperfette cose sensibili, privandole delle loro contraddizioni.214 Superare le contraddizioni equivaleva, sul piano della realtà sociopolitica, costruire un modus vivendi che non fosse più incentrato sui rapporti di forza tra le parti, ossia su quel polemos che caratterizzava tradizionalmente i rapporti tra gli uomini, quale sua causa sensibile. La politeia costituiva il criterio della convivenza umana stabilito dalla condizione naturale dei rapporti, informata a quella molteplicità e 214
Le Idee sono per Platone “immutabili” e “in sé e per sé”, nel senso che “hanno una realtà che non è trascinata nel divenire e che non è relativa al soggetto, una realtà che non è travolta dal perenne mutamento e non è manipolabile a capriccio dal soggetto, ma implica strutturale fermezza e stabilità” : G. Reale, Op. cit., pag. 186. Ma sono anche “unità” del molteplice, ossia di quanto le cose sensibili hanno in comune. Ma le cose sensibili hanno in comune la sensibilità, ossia la stessa molteplicità, per cui l‟Idea che li accomuna è di non essere Idee. Ciò significa che la loro unità ideale contraddice la loro condizione reale, sicché l‟unità non può conseguirsi sul piano reale, ma solo su quello ideale, per cui la differenza tra i due piani è ontologica, e non logica. E se ciò è vero, non si potrà costituire uno Stato ideale sul piano reale senza conservare tale differenza, la quale, non essendo logica, non può dialettizzarsi e addivenire ad una sintesi. In tal senso il , che distingue logicamente, non è il , colui che vede entrambe le realtà dell‟Essere, come vorrebbe invece Platone (Repubblica, VII, 537 c 7), poiché gli opposti logici coesistono nella stessa realtà in divenire che è una in quanto li comprende entrambi, laddove le differenze ontologiche restano due, ognuna delle quali è una rispetto a l‟altra. La possibilità di distinguere l‟una dall‟altra, assumendo ciascuna come unitaria in sé, è riservata alla condizione ontologica, e non alla determinazione logica, la quale “è” sempre e solo in relazione al suo opposto rispetto al quale si determina. L‟idealismo platonico ha inteso la distinzione logica alla stregua di una differenza ontologica, per cui il Bello l‟ha concepito non in relazione al Brutto, ma come “in sé” diverso dal Brutto “in sé”, facendo del Bello e del Brutto due realtà, ognuna delle quali è una. Questa confusione tra distinzioni logiche e differenze ontologiche ha ingenerato l‟ipotesi razionalistica della realizzabilità dell‟unità ideale, ossia della concretizzazione dell‟astratto, da cui deriva il progetto platonico di costruire uno Stato ideale. Ma la natura del molteplice, essendo ontologica, rimane anche nelle Idee, intese come proiezioni della realtà sensibile ( : Aristotile, Metafisica, B 2, 997 b 12). Da qui la ricerca di cause originarie prime, delle stesse Idee, intese come una totalità relativa ad altre totailtà perciò parziali.
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imperfezione che la filosofia dialettica si proponeva di eliminare dalla vita sociale, e che giustificava la stessa precarietà delle storiche costituzioni politiche, nonché delle mutevoli opinioni, dettate dalla persuasione () e non dall‟intelligenza (). Che Platone abbia concepito il dualismo metafisico non è in discussione, ma che esso “non abbia assolutamente a che vedere con il ridicolo dualismo di chi ipostatizza delle astrazioni, e poi contrappone l‟ipostatizzazione al sensibile medesimo”,215 è tesi che non pare aver colto il senso della differenza tra opposizione dialettica interna alle Idee e differenza ontologica tra ideale e reale. Infatti, sostenere che “il dualismo di Platone non è altro se non il dualismo di chi ammette l‟esistenza di una causa soprasensibile come ragion d‟essere del sensibile medesimo, ritenendo che il sensibile, a motivo della sua auto-contrddittorietà, non possa essere una globale [cors. nostro] ragion d‟essere di se medesimo”,216 non considera 1) le ragioni immanenti all‟equilibrio della realtà sensibile, che per quanto contraddittorie quelle e instabile questo comunque governavano il mondo fisico, e 2) come fosse possibile all‟uomo, essere razionale, rimuoverle e superarle anziché conformarvisi, conservando la sua natura politica, che fino ad allora aveva costituito la sua “globale ragion d‟essere”. L‟unico modo di superare la finitezza della condizione naturale era di concepire un sopra-mondo, ideale, iperuranio, in cui sussiste “l‟essere che realmente è, incolore e privo di figura e non visibile, che può essere contemplato solo dal pilota dell‟anima ossia dall‟intelletto, e intorno a cui verte il genere della conoscenza vera”.217 Ma la realtà meta-fisica, invisibile, in cui regna l‟intelligenza, è altra rispetto alla sensibile, per cui “due sono le realtà”.218 Ma se fosse vero che “il sensibile si spiega solamente con la dimensione del soprasensibile, il corruttibile con l‟essere incorruttibile, il mobile con l‟immobile, il relativo con l‟assoluto, il molteplice con l‟uno”,219 allora occorre spiegare a) la relazione tra le due realtà, sensibile e intelligibile, e b) la possibilità della sussistenza, nonostante le sue contraddizioni, della realtà sensibile senza la coscienza del . Se, infatti, la relazione fra le due realtà non è 215
G. Reale, Op. cit., pag. 195. G. Reale, Ibidem. 217 Fedro, 247 c 6 - d 1; tr. di Reale, loc. cit., pag. 197. 218 Repubblica, VI, 509 d 1. 219 G. Reale, Op. cit., pag. 197. 216
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necessaria, tant‟è che ne è stata possibile l‟incoscienza, delle due è quella soprasensibile la dimensione non necessaria all‟uomo, la possibile, e quella naturale invece la necessaria, essendovi egli tradizionalmente e inevitabilmente immerso. Se così fosse, dunque, l‟intelligibile non sarebbe perfetto ma manchevole appunto di necessità, ossia di quella esistenza che invece costituisce la natura della realtà sensibile. Da qui la constatazione di Platone che la possibilità era interna alla dimensione della molteplicità, che a sua volta regnava nella possibilità come contraddittorietà e instabilità che caratterizzava il mondo sensibile ma anche della realtà ideale, e quindi la necessità del filosofo di trovare la vera unità dell‟Essere in qualcosa ancora d‟altro rispetto a quelle due realtà, sensibile e ideale, e che fosse più originaria allo stesso mondo intelligibile delle Idee. L‟unità ricercata doveva essere quella di una dimensione inclusiva anche della Molteplicità, o per meglio dire, di ciò che della Molteplicità era l‟essenza comune alle due realtà molteplici, ossia la Possibilità. Per cui, se le cose sensibili escludevano altre cose sensibili, e le Idee escludevano a loro volta altre Idee, l‟Unità doveva comprendere ciò che rispettivamente esse escludevano, ossia la possibilità di essere altro da ciò che in sé stesse erano. E la possibilità d‟essere ciò che non si è, equivale ad essere non-possibile, ossia necessario. L‟unità è dunque inclusiva della contraddizione, ossia del non-logico, di ciò che il giudizio logico esclude come non-essere (appunto logico). Ma la realtà del non-logico e che la dialettica ha sistematicamente escluso dalla possibilità d‟essere ciò che logico è, è quella del Mito, la dimensione originaria da cui il Lògos distinguente si origina, e che include pertanto anche la realtà sensibile oggetto di negazione dialettica. Resta da chiarire se lo strumento logico possa pervenire alla conoscenza del Mito, ovvero la condizione della sua fruibilità sia quella di trascrivere in termini logici i suoi contenuti, operando una razionalizzazione del mondo da esso rappresentato. Entrambe le strade sono state battute. All‟inizio, l‟attività filosofica intrapresa da Socrate ha cercato di rielaborare il Mito trascrivendo i suoi contenuti rappresentativi in termini di discorso razionale, quindi l‟applicazione del metodo dialetto da parte di Platone ha universalizzato il metodo maieutico socratico allargandolo dal campo dell‟etica a quello di ogni conoscenza, nel tentativo di ri-formulare in termini scientifici l‟ordine cosmico evocato dalla narrazione immaginifica della simbologia mitica, facendone una mito-logia, una narrazione razionalistica. Questo 164
intento, attraverso la nuova fede cristiana, è diventato il programma culturale della civiltà occidentale, la sua religione ideale. Naturalmente, le diverse rappresentazioni dell‟Idea, ovvero dei sistemi razionai atti alla leggibilità del mondo, variano di epoca in epoca e di pensatore in pensatore, ma ciò che rileva, al di là delle specifiche determinazioni dei termini categoriali, è che l‟ipotesi platonica per cui solo ciò che è intelligibile sia conosciuto, permanga come il motivo di fondo della tradizione filosofica della cultura occidentale, di cui lo scientismo è la versione moderna. Ora, che questo programma coincida, sia pure inconsapevolmente, con un progetto culturalmente nichilistico anche sul piano socio-politico, lo abbiamo esposto ampiamente altrove esaminando i documenti intellettuali più salienti della storia del pensiero europeo. Ciò che in questa sede ci preme considerare è l‟innesto di questo programma idealistico nella nuova tradizione cristiana che subentrò al mondo pagano antico, ma che di questo mutuò, sia pure in un quadro antropologico nuovo, metodi di indagine teoretica e criteri di definizione dei problemi sociologici, oltre che, va sans dire, la funzione di riorganizzazione dell‟episteme etico-politico dell‟antico impero romano. Il razionalismo platonico, ricercando una connessione tra le Idee, e così pure il principio discriminante, lo poggiò su quello esclusivistico del giudizio logico, facendo dell‟anima l‟unità positiva della vita e della morte il suo risvolto negativo, per cui “l‟anima esclude la morte, così come la neve esclude il caldo”, considerando alla stessa stregua un‟unità ideale astratta e generica come la vita e la morte, e una unità empirica e concreta come la neve e il caldo, e pertanto portando le opposizioni ad unità () ovvero a esclusione () dialettica, non considerando che l‟unità ideale “in sé” (l‟uno-bello, l‟uno-brutto, l‟unobuono, etc.) è sempre in relazione all‟opposto ideale di cui essa è positivo, e quindi astratto dalla sua relazione concreta, ossia dalla sua natura possibile e molteplice. In tal senso, se l‟uno-bello implica l‟unobrutto, essi sono due astratti e come astratti ognuno è unità rispetto al suo opposto, ossia a condizione di escluderlo. Ma tale condizionatezza è una convenzione teoretica, un criterio gnoseologico, e non già una realtà ontologica dell‟Essere, la cui unità include quegli astratti ideali contrari, sicché anche “l‟anima”, intesa come “vita” nel Fedone, nella sua astratta determinazione ideale “esclude” la morte, ma concretamente la implica in relazione all‟unità concreta dell‟esistenza umana, che come Uno le comprende entrambe. La coesistenza degli opposti logici nella stessa 165
realtà unitaria è confermata dalla stessa necessità di distinguerli mercé il ragionamento dialettico, la cui funzione è pertanto quella di conoscerli, senza che però tale conoscenza possa costituirsi come la “causa” della loro realtà originaria e indistinta. Ora, l‟idea, espressa sempre nel Fedone, che poiché “il contrario non accoglie il proprio contrario […] anche la cosa che porta con sé un contrario non potrà mai ricevere il contrario di questo che porta con sé”,220 non esprime una condizione di fatto, ma solo una esigenza di coerenza logica che anzi viene empiricamente smentita dalla contraddittorietà della realtà sensibile, la quale, se fosse necessariamente analoga a quella ideale, dovrebbe rifletterla, e non appunto smentirla, provocando l‟intervento correttivo del ragionamento filosofico. Non a caso, la coerente simmetria logica tra rappresentazione ideale e realtà empirica stabilita nel Filebo,221 conduce questa a trasfigurarsi in quella, astraendosi dal suo divenire, cioè dalla sua imperfezione, e la realtà così ottenuta risolversi in una tautologia in cui l‟ente coincide con l‟essente. E infatti allorquando Socrate chiede a Cebete “che cosa si deve generare in un corpo perché sia vivo”, l‟interlocutore risponde che “si deve generare l‟anima”, ossia la vita stessa, il cui “contrario è la morte”.222 Il procedimento logico di “ricondurre ad un‟unica Idea le cose disperse e molteplici”, e di conseguenza di “saper dividere secondo le Idee”, di cui parla il Fedro,223 costituiva il metodo dialettico di generalizzare e di specificare chiarito nel Sofista.224 Ma costituiva altresì il procedimento tipico del giudizio politico, attraverso il quale si addiveniva alla distinzione tra il noi comunitario dei membri della polis (amici) e il resto degli altri (hostes). La questione politica diventa estremamente importante allorquando il modello ideale, da forma astratta della conoscenza del reale, derivata dalla razionalizzazione teoretica della realtà fenomenica in divenire, viene concepito come ipostasi pre-esistente la concreta realtà fenomenica, di cui essa è, non soltanto l‟essenza razionale intelligibile, ma l‟originario paradigma ontologico, rispetto al 220
Fedone, 104 b 6-10. Trad. di Reale, loc. cit., pagg. 200-201. “Noiaffermiano che l‟identità dell‟uno e dei molti stabilita nei ragionamenti ricorre dovunque e sempre in ciascuna delle cose che si dicono, ora e in passato”: Filebo, 15 d 4-6; trad. di Reale, loc. cit., pag. 209. 222 Fedone, 105 c 9 – d 9. Trad. di Reale, loc. cit., pag. 201. 223 Fedro, 265 d 3 – e 2. Trad. di Reale, loc. cit., pag. 205. 224 Sofista, 253 d 1 – e 2. 221
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quale l‟espressione esistenziale è un derivato imperfetto, una copia sensibile. In tal senso, le forme della vita sociale, spontaneamente legate alla possibilità della loro effettualità concreta, nonché alla tradizione culturale che le ha concepite, vengono idealisticamente considerate, alla stregua dell‟ordine cosmico naturale, come puramente accidentali, non necessarie, e quindi riformabili secondo un criterio razionale di corrispondenza al modello universale ipostatico. La stessa specificità contestuale alle diverse condizioni storiche delle distinte forme sociopolitiche diventa ragione evidente della loro precaria costituzione empirica, e quindi della necessità di un intervento correttivo definitivo e stabilizzante. Non sono più i singoli problemi etici a provocare l‟intervento dialettico del filosofo, ma l‟intera struttura sociale a richiedere, ne siano o non consapevoli i cittadini, una riforma filosofica della vita politica in direzione della sua virtuosa razionalizzazione secondo i modelli ideali. Ciò comporta che al singolo intervento maieutico si sostituisca un generale processo di rivoluzione spirituale, che incida sulle forme istituzionali, imperativamente, al di là della stessa consapevolezza spontanea dei singoli cittadini destinatari. E poiché il rapporto tra mondo iperuraneo e mondo fisico era a tal punto non necessario da rimanere tradizionalmente ignoto, ecco che l‟ignoranza appare al filosofo la causa storica di ogni errore umano di fatto, da emendare appunto con la sapienza filosofica. La figura del demiurgo mediatore dei due piani di realtà, nasce in considerazione del bisogno di sconfiggere l‟ignoranza maligna per far trionfare la benigna virtù della sapienza regolatrice della vita vera, quella informata ai criteri della ragione, secondo gli universali modelli ideali. L‟opera del demiurgo è di in-formare uno spazio urbano adibito alla vita sociale () secondo criteri ideali, al fine di addivenire alla realizzazione di una sua copia reale, la più vicina al modello eterno. In termini metafisici, l‟opera di edificazione della società ideale da parte del demiurgo consisteva nella trasformazione della realtà molteplice in una unità, che era ideale e che doveva diventare reale. La doverosità legata ad esigenze puramente logiche di corrispondenza razionale tra oggetto conosciuto e categoria conoscente, si trasferiva sul piano sociopolitico in termini di condotta deontologica, tale da stabilire in termini di conformità della prassi ai modelli ideali la stessa plausibilità e legittimità del Potere, il cui esercizio consisteva nell‟operare la mediazione della realtà naturale in senso ideale. Ma il “passaggio” alla dimensione ideale, 167
intesa come razionalizzazione della vita sociale attraverso l‟opera di istituzioni giuridiche politicamente garantite nella loro funzione d‟ordine, per essere opera umana e non divina, implicava una omogeneità ontologica che consentisse con la “mescolanza” degli enti molteplici nella loro unità ideale, anche la loro “distinzione” dall‟unità.225 In realtà, solo ciò che è logicamente opposto può mutarsi nell‟altro, mentre ciò che è ontologicamente differente non può mutare il proprio con un Essere diverso. L‟assunzione dell‟ontologico come logico, è il carattere proprio di ogni razionalismo, e il pregiudizio intellettuale tipico inaugurato dall‟idealismo platonico, i quale, per un verso, considera l‟Essere una realtà duplice, sensibile e intellettiva, e per un altro lo assume unitariamente alla maniera fisicalistica ed eleatica. Ciò comportava che la natura meta-fisica potesse e dovesse riguardare aspetti reconditi ma comunque inerenti alla realtà fisica, sicché la ratio essendi (= causa prima = ) venne intese da Platone come la stessa possibilità d‟essere di ciò che è, ossia la loro condizione genetica. E quindi le Idee erano della molteplice realtà sensibile, non solo la forma intelligibile, ma anche la sua fonte dinamica, per cui la stessa realtà cosmica era molteplicità sensibile a parte objecti, e unità ideale a parte subjecti. Il rapporto causale o genetico tra l‟Uno ideale e il Molteplice reale stabiliva anche la determinazione temporale,226 che dal piano della successione logica () si trasferiva a quello cronologico (), tale per cui la realtà meta-fisica fosse anteriore e originaria rispetto a quella fisica, invertendo l‟ordine di successione dell‟analisi filosofica posteriore rispetto al livello problematico costitutivo della sua materia dialettica. Invertendo l‟ordine temporale, non solo il risultato dialettico fu posto all‟inizio del processo genetico della realtà, ma il conseguimento di quell‟obiettivo teoretico fu considerato identico allo stesso Bene in sé, conseguito il quale dal sapiente, non restava che parteciparlo agli ignari abitatori della “caverna”, rendendo in tal modo universale la sua essenza, che da ideale diventava sociale. La socializzazione della verità diventava pertanto il fine eudemonistico della stessa sapienza filosofica. Ebbene, 225
Timeo, 68 d 4-7, cit. da G. Reale, Op. cit., pag. 213. Dire che “i principi non sono essere, ma, in quanto costitutivi di ogni essere, sono anteriori all‟essere”, vuol dire che la determinazione segue l‟indeterminato, per cui la “generazione” non ha significato metaforico ma propriamente temporale. Di diverso avviso H. Kraemer, Platone e i fondamenti della metafisica, tr. it. cit., pag. 156, condiviso da Reale, Op. cit., pagg. 225-226. 226
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tale conversione del fine teoretico in scopo politico, rappresentava da sola il motivo saliente di quella metabasi filosofica dell‟idealismo interprete della quale si era fatto Platone su ispirazione di Socrate, che costituirà per millenni la fonte autorevole di ogni rivoluzione spirituale tentata in nome delle superiori ragioni del Lògos razionale. Nondimeno, ciò che va precisato e proficuamente ribadito è che l‟intento di Platone di affermare non il mero ordine sociale, che qualsivoglia dottrina politica poteva assicurare, ma l‟ordine morale “giusto”, ossia quello vero e benefico, che soltanto il sapiente Governo poteva garantire. E governare significava, in questa prospettiva assiologica, riportare all‟armonia dell‟Uno il Molteplice sensibile, rivoluzionandolo. In tal senso, al concetto politico di “decisione” il filosofo intende sostituire quello di “opportunità” (), che comprende entro la sua possibilità o indeterminazione la giustezza della “misura” del retto sapere. Questa determinabilità dell‟Essere, o appunto “misura esattissima” () di una molteplicità, riguardava una forma metafisica (), ma anche un “limite” () fisico e una “norma” morale (), per cui, “a motivo di questa generalità polisensa e non ancora specificata, apparentemente vuota e formale della teoria dei principi, ben si spiega le difficoltà di „comunicarla come gli altri argomenti‟ ”.227 Ma la ragione empirica, pur corretta, non è l‟unica. Poiché, è vero che la natura fisicalistica della conoscenza come processo generalizzante impediva una pur ricercata reductio ad unum del constatato pluralismo delle Idee, ma la stessa trascrizione in termini numerici dello “schema generale di divisione categoriale dell‟intera realtà allo scopo di dimostrare come tutti gli esseri siano effettivamente riportabili ai due Principi, in quanto derivano dalla loro mescolanza”, [G. Reale, Op. cit., pag. 252.] dimostra che i contenuti della conoscenza, man mano che si procede in senso generalizzante, perdono il loro carattere originario, cioè la sensibilità e la molteplicità, ovvero la finitezza e determinazione, per acquisirne uno sempre più generico, e quindi indeterminato e astratto. Sicché, la conoscenza della realtà finisce per risolversi nella indeterminazione di ciò che è determinato, ossia in una privazione di realtà, o di concretezza, che risulta paradossale rispetto alle premesse gnoseologiche di conseguire la vera natura delle cose, ossia l‟Essere. L‟Essere che la conoscenza viene qui a manifestare è pertanto 227
H. Kraemer, Platone, tr. it. cit., pag. 174.
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un Essere privo di concretezza, perché privo di determinazioni reali, e perciò negativamente astratto, la cui realtà, nondimeno, veniva a costituirsi nel pensiero idealistico come suo oggetto essenziale. Da qui l‟aspetto paradossale dell‟epistemologia idealistica, che rappresenta un Essere che è tanto più conosciuto quanto più indeterminato, la cui realtà oggettiva è tanto più razionalmente determinata () quanto più esistenzialmente vuota. Un Essere, insomma, che è Negativo (un Essere-Non, un Nihil), ma assunto come positivo, fino a diventare, nella sua estrema generalizzazione, “la misura di tutte le cose buone e belle” (). Sennonché, la fonte gerarchicamente prima del processo reale, essendo unitaria non può logicamente essere molteplice, per cui Platone è costretto a porre anche nei Principi quel dualismo ontologico che la conoscenza doveva progressivamente ridurre ad unum, concependo, accanto all‟Uno, anche il Molteplice, anticipando in qualche modo la futura questione teologica che travaglierà per secoli l‟ontologia cristiana. Il dualismo metafisico riproponeva in scala ontologica il molteplice che era alla base dell‟esigenza unitaria della conoscenza, rapportando l‟unità e la molteplicità a quella dimensione di realtà che avrebbero dovuto spiegarle e risolverle univocamente. E, noi crediamo, che proprio tale ponderata consapevolezza doveva indurre Platone a non parlarne, né tantomeno a scriverne, rimanendo un‟aporia insoluta del suo sistema di pensiero. Non per ragioni legate alla insufficiente sistematizzazione, ma in quanto la “tecnica dialettica” non poteva prestarsi alla conoscenza di ciò che trascendeva la dimensione ontica, ma solo di ciò che la costituiva, ossia appunto la realtà (dell‟Essere) degli enti. Infatti, “la dialettica per definizione tratta degli opposti”, e “giunge alla sua conclusione incondizionata () solo una volta raggiunti i principi, che sono i generi più universali”, per cui “gli schemi di opposti generalizzanti riferiti dalla tradizione indiretta sono pertanto una eminente espressione del metodo dialettico, e lo sono tanto più per il fatto che essi riconducono tutte le singole coppie di opposti alla stessa opposizione originaria dei principi primi, la quale soltanto fonda e rende possibili tutte le opposizioni, e, con ciò, anche ogni forma di dialettica”.228 Orbene, l‟opposizione interna all‟unità deve presumere che questa sia 228
H. Kraemer, Platone, tr. it. cit., pag. 175.
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inclusiva di quella, e non coincidente, per cui la dialettica che trasceglie nella possibilità l‟elemento logicamente coerente ai propri postulati, deve necessariamente riferirsi a un piano di realtà ideale non coincidente con quello unitario, ma meno inclusivo di esso, da cui ne consegue che l‟unità ideale, dialetticamente conseguita per esclusione del non-logico, del nonrazionalmente compatibile, è una unità esclusiva, astratta, meno comprensiva dell‟unità dell‟Essere sensibile nella sua concreta realtà esistenziale, ossia una falsa-unità, laddove dovrebbe essere la “vera”. Da qui il carattere paradossale della gnoseologia platonica, che conosce le essenze della realtà sensibile senza poter conoscere l‟Essere nella sua interezza, ossia nella sua unità ontologica, per cui le stesse determinazioni ideali dei “sensibili eterni” () sono relativamente unitarie, dovendo coesistere con altre formalmente omologhe ma di contenuto sensibile distinto, e quindi anch‟esse molteplici. Come è stato correttamente osservato, “il tipo di teoria costituito dalla filosofia platonica, resta determinato, anche alla luce della dottrina non scritta, da una dialettica degli universali di carattere essenzialistico. Ma nei particolari, si delinea, ad un tempo, un pluralismo metodologico che nella formazione della teoria platonica risulta manifestamente strutturale”.229 La “struttura dell‟essere”, perciò, proprio in quanto è ricavata da una costruzione logica delle distinzioni categoriali, è una struttura categoriale astratta dall‟unità dell‟Essere concreto e primo, che conduce infatti al molteplice, con la conseguenza che alla “corrispondenza” fra il logico e il gnoseologico non si estende all’ontologico, se non a condizione di assumere l‟Essere esclusivamente come l‟essere del pensiero logico, cioè l‟astratto oggetto della ragione dialettica.230 La coerenza interna alla generalità categoriale è sì “universale”, ma di una universalità coincidente con l‟unità astratta degli enti reali, e che è simmetrica a quella dell‟unità 229
H. Kraemer, Platone, tr. it. cit., pag. 177. Questo “pluralismo metodologico” è lo stesso delle distinte metodiche delle unità di sapere di tipo scientifico, che sono probanti solo all‟interno dei rispettivi sistemi razionai, senza oltrepassare la loro settoriale universalità regionale ( ). Esempio tipico in ambito di filosofia idealistica, il sistema categoriale dello spiritualismo di Croce, in cui a ogni ambito formale universale corrispondeva un sistema gnoseologico relativo alla sua determinata scienza categoriale. 230 Di diverso avviso, G. Reale, Op. cit., pag. 255, che non cita mai Croce né la copiosa letteratura sorta intorno alla sua teoresi neo-platonica, a partire dalle prime segnalazioni in tal senso di A. Labriola. Sull‟argomento, ved. C. Marco, Croce filosofo della libertà, Lungro di Cosenza, 2000.
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empirica, di cui costituisce appunto l‟Idea, la forma ideale o “sostanzialità”. Ma anche in questo caso, ossia in quello dell‟unità empirica, tale unità è unità di molteplici, cioè di opposti, sicché Platone ha dovuto ammettere la molteplicità anche per il piano ontico, parlando di “mescolanza” o compresenza dei due Principi nella stessa realtà concreta degli enti, con differente grado di prevalenza di uno o altro Principio su quello opposto. La sintesi che ogni unità, ideale o empirica, presenta dei due principi opposti, rende possibile la sua individuazione, ma ne impedisce una loro univoca determinazione, rimandandola incessantemente al corso del processo dialettico. Il doppio e simmetrico passo, della “individuazione” degli elementi semplici (), e la “generalizzazione” universalizzante dei Princìpi (), fa assumere all‟unità elementare la stessa accezione di quella di genere, sicché “unità significa, quindi, il più semplice e, anche, il più universale”,231 indicando pertanto tautologicamente una stessa realtà logicamente pensata a parte subjecti vel universalis ovvero a parte objecti vel singularis, pensando l‟Essere come l‟Idea dell’ente. Non sono “due differenti forme di pensiero”, come pensa Kraemer, ma due concetti opposti di una stessa forma unitaria ideale, che, essendo speculare, può convertirsi nell‟altra. Le conseguenze di tale conversione sono rilevantissime sul piano teoretico e pratico, e decisive delle stesse sorti culturali della civiltà che le ha adottate come proprio patrimonio intellettuale. Infatti, eliminando progressivamente dal rapporto speculare tra gli opposti ogni mediazione demiurgica,232 la potenza poietica generativa della unitaria realtà viene attribuita viepiù alla stessa dinamica ideale, pensata in seguito come spirituale, e comunque tale da auto-determinarsi come essenza razionale universale (Nous, Geist, Storia, Ragione, Chiesa, etc.), espressiva della stessa istanza di “cattolicità” (Katholizitaet).233 Quanto stigmatizzava Aristotile come logicamente “impossibile” () perché contraddittorio un Principio che fosse allo stesso modo “forma e sostanza” () ed “elemento e materia” (),234 diventa invece possibile nell‟atto di 231
H. Kraemer, Platone, tr. it. cit., pag. 161; G. Reale, Op. cit., pagg. 260-261. cit. da Hegel sull‟impossibilità anche per gli eroi di contrastare le tendenze del tempo. 233 “Lunicità, l‟universalità e la cattolicità sono dunque la stessa cosa”: K. Jaspers, Von der Wahrheit (1947), Munchen, 1958, pag. 842. 234 Aristotile, Metafisica, M 8, 1084 b 13-23, tr. di G. Reale, Op. cit., pag. 261. 232
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determinarlo, concettualmente e politicamente, in termini assolutamente contingenti, ossia esprimendo un giudizio storicamente attuale di essenza, e una decisione politicamente efficace di esistenza, espressi entrambi con l‟affermazione che l‟Essere attuale (il che è, ) coincida con un ente (che esiste, ).235 In tal modo, la determinazione d‟essere di ciò che esiste, acquista valore anche di realizzazione ideale o “partecipazione”, ossia di “passaggio” ontologico con-sustanzializzante, dove la “delimitazione e determinazione del principio materiale da parte del principio formale” produce “un misto” di unità ideale e di molteplicità sensibile che rappresenta l‟Essere come una “unità nella molteplicità”.236 In questa convergenza del logico con l‟ontologico, l‟Essere diventa idealmente unitario e unitariamente conoscibile nella sua realtà empirica astratta dal suo dinamismo, facendo della filosofia una scienza gnoseologica di essenze, a un tempo fisiche e meta-fisiche, alla stregua della matematica ( ).237In questa concezione unitaria dell‟Essere universale, la questione, pertanto, se la sostanza prima sia sensibile o trascendente, viene a perdere il suo significato essenziale, consentendo alla fisica di essere anche una metafisica, e viceversa.238 235
“Tutto ciò che è, è nella misura in cui è un qualcosa di delimitato, determinato, distinto, identico, permanente, e in quanto tale partecipa alla unità originaria, che è principio di ogni determinazione. Nulla è qualcosa, se non è in qualche misura un qualcosa […].”: H. Kraemer, Platone, tr. it. cit., pag. 156. 236 Ibidem. “i manifestano differenti gradi di mescolanza dei due supremi principi: a seconda del predominare di un principio oppure dell‟altro, una cosa può essere „uguale‟ o „diseguale‟, ma, in quanto è un determinato essere, partecipa di ambedue i principi. […] Del resto, la stessa distinzione nel grado di mescolanza dei due principi sta a base anche del rapporto fra il mondo intelligibile e quello sensibile.”: Ivi, pag. 160. 237 Aristotele, Metafisica, Op. cit., pagg. 263-264. H. Kraemer, Platone, tr. it. cit., pagg. 157 sgg. “Ci troviamo di fronte ad una tendenza ad una dottrina filosofica della scienza ed a una scienza dei fondamenti quantomeno delle scienze matematiche, ma idealmente anche di tutte le scienze in generale, e precisamente ci troviamo di fronte ad una dottrina filosofica delle scienze ottenuta mediante una fondazione assiomatica e metodologica universale”: Ivi, pag. 167. 238 “Ciò che è principio di conoscenza per ciascun genere di cose, è misura prima di quell‟ambito di cose; dunque, principio di conoscenza in ogni ambito di cose è l‟uno”: Aristotile, Metafisica, Platone, tr. it. cit., pag. 166.
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14. L‟unità, tanto quella sistematica e teoretica quanto quella sociale e politica, è sinonimo di Bene in quanto produce ordine () e pace sociale (), intesi appunto come lo scopo del bene comune (). L‟ordine consiste nel rendere unitario, e quindi unito, il molteplice, ovvero nell‟omogeneizzare e rendere compatibili i diversi. Rendere gli elementi molteplici conformi al sistema, significa razionalizzarli, facendoli “determinati” () e “ordinati” () secondo i princìpi, distinguendoli da ciò che gli è diverso, e perciò escluso, rendendoli perciò conoscibili, oggetto di conoscenza. E in quanto determinati conformemente agli originari princìpi, anche riconoscibili come prodotti del Lògos. E pertanto, l‟unità del molteplice è il risultato di una sua determinazione (), ossia distinzione dal diverso (), che, essendo comunque interno al molteplice e quindi a esso relativo, si può escludere solo per opposizione logica alla misura () prescelta, e quindi assiologicamente relativo all‟unità ideale. Infatti, “tutto ciò che è, nella misura in cui è delimitato e determinato dall‟uno, è non solo essere e conoscibile, ma è, nello stesso tempo, provvisto di valore (buono-e-bello: )”.239 Il concetto che “funge da mediatore” fra le diverse possibili determinazioni unitarie è quello di “misura” (), che certamente indica un “limite”240 tra le diverse possibilità determinative e unitarie, ma che logicamente è giudizio distinguente, ossia distinzione. E la distinzione è il lo strumento concettuale principe dell‟attività politica. Orbene, l‟ordine sistematico strutturato in relazione al valore, viene logicamente determinato in senso unitario come una realtà che è () in quanto fondata nella sua essenza (), conosciuta attraverso la conoscenza delle sue cause ( ), ossia attraverso il criterio della differenza determinativa ed esclusiva della sua unità; criterio determinativo del suo essere esclusivamente ciò che è, lasciando nell‟indeterminato ciò che non-è interno all‟orizzonte sistemico, e che rimane non conosciuto. “Infatti la scienza è piuttosto scienza delle cose determinate ed ordinate che non di quelle a queste contrarie, ed inoltre è piuttosto scienza delle cause che non delle conseguenze”.241 L‟unità così 239
H. Kraemer, Platone, tr. it. cit., pag. 170. Ivi, pag. 171. 241 Giamblico, Protrettico, cap. 6, rip. in App. a H. Kraemer, Platone, tr. it. cit., pag. 411. 240
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ottenuta, attraverso il del giudizio logico ed assiologico, si costituisce anche ontologicamente come Essere reale, e pertanto come il vero e immutabile ordinamento del Bene. A una approfondita analisi, non può sfuggire il carattere ideo-logico dell‟intero impianto teoretico della gnoseologia platonica, nonché la natura politica del metodo dialettico, le cui pretese conclusioni incontrovertibili circa una supposta realtà incondizionata (), perché prima, nascondano invece un carattere relativo e circoscritto entro i confini di una verità assiomatica, asserita per fede costitutiva lo stesso fondamento ontologico, e di cui era implicita conferma la circostanza per la quale “il progetto [filosofico di Platone] fosse mantenuto piuttosto elastico e flessibile e fosse fondamentalmente aperto ad ampliamenti sia nel suo insieme sia nei particolari”.242 E allora si comprende bene come la reductio ad unitatem della gnoseologia platonica celasse l‟esigenza etico-politica di costituire su fondamenti assiologici razionali un principio di socialità filosoficamente legittimato e logicamente garantito, e quindi non più soggetto alla variabilità e discrezionalità di un Potere politico legato ai soli empirici rapporti di forza sociale o militare. Ma proprio la pretesa di voler stabilire una condizione socio-politica che riflettesse in termini istituzionali e ordinamentali una realtà suppostamente eterna e invariabile, era foriera di quella “tendenza alla totalizzazione”, già rilevata da Popper, e ribadita da Kraemer.243 Questa tendenza, nondimeno, viene negata in riferimento ai testi di Platone per confutare l‟interpretazione evoluzionistica del suo pensiero, nella convinzione che “dalla successione delle esposizioni letterarie contenute nei dialoghi non si possono trarre conclusioni che valgano senz‟altro per la genesi e l‟evoluzione del pensiero filosofico.”244 Qui sorge una questione delicata ed essenziale che va subito chiarita. Infatti, se per “esposizioni letterarie” intendiamo le narrazioni (, esse vanno distinte dai discorsi) di contenuto filosofico, e non sono razionalmente confondibili. Ma essendo il testo una unità simbolica, esso include le due distinte realtà, espressiva e razionale, e in tal senso costituisce una totalità originaria rispetto alle successive distinzioni logiche. Orbene, essendo ogni lògos una narrazione avente per contenuto un tema filosofico da determinare dialetticamente, in relazione a quel 242
H. Kraemer, Platone, tr. it. cit., pag. 177. H. Kraemer, Platone, tr. it. cit., pag. 178. 244 Ivi, pag. 181. 243
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tema, il discorso può ritenersi compiuto, anche se non necessariamente esaustivo, laddove, in riferimento a ogni successiva fruizione dialettica dei concetti ricavativi, la comparazione genetica è senz‟altro possibile, proprio in virtù della contestualizzazione tematica che ogni dialogo esprime in se stesso. Per cui, conseguito l‟esito dialettico del racconto, la forma narrativa ne diventa il pretesto estetico, l‟occasione accidentale che l‟ha originato. Ciò significa che il prodotto filosofico della esposizione letteraria è un posterius rispetto alla narrazione, così come il in senso tecnico lo è del che simbolicamente lo contiene e che pertanto costituisce una unità, che è totale in sé, e relativa rispetto ad altri dialetticamente rielaborativi dei suoi contenuti teoretici. Nella sua dimensione unitaria e indistinta il è e in tal senso totale. Ma probabilmente l‟aspetto più interessante a riguardo è la presenza, all‟interno dei di che indurrebbe a pensare che la supposta distinzione successiva fosse in realtà preventiva. In qualche modo è effettivamente così, dal momento che il dialogo scritto è, per ammissione di Platone, una trascrizione del dialogo orale, per cui, se nella esposizione originale la rappresentazione di un mito all‟interno del dialogo in fieri nasce dall‟esigenza dialettica di stabilire per immagini una relazione di concetti logici a scopo figurativo, nella successiva trascrizione scritta il corpus mitico diventa anche strutturalmente un compendio concettuale di valore ipomnestico e protrettico. Ciò non toglie, però, che il valore simbolico della rappresentazione mitica viene colto in senso razionalistico solo a seguito di una sua rielaborazione logico-dottrinale. Con questo si vuole intendere che la funzione ipomnematica è attribuita dal redattore del testo in relazione ai suoi contenuti dottrinali, oggetto dell‟interpretazione del lettore ideale, che è colui che già li conosce per altri versi e che li ri-trova nel nuovo testo come pre-giudizi adatti al migliore esame ermeneutico. Ma, nell‟economia generale del testo narrativo, le rappresentazioni mitiche svolgono una funzione del tutto analoga a ogni altro momento rappresentativo, quali elementi funzionali al senso narrativo, nel duplice livello di fruizione esegetica: quello secondo le verità comunemente accettate, exoterico, e quello esoterico interno alla scuola, per cui, anche il lettore ignaro dei fondamenti filosofici adatti a intendere il valore simbolico, può fruire del testo platonico in senso estetico, ma ugualmente pedagogico, appunto come un tradizionale , depositario di credenze di senso comune oltre che di dottrine non (ancora) logicamente rielaborate. 176
Ma qual è la differenza tra la rappresentazione mitica e quella concettuale, se entrambe sono comunque espressive di una realtà simbolica? Per rispondere, bisogna comprendere quale sia la funzione del Mito e quale quella del processo dialettico. Il Mito rappresenta anch‟esso la verità, a suo modo, cioè secondo forme simboliche di tipo naturalistico, incarnandola, per così dire, nella realtà sensibile, ossia delimitando l‟unità dell‟orizzonte di senso significativo in termini concreti, tali che gli elementi rappresentativi, per quanto simbolici, conservino l‟originaria condizione dinamica posseduta nella loro comune esperienza esistenziale. La rappresentazione concettuale, invece, espone le sue figure di senso astratte dal dinamismo esistenziale degli oggetti della loro rappresentazione simbolica, in modo tale che la loro funzione non sia quella di indicarne la realtà concreta ma bensì la realtà ideale. La differenza è che, mentre il mito completa con una immagine sensibile ciò che della realtà l‟idea non esprime in termini logici, i concetti al contrario distillano dalla realtà concreta la loro astratta rappresentazione simbolica. Ciò vuol dire che il Mito è una rappresentazione inclusiva della realtà, laddove il ne è una esclusiva. Ciò che l‟Idea non dice, il Mito rappresenta. La rappresentazione mitica della realtà è dunque il racconto simbolico del‟Essere di cui il lògos è la rielaborazione formale di senso razionale. Sia il che il rappresentano della realtà dell‟Essere la sua immagine, rispettivamente simbolica e ideale. La rappresentazione simbolica, coglie la realtà dell‟Essere nella sua concretezza sensibile, inclusiva del suo divenire, laddove quella ideale ne coglie l‟essenza noetica, privata del divenire. In senso stretto, solo il Mito è racconto dell‟Essere, mentre l‟Idea ne è la visione astratta e immobile, noetica e disincarnata, eterna, ovvero, come si prenderà a dire in seguito, “spirituale”. E poiché ogni verbale usa lo strumento narrativo, lo stesso è intrinseco al , come, si dirà, lo spirito () lo sia alla carne (). In tal senso Platone usa strumentalmente l‟espressione mitica per esprimere un concetto logico, piegando il linguaggio figurato a uno epistemico, ordinato secondo ragione, e non più solo esteticamente come appunto il tradizionale. Il discorso scritto, razionalmente strutturato a fini ipomnestici, protrettici o pedagogici, è già techne dailektike, per cui la fluidità del filosofare, come arte maieutica di enucleare il lògos dal mythos, è riservata ai
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processi della dialettica orale,245] i quali si pongono, rispetto agli esiti logici del ragionamento, in posizione di non sapere. Nondimeno, se il ragionamento filosofico termina con un sapere finale, che lo conchiude e gli dà senso compiuto, ciò che lo fonda, il principio assoluto, non si evince dal ragionamento, ma appunto ne è all‟origine, e in tal senso è extra-verbale (agraphos), ossia non appartiene in senso stretto al lògos, il quale lo presuppone. Nello stesso senso, Platone lo indica nella Lettera VII come alografo, non-esprimibile in forma fissa, e quindi non soggetto a diventare una credenza manipolabile (doxa) a uso politico o genericamente retorico.246 I termini della manipolabilità deel pensiero sono strettamente correlati alla priorità della tesi retoricamente sostenuto, rispetto all‟esito incognito del processo logico-dialettico, che solo il ragionamento filosofico può garantire. Ma se l‟uso politico della retorica ne falsa la tecnicalità in senso ideologico e demagogico, l‟uso filosofico della retorica viene legittimato dalla necessità di rendere appunto politicamente efficace il contenuto dottrinario, con l‟implicita ammissione della impotenza della ragione filosofica ad affermarsi spontaneamente rispetto al dominio volgare dell‟opinione pubblica (doxa). Il motivo dell‟impotenza del Lògos, così significativo nell‟economia del discorso platonico sull‟interferenza della politica nella filosofia, costituisce il precedente paradigmatico di ciò che sarà il concetto teologico della kénosis di Dio rispetto al libero arbitrio dell‟uomo. Ma ciò che qui rileva è che, a fronte del potere che il nous esercita sul filosofo, la verità non ha la stessa ascendenza in ogni uomo, che può anche vivere ignorandola o mistificandola, per cui il desiderio di renderla universalmente comune richiede l‟intervento di strumenti persuasori e coercitivi del tutto extra-filosofici e appunto politici. Ma perché la retorica abbia un valore teoretico e una destinazione psicagogica deve potersi fondare sulla conoscenza della verità, ossia su 245
F. Trabattoni, Scrivere nell’anima. Verità, dialettica e persuasione in Platone, Firenze, pagg. 21 sgg. 246 Come è noto, “la critica alla retorica è strettamente legata, in Platone, alla critica della democrazia, già propria del Socrate storico”, anche se il filosofo “individua nei politici i maggiori responsabili del degrado della polis, discolpa i retori, ritenendoli solo gli esecutori di una pratica che ha le sue radici nell‟assemblearismo democratico e nell‟incapacità di chi ha governato (cfr. Resp. 492a - 493e). La critica della retorica e della scrittura prendono dunque le mosse da una situazione politica in cui il termine „logografo‟ può essere considerato alla stregua di un insulto”: B. Centrone, Introduzione al Fedro, tr. di P. Pucci, Roma-Bari, 2012, pag. XX.
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quei risultati del processo dialettico offerti dalla sapienza filosofica. Il primato della filosofia sulla tecnica retorica è lo stesso primato sociale e culturale del filosofo sul politico. Il “dialettico” è infatti colui che sa districarsi nel parlare, ossia chi è in grado di gestire sapientemente la conoscenza attraverso l‟uso non solo retorico della parola, ma intrinsecamente filosofico, in grado cioè di governare la molteplicità delle sue accezioni. La sapienza filosofica consiste dunque nel governo della parola, nell‟uso finalizzato all‟affermazione della verità; affermazione che, nel campo noetico, si effettua attraverso il dialogo filosofico, mentre nel campo sociale attraverso lo strumento retorico e legale della politica. Affermare la verità significa unificare il molteplice, strutturare razionalmente il leghein per poi procedere alla strutturazione della vita umana socializzando la verità e rendendola patrimonio comune. Il richiamo alla critica e instabile condizione politica determinatasi con le riforme di Pericle, è il movente implicito della riflessione platonica sull‟uso del linguaggio come mero strumento retorico manipolabile in senso epidittico. Se dunque pletorica è la partecipazione democratica al Potere, la cui molteplicità di istanze rende difficile o impossibile il Governo, del pari caotico è l‟uso improprio delle parole, la cui fruizione interessata e approssimativa rende difficile o impossibile un veritiero senso univoco. L‟ordine, l‟unità e il Governo sono sinonime qualità della verità razionale e non semplicemente creduta. Infatti, la mobilità istituzionale, così come quella delle parole non definite, seguono l‟edacità della condizione propria della realtà molteplice, la quale, in assenza di determinazioni univoche, muta incessantemente. L‟esercizio del Governo sta a quello del Potere come la dialettica sta alla retorica, in quanto tendono entrambi a portare l‟ordine unitario nella dispersiva molteplicità, conoscendola in ogni suo settoriale risvolto particolare (aisthesis). E così, il Governo riconosce l‟istanza politica come legittima petizione sociale, distinguendo la sua opportunità (eukairìa) da quella errata e insostenibile per la comunità (akairìa), allo stesso modo di come la dialettica distingue l‟uso veritiero della tecnica verbale da quello incauto e moralmente improduttivo della eristica. E in questa simmetria e analogia, la morale del Vero s‟incontra idealmente con l‟etica del Giusto, coniugandosi per dar vita alla piena e duratura armonia esistenziale. L‟eukarion dell‟atto di Governo consiste essenzialmente dunque nel riconoscere una istanza particolare e privata avente un carattere di valore pubblico. Questo atto 179
pubblicistico costituisce, in ambito socio-politico, il simmetrico dell‟universalità che il giudizio logico-concettuale formula in ambito dialettico: entrambi fanno valere erga omnes ciò che prima valeva intus in parte. Per la sua valenza pubblica la filosofia si avvale della retorica, e per la fondamentale ragione che il processo dialettico della verità è un itinerario essenzialmente privato, circoscritto ad omologhi deuteragonisti, consapevoli del valore epistemico del lògos, il cui svolgimento si realizza oralmente, nel dialogo, il quale unicamente può rendere a un tempo la mobilità del discorso in fieri, tipica della concretezza della realtà esistenziale, e l‟unità razionale dell‟esclusivo processo dialettico tendente a definire nell‟ambito logico quella stessa mobilità del discorso. Il successivo atto legislativo del Potere, al pari di ogni scrittura ipomnestica, non fa che ribadire in senso universale il risultato di pensiero che è stato acquisito dialetticamente in forma privata. Questo ci fa chiaramente intendere, per un verso, l‟incongruità del dibattito assembleare ai fini della rivelazione dialettica dell‟eukarion, e dall‟altra della impraticabilità della via empirica del Bene indipendentemente dalla conoscenza filosofica. Perorando la causa dell‟oralità, Platone non predilige una tecnica a un‟altra, ossia la fonte orale a quella scritta, ma asserisce l‟incongruità della scrittura a determinare analogicamente un risultato dialettico, riguardante un determinato contesto tematico e situazionale, con una situazione che richiederebbe una sua propria definizione razionale. Ciò vuol dire che l‟unità di senso del discorso dialettico è anch‟essa contestuale, e non applicabile per analogia ad altre situazioni problematiche. Ma ciò comporta che lo strumento stesso del dialogo, per quanto efficacemente evocativo del risultato logico, è intimamente legato alla condizione generale e ontologica dell‟Essere molteplice, che nel variare dei contesti situazionali comporta anche la variazione relativa dei suoi contenuti ideali. Se ciò è vero, anche l‟Idea stessa è un , cioè una proiezione ipostatica di una determinata formalizzazione unitaria del Molteplice. Non è casuale la stessa molteplicità delle Idee, dalla quale occorre risalire fino ai principii primi, archetipi. In ogni caso, dietro la questione relativa alla maggiore efficacia o congruità del dialogo sul testo scritto, “legata alla sua capacità di costituire un medium per una
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trasmissione non meccanica del sapere”,247 si nascondeva una di peso più rilevate, decisiva delle sorti stesse del filosofare quale sapere di valore sociale. In altri termini, la preminenza del dialogo sullo scritto filosofici implicava il ruolo del sapere filosofico nella società greca del sec. V in via di transizione dall‟età di cultura arcaica, legata alla tradizione di sapere mitico-religioso, a quella di una nuova cultura, di impianto vagamente razionalistico ma non ancora istituzionalmente confermata, al quale sviluppo e affermazione il ruolo del sapere filosofico poteva essere decisivo al fine di impedirne una deriva retorico-demagogica, politicamente oclocratica e intellettualmente sofistica e quindi nel complesso relativistica. Proprio la condizione di apertura e di incertezza dei tempi spingeva Platone a destinare la filosofia a una funzione eticopolitica e pedagogica universale in grado di ricondurre a unità una cultura ormai tralignata dall‟alveo dell‟antica fede comune, identitaria della frastagliata ma comune civiltà dei Greci. In tal senso, il platonismo attivò in ambito greco quel progetto religioso perseguito consapevolmente in scala ecumenica dal Cristianesimo post-paolino nell‟ambito della cultura ellenistica, contrassegnata da un disegno cattolico di unità del genere umano entro un medesimo orizzonte di fede comune nella verità. Un punto controverso, almeno apparentemente, è il rapporto tra il movimento dell‟anima immortale 248 e l‟istanza unitaria formale del concetto e del corpo sociale. Se infatti “l‟essenza e la definizione dell‟anima” è il movimento immortale, occorre motivare le ragioni per le quali esso andrebbe regolamentato entro una struttura istituzionale e, in certo senso, politicamente fermato. Nel Fedro Socrate, parlando per immagini della condizione dell‟anima, afferma che tutto ciò che è anima si prende cura di ciò che è inanimato, e penetra per l‟intero universo assumendo secondo i luoghi forme sempre differenti. Così, quando sia perfetta ed alata, l‟anima spazia nell‟alto e governa il mondo; ma quando un‟anima perda le ali, essa precipita fino a che non s‟appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell‟anima. Questa composita struttura d‟anima e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. La definizione di immortale invece non è data da alcun argomento razionale; però noi ci preformiamo il dio, senza averlo mai visto né 247 248
B. Centrone, Loc. cit., pag. XLIII. Fedro, XXIV, 245e – 246a.
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pienamente compreso, come un certo essere immortale completo di anima e di corpo eternamente connessi in un‟unica natura. 249
Da questa immagine, si deduce che : a) l‟Essere è diviso tra parte sensibile e immota, e parte immateriale e animata; b) il Governo del mondo è opera dell‟anima, ossia è di natura spirituale; c) la natura umana è composita e costituita dei due elementi, anima e corpo, ed è mortale; d) l‟anima vive ospitata dal corpo facendolo vivere; e) la cognizione razionale inerisce la realtà mortale, mentre la cognizione della natura divina e immortale può essere solo immaginata dall‟uomo, e perciò la sua rappresentazione è irrazionale. Si evince dunque che la funzione dell‟anima nei corpi è di animare la materia sensibile, altrimenti immota. E tale animazione del mondo ne costituisce il suo Governo. Governare significa dunque per Platone partecipare la materia immota e sensibile del movimento della vita eterna. Inoltre, la definizione razionale della condizione mortale, unita alla consapevolezza del Governo che l‟anima ha del mondo, non può che conferire a tale Governo una sua natura razionale conforme alla sua funzione. Da qui deriva che tanto la conoscenza della condizione mortale quanto il Governo che ne presiede la vita siano entrambi definibili razionalmente, ossia che il Governo del mondo coincide con la conoscenza razionale della condizione mortale. In questi pochi righi viene disegnata, con la mappa della natura umana, anche la funzione della conoscenza, e dunque della filosofia, per il Governo razionale del mondo. con la sottolineatura della determinazione di tale conoscenza nell‟ambito del mondo finito, dove l‟imperfezione della sua natura consente all‟uomo di conseguire nell‟Essere anche la de-finizione di sé. ciò implica che la conoscenza razionale della realtà finita sia una determinazione positiva e appunto di essere. L‟Essere dunque è ciò che è razionalmente determinabile nella sua natura finita e conoscibile all‟uomo. Di conseguenza, la realtà divina, immortale ed eterna, essendo immateriale e non conoscibile dall‟uomo in termini razionali, è quanto si diversifichi dall‟Essere proprio della finitezza, ossia il non-Essere. Da qui la determinazione ontologica dell‟oggetto della conoscenza razionale come positività contrapposta a negatività, per cui la conoscenza razionale dell‟Essere ne produce una rappresentazione positiva, mentre ciò che vi è escluso e non sussumibile in essa costituisce l‟elemento irrazionale e 249
Fedro, XXV, 246 b-d, tr. it. di P. Pucci cit., pag. 47.
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inconoscibile. E poiché quanto sia escluso dalla conoscenza razionale viene escluso anche dall‟Essere-che-è, ossia dal mondo della realtà finita e determinabile come tale, è la stessa conoscenza a determinare il suo orizzonte ontologico, facendolo coincidere con la “verità”. In tal modo, la conoscenza razionale del mondo, la filosofia, acquista valore di Governo della molteplice realtà finita, la cui positività d‟Essere la distingue dalla negatività logica della realtà divina, che pertanto va rimossa dalla condizione umana come il non-essere dal giudizio d‟essere. Ed è in questa somma decisione logica che si connette idealmente la teoretica con la stessa funzione di Governo razionale del mondo. Apparentemente, l‟attribuzione al mondo divino di ogni qualità sovrasensibile e immortale è un modo di celebrarne la magnificenza, a implicitamente anche quello di esautorarne le funzioni determinanti, che la sapienza filosofica distrae dalle loro mani per consegnarle all‟intelligenza dell‟uomo. L‟atteggiamento ironico di Socrate consiste nel dichiarare fede ai miti religiosi nell‟atto stesso di esautorarli di ogni funzione cognitiva e teoretica, e quindi dal Governo stesso del mondo, assegnandolo all‟uomo saggio. Eliminare dalla realtà dell‟Essere l‟irrazionale equivaleva a eliminare dal mondo il Governo divino. La razionalizzazione della realtà passava, attraverso la conoscenza filosofica dell‟Essere, al Governo della condizione umana. Con Platone viene tracciato il percorso razionalistico della progressiva emancipazione della coscienza umana da ogni pregressa e irrazionale dipendenza divina, intesa come condizione negativa dalla quale emendarsi attraverso la tecnica dialettica, che dunque costituisce lo strumento precipuamente umano di definire il mondo in senso antropologicamente determinato. Il governo divino del mondo, già conteso agli dèi dai titani, viene ora reclamato dagli uomini, in grado di pervenire da se stessi alla decifrazione del mistero che avvolge la vita attraverso l‟uso sapiente del linguaggio. L‟oralità, pertanto, non è una condizione culturale storica dell‟uomo, pregressa a quella della scrittura, ma è la condizione stessa della governabilità umana del mondo. Il potere evocativo delle parole logicamente connesse, fornisce all‟uomo la cifra della vita, e quindi l‟arma dialettica alternativa alla potenza tipicamente divina della forza di piegare a volontà gli elementi naturali, fuoco, aria etc., che la filosofia pre-socratica riteneva fossero le sostanze stesse dell‟Essere. Con il discernimento dialettico dell‟essenza logica dell‟Essere, la , viene a cadere anche la forza tradizionale del mondo, essendo spostato 183
dalla filosofia il senso della vita dall‟ordine naturalistico della taxis all‟ordine logico della sophrosyne. Platone traccia in nuce la grandiosa rappresentazione del mondo che sarà oggetto in età ellenistica della ontologia cristiana, che situa il all‟interno del discorso razionale, ovvero della coscienza umana, in interiore homine. Platone per primo fa coincidere la “verità” () dell‟Essere col “discorso sulla verità” (), eleggendo il linguaggio a luogo della verità (), intesa come “essenza di ciò che è” (), da cui si genera la scienza (), che è lo stesso “pensiero divino” ().250 Nondimeno, la scienza divina della verità, conseguita dall‟uomo con l‟uso sapiente delle parole entro la sfera del linguaggio, usato in senso indefinito, dialettico e adiairetico, e perciò mitico, non interessa la conoscenza della realtà degli enti in divenire, ma è scienza di ciò che l’Essere veramente è.251 La vera scienza non riguarda dunque i corpi, ossia il mutare accidentale degli enti sensibili e mondani, ma ciò che li anima, il Lògos, che è divino e che fa del linguaggio dunque il suo . Nell‟atto di conoscere quanto di divino e immutabile vi sia nella realtà altrimenti cangiante del mondo, l‟uomo assurge al livello degli immortali, partecipando della loro essenza eterna. E pertanto la conoscenza ha per oggetto l‟essenza immortale del mondo, che anima l‟Essere facendolo essere ciò che è. L‟esistenza, priva dell‟essenza immortale oggetto di conoscenza, è quanto la dialettica distingue come elemento negativo e transeunte rispetto alla positività ontologica dell‟Essere. Questa essenza immateriale e invariabile è l‟, che “consiste in una unità organizzata dal ragionamento” () originata da “una molteplicità di sensazioni” ( ), 252 ovvero nell‟ “abbracciare in una visione unitaria che riconduca ad unità formale lo sparso molteplice, al fine di definire chiaramente ciò che si intende ogni volta insegnare” ( In tal senso, la facoltà del filosofo di aleggiare al di sopra delle umane faccende della vita pratica perfezionandosi nei misteri () dell‟Essere, è autenticamente divina. Una divina 250
Fedro, 247 c 4-8 – d 1. Ivi, 247 d 7 - e 2. 252 Fedro, 249 b 5 – c 1. 253 Ivi, 265 d 3-5. 251
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, non comune a tutte le anime ma solo a quelle che, “partendo dalle
cose terrene”, sono capaci di “far affiorare nella memoria quel vero essere”.254 Lo stesso corpo umano () costituisce una “tomba” () e una “ostrica” () per l‟anima che lo ravviva, e se non fosse per lo stimolo della bellezza che riaccende il desiderio (), essa si inaridirebbe.255 Questo “sentimento” () che “gli uomini chiamano amore” (), gli dèi immortali () lo chiamano “alato” ().256 E‟ importante qui soffermarsi sul rapporto intercorrente tra amato e amante al fine di scoprire attraverso questa immagine platonica dell‟ la correlazione che si può instaurare analogicamente con il rapporto hegeliano di servo-padrone. Infatti, se in Platone è possibile configurare una varietà di rapporti erotici in considerazione della relativa molteplicità dei referenti divini che li ispirano,257 in Hegel il rapporto erotico viene analizzato fenomenologicamente in termini apparentemente neutri e perciò polivalenti, ma in realtà concentrato nel solo ambito della socialità, dominato da Ares. In Platone l‟antagonista non è il nemico, ma la persona amata nella coppia dialettica costituita da Eros e da Anteros, che si richiamano a vicenda in nome dell‟unione attrattiva, anziché, come in Hegel, della tensione polemica che contrappone il servo al padrone. Anche l‟amato si riconosce nell‟amore dell‟amante, ma col fine di rimanerne soggiogato, e non di soverchiare. Ciò implica che Eros, per quanto definito in una persona fisica, in realtà la trascende, facendo della persona amata una cifra simbolica che concentra ma non esaurisce la potenza erotica. Questa maschera manca nel rapporto polemico, il quale si concentra nella contrapposizione fisica dell‟antagonista, che è lui e non può essere altri, dando a quel rapporto un carattere di finitezza e di immanenza che manca alla relazione erotica, che tende a trascendere l‟oggetto amato nel senso dell‟Amore puro, non limitato dalla sensibilità dell‟ che lo rappresenta mondanamente. L‟esito, infatti, dell‟amore è l‟amicizia (), che sublima moralmente la tensione erotica, non già la pace (), che subentra all‟agone del come sua negazione logica e opposizione dialettica. E la è passione vitale intrinseca alla sapienza del saggio (), la filosofia. 254
Ivi, 250 a 1-3. Ivi, 251 c-d. 256 Ivi, 252 b. 257 Fedro, 252 c – 253 c. 255
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La differenza tra le due rappresentazioni è possibile coglierla in considerazione della diversa e rispettiva collocazione del rapporto erotico nell‟ambito inclusivo del (Platone) ovvero nell‟ambito esclusivo del (Hegel). Infatti, la scelta platonica, al di là delle esplicite dichiarazioni del Socrate del Fedro, non è meramente stilistica ma ontologica, in quanto solo attraverso l‟orizzonte del Mito è stato possibile al filosofo configurare una condizione spirituale aperta a plurime determinazioni ideali, una sola delle quali è possibile definire in quei termini politici che in Hegel diventano logicamente paradigmatici. Ciò vorrebbe dire che solo il Mito, attraverso la sua affabulazione poetica, può creare le condizioni evocative di quella de-finizione razionale che la ri-elaborazione logica fa scaturire dialetticamente dal racconto. Ma se ciò è vero, lo è altresì la conseguente configurazione del linguaggio mitico come l‟orizzonte topico di quella molteplicità che la definizione logica tende a rendere razionalmente unitario, di cui si è detto. Infatti solo entro un orizzonte mitico è possibile conservare quella varietà d‟anime che rendono gli uomini diversi,258 essendo il Mito un‟unità molteplice, ossia l‟unità che conserva al suo interno quella molteplicità possibile che la dialettica tende a negare per affermare esclusivamente l‟Essereche-è logicamente pensato. Il senso razionale delle cose non coincide con nessuna particolare determinazione molteplice degli enti inscritti nell‟orizzonte situazionale in cui agisce il filosofo, ma le comprende tutte trovando di ognuna l‟elemento comune a tutti. Ma proprio a questa ricerca è affidata la selezione degli elementi tra di loro compatibili e perciò sussumibili sotto una comune Idea razionale., il che vuol dire che l‟atteggiamento critico del filosofo consiste appunto nella tra ciò che è accomunabile in senso razionale a ciò che invece vi si oppone. Il comprendere, pertanto, in senso socratico-platonico non equivale a tener conto di ogni aspetto contingente dell‟esperienza comune in esame, ma bensì nell‟individuare il senso razionale della situazione, cioè le ragioni e il significato del suo percorso ideale, il quale, una volta individuato, veniva messo a confronto con la realtà effettiva, quale si era storicamente prodotta. In questo senso, l‟opera platonica costituisce complessivamente una risposta teoretica alla crisi della cultura e della società greca dei secc. IV e V, attraverso la critica radicale delle ideologie dominanti. Infatti, introducendo il primato 258
Fedro, 271 d 2-3.
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della verità, il filosofo è in grado di confutare idealmente gli errori e i pregiudizi culturali che avevano portato alla crisi socio-politica, facendo della dialettica il metodo per distinguerli. In questo senso la filosofia che si pone al servizio della vita della polis svolge una funzione eminentemente politica. così come politica è il confronto con la Sofistica, la “scienza politica” per eccellenza del tempo della crisi, che si fonda sulla retorica, la quale ha per oggetto la “persuasione non accompagnata dal sapere ma dovuta a credenza”.259 Data la caratteristica molteplicità tematica insita nella rappresentazione mitica, la genericità della trattazione retorica sembra confacente all‟esigenza affabulatoria del Mito, ma Socrate, negando alla retorica la natura di sapere razionale, la priva anche della pretesa di costituire un‟arte (), che è un sapere specializzato che presuppone la conoscenza delle cause dei fenomeni sui quali si applica, riservandole solo una forma di esercizio pratico () destinato anziché al Bene al piacere di persuadere su qualunque argomento, di cui si è pur privi di vera conoscenza, un non diverso da altre pratiche () quali la cosmesi, la sofistica e la culinaria.260 Platone, ribaltando sui retori demagoghi l‟accusa di astrattezza già riservata ai filosofi, dimostra che la retorica pur essendo al servizio delle ambizioni politiche è però priva di ogni nozione di bene comune, mancandole la conoscenza di quell‟unità razionale propria del giudizio logico, la cui ignoranza provoca l‟azione contraddittoria e casuale del Potere,261 che pertanto va distinto dall‟esercizio razionale del Governo, il quale, basandosi sulla conoscenza razionale del Bene, è, esso sì, un‟arte (), e non una mera pratica empirica, ignorante di ogni nozione di Bene, relativo dunque al sapere tecnico. Ora si comprende come la pratica retorica - volgendosi senza conoscenza agli affari politici, pur seducendo gli animi e volgendoli alla credenza perorata (), compromette la salute del corpo sociale, alla stregua del cuoco che intento al piacere del palato non si curi del male che può creare la corpo, ovvero del seduttore che, nello scopo di procurarsi il piacere dell‟amato, non curi le conseguenze della sua passione – riveli l‟autentica natura ambigua del discorso sofistico, privo affatto di quell‟intrinseca necessità logica riservata invece al ragionamento filosofico, consapevole della verità che il retore ignora. E 259
Gorgia, 454 e. Gorgia, 462 c; 465 a. 261 Gorgia, 467 sgg. 260
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se per “verità” intendiamo platonicamente il giudizio di realtà, ecco che il linguaggio retorico che ne è privo consista proprio nel dire privo di scienza. Un parlare libero da logica necessità, che si volge a ogni argomento nella misura in cui ignora ciò di cui parla.262 A questo punto sorgono due problemi. Il primo riguarda l‟identità di ignoranza ed errore, e il secondo la possibilità di dire cose vere pur ignorandone la concatenazione logica. Che l‟ignoranza produca errori, non è questione ragionevolmente opinabile, ma che la verità non possa nascere dall‟ignoranza, è altra questione. Lo stesso filosofare, infatti, quale “divina mania”, è un a suo modo erotico che rapisce il filosofo, il quale è tale nella misura in cui lo trasferire nelle parole, definendolo in una forma compiuta, ossia dichiarandolo per ciò-che-è. Ci sono dunque due passaggi: il primo è quello della passione indistinta dell‟animo “perturbato e commosso”, come direbbe Vico; il secondo passaggio riguarda la definizione linguistica del sentimento in termini razionali. Nel primo livello di coscienza, la verità sussiste nell‟animo umano, anche se non razionalmente definita e quindi depurata di ogni motivo irrazionale, come invece lo sarà nel secondo livello di coscienza, quello propriamente logico-filosofico. Possiamo affermare che il primo livello di coscienza sia di ignoranza del Bene in quanto privo di una sua logica definizione? In altri termini, la conoscenza del Bene è solo di natura razionale, cioè relativa alla capacità di definirla in termini logici? Ora, la questione non è peregrina, in quanto la retorica e la mitologia si muovono appunto nel primo livello di coscienza, non-logico, per cui a seconda della risposta, si concepisce il Mito, e il linguaggio indeterminato che a esso si rapporta, come conoscenza involontaria e possibile, ovvero come ignoranza necessariamente erronea della realtà. La risposta di Platone, apparentemente protende alla prima delle due ipotesi, ossia all‟identità di ignoranza ed errore, ma in realtà, proprio la sua teoria della tecnica come arte succedanea alla conoscenza della verità, pone la stessa arte dialettica come tecnica relativa alla previa conoscenza del vero. Il quale vero, pertanto, si produce linguisticamente attraverso il discorso dialettico, ma pre-esiste alla comunicazione razionale come conoscenza confusa e indistinta, ossia come condizione di possibilità. Il vero 262
“L‟ignoranza non ha norme: il discorso è libero di strutturarsi secondo i canoni delle molteplici scuole e prezzo della sua libertà è la sua insignificanza per la scienza”: A. Cavarero, Dialettica e politica in Platone, Padova, 1976, pag. 13.
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possibile è quello non ancora tradotto in termini razionali, ma preesistente alla forma razionale appunto come espressione retorica del linguaggio proprio della rappresentazione mitica. 15. Posto, dunque, che il discorso è sempre inerente a un suo oggetto, ossia è “discorso di qualche cosa”, solo quando questo qualcosa sia definito razionalmente, il discorso diventa logico. Ma da qui a ritenere che soltanto il discorso logico, in quanto significativo di ciò-che-è, sia linguaggio di conoscenza, il passaggio non è di natura logica, ma è l‟oggetto di una credenza fideistica, che consiste nel ritenere che l‟Essere sia soltanto ciò-che-è logicamente conosciuto, ossia l‟ente di ragione. Questa credenza è propria della fede filosofica, che, in quanto fede, non è un prodotto della tecnica dialettica, ma un presupposto: il presupposto della sua universale validità teoretica come strumento di esclusiva conoscenza della realtà. Ogni tecnica è l‟applicazione metodica di un sapere, cioè di una conoscenza razionale per causas (), che la precede assegnandole validità metodica. Questa conoscenza razionale () che precede la tecnica è la forma () relativa all‟opera intrapresa, tale che ne esprima il significato universale, che è fornito dal sapere scientifico (). Ogni sapere tecnico è relativo dunque al proprio ambito di competenze (), entro il quale ha un significato universale. Da qui i vari campi scientifici e le relative applicazioni tecniche di quei saperi regionali uniti dalla metafisica. Il sapere di cui si avvale la specifica tecnica è quello proprio della conoscenza razionale, oggetto della filosofia, la quale pertanto costituisce il metodo scientifico di validità universale delle diverse tecniche particolari, tra cui la , la dialettica, che è lo strumento del filosofare. Essendo la scienza un suo prodotto, qual è il sapere relativo alla tecnica dialettica, il suo sapere presupposto? Se non è il sapere scientifico, cioè un sapere razionalmente fondato, esso è un sapere fondamentale ma non di tipo logico-razionale, e pertanto è di natura mitica. Poiché l‟universalità del pensiero scientifico non è una universalità astratta, priva di contenuto, ma sempre conoscenza di qualcosa, che è l‟oggetto della sua idealità, è l‟oggetto della conoscenza a qualificarla come sapere razionale alla sua funzione pratica. Ma qual è, dunque, la funzione pratica del sapere filosofico che si presuppone a ogni tecnica se non quella di indirizzarla secondo la sua particolare funzione? Ossia di 189
determinarla relativamente al suo scopo applicativo? E poiché determinare conoscitivamente una tecnica significa distinguerla da ogni altra secondo i suoi principi funzionali, ecco che il sapere scientifico si articola nella conoscenza della realtà in relazione alla sua possibilità di tradursi in forma tecnica, cioè in sapere pratico. Lo stesso vale della logica in relazione alla tecnica dialettica, la quale si predispone per svolgere una funzione pratica di derivare logicamente il senso razionale delle cose oggetto di conoscenza scientifica funzionale al suo uso tecnico. La dialettica, come tecnica di produzione del sapere scientifico, precede ogni sapere regionale, tecnicamente a sua volta impiegabile, ma come tecnica, deve essere preceduta a sua volta da un sapere che ne fonda la sua relativa validità. Un sapere originario, che non è semplice causa razionale di azioni (), ma fondamento () prerazionale di ogni conoscere razionale, che necessariamente deve includerlo come possibile, ossia mitico. Il metodo dialettico, quale , presuppone dunque un fondamento di conoscenza che, in quanto non definito in termini razionali, è fideistico, e quindi di origine mitica, e come tale, rappresentabile retoricamente, esattamente come Platone rappresenta la verità nei suoi dialoghi allorquando si serve del linguaggio del Mito. La differenza tra il retore e il filosofo passa attraverso la consapevolezza, che manca al retore e che caratterizza invece la ricerca filosofica, della possibilità che la verità abiti il Mito; possibilità che viene negata dal sofista, il quale si ferma al primo livello di coscienza, dove la verità è indistintamente commista all‟errore, facendo leva sull‟esistenza di questo per dichiarare inesistente quella. Speculare è la credenza del filosofo, il quale per l‟appunto, essendo in grado di riconoscere la verità, non si lascia fuorviare dalla compresenza dell‟errore, ma con metodo li distingue per affermare l‟una e negare l‟altro. Ma proprio in questa consiste l‟attività del dialettico, il quale dunque opera sul linguaggio informale e retorico allo stesso modo del filosofo che rielabora razionalmente il Mito Ma se l‟orizzonte mitico, che è l‟ del processo tecnico dialettico, e quindi del filosofare, deve necessariamente includerlo come antecedente di ogni formalizzazione razionale dell‟Essere, il suo linguaggio, il linguaggio mitico, deve necessariamente trascendere ogni definizione ideale, costituendosi, rispetto al linguaggio formalizzato dalla logica dialettica, suo oggetto e contenuto, come il suo informale contenitore, tale che sia il Mythos a contenere il Logos, e dunque la retorica a contenere la 190
dialettica. L‟esigenza di criticare la retorica nasce dalla necessità, avvertita da Platone soprattutto dopo la morte di Socrate, di omologare anche la politica alle altre tecniche supportate dai loro rispettivi saperi. Infatti la politica era rimasta esposta all‟opinione di improvvisati consiglieri e di fraudolenti demagoghi, del tutto ignari delle cose di Stato, di cui pure parlavano, i quali, a fronte della dotta ignoranza di Socrate osavano sentenziare alla maniera dei Sofisti. Per superare l‟opinabilità delle posizioni particolari, dettate dal caso, dall‟ignoranza o dall‟interesse degli avventizi, Platone intende risalire a qualcosa di incontrovertibile che stabilisca la misura di ciò che è, ossia della verità. e proprio l‟esigenza di superare la molteplicità delle opinioni su ciò che è, che Platone intende andare oltre ogni contraddittoria espressione soggettiva, legata al gusto contingente, per assurgere una definizione logica universale, esaustiva e inconfutabile, ottenendo così due livelli di giudizio razionale: il primo, inerente al valore contestuale, che discrimini tra concreti enti fenomenici stabilendo quale sia conforme al valore; l‟altro livello interessa invece il valore in sé, a prescindere dalle sue concrete determinazioni empiriche. Il primo dei due livelli indica una grandezza relativa, il secondo una assoluta. La differenza tra i due livelli è essenziale. Infatti, nel primo caso è possibile ipotizzare un confronto tra opinioni diverse, tale che la decisione possa essere controversa. Nel secondo caso, invece, ogni determinazione concreta del valore non può minimamente compararsi con il modello assoluto, rispetto al quale ogni ente finito è imperfetto. Se, nel primo caso, la rappresentazione confusa o insufficientemente determinata del valore ne consente la credenza volgare, nell‟altro caso la definizione logica del valore, non potendo dare adito a ulteriori contese dopo quelle dialettiche, comporta una sua evidenza oggettiva, la quale si afferma, o deve affermarsi se stoltamente negata, su ogni possibile opinione diversa, rispetto alla quale essa prevale, a prescindere dalla soggettiva o comune persuasione. Nel primo caso, il livello di coscienza razionale si stabilisce su un piano di contesa paragonabile a quello della dinamica politica, che lascia un certo margine di aleatorietà negli esiti e una certa tolleranza d‟opinione legata alla stessa indeterminazione contingente dei limiti definitori della stessa contesa. Nel secondo caso, invece, il piano di coscienza non lascia alcun margine di valutazione soggettiva, per cui i termini di intervento della volontà umana sulla decisione conforme a ragione sono legati alla necessità stabilita dal Lògos, sicché la decisione 191
di Governo non può che essere imperativa e non negoziabile. Il primo livello di coscienza, che chiamiamo politico, è quello che presiede l‟ordine labile dei regimi assembleari stabiliti dalla democrazia ateniese, in cui a prevalere è l‟opinione più condivisa, ossia più persuasiva, e non quella dettata dalla sapienza nelle questioni di Stato, e cioè dalla tecnica politica. in questo livello predomina la approssimazione retorica delle dottrine demagogiche e incantatorie dei Sofisti prezzolati, maestri delle pratiche eristiche ma privi del tutto di vera scienza. Essi si rifugiano nei luoghi comuni dell‟opinione dominante per sfuggire alle insidie della ragione universale, riparandosi dietro lo schermo delle credenze volgari, che attutiscono le contraddizioni sviando dalle decisioni impopolari. La retorica, infatti, sposta i termini dell‟indeterminatezza concettuale da un aspetto ad altro della stessa questione, evitando così di definirla e conseguentemente di sottrarsi alla univoca decisione razionale che li priverebbe della possibilità di piegare nei loro la opinione più comoda al miglior esito, a essi più conveniente. Contro tale pratica empirica, Platone oppone la determinazione logica della definizione, che affermando l‟Essere nega nel contempo il suo opposto non-essere, restringendo progressivamente il campo del linguaggio indeterminato fino alla confutazione () di ogni errore. A questo livello di coscienza, le soluzioni logiche della dialettica perdono il loro carattere retorico e interessatamente polemico, per definirsi entro un ambito di legalità etica che non ammette alcun silenzio aporetico, ma che viceversa esalta, attraverso l‟evidenza delle contraddizioni logiche del discorso, “lo spazio entro cui i due interlocutori si rendono disponibili alla ricerca del vero”.263 Lo spazio del Lògos differisce da quello del generico linguaggio comune dominato dalla doxa in relazione alla dimensione di coscienza critica che manca nell‟orizzonte retorico e che invece costituisce per Platone l‟essenza della vera umanità, informata a una vita di ricerca 263
A.. Cavarero, Dialettica e politica in Platone, cit., pag. 28. “L‟aporia, il momento di smarrimento in cui il discorso è senza strada, è il luogo in cui l‟interlocutore si meraviglia dell‟insostenibilità delle sue opinioni, ossia della inintelligibilità di quelle affermazioni che egli reputava come certe, razionalmente fondate ed inattaccabili. Mentre nella Sofistica la persuasione si opera sul contenuto che si vuol trasmettere, attraverso un discorso che costringe esternamente l‟adesione dell‟altro, nella confutazione invece è l‟evidenziarsi dell‟aporia, interna al discorso del‟interlocutore, che genera la persuasione ad abbandonare contenuti acritici e a ricercare insieme”: Ivi, pag. 29. Per le aporie del sofista, ved. P. Natorp op. Cit. Pagg. 346-359.
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().264 Lo sforzo filosofico di Platone, al di là dell‟esito teoretico, e che costituisce il suo più autentico e non esplicitamente confessato testamento spirituale, è quello di emancipare l‟uomo razionale da ogni gabbia antropologica naturalistica, ovvero dal fardello biologico di una configurata intorno alla transeunte condizione esistenziale dominata dalla corporeità e quindi dal , che era la posta in gioco di ogni umano . Per vincere la morte, non bastava superare l‟avversità politica o economica in vista di un effimero benessere pratico, ma necessitava una superiore consapevolezza della vita spirituale che destinasse l‟uomo a un fine trascendente né effimero, in quanto eterno, e neppure opinabile, in quanto vero. Di fronte a questo obiettivo, la filosofia veniva investita da Platone di una missione escatologica che trasvalutava la stessa esistenza sociale, e con essa lo scopo eudemonistico di Socrate teso a individuare il Bene etico. La svolta epistemologica promossa dall‟idealismo platonico consisteva insomma in una grandiosa distrazione teoretica dal paradigma naturalistico della tradizione culturale greca a un nuovo approccio metodologico, fondativo di una inedita antropologia umanistica, incentrata sull‟esperienza ritenuta unica e insuperabile dell‟uomo , paradigma arcaico del post-moderno oltre-uomo nietzscheiano.265 L‟esito nichilistico del era inscritto nella tensione umanistica dell‟idealismo platonico, il quale, rielaborando il Mito in senso razionalistico, privava la conoscenza di quella prospettiva immaginativa che consentiva di completare antropologicamente l‟homo sapiens in senso sia vitale che teoretico, consistendo nella ragione stessa, la quale costitutiva sia lo strumento
264
Apologia di Socrate, 38 a. Colui che più si avvicina all‟immagine del filosofo platonico nei tempi recenti è senza dubbio Heidegger, rispetto al cui pensiero Nietzsche è stato ciò che Socrate era stato per Platone. Ma ogni vero filosofo tenta, secondo propria scienza ed esperienza, di rinnovare la missione platonica di riscrivere l‟esperienza umana nei termini di una storia soteriologica. E, come quella platonica, ogni altra filosofia, pur grande, finisce per esaurirsi in questo inane tentativo teoretico e morale, in quanto la determinazione razionalistica di costituirvelo indipendentemente dai suoi originari fondamenti ontologici di natura mitica e pre-filosofica sono destinati a fallire, rivelandone l‟ispirazione a sua volta mitica e irrazionale, e quindi confutabile da un‟altra posizione critica, senza mai giungere a superare il pre-giudizio logicistico in cui si muove nichilisticamente la ricerca razionalistica. 265
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cognitivo primario che “l‟organo sociale elementare” dell‟uomo. 266 Esattamente la dimensione mitica consentiva all‟uomo di mantenere il suo duplice movente razionale entro un orizzonte di valori nel contempo epistemici ed etici. Ritagliare all‟intero dell‟orizzonte mitico un livello di coscienza emancipato dai suoi fondamenti ontologici, privava la ragione umana sia del sostegno delle credenze fideistiche originarie, che presiedevano quali pre-giudizi dogmatici ogni tipo di ermeneutica razionale, che della sua funzione politica di conservazione ideologica dell‟ordine sociale, votando la filosofia a un esito inevitabilmente antidogmatico e rivoluzionario, e quindi intrinsecamente anti-storico, essendo il racconto mitico la rappresentazione razionalizzata dell‟eterna esistenza umana. Soltanto se si è chiarito il rapporto dialettico tra Mito e filosofia platonica è possibile intendere la grande novità rappresentata dal Cristianesimo, il quale, portando a compimento teorico l‟idealismo platonico, stabilisce un rapporto organico dell‟uomo spirituale con le fonti della verità eterna all‟interno di un orizzonte mito-logico in cui la nei fondamenti teologici e il delle facoltà umane si armonizzano in vista di un esito escatologico che Platone concepiva in senso meta-fisico e che per il Cristianesimo diventa anche meta-storico, confermando però che la dimensione storica fosse l‟orizzonte universale di senso spirituale in cui il naturale e il razionale dell‟uomo si incontrassero dinamicamente. E Storia in senso cristo-logico è appunto racconto ()dell‟evento paradigmatico dell‟esistenza dell‟Uomo in cui è narrata alla stregua di un Mito sacro l‟intera possibile vicenda umana di ogni tempo. Solo entro l‟orizzonte della Storia sacra si perviene a) all‟universalità, come compiuta storicità b) alla razionalità ontologicamente fondata, c) alla socialità spirituale della , superatrice della antica condizione politica e d) alla contemplazione dell‟Essere vero ed eterno, e insieme di ogni processo mondano, invano cercate dalla filosofia. L‟uomo socratico, ancora totus politicus, viene definitivamente superato dall‟homo spiritualis, che vincendo nella libertà della fede la finitezza della Morte supera anche la necessità () propria della dimensione bio-politica della , in cui si dibatteva il fisicalismo razionalistico pagano dello sia nella versione idealistica greca che in 266
A. Gehlen Der mensch, seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940, 19504), tr. it. A cura di V. Rasini, Milano-Udine, 2010, pagg. 381 e 383.
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quella giuridica romana, entrambe riproposte in forma aggiornata nelle ideologie della cittadinanza dagli indirizzi della cultura post-cristiana moderna, la quale riportando il senso della esperienza umana alla dimensione bio-politica da cui lo spiritualismo cristiano l‟aveva emancipata, di conseguenza ha declassato anche l‟orizzonte linguistico, da luogo della libera rivelazione di Dio, al livello di “un complemento naturale dell‟organizzazione umana”. 267 Le conseguenze del ritorno moderno al fisicalismo antico, di cui è responsabile per le sue deviazioni morali anzitutto la Chiesa cattolica, sono a) l‟esaltazione della dimensione polemica della vita sociale, cioè della politicizzazione della vita universale, e b) la predominanza della negazione sofistica della verità, cioè del relativismo delle opinioni, le quali, ponendo l‟uomo a misura di tutte le cose, ne consegnano i destini esistenziali a una lotta per il Potere infinta ma non definitiva, che già Socrate aveva presagito all‟atto della sua condanna a morte. Infatti, privando la polemica politica di ogni mediazione di giudizio universale su cui commisurare la relatività delle opinioni particolari, privavano alla lotta tra gli uomini ogni possibilità di redenzione razionale, ossia di duratura e condivisa pace sociale, lasciando alla demagogia retorica e alla forza maggiore la soluzione dell‟impossibile universalizzazione dell‟opinabile.268 Ma lo scopo precipuo della filosofia, di declinare in senso dialettico la contesa politica, è comunque destinata a mancare, poiché l‟atteggiamento critico del lògos confutativo di ogni opinione assolutizzata non perviene di per sé a un esito positivo, ossia a una soluzione dottrinale, “intesa come una somma di risposte definitive ed esaustive del problema dell‟esperienza”,
267
H.J. Chavéè, Les langue set les races, Paris 1962, pag. 7. “Se infatti ogni opinione è ugualmente valida, si deve affermare che nessuno sbaglia; ma chi afferma che erra chi dice che nessuno sbaglia, o non sbaglia, per ciò stesso ha dimostrato l‟insostenibilità di tale tesi. […] D‟altra parte, il sostenere che tutte le opinioni sono ugualmente vere può apparire come una „apertura democratica‟ che rende possibile ad ognuno di avere „le sue idee‟. Senonché qualora si tratti di trasformare tali idee in ideologia dominante, la negazione della possibilità di un principio scientifico che le garantisca, consente di individuare nella forza il solo mezzo necessario per la loro imposizione. Naturalmente a tal fine sono utilissimi o addirittura determinanti quei discorsi persuasivi che si accompagnano a credenza che, appunto per questo, lungi dall‟essere preoccupati della verità, diventano puri strumenti psicagogici nelle mani del più forte”: A. Cavarero, Dialettica e politica in Platone, cit., pagg. 35 e 36. 268
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ma piuttosto a una sua cronica “inconclusività” eristica.269 Ma è la stessa problematicità come orizzonte, se non della filosofia quantomeno del filosofare, a porre un‟istanza assertoria ineludibile in ogni dialogo, la quale, per quanto precaria e aperta a ulteriori confutazioni dialettiche, costituisce il momento di equilibrio tra la negazione e la stessa coincidente confutazione. In questo intermezzo fideistico si pone l‟intera vicenda esistenziale dell‟uomo comune, non votato alla ricerca, ossia del principio di socialità condiviso dall‟opinione pubblica che sorregge la convivenza civile. Confutare questo luogo comune (), oggetto retorico degli opinionisti () e dei demagoghi, non equivale in sé a riformare i fondamenti ideali della socialità, anche se ne costituisce il presupposto negativo. Occorre all‟uopo affermare un nuovo modello universale () che sia fondamento teorico del comportamento virtuoso (). E poiché tale modello sarebbe espresso in parole, la ricerca verte sulla sua definizione migliore, la quale comunque sarebbe oggetto di ulteriore perfezionamento logico e verbale. Nelle more di una più sagace e perfetta definizione, l‟affermazione temporanea costituirebbe una asserzione difettosa, assunta per fede come la migliore possibile. In ogni caso, la sua costituzione logica funge da costituzione ontologica, per cui l‟Essere-che-è () definito provvisoriamente e imperfettamente nel concetto ricavato dal processo dialettico () rappresenta l‟Essere ideale in sé (), ovvero l‟essenza () delle cose. Ciò vuol dire che ogni asserzione concettuale, in quanto temporanea, è anch‟essa una opinione () 269
Ivi, pag. 37. “Infatti la confutazione non propone dottrine, poiché non esiste un bagaglio di nozioni che vengano dopo la confutazione, in quanto la confutazione è la filosofia in atto. Ed è filosofia radicata nel concreto temporale, poiché diventa discorso intorno ad un problema concreto: la definizione dei valori che guidano l‟azione; l‟azione umana, certo, ma essa non si rivolge all‟uomo in generale o all‟uomo per eccellenza, ma a Carmide, a Liside e a Lachete. E pur calandosi nell‟empirico determinato, facendo la domanda ora e a quest’uomo qui, mostra che la definizione richiesta, a cui interlocutore necessariamente risponde con una opinione tratta dall‟orizzonte empirico in cui si trova e da cui è condizionato, non coincide con un momento dell‟empirico, e mostra anche che ogni momento dell‟empirico la richiede. Dalla domanda alla risposta, che non può essere rifiutata in quanto si decide delle scelte e dei criteri che realizzano la vita umana, e poi ancora dalla risposta, verificata come insufficiente, alla domanda originaria, si compie e procede in circolo la ricerca del filosofo. Non questo un circolo vizioso, ma è il costante recupero in atto dell‟esperienza come problema e dell‟uomo che, come esistente nell‟esperienza, è il luogo di questo problema”: Ivi, pag. 38.
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fondata su un atto di fede nella sua veridicità (provvisoria), ossia una ipotesi a sua volta controvertibile. Questo carattere di confutabilità delle asserzioni suppostamente veritative fa della logica dialettica una metodica confutativa, ossia una critica negativa della credenza oggetto di analisi filosofica, ma anche di ogni sua conclusione positiva una nuova affermazione di fede ontologica. In questo senso, se “la filosofia sottopone ad esame la pretesa certezza dell‟opinione e rivela come anche questa debba chiedere ragione delle cose che dice”, non di meno le conclusioni logiche cui giunge il ragionamento dialettico sono provvisorie e in qualche misura aporetiche, per cui “il , lungi così dall‟essere la risoluzione del problema, è esso stesso problema, lungi dall‟essere ciò che è dato, è ciò che sempre è ricercato”.270 La condizione di provvisorietà e opinabilità di ogni asserzione, retorica o concettuale che sia, nasce dalla natura ontologica del suo oggetto, che, in quanto ente, anche se di pensiero e dunque de-finito, è comunque finito, essendo la definizione la rappresentazione logica di ciò-che-è, ossia appunto dell‟ente, di cui l‟ è la sua proiezione ontologica. si comprende pertanto come l‟universalizzazione in senso razionale dell‟ente finito equivalga alla sua rappresentazione ontologica, la quale, essendo la definizione logica della sua essenza razionale, è a sua volta una trasformazione idealistica dell‟ente finito in in-finito. E proprio nella credenza della veridicità di questa mutazione della forma finita in forma infinita consiste l‟elemento fideistico di ogni asserzione verbale, mitica o logica, retorica o dialettica, essendo il linguaggio stesso, quale strumento de-finitorio, il luogo della finitezza. Se ciò è vero, la stessa è di conseguenza la modalità razionale di riduzione formale dell‟Essere, dal suo stato di possibilità alla sua de-finizione esclusivamente logica, ossia al suo stato di necessità. La filosofia, dunque, anziché liberare l‟Essere alla sua possibilità ontologica, lo costringe razionalmente a de-finirsi entro l‟orizzonte della sua necessità logica, e perciò a ridursi a forma di esclusiva di ogni altra possibilità, custodita invece dal racconto mitico e dal suo linguaggio informale e fantastico. Da ciò si evince che il racconto proprio del è la rappresentazione dell‟Essere intero, a sua volta creduto il Tutto. Ed è su tale credenza nel relativo assolutizzato che agisce la legittima confutazione razionale del , il cui esito, a sua volta, è oggetto di ri270
A. Cavarero, Dialettica e politica in Platone, cit., pag. 45.
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elaborazione logica, all‟infinito, dando dell‟Essere una rappresentazione in divenire, che è propria della creazione immaginativa del linguaggio mitico. L‟interezza dell‟Essere, dunque, appartiene alla rappresentazione del Mito, essendo solo il maggiore riducibile in minore. La riduzione logica all‟unità di ragione, cioè all‟unicità del nomen ideale, consiste dunque in una reductio ad minimum dell‟Essere intero, Pan, positivo e negativo, vero e falso, evidente per tutti, al suo non-manifesto, e considerato vero, ossia creduto unicamente reale. In quanto oggetto di credenza, l‟ è in realtà un , ossia, appunto, una immagine nominalistica dell‟Essere.che-è, creduta l‟Essere. La credenza che l‟Essere attuale (che-è, l‟ente ideale) sia tutto l‟Essere costituisce la fede propria dell‟idealismo razionalistico. L‟idealismo, pertanto, contestando nel Cratilo l‟identità del nomen communis con la realtà della cosa indicata,271 stabilisce una differenza logica tra la convenzione nominalistica e la realtà ontologica di ciò che è nominato, ma ricade nel pregiudizio convenzionalistico allorquando stabilisce “per legge” che la suddetta realtà ontologica dell‟Essere sia la sua essenza ideale (), cioè la sua unità razionale o Idea, che è la sua parte intelligibile, oggetto della conoscenza dianoetica. La ragione dunque non conosce l‟empirico ente, a l‟idea dell‟ente, l‟ente universale. Ma poiché l‟universalità è la riduzione dell‟Essere alla sua immagine razionale, la conoscenza razionale della realtà non è che la conoscenza che la stessa ragione afferma come suo oggetto, ossia se stessa. E proprio in tale “sublime tautologia” consiste l‟intero processo dialettico del filosofare, in cui si deduce alla fine del percorso dialogico solo ciò che vi si pone implicitamente all’inizio del processo logico, ovvero la credenza che l‟Essere sia l‟Idea. In questa coincidenza identitaria consiste la stabilità dell‟Essere che è sempre se stesso e non diviene. L‟Essere, però, che è oggetto di pensiero, il logico, in cui il vero è astratto dal non-vero, e non già l‟Intero, in cui vero e non-vero sono entrambi concreti. Ora, se l‟opinione assolutizza uno dei due momenti del concreto, prendendo a modello l‟ente empirico mutevole, astratto dalla sua eterna essenza razionale, anche il concetto assolutizza a sua volta l‟ente ideale astraendolo dalla sua transeunte fenomenicità. Ma nell‟atto di affermare la realtà di ciò-che-è il giudizio logico in realtà, confutando l‟apparenza, nega dell‟Essere concreto il suo apparente divenire, la sua fenomenicità, 271
Cratilo, 435 e.
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facendo del positivo reale il negativo logico, per cui asserendo che il vero essere reale è solo ciò-che-è razionale, nega al falso essere la sua realtà apparente, confutandola come non-essere. Questa contraddizione è rappresentata dal dialogo dialettico, in cui l‟asserzione falsa della realtà apparente, viene confutata dalla vera, non apparente. L‟aspetto paradossale del discorso filosofico è appunto il rovesciamento dei termini della realtà, privilegiando l‟essere logico all‟essere apparente, facendo del primo, non apparente, il positivo e dell‟altro, apparente, il negativo. Questa posizione di rovesciamento onto-logico della realtà ispira l‟istanza deontologica che abbiamo chiamato di distrazione teoretica dai fondamenti naturalistici tradizionali, provocando di per sé l‟essenziale motivo rivoluzionario latente in ogni razionalismo, per cui “le cose (siano queste oggetti o azioni) che appartengono all‟esperienza immediata patiscono di irrelazione, indeterminazione e quindi di insignificanza, qualora non siano viste alla luce dell‟idea, la quale si pone necessariamente come ciò che è altro dall‟immediato”. Ma l‟alterità del vero rispetto al falso essere implica il loro rapporto relativo e dialettico, per cui non vi è realtà conoscibile che non sia determinata, per negazione, da quella empirica. In tal senso “la filosofia di Platone si può definire un costante sforzo progressivo per chiarire il senso di questa alterità e di questo rapporto”.272 Ma che la realtà non-apparente, in quanto idealmente “unitaria” () sia anche “permanente” (), è una petizione di principio, ovvero una credenza, poiché in realtà la stessa relazione distintiva implica una impossibilità di confusione identitaria, ossia una costitutiva separatezza ontologica, logicamente non superabile, tale che ogni tentativo di correlazione identitaria venga teoreticamente frustrato, provocando quella instabilità e indeterminatezza della conoscenza che è quella stessa caratteristica della asserzione fideistica del giudizio logico, che induce Platone a concepire una realtà che è in sé e per sé
272
A. Cavarero, Dialettica e politica in Platone, cit., pagg. 61 e 62. Nondimeno, la determinazione del vero rispetto al falso essere avviene nell‟ concreto, che è l‟Essere intiero, e ciò non può non avvenire che attraverso la distinzione ( ) tra l‟elemento apparente in divenire e l‟ astratta dal suo divenire, sicché non è condivisibile il giudizio del‟A. allorquando afferma che “l‟idea […] non è il risultato di un‟astrazione”: Ivi, pag. 63. Tant‟è che Platone finisce per indicare nella Repubblica l‟Idea come .
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(‟‟)273 che, del tutto astratta dal divenire e da ogni contaminazione empirica, è la sola vera e immobile e quindi l‟unica veramente conoscibile.274 Il progressivo allontanamento dell‟uomo, come filosofo, prima dalla comunità sociale per ritirarsi nell‟interiorità della coscienza noetica, quindi dalla sua esperienza esistenziale per rifugiarsi nella conoscenza ideale, si determina come una parallela perdita di concretezza, alla quale si intende supplire con l‟universalità di un supposto Bene che, socraticamente, si ritiene essere “il fine comune a cui tutti i bisogni particolari sono riconducibili, e come tale è l‟oggetto del bisogno fondamentale dell‟uomo e quindi principio sul quale la società dovrebbe essere fondata”.275 Ora, questa posizione di principio, secondo la quale appunto il Bene dell‟uomo “intero” coinciderebbe con (la concezione de) l‟Idea del Bene, ossia con la coscienza del suo Essere concettuale, costituisce una asserzione di fede che non può essere dimostrata né confutata, e quindi è una credenza pre-giudiziale che fonda la verità dell‟Essere razionale, ossia la stessa autenticità della sua conoscibilità. Ma quand‟anche fosse empiricamente evidente la sua verità in conformità all‟esperienza comune, ciò non sarebbe, come la fede di Eutifrone, razionalmente probante, e quindi “del tutto al di fuori del terreno filosofico”.276 La caratteristica generica del Bene, per cui tutti gli uomini lo ricercano, sarebbe la inconfutabilità della sua Idea, per la ragione che “chiunque agisce fa quello che fa in vista del Bene”,277 che pertanto è il di ogni azione umana dotata di senso. La universalità di tale tendenza umana è dunque nella ragionevolezza del fine indicato come Bene, inteso quale movente razionale di un comportamento umano sensato. Ma il fine razionale non è altro che l’unità di senso delle singole e molteplici azioni, 273
Simposio, 211 a-b. In realtà, questa possibilità deriva soltanto dalla ipostatizzazione del negativo reale in positivo logico, costituendolo come l‟astratto universale, per cui dissentiamo del tutto dalle conclusioni di chi afferma che “l‟idea è ciò che fa essere la cosa quella che è, è ciò che fa sì che della cosa ci sia nome e discorso e conoscenza, ed è quindi ciò che, determinando la possibilità della cosa di diventare oggetto di e nell‟esperienza, si pone come il concreto per eccellenza, essendo ciò per cui le cose sono e si può dire che siano”: A. Cavarero, Dialettica e politica in Platone, cit., pag. 67. 275 A. Cavarero, Dialettica e politica in Platone, cit., pag. 69. 276 A. Cavarero, Dialettica e politica in Platone, cit., pag. 70. 277 Gorgia, 468 b. 274
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al di là della loro qualità e intrinseca ragionevolezza, per cui l‟aspetto benigno è costituito dal programma d’azione che razionalmente le sostiene e le motiva. Programma che, essendo all‟inizio e al compimento dell‟azione, nella sua interezza razionale di proiezione immaginativa è idealmente esterno ad essa, anche se immanente. Questa duplice posizione logica del Bene è propria della sua Idea, la quale sussiste indipendentemente dalla sua effettualità, ossia anche solo in relazione alla sua astratta possibilità, la quale appunto all‟inizio non-è ciò che è alla fine dell‟azione, ma che non pertanto può dirsi non la costituisca in entrambi i momenti. Questo significa che il Bene, quando effettualmente “è” determinato come qualcosa di esistente, esso è fuori della sua possibilità, ossia non-è possibile ma attuale. E in questa attualità il Bene non è più Idea ma ente reale, sicché , come Idea, il Bene è possibile anche quando non è reale, mentre, viceversa, quando è realmente determinato non è più un‟Idea, ma qualcosa che la rappresenta, senza coincidervi. Il duplice aspetto dell‟Idea del Bene, sospesa tra essere e non-essere, fa di essa un‟entità distinta dal Bene determinato, reale; e distinta in virtù della sua interezza rispetto alla sua determinazione reale. Ciò vuol dire che il Bene, come Idea, e quindi in sé, è tutto ciò che può essere, mentre invece il Bene determinato effettualmente è solo ciò-che-è, un ente reale, e come tale soggetto a opinabilità. In altre parole, l‟universalità dell‟Idea del Bene è dovuta alla sua possibilità di essere ciò-che-è e ciò-che-non-è attuale, e quindi di divenire, ossia di contraddirsi. Il carattere contraddittorio dell‟Idea del Bene, che ne costituisce la sua universalità, consiste dunque nella sua indeterminatezza logica, tale che la sua interezza coincida con la sua possibilità di determinazione razionale, ossia di definizione concettuale. Ma noi sappiamo che ciò che è determinabile in senso razionale non è il tutto ma la parte dell‟Essere, quella logica ed esclusiva, contenuta in una più comprensiva unità di senso ideale, che è quella del Mito, che rappresenta dell‟Essere intero ciò che è e ciò che non-è razionale. Allorquando la possibilità insita nell‟Essere intero della rappresentazione mitica, sia ascritta esclusivamente alla sua attualità logica, cioè alla sua determinazione reale, allora l‟Idea viene identificata con l‟ente che la rappresenta, sicché la parte attuale viene creduta come quella unicamente possibile, operando una identificazione fideistica dell‟Essere logico con l‟Essere ontologico, 278
278
A. Cavarero, Dialettica e politica in Platone, cit., pag. 73.
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alla quale, come già ricordato, l‟ambiguità nominale del termine greco di si presta. Il Bene è universale in Idea in quanto indeterminato, e quindi possibile. E sulla sua indeterminata e molteplice possibilità non può insorgere conflitto dialettico, che si determina insieme alla sua de-finizione razionale, in cui consiste la , nei termini delle concrete scelte etiche, ognuna delle quali è un Bene particolare per chi la intraprenda. L‟unità teoretica ed etica del Bene non può essere conseguita se non avendo risolto la questione se la conoscenza filosofica riguardi l‟unità razionale dell‟Idea, ovvero la conoscenza della scienza, oppure la conoscenza delle sue determinazioni reali negli enti molteplici e apparenti. Nel momento in cui l‟idealismo vuole stabilire che la conoscenza dell‟unità razionale del Molteplice costituisce l‟unica scienza possibile della verità universale, ecco che si abbandona la realtà del mondo-della-vita alle sue insanabili contraddizioni e quindi all‟inconoscibilità filosofica, la quale interviene solo a condizione di lasciare impregiudicata la questione dei contenuti reali della tautologica definizione socratica per cui “ciò che giova è ciò che fa del bene”, [Gorgia, 499 d.] che sposta dalla possibilità ideale al risultato attuale l‟elemento discretivo tra Bene e Male, secondo un rapporto causale che costituirà l‟essenza aporetica di ogni razionalismo etico, machiavellismo compreso, costretto a identificare la ragionevolezza dell‟azione buona nella sua praticabilità tecnica. Il senso razionale dell‟azione, infatti, spostato dalla definizione ideale alla molteplice situazione concreta, necessariamente assume un valore paradigmatico solo se astratto da quella situazione, laddove la puntuale determinazione può ispirarivisi solo assumendola come forma regolativa, a sua volta indeterminata e mutevole, ossia come orientamento soggettivo, e come tale vincolato alla libertà del proprio convincimento morale: il contrario dialettico della necessità oggettiva dell‟. La conoscenza del Bene, così, acquista il valore di una credenza nel suo fondamento razionale, quella che è “scelta del bene” secondo le sue contestuali possibilità di realizzazione tecnica. La traduzione della possibilità a ha fatto della conoscenza una scienza delle possibilità, conformando in termini determinativi ciò che ontologicamente è il diverso dalla necessità, la libertà d‟essere di ciò che non-è attualmente definito e determinato, ossia l‟ente, ma è appunto razionale possibilità. La declinazione della razionalità in tecnica, trasforma la possibilità ideale (aspirazione e desiderio) in progetto tecno202
logico, esautorando parallelamente l‟orizzonte del Mito dalla sua originaria rappresentatività affabulatrice dell‟Essere (), e dunque lo stesso dal suo costitutivo processo dialogico scaturito dalla domanda di senso (), ponendo in sua vece una settoriale scienza del Bene orientativa dell‟azione razionale (). La resa razionalistica del alla intesa come scienza pratica o delle cause razionali (), alla tecno-logia, è già inscritta nel retaggio socratico dell‟idealismo platonico, che nasceva proprio per superare le antinomie della sofistica politicante.279 La politica, pertanto, da prassi virtuosa coerente all‟esigenza di bene relativa alla situazione concreta della sua destinazione razionale, diventa nell‟idealismo scienza del bene, ossia conoscenza dei fondamenti dell‟agire razionale come logica dell’azione. E‟ chiaro che determinando in senso logico quel Bene unitario, si fa perdere alla politica quella concretezza propria della sua dimensione empirica, trasferendo la sua connotazione paidetica nel metodo della tecnica dialettica, usa a determinare della complessa e contraddittoria realtà empirica l‟esclusivo aspetto coerentemente razionale, scambiando il tutto con il suo fine logico, facendo della sua universalità una fede deontologica. E così a Socrate fu possibile nell‟Apologia, “affermare che il bene per l‟uomo è proprio la ricerca [dell‟intero], quell‟indagine che [per quanto detto a proposito della sua insuperabile aporeticità] non conosce conclusioni [ossia verità eterne, ma solo negazioni confutatrici di opinioni particolari assolutizzate], ma per cui vale la pena di morire”,280 a preferenza della stabilizzazione politica, moralmente compromissoria. La differenza tra il e il consiste dunque in questa scelta radicale di critica delle posizioni relativistiche degli opinionisti. La questione essenziale è pertanto se sia possibile la ricerca della verità eterna necessaria e incontrovertibile nella condizione dell‟umana finitezza. Che poi è la questione ontologica della possibilità di una 279
“Non si dimentichi infatti che il problema politico, scaturito dall‟esame delle tecniche, approdava al riconoscimento della necessità di una scienza del bene, la cui struttura teoretica non poteva essere ricalcata sul modello delle tecniche, e non si dimentichi inoltre che le definizioni delle virtù politiche hanno rivelato la loro illusorietà nella confutazione e che tuttavia da questa sono state riproposte nella definizione unitaria della virtù come scienza del bene”: A. Cavarero, Dialettica e politica in Platone, cit., pag. 80. 280 A. Cavarero, Op. cit., pag. 83.
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metaphysica generalis che Kant tornò a porsi nella Critica della ragion pura e nei Prolegomeni e alla quale rispose positivamente nella Critica del giudizio in riferimento all‟ambito morale attraverso l‟imperativo categorico. Proprio la dimensione etica, in Socrate come in Kant, rivela un anelito al trascendimento della legalità costituita, e quindi della struttura politica della società, che pur superando la condizione della attuale finitezza, non è un‟evasione metafisica nell‟iperuraneo, ma si colloca in una posizione intermedia, che è quella propria della ragion pratica, inerente la natura finita/infinita degli enti morali. Sul piano della finitezza, in cui si colloca la posizione maieutica di Socrate, ogni definizione che intenda determinarne i suoi contenuti razionali, deve rifarsi a un ideale, a un‟Idea di infinito. Ma in quanto “visione” del , l‟Idea stessa è una forma razionale della finitezza mediante la quale la conoscenza umana perviene all‟Essere, cioè lo intende ontologicamente come in-finito rimanendo all‟interno dell‟esperienza del finito. In questo preciso senso Heidegger affermò che “l‟ontologia è un indice della finitezza”.281 La posizione dell‟uomo che conosce l‟Essere degli enti è la sua condizione esistenziale, la quale, situandosi sul piano della relazionalità sociale, è politica, per cui trascendere la dimensione della legalità degli enti finiti, equivale a superare la dimensione politica. La legalità politica, in nome della quale il Potere ha decretato la morte di Socrate, è dunque trascendibile sul piano della conoscenza. Poiché il piano della conoscenza dell‟Essere, il piano dialettico del , costituisce la via di accesso a quello delle Idee, ecco che la dimensione ideale viene a confondersi nel razionalismo con quella onto-logica, facendo della conoscenza dell‟Essere, ossia della dialettica e più precisamente del suo metodo tecnico, il luogo della verità. Una verità compresa entro l‟orizzonte onto-logico del , si costituisce come verità logica, tale che elegge il linguaggio come , come il luogo dell’Essere. La verità abita presso la parola (), sotto la forma del discorso razionale, la dialettica, la quale distingue dall‟Essere intero, cioè dal linguaggio indeterminato della possibilità (), la parte determinata dalla definizione attuale dell‟ente (), eleggendola a realtà vera, ideale. tale riduzione onto-logica dell‟Essere possibile all‟Essere attuale o ente, 281
M. Heidegger, Davos Disputation zwischen Ernst Cassirer und M. H. (1929), app. a Id., Kant und das Problem der Metaphysik (1929, 19734), tr. it., Roma-Bari, 2000, pag. 224.
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costituisce l‟operazione propria dell‟idealismo platonico e di ogni successivo razionalismo filosofico. Il trascendimento filosofico della finitezza della realtà politica si costituisce dunque come una reductio ad unum della molteplicità indistinta degli enti fenomenici sociali, attraverso una operazione distintiva o diairetica che, escludendo metodicamente il diverso dal simile, fornisce alla politica il metodo razionale del suo fondamento scientifico, cioè la sua . E dunque supera la indefinitezza della molteplicità indistinta degli enti fenomenici senza però trascenderne la finitezza, ossia il piano originario di socialità politica, già dominato dal linguaggio a-tecnico della retorica e dalle opinabili posizioni sofistiche, confutate dalla dialettica, che diventa dunque la tecnica scientifica della politica, non più arte mimetica della gestione della forza, ma appunto scienza del Governo razionale della società.282 A capo del Governo razionale di questa società ideale, Platone pone il filosofo. A questo punto sorge la questione se il ruolo di Governo sia possibile al filosofo in quanto filosofo o in quanto uomo politico. La determinazione sociale del filosofo quale attore politico, infatti, depotenzia l‟attività filosofica della dialettica in senso immanente alla realtà finita degli equilibri politici storici, laddove la potenza trascendente del filosofare consisteva proprio nel superamento dialettico della finitezza determinata dall‟equilibrio politico. in altri termini, il filosofare, come attività poietica della ricerca dialettica, ricercando il senso razionale entro la finitezza indistinta della condizione sociale, determinava di quella realtà l‟elemento universale che la univa idealmente superando le singole determinazioni particolari e finite, nessuna delle quali assumibile come paradigma razionale se non a scapito delle altre omologhe posizioni politiche, ugualmente finite e non assolutizzabili. Nel momento in cui il filosofare come posizione confutativa e negatrice della doxa, assumendo la determinatezza positiva del concetto diventa col filosofo protagonista della realtà politica quale pars inter partes, si trasforma in dottrina ideologica e concezione del mondo, in mito-logia. Ossia si trasforma da tecnica della liberazione dalla legalità politica, a teoria della legalità razionalizzata, forma istituzionale di un sistema politico, cioè, in cui si pianifica in forma razionale la eliminazione, in nome della necessità 282
Il Governo razionale è qui inteso dunque come il livello di trascendimento ideale della mera dimensione politica del Potere, inteso questo come il piano polemico del conflitto sociale tra gli enti (gruppi, classi e partiti) appunto politici.
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sistemica, della possibilità dell‟Essere indeterminato, che sul piano dei rapporti sociali è la libertà degli enti molteplici in conflitto politico. Stabilizzare il sistema significa, platonicamente, sostituire al polemos della vita politica, fondata sull‟equilibrio delle forze sociali, la del Governo razionale, fondato su costanti fondamenti ideali. L‟ordine sociale non è politico, cioè quello precario costituito dalle diverse e configgenti opinioni, bensì il Governo sapiente, costituito sulla sintesi razionale operata su di esse, ossia sulla “conoscenza di ciò che è perfetto” (), ossia l‟Essere ideale, “perfettamente conoscibile” ()283 che “si manifesta come molteplice”.284 Si hanno quindi due momenti della vita politica: quello propriamente politico, costituito dalla lotta delle opinioni concorrenti dei gruppi sociali in conflitto portatori di interessi particolari, nessuno dei quali, al pari delle rispettive opinioni che li legittimano, è razionalmente assolutizzabile e valevole erga omnes, anche se praticamente è quanto avviene nella concreta conduzione della . La filosofia interviene a criticare tale pretesa politica confutandone la giustificazione sofistica. L‟altro momento della vita politica è quello etico del Governo, il quale si avvale dei risultati logici della definizione dialettica del Bene ideale universale, affermandolo socialmente per renderlo bene comune. Governare significa dunque universalizzare in senso politico un concetto ideale, che altrimenti resterebbe consegnato alla sola sfera teoretica e al mondo iperuraneo delle Idee. Ciò comporta la corrispondenza tra la forma ideale del Bene () e la relativa forma politica (), ossia, teoreticamente, la eliminazione tendenziale di ogni forma rappresentativa deviante rispetto a quella orto tecnica. In termini dialettici, questa esclusione dell‟errato non-essere dal vero Essere ideale si realizza come confutazione delle opinioni sofistiche da parte del concetto logico universale. Ma il momento dialettico è quello propriamente confutativo, ossia implicitamente comparativo del falso pensiero dell‟Essere col vero concetto. In realtà il momento confutativo, in quanto ricerca del vero, deve presumerlo non dato a quo ma da conseguire ad quem alla fine del percorso maieutico, e quindi la confutazione coincide con il momento scettico del dia-logo, il quale soltanto alla fine può giungere all‟Idea come concetto logico universale. L‟esito ignoto implica l‟ammissione di sapere di non sapere, e quindi di essere paritariamente parte tra le parti 283 284
Repubblica lib. V, 477 a. Ivi, 476 a.
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dialettiche concorrenti. Anche se parte non asseverativa ma interrogante. La è l‟atteggiamento del filosofo consapevole della sua che si astiene dall‟affermare retoricamente ciò che potrebbe essere ma anche non essere vero e quindi di formulare ipotesi () affermandone la veridicità per sola fede (). Evita cioè la avventatezza della tendendo al puro livello dellaconcettuale, senza però esservi ancora addentrato. E‟ questa la fase della “ironia” socratica, allorquando il consapevole non-sapere gioca con l‟inconsapevole falso-sapere per confutarlo. Il momento confutativo corrisponde a quello politico della concorrenza delle opinioni, il cui polemos consiste nella negazione reciproca, nella lotta tra gli enti molteplici in lizza per l‟affermazione della loro particolarità in senso generale, cioè a scapito di ognuna delle altre. La fallace pretesa sofistica consiste appunto nel tentativo di rappresentare come di valore generale una posizione che invece è particolare. Dimostrarne l‟inconsistenza euristica non significa necessariamente dimostrare la veridicità delle tesi concorrenti, eventualità solo possibile, ma non appunto necessaria. La verità, infatti, può consistere in altra, non manifestata, posizione rispetto a ognuna delle tesi particolari perorate dalle parti concorrenti, ossia in una posizione ideale che le trascenda tutte dimostrandone a paragone la loro relatività. Ma per tale comparazione, è necessario conoscere a priori ciò che è vero, distinguendolo da ciò che vero non-è, e dunque è falso, cioè altro dal vero. La opera appunto questa distinzione logica, sceverando il vero dal falso. Ma questa distinzione è logicamente diversa dalla determinazione di ciò che dell‟Essere permane oltre ogni molteplice evidenza. Una cosa è negare che qualcosa sia vera, altra cosa è affermarla come vera. Ciò che la negazione afferma è la realtà del negativo (falso), non già la realtà del vero. Infatti, la presunzione del vero non necessariamente deve comportare la sua determinazione, la sua affermazione. In questo caso, la presunzione del vero costituisce un atto di fede, che è diversa dalla credenza ipotetica, la quale, diversamente dalla fede, pone l‟esistenza della verità solo come possibile, e non come non dimostrata. La fede è una credenza nella positività di qualcosa non dimostrata razionalmente vera, ossia consiste in una credenza nella realtà del negativo non affermato come positivo. La fede è l‟affermazione che il non attuale sia anch‟esso reale, e dunque sia indeterminato. La possibilità dell‟indeterminazione inerisce la temporalità (aliquando), ma non 207
l‟esistenza ipotetica (an). L‟indeterminato è possibile ma non ipotetico, e cioè smentibile e confutabile. Ed è l‟indeterminato che permane per fede al di là di ogni asserzione contraria diventando pre-giudizio, operante nel dialogo come potere occulto. Il potere del pre-giudizio è una fede più potente del , in quanto opera a prescindere dalla sua dimostrabilità razionale, e quindi fuori dell‟orizzonte del linguaggio razionale e come suo pre-supposto (). La fede è pertanto il vero assoluto, perché per la sua sussistenza non avendo bisogno di alcuna dimostrazione, è irrefutabile. Si può affermare dunque che la è l‟ invano cercata dal in quanto in sé e per sé stante (‟‟), e come tale è eterna. Inoltre essa, pur essendo all‟inizio di ogni dialogo non ne è la causa razionale ( ), è auto-sufficiente, e pertanto infinta, e in quanto infinita è Una. Ed essendo Una, è in tutti e in ognuno degli enti molteplici, ed è ciò che li unisce nella diversità. Ma è esattamente questa unità che il ricerca come Idea nel Molteplice. Solo che tale Idea è a-logica in quanto pre-logica, e non può essere rinvenuta che nel linguaggio simbolico e non determinata concettualmente. In tal senso, infatti, è stato notato che “conoscere l‟idea non significa approdare ad una formula, reificarla, ma significa riconoscere l‟uno dei molti, ossia volgersi alla ricerca della loro ragione; quella ragione che deve necessariamente esserci e che è implicata anche dalla più superficiale risposta di un uomo qualsiasi”. 285 Ma se ciò è vero, bisogna ammettere di conseguenza che tale Idea unitaria non è logica, e pertanto che l‟opinione (), che comprende sia le cose che sono (logiche) che quelle che non-sono (vere), riflettendo la diversa molteplicità dell‟Essere, lo conosce in modo più comprensivo dell‟esclusivo modo razionale, ossia lo intuisce nella forma propria della che è il Mito. E dunque ciò che la filosofia () conosce razionalmente è quanto la dialettica distingue dall‟indistinto (), attraverso il ragionamento critico del () rielaborativo () della rappresentazione () del . Il limite dell‟idealismo, che poi è quello di ogni razionalismo, è di voler trovare alla fine ciò che in realtà è all‟inizio, ossia appunto la fede nella realtà dell‟Essere, che è il fondamento ontologico di ogni sua elaborazione dia-logica. E tale voler trovare alla fine costituisce la stessa fede occulta dell‟idealismo, che sa di non-sapere ma non-sa di sapere per 285
A. Cavarero, Op. cit., pag. 92.
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fede, ossia di intuire, che l‟Essere, prima di poterlo dire, appare. L‟apparenza dell‟Essere è la realtà ontologica di ciò che, nella sua interezza, è indeterminato, ossia logicamente non definito, e quindi infinito. L‟infinità dell‟Essere indeterminato è il suo carattere negativo rispetto alla positività della determinazione razionale, la quale determina l‟Essere escludendo dal suo essere quella negatività infinita che lo costituisce come intero. L‟interezza negativa dell‟Essere è comune a ogni ente fenomenico, essendo la sua apparenza ontica. L‟Essere appare come ente, come ciò-che-è. Ma ciò che dell‟ente appare, è ciò che in ogni ente è, la sua evidenza, la sua visibilità,286 e non la sua determinazione razionale. Sicché dire che un ente “è ciò che è”, ossia che esiste come ente indeterminato e semplicemente apparente, significa indicarlo, ossia nominarlo senza determinarlo, senza cioè distinguerlo da ogni altro ente molteplice, destinandolo a un Essere che definendolo neghi la negatività comune a ogni ente, costituendolo nella sua determinazione razionale e ontologica attualità. Rispetto all‟apparenza fenomenica, la definizione razionale, ricercando la determinazione dell‟ente, lo emancipa dalla sua in-finita possibilità e lo destina alla temporalità, ossia alla finitezza. La temporalità e determinatezza dell‟ente sono i contenuti ontologici della sua finitezza, la quale non può essere trascesa se non nell‟ambito dell‟orizzonte della temporalità, ossia nei termini della processione del suo naturale divenire. Il racconto del divenire temporale degli enti finiti costituisce la loro rappresentazione storica. L‟Essere intero, in-finito e in-determinato, non essendo conosciuto come ente di ragione, essendo nella sua possibilità di essere ciò che è e ciò che non-è, non partecipa della temporalità e dunque non ha storia. Il non-storico è il non-temporale, ossia l‟indeterminata possibilità dell‟Essere in-finito del Negativo. Platone chiamava Idea esattamente questo Negativo, credendolo positivo. Universalizzando nel concetto definitorio il Negativo di ogni ente molteplice, egli chiamava Essere ciò che in realtà era solo l‟ipostasi dell‟ente, ossia la realtà comune a ogni ente molteplice, appunto il loro non-essere determinati. Solo il Negativo, infatti, come abbiamo visto, unisce gli enti molteplici in una ideale unità ontologica. Pertanto Platone, determinando razionalmente l‟Essere, lo liberava del suo Negativo, cioè della sua infinitezza e possibilità, 286
Repubblica, lib. VI, 510 d.
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chiamando Idea ciò che l‟Essere determinato non-è, ossia appunto Essere universale. Positivizzando l‟universale Negativo, l‟idealismo assumeva come veramente reale ciò che non era e dunque non appariva, restando celato all‟evidenza, la Verità (). Questa, non potendo essere determinata razionalmente senza perdere la sua in-finitezza, trascendeva necessariamente ogni destinazione temporale, e con essa ogni definizione verbale, restando perennemente se stessa nella sua infinita possibilità determinativa, tale da implicare a ogni definizione verbale il suo infinito trascendimento temporale, ispirativo di nuova precaria definizione ipotetica (), a sua volta aporetica e destinata a essere trascesa, all‟infinito, in una incessante ricerca impossibile di convertire in Essere il non-Essere, in cui consiste in essenza l‟idealismo quale razionalizzazione universale del cosmo antropizzato. L‟impossibilità della ricerca consiste nel tentativo di individuare un criterio scientificamente unitario quale risposta alla domanda filosofica (), e non potendolo trovare si affida, come abbiamo visto, all‟ipotesi (), il cui asserto postulatorio, assunto come “un principio [suppostamente scientifico] da cui si deduce un sistema”,287 va ancora dimostrato, abdicando momentaneamente così alla criticità del discorso filosofico. Ma la stessa indicazione, nella Repubblica, del “dialettico” come “colui che è capace di visione generale”,288 è indubbiamente ambigua, poiché esattamente tale “visione” se vuole essere “generale”, interessa l‟Essere apparente (), e non può essere quella “universale” auspicata dal come di una totalità determinata, cioè una Idea. Se la verità è possibile solo nella conoscenza di realtà perfette, e cioè determinate, essa va intesa come conoscenza di tale determinazione, la quale, non potendo consistere in una determinazione del tutto, necessariamente si riferisce a una 287
A. Cavarero, Op. cit., pag. 104. “La funzione dell‟ipotesi”, intesa socraticamente come un programma che si proponeva di “accogliere quello ei ragionamenti umani che fosse se non altro il migliore e il meno confutabile” (Fedone, 85 c-d), “è dunque quella di porsi come un postulato per un discorso che non pretende di essere né esaustivo né infallibile, un discorso utile al problema presente ma non risolutivo di esso in senso assoluto. L‟ipotesi così intesa non rifiuta di essere messa ulteriormente in discussione o di essere sostituita con un‟altra migliore, né, e ciò è della massima importanza, ritiene che la sua validità, relativa all‟interno del problema specifico per cui è stata assunta, possa estendersi al di là di esso, possa essere la chiave per ogni problema o per il problema dell‟intero”: Ivi, pag. 113. 288 Repubblica, lib. VII, 537.
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determinazione relativa, e quindi a un‟ipotesi scientifica, che rimandi a quel tutto non determinato né determinabile, oggetto del domandare filosofico.289 Il filosofare come sinossi e conseguente selezione dell‟incongruo a preferenza dell‟essenziale è un procedimento che, nel tentativo di conseguire l‟Idea dell‟intero e di determinarla, in realtà può soltanto confutare la definizione che pretenda di essere esaustiva, passando in rassegna le varie ipotesi possibili. Non conseguendo mai il risultato tendenziale, di trovare e definire l‟ dell‟Essere, può solo tendere a definire l‟Essere come determinazione possibile, ossia come ente attuale, lasciando che l‟orizzonte della Possibilità rimanga intrascendibile. E poiché la Possibilità non è altro che l‟orizzonte in cui si muove la confutazione, rivelando l‟infinta Possibilità dell‟Essere, il filosofare discopre dell‟Essere il suo non-essere attuale, ossia la sua Negazione. Il filosofare, dunque, opera rivelando dell‟Essere possibile la sua attualità, e dell‟ente attuale la sua Possibilità. A seconda che tale Possibilità sia riguardata come rimando ad altre più perfette determinazioni razionali entro la contestuale offerta ipotetica, oppure come traccia teoretica di una insuperabile differenza ontologica tra l‟ente, quale Essere attuale, e l‟Essere nella sua infinita possibilità determinativa, noi delineiamo, rispettivamente, l‟orizzonte epistemologico della “scienza” come conoscenza possibile del finito, ovvero l‟orizzonte dianoetico della metafisica come conoscenza intuitiva del possibile. Il primo orizzonte, quello scientifico, approda a definizioni razionali contenute in concetti determinativi di realtà ipotetiche e perciò confutabili. Il secondo orizzonte, quello metafisico, stabilisce relazioni di significato simbolico tra gli enti reali, razionalmente determinati, e le loro determinazioni possibili, razionalmente non determinate; ossia le 289
In questo senso, è stato detto che il metodo dialettico, “proprio nel confutare l‟asserzione che pretende assolutezza o stabilità, arriva a coinvolgere il problema dell‟intero, e quindi arriva a comprendere le ragioni per cui nessuna asserzione (o ipotesi) può pretendere assolutezza o stabilità. Essa quindi, se da una parte ha il compito di dissolvere la pretesa certezza di ogni ipotesi, d‟altra parte ha nei confronti delle scienze particolari il compito di ricordare l‟intrascendibile carattere ipotetico di quelle ipotesi che siano assunte come principi. Ossia essa permette di distinguere due tipi di sapere: un sapere rigoroso che è appunto la dialettica riferentesi all‟intero, ed un sapere ipotetico che ha una validità relativa ad un campo specifico. Ai due tipi di sapere corrispondono due atteggiamenti teoretici: al primola ricerca infinta (il socratico sapere di non sapere), al secondo la possibilità di un sapere finito in quanto limitato”: A. Cavarero, Op. cit., pag. 121.
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corrispondenze tra eventi fattuali esistenti e avvenimenti possibili inesistenti. La dimensione temporale del primo orizzonte, scientifico, è il tempo meccanico della consecutiva progressione fattuale euristicamente stabilita sulla base analitica di estrinseci nessi causali; mentre la dimensione temporale del secondo orizzonte, metafisico, è stabilita sinteticamente dalla durata dello svolgimento dell‟evento profetizzato sulla base giustificativa dell‟evento dato. In termini teoretici, la determinazione temporale del concetto ideale costituito sulla base della sequenza argomentativa provocata dal procedimento dialettico, inerendo un obiettivo logico ad quem, è senz‟altro del primo tipo, scientifico. Del secondo tipo, invece, è il dialogo tendente a rivelare nell‟ambito delle certezze fattuali, e quindi dell‟esperienza sensibile, un evento metafisico immanente ma non apparente la cui assunzione di senso implicito, se consapevolmente esplicitato, trasferisce il suo valore ideale a quo sugli enti fattuali incogniti, ottenendo la conoscenza razionale. La diversità ontologica delle due forme di sapere riposa non sulla conprensione generalizzante ovvero sulla universalità delle categorie, che è un criterio tutto empirico di stabilire le differenze logiche tra concetti e pseudo-concetti; riposa, invece, sulla determinazione positiva e razionale dei costrutti logici, necessariamente de-finiti e quindi orientati verso la finitezza del mondo storico, ovvero sulla intuizione delle essenze valoriali assolute che fondano ogni possibile statuto epistemologico entro il suo correlativo orizzonte di senso ontologico, e quindi anche antropologico. Il postulato che sostiene il primo tipo di sapere è che “la ragione è la certezza di essere tutta la realtà”, come “in sé” e come qualcosa di “assolutamente universale” (Hegel, Fenomenologia, 177), per cui l‟essenza di ogni ente viene determinata dalla ragione all‟atto del suo giudizio d‟essere ciò che l‟ente è. Questo suo essere, implica non solo l‟esistenza ma anche la sua coscienza, per cui il giudizio logico diventa ontologico e morale, ossia realmente “universale”, e come tale “uno”, “semplice” e “puro”. Il passaggio da questa unità pura e semplice alla molteplicità, Hegel lo lega alla specialità dell‟unica categoria, ossia alla determinazione della realtà affermata e insieme conosciuta come realtà definita. La ragione pertanto opera nella realtà determinando la natura della sua finitezza come realtà molteplice insita nell‟unità semplice originaria. Questa determinazione della ragione coincide con la sua stessa 212
auto-coscienza quale processo fenomenologico del suo determinarsi oggettivamente nell‟altro-da-sé in cui riconosce lo stesso sé. La verità dell‟Essere dunque coincide con la genesi della sua ragion d‟essere ciò che è, ossia Uno e insieme Molteplice. Ma, e questo è il punto derimente, la categoria unica reca in sé la sua contraddizione, il suo Negativo, ossia il Molteplice, per cui il Molteplice è l‟essere-altro dell‟unità quale determinazione dell‟Essere finito, e quindi è insieme momento della sintesi unitaria dell‟ente, ossia di ciò-che-è, ed elemento differente dall‟unità stessa. Ciò vuol dire che il Negativo è sia quando costituisce la sintesi unitaria e sia quando la nega, e pertanto il suo Essere, per quanto negativo, è più comprensivo sia dell‟unità determinabile in molteplicità che della positiva determinazione reale dell‟ente molteplice. Se ciò è vero, allora l‟Essere razionale non può essere tutto l’Essere, ma soltanto l‟Essere determinato dalla ragione, ossia dalla sua ragion d‟essere, e ciò che sopravanza della sua determinazione, il suo non-essere ciò-che-è, costituisce l‟essenza del Negativo, il cui Essere negativo trascende l‟Essere determinativo della ragione, ossia la finita e molteplice esistenza. proprio perciò, la “concretezza” dell‟Essere non può individuarsi, come fa Hegel, nel suo pervenire all‟esistenza come ente, ché anzi costituisce la sua modalità di astrarsi dalla concretezza, ma nel suo fondarsi, come ek-sistentia, sul Negativo che originariamente lo comprende e che si oppone sia logicamente come alterità dialettica da ciò che è, e sia ontologicamente come differenza possibile, e che, in considerazione della propria persistenza in utroque modo, è realmente Uno rispetto alle determinazioni molteplici dell‟Essere, cioè agli enti. Ma questo ribalta la posizione di Hegel, secondo il quale il “carattere dell‟assoluto” sarebbe il suo “manifestarsi”.290 Nel senso che il vero “assoluto” è ciò che non si manifesta nell‟Essere, ma che rimane nascosto e lo trascende, ossia il Negativo, il cui “carattere” è dunque la Possibilità, ossia di non-essere ciò-che-è ma di restare possibile. Questo cambia l‟intera prospettiva essenziale dell‟ontologia razionalistica, a iniziare da quella platonica, che si fondava sulla identità onto-logica dell‟Essere con l‟ente, che per un verso stabiliva nella ragione il luogo di realtà dell‟Essere, facendo della scienza la vera conoscenza, e dall‟altro, affermando che la ricerca del dialettico è infinita, riconosceva alla filosofia la coscienza dell‟impossibilità di definire razionalmente il 290
G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik (1812-1816), tr. it. di A. Moni, Roma-Bari, 1968, vol. II, pagg. 163 sgg.
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Tutto determinandolo come parte specialis (appunto come “scienza”) dell‟unità del suo stesso intero Essere, che nella Repubblica Platone chiama “Idea del Bene” dalla quale “le cose giuste e le altre traggono la loro utilità ed il loro vantaggio”,291 ossia ciò per cui le Idee sono tali, la loro essenza. Intendere il Bene come essenza razionale, significa assegnare la qualità del bene alla determinazione dell‟Essere. Ed è ciò che effettivamente attua il dialettico ogni qualvolta definisce un‟Idea. Il Bene dunque è definire il Tutto come Essere che è, come ente determinato, privandolo della sua originaria indeterminazione e possibilità. Condurre l‟Essere alla sua determinazione razionale definendolo, è Bene. Ma le Idee non sono enti sensibili, esistenti, ma sono “nel discorso” (), e “non possono stare per sé al di fuori della conoscenza”. Quindi sono in-finite rispetto alle singole determinazioni, ma limitate rispetto all‟ambito del discorso razionale, entro il quale esse “sono state riconosciute come necessarie”.292 Basta dunque fuoriuscire da quell‟ambito per cambiarne destinazione. N altri termini, le Idee possono essere travisate o misconosciute se utilizzate entro un linguaggio non razionale, retorico, e cioè in modo sofistico. Ma se l‟uso adeguato delle Idee, e quindi la loro idoneità a determinare razionalmente l‟essere dell‟ente, fa sì che il Molteplice si connetti alla sua unità essenziale, categoriale, è di contro l‟uso improprio delle Idee a darci la dimensione della loro assoluta inadeguatezza rispetto al fondamento della loro veridicità e credibilità, ossia rispetto all‟orizzonte semantico del linguaggio indeterminato e possibile, che è quello della rappresentazione del Mito. E dunque è la finitezza che rende l‟Idea “vera” consentendone la funzione determinativa, creando una sua dipendenza ontologica dal Molteplice, ossia dall‟orizzonte di linguaggio di senso finito. Fuori del quale ambito, l‟Idea resta “appesa alla pinacoteca dell‟Iperuranio”.293 Cosa fa sì, pertanto, che l‟Idea sia l‟Essere ( e insieme ) di ciò che è (ovvero la sua )? Senza dubbio il Bene, che dunque è “la causa dell‟essere dell‟Idea, è la ragione per cui le idee sono tali, ed è a sua volta chiamato idea: ”.294 Ma quella del Bene è un‟Idea del tutto singolare e diversa dalle altre, tanto che Platone la
291
Platone, Repubblica, lib. VI, 505 a. A. Cavarero, Op. cit., pag. 125. 293 Ibidem. 294 Ivi, pag. 126. 292
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definisce ,295 ossia una entità trascendente l‟essenza. Cosa trascende l‟essenza ideale che presiede a ogni determinazione d‟essere degli enti molteplici? Senza dubbio l‟Uno, e dunque il Negativo, ossia quella Possibilità che sta oltre ogni determinazione possibile dell‟Essere, ogni sua razionale finitezza, e da cui scaturisce l‟ente. Dal Niente al Niente, come affermato nel Sofista e nel Parmenide. E‟ stato affermato che l‟Idea si costituisce come “la necessaria mediazione implicata da qualsiasi asserzione, essa è l‟oggetto autentico della conoscenza, poiché bisogna necessariamente conoscere l‟idea del bello per poter dire che qualche cosa è bella”.296 Ma, se tale mediazione fosse “necessaria”, non si comprenderebbe la natura dell‟errore, né l‟esistenza della retorica sofistica. In realtà la “necessità” è prevista solo all‟interno del , ossia della determinazione razionale dell‟Essere, mentre fuori del suo orizzonte di senso, il linguaggio è libero di esporsi alla Possibilità, ovvero a una rappresentazione indeterminata dell‟Essere, che per il è imperfetta, indefinita e mutevole, e dunque (scientificamente) inconoscibile. L‟orizzonte del entro cui si muove l‟ente determinato, è un orizzonte finito, fattuale e, per la sua indefinita possibilità d‟essere, in divenire. La mobilità () dell‟Essere, che si nega mostrandosi come determinazione positiva e finita della sua possibilità (), è pertanto circoscritta alla stessa finitezza in cui si muove la ricerca del , che è la realtà molteplice dell‟ente, e che circoscrive la stessa Idea come possibilità di determinazione finita, ossia come immagine () intrascendibile di ciò-che-è. Ciò vuol dire che l‟unità costituita e rappresentata dall‟Idea è solo l‟unità di ciò che è, ossia la conoscenza sintetica contestuale a una molteplicità determinabile in relazione al suo particolare (ad es. il Bello). Questa unità, però, non è il Tutto, cioè quel Bene dal quale le Idee derivano, ma soltanto il valore derivato dal loro ordine razionale, cioè dalla loro conoscenza scientifica. Rispetto al Bene, l‟Idea degli enti () ha bisogno della molteplicità degli enti per definirsi attraverso la loro determinazione reale, senza la quale molteplicità la stessa Idea non sarebbe (sé ma altro da sé), laddove il fondamento trascendente della sua essenza (), per la sua assolutezza, non ha bisogno della molteplicità per sussistere come 295 296
Repubblica, lib. VI, 509 b. A. Cavarero, Op. cit., pag. 127.
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Unità, la quale dunque è originaria, oltre che assoluta. In tal senso, l‟Unità del Negativo, è sì “principio del reale”297, ma come fondamento ( e non come causa (), per cui non può determinarsi né come Tutto, mancandole la determinazione positiva, e neppure come sé, mancandole la finitezza, e solo invece come Possibilità, ovvero come Libertà, trascendente ogni determinazione finita. L‟aspetto paradossale del filosofare risiede nel tentativo di trascendere la finitezza inevitabile di ogni determinazione reale attraverso la confutazione di ogni sua pretesa assolutezza definitoria, circoscritta come abbiamo visto al suo particolare orizzonte di senso, e nel contempo di dare una rilevanza assoluta al prodotto critico con gli strumenti propri della ragione determinante, ovvero di voler positivizzare in termini definiti e razionalmente de-terminati ciò che per sua natura è non determinabile razionalmente, il Negativo appunto, che rappresenta il differente rispetto all‟Essere di ragione. In questo consiste essenzialmente il tentativo platonico di plasmare razionalmente il secondo la idealistica. L‟operazione razionalizzatrice sembrava fattibile nell‟ordine della vita civile, in quanto l‟orizzonte sociale della era esso stesso fondato, alla stregua del linguaggio mitico, su falsi postulati relazionali di tipo immaginifico e non scientifico, ma, diversamente da essi, l‟incidenza sistematica poteva essere meglio controllabile della confutazione filosofica della prosa retorica, per via istituzionale. E difatti l‟esame della patologia dei regimi politici delineato nei libri VIII e IX della Repubblica riflette in scala storico-sociale l‟ordinamento ideale delle tipologie antropologico-morali sui sistemi statuali, tale che la sottolineatura del costante divenire di ogni struttura formale evidenzi il limite razionale insito nello stesso modello etico che la ispira, per cui “dalla timocrazia alla tirannide si assiste ad uno strutturarsi della vita statale che porta in sé il germe della morte, un elemento d‟instabilità e d‟inquietudine che impedisce a ciascuna costituzione di soffermarsi a ungo presso se stessa e la costringe a passare ad altro, incontro a mali peggiori”.298 Il sottinteso principio dialettico entra in questa fenomenologia della decadenza politica in funzione pedagogica per stabilire la corrispondenza sinottica tra strutture storiche e realtà ideali, dimostrando la incongruità 297 298
A. Cavarero, Op. cit., pag. 129. A. Cavarero, Op. cit., pag. 146.
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politica della volontà non orientata eticamente verso un razionale principio superiore che armonizzi in senso socialmente unitario le particolari spinte eversive di origine individualistico legate a moventi crematistici, stigmatizzati come criteri degenerativi del tessuto sia morale che socio-politico in quanto portatori di instabilità istituzionale. Qui la determinazione dialettica viene suffragata da riscontri empirici che smentiscono gli intenti apologetici di natura sofistica, tesi ad accreditare situazioni abnormi di privilegio socio-politico intollerabile per la comunità e foriere di una improvvida degenerazione sistematica, rappresentata paradigmaticamente dalla democrazia, versione universale dell‟anarchia individualistica,299 in cui lo spirito di libertà, distruggendo lo spirito organico dello Stato, ricerca false e provvisorie unità sociali occasionali, ingeneranti situazioni di arbitrio reale e sperequazioni economiche intollerabili, la cui astratta determinazione irrazionale conduce alla sua contraria opposizione che la nega.300 E così Platone qui adombra il principio dialettico della negazione reale dell‟astratto opposto, da noi più volte illustrato, per spiegare l‟origine ideale dei movimenti politici. Ancora più interessante, in ogni caso, è cogliere la relazione, non esplicitata nella Repubblica, tra la dialettica degli opposti (logici) e il rapporto politico dei contrari (ontologici), su cui a suo modo aveva riflettuto Hanna Arendt a proposito della tensione irrisolta tra il concetto aporetico di diritto “umano” e le positive disposizioni normative di salvaguardia, allorquando nota che è lo status politico a determinare la condizione giuridica umanitaria, non già la “nudità astratta dell‟essere uomini e nient‟altro che uomini”.301 Come opportunamente è stato a proposito notato, la Harendt, “pur senza analizzare a fondo il congegno logico-operativo di tale dispositivo, ne coglie tutta la portata aporetica”, considerando che “il diritto ammette al suo interno soltanto coloro che rientrano in una qualsiasi categoria […] politica”.302 Ma qual è il “congegno logico-operativo” aporetico? E‟ lo stesso che presiede ogni forma di dialettica, anche dunque quella politica e del diritto, tesa a 299
Repubblica, lib. VIII, 557 sgg. Repubblica, lib. VIII, 564 a. 301 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism (1951), tr. it., Milano, 1996, pagg. 412416. 302 R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Torino, 2007, pag. 86. 300
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determinare concettualmente una realtà indeterminata e negativa quale la nuda condizione umana, appunto “astratta” da ogni sistema logicodeterminativo, nel nostro caso quello giuridico. Infatti, l‟assunzione dello status giuridico non è una condizione originaria dell‟uomo, ma un portato politico, nel cui ambito di senso ricade la determinazione giuridica, per cui il meccanismo strumentale del sistema normativo reagisce alla ratio a cui è informato, che è quella appunto dell‟appartenenza politica. Se il concetto di umanità è più comprensivo di quello politico, questo vi rientra come species, la cui tecnica operativa del Potere è l‟apparato sanzionatorio del diritto. L‟aporia insorge allorquando ci si avvede che la determinazione scientifica della politicità giuridica non può esaurire l‟Idea umanitaria, ma solo rappresentarla sotto forma di comunità politica. Se ciò è vero, la stessa dimensione della Repubblica ideale, se vuole avere una rappresentatività universale, non può restringersi alla condizione della polis, ma non perché l‟estensione statuale sarebbe comunque riduttiva della portata teorica presunta, ma in quanto la dimensione stessa della politicità non può esaurire l‟Idea umanitaria, che tende a trascenderla, pur mantenendosi sul piano della ontologica finitezza. Aver costituito quello politico come limite discriminante in ambito giuridico, si rivela incongruo nel momento in cui agisce un motivo di legalità superiore a ogni determinazione positiva, quello etico, rispetto al quale ogni coerenza sistemica positiva dimostra la sua deterrenza rispetto al fine razionale di giustizia. E dunque anche la formazione formalizzata mostra la crepa aporetica della sua contestualità finita rispetto a una determinazione superiore non esplicitata ma evocata dall‟interrogazione filosofica. Soprattutto il concetto di umanità, determinato nell‟ambito della finitezza, lascia l‟adito a formalizzazioni sofistiche che ne snaturano il senso etico in una dimensione di neutralità scientifico-antropologica che lo rendono vulnerabile alle manipolazioni tecnico-politiche, ossia giuridiche. Non a caso la disamina empirica degli Stati imperfetti solo nella comparazione col modello ideale può trovare la sua confutazione razionale, altrimenti opinabile in ragione di ogni qualunque altra opzione conosciuta, essendo la costituzione filosoficamente perfetta quella che consente in ipotesi di conoscere la linea tendenziale di correzione razionale di ogni pregressa e accertata disfunzione politica. Se dunque è la sfera etica a poter direzionare in senso qualitativamente acquisitivo le limitazioni politiche del diritto positivo, di cui la politica di per sé non può autonomamente 218
emendarsi, parimenti è la sfera ontologica quella che può derimere la portata filosofica delle controversie logiche, che la dialettica di per sé non può sciogliere dovendosi fondare su postulati di fede trascendenti ogni possibile determinazione razionale. Più in generale, assunta la sfera dell‟Essere come quella comprensiva di ogni possibile determinazione razionale, ogni emendazione interna al suo orizzonte di senso logico non potrà mai risolversi che in un esito aporetico, che rimarrà inesausto fino a quando l‟istanza trascendente che lo alimenta non verrà soddisfatta superando il fondamento stesso che lo ha resa impellente, ossia il principio dell‟interesse dello Stato, in base al quale si applicava la dialettica della discriminazione politico-giuridica tra cittadini e meri abitanti.303 E dunque la dimensione politica a richiedere di essere trascesa, in vista del conseguimento di quel Bene assoluto non prevedibile normativamente se non come declinazione di un‟ipotesi ideale di societas condenda nella quale il cittadino sia strumento non più del Potere politico ma di quello metafisico incarnato dalla sapienza dei re-filosofi. E poiché, come abbiamo visto, definire il Bene è costituirlo nei suoi limiti empirici,, essendo “vero che la legislazione e la fondazione degli Stati nuovi sono il mezzo più perfetto per conformare gli uomini alla virtù”,304 la stessa sua conoscenza scientifica è destinata a rivelarne la insufficienza ordinamentale e insuperabile aporeticità, che solo l‟ammissione di un travaglio teoretico inesausto può sollevare dallo scetticismo radicale che accompagna ogni sofisma demagogico con cui si cerca all‟occorrenza di legittimare il Potere. Ma ciò che può consolare il filosofo può non soddisfare il legislatore, chiamato a scegliere tra decisioni alternative che compromettono la vita dello Stato, per cui la stessa destinazione politica dei suoi provvedimenti deve poter essere informata a criteri trascendenti le valutazioni di ordine meramente razionale, cioè esclusivamente sistemico, e quindi affidarsi a una normativa indeterminata che funga da parametro implicito di commisurazione rispetto alla logica economica del Potere. Questo criterio del Bene rimarrà inespresso e negativo entro l‟orizzonte di senso razionalistico in cui si muove l‟ontologia greca, che ammette realtà ontologica alla sola determinazione logica, ma che invece verrà espresso in seguito dal Cristianesimo con la morale informale della carità, che stabilisce la condizione differente a quella stabilita dalla logica politica, in 303 304
Le Leggi, lib. VI, 743-745. Le Leggi, lib. IV, 708 d.
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cui al do ut des sostituisce il dare sine ratione, che, come dono caritatevole, realizza una condizione di assolutezza da ogni vincolo sinallagmatico di tipo giuridico o economico, e che costituirà l‟autentico superamento, se non dello Stato politico, della sua necessità etica. “Quando un uomo non tiene responsabile, di volta in volta, dei suoi errori, se stesso e così dei mali, di quelli più numerosi e grandissimi, ma accusa gli altri e sempre fa in modo d‟uscirne innocente, e crede così di rendere onore all‟anima sua, dal fare onore è molto lontano: le fa male”.305 L‟anima appartiene alle cose superiori () e dunque ha diritto di comandare a ciò che serve, il corpo, per cui essa va onorata. 306 Ciò vuol dire che il Governo sociale non può vertere sugli stessi principi che determinano la dinamica dei comuni rapporti umani, ma deve ergersi su di essi come la mentalità divina su quella dei comuni mortali, o come l‟umana su quella degli armenti.307 La regola del Governo, dunque, non può essere il Potere, ossia l‟onore reso al corpo, ma la virtù, ossia l‟onore reso all‟anima. Onore è responsabilità, e responsabilità è giustizia. Da qui la critica alla logica sofistica che tende ad accreditare per comodo il non vero, sostenendo cause avvocatesche che possono essere molto lontane dalla verità. Responsabilità, sul piano sociale, equivale a Governo giusto. E giusto è quel Governo che non scarica sugli avversari le responsabilità che gli spettano per onore, ossia per dovere. Dovere () è ciò che pertiene in virtù del ruolo e della posizione morale, e non in considerazione di una relazione pattizia, stabilita sui diritti dei contraenti e garantita dalla forza. Il Governo responsabile e giusto è dunque quello onorevole, e il regime che l‟esprime è la timeocrazia, che è il contrario della democrazia, fondata sull‟utilitarismo individualistico e su principi edonistici, a partire dalla cura della persona, che genera diritti. Lo Stato di diritto è quello che riconosce o attribuisce “diritti” ma non coltiva nei cittadini le virtù. L‟atto del dovere () indica una discesa, una condiscendenza verso il basso, tra “l‟uomo giusto, sempre coraggioso e mite”308 e l‟inferiore, che stabilisce un rapporto di distacco e di sussiego, ma anche di opportunità, e quindi di misura e di equilibrio.309 Perché 305
Leggi, lib. V, 727 b-c. Leggi, lib. V, 726 a. 307 Leggi, lib. IV, 713 c-d. 308 Leggi, lib. V, 731 d. 309 “Il simile ama il suo simile se questo si attiene a una giusta misura, ma ciò che è fuori misura dispiace sia a ciò che è come lui senza certo confine sia a ciò che 306
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dunque l‟uno è preferibile all‟altro regime? Se la preferenza fosse attribuita all‟interesse di parte, cioè all‟amor di sé, “il più grande di tutti i mali, innato all‟animo di molti uomini” e “causa di tutte le colpe di ogni uomo in ogni occasione”,310 entrambe le rispettive perorazioni sarebbero ugualmente legittime e sostenibili da ognuna delle parti, ma il criterio di preferenza non è a sua volta opinabile in quanto inerente a un valore assoluto, che è l‟onore dell‟anima immortale, “il dono più divino che [l‟uomo] ha ricevuto”.311 Ecco che il criterio di valore, la virtù (), trascende la finitezza della dimensione mondana e si pone al di là delle vicende umane precipuamente politiche, stabilendo una differenza incommensurabile con alcun benessere mondano, “perché non c‟è oro né sopra né sotto la terra che possa pagare la virtù”,312 ovvero la “via retta” che si consegue amando il “giusto mezzo” che Platone chiama anche “serenità”, condizione propriamente divina.313 Un conto, dunque, sono le “costituzioni reali”, cioè mutuate da regimi ideali; altro sono le “strutture politiche dove una parte comanda e l‟altra serve”. Queste “non sono vere costituzioni” ma, legate come sono alle vicende contingenti dei rapporti di forza tra uomini, “ciascuna prende nome dalla potenza di chi domina”.314 Le vere costituzioni sono quelle che si ispirano alle “leggi non scritte”, ovvero quelle “leggi dei padri” che “non sono leggi vere e proprie [ma] sono legami strutturali di ogni costituzione, stanno in mezzo fra tutte le leggi codificate per iscritto e stabilite e quelle che ancora devono esserlo, esattamente come tradizionali e del tutto antiche norme di vita, le quali, stabilite bene ed entrate nel costume, con ogni garanzia avvolgono e difendono le leggi già scritte”. Infatti, uno Stato è “stabilmente fondato” da “siffatti legami” etici, siano leggi, costumi o usanze, senza il cui “sostegno reciproco” non potrebbe fondarsi né durare.315 Alla luce di queste considerazioni, appare evidente come la prefigurazione di una Repubblica ideale in Platone concerni il tentativo a) conserva il suo limite. Il dio è per noi la massima misura di tutte le cose, molto di più di quanto lo può essere un uomo, come invece dicono ora”: Le Leggi, libb. IV, 716 c; VI, 757 c. 310 Leggi, lib. V, 731 d-e. 311 Leggi, lib. V, 728 b. 312 Leggi, lib. V, 728 a. 313 Leggi, lib. VII, 792 d. 314 Le Leggi, lib. IV, 712 e - 713 a. 315 Leggi, lib. VII, 793 b-d.
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di trascendere i valori politici che avevano sostenuto le ragioni morali della polis tradizionale, e b) di costituire al suo posto una realtà sociale virtuosa, che soppiantasse le diverse tipologie di regime politico che fino ad allora si erano alternate nella storia dell‟uomo. In altri termini, Platone presagiva, o almeno auspicava, l‟estinzione dello Stato politico, basato sul Potere, a favore della edificazione dello Stato ideale, basato sul Governo sapiente. La verità di tale cambiamento di paradigma riguardava non già singole proposizioni o particolari argomenti ma ineriva al Tutto, ossia alla prospettiva ontologica fondativa di ogni possibilità dialettica, e quindi non poteva essere affidato alla sola ragione, se non voleva correre il rischio di venire confutato dal , come argomento retorico o sofistico. Tale verità poteva essere custodita solo dal Mito, il quale è garantito solo dalla fede. Infatti, “Platone sceglie la via del mito, per demandare ad un discorso non dialettico il compito di dire ciò che non può essere detto in maniera rigorosa. Il mito non può garantirsi [razionalmente], esso necessita della dimensione della fede; può infatti affidarsi soltanto alla credenza, che può essere vera o falsa”. 316 Ben detto. Ma subito di seguito si aggiunge che il Mito non possa “mai” affidarsi “alla scienza che è sempre vera”. E questo è inesatto, poiché la scienza, proprio perché soggetta al divenire non è sempre vera, ma soltanto fino a quando persista la credenza nella sua ipotesi, nel suo fondamento di fede nella verità che la sostiene. Per cui non è il Mito “un‟ipotesi sulla totalità” ovvero “sull‟Assoluto”, ma esattamente il contrario: è una fede assoluta, libera cioè dalla confutazione dialettica. “Ipotesi” è quella della scienza, la quale afferma di sapere la verità anche riguardo a ciò che sa di non sapere, ossia circa la realtà del Tutto. E quando la scienza critica il Mito, lo fa cercando di definirne i suoi contorni indefiniti, e facendolo a suo modo, ossia dialetticamente, scegliendo ciò che è secondo il da ciò che non-è, ma è altro. Il Mito, di contro, contiene anche l‟altro, oltre al , essendo più inclusivo di un discorso esclusivo, e insieme al contiene, nella sua interezza ed unità, anche l‟irrazionale. Ossia ciò che il filosofare cerca di distinguere dall‟Essere come non-essere, e che si trova, allo stesso titolo di ciò che logicamente è determinato, solo nel Mito, che pertanto è lo spazio aperto () della libera possibilità.317 La possibilità 316
A. Cavarero, Op. cit., pag. 173. A. Cavarero, Op. cit., pag. 174. L‟A., affermando che “il mito è il completamento della dialettica”, sostiene che “non può venire prima della dialettica”, mentre in realtà 317
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della mera esistenza naturale, ossia la salvaguardia della sola sopravvivenza biologica, consegnava alla politica tradizionale un compito non virtuoso, opposto a quello dedito alla protezione del corpo, consistente nella coltivazione spirituale. L‟idealismo platonico dunque, sia pure in termini non esplicitati, si prefigge programmaticamente di convertire l‟essere biologico in essere spirituale, facendo prevalere, dapprima sul piano soggettivo e quindi su quello collettivo, l‟elemento noetico e immortale dell‟uomo su quello materiale e caduco.318 Il limite insuperato dalla teoria platonica del Governo virtuoso, e che permane nella civiltà cristiana come un lascito culturale fortissimo della civiltà greco-romana, è la dimensione politica del Potere strettamente collegata alla definizione teoretica della verità come ragione dialettica, come distinguente. Una ragione esclusiva per un Potere discriminante. Una volta assunta la logica dialettica come strumento tecnico della ricerca filosofica del Bene, ecco che la tecnica epistemologica diventa la metodica di una ricerca inevitabilmente legata a una dinamica compulsiva,319 tesa cioè a sopprimere attraverso una legislazione () della ragione la sua negazione logica e politica, e quindi, di riflesso, l‟orizzonte stesso della totalità, che, dal punto di vista morale è il Bene, ma rispetto alla attualità dell‟Essere razionale, è il Negativo (la fabulazione mitica), e rispetto all‟attualità del Governo è la società civile, esso è l‟ dalla cui unità indistinta si origina ogni distinzione. Non è ciò che resta del ma è stesso quale discorso originario dal quale si origina dialetticamente il discorso razionale. E‟ l‟orizzonte razionalistico che crede che solo il discorso razionale sia “vero”. Ma questa è una credenza non diversa da quella che sostiene la verità del Mito. 318 “Non pensiamo che il sopravvivere o l‟esistere soltanto sia la cosa più degna d‟onore per uomini, come credono i più, ma il migliorare se stessi, quanto più è possibile il farlo, e l‟esserlo poi per tutto il tempo di vita”: Leggi, libb. IV, 707 d; V, 743 e. 319
“Un tiranno che voglia mutare i costumi di uno Stato non ha per nulla bisogno di molte fatiche né di molto tempo, è necessario solo che si orienti subito egli stesso di là per dove vuole dirigere i cittadini, sia alle pratiche della virtù, sia al contrario, tracciando egli per primo col suo agire tutto il disegno, e poi dia da una parte lodi ed onori, biasimi dall‟altra, e dia punizioni disonorevoli a chi disobbedisce, punto per punto, per ciascuna delle sue azioni. […] Amici, nessuno ci faccia credere mai che uno Stato possa mai mutare legislazione in modo più veloce e facile con un altro mezzo che la guida dei potenti, né che tutt‟ora avvenga altrimenti, né che diversamente accadrà mai dopo di ora”: Le Leggi, libb. IV, 711 b-c; V, 735 d-e.
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l‟agone retorico in cui si sviluppa il libero convincimento politico.320 Infatti, la ragione fondamentale della critica alla democrazia, quale tensione reciproca delle parti politiche in competizione per il Potere, è la partigianeria di chi, anziché ritenere che “il più gran bene comune” sia l‟interesse del Tutto, e che pertanto la parte debba essere “in funzione del tutto”, considera, al contrario, “il tutto in funzione della parte”,321 ponendo le ragioni particolari dei sodali prima di quelle generali dello Stato, inteso come la struttura organica della società, e non il solo apparato burocratico-coercitivo. In tal senso possiamo indicare in Platone il primo e più convinto critico del sistema partitocratico, che domina le moderne democrazie parlamentari. Ma il contrasto più stridente tra il processo dialettico della verità, che giunge al suo compimento con l‟intuizione del Bene, e il comportamento virtuoso, che agendo nell‟ambito della possibilità rimane comunque imperfetto rispetto alla compiutezza della realtà, si coglie allorquando Platone fa dire all‟Ateniese che garanzia del buon esercizio del Potere pubblico sia l‟abitudine e l‟educazione “dall‟infanzia sino all‟età dell‟elezione”, non potendo la massa assolvere a nessuno dei doveri istituzionali “con precisione”, ossia con perizia, 322 lasciando chiaramente intendere che il tirocinio e quindi la professionalità del politico, “sia ch‟egli la tragga da una pratica o da un costume”, sia che la derivi da “un‟opinione o da qualche conoscenza”, fosse il miglior viatico alla carriera politica come “virtù dell‟anima”.323 Motivo che, com‟è noto, sarà ripreso e sviluppato da M. Weber. Ma la professionalità, ossia l‟apprendimento della tecnica dell‟esercizio del Potere, come ogni tecnica, rimanda alla sua fonte scientifica, la quale pertanto deve essere considerata la prima nell‟ordine gerarchico dell‟ordinamento dello Stato. Ed è tale fonte suprema che Platone indica come “legislativa” (), per cui la struttura burocratica dello Stato, coi suoi funzionari, compreso il personale strettamente politico, ha in mano l‟amministrazione, ma non il Governo dello Stato, con la conseguenza che il livello dell‟apprendimento tecnico è sottoposto alla istruzione e alla verifica del superiore livello di 320
E‟ esattamente questa assunzione metodologica nella ricerca della verità, e non già l‟intuizione platonica che l‟Essere si origini dal non-Essere, a costituire l‟origine del predominio culturale della tecnica nella civiltà occidentale. 321 Leggi, lib. X, 903 d. 322 Leggi, lib. VI, 751 c e 758 b. 323 Leggi, lib. VI, 770 d.
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elaborazione ideale, indicando con ciò una conformazione socio-politica armonizzata organicamente sulla detenzione della guida morale dello Stato. Si delinea dunque un contrasto latente tra le dinamiche di un Potere, volto al controllo della sua efficienza amministrativa attraverso la neutralizzazione delle minacce politiche, e le istanze stabilizzatrici del Governo, occupato a sostenere la causa del bene comune. Essi ubbidiscono a due logiche diverse, una delle quali deve risultare prevalente, e non possono essere reciprocamente conflittuali. Ed è a questo punto che sorge la questione della pervasività sociale del ruolo del Governo. La trasposizione dei risultati noetici della interiore alla struttura sociale, e quindi il passaggio del risultato filosofico dal soggettivo al collettivo, implicando il problema del coinvolgimento della società ai risultati della verità attraverso gli strumenti anti-scientifici della persuasione, definisce un‟idea di politica funzionale al consenso sociale favorevole al Potere, che è il risultato opposto a quello che si era prefisso il Governo illuminato, ossia di liberare gli uomini dalla caverna dei pregiudizi emancipandoli dalle seduzioni demagogiche. In altri termini, la stessa universalizzazione in senso sociale dei risultati filosofici attraverso una legislazione positiva, fa riacquistare alla tecnica politica un ruolo decisivo che la coscienza filosofica aveva negato alla coscienza che quella tecnica politica ispirava, ossia la coscienza mitica, ricettacolo di ogni normativa eticamente contraddittoria e logicamente irragionevole. E pertanto, se la retorica, la credulità religiosa e la devianza sofistica venivano dialetticamente confutate, l‟istanza universalistica di partecipare tutti gli uomini al Bene ideale rendendolo, con le leggi, bene comune, richiedeva l‟ausilio tecnico della politica come arte di Potere, come strumento di consenso sociale e collettivo. Si tenga conto, inoltre, che se il Governo è “l‟anima” dello Stato, “tutto ciò che ha l‟anima si trasforma ed ha in sé la causa della trasformazione”,324 la società, indotta a cambiare per l‟impulso del Governo, non ha la sua autonomia ma necessita per sussistere dell‟operato direttivo governativo, al cui servizio sta il Potere per il bene comune, che è la liberazione dai pregiudizi mitici. Questo ibrido innesto della compulsiva tecnica politica nella dimensione liberale del Governo sapienziale, se effettivamente realizzato nella riorganizzazione dell‟assetto dello Stato, avrebbe provocato 324
Leggi, lib. X, 904 c.
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inevitabilmente un cortocircuito culturale che avrebbe mandato in frantumi l‟intera architettura istituzionale della società, dilacerata tra le opposte spinte centrifughe tra una socialità ispirata a motivi idealistici e una struttura giuridica che si reggeva su forme politiche derivate da motivi naturalistici allotrii. Senza contare l‟insuperabile difficoltà di conciliare in una stessa astratta considerazione generale casi non unificabili in virtù della stessa tradizionale ripartizione antropologica delle differenze umane, che si riflettono inevitabilmente nella legislazione.325 Ora, è esattamente quello che è avvenuto in scala imperiale nell‟ambito della civiltà europea con l‟innesto del Cristianesimo nelle forme della antica socialità pagana greco-romana. Mentre Leggi rappresentano ancora il tentativo di confutare preventivamente ogni abnormità patologica della vita sociale, individuando quanto più minutamente possibile il catalogo degli elementi perturbatori verso una normazione ispirata a modelli idealistici di società virtuosa, la predicazione cristiana ha individuato nella stessa previsione normativa delle fattispecie di comportamento moralmente eterodosso una esorbitante presunzione umana di addivenire a quell‟ordine cosmico il cui disegno era solamente divino, rigettando pertanto ogni ipotesi legalistica di che ritenesse di costituirsi indipendentemente da una intima in grado di affermarsi fuori del perimetro etico della socialità. Se, dunque, la riflessione platonica, nonostante le sue istanze trascendenti,326 si muoveva pur sempre all‟interno dell‟orizzonte politico 325
“Le leggi, come è evidente, sono di due specie, le une servono per gli uomini onesti al fine di insegnar loro in qual modo stringendo reciproche relazioni potranno vivere concordi, e altre per chi è sottratto all‟educazione alla virtù, per chi ha dura la natura e non si lascia commuovere affatto in modo da non andare alla più completa malvagità”: Leggi, lib. IX, 880 d-e. 326 [L‟errore dei naturalisti per Platone è “di aver ignorato la natura dell‟anima”, e di aver “ignorato che l‟anima è una delle entità originarie che ha preceduto tutti i corpi nel suo venir all‟essere e guida tutti i mutamenti e le trasformazioni di questi più di ogni altra cosa”, per cui indicando come natura “la generazione relativa alle prime realtà”, essendo più originaria l‟anima sarebbe più corretto asserire che”l‟anima è, più che mai, per natura”. (Leggi, lib. X, 892 a - c.) Il suo primato deriva dal fatto che essa è “il moto che può muovere se stesso”, ossia “il principio di tutti i moti” e “causa di tutte le cose”, “del bene e del male, del bello e del brutto, del giusto e dell‟ingiusto e di tutti i contrari”, ed essendo “venuta ad essere prima del corpo” è essa che “guida e comanda”, mentre “il corpo per natura è guidato e comandato da lei” (Ivi, 895 b – 896
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e della finitezza ontica in cui era inserita la visione antropologica dell‟animalità razionale,327 senza riuscire a fare della filosofia altro che la forma universale dell‟etica, ossia la scienza di una tecnica di governo, la predicazione cristiana propone un fondamentale cambiamento di paradigma culturale, fondato ontologicamente non più sulla conoscenza logica dell‟ente,328 ma sulla presenza intuitiva del Bene come infinita volontà creatrice di un Dio non più iperuraneo e antropomorfico ma spirituale, spostando dal piano della a quello del la prospettiva antropologica. E così, collocando lo Spirito al centro del significato dell‟esistenza umana, Gesù lo rende mediatore cosmico al posto del Secondo Dodds “Platone avvertiva meglio di chiunque altro i pericoli insiti nella rovina del conglomerato ereditario”, tanto che “nel suo testamento spirituale formulò interessanti suggerimenti per stabilizzare la situazione mediante una controriforma329 Il Gorgia è probabilmente il luogo maggiormente chiarificatore e illuminante sia della posizione politica di Platone che della sua relazione con l‟ontologia. Infatti, forse in nessun luogo platonico emerge con maggiore chiarezza la differenza tra c). Ed è sempre l‟anima, nella sua parte “migliore che cura l‟universo intero” (Ivi, 897 c). 327 “Non è possibile che nessun uomo mortale divenga mai fermamente rispettoso verso gli dèi, se non sarà riuscito a cogliere due cose, se non saprà cioè che l‟anima è la realtà più antica di tutto ciò che ha avuto parte nella generazione, è immortale, è la guida di tutti i corpi; e inoltre, se non riesce a cogliere e conoscere l‟intelletto che è presente negli astri, ed è l‟intelletto delle cose che sono [e se non userà di tutto ciò per coordinare le attività e le regole di vita delle varie indoli, e, per quanto ammetta un discorso che lo giustifichi, se non sarà in grado di rendere ragione di ciò col discorso”: Leggi, lib. XII, 967 d – 968 a. 328 La stessa anima è per Platone conoscibile “solo per via d‟intelletto”: Leggi, lib. X, 898 e.] e quindi sull‟etica razionale del Giusto, [L‟idea di Giustizia razionale aveva soppiantato le diverse e contestate opinioni umane sul giusto, che avevano fatto credere ai naturalisti che esso fosse solo una convenzione di costume e legale, e non una realtà naturale legata a criteri di oggettiva necessità. Ved. Leggi, lib. X, 889e – 890 a. Ma la “legislazione che si accompagna all‟uso dell‟intelletto” fornisce “comandamenti di legge scritti” che danno ragione di sé per ogni tempo e che quindi sono stabili: Ivi, 890 e-891 a. 329 E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale (1951), tr. it., Milano, 2015, pag. 259. Per “conglomerato ereditario” Dodds intende con G. Murray il susseguirsi di credenze anche logicamente incompatibili ma sussistenti contemporaneamente nella stessa area socio-culturale tra persone diverse o anche nella stessa persona: Ivi, pag. 229.
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la condizione di fatto, ovvero “ciò che sembra”, legata a ragioni indipendenti dalla volontà umana, e la condizione ideale, ovvero il fine razionale o “bene” ricostruito attraverso l‟analisi dialogica. La realtà fattuale è diversa dalla realtà ideale, per ragioni che il Socrate del dialogo non chiarisce ma che pure sono evidenti, ossia perché la realtà fattuale non è il prodotto di un‟azione individuale, come invece l‟attività di pensiero che ne ricostruisce l‟essenza razionale, ma è un evento legato a un processo collettivo e impersonale entro il quale agiscono le singole volontà umane, nessuna delle quali lo determina causalmente, cioè lo “crea”. La creazione è un atto individuale, che sul piano dei fenomeni sociali, non esiste se non come un costrutto di un‟analisi razionale, astratta dal divenire fenomenico. Se si assume il piano ideale come quello “reale”, il piano fenomenico diventa irreale, ossia apparente e irrazionale. Se, viceversa, “reale” è il piano fenomenico, quello ideale diventa meta-reale. Per addivenire al superamento della differenza, necessita l‟azione di un “demiurgo”, il quale opera o nel senso di un coordinamento dei due piani, ideale e reale, cioè in funzione di mediazione, che lascia invariata la rispettiva realtà dei due piani, ovvero nel senso della identità dei due piani stessi, attraverso la “riduzione della molteplicità sensibile all‟unità della Idea”.330 Nel Gorgia Socrate afferma che “credenza e scienza non sono la stessa cosa”, anche se “tanto coloro che sanno, quanto coloro che credono, sono persuasi”, per cui esistono “due specie di persuasione, l‟una dovuta alla credenza non accompagnata da sapere, l‟altra frutto di scienza”.331 Stabilito che ci sia un corpo e un‟anima, “due ne sono le arti: chiamo politica l‟arte che si riferisce all‟anima, mentre quella che si riferisce al corpo, […] la distinguo in due parti, la ginnastica e la medicina. Nella politica alla ginnastica corrisponde la legislazione, mentre alla medicina fa da antistrofe l‟amministrazione della giustizia”. Ciascuna coppia ha elementi in comune che si riferiscono a uno stesso corrispondente oggetto, ed elementi eterogenei. L‟arte retorica è in realtà un “espediente” () che consiste essenzialmente in una “adulazione” (), con la quale la politica rappresenta la sua “immagine” () spacciandola agli ignoranti come di estremo valore.332 La retorica, dunque, “sul piano dell‟anima, corrisponde a quello che, sul piano del 330
Ved. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, cit., pag. 513. Gorgia, IX, 454 d-e. 332 Gorgia, XIX, 464 b-d. 331
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corpo, corrisponde alla cucina”, essendo appunto la culinaria la espressione simulata del sapere medico, “il saper vestire alla ginnastica, la sofistica alla legislazione e la retorica alla amministrazione della giustizia”.333 Solo perché è l‟anima () a governare il corpo è possibile distinguere le varie parti tra loro, ma se “fosse il corpo a governarsi da sé, e non fosse l‟anima che esamina e giudica ciò che compete alla cucina e ciò che compete alla medicina, ma cucina e medicina fossero giudicate dal corpo sulla base delle delizie che ne riceve […] tutte le cose, senza distinzione, sarebbero insieme confuse, poiché non vi sarebbe più possibilità di giudicare ciò che compete alla medicina, all‟igiene, alla culinaria”.334 Gli stessi tiranni, non conoscendo ciò che fanno, non hanno vero potere né “possederanno alcun bene, se è vero che il potere è un bene e fare senza intelletto quello che sembra, è un male”.335 Volere è diverso dal fare ciò che sembra, infatti “chi fa qualcosa con uno scopo, non vuole quello che fa, ma ciò in vista di cui agisce”, e pertanto “chiunque agisce, fa quello che fa in vista del bene”. 336 Nel Gorgia emerge chiaramente la differenza tra il Bene morale, che non si manifesta nell‟azione politica, e la condotta dell‟uomo politico, caratterizzata dal “male” di “fare ciò che sembra”. L‟intento socratico è di far governare il “corpo” sociale, che è un ente collettivo, dall‟ “anima razionale”, ovvero, per dirla con l‟Anassagora del Fedone, dalla “Intelligenza che ordina e che causa tutte le cose”,337 che Platone intende non in senso naturalistico ma nel senso metafisico di un Nus trascendente, che governa al pari della psyche individuale. La “seconda navigazione” 338 di cui parla Platone consiste appunto nella ricerca della causa razionale (), che sta dietro i fenomeni apparenti, e che consiste nella realizzazione del Bene. Ora, è proprio tale “realizzazione” l‟aspetto più problematico del discorso platonico, in quanto tale Bene non coincide con la realtà effettuale, ossia con il nesso strumentale tra causa e mezzi, ma con la idealità morale, ossia con la ragione () delle azioni umane, che è la “causa vera” e non apparente delle cose, ossia con la volontà. Nel Timeo queste cause strumentali, “di cui si serve Dio per realizzare l‟idea 333
Ivi, XX, 465 c-e. Ivi, XX, 465 c-d. 335 Ivi, XXII, 466e-467 s. 336 Ivi, XXIII, 467 d e 468 b. 337 Fedone, 97 b 8-c 2. 338 Fedone, 99 d. 334
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dell‟ottimo” sono indicate come “concause” o “cause secondarie” (), che i più scambiano erroneamente per “vere cause di tutte le cose”.339 Nel caso della mediazione tra i due piani ontologici, il demiurgo non deve fare altro che “riprodurre le apparenze”, nel modo adeguato all‟essere umano, cioè attraverso il linguaggio, ossia nel modo retorico proprio dei sofisti e dei politicanti di cui si parla nel Gorgia. Nel caso, invece, della reductio ad unum ideale, il demiurgo deve operare in maniera coerente alla ricerca dialettica della verità, ossia riportando ogni cosa al suo fine razionale, razionalizzando appunto la realtà. E portare la realtà dal piano delle apparenze fenomeniche a quello della verità ideale equivale a portarla “dal non-essere all‟essere” (),340 cioè operare nel senso della creazione ().341 La questione che a questo punto sorge è se il “demiurgo” politico della società umana sia paragonabile al “governatore dell‟universo” () di cui tratta il Politico.342 Questa possibilità è legata a una condizione ontologica essenziale e teoreticamente imprescindibile, che l‟essere umano sia equivalente all‟ente naturale. Solo infatti in questo caso è possibile al demiurgo di razionalizzare la realtà sociale riportandola dalla molteplicità naturale alla unità ideale. Se tale fosse praticabile, portare all‟essere il non-essere significherebbe negare l‟esistente nello stesso momento in cui si affermerebbe con l‟atto di creazione il suo essere, e dunque equivarrebbe a opporsi alla realtà spontanea delle cose, quella stessa realtà nata dai processi naturali. E dunque, negare la realtà naturale come “non-reale”, per affermare la realtà ideale quale “vera realtà” significa contraddittoriamente affermare negando, ossia costituire come realtà positiva una realtà negativa, che non-esiste ovvero che è idealmente, determinandola come assoluta, ossia come realtà esclusiva di ogni altra, cioè del suo divenire altro da sé. L‟atto di razionalizzazione della realtà equivale pertanto all‟atto della negazione del divenire naturale delle cose, cioè del suo processo temporale, per mezzo della affermazione della sua 339
Timeo, 46 c-d. Simposio, 205 b 8-11; Sofista, 219 b 4-6. 341 Ved. G. Reale, Op. cit., pagg. 528 sgg. 342 Politico, 272 e 3. 340
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immagine ideale, cioè della sua ipostasi affermata come reale. La nonrealtà ideale trasformata in realtà razionale diventa realtà apparente, ossia il suo opposto originariamente negato come non-essere. Questa insuperabile aporia dimostra inequivocabilmente che a) il percorso della reductio ad unum sia solo razionalmente praticabile all‟interno della coscienza mito-logica, ma pragmaticamente irrealizzabile perché, a seguito della conversione della realtà ideale nel relativo opposto reale, il suo esito è contraddittorio e assurdo, e dunque il supposto Bene diventa affermativo in realtà del “male”; e inoltre che b) i due piani di realtà, quello soggettivo della coscienza razionale e quello oggettivo della realtà fenomenica non sono omologabili, sicché il governo dell‟universo non coincide con il Governo politico, così come l‟opera in-finita di Dio non coincide con l‟agire finito dell‟uomo. ed è questa la ragione essenziale per la quale non si possa stabilire alcuna corrispondenza reale tra le sintetiche ragioni divine e le contraddittorie ragioni umane. Nell‟ambito della finitezza in cui opera l‟agire dell‟uomo, non è dunque possibile addivenire a una sintesi tra la verità della coscienza e le ragioni della vita fisica. L‟identità della ontologia greca tra Essere e pensiero derivava dalla considerazione della esistenza umana come bios naturale, all‟interno della cui unità veniva distinta l‟attività pratica della vita activa da quella teoretica della vita contemplativa, quali specie dello stesso genere. Il problema di Platone fu quello di risolvere l‟una nell‟altra dimensione vitale, attraverso lo strumento filosofico della ricerca dialettica. Ma la fattibilità di tale operazione razionalizzatrice della realtà umana si fondava sulla credenza che la ragione della coscienza ideale dell‟uomo fosse la stessa ragione cosmica del mondo naturale. Sfatando come “mito” questa credenza ontologica, il pensiero cristiano fonda una nuova antropologia e una nuova socialità, non più politica e di potenza ma ecclesiale e agapica. Viceversa, riabilitando il metodo filosofico a giustificazione razionale della fede, la teologia riabilita surrettiziamente anche la tecnica politica, facendo di questa lo strumento dell‟agire razionale, pensato appunto come il fine dello stesso filosofare. Filosofare per idee era il presupposto teoretico del praticare la scienza politica, ossia filosofare per azioni. Il coordinamento di queste connesse attività da parte del demiurgo costituisce l‟ordine (), mentre la separazione dal suo benevolo governo costituisce lo stato opposto di disordine () ingenera il pericolo () della dissoluzione
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() del mondo.343 Platone indica come disordine la disorganicità (), ovvero la mancanza di accordo tra le parti, e dunque il conflitto (), conseguente alla loro discordanza () portata al massimo grado ().Il disordine, ossia l‟assenza di Governo demiurgico, è dunque generato, e a sua volta genera, discordanza, che è la condizione opposta alla armonia, intesa da Platone non come conformità-difformità di fronte alla legge, cioè legalità ()-illegalità (), ma come disuguaglianza, ossia come diversità di fronte all‟autorità del Governo paterno. In altri termini, soltanto il riconoscimento dell‟attività di governo () produce, con l‟armonia dell‟ordine (), il freno alla dissoluzione. Governare significa dunque trattenere dalla dissoluzione, intesa come infinita produzione delle differenze conseguente all‟assenza di governo (). L‟elemento mitico della rappresentazione platonica del “disordine” () della molteplicità consiste nella credenza della sua identità alla “differenza” () rispetto al modello logico, all‟Idea, la quale diventa nella rappresentazione mitica l‟ipostasi della realtà ontologica originaria del Bene, dalla cui perfezione discende per degenerazione progressiva a seguito del tempo il disordine del caos, e dunque il male. Il mito platonico è l‟affermazione che l‟unità ideale sia il Bene, mentre la molteplicità sempre più differente dal modello originario sia il male. Il correttivo alla dissoluzione caotica nel mare infinito della differenza non è per Platone il governo della differenza, ma la uniformizzazione del diverso all‟unità ideale, ossia, sul piano effettuale, la legalizzazione dell‟uguale e la delegittimazione del dissimile, ossia la politica come distinzione dialettica dell‟amico dal nemico. Questa rappresentazione idealistica del Governo, che contrasta palesemente nel Gorgia con l‟opinione comune legata alla evidenza della molteplicità della realtà fenomenica, intende affermare sul piano effettuale l‟unità teleologica, assunta come il criterio direttivo dell‟azione razionale, la quale consiste appunto nell‟affermazione pratica del senso ideale riposto e non evidente delle cose enucleato dal metodo dialettico. Ed è proprio questo affermare l’essere di ciò che non è in essere, ma che sussiste come la trama universale di un ordine recondito, costituisce in essenza sia l‟attività del pensiero filosofico che l‟agire politico, il quale, similmente alla verità del logos rispetto all‟opinione comune, si 343
Politico, XVI, 273 c-d.
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costituisce oggettivamente come atteggiamento rivoluzionaria dello status quo, ossia come violazione dell‟ordine costituito, criticato dal Socrate del Gorgia in quanto fondato sulla apparenza delle cose. Il potere esercitato sulle cose apparenti è un falso potere, perché difetta della cognizione del Bene. Un Potere privo di Bene può essere piacevole ma non utile. Solo i piaceri buoni sono utili.344 Esistono dunque due tipi di Potere, quello esercitato per il piacere del comando, e quello razionale esercitato perché sia utile alla comunità. Ma “bene e piacere non sono identici”,345 e “tanto per l‟uno quanto per l‟altro, vi è una pratica e un metodo per acquisirli, l‟uno volto a cogliere il piacere, l‟altro il bene”.346 Per Platone, il Bene è l‟ordine stabilito dal governo dell‟anima sul corpo, che egli chiama “legalità e legge”, da cui proviene la “giustizia”.347 Il bene dell‟anima è la condizione di ragionevolezza e di infrenamento delle passioni,348 e dunque di asservimento del piacere in funzione del bene.349 E il bene è l‟armonia coerente con l‟ordine universale (), così come il male è la dissoluzione del disordine ().350 Il male è prodotto dall‟ignoranza del Bene, e non dal volerlo fare,351 per cui il governo deve essere affidato tra “quelle persone la cui intelligenza è volta agli affari dello Stato [a coloro] che sanno come si debba amministrare la cosa pubblica, e che sono non intelligenti solamente, ma anche uomini di coraggio, capaci di portare a termine quello che pensano e che non indietreggiano nel loro compito per debolezza d‟animo”.352 Poiché il male è l‟apparenza priva di verità, “si deve porre ogni cura non a parere, ma ad essere buoni, tanto nella vita privata che in quella pubblica”.353 La identificazione della vita pubblica con la vita privata crea una analogia strutturale tra il governo delle passioni dell‟anima con il Governo della società, dalla quale analogia nasce l‟ipotesi della sofocrazia politica, la quale assume appunto che il corpo sociale sia del tutto assimilabile al 344
Gorgia, LIV, 499 d. Ivi, LII, 497 d. 346 Ivi, LV, 500 d. 347 Ivi, LIX, 504 d. 348 Ivi, LX, 505 b. 349 Ivi, LXII, 506 a. 350 Ivi, LXIII, 508 a. 351 Ivi, XLII, 488 a. 352 Gorgia, XLV, 490 a-b. 353 Ivi, LXXXIII, 527 b. 345
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corpo umano, essendo entrambi organismi naturali che necessitano di una guida razionale.354 Tale bisogno nasce dall‟oblio dell‟ordine cosmico, che dunque non è un ordine necessario fuori del suo ordinamento razionale, ma deve essere conseguito dall‟uomo attraverso la conoscenza razionale del Bene. Conoscere il Bene e conformarsi all‟ordine cosmico è tutt‟uno. Ciò vuol dire che l‟ordine empirico ottenuto dall‟uomo storico sia errato e bisognoso di perfezionamento in senso cosmico. Da qui la funzione politica del sapere filosofico. Abbiamo qui in compendi tutti gli ingredienti fondamentali del razionalismo rivoluzionario, dello gnosticismo e della stessa lettura teologica dell‟escatologia cristiana. Anche se la prospettiva eversiva dell‟idealismo è stata rigettata da Gesù in quanto propria di una visione razionalistica del mondo, basata su di una onto-antropologia naturalistica, diversa da quella spiritualistica cristiana. L‟idea cristiana del Governo, diversamente da quella naturalistica dell‟idealismo greco, afferma l‟ordine della diversità, anziché della omogeneità. La differenza tra le due prospettive ordinamentali è radicale, in quanto l‟ordine razionalistico, presumendo l‟uguaglianza logica delle differenze ontologiche, si afferma attraverso il principio di necessità, consistente nella semplificazione o riduzione ontologica del molteplice allo stesso, attraverso la quale si perviene all‟unità dell‟eguale, posto come modello ideale. Diversamente da questo principio d‟ordine, lo spiritualismo cristiano presume le differenze negate dal razionalismo, e le dispone in un ordine libero dalla necessità dell‟omogeneità al modello ideale. ed è questa libertà a fare dell‟ordine in senso cristiano una unità spirituale anziché ideale, la quale mantiene in essere la molteplicità naturale, assumendola come espressione dell‟ordine governamentale di Dio, il quale dunque governa mantenendo il molteplice, senza trasformarlo in unità. Questa la differenza radicale tra l‟auctoritas di Dio e la potestas di Cesare, e tra la comunità ecclesiale e la società politica.
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Ved. Repubblica, V, 462.
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