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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da
Costantino Marco
MARCO EDITORE
Segretario di redazione: Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.
In copertina: Cristo Pantocratore (Icona russa del XV secolo) Copyright by Costantino Marco Coscienza Storica
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Coscienza storica Nuova Serie 12
Cristo e la sua Chiesa II. Cristianesimo come Storia
Coscienza Storica
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Coscienza Storica
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II
Cristianesimo come Storia “Storia è solo là dove si decide ogni volta inizialmente dell‟essenza della verità.” (M. Heidegger) “Soltanto l‟intuizione è puramente spirituale.” (S. Weil) “La stessa Parola di Dio, che si manifesta come attività creatrice e che si manifesterà alla fine dei tempi nella nuova creazione, si è fatta carne in Gesù Cristo, è divenuta cioè storia.” (O. Cullmann)
1. Il fallimento della prospettiva razionalistica, antica e moderna, 1 consiste nel tentativo di trascrivere in termini politici, ossia naturalistici e allotrii, il limite della libertà umana, limite che invece è omogeneo alla sua natura spirituale, ed è rappresentato dalla verità. Solo la verità, ossia la credenza in un valore trascendente ogni potenza umana e che perciò sia fonte e ragione di obbedienza, può limitare la libertà dell‟uomo, cioè la sua intima e soggettiva volontà. Ogni limitazione e regolamentazione esterna ha un carattere puramente indicativo e relativo all‟agire sociale e collettivo dell‟uomo, incidendo sul suo lavoro quale opera contingente e
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La versione moderna del naturalismo antico è interpretata per primo da Machiavelli, il cui “errore filosofico fondamentale risiede nella sua dottrina antropologica: in primo luogo nella sua concezione unilaterale e naturalistica dell‟uomo come puro essere istintivo dotato di intelletto [che] riconosce soltanto l‟istinto del potere, assegnando ad esso un falso primato e attribuendo ad esso una sola componente, l‟istinto di dominio proiettato all‟esterno”: M. Scheler, Politik und Moral (1926-28), tr. it., Brescia 2011, pag. 88.
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mondana ma non può limitare la sua libertà, cioè la sua costituzione originaria di essere morale, capace di porsi nella prospettiva dell‟eterno, propria agli déi. La “rottura della legittimità” in conseguenza dell‟abuso della forza del Potere genera “lo sradicamento”, che sposta l‟attenzione dell‟uomo dalla dimensione dei fini eterni alla dimensine del semplice futuro, ed è questa finalità verso il futuro a provocare “l‟idea ossessiva del progresso e la sete di arricchimento e di avanzamento”. 2 La prospettiva morale unisce gli uomini sui fondamenti radicali della fede nella realtà del mondo, laddove l‟unità dei rapporti sociali in cui si articola la divisione del lavoro, o l‟unità definita dai rapporti di forza in cui si determina la relazione politica, è del tutto estrinseca e contingente, perché creata dall‟uomo e dall‟uomo disfabile. La “combinazione” cui si perviene con tale unità estrinseca pare rappresentare i suoi movimenti collettivi come quelli “di un sol uomo”,3 ma in realtà la massa collettiva è una in quanto priva d volontà e cioè di responsabilità, come collettività naturale, e non in quanto provvista di quella libertà che è propria solo del soggetto singolare, l‟unico moralmente responsabile delle sue azioni. Nel gruppo politico (partito, classe, nazione, Stato) c‟è unità meccanica, obbedienza conformista, e non unità morale, fusione di volontà. Perché questa avvenga, il leader politico deve presentarsi come figura carismatica, portatrice di verità trascendenti. Le ideologie secolari hanno tentato questo transfert, ma né l‟imperatore romano né il Fuehrer nazista hanno potuto superare l‟intima contraddizione di una religione secolare proposta insieme come verità di ragione (ideologia) e come un mito sottratto a ogni criterio di confutazione razionale. Ciò che il Potere può imporre è una volontà razionalmente universale ma pur sempre storicamente vigente in quanto interessante una collettività empiricamente determinata, e non può proporre una verità eterna, cioè una fede trascendente ogni determinazione storica perché originaria e inerente alla credibilità della stessa realtà. Ciò che rileva, nella determinazione della qualità specifica della verità rispetto al carattere universale dei concetti razionali, non è la sua effettiva maggiore durata temporale, ma la credenza nella sua eternità, e quindi il suo carattere trascendente e non disponibile. Inoltre, rispetto agli ideali
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S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 271. S. Weil, Réflexions, cit., pag. 312.
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razionali di bellezza e di virtù, che ineriscono sempre settori determinati dell‟esperienza umana, la nozione di verità coinvolge l‟intera esperienza umana, e pertanto è a sola intuizione della realtà avente un carattere essenziale di concretezza. Concreto, infatti, è l‟intero, laddove ideale è sempre la parte di un ineffabile tutto. Ciò, dunque, che vigila sul Potere è la considerazione totale a fronte della razionale determinazione particolare, la quale, giusta in sé, iuxta sua propria principia, può risultare ingiusta rispetto all‟intera esperienza umana, ossia rispetto al senso morale che solo una prospettiva imparziale può considerare superiore alle ragioni di parte.4 Questa superiore considerazione della realtà non nasce da un concetto razionale, non è il frutto logico della maieutica dialettica, ma viene evocata per intuizione, quale sapere originario che precede ogni successiva valutazione settoriale razionale, e si rifà, come nell‟anamnesi platonica o jungiana, alla realtà archetipa, fondativa di ogni nozione della vita empirica, che i Greci chiamavano Mito, racconto dell‟armonia del mondo. La intuizione morale della vita consiste nella visione della conciliazione dei diversi, dell‟armoia cosmica oltre ogni opposizione contingente, propria di una realtà dove vige il sentimento unitivo dell‟amore sopra ogni istinto polemico belluino legato alla sopravvivenza naturale e agli interessi egemonici particolari. Questo punto di vista superiore alle parti in competizione per la sopravvivenza o per il Potere, non può essere assunto all‟interno della prospettiva politica, sia pure razionalmente sistematizzata, ma solo da una posizione trascendente le visioni di parte, dalla quale esse possano essere governate con imparzialità. 5 E‟ questo l‟ufficio sommo del Governo, il solo che possa limitare la forza del Potere con il sentimento della libertà, e la sua funzione autorevole è
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Proprio la mancanza di considerazione della “totalità dell‟essere e del vivere umano” fa dello homo politicus machiavelliano la rappresentazione di “sarcastica e astratta” di un soggetto intento solo alla sua volontà di dominio, priva di ogni fondamento culturale e spirituale, intento a un motivo di potere isolato da qualunque idea e valore, una figura non dissimile da quella dello homo oeconomicus di Smith e dello homo libidinosus di Freud: M. Scheler, Politik und Moral, tr. it. cit., pagg. 90-91. 5 “La morale si fonda su scelte di valore che nn dipendono da situazioni di interesse e dalla loro omogeneità o disomogeneità”: M. Scheler, Politik und Moral, tr. it. cit., pag. 99.
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appunto quello di suscitarlo. Aver creduto di legare il sentimento morale della libertà alla volontà politica, necessariamente di parte, è un tipico portato ideologico del razionalismo, che ha ritenuto possibile realizzare l‟ideale interpretato dalla parte più forte a scapito degli ideali delle altre parti politiche, sostituendo la forza del Potere conquistato alla fede nella verità comune, cioè con il Governo morale. La politicizzazione della libertà ha sostituito all‟ufficio del Governo la volontà del Potere, facendo dell‟autorità morale il servizio esecutivo della forza politica egemone pro tempore, comportando la relativizzazione dei valori trascendenti, rendendoli immanenti e fruibili a libito della parte al Potere. La civiltà antica non conosceva la nozione di eternità ma solo di immortalità, per cui tendeva a coniugare la potenza del comando politico con la sacralità divina, cercando in questa la conferma di quella e nella volontà degli dèi il sigillo della giustezza di quella dei potenti. Un connubio funzionale al Potere e comunque interno all‟orizzonte politico, proprio della ragion pratica, che vedeva nella volontà divina la compiuta possibilità aspirata dai modelli d‟azione umani. Su questo presupposto il razionalismo moderno, perfezionando il furto prometeico, ha sostituito la tecnologia agli artifizi divini, assorbendo nella gestione del Potere anche la funzione del Governo. In mancanza di una concezione morale della libertà, questa si identificava con la volontà, ossia con l‟azione, la quale, all‟interno della concezione olistica della cultura naturalistica antica, aveva sempre un significato sociale. Con la razionalizzazione del Potere, tale significato sociale acquistò valore anche politico pro o contra il regime, la cui potenza consisteva essenzialmente nella capacità di uniformare le volontà dei sudditi, portando la loro molteplicità caotica all‟ordine unitario dell‟obbedienza universale. Da questo modello di conformità della volontà sociale alla volontà egemone del Potere emergeva l‟ideale di popolo come corpo politico unitario, che permanette al fondo implicito anche agli albori della teologia politica cristiana, al tempo di Eusebio di Cesarea (260-339), che per primo concepì un Impero romano sotto la guida di un imperatore cristiano, il divo Costantino, che presentava tutte le caratteristiche ideologiche dello Stato totalitario antico. Come narra Eusebio, l‟Impero, organismo considerato per l‟appunto simile a un corpo, fu radunato da Costantino dopo la battaglia di Crisopoli contro Licinio (324) “sotto un‟unica autorità comune a tutti [e] regolata dal potere monarchico, che giungeva ovunque, come da una
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testa”.6 “Quando ogni cosa fu sottoposta all‟autorità dell‟imperatore, grazie alla potenza del Dio salvatore, egli [Costantino] rese manifesto a tutti chi gli avesse procurato tali benefici e testimoniò che riteneva il Signore, e non se stesso, la causa delle vittorie, e ne diede l‟annuncio per iscritto […]”. 7 Nella prima di queste lettere, del 324, Costantino afferma che alla luce di fatti ancora più evidenti e di splendidi successi, risulta chiaro quanto il dubbio [sull‟onnipotenza di Dio] sia insensato e quanto grande sia la potenza del sommo Dio, dal momento che a coloro che venerano con fede la legge santissima e non osano scostarsi da quanto è prescritto si sono offerti copiosi benefici e una forza superiore li ha favoriti nelle loro imprese portando con sé buone speranze mentre, al contrario, per quelli che abbracciano il partito dell‟empietà i risultati sono stati corrispondenti alle loro stesse scelte. Infatti come potrebbe ottenere alcun vantaggio chi non riconosce Dio quale causa di ogni bene e chi neppure vuole venerarlo come è 8 doveroso? I fatti stessi conferiscono credibilità alle nostre affer mazioni. […]
Per accreditarsi il Potere viene legittimato dalla volontà divina, che ne coferma la giustezza delle sue manifestazioni confermandolo nelle sue prerogative politiche, prima fra tutte l‟instaurazione dell‟ordine sociale sotto forma di negazione dell‟anarchica molteplicità di forze, politicamente non armonizzate e perciò malvagie. Con prove chiarissime e della massima evidenza è risultato manifesto che grazie all‟opera del Dio onnipotente e ai suoi incoraggiamenti oltre che al soccorso che egli si degna di prestare incessantemente a mio vantaggio, la malvagità che un tempo pervadeva tutta l‟umanità è stata eliminata da ogni 9 terra che vede la luce del sole .
Se dunque le forze naturali non fossero state create nell‟ordine
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Eusebio, Vita di Costantino (da ora VdC), lib. II, XIX, 1, tr. it. a cura di L. Franco, Milano, 2015, pag. 183. 7 VdC, II, XXIII,1, pag. 189. 8 VdC, II, XXIV, 2-3, pag. 191-193. 9 VdC, II, XLII, pag. 207.
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provvidenziale della volontà divina, “senza dubbio una tanto grande difformità () e una tale divergenza ( ) di potenze () sarebbero state nocive per ogni essere vivente e per ogni cosa”.10 Il ruolo dell‟imperatore è di mediare tra la volontà divina e gli interessi umani, assumendo la funzione assegnata dai cristiani al Cristo quale Logos di Dio, al quale, in virtù della teologia arianea, il Figlio creato dalla Sua volontà, rimaneva subordinato. In tempi mutati, il ruolo di mediatore veniva assunto dal Cesare convertito alla fede, che diventava tanto strumento divino quanto fruitore della divina potenza, assumendo su di sé quel Potere mondano offerto a Gesù dal Diavolo e che egli, come Cristo, aveva rifiutato. Ma proprio l‟intercambiabilità della prospettiva politica, funzionale al Potere dell‟Impero, con quella teologica, funzionale al Potere della Chiesa, dimostra come entrambe siano espressive di una logica di potenza del tutto estranea al funzione propria al Governo morale, la quale presume quella distinzione dei ruoli che la concezione razionalistica del Potere esclude come sintomo di disordine e debolezza istituzionale, invece essenziale a determinare quel “limite” divino invalicabile alla forza umana e che proprio il connubio impedirebbe. “Costantino – scrive Eusebio - fu il solo e l‟unico imperatore di tutti i tempi che, intrecciata per Cristo una corona con i vincoli della pace, la offriva al suo Salvatore come un dono di ringraziamento davvero degno
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VdC, II, LVIII, 2, pag. 189. Si riprende qui, con altri termini, un concetto che non risale al Paolo della seconda Lettera ai Tessalonicesi, 2, 6-7, come ritiene M. Cacciari (Id., Il potere che frena, Milano, 2013) ma che è platonico, espresso nel Politico, XVI, 273 c-d, per cui si richiede e giustifica l‟opera benefattrice del Demiurgo divino di contenimento delle molteplici forze in naturale opposizione reciproca. Per analogia, il Potere imperiale funge da forza katechontica di impedimento alla dissoluzione sociale. Questa forza divina di contenimento della dissoluzione costituisce la fonte di legittimità del Governo politico, ossia dell‟ordine giusto (ovvero, per Platone, razionale) tra le forze sociali in competizione per la vita. Il concetto viene ribadito nel Gorgia, dove Socrate propone, sia pure ancora in modo confuso, la distinzione tra un Potere meramente legale, stabilito sulla mera forza, e il Governo legittimo, fondato sulla ricerca razionale del Bene ovvero della pubblica utilità. La condizione di “pace”, la del testo di Eusebio che è equiparata al Bene ( ), è garantita veramente solo dal Governo, che è ispirato da Dio. Ed è la pace ispirata al Bene che conduce alla “salvezza comune” (): VdC, II, LX,1-2, pagg. 223-225.
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di Dio, realizzando nella nostra epoca un‟immagine ( ) analoga a quella del consesso () apostolico”.11 In tal modo, il proselitismo cristiano passò dalla originaria conversione ( ) individuale per fede, alla nuva adesione di massa per disposizione politica, conseguente alla adozione del cristianesimo come religione imperiale. Posta in questi termini religiosi, la questione della evangelizzazione cristiana delle genti equivalse a quella della conservazione politica dell‟Impero cristianizzato a seguito della conversione di Cesare. Che l‟Imperatore possa essere delegato a svolgere la missione apostolica significa infatti che la politica diventa strumento della conversione. Questa consegna soteriologica segna l‟origine della teologia politica cristiana. Poco più avanti Eusebio non a caso paragona il convito regale presieduto da Costantino attorniato dai vescovi a Nicea alla “immagine del regno di Cristo”,12 dove l‟Imperatore faceva le Sue veci. Infatti, all‟imperatore “il Dio universale aveva assegnato il dominio sulla terra, e lui, a imitazione dell‟Onnipotente, aveva affidato loro [ai nobili] l‟amministrazione delle singole circoscrizioni dell‟impero”, anche se “tutti, al momento opportuno, avrebbero dovuto render conto del proprio operato al supremo sovrano”.13 Non a torto la Weil ha visto nella teologia politica cattolica il modello archetipo dello Stato totalitario, che però non è proprio del cristianesimo, ma appunto di quella dottrina teologica che adottò il razionalismo come supporto della fede e quindi nel suo ambito religioso la logica universalistica del naturalismo pagano. Senonché fu la religione cristiana che pagò i maggior prezzo del commercio col Potere, che simulò per calcolo utilitaristico la sua sincera attenzione al sacro, fino a rivelare col totalitarismo il suo vero volto, la maschera della volontà di potenza. 14 Il “sogno di una libertà illimitata”15 rientra nella accezione politicistica della libertà come potere della volontà, anziché come dovere morale di limitarla, e su quel fondamento la rivoluzione vuole renderla effettiva
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VdC, III, VII,2, pag. 255. VdC, III, XV, 2, pag. 265. 13 VdC, IV, XXIV, 4, pag. 377. 14 Sul rapporto tra la “simulazione”, come atteggiamento interno, e la “maschera”, come atteggiamento verso l‟esterno, si veda E. Canetti, Masse und Macht (1960), tr. it. di F. Jesi, Milano, 1981, pagg. 447-457. 15 S. Weil, Réflexions, cit., pag. 314. 12
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realizzando il sogno: capovolgere la prospettiva del limite, portando l‟infinito nel regno della finitezza. Ma tale ipotesi nasce dall‟idea di poter dialettizzare il male e il bene ponendoli sullo stesso piano ontologico, senza considerare che rispetto alla determinazione reale di ogni positivo ciò che viene escluso come possibilità negativa non è un equivalente al finito che-è, ma l‟in-finito non-essere, l‟infinita alterità del diverso da ciò-che-è, la molteplicità indeterminata che spaventava la mente geometrica del Socrate gorgiano. Ora, l‟idea di poter sostituire Cristo con Cesare nel ruolo di mediatore divino tra cielo e terra, presupponeva una riduzione formalistica della sostanza divina a una mera funzione razionale, e come tale interscambiabile, anticipando il processo generale avviato dal formalismo kantiano e perfezionato dalla dottrina positiva del diritto di Kelsen. 16 Ma l‟aspetto più interessante di tale riduzionismo teologico è per l‟appunto l‟omogeneizzazione del Potere secolare alla potenza divina, che eliminava in radice la necessità di pensare la persona del divino mediatore in termini trascendenti. L‟umanizzazione della persona divina in una figura del tutto secolarizzata è già in nuce nella teologia politica vetero-cristiana, che fa del Cristo mediatore un simbolo del Potere, trasfigurando la onnipotenza divina nella libertà intesa umanamente come “la possibilità di ottenere senza sforzo ciò che piace”. 17 E poiché lo sforzo è la regola del lavoro umano, l‟ideale della libertà diventa la liberazione dal lavoro. L‟innesto del principio idealistico nella sociologia marxiana è molto più spontaneo di quanto possa sembrare, così come la traslazione del concetto politico della libertà come potere volitivo del fare, nel campo economico come intraprendenza e arricchimento. Entrambe le traslazioni presuppongono la assimilazione dell‟in-finito altro-da-ciò-che-è-finito, al diverso come opposto dialettico, e quindi concependo il negativo come un altro positivo, omologo ma antitetico. In tal modo, inserendo il negativo nel processo di affermazione dell‟essere, il piano della positività razionalizzata diventa l‟orizzonte totale e immanente della realtà, entro il quale la dimensione del sacro acquista un valore funzionale all‟esistenza della totalità organica dello Stato, che diventa il fine stesso dell‟azione
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H. Kelsen- Treves R., Formalismo giuridico e realtà sociale, Napoli, 1992, pag. 216. S. Weil, Réflexions, cit., pag. 315.
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politica particolare. Infatti, nella rappresentazione eusebiana dell‟Impero cristiano, la salvezza spirituale e quella dell‟ente politico finiscon per confondersi, riproponendo in chiave universalistica la nozione ebraica di religione nazionale, contro la quale si affermò il cristianesimo. 18 Secondo la Weil, “esiste un altro modo di concepire la libertà”, ben diverso da quello di “un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione”, quello di “un rapporto tra il pensiero e l‟azione”, la concezione eroica della libertà, “propria della saggezza comune”, per la quale libero è l‟uomo le cui azioni procedono da un preventivo giudizio di relazione tra il fine propostosi e i mezzi idonei a conseguirlo. 19 L‟identificazione dell‟azione libera con quella razionale, emanciperebbe l‟uomo per la Weil dalla compulsione esterna della sua volontà, facendo la differenza tra la libertà e la servitù, che consisterebbe appunto nella obbedienza dell‟uomo a una fonte esterna alla sua volontà, si tratti delle “reazioni inconsulte del corpo o il divisamento altrui”. Ma che questa concezione della libertà sia “ideale” e astratta lo conferma il suo modello matematico, in cui “le difficoltà reali si presenterebbero come una sorta di problemi, per cui tutte le vittorie sarebbero come delle soluzioni
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Come notò M. Buber, “la pìstis cristiana è nata al di fuori delle esperienze storiche di popoli, è nata per così dire all‟uscita dalla storia”, e ineriva una presa di posizione noetica di fronte al mondo tale da presentarsi come “l‟azione di una persona che così facendo si separava dalla comunità del suo popolo”. Anche Paolo, parlando di Giudei e di Greci, non si riferiva loro “in quanto popoli”, interessandogli “solo la comunità fondata su nuove basi, che per natura sua appunto non è un popolo”, la Chiesa del “popolo di Dio”, la “cristianità, che per natura sua era qualcosa di diverso dai popoli, mentre questi continuavano come prima a caratterizzarsi per la propria specificità e per le proprie leggi”. Da questa condizione dimidiata l‟esistenza dei cristiani fu “come divisa in due sfere”, quella della “vita personale in quanto singoli e la sfera della vita pubblica in quanto membri dei loro rispettivi popoli”. Questo equilibrio resse “fino a che l‟ambito della persona poté attestarsi contro il potere decisionale dell‟istituzione pubblica. Ma nella misura in cui, nella nostra epoca, l‟ambito della persona è stato invaso da questo potere, la crisi è maturata” e, come lucidamente visto da Kierkegaard, “quello che il cristianesimo aveva apportato di specifico nell‟ordine della salvezza, la consistenza propria dell‟anima redenta, viene messo in pericolo”: Id., Zwei Glaubensweisen (1950), tr. it., Cinisello Balsamo, 1995, pagg. 204-206. Ma ciò che Buber attribuisce alla nostra epoca, in realtà, come abbiamo visto, è un fenomeno inscritto nella possibilità d‟essere concepita dalla teologia politica cristiana. 19 S. Weil, Réflexions, cit., pag. 315.
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tradotte in azione”.20 Un modello del tutto razionalistico, costruito sulla volontà come potere d‟azione, le cui determinazioni corrette si misurano sulla conoscenza più o meno ampia delle loro reali possibilità strumentali, sulle cui premesse si costruisce l‟idealtipo dello homo faber, il cui modello di Bene viene declinato nell‟accezione di “buono per”, cioè “adatto allo scopo”, proprio del politico e non del filosofo contemplatore del Bello.21 E lo scopo del “fare” è quello di riportare a sistema il molteplice, a semplificare la complessità, riducendo la libertà dei singoli entro alvei ortoprassici dettati da “schemi astratti di azione”. 22 Infatti, “è impossibile allo spirito umano di controllare tutti i fattori dai quali dipende il successo dell‟azione, anche apparentemente la più semplice”.23 L‟idea del controllo nasce dal presupposto che la ragione debba prevedere l‟esito dell‟agire umano. Di fronte alla impossibilità di realizzare tale paranoica pretesa, ci si appella al “caso” (hazard), l‟antica che diventa la “fortuna” machiavelliana, ben più “misterioso” della Provvidenza divina in quanto non rapportabile ad alcuna volontà cosciente. Tale “incontrollabile fenomeno vitale” non è che “il nostro corpo”, che rimarrà sempre per noi “fonte di ineliminabile mistero”, in quanto “la nozione di necessità, così come viene umanamente pensata, è riferibile solo alla materia”, la quale, essendo “completamente estranea al pensiero, […] non può essere regolamentata neppure in misura aprossimativa”.24 Stabilita la duplicità cartesiana dei due piani di realtà, si rapprsenta il piano dei fenomeni naturali come quello del molteplice e della necessità, e il piano coscienziale come quello dell‟unità ideale e della libertà, che cerca invano di imporsi sulla forza della natura. A tal fine sorge la crescente importanza degli strumenti tecnologici utilizzati di supporto al corpo ai fini di dominio della natura. Ma quando pure si sia riusciti a condurre a metodo il necessario lavoro occorrente a dar seguito alla libertà, si interpone un altro ostacolo, dovuto alla “profonda differenza di natura che separa la speculazione teorica dall‟azione”, la quale
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Ivi, pag. 316. Ved. a proposito H. Arendt, Vita activa, cit., pag. 166. 22 S. Weil, Réflexions, cit., pag. 318. 23 Ivi, pag. 317. 24 Ivi, pagg. 318-319. 21
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propriamente non può dirsi “metodica” , ma soltanto che sia “conforme al metodo”. La differenza è profonda, in quanto “chi applica il metodo non ha bisogno di concepirlo nel momento in cui l‟applica”, sicché “ciò che viene eseguito, non è un pensiero, ma uno schema astratto indicativo di una sequenza di movimenti, così poco intimi allo spirito che li esegue quanto lo è un precetto abitudinario o un rito magico”. 25 O una catena di montaggio, dove ognuno esegue una parte prescritta dal metodo, senza pur conoscerlo, come farebbero degli automi. O nella pura teoria, che prevede nozioni fruibili senza preventivo discernimento critico.26 L‟unica maniera di essere liberi, sarebbe di abbinare il lavoro metodico a quello operativo, come nell‟arte, magari cercando di stabilire “un certo equilibrio tra lo spirito creativo e l‟oggetto a cui si applica”. 27 Ma ancora un altro fattore perturbatore interviene a ostacolare la libertà dell‟uomo: la presenza degli altri uomini, che può costituire “l‟unico vero fattore di servitù umana”, ben più terribile e avvilente di ogni oppressione naturale. “Se c‟è infatti nel mondo qualcosa di assolutamente astratta e misteriosa, inaccessibile ai sensi e alla coscienza, è la massa (collectivité)”.28 Essa si accanisce selvaggiamente sull‟uomo ben più della natura, e più di questa temibile per il singolo. Esiste, nondimeno, un terreno dove il singolo domina la massa, quello del pensiero, poiché “le masse non pensano”. Il pensiero si eleva sulla massa e la giudica ma non la trasforma, non essendo la sua forza materiale ma spirituale. L‟essenza della forza spirituale è di essere impotente rispetto a quella materiale ma purtanto a essa indispensabile, in quanto incoercibile. Ogni sforzo esterno agisce sulla materia del corpo ma non può inibire il pensiero. 29 Se si volesse per ipotesi concepire una società basata sulla libertà del pensiero, in cui protagonsti e non sottomessi fossero i singoli individui, bisognerebbe che ognuno fosse in grado di auto-gestirsi con la propria intelligenza, rendendo inutile il Potere nato dai privilegi del sapere. Essendo unica la ragione e comune a tutti gli uomini, averla allo stesso grado non li renderebbe più estranei e impenetrabili l‟uno all‟altro ma liberi, eguali e fraterni, e la società pervasa dalla luce della ragione in 25
Ivi, pag. 320. Ivi, pag. 321. 27 Ivi, pag. 323. 28 Ivi, pag. 324. 29 Ivi, pag. 325. 26
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ogni ambito della vita materiale sarebbe trasparente a se stessa e a ognuno.30 Questa ideale società, prossima alla comunità evangelica, è tanto desiderabile quanto irreale, e consapevolmente ritenuta dalla Weil più lontana dalla realtà della stessa mitica età dell‟oro, ma può a suo dire costiture il modello di giudizio delle “forme sociali reali”. L‟aspetto paradossale di questa teoria sociale è legato alla sua stessa impostazione razionalistica, cartesiana e kantiana, la quale pone come oggetto del giudizio razionale una entità inesistente, un uomo appunto ideale astratto e non concreto, e su di lui sviluppa una trama di discorso assumendola come suo modello esistenziale. Il carattere utopico del discorso politico razionalistico è insito in questa premessa teoretica, in sé contraddittoria, tendente a rappresentare come la vera realtà quella inesistente, e irreale quella effettuale. Nel caso della Weil, la contraddizione è ancora più evidente che in Platone o in Kant, in quanto ella è consapevole della realtà sociologica e politica della massa, tanto da costituirla come l‟ostacolo più temibile per la persona individuale. Nondimeno, ella non riesce a prospettare alcuna soluzione sociale che non sia la trasformazione dell‟ente collettivo in comunità di soggetti individui, simile alla ekklesìa cristiana, ma all’interno dell’orizzonte politico configurato dal razionalismo greco, tale che il modello di società ideale non venga ipotizzato quale risultato dell‟analisi dialettica dei concetti politici virtuosi, ma destoricizzando singoli aspetti dell‟esperienza socio-politica umana “ripresi da un‟epoca determinata”, allo scopo di assumerli alla guisa di referenti normativi concreti al posto delle astratte categorie filosofiche. 31 Rispetto alla consapevolezza arendtiana del “carattere processuale dell‟azione”, la teoria della Weil rimane molto al di sotto di una comprensione adeguata delle dinamiche sociali e dei moventi dell‟azione soggettiva, intesi non in senso spirituale ma relativi al rapporto marxiano con la natura di trasformazione dell‟ordine spontaneo in ordine politico. Questo residuo naturalistico della teoria sociologica weiliana inficia l‟intima comprensione dell‟essenza spirituale della libertà, la quale, divenendo una qualità della forza politica, non elimina in radice il problema della relazione conflittuale tra gli uomini ma crede di risolverlo socializzando la forza
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Ivi, pag. 326. Ivi, pag. 327.
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detenuta dalle oligarchie politiche, assegnando utopicamente 32 la stessa dose di potenza-conoscenza a ogni singolo uomo, cioè la stessa parte di sovranità ideale, in virtù della quale si potrebbe a suo dire costituire una società di uomini liberi da soprusi esterni, e perfettamente democratica. La soluzione weiliana alla lotta per la potenza è impossibile all‟interno del concetto galileiano di forza, in quanto l‟equilibrio può stabilirsi solo tra forze costanti e prevedibili, sulle quali può agire la conoscenza dei moti relativi, ma per quanto riguarda i moventi umani, legati alla libertà, non può presumersi una fisiologia, e quindi una politica di intervento correttivo e di controllo se non relativamente ai corpi, per cui il Potere dell‟uomo sul proprio simile è avvertito spiritualmente oppressivo proprio in quanto riduttivo della personalità umana a vita materiale, l‟unica sulla quale può incidere la costrizione fisica, cioè la forza del Potere medesimo. Ma esattamente questa considerazione astratta e irrealistica dell‟esistenza umana conduce alla fondamentale instabilità dei regimi politici privi di riconosciuti limiti morali alla forza del Potere, che non potrebbe esercitarsi che su quei fondamenti per assegnare al proprio esercizio legale un crisma di legittimità. La originalità della morale agapica cristiana è nel concepire la forza dell‟uomo in termini non naturalistici ma spirituali, ossia come libertà proprio dalle forze naturali, compresa quella del Potere e della società da esso organizzata, per innalzarsi a una visione totale e meta-politica dell‟esistenza umana. Nella capacità dell‟uomo di astrarsi dalle condizioni di esistenza materiale, e quindi dal comportamento politico, 33 consiste il “miracolo” della fede nello spirito unitario del genere umano, all‟origine del quale vi è Dio, e perciò Spirito Santo. Per “maitriser la nature”, la scienza può servire relativamente alla gestione delle forze materiali, ma nel caso dell‟uomo, per conseguire un “felice equlibrio tra
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La Weil è perfettamente consapevole del carattere utopico della sua prospettiva teorica, ma avendo accolto la propsettiva razionalistica di quello che considera il “miracolo greco”, non sa uscirne, rimettendosi al concetto marxiano di lavoro. Ved. Réflexions, cit., pag. 332. 33
“Il comportamento politico è tecnicamente la guida e la condizione intenzionale del mio istinto di potenza verso un determinato scopo. Esso presuppone il rapporto conflittuale”: M. Scheler, Politik und Moral, tr. it. cit., pag. 68.
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spiritoe corpo”34 la scienza politica non basta, occorre l‟arte di Governo, fornita di un sapere che non è tecnico ma spirituale, omogeneo al sentimento della libertà che ne costituisce l‟oggetto precipuo. L‟attenzione all‟eterno nell‟uomo, la saggezza spirituale, non antepone la scelta individuale della salvezza all‟esigenza collettiva della sopravvivenza, ma fa della salvezza il télos trascendente della sopravvivenza biologica, senza il quale essa si perde nelle dinamiche emulative del Potere, antoconsuntive e contaddittorie. Perduto il fine della esistenza, una vita umana ridotta a lotta tra forze concorrenti, finisce per omolgarsi al corso stesso della natura, dalla quale l‟esistenza umana si definisce per emancipazione. In questo senso, la costituzione di uno spazio politico liberato dalla necessità delle leggi naturali tornerebbe alla soggezione primordiale alla natura che priverebbe di valore razionale ogni sforzo di civilizzazione dell‟uomo, prospettando la storia dell‟umanità come un mero quanto vano processo degenerativo dalla sana condizione primordiale. Il presupposto della coniugazione della forza vitale al fine spirituale è il riconoscimento culturale del luogo impolitico della verità, che non abita le stanze del Potere, e dunque non legato ad alcuna autonoma possibilità della sua forza di unire il molteplice umano in una durevole unità organica, ma l‟ambito della coscienza interiore dell‟uomo eterno, che è Dio, la cui immagine si riflette temporalmente in ogni singolo uomo, portatore per tale riflesso divino di una propria storia, nella cui singolarità spirituale si riflette, come individua libertà, la stessa totalità trascendente di Dio, lo Spirito eterno dell‟umanità, presso la quale lo Spirito eterno si incarna facendosi Storia spirituale, insieme eterna e comune, e temporale di ogni uomo. La morale, in quanto trascende la condizione particolare e contingente dell‟uomo materiale, non essendo un punto di vista tra i molti, non è soggettiva senza essere oggettiva, così come il Dio invocato da ognuno è quello in verità di tutti. Pensare l‟eterno è pensare tutto l‟uomo, e non la parte (come Stato, nazione, popolo, razza, classe o partito). E solo in questo pensamento dell‟uomo come coscienza morale, la forza del Potere politico viene trascesa come strumento d‟ordine e di pace fra gli uomini. Ogni altra determinazione ideologica rappresenta interessi settoriali e in quanto
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S. Weil, Réflexions, cit., pag. 331.
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parziali confliggenti con altri interessi concorrenti nella propria parziale affermazione sugli altri. Se lo scopo dell‟azione politica è il riconoscimento, pacifico o conflittuale, dell‟interesse particolare come diritto a costituirsi interesse generale, il fine della posizione morale è la testimonianza del dovere dell‟uomo a superare il conflitto degli interessi particolari per affermare la sua unità spirituale in Dio. Il dovere soggettivo è la fede, quello collettivo è la moralità. Un consorzio umano privo di moralità è anche privo di indirizzo politico, un Potere privo di Governo. Il rapporto tra il Potere e il Governo è lo stesso rapporto che sussiste tra la prosa letteraria e la poesia. Ogni testo in prosa è racconto di qualcosa anziché di altro, laddove il testo poetico evoca l‟origine di ogni racconto possibile, il fondamento stesso del senso della parola. La poesia resta il fine di ogni prosa non in quanto indichi una meta semantica anziché un‟altra, ma in quanto sta all‟inizio di ogni prosa letteraria e di ogni meta semantica, come il Mito sta al principio di ogni filosofare. La moralità, intesa come comportamento relativo ai fondamenti morali, ha carattere storico, in quanto privilegia o neglige alcuni su altri aspetti inerenti ai valori morali, senza però inficiarne il loro carattere eterno, implicante il significato stesso della esistenza umana. Per il carattere storico della moralità essa è legata alle forme istituzionali regolative dei comportamenti umani, senza le quali il libero convincimento individuale diventa non solo orientativo nel proprio orizzote di coscienza, ma anche dispositivo dell‟azione, che in realtà, anche se formalmente imputabile a un agente, in quanto significativa in riferimento a riconosciuti criteri di valore, è un comportamento che ha sempre una rilevanza sociale. Solo astraendo da tale rilevanza sociale il comportamento significativo è concepibile come azione indifferente ai valori. Quella degli dèi omerici era azione, pura determinazione di volontà, che mantiene l‟uomo nella condizione d‟impotenza ()35. E sulla sua falsariga si è venuto concependo la moderna volontà di potenza, attribuendola allo stesso “istinto del potere politico”, “indifferente ai valori spirituali”. 36 Ma la pretesa indifferenza valutativa dell‟azione volitiva è solo dell‟interpretazione scientifica, che l‟astrae dal suo senso e contesto
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Ved. E.R. Dodds, The Greeks and the Irrational, tr. it. cit., pag. 72. M. Scheler, Politik und Moral, tr. it. cit., pag. 114.
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assiologico per collegarlo causalmente al suo agente prossimo, assimilandolo a un mero fenomeno naturale. In realtà, ogni comportamento umano ha un senso normativo, cioè un significato socializzato. La società olistica arcaica induce al comportamento ortodosso attraverso la sanzione della “vergogna” o “indignazione” (), che costituisce il limite morale al “compiacimento” ( ) dell‟attore fortunato e alla “superbia” ( ) del suo successo.37 Nella società politica, in cui le norme di comportamento sono oggettivate in astratti modelli di condotta legali vigenti erga omnes, i doverosi limiti morali vengono abbinati alla libera volontà personale dell‟agente, imputato della responsabilità delle proprie azioni, la cui manifestazione eslege e irrazionale riguardo al buon fine comune, acquista valore di “irragionevole colpa” (), imputabile all‟imprevisto comportamento individuale ().38 Ma in che senso costituisce una colpa morale un comportamento di parte? Esattamente nel senso che la parzialità della condotta umana, scollegata dal fine comune perseguito collettivamente dalla società, diventa un atto d‟arbitrio, disfunzionale e stigmatizzato come dannoso all‟economia della virtù civica. Ciò vuo dire in altri termini che l‟azione che ubbidisca alla sola volontà dell‟agente, senza tener conto della considerazione generale, è irrazionale, essendo l‟uomo animale sociale. Ora, è esattamente tale azione irrazionale secondo il costume sociale a definire l‟atto politico moderno in termini di naturalistica “volontà di potenza” (Machiavelli, Hobbes, Nietzsche). Ma questa definizione dell‟atto politico non chiarisce la relazione che intercorre tra il “voler potere” e il “poter volere” (Scheler) in grado di agire. Tra i due momenti, dell‟azione individuale e del comportamento sociale, interviene la questione tecnica dell‟approvvigionamento e della fruizione degli strumenti operativi utili per conseguire il fine. Tale utilità, se è riservata all‟interesse di parte, seppure condotta ad effetto e dunque in sé logicamente efficace, è irrazionale rispetto al valore comune, ossia al comportamento socialmente corretto, e quindi è meramente economico. Ma il carattere economico di tale volontà parziale non cambia se relativa al Potere politico, in quanto “lo scopo di realizzare valori positivi nei
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Ved. E.R. Dodds, Op. cit., pag. 74. Ivi, pagg. 81-85.
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limiti dell‟ordinamento dei valori [etici]che predomina in una collettività”, attribuito alla politica, 39 pur allargando l‟interesse di parte al collettivo e non valicando il limite dell‟etica pubblica, si propone pur sempre di affermare ragioni parziali, che hanno in sé una loro plausibilità contingente ma che non rappresentano le ragioni imparziali dell‟uomo eterno, cioè le ragioni di Dio. Se la “realtà” dello Stato è la sua potenza, il fine proprio dello Stato è l‟efficacia del suo ordinamento giuridico funzionale alla sua persistenza. Ma se è una “forza reale”, ossia realmente potente, essa non può essere “sottoposta a un ordinamento giuridico”, 40 cioè a una sovranità superiore che, in quanto più potente, sarre anche più “reale” della potenza dello Stato. Perché una forza potente ammetta un potere superiore o deve subirlo a seguito di un conflitto, ovvero deve spontaneamente riconoscerlo in virtù del suo carattere trascendente. Nel primo caso, le forze in confitto politico sarebbero omogenee, e il terreno di scontro comune; l‟esito sarebbe un accordo giuridico di non belligeranza a varia definizione di oneri e di diritti. Nel secondo caso, invece, il carattere spontaneo del riconoscimento avrebbe a oggetto la credenza in una forza maggiore, e avrebbe come conseguenza una auto-limitazione della propria forza, ritenuta incommensurabilmente impari, come appunto nei confronti della in-finita potenza divina. Nel caso del conflitto tra forze politiche, l‟equilibrio conseguito può sempre essere rivisto, laddove l‟imparità del rapporto dell‟altro caso non ammtette alcuna ipotesi di revisione degli equilibri. Solo uno Stato che aderisca a un principio eterno superiore alle sue forze reali può aspirare a conseguire la stessa eternità del rapporto, ponendosi come il potere fiduciario della potenza celeste. Da qui deriva il carattere mitico della fondazione dello Stato antico, che aspirava alla stessa sacertà delle divinità che aveva deciso di servire. Lo Stato razionalistico, invece, stabilendo simbolicamente che l‟atto di fondazione del consorzio sociale sia un patto giuridico tra eguali sovrani parziali, lo omologa a un rapporto politico tra forze in conflitto che approdino alla pace. Anche nel caso di un accordo leonino con il Leviatano, nulla toglie alla possibilità che esso,
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M. Scheler, Politik und Moral, tr. it. cit., pag. 119. Ivi, pag. 120.
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per circostanze fortuite non preventivabili all‟atto della sottoscrizione del patto civile, possa modificarsi, riaprendo il confitto tra le parti già pacificate. Ciò significa che la costituzione politica, anziché mitica, dello Stato è intrinsecamente polemica, ossia prevede nella sua realtà di potenza il rapporto conflittuale amico-nemico tra parti essenzialmente omogenee ma di diversa entità potenziale, il cui carattere contingente può variare alterando di conseguenza il rapporto delle forze antagoniste. In questo presupposto di sostanziale omogeneità delle parti in conflitto politico si delinea in nuce il principio democratico della “sovranità popolare”, la cui idea non si può logicamente respingere dopo aver postulato la natura puramente volitiva del Potere superiorem non recognoscentem dello Stato quale “volontà collettiva fondata su azioni (atti sociali) degli individui”, i quali se “vengono meno, lo Stato scompare”.41 Ma proprio l‟identificazione delle “azioni” soggettive con gli “atti sociali”, ossia con i comportamenti, conduce alla definizione dello Stato come “quella organizzazione volontaria umana, superiore e sovrana, che esiste in un preciso momento storico, [come] una „persona collettiva‟ individuale e concreta”, la quale in considerazione della sua astratta generalità giuridica, “non è in alcun senso sottoposta alle norme che valgono per le singole persone”, quelle cioè etiche della comunità concreta.42 Si viene così a confondere la durata dell‟istituzione storica Stato con l‟eternità dei princìpi morali, equiparati a “un sistema di prescrizioni tecniche destinate ai singoli individui”, equiparando di converso il deposito dottrinale della Chiesa a una ideologia politica secolare. Ed è a seguito di tale omologazione dei fondamenti morali eterni con i princìpi etici dello Stato assolutistico di diritto che è potuta insorgere storicamente la contesa tra Stato e Chiesa sul deposito fiduciario secolare della sovranità divina. Infatti, l‟esigenza di mantenere la differenza qualitativa e verticale, e non meramente quantitativa e orizzontale, tra morale trascedente e politica di potere, ha indotto Eusebio prima e quindi Dante a teorizzare una entità sovrana secolare fondata su una concezione sacrale del Potere, che fondesse insieme la forza politica come volontà di potenza e l‟ispirazione divina del Governo morale, intendendo però alla maniera naturalistca greca, la forza politica come
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M. Scheler, Politik und Moral, tr. it. cit., pagg. 120 e 121. Ivi, pag. 123.
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volontà di potenza, e l‟istanza morale come legame etico-religioso, secondo la tipica trascrizione teologico-politica romano-alessandrina del cristianesimo. Il programma eusebiano e dantesco parte dal riconoscimento veritiero che il Potere, se voglia costruire la pace sociale, non possa essere limitato da un altro potere concorrente, poiché il conflitto intestino allo Stato ne minerebbe la solidarietà morale; nel senso che la forza politica, nel momento in cui si accinge a governare lo Stato, debba auto-limitarsi e trasformare la sua disposizione polemica in amministrazione, ossia nel Governo. La mutazione della forza politica in amministrazione è di tipo qualitativo, poiché la forza politica si rivolge verso il nemico, l‟amministrazioe al governo degli amici. Sono due funzioni diverse, che non possono essere assolte entrambe dal Potere politico, discriminante il nemico dall‟amico. Una volta pacificata, la società va governata. Il Governo sociale è di tipo etico, e non politico, perché interessa la gestione dell‟amicizia, fndata sul principio di solidarietà, e non di rivalità. L‟estensione universale del principio politico nell‟ambito dei rapporti sociali provoca la dissoluzione di ogni unità etica, e quindi della stessa comunità ecclesiale cristiana, per cui l‟attività di contenimento della dissoluzione politica, l‟azione katechontica, consiste nell‟impedire tale universalizzazione del principio politico limitando la forza del Potere. Non già ad opera di un altro potere concorrente ma omologo nella tendenza espansionistica, ma bensì da un contro-potere di natura morale esercitato da una autorità carismatica, predisposta alla legittimazione dell‟esercizio della forza politica. Ora comprendiamo bene il significato di questa “legittimazione”, che è lo stesso di “limitazione” e di “contenimento” del Potere di Cesare. In Eusebio, il katechon era interno al Potere politico dell‟Imperatore, inteso come persona fisica idealizzata,43 e non come istituzione, e agente
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Sulla “idealizzazione” di Eusebio della figura di Costantino ha scritto R. Farina, il quale il “carattere tutto particolare” del De Vita Constantini, che “non è una biografia , non un panegirico nel vero senso della parola”, si presenta come la rappresentazione della “figura dell‟Imperatore cristiano ideale”, nel senso di “una trasfigurazione, una cristianizzazione, una soprannaturalizzazione di tutto ciò che l‟Imperatore ha fatto”: L’Impero e l’Imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea. La prima teologia politica del Cristianesimo, Zurigo, 1966 pag. 22. Vi è da notare che la “idealizzazione” della figura dell‟Imperatore quale Monarca cristiano deve comprendere anche, e forse soprattutto,
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dunque, come in ogni persona di fede, in interiore homine. Invece in Dante il contenimento è oggettivato nella dinamica delle due istituzioni storiche principali del Medievo, la Chiesa e l‟Impero, le quali, nella prospettiva monarchica, devono armonizzarsi funzionalmente al fine soteriologico comune. Senza la determinazione di questo Bene comune, il Potere si risolve nella sua affermazione di potenza totalitaria, che può eliminare l‟avversario senza sedare però il conflitto e conseguire quindi il ruolo di Governo. Non si governa politicamente, ma solo si può comandare al subalterno. L‟esercizio del Governo si esplica attraverso l‟autorevolezza morale dellautorità che lo esercita, in virtù della quale essa viene riconosciuta come vincolante da chi ne è destinatario. Tale riconoscimento dell‟autorità morale del Governo consiste nella credenza stessa della sua autorevolezza. Senza tale credenza, non può esercitarsi alcuna autorità di Governo morale. Ne consegue che l‟unità monarchica in senso eusebiano e dantesco non possa essere conseguita senza la preventiva esistenza della fede cristiana come valore morale comune, tale da costituire il fondamento dell‟etica pubblica, ossia dello stesso esercizio del Governo, il quale perciò è “etico”, dversamente dallo Stato, che, in quanto detentore della forza maggiore, invece è “politico”. Non pervenendo a questa unità armonica tra il Potere politico e il Governo etico, la società europea moderna ha assistito, con la lotta tra la Chiesa e gli Stati, anche alla csttuzione interna ad essi dei due momenti diversi e imprescindibili per il funzionamento di ogni organizzazione sociale. Infatti, la Chiesa ha sviluppato al suo interno un modello totalitario di chiara fisionomia politica, mentre lo Stato tendenzialmente assolutistico ha dovuto frammentare l‟esercizio del Potere in distinte realtà istituzionali allo scopo di pervenire a un loro bilanciamento neutralizzatore di ogni rispettiva pulsione egemonica, con l‟unico esito di scaricare la tensione espansionistica del Potere verso l‟esterno, verso gli
considerando il suo valore paradigmatico, ciò che l’Imperatore dovrebbe fare per costituirsi nocchiero (, il termine è platonico) della cristianità. In tal senso, quanto nella rappresentazione della biografia eusebiana non rientri nella vita storica e nel panegirico tradizionale va attribuito appunto alla sua trasfigurazione di Costantino quale modello ideale di imperatore cristiano, quale egli fu in parte e che avrebbe dovuto essere. E‟ appunto la idealizzazione a trasformare la figura concreta in una rappresentazione ideologica.
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altri Stati, considerati potenziali nemici e concorrenti internazionali. Infatti, il mancato riconoscimento formale di una limitazione di forza del Potere statale a opera di una riconosciuta autorità morale, non ha impedito quella perniciosa universalizzazione del conflitto politico che impedisce ogni pacifico esercizio di Governo, sia pure esteso in scala internazionale. Ma proprio per evitare questo esito infausto, la esigenza monarchica è stata abbinata dai due teorici cristiani alla dimensione imperiale del Potere, la quale richiedeva a sua volta la sussistenza di una autorità katechontica universale, cioè la Chiesa. Ma per addivenire a una armonizzazione tra il Potere secolare e l‟autorità morale erano indispensabili due prioritarie condizioni: la prima, che entrambe le istituzioni storiche della Chiesa e dell‟Impero fossero la espressione simbolica () rispettivamente dello Spirito divino del Cristo e della infinita potestas di Dio (). Occorreva, cioè, che la Chiesa riconoscesse la natura divina del Potere secolare, della quale pertanto non era tributaria alla autorità religiosa, come lo Stato riconosceva alla Chiesa la autorità morale. Dal punto di vista ecclesiale, non si trattava di ammettere una parificazione dei due poteri, tra loro essenzialmente diversi, bensì di riconoscere la funzione divina del Potere secolare, senza il cui crisma sacrale era destinato a esprimersi in termini di mera forza naturale detenuta da una potenza più grande di altre, come infatti è avvenuto nella cultura moderna. Non ammettendo la Chiesa la sacertà anche del Potere imperiale, la sua esplicazione ortodossa veniva consegnata alla recta ratio della sua legislazione, ossia alla forma giuridica dei suoi atti di forza, sui quali interveniva a posteriori il giudizio morale della Chiesa. Da qui la natura giurisdizionale del tribunale morale ecclesiastico, che procedeva a giudicare la vita politica dello Stato e quella civile dei cittadini, anziché a governarle.Ma da qui altresì la natura personale dello Stato, che, a differenza della natura personale dell‟uomo, era privo di essenza spirituale. Da qui l‟idea razionalistica di una politica “in alcun modo subordinata alla legge morale”,44 e di uno Stato al di sopra del quale ci sia “alcuna autorità terrena che possa dirgli „tu devi‟”. 45 Uno Stato sovrano è
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M. Scheler, Politik und Moral, tr. it. cit., pag. 127. Ivi, pag. 129.
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un ente di potere assoluto (superiorem non recongnoscens) fornito di volontà auto-noma, vincolata solamente dalla sua stessa volontà normativa, ossia dal diritto positivo emanato dallo Stato e garantito dal suo Potere. La seconda condizione prioritaria, era che l‟armonia unitaria delle due autorità, laica ed ecclesiastica, non fosse conseguita attraverso un accordo giuridico (pactum) tra istituzioni autonome, ma che fosse ricercata nel comune riferimento al principio divino dal quale derivavano per emanazione spirituale. In tal senso, non erano le volontà dei rappresentanti a dover trovare un accordo giuridico-politico, ma era la loro missione storica a costituirli come espressione naturale e finita della divina realtà trascendente le loro rispettive storiche forme istituzionali. Infatti, l‟unità che è in Dio doveva ispirare l‟unità delle due nature umane, ognuna delle quali era rappresentata, per l‟essenza spirituale, dalla Chiesa e, per l‟essenza naturale, dallo Stato. Per questa ragione trascendente e originaria, la forza del Potere naturale dello Stato doveva essere limitata dall‟autorità spirituale della Chiesa, non in quanto istituzione giuridica a sua volta di potere, ma in quanto testimone della fede, ossia del principio fondamentale della stessa realtà comune. Determinandosi invece come realtà giuridica, come ente istituzionale mondano, la Chiesa ha indirettamente legittimato l‟assolutismo statale, facendo del rapporto tra politica e morale un contenzioso giuridico vertente sulla emancipazione/subordinazione della ratio d/alla fides, concepite entrambe come forze indipendenti in cerca di reciproca legittimazione, alla stregua del lodo tra il servo e il padrone della parabola hegeliana. La conseguenza principlae di tale contesa giuridica fra organismi sedicenti totalitarii fu, rispettivamente, la politicizzazione della attività della Chiesa confessionale e la sacralizzazione del Potere dello Stato laicizzato. Diversamente, il riconoscimento della natura trascendente e misteriosa del Potere, omologa alla forza vitale della natura, lo avrebbe liberato dalla sua ipoteca razionalistica pagana e assegnato all‟ della creazione, partecipe in modo speciale, in quanto precipuo dell‟esistenza umana, della redenzione universale. Soltanto il Potere, infatti, è soggetto sia alla degenerazione della lotta belluina pianificata entro la stessa specie umana, come nessuna altra specie vivente, che a una destinazione assiologica, superatrice dell‟istintuale conatus dominandi. Questa destinazione non sarebbe prescritta al Potere in virtù della determinazione
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razionale del Bene, ma in conseguenza della sua testimonianza storica operata dalla stessa Incarnazione di Cristo, che costituirebbe pertanto il modello, non teoretico come quello idealistico, ma esistenziale dell‟uomo vero ricercato dalla filosofia fuori della storia comune. La visione cristiana dell‟uomo, invece, rinviene l‟esperienza della verità all‟interno della costituzione spirituale dell‟essere umano, il cui logos di essenza divina può governare il destino costituito dalla sua finitezza naturale, come nella cosmica è il Logos del Figlio a governare la Storia.46 Così come il mediatore tra Dio e l‟umanità della escatologia evangelica non è il postulato cosmologico del razionalismo platonico, parimenti il Governo del Logos cristiano non è il Potere della ragione in senso naturalistico greco, quale applicazione tecnica del modello antropologico ideale attraverso lo strumento della politica, ma è la manifestazione provvidenziale della dimensione trascendente entro la Storia umana. La prospettiva escatologica nei due casi è affatto diversa. Infatti, nell‟accezione razionalistica, l‟ dell‟uomo empirico al modello ideale è di tipo naturalistico, definito attraverso la ricerca dialettica del télos razionale, laddove l‟uomo cristiano è originariamente imago Dei, sicché la nei due casi è del tutto diversa, esprimendo nel caso filosofico la consapevolezza della realtà oggettiva dei costrutti razionali, ossia delle Idee, mentre nella dimensione cristiana la conversione spirituale della coscienza individuale inerisce alla disposizione della fede come fondamento della scelta esistenziale a favore della salvezza. Il fine razionale della filosofia è conseguibile attraverso la virtù politica, ossia attraverso la pratica virtuosa della politica guidata dalla ragione. Il fine soteriologico della fede cristiana non può essere conseguito da una pratica politica strumentalmente razionale, ma solo attraverso il Governo morale della politica, ossia la sua consapevole limitazione del suo potere di fronte al fine soteriologico stesso. Se i fini della politica sono molteplici, e pari alla pluralità delle forme ideali della nostra coscienza razionale, il Logos divino è unico, ed è Cristo, figlio di Dio. “La ragione
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R. Farina, Op. cit., pag. 31.
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essenziale dell‟unicità del Logos è l‟unicità del Padre”. 47 Ciò vuol dire che non può esistere alcuna vera unità fra gli uomini che non sia spirituale, ovvero riferibile alla unicità spirituale di Dio. Ogni altra unità umanamente concepibile, come ad es. quella politica dello Stato, è fittizia e inautentica, e perciò inevitabilmente instabile e transeunte, perché stabilita sulla dimensione naturale della finitezza. Questa consapevolezza della inanità del tentativo politico di costituire l‟unità del genere umano delimita la volontà universalistica del Potere a costituirsi ragione di se stesso, fondandosi sulla propria forza. La pretesa auto-fondativa del Potere deriva dalla sua costituzione umana e dalla sua destinazione puramente naturale, cioè razionale. Se però al Potere viene riconosciuta l‟origine e la sua destinazione divina, partecipe dunque della essenza spirituale dell‟uomo, esso non potrebbe fondarsi su postulati di ragione né essere abbandonato alla mercé del male diabolico, insito nella tendenza esclusivistica e dicotomica del politico. Esattamente la tendenza politica del Potere a risolversi nella ragione del più forte potrebbe scongiurarsi nell‟assumerlo entro l‟economia della salvezza in funzione strumentale al Governo morale del Logos divino.48 La caratteristica principale del Governo morale (esercitato in funzione limitatrice) del Potere è, similmente a quella del Logos divino, di dare ordine giusto al mondo assegnando a ciascuno il suo posto, in cui consiste l‟amministrazione della Giustizia ( ). Per questa sua funzione ordinamentale l‟azione di Governo si distingue sia dall‟ordine spontaneo della natura, soggetto a quella molteplicità incontrollabile denunciata da Socrate nel Gorgia, e sia anche dalla politica, il cui criterio d‟ordine è la legalità stabilita dalla cogenza della forza. Il decisore politico schmittiano mette in atto una volontà soggettiva, un ordine, il cui potere incisivo deriva dalla forza che ne consente l‟efficacia effettuale. Che tale forza cogente sia legalizzata, ovvero legittimata da considerazione di carattere etico (la forza maggiore dello “stato di eccezione”), essa rimane comunque un atto di volontà, soggetto al posteriore giudizio di realtà idoneo a confermarlo o a confutarlo. L‟ipotesi che lo Stato sia una “persona collettiva individuale e concreta”,
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R. Farina, Op. cit., pag. 41. Sugli attributi del Logos divino in riferimento al catalogo di Eusebio, ved. R. Farina, Loc. cit., pagg. 53-65. 48
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è una fictio juris postulatoria, così come la teoria che essa “non è in alcun senso sottoposta alle norme che valgono per le singole persone” 49 è solo una superstizione della immaginazione giuridica, che contrasta con l‟assunto che lo Stato “è, agisce, vive soltanto nelle persone che lo fondano” e che se “vengono meno, lo Stato scompare”. 50 Il contrasto è tra l‟assunzione di Stato ideale come realtà giuridica collettiva, che in quanto persona ideale non dismette di essere con la fine delle persone che empiricamente lo costituiscono, e la descrizione della condizione effettuale, coincidente con le persone esistenzialmente reali che lo costituiscono. Attribuire alla persona collettiva una realtà diversa da quella individuale conferisce alla volontà maggiore un carattere etico che manca alla volontà minore e singolare. E‟ l‟etica del numero, in base alla quale la forza maggiore deve dominare sulla minore perché può farlo. Ma questa è solo una credenza, che non dice nulla circa l‟intrinseco valore morale o di verità di quella potente possibilità. Infatti, etica è la credenza condivisa e oggettivata, che può differire dal principio morale costituito dal fondamento veritativo, il quale fondamento non ha la sua verità nella condivisione, cioè nella oggettiva credibilità (legata alla tradizione, ossia alla durata, la quale è pur sempre durata di una credenza comune oggettivata dall‟autorità del tempo, come nel caso della teologia mitica), ma in sé stesso, nella sua ipseità, o “perfetta sapienza” (), che è vera oggettività (quale quella rivelata dall‟Incarnazione). Proprio del fondamento morale è la perfezione della sua unicità e inalterabilità della sua verità, rispetto alla quale la sua credibilità e condivisione è una condizione irrilevante. Così come è irrilevante che l‟umanità conosca la potenza di Dio, che era in vigore anche prima della Rivelazione. Ciò che rileva ai fini della effettualità della verità è la fede nel fondamento di realtà, la , la quale sta alla noetica come l‟ sta all‟. La fede nel fondamento di realtà non può venir meno senza la sussistenza stessa della realtà, laddove l‟ignoranza filosofica o la credenza idolatrica non inficiano l‟esistenza della realtà e della verità. Ciò comporta che all‟interno dell‟orizzonte di verità non può sussistere alcuna volontà, essendo la verità unica e perfetta in sé, e come tale non alterabile ma soltanto partecipabile, sicché rispetto
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M. Scheler, Politik und Moral, tr. it. cit., pag. 123. Ivi, pag. 121.
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alla volontà la verità è il suo limite. Ed è tale limite a legittimare la volontà ad essere ciò che è, ossia ad essere non-verità. Il carattere di negatività della volontà, il suo essere non, è la realtà molteplice delle opinioni, ossia delle varie volontà che si confrontano e si scontrano per riconoscersi e condividersi, senza però mai giungere alla verità, alla perfetta e unanime positività d‟essere, che è negazione delle volontà. Il destino polemico della volontà è lo stesso che incombe sulla politica quale scontro di potenze (). Il limite insuperabie della forza politica non è una forza maggiore, ma una condizione superiore che nega la condizione di limitatezza della forza, la sua relatività rispetto a una possibile forza maggiore. Soltanto la verità può limitare la possibilità, ossia la libertà del volere dell‟azione politica. Infatti, anche “gli altri”, la “collectivité” di cui parlava la Weil, limitano la nostra volontà nei termini stessi del nostro relativo potere, cioè possibilità di volere, ma in altre condizioni, di maggior potere, la nostra volontà può dominare la massa. Ciò che invece può limitare ogni Potere possibile, ovvero ogni possibilità di potere, è la verità, che segna il limes invalicabile a ogni opinione e volontà di volere ciò cui si crede. E soltanto la verità è necessità, mentre ogni altra limitazione alla volontà e libertà è solo possibilità, alterabile e contingente. Rispetto alla libertà che anima la vita volitiva dell‟uomo, la necessità che limita la libertà e la volontà limita anche la vita dell‟uomo. Ciò che limita la vita dell‟uomo è la morte. La verità della vita dunque è la Morte, 51 e non l‟Essere dell‟ontologia greca. E la verità della Morte non può dunque pensarsi alla stregua di un ente metafisico, rispetto al quale essa non è reale. La non-realtà ontologica della Morte, quale verità e limite dell‟Essere, è l‟eternità dello Spirito che limita la durata del tempo e nega la sua insuperabile finitezza. La Morte, cioè la realtà spirituale, negando la vita la mantiene in essere, la salva, così come la Verità salva la possibilità della libertà che costituisce la vita spirituale dell‟uomo. E salvare vuol dire mantenere in vita la possibilità, contenere la libera volontà limitandone la forza. E‟ questa la essenziale funzione
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L‟idea eusebiana, espressa nei Commentaria in psalmos, per cui “il Logos assumendo il corpo ha potuto sconfiggere la morte”, intende la morte fisica dell‟essere empirico, e non la realtà spirituale altra rispetto alla realtà della vita naturale. Ved. R. Farina, Op. cit., pag. 79.
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soteriologica del Logos cristiano, il quale, incarnandosi nel tempo, “stabilisce i confini della vita e della morte”, esercitando una amministrazione “concepita soprattutto come una conciliazione degli opposti […] elementi del mondo [i quali] si scinderebbero, se non fossero tenuti insieme dal Logos, che è il loro vincolo, la loro dunamis vivente che li mantiene in un‟unità armonica, [costituendosi egli solo] il legame della molteplicità dell‟ universo, la sua unità, il suo cuore”. Non a caso “il più importante degli attributi che Eusebio frequentemente dà al Logos è ”.52 La salvezza del Logos consiste nell‟impedire la dissoluzione del mondo da parte della volontà di potenza, e dunque di contenere () la divisione molteplice operata proprio dalla ratio excludendi della dalettica, in sede teorica, e della politica, in sede pratica. E coloro che, come i Giudei, non accolgono il Governo salvifico del Logos, “saranno puniti con la dispersione”. 53 Qual è il fine storico della mediazione soteriologica ( ) del Logos? Esso è lo stesso “ideale di ogni regno [terreno]: la civiltà”,54 intesa da Eusebio come armonia di stabilità () politica, garantita dal Potere imperiale, e di giustizia () ammnistrativa, assicurata dal Governo morale della Chiesa, le due potenze, “il Cristianesimo e l‟Impero, che, unite, formeranno l‟Impero cristiano”. 55 La necessità di stabilire un Impero cristiano risiede pertanto nel fine soteriologico della riconciliazione dell‟elemento naturale dell‟uomo, dominante nella sua condizione lapsa, con l‟elemento spirituale impersonato dall‟evento cristico della Incarnazione, il cui “scopo primario [è] quello di riportare gli uomini alla conoscenza di Dio, che avevano smarrita”.56 Ma la santa mediazione del Logos, tesa a “ricostituire il Regno del Logos sugli uomini”, non interviene in un momento qualunque della decadenza umana che precede l‟Incarnazione, ma viene preparata dalla condizione più favorevole all‟avvento di Cristo, che è quella della pax augustea. L‟Impero romano viene ad essere simbolicamente equiparato, come
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R. Farina, Op. cit., pag. 49. Ivi, pag. 69. 54 Ivi, pag. 74. 55 Ivi, pag. 75. 56 Ivi, pag. 79. 53
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abbiamo visto, al “corpo” politico che ospita l‟anima, e concepito perciò come uno “strumento” e una “immagine” del Logos. Ciò vuol dire che il rapporto tra la carne () e lo spirito ( ) dell‟uomo è accidentale, e che l‟Incarnazione, quale strumento della divinità, è una Teofania, che ha la qualità di essere “universale e definitiva”, che si serve a scopo pedagogico degli strumenti della parola, dei miracoli, della morte e della resurrezione di Cristo per “dimostrare la verità”, ossia che “il Logos è Dio” e che “l‟anima è immortale”. 57 La perdizione della coscienza umana della luce divina coincide con la perdita del Governo sugli uomini da parte degli angeli, che induce la benevolenza divina () a inviare l‟Unigenito a governare gli uomini e fondare un nuovo Regno. L‟Incarnazione dunque “segna la fine della barbarie e dell‟inciviltà nel mondo”, e quindi con la congiunta “fine delle tirannie, delle democrazie, della poliarchia plurinazionale, c‟è il sorgere d‟un unico Impero sopranazionale monarchico”, la cui costituzione corona “gli sforzi del Logos per la salvezza della umanità” e porta a compimento “l‟ dell‟Incarnazione”.58 L‟Incarnazione inaugura il Regno del Logos appunto incarnato, ossia di Cristo in quanto uomo,59 e come tale persegue un disegno di Governo, già sperimentato da Davide presso i Giudei, ma, con l‟Avvento, esteso universalmente a tutta la terra e a tutte le genti, come promesso da Dio nel Vecchio Testamento, e destinato a durare in eterno.60 Il Regno di Cristo è “spirituale” ( ),61 cioè non politico, e dunque non fondato sulla sottomissione ottenuta dalla forza ma sulla fede generatrice di spontanea adesione ( ) all‟autorità divina, che non ricerca perciò gloria e onori terreni, da parte di un popolo rinnovato () per virtù () che abbia superato l‟irragionevolezza (), la stoltezza () e il peccato (), emancipandosi per conversione di fede dal dominio del diavolo (), ossia di un despota il cui Potere si basava su quelle abiurate caratteristiche. Ciò significa che l‟appartenenza al Regno
57
Ivi, pagg. 80-81. Ivi, pag. 82. 59 Ivi, pag. 95. 60 Ivi, pag. 97. 61 Ivi, pag. 98. 58
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spirituale di Cristo è universale “di diritto”, cioè elettiva e potenzialmente estesa a l‟intero genere umano, mentre lo sarà “di fatto solo alla fne del mondo, con la seconda Venuta [di Cristo], quanto tutti gli uomini accetteranno effettivamente il Suo Regno”, 62 secondo le profezie di Daniele e di Isaia. Mettendo da parte l‟aspetto escatologico della questione, l‟attenzione va posta qui sulla analogia tra il corpo singolare dell‟uomo convertito dalla fede e il corpo sociale compattato dal Potere politico. E‟ chiaro che, nel caso dell‟uomo singolo, la conversione è una questione di coscienza, di carattere morale; laddove, nel caso del corpo sociale, è una questione politica, di carattere etico. Se nella conversione della singola coscienza il tramite della fede è Cristo, nel caso della conversione del collettivo sociale, il mediatore diventa l‟istituzione politica, il Potere, e dunque l‟Imperatore. E così l‟Impero diventa il corrispettivo politico del collettivo ecclesiale, della Chiesa, e da qui l‟esigenza di un accordo armonico tra le due autorità. Così posta la questione, è evidente la pretesa della Chiesa, rappresentante dell‟anima spirituale del Regno, di guidare il corpo politico dell‟Impero. Ma è comprensibile anche la resistenza del Potere a sottomettersi all‟autorità ecclesiastica, posto che il “corpo” sia la “casa” dello Spirito divino, e pertanto elemento “santo ed immortale”. 63 Il contenzioso tra Chiesa e Impero nasce dalla ambigua lettura teologica del Regno di Cristo, che per un verso lo si considera , cioè “celeste”,64 e per altro verso che è composto da “tutte le genti” del mondo terreno come celeste ( ), tanto “viventi” che “morti” ( ).65 Se però la sede eterna del Regno celeste è la Gerusalemme celeste, cioè lo stesso Regno di Dio, la sede terrena del Regno, cui si accede di diritto col battesimo, la Gerusalemme terrena, in che senso è la Chiesa? Da questa domanda sorge la necessità di definire la regalità di Cristo, che è sia “capo della Chiesa” ([o o ] ) che “legislatore delle genti” ( ).66 Ma,
62
Ivi, pag. 99. Ivi, pag. 80. 64 Ivi, pag. 98. 65 Ivi, pag. 99 e n. 206. 66 Ivi, pag. 104. 63
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diversamente da Mosè, Cristo non trascrisse e comunicò semplicemente la Legge del Padre, ma la completò e rinnovò ( ) al fine di salvare l‟umanità consentendone uno sviluppo civilizzatore dalla pregressa condizione ferina naturale, con gli strumenti della Giustizia e della Verità. Perciò il Cristo Re è detto .67 La dinamica del Potere è interpretata da Eusebio in chiave tutta teologica. Dio, , insedia Costantino quale capo ( ) e guida () di tutti gli uomini ( ), sicché “alcun uomo potè vantarsi del merito della sua incoronazione” .68 Ciò implica uno spostamento di prospettiva estremamente significativo per la definizione della teologia politica ecclesiastica, in quanto l‟autorità divina di Dio si manifesta non indirettamente, in relazione ai processi storici complessivi, ma alle dirette dinamiche del Potere, della cui responsabilità morale viene di conseguenza sollevato il detentore. Dio infatti è il duce () di ogni regno, e in particolare dell‟Impero cristiano, “da Lui creato ad imitazione del suo Regno celeste”, affinché gli uomini vi fossero istradati. “Egli non solo crea l‟istituzione, ma ne sceglie con cura anche il capo, l‟Imperatore cristiano ed Egli stesso lo adorna facendolo partecipe delle virtù e dei caratteri imperiali celesti”. L‟Impero cristiano, infatti, sostiene Eusebio, è “il modello paradigmatico di regno”( ) nonché la “immagine” () del Regno celeste, il quale dunque ne è l‟archetipo ().69 “Immagine” sta per “modello ideale”, non però concepito dall‟uomo ma derivato per ispirazione divina dal paradigma della regalità monarchica () di Dio.70 Ma qual è dunque il ruolo del Logos nella costruzione dell‟Impero terreno? Secondo la più autorevole interpretazione della teologia politica di Eusebio, “il Logos crea, per incarico del Padre, l‟istituzione e la dignità imperiale, l‟Impero cioè e la carica imperiale che lo dirige, come del Regno celeste. Il Padre ha la dignità regale, manon il governo effettivo, proprio del Logos-Cristo”.71La stessa fonte nota che “non c‟è
67
Ivi, pagg. 104-105. VdC, I, XXIV, pag. 112. 69 R. Farina, Op. cit., pag. 116. 70 VdC, I, V, pag. 84. 71 R. Farina, Op. cit., pag. 117. 68
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un testo in cui si parli dell‟Imperatore come del Logos”, volendo significare che il Logos Incarnato sia “l‟origine del potere”.72 La discriminazione tra i due modelli divini è chiara quanto decisiva, e inerisce alla differenza tra la regalità ( ) di Dio, di natura spirituale, e il potere (del Logos, di natura razionale, afferente alla dimensione umana che il Logos assume incarnandosi. Secondo l‟interprete, Dio sarebbe pertanto l‟ispiratore celeste della “dignità imperiale”, ossia del Governo spirituale, mentre Cristo sarebbe il modello iconico da imitare ( ) del suo esercizio effettivo. 73 Si badi che l‟esegeta non distingue due forme di Potere, ma soltanto due momenti di un‟unica forma ideale, sicché, secondo la sua interpretazione della teoria politica di Eusebio, la regalità del Padre (), indicata come “proprietà radicale del potere”, sarebbe del tutto virtuale, mentre quella del Figlio, indicata come “esercizio del potere”, sarebbe il potere “attuale” e costituirebbe il “governo” imperiale effettivo.74 La differenza tra l‟Impero celeste, retto da Dio, e l‟Impero terreno, governato dall‟Imperatore, risiederebbe nella “distinzione tra i reggitori dei due Regni”, ovvero “nella persona che detiene la dignità imperiale”, che nel caso terreno è mortale quanto l‟Impero stesso, sicché, stante l‟unico modello divino, la differenza sarebbe solo temporale: “il Regno di Cristo ha per capo Cristo, il quale regna immediatamente, cioè direttamente, sui suoi sudditi in cielo; anche l‟Impero cristiano ha per capo Cristo, ma non immediato, avendo delegato l‟Imperatore cristiano al governo di esso”, per cui “ambedue sarebbero come due manifestazioni del medesimo e unico Regno universale del Padre”. Il ruolo di “mediatore” di Cristo “tra il Regno del Padre e l‟Impero cristiano” consisterebbe nella “trasmissione del potere dal Padre all‟Imperatore”, il quale, alla fine dei tempi storici, lo consegnerebbe a Cristo che regna in cielo, che a sua volta lo consegnerebbe al Padre. 75 Ma perché, se ciò fosse vero, Eusebio chiama il Regno del Logos-Cristo
72
Ibidem, n. 72. Ibidem. 74 R. Farina, Op. cit., pag. 118. 73
75
Ivi, pag. 119.
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, distinguendola dalla divina del Padre? Per l‟illustre esegeta, sarebbero diverse nominazioni dell‟unico Regno di Dio, ma questa spiegazione, per quanto autorevole, è come vedremo del tutto fuorviante e sostanzialmente errata. Seguiamo lo schema logico di Eusebio tratteggiato dal nostro esimio interprete, i cui concetti chiave sono espressi nei termini di e di . Il termine, secondo Farina, tradurrebbe il concetto di Essere e avrebbe per soggetto Dio e per oggetto l‟Impero: Dio crea l‟Impero terreno come immagine del suo Impero celeste, mentre tradurrebbe il concetto di “dovere”, e avrebbe per soggetto l‟Imperatore e per oggetto il Cristo-Logos. Secondo questo schema interpretativo, l‟imperatore, messo da Dio a capo dell‟Impero che è immagine del Regno celeste, avrebbe il dovere di somigliare al prototipo divino cercando di “somigliare” all‟Imperatore celeste. 76 Ne consegue logicamente che il rapporto tra Cristo e l‟Imperatre è analogo al rapporto archetipo tra Padre e Figlio divini. Ricordiamo a margine che quella del Logos è detta , essendo Cristo secondo in comando rispetto al Padre, da Cui ha ricevuto la signoria del tempo e il governo del tutto, sicché il Padre, indicato come , è all‟origine dei regni e ne è la causa (), muta i tempi e gli anni, insedia e depone i re, rialza dal letame il povero; il Padre “regna”, mentre il Figlio ( ) “governa”.77 Ma la questione secondo noi fuorviante è l‟identificazione dell‟immagine () con l‟Essere di Dio, e la Sua potenza regale con il Governo del Logos. Infatti, la trasmissione del potere dal Padre al Logos avviene in virtù della sussistenza ( ) per consustanzialità, e non può avvenire direttamente sull‟Imperatore in quanto uomo ed essere finito, e come tale abbisognevole di quella graziosa redenzione operata attraverso la mediazione del Cristo, ossia del Logos incarnato e reso partecipe a sua volta della natura umana finita. Ciò significa che il Governo del divino è di natura spirituale, immune dalla finitezza della condizione umana lapsa, e pertanto non ascrivibile alla natura precipua del Potere, che esprime la forza naturale di incidere sull‟elemento fisico
76 77
R. Farina, Op. cit., pag. 108. Ivi, pag. 114.
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dell‟uomo, ciè sul corpo, che deve essere vivificato appunto dallo Spirito attraverso la fede per giungere alla sua salvezza o libertà dalla necessità naturale. Questo il compito del , di liberare l‟uomo dalla prigione della necessità fisica e attingere al Regno spirituale di Dio. Per quanto chiarito, l‟ipotesi che i rapporto tra Padre e Figlio possa riprodursi tra “il Logos e colui che Egli ha creato Imperatore” è perciò radicalmente fuorviante, in quanto presuppone una omogeneità sostanziae tra Padre, Figlio e Imperatore che renderebbe omogenea l‟unzione regale del Figlio in quanto uomo78 al governo politico del “vicario” ( ) di Dio, per cui, portando “a contatto l‟Imperatore con la Divinità, è come se si costituisse una nuova Trinità:Padre-Logos-Imperatore”.79 L‟assurdità di tale ipotesi non deriva dalla natura temporanea della carica imperiale, poiché anche quella papale sottostà alle stesse leggi generative dell‟ufficio vicariale, ma dalla natura propria dell‟ufficio imperiale, di carattere politico, la cui adozione segnerebbe, con il trionfo della logica di cui la politica è tecnica, quella razionalistica, l‟abiura totale della predicazione evangelica relativa alla conversione per fede, e con questo cambiamento di prospettiva, il superamento della Chiesa quale spirituale comunità di fede, e la riduzione conseguente del ruolo del Logos a una funzione meramente pedagogica, anziché di salvezza.80 In realtà, il concetto di non è quello di Essere, ma quello di Idea platonica, ossia di paradigma ideale, e dunque di versione razionale, di una condizione metafisica ineffabile fuori dei termini della Incarnazione del Logos, la cui mediazione si giustifica agli occhi di Dio e della ragione umana in virtù della impossibilità della sapienza mortale di definire l‟infinità dell‟essenza divina. Il rapporto – esso stesso teologicamente problematico – tra Cristo e il Suo vicario, è comunque intervenuto a seguito della Incarnazione come missione pastorale fondata sulla fede, mentre nel caso della missione imperiale, il destinatario politico sarebbe il vicario stesso, che riceverebbe da Dio, e senza la mediazione di Cristo ovvero – regnando Cristo nei cieli - del Suo vicario, la consegna di far conseguire direttamente, ossia per Governo, all‟umanità la salvezza. Ci sarebbe così uno spostamento di consegna dal destinatario petrino al
78
R. Farina, Op. cit., pag. 96. Ivi, pag. 122. 80 Ivi, pag. 69. 79
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nuovo destinatario imperiale. Alcuni commentatori hanno parkato di Gottkaisertum in Eusebio,81 ma più propriamente si dovrebbe secondo noi parlare di idealizzazione del Governo divino nei termini naturalistici di un sommo Potere che, originariamente esercitato su un popolo attraverso la monarchia di Davide, ora verrebbe esteso ecumenicamente all‟intera umanità unificata dagli eserciti imperiali di Roma. La definizione del Governo divino nei termini del Potere comporta non già la sacralizzazione del Potere nel senso della sua limitazione morale, ma l‟esaltazione della forza politica atta alla gestione del Governo. Per questa ragione essenziale, con l‟ipotesi idealistica del rapporto di trasmissione di potere tra il Padre e il Figlio, cade anche quella del rapporto di trasmissione di potere tra il Logos-Cristo e l‟Imperatore inteso come del primo rapporto. In relazione al concetto eusebiano di , esso viene inteso dal Farina come “dovere” dell‟Imperatore di imitare Cristo, al fine di far somigliare il suo al governo di Dio e portare così l‟umanità alla Chiesa. Ma questa analogia presuppone che l‟imitazione di Cristo da parte dell‟Imperatore sia possibile in quanto Cristo sia a sua volta “la perfetta immagine del Padre”.82 Se così fosse, l‟imitazione di Cristo che l‟Imperatore avrebbe il dovere di conseguire, perché abbia una ragion d‟essere rispetto al diretto ossequio del volere di Dio, dovrebbe riguardare l‟esperienza esistenziale del Logos incarnato, che culmina nella Sua morte a opera del Potere politico, ossia l‟insegnamento morale espresso in compendio nel Discorso della Montagna. Cristo, infatti, non ha mai inteso governare il mondo alla maniera di Cesare, attraverso il Potere politico, ma solo per opera della fede quale conversione dell‟anima. Quale conversione spirituale potrebbe mai ottenere il Potere di Cesare? Esso tutt‟al più potrebbe difenderla dai suoi detrattori – ad es. dalle politiche anti-cristiane – ma non potrebbe mai amministrarla al fine di mantenerla nella sua purezza spirituale. E dunque quale “perfezione” potrebbe mai raggiungere l‟Imperatore che non fosse la santità, ossia la rinuncia stessa al Potere? Quale altra imago Dei potrebbe l‟uomo conseguire imitando l‟archetipo del Cristo se non appunto la Sua santità? E quale potrebbe mai
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R. Farina, Op. cit., pag. 123. R. Farina, Op. cit., pag. 123.
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conseguire l‟Impero cristiano se non quella di confondersi con la stessa Chiesa, già diretta dai successori di Pietro? Se il Logos Incarnato è “l‟unico oggetto dell‟imitazione dell‟ Imperatore”, 83 come potrebbe l‟Imperatore conseguire lo “scopo” del Padre imitando Cristo? Il Padre è infatti il Logos non incarnato, “spirito puro”,84 che differisce dal Figlio nell‟umanità dell‟Incarnazione. Per poter stabilire una relazione riflettente tra Padre-Figlio-Imperatore, mantenendo il ruolo mediatore del Logos, occorre assumere dell‟imitazione la parte comunicabile, in comune ai tre elementi analogici. Il Logos è comune a Dio e a Cristo, ma non all‟Imperatore. La corporetà è comune a Cristo e all‟Imperatore ma non a Dio. La soluzione non può che consistere nella elevazione dell‟Imperatore a figura divina, rendendola in qualche modo “immortale”: in altri termini, a idealizzarla. L‟idealizzazione della “immagine” del vicario di Dio fu appunto la strada perseguita dalla teologia romano-alessandrina, che confuse la figura dell‟Imperatore cristiano con quella del Papa, e quella dell‟Impero con la Chiesa. Ma questa confusione, generatrice dei dissidi storici circa le rispettive prerogative di Potere tra le due istituzioni mondane, deve a sua volta investire, insieme all‟Imperatore, la stessa realtà dell‟Impero quale orizzonte topico della salvezza umana. Ed è proprio questa dilatazione analogica universale della sacralità del ruolo imperiale ai suoi prodotti secolari, tipica del rapporto di essenza poietica che la l‟Idea con gli enti che la rispecchiano, e che sposta, nella situazione iconica, sui fatti la qualità trascendente del fattore, a costituire la premessa pratica di trasformare la fede escatologica cristiana in religione imperiale, e teoretica di rappresentare l‟di Dio come una essenza ideale, e quindi il Regno celeste come un modello ideale di Impero cristiano, la cui realtà empirica fosse il riflesso storico (“di fatto”) della sua natura razionale (“universalità di diritto”). Questa trasfigurazione idealistica della figura dell‟Imperatore implica non solo la coerente trascrizioni delle virtù teologali, proprie della santità, in virtù civiche proprie del filosofo, 85 ma soprattutto l‟identificazione naturalistica dell‟universo ideale in universo reale, tale da destinare alla forma istituzionale il
83
Ivi, pag. 124. Ivi, pag. 27. 85 R. Farina, Op. cit., pag. 126. 84
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rispecchiamento fenomenico anche di quella qualità divina che costituiva il dato discriminante insuperabile tra un uomo e Dio, la eternità, 86 la quale, non potendo essere attribuita all‟Imperatore in quanto uomo, divenne un attribuito temporale della universalità ideale dell‟Impero, che affiancava l‟universalità geografica e quella numerica dei popoli. 87 2. Due elementi caratterizzano la visione teologico-politica di Eusebio. Il primo è la concezione del Governo divino, e quindi dell‟umano, come Potere; il secondo è la idealizzazione del Regno di Dio nei termini di una universalità ontica, comprensiva dello spazio fisico, del genere umano e del tempo storico, congiunti in unità politico-religiosa, l‟Impero romano cristiano, che di quell‟unità è l‟espressione del Potere totalizzante e unico di Cristo Re, coincidente con la costituzione stessa della sua Chiesa. La civiltà rappresentata dal monoteismo cristiano sul politeismo pagano, e dall‟imperialismo romano sulla frammentarietà politica barbarica, è la trascrizione fenomenica di quel progressio ad unum che costituisce il carattere saliente della sapienza in senso greco, quella concettuale, la cui effettuaità garantisce della “pace” intesa come l‟ordine del cosmo opposto al disordine () del conflitto (), che per Eusebio era il segno della “potenza divina e misteriosa del nostro Salvatore”. 88 Il Cristianesimo, quale fattore di pace, interviene nella storia profana per inverarne il senso prima misterioso della potenza romana, che con la Rivelazione diventa salvifico. Da qui il ruolo fondamentale della religione () per l‟edificazione della civiltà, che inizia con la legislazione mosaica89 e si distingue in una realtà “spirituale”, caratterizzata dallo sviluppo delle istituzioni politiche e morali, e una “materiale”, che si esprime nello sviluppo delle arti e della tecnica. La condizione precedente alla civiltà è l‟età che ignora il percorso della salvezza, la cui storia pertanto s‟identifica con quella stessa della civiltà.90 Il percorso della civiltà è ostacolato dalla malvagità dell‟uomo che non 86
VdC, I, IX 2, pag. 90. R. Farina, Op. cit., pag. 136. 88 Eusebio, Preparatio Evangelica, I 4, 5, cit. da R. Farina, Op. cit., pag. 142. 89 Ivi, pag. 137. 90 Ivi, pag. 144. 87
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conosce il fine soteriologico della esistenza umana coincidente con la volontà di Dio, la cui Rivelazione imprime alla storia un impulso decisivo. Con i Romani il progresso è costituito dal passaggio dalla teologia mitica alla teologia politica, “che si concreta nella religione di Stato”,91 propedeutica al passo successivo “della unione della religione universale cristiana con l‟Impero universale romano in un‟unica entità, il Regno di Cristo sulla terra”.92 L‟Incarnazione del Logos, dunque, opera la mediazione teologico-politica tra il disegno soteriologico divino e l‟Impero romano, tributario al Cristianesimo del suo unico ruolo civilizzatore universale, così cme il Cristianesimo deve all‟Impero la sua , consentendo con l‟unificazione dei popoli la penetrazione della fede agevolando la missione apostolica. 93 Nella congiunzione provvidenziale dell‟evento escatologico e del massimo sforzo umano di pervenire alla civilizzazione attraverso la sapienza religiosa (ebraica), filosofica (greca) e giuridico-poitica (romana) si compie la missione dell‟Impero romano cristianizzato, che “acquista così un carattere trascendente”.94 La teologia politica eusebiana segna un superamento decisivo della distinzione origeniana tra la potestas politica dell‟autorità legislativa secolare, e “l‟ordine stabiito dallo Spirito Santo” sancito dalla potestas spirituale dell‟autorità apostolica. 95 In Eusebio, infatti, all‟unità esistenziale del corpo politico dei molteplici popoli sottomessi all‟Impero si perviene attraverso lo schema razionalistico dell‟unità formale, ossia sottraendo dalla fenomenologia storico-politica romana tutti gli eventi e le circostanze non sussumibili entro la dinamica soteriologica cristiana, la cui logica procedurale è quella stessa che presiede alla esclusiva determinazione di senso razionale attraverso l‟analisi dialettica, tesa
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Ivi, pag. 145. Ivi, pag. 146. 93 “Come dubitare ancora che non sia questo insieme di circostanze opera di Dio, se si pensi alle difficoltà cui i discepoli del Salvatore sarebbero andati incontro nel percorrere nazioni che non avevano affatto commercio e che erano divise in una moltitudine di piccoli Stati?”: Eusebio, Demonstratio Evangelca, III, 7, 33, cit. da R. Farina, Op. cit., pag. 152. 94 Ivi, pag. 154. 95 Origene, Comm. Rom., IX, 28, ed.it.Genova 1986 vol.II pag. 140-141; ved. M. Rizzi, Eseg. e teol. Politica, cit., pag. 107. 92
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normativamente a espunger dall‟orizznte di senso ogni elemento dialogico spurio. Per cui, nel concetto di Impero cristiano non rientrano le manifestazioni anomale delle politiche persecutorie degli imperatori pagani, i cui comportamenti anti-cristani vengono ritenuti alla luce del paradigma teologico-politico cristiano, escrescenze anomale e follie individuali,96 simili a quelle di Agamennone in preda all‟ ricordate da Dodds. La personalizzazione delle responsabilità per eventi contrari al supposto disegno divino, e viceversa l‟attribuzione all‟intervento divino di quelli considerati coerenti a quel disegno, traducono in termini politici la dicotomia logica tra realtà positiva e irrealtà negativa che mette di fronte i termini amici (gli eventi coerenti) e quelli nemici (gli eventi contrari), i quali, non potendo essere attribuiti al potere di Dio, vengono attribuiti al potere del diavolo, che perciò per Eusebio è “il vero autore delle persecuzioni” dei cristiani.97 Da qui la missione prima angelica, quindi del Logos e infine dell‟Imperatore cristiano di fronteggiarlo per affermare il volere, pur ritenuto onnipotente, di Dio. L‟idealizzazione della figura dell‟Imperatore, non soltanto rende inconsapevole la sua missione soteriologica, ma rappresenta una sostanziale alterità rispetto al modello veterotestamentale di patto fra Dio e uomo, sancito da Mosè sul Sinai tra Dio e il suo popolo (Esodo 24, 7), in cui le parti sono equiparate a quelle contraenti “un atto giuridicosacrale di reciprocità”.98 L‟elemento saliente di tale patto, come ha spiegato Buber, è la berith, che indica un rapporto che “limita” una o entrambe le parti ed è indicato nella Genesi allorquando Dio “si obbliga” a porre fine alla cattività ebraica, e dunque si auto-limita, istituendo “in forma sacramentale” un rapporto di “reciprocità fra il sopra e un sotto”. Il patto di delimitazione “racchiude entrambi i partner in una comunanza la quale, pur lasciando pienamente sussistere la diversità e la distinzione dell‟uno rispetto all‟altro, li pone in un rapporto di superiorità assoluta e assoluta subordinazione, ciascuna delle quali ha nel vincolo di reciprocità il proprio e peculiare carattere vincolante”.99 Secondo Buber, inoltre, un popolo potrebbe contrarre un patto collettivo “solo in quanto sia già
96
R. Farina, Op. cit., pag. 157. R. Farina, Op. cit., pag. 156. 98 M. Buber, Koeningtum Gottes (1932), tr. it. Genova 1989, pag. 141. 99 Ivi, pagg. 145 e 147. 97
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capace di agire e operare come unità”, ovvero “solo in quanto abbia una struttura politico-nazionale”, e pertanto il patto con Dio “non può rappresentare un atto puramente religioso, ma deve necessariamente essere un atto religioso-politico, un atto teopolitico” e anche “regale”, in quanto stabilisce che Dio sia “l‟unico capo politico” di un regno “distinto” (qadosh) da ogni altro e dunque “santo”.100 Il carattere definitivo del patto regale sinaitico esclude la possibilità di una sovranità terrena, in quanto Dio non vuole essere “il garante di un monarca umano” ma “intende rimanere egli stesso il capo e il sovrano”, dipendendo da Lui “non solo il potere dell‟uomo al quale egli di volta in volta comunica la propria volontà perché le dia esecuzione”, ma anche i “limiti del suo incarico”, che da mandatario non può trasmettere a dei successori, non agendo di propria iniziativa ma come “inviato”. Ciò comporta due conseguenze essenziali: la prima è che ogni membro della nazione santa è in un rapporto diretto con Dio (kohanim), e inoltre che “non vi è alienazione della sovranità” in quanto la sovranità risiede in Dio, e dunque “non esiste sfera politica all‟infuori di quella teopolitica”.101 L‟aspetto apparentemente paradossale di tale patto è di accordare la essenziale libertà dell‟uomo, svincolandola dalla volontà dominatrice di un altro uomo, con l‟assoluta ubbidienza alla volontà di Dio, al quale l‟uomo libero è vincolato da “un estremo legame di dipendenza”. La profondità esistentiva di questa situazione paradossale è resa evidente dal fatto che a questo estremo legame di dipendenza è essenzialmente estranea qualunque costrizione, che la sua attuazione, dunque, è affidata in ogni istante alla sfera di fede di colui che vi è soggetto e che, rimettendosi al suo comando, può tendere a una perfetta comunità su base volontaria, a un regno di Dio, oppure, richiamandovisi per mettersi al riparo, può cadere in una confusione inerte o selvaggia. 102
L‟elemento comunitario della convivenza non è dunque legato a fattori naturalistici, etnici o linguistici, che pure solo alla base della socialità tribale, ma deriva in ragione della fede di ogni membro pattizio nella 100
Ivi, pagg. 149-150 e 156. Ivi, pagg. 168-169. 102 Ivi, pag. 171. Corsivo nostro. 101
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esistenza e nel ruolo regale di Dio. Il patto teopolitico è pertanto costituito da due elementi interni alla stessa “sfera di fede di colui che vi è soggetto”: la fede in Dio, che stabilisce il rapporto individuale tra l‟esperienza esistenziale dell‟uomo e la divinità; e la fede nella regalità di Dio, che istituisce il rapporto inter-personale tra i membri della stessa professione di fede. Se fosse vero quanto sostenuto da Buber, ossia che la condizione politico-nazionale sia un prius rispetto al patto di regalità, il riconoscimento della regalità divina non sarebbe un atto fondativo della comunità nazionale, ma, come nel caso del Costantino di Eusebio, solo ricognitivo del Potere divino e dunque del ruolo politico di Dio. In qual caso, il patto avrebbe un carattere hobbesiano e non sarebbe fondato sulla fede. Ma, nel caso della berith, non vi è, come riconosciuto anche da Buber, alcun passaggio di sovranità dal popolo a Dio, il quale Dio non è dunque un capo elettivo delegato al ruolo dalla volontà popolare, poiché il popolo non ha mai avuto prima del patto alcuna costituzione politica indipendente da quel sacro patto con Dio. In questo senso precipuo, la berith non è un atto meramente religioso interno ai rapporti interpersonali naturali (familiari, amicali, tribali), ma, nondimeno, neppure politico-religioso, dal momento che la natura pattizia è stabilita sul rapporto di fede, e non di Potere. Il rapporto unitivo di carattere religioso stabilisce il fondamento comunitario tra i membri di una stessa fede, definendo la comunità come religiosa, mentre il patto di questa comunità religiosa con Dio istituisce la responsabilità etica della sua vita sociale collettiva. Il patto regale con Dio fa della comunità religiosa una comunità etica, legata collettivamente a Dio in quanto comunità di fede in Lui, ma anche legata reciprocamente tra i suoi singoli membri da quel patto di responsabilità collettiva, senza il quale non sussisterebbe alcun vincolo etico. Il carattere etico del vincolo tra sudditi e sovrano è proprio del Governo (), e non del Potere ( ), il cui detentore semplicemente esegue quanto stabilito dal . Aver assunto il Potere di Roma all‟interno del disegno escatologico cristiano, ha trasformato il concetto di salvezza () in quello di civiltà politica (), la cui ratio è la classica, della quale il Logos-Christos ne diventa l‟incarnazione. Non a caso uno dei suoi attributi è “primo tra i filosofi”
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( ).103 Dal punto di vista della filosofia della storia in cui si pone Eusebio, il Cristianesimo teologico-politico da lui professato non è quello “erede del Giudaismo”, ma, attraverso la trasfigurazione idealistica della sua prospettiva soteriologica, diventa il co-erede insieme all‟Impero Romano, dell‟Ellenismo. 104 Con la idealizzazione della figura dell‟Imperatore e dell‟Impero, Eusebio opera un rovesciamento dialettico della prospettiva evangelica, la quale poneva l‟aldilà () come la realtà vera rispetto a quella effettuale del regno di Cesare, mentre la prospettiva teologico-politica storicizza la positività naturalistica della creazione divina, ossia l‟Essere razionalizzato, la Storia etico-politica, e destoricizza la fenomenologia negativa non sussumibile entro il processo soteriologico, ritenuta segnata dal male e consegnata al dominio del diavolo e delle irrazionali da lui controllate. La vera realtà diventa dunque quella fenomenica della storia immanente, l‟Essere oggettivato dal pensiero, il cui modello ideale è il Regno celeste, e quello reale l‟Impero Romano del Cesare cristiano, che di quello trascendente ne è il rispecchiamento. La sovranità di Dio, stabilita sia da V. T. che dal N. T., viene sostituita con la sovranità della storia, nelle cui dinamiche etico-politiche si annulla la paradossalità del “rapporto reale del singolo con un mondo che non vuole essere di Dio, e con un Dio che non vuole costringere il mondo ad appartenergli”. 105 “Reale” sta per concreto, ossia coinvolgente la libera responsabilità morale del singolo che “decide” il suo atteggiamento verso il mondo come se da questa decisione ne andasse la sorte stessa sua e del mondo, il quale “non vuole essere di Dio”, non in quanto refrattario pregiudizialmente alle Sue leggi, ma in quanto mondo, e come tale sempre altro rispetto alla concretezza singolare della coscienza morale. L‟alterità del mondo rispetto alla coscienza di fede singolare è l‟antropocrazia, il Regno di Cesare, la cui ratio immanente è la forza del Potere politico, l‟orizzonte della entro il quale si costituisce l‟autocrazia dell‟uomo razionale, che rappresenta il correlativo sociologico della comunità spirituale su base volontaria, che è invece “l‟aspetto
103
R. Farina, Op. cit., pag. 87. Ved. R. Farina, Op. cit., pag. 146, in cui invece si afferma l‟eredità giudaica del Cristanesimo e di qeulla ellenistica dell‟Impero Romano. 105 M. Buber, Koeningtum Gottes, tr. it. cit., pag. 172. 104
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immanente della teocrazia”.106 La conseguenza primaria di tale cambiamento di paradigma in senso idealistico e storicistico-immanentistico, insieme alla trascrizione in termini esclusivamente politico-razionali del processo escatologico della salvezza cristiana, è la perdita della libertà morale dell‟uomo, costretto tra il Potere imperiale, espressione positiva di quello divino, e il Potere diabolico delle forze antagoniste a quelle imperiali, fossero pure ispirate dal papa. La fonte del modello eusebiano è platonica. In Platone il rapporto tra “autorità” e “libertà” è strettamente connesso all‟essenza del giusto ordine nell‟ordinamento dello Stato, che nella Repubblica (VIII libro), nel Timeo, nel Crizia e nelle Leggi (III libro) “si fonda su un accordo fra il principio „monarchico‟ dell‟autorità e il principio „democratico‟ della libertà”.107 Lo sviluppo dell‟uno rispetto all‟altro principio fa degenerare il regime politico, che, nel caso di un‟eccessiva autorità, ossia “della disuguaglianza fra coloro che esercitano l‟autorità e coloro che sono sottomessi ad essa”, genera costrizione e oppressione, mentre, nel caso di eccessiva libertà, ossia “dell‟egalitarismo livellatore”, genera arbitrio e anarchia. “Dunque, è possibile parlare di „libertà‟ e di „potere‟ in un senso molto differente, a seconda che ambedue contribuiscano alla costituzione del buon ordine, oppure a seconda che venga a mancare il giusto equilibrio”.108 L‟ è attribuita da Platone a una una sbagliata , ossia a una errata concezione normativa del rapporto fra autorità e libertà, che egli intende emendare attraverso la dimostrazione storica della sua teoria.109 Per il filosofo il buon ordine politico è strettamente congiunto alla sua corretta rappresentazione formale, senza la quale non è possibile all‟uomo degenerato di pervenire all‟ottimo regime. Diverso il caso in cui “i popoli non erano degenerati”, quando “il buon ordine politico si poteva ancora realizzare, pur senza avere conoscenza teoretica completa del Principio e della misura di ogni ordine”, attraverso una “opinione verace” e una “disposizione divina”. L‟ordine giusto, diversamente, può essere
106
Ibidem. K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone, Milano, 1991, pag. 155. 108 Ivi, pag. 156. 109 Ivi, pag. 160. 107
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conseguito solo attraverso “la conoscenza filosofica del fondamento divino della realtà”, che il singolo può conseguire al termine della sua vita, e la civiltà al termine della sua evoluzione. All‟inizio dell‟esperienza umana, invece, più stringente è stato il ruolo divino nel mondo, che tornerà a mostrarsi alla fine del suo sviluppo ciclico, all‟interno del quale si può demarcare “una particolare epoca del mondo soggetta al dominio divino come momento di passaggio ed elemento di collegamento fra fine e nuovo inizio”.110 Nel Grande mito del Timeo, Platone evoca il passaggio dalla fase teocratica a quella politica. Allora, infatti, in primo luogo il dio governava quel movimento circolare, occupandosi dell‟intero come ora, e così allo stesso modo tutte le parti dell‟universo erano divise, zona per zona, tra divinità che le governavano. […] Dio stesso era pastore e guida, così come oggi gli uomini [ed] essendo egli il pastore, non c‟erano società politiche […]. 111
Nella posteriore fase politica, “l‟arte regia” consiste nella “tecnica di comandare su tutti gli uomini”. Essa, sulla base della differenza tra “ciò che è imposto e ciò che è volontario”, si distingue rispettivamente in tecnica “tirannica” e in tecnica “politica”, e solamente quella liberamente accettata distingue l‟esercizio di chi “è veramente re e politico”.112 La conoscenza del principio divino è necessaria all‟uomo per garantirsi l‟assistenza, sia pure indiretta, della sapienza divina nel governo politico degli uomini, pervenendo attraverso di essa a “stabilire un diretto rapporto fra l‟ordine naturale della vita nel tempo originario e l‟ordine successivo consapevole realizzato con arte mediante la conoscenza filosofica”, la quale dunque rappresenta la condizione di riscatto antropologico, a seguito della caduta dall‟ordine originario “naturale”, quando gli uomini abitavano presso gli dèi, per la costituzione di un nuovo ordine “artificiale” di carattere politico, che rifletta, attraverso il pensiero razionale (), “il divino e l‟immortale che è in noi”
110
Ivi, pag. 162.
111
Platone, Politico, II, 271 d 3-6 e 271 e 5-8, tr. it. a c. di M. Migliori, Milano 2015, pagg. 107 e 109. 112 Ivi, 276 c-e, pagg. 121-123.
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(Leggi).113 Il ruolo mediatore della tecnica politico-razionale del Logos umanodivino, teso e ricostituire la condizione umana originaria, è già presente dunque in Platone, per il quale quell‟ordine che in origine era naturale, ora può rappresentarsi solo in termini “ideali”, cioè come Idea di Stato, riflesso umano dell‟ordine cosmico o del Bene. La Polis ideale, per quanto razionalmente eterna, si realiza solo imperfettamente, a opera dell‟anima, a causa della precipua condizione umana finita, che si riflette nelle sue forme molteplici di costituzione storica, la quale non consente l‟amonia perfetta tra i due princìpi costitutivi dell‟ordine.114 Un altro fattore di disordine è la situazione concreta in cui opera il logos, che si trova di fronte al divenire instabile di tutte le cose, generatore di disordine, per cui il modello ideale di Stato può realizzarsi in considerazione delle “condizioni storiche” in cui la conoscenza filosofica si trovi ad operare.115 In questo senso, il modello ideale deve orientare protretticamente l‟edificazione dello Stato possibile, secondo quel processo mimetico ( ) che ritroviamo nella visione teologicopolitica di Eusebio. Essa infatti porta a compimento lo schema platonico della corrispondenza tra l‟ideale e il reale assicurando l‟elemento paradigmatico al fondamento della fede trascendente nella realtà divina, e l‟elemento reale alla esistenza dell‟Impero romano, assegnando alla mediazione del Logos-Christos la funzione di collegamento tra aldilà e aldiqua che il logos filosofico aveva nella teoria platonica, nel senso però di una razionalizzazione del mito e della costituzione di una storiografia immanente.116 L‟originaria prospettiva escatologica del Cristianesimo, assicurata dalla fede nel compimento della fine dei tempi storici con la , rappresenta per la rappresentazione eusebiana il compimento del ciclo della vita che per Platone era la condizione della sua stessa
113
K. Gaiser, Op. cit., pag. 163. Ivi, pag. 165. 115 Ivi, pag. 166. 116 “Si potrebbe intendere l‟entrata in azione del Dio, mediante il quale, secondo il mito del Politico, l‟ordine originario del cosmo viene sempre ricostituito, anche come un impulso divino impresso una sola volta: Dio potrebbe ristabilire l‟ordine del mondo mediante un intervento unico, e poi abbandonare di nuovo tutto il cosmo a se medesimo”: K. Gaiser, Op. cit., pag. 170. 114
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comprensibilità del processo storico, asegnando alla scansione temporale dei suoi vari momenti il significato univoco dell‟intero che li include unitariamente, e che nella rappresentazione mitica si poteva desumere intuitivamente, “a motivo che nel complesso [la sfera del nascere e del morire dei cicli della storia] non è accessibile all‟indagine empirica, in odo particolare a motivo di una distanza temporale troppo grande”. 117 Ciò significa che nel mito platonico non viene rappresentato l‟intero processo diacronico della realtà fenomenica, cioè il divenire temporale della realtà naturale del corporeo, ma solamente “il modo di essere dell‟anima”, ossia “ciò che è vivo” e in quanto tale solamente “è da intendenrsi come qualcosa di unitario e stabile all‟interno dell‟accadimento temporale”, che ha “movimento circolare chiuso in sé medesimo”, diversamente da “ciò che riguarda il corporeo, [di cui] invece è caratteristico il movimento rettilineo che prosegue all‟infinito”, 118 e perciò inconoscibile e irrapresentabile nella sua incompiutezza. Con la razionalizzazione della antica rappresentazione mitica, si elimina anche la “labilità” che per M. Weber caratterizza l‟autorità carismatica legata alla teocrazia.119 Infatti il “carisma” è una qualità per definizione “attribuita ad una persona” e “non accessibile agli altri”, per cui la sua valutazione non è “oggettiva” ma sempre effettiva e “valutata da coloro che sono dimonati carismaticamente”. 120 Il riconoscimento spontaneo dell‟autorità carismatica costituisce l‟elemento di libertà e di responsabilità morale che la razionalizzazione del Potere ha escluso dal suo processo fenomenologico a favore della legalizzazione della forza politica, la cui astratta universalità esclude ogni individuale renitenza, trasformando il dovere morale in obbligo giuridico. L‟investitura divina del singolo portatore del carisma è comprovata dal suo effetto benenfico sui dominati, che costituiscono non già un corpo politico ma una “comunità di carattere emozionale”, sulla quale l‟autorità carismatica interviene “eventualmente su richiesta, nel caso che l‟apparato amministrativo si riveli insufficiente, il linea generale oppure
117
Ivi, pagg. 171-172.
118
Ivi, pag. 172. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, cit. da M. Buber, Koeningtum Gottes, tr. it. cit., pag. 173. 120 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, tr. it. Milano 1968, vol. I, pag. 238. 119
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nei casi particolari, di fronte a un certo compito”. 121 Il potere carismatico ha carattere “vocazionale”, essendo “il carisma puro specificamente estraneo all‟economia”, e “straordinario”, in quanto “si contrappone nettamente tanto a quello razionale, soprattutto di tipo burocratico, quanto a quello tradizionale, in particolare a quello patriarcale e patrimoniale o di ceto”. 122 E‟ innegabile che la designazione divina di Costantino fa di lui una figura carismatica, ma il cui Potere viene svincolato da una diretta relazione teocratica e assegnato alla sua volontà demiurgica, della quale si fa garante Dio attraverso la conferma dei suoi successi politico-militari, che prendono il posto delle conversioni spontanee conseguita dalla predicazione apostolica. Nel caso infatti del Potere imperiale l‟azione efficace in senso religioso è la sovrapposizione della confessione cristiana sulle antiche confessioni locali pagane, già in parte debellate dalla statolatria romana. Nella posizione in cui si trovano i soggetti al carisma, la forza della sua autorità si commisura al grado di riconoscimento tributato al suo detentore, il quale tanto più agisce in senso carismatico quanto più libero è il riconoscimento della sua autorità. Questa, di conseguenza, nn può essere universale se non nell‟ambito della sua portata personale, che comporta quel rapporto diretto con i fiduciari che diventa del tutto irrilevante o escluso del tutto nel caso del rapporto politico razionalizzato, dove invece agisce la forza del sistema burocratico che la rende efficace, a prescindere da ogni spontanea adesione dei destinatari. Altra essenziale caratteristica del carisma è invece la sua “grande potenza rivoluzionaria” verso le strutture del Potere. Esso infatti, a differenza della azione razionale, non “agisce dall‟esterno mutando le circostanze e i problemi della vita”, ma opera nel senso di “una trasformazione dall‟interno”.123 L‟originaria carica eversiva della fede cristiana viene ad essere neutralizzata dal momento in cui essa viene trasferita, dal disegno escatologico spiritualistico, al processo di legittimazione del Potere imperiale, a opera del riconoscimento dei cristiani del carisma trascendente dell‟ Imperatore romano, non però spontaneo ma bensì
121
Ivi, pag. 239. Ivi, pagg. 240-241. 123 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, tr. it. cit., vol. I, pag. 242. 122
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istituito attraverso la chiesa apostolica, che, integrandosi nell‟Impero, ne diventa la sua religione ufficiale, dunque il suo collante morale o per meglio dire etico-politico. L‟autonomia del Potere dalla volontà divina, che lo qualifica come politico, consiste nella risoluzione di ogni sua posizione di fatto in posizione di diritto, secondo una corrispondenza legale che si costituisce solo a condizione di svincolare il carattere politico della sua legittimazione ideale da ogni relazione con la Verità, la cui natura trascendente impedisce, diversamente dall‟opinione, la sua traduzione in azione.124 L‟opinione corroborata da riscontri fattuali diventà “verità di fatto” nei limiti della credibilità della relazione tra significante e significato, per cui essa necessita di essere preservata istituzionalmente ai fini dell‟ordine sistemico costituito, che è quello politico. Questa funzione conservativa o katechontica, nondimeno, non può essere affidata ad alcuna autorità puramente carismatica, la cui credibilità è riposta nella sua fedeltà alla verità di fede, trascendente, e non a quella fattuale, sempre relativa al suo contesto interpretativo, ossia all‟opinione. L‟orizzonte ermeneutico all‟interno del quale l‟evento fenomenico e l‟opinione che lo interpreta trovano la loro corrispondenza razionale, delimita i termini stessi della “verità di fatto”, i quali possono sempre tornare a spaiarsi per dissociazione conseguente alla incredibilità sopraggiunta del loro nesso ermeneutico.ciòche dunque sostiene le verità di fatto è la loro potenziale confutazione, inevitabilmente dicarattere razionale. In questi termini ha infatti operato la filosofia nei confronti del Mito, la cui rappresentazione dell‟ordine cosmologico è stata privata della sua credibilità, che denota il carattere finito umanamente labile della forza persuasiva di ogni opinione, che necessita perciò di essere confermata continuativamente da un puntello istituzionale. Diverso il caso della verità di fede, la quale non si avvale di alcun supporto fattuale ma solo della credibilità della autorità carismatica di chi la professa in nome stesso della verità, che, come il daimon socratico abita in interiore homine. La differenza rispetto alla verità di fatto è la sua
124
Da qui il senso dell‟espressione omerica contenuta nell‟Iliade per cui “il pensiero si compie” ( Ved. B. Snell, La cultura greca e le originidel pensiero europeo, tr. it. Torino 2002, pag. 197.
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incontrovertibilità fattuale, cioè la sua inconfutabilità empirica, in quanto il contenuto della verità di fede è il Tutto, e non la parte. E mentre la parte può mutare e divenire, il Tutto non può cambiare, per cui la credibilità della sua realtà inerisce l‟esistenza della realtà stessa. Ed è proprio questa assunzione di fede metafisica il fondamento primo di ogni possibile discorso razionale sulla realtà; fondamento non soggetto a opinione perché non inerente al molteplice fattuale ma all‟unità del Tutto, nel quale l‟Essere dell‟ontologia idealistica è incluso come presente storico o attualità. Identificare storicisticamente il Regno di Dio col suo empirico (l‟Impero Romano) significa relativizzare la realtà di Dio, facendo del Suo potere una volontà politica, e dunque della Sua volontà un Potere politico, ossia a una opinione. L‟impoliticità della volontà divina consiste invece nell‟essere inopinabile, non soggetta a contesa interpretativa, poiché de toto non disputandum est. L‟opinione verte sempre sulla relazione della parte col Tutto, laddove il Tutto, che è Uno, ha relazione solo con se stesso. Da qui il carattere autocratico e irrapresentabile della potenza di Dio, la cui volontà può solo ispirare la decisione politica, che rimane come tale molteplice e aperta a plurime e opinabili determinazioni. Per questa essenziale ragione la verità di fatto, come ben sapeva Tolstoj, non è mai univoca ma sempre esposta a molteplici interpretazioni, e dunque soggetta alla coercizione ovvero alla esaltazione da parte del Potere. Caratteristica, invece, della verità di fede è la sua impotenza. La Verità non ha Potere in quanto non esprime alcuna possibilità di essere altro da ciò che è, ossia Uno e Tutto, e quindi di essere modificabile e disponibile ad alterazioni. La fede monoteistica, introducendo il concetto di Verità unica trascendente,125 ha consentito quella libertà di opinione sulle possibili relazioni di fatto, ognuna delle quali cercava la sua maggiore corrispondenza alla Verità unica, che invece le concezioni politeistiche
125
L‟unità omnicomprensiva dell‟essere divino era già stata scoperta da Senofane nel VI sec. a. C. ma soltanto Eraclito giunge a sostenere che “una sola cosa è saggezza, intendere la conoscenza onde tutto si governa mediante tutto” (fr. 41), mentre Parmenide ritiene che solo quello divino sia vero “sapere” e falso quello sensibile umano, che scruta il divenire, fino a giungere a Platone che nel Simposio indica che il pensiero divino riguardi l‟Uno immutabile; cit. da B. Snell, Op. cit., pagg. 200, 203 e 206.
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lasciavano determinare imperativamente al Potere politico. Ed è questa libertà di fede che consente all‟autorità carismatica di non imporsi ma di proporsi appunto alla fede. Lo spostamento del criterio di realtà dalla posizione del soggetto, ossia del Sé, a quella dell‟oggetto, ossia dell‟altroda-sé, è proprio della posizione morale, che confida sulla libera adesione dell‟altro alla posizione del Sé, e non già alla imposizione all‟altro della posizione del Sé, propria dell‟azione politica, la quale trasceglie tra le possibili opinioni quella elettivamente coerente alla propria affermazione, che s‟impone sulla negazione delle altre possibili. Come notato da Sartre, “l‟azione implica necessariamente come condizione il riconoscimento di un “desideratum”, cioè di una deficienza obiettiva o per meglio dire d‟una negatività”.126 Il desiderio proprio del Potere di superare la propria parzialità finita e conseguire l‟identificazione col Tutto, ciò che i Greci indicavano col termine di hybris, è il valicamento del limite in cui è determinata la parte che aspira ad essere Tutto. La nemesi è la ritorsione dell‟azione eccessiva nel senso della sua parzialità ontologica. Nel caso della teologia politica di Eusebio, la supposta coincidenza della volontà divina con l‟azione politica dell‟Imperatore ha come conseguenza l‟attribuzione a Dio della finitezza dell‟agire umano, e all‟Imperatore la visione del Tutto propria di Dio. A proposito di Costantino, Sartre indica come “desideratum” l‟intenzione di fondare una città imperiale cristiana che faccia da contrappeso alla paganità persistente di Roma. 127 La possibilità insita in questo desiderio implica l‟abbandono del terreno dell‟Essere e la considerazione del non-essere, che costituisce un mistero rispetto alla positività dell‟Essere. Imporre il desiderio del Potere non equivale a imporre la realtà negativa come fosse fattuale, ma solo a imporre la possibilità che il desiderio-negativo si traduce in realtà positiva. La coscienza che ha il Potere di non poter imporre che la possibilità della realtà, ne indica il suo limite invalicabile, il suo destino di finitezza che è all‟origine di quella che H. Arendt chiama “l‟impotenza della verità”, che poi è la stessa “impotenza morale della ragione” rappresentata da Euripide nella Medea e nelle Baccanti Il destino della coscienza finita è di muoversi sempre all‟interno della realtà dell‟Essere, a cui è costantemente rinviata, il cui possesso politico segna anche il suo
126 127
J.-P. Sartre, L’etre et le néant (1943), tr. it., Milano, 1997, pagg. 488-489. Ivi, pag. 489.
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invalicabile limite ontologico. Nel caso dell‟Imperatore cristiano, il limite della possibilità del suo Potere è che “Costantino non prevedeva, andando a stabilirsi a Bisanzio, che avrebbe creato una città di cultura e lingua greca, il cui apparire avrebbe provocato in seguito uno scisma nella chiesa cristiana e avrebbe contribuito perciò all‟indebolirsi dell‟impero romano”,128 ossia di non prevedere l‟unità completa del processo dell‟agire che per Platone, come abbiamo visto, può solo rappresentarsi intuitivamente nel Mito e non è oggetto della ragione, che non si muove sul piano della possibilità ma sul solo piano della realtà effettuale, che in ambito politico è la logica della propria affermazione, da Spinoza indicata come la legge insuperabile della sicurezza dello Stato, che per Hobbes costituisce il criterio di accettabilità politica della stessa verità. Ma quale verità può occultare il Potere se non quella che lo consente, ossia la verità di fatto? Le probabilità che essa “sopravviva all‟assalto del potere sono veramente pochissime”, esposta com‟è ad essere “bandita dal mondo, non solo temporaneamente, ma potenzialmente per sempre”. 129 L‟interesse del Potere a sostenere la sua opinione risiede nel suo bisogno di consenso, quale conforto e integrazione della sua finitezza. Solo la Verità non ha bisogno di alcun conforto da riconosciento, non dipendendo dall‟opinione condivisa la sua realtà. Da qui il temuto carattere eversivo della Verità per ogni regime politico.130 Da qui anche il bisogno di pubblicità dell‟opinione fallibile, che è dunque all‟origine del suo “uso pubblico” nell‟ambito della vita politica, e pertanto solo assumendo il “mondo in cui viviamo” come l‟unica realtà possibile si può affermare che “le ultime tracce dell‟antico antagonismo tra la verità del filosofo e le opinini della piazza sono scomparse”. 131 Ciò è vero solo nel senso che la ragione filosofica sia la stessa logica del Potere politico, che costituisce appunto la ratio dell‟ideologia politica totalitaria. Ma la conferma fattuale di questo connubio ideale dimostra soltanto la pretesa totalitaria della ragione dialettica platonica, e che l‟ipotesi avanzata nel Gorgia di distinguere il dialogo filosofico dalla perorazione retorica non è decisiva al fine di stabilire la natura unica della Verità e la sua distinzione dal
128
J.-P. Sartre, L’etre et le néant, tr. it. cit., pag. 488. H. Arendt, Truth and Politics (1954), tr. it., Torino, 1995, pag. 35. 130 Ivi, pag. 37. 131 Ivi, pag. 40. 129
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carattere molteplice di ogni sofisma. Da questa insufficienza teoretica consegue l‟impraticabilità filosofica della ragione a conseguire la Verità, e la sua possibilità a conseguire soltanto molteplici verità di fatto, ossia di opinioni più o meno razionalmente credibili, nessuna delle quali però può assurgere se non contingentemente al valore di opinione unica, cioè di verità politica. La verità filosofica è l‟opinione non ancora socializzata e tradotta in ragione pubblica dal Potere politico. Essa, infatti, “quando entra nella piazza pubblica, cambia la propria natura [ipotetica] e diventa opinione [condivisa]”. Non perché, come ritiene la Arendt, abbia luogo una ,132 ma in quanto l‟opinione razionale consegue nella sua pubblicità la sua esclusiva possibilità di verità, di essere cioè condivisa. Questa dipendenza funzionale della verità di fatto alla opinione pubblica, espone la ragione alla sua insuperabile natura politica,133 destinando il suo carattere filosofico alla fase pre-politica, al suo non-essere opinine pubblico. Il paradosso della ragione consiste appunto nella sua intima necessità di convertire la verità soggettiva in opinione pubblica, in interpretazione condivisa.Paradosso ben diverso da quello tragico del Potere che si misura con la Verità non socializzabile perché trascendente, di fronte alla quale ogni suo sforzo è di convertirla in opinione religiosa, razionalmente opinabile. Il vero e decisivo conflitto minaccioso di limitarlo che il Potere aveva di fronte, non era quello con la Chiesa, che la teologia politica sin dalle origini aveva ridotto con Eusebio a religione imperiale, ma con la Verità. Nel Timeo Platone distingue la verità nata da un travaglio interiore, e che rimane acquisita, dall‟opinione giusta, che viene recepita dall‟esterno per persuasione momentanea e che può essere mutata sotto altra suggestione. Ma egli qui distingue ciò che la Arendt chiama il “modo di asserzione di validità”,134 mentre non tratta della differenza del rispettivo contenuto veritativo, a ragione del fatto che tale differenza non esiste, poiché l‟opinione è “giusta” solo in riferimento alla supposta “verità” noetica, che si riflette in quella. E proprio nel necessario riflesso fattuale consiste il carattere coercitivo della verità di fatto, limitata soltanto da una
132
Ivi, pag. 43. “La verità di fatto è politica per natura [e] informa il pensiero politico così come la verità razionale informa la speculazione filosofica”: H. Arendt, Op. cit., pag. 44. 134 H. Arendt, Truth and Politics, tr. it. cit., pag. 45. 133
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fattualità meglio correlata, ossia, politicamente, da “un potere che frena altro potere”, secondo il detto di Montesquieu. E poiché Potere più grande di quello di Roma non ce n‟era, ecco che la sua correlazione con la onnipotenza di Dio ne faceva un Potere assoluto, religiosamente legittimato dalla necessità di esplicarsi come tale in quanto tale, in quanto Potere, cioè, divinizzato. Di fronte a tale necessità mimetica dell‟ terreno al Potere superno, qualunque riserva d‟opinione sarebbe stata considerata blasfema e irrazionale, come l‟avversione degli imperatori anti-cristiani e le posizioni teologiche degli eretici nella ricostruzione di Eusebio. Infatti, come ha ricordato la Arendt, il ricoscimento esatto dalla verità di fatto “preclude il dibattito” che è “l‟essenza” della ricerca dialettica quanto della “vita politica”. Ma una volta che il concetto conseguito al dibattito è giunto alla sua formulazione e successiva socializzazione, esso diventa opinione pubblica, , la quale, come ogni credenza condivisa, è passibile di privata rivisitazione filosofica e di politico dibattimento, ma che finché vigente vale quanto la verità razionale. Se la verità di fatto è stabilita dall‟opinione politicamente condivisa, allora il pensiero politico ne è il riflesso rappresentativo, sicché “quante più posizioni altrui ho presente nella mia mente mentre sto ponderando una data questione, e quanto meglio posso immaginare come sentirei e penserei se fossi al posto di queste persone, tanto più forte sarà la mia capacità di pensiero rappresentativo e tanto più valide saranno le mie conclusioni finali, la mia opinione”. 135 L‟opinione il cui grado di verità è parametrato sulla sua capacità a costituirsi come una rappresentazione quanto più universale della realtà, concerne una intelligenza di tipo naturalistico, inerente alla vita biopsichica dell‟uomo come essere intelligente, che però non riguarda l‟essenza della verità dell‟uomo in quanto essere spirituale, cioè quella conoscenza ottenuta a seguito della coscienza della sua libertà, che è pari al grado della “sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico” e che è relativa alla capacità, non già di rappresentare la realtà in cui è immerso ma bensì di svincolarsi dal potere dell‟ambiente, della vita organica e delle sue relazioni di
135
H. Arendt, Truth and Politics, tr. it. cit. , pag. 48.
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intelligenza.136 Ovvero, di trascendere la realtà del divenire storico in cui dominano le opinioni ideologiche e le verità di fatto garantite dalle istituzioni del Potere politico, atte a custodirne il possesso permanente “nella realtà durevole della politica”, che invece il libero convincimento della non può garantire.137 Il paradosso del sistema teocratico, cioè l‟inversa proporzionalità tra la sua assolutezza e la costrizione all‟obbedienza, si riflette empiricamente nel rischio che la comunità carismatica su base volontaria possa degenerare, col venir meno della sovranità carismatica, in un disordine privo di forse capaci di superarlo. 138 Ed è a questo punto che sorge la questione del Potere come dovere kathechontico di arginare la dissoluzione della comunità, ovvero come logica politica tesa a escludere le forze negative riguardo alla positività della fede, ed eversive rispetto all‟ordine costituito sulla sua base. E quella del Potere è una questione essenzialmente teoretica, concernente la natura del sapere, se umana e naturale o divina e spirituale. Il sapere, se inteso come conoscenza dei nessi tra fenomeni nella loro relazione empirica, conduce sempre alla coscienza attuale che lo possiede, ma è un sapere aperto e mobile quanto variabile il suo molteplice oggetto e ha per soggetto l‟uomo. Se invece il sapere è inteso come conoscenza di un processo spirituale unico per compiutezza ed eterno per costituzione formale, esso trascende il corso degli eventi fenomenici quale opera di un soggetto divino che ha per oggetto l‟uomo. Nel primo caso, la trama degli eventi significativi per la coscienza attuale che la compone è indefinitamente variabile e trova il suo luogo di determinazione formale nell‟orizzonte di sapere storicistico, che ha come sua rappresentazione scientifica la storiografia immanente. Nel secondo caso, il senso recondito degli eventi fenomenici non è custodito dal loro legame causale, riferito alla coerente sequenza di un relativo processo temporale, ma dal loro significato simbolico che ha come referente esplicativo un paradigma trascendente ed eterno di valore normativo per la prassi, che ha come rappresentazione narrativa il Mito.
136
M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928), tr. it. Roma 1997, pag. 144. 137 M. Buber, Koeningtum Gottes, tr. it. cit., pag. 174. 138 Ivi, pag. 185.
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Nel caso del sapere immanentistico ( ), l‟oggetto della conoscenza è l‟opera finita dell‟uomo nel tempo, il suo mondo, determinato nella sua certezza fenomenica. Nel caso, invece, del sapere trascendente (), l‟oggetto della conoscenza è l‟opera eterna di Dio, la cui volontà è solo imperfettamente interpretata dall‟uomo che ne è parte come testimone della verità che lo trascende. Nel caso della conoscenza scientifica (), lo strumento teoretico è la cognizione o concetto razionale. Nel caso della conoscenza simbolica () lo strumento noetico è la rivelazione poetica o intuizione spirituale. L‟atteggiamento propriamente politico, di tendenza normativa esclusivistica, appartiene all‟ambito dell‟orizzonte di coscienza razionalistico o storiografico, mentre l‟atteggiamento carismatico, di tendenza normativa inclusivistica, appartiene all‟ambito dell‟orizzonte di coscienza mitico o poetico.139 Mentre la storiografia determina la realtà significativa dell‟Essere attuale, la poesia racconta l‟Essere evocandone l‟originaria totalità. L‟evento della coscienza razionale stupisce ( ), l‟evento poetico commuove (). Il riflesso socio-antropologico dello stupore è l‟ammirazione confidente ( ), della commozione è il carisma (), l‟incantamento benevolo.
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E. Voegelin distingue una “storia pragmatica”, quella costituita da catene di eventi legati da un nesso strumentale di causa-effetto, volti a conseguire fini inframondani, e che presuppone il relativismo culturale e, alternativamente, la visione naturalistica dei cicli biologici ovvero la visione idealistica della realtà fenomenica; da una “storia paradigmatica”, quella universale del genere umano che individua nessi tra le diverse civiltà legati a eventi comuni, che, pur nelle rispettive differenze culturali, riconoscono nel loro sviluppo una cesura storica, che egli chiama “salto nell‟Essere” (leap in being), consistente nella scoperta di una dimensione della realtà ulteriore rispetto a quella cosmico-naturale e connessa alla dimensione spirituale e morale dell‟uomo; un evento decisivo che, ponendosi al centro della storia, distingue un passato da un futuro. Ved. Id., Order and History, vol. I, Israel and Revelation (1956), tr. it., Milano, 2009, pagg. 15-27, dedicate alla “Simbolizzazione dell‟ordine”. La forma teoretica che caratterizza la storia pragmatica possiamo indicarla nell‟Idea (concetto mentale), il modello razionale della realtà al quale rapportare i fenomeni; il modello della storia paradigmatica possiamo indicarlo invece nel Noema (concezione), che è l‟immagine del mondo derivata da una intuizione della realtà, distinta dal dokos, la fantasticheria secondo Senofane, ovvero l‟illusione in senso di Parmenide.
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Lo stupore nasce dalla supposta relazione che l‟evento esterno ha con la nostra coscienza, che interroga per avere una risposta esplicativa di senso razionale. La commozione si avverte invece in considerazione di un evento che “sta a sé, senza relazioni col presente” e da questo “autonomo”.140 L‟autonomia dell‟evento mitico-carismatico consiste nella sua compiutezza trascendentale, ovvero nella sublimazione della sua finitezza da parte della coscienza spirituale, la quale ascrive al fenomeno attuale un significato assoluto che trascende il contesto presente, e che la coscienza razionale assegna al passato, ma che in realtà passato non è. Infatti, la coscienza mitica non fa scaturire “l‟interesse per il passato sulla possibilità di identificare qualcosa di presente con qualcosa di passato”, 141 poiché la scansione temporale diacronica presuppone un tempo unitario originario, ma propriamente si riferisce a quel tempo archetipo anteriore al continuum storico, precedente dunque la distinzione tra passato e presente, e all‟interno del quale ogni evento è compiuto, e perciò, in virtù della sua compiutezza, è diventato paradigmatico per ogni evento analogo. L‟analogia poetica consiste appunto nel ricondurre il fenomeno presente al suo modello archetipo atemporale, ritenuto divino, la cui carismatica lo rende eterno. L‟evento divino, eterno, narrato dal Mito non è “la causa” ( ) di quello terreno,142 presente, ma la sua origine ( ), da cui discendono i fenomeni temporali. La rappresentazione antropomorfica delle gesta degli dèi omerici che interagiscono con i mortali stabilisce in nuce il rapporto dialettico tra concetti eterni e transeunti parole, sicché la determinazione razionale delle immagini mitiche è il prototipo culturale di ogni elaborazione filosofica del Mito, e quindi di ogni demitizzazione razionalistica della verità, la quale, nella trascrizione in termini razionali assume una forma () ideale. L‟Idea platonica, dell‟icona mitica originaria ha conservato il valore di modello paradigmatico, ma, in quanto espressione determinativa di una immagine trascendente, astratta dal suo contesto unitario, ne ha perduto la totalità, la cui corrispondente forma immanente è l‟universalità. L‟Idea universale include nel suo
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B. Snell, Op. cit., pag. 215. B. Snell, Ibidem. 142 Come asserito da Snell, il quale ritiene che sia “naturale” il modo d‟agire degli dèi omerici, anziché la sua coscienza storica: Op. cit., pag. 216. 141
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orizzonte rappresemtativo la sola realtà fenomenica analoga al proprio modello simbolico, a esclusione di ogni altra, idealmente sussumibile a sua volta entro un altro orizzonte formale. Ma proprio la molteplicità di tali forme universali rappresenta la de-generazione di esse dall‟unitario paradigma mitico archetipo, la cui trascendenza il Logos razionale non coglie, e perciò affidata da Platone stesso alla pre-scienza dell‟intuizione spirituale. Il Logos infatti, della molteplicità dei fenomeni idealizzati, coglie solo il contrasto ( ) tra ciò che è e ciò che non-è, la cui distinzione è la radice dell‟attività politica ( ) e della sua rappresentazione storica. La distinzione ontologica, riguardante l‟oggetto del pensiero, diventa contrasto politico allorquando l‟oggetto qualificato diventa fattuale e, in quanto concreto ente fenomenico, passibile di una qualificazione non univoca e quindi opinabile. La molteplicità delle possibili determinazioni logiche di un ente fattuale dipende dalla sua stessa fruibilità, ossia dalla relazione che quell‟ente ha con l‟opinione che l‟assume. 143 Il tentativo socratico-platonico di conseguire una determinazione univoca degli enti attraverso la ricerca della loro definizione concettuale intendeva superare proprio la plurivocità delle interpretazioni foriera di disordine reale. Il lato compulsivo della logica diairetica è riposto esattamente nella univoca determinazione del concetto come idealmente rappresentativo dell‟ente reale. Stabilita tale rappresentanza ideale, si poteva risolvere anche il caos delle interpretazioni, dal quale discendeva il disordine delle opinioni politiche. Il passaggio dal disordine teoretico alla definizione univoca risolveva, come indicato nel Gorgia, anche l‟ politica. E questo compito ordinamentale Platone assegnava appunto al Potere. L‟operazione di razionalizzazione, che in campo teoretica produce chiarificazione, nella sfera politica si rivela illusoria, in quanto la pluralità delle opinioni sulla qualità degli enti non elimina la loro molteplicità, che viene confermata nella sua natura ontologica dalla semplice ma essenziale circostanza che ogni ente concreto, in quanto unità esistenziale, ha in sé la molteplicità delle sue possibili determinazioni ideali, ognuna delle quali possibilità ne rappresenta idealmente l‟unità concreta. Pertanto, se la definizione concettuale degli enti elimina da essi la molteplicità delle determinazioni possibili astraendoli dal divenire
143
B. Snell, Op. cit., pag. 285.
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altro da ciò che sono, li consegna nello stesso tempo alla fruizione anarchica della loro concreta esistenza fenomenica, secondo un procedimento analogo allo sradicamento esistenziale che abbiamo visto operare dal Potere politico razionalizzato. Dal punto di vista spirituale, la pluralità delle determinazioni possibili, che secondo Omero rende l‟uomo “meno stabile dell‟animale”, 144 riferita alla sfera noetica, è propria della rappresentazione simbolica o immagine analogica del Mito,145 la cui libertà, riferite alla sfera esistenziale, ne costituisce il presupposto della conoscenza di sé come essere eterno. 146 Ma che cosa propriamente si conosce attraverso la del Mito? La “limitazione dell‟io”. Infatti, la maggior parte dei paragoni insegnano all‟uomo a riconoscere la propria umanità e la propria limitatezza. Essi esortano alla conoscenza dell‟io, nel enso del motto delfico „Conosci te stesso‟, e quindi alla misura, all‟ordine, alla riflessione. […] Il mito si distingue da ciò che è empiricamente dato, in quanto non offre puri fatti, ma rivela anche il senso e il valore degli avvenimenti, e ciò che è “proiettato”, e quindi “letto”, nelle cose, non appare come il risultato di un‟interpretazione umana, ma si presenta come una realtà in sé valida e divina. 147
La narrazione storica ricorda “fatti” in sé non significativi, 148 ma che
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Cit. da B. Snell, Op. cit., pag. 284. “Il pensiero mitico ha stretta attinenza col pensiero che si esprime in immagini e similitudini”: Ivi, pag. 310. 146 “Come nell‟alta poesia così nella tragedia attica, è attraverso il mito che l‟uomo giunge alla conoscenza di sé [sicché] i Greci scoprirono lo spirito vedendolo proiettato nei miti ”: B. Snell, Op. cit., pag. 289. 147 B. Snell, Op. cit., pag. 290. 148 “I fatti non hanno alcuna ragione decisiva per essere ciò che sono; essi avrebbero sempre potuto essere altrimenti, e questa fastidiosa contingenza è letteralmente illimitata. […] E‟ vero che a uno sguardo retrospettivo – cioè in una prospettiva storica – ogni successione di eventi appare come se non sarebbe potuta accadere altrimenti, ma ciò costituisce una illusione ottica, o piuttosto, esistenziale: nulla potrebbe mai accadere se la realtà, per definizione, non uccidesse tutte le altre potenzialità originariamente inerenti ad ogni data situazione. In altri termini, la verità di fatto non è più evidente dell‟opinione e ciò potrebbe essere tra le ragioni per cui coloro che hanno delle opinioni trovano relativamente facile screditare la verità di fatto come se fosse soltanto un‟altra opinione [infatti,] nel caso di una controversia, non è possibile invocare nessuna terza 145
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assumono significato nella relazione razionale che, se condivisa, li definisce come una “verità”, per l‟appunto una “verità di fatto”. Proprio in virtù della loro compiutezza - in sé significativa, ma sempre aperta alla interpretazione per l’uomo -, le narrazioni mitiche svolgono una funzione morale altamente pedagogica che, assegnando all‟uomo, e dunque alla possibilità del suo Potere universale, il suo posto nel cosmo, assume il significato stesso dell‟ordine sociale. La filosofia politica non fa che trasferire questa istanza d‟ordine dal piano analogico in cui si muove il Mito al piano delle determinazioni necessarie della natura, confermate dalla regolarità delle sue immutabili leggi, così che “la connessione causale viene un po‟ alla volta a sostituire l‟ordine intuitivo”.149 La differenza essenziale rispetto alla rappresentazione analogica è che nella spiegazione razionalistica viene a perdersi “la concreta realtà delle cose”,150 dal momento che la loro determinazione logica le sottrae all‟eternità del divenire per consegnarle alla sclusiva attualità del loro astratto presente storico. La filosofia, astraendo l‟immutabile carattere del divenire dalla sua empirica fenomenologia, tratta l‟essenza del divenire come l‟opposto logico della sua realtà fenomenica, e credendo pertanto di conoscere ciò che è immutabile e contrapposto ai fenomeni, conosce in realtà solo questi attraverso la loro immagine idealizzata credendola vera. E così pensando, trasforma un sapere creduto più vero degli dèi del Mito in una empia superstizione idolatrica. Se è vero che il rapporto con l‟altro da sé determina anche la propria posizione onto-teo-logica, è importante stabilire il limite dell‟universalità razionale al fine di stabilire i confini del pensiero che sostiene l‟opinione politica. Il limite è la soglia del passaggio ad altro genere (). Il limite del pensiero è l‟azione. Il pensiero speculativo trova il suo limite ontologico nell‟azione politica. Rectius: nell‟agire politico. Infatti l‟azione politica è sempre un agire oggettivo,
superiore istanza […] e generalmente si giunge a una risoluzione attraverso una maggioranza, cioè nello stesso modo in cui si giunge alla risoluzione di conflitti di opinione […]”: H. Arendt, Truth and Politics, tr. it. cit., pagg. 49 e 50. 149 B. Snell, Op. cit., pag. 296. 150 Ivi, pag. 300.
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socializzato, mentre il pensiero è sempre soggettivo. Il collegamento tra pensiero e azione in termini di corrispondenza, e quindi di reciproca identità, è impossibile fuori dell‟intuizione morale, che concernendo la totalità dell‟esperienza del soggetto non ne determina la realtà effettuale, oggetto del giudizio razionale. “Reale”, cioè attualmente presente alla coscienza, è solo l‟agire collettivo, l‟ambito oggettivo in cui ha senso l‟azione come volizione soggettiva. Il limite è pertanto la soglia che separa la soggettività dalla oggettività, la filosofia dalla politica. La politica come orizzonte di genere collettivo è l‟ambito di limitazione del filosofare, dell‟orizzonte di pensiero del soggetto teoretico, del pensiero tout-court. Il limite al pensiero costituito dalla oggettività è l‟agire politico. un limite anch‟esso “oggettivo”, in quanto oltre quella soglia della soggettività, la verità diventa opinione. L‟opinione, rispetto alla verità, esige per sussistere oggettivamente di essere condivisa. L‟essenza della politica, cioè dell‟agire di senso politico, è la ricerca del consenso utile a trasformare l‟istanza particolare in opinione condivisa, in istanza collettiva, oggettivata. L‟agire politico verte su questa esigenza fondamentale: fare dell‟opinione una verità di fatto, politica. la verità politica è l‟opinione condivisa, oggettivata, socializzata. Ciò fa dei partigiani dell‟opinione politica una comunità ermeneutica, non diversa paradigmaticamente da una comunità religiosa, la quale è tale in quanto condivide la stessa interpretazione teologica.151 La questione che sorge a questo punto è se valga la reciproca. Ovvero se la politica riconosca come suo limite il pensiero teoretico, la filosofia. La politica, nella sua espressione di Potere, tende ad asservire la filosofia, ossia a socializzare il pensiero soggettivo per renderlo oggettivamente fruibile per l‟azione. Se ci riesce è perché il metodo rzionale del pensiero filosofico è lo stesso principio logico che costituisce il criterio di giudizio politico: la distinzione ( ) tra essere (amico) e non-essere (nemico). Il pensiero filosofico, che ambisce a diventare credenza collettiva, non può incontrare il suo limite nel proprio desiderio di oggettivarsi, e pertanto la politica non può trovare nella filosofia il proprio limite, ma solo eventualmente la propria inattualità o possibilità
151
F.D.E. Schleiermacher, Glaubenslehre, tr. it. Brescia 1981-1985, vol. I pagg. 467481, vol. II pagg. 245-257.
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d‟essere (desideratum). La politica, infatti, è a sua volta la prassi di una credenza già soggettiva e oggettivata dalla condivisione. La politica, cioè, è un pensiero che ha varcato la soglia della soggettività diventando una opinione condivisa. Essa dunque svolge una funzione di mediazione ontologica tra il soggetto pensante e l‟oggetto pensato, analoga a quella del Logos teologico tra il (Governo di) Dio e (il Potere de) l‟uomo. Ma la funzione tecnica svolta dalla politica le è consentita dalla possibilità insita nel pensiero di oggettivarsi, diventando altro, sicché tale possibilità rimane latente nel pensiero in quanto tale, e per questa ragione non può costituire un limite alla politica, impendendo al suo Potere di operare la . Il limite al Potere, e dunque all‟agire politico nel suo insieme, è costituito solo da ciò che non ambisce diventare altro da ciò che è, e dunque non deve alla condivisione fattuale la sua realtà ontologica. In questo senso, il limite al Potere politico è lo stesso limite della filosofia: la Verità, immutabile, eterna, unica: Dio, che Buber chiama “la sfera dell‟Incondizionato”.152 Verità è ciò che non può subire alterazioni di stato, verso cui nn può operarsi alcuna , in quanto il suo essere è compiutamente Uno e non diviene, e dunque non può cambiare a opera della mediazione politica. Ciò che non muta è eterno,non è nel tempo. rispetto a ciò che cambia essendo nel tempo e dunque diviene, la Verità è ciò che Barth chiama “il totalmente Altro”, ossia il Negativo dell‟Essere, che avvolge il divenire come la Morte avvolge la Vita che passa.e poiché ciò che diviene e passa è Natura, la Verità eterna e immutabile è Spirito, l‟altro dalla Natura. E poiché per la filosofia la Natura è l‟Essere del pensiero, la Verità non è di natura razionale ma è spirituale. Ne consegue che il limite della politica è la dimensione spirituale, l‟ambito della Verità, l‟orizzonte dell‟eternità. La rimozione razionalistica della Verità coincide con l‟eliminazione del limite al Potere, ossia all‟onnipotenza della politica. Al tempo di Eusebio, il Potere per antonomasia era l‟Imperium pagano di Roma, che aveva mandato a morte Gesù e, tra gli altri martiri, Paolo e Pietro. Proprio l‟incontro della escatologia cristiana e il suo principio della charitas con il Potere di Roma genera la Weltanschauung caratteristica della Chiesa cattolica. Per comprendere la portata teoretica e politica della teologia di Eusebio
152
M. Buber, Zwei Glaubensweisen (1950), tr. it., Cinisello Balsamo 1995, pag. 59.
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bisogna porla in relazione con la sua storica verità fattuale, che è appunto l‟Impero Romano cristiano, il cui orizzonte politico coincide con la cristianità, intesa come comunità religiosa, ermeneuticamente definita dalla relativa teologia politica cattolica. L‟atto noetico fondamentale di questa teologia politica è la fede ( ) cristiana assunta, non nel suo valore esistenziale e singolare, ma nel suo valore oggettivo e fattuale, fondativo di una religione il cui statuto non è tradizionale ma originale, analogo alla fondazione politica, ossia a una opinione socializzata. La fede assunta nella sua verità di fatto “genera una interpretazione () che istituisce il rapporto religioso”. 153 Ciò comporta che il Cristianesimo si sia sviluppato e affermato come una opinione (la credenza nella divinità del Cristo) in cerca di consenso, alla stregua di una verità di fatto, di una opinione socializzata, che nel caso di una comunità religiosa è un sapere ermeneutico. La comunità originaria dalla quale si determina la trasvalutazione dell‟atto noetico della fede cristiana in logos religioso è la tradizione ebraica, che ebbe una funzione di Mito rispetto alla rielaborazione teologica operata da Paolo e da Giovanni. Finquando la predicazione e la testimonianza cristiane restavano nell‟ambito religioso dell‟ebraismo, ogni referente teologicamante innovativo rimaneva determinato all‟interno della tradizione ermeneutica ebraica, sia nel senso possibile dell‟ortodossia che in quello opposto della eterodossia. La svolta fideistica che ha segnto il distacco netto da quella tradizione ermeneutica e religiosa intervenne con l‟evento della Resurrezione di Cristo, che interrompe la relazione fattuale della testimonianza diretta di Gesù vivente, per affidarsi alla testimonianza mediata dal carisma degli apostoli, che, dopo la Sua morte, diventano i nuovi referenti della fede cristiana. A partire da questa relazione di fede, non solo nel Cristo figlio di Dio ma anche nella testimonianza apostolica, la comunità cristiana si costituisce come una comunità carismatica, fondata sulla comunicazione individuale di un sapere ermeneuticamente incentrato sui Vangeli e sugli Atti degli Apostoli. Su questa carismatica, che rimarrà sullo sfondo di ogni promozione e conversione evangelica, si giustappone il soggetto
153
Ved. S. Sorrentino, Saggio introduttivo a M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pag. 18.
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istituzionale della Chiesa universale, il cui statuto epistemologico della sua teologia è lo stesso di ogni sapere scientifico, stabilito dall‟uso metodico della ragione. A seguito di questa adozione epistemologica, l‟ermeneutica ecclesiastica si estende dall‟oggetto della fede, l‟evento cristico, all‟oggetto del sapere universale, il mondo della Storia, stabilendo in questa seconda fase la sua relazione con l‟evento cardinale della vita storica profana, la realtà dell‟Impero romano. Ed è in questo contesto ermeneutico che va interpretata la posizione teologico-politica imperialistica di Eusebio, il quale trasferisce il senso dell‟evento escatologico cristiano dal contesto biblico entro il processo storico universale, secondo una corrispondenza simmetrica tra la teologica e la fattualità che, trasvalutando il senso originario della conversione spirituale dal mondo, costituisce il presupposto realistico della sua fruibilità politica infra-mondana, tendendo a far convergere in un‟unica prospettiva gnoseologica la verità di fede nella realtà di Dio con la verità storica della realtà del mondo. Questa conversione di fede dalla dimensione della metanoia soggettiva alla dimensione oggettiva della sfera politica confermerebbe l‟attualità storica del kairòs e pertanto l‟incidenza della basileia divina nel corso degli eventi mondani collettivi. In tal senso la fede in Dio è la condizione stessa della fede nell‟umanità, tale che la Sua potenza sia il fondamento religioso della stessa sussistenza del Potere umano. Nel passaggioda una dimensione di fede dialogica, legata alla situazione concreta dell‟esistenza umana, a una dimensione dialettica, fondata su un avvenimento oggettivo indipendente dai soggetti che vi sono coinvolti collettivamente, Buber riconosce la differenza tra la “proclamazione” di fede della tradizione ebraica, e il “riconoscimento” di fede del cristianesimo ellenistico. 154 Come pure ricorda Buber, la fede in senso cristiano viene definita da Paolo nella Lettera agli Ebrei “con due nozioni”: quella israelitica “ferma fiducia circa le cose sperate” e quella greca di “prova (élenchos) delle
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M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pagg. 82-83. “Che il principio della fede come riconoscimento e accettazione, nel senso di un ritenere-ormai-per-vero, sia di origine greca, è fuori discussione. In effetti esso è stato reso possibile solo dalla scoperta, operata dal pensiero greco, di un atto di riconoscimento del vero. Gli elementi di carattere non noetico, che nel corso della missione del Cristianesimo primitivo si sono collegati a questa concezione della fede, derivano per l‟essenziale dall‟universo spirituale ellenistico”: Ivi, pag. 60.
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cose che non si vedono”.155 Ciò che è promessa divina è realtà per gli uomini di fede ebraica, ma nel caso dei cristiani la fede non viene posta sulla realtà di Dio bensì sulla inattualità dell‟Essere, la cui possibilità non si esaurisce nella sua presenza fenomenica ma si manifesta attraverso il Logos, sulla cui figura di Figlio pertanto va indirizzata la fede riservata al Padre. La fede in Cristo, inoltre, non va intesa solo come presa d‟atto della Sua realtà terrena, ma soprattutto come presenza spirituale post mortem, del tempo in cui mancherà il riscontro fattuale della Sua esistenza vitale. La fede in ciò che non si vede concerne dunque la considerazione nella esistenza umana della dimensione della totalità, che è spirituale e trascendente la realtà ontica del presente. In tal senso la fede in Dio acquista valore di legittimazione trascendente delle opere umane, il loro senso spirituale, ossia la loro giustezza di cui Rom, 1, 17 sgg. Di converso, l‟ingiustizia degli uomini si manifesta nel negare la verità dell‟esistenza divina, adorando falsi idoli, e nel misconoscere la sua “eterna potenza”, opponendo alla Sua glorificazione “vani ragionamenti”, ossia gli stolti filosofemi coi quali hanno giustificato l‟ignoranza della misura nell‟esercizio dei loro arbitrarii eccessi. 156 Misura o giustizia che coincide con la fede in Cristo (Rom 3,22; Gal 2,16). In virtù della sola fede in Cristo l‟uomo, a prescindere dalla sua provenienza e cultura religiosa, sarà giudicato giusto (Rom 3,28), per cui tutti “i pagani non sono tenuti a passare per il Giudaismo se vogliono arrivare a Cristo, ma hanno un loro proprio accesso diretto a lui”. 157 La fede diventa l‟atto fondativo dell‟appartenenza alla comunità cristiana universale, la categoria mistica con cui si trasvaluta l‟antropologica identità dell‟uomo, ma costituisce anche il principio del suo sradicamento socio-culturale. Il cristianesimo, proposto come fede universale, viene emancipato dall‟ religiosa ebraica, stabilendo al posto del Principio mitico della fede tradizionale158 quello teologico razionalistico dell‟auto-fondazione dell‟evento salvifico, che indica l‟inizio cronologico ( ) di un
155
Ivi, pag. 85. Ved. W. Kasper, Misericordia, tr. it. cit., pag. 122. 157 M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pag. 101. 158 Principio che Gregorio Nazianzeno indica come . Ved. C. Micaelli, La cristianizzazione dell’ellenismo, Brescia 2005, pagg. 123-172. 156
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nuovo eone () e la causa ()159 di una storia che “mira a convogliare tutti i popoli nel super-popolo della Chiesa”.160 Con la razionalizzazione del principio generativo, si introduceve la delicata questione della gerarchia ontologica fra chi genera e chi è generato, e quindi l‟idea di mutamento all‟interno dell‟Essere divino, che a lungo occuperà la riflessione teologica pre-nicena.161 Ma in quale modo si poteva validamente e non genericamente o formalmente credere? Il solo modo legittimato da Gesù nel Discorso della montagna è la “perfezione di Dio”, ossia la santità, con cui si indica l‟interezza della dedizione a Dio col sentimento della misericordia, 162 che Gesù testimonia con l‟autolimitazione (, Zurueckhaltung) “fino alla morte in croce”.163 Tanto la di Dio, cioè la volontaria sottomissione alle potenze del mondo, che l‟orientamento del cuore dell‟uomo ispirato dalla parola di Dio, sono i termini polari costitutivi della misericordia o giustizia divina, che hanno una rilevanza fondamentale “per la nostra immagine di Dio, per nostra autocomprensione, per la prassi della nostra vita, per la prassi ecclesiale e per il nostro comportamento nel mondo”, 164 essendo nella cultura della misericordia il senso stesso del “compimento della Legge” annunciato da Gesù come coerente praxis.165 Questa coerenza impone di amare Dio e, attraverso il Suo amore per l‟uomo, anche l‟uomo amato da Dio, giungendo per tale circolo agapico alla costituzione della fondamentale categoria dell‟etica cristiana, di origine ebraica. 166 La conseguenza derivante dalla inottemperanza al precetto dell‟amore è di subire la volontà di Dio, che da padre diventa padrone, e gli uomini da figli, schiavi, “poiché tutti voi siete figli di Dio grazie alla fede in Cristo Gesù” (Gal 3,26).167 La inottemperanza ai precetti divini rienta nelle possibilità della libertà
Dio viene spesso indicato come da Filone: ved. M. Pohlenz, La Stoa, tr. it. cit., pag. 773 n. 4. 160 M. Buber, Op. cit., pag. 59. 161 Fondamentale la ricerca di J. Daniélou. 162 Ivi, pag. 107. “Dio della misericordia” è appellato in 2 Cor 1,3. 163 W. Kasper, Op. cit., pag. 124. 164 Ivi, pag. 126. 165 M. Buber, Op. cit., pagg. 108 sgg. 166 Ivi, pag. 119. 167 Ivi, pag. 120. 159
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dell‟uomo, ma anche l‟ottemperanza avvertita come un merito, anziché un dovere, è peccaminosa, in quanto sostituisce la propria giustizia a quella di Dio (Rm, 10,3).168 Ma in cosa consiste la giustizia dell‟uomo? Se fosse un calcolo naturale, essa non potrebbe essere peccaminosa più dell‟istinto animalesco, che ha una funzione stabilita dal disegno divino. Se invece è deliberazione della volontà, essa implica una scelta, di pro o contra Deum. Il contra Deum equivale alla deliberazione pro ispsius causam, cioè al calcolo utilitaristico di anteporre il proprio interesse al bene altrui. Questa “concupiscenza”, come attenzione al sé, è l‟opposto speculare della “misericordia”, quale attenzione all‟altro. Sul piano delle relazioni sociali, la concupiscenza genera disordine, poiché ogni atteggiamento meramente utilitaristico, ignorando le ragioni dell‟altro tende a negarlo, e quindi a combatterlo. Si può dunque affermare che la condizione politica sia l‟orizzonte fenomenologico del principio dell‟azione utile a sé, ossia dell‟agire economico. L‟agire politicoeconomico rappresenta pertanto quello che il precetto divino della misericordia vuole evitare in quanto costitutivamente polemico. Ma in che senso la fede cristiana “compie”, cioè perfeziona (attraverso la Grazia) la Legge della tradizione ebraica? La risposta che richiami la finitezza dell‟uomo e imperfezione della sua condizione, dilaziona la soluzione ma non la offre. Infatti la finitezza stessa della condizione umana è uno status naturae lapsae originario, e come tale non può essere scelto o evitato dall‟uomo. Ciò che l‟uomo è in potere di fare è impedire che la finitezza occupi tutto il suo piano d‟esistenza, non lasciando spazio al suo trascendimento morale, che comunque non può ignorarla. La stessa santità, o dedizione totale a Dio, deve tenerne conto. Ma se è così, come si può chiedere all‟uomo di imitare Dio? la perfezione non è imitabile in quanto non è conseguibile dall‟uomo. questo spiega l‟intervento della Grazia, ma non il senso della richiesta divina di “essere perfetti come è perfetto il padre vostro celeste” (Mt 5,48). Qui la perfezione, se riferita alla condizione umana, non può che significare la preferenza della dimensione morale della santità a quella naturalistica della potenza economica. Ma in riferimento alla perfezione divina, la richiesta pare incongrua e quasi paradossale se paragonata al divario tra la divinità di Gesù e l‟umanità degli apostoli. Il senso di quella perfezione umanamente
168
Ivi, pag. 124.
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conseguibile è nella misericordia, come giustamente chiosato da Buber a proposito del passo parallelo di Lc 6,36,169 ma anche la possibilità di conseguire una prospettiva misericordiosa richiama la potenza dell‟uomo, della sua volontà (voluntas agendi), che va a incidere su o collidere con la volontà altrui. In tal senso, l‟azione misericordiosa opera entro un agire economico, dal cui contrasto essa acquista valore morale. Il contrasto, dunque, è all‟origine della sussistenza dell‟atto morale, che è escatologico in quanto trascende il contesto polemico, che costituisce il “destino” della necessità dell‟uomo naturale, ed è etico in quanto conseguente a un precetto deontologico di superare la “verità di fatto” dell‟ordine sociale. Il trascendimento della realtà di fatto e il superamento della sua logica economica avviene attraverso la fede nella possibilità di affermare il valore (trascendente) dell‟azione morale entro l‟agire economico (immanente). Assegnare all‟azione soggettiva un valore trascendente quello comune della “verità di fatto” significa appunto “imitare la perfezione di Dio”, ossia Colui che afferma la Verità al di là da ogni condivisa opinione sociale. Nell‟azione morale la possibilità, che nell‟azione economica ha una valenza sociale, viene ad assumere un valore tutto soggettivo, legato all‟intenzione dell‟agente e non all‟esito fattuale del suo risultato oggettivo. Ciò comporta che a) non si dà azione morale che all‟interno dell‟agire economico; b) è possibile conseguire la perfezione della carità solo trascendendo il piano dell‟agire politico, informato alla logica economica. Questo doppio movimento, di anabasi verso la realtà sociale e di catabasi dalla dimensione politica, riflette la duplice natura dell‟uomo, costretto alla sua dimensione naturalistica e politica, e libero di trascenderla spiritualmente. L‟imitazione divina dell‟atto morale consiste nella incuranza del suo esito. Infatti, come Dio ha reso liberi gli uomini di ossequiare le Sue direttive, parimento l‟uomo morale agisce senza tenere in debito conto le reazioni e le aspettative del suo pubblico, cioè al di fuori di una prassi razionalmente volta a un fine, e quindi in senso simbolico. Il valore simbolico dell‟atto morale è riposto nell‟analogia ( ) con l‟atto
169
M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pagg. 106-107.
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d‟amore di Dio verso gli uomini, al di fuori di ogni rapporto costrittivo. Solo in un caso l‟imitazione umana della “perfezione” di Dio può risultare impossibile, quello in cui Dio sia concepito come un‟Idea e l‟uomo come la Sua immagine ( ), necessariamente imperfetta rispetto al suo modello. D‟altro canto, la rappresentazione iconica dell‟uomo, se fa perdere il carattere di singolarità dell‟esperienza della fede, assegna a questa un carattere di universalità atta a comprendere l‟umanità cattolica. Da queste premesse teoretiche, universalistche e idealistiche, nasce il teomimetismo della teologia politica di Eusebio, intesa a presentare l‟imperatore come la “immagine” di Dio e la “imitazione” del LogosChristos, e dunque, come il Cristo mediatore tra il divino e l‟umano, anch‟egli re, sacerdote e profeta, assommante in sé il potere di ministerio, di magistero e di governo. La fusione dell‟imperium col sacerdotium vanifica la distinzione tra la “legge dello Spirito” e la “legge del peccato e della morte”, come pure l‟esortazione di Paolo a compiere la legge amando l‟altro, poiché “il compimento della legge è l‟amore” (Rm 13,8 e 10). Questo elemento irriducibilmente soggettivo e spontaneo, cioè non prescrivibile, costituisce il fondamento di una fede che non si presta a trasformarsi in religione di Stato. La teoria dell‟imperatore come mediatore tra il divino e l‟umano riassume nella sua figura onnirappresentativa ogni possibile rapporto tra il credente e Dio, ripristinando la figura dell‟interprete arbitrario della Legge che Gesù aveva condannato antonomastcamente nel fariseo,170 e la costituisce come il nuovo idolum imperiale, sancito ufficialmente dall‟editto Cunctos populos dell‟imperatore Teodosio (379395), emanato a Tessalonica il 27 febbr 380, che, sostituendo gli dèi dell‟Olimpo con il Deum Christianorum, obbligava tutti i sudditi dell‟impero alla professione cristiana. 171 La conseguenza più rilevante, e devastante, di questa svolta teo-politica è l‟assimilazione della basileia al Potere, che determinerà tutto il corso della filosofia politica occidentale e delle sue forme istituzionali. La stessa resurrezione di Cristo, trasfigurata
170
Sulla concezione farisaica, ved. M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pagg. 133 sgg. 171 Ved. E. Dal Covolo-R. Uglione, Chiesa e Impero. Da Augusto a Giustiniano, Roma, 2001.
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politicamente nella successione del corpo fisico alla carica del corpo mistico, è una conseguenza di tale teologia, come pure la teoria della divisione dei poteri, che concepisce il Governo come una costola dello stesso corpo politico unico del Potere. La conseguenza logicamente inevitabile fu che l‟Unità del Potere, intesa come il compendio della molteplicità delle espressioni potestatarie particolari, si identifica col Tutto, che invece dovrebbe comprendere in sé l‟Uno e il Molteplice. Eliminato il Tutto dal pensiero del mondo, si è eliminato Dio, cioè la realtà stessa di quel Tutto trascendente, sostituito idolatricamente con l‟unità immanente del Potere. L‟ “uno in Cristo” di 2Cor 5,17 è sostituito dall‟unità in Cesare, per cui la “nuova creazione” acquista una accezione punto spirituale e invece affatto politica. La traslazione di senso produce una diversa origine, e quindi destinazione, dell‟adesione umana alla volontà unitaria del mediatore. Infatti, nel caso di Cristo, la rigenerazione spirituale dell‟uomo comporta, come quella del battesimo, una “salvezza attraverso la verità” (Gv 3,17), mentre nel caso dell‟Imperatore, la rigenerazione è salvaguardia politica per mezzo del Potere imperiale, giusto il detto di Gesù che “chi è nato dalla carne è carne, e chi è nato dallo Spirito è spirito” (Gv 3,6). Sostituire la ruach di Dio con la forza del Potere, non è proprio la stessa cosa, sicché “il potere di diventare figli di Dio” accordati a quanti “hanno accolto” Cristo significa liberarsi dal Potere di Cesare attraveso l‟amore fraterno, laddove diventare sudditi di Cesare significava uscire dalla potestà del Cristo per assumere la condizione di cittadino dell‟Impero. Infatti, essendo Gesù “la [unica] via”, “nessuno viene al Padre se non per Lui” (Gv 14,6). La relazione mimetica tra eone cristiano ed epoca romana si determina anche cronologicamente nella coincidenza, provvidenzialmente predisposta, tra l‟Impero e l‟evento cristico, ossia tra l‟unificazine di tutte le nazioni sotto un‟unica autorità e l‟unità religiosa dei popoli. 172 L‟intervento politico nel disegno soteriologico doveva presumere, con la di Dio, anche la polarità entro il genere umano tra i popoli interni alla Storia irenica della romanità e i popoli esterni che, pur compresi come quello di Israele entro l‟Imperium, rimasero refrattari per “un indurimento” religioso ad accogliere il messaggio messianico (Rm 11, 25), quasi che la dicotomia paolina tra israeliti buoni e non buoni
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Eusebio, Dimostrazione Evangelica, III 7, 30-35, cit. in R. Farina, Op. cit., pag. 152.
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assumesse una dimensione universale, attraversata da una imperscrutabile quanto astuta ragione divina,173 il cui sotterraneo disegno provvidenziale assegnava all‟unità religiosa il compito di perfezionare l‟unità politica della lex romana, contrassegnata in passato dalle diaboliche persecuzioni dei cristiani, ammesse da Cristo a scopo catartico ed emendativo, perché “apparisse chiaro agli occhi di tutti che il sorgere della Sua parola era dovuto nn a volontà umana, ma alla Sua potenza”. 174 Le due antitetiche umanità si riflettono anche nelle due versioni storiche dell‟Impero Romano: quella pagana e quella cristiana, sicché l‟unità costantiniana esprimeva una esigenza di composizione universale che coinvolgeva non soltanto la dialettica tra imperium e sacerdotium attraversava ognuna delle due sfere, tale che la loro commistione sotto lo stesso l‟imperio universale rendesse inversamente significativa la rispettiva polarità, per cui l‟eresia religiosa e il politeismo assumevano una valenza politica tanto quanto l‟opposizione politica e la poliarchia un significato teologico, e più in generale il “monoteismo entra nell‟essenza stessa dell‟Impero Romano” tanto quanto “il monoteismo e l‟universalismo del Cristianesimo d‟altra parte postulino anch‟essi la pace come elemento essenziale del Cristianesimo stesso”. In tal senso, messianicamente, “pax christiana e pax romana s‟identificano in quella che viene detta pax constantiniana”, la cui età dell‟oro contrassegna, quale “ del Regno del Padre”, “il Regno di Cristo sulla terra, […] l‟ultima tappa del progresso umano nella civiltà e nella salvezza” prima della finale Parousia.175 Il fondamento di fede cristiana, espresso nella Prima lettera di Giovanni, per cui Gesù era il Cristo e il Risorto era l‟immagine ( ) umana di Dio, acquistava in Eusebio valore paradigmatico nella traslazione di senso teologico-politico che poneva l‟Impero Romano Cristiano come l‟immagine terrena del Regno celeste, la nuova sintetica entità politicoecclesiale () di cui si svelava ora il senso riposto e alla quale i cristiani erano tenuti dogmaticamente a credere negli stessi termini in cui avrebbero creduto nella relazione mistica Dio-Cristo e Cristo-Imperatore, quale immagine binaria per un verso divina e per
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M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pagg. 131-132. Eusebio, Dimostrazione Evangelica, III 7, 36, cit. in R. Farina, Op. cit., pag. 157. 175 R. Farina, Op. cit., pagg. 159, 161-162. 174
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l‟altro umana, secondo il tipico rispecchiamento idealistico tra Idea ed ente, che scioglie “il paradosso della emunà” di un Dio senza immagine.176 In base a tale principio mimetico, non soltanto l‟immagine di Dio fattasi carne viene definita nell‟esperienza del Cristo uomo, in Gesù, ma la forma umana può a sua volta dislocarsi in Pietro, vicario apostolico, e nell‟Imperatore, definito da Eusebio come un vicario laico ( ). Ma tale dislocazione dell‟immagine umana di Dio, “in cui l‟Invisibile diventa permanentemente visibile”, 177 è suscettibile, in virtù della universalizzazione razionalistica della antropomorfica, di essere rappresentata in ogni singolo uomo, quale ente molteplice ed empirico dell‟ ideale, procedendo così alla divinizzazione dell‟umanità. A questo punto appare chiaro che la divinizzazione consista nella relazione che ha l‟Idea universale di Dio con gli enti storici della sua creazione, cioè i singoli uomini, per cui la stessa presenza divina nell‟uomo non sia che la consustanzialità che l‟essenza ideale ha con le sue proiezioni fenomeniche. In tal senso possiamo dunque affermare che la divinizzazione della umanità non sia altro che la razionalizzazione della sua esistenza storica. Eliminato il senso di mistero che ha l‟esistenza umana nella vita cosmica,178 essa si riduce a una fenomenologia di relazioni storiche tra persone, gruppi e culture, classificabili secondo il proprio contesto di appartenenza, uno dei quali è per l‟appunto l‟Impero Romano, il più importante e comprensivo del tempo. La fede cristiana, diventando religione storica di un gruppo umano multi-etnico e unitariamente caratterizzato in senso etico-politico, perdendo le sue radici mitologiche con la confessione giudaica, si costituisce come un evento ex nihilo a partire dal quale si determina una antropologica, la cui originaria rappresentazione escatologica dell‟uomo interessava solo la trasfigurazione della sua essenza spirituale ( ) ma che, con la teologizzazione della vita politica, ha investito anche le sue materiali
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M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pag. 166. M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pag. 171. 178 “Il mistero originario dell‟atto creatore”, lo definisce M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pag. 173. 177
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condizioni di esistenza, secondo una modalità analoga alla costituzione politica () a partire dalla fondazione del principio di ragione (). L‟analogia strutturale delle due costruzioni teoretiche demitologizzanti inerisce uno stesso modello ontologico, in base al quale la funzione di realtà è assegnata esclusivamente all‟ente di ragione, divina o ideale che sia qualificata, e il cui orizzonte universale delimita lo spazio della stessa coscienza noetica. Che il sia o è una questione nomenclatoria che poco rileva ai fini teoretici; ciò che invece rileva è il presupposto archetipo fondativo della fede e, rispettivamente, del sapere, che nelle due modalità assegna una preminenza essenziale alla volontà, intesa come possibilità di determinare quella Da qui deriva come conseguenza logica inevitabile la funzione metafisica e sacrale del Potere e di chi lo detiene ed esercita. La fede razionalizzata in teologia diventa la del sacro, omologa alla dialettica filosofica. E dalla adozione degli stessi strumenti tecnici della rispettiva teoresi nasce l‟affinità ricordata da Scheler tra il monopolio religioso della Chiesa e quello del sapere da parte della comunità scientifica, entrambe deontologicamente ostili a ogni indipendente rappresentazione metafisica della realtà. L‟essenza relazionale del rapporto umano derivato dalla culturale promossa dalla cristianizzazione dell‟Impero, in virtù della traslazione del rapporto sacro col Padre nella dimensione profana del prossimo, perde la sua connotazione trascendente di dipendenza divina, e con essa il “timore” mistico di Dio, garante dell‟ordine cosmico, sostituito con la paura sociale del Potere, garante dell‟ordine politico. La giustapposizione della figura dell‟Imperatre a quella del Cristo è il riflesso simbolico di questa rimozione del sacro e relativa eticizzazione della fede escatologica nel senso dell‟economia politica, di natra collettiva, surrogatoria di quella spirituale, di natura singolare. Un Dio riconosciuto nell‟uomo, non viene più temuto, essendo la sua antica autorità () sostituita dalla più vicina funzione potestativa del Potere, verso il quale l‟antico dialogo mistico diventa difesa dell‟habeas corpus. Cambiano i termini essenziali del rapporto, diventando la relazione da agapica a giuridica. Le forme della relazione umana non sono più stabilite dalla concretezza della prossimità, ma dalla astrattezza del rapporto universale di tipo prescrittivo. La legge torna a dominare la vita dell‟uomo, ma non è più quella divina bensì la legislazione terrena e profana dello Stato.
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La conseguenza principale di tale prospettiva teologica è quella, notata da Buber, già contenuta nella trascrizione paolina del messaggio cristiano, della temporalizzazione della grazia di Dio, che per Paolo appare solo col Cristo.179 Ciò implica la questione, analoga a quella sollevata da Ario, che possa sussistere un tempo in cui, non essendo avvenuta l‟Incarnazione, Dio non abbia amato l‟uomo, abbandonandolo alle potenze demoniache, prendendo dunque su di Sé la colpa delle miserie umane, anziché imputarle all‟uomo. L‟assenza di Dio rende metafisico il dolore dell‟uomo, che, caratterizzato dalla sua fisicità soggettività e imprevedibilità, per S. Weil costituisce “il grande enigma della vita umana”. Infatti generalmente la sofferenza fisica è oggettiva, ma non il dolore, che coglie un uomo anziché un altro. Pur non essendo oggettivo, esso è nondimeno riconoscibile, in quanto “c‟è un limite oltre il quale si trova il dolore, e non prima di quello”. 180 E‟ il dolore a fare di Dio una presenza mancante, una assenza, durante la quale “l‟anima è sommersa dall‟orrore” e “non c‟è niente da amare”. Quando questo avviene, “l‟assenza di Dio diventa definitiva”, menre anche un amore minuscolo e vano può evocare la Sua presenza.181 Ciò vuol dire che nell‟uomo vi sia la possibilità, in quanto essere libero di amare, di stabilire una “distanza tra Dio e Dio”, ossia una zona vuota di presenza divina, nella quale l‟uomo ha il potere di affrancarsi dall‟amore di Dio e nel cui ambito egli stabilisce e fonda la sua posizione creaturale. In questo ambito l‟uomo vuole essere figlio di se stesso e non di Dio. Può riuscirci escludendo dal suo orizzonte di vita l‟amore, che è il mezzo della creazione divina, anzi la Sua “Parola”, il Suo . 182 Il Logos di Dio è dunque l‟amore, la cui incarnazione mistica è il Cristo, prototipo dell‟uomo-che-ama, dell‟essere agapico. E il Cristo storico è Gesù di Nazareth, un uomo tra uomini, il cui dolore è soggettivo, fisico e imprevisto quanto quello di ogni altro essere umano, anche se non lo stesso dolore di ogni altro. Parafrasando Tolstoj, diciamo che “tutti gli uomini felici sono simili, ma ogni uomo infelice è infelice a modo suo”.183 Il Suo dolore rimane pur sempre Suo e non può
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M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pag. 176. S. Weil, L’amour de Dieu et le malheur (1942), in Ouvres, cit., pag. 694. 181 Ivi, pag. 695. 182 Ivi, pag. 697. 183 “Tutte le famiglie felici sono simili, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, è il famoso incipit di Anna Karenina. 180
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essere universalizzato ma solo amato come fosse il proprio. In questo rapporto mimetico ogni uomo può ritrovare Dio negli altri uomini. L‟unità che l‟uomo può ritrovare negli altri uomini è dunque l‟amore di Dio, e solo nel Suo amore ogni uomo può ritrovare l‟unità originaria, che è una unità divina e spirituale, non mondana e razionale. Fuori di tale unità mistica con Dio, l‟uomo è immerso nel dolore della Sua assenza, che è infelicità in quanto solitudine d‟assenza d‟amore. Non c‟è corrispondenza analogica con Dio se non nel senso dell‟amore, senza il quale l‟unità mistica si frastaglia in condizione solitaria, dove l‟anima è sommersa dal dolore: il dolore dell‟assenza di Dio. Se ciò è chiaro, si comprende anche il senso del comandamento divino a non avere altri dèi all‟infuori dell‟unico Dio, poiché ogni altra unità che non sia quella mistica dell‟amore è quella mendace di un idolo falso. Si comprende altresì anche il carattere singolare della spiritualità umana, che rappresenta il verso antropomorfico finito della sua divina infinitezza. La mancanza d‟amore, provocando l‟assenza di Dio, condanna l‟uomo alla sua dolorosa condizione di essere singolare, costretto entro la sua intrascendibile finitezza. La verità di Gesù è l‟amore, l‟unico logos che può unire l‟uomo agli altri uomini e a Dio. L‟organizzazione politica, che sia quella della polis o quella dell‟Imperium, si costituisce all‟interno dello spazio apparentemente adiaforo della sapienza atea, la quale, avendo rimosso il referente unitario trascendente, la divina, lo sostituisce con il principio razionale del logos apofantico, determinativo di una realtà altra rispetto a quella sacra della tradizione mitica. Entro lo spazio di questa alterità mondana razionalistica, gli eventi fenomenici emergono dal nulla costitutivo dello stesso Essere, che ne dipende, sicché la rimozione dialettica dell‟originario fondamento cosmologico costringe l‟ontologia razionalistica a un costante processo di auto-fondazione determinato attraverso la negazione metafisica dell‟origine arcaica e la correlata posizione di un principio archetipo, il cui concetto di fondamento ( ) include l‟accezione di potenza volitiva, di Potere. Il Potere unitivo dell‟ elimina la facoltà divina della Grazia, così come ogni intervento capriccioso degli dèi, andando essa a costituire la ragione immanente dell‟esistenza umana. L‟aspetto più singolare della rimozione razionalistica dell‟originario mitico è che la costituzione politica assume comunque il dato della socialità naturale dell‟uomo come legittimazione antropologica della
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, la cui funzione di inveramento del dato naturalistico è a base della sua necessità sociologica. Parallelamente, il fondamento escatologico della fede cristiana assume a sua volta il dato religioso originario delle culture pagane come mitico e irrazionale, ma ne conserva la funzione tradizionale di contenimento ( ) politico dell‟ Imperium, quel Regno di Cesare che la spiritualità cristiana assegnava al potere di Satana. La conseguenza, in entrambi i casi, è che la legittimazione ontologica del dato originariamente negativo, e la sua conversione in realtà positiva, è dovuta al potere di inclusione logica del giudizio apofantico, dovuto alla possibilità teoretica del concetto, che funge da principio legittimante del Potere politico, che del principio è il suo rispecchiamento. E così, la possibilità di determinare un principio teologico di fede (dogma) interagisce specularmente sull‟agire politico, secondo una simmetria simbolica che fonde la figura ideale della Chiesa con quella dell‟Impero, e correlativamente quella del Papa con quella dell‟Imperatore, che convergono nell‟universalità del comune principio cristiano. Si tratti di una adultera, di un popolo o di un Impero, la conversione ideale trasvaluta il suo non-essere originario facendolo misticamente rinascere nel novus ordo soteriologico del ipostatico, la cui “pienezza” storica diventa il termine reale di quella “sovrabbondanza della grazia”(Rm 5,20) atta a redimere l‟uomo dal peccato della sua esclusione dall‟orizzonte dell‟amore di Dio e del Potere dell‟Impero cristiano. Qual è il senso della divina in questo contesto teologicopolitico? Ricorda Buber che secondo la dottrina ebraica il peccato è lo sconvolgimento del rapporto fondamentale tra Dio e l‟uomo prodotto dall‟uomo stesso, in quanto questi col peccato diventa un essere che non è più creatura di Dio. la remissione è la restaurazione del rapporto fondamentale da parte di Dio, dopo che l‟uomo con la conversione è rientrato nel suo statuto di creatura . […] [Neppure il peccato originale] è stato in grado di nuocere alla libertà e alla capacità dell‟uomo di farvi fronte [alla conversione], poiché quello che Dio ha voluto nel creare non può essere intaccato da alcuna azione degli esseri creati. 184
184
M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pag. 191.
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La remissione dei peccati di cui si tratta qui non è escatologica ma “eternamente presente” in quanto legata alla presenza originaria di Dio, che sostiene lo sforzo dell‟uomo.185 In Paolo, invece, il rapporto con Dio è mediato da Cristo ed ha carattere escatologico, sicché “non si dà alcuna immediatezza tra Dio e l‟uomo nel tempo della storia, ma solo all‟inizio e alla fine; nel tempo intermedio, sull‟intero spazio tra Dio e l‟uomo si estende il destino, l‟antica eimarmene, che viene spezzato soltanto da Cristo a favore dei cristiani”. 186 La fede in Cristo, così come segna il limite della verità prima del quale non c‟era il sacro ma l‟errore politeistico e il non-essere, segna altresì la condizione soteriologica dell‟accesso a Dio. Al di qua del limite della redenzione, si estende la plaga diabolica degli esclusi dalla redenzione, i non-cristiani. Questa dicotomia è originata dalla distinzione tra essere e non-essere della sapienza greca, che assegna alle tenebre del nulla tutto ciò che non perviene alla verità dell‟Essere determinata dal logos apofantico, correlativo metafisico della decisione per la fede. Uno schema gnostico che surrettiziamente invoca l‟istanza d‟ordine unitaria presente nel Gorgia platonico, dove l‟indeterminata molteplicità viene paventata come una insanabile jattura per il mondo. E‟ a questo punto che s‟impone la presenza demiurgica del Logos-Mediatore che metta ordine al kaos.187 Ma proprio l‟idea di una riforma ordinamentale del creato espone l‟uomo alla tentazione del Potere correttivo della stessa creazione divina. Questa così arrogante hybris la vediamo operare già nell‟Eutifrone platonico, allorquando l‟ironico Socrate confonde la figura caricaturale dell‟omonimo antagonista del dialogo, ridicolizzando le sue credenze mitiche. La ragione determinativa fa credere di possedere la chiave che apre la porta della salvezza mostrando per contrasto il lato oscuro del mistero dell‟uomo, che rispetto al lato apparente pare distante e inattingibile. Eppure in quell‟ambito occluso alla vista si annida la verità onnicomprensiva di Dio, l‟amore inclusivo della Sua paternità regale, che si riflette singolarimente in ogni uomo e che solo in Lui è Spirito unitario perché unico. Ciò che agli occhi teoretici del filosofo appare la vertigine della molteplicità caotica degli enti concreti, non oggettivati, agli occhi
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Ivi, pag. 192. Ivi, pag. 193. 187 Ivi, pag. 199. 186
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della fede appare l‟aspetto umano del mistero divino, la realtà finita e caduca della infinitezza eterna di Dio. A fronte della esclusiva unità ideale del molteplice, la totalità dell‟amore inclusivo di Dio sbaraglia ogni distinzione razionale, ogni assetto politico predisposto a fronteggiare katechonticamente l‟assedio del male, spostando la visuale e il relativo metro di gudizio dalla posizione umana del a quella trascendente della divina. Le forze predisposte dall‟uomo a fronteggiare il mistero della singolarità umana, stornano lo sguardo dalla sola unità che può dargli un senso, spirituale, inconseguibile alle scienze mondane. “Il peccato”, scriveva S. Weil, “non è che un cattivo orientamento dello sguardo”. 188 La cristiana, come ha rimarcato Kierkegaard e ricordato Buber,189 ha una origine individuale, tale da conciliare la sua singolarità personale e unica con la socialità della condizione storica dell‟uomo, e ciò ha indubbiamente caratterizzato la Weltanschauung cristiana di una esasperata connotazione giuridica e politica in cui si riflette a sua volta il mutuo culturale dei due referenti maggiori della sua elaborazione intellettuale, quello greco e quello romano, entrambi pagani. Ma il referente pagano non spiegherebbe da solo il carattere giuridico-politico della elaborazione cristiana, poiché sia lo jus romano che la greca nascono in un contesto culturale fortemente socializzato e non individualistico. Ciò che invece resta peculiare allo spirito cristiano è la condizione di dissociazione esistenziale tra l‟immagine pubblica della vita socializzata e la verità di coscienza individuale, nascosta in interiore homine, segnata dal mistero della sua inappartenenza, del carattere derivato della sua presenza, e quindi della sua indisponibilità. Questo limite interiore, che costituisce il lato misterioso e singolare dell‟uomo, è la presenza nell‟uomo di Dio, a sua volta assente, che frena la sua totale dedizione alla causa del mondo, del quale fa parte ma soltanto come individuo speciale, membro cioè di una specie naturale vivente. Per quanto attiene invece alla sua natura spirituale, l‟uomo si sente partecipe di un‟altra realtà, di un altro Regno, dove le sue speciali determinazioni naturalistiche non hanno alcun peso specifico, alcuna rilevanza ontologica. Questo Regno, che l‟uomo cerca di istituire nel mondo a
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S. Weil, L’amour de Dieu, cit., pag. 697. M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pag. 203.
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immagine () e somiglianza di quello celeste, essendo spirituale non si può oggettivare, e non può essere strutturato umanamente alla stregua di una società politica o gruppo economico. La sua realtà non è apparente e non può perciò essere stabilita in termini comuni e prevedibili, cioè giuridicizzata, per cui ogni tentativo di razionalizzare la sua essenza misteriosa è destinato a fallire, reggendosi la sua legittimazione razionale su un‟aporia: la presenza singolare di un Dio assente dalla realtà presente. Una realtà la cui essenza è ineffabile e la cui presenza è dunuqe indefinibile. Una presenza totalmente altra da quella dell‟Essere, ma non dialettizzabile in quanto non fungibile a non-essere. Tale alterità di Dio è la Sua verità, che è insieme unità e totalità, che sono attributi di una stessa essenza perfettamente interscambiabili e corrispondenti, come non è possibile a nessuna realtà umana. Ciò significa che qualunque tentativo dell‟uomo di addivenire a una forma di verità unitaria e totale all‟infuori della regalità di Dio non può realizzarsi. E questa impossibilità costituisce il limite insuperabile da qualunque Potere umano, che è tenuto a considerare per la sua stessa sussistenza. In conseguenza di questa consapevolezza teoretica, ogni opera inerente alle possibilità umane si definisce attraverso il suo limite trascendente, che perciò la governa immancabilmente. Ed è appunto in questa immancabilità la presenza di Dio quale limute trascendente di ogni opera umana, finita, molteplice e transeunte. Questo Governo divino () non può non governare anche le opere politiche, Stati e Imperi, limitando il Potere che empiricamente li dirige. Ora, l‟idea di una topologia indipendente dal Governo divino è razionalmente concepibile (etsi Deus non daretur) ma del tutto irragiovevole, poiché determinata sulla volontà che l‟Essere (finito del mondo) sia l‟Altro dall‟Essere (Dio) e che l‟Altro dall‟Essere (il Creatore) sia appunto Essere (creato), assumendo razionalisticamente la differenza ontologica nei termini della opposizione logica. Questa volontà di credenza non è diversa dalla fede dei cristiani “che un uomo crocifisso a Gerusalemme sia il loro redentore”. Infatti, benché per natura sua potesse elevarsi e si elevasse al ivello di una religiosità della piena dedizione e al piano di unamistica della compenetrazione con colui in cui si crede, questa fede poggiava su una base che, a prescindere dalla sua “irrazionalità”, va qualificata come logica o noetica: sull‟assumerecome-vero e riconoscere-per-vero quello che una determinata proposizione
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annuncia a riguardo dell‟oggetto della fede. ogni fervore o trasposrto del sentimento, ogni devozione viva sgorgava dall‟aver accettato l‟esigenza [di confessare] e dall‟aver confessato sia nell‟intimo che di fronte al mondo: “Io credo che le cose stanno così”. Questo atto eminentemente greco per le sue origini, […] era l‟azione di una persona che così facendo si separava dalla comunità del suo popolo […]. Paolo parla spesso di Giudei e di Greci, ma mai riferendosi a loro in quanto popoli: a lui interessa solo la comunità fondata su nuove basi, che per natura sua appunto non è un popolo [ma] la concezione della Chiesa ormai divenuta l‟unico vero “popolo di Dio” [cioè] la cristianità.
La conseguenza esistenziale di tale “pìstis ellenistica” è appunto la dissociazione della esperienza spirituale dalla vita civile, per cui l‟esistenza quotidiana dei credenti in Cristo risultava come divisa in due sfere: la sfera della vita personale in quanto singoli e la sfera della vita pubblica in quanto membri dei loro rispettivi popoli. Questa esistenza così strutturata restò preservata dalla crisi fino a che l‟ambito della persona poté attestarsi contro il potere decisionale della istituzione pubblica. 190
Ora, solo nella dimensione della fede come “credere-che”, e non in quella dell‟ “aver fiducia”, per riprendere la dicotomia buberiana, è possibile dislocare la credenza messianica nel Cristo nella figura dell‟Imperatore, in quanto la condizione dissociata del cristiano richiedeva una mediazione tra i due emisferi esistenziali. La forma ideale di tale mediazione è l‟istituzione rappresentativa del sacro, il Il della fede cristiana è la rappresentazione dello Spirito di Dio incarnato originariamente nella persona del Cristo, che è a un tempo Essere ed immagine ( ) dell‟Essere, fondamento di verità ed esistenza storica (Gesù), evento originario () ed esperienza temporale (Storia) del Figlio dell‟Uomo. In conseguenza di tale forma rappresentativa ha origine la scienza della rappresentazione del , la cristologia, che è appunto una teologia politica concepita per giustificare razionalmente l‟atto originario di fides in quam creditur, fondativo della Weltanschauung cristiana. Ed è proprio l‟affidamento alla
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M. Buber, Zwei Glaubensweisen, tr. it. cit., pagg. 205-206.
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figura del mediatore istituzionale (Gesù, Chiesa, Imperatore) a provocare la rimozione umanistica di Dio dal governo del mondo, affidandolo alla potenza razionale surrogatoria, il Potere ( , dominium), che possiamo intendere in senso etimologico come privazione () di possibilità (), e dunque di libertà di scelta, in cui consiste appunto la sua essenza. L‟essenza privativa del Potere, rimanda alla contraria autorità inclusiva invece di possibilità e pienezza di Essere e di non-essere liberi, e dunque di unità spirituale, rappresentata dal Governo morale ( ), che è paterno in quanto protettore dell‟unità etica contro ogni divisione politica, e ispirato dall‟amore, sentimento unitivo per eccellenza, verso i suoi protetti. 3. Anche se consegnata a una funzione realizzatrice della volontà divina, il Potere resta comunque una forza della Natura, che per il Greci, come spiega Pohlenz, “era la forza universale e sovrana che secondo le sue proprie leggi immanenti regola il divenire naturale e non ammette alcun intervento dall‟esterno ed era in pari tempo l‟unica norma valida per la condotta degli uomini”. 191 Il concetto greco di una Natura che non ammetteva alcun intervento esterno, postulava una dynamis immanente e autonoma, che operava anche nell‟uomo, la cui intelligenza non doveva che riconoscerla. In questo riconoscimento teoretico consisteva la moralità che “altro non era se non la piena esplicazione della natura umana”, sicché non vi era ammessa l‟esistenza di un dio che “posto sopra di lui ordinava all‟uomo ciò che dovesse fare”. 192 Questa autodeterminazione della Natura si riversa nell‟idea razionalistica del Potere come forza autonoma e autopropulsiva, non limitata da alcun principio che non sia ad esso stesso immanente, cioè prodotto dal suo stesso processo dinamico, e dunque omogeneo alla sua natura. Il pensiero cristiano pensò la Natura appunto come “opera di Dio”, una creazione divina “dal nulla”, per cui anche il suo ordinamento era stato voluto da Dio, con la sola riserva che “l‟onnipotente fondatore di quest‟ordine naturale doveva avere anche la facoltà di provocare, per i suoi particolari fini, una deviazione dal corso normale. In tal modo la
191 192
M. Pohlenz, La Stoa, tr. it. cit., pag. 873. Ibidem.
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fede nel miracolo trovava una giustificazione metafisica”.193 Tale idea, a prescindere da ogni plausibilità razionale, non consente di definire il concetto di un limite trascendente la forza del Potere, se non nei termini di un intervento eccezionale e occasionale da parte di una volontà arbitraria e misteriosa, non ontologicamente strutturale entro l‟economia della salvezza e tale da segnare i confini riconoscibili e non derogabili della sua legittimità morale. L‟onnipotenza divina, proprio perché in grado di eccepire a ogni disposizione normativa della natura derogando alla necessità delle sue leggi, attestava anche l‟assoluta e insuperabile subalternità dell‟uomo alle inappellabili disposizioni, la cui discrezionalità, se mostrava per fede il lato benigno, poteva pur sempre nascondere il suo risvolto oscuro allorquando infierisse sugli innocenti, offrendo perciò per l‟uomo, in considerazione della sua limitatezza, un modello emulativo pericoloso, esimendolo nello stesso tempo da ogni giudizio razionale sull‟operato della Grazia, ossia del nomos divino sganciato da ogni autonoma moralità naturale. 194 Essa, nondimeno, se riesce in qualche modo a includere la realtà naturale nel disegno divino, non può spiegare razionalmente il contrasto delle leggi naturali con le leggi morali, se non ammettendo in Dio una libertà di volere () che però sposta sul piano della colpa/salvezza soggettiva dell‟uomo i termini di una relazione collettiva e storicamente oggettiva, deprimendo nel contempo, dal punto di vista spiritualistico, l‟autonomo processo dinamico della Natura, le cui manifestazioni dirompenti e teleologicamente incontrollabili pongono a volte interrogativi angosciosi sulla tolleranza di Dio al male e sulla Sua onnipotente volontà ( ) benigna, di Chi, in quanto “principio di giustizia” ( ), dovrebbe estendere () la Sua bontà a tutti gli esseri giungendo “fino alle piante”, 195 rendendo problematica ogni teodicea. Il limite insito nella Weltanschauung cristiana, mutatis mutandis, è lo stesso di quello del pensiero che aveva fornito filosoficamente gli strumenti teoretici alle sue categorizzazioni teologiche, cioè il
193
M. Pohlenz, Loc. cit., pagg. 839 e 874. M. Pohlenz, Loc. cit., pag. 842. 195 Plotino, Enneadi, 5,2,1; ved. C. Micaelli, Loc. cit., pag. 30. 194
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razionalismo e l‟idealismo. E‟ sicuramente vero, come scrve Pohlenz, 196 che lo stoicismo, che aveva esercitato “un‟influenza decisiva sul mondo antico”, fornendo “a Semiti, Greci e Romani, a uomini di stato, schiavi e imperatori quella base religiosa e morale cui essi aspiravano”, era riuscito a imporre “la sua fede nel primato del logos in cielo come in terra”, ma è altresì vero che, “annunciando che l‟uomo può dominare con le proprie forze ogni contingenza e realizzare il suo destino”, la sua “arte di vivere” aveva indicato solo il modello teleologico delle virtù morali, senza considerare la concreta condizione dell‟esistenza umana, caratterizzata da una sostanziale minorità antropologica rispetto alle altre specie naturali, a fronte della quale ogni rappresentazione idealistica della sua vita spirituale risultava, nel migliore dei casi, una mera aspirazione, e nel peggiore una velleitaria ambizione. La grande ed empirica contraddizione della ontologia monistica, che pone l‟Essere evidente come l‟unica realtà sotto l‟egemonia del logos e le innumeri imperfezioni del mondo esistente, confuta di per sé ogni pretesa finalistica della pronoia stoica. Già Filone aveva notato che la filosofia greca “non ha saputo nemmeno precisare l‟essenza della natura umana e dell‟anima” e che “appare perciò inaudita la sua pretesa di considerare le cose divine o addirittura di scoprirne le cause”, di tutte le quali “è Dio, e l‟intelletto umano non basta a conoscerlo”. Egli è una intuizione del sentimento, sicché la Sua “visione” () può conseguirsi solo come “un dono che Dio stesso fa scendere nel cuore”, rivelandosi “direttamente all‟uomo a ciò preparato e scelto da lui”. Di conseguenza “il sapere, di cui la filosofia greca andava tanto fiera, è detronizzato e prende il suo posto la fede, la pìstis”, la quale “alla credenza in un Dio creatore e trascendente univa la coscienza della debolezza e della dipendenza umana, che perciò riferiva tutta l‟esistenza umana a Dio e aspettava la salvezza non dalle nostre forze, ma dalla grazia divina”.197 Questo senso di dipendenza del singolo dalla potenza superna della di Dio o della insondabile heimarmene, ispirava il bisogno di una gnosis diversa e più comprensiva della conoscenza filosofica, che intuitivamente ponesse il nous umano in relazione con lo spirito divino. Il problema della relazione tra materia e spirito fu centrale nella
196 197
M. Pohlenz, Loc. cit., pag. 767. M. Pohlenz, Loc. cit., pagg. 773, 774 e 791.
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riflessione neo-platonica ellenistica.198 Plotino, che rigettò la teoria del Timeo secondo cui Dio avrebbe creato il mondo con un atto unico e ipotizzò la presenza che “ogni vero essere ha dentro di sé una forza che sviluppa una determinata attività”, a maggior ragione ciò varrebbe per l‟Uno da cui emanerebbe il nous che producendo l‟anima resta a metà tra lo spirito e la sua forma materica. 199 Al monismo stoico e al dualismo gnostico, Plotino oppone il suo gradualismo ontologico, anticipando Tommaso nel concepire il male come un difetto di bene, ritenendo che l‟equilibrio positivo del mondo vada visto nella considerazione del suo insieme, per cui anche il destino dell‟individuo va considerato nell‟armonia del tutto. Non c‟è motivo per lui di lamentarsi, data la sua natura imperfetta, e la ragionevolezza lo deve anzi spingere a secondare la volontà di Dio, che lo ha posto tra Lui e gli animali. 200 La mediazione metafisica ha in Plotino carattere idealistico, definendo il trascendente come il termine puro del correlativo immanente inferiore, la physis, per cui tanto l‟immateriale che il materiale vengono concepiti come entità astratte, appunto ideali ( ), ognuna delle quali è il simmetrico opposto dell‟altra, per cui all‟uomo che voglia raggiungere lo stadio spirituale () non resta che la “fuga dal sensibile” per conseguire l‟estasi della libertà di unirsi a Dio, che è il fine del .201 L‟unità divina è il superamento della conoscenza di ciò-che-è molteplice e l‟intuizione del Tutto, il luogo simbolico ( ) precedente a ogni differenza () razionale, l‟approdo della “seconda navigazione” al luogo ultroneo che si lascia alle spalle ogni domanda filosofica, posto che ogni domandare sia una richiesta di ragione. Il luogo ultroneo non è il luogo del sacro separato dal profano, ma il luogo che
198
“Il tema di questa filosofia ripete in molte variazioni lo stesso tema: in che maniera il mondo del pensiero e delle idee e dei pensieri puri contenuti in esso, e quello delle anime e quello della materia, si svolgono, in catena ininterrotta, dall‟Essere originario, primo ed uno, che sta al di sopra dell‟essere e del pensare e che intatto e indiminuito, nonostante le creazioni che emanano da lui, si mantiene eternamente nell‟al di là; e in che modo, poi, sotto lo stimolo del desiderio, tutto ciò ch‟è nato torna a rivolgersi alla fonte dell‟Essere?”: E. Rohde, Psyche (1894), tr. it., Roma-Bari, 2006, pag. 587. 199 M. Pohlenz, Loc. cit., pag. 816. 200 Ivi, pag. 823. 201 Ivi, pagg. 827-828.
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comprende ciò che l‟uomo ha stabilito come sacro per distinguerlo dal profano, ma è il luogo dell‟Uno spirituale, che non è l‟unità del molteplice indicato dall‟Idea platonica o dalla categoria aristotelica ma il Tutto trascendente ogni partizione, che gli Ebrei chiamavano Jahvè. Col Cristianesimo, lo Spirito s‟incarna nel Logos e si umanizza, assumendo una forma finita, che non contiene il Tutto ma lo personifica simbolicamente. La fede non è che il riconoscimento dello Spirito presente nella forma umana del Cristo e immanente in ogni uomo. ciò non vul dire che ogni uomo sia sacro nella sua forma umana, ma che ogni uomo ha una presenza spirituale immanente alla sua realtà fisica. La sua fisicità, lo assegna alla realtà molteplice e caduca della sua natura finita, mentre la sua spiritualità lo partecipa dell‟Unità mistica divina. Il Grande Evento intervenuto col Cristianesimo nella cultura ellenistica, e che segna l‟autentico spartiacque dalla cultura antica, non è l‟umanizzazione del sacro 202 ma la partecipazione del finito alla essenza spirituale del Suo creatore quale essere singolare. Lo Spirito () conferisce alla carne (ossia all‟elemento fisico comune a ogni uomo come a ogni essere vivente e a ogni essere naturale) il suo carattere singolare e unico rispetto a ogni altra realtà finita. Spirituale, in riferimento allo Spirito, vuol dire partecipazione () all‟essenza divina del Tutto; in riferimento all‟uomo, vuol dire singolarità della sua realtà biologica in termini di esistenza storica. E‟ l‟elemento sprituale che fa della realtà biologica dell‟uomo una esistenza storica. L‟immanenza dell‟in-finito (spirituale) nel finito (fisico) dell‟uomo, rende la sua realtà biologica una esistenza storica, caratterizzata cioè da un percorso spirituale singolare. Riferito all‟esistenza umana, spirituale vuol dire appunto singolare, e singolare vuol dire storico. La storia dell‟uomo non può che essere spiritualmente singolare, anche se inscritta, per l‟elemento fisico, in un processo collettivo di tipo naturale. Come essere spirituale, l‟uomo è divino, e la sua singolarità appartiene a Dio; come essere naturale, l‟uomo appartiene alla sua collettività sociale, la cui realtà politica è governata da Cesare. L‟esistenza singolare dell‟uomo, cioè la sua realtà spirituale, è sotto il Governo provvidenziale di Dio, il cui ambito è sacro rispetto al Potere di
202
Come erroneamente ritiene U. Galimberti, per il quale col Cristianesimo “Dio si congederebbe dal sacro per farsi mondo”: Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Milano 2012, pag. 25.
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Cesare, che non può disporne. In questo senso, la singolare realtà spirituale dell‟uomo, governata dalle disposizioni divine, è sacra per il Potere, il quale, potendo governare solo sull‟elemento fisico dell‟uomo biologico, deve riconoscerlo come limite insuperabile, pena l‟ingovernabilità spirituale della società politica, composta appunto da singolarità spirituali legata ognuna alla sua realtà divina, ossia al suo singolare rapporto spirituale (o dialogo) con Dio. Il rapporto singolare che ogni uomo intrattiene con Dio ha in comune con ogni altro rapporto singolare e con tutti gli altri rapporti spirituali il suo carattere appunto spirituale, che è sempre lo stesso, se riferito a Dio, e dunque eterno, ed è invece singolare, e dunque unico, se riferito a ogni uomo storico. Questa medesimezza dello stesso con l‟ognuno, dell‟Uno col singolare, dell‟eterno con l‟unico è propria solo della Verità, che dunque ha due volti: quello divino dell‟unico Spirito che è in tutti (), e quello singolare dello Spirito eterno che è in ognuno (). Ciò comporta che il Governo divino inerisce la singola esistenza dell‟uomo eterno, ossia l‟uomo come eterno interprete di una esistenza singolare; e come Governo singolare inerente ogni singola esistenza umana, è eternamente misterioso e imprevedibile allo stesso uomo verso il quale si dispone. Diversamente, il Potere, inerendo al collettivo, interviene solo in ciò che gli uomini hanno praticamente in comune, ossia il loro mondo, la loro natura artificiale, concepita dagli uomini per durare oltre la vita dei singoli uomini. Un Potere mondano che volesse esplicarsi alla guisa di un Governo eterno, o dovrebbe concepire il Dominus come un dio, governando la libertà di ognuno come fosse il destino di tutti, alla maniera degli eroi omerici, che identificano la propria libertà col sacrificio di quella degli altri, ovvero decidere la separazione dello spirituale dal materiale nell‟uomo, e assumere di lui soltanto l‟essere biologico, attribuendogli però tutte le qualità proprie della sua natura spirituale, ossia appunto l‟eternità, l‟unicità e la singolarità, secondo il modello del demiurgo ideologico tratteggiato dalla filosofia politica del razionalismo greco. Il primo modello è stato interpretato dal Governo ecclesiale della Chiesa, che concepisce il Papa come un vicario di Dio in terra. Il secondo modello, invece, è stato interpretato dal Potere regale dell‟Impero, che concepisce l‟Imperatore come la personificazione dello Stato stesso. In entrambi i casi, manca la coscienza della concreta realtà commista dell‟uomo, e dunque il riconoscimento dell‟insuperabile limite ontologico
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della sua eterna singolarità, cioè della sua incoercibile libertà spirituale, che solo Dio può imperscrutabilmente governare. Il Governo della verità di Dio sulla libertà degli uomini è ciò che sin dai primi secoli (si pensi a Teofilo di Antiochia) viene indicato come , 203 la quale è da accogliere in senso del tutto morale, perché attinente alla scelta dell‟uomo pro o contro la realtà dello Spirito. il Governo pertanto non sceglie al posto dell‟uomo, ma indica la scelta di verità che l‟uomo può compiere secondo il suo libero arbitrio. Se il luogo del confronto della forza – personale, nella civiltà eroica; sociale, nella civiltà politica – è lo spazio pubblico di esercizio della politeia, lo spazio, del tutto privato, della “corrispondenza di sentimenti”, è la philìa, che univa in modo elettivo e disinteressato gli uomini che la coltivavano. Questo carattere di disinteressata spontaneità donava alla relazione filetica un‟aura di moralità, che faceva del sodalizio amicale un modus vivendi acconcio al livello di coscienza dell‟uomo virtuoso, a cominciare dal filosofo. Questi insegnava per il piacere di donare la sua sapienza agli amici che lo circondavano, senza alcuna ricompensa, tanto che “le grandi comunità che furono fondate da Platone, da Aristotele, da Zenone e da Epicuro, non sono pensabili senza philìa”. E perciò dovette suonare così stridente alle orecchie del filosofo la pratica del sofista “mercante di sapere”.204 Il sapere, quale ricerca di ciò che trascende la dimensione della vita puramente naturale destinata alla morte, e quindi di ciò che resiste all‟edacità del destino di morte che involge l‟esistenza anche dell‟uomo, è il compito della filosofia, ma è altresì l‟aspetto morale della sua coltivazione da parte della coscienza razionale. La particolare philìa coltivata dalla filosofia è appunto tesa alla verità trascendente, alla cognizione morale, e pertanto a valori iper-individuali che legano gli uomini al di là della loro particolarità empirica. Tale legame morale che lega gli amici è quello proprio della comunità volta al bene. Essa è dunque il modello ideale della convivenza umana che dovrebbe tradursi in realtà esistenziale non lacerata dal polemos. Una polis fondata sulla philìa sarebbe una comunità duratura fondata sul Bene, coincidente
203
G. Daniélou, Loc. cit., pagg. 29-30. E. Hoffmann, Platonismus und christliche Philosophie (1960), tr. it. Bologna, 1967, pag. 72. 204
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dunque con la relazione umana disinteressata e volontaria. 205 Un altro modello di socialità, rispetto a quello politico. E se la convivenza politica è definita dalla misura sociale della forza, ossia sulle possibilità offensive degli uomini verso gli altri uomini coesistenti nello stesso ambito territoriale e urbano, la convivenza filetica consiste nella comune ricerca di superare la condizione politica, di cui misura è appunto la forza, coltivando il philein, l‟amicizia, l‟aspirazione comune al Bene, che diventa pertanto principio (aitìa) comunitario. Ma la ricerca del Bene fondativo della comunità filetica dei sapienti, è indirizzata anche alla definizione razionale del Bene, del principio morale inteso “come arché, da cui derivano solo delle copie in tutti i casi particolari dell‟amabilità”. Il fondamento dell‟essere è morale, e il fondamento morale è razionale. Il Bene è dunque fondamento di ragione, “dialetticamente sufficiente”, che interrompe il caos dei rimandi simbolici del pensiero, e dunque dell‟infinita incomunicabilità legata all‟esercizio irrazionale della volontà, e nel quale fondamento perciò “il pensiero è in grado di posarsi”. 206
Come sempre, l‟originalità della posizione teoretica platonica non consiste nella scoperta della philìa, la quale agiva da modalità relazionale già nella rappresentazione epica degli eroi (si pensi solo ad Achille e Patroclo); la novità in Platone è l‟averla posizione all’inizio della vita comunitaria, in sostituzione dell‟archetipo politico tradizionale, il polemos, che Eraclito aveva posto a fondamento di tutte le cose e sulla base del quale Tucidide aveva giustificato eticamente i soprusi della guerra. Il parricidio platonico non si rivolge al solo padre spirituale della Grecia, ma alla stessa tradizione di cui il pensiero eracliteo era espressione, e la cui mentalità consegnava la coscienza alle tenebre. Questa tradizione di pensiero e questa mentalità consistevano nella credenza eleatica che “tutto è immerso nel divenire” (panta rèi). A questa credenza, che condanna l‟opera umana, e la sua stessa convivenza, alla finitezza dell‟imperfezione, Platone oppone la Verità, non una mera opinione tra tante, ma un fondamento epistemico, nel quale “il pensiero è in grado di posarsi”. Un terminus a quo a partire dal quale inaugurare una
205 206
E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 75. E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 78.
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nuova tradizione, per cui la lotta contro il Mito perseguita dalla filosofia aveva dunque il significato di una confutazione “de‟ primi ed oscurissimi incunaboli della società” (Leopardi) finalizzata alla nuova forma di convivenza. Con Aristotile, l‟afflato aristocratico platonico, che caratterizza la comunità filosofica solidale nella contemplazione della verità insita nel Bene, viene a stemperarsi a favore di una esigenza pedagogica universale, che sostituisce al ruolo degli interpreti filosofi, mediatori tra il cielo delle idee e la prassi concreta, la funzione sociale dell‟etica, intesa come virtù generalizzata attraverso il metodo della ragione, che “come rende teoricamente generale il particolare per mezzo del concetto, così procede anche sul piano pratico: essa vuole anche che il sommo bene dell‟individuo (la felicità), diventi proprio di tutta l‟umanità, e pone questa comune felicità al sommo del sistema dei beni”. 207 Ciò comporta che l‟elemento concretamente esistenziale della mediazione, l‟aristocrazia di spirito, diventi elemento astrattamente intellettuale, legato al metodo pedagogico universalmente fruibile, la cui adozione generalizzata è consentita dalla stessa potenzialità, socialmente neutra, della ragione, con la quale l‟etica stessa va a coincidere. La stessa ragione, per il suo carattere universale, è etica e dunque chiunque ne adotti il metodo può applicarlo nella prassi come agire virtuoso. Mentre la concezione etica di Platone si basava sulla elettività del sentimento filetico, che era la condizione stessa della ricerca noetica della verità per mezzo del ragionamento metodico, e che costituiva il presupposto fondamentale e non naturalistico del modus vivendi improntato filosoficamente al Bene, la democratizzazione dell‟etica operata da Aristotele si fonda sul presupposto di credenza che “la morale è „generale‟ e innata in ogni intelletto”, ossia è un dato di natura collegato alla stessa socialità antropologica, per cui il perfezionamento etico consiste, sul piano logico, nella estensibilità universale del principio di ragione, e sul piano sociale dalla sua generalizzazione cetualmente indiscriminata, la quale diviene il criterio stesso della sua qualità. Il passaggio da una visione etica aristocratica a una democratica, eliminando la mediazione del ruolo specifico del filosofo, identifica la virtù con la ragione, ossia lo strumento con il suo fine. Se, dal punto di
207
E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 86.
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vista logico, l‟esaltazione del metodo filosofico priva la ragione di ogni intrinseca limitazione morale, spostando il problema della Giustizia () all‟interno della dimensione del diritto, interpretando il limite del Potere nei termini ottativi della “moderazione” ( ), cioè di una modalità di esercizio equo della forza ( ); dal punto di vista sociologico, rende superfluo il ruolo pubblico della aristocrazia sociale, le cui funzioni vengono assorbite dai funzionari della ragione, i cittadini virtuosi (). La trascrizione della soggettiva philìa in termini di astratta epieikeia, socializza i contenuti della equità del Potere, ossia la forma del diritto, ascrivendola alla sensibilità comune, anziché a un intangibile principio metafisico, superiore alla stessa ragione, la quale pertanto in Aristotile diventa onnipotente e incoercibile, e dunque facoltà autarchica, non abbisognevole di alcuna limitazione che non sia interna alla stessa opinione razionale condivisa. Una dòxa razionale, la cui credibilità è pur sempre legata alla coscienza comune, che resta politica e diventa criterio sociale del Bene. Con la rimozione della soggettività morale, e dunque del fine trascendente l‟utilità comune, questa stessa utilità, intesa nel senso del bene sociale, diventa il fine politico ricercato dalla filosofia, quale metodo razionale di gestione del Potere. Il ripiegamento politico della ragione, in nome di un‟istanza realistica del pensiero che indirizza l‟attività filosofica in direzione pragmatica, crea le premesse teoretiche della ideologia razionalistica totalitaria. Platone, prospettando un modo vero di convivenza, relativizzava la convivenza sociale tradizionalmente politica, contestandone il suo supposto carattere di necessità, che invece Aristotile riafferma assegnando alla socialità una costituzione onto-antropologica nel cui concetto sussume la philìa, l‟istinto naturale che la ragiona sviluppa in philanthropia.208 Il senso del rapporto filetico viene capovolto. Infatti, mentre in Platone era un sentimento elettivo che rendeva uguali in virtù del Bene ricercato, in Aristotile la philìa è una condizione naturale comune di partenza sulla quale si applica l‟enérgheia del dirozzamento razionale. La attività razionale la distingue dalla passività del pathos ma l‟agire etico risolve la differenza ontologica di essere universale ed ente singolare nella prassi razionale, in cui consiste la comunità regolata dal
208
E. Hoffmann, Op. cit., pag. 90.
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diritto, lo Stato. “Dove c‟è sempre „comunità‟, là c‟è sempre anche philìa e dike: è la stessa sfera [etica] cogli stessi limiti”. La differenza tra le comunità etiche particolari e quella statuale risiede nella circostanza che solo lo Stato persegue “l‟utilità comune”, che è la sommatoria degli interessi delle singole realtà sociali particolari.209 “Ogni amicizia si fonda sulla comunione”, 210 la differenza è solo modale, non di qualità sostanziale, per cui anche all‟interno delle forme statuali, i sistemi degeneri sono deformazioni del modello empirico, sottospecie dei regimi idealtipicamente classificati, cui corrispondono altrettante manifestazioni di philìa.211 Il realismo aristotelico consiste essenzialmente nella incredulità delle forme ideali poste da Platone come idoli di ragione alternativi agli idoli del Mito arcaico, ma non meno oggetto di questi a culto e dunque a essere venerati come “veri”. Nondimeno, il razionalismo aristotelico, ammettendo la realtà storica del male come degenerazione del bene ideale, rende questo una finzione idealtipica, smentita dalle forme reali di organizzazione politica. Ed è proprio questa distanza tra essere e dover essere che, smentita in teoria ma constata nella vita pratica, a rendere la enérgheia razionale un motivo opzionale che si rende necessario solo attraverso l‟appello alla ragione comunitaria, ossia a quella ragion di Stato dettata dall‟utile, sia pure comune, che sarà il paravento etico che maschererà ogni ideologia assolutistica. La rappresentazione, di origine medico-naturalistica, delle molteplici forme empiriche di regime politico contrasta con una concezione monoteistica del divino,212 sicché lo stesso pluralismo religioso impedì di concepire una koinonìa pan-ellenica di tipo politico. L‟etica aristotelica non poteva sopravvivere alla polis greca, proprio in quanto etica dello Stato. La ragione ordinatrice della vita politica, perduta la sua finalità empirica con la fine della libertà politica dei Greci a seguito dell‟occupazione romana dell‟Ellade, diventa strumento di potenza rivolto a contenere le passioni umane, e da ragione di Stato diventa
209
E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 97. Ivi, pag. 100. 211 “Amicizie e organismi statali sono forme comunitarie che possono essere intese, per analogia, in modo da distinguere fra il genuino e l‟adulterato, la specie e la sua degenerazione”: E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 98. 212 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 120. 210
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ragione dell‟Io. E così come costituiva uno stato patologico la dipendenza politica da una forza esterna a quella della volontà etica dei cittadini della polis, così lo era la dipendenza della volontà soggettiva dalla forza delle passioni. Circoscritta la razionalità dell‟esistenza alla dimensione soggettiva e coscienziale, i processi fenomenici esterni alla coscienza razionale diventano moralmente ininfluenti se l‟uomo li considera accidentali, ossia “esteriorità indifferenti che l‟uomo deve accettare come essere animale, dato che sono presupposte, ma da cui, come essere razionale e morale, è libero”.213 La ragione nella filosofia storica, come già in quella platonica, torna a essere indipendente dalle regole del mondo comune, le quali assumono valore sulla base del loro possibile significato razionale. “Gli oggetti esterni diventano pregevoli o cattivi se si pongono in relazione col vero bene o con l‟autentico male [i quali] si debbono cercare solamente nell‟uomo in se stesso” 214 e non nei caduchi rapporti politici e nella relativa logica che li sostiene. Il logos della coscienza personale trova il suo valore nel suo essere parte di un valore universale, presente nell‟uomo ma che regge “la totalità del mondo”. In quanto manifestazione particolare di un ordine universale, “anche l‟uomo, in quanto animale, voglia o no, deve servire al fine del cosmo; come dice Eraclito, persino nel sonno”. E nel secondare questo destino cosmico, la volontà di essere partecipe del finalismo universale, risiede la libertà dell‟uomo.215 Si noti come, in questo estremo razionalismo stoico, l‟identità singolare ritrova attraverso la ragione la solidarietà di specie, la quale tradisce la profonda insicurezza culturale in cui è immersa la coscienza deprivata della sua antropologica socialità politica. La originaria mancanza metafisica del fondamento, propria del razionalismo autarchico, viene compensata dalla generalizzazione cosmica di quello che rimane pur sempre un metodo di conoscenza della realtà, una gnosi che diventa rassicurante esistenzialmente non perché vera in conseguenza di una ricerca personale elettivamente partecipata per philia, ma in quanto condivisa per supposizione antropologica. Infatti, un logos che sia universalmente comune perde il suo carattere aristocratico per assumerne
213
E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 127. Ibidem. 215 Ivi, pag. 128. 214
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uno naturalistico, sia pure di sola specie umana. Il cosmopolitismo stoico nasconde, dietro la facciata ottimistica, una profonda e insanabile angoscia esistenziale, un profondo senso tragico della vita privo dell‟antica redenzione religiosa. Una filosofia che si propone di conseguire la felicità, presuppone una condizione infelice dell‟uomo, che rimuove attribuendone la causa all‟ignoranza del Bene, che si suppone comunque agire nell‟ordine cosmico. Ciò che l‟intellettualismo greco non riuscì a spiegare non è l‟origine del male, che risiede nell‟ignoranza dell‟uomo, ma le ragioni della sua coesistenza con l‟ordine razionale del mondo. Se la civiltà greca classica aveva inteso circoscrivere l‟ambito di razionalità umanamente possibile alla dimensione, grandiosa a tratti ma comunque ridotta, della polis, la concezione ellenistica della stoa ambì ad assicurare alla razionalità l‟intera umanità, fuori di ogni coordinamento politico. E su questa pretesa palingenetica fu arato il terreno di semina del Cristianesimo, che rappresentò la manifestazione più universale di civilizzazione intesa come “rinascita di antica saggezza in un animus non più antico”.216 Tuttavia, il cristianesimo delle origini, nella predicazione di Gesù di Nazareth, non era una filosofia ma una “pura religione dell‟intenzione, indipendente da ogni atro complesso di valori”, una religione del “sentimento”.217 Il contrasto tra l‟eros filosofico e l‟agàpe cristiana passa attraverso la differenza tra “l‟amore del sapere” filosofico e la “fede nel sapere” religiosa. Infatti, mentre la filosofia platonica è una “religione culturale”,218 la fede cristiana è una religione della fede, che ha un carattere del tutto fattuale, poiché in essa “tutto viene rapportato alla redenzione compiuta da Gesù di Nazareth”.219 I grandi mediatori che interpreteranno la parola di Gesù, in una forma “rimasta poi sempre decisiva”, saranno Giovanni e Paolo, due “Giudei di cultura greca”, che posero al “principio” il Logos, lo stesso “principio eracliteo, come veniva tramandato dalla stoa”.220 La forma greca fu essenziale alla definizione e diffusione del Cristianesimo, in quanto funse da modello spirituale da
216
E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 137. Ivi, pagg. 138-139. 218 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 40. 219 F. Schleiermacher, Glaubenslehre (1821, 18302), tr. it. di S. Sorrentino, Brescia, 1981, vol. I, pag. 208. 220 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 143. 217
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inverare attraverso la novità della Rivelazione. La relazione tra i contenuti del messaggio evangelico e la forma della recezione divenne quella tra il volontarismo cristiano (la fede) e l‟ intellettualismo greco (la comprensione di essa): fides quaerens intellectum. “Dalla congiunzione di Platonismo e di Cristianesimo uscirà un umanesimo quale non aveva prodotto la civiltà araba e giudea del tardo Medioevo”. 221 La socratica consiste nella capacità umana di riconoscere l‟Essere, sia questo inteso in senso eleatico che idealistico o ebraico, che la filosofia porta a consapevolezza. Il Cristianesimo, prima di tale consapevole sapere, pone la certezza della fede nella realtà di ciò che diverrà oggetto di conoscenza. La fede, quale condizione di conoscenza della verità, resta distinta dalla verità stessa quanto dal sapere che la riguardi, sicché il fedele non è Dio e neppure il metodo con cui Lo conosce, ma senza la fede in Dio non c‟è né oggetto di conoscenza né metodo di apprendimento. E‟ questo il senso profondo della volontà di accogliere tale fede, cioè di convertirsi alla verità. La metànoia propriamente è un mutamento di prospettiva da cui avere la visione della realtà. La filosofia greca poneva la verità alla fine del processo dialettico, rimuovendo l‟archetipo mitico, mentre il Cristianesimo pone la verità all‟inizio della conoscenza, non facendone un suo prodotto, ma solo la sua giustificazione razionale. Il sapere è un posterius rispetto alla certezza della fede, che dunque è il prius della conoscenza, la sua condizione ontologica. La fede consente, pertanto, il libero sviluppo del sapere, il quae, però, senza la fede perde il suo fine trascendente, che è appunto anche il suo inizio. Lo smarrimento della civiltà antica è legato all‟oscuramento del sapere, privo della luce della originaria verità. La stessa frantumazione delle dottrine filosofiche riflette la mancanza di un principio comune che ne indirizzasse anche lo scopo teoretico. Questo principio comune a ogni sapere umano è appunto la fede ontologica che l‟Essere (Dio) è, e per i cristiani Egli, incarnandosi nell‟uomo, si è tradotto anche in esistenza, e dunque esiste nel Cristo storico. La fede nella Sua verità passa attraverso la certezza della realtà di Cristo. I pensatori greci avevano confutato la mitologia arcaica in quanto idolatrica e fantasiosa, ma il Principio della
221
Ivi, pag. 146.
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conoscenza che i cristiani pongono per fede ha anche un fondamento di certezza, e dunque è irrefutabile anche per via di esperienza sensibile, del tutto assente invece dalla narrazione mitica pagana. La lotta che la fede e in seguito anche la teologia cristiana condusse sin dalle origini contro l‟idolatria, condannata aspramente d‟altronde dalla stessa catechesi vetero-testamentaria, aveva per oggetto non già il fondamento della verità, come invece per i razionalisti greci, ma bensì i suoi contenuti fideistici. Ma questa giustapposizione di miti avrebbe condotto al relativismo delle verità religiose, e dunque a ciò che Nietzsche chiamò il “nichilismo storico”, se il Cristianesimo non avesse concepito il fondamento divino oggetto della sua fede come la stessa Verità, ossia intendendo la verità, non più alla maniera filosofica come il concetto del ragionamento metodico, ma come il Mistero di Dio. Se porre il Mistero all‟inizio e alla fine della ricerca sapienziale, significava relativizzare il sapere privo della Verità unica, che è Dio, porre la fede a fondamento epistemico della conoscenza umana significava fare di Platone l‟anello di congiunzione del sapere antico con quello cristiano. Platone infatti aveva compreso che il luogo della verità non coincideva compiutamente con la realtà, incrinando la sicurezza esistenziale nata dalla identità eleatica di Essere e mondo. In quella crepa si era insinuata la coscienza metafisica dell‟alterità. Il limite culturale della sapienza greca fu quello di surrogare la fede rimossa nel Mito con l‟idolo politico, con un prodotto tutto umano, la cui perfezione era affidata al metodo razionale di costruzione. Anche la costituzione politica, come ogni altra opera umana derivava il suo grado di perfezione tecnica dal criterio col quale era stata eseguito il suo modello ideale, ossia dalla sua maggiore o minore razionalità. Non vi era differenza tra l‟opera artigianale e l‟opera politica, se non quella relativa alla fama che ne aveva presso gli uomini. Ma la fama stessa era una qualità umana, contingente e accidentale e finita come ogni qualità umana. Una volta che la civiltà politica, che era la realtà vivente della religione filosofica greca, aveva mostrato la sua fragilità storica, si dissolse anche la fede idolatrica che quella civiltà aveva animato, lasciando il pensiero, già orfano del Mito, anche senza oggetto. E la crisi dell‟oggetto trascinava con sé inevitabilmente il pensiero che a esso si era applicato, lasciando angoscia e smarrimento nelle coscienze, propense
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alla piega religiosa del filosofare e al misticismo. 222 Su questo terreno morale e psicologico agì efficacemente la predicazione cristiana. Porre infatti come oggetto di pensiero e fondamento eterno e stabile, non una realtà mondana legata alla fragilità della finitezza umana, ma Dio stesso, significava rassicurare l‟uomo e la sua coscienza a una esistenza e a una fortezza inviolabili, che rivelò la sua ulteriore e maggiore efficacia spirituale al crollo dell‟Impero romano. Con la presa della spiritualità cristiana, la tensione teoretica, l‟eros platonico, fu indirizzata verso l‟unio mystica, scompaginando e ricomponendo in guise diverse i problemi fondamentali della filosofia. Dalla prospettiva spirituale cristiana, l‟ con Dio sarebbe avvenuta attraverso l‟, che non è un “sapere”, non è una gnosi, ma una fede. La necessità insita nel sapere in senso razionalistico, per cui sapere qualcosa significa volerla, diventa nella prospettiva cristiana una volontà di sapere ciò che già si possiede (Agostino). Una questione di “buona volontà”, cioè un atteggiamento morale, liberamente assunto dalla responsabilità del singolo uomo. Ciò che è l‟ignoranza per il sapere greco, guaribile per mezzo del logos e della paideia,223 diventa negligenza e malevolenza nella coscienza cristiana, redimibile con la grazia divina. L‟etica eudemonistica greca, è un‟etica salvifica per i cristiani. La conciliazione greca dell‟uomo col cosmo attraverso il logos, generatrice della serenità propria del filosofo, per il cristiano è un processo di avvicinamento a Dio che non ha termine nell‟aldiquà mondano, anche perché ogni contatto con l‟assoluto è di natura mistica e interiore, che non si esaurisce nella prassi. L‟intera vicenda evangelica del Cristo va interpretata sulla base di una lettura simbolica, di una fenomenicità che rimanda sempre a un altrove, a un altro piano di coscienza invisibile nel quale il significato degli avvenimenti vissuti assume un valore recondito e non determinabile verbalmente, quasi che la coscienza sia irretita dalla fascinazione dell‟imponderabile mistero della fede, entro il quale si esaurisce la portata intransitiva del thaumazein, entro il cui orizzonte di senso acquistano lo stesso valore esegetico le parole, le situazioni, lo
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E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 155.
223
E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 166.
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sguardo, le emozioni, e tutto ciò che costituisce l‟esperienza esistenziale di Gesù. Ciò comporta che le parabole evangeliche, sulle quali si è esercitata l‟intelligenza millenaria dei teologi, non esauriscono nella letteralità la loro potenzialità ermeneutica, in conseguenza della definizione di una cifra esegetica ortodossa custodita dal dogma ecclesiastico, poiché il piano della convenzionalità può avere un significato socialitario, funzionale alla identità ecclesiale, ma in quella intuitiva con Dio, stabilita da un dialogo che si pone su un piano di coscienza non comunicabile, e dunque non definibile nei termini del logos, in quanto aperto alla discrezionalità graziosa di Dio. Nel riconoscimento spontaneo, cioè per volontà di fede, della predominanza dell‟Altro si apre lo spazio della dimensione morale, nel cui orizzonte di coscienza si compie la testimonianza della fede. La fenomenologia interna a questo orizzonte di coscienza, che sul piano della coscienza filosofica appare caotica e prodotto mostruoso, acquista il suo significato ontologico nel suo stesso fondamento, il del Cristo, che è mitico per la ragione dialettica, ma che per la fede rappresenta il presupposto simbolico di ogni possibile rappresentazione razionale della Storia spirituale dell‟uomo ( ).224 Se consideriamo in paragone a questa coscienza fascinosa la condizione mitica rappresentata nella Repubblica dalla caverna, notiamo che la differenza essenziale tra le due condizioni di coscienza extra-razionale risiede nella volontarietà della fede di contro alla patologia della alienazione dalla verità logica. Nella condizione umbratile, infatti, è del tutto assente il consapevole consenso all‟Essere, costituito dall‟agàpe, l‟amore cristiano, la cui philìa rende superflua la funzione costrittiva del Potere, indispensabile all‟ordine politico, privo appunto di quel consenso, senza il quale il filosofo non può portare la luce nella vita umbratile. L‟ordo amoris vagheggiato da Platone attraverso l‟adozione politica della ragione, diventa il programma di fede del Cristianesimo, la sua sacra missione di volontaria conversione universale destinata a ogni uomo di buona volontà. Ciò che incatena l‟uomo al peccato originale di essere naturale è la sua mancanza di amore, non già la sua ignoranza del Vero. Se questa ignoranza è superabile attraverso il duro tirocinio della filosofia, l‟accidia della rilassamento morale può essere vinta da ogni
224
Ved. di chi scrive il saggio su “La Parola e il Verbo”.
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uomo attraverso la sola volontà di riconoscere il sommo Bene che è in lui in quanto creatura divina. Il Logos iperuraneo del dialettico – posto che sia lo stesso adorato da Gesù - si è incarnato a exemplum di ogni uomo per la sua redenzione. La filosofia, liberatasi dal Mito, costituiva come suo polo dialettico la Natura, che diventò per la ragione il luogo del nonumano, della necessità da cui difendersi per mezzo della ragione, la cui funzione liberatoria è decantata dall‟epicureismo. 225 Il Cristianesimo, di contro, assorbe la Natura nella creazione e la rappresenta il vincolo originario di finitezza peccaminosa sul quale agisce la fede per vincerne la resistenza alla comunione con Dio. Anche per Platone i vincoli naturalistici sono pregiudizi doxastici da confutare e lasciare agli ingenui, ma la charitas cristiana, diversamente dalla ragione, non opera a fini di perfezionamento della vita politica, ma per inaugurare una nuova visione del mondo, che ha il Cristo, Verbum caro, come modello esistenziale, e non il logos filosofico. La differenza, come spiega Paolo, nel suo inno all‟agàpe, è che “l‟amore non viene mai meno, mentre la profezia, le lingue e le scienze cesseranno”,226 perché esso rappresenta la condizione di perfezione. Se la filosofia è la turris eburnea in cui trova riparo la coscienza offesa dagli errori del mondo, la fede per il cristiano è sentimento vivificante di riconciliazione col mondo attraverso l‟atteggiamento agapico. “La lettera uccide, lo spirito vivifica”, come dice Paolo ai Corinzi. Non è il logos filosofico quella “salda pietra” della comunità umana che credeva Platone, ma l‟agàpe. L‟amore non esclude ma comprende anche il peccato. Per Agostino, “la coscienza del peccato è l‟inizio della saggezza”, non la sua negazione. 227 Il Cristianesimo prese presto coscienza della sua “opposizione radicale alla civiltà greco-latina in seno alla quale si sviluppava”, ma anche della opportunità di trovare “in questa tradizione antica, qualcosa di buono che potrà utilmente assorbire nella propria cultura”, 228 anche se, per quanto intrecciate in un sincretismo più o meno stretto, le due identità culturali, la greca e la cristiana, ebbero “una parte del tutto diversa nella costruzione
225
E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pagg. 169 sgg. E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 180. 227 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 173. 228 H.I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique (1938), tr. it., Milano, 1987, pagg.325-326. 226
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dell‟umanità occidentale”. 229 La differenza tra la disposizione agapica e quella razionalistica dei filosofi è nella inconseguibilità di una reale universalità da parte della conoscenza, la quale non coincide con il vero sapere, ma crea solo l‟illusione della differenza tra uomini eccezionali e quelli comuni. Il vero sapere non si consegue entro la dimensione della gnosi, che distinguendo tra spirito e carne giunge all‟indifferenza morale, ma in quella della fede, per cui gli uomini veramente eletti non sono i sapienti ma i santi. “La gnosis fa dell‟uomo un essere gonfio, saccente, intimamente fiacco. L‟agàpe invece fa del cristiano la salda pietra per la edificazione della comunità dei santi”.230 La fede è dunque il vero orizzonte universale dell‟esperienza umana, sicché la comunità dei santi non è un sodalizio di eletti, al pari di un circolo filosofico, ma è la convivenza improntata ai valori morali, alla quale tutti possono partecipare, indipendentemente dalla loro posizione sociale, qualifica politica e origine etnica. La comunità cristiana, diversamente da quella politica, non esclude alcuno, perché l‟elemento unitivo dell‟amore è patrimonio di ogni creatura divina. Il piano della universalità morale supera le determinazioni sociologiche della vita politica e giunge alla condizione di con-pazienza, di partecipazione affettiva alle sorti del prossimo, che è la vera condizione etica della socialità, inconseguibile dallo spirito utilitaristico della socialità politica. Soltanto la solidarietà amorevole genera letizia (), perché inclusiva e volontaria, non certo la supposta serenità esclusiva e passiva del logos.231 Il modello della comunità cristiana è chiaramente la famiglia, in cui l‟amore solidale è fatto di reciproco e spontaneo sentimento, nato dal semplice riconoscimento dell‟appartenenza. La sapienza profana, secondo Paolo, non indica “come bisogna sapere”, cioè la modalità giusta per pervenire alla conoscenza vera, che non è dettata dall‟uso tecnico della parola, come vorrebbero i dialettici, ma dall‟amore verso Dio, ossia dalla fede ontologica nella Sua realtà. E se si ama Dio, ossia lo si conosce per ciò che è, il Padre creatore, viene da Dio ricambiato e riconosciuto come figlio. Nel stesso passo della 1Cor, 8 Paolo allude significativamente alla
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E. Hoffmann, Ibidem. Ivi, pagg. 184-185. 231 Ivi, pag. 187. 230
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conoscenza filosofica, “per idea” (), per indicare che quella “per immagine” non è la vera conoscenza di Dio, ma solo l‟aspetto enigmatico della verità. L‟ viene da Paolo riferito alla stessa conoscenza ideale, che com‟è noto per Platone era quella vera rispetto alle immagini riflesse dai sensi. Il decisivo “punto di separazione” ( ) è che la gnosis è una conoscenza che non perviene alla verità, e come tale non rasserena lo spirito umano. 232 Pertanto la filosofia non può essere la risposta ricercata dall‟uomo di ogni luogo e tempo, quale invece per Paolo è la parola di Cristo, che può giungere a tutti i figli di Dio, indistintamente, ricercandola nel proprio cuore. Proprio perché singolare e comune, essa è vera e rappresenta il vero fondamento unitivo () della convivenza umana.233 Anche per Agostino”ogni perfezione procede dall‟amore, il quale è superiore a ogni ragione”. Ma l‟ impossibilità del cristiano di confutare il valore sapienziale della scienza profana, lo spinge a destinare il suo enorme prestigio in un ambito di realtà del tutto umano, la civitas terrena, segnato dal peccato della sua stessa finitezza. Il Cristianesimo ha scoperto, o meglio ha recepito la rivelazione di, un orizzonte di coscienza meta-fisico, intravisto dal sapere antico ma mai penetrato, il regno dello spirito, che “non è di questo mondo”. 234 Nondimeno, l‟antitesi agostiniana è meno radicale di quella che può apparire in generale, in quanto il peccato non può mai scalfire il buon fine della creazione, sicché lo sforzo umano deve tendere ad “avvicinare la città terrestre alla condizione primigenia [della creazione divina] nonostante lo stato di peccato”, non già attraverso le istituzioni politiche,
232
E‟ giusto quanto affermato da Hoffmann sul “punto di separazione” tra la posizione di Platone, che consegue la conoscenza vera “per mezzo della dialettica”, e quella di Paolo, che la raggiunge “per mezzo dell‟agàpe” (Op. cit., tr. it., pag. 193), ma la polemica di Paolo è rivolta alla gnosi filosofica, e non solo all‟estasi, in quanto la filosofia pretende di raggiungere la verità attraverso lo strumento della ragione. Ma per Paolo la gnosis è fallace in quanto non è veramente universale, essendo riservata solo ai filosofi, e, diversamente dall‟agàpe, che tutti possono sentire, non soddisfa le esigenze dell‟ intera esistenza umana. 233 E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 199. 234 “Non si tratta dell‟opposizione di stato „cristiano‟ e „non cristiano‟, né dell‟antitesi tra „Stato‟ e „Chiesa‟; si tratta piuttosto dell‟antitesi della „città divina invisibile‟ e dello „stato temporale visibile‟. La patria dell‟uno si trova nel mondo celeste, l‟altro ha le sue radici quaggiù”: E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 201.
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ma “una disposizione del cuore”.235 Infatti, per Agostino non si raggiunge la condizione di perfezione realizzando il modello ideale, alla maniera platonica o stoica, poiché la perfezione, ossia la verità, non è nel processo storico ma nell‟evento trascendente, per cui la stessa civiltà, quale natura artificiale creata dall‟uomo, non può aggiungere alcunché alla condizione della sua antropologica finitezza, e dunque il theorein filosofico, che contempla la realtà visibile, non può giungere a quella “confidenza o fiducia incondizionata nell‟invisibile”, cioè in Dio, che è invece propria della pistis. 236 Il peccato, per Agostino, ha una funzione catartica, di punizione divina, sicché le stesse istituzioni politiche, quali lo Stato e le sue leggi, quando non si lasciano guidare dalla giustizia divina, sono rappresentative della collera di Dio. Questa posizione è stata interpretata come opportunistica e dettata dal bisogno di mantenere verso il Potere imperiale un atteggiamento moralmente limitativo, per cui la teoria della grazia divina sarebbe di tipo irrazionalistico rispetto alla dottrina del diritto naturale.237 In realtà, in quanto naturale il diritto non avrebbe potuto frenare la potestas temporalis del sovrano assolutista, l‟imperatore, in considerazione della sua funzione simbolica, rappresentativa della volontà di Dio, la quale soltanto poteva dunque limitare la volontà imperiale. La volontà teocratica, denunciata a proposito da Troeltsch, [Ivi, pag. 219.] sorge allorquando la potestà spirituale si ponga come un Potere direttivo verso quello statuale, secondo un “rapporto formale di obbedienza, senza riguardo alla propria opinione sul valore o sul nonvalore del comando in quanto tale”. 238 Ma dalla distinzione del potere spirituale da quello secolare non deriva logicamente il controllo della Chiesa sullo Stato, che invece è il contenuto della pretesa ideologica di omologare la potestà spirituale, e dunque il Governo morale, alla potestà civile, ossia al Potere politico. Se “la cristianizzazione dell‟impero condusse a questo”,239 lo si dovette alla trascrizione in senso politico della gloria di Dio, cioè a una lettura platonica della Città di Dio quale modello
235
Ivi, pag. 205. K. Loewith, Meaning in History (1949) , tr. it., Milano, 1979, pag. 186. 237 E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1923), tr. it., Firenze, 1969, vol. I, pag. 218. 238 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, tr. it. cit. vol. I, pag. 209. 239 E. Troeltsch, Loc. cit., pag. 223. 236
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ideale di quella terrena, che però non appartiene ad Agostino, per il quale “c‟è solo una storia, perché Cristo è venuto una sola volta”, sicché “la civitas Dei non ha alcun rapporto con lo Stato di Platone. La dottrina dello Stato ha l‟intento di salvare la città empirica per mezzo di una partecipazione all‟idea della giustizia; la civitas Dei invece non vuol salvare la città terrestre, ma metter in guardia da essa”. 240 Il limite della realtà terrena, della sua finitezza, è lo stesso del suo divenire, di natura ontologica, per cui sarebbe vano trovare in questa sua dimensione un rimedio che non sia esso stesso caduco e imperfetto. Per Agostino, come per Platone, la superiorità dell‟Essere sul divenire è la premessa metafisica per ogni correttivo, ideale per il greco, morale per il cristiano. Ed è questo convincimento, il dualismo metafisico, che farebbe di Agostino “un vero platonico”.241 In realtà, il dualismo caratterizza anche la visione gnostica, contro la quale Agostino ha polemizzato, e di per sé non chiarisce l‟elemento essenziale della sapienza greca, che è il suo razionalismo, entro il quale si pone la riflessione di Platone. Questi infatti sostiene da razionalista che “il vero pensiero consiste nell‟affermazione dell‟essere di ciò che è”; che poi, per Platone, sia “l‟essere delle idee, poiché viene pensato esistente solo ciò che viene pensato in quanto idea”, 242 fa parte della sua mitologia, che verrà rigettata non a caso da Aristotile come inutile superfetazione fantastica. Ciò che rimane stabilito è che l’Essere sia identico al pensiero, comunque venga giustificato razionalmente questo assunto identitario, il quale, se accettato, comporta la esclusività del metodo razionale sulla conoscenza intuitiva o basata sulle sensazioni. Ed è questa determinazione metodica a creare le premesse del monismo intellettualistico, essenzialmente gnoseologico. Ma ciò che più rileva è che tale determinazione metodica è puramente postulatoria, ossia è una posizione di credenza, ipotetica, sul cui fondamento fideistico si basa la Weltanschauung razionalistica greca. Il suo accoglimento, eleggendo il metodo razionalistico a criterio di validità dei contenuti della fede, condizionerà l‟intero sviluppo della teo-logia cristiana, a scapito di altre correnti di pensiero, considerate eretiche, in quanto ritenuto l‟unico a
240
E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 206. Ivi, pag. 208. 242 Ivi, pag. 207. 241
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poter giustificare il monoteismo. In questo senso, lo stesso razionalismo greco poté essere considerato a giusta ragione dai teologi cristiani un preludio teoretico al monoteismo, poiché entrambi postulavano la ragione (il logos) come l‟unica via di accesso alla verità. Che l‟ente di ragione fosse indicato come agathòno come Dio, e che al posto della polis ci fosse la Chiesa, era questione terminologica, in ogni caso l‟orizzonte di senso razionalistico veniva confermato, e con esso la visione monisticouniversalistica, e dunque totalistica della realtà e dell‟ordine comunitario, consegnato anche dai cristiani alla logica politica, sia pure sacralizzata come lotta contro il male. Come “in Platone, anima e città sono connessi, così lo sono anche in Agostino anima e storia”, ed in questo senso è giusto affermare che “tutto il mondo dell‟antichità è ancora vivente in Agostino”.243 Nondimeno, “l‟impegno ecclesiale gl‟impose in tutta la sua urgenza il problema del significato e dei limiti di una cultura autenticamente cristiana”,244 non viziata dal politeismo e dall‟immoralismo pagani. La cultura profana doveva essere studiata non già per le sue intrinseche qualità teoretiche, ma in quanto servizio allo studio della Sacra Scrittura. Ed è questo atteggiamento sincretistico di Agostino a renderlo, se non il prototipo, quanto meno l‟interprete più significativo della “cristianizzazione della cultura antica”. 245 Per comprendere i termini della diversitas tra i due orizzonti di pensiero, è essenziale riferirsi al loro rispettivo fondamento ontologico, determinante per le successive elaborazioni teoretiche, segnatamente nel campo delle relazioni sociali e politiche, che andranno a costituire i paradigmi del pensiero teologico-politico occidentale. La premessa ontologica della gnosi greca, che è la medesima di “ogni filosofia che osi aspirare ad essere una filosofia metafisica”, comporta la “tensione concettuale all‟afferramento di un Uno-Tutto in sé differenziato che determina la realtà nella sua totalità a partire da Un solo principio”. 246 La pretesa totalistica della teoresi razionalistica è di ridurre al proprio principio uni-versale ogni realtà fenomenica della natura ed esistenziale
243
E. Hoffmann, Loc. cit., pagg. 218 e 212. M. Simonetti, Cristianesimo antico e cultura greca, Roma, 20103, pag. 94. 245 Ivi, pag. 96. 246 W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum (1998), tr. it., Milano, 2000, pag. 204. 244
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dell‟uomo stesso, trascrivendola in termini di pensiero. Il limite empirico contro il quale si è venuta a scontrare il razionalismo sin da Socrate è costituito dall‟azione. Il pensiero speculativo trova il suo limite nell‟azione politica, o meglio nell‟agire politico, il quale è un fenomeno collettivo, cioè oggettivo, mentre il pensiero è sempre soggettivo e riferibile a una soggettività empirica o trascendentale. L‟attenzione riposta dal cristianesimo sulla volontà, fa della l‟atto noetico fondamentale, che è fondativo della religione, in quanto “genera una interpretazione () che istituisce il rapporto religioso”. 247 L‟agire politico considerato dalla filosofia, quale tecnica logica di portare alla luce ciò che è nascosto, non è l‟azione, cioè la volizione di potere, la libertà di realizzare il desideratum, ma la relazione. L‟azione, infatti, si dirige verso l‟altro, mentre la relazione è con l‟altro. L‟azione è atto imperativo, volizione tesa all‟obbedienza dell‟altro. La relazione è invece atto di riconoscimento dell‟altro come con-partecipe. La stessa dialettica è relazione dia-logica. Il Potere non ricerca dialogo ma obbedienza. La “virtù” politica coincide con la capacità di riconoscere l‟altro quale membro dell‟unità sociale. Il giudizio filosofico sull‟altro non verte sule sue singole azioni, ma sul rapporto di relazione che il cittadino ha nella vita sociale, dipendente dal suo modo di pensare. La filosofia si propone di correggere il cattivo pensare, non gli atti compiuti. La persona è unità razionale e spirituale, ma non sociale per i Greci. Dai singoli atti non si può pervenire all‟unità, che dunque incombe sugli individui-attori come Potere superiore esterno. La polis antica era lo spazio dell‟agire socializzato, pre-politico e politico. Il rapporto tra i due momenti dell‟agire è lo stesso che tra la socialità fondata sulla doxa e l‟agire razionale, quello appunto politico o del Governo. La superiorità assegnata dal filosofo al‟agire razionale determina la superiorità del Governo razionale su quello fondato sulle opinioni false. L‟equazione di politica e ragione consente il buon Governo, la cui qualità consiste appunto nell‟ispirazione razionale, e non nella efficacia della sua forza. L‟ammissione di un Potere fondato sulla dòxa consente la distinzione tra esso e il Governo razionale. La superiorità e bontà di questo sul mero Potere è fondata sulla coscienza razionale dei detentori, non sulla posizione di forza sociale. E poiché le posizioni di forza sociale pre-
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S. Sorrentino, Introd. a M. Buber, Le due fedi, cit., pag. 18.
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esistono alla costituzione di un Governo razionale, questo diventa il fine dell‟agire politico virtuoso, cioè razionalmente guidato. Platonismo e Cristianesimo pongono entrambi l‟Amore come mediatore tra gli uomini. L‟eros platonico è unità ideale; l‟agàpe cristiana è unità trascendente. L‟unità dell‟amore è alternativa all‟unità politica, fondata sulla necessità di unire il molteplice. La forza dell‟amore è desiderio di unità, di completezza metafisica. L‟unità ideale è universale, astratta dalle particolari relazioni. L‟unità trascendente è personale, concreta. Se l‟unità universale è immanente e perseguibile con la forza politica, l‟unità personale è trascendente e di natura spirituale, elettiva e non perseguibile normativamente. L‟unità politica è somma del molteplice ottenuta attraverso l‟obbedienza. Il principio unitivo di agàpe è la scelta (libertà ed elezione), non l‟obbedienza (necessità e convenienza). Il principio volontaristico sul quale è fondato tanto l‟attività del pensiero che della morale cristiana, produce l‟agire, il cui senso razionale + atto di ragione. Ma actus è anche scontro, attività è conflitto di atti, sicché l‟atteggiamento razionale della volontà è commisurare il mezzo al fine, l‟attività allo scopo da conseguire. Questo è il senso razionale dell‟agire politico, la cui essenza è la regolamentazione del conflitto: cruenta, con la guerra; pacifica, col diritto. Universalizzare normativamente il conflitto razionalmente regolato, non lo elimina. L‟eliminazione del conflitto avviene a livello di coscienza morale. L‟azione morale, infatti, è un agire contrario – e non semplicemente opposto – all‟atto politico conflittuale. Non è, come a partire da Socrate pensa la filosofia, il conflitto razionalizzato, ma il contrario del conflitto, ossia la non-azione, la rinuncia all‟azione, che sposta il piano dell‟agire da quello del diritto al piano morale. Razionalizzare il conflitto significa renderlo economico, non eliminarlo. Per tale fondamentale ragione, l‟azione morale non può contenere l‟azione economica. L‟agire morale rinuncia all‟azione. Morale è l‟azione che non si compie. Non è un altro fare, di tipo razionale, ma è rinuncia al fare. In questo senso, il limite che la morale oppone al Potere del fare non è un altro Potere, di tipo razionale rispetto a uno di tipo naturale, ma consiste nella rinuncia alla forza dell‟azione, ossia al diritto. Rinunciare al diritto è porre l‟altro (il prossimo) al posto del Sé, e dunque rinunciare alle ragioni del Sé significa trascendere la personalità per la Giustizia. Ed è in questo spazio di rinuncia alla ragione della prevalenza del Sé, propria della esclusività dialettica, che si stabilisce il con-loquio tra gli uomini, a partire da quello con Cristo, la “luce” divina che illumina
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la conoscenza. In essa, siamo oltre il soliloquio della coscienza intellettiva, incapace di conoscere “nulla di immutabile” finquando l‟intelletto “conosce ed ama se stesso”. 248 Occorre trascendere il Sé nella luce della carità per l‟altro. Perché la Giustizia se c‟è l‟ordine? Solo se non consideriamo l‟ordine un bene in sé, in quanto conseguimento dell‟Unità sociale con la politica, possiamo porci la questione morale. E soltanto quindi se non consideriamo l‟Unità di Eros in sé possiamo intendere il valore dell‟Agàpe cristiana. E dunque, amare è bene? Se amiamo l‟esistente, è male. L‟esistenza (), dal punto di vista cristiano, non è un bene, in quanto fine di creature finite. La credenza nella immortalità porta a immaginare l‟esistenza come bene. L‟esistenza immortale per i Greci era la società politica, in cui vige il principio di obbedienza, che “libera dalla costrizione del presente permettendo di sopportarlo”. 249 Sopportare non equivale a liberarsi. L‟unità che libera è armonia degli opposti. Non si può conseguire con la politica, che costringe i contrari alla pace per necessità, non per scelta. Gli opposti sono parti di una unità: simboli che si congiungono in un senso comune. I contrari sono elementi individui che polemizzano contendendosi il dominio. Il pòlemos nasce dalla “incapacità di assumere noi stessi come fine”, con la conseguenza di chiamare “bene una volontà che ci assume come fine. Il potere consiste nell‟essere un fine per le volontà degli uomini”.250 Solo i diversi possono incontrarsi nell‟Amore. Diversi sono l‟Assoluto e il relativo; l‟Infinito e il finito; Dio e l‟uomo. L‟Amore è la loro mediazione, il Logos in senso cristiano. Soltanto “ciò che è al di sopra del dominio è il punto di unità, cioè la limitazione del potere”.251 Mediazione è unità su un piano superiore a quello del conflitto. L‟unità politica, ossia modernamente il pactum civilis, rimane invece sullo stesso piano del conflitto e si può rompere. Il piano superiore a quello politico che genera conflitto è la devozione. Il piano del conflitto è il dominio, sempre reversibile, e quindi instabile. Il piano della devozione è l‟obbedienza
248
Agostino, De Trinitate, 9, 6, 9. S. Weil, Cahiers, III (1941-„42), tr. it. Milano, 1988, pag. 304. 250 Ivi, pag. 311-312. 251 Ivi, pag. 332. 249
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( , con-sensus), cioè il riconoscimento volontario dell‟ autorità. Il dominio esige la sottomissione per affermarsi. La sottomissione dell‟altro è l‟effetto del dominio. L‟obbedienza, che per Agostino è “madre e istitutrice di tutte le virtù nella creatura ragionevole”,252 è la condizione dell‟autorità. Non c‟è autorità senza spontanea obbedienza, cioè devozione. Essendo la devozione obbedienza volontaria, non genera paura nell‟autorità, perché non fondata sulla forza cogente del Potere. Il piano della devozione è quello della legittimità morale. Non c‟è durata fuori della legittimità ma solo persistenza nel dominio, cioè resistenza del Potere al confitto. “E‟ necessario abbassarsi per elevarsi”,253 ossia riconoscere l‟autorità obbedendo e conseguire l‟umiltà. Questa la ragione fondamentale per cui lo Stato giusto debba essere “fondato sulla religione”, 254 poiché la Giustizia è la mediazione tra Dio e gli uomini soggetti alla Sua autorità, che governa il mondo. La mediazione giusta è il Governo dell‟autorità. Il caos, così temuto dallo spirito greco, è la conseguenza del porsi l‟uomo come fine del mondo, perché allora il mondo diventa senza fine. Solo ciò che non dipende da un mezzo è fine. “Dio è l‟unico fine. Ma non è in nessun modo un fine, poiché non dipende da alcun mezzo. Tutto ciò che ha Dio per fine è finalità priva di un fine. Tutto ciò che ha un fine è privato della finalità”. [Ivi, pag. 346.] L‟obbedienza trasforma in libertà la necessità della finalità, facendo di questa il riconoscimento del Governo di Dio, e dunque della autorità morale, legittima, che ne viene ispirata. Andare oltre il piano dell‟unità politica, significa riconoscere il singolo come una unità esistenziale. l‟uomo concreto è una unità correlata ad altre unità. L‟unità cristiana è spirituale, non razionale, sicché la communitas ecclesiale non è la società politica, la polis o l‟Imperium. Confondere la formale unità politica con la concreta coesistenza esistenziale è esiziale per l‟uomo. Gesù predica la distinzione. “L‟unione al di sopra della distanza è la molla del bello”. E dunque non l‟unità formale ma “la distanza è l‟anima del bello”, e ciò vale anche per la conoscenza. “La conoscenza delle distanze osservate mediante le cose ci insegna
252
Agostino, Civitas Dei, XIV, 12. S. Weil, Cahiers, III, cit., pag. 333. 254 Ivi, pag. 330. 253
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l‟obbedienza, strappa da noi l‟arbitrario, che è causa di ogni errore”.255 Arbitrario è ciò che nega la distanza, ossia la differenza, il limite tra l‟Unità spirituale e la collettività sociale tenuta insieme dal Potere; chi nega la differenza tra la realtà della coscienza e quella del mondo. Lo sforzo di Platone di trovare un fondamento di resistenza al divenire non può conseguire alcun risultato se permane all‟interno della ricerca di una astratta unità formale del molteplice, ossia all‟interno della sfera politica e del Potere. Solo trasferendo la coscienza dal piano politico a quello morale, da quello cioè della pretesa a quello dell‟obbedienza è possibile riconoscere il limite al Potere, e giungere alla differenza. La differenza è l‟invariante ontologica, e come tale non appartiene al divenire, ai rapporti empirici, alle variazioni soggette al Potere. Ma la differenza non è neppure la coscienza singolare, astratta dal divenire esistenziale. la coscienza astratta è una unità immobile, una Idea. L‟atto di coscienza astrae dal divenire delle cose. La differenza media e trascende l‟atto di coscienza e le variazioni che costituiscono l‟oggetto di coscienza che le porta ad unità. La realtà molteplice non va fissata al limite, altrimenti diventa un‟immagine astratta di realtà, priva di divenire, ossia di futuro. Il limite diventa modello e non più differenza. Il modello è l‟Idea di ciò che è, ossia l‟esistente astratto dal suo divenire, dalla sua imperfezione reale. L‟idealismo sopprime il divenire ponendo la realtà possibile al posto di quella attuale, facendone una “immagine dell‟immobilità”. Il limite non va neppure risolto nel divenire, cioè nel futuro, poiché il mistero legato alla libertà non può dominare la differenza, che lo trascende in quanto fine, il quale è la differenza stessa. Il fine è la differenza, non il divenire, il futuro, l‟avvenire. “Uscire dalla caverna significa imparare a non cercare la finalità nell‟avvenire”. 256 La finalità non è né i presente (l‟unità della coscienza), né il futuro (il divenire), ma ciò che li trascende. E ciò che trascende il tempo della finitezza è l‟eterno, Dio. Il limite invariante, la differenza tra la coscienza e il divenire storico, è Dio. Più l‟uomo si pone vicino al limite, più è vicino a
255 256
Ivi, pag. 349. S. Weil, Loc. cit., pag. 352.
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Dio, cioè riconosce la Sua realtà trascendente e Gli ubbidisce. Ubbidire a Dio significa riconoscere la realtà eterna, trascendente la temporalità del divenire, la dicotomia presente-futuro. Il razionalismo confonde l‟eternità con l‟universalità, che è la fissazione del presente in un modello ideale, astratto dal divenire e trasfigurato in idolo, in immagine ideale. L‟obbligo di considerare di valore comune tale immagine è la legge, che fissa una fattispecie valida erga omnes, per cui tra l‟evento concreto e quello ideale prevalga l‟ideale come realtà-chedeve-essere. Questa imposizione legale de-finisce al presente un processo in divenire, senza liberarlo della sua finitezza, ma solo astraendolo dalla sua concretezza. Il legalismo è all‟origine del razionalismo, ed entrambi sono logiche di Potere, semplificazione della realtà molteplice al modello unitario. Semplificare la realtà equivale a privarla del suo significato concreto, ossia della sua situazione in relazione, sostituendo questa con una fattispecie astratta. L‟astrazione immobilizza la realtà al presente idealizzato, al modello. Il legalismo romano e il razionalismo greco sono aspetti di una stessa visione idealistica del mondo, di uno stesso orizzonte di coscienza, costituendo la risposta della cultura pagana alla esperienza della finitezza dell‟esistenza umana. La coscienza razionalistica elabora una rappresentazione astratta della realtà, assumendone il modello come l‟unico “vero” rispetto ad ogni altra rappresentazione “falsa”. La realtà vera deve prevalere su quella falsa, sicché il mondo reale secondo la legge è quello stabilito dal Potere. la civilizzazione secondo questa visione del mondo non è che la progressiva razionalizzazione della realtà conforme alla sua rappresentazione ideale, stabilita dal Logos, ossia da colui-che-vuole perché può (ha la potenza di) volere. Ma cosa vuole il Potere? Dal punto di vista metafisico, il Potere tende a negare il valore simbolico degli eventi e delle opere umane del mondo a favore del significato univoco, stabilito attraverso i rapporto causale. Nel rapporto simbolico non c‟è nesso stabilito tra eventi pre-determinati, cioè necessarii, ma solo corrispondenza tra eventi possibili, cioè liberi. Il rapporto causale stabilisce valida la domanda che ammette una sola risposta. Il rapporto simbolico sceglie invece tra le domande le possibili risposte. Il Potere dell‟Idea è il dominio della risposta unica sulle possibili domande: è ideo-logia. La risposta unica è perciò totalitaria. Porsi dalla parte della domanda, è parteggiare per il male sofferto dalla risposta unica. Stare dalla parte della sofferenza è cercare la risposta
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giusta alla domanda che la ragione giudica sbagliata. Questo significa redimere, salvare. Nella ragione non c‟è salvezza ma dominio del logos, cioè necessità, ordine. Il Dio che ordina il mondo è l‟Onnipotente: il Dio della Legge. Il Dio che salva il mondo è il Misericordioso: il Dio dell‟amore. I sofferenti sono gli esclusi dalla ragione del Potere, quelli a cui non serve la risposta della verità ideale a soddisfare la loro domanda esistenziale. infatti la risposta ideale è una, mentre le domande sono infinite. Dare una sola risposta alle infinite domande è ciò che il Potere chiama “ordine”. L‟ordine del Poter è la legge, la risposta unica di valore universale. La logica del diritto è la logica del Potere, il dominio, l‟imperium. Come può questo conciliarsi con la charitas? E dunque, perché la Giustizia se c‟è l‟ordine? Perché l‟ordine è selettivo, e perciò la sua universalità è parziale, ossia razionale. Solo la parte razionale della coscienza è soggetta all‟ordine, mentre la parte irrazionale è abbandonata al caos, priva di risposte. La parte razionale è quella astratta dal divenire delle emoioni e delle situazioni esistenziali dell‟uomo, cioè dalla processualità concreta della possibilità. La Giustizia corriponde alla possibilità, salvando dal caos ciò che viene escluso dall‟ordine razionale. Ciò che salva dal caos, dunque, non è l‟ordine razionale, cioè il Potere, ma la Giustizia, cioè il senso dl limite che nasce dalla coscienza della differenza e perciò della possibilità o libertà. Il Governo orale è pertanto il katechon che si oppone alla dissoluzione del caos provocato dal Potere astraente che ordina i soli enti razionali. Ogni Potere che ordina afferma negando e producendo disordine. Senza il Governo morale che limita l‟assolutezza del Potere ordinamentale, questo produce disordine. Limitare il Potere con la morale è limitare l‟errore che la ragione chiama verità. la verità è l‟errore senza limiti, unico e assoluto, non confutato. Tutto ciò che è portato all‟Unità è considerato vero. Ma la verità unica che non si distingue dalla sua falsa universalità, è falsa anch‟essa, è cioè un idolo.La convertibilità del Vero col Falso è l‟estremo approdo nell‟assurdo della ragione del mondo, che è “stoltezza di fronte a Dio”. La stolteza del razionalismo pagano è quella di considerare come proriamente umano ciò che nell‟uomo si lega alla natura, e perciò è universalizzabile alla stregua di una legge naturae. Ma l‟uomo non è sola natura, è anche spirito (), che non può essere governato idealisticamente col Potere razionale, ma solo con la convinzione della fede. Affermare la realtà dello spirito equivale ad affermare la differenza,
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e quindi l‟unità dei contrari, di spirito e natura. “Concepire l‟unità dei contrari è il movimento proprio della parte divina dell‟anima”. 257 4. I due rispettivi orizzonti di coscienza, quello pagano della “cultura” e quello cristiano della “religione”, al di là della stessa dimensione escatologica del messianismo proto-cristiano, non erano facilmente componibili in una unità essenziale conseguibile con gli strumenti tradizionali della filosofia ellenistica, gli unici a disposizione oltre l‟area culturale semitica. Ciò comportò una inestinguibile tensione intestina al pensiero cristiano che, anche quando adottivo di paradigmi teoretici profani, persistette nei termini di un afflato trascendente, sia in senso mistico, quale l‟ plotiniana, un distogliersi progressivo dall‟ambito del sensibile per un ripiegamento dell‟anima in se stessa, 258 che nei contenuti della dottrina morale insiti nella reditio in se ipsum di Agostino, dove “lo scopo del ritorno pensante nell‟interiorità è „l‟essere in accordo‟ con l‟assoluto”, ossia “con la verità stessa che si realizza nel tempo”.259] L‟accordo con la ratio eterna di Dio è insieme una autoriflessione, in quanto essa vive nel pensiero ed è premessa di ogni pensiero. Ed è questa “auto-concordanza” del pensiero con la verità di Dio a costituire per Agostino la “saggezza che sa se stessa e che appunto viene intesa, come l‟intellectus, nel senso di luogo delle idee”. Saggezza, intellectus e idee, intesi come momenti costitutivi dell‟Essere di Dio, riconducono a un’unica natura divina quanto il neo-platonismo aveva attribuito “a due distinte dimensioni dell‟essere divino (l‟Uno e lo Spirito)”, concependo il Dio cristiano insieme come unità e relazione, in cui il pensiero è nello stesso tempo manifestazione della volontà finita e dell‟amore infinito, e duenque nella conoscenza è insita la possibilità di “elevarsi a tale infinito”.260 Il movimento totale interno all‟Unità teo-logica non è teoreticamente esclusivo, ma concepisce la inclusività come trascendenza del sé nell‟Essere di “ciò che è”, in quell‟assoluto e immutabile. E “poiché questo essere è identico alla verità che pensa se stessa, esso è anche
257
S. Weil, Loc. cit., pag. 358. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, tr. it. cit., pag. 210. 259 Ivi, pag. 217. 260 Ivi, pagg. 219-221. 258
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quanto vi è di più stabile e, quindi, è quella meta che inaugura l‟ascesa interiore stessa e in cui questa si acquieta”.261 L‟identità agostiniana di felicità con sapienza, e di sapienza con Dio, fa della conoscenza un percorso verso Dio non puramente intellettuale, ma accanto allo studium sapientiae occorre affiancare l‟aspetto morale e quello religioso o soprannaturale.262 L‟aspetto morale non viene affrontato da Agostino come ricerca del benessere pratico o della virtù civica, alla maniera ellenistica, ma come questione metafisica, ossia come conquista della verità razionale, ma suggerita dalla fede. “Il realismo del pensiero agostiniano si afferma in questa concezione: non possiamo raggiungere Dio direttamente se non per mezzo della fede, la sola realtà che ci sia immediatamente accessibile mediante la ragione è la nostra anima; è da essa che occorre partire e di essa servirsi per elevarsi a Lui”. 263 Oltre la ragione, su un piano mistico, pur non disgiunto dall‟intelligenza intellettuale. Non vi è in terra all‟uomo concesso altro mezzo per giungere alla conoscenza di Dio che quello della ragione. In mancanza, all‟anima semplice non resta che l‟autorità della fede, che però svela la realtà misteriosa di Dio solo dopo la morte, diventando anch‟essa sapienza. 264 L‟unità ricercata dalla filosofia diventa sapienza morale in senso cristiano allorquando l‟intelligenza e l‟erudizione abbiano Dio come fine trascendente. "Una cultura strettamente e direttamente subordinata al cristianesimo”, cioè al “servizio della vita religiosa”, una sua “funzione”.265 Ed è questo carattere a distrarre il sapere dalla potenza mondana, dalla mera unità formale del molteplice empirico, e a indirizzarlo verso il valore trascendente, “l‟amore supremo di Dio”. come dirà in una epistola, “subordinata al fine della carità, la scienza è molto utile; in se stessa, senza questa subordinazione, si è rivelata non solo superflua ma addirittura perniciosa”, quando si cerca “più la scienza della santità”.266 Perché tale giudizio riduttivo della cultura pagana? Qual era il suo
261
Ivi, pag. 217. H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pagg. 159-160. 263 Ivi, pag. 166. 264 Ivi, pag. 169. 265 Ivi, pag. 285. 266 Epistula 55, ed Enarratio in Psalmum 118, cit. da H.I. Marrou, Loc. cit., pag. 289. 262
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maggior difetto? La risposta va ricercata, per alcuni, nella perdita della sua “funzionalità” sociale, ovvero sul “carattere di disimpegno e di evasione” assunto dalla letteratura romana ed ellenistica, lontana ormai dalle reali esigenze comunitarie; funzionalità che invece costituisce “uno dei caratteri più distintivi della letteratura e dell‟arte cristiana”, dal quale “discende la loro, direttamente o indirettamente, larga accessibilità e perciò, in definitiva, il loro carattere popolare”. 267 Ciò darebbe adito a una interpretazione della cultura cristiana in direzione della attività di propaganda missionaria e catechetica, che sicuramente coglie un aspetto rilevante della situazione, ma non quello decisivo. Esso va individuato nel carattere proprio del filosofare come confutazione razionale del Mito e dunque come teoresi auto-referente, metodicamente auto-noma, e priva perciò di quei fondamenti di fede teologica che invece costituivano l‟orizzonte di pensiero e di azione del cristiano. In altri termini, l‟accusa verso la cultura pagana era di essere fondamentalmente atea. Ma questa grave limitazione della cultura ellenistica non impedì l‟adozione dei suoi strumenti intellettuali, a cominciare dalla lingua greca, che divenne la lingua scritturale e della chiesa. E proprio l‟elaborazione razionalistica della lingua aveva condotto al pluralismo filosofico e alle altre eresie, come quella gnostica, fatte tutte risalire da Tertulliano e da Ippolito “all‟influsso depravatore della filosofia greca”. 268 Ma era “difficile, per non dire impossibile, a un cristiano impegnato nel campo delle lettere evitare il contatto e l‟influsso della cultura greca, anche se programmaticamente rifiutati”.269 Si pensi solo che nel Vangelo di Giovanni Cristo è presentato come Logos, cioè principio divino di razionalità universale, che secondo Giustino era presente anche se in forma parziale e impefetta nei filosofi, le cui dottrine, in ciò che di vero hanno, appartengono dunque ai cristiani, custodi della verità rivelata. 270 Il più vicino al monoteismo cristiano era considerato senza dubbio Platone, anche se la sua distinzione rigorosa di anima e corpo si adattava meno della dottrina aristoteica del sinolo al dogma ebraico-cristiano della resurrezione dei corpi alla fine del mondo. 271 In ogni caso, l‟elemento 267
M. Simonetti, Op. cit., pagg. 10-11. Ivi, pag. 28. 269 Ivi, pagg. 35-36. 270 Ivi, pag. 39. 271 Ivi, pag. 41. 268
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discretivo dalla tradizione ellenistica, e il più connotativo della cultura cristiana, fu la storicizzazione del Logos fattosi carne, che eliminava radicalmente ogni possibilità di incontro contenutistico con una cultura impregnata di mitologia politeistica. La battaglia cistiana contro il politeimo pagano, per i suoi tratti anti-mitologici, riabilitava paradossalmente la critica filosofica al Mito arcaico, perseguendone dunque in chiave cristiana il suo fine teoretico: la razionalizzazione del sapere, e di conseguenza della civiltà. La versione cristiana del processo filosofico di razionalizzazione del mondo consisteva nell‟assegnare alla ricerca della verità una meta precostituita dalla fede nel Christos-Logos, ossia un fine morale di senso religioso. Da qui la critica serrata di Agostino, tanto all‟orientamento estetico della cultura pagana tradizionale, propensa a godere delle sue spressioni letterarie e artistiche, anziché a servire la gloria di Dio, che alla mera e vana erudizione, “la tentazione più pericolosa, perché non porta ad altro che a una perversione radicale della mente”.272 Da qui soprattutto l‟orignalità paradigmatica della spiritualità agostiniana nel panorama dell‟intera tradizione patristica cristiana, il “valore eterno dell‟umanesimo” del suo “cupo ascetismo”, in grado di concepire quanto agli altri scrittori cristiani era riuscito in parte: la “rottura profonda” con la tradizione ellenistica ormai irrimediabilmente decaduta, e l‟impegno alla ricostruzione di una “cultura nuova”, una cultura appunto cristiana.273 Nondimeno, di questa nuova cultura di impronta cristiana bisogna bene intendere il senso, per comprenderne il successivo sviluppo in età medievale. Infatti, non può essere del tutto “nuova” una cultura che intenda rimanere filosofica,274 sia pure solo in senso tecnico, mentre dal punto di vista dei fini teoretici dispiegarsi come del tutto cristiana, votata al sapere di Dio, anziché alla falsa felicità agognata dalle dottrine pagane. In ogni caso, anche per Agostino, la ricerca della sapienza rimaneva “il tipo di vita intellettuale più elevato che possa offrirsi all‟anima umana”.275 Sicuramente più elevata della vita activa dedita alla pratica 272
H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pagg. 293 e 294. Ivi, pagg. 296-297. 274 “Sant‟Agostino non ha mai rinunciato alla cultura filosofica”: H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 301. 275 Ivi, pag. 303. 273
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delle virtù politiche. Ma la sapientia alla quale fa riferimento Agostino è la contemplatio veritatis, che trascende la verità filosofica, costruita sui sillogismi, e riposi nella speciale verità della fede, che viene prima di ogni ricerca razionale in quanto ne è il fondamento: “videatur mente quod tenetur fide”.276 Il senso profondo di questa tensione, che è teoretica e insieme morale, va rintracciato nel sentimento agapico di partecipazione spirituale di tutto l‟uomo allo spirito divino del mondo, che nell‟uomo è razionale. La “mente” è appunto la parte più ragionevole dell‟anima dell‟uomo, la cognitio intellectualis che ricerca il Bene “per se stesso e non come mezzo a qualche altra cosa”,277 come invece l‟ethica dei filosofi greci, protesa al bene politico. Il summum bonum al quale è votato l‟ardore teoretico è quello stesso che motiva l‟agire morale: l‟amore di Dio, la charitas. Infatti, come Agostino afferma, “nesun frutto è buono se non nasce dalla radice della carità”. 278 Questo fondamento mancava alla sapientia pagana, che non riusciva, né poteva, trascendere l‟orizzonte filosofico, al quale la fede cristiana aveva donato la luce eterna divina, che “non è soltanto un principio cognitivo, ma è anche fonte e guida di moralità” (lex est ratio divina et voluntas Dei).279 Ne deriva una duplice funzione (officia) della intelligenza umana: la sapientia, dedita alla contemplazione della verità eterna, e la scientia, dedita alle cognizioni pratiche utili alla vita sensibile e all‟ordine delle azioni temporali.280 Solo il primo officium è propriamente cristiano, mentre al secondo si è applicato il sapere filosofico tradizionale, che ha indirizzato la ragione verso scopi meramente terreni, senza arrivare al sapere di Dio, guidato dalla carità. Un sapere meramente terreno è una cognitio historica, inerente alla vita empirica dell‟uomo, la quale può assumere una sua funzione morale allorquando serve alla intelligenza della manifestazione sensibile della parola di Dio, cioè “in quanto si applica alla conoscenza del contenuto della fede”. 281 Questa ammissione della importanza del sapere profano, così decisiva sulle sorti delle future elaborazioni teologiche del Cristianesimo,
276
Agostino, De Trinitate, cit. da H.I. Marrou, Loc. cit., pag. 305. Agostino, De civitate Dei, VIII, 8. 278 Agostino, De spiritu et littera, 14, 26. 279 B. Mondin, Etica e Politica, cit., pag. 18. 280 H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 309. 281 Ivi, pagg. 311-312. 277
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introduce surrettizamente nell‟ordine del discorso sacro un dato spirituale ineliminabile, relativo all‟unica possibilità umana di giungere alla comprensione della parola di Dio attraverso la scientia, la quale pertanto viene mondata del suo carattere negativo a seguito della sua fruibilità per la sapienza teologica. E su questa premessa gnoseologica l‟intero patrimonio culturale profano può essere riabilitato se concepito all‟interno del piano di salvezza cristiano. Ed è qui infatti la premessa teorica della teologia della storia agostiniana, la quale, mercé lo strumento tecnico filosofico, proietta in scala universale il percorso spirituale della coscienza cristiana, facendo della storia individuale il modello della storia dell‟umanità. Il suo concetto di “sapienza”, consistente nel “penetrare in ciò che si crede, ancorché, nell‟accostarsi alla sapienza, la ragione contribuisca a preparare l‟uomo alla fede”,282 accreditava l‟idea che uno strumento teoretico, concepito per rispondere a questioni legate alla vita naturale dell‟uomo, ossia alla “scienza”, il cui fine è “l‟azione”, 283 potesse servire a risolvere questioni legate alla sua vita spirituale, finalizzata alla beatititudine della visione di Dio, costituendo una petizione opposta, ma non meno aleatoria, di quella filosofica di voler conoscere l‟essenza della realtà rimuovendo dalla conoscenza i suoi fondamenti ontologici, ossia quella fede che il cristianesimo considera non solo l‟arché ma il contenuto stesso della gnosi religiosa. Inoltre, l‟ipotesi che l‟elaborazione razionale, ossia filosofica, del dato rivelato potesse giungere a giustificarlo scientificamente per rederlo credibile ai suoi detrattori (contra impios defendatur), implicava il sospetto dell‟inutilità della fede ai fini della conoscenza di Dio, sostituibile appunto con la dimostrazione razionale della Sua esistenza, col rischio di rendere vana la stessa Rivelazione. Questa profonda e lacerante contraddizione attraversa non soltanto il pensiero agostiniano ma l‟intera tradizione teologica cristiana che, come l‟anima per Agostino era “divisa tra autorità e ragione”, 284 fu costellata di posizioni dogmatiche e di eresie, di infinite diatribe ermeneutiche e di cruenti scontri dottrinarii condotti in nome dei
282
F. Copleston, A History of Philosophy (1950), vol. II, Mediaeval Philosophy, tr. it., Brescia, 1971, pag. 67. Da ora HPh. 283 Agostino, De Trinitate, 12, 14, 22. 284 Agostino, De vera religione, 24, 45.
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rispettivi convincimenti teorici. Da essa non si sortisce senza la disposizione morale alla charitas, non contemplata dal metodo razionalistico, adottato dallo storicismo universalistico agostiniano. La conseguenza più rilevante di questa teoria unitaria della Storia fu la revisione dei processi storici delle culture umane in chiave di compatibilità con il percorso soteriologico determinato dalla fede come l‟unico, vero e necessario percorso universale dell‟uomo, per cui i maggiori pensatori cristiani “si sono trovati d‟accordo col principio di respingere gli elementi incompatibili con la vita religiosa, scegliere e conservare quelli che possono in quache modo essere utilizzati da un‟intelligenza al servizio della fede”, e così operando, abbandonare “l‟uso empio della cultura” a favore del “solo buon uso”, quello funzionale alla “predicazione del Vangelo”. 285 La figura ideale dell‟intellettuale cristiano tratteggiata da Agostino nella “carta fondamentale della cultura cristiana”, 286 il De doctrina christiana avrà il compito di “insegnare il bene e distogliere dal male”.287 Stabilendo questo fine di salvezza e “rompendo con la tradizione antica”, il grande scrittore “pone le fondamenta di quella che sarà la cultura medievale”, compreso “il gusto per la ricerca scientifica, la curiosità per le conoscenze di ogni ordine e tutto ciò che, in una parola, doveva generare la nostra cultura moderna”288 Nonostante la “osmosi intellettuale” della cultura cristiana con la tradizione scolastica antica, il percorso della speranza mancava al pensiero naturalistico greco, per il quale lo sviluppo biologico che dalla nascita porta alla morte è intieramente inscritto nella sua necessità. Ciò che era convincimento e giudizio razionale per la scienza profana, diventà dovere morale e virtù teologale per la sapienza cristiana, sicché la saggezza del filosofo diventa “virtù mistica” nel fedele. 289 Ma ciò che le due posizioni hanno in comune è l‟astrattezza della concezione della storia, dovuta alla razionalizzazione del suo oggetto di pensiero, consistente nella sottrazione dal fenomeno del suo principio ideale (arché), che è anche il fine (télos) del suo processo logico-esistenziale, in 285
H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pagg. 327 e 328. Ivi, pag. 342. 287 Ivi, pag. 334. 288 Ivi, pagg. 332 e 337. 289 Ved. K. Loewith, Significato e fine della storia, cit., pag. 191 n. 15. 286
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conseguenza della quale sottrazione l‟esistenza fenomenica diventa geneticamente misteriosa, empiricamente enigmatica. La Storia spirituale dell‟uomo, intesa come anticipazione di senso salvifico, è il processo stesso del Logos immanente ad essa, la sua fenomenologia nel tempo. L‟anamnesi platonica diventa in s. Agostino Storia del Logos. Che tale Logos sia pensato in senso greco come necessità razionale, o alla maniera cristiana come piano di salvezza, fuori del suo orizzonte di senso, ossia del suo fondamento ontologico, il suo piano avvenimenziale semplicemente non esisterebbe. L‟esistenza, la vita e la conoscenza sono per Agostino aspetti inseparabili della auto-coscienza. Col metodo emendativo da lui perseguito, il fenomeno culturale profano, privato del suo orizzonte di senso, e dunque della sua concretezza esistenziale, viene astratto dal suo principio fenomenologico, cioè dal suo fondamento ontologico, e assolutizzato in senso funzionale al disegno soteriologico cristiano, rendendolo perciò disponibile a un fine apparentemente indeterminato, e quindi “aperto”, ma in realtà pre-determinato a un destino opposto a quello indicato come libertà, caratterizzata da una fede consapevole e non presunta.290 Tale astratta determinazione oggettiva degli enti di ragione universalizzati, ossia recisi dal loro fondamento ontologico, li rende disponibili al fine desiderato, ossia oggetti della volontà umana. L‟aspetto più sconvolgente e inedito della razionalizzazione agostiniana della Storia è che l‟emendatio, pur avvenendo a posteriori, inerendo a processi storici passati, si applica sul senso teleologico della loro fine reale, che viene trasvalutata simbolicamente in un inizio cifrato, che l‟interpretazione teologicoapologetica porta alla luce. E così la crisi dell‟Impero romano diventa il luogo dell‟annuncio del Messia, e pertanto, astratto dal suo processo sociologico e culturale, viene interpretato come un momento del piano di salvezza divino. Ciò che valse per la vita di Cristo, quale compimento di un processo che annunciato dai profeti coinvolge “tutta la storia di Israele a partire dalla creazione e dalla caduta”, 291 e ciò che Gesù stesso fece in riferimento alla fede particolare di ogni singolo uomo, sollevandolo dalla propria tradizione religiosa e assegnandolo al Regno di Dio, Agostino lo riferì all‟umanità intera, proiettando su un piano universale il percorso di
290 291
Agostino, De Trinitate, 9, 6, 9. H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 380.
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salvezza di ogni singolo essere spirituale, oggettivandolo in senso razionalistico e costruendo una visione idealistica della Storia. Nell‟atto in cui il percorso soteriologico individuale diventa l‟espressione particolare di una ideale via di salvezza universale, la stessa fede perde il suo carattere di grazia individuale per diventare un postulato dogmatico presuntivamente comune al genere umano, anche quando razionalmente non ammissibile per le civiltà pre-cristiane. Il corollario di tale situazione teorica è, per un verso, la superfetazione dottrinaria, che va a investire ogni questione nata dalla esegesi teologica come dalla semplice lettura apologetica delle Scritture, tale da creare le premesse, attraverso la progressiva annessione di tutti i campi del pensiero, della scienza e dell‟arte,292 del monopolio esegetico della sapienza preteso dalla Chiesa di Roma, nato a seguito della “cristianizzazione della cultura antica”; per l‟altro verso, alla stretta connessione analogica del pensiero teologico con la sfera del politico. Con la visione idealistica della Storia di Agostino si inaugura, assieme alla intuizione metafisica della vita dell‟uomo avente una pretesa universale, anche la “contraddizione”, di cui parlava Dilthey, tra ogni visione metafisica e “la coscienza storica del presente”, fondata sul “fatto che, storicamente, si sia sviluppato un numero illimitato di tali sistemi metafisici, che essi, in ogni epoca in cui sono esistiti, si sono combattuti ed esclusi reciprocamente, e che fino a oggi non si sia potuto operare una scelta”.293 E‟ importante seguire il discorso di Dilthey al fine di evidenziare la portata metafisica dello storicismo idealistico di Agostino. Partendo dalla fattualità empirica della molteplicità dei sistemi metafisici quale indice della loro relatività valoriale, notiamo subito che il modello sottinteso a tale giudizio è l‟universalità del valore teoretico, che contraddice la molteplicità dei sistemi, e che tale universalità è intesa, non in relazione alla comprensine essenziale dei fenomeni oggetto del sistema, ma in senso spaziale, ossia come generalità totalizzante ed esclusiva. Per cui la semplice constatazione fattuale della loro molteplicità faceva scaturire un giudizio di relatività. Infatti, quando il sapere comparativo si ampliò a seguito delle scoperte geografiche e dei raffronti culturali, fino a comprendere tutto il mondo,
292 293
H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 324. W. Dilthey, Weltanschauungslehre, tr. it. cit., pag. 59.
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prosegue Dilthey, “allora si diffuse irresistibilmente, nella maggior parte degli uomini, un atteggiamento di pensiero scettico nei confronti di ogni dogma; la forza della fede in un sapere trascendente scemò costantemente, […] e nessuna metafisica trascendente ottenne più il carattere di autorità come l‟avevano posseduto, una volta, quella di Platone, di Aristotele o di San Tommaso”. 294 In altri termini, in virtù del principio di universalità, la fede in un sapere trascendente viene meno se limitata dalla semplice esistenza di altre fedi, a prescindere dal loro contenuto. Interessante notare che il criterio della universalità vale in positivo, ossia nel senso della validità della credenza, ma non in negativo, ossia in relazione allo scetticismo, che evidentemente non può comprendere la stessa generalità della fede, restando pur qualcuno che, nonostante lo scetticismo dilagante, ancora la coltivi. Stabilita la relazione empirica tra fattualità molteplice e preteso valore unico, sorge “l‟antinomia” storica tra, da una parte, la “variabilità delle forme umane di esistenza”, alla quale “corrisponde la molteplicità dei modi di pensiero, dei sistemi religiosi, degli ideali etici e dei sistemi metafisici”, e dall’altra parte, la “conoscenza oggettiva della realtà” da parte della metafisica, la cui validità riguarda appunto “l‟ampiezza” delle sue connessioni ideali “all‟intera realtà”. Solo questa conoscenza oggettiva, ossia universale, della realtà, come precisa Dilthey, “sembra rendere possibile per l‟uomo un atteggiamento sicuro in questa realtà, e per l‟agire umano uno scopo oggettivo”. 295 Questo assunto però, volendo rimanere sul piano effettuale della molteplicità delle forme metafisiche, contraddice il criterio della dipendenza della loro validità dalla loro unicità, poiché la pluralità delle fedi non dovrebbe darsi, mentre questa pluralità è affermata come criterio della loro relatività. La confusione tra fede nella validità universale e pluralismo delle fedi, rende insolubile, come ammette lo stesso Dilthey, la coesistenza di fedi molteplici. 296 Per comprendere i termini di tale incongruenza di Dilthey, basta seguire il suo stesso ragionamento. Il “tipo di collegamento del sapere di un‟epoca”, egli afferma, “è
294
Ivi, pag. 60.
295
Ivi, pag. 62. Ivi, pag. 65.
296
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condizionato dall‟atteggiamento della coscienza”, che non è teoretico, ma psicologico, come Dilthey chiarisce precisando che “alla base dell‟ideale di vita e della visione del mondo vi è sempre uno stato d‟animo”, ossia un motivo irrazionale, che ne determina suo dire “l‟ambito storico di validità”; validità che dovrebbe essere per principio razionale. E all‟uopo chiama a conferma della sua teoria il caso della metafisica cristiana, la quale, egli afferma, “era fondata sullo stato d‟animo cristiano”. 297 Conoscendo l‟erudizione storica e la capacità teoretica di Dilthey si può anche comprendere la portata teorica della riduzione dell‟evento cristiano a uno “stato d‟animo” tra i tanti che fonderebbero i sistemi metafisici. E non già in quanto quel supposto “stato d‟animo”, che è l‟espressione con la quale Dilthey indica la credenza mitica, sia di chi scrive, ma in considerazione che la fede precipua della religione cristiana “non si fonda su un mito, ma su una storia”,298 ossia su un factum, un evento temporale oggettivo, assunto dalla fede come di valore significativo. Che sia pertanto la fede uno “stato d‟animo” è certo, altrettanto quanto l‟evento storico di cui è oggetto. Cosa cambia? Cambia che la molteplicità della fede soggettiva nell‟evento unico non ne determina il valore comune nel senso della sua relativizzazione, ma al contrario ne conferma la forza. Infatti, ogni singola esperienza di fede è fondamento di una elaborazione razionale (il credo ut intelligam di sant‟Anselmo), la quale resta funzionalmente distinta dal piano dell‟unità, originario e trascendente quello dialettico, proprio della teologia, che concepisce quell‟unità ipostaticamente trina. In questo senso può affermarsi giustamente che “l‟applicazione della ragione ai dati teologici, nel senso di dati della rivelazione, è e rimane teologia, non diventa filosofia”. 299 Di conseguenza, l‟ambito di validità metafisica dell‟evento unico è un ambito ermeneuticamente ed esistenzialmente molteplice, costituito di una molteplicità singolare, e che questa molteplicità non ne inficia il valore universale ma semmai psicologicamente e razionalmente lo conferma. Ciò vuol dire che la fede, ossia lo “stato d‟animo”, è molteplice solo dal punto di vista esterno alla coscienza, empirico, mentre da quello interno ad essa, cioè sul piano della intima singolarità noetica, è
297
Ivi, pag. 63. H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 380. 299 F. Copleston, HPh, pag. 12. 298
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unico e universale. A quale di questi piani si riferisce la relatività di cui tratta Dilthey? L‟universalità della coscienza trascendentale, o l‟universalità della coscienza empirica? Secondo Dilthey, la soluzione della contraddizione consisterebbe nella consapevolezza filosofica della “connessione della molteplicità dei sistemi con la vita” nella quale le “intuizioni del mondo” sono “fondate”.300 In realtà, la “connessione” dei sistemi metafisici non va stabilita con la vita, poiché il loro fondamento, per ammissine dello stesso Dilthey, risiede nello “stato d‟animo”, ossia nella credenza che esso costituisca quel fondamento di realtà che consente alla vita di “essere”. Tra la vita e le forme della sua rappresentazione si interpone dunque la fede nella realtà della vita, senza la quale fede la vita stessa non avrebbe realtà ontologica. La caratteristica della fede cristiana consiste nella credenza che l‟evento cristico, che ha in sé una sua esistenza storica indipendente dalla fede, sia il senso (significato = verità e direzione = via) della Storia. La fede in Cristo non inerisce, quindi, alla Sua esistenza storica, ma alla realtà del significato di quella esistenza. Tale significato, oggetto di fede, solo allorquando venga razionalmente oggettivato assume dimensione metafisica nel senso di Dilthey, ma rimane comunque un significato di fede all’interno della coscienza del credente, indipendentemente dalla sua giustificazione razionale. Ma è in tale interiorità che si stabilisce il fondamento di fede nella oggettività del significato metafisico, che è razionale ma appunto fondato sulla fede. Orbene, Agostino, sulla scorta della gnoseologia razionalistica della tradizione filosofica, ha accolto all‟interno dell‟orizzonte di fede singolare la sua giustificazione razionale, la sua oggettivazione di senso universale, cioè metafisica, mettendola in relazione con altre visioni metafisiche. Il metodo comparativo, afferma Dilthey, semplificando la tipologia delle visioni del mondo, “mostra che queste forme fondamentali esprimono gli aspetti della vita in rapporto al mondo posto in essa”, sicché in quelle forme intuitive noi possiamo riconoscere “i simboli necessari dei diversi aspetti della vita nel loro rapporto”. 301 Ciò significa che le costruzioni metafisiche interpretano i rapporti tra la vita, nei suoi varii aspetti, e la
300 301
W. Dilthey, Loc. cit., pag. 65. Ivi, pag. 66.
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realtà in essa contenuta, cioè il mondo-della-vita. Ma, come abbiamo visto, la vita e il mondo sono la stessa realtà, fondata ontologicamente sulla fede nella esistenza di quella realtà che costituisce la vita, per cui è tale fondamento di realtà della vita a costituire lo “stato d‟animo” tributario di validità all‟orizzonte della rappresentazione metafisica. Orizzonte che è “metafisico” solo dal punto di vista della oggettività scientifica, ma che è in sé nient‟altro che lo stesso mondo-della-vita. In altri termini, la distinzione tra il significato dell‟esistenza e quindi delle relazioni in cui consiste il mondo della vita, e questo mondo stesso, è un‟operazione intellettuale, ma non è la condizione della credibilità di quel mondo; credibilità che è preventiva alla realtà del mondo, e non conseguente, come lo è nvece dal punto di vista oggettivamente della scienza, dalla cui prospettiva è possibile la scomposizione della vita dal suo senso, ma non la loro unità, che è l‟oggetto invece dell‟intuizione metafisica. E difatti, è lo stesso Dilthey a precisare che “le contraddizioni sorgono attraverso il rendersi autonomo delle immagini oggettive del mondo nella coscienza scientifica”. E‟ pertanto tale coscienza che, oggettivando le immagini rendendole autonome, “rende un sistema metafisica” e stabilisce le contraddizioni come “scientifiche”, mentre, “se si vogliono considerare le forme principali come espressioni relative dei diversi aspetti della vita, allora in questi aspetti vi è solo una diversità, ma nessuna contraddizione”.302 L‟oggettivazione scientifica delle immagini razionalizzate consiste dunque nella loro autonomia dal divenire, entro il quale c‟è coesistenza di forme ed espressioni di realtà diverse. E duque i conflitto delle interpretazioni è il prodotto artificiale dell‟intelletto astraente che stabilisce le comparazioni dei valori astratti dalle rispettive fedi ontologiche. Dare valore rilevante alla rappresentazione scientifica rispetto a quella della fede, costituisce essa stessa una credenza di fede. L‟unità metafisica, infatti, non coincide con l‟unità organica dell‟orizzonte di fede, entro il quale ogni aspetto della vita e del pensiero si concilia in Dio, che diventa il topos della conciliazione universale, ossia di ogni diversità culturale ed esistenziale. Questa onnicomprensiva unità è ciò che Agostino chiama “verità”, alla quale la mente, che né la
302
Ivi, pag. 66.
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costituisce e né la può modificare, deve inchinarsi.303 La “diversità” dei diversi aspetti della vita è la molteplicità delle coscienze singolari che riflettono la loro fede individuale all‟interno di un comune orizzonte di senso (che è metafisico, a parte objecti; ovvero esistenziale, a parte subjecti). L‟esito della trascrizione razionalistica della Storia spirituale del singolo uomo nei termini di un oggettivo percorso universale dell‟umanità, da parte di Agostino, è stato che la fede escatologica della coscienza spirituale è diventata il processo fenomenologico del corpus mysticum della Cristianità, la cui forma visibile è la Chiesa cristiana, nel cui “simbolo” si oggettiva la realtà della fede e della sua stessa rappresentazione metafisica. Ciò comporta che, se per un verso la fede diventa fondamento di senso di ogni conoscenza storica, per altro verso il contenuto oggettivato di tale Storia è la realtà empirica della Chiesa, la quale, come ogni fenomeno storico, diventa essa stessa oggetto di considerazione storica, il cui relativo valore metafisico va comparato alle altre forme metafisiche storiche. Quanto la scienza cristiana operò in relazione alla sapienza profana, la scienza moderna fece in relazione alla cultura cristiana: la rielaborazione di senso razionale dei suoi fondamenti di fede, i quali, entro l‟orizzonte di fede, sono “la verità in cui, da cui e per cui sono vere quelle cose che sono vere sotto ogni riguardo”,304 ma che, fuori di esso, appaiono mitici. Questa considerazione stabilisce la differenza tra una supposta verità teoretica, costituita mercè l‟uso di argomenti dialettici, e la verità conseguita dall‟anima in interiore. Ma perché allora fare uso della ragione per conoscere Dio? In una Omelia a commento del Vangelo di Giovanni, Agostino spiega che la presenza del Padre, creatore del mondo, fu disvelata dal Figlio ma, in quanto è chiamato Dio da tutte le creature, questo nome non ha potuto rimanere del tutto ignorato neppure alle genti, anche prima che credessero in Cristo. Tale infatti è l‟evidenza della vera divinità, che essa non può rimenere el tutto nascosta alla creatura razionale che sia ormai capace di ragionare. Fatta eccezione di pochi, nei quali la natura è troppo depravata, tutto il genere umano riconosce Dio come autore di questo mondo. E così, come
303 304
Agostino, De libero arbitrio, 2, 12, 33. Agostino, Soliloquia, 1, 1, 3.
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creatore di questo mondo che si offre al nostro sguardo in cielo e sulla terra, Dio era noto a tutte le genti, anche prima che abbracciassero la fede di 305 Cristo.
Ciò significa che la conoscenza universale di Dio è possibile a ogni uomo in grado di collegare la realtà creata, che cade sotto i nostri sensi, col suo Creatore, ossia a ogni essere dotato di ragione, anche se non illuminato dalla Rivelazione. E pertanto è l‟uso della ragione la facoltà originaria e comune a tutti gli uomini, a prescindere dalla loro fede religiosa. Questa ammissione non stabilisce una equazione tra conoscnza razionale di Dio e verità, come abbiamo visto, ma in ogni caso accredita la ragione come lo strumento del consenso universale alla stessa fede in Cristo, la quale perfezionerà l‟acquisizione della verità entro la coscienza del credente. 306 Ed è proprio questa ammissione a riabilitare la ratio pagana come strumento, sia pure imperfetto, di accesso alla verità cristiana, alla fides, facendo di questa una coscienza elettiva e minoritaria rispetto alla conoscenza naturale o filosofica, universale per tempo e per luogo, e perciò costitutiva del legame tra il popolo di Dio e l‟intera umanità. Da qui il recupero degli elementi di verità della sapienza pagana, compatibili cn la Rivelazione, ma da qui soprattutto la necessaria trascrizione razionalistica della fede ai fini del “consenso universale” delle genti alla verità cristiana. La questione del rapporto tra fede e ragione, non soltanto non è chiarita da Agostino (Harnack), ma il suo sforzo teoretico teso a provare l‟esistenza di Dio a partire dalle sensazioni per risalire alla consapevolezza della inanità del cimento razionale, sembra presentare la fede come l‟approdo finale e il coronamento della imperfetta conoscenza naturale, e non come la premessa della conoscenza razionale. Ciò vorrebbe dire che si può pervenire a Dio anche fuori della Rivelazione, ma soprattutto stabilirebbe un rapporto di necessaria complementarità tra fede e ragione, la quale rivaluta la sapienza profana come prodromica a quella cristiana. Da questa interpretazione nasce il modello di civiltà razionalistica ellenistico-cristiana come ideale e da proporre come universale. Eppure Agostino aveva asserito, commentando nel Vangelo di
305
Agostino, In Joannis Evangelium (416-17), 106, 4; tr. it. di E. Gandolfo, Roma, 2005, pag. 1080. 306 F. Copleston, HPh, pag. 94.
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Giovanni il passo in cui Gesù invita a “rimanere nella parola” (Gv 8, 3132), che “è grande ciò che comincia dalla fede”, 307 intendendo dire che nella fede c‟è il fondamento della “verità” (Gv 8, 32). Infatti, chiosa Agostino a proposito degli apostoli, “essi non credettero perché avevano conosciuto, ma credettero per conoscere”.308 La conoscenza per fede non è legata alla natura umana in quanto tale, ma alla volontà del singolo, pur nelle incertezze della condizione lapsa dell‟uomo. Gesù infatti, pur soggiornando in terra per riverlarsi all‟uomo, da tutti fu visto ma non da tutti riconosciuto. “Rifiutato dalla maggioranza, messo a morte dalla moltitudine, da pochi fu pianto, e tuttavia, anche da questi dai quali fu pianto, nn era ancora conosciuto per quel che esattamente era”. 309 Se l‟eudemonismo etico della cultura pagana trovava il suo limite culturale e soteriologico nella cura di sé, esso fu rintracciato proprio dall‟uso della ragione, la quale deve trascendere sé stessa se vuole assurgere alla verità, per cui né l‟ideale dell‟epicureo né quello dello stoico possono dare la felicità all‟uomo, ma solo il desiderio della beatitudine, ossia il raggiungere Dio, che “è la beatitudine stessa”. 310 La tensione morale verso l‟ascesa a Dio è per Agostino un dato antropologico, per cui l‟amore, che è lo strumento col quale l‟uomo si protende a Dio, non è un precetto dottrinario ma coincide con la ricerca stessa di Dio, che è il summum Bonum, e quindi con la volontà di partecipare di questo Bene. In questo senso, in Agostino “la dinamica della volontà è una dinamica d‟amore (pondus meum, amor meus)”.311 L‟amore è il fine, l‟obbligazione morale, cui deve sottomettersi la volontà, che i Greci destinavano alla felicità naturale. L‟orientamento morale è libero, sicché l‟uomo può o non perseguirlo, volgendo la sua volontà verso i beni terreni, distogliendosi dalla legge divina, ovvero verso il bene spirituale ispirato da Dio. 312 La stessa illuminazione che la mente coglie teoreticamente, la coscienza morale coglie in senso etico. Ciò comporta che il dovere di amare Dio, in cui consiste l‟obbligazione
307
Agostino, In Joannis Evangelium, 40, 8, tr. it. cit., pag. 663. Agostino, In Joannis Evangelium, 40, 9, tr. it. cit., pag. 664. 309 Agostino, In Joannis Evangelium, 40, 9, tr. it. cit., pag. 664. 310 Agostino, De moribus ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum (388), 1, 11, 18. 311 Agostino, Confessiones, 13, 9, 10; cit. da F. Copleston, HPh, pag. 108. 312 Agostino, De libero arbitrio, 2, 19, 35. 308
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morale, è la parte che spetta all‟uomo per raggiungere la beatitudine. L‟altra parte tòcca alla Grazia, l‟unica che possa guarirlo dalle infermità della legge umana. Una vita regolata senza l‟apporto della Grazia non può conseguire la vera felicità, e quindi l‟uomo vive nel male. Questo, però, non può essere inteso in senso positivo, poiché ogni cosa creata da Dio non può che essere benigna. Nello stesso tempo, l‟uomo che non persegue il suo fine morale vive nel male, per cui questo va inteso come una condizione negativa di allontanamento dal bene divino ed eterno legata alla volontà dell‟uomo.313 Questa concezione, di origine neo-platonica e risalente a Plotino, 314 assegna razionalisticamente alla realtà una fisionomia aberrante, conseguente alla ipostatizzazione del modello morale come l‟unica vera realtà in senso ontologico, rispetto alla quale l‟esistenza profana è insana. A tal punto che è occorso l‟intervento divino per redimere l‟uomo. La storia pre-cristiana, caratterizzata dal sapere razionalistico, viene rappresentata da Agostino come una lunga vigilia di redenzione, che nell‟evento cristico trova la sua soluzione di continuità, il suo salto morale. La storia dell‟umanità è la storia della dialettica del principio dell‟amore meramente terreno dell‟uomo verso se stesso, e del principio dell‟amore dell‟uomo verso Dio. Col principio terreno, vòlto alla sola cura dell‟uomo a se stesso, si è edificata la città di Babilonia; col principio dell‟amore divino si è costruita Gerusalemme. Sono “due città, presentemente unite nel corpo ma separate nel cuore”. 315 Il Potere politico, ossia la condizione per cui alcuni uomini comandino su altri, non è stabilito dall‟ordine naturale originario ma è una conseguenza del peccato originale.316 Se non interviene la Grazia, l‟esercizio del Potere è privo di luce divina, ossia di finalità morale, sicché la potestas di Dio di Rm 13, 1 viene intesa da Agostino in una accezione che trascende l‟orizzonte politico per significare in generale che se manca la direzione divina “l‟uomo può solo avere il desiderio (cupiditas) di compiere il male o il bene, ma l‟effettivo potere (potestas) di realizzare l‟uno o l‟altro gli
313
Agostino, De libero arbitrio, 1, 16, 35. F. Copleston, HPh, pag. 112. 315 Agostino, In Psalmos, 136, 1, cit. da F. Copleston, HPh, pag. 113. 316 Agostino, Civitas Dei, XIX, 13-15; M. Rizzi, Cesare e Dio. Potere spirituale e potere secolare in Occidente, Bologna, 2009, pag. 92. Da ora CeD. 314
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può essere concesso solo da Dio”.317 La ricerca di Dio, ovvero della beatitudine, non può essere solo umanamente condotta ma si sviluppa attraverso un colloquio con Dio che è il depositario della verità, senza il Quale ogni proposito umano non sussisterebbe. Ma la responsabilità dell‟intendimento umano non può essere di Dio, poiché Egli non agisce positivamente ma solo ispira la volontà umana nel caso concreto, in cui il dialogo avviene. Ciò vuol dire che che la libertà che fa da sfondo alla volontà umana è stata da Dio concessa ab origine, con la creazione stessa dell‟uomo, mentre il suo esercizio concreto, ossia la volontà umana, si esplica nei termini del coloquio con Dio, che può, per voler umano, anche mancare, ovvero, per volere di Dio, anche non esser esaudito. In questa facoltà va intesa la potestas divina, la quale consiste nella ispirazione morale, ossia nell‟esercizio della libertà dell‟uomo nel senso della volontà divina, della recta ratio. L‟ispirazioe morale attesta la realtà di quel colloquio con Dio, in mancanza del quale l‟esercizio del Potere si esaurisce nella mera potenza umana, nella cieca forza non illuminata dalla Grazia. Anche questa teoria agostiniana è di origine chiaramente platonica, ma ciò che la Repubblica lasciava in modo indeterminato alla facoltà del filosofo illuminato, Agostino lo attribuisce appunto alla Grazia, la quale aveva agito già prima dell‟avvento di Cristo, consentendo all‟Impero romano di sussistere, partecipando, sia pure inconsapevolmente, al disegno soteriologico divino. Tale inconsapevole partecipazione non significa irragionevolezza della volontà umana, ma soltanto che l‟ignoranza della Rivelazione rendeva l‟agire umano prettamente naturale, finalizato cioè a scopi materiali, non spirituali, ai quali gli stessi filosofi si applicavano pensando il bene come quello della città. Il senso della dicotomia tra scopi materiali, relativi al corpo, e beni spirituali, relativi all‟anima, va ravvisato nella differente condizione umana, in parte soggetta alla morte, in parte a partecipare dell‟eterno. per l‟essenza spirituale, ogni uomo, in quanto creatura divina, è uguale immagine di Dio, sicché “nell‟unità della fede, ogni differenza è esclusa”, mentre invece, per la condizione peccaminosa dell‟uomo, “le differenze
317
M. Rizzi, CeD, pag. 94.
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di nazionalità, di condizione sociale, di sesso […] rimangono durante la vita mortale”.318 Abbiamo così due livelli esistenziali, uno dominato dalle leggi di Cesare e determinato dalla nostra natura finita e materiale, l‟altro dipendente dalla Grazia divina e relativo alla nostra condizione spirituale. Nel primo livello va posto il Potere, ossia l‟intera organizzazione della vita politica diretta allo scopo eudemonistico di salvaguardare la specie umana. Questa è la dimensione della sapienza profana, incapace di trascendere la finitezza del suo orizzonte esistenziale, e dunque di pervenire al livello superiore in cui ogni differenza empirica perde il suo valore temporale e contingente a fronte della contemplazione beata della verità divina, conseguibile pero post mortem. Anche qui è palese la derivazione platonica e stoica dell‟anima rinchiusa nella gabbia materiale del corpo. Ma ciò che rileva, non è tanto la separazione delle due dimensioni esistenziali, quanto la diversa e relativa considerazione in chiave precipuamente cristiana del momento inerente rispettivamente alla vita comune degli uomini mortali, e alla vita spirituale di ognuno, la cui singlarità deriva in rapporto alla diversità di condizione materiale. In altri termini, l‟unità conseguibile solo nel livello spirituale, è infranta dalla diversità di condizioni materiali degli uomini, dalla loro condizione originariamente peccaminosa. E pertanto il trascendimento della finitezza relativa a tale condizione lapsa significa pervenire alla consapevolezza della propria individualità sprituale attraverso la conoscenza di Dio, la quale consente di riconoscere in ognuno ciò che ha in comune con ogni altra creatura, e dunque di amare in ogni altro simile il Padre comune che tutti ha generato. Il compito del principe (rex) cristiano è di “indirizzare” (regere) la volontà dei sudditi verso i fini divini, 319 nel cui conseguimento consiste la volontà morale, l‟amore di Dio, la charitas, ovvero la “giustizia”.320 Le due città, essendo due regni ideali, relativi a due livelli di coscienza esistenziale, non sono realtà storiche, quali la Chiesa e lo Stato. Infatti, “se lo Stato coincidesse necessariamente con la città di Babilonia, nessun cristiano potrebbe legittimamente coprire cariche nello Stato”.321 D‟altro canto, la stessa condizione morale, scaturendo da un
318
Agostino, Esposizione della Lettera ai Galati 28, cit. da M. Rizzi, CeD, pag. 99. Agostino, Civitas Dei, V, 12. Ved. M. Rizzi, CeD, pag. 102. 320 Agostino, Civitas Dei, IV, 4. Da ora CD. 321 F. Copleston, HPh, pag. 116. 319
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dialogo intimo e singolare della coscienza con Dio, non può incarnarsi in una istituzione collettiva e impersonale quale lo Stato, anche se la sua conduzione può, e auspicabilmente deve, essere informata ai valori morali della carità cristiana. Il significato delle duae civitates è nella differenza dei duo amores: l‟amor sui è la naturale concupiscentia che spinge l‟uomo a padroneggiare l‟altro da sé (libido dominandi), l‟amor Dei è la tensione spirituale verso ciò che trascende il proprio Io, informata al sentimento della caritas.322 La città terrena è dominata dalla necessità di lottare contro “il potere della morte” e dunque di “vivere secondo la carne”, 323 ossia in armonia con la natura ma in dissidio con i doveri dello spirito (Gal 5, 9-21). Tuttavia, avverte Agostino, “non tutti i vizi della vita immorale si devono attribuire alla carne” in quanto tale, ma all‟uomo in quanto sola carne, che cioè “vive secondo se stesso”, 324 ponendo l‟uomo come fine della vita, anziché Dio. E “quando l‟uomo vive secondo l‟uomo, non secondo Dio, è simile al diavolo”. 325 Vivere secondo Dio è vivere nella verità, mentre vivere non secondo Dio equivale a “vivere secondo menzogna”.326 La menzogna consiste nel ritenere che la carne sia tutto l‟uomo. Come aveva già avvertito Paolo, “l‟uomo naturale non conosce le cose che sono dello Spirito di Dio, ritenendole sciocchezze”, non attribuendo a esse alcun valore. Ma l‟incapacità dell‟uomo naturale di valutarle nasce dall‟impossibilità di commisurare beni di natura diversa, in quanto le cose spirituali “devono essere giudicate spiritualmente” (1Cor 2, 14). Da qui l‟orgine di due dimensioni di vita, due “città”, diverse. La mancanza di discernimento del valore spirituale, pertanto, non è dovuta solo alla cattiva volontà dell‟uomo carnale, che vive solo secondo se stesso e lasua natura finita, ma alla circostanza che all‟interno dei criterio di valutazione naturali non sia possibile giudicare gli eventi della vita spirituale. Ma, a detta dello stesso Paolo, neppure le stesse opere carnali potranno essere “giustificate dalle opere della legge” umana (Rm 3, 20). Ciò non significa che “la natura della carne” sia malvagia, poiché ogni creazione divina è in sé buona, sicché anche la 322
F. Copleston, HPh, pag. 116. Agostino, CD, XIV, 1. 324 Agostino, CD, XIV, 3.2. 325 Agostino, CD, XIV, 3.4. 326 Agostino, CD, XIV, 4.1. 323
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costituzione carnale “nel suo genere e ordine, è buona”. 327 Agostino vuole dire che ciò che va giudicato come malvagia è la destinazione che se ne fa della carne ovvero dello spirito. se la destinazione è puramente mondana e umana, allora si è fuori dell‟amore di Dio. Ed è questa la ragione per la quale è da rigettare ogni visione manichea della realtà, poiché “l‟anima non è condizionata soltanto dalla carne, […] ma può essere agitata da stimoli provenienti da lei stessa”. 328 Il platonismo di Agostino si manifesta anche nella concezione dell‟uomo perverso per indole, il quale, se non ama il bene è perché “non è cattivo per essenza ma per difetto”,329 sicché amare il bene equivale ad amare la giustizia, mentre amare il mondo, giusto Giovanni, vuol dire non avere benevolenza di Dio (1Gv 2, 15). Non ogni tipo di amore è buono, dunque, ma solo quello giusto, l‟amore di Dio. 330 La logica che presiede la “città di Dio” è dunque diversa da quella che regge la “città dell‟uomo”. Come è stato detto, “la civitas terrena pretende di essere possessio del divino nel saeculum, la civitas Dei confessa di essere peregrina in hoc saeculo”.331 Ma la differenza tra le due prospettive non è riducibile soltanto alla distinzione, pur significativa, tra concezine immanentistica del sistema teologico-politico pagano, e concezione trascendente cristiana, “riconoscibile all‟interno della chiesa ma mai oggettivabile come certo”.332 Infatti, è ben vero che la pretesa secolaristica nasce in conseguenza della risoluzione dell‟esperienza spirituale in re, ossia nella “costruzione storico-mondana” del divino, che, sacralizzando strutture secolari terrene, ambisce alla “assolutizzazione del suo essere, del suo conoscere, del suo amare tramite l‟intelligenza e la virtus naturale dell‟uomo (donde la filosofia greca e la politica romana come vertici della civiltà pagana), tramite gli sforzi eroici della civiltà umana nel suo progresso storico”, e dunque
327
Agostino, CD, XIV, 5. Ibidem. 329 Agostino, CD, XIV, 6. 330 Agostino, CD, XIV, 7.2. 331 G. Lettieri, Riflessioni sulla teologia politica in Agostino, in P. Bettiolo-G. Filoramo, Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Brescia, 2002, pag. 217. 332 Ibidem. 328
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sacralizzando strutture secolari terrene 333 Tutto ciò è vero; così come lo è che “la peculiarità del teologico-politico cristiano sia specificato non dalla connotazione trinitaria del proprio assoluto ontoteologico, ma dalla presenza dell‟atto di grazia come suo principio irriducibilmente escatologico, cioè del tutto eteronomo e antimondano”; 334 ma la questione derimente che stabilisce la irriducibilità e inconfondibilità dell‟una dall‟altra dimensione esistenziale è di carattere ontologico, e non ideologico, sicché l‟errore ermeneutico, che ha dato origine alla diatriba tra Schmitt e Peterson, consiste proprio nel ridurre tale differenza a due diverse disposizioni culturali. La redenzione morale non si opera attraverso una conversione ideologica dall‟una all‟altra forma di vita comuntaria, ma a seguito del‟assunzione del principio spirituale che abita in interiore homine, e non nelle istituzioni politiche, e dunque neanche nella Chiesa come corpo mistico cristiano. In altri termini, l‟amor Dei, ossia l‟assunzione della grazia entro la propria vita spirituale, non è paragonabile all‟amore profano verso qualcosa o qualcuno determinabile dalla sua realtà finta, sia una persona fisica che ideale, un uomo o un impero, in quanto, a differenza di questo, esso consiste in una tensione alla trascendenza da ogni finitezza, da quella carnalità che limita e conchiude l‟esperienza umana in se stessa. E poiché alcuna creazione terrena, divina come umana, è immune dalla sua natura finita – tranne il Cristo – ogni dedizione esclusiva ai beni terreni è profana e idolatrica. Non in quanto non sia consacrata a Dio, ma in quanto ignora che tale consacrazione non può realizzarsi in externo, oggettivamente in opere umane, in un mondo per quanto razionale, ma solo all‟interno della coscienza, poiché, come si è detto, è nel dialogo interiore con Dio che si acquisisce la grazia redentrice. In questo senso, l‟intervento della Grazia divina non opera nella dimensione politica della socialità, ma bensì nella dimensione mrale della coscienza singolare. La civitas Dei pertanto, diversamente dalla città terrena, non è una comunità politica ma una comunità di individui singolari, ognuno dei quali portatori e testimoni di una personale storia spirituale, in cui consiste il “dinamismo della grazia”. La “imitazione perversa dell‟ordine divino” 335 consiste
333
Ivi, pag. 218. Ivi, pag. 219. 335 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 220. 334
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nell‟assumere come soggetto morale una persona materiale, un corpus fisico, il quale, non potendo avere coscienza spirituale al pari dell‟uomo, imago Dei, ne fa le veci. In questo scambio, che è anzitutto un errore teoretico, consistente nell‟assunzione della parte (la “carne”) per il tutto (l‟uomo concreto), consiste l‟idolatria, “l‟adorazione della falsa divinità”, che è un errore teologico e morale, proprio della civiltà romana, la cui religio idoleggia la civitas come la vera divinità.336 La trascendenza verso il Bene attraverso l‟ausilio della Grazia consiste nel superare il livello di coscienza naturalistico, proprio della “società degli empi che non vivono secondo Dio ma secondo l‟uomo”,337 e pensare nell‟amore di Dio, cioè secondo il senso morale, la dimensione dell‟eterno, l‟unica veramente concreta. Il carattere psicologico di tale esistenza morale è il superamento del “timore e del dolore”, che caratterizza invece l‟esistenza politica, “l‟umana società” caduta nel peccato. 338 L‟ “inizio di ogni peccato è la superbia”, che è atteggiamento contrario a quello dell‟obbedienza all‟ autorità legittima, sostituita con “l‟autorità a se stessi”, ossia alla posizione di sé, e non del “fine immutabile”, come fine. E‟ insomma l‟atteggiamento economico della ragione utilitaria e particolaristica, come quella di Adamo, che “ha anteposto il desiderio della moglie al comando di Dio”.339 Agostino distingue due tipi di volontà. Una finalizzata al bene naturale, secondo ledisposizioni di Dio, e l‟altra “depravata” dalla superbia. Ogni creazione divina, egli ricorda, è buona, ma può essere utilizzata in modo malvagio, “contro natura”, ossia contro la sua benigna destinazione naturale, a opera appunto della “depravazione della volontà”. In cosa consiste questa volizione depravata dell‟uomo superbo? Nel fuoriuscire dall‟Essere divino, ossia dalla destinazione finale della creazione, con un atto volontario di altra natura rispetto a quella divina, una “natura creata dal nulla”. Vi è dunque l‟Essere, che comprende la creazione, e il Nulla, che è una natura che “defeziona dal suo essere” in quanto non prodotta dalla volontà divina. Ora, poiché la malvagità dell‟uomo che ripiega su se stesso è pur sempre relativa al suo essere creaturale, l‟avere abbandonato Dio lo rende “mno
336
Agostino, CD, XXII, 6.2. Ved. G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 225. Agostino, CD, XIV, 9.6. 338 Agostino, CD, XIV, 9.5 e 10. 339 Agostino, CD, XIV, 13.1. 337
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perfetto” ma non proprio un nulla, anche se lo avvicina al nulla. Ciò vuol dire che l‟uomo superbo e pervertito, abbandonando l‟Essere benigno nell‟atto di rifiutare di sottomettersi a Dio, “decade dall‟Essere”, affidandosi all‟amore di sé.340 Ed è appunto questo amore di sé che pone l‟uomo come fine a se stesso, a esporlo al dominio diabolico, 341 per cui lo spirituale si converte in carnale, anziché il contrario. 342 E da qui sorge ogni umana sofferenza, che in senso spirituale “si denomina tristezza”, e come bisogno della carne si denomina “libidine”. La libidine si esercita in molte guise, compresa quella che “influisce moltissime sulle coscienze dei tiranni” e che consiste nel “dominare” (libido dominandi).343 L‟aver “abbandonato Dio” ha fatto sì che l‟uomo fosse “lasciato a se stesso […] per essere fine a se stesso”. La tristezza di tale abbandono consiste nel fatto che l‟uomo, “non obbedendo a Dio non ha potuto obbedire neanche a se stesso”,344 proprio perché preda della disordinata volontà (libido) che, senza la guida dell‟autorità divina, gli impedisce di mirare, non solo alla felicità del bene.345 L‟onnipotenza divina non abbandonò l‟intero genere umano al poter del diavolo, ma parte di esso lo prescelse, destinò alcuni uomini “con la grazia e non per i loro meriti” alla Sua città. 346 Nella “città terrena” la supposta sapienza che aveva abbandonato la via divina inorgogliva l‟uomo, che, dominato dalla superbia, scadeva nella sciocchezza di di sostituire alla gloria eterna di Dio “l‟immagine dell‟uomo soggetto a morire”,347 per dominare le masse. Nella “città celeste invece l‟unica filosofia dell‟uomo è la religione con cui Dio si adora convenientemente”, nel modo tale cioè che non siano solo alcuni sulla buona strada della beatitudine, ma “Dio sia tutto in tutti”.348 La religione non è la politica. Questa è guidata dall‟amor sui, né può 340
Ibidem. Agostino, CD, XIV, 13.2. 342 Agostino, CD, XIV, 15.1. 343 Agostino, CD, XIV, 15.2. 344 Agostino, CD, XIV, 24.2. 345 Agostino, CD, XVIII, 41.1. 346 Agostino, CD, XIV, 26. 341
347
Il riferimento palese è a Varrone (già cit. in VI 7.1) e implicito a Erodoto e alla da lui asserita superiorità della religione antropomorfa greca su quella di altri popoli, come gli Egizi, che veneravano gli animali: Storie 2, 35-37, 65-76. 348 Agostino, CD, XIV, 28.
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assumere “la funzione ontologica di difendere e affermare il naturale conatus essendi dell‟uomo”,349 compito che spetta alla Grazia, in quanto l‟ordine del mondo inerisce alla carne e non all‟invisibile spirito singolare. La stessa teologia civile della città terrena, di cui trattava a proposito di Varrone, non può dare alcuna indicazione sulla natura di Dio, poiché “il vero Dio non è Dio in base a un modo di pensare ma per natura”, e la natura dell‟uomo, di cui è oggetto il pensiero della theologia naturalis, non è quella di un dio, sicché “tanto la teologia civile che la fabulosa [ossia la mitica] sono entrambe fabulose, entrambe civili”,350 finalizzate a idolatrare realtà immaginarie, create dagli uomini in funzione dell‟unità politica, della salus publica.351 La sfera politica, con la sua ratio essendi, è il primo gradino dell‟evoluzione umana verso la dimensione spirituale: “prima è nato il cittadino di questo mondo, dopo di lui l‟esule in cammino nel mondo e cittadino della città di Dio”. 352 L‟evoluzione spirituale, mediante la grazia, non è pertanto una condizione di natura universale, ma elettiva, per “beneficio divino”353: “la natura pervertita dal peccato genera i cittadini della città terrena, la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste”, la quale non esiste in terra se non in “forma simbolica”.354 Questo perché la costituzione della città terrena, pur avendo in questo mondo il suo “ideale”, che è quello politico, “non sarà eterna”, ma alla fine dei tempi essa perderà la sua forma politica, che è il modello ideale di ogni città. 355 Come dunque potrebbe avere una forma mondana la città eterna? Inoltre, la pace che viene conseguita nella città terrena a opera di conquistatori più forti, verrà persa prima o poi da lotte intestine o esterne, condotte in nome della prevaricazione, che mira al privilegio esclusivo. Fu così per Caino e lo stesso per Romolo, entrambi fratricidi per “invidia diabolica” pur di raggiungere il solitario
349
Secondo la tesi di G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 222. Agostino, CD, VI, 8.1-2. 351 Agostino, CD, XVIII, 54.2. Ved. M. Rizzi, Le teologie politiche, in Il Cristianesimo. Grande atlante, vol. III Le dottrine, cit., pag. 1048. 352 Agostino, CD, XV, 1.2. 353 Agostino, CD, XVII, 8.2. 350
354 355
Agostino, CD, XV, 2. Agostino, CD, XV, 4.
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successo. Il polemos, ossia la logica della scissione, domina la città terrena, in cui vige la legge dell‟esclusione del concorrente. Diverso il caso della comunità dei buoni. “La conquista della bontà non diminuisce affatto se si aggiunge o rimane un compagno, anzi la bontà è una conquista che la persoale carità dei compagni raggiunge con estensione pari alla partecipazione”.356 La bontà, infatti, mirante alla perfezione, non può escludere da essa altri che la ricercano ma solo chi la osteggia. E una volta raggiunta, non può escludere da sé il male che la impediva. L‟opposizione, afferma Agostino in senso platonico, interessa la condizione che diviene in quanto imperfetta, ma non ciò che è compiuto. Da questa compiutezza nasce il sentimento del perdono, cioè l‟agire per la conservazione della pace, “senza la quale non sarà possibile vedere Dio”. 357 In altri termini, l‟intera vicenda storico-politica delle lotte umane va ascritta alla condizione di imperfezione naturale dell‟uomo. In tal senso Agostino accoglie l‟antropologia aristotelica, ma solo come il primo stadio dell‟evoluzione umana verso la compiutezza spirituale, la stessa perfezione della specie. Una volta conseguita, allorquando l‟elemento spirituale prevarrà su quello istintuale originario della comune costituzione naturale, l‟uomo non proverà più il bisogno di dominare né di escludere gli altri, realizzando la perfetta convivenza di esseri perfetti, che hanno raggiunto la santità, che è “immortalità” e non mera durata destinata a finire, ossia è “eterna pace” e non momentanea tregua bellica.358 L‟analogia con il tentativo dei filosofi di dominare le passioni, è esplicitata nello stesso tempo in cui viene ne viene reso il senso teologico del rapporto tra ragione e fede: la prima, tendente a reprimere le pulsioni malvage, la seconda a escluderle. 359 La funzione terapeutica del metodo razionale è collegata alla repressione dell‟apparto politico coercitivo, quale momento provvisorio della condizione sociale dell‟uomo ancora immerso nel suo status naturae lapsae. Divinizzare tale condizione lapsa è dunque per Agostino una aberrazione, dalla quale la fede cristiana prende decisamente le distanze, stabilendo anche la
356
Agostino, CD, XV, 5. Agostino, CD, XV, 6. 358 Agostino, CD, XVIII, 2.1. 359 Agostino, CD, XV, 7.2. 357
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differenza tra religio in senso ciceroniano di garanzia dell‟ordine sociale e divinizzazione delle istituzioni politiche (simulacra) e fede in senso evangelico.360 La fede realizza il passaggio da una condizione ideologica dell‟esistenza (falsitas) di esseri naturalmente polemici, a una condizione di esseri spirituali. Questo trapasso di mentalità (metànoia) non si esaurisce nell‟occasionale azione buona e caritatevole, pur apprezzabile, ma in un cambiamento di coscienza della vita, e quindi presuppone un itinerario soteriologico ben più risolutivo e radicale della classica paideia intellettuale greca o della salus rei publicae in senso romano. Il santo agostiniano non è un legislatore, alla stregua del filosofo pagano, in quanto egli, per stabilire rapporti di convivenza coi suoi simili in beatitudine, non ha alcun bisogno di un demiurgo che faccia le veci di un dio mortale. Il viaggio per la santità è all‟interno della città terrena, tra la Resurrezione e la parusia. Il caso dei gesti simbolici di Gesù è diverso, in quanto Egli era già santo. Ma, soprattutto, la comunità dei santi, non essendo una città se non simbolicamente, è una unità sprituale, non sorretta da istituzioni giuridico-politiche come invece la città terrena. Questa può essere assimilata alla ecclesia, ma solo, appunto, simbolicamente, in quanto in questo mondo la condizione di beatitudine può conseguirsi soltanto nella relazione con uomini della carne, ossia immersi nella esistenza politica. La vita del non ancora santo in questo mondo, dunque, è una esistenza di relazione con uomini imperfetti, e dunque agenti secondo la logica polemica del potere e dell‟invidia. Questo giustifica la sottomissione del pellegrino alle leggi della città, che sono anche le sue in quanto cittadino, cioè di uomo imperfetto. Ubbidienza civile che si ferma alla pretesa idolatrica del Potere di assogettarsi anche la sua parte spirituale. Nei due casi, il senso della salus è diverso. Per il cives la salute pubblica coincide con la conferma dello status civitatis, ossia della stessa condizione politica, la quale dunque non si evolve se non all‟interno del suo orizzonte di coscienza dominato dal peccato e dall‟invidia, cioè dalla falsitas e dalla libido dominandi. Per il pellegrino, invece, la salus coincide con il superamento della sua condizione naturale, e dunque soltanto al percorso spirituale può assegnarsi una storia che abbia un
360
Cicerone, De Legibus II, 27, 69; De natura deorum I, 2, 5. Ved. G. Letteri, Riflessioni cit., pagg. 224-225.
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terminus a quo e uno ad quem, mentre le vicende che riguardano la storia profana sono tutte rapportabili a uno schema di sviluppo circolare contrassegnato dalla nascita-vita-morte personale e dalla guerra-pace politica del collettivo. Tra le due dimensioni vi è la stessa differenza che tra ciò che permane nel suo stato naturale (regolabile col diritto) e ciò che che lo trascende (nel senso della bontà), per cui “quanto vi è nel presente di storia della redenzione nega e annulla ogni storia del mondo in quanto mondo”.361 Come ha precisato Troeltsch, la predicazione di Gesù non è mai intesa come una condizione sociale perfetta, attuata dal potere miracoloso di Dio anziché dal‟arte umana, e neppure [come] il conforto che derivi dalla speranza che la miseria sociale della terra sia per essere sostituita da un beato al di là di uguaglianza o magari di capovolgimento, che il Vangelo asicuri ai non abbienti in contrapposizione ai potenti attuali della terra. Essa è nvece sempre in prima linea la condizione etica e religiosa ideale di un mondo signoreggiato esclusivamente da Dio, in cui conseguiranno effettivo valore e 362 riconoscimento tutti i valori della pura vita interiore.
L‟avvento del regno di Dio in terra, attraverso la mediazione di Cristo, doveva comportare per ogni uomo di buona volontà l‟abbandono della coscienza naturale e la preparazione spirituale, consistente nella “santificazione di sé in ogni opera morale fatta per Dio, cioè la purità di cuore, in cui Dio all‟avvento del regno guarderà”. Questo non implicava l‟organizzazione di “uno speciale gruppo”, ma solo l‟indicazione “a quanti più è possibile” della “via che conduce alla salute, la salda riccia, su cui essi debbono edificare la loro casa”. 363 L‟occhio di Dio sostituisce quello dell‟imperatore, poiché lo scenario morale è interno e non esterno, riguarda il singolo, e non la città, i valri eterni dell‟anima e non la fama per gestas. “Al cospetto di Dio la valutazione del valore umano è diverso che nella vita giornaliera del mondo”.364 La differenza è nell‟atteggiamento del cuore, che non vuol
361
E. Norelli, Il presente è storia?, in Il dio mortale cit., pag. 112. E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1923), tr. it. Di G. Sanna, Firenze, 1941, vol. I, pag. 22. Da ora SKG. 363 Ivi, pag. 46. 364 Ivi, pag. 47. 362
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dire ascetismo o morale soggettivistica del sentimento autonoma dall‟operare, ma una concezione dei rapporti umani in senso trascendente lo spirito utilitario e la misura della forza e del dominio. L‟idealismo religioso cristiano deve far leva sui pochi eletti per sensibilizzare le masse ottuse e refrattarie, ma non può strumentalizzare il Potere politico a tal fine, bensì affidarsi al carisma della profezia escatologica. L‟unità nella fede in Cristo è il reciproco riconoscimento dell‟accoglimento di questa prospettiva, e tale reciprocità è “amore” in senso cristiano. “Esso non è semplice bontà e carità in genere, ma è il collegamento tra gli uniti in Dio, il rivelarsi e il destarsi dell‟intelligenza dei veri valori della vita”. 365 Ogni sforzo umano deve tendere ad instaurare questa comunità d‟amore, non in quanto realtà sociale, ma in conseguenza della adesine ai fini divini, la cui portata è universale. “In tal modo dall‟individualismo assoluto sorge un altrettanto assoluto universalismo, entrambi su base puramente religiosa, saldamente poggianti sul pensiero della santa volontà d‟amore di Dio, e rafforzantisi l‟un l‟altro con perfetta consequenzialità logica”.366 Decisiva sulla determinazione di questa divina volontà è l‟interpretazione che ne dà Gesù. “Dalla fede in quest‟autorità rampolla tutto il modo di pensare [cristiano]; e sarà compito duraturo dell‟intiera compagine assicurare ques‟autorità, questa scaturigine”. D‟altro canto, al di fuori di questa dedizione morale, anche gli adepti erano liberi di perseguire altre tradizionali condotte che non entrassero in conflitto con la predicazione cristiana. Decisiva era la loro libera adesione interiore ai precetti della fede. Per tale ragione, “Gesù non organizzò mai una comunità, ma soltanto la predicazione, per la quale cercò degli ausiliari, che dovevano tutto abbandonare e tutto sacrificare a lui e alla sua causa”.367 La predicazione evangelica non ha un carattere ascetico, ma mira a considerare i beni terreni non come fini etici a se stessi ma in funzione dei valori spirituali. Ciò implicava non il disprezzo della realtà terrena, ma la loro trasvalutazione morale in direzione della salvezza. Non vi è un‟idea di Stato, in quanto lo Stato era una comunità naturale che doveva
365 366 367
Ivi, pag. 53. Ivi, pag. 54. Ivi, pag. 58.
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essere superata dalla visione spiritualistica, ma non da “un nuovo ordine sociale fondato da Dio”.368 L‟ordine spirituale, poggiando sulla unità con Dio, non poteva trovare oggettivo riscontro sociologico in alcun ordinamento civile o politico storico, ma rimaneva un ideale da perseguire in relazione alla resistenza che il peccato insito nella natura umana vi fraponeva. Il dualismo del cristianesimo delle origini fu superato grazie agli ideali universalistici delle filosofie ellenistiche, che, come quella stoica, auspicava una legislazione riformatrice in senso dei valori umanitari della sua teodicea. Fu così che i giuristi romani, imbevuti di ideali stoici, cercarono di “ricondurre la legge positiva all‟universale legge divina di natura, e a trarre da questa, come aplicazione particolare, i diritto di natura, dal quale finalmente dovevano promanare […] tutti gli ordinamenti giuridici positivi, compresi lo Stato e la società”. In questa opera di eticizzazione del diritto Cicerone ebbe una parte di grande importanza.369 In comune con la visione cristiana, lo stoicismo propugnava la nascita di “un nuovo ideale dell‟umanità, che sorge dalla distruzione degli Stati nazionali, conquistatori, miltaristici, politeistici”, ai quali si contrappone un valore universale dell‟umanità e la fede interiore in un unico Dio, opposta alla fede degli dèi nazionali santificanti lo Stato e il diritto; una fede puramente religiosa, incompatibile con gli antichi ideali naturalistici.370 Entrambi nel loro idealismo riducono le basi naturali della vita e debbono perpetuamente fare i conti con la rivincita di esse. In entrambi opera una nuova etica, ricca di difficoltà e di contrasti, che è rimasta durevole patrimonio della cultura umana europea, ma che è anche in permanente contrasto con le esigenze realistiche degli istnti di natura e dei bisogni materiali dell‟esistenza, e contro le formazioni del potere politico e 371 giuridico.
Nondimeno, come Agostino metterà in chiara luce, le distanze delle due prospettive, stoica e cristiana, sono incolmabili. “Lo stoicismo è il
368
Ivi, pag. 63. Ivi, pag. 70. 370 Ivi, pagg. 73-74. 371 Ivi, pag. 75. 369
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correlativo religioso ed etico dell‟impero mondiale, la conservazione etica e la riforma di ciò che esiste; il cristianesimo è la rivoluzione sriituale, la creazione dal basso di un nuovo tipo di comunità e di un nuovo avvenire”.372 Questa nuova comunità, da libera e fluida comunità dei credenti in Gesù, aspettante il regno di Dio e preparantesi al suo avvento, grazie alla fede in Gesù risorto, grazie all‟interpretazione di Gesù quale Messia e per rigorosa conseguenza quale divino principio cosmico redentore, grazie al nuovo culto di Cristo e alla sua mistica idea di redenzione, grazie al battesimo e all‟eucaristia come mezzo di trasferimento nel Cristo celeste presente, diventa comunità religiosa 373 autonoma. […] E‟ sorto un nuovo culto .
Il valore dell‟individuale santificazione si comunica alla partecipazione alla comunità mistica dell‟ “essere in Cristo”, nella mistica sostanza di cui ogni fedele è membro. L‟universalismo dell‟amore divino “rimane tale verso l‟interno, ma verso l‟esterno diventa missione e conversione, che prima del ritorno di Cristo e del giudizio vuol accogliere tutto il mondo, perduto senza Cristo, nella partecipazione redentrice alla morte e alla resurrezione del Pneuma-Cristo”.374 Nella condizione peccaminosa in cui versano gli uomini prima della loro spirituale salvezza in Cristo, essi sono tutti uguali di fronte a Dio. “Il livellamento procede non da uguaglianza di diritti, ma da uguaglianza d‟indegnità”, cioè “negativa”. A essa fa riscontro la salvezza graziosamente elargita dall‟amore divino, il quale la dispensa “ad onta di ogni differenza di condizioni sociali, di qualità, di attività etica”, e che “si manifesta soltanto nell‟eguale partecpazione di tutti al culto”, di Cristo, cioè “soltanto interiormente”. 375 Ma uguale condizione peccaminosa non implica alcuna legge di uguaglianza nella partecipazione alla grazia divina, che verrà dispensata secondo a volontà di Dio e il grado di accoglimento delle singole anime, prima dell‟universale redenzione finale. L‟idea della predestinazione divina smentisce l‟idea di una astratta uguaglianza nel “diritto di tutti all‟uguale partecipazione al supremo valore della vita grazie all‟efficacia
372
Ivi, pag. 72. Ivi, pag. 76. 374 Ivi, pag. 78. 375 Ivi, pagg. 79-80. 373
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uguale della vocazione e della destinazione”. 376 Questa concezione elettiva della grazia divina distingue la dottrina cristiana da ogni razionalismo naturalistico e dai derivati diritti di natura, che, basandosi sulla universalità della ragione, rendono ugualmente partecipi dei suoi beni tutti iniscriminatamente. Il cristianesimo respingerà sempre queste astratte teorie egalitarie razionalistiche e naturalistiche, presenti invece nello stoicismo, come pure da ogni etica aristocratica del privilegio di pochi naturalmente dotati. 377 L‟uguaglianza tra gli uomini è nella parte divina che è in ognuno di loro, per cui la diversità storica è per ognuno occasione per conseguire l‟uguaglianza spirituale, che dunque è un fine e non una premessa sociologica o giuridica. Le differenze naturali restano sullo sfondo, mediane tra la concreta individualità delle anime e l‟universale promessa escatologica della salvezza Esse sono “strumento di sviluppo di valori religioso-etici”, diretti alla solidarietà individuale e alla responsabilità collettiva in nome della devozione e dell‟amore comuni. La comunità spirituale accoglie ogni singola differenza in quanto essa è stabilita su quanto è divino in ognuno, sicché “gli individui entrano nella totalità non soltanto con una parte della loro essenza, come avviene negli altri sistemi sociologici, […] ma con le loro peculiarità, con la totalità e peculiarità della loro essenza”, così voluta da Dio.378 Lo Stato, perdendo”la consacrazione religiosa del politieismo”, conserva un certo valore per i cristiani “solo a motivo delle sue funzioni più esteriori e superficiali”, per cui le formazini socio-politiche pagane vengono riconosciute ma tenute ai margini della vita comunitaria interna “in quanto esse appartengono a un mondo tramontante”.379 La loro tolleraza è dunque motivata dall‟attesa della costituzione di una nuova forma di socialità che la propagazione della fede annunciava come imminente o comunque prossima. L‟atteggiamento apostolico era legato indissolubilmente alla prospettiva escatologica ma “l‟elemento rivoluzionario” che essa comunicava non sfumò con la fine dell‟attesa messianica, in quanto insito nel messaggio spirituale del Vangelo,
376
Ivi, pag. 83. Ivi, pag. 85. 378 Ivi, pagg. 89-90. 379 Ivi, pagg. 95-96. 377
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permanendo per tutta l‟antichità e “prolungandosi per tutto il medioevo fino al protestantesimo”, a riprova che “il fanatismo apocalittico non è manifestazione di un desiderio di riforma politica o sociale”. 380 Infatti va distinto il radicalismo etico dell‟ideale universale cristiano dallo spirito rivoluzionario, proprio invece del razionalismo astratto, che, “prendendo le mosse dal soggetto e dalla sua universale visione razionale, instauri il razionale e riconosca il divino soltanto nell‟universalità della visione razionale, ma non nel corso irrazionale delle cose non dominabili dal soggetto”.381 L‟immediata identità del valore universale con la determinazione coscienziale, non ammettendo alcuna mediazione tra la realtà del modello ideale e la realtà fenomenica, riconosce un assoluto potere creativo della coscienza, da tradurre in atto. Il volontarismo cristiano, di contro, ponendo il Logos di Cristo tra le leggi eterne divine e l‟attività morale dell‟uomo, fa di questa una libera scelta dettata dalla fede personale, non da una astratta necessità logica, e della grazia di Dio mercé la quale l‟agire umano prende significato simbolico, un libero gesto d‟amore. D‟altro canto, la fede nella redenzione universale contiene un motivo trascendente ogni determinazione finita e un radicalismo etico che “sempre spingeranno a straniarsi dalle condizioni esistenti o ad eliminarle, e a passar sopra ad ogni unità di vita nazionale o d‟altro genere per conseguire l‟unità religiosa spirituale e interna”. [Ivi, pag. 101.] Le astratte uniformità politico-giuridiche, per la loro tendenza intrinseca a non considerare la varia diversità delle concrete esistenze singolari, appaiono alla coscienza cristiana più matura forme istituzionali prive di veri legami etici, concentrate ai beni terreni e particolari, senza quindi autentico significato universale. E pertanto, l‟accezione di “universale” riferita alla prospettiva etica cristiana va intesa nel senso non razionale ma esistenziale, ossia in quello congiunto della considerazione integrale dell‟uomo nella sua concreta esistenza, e del valore eterno custodito in interiore da ogni coscienza spirituale. Una universalità che, come quella razionalistica, considerasse soltanto l‟elemento naturalistico dell‟uomo, 380
Ivi, pag. 97. Anche se pare difficile ammettere un sentimento di “odio contro i pagani”, come asserisce il Troeltsch, ma piuttosto di uno sforzo di testimonianza religiosa che produsse una moralizzazione delle istituzioni, secondo la tesi di Harnack cit a pag. 98 n. 47. 381 Ivi, pag. 99.
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sarebbe comprensiva della generalità formale, attestata dal diritto, ma del tutto vuota di contenuto morale e quindi di concretezza esistenziale. La posizione cristiana è molto diversa da quella di Hegel, che pensa la verità come spirito, del quale è partecipe l‟uomo in quanto spirito. Ma, poiché lo spirito da Hegel è inteso come “oggetto assoluto”, cioè come essenza razionale, il superamento di tale oggettività nella conciliazione dello spirito col proprio sé, consisterebbe nella negazione della naturalità dell‟uomo empirico particolare, ossia con la stessa realtà esistenziale dell‟uomo concreto.382 In senso precipuamente cristiano, il superamento della coscienza naturale, e quindi il trascendimento della finitezza sensibile, può avvenire solo per fede, ossia attraverso la conversione della coscienza (metanoia), che muta insieme al modo di pensare anche quello di vivere.383 5. Chi aveva identificato verità con universalità razionale era stato Platone, colui che aveva “scritto opere d‟arte per esporre della filosofia”, ossia si era servito di immagini artistiche per iniziare alla verità (philìa) ed educare la coscienza all‟uso della ragione (sophìa) “indirizzata alla conoscenza delle potenze irrazionali della vita”. 384 Platone aveva inteso che il livello di coscienza noetico, quello proprio della intelligentia spirituale, solo all‟interno di un più vasto e originario orizzonte, rappresentato in forma artistica, riesce a pervenire, per mezzo della sua visione ideale, a una conoscenza concreta della realtà. Ma la concretezza della realtà risiede nella sua molteplicità e dunque nel suo divenire, ossia nella sua storia, sicché la vera conoscenza consiste nella armonia, cioè bellezza, tra i due momenti, che, se non va soppresso il particolare a 382
Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Bonacina e L. Sichirollo, Roma-Bari, 20125, pag. 265. 383 “Una tale conversione non è un filosofico cambiamento di rotta che bisogna rinnovare giorno per giorno, non è quel mero sottrarsi a ciò che corrompe, dissimula e fa dimenticare, che compie incessantemente chi filosofa, ma un istante biograficamente databile che fa irruzione nella vita e le dà una fndazione nuova. Dopo la conversione, il mutamento filosofico resta un fattore costante delle attività quotidiane. Ma la forza che essa possiede le proviene da un fondamento radicale e assoluto che è la trasformazione essenziale operantesi entro la fede”: K. Jaspers, Agostino, in Die Grossen Philosophen (1957), tr. it., Milano, 1973, pag. 410. 384 E. Hoffmann, Platonismus und christliche Philosophie (1960), tr. it., Bologna, 1967, pag. 32.
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favore dell‟universale, non fanno neppure confusi. A questo compito è preposta la ragione, la quale distinguendo rigorosamente i due momenti, ha la funzione kantiana di determinare il limite che separa la verità (cioè la distinzione armonica) dall‟errore (la confusione degli elementi ontologicamente diversi). In questo senso si è detto che “Platone non espone una filoaofia ma ci rappresenta il filosofo, come egli lo vedeva in realtà. Egli mostra la filoaofia rappresentando i filosofo”. In questa rappresentazione egli “inventa” il filoaofo, impersonandolo nella figura amata di Socrate. “Ma ciò che egli inventa non è solo un uomo individuale di cui fare il ritratto, sibbene l‟uomo in assoluto, colto come pensatore nelle sue caratteristiche inspiegabili”. La stessa “rappresentazione inventiva” deriva da questa inspiegabilità reale dell‟essenza umana, e “perciò la rappresentazione inventiva del filosofo è piuttosto in lui intuizione e verità della realtà essenziale di Socrate [che] appare come una grande totalità unica nel suo genere nella diversità dei suoi aspetti”. Tale diversità non è componibile in unità logica, in una razionale reductio ad unum, che ci fornirebbe solo “dati esteriori”, ma in una totalità, costituita dalla “connessione inseparabile di realtà e idea, di realtà e possibilità”. Infatti, solo “il perenne cogliere e perdere se stesso” può darci “ciò che un uomo autenticamente è”, conoscenza che “riluce agli occhi di chi lo ama”. Ed è proprio questa “unità di pensiero ed esistenza” a costituire “la permanente concretezza storica del pensiero platonico”. La conseguenza più rilevante di tale consapevolezza è la liberazione del pensiero dalle catene della oggettività, che rinchiudeva l‟essere nel pensato, privando il pensiero della sua “libertà ed originaria efficacia esistenziale”, inibendolo dalla sua “azione interiore”. Con il suo procedere Platone ha fatto assumere alla stessa verità “un carattere diverso” dal semplice “contenuto del dire”, come fosse solo “un oggetto d‟intuizione, relegata nelle proposizioni”, ossia “una affermazione” rinchiusa “nel linguaggio come tale”. Ed è perché la sua non è “una dottrina oggettiva” che si possa definire in una forma che “in Platone si incontrano e da lui provengono quasi tutti i motivi del filosofare [e] che la filosofia trovi in Platone la sua fine e il suo inizio”. 385 Questo duplice carattere dell‟Essere, ideale e a un tempo fenomenico, attribuisce anche alla sua conoscenza una qualità paradossale, “ma il
385
K. Jaspers, Platone in Op. cit., pagg. 335, 336, 340, 400.
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paradosso, ineliminabile per il pensiero platonico, mantiene tuttavia in grazia di esso il suo significato: la frattura esistente fra la sfera ideale e quella fenomenica non significa nient‟altro che il principio di tutta la coscienza dell‟umano pensiero”.386 La consapevolezza di questa “frattura” metafisica genera il senso del Limite, che è razionale, in quanto individuato dalla ragione, ed è etico, in quanto conseguente alla ragionevolezza dell‟agire pratico. La rappresentazione di questa totalità, distinta e conflittuale, non può essere meramente logica, ossia dialettica e polemica, ma deve essere inclusiva anche dell‟esperienza della finitezza del divenire, la cui coscienza non è intellettualmente astratta ma esistenzialmente sofferta dall‟uomo. E proprio perciò il principio della coscienza, che è quello stesso della struttura dell‟Essere, richiede una rappresentazione che sia a un tempo simbolico-poietica e logicorazionale, che soltanto la narrazione filosofica può offrire come mitologia, ossia come racconto archetipo (Mythos) della verità nel suo divenire se stessa.387 Colui che ha intrapreso una rappresentazione mito-logica della Storia in chiave platonico-cristiana fu Agostino. Dalla semplice ma essenziale considerazione dell‟indissolubile rapporto tra piano di esistenza concreta e piano di realtà ideale, discende l‟atteggiamento noetico della prospettiva religiosa di Agostino, per il quale il giudizio negativo sull‟ordine del mondo non va disgiunto dal finalismo provvidenziale che ve lo ha disposto e la cui parte benigna è riposta nella sua capacità d‟ordine, nella sua pace sociale, inconsapevolmente funzionale all‟opera evangelizzatrice della Chiesa. Il rapporto con lo Stato diventa dunque la ricerca dell‟incontro conciliatore della forza strumentale col finalismo della legge morale cristiana., perseguita dalla comunità ecclesiale costituita, la Chiesa, che del corpo mistico di Cristo rappresenta sia la realtà oggettiva che il luogo mistico della Sua presenza storica. Agostino nella Chiesa vedeva il luogo di una
386
E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 35. Secondo Hoffmann, “Platone ha creato delle allegorie con cui descrive il modo come raggiungiamo prima e dopo la vita, al di fuori del mondo fenomenico determinato dallo spazio e dal tempo, la chiara contemplazione delle idee, che per noi quaggiù sono concepibili solo in quanto insufficienza, enigma e riflesso. Egli ha mitologizzato il modo con cui Dio dona la partecipazione al mondo nell‟atto in cui, da architetto, configura i cosmo secondo il modello delle idee”: Op. cit., tr. it., pag. 54. 387
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cittadinanza non puramente ideale, quale quella neoplatonica o stoica, fondata su una verità di ragione, ma l‟appartenenza a una comunità universale radicata su una rivelazione storica, significativa non solo per l‟intelletto ma per l‟esistenza dell‟uomo intero. Il principio filosofico diventa in Agostino “autorità” che s‟identifica con la stessa ragione. 388 Il passaggio dall‟interiorità della ricerca di Dio alla chiarificazione razionale della fede consente di identificare nella realtà della Chiesa la vita stessa dell‟uomo che ne fa parte, facendo così di essa l‟immagine dell‟anima dell‟uomo universale, dell‟umanità peregrinante, in lotta contro le resistenze diaboliche della natura che ne ostacolano la redenzione. Che cosa distrae dal pensiero di Dio se non le ragioni del mondo? Ossia lo stesso Logos filosofico che ha le cose finite come suo oggetto. La umana finitezza crea dipendenza dal mondo e dalle situazioni, ponendoci il dovere di decidere e di essere responsabili di queste decisioni. In realtà la volontà non possiede se stessa ma è già decisa da Dio. La libertà umana consiste nella possibilità concessa da Dio di emanciparsi dalla natura, volgendosi a Lui (caritas, amor Dei), ovvero di negarlo, confermando la dipendenza dalla natura (cupiditas, amor mundi). La dipendenza da Dio deve indurre l‟uomo ad abbandonare ogni superba autoaffermazione e assumere con umiltà ciò che deve a Dio. L‟amor di sé può essere vinto solo con la grazia di Dio, che rivela all‟uomo la dipendenza della sua libertà, permettendogli “di diventare umile senza cadere nella coscienza della sua umiltà”, che diventa “orgoglio dell‟umiltà”.389 Il male è prodotto umano, frutto del peccato, mentre il bene si deve solo all‟assistenza divina. “Nell‟azione cattiva la volontà è libera, nell‟azione buona essa ha bisogno di Dio. Questa è l‟esperienza fndamentale e rivoluzionaria di Agostino, nella certezza che la conversione sia un mutamente dell‟essenza umana”. 390 Allora agisce l‟amore, che è potenza spontanea della volontà doverosa, e la volontà libera diventa fede nella liberante dipendenza da Dio. “L‟intenzione fondamentale della fede” è di avere la Bibbia come “fonte della verità essenziale”, per cui “l‟intenzione di questo pensiero non si
388
K. Jaspers, Agostino, tr. it. cit., pag. 411. K. Jaspers, Agostino, tr. it. cit., pag. 444. 390 Ivi, pag. 445. 389
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fnda più sulla ragione come tale, né su ciò che l‟uomo si dà in essa, ma sulla Bibbia mediante l’assistenza della ragione”, ossia facendo cambiare alla ragione il suo oggetto teoretico. In effetti, l‟inesauribile fonte biblica “permette all‟intelligenza fertile di Agostino di trovare verità di una inesauribile ricchezza e di una insondabile profondità”. Ma se la Bibbia è “il linguaggio della rivelazione sulla quale si fonda ogni verità”, ogni applicazione della ragine ad essa si dispiega come una rielaborazione filosofica delle eterne verità, tale che la loro speculazione si traduca in “presenza vivente”.391 Agostino convertendosi all‟unica verità non ne può ammettere altre, sicché ogni ricerca individuale approda alla “verità comune”, che seda ogni conflitto e apporta la pace. 392 Ma come può trovarsi una verità che non sia quella che si è già data la fede? Questa dunque si presume come una condizione imprescindibile per il conseguimento della verità, sicché la ricerca della verità e la ricerca della fede coincidono. Jaspers ha ben colto che in Agostino “ragione e fede non sono due fonti separate che debbono alla fine incontrarsi [ma] la ragione è nella fede e la fede nella ragione”. Esse non sono in “un conflitto che debba risolversi nella sottomissione della ragione” a seguito del sacrficium intellectus, né la verità di accerta nella fede traducendosi in proposizioni derivate da precise proposizioni bibliche da cui si debbano dedurre come se fossero dei dogmi”, ma la verità è nella fede che ricerca se stessa nella Bibbia e si ritrova attraverso il rinvenimento in essa dei suoi contenuti.393 Ma se tali contenuti devono essere rinvenuti univocamente, è segno che fuori della fede, ossia della stessa verità, esiste il conflitto delle interpretazioni, dove regna l‟errore e la menzogna, che sono l‟opposto del vero bene eterno. Se infatti “ci fosse un bene eterno che non è compreso nella verità, non sarà vero e quindi non sarà buono, perché sarà falso”. 394 A sedare il conflitto ed assicurare la verità comune è l‟autorità della fede custodita dalla Chiesa. Ma l‟autorità di un agente istituzionale non è
391
K. Jaspers, Agostino, tr. it. cit., pag. 423. Ivi, pag. 424. 393 Ibidem. 394 “Aut si est aliquod bonum aeternum quod non complectatur veritas, non erit verum et ideo nec bonum erit, quia falsum erit”: Agostino, De mendacio, ed. Bilingue a cura di M. Bettetini, Milano, 2010, pagg. 50-51. 392
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assimilabile alla spontanea adesione del libero convincimento della fede operato dalla conversione. Questa è un rapporto interiore stabilito tra la coscienza individuale e Dio, mentre l‟autorità riveste sempre un carattere sociale, in quanto è una relazione che suppone due parti, una attiva e l‟altra passiva, disparità che manca nel dialogo della fede. Infatti, noi sappiamo che “l‟autorità è essenzialmente attiva”, in quanto è un atto che tende a provocare un cambiamento nel senso desiderato dall‟agente autoritario. La peculiarità dell‟atto autoritario è di “non incontrare opposizione da parte di colui o coloro ai quali è diretto”. Ciò vuol dire che l‟opposizione è possibile ma non viene esercitata per “rinuncia cosciente e volontaria alla realizzazione di questa possibilità”. Pertanto per autorità dobbiamo intendere “la possibilità che un agente ha di agire sugli altri (o su un altro), senza che questi altri reagiscano nei suoi confronti, pur essendo in grado di farlo”.395 Ciò presume che l‟autorità, a differnza di ogni forma di potere, venga esercitata verso chi la riconosca, ossia entro la comunità dei fedeli, la Chiesa, che viene assunta dalla fede come la comunità di verità comune a tutta l‟umanità, mentre la verità della “comunità nemica” è sì comune ma “solo come verità sua propria e perciò esclusiva, ragion per cui deve ritenersi menzogna”. Inoltre, Agostino sa che solo Dio è autorità e che ogni altra pretesa di sostituirLo è atto di idolatria.396 E dunque come si giustifica la possibilità di una autorità esterna alla verità di fede? E come la vece umana in materia di autorità? Questa incongruenza è la stessa che Schelling ha riscontrato nel concetto teologico dell‟unità di Dio, dove si afferma che “non vi è alcun altro Dio al di fuori di lui”. Tale unità esclusiva di ogni altro fuori di essa è infatti precedente ogni atto divino, non potendo sussiste qualcosa prima della causalità divina che non fosse indipendente da Dio e quindi uguale a Lui. Per ovviare alla solitudine assoluta di Dio, che è ma non , occorre distinguere l‟unicità contrapposta alla pluralità del politeismo, dall‟esistenza unica rispetto a ogni altra esistenza.397 In altri termini, l‟unità di Dio non è dimostrabile nei termini di un Suo divino
395
A. Kojève, La notion de l’autorité (1942), tr. it., Milano, 2011, pag. 20. K. Jaspers, Agostino, tr. it. cit., pag. 425. 397 F.W.J. Schelling, Der Monotheismus (1828), tr. it. a cura di L. Lotito, Milano, 2002, pag. 32. 396
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attributo numerico, poiché nessun ente, come notato da Schleiermacher, può avere “la proprietà di sussistere solo in numero determinato”, ma può essere assunta solo come verità di fede. In tal senso, il canone monoteistico “può essere tanto poco dimostrato quanto lo stesso essere di Dio”. La verità di fede, nella relazione dialettica con le altre possibili fedi, può eleggere l‟unicità di Dio come una realtà ontologica, in cui coincide l‟essenza e l‟esistenza. E dalla fede comune in questa realtà divina può discendere la condizione religiosa monoteistica come realtà storica, per cui “potrebbe essere una proprietà del mondo quella di stare sotto la sovranità di un solo Dio, ma non di Dio quella di essere soltanto uno”.398 L‟Uno divino, non potendosi pensare come un vuoto assoluto, è pensato come Trinità, che ha in sé il suo movimento vivente che si è manifestato storicamente in Cristo. L‟idea di Dio si fonda sulla ragione, mentre la fede in Cristo sulla Rivelazione. Una “fede mitica che si vuol distinguere dal mito mediante la realtà dell‟uomo Gesù”.399 In questa dimensione fattuale, nella quale la fede individuale ma comune si riconosce come realtà storicamente oggettiva, avviene la del rapporto singolare fede-grazia attraverso la mediazione di Cristo, in una Dio-mondo con la mediazione della Chiesa. 400 La rivelazione dell‟unica via non passa più dunque per la presenza di Gesù ma per la realtà della Chiesa, “alla quale ci inchiniamo ubbidienti”, perché “presi d‟amore per Dio, arriviamo a lui con la fede nella Chiesa”.401 Il servizio divino diventa servizio della ragione alla verità non solo asserita dalla Chiesa ma della stessa Chiesa. Il sapere diventa opera di fede e servizio istituzionale. Intellige ut credas, crede ut intelligas. Credere è “pensare con assenso” (cum assensione cogitare), ossia rimettersi all‟autorità materna della Chiesa. Questa consegna è nel contempo morale e teoretica, mirando sia a confermarsi nella fede che a convincere chi non l‟abbia della verità della rivelazione dell‟unità della fede e della conoscenza. In “questo rivolgimento” della posizione filosofica classica che affermava il sapere escludendo la fede, consiste “il fenomeno universale del mondo cristiano che ha trovato in Agostino la sua più grande figura di
398
F. Schleiermacher, Glaubenslehre, tr. it. cit., pagg. 444-445. K. Jaspers, Agostino, tr. it. cit., pag. 437. 400 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 233. 401 K. Jaspers, Agostino, tr. it. cit., pag. 425. 399
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pensatore”.402 Se per la gnoseologia platonica le idee erano i modelli della conoscenza, accessibile al nous attraverso una rigorosa anamnesi metodica del logos, per Agostino la conoscenza che noi possiamo avere non è la stessa conoscenza divina. In noi infatti agisce la volontà, oltre che l‟intelletto, ed essa è indispensabile alla conoscenza. “La volontà di dimostrare Dio non si realizza con il mero intelletto [ma] la verità superiore si apre solo a chi entra con tutto il suo essere nella filosofia, non solo nella funzione isolata dell‟intelletto”.403 La verità, infatti, non è solo il frutto di un ragionamento ma è la partecipazione alla Rivelazione di Dio, custodita dalla Chiesa. La socializzazione della verità sposta il referente normativo dal piano teoretico, nel quale si era posta la filosofia che combatteva le opinioni comuni, al piano etico della predisposizione interiore ad accogliere le indicazioni ecclesiastiche. Agostino era convinto che le ragioni della fede erano impotenti ad affermarla senza la volontà di credere, che costituiva la precondizione di ogni ragionamento sulla fede. E stabilito l‟obiettivo contro cui lottare per affermare la fede, cioè la devozione verso i falsi idoli mondani, tutto ciò che allontana l‟animo dall‟idolatria diventa funzionale all‟affermazione della fede. “L‟intera opera di Agostino è piena di superstizioni che si dicono „devozioni popolari‟ ”, che egli accoglie per combattere la sua “grandiosa lotta contro superstizione”, intesa come la venerazione della creatura al posto del Creatore.404 La verità, pertanto, non è soltanto la ricerca individuale di Dio, cioè la fede interiore, ma è altresì manifestazione della grazia nell‟agire esteriore. Ed è questo aspetto di comunicazione e ricezione dello status di grazia a fare della Chiesa il luogo del riscontro interiore, così come Cristo è la manifestazione storica della realtà di Dio. La Chiesa come corpus mysticum è l‟esperienza collettiva, riconosciuta comune dai credenti, in cui si perpetua la presenza di Dio in Cristo, la Sua immagine fenomenica (Dòkema). La Chiesa è la Storia di tutte le singole storie della esperienza della fede, fatta anzitutto di “persecuzioni”, che Agostino ricorda nella Civitas Dei,405 le quali finiranno solo allorquando Gesù
402
K. Jaspers, Agostino, tr. it. cit., pag. 426. Ivi, pag. 427. 404 Ivi, pag. 431. 405 Agostino, CD, XVIII, 51-52. 403
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stesso sconfiggerà l‟Anticristo.406 Il pensiero di Agostino si costruisce dialetticamente come asserzione di verità che nega l‟errore, e si dirige verso due direzioni: l‟una conduce alla trascendenza di Dio, e all‟ineffabilità del Suo essere, e l‟altra all‟ immanenza divina nel Cristo, che nel suo aspetto corporeo assume la grazia rivelata di Dio garantendo all‟uomo la sua incoercibile dignità. 407 La dignità umana non è esibizione superba di forza o della stessa libertà, ma si manifesta nella possibilità del rapporto con Dio, col Tu infinito che stabilisce la realtà spirituale dell‟Io finito, che nella relazione divina partecipa della eternità, stabilendo così una distanza incommensurabile dal mondo. In questa scelta di essere con Dio anziché con sé stesso, l‟uomo trascende la propria finitezza naturale e consegue la vera libertà. Come l‟errore è occasione del bene, l‟amor mundi non è un male in sé, poiché noi siamo esseri del mondo, ma lo diventa quando non è finalizzato all‟amore di Dio, e diventa perciò fine a se stesso, idolatria. L‟ordine dell‟amore (ordo amoris) consiste nel distinguere ciò che va considerato strumentale per l‟ottenimento di altro, da ciò che è il fine. “Poiché solo Dio deve essere amato per se stesso, […] ogni amore per uomini e cose nel mondo è vero amore solo a codizione che essi siano amati non per se stessi ma per Dio, […] poiché il solo vero amore è l‟amore di Dio […]; quanto a tutte le altre cose del mondo, contentiamoci di usarle”.408 La perversione dell‟amore consiste nel sostituire alla caritas la cupiditas. Il pensiero di Agostino mira a far emergere la parte divina dell‟uomo, che i filosofi ritenevano fosse quella razionale, confondendo la strumentalità della ragione con l‟essenza spirituale, che è Dio. Da questa consapevolezza deriva che il sapere non è vero se appunto non è ispirato all‟amore di Dio. Alla luce di questa rivelazione agapica, Agostino legge l‟intera vicenda dell‟uomo nel mondo come processo verso la conquista della verità spirituale, che nella incarnazione di Cristo trova il suo punto di mediazione tra il passato ignaro e il futuro di salvezza. Tra i due estremi si pone l‟esistenza presente a se stessa dell‟uomo. La proiezione temporale dell‟ordine virtuoso dell‟amore si dispiega come una rappresentazione storica del percorso spirituale
406
Agostino, CD, XVIII, 53.1. K. Jaspers, Agostino, tr. it. cit., pag. 434. 408 K. Jaspers, Agostino, tr. it. cit., pag. 452. 407
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dell‟uomo universale, dell‟umanità. La visione eidetica del filosofo, ch cercava consenso nell‟interlocuzione con altri cercatri d‟assoluto, prende corpo nella realtà fenomenica, diventa realtà fisica di perfezione in Cristo, l‟ideale realizzato. E se un animo travagliato come quello di Agostino tra tante esitazioni e impacci, era riuscito a riconoscerlo; se prima di lui Paolo, altro grande convertito, per non parlare degli apostoli, che ne subirono il fascino carismatico dal vivo, perché non era possibile a chiunque, perché non a tutti gli uomini, creature anch‟esse di Dio? L‟idea universalistica prende forma storica, diventa processo fenomenologico nel tempo, sicché ogni differenza personale, sociale, intellettuale, morale scompare di fronte al processo onniavvolgente della storia universale. Prima di lui Origene e Eusebio, Tertuliano e Lattanzio avevano teorizzato l‟innesto del Logos greco nello Spirito cristiano, ma solo con Agostino il disegno soteriologico diventa processo storico universale. La civiltà antica sta decadendo ma lo spirito teoretico di essa viene raccolto dal Cristianesimo professantesi cattolico, che la rimodella facendola aderire a una nuova formula sincretistica, tanto antica quanto originale, che Agostino, “nella sua opera, mette a disposizione di un nuovo millennio che è stato da lui spiritualmente determinato in modo decisivo”. 409 Ma in cosa consiste tale originalità “esemplare per l‟Occidente”? Nel portare a compimento il “passaggio dalla filosofia che ha in sé la propria fonte alla filosofia cristiana. Le forme di pensiero degli antichi filosofi vengono assimilate da Agostino nel pensiero credente di fronte alla rivelazione”, creando “la filosofia cristiana nella sua forma latina insuperabile”.410 Proprio al pensiero latino più maturo, ossia di volta in volta a Cicerone, a Terenzio, a Svetonio, a Varrone, Agostino fa riferimento per dimostrare la vanità degli uomini che “si sono affacendati a costruire la felicità nell‟infelicità di questa vita” attraverso “vuoti ideali”, affaticandosi “alla ricerca della sapienza nella vuota realtà di questo mondo”.411 Essa, partendo dalla premessa che “l‟uomo non è soltanto anima o soltanto corpo, ma unitamente anima e corpo”, perviene alla conclusione che “il sommo bene dell‟uomo, con cui diviene felice, risulta dall‟una e
409
K. Jaspers, Agostino, tr. it. cit., pag. 477. Ivi, pag. 478. 411 Agostino, CD, XIX, 1.1. 410
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dall‟altra componente, dall‟anima cioè e dal corpo”, per cui “l‟alrte di vivere” consiste nell‟armonizzare gli impulsi naturali educandoli. E dunque “non è la medesima cosa la vita e la virtù, perché non qualsiasi vita ma la vita saggia è virtù, e tuttavia vi può esser qualsiasi vita senza la virtù, ma non vi può essere virtù senza la vita”. 412 Diversa è la prospettiva cristiana, per la quale “il sommo bene è la vita eterna, il sommo male la morte eterna”. 413 Ma queste non possono derivare dallo sforzo solamente umano, perché non sono opera dell‟uomo ma di Dio, sicché “l‟anima è tanto meno sottomessa a Dio quanto meno accoglie Dio nei suoi pensieri e tanto meno il corpo è sottomesso all‟anima quanto più accoglie desideri contro lo spirito”. 414 Lo spirito, per Agostino, è ciò che conduce a Dio, all‟eterno. E l‟eterno è i contrario delmortale. Se la vita è afflitta da mali per il cui rimedio si ambisce la morte, allora è segno che tale vita non è felice, inquanto misconosce la vera felicità, che consiste nella emancipazione dalla soggezione alla morte. Le vere virtù non sono che “in coloro in ci è un vero sentimento religioso”, che rende la vita umana “immune dalla morte” e “felice nella speranza dell‟aldilà”.415 Ora, esattamente sulla morte è incentrato per il Genesi il dramma dell‟esistenza umana, in quanto morte di innocenti. “Il fondatore della città terrena fu il primo fratricida”, 416 l‟ di ogni tensione politica e “principio costitutivo della civitas terrena, ove la dimensione teologica è soltanto quella idolatrica” 417 della sacralizzazione del collettivo politico. Lo spazio della fede, portando in interiore homine la verità, si costituisce come essenzialmente in-politico, portando a ciò che Voegelin indica come “la dedivinizzazione del potere temporale”. 418 Nondimeno, l‟assunzione del colletivo comunitario ecclesiastico come
412
Agostino, CD, XIX, 3.1. Agostino, CD, XIX, 4.1. 414 Agostino, CD, XIX, 4.4. 415 Agostino, CD, XIX, 4.5. 416 Agostino, CD, XV, 5. 417 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 232. 418 E. Voegelin, The New Science of Politics, cit. da R. Esposito, Categorie dell’impolitico, Bologna, 1999, pag. 93. Ved. M. Rizzi, “Nel frattempo…”: osservazioni diverse su genesi e vicenda del Monotheismus als politisches Problem di Erik Peterson, in Il dio mortale, cit., pagg. 415-418. 413
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speculum della civitas Dei, e quindi come area della rappresentazione storica del sacro, lo costituisce come unità anti-politica, e per ciò stesso come l‟Altro rispetto alla civitas terrena, il Caino biblico e il nemico della dicotomia schmittiana, la cui “tensione dialettica tiene in moto la storia del mondo”.419 Rispetto alla concezione storica greca, la retractatio agostiniana stabilisce una unità comprensiva degli opposti momenti dialettici delle due civitates, costituita dalla sovranità dell‟unico Dio socio-politico di cui parlava Schleiermacher, la cui potestas comune alle due parti riporta la loro lotta esclusiva all‟interno dello stesso disegno provvidenziale, trascendente le finalità di ognuna. La differenza tra le due posizioni, sacra e profana, sfuma nella prospettiva escatologica, rendendo relativo il piano di salvezza non solo personale ma di ogni gruppo umano organizzato, accomunato dalla paternità divina e quindi destinato, prima o poi, alla finale redenzione. Rispetto all‟universalità teoretica dell‟idealismo platonico, la cattolicità cristiana si estende al piano esistenziale, quello della concretezza singolare, che, in quanto luogo della verità trascendente, aveva costituito la frontiera morale del Potere mondano; e in questo coinvolgimento totale assegna alla dimensione del sacro il nuovo orizzonte inglobante della presenza redentiva di Dio rappresentato prima da Cristo e quindi dalla Chiesa. La Chiesa è lo spazio della redenzione (extra ecclesiam nulla salus), entro il quale si consuma la dialettica tra il bene e il male, dal momento che “neanche i santi e fedeli adoratori dell‟unico vero sommo Dio sono immuni dai loro inganni e dalla tentazione di varia specie”. 420 Ma, se la lotta perdura, cosa ha di diverso la Chiesa dall‟Impero? In essa diversa è la prospettiva valoriale. Nelsenso che, mentre all‟interno dell‟orizzonte di valori pagani prevaleva l‟amor sui, entro la Chiesa il paradgma etico è l‟amor Dei. Cambia il parametro, e dunque anche la natura delle infrazioni, che, per qunto mondane esse siano, acquisiscono una qualità morale. La “virtù usa bene anche i mali che l‟uomo sopporta. Ma allora è vera virtù quando volge tutti i beni, di cui usa bene,” al fine morale, che è quello della “città eletta”, che è la “maturazione nella santificazione” per
419
C. Schmitt, Ex Captivitate Salus (1950), tr. it., Milano, 1987, pag. 92; ved. G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 232. 420 Agostino, CD, XIX, 10.
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la “vita eterna”,421 e non la virtus finalizzata alla salus rei publicae. La felicità conseguibile in terra dagli “uomini posti nel divenire” è la resistenza al male garantita, non da un qualunque Potere, ma dalla pace giusta, cioè da uno stabile Governo morale, per quello che “si può avere in questa vita”.422 Tale Governo è il risvolto benigno, dettato dall‟amore, del Potere malvagio, retto dalla superbia. Non ogni pace è di per sé condizione di bene, anche se alla pace anelano i buoni e i malvagi. Infatti, l‟uomo, anche se malvagio, “è indotto dalle leggi della propria natura a stringere un vincolo e a raggiungere la pace con tutti gli uomini per quanto dipenda da lui”. Ma una pace garantita dal “timore” dei sottomessi al Potere è quella ispirata dalla superbia, la quale “imita Dio alla rovescia”, imponendo “un potere dispotico” anziché il Governo di Dio, e pertanto “odia la giusta pace di Dio e ama la propria ingiusta pace”. 423 Ora, la pace, perché sia giudicata ingiusta, dev‟essere commisurata a quella giusta, conforme all‟ordine universale, che è “l‟assetto di cose eguali e diseguali che assegna a ciascuno il proprio posto”. E così, “la pace dell‟uomo posto nel divenire e di Dio è l‟obbedienza ordinata nella fede in dipendenza alla legge eterna”, mentre la pace dello Stato consiste nella “ordinata concordia del comandare e obbedire dei cittadini”. 424 E dunque, la pace che non sia conforme all‟ordine universale non è “tranquilla”, ma precaria e soggetta a sommovimenti continui, perché non è sorretta dalla “concordia”, ossia dal reciproco riconoscimento dei ruoli stabiliti dall‟ “Ordinatore infinitamente giusto”, cioè da Dio. L‟ordine maligno è pertanto un “pervertimento” dell‟ordine divino, che è anche quello naturale, ecome tale non potrebbe scomparire dalla vita umana. Il male, ribadisce Agostino, è sottrazione del bene, e da questa menomazione deriva il dolore, che “è attestazione del bene sottratto e del bene lasciato”.425 La pace di Dio è la pace dei giusti, cioè dei redenti, i quali abbiano superato la condizione originaria di peccatori. L‟ordine politico nasce dalla condizione del peccato, ed è dunque essenzialmente ingiusto perché
421
Agostino, CD, XIX, 11.
422
Agostino, CD, XIX, 10. Agostino, CD, XIX, 12.2. 424 Agostino, CD, XIX, 13.1. 425 Agostino, CD, XIX, 13.2. 423
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tra uomini non redenti dal peccato. La redenzione non può avvenire attraverso la legge, cioè tramite il diritto, ma solo attraverso l‟interveto provvidenziale della grazia, che salva elettivamente i singoli fedeli, ossia tramite Cristo, la cui presenza salvifica stabilisce la ekklesia, la comunità spirituale fondata sulla charitas, radicalmente diversa da quella politica, fondata sull‟esclusione dell‟hostis, diverse come la salvezza lo è dal peccato. In tal senso, l‟ordine della vera pace non può essere ispirato a un ordinamento mondano, nel quae “l‟uso dei beni temporali è in relazione al godimento della pace terrena nella città terrena”, ma solo all‟ordine eterno che sta fuori del divenire, nella città celeste, dove si giudica in relazione alla pace eterna, sicché l‟uomo, “posto nel divenire”, se vuole pervenire a una condizione di vera giustizia, deve stabilire una relazione di pace “con Dio che è fuori del divenire, in modo che gli sia ordinata l‟obbedienza sotto la legge eterna”. 426 Ciò vuol dire che la fruizione dei beni terreni, dalla salute al Potere, dal diritto alla sapienza, deve essere indirizzata al fine supremo di servire ad maiorem Dei gloriam. Ed è in tale servizio che va inquadrata la figura dell‟imperatore cristiano, tratteggiata nel Libro V, il cui potere, piegandosi ad essere “strumento del potere di Dio, ne confessa la suprema potestas”, non già però “come fonte di ogni potere politico terreno”, 427 ma come destinazione finale. Le leggi terrere, naturali, non possono essere sovvertite, cioè negate, ma solo trascese, attraverso la loro funzinaità al disegno escatologico della salvezza. Altrimenti non potrebbero essere inclusi nella Storia della salvezza le fasi della vita umana, singolare e dei popoli, precedenti la Rivelazione. L‟Impero romano, con la cristianizzazione, non cessa dunque di essere un organismo politico, retto da leggi naturali, ma la sua potenza non è più esaltata in considerazione della capacità delle sue legioni di sottomettere il mondo, bensì nel servizio divino prestato dal Potere. Ed è questa la ragione in Agostino “di limitare l‟esaltazione dell‟imperatore cristiano all‟ambito personale e privato, rifiutando un‟esaltazione teologico-politica dell‟impero cristiano”. 428 Un ordinamento mondano può votarsi a Dio, cioè al sommo Bene, ma non costituire in sé un corpo mistico, caratterizzato dalla volontarietà
426
Agostino, CD, XIX, 14. G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 237. 428 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 237. 427
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dell‟adesione al Bene. L‟organismo politico non converte gli animi ma sottomette i corpi. In quanto realtà oggettiva, l‟Impero è struttura di Potere, e soltanto in quanto finalizzata al Bene essa può trovare una sua funzionaità soteriologica. Per la natura trascendente della salvezza, “il riconoscimento dell‟irriducibilità del sacro a qualsiasi struttura politicostatuale rimane nettissimo”. 429 Ma lo rimane in quanto l‟incontro con Dio non avviene sul piano politico ma della coscienza interiore, nel cui ambito è possibile emanciparsi dal dolore della finitezza umana, con gli strumenti della conoscenza, noetici e non pratici. “Affinché nell‟indagine sulla conoscenza, a motivo del poter ridotto dell‟uman pensiero, nn incorra nella falsità di qualche errore, ha bisogno del magistero divino al quale sottomettersi con certezza e dell‟aiuto al quale sottomettersi con libertà”.430 In altri termini, se lo Stato è un prodotto di natura, legato all‟errore umano, ovvero alla sua ignoranza del vero Dio, ed è pertanto un organismo retto da leggi naturali, conformemente all‟antropologia aristotelica, la Chiesa è una comunità spirituale di singoli fedeli illuminati dalla “visione” divina, ossia un prodotto di cultura. La legge della città terrena è quella politica del razionalismo esclusivistico, negatore dell‟alterità, laddove la legge della carità insegnata da Dio ha “due comandamenti principali, cioè l‟amore di Dio e l‟amore del prossimo”. 431 La legge dell‟amore è il contrario della legge politica, sicché una christiana respublica o è un ossimoro, se riferita all‟organismo politico, ovvero è una tautologia se riferita alla Chiesa. Infatti, l‟organismo politico presume l‟esistenza dell‟Altro per la definizione della propria posizione. L‟affermazione di Sé tende ad escludere l‟Altro ma vive nche della sua inimicizia, che rende provvisoria ogni situazione di pace. Questa condizione imperfetta e in divenire non sussiste nella pace spirituale, non perché il Bene abbia trionfato sul Male, aspetto anche empiricamente verificabile come irreale, ma in quanto il Bene conquistato dall‟uomo di fede è una acquisizione con Dio, e non contro l‟Altro. L‟alterità, nel rapporto agapico, non è polemica ma armonica, non tendente a eliminarla ma ad esaltarla. La volontaria sottomissione a Dio ( ) è il
429
Ibidem. Agostino, CD, XIX, 14. 431 Ibidem. 430
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della relazione morale, così come la sotttomissione forzosa al Potere lo è della relazione politica. La differenza essenziale tra le due relazioni consiste nella circostanza che quella agapica è inter-personale, fondata cioè su rapporti concretamente esistenziali, che riguardano l‟intera persona e non alcuni suoi aspetti. Questa intierezza è il modo propri della conoscenza d‟amore. Mentre, la relazione politica è astratta e impersonale, fondata sul solo aspetto riguardante la forza, per mezzo della quale piegare la volontà dei sottoposti. Se pertanto lo scopo del Potere è di asservire la volontà dell‟Altro alla propria, negando questa per affermare quella, il fine del rapporto agapico è di congiunger la volontà dell‟Altro alla propria per un reciproco riconoscimento della volontà di Dio. L‟ordine politico è distruttivo, anche quando desideroso della pace, laddove l‟ordine agapico è armonico e dunque costruttivo di pace. La pace dei malvagi è “quella che essi vogliono”, 432 non la giusta coesistenza, paritetica nei confronti della volontà del Dio comune. 433 In tal senso pare del tutto improprio designare quella divina come potestas assimilabile a quella imperiale. Infatti, l‟ordine garantito dal Potere imperiale è la pace del più forte, ma non del giusto; dello e non del santo. La pace giusta è quella che rinfodera la spada rinunciando alla lotta, come Gesù intima a Pietro di fare di fronte ai soldati romani che lo prelevano al Getsemani. La spada del Potere che s‟impone sul vinto può essere lecita nel senso del diritto ma non può dirsi veramente giusta fin quando è sguainata. “Infatti, anche quando si conduce una guerra giusta, dalla parte avversa si combatte per il peccato ed ogni vittoria, anche se favorisce i malvagi, umilia i vinti per giudizio divino tanto se corregge le colpe, come se le punisce”. 434 E‟ appena il caso di aggiungere che l‟Impero universale (come quello ricercato da Dante) poteva conseguire un ordine cristiano solo allorquando avesse eliminato l‟esistenza del nemico, ossia con la pace universale anche la propria ragione di esistenza politica, ma fino a quando avesse conservato la posizione di lotta contro l‟Altro, non sarebbe stato cristiano. Dio infatti “volle che l‟essere ragionevole, creato a sua immagine, fosse il padrone
432
Agostino, CD, XIX, 12.1. Agostino, CD, XIX, 17. 434 Agostino, CD, XIX, 15. 433
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soltanto degli esseri irragionevoli, non l‟uomo dell‟uomo”, 435 come avviene nella città terrena, la cui pace politica è quella “attraverso la quale i mortali passano col nascere e il morire”. Solo nella città di Dio si può conseguire “la pace eterna definitiva, […] quella in cui gli immortali rimangono senza alcuna soggezione ai contrari”, 436 perché si è superata la lotta per la sopraffazione. Ed è questa esigenza di costruire la città di Dio in terra a trasformare l‟esigenza della conversione individuale e spontanea in una petizione di universalità geometrica, che rende il progetto ecclesiale una utopia ideologica di carattere razionalistico, e la sua versione ecclesiastica, la Chiesa storica, un sine nomine monstrum che contraddice il modello originale di comunità verbale, stabilita sul dialogo della fede escatologica nella grazia, trasformandolo in modulo retorico di potenza normativa dell‟istituzione. Ma per quanto si congetturi sull‟ignoranza di Platone da parte di Agostino, non può sfuggire l‟analogia a contrario della rappresentazione agostiniana della città celeste con quella del Teeteto, in cui Teodoro discute con Socrate sull‟ideale filosofico dell‟assimilazione a Dio. Teodoro attribuisce alla persuasione la soluzione della pace tra gli uomini e della diminuzione dei mali nel mondo. Al che Socrate ribatte che la persuasione non può scongiggere del tutto i mali “perché è una necessità che ci sia sempre qualcosa di contrapposto al bene” ( ), almeno tra gli uomini, dal momento che i mali sono assenti presso gli dèi e “si aggirano nella natura mortale e in questo nostro mondo qui”. Da qui la necessità per Socrate di “sforzarci di fuggire” questo mondo e “rendersi simile a Dio”, ossia “diventare giusti e santi, e insieme sapienti”. Il difficile, aggiunge Socrate, è di persuadere chi ritiene stoltamente le ragioni per cui occorra essere virtuosi e buoni, che non sono quelle credute dalla gente comune. Quelle cioè relative alla vita sociale secondo i costumi del popolo. Per comprendere le ragioni vere, il filosofo parte dalla considerazione di Dio come essere “supremamente giusto”, a cui si può eguagliare l‟uomo “diventato il più giusto possibile”. Questa consapevolezza fa, per Socrate, l‟uomo veramente sapiente, mentre la sua ignoranza lo rende stolto e malvagio. “Le altre, abilità e sapienze apparenti, nel potere politico finiscono con l‟essere grossolane e
435 436
Agostino, CD, XIX, 15. Agostino, CD, XIX, 20.
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volgari”. Infatti, queste meschine abilità politiche dell‟uomo “furbo” che crede con esse di garantirsi la sicurezza della vita, possono scansare “percosse e condanne a morte […] pur avendo commesso ingiustizia”, ma non possono scansare una “punizione” che è impossibile evitare. Per spiegare quale sia questa punizione inevitabile, Socrate afferma che esistono “due modelli di vita fissi nell‟ambito dell‟essere: uno divino, felicissimo, e uno senza Dio, infelicissimo”. Orbene, gli uomini, “per stupidità e per estrema demenza”, non si rendono conto che il loro agire ingiusto li avvicina dall‟uno e li alontana dall‟altro modello, “di questo appunto pagano la pena vivendo la vita che è immagine del modello a cui si rendono simili”, ossia “vivranno una vita simile a loro stessi, cattivi in compagnia di cattivi”. Questi uomini stolti, in quanto inconsapevoli di ciò che è il bene e di ciò che è il male che pure perpetrano, prenderanno le parole del discorso savio “come uomini abili e furbi ascoltano quelle dei dementi”.437 Ciò che dice Socrate sembra anticipare le tesi di Agostino, se non per un dettaglio essenziale, colto dall‟acume di S. Weil, la quale traduce del testo nella versione “con l‟ausilio della ragione”. 438 Infatti, la ragione era il mezzo per penetrare nella mente degli dèi, e dunque lo strumento mediatore per la loro assimilazione ( ). Ora, per il cristiano Agostino, non era possibile assimilarsi a Dio, in quanto Egli non è il Logos greco, né tampoco lo strumento della ragione (intellectus), che in Agostino è considerato prodotto meramente umano e non il linguaggio degli dèi, può conseguire di diventare come un dio. La sapienza greca del “più giusto possibile” vive all‟interno della (falsa) credenza che la conoscenza di Dio equivalga a essere come Dio. L‟alterità cristiana di Dio professata da Agostino non è, diversamente da quella ideale platonica, una alterità assoluta, e non solo in quanto la presenza divina nella realtà del mondo è nel factum dell‟Incarnazione e confermata dalla fede nel Cristo, che manifesta la Sua possibilità di divenire essere finito cambiando condizione ontologica, e dunque la Sua potenza; non lo è soprattutto in quanto la Sua unitaria compiutezza non è quel “bene
437
Platone, Teeteto, 176 a-177 b , tr. it. di C. Mazarelli, in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Milano, 2014, pagg. 224-225. 438 “Avec l‟aide de la raison”: S. Weil, Dieu dans Platon, in Oeuvres Complètes (19411942), vol. IV-2, Paris, 2009, pag. 78.
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sufficiente in sé” di cui parla il Filebo;439 non è cioè “l‟unità di natura” () di cui al Filebo, che “accogliendo l‟uguale fa cessare i rapporti di opposizione […] producendo la misura e la proporzione”. 440 Questa può essere l‟unità dello Stato ideale, che mette ordine alla regio dissimilitudinis 441 temporale procedendo per esclusione dell‟opposto, non già l‟unità inclusiva della Chiesa agostiniana, che accoglie singolari molteplicità in dialogo con Dio, e perciò dipendenti da Dio. L‟alterità ideale, invece, proprio perché assoluta monade, chiusa in sé e distante da ogni divenire, può essere solo imitata per copia a opera dell‟uomo, che la ri-produce a dimensione umana per mezzo della ragione, che è il “ponte” lanciato dai Greci “tra la miseria umana e la perfezione divina”. 442 Il Mediatore cristiano è Cristo, interpretato come Logos dalla teologia alessandrina, ma per cattiva assimilazione alla mediazione razionalistica greca. Infatti, la mediazione cristica non è strumentale e quindi di genere neutro rispetto all‟unità ideale e alla molteplicità degli enti fenomenici, ma è essa stessa compiutezza divina in quanto umana, e umana in quanto divina. Ma questa, come aveva ammonito Gregorio, non è una “mescolanza” () di generi, che conduce a una unità ( ) di genere mediano (il platonico), dal cui ideale regolativo deriva l‟ottimale regime costituzionale “misto”, bensì una con-presenza totale che è Una e insieme Trina,443 la quale non può essere ri-prodotta umanamente perché trascendente e vivibile come interna fides. Ciò vuol dire che quello che “fa cessare i rapporti di opposizione” è per Platone la
439
Platone, Filebo, 20 d. Platone, Filebo, 25 d 11. 441 Agostino, Confessiones, 7, 10, 16. 442 “Tout la civilisation grecque est une recherche de ponts à lancer entre la misère humaine et la perfection divine”: S. Weil, Dieu dans Platon, in Loc. cit., pag. 76. 443 “Quando parlo di Dio, dovete essere abbagliati da una luce e da tre luci: tre in rapporto alle peculiarità, o ipostasi che dir si voglia [o] Persone; una invece, in rapportoall‟essenza della sostanza o della natura divina. Essa, infatti, viene divisa indivisibilmente, per così dire, e si congiunge in modo distinto. Questo, perché la natura divina è una in tre Esseri, e i Tre sono un unico Essere: questi sono gli Esseri in cui si trova la natura divina, o, per esprimermi con più precisione, quelli che la costtuiscono. Lasciamo stare, invece, gli aumenti e le diminuzioni [è chiara l’allusione al Teeteto platonico.]; non facciamo, dell‟unità, una mescolanza, né, delle distinzioni, una diversità”: Gregorio di Nazianzo, Orazione 39, tr. it. in Tutte le orazioni. A cura di C. Moreschini, Milano, 2012, pag. 909. 440
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forza del Logos che elimina le contraddizioni affermando l‟unità di ciò che è logicamente simile, mentre per Agostino è la potenza della caritas, che è comunione di fede in Cristo. Dall‟unità logica deriva il Potere politico (potestas) di distinguere il simile (= amicus) dal dissimile (= hostis), dalla comunione di fede promana l‟autorità carismatica del Governo etico ispirato dalla grazia. La potenza del Logos filosofico consiste nella sua universalità, ossia nella riduzione all‟unità del molteplice. Ma tale reductio avviene attraverso l‟astrazione di ogni elemento del molteplice dalla sua datità ontica, e l‟assimilazione della sua essenza all‟essenza dell‟essere universale, anch‟esso astratto in quanto ideale. Ma questa dynamis assimilatoria non conosce la realtà degli enti molteplici, ma solo la loro datità logica, ossia quanto di essi è compatibile con la loro idealizzazione. Nel caso dell‟uomo, la realtà del singolo non è meramente ontica ma esistenziale, poiché l‟uomo è una storia spirituale, irriducibile alla oggettività del dato di ragione, per cui quanto di lui veniva escluso dalla sussunzione razionale operata dall‟universalismo idealistico era propriamente la sua realtà spirituale, ciò per cui, secondo il cristianesimo, l‟uomo è uomo e non un mero essere naturale. Per tale ragione, l‟aspirazione del filosofo platonico di cui al Teeteto non può essere la stessa del saggio cristiano, il quale deve assimilarsi a Dio non già per il versante del Logos ma per quello della caritas, la quale non esclude l‟Altro ma l‟accoglie come altro-sé. A questo punto è chiaro che il monoteismo in senso razionalistico greco, platonico, stoico e cristiano-ellenistico, non è il monoteismo della fede cristiana testimoniata da Agostino. Erik Peterson, ricordando nella sua polemica con Schmitt il terzo Discorso teologico di Gregorio di Nazianzo sui “tre concetti di Dio”, afferma che “i cristiani si riconoscono nella monarchia di Dio [ma] non certamente nella monarchia di un‟unica persona nella divinità, perché questa porta in sé il germe del conflitto, ma in una monarchia del Dio trino [il cui] concetto di unità non ha alcun riscontro nella creatura umana. Con queste delucidazione – egli conchiude - il monoteismo come problema politico è teologicamente finito [essendo] stato teologicamente spezzato il legame fra annuncio cristiano e impero romano”. E aggiunge significativamente che “ciò che hanno compiuto i padri greci in ordine al concetto di Dio, lo ha fatto Agostino in Occidente in ordine al concetto di
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pace”,444 ricordando il passo della Civitas Dei in cui si tratta della pax augusta. 445 Ma ciò che è più interessante per noi è la chiara consapevolezza della assimilazione del monoteismo teologico-politico col “principio monarchico della filosofia greca […] adottato dalla Chiesa durante la sua espansione nell‟Impero romano”, 446 per cui la posizione di Agostino sarebbe nella continuità con la teologia trinitaria dei padri greci, e nella rottura con la teologia politica ellenistico-giudaica, il cui “concetto propagandistico” fu secondo Peterson “adottato dalla Chiesa”, pur essendo sostanzialmente un corpo estraneo, giudeo e pagano. L‟ammissione non è da poco, anche se come suggerita dalla dialettica del discorso ed estorta come una confessione grave ma esimente da altre più gravi e incombenti sciagure come il neo-cesarismo hitleriano di quegi anni. Da essa, però, divrebbero discendere alcune conseguenti considerazioni di ordine teoretico e morale, relative all‟impianto ideologico che fa da sfondo non soltanto all‟idea di Chiesa nel mondo, ma a quella di Stato del mondo. Se, infatti, il connubio ibrido tra universalismo statalistico pagano e cattolicesimo cristiano avvenne in nome della pace, ossia dell‟ordine mondano “possibile ai mortali”, tale finalismo irenico non potrebbe giustificarsi, non sulla base di una empirica verifica di inefficacia del pactum scieleris tra Chiesa e Stato, come si evidenzia nel riferimento agostiniano all‟età di Augusto evocato dal Peterson, ma sulla indicazione molto più significativamente pregnante di CD XIX, 17 in cui si distingue nettamente tra la “pace terrena”, intesa come “l‟accordo degli umani interessi nel settore dei beni spettanti alla natura degli uomini soggetta al divenire”, e la “vera e unica pace della creatura ragionevole”, indicata nella “unione sommamente ordinata e concorde di avere Dio come fine e l‟un l‟altro in lui”, già in questa terra. A quale pace, dunque, si riferiva la Chiesa romana alleandosi all‟Impero? Solamente la prima prospettiva poteva ingenerare l‟errore di considerare storicamente possibile il connubio teologico-politico, ma se questa fu la prospettiva di Eusebio, non è la prospettiva escatologica di Agostino. Essa, nondimeno, non costituì la frattura decisiva all‟interno dell‟ecumene ecclesiale cristiano, dal momento che la Chiesa,
444
E. Peterson, Der Monotheismus, tr. it. cit., pag. 70. Agostino, CD, III, 30. 446 E. Peterson, Loc. cit., pag. 71. 445
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perseguendo una sua strategia di confronto con le potenze mondane di carattere politico-religiosa, la rese inattuale, neutralizzandone la enorme carica teologico-messianica. Non soltanto in riferimento ai modelli strutturali la Chiesa offrì allo Stato secolare l‟emulazione della sua forma istituzionale, ma anche in riferimento ai processi di neutralizzazione delle intestine aspirazioni escatologiche, le quali, nella prospettiva della pace politica assumevano le sfumature di istanze rivoluzionarie, che come tali andavano osteggiate. L‟intero processo di secolarizzazione avviato nel moderno, alla luce della prospettiva escatologica, si manifesta come un suo progressivo ripiegamento a favore della logica della finitezza del razionalismo filosofico, che, liberatosi in virtù del suo essenzialismo universale di ogni mediazione metafisico-religiosa tra ideale ed effettuale, si dispiega teoreticamente come scientismo tecno-logico e politicamente come universalismo della sovranità, ovvero come democrazia. In questo processo storico, soprattutto a seguito della strategia mimetica adottata dalla Chiesa per resistere agli urti del mondo profano adottando di volta in volta l‟ascesi come compensazione escatologica all‟avvento mancato e la doppia morale per giustificare l‟assolutezza e irreformabilità del mondo,447 l‟elemento negativo della critica agostiniana alla città terrena ha prevalso nettamente sull‟elemento positivo del messaggio escatologico del teologo afro-latino, nei termini di un confronto tra un modello etico-politico che aveva esaurito la sua spinta vitale, quello romano, e un modello condendo cristiano che avrebbe dovuto garantire quella solidità eterna che invano perseguì l‟Impero di Roma. Rispetto all‟offerta cristiana di rifondare l‟Impero su basi universali nuove e divinamente garantite, la prospettiva escatologica assunse il valore di una ideologia politica di legittimazione del Potere mondano. Così come la scissione dei sue due elementi costitutivi – la fides cristiana e la ratio politica – nella rappresentazione plastica del conflitto tra Chiesa e Stato fu la controprova del loro instabile patto per la pace. Per la Chiesa antica, il mondo non era un concetto cosmologico, un còsmos, ma veniva equiparato allo Stato e ai suoi ordinamenti, sicché era essenzialmente “un concetto politico, sociale, storico” 448 unitario e
447
E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, tr. it. vol. I cit., pagg. 143-145. 448 E. Troeltsch, Loc. cit., pag. 199.
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invariabile, abitato dalle stesse persone che sono “pellegrine” e straniere alle sue regole. Da qui l‟alterno atteggiamento verso di esso, quietistico e ascetico, di condanna e di compromesso. Agostino contesta la stessa realtà dello Stato definito dalo Scipione di Cicerone come res publica, “perché mai fu cosa del popolo”, intendendo questo (nel De Republica 1, 25, 39) come “l‟unione di un certo numero d‟individui messa in atto dalla conformità del diritto e dalla partecipazione degli interessi”. Ma, si chiede il teologo, come può sussistere uno Stato di diritto senza la giustizia? Questa “infatti è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo”, e dunque non può essere giustizia quella che “sottrae l‟uomo al Dio vero e lo rende sottomesso ai demoni infedeli”, ossia quella affermata dal diritto dello Stato pagano. La “vera giustizia”, per Agostino, non è quella affermata dal diritto quale normativa conforme agli interessi di convivenza, ma quella del diritto conforme a giustizia, “pertanto nello Stato, in cui non si ha la vera giustizia, non vi può essere l‟unione d‟individui messa in atto dall‟uniformità del diritto e quindi neanche il popolo secondo la definizione di Scipione e di Cicerone”. 449 Non è l‟unione giuridica che crea l‟unità del popolo, ma la giustizia, ossia il principio morale, che è quello divino, e il sacrilego tributo agli idoli praticato dai Romani.450 E dunque le stesse decantate virtù con le quali si “può esercitare il dominio sul corpo […] sono piuttosto impulsi che virtù”, poiché anche quelle considerate comunemente come virtù morali, se provengono dall‟uomo, sono nient‟altro che “impulsi” della carne. Solo “il principio” che la carne fa vivere e che “non deriva dall‟uomo, ma è superiore all‟uomo” può essere considerata vera virtù. 451 E se lo scopo dell‟unione tra gli uomini è la pace, la “pace propriamente nostra si ha con Dio anche nel tempo mediante la fede” operante nell‟amore. Solo questa infatti, con l‟ausilio della grazia, può dominare gli impulsi naturali dell‟uomo, e non la ragione, anche se “sottomessa a Dio”, esposta com‟è alle lusinghe della vita. La giustizia è pertanto è quella che tende alla “pace finale”, in cui “la nostra natura, liberata per mezzo della non soggezione alla morte e al divenire, non avrà più impulsi”, e dunque la stessa ragione non sarà più necessaria, in quanto sarà Dio a domnare
449
Agostino, CD, XIX, 21.1. Agostino, CD, XIX, 21.2. 451 Agostino, CD, XIX, 25. 450
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sull‟uomo e l‟anima spirituale su corpo, in una generale letizia di vivere nella pace del sommo bene. 452 Ogni diversa vita sarà contraria contraria alla pace e dunque di guerra, “come l‟infelicità è contraria alla felicità e la morte alla vita”. Ma cos‟è tale guerra, qual è la radice del dolore di vivere nella condizione politica? La guerra più grande, e dunque paradigmatica, afferma Agostino, è “quella in cui la volontà è contraria all‟inclinazione e l‟inclinazione alla volontà, in modo che simili contrasti non cessano con la vittoria dell‟una sull‟altra”, 453 in quanto entrambe sono soggette al dolore che le avvince. La guerra, dunque, è la disarmonia tra la natura benigna, creata da Dio, e l‟inclinazione malvagia dell‟uomo che deflette dalla luce della verità divina. Il che significa che la condizione di vita armonica può conseguirsi solo attraverso l‟appello all‟aiuto di Dio, cioè con “la preghiera” finalizzata alla redenzione. I due ambiti considerati da Agostino possono anche insistere su una stessa unità sociologica, quale fu l‟Impero cristiano, in quanto la relazione tra le due civitates è inerente a due distinti livelli di coscienza, uno istituzionale e razionale, l‟altro trascendente e spirituale. Ciò che vulnera la prospettiva agostiniana neutralizzandone lo sirito escatologico è la riduzione della dialettica tra potestas politica e auctoritas morale, per riprendere la dicotomia schmittiana, 454 a quella delle diverse funzioni interne all‟orizzonte politico della rappresentanza e del contemperamento degli interessi sociali intesi come “pace”. Infatti, una tale dialettica presuppone ciò che la natura trascendente del referente divino non può ammettere, ossia l‟uguaglianza ontologica dei due elementi conflittuali, tale da garantirne la composizione sintetica. Di contro, la concezione agostiniana della Giustizia non figura come parte in conflitto ma come limite al conflitto in virtù della sua insuperabile alterità trascendente, l‟amor Dei; e trascendente appunto ogni parziale amor sui. In Agostino, in cui è chiara la consapevolezza che “chi è qualche cosa è custode dei comandamenti di Dio, e chi non lo è, è un nulla”, 455 “la chiesa quale istituzione diviene il segno visibile della verità che custodisce e da
452
Agostino, CD, XIX, 27. Agostino, CD, XIX, 28. 454 C. Schmitt, Teologia politica II, tr. it. cit., pag. 48. Ved. il perspicuo commento di G. Lettieri, Riflessioni cit., pagg. 249 sgg. 455 Agostino, CD, XX, 3. 453
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cui, nello stesso tempo, è trascesa”.456 Tale visione dualistica di Agostino, in cui “l‟elemento teologico si pone anche politicamente e storicamente sul piano della rappresentazione secolare, pur non risolvendosi affatto in esso”, consente che la “liquidazione del politico avvenga anche politicamente” attraverso il trasferimento visibile e universale del sacro “dallo stato alla chiesa”, la quale così, nello stesso momento in cui diventa “una nuova potenza politica mondiale, simul è confessata come realtà assolutamente escatologica”, assegnandole Agostino un carattere “teologico-metapolitico” per cui “la chiesa espugna il mondo ma lo abbandona, trascendendolo” in nome della “sua irriducibilità al politico” e operando un “movimento dialettico di vera e propria Aufhebung o retractatio del politico nell‟ecclesiastico [che] libera politicamnte – cioè sul piano storico della rappresentazione – lo spazio del teologico come altro, assolutamente trascendente”, in senso ontologico e spirituale, e in tal senso la sua teologia della storia va a delineare una “via intermedia tra il teologicamente puro rimproverato a Peterson e il teologicamente immanente di Schmitt”.457 Il tema che poneva Schmitt in Teologia politica II a proposito del rapporto tra teologia e politica sul piano politico, nel quale a suo dire era impossibile “liquidare teologicamente una grandezza politica o una pretesa politica”, implicava una “identità strutturale dei concetti teologici e delle argomentazioni e cognizioni giuridiche” 458 che era essa stessa un portato teologico, prima che di tipo giuridico dal quale si stabiliva Schmitt. Infatti, inerisce all‟essenza del cristianesimo come fenomeno storico-culturale, ovvero come fenomeno scatologico. Nel primo caso, la si risolve in una sociologica, all‟insegna della virtus () religiosa, nell‟altro caso in un escatologico che ha per esito la laetitia () dell‟armonia spirituale. Le due condizioni non si escludono sul piano dell‟esistenza ma su quello del diverso livello di coscienza. Il livello storico risolve l‟esistenza umana nella fatticità della presente condizione temporale, in cui l‟Essere è ciò che logicamente è e non-è ciò che logicamente non-è. In questo ambito fenomenologico è
456
M. Rizzo, CeD, pag. 105. G. Lettieri, Riflessioni cit., pagg. 252-253. 458 C. Schmitt, Politische Theologie II (1970), tr. it. di A.Caracciolo, Milano, 1992, pag. 17. 457
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possibile la “identità strutturale” del teologico col politico, di cui trattava Schmitt. Nel livello escatologico, invece, il presente è vissuto come “l‟annuncio” () liberatorio dal mondo “che Dio è la luce e presso di Lui non vi è alcuna tenebra” ( ) (1 Io. 1,5), cioè è un presente temporaneo. Infatti, come ha chiarito Bultmann, in questa situazione spirituale la “gioia escatologica è certamente già presente [ma] con altrettanta certezza essa è al presente ancora temporanea, ancora in attesa del compimento”.459 Se sul piano politico “l‟Altro si rivela fratello mio e il fratello mio nemico”,460 sul piano escatologico l‟opposizione tra “la luce” () della Rivelazione e “le tenebre” ( ) della condizione in divenire, non indica soltanto la dialettica tra la parte divina in lotta contro la parte profana, “ma anche l‟opposizione delle età che proprio mediante l‟evento escatologico della Rivelazione si sono profilate con chiarezza”,461 per cui chi si ponga in rapporto polemico col fratello ristagna in una condizione tenebrosa, che è appunto quella propriamente politica. L‟eone della Luce, in senso escatologico, indica il superamento del conflitto fratricida, in quanto il livello in cui si pone la coscienza illuminata dalla fede cristiana è quello contrassegnato dalla e non dal . E‟ chiaro che la posizione teologico-politica nella quale si posiziona Schmitt nella polemica con Peterson, “rivendicando il carattere eminentemente e insuperabilmente storico, secolare della rivelazione cristiana”,462 appartiene al livello di coscienza storicoculturale, e non già a quello escatologico, del cristianesimo, in cui prevale la “visibilità e pubblicità”463 della Chiesa istituzionale, anziché l‟attesa messianica dell‟evento soteriologico, che fa della ecclesiale una socialità in- e non anti-politica. Nella prospettiva escatologica, non è in discussione la storicità del , cioè l‟elemento naturale dell‟evento cristico, che si compendia nella storia della passione di Gesù, ma la risoluzione in esso della Rivelazione, che non considera l‟elemento in-visibile della resurrezione
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R. Bultmann, Die drei Johannesbriefe (1967), tr. it., Brescia, 1977, pag. 35. C. Schmitt, Ex Captivitate Salus, tr. it. cit., pag. 92. 461 R. Bultmann, Loc. cit., pag. 55. 462 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 250. 463 C. Schmitt, Politische Theologie II, tr. it. cit., pag. 40. 460
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dalla tenebra della condizione mortale, e quindi del confitto proprio della socialità politica, testimoniata dalla fede escatologica. Senza l‟elemento escatologico, testimoniato dalla fede nella resurrezione, lo stesso fenomeno sociologico del Cristianesimo storico, diviso tra ascetismo e teocrazia, appare solo nella prospettiva polemica con la empirica realtà statuale.464 La prospettiva storicistica non coglie l‟essenziale “inversione” (umkehrung) della tensione escatologica operata da Agostino dall‟universale all‟individuale, in cui “l‟attenzione è rivolta al destino dell‟anima, e il tempo della fine viene sostituito dall‟ultimo giorno della vita umana”.465 Nella prospettiva terrena non è possibile costruire alcun futuro, poiché l‟attesa del futuro sarebbe comunque interna all‟eone del divenire. L‟unico futuro è quello dell‟eskaton, sicché ogni tempo interno alla vigilia è un presente dilatato, un tempo dell‟assenza della Luce e dunque indistintamente pre-eterno, entro il quale la durata della città terrena, qualunque sia la sua conformazione socio-politica, è transeunte, perché comunque introduttiva all‟avvento della città divina. In tal senso, l‟Impero romano rappresenta simbolicamente la città terrena, e nello stesso senso esso non può avere una durata diversa da quella segnata dall‟eone della città terrena, la cui fine coincide con l‟avvento di Cristo nella parousia. Non avrebbe senso accelerare il processo escatologico, legato alla imperscrutabile volontà di Dio, ma l‟uomo di fede può, in questo intermezzo temporale, solo adattarsi al mondo cercando di portarlo sulla vita della Luce che vedrà compiutamente solo alla fine dei tempi storici. In questa più o meno lunga epifania, il compito della fede è restare in ascolto, in attesa del segno della grazia divina, durante la quale “il tempo storico acquista nuova dignità”, legata alla “promessa dell‟Eterno” e alla “indeducibile novità del compimento” che nell‟incarnazione di Cristo trova il suo momento rivelativo, tale che “la rigenerazione del tempo non avviene a prezzo del suo svuotamento, ma grazie all‟irruzione del nuovo di Dio accolto dall‟uomo nella sua libertà”, che qualifica il tempo, “reso nuovo dalla decisione di fede di fronte alla parola dell‟annuncio e all‟offerta della grazia. La buona novella, caratteristica del cristianesimo, è la salvezza della storia, non la salvezza dalla storia”, che non vuol dire una semplice “salvezza nella storia , per
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E. Troeltsch, Loc. cit., pagg. 218-226. J. Taubes, Abendlaendische Eschatologie (1947), tr. it., Milano, 1997, pag. 111.
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la quale cioè il tempo resti soltanto lo „scenario‟, il „theatrum gloriae Dei‟[ma] di una redenzione del tempo storico operata dalla grazia del Dio vivente entrato in esso e dalla libera accoglienza dell‟uomo, vero soggetto e protagonista della storia”.466 La storia dell‟uomo, di ogni singolo uomo, nella prospettiva cristiana, non è più una mera realtà empirica, le cui gesta sono manifestazioni di una astratta norma universale, ma l‟immagine finita e dolente dell‟ “universale concretum et personale” del Cristo.467 L‟evento cristico apre l‟esperienza dell‟uomo alla decisione di aderire alla Rivelazione, e dunque di convertirsi alla speranza della fede redentiva, ovvero di attardarsi nel tempo dell‟ignoranza di Cristo, precedente la grazia dell‟Incarnazione. Una decisione che qualifica di eternità il tempo dell‟uomo, “facendone una creatura di frontiera, soccorsa certo dalla Grazia, ma responsabilizzata nel modo più alto di fronte alla serietà e al peso delle proprie scelte concrete, inesorabilmente cariche di futuro”. 468 Lo spazio della scelta soteriologica, fondata sulla fede nella libertà dell‟auto-affermazione divina nel mondo, è l‟altro aspetto dell‟orizzonte esistenziale in cui è compreso lo spazio politico, regolato dal principio economico di necessità. Lo spazio trascendente della fede all‟insegna dell‟eterno, co-esiste ma non coincide con lo spazio della dimensione naturalistica dell‟esistenza, dominata dal tempo della finitezza, in cui lo scopo è di pervenire al compimento della sua necessità, e non certo di liberarsi da essa. La liberazione dalla necessità consiste nella refutazione del piano astrattamente universale nel quale si pone ogni principio di realtà razionale che voglia affermarsi come valido, a favore del piano della concretezza singolare in cui si pone la fede escatologica cristiana, in cui ogni esperienza esisteziale viene accolta come una “imitatio Christi” avente il significato e il valore di una “comunione con Lui nella storia della salvezza del mondo, per la forza dell‟amore che vince il dolore e la morte”.469 Il remedium non è l‟universalità della norma, giustificativa della necessità del caso particolare, ma la rappresentatività simbolica dell‟evento singolare portatore di storia in
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B. Forte, Teologia della storia, Cinisello Balsamo, 1991, pagg. 15-17. Ivi, pag. 18. 468 Ivi, pag. 20. Si ricorda che l‟eternità è spirituale, mentre temporale è la durata. 469 B. Forte, Op. cit., pag. 17. 467
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quanto fautore di storia. La Storia di Cristo, come eventum singularis, è l‟exemplum di ogni possibile storia singolare, nella cui vicenda esemplare “è come narrata la storia della storia […] l‟eternità nel tempo, la verità nella singolarità della Sua persona”470 che diviene modello etico di condtta nel mondo. La politica cristiana è l‟ubbidienza alla propria natura spirituale entro la condizione temporale della finitezza, non soltanto della civitas terrena ma dell‟uomo stesso come essere naturale. scegliere pertanto in senso spirituale non equivale a rinnegare la finitezza umana, ovvero il mundus humanum della città politica, ma anteporre a ogni suo scopo economico-politico il fine trascendente della salvezza escatologica. Ed è tale trascendimento del fine a desacralizzare la città politica inserendola nell‟economia della salvezza spirituale. Il punto di sutura del teologico col politico è costituito dall‟identificazione della salvezza spirituale di ogni uomo di fede con la salvezza della Chiesa quale corpus mysticum Christi, facendo della Chiesa il luogo della Storia. E‟ questa identità di Storia e Chiesa a rappresentare “il rischio presente nella teologia agostiniana della storia”, e non già la centralità di Cristo come “norma universale e centro escatologico del tempo, nella sua singolarità attualizzata dallo Spirito Santo”, in quanto la “negatività e peccato” di stare “al di fuori di Cristo”,471 è la condizione pagana di chi permane nell‟orizzonte temporale dell‟eterno presente dell‟esistenza naturalistica, dove “tutto ricomincia dal suo inizio in ogni istante”, 472 e dove appunto non vi è storia spirituale ma soltanto successione di eventi più o meno memorabili. E‟ l‟amor Dei a consentire la lettura storica della vicenda umana, altrimenti consegnata all‟eterno ritorno dei divenir naturale. Ed è questa lettura dalla prospettiva dell‟Eterno a emancipare l‟esistenza umana dalla necessità dell‟ universalismo razionalistico della concezione pagana, rispetto alla quale la svolta cristiana non consiste nella sostituzione dell‟Impero, quale polis universale, con la Chiesa, quale ecclesia catholica, ma nella sostituzione del Logos universale del pensiero pagano con il concretissimum Logos personale di Cristo. L‟identificazione della cristianità con l‟Impero romano, e dell‟Imperium con l‟auctoritas carismatica è un portato ideologico della teologia politica
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Ivi, pag. 18. B. Forte, Op. cit., pag. 21. 472 M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Roma, 1968, pag. 118. 471
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alessandrina, intesa a riscattare la fede cristiana, per un verso, dall‟ignoranza e rusticitas della massa dei fedeli denunciata da Celso, e per l‟altro dall‟egemonia intellettuale gnostica. 473 Ed è a questa interpretazione che va fatto risalire al concetto di Grazia “il teologicopolitico universalmente rappresentativo”, non ad Agostino, per il quale “l‟autentica escatologia [non] è la [sola] grazia”, 474 ma è anche la fede che l‟attende da parte dell‟uomo concreto nella sua intierezza, e dunque anche dell‟essere naturale abitante lacittà politica. la dialettica, pertanto, si traspone sul piano dell‟agire temporale, ossia su quello congiunto del suo significato storico in senso spirituale, e quindi morale ed eterno, ovvero in senso politico della sua razionalità pratica. Solo nella dimensione della concretezza singolare è possibile la lettura escatologica dell‟esperienza esistenziale, laddove ogni visione universalistica traspone in termini spiritualistici la concezione naturalistica della vita umana collettiva, dalla quale non può emergere (e da qui la sua necessità) l‟irriducibile elemento singolare rivendicato dal cristianesimo (che è follia e irrazionalità nella prospettiva razionalistica). Rispetto all‟elemento trascendente della singolarità, ossia alla concreta esistenza umano-spirituale, ogni istituzione è terza, si tratti della Chiesa o dello Stato, in quanto istituzioni naturali e come tali non sacralizzabili perché meramente funzionali alla tenuta (katechon) del mondo. poiché ciò che rileva, ai fini soteriologici, è la destinazione dell‟ordine mondano, questo non può essere assunto dal punto di vista cristiano come fine in sé, ossia idolatrato alla maniera greco-romana e pagana, ma valutato in merito al suo grado di funzionaità. Infatti, l‟Imperium romanum ha acquisito un suo specifico valore storico entro l‟economia della salvezza divina in quanto scenario irenico in cui si è ambientata la Rivelazione. In questo senso, se la posizione del giurista è orientata verso l‟ordine profano condito, e quindi verso il suo mantenimento attraverso la legge, la posizione del teologo è invece orientata verso l‟ordinamento divino condendo, aperto cioè alla sua (e della legge) destinazione trascendente. La confluenza organica del teologico e del politico attraverso il sistema giuridico cela una intima e irresolubile contraddizione che, per quanto occultata, esplode nell‟atto della dis-formità cui è chiamata la decisione
473 474
M. Simonetti, Cristianesimo antico e cultura greca, cit., pag. 48. G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 254.
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della fede. Una posizione indirizzata verso l‟ordine dell‟istituzione – sia la Chiesa o lo Stato – non risponde a un appello di fede, poiché tale appello non può essere finalisticamente umano, dettato dall‟amor sui profano, ma deve rispondere a un appello trascendente, ossia di coscienza. In tal senso, la posizione di quanti hanno difeso la Chiesa contro la Riforma in nome della Chiesa stessa, fuori di ogni appello alle istanze di trascendenza che la motivavano il moto protestante, appare chiaramente idolatrica, e del tutto analoga alla difesa dell‟ordine politicogiuridico katechontico avanzata da Schmitt. Essi si posero infatti in una posizione analoga alla difesa a quella degli Ebrei difensori della tradizione religiosa autoctona di fronte alla predicazione meta-etnica della escatologia cristiana, la cui simbolica posizione contra legem non può essere circoscritta al solo ambito religioso dell‟ebraismo e non estesa a ogni ambito ecclesiastico o di tipo profano. Non già per relativizzare in una astratta equipollenza la tradizione sacra e profana, ma per ribadire quanto di ogni ordinamento razionale rimanga insuperabilmente altro rispetto al piano della salvezza, ossia al fine escatologico, non sistematizzabile e normalizzabile entro un sistema di neutralizzazioni delle sue istanze giudicate politicamente eversive dell‟ordine costituito. La dialettica agostiniana del sacro e del profano può apparire “antinomica”475 e simile a quella del politico, mentre è radicalmente diversa, in quanto la negazione del piano attuale non avviene per posizione antitetica ma per affermazione del piano della trascendenza, ontologicamente diverso dal piano dell‟immanenza profana in cui si colloca il criterio politico. In questo senso possiamo dire che la teologia agostinana sia, come quella del Cusano, “copulativa”, nel senso che la negazione e l‟affermazione della realtà di Dio è fondata sulla Sua trascendenza di ogni finitezza, che impedisce l‟assolutizzazione di ogni finitezza e di ogni determinazione finita. 476 Ogni richiamo alla molteplice
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G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 256. A proposito delle atrocità della guerra tra cristiani e musulmani in occasione della presa di Costantinopoi (29 maggio 1453), N. Cusano nello scritto per La pace nella fede scrive che “una grande moltitudine di uomini non può esistere senza grandi differenze, e che quasi tutti sono costretti […] a sottostare con soggezione servile ai re che li dominano” e ugualmente a prestare ascolto a “profeti e maestri diversi” da Dio stessi inviati “alle diverse nazioni”, sicché “questa contesa avviene per causa di [Dio], l‟unico che essi venerano in ogni cosa che sembrano adorare. Difatti in ogni oggetto che l‟uomo 476
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finitezza non viene fatto per spirito relativistico ma appunto per stabilire la differenza tra l‟ordine mondano, costituito sulla possibilità umana, perfettibile, dall‟ordine divino immutabile, istituito sulla verità, che abita in interiore homine e non in una istituzione oggettiva e politica. Da questa radicale differenza discende inoltre la diversa articolazione della grazia divina, conferita sempre alla persona concreta, sia l‟umile o l‟imperatore, rispetto allo stato di eccezione del sovrano schmittiano, che trasgredisce invce l‟universalità del sistema, cioè la impersonale regola comune. La grazia è “anticosmica” non in quanto eversiva dell‟ordine mndano stabilito, ma in quanto lo trascende, sicché la sua incidenza non è eccezionale rispetto alla norma universale, ma normale in quanto singolare e priva di un valore erga omnes. Finché si è “nel tempo”, infatti, è inevitabile “la mescolanza di buoni e cattivi”, mentre la loro “separazione avverrà certamente nel giorno del giudizio”. 477 La similitudine che si stabilisce nell‟atto di grazia singolare è simbolica, e non ha valore cogente come quella della fattispecie giuridica. In tal senso, dal punto di vista cristiano, non vi è ordine spirituale che non sia personale, cioè interno alla storia di ogni singolo uomo, per cui la proiezione epica della storia agostiniana della salvezza dell‟umanità è la rappresentazione di una teocrazia della speranza dopo la fine del mondo pagano in dissoluzione. Finché si è nel tempo, Cristo “viene alla sua Chiesa, cioè nei suoi membri, uno a uno, di volta in volta, poiché tutta intera è il suo corpo”.478 La sapienza pagana, per stolta superbia idolatrica, ha creduto di introdurre attraverso la ragione il “giudizio
sembra dsiderare egli non ama se non il Bene che [è Dio], ed in ogni cosa che egli indaga con ragionamento intellettuale non ricerca che la Verità che [è Dio. Che cosa cerca il vivente se non di vivere? E che cosa l‟esistente se non di esistere? Tu [Dio] dunque, che sei il datore della vita e dell‟esistenza, sei quello che tutti variamente cercano con diversi riti e denominano con diversi nomi, poiché come realmente sei in Te stesso resti ignoto a tutti ed ineffabile. Infatti Tu, che sei l‟infinita potenza creatrice,non sei nessuna delle cose che hai creato, né la creatura può farsi un concetto della tua infinità, non essendovi proporzione alcuna tra il finito e l‟infinito. Ma tu, Dio Onnipotente che resti invisibile ad ogni spirito, ti puoi rendere visibile a chi vuoi nella misura in cui puoi essere compreso”: De pace fidei (1453), in Opere filosofiche, Torino, 1972, pagg. 621-622. 477 Agostino, CD, XX, 5.2. 478 Agostino, CD, XX, 5.4.
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universale” nel tempo finito della insuperabile molteplicità, ponendo l‟immagine ideale al posto del vero Dio. La stessa Chiesa, che è “regno” del Figlio nel tempo, è costituita da singoli regni, quanti sono i santi, 479 ed è costituita da unità di popoli, 480 una unità plurale di moltitudini, e non da una massa omogenea. Non foss‟altro perché alla Chiesa appartengono “anche i morti”.481 Essa è dunque una comunità dis-organica, permixta, alla quale appartengono i buoni e i malvagi, che Cristo giudicherà alla fine dei tempi.482 Ed essa, che è una unità solo in senso escatologico, come ogni organismo collettivo, non può essere redenta dalla grazia, che opera soltanto sulle coscienze singolari, in interiore homine. La caratteristica della sua unità, fa della Chiesa una comunità essenzialmente diversa da quella politica dello Stato e non assimilabile ad alcun Potere secolare per il limite connesso al carattere trascendente del suo principio unitario, il Cristo. Nell‟eternità l‟anima e il corpo saranno collegati “in un modo che il legame non sarà sciolto dall‟incessante scorrere del tempo né spezzato dal alcun dolore”, sicché anche la morte sarà “perenne” se l‟anima non avrà Dio.483 Superiore al corpo è “l‟anima pensante, dalla cui efficienza il corpo ha vita e funzionamento e può subire il dolore senza subire la morte”, e perciò è “immortale”. Nell‟eternità il corpo aderirà all‟anima per sentire senza fine insieme a questa, poiché è l‟anima a far soffire il corpo, il quale “non soffre se è esanime”. 484 Non tutti i fenomeni naturali sono spiegabili dalla ragione, ma la stessa attribuzione delle pene e della grazia resta un non accessibile all‟uomo, e ciò dovrebbe indurre i “censori della fede” a credere per fede e non per ragione a quanto asserito dalle Scritture, “sebbene di tali opere di Dio manchi la spiegazione del sentimento e del pensiero umano”, 485 poiché Egli “può conseguire effetti che ai pagani sembrano incredibili, ma sono fattibili dalla sua potenza” meravigliosa “che supera ogni cosa meravigliosa e con la sapienza dell‟agire, dell‟ordinare e del lasciare agire perché muove al
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Agostino, CD, XX, 9.1. Agostino, CD, XX, 7.3 e 4. 481 Agostino, CD, XX, 9.2. 482 Agostino, CD, XX, 20. 483 Agostino, CD, XXI, 3.1. 484 Agostino, CD, XXI, 3.2. 485 Agostino, CD, XXI, 5.2. 480
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fine tutte le cose con l‟atto meraviglioso con cui l‟ha create”. 486 Ed essendo “la volontà dell‟eccelso Creatore la natura di qualsiasi essere creato”, qualunque “portento non avviene contro natura ma contro quella natura che a noi si manifesta”,487 poiché “come non fu impossibile a Dio creare le nature che volle creare, così non gli è impossibile trasformarle, perché le ha create, in quel che vuole”. 488 L‟onnipotenza divina, non essendo soggetta ad alcuna restrizione, è essa stessa motivo di incertezza esistenziale per l‟uomo, il quale, dotato di ragione, può conoscere soltanto razionalmente e non divinamente. Tale sovranità assoluta di Dio sarebbe terribile per l‟uomo se non fosse animata dall‟infinita bontà del Creatore, la quale è l‟oggetto di fede del credente. Ciò vuol dire che il processo provvidenziale del mondo, per quanto travagliato e inspiegabile sia, è sorretto dalla bontà divina, alla quale è tenuto a credere, anche contro ogni umana evidenza, il cristiano, che della fede fa il suo criterio di discernimento. Se invece la fede e la speranza si lasciano soppiantare dalla certezza che all‟uomo può venire vichianamente soltanto dai suoi prodotti, allora ogni suo sforzo e ogni sua opera saranno all‟insegna della ragione umana e alla sua fallacia e finitezza. Nella prospettiva della fede, l‟elemento escatologico è lo stesso volere benigno di Dio, per quanto imperscritabile, mentre invece, dall‟angolo di visuale della ragione umana, l‟escatologico è una “potenza anticosmica, terribilmente temuta come necessaria distruzione dell‟ordine mondano e delle gerarchie senza le quali non si danno né religione né società”.489 Ma la questione essenziale è: perché Dio dovrebbe intervenire a distruggere l‟opera umana ispirata al Suo volere? L‟interrogativo sposta il senso della storia dal piano escatologico a quello umano razionale, affidando all‟uomo la responsabilità dell‟ascolto di Dio. Ciò implica che la neutralizzazione della “emergenza apocalittica”, ovvero della “affermazione progressiva dell‟anarchia atea contro ogni forma di ordine metafisico, giuridico e politico”, 490 riguarda le scelte della volontà umana, e non il capriccio di Dio, ossia l‟ordine mondano e non il piano provvidenziale. Ed è questa circoscrizione delle responsabilità alla libera 486
Agostino, CD, XXI, 6.2. Agostino, CD, XXI, 8.2. 488 Agostino, CD, XXI, 8.5. 489 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 256. 490 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 257. 487
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determinazione umana a suscitare in Agostino, così come anche poi in Schmitt, il tema del rapporto tra il criterio autoreferenziale del Potere, che è l‟ordine politico, e il criterio trascendente che è la salvezza spirituale. Orbene, “il rapporto schmittiano tra archetipo teologico e immagine giuridico-politica” è il portato della cultura del rispecchiamento idealistico del divino nel profano, di formazione alessadrina ma che non è quella di Agostino. Quella cultura, infatti, ammette come possibile la corrispondenza tra piano provvidenziale e piano storico, e dunque della identità di Spirito e ragione, che è propria della Weltanschauung pagana assimilata dalla teologia di Eusebio, ma che non è quella agostiniana della differenza. Se “il problema di Schmitt è quello di riconoscere come l‟ordine secolare e spirituale tramandato dal Medioevo e comunque resistente all‟età moderna è radicalmente messo in crisi, posto „in questione da una classe rivoluzionaria‟”, 491 significa che il giurista, pur consapevole delle umane responsabilità, intende farvi fronte umanamente, risolvendo all‟interno dell‟ambito delle razionali possibilità umane, la mancanza di fede, cui vorrebbe far fronte con strumenti politico-giuridici. Ma è esattamente questa credenza nelle umane possibilità risolutive del dramma esistenziale di ogni singolo uomo a esautorare Dio e a sconfessare l‟incidenza dell‟eskaton nella storia di quel dramma. Infatti, l‟idea del katechon schmittiana era collegata alla difesa dell‟ordine della civiltà cristiana europea, messa in crisi dalla secolarizzazione del pensiero, che riteneva privo di ogni legittimità teologica. In realtà lo sconvolgimento moderno non metteva in discussione il piano divino ma metteva soltanto in risalto l‟inanità della posizione teologico-politica romano-alessandrina, con la sua pretesa di costituire la forma oggettivata della civiltà cristiana. Ciò che Schmitt, diversamente da Heidegger e da Jaspers, non aveva compreso, infatti, era che l‟età moderna non inaugura ma porta a compimento una rottura ontologica, un paradigma metafisico su cui poggiava la struttura aristocratica della civiltà europea e la sua immagine del mondo, per cui a tramontare non era stato solo il Medio Evo o il feudalesimo e ad essere minacciato non era solo ciò che ne costituiva il retaggio moderno, ma una Weltanschauung che “aveva dominato per più di due millenni”, 492 ossia la visione del mondo greca,
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G. Lettieri, Riflessioni cit., ibidem. O. Brunner, ALeG, pag. 129.
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che in Platone aveva trovato il suo massimo rappresentante filosofico, e contro le cui dottrine si appuntarono a suo tempo le critiche antirazionalistiche di Agostino, la cui teologia mirava a distinguere, e non a unificare, storicamente le due città, quella dell‟uomo e quella di Dio. Schmitt, di contro, voleva persistere nella loro risoluzione in una organica compagine teologico-politica, chiaramente paventata invece da Agostino. Sia Platone a suo tempo che Schmitt nel nostro hanno avuto la chiara percezione della crisi del cosmo teologico-politico e della conseguente dissoluzione dei valori metafisici che ne sostenevano l‟ordine eticopolitico. Entrambi, in guise diverse ma convergenti nel fine, hanno predisposto una teoria katechontica dell‟ordine politico affidata alla ratio excludendi, rispettivamente, della dialettica del logos e della decisione del politico quali categorie universali costitutive della totalitaria unità del molteplice. Ed entrambi hanno fondato il loro principio totalitario unitario sulla de-mitizzazione del Logos, attraverso la rimozione del fondamento mitico della mito-logia politica, di cui la teo-logia politica è la versione post-cristiana. Tale rimozione consiste nella sostituzione dell‟unità esistenziale dell‟Essere, ottenuta per fede religiosa, con l‟unità razionale, ottenuta dialetticamente per necessità logica, considerata epistemicamente più forte perché universale, valevole erga omnes, diversamente dall‟antica unità religiosa, distinta per luogo e tempo in una miriade di credenze teologiche particolari. Tale sostituzione dell‟unità mitica con l‟unità razionale è avvenuta attraverso la distinzione teoretica tra vero e falso, cui corrisponde la distinzione politica tra amico e nemico, attraverso ciò il metodo dialettico quale criterio normativo di esclusione, per negazione logica, dell‟Altro dal Sé. “La costruzione di un concetto giuridico procede sempre, per necessità dialettica, dalla sua negazione”.493 La negazione dell‟Altro consiste nella negazione del Molteplice, che è appunto “altro” rispetto all‟unitario Sé della coscienza noetica. Ma tale “negazione” è esistenzialmente una soppressione dell‟Altro irriducibile alla assimilazione al Sé, operata per trasformazione ontologica del Molteplice all‟Uno, intesa come necessità razionale. Il grado di riducibilità dell‟Altro al Sé, cioè all‟assimilazione, è il dato di razionalità dell‟ente molteplice rispetto al suo principio unitario o
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C. Schmitt, Il concetto di politico, tr. it. in Le categorie del politico, Bologna, 1972, pag. 95.
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categoria. La razionalità consiste pertanto nella credenza nella trasformabilità del diverso (Molteplice) all‟uguale (Uno); credenza che è il principio di fede del razionalismo, il suo fondamento fideistico. La fede cristiana, pur affermando l‟unità esistenziale delle due nature ontologiche nella persona di Cristo, afferma l‟insuperabile differenza ontologica delle due nature nell‟uomo, e quindi la vanità di ogni pretesa monistica avanzata dal Logos filosofico. Da qui discende la critica agostiniana del falso monismo ontologico (in realtà meramente logico) pagano condotta in nome del dualismo cristiano, confutatore di ogni riducibilità razionalistica dell‟umano alla mera esistenza politica, fondamento invece dell‟antropologia greco-romana. Ciò che fu per il razionalismo di Platone la mitologia arcaica fu la teologia cristiana per il razionalismo moderno: una teoria dell‟ordine cosmologico della rispettiva civiltà, entrata in crisi dissolutoria per esaurimento del suo fondamento onto-antropologico. Ma se unitariamente la cosmologia presa di mira da Platone fu quella di Omero, la teologia presa in considerazione dalla teoria di Schmitt quale referente politico dell‟età cristiana non è quella escatologico-trinitaria di Agostino, ma quella teocratico-monistica di Eusebio, il cui paradigma secolaristico era entrato in crisi, provocando il disordine dell‟età moderna denunciato dal giurista.494 Ma il dis-ordine era la conseguenza della pretesa omologazione del diverso all‟uguale propria del Potere politico monarchico pagano, che riduceva a un‟unica realtà ontica ciò che era insuperabilmente diverso ontologicamente. Tale pretesa si basava a sua volta sulla ignoranza della nozione di Eterno, confusa con quella della naturalità. Quella nozione, abbinata all‟Essere divino anziché alla natura temporale, introduceva la nozione del potere eterno di Dio, superiore a ogni transeunte Potere umano sul quale si basava la città terrena. Il Logos divisivo pagano fu sostituito al Logos inclusivo dell‟agape, che nell‟Altro
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Dell‟indebita confusione dei due referenti teologici fu vittima anche Peterson, che giunse a negare, per una corretta interpretazione teologica, la realtà storica della corrispondenza del teologico col politico sulla quale insisteva giustamente Schmitt, pur sbagliando nell‟attribuirla all‟intera tradizione teologica cristiana. Anzi, se la Chiesa potè salvarsi dal tracollo moderno del modello eusebiano fu dovuto ad Agostino, la cui teologia, irriducibile a ogni teoria della “pura fatticità del politico”, provvidenzialmente non fu adottata dal cattolicesimo come dottrina ecclesiastica ufficiale.
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non vedeva un nemico ma un fratello in Cristo. L‟amore consente di vedere nell‟Altro non già, come nel giudizio razionale, la oggettiva parte del bene distinta da quella del male, ma la sua personale intierezza, la concreta esistenza di una singolare storia spirituale. L‟Altro, infatti, non è considerato oggetto di pensiero, creazione della ragione umana, ma soggetto spirituale creato da Dio, e come tale soggetto alla Sua potestà, e non alla disponibilità assoluta del Potere politico. Entro la dialettica tra bene e male in senso razionalistico, il mediatore è il Potere (dello Stato), ma il mediatore tra il bene e il male in senso spirituale è Cristo, il Quale non è un‟idea astratta, bensì una realtà concretamente storica e compiuta. Ed è la compiutezza dell‟esistenza umana modellata sul paradigma di Cristo a rendere inutile la auctoritatis interpositio nello status civilis tra l‟ideale giuridico e il reale contesto politico. 495 Nell‟esperienza storica di Cristo, infatti, non c‟è cosa che non sia stata compiuta, compresa la vittoria sulla morte, ossia il trascendimento della condizione naturale, il massimo della potenza al quale aspira la applicazione tecnologica del sapere profano attraverso i “miracoli” della scienza. Ma l‟amore cristiano non vince la morte negandola, alla maniera razionalistica, bensì comprendendola nell‟esperienza dell‟uomo come evento escatologico. Il “miracolo” divino non è quello di assolutizzare il positivo razionale contro il negativo dialettico, formando un mondo unitario per universale esclusione dell‟alterità, ma di amare il negativo come parte del sé totale, e non come l‟Altro da negare. L‟unità razionale è solitaria, l‟unità spirituale è solidale. Se l‟ordine dell‟unità solitaria è garantito dal Potere che decide secondo diritto, l‟ordine solidale è governato dall‟amore che comprende e non giudica, superando con la carità ogni criterio di diritto. La insistenza di Agostino sulla onnipotenza di Dio non voleva però sottolinearne la assoluta gratuità, poiché Dio era guidato dall‟amore verso le Sue creature, ma la bontà, di cui invece erano perloppiù privi gli uomini incapaci di trascendere la loro natura animale, che si muoveva nella paura, anziché nell‟amore, dell‟Altro. L‟ordine della paura era appunto quello politico in cui ristava ancora la coscienza di Schmitt, entro la quale il katechon assumeva una accezione razionalistica di remedium mali interamente consegnato alla volontà umana, la stessa che
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C. Shmitt, Teologia politica, in Loc. cit., pag. 55.
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aveva provocato la dissoluzione dell‟ordine, senza alcun appello alla grazia né alcun trascendimento morale. Nel concepire il katechon in termini politici consisteva la barbarie contro la quale Agostino aveva eretto il baluardo della fede escatologica, per cui “Dio compirà gli atti che ha preannunziato di compiere sul corpo degli uomini perché non lo trattiene alcuna difficoltà, non l‟ostacola una legge di natura”. 496 Né una costituzione umana e neppure un ordinamento politico possono impedire la potenza divina, e di converso neppure sostituirla o rappresentarla sotto forma di plenitudo potestatis regale o papale.497 La persona, del
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Agostino, CD, XXI, 8.5. A proposito della dittatura sovrana, Schmitt scrive che essa “vede in tutto l‟ordinamento esistente una qualcosa da rimuovere completamente con la propria azione”, al fine di “imporre una costituzione ritenuta come quella autentica” (Die Diktatur (1964), tr. it., Roma-Bari, 1975, pag. 149). Ma che cosa era da rimuovere, e cosa avrebbe reso autentica una costituzione? Da rimuovere era il dis-ordine delle volontà individuali (pluriversum) non uniformate alla fattispecie legale (universum), ossia la stessa libertà di azione e di pensiero dei singoli. Di conseguenza, l‟ordine da instaurare era quello in cui vigesse universalmente la legge del sovrano negatrice delle volontà individuali. E dunque il discrimine tra il modello e la possibilità di conseguirlo è dato dal grado di universalità del Potere; è l‟universalità della vigenza il della giustizia del Potere razionale. L‟efficacia del Potere, come parametro di verità dell‟ordine politico costituito, di per sé non ammette alcuna limitazione morale (ab-solutus), e da qui la sua idolatrica analogia “rovesciata” con l‟onnipotenza divina. Ma l‟insuperabile contraddizione reale di ogni ideale è nel suo bisogno di oggettivarsi per dare esistenza alla sua essenza, e nel caso del Potere, la sua forza “costituente” deve essere rappresentata sempre da “l‟altro da sé” (Loc. cit, pag. 152) che la de-finisca negandone l‟in-finitezza. Questo non avviene nella consustanzialità divina di Cristo, il Quale non rappresenta l’immagine formale (repraesentatio, ) di Dio, che rende “visibile” la sua “assenza” nel senso della “pubblicità” (Schmitt, Verfassungslehre (1928), tr. it., Milano, 1984, pag. 277), ma ne è l‟immagine spirituale (), che non è quella pubblica dell‟esistenza politica, ma quella interiore della realtà trascendente, che, in quanto tale, si costituisce come limite ( ) in-rappresentabile di ogni Potere finito e di ogni ordine costituito, cioè di ogni dimensione “pubblica” della sovranità che assuma come “principio spirituale” il Logos politico (Schmitt, Loc. cit., pag. 280), anziché il caritativo. In tal senso, la Chiesa in quanto comunità di fede, non può essere “persona giuridica depositaria dello spirito giuridico” romano (Schmitt, Roemischer Katholizismus und politische Form (19252), tr. it., Milano, 1986, pag. 47), né come istituzione può mai rappresentare la potestas divina in termini di Potere secolare. Solo il Dio dei filosofi e dei teologi romano-alessandrini infatti è infinito “potere costituente”, mentre il Dio cristiano di Agostino è auctoritas di Governo, che 497
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paradigma cristico come della storica singolarità di ogni uomo, non si può rappresentare in guisa di un‟Idea platonica in quanto essa non è una realtà compiuta ma una esistenza spirituale avvolta nel mistero, la cui singolarità richiede una interpretazione del senso del suo svolgimento non assimilabile ad alcun processo biologico naturale. Questo elemento spirituale imponderabile del singolo uomo, che ne costituisce la cifra della trascendenza, impedisce che alcuna forma di vita sociale possa assimilare la sua irriducibile singolarità a una qualche particolarità di un determinato insieme collettivo idealmente definito, che possa compendiare l‟intierezza della sua esistenza risolvendola in una formale integrazione unitaria, quale la Chiesa o lo Stato, la cui unità formale non può costituire un analogon della storia esistenziale dell‟Uomo. E questa è la ragione essenziale per cui non possa una istituzione rappresentare una realtà trascendente, cioè una esperienza storica avvolta nel (perché
nessun sovrano terreno, papale o imperiale o popolare che sia, può legittimamente rappresentare alla stregua di un archetipo ideale di potestas razionale, ossia come modello formale di unità totale di essenza ed esistenza di un ordine mondano giuridicamente totalitario da conseguire. Per Agostino, anzi, la stessa unità politica vagheggiata dalla filosofia attraverso lo Stato, è un idolum idealistico destinato sempre a smentirsi nella realtà, sicché, paradossalmente, la migliore costituzione è quella che non esiste. Da qui il carattere negativo e provvisorio di ogni forma di Stato (C. Galli, Genealogia della politica, Bologna, 1996, pagg. 251 sgg.). Ciò che si può rappresentare è un‟idea, ma l‟idea di Dio non è Dio, per cui si può rappresentare il Potere (potestas), legato alla funzione astrattamente personale, ma non il Governo (auctoritas), legato al carisma concretamente singolare. La “singolarità dell‟uomo”, non “si fonda”, come invece ritiene Schmitt, “soltanto sul fatto che Dio lo mantiene nel mondo e perciò nella comunità” (Die Sichtbarkeit der Kirche (1917), tr. it. in Roemischer Katholizismus, tr. cit., pag. 79), ma sulla concreta totalità del suo essere divino-umano aperto alla trascendenza. Il modello esistenziale di tale totalità è Cristo, la cui infinita “trascendenza” non può essere “il contenuto della rappresentazione”, come invece vorrebbe Schmitt, in quanto il contenuto della trascendenza non è razionale, ma spirituale, mentre “rappresentare significa far presente un‟idea, impersonificarla, incarnarla” (M. Maraviglia, La penultina guerra, cit., pagg. 105-121), e quindi quel contenuto è Dio stesso, che non è un‟idea e non è perciò rappresentabile (M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Brescia, 1990, pagg. 248 sgg.). Il cattolicesimo di Schmitt, risolvendo nella dottrina politicistica della guerra universale la dottrina spiritualistica dell‟amore universale cristiano, porta a compimento dialettico la teologia romano-alessandrina, confermando a suo modo il rovesciamento nell‟opposto reale di ogni astratta posizione razionale. Ved. C. Marco, L’ordine pigro, cit., t. II, cap. XIV, pagg. 1001-1067.
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fondata sul) Mistero.498 Sarebbe stato pertanto insulso confutare la Weltanschauung pagana conservando l‟idea di Stato che ne rappresentava l‟oggettivazione reale. E così come la struttura imperiale romana franò all‟evidenza delle sue contraddizioni e alla maturazione delle sue ingiustizie, tutte riassunte nell‟accusa complessiva di idolatria dell‟amor mundi, parimenti era in crisi manifesta la struttura teologico-politica formata dall‟innesto “contro natura” dell‟ “ulivo selvatico” pagano nell‟ulivo sano cristiano.499 L‟elemento spurio dell‟innesto storico non era relativo alla potenza della struttura politica imperiale, ma alla giustificazione razionale e non escatologica del movente cristiano, teso ad affermare la salvezza della Chiesa identificata con quella di ogni suo singolo membro. Ma proprio le
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Il conflitto amico-nemico, quale risvolto della polarità dialettica tra essere e nonessere, è esterno all‟unità composta della singolarità dell‟uomo in quanto non è armonizzata all‟interno della coscienza singolare, per cui la prevalenza dell‟elemento naturale su quello spirituale della personalità produce l‟inimicizia, che, primadi esser contro l‟Altro è rivolta contro il sé spirituale. Viceversa, la prevalenza nella coscienza dell‟elemento spirituale genera l‟amicizia, ossia il riconoscimento dell‟Altro che è in sé, del “prossimo”. La interna a ogni coscienza, non può essere rappresentata nel suo processo, in quanto agisce in interiore homine in modo singolare e imponderabile, ossia misterioso, ma sono rappresentabili soltanto le proiezioni ideali dei due momenti, astratti dal processo della coscienza, facendo della Chiesa l‟immagine, appunto ideale, dello Spirito e dello Stato l‟immagine ideale della Natura che sono congiunte e confliggenti in ogni singola esperienza esistenziale dell‟uomo concreto. L‟unità, che i fiosofi ricercavano nell‟Idea, non può interessare la parte naturale dell‟uomo, che è tale proprio i quanto conflittuale, e dunque non può pervenire dalla politica negatrice dell‟Altro, ma interessa e può pervenir solo dall‟anima spirituale dell‟uomo, dunque come unità ecclesiale in senso evangelico, in cui la dimensione naturale-conflittuale viene superata dalla coscienza agapica, attravers la mediazione di Cristo, che costotuisce il paradigma alternativo all‟unità formale dell‟Idea razionale e all‟unità giuridirico-politica dello Stato. L‟unità spirituale tra gli umini duventa possibile in quanto lo Spirito è Uno e lo è in ogni singolo uomo. ed è questo il senso profondo dell‟unità divina, del monoteismo cristiano, che il razionalismo alessandrino ha inteso in senso idealistico e razionalistico nella sua teologia politica. La ragione è conflittuale e lo spirito è unitario, per cui dalla politica non può pervenire l‟unità ma solo il conflitto. A questo punto si comprende come la “decisione” di cui tratta Schmitt non sia altro che il Governo spirituale che conduce ad unità il molteplice politico-razionale delle relazioni naturali ossia conflittuali, che ogni tregua pattizia può momentaneamente sedare ma non trascendere né risolvere. 499 Agostino, in CD XXI 8.5, riprende un passo di Rm 11, 17-24.
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ragioni del come se nascondevano la fallacia di quelle mondane e umane ragioni. Infatti il mondo in genere, compreso quello umano-naturale, essendo “creato dal nulla è a priori privato di un suo proprio essere”, 500 e non è punto eterno, come invece pensavano i filosofi pagani, per cui tutto ciò che è terrenoè soggetto al divenire, è mutabile, ed è questa la ragione per la quale l‟uomo, di natura debole e imperfetta, ha bisogno della redenzione spirituale. La volontà spiritualizzata interrompendo il ciclo cosmico naturale lo destruttura ontologicamente, modificandolo nel senso moralmente redentivo di un nuovo ordine spirituale, costituito dai rinati in Cristo. Questa comunità di redenti cristiani è la Chiesa, non già lo Stato, che è la comunità naturale dell‟antropologia aristotelica, e che come tale non può durare per sempre. Frenare dunque l‟ordine costituito per paura del domani significa non coltivare la speranza cristiana nella provvidenza ma il culto idolatrico del prodotto umano: un ritorno al paganesimo. In tal senso, il culto schmittiano del Reich tedesco è anticipato dal culto cattolico della respublica christiana, prodotti entrambi della sacralizzazione idolatrica del Potere umano. “Proprio perché del tutto identificato cn l‟ontoteologico, il teologico-politico risulta del tutto riassorbito nel politico”. Infatti, ciò che interessa Schmitt è “soltanto la difesa dell‟ordine metafisico, politico e giuridico mondano”, con l‟evidente accezione totalitaria dell‟ideale politico, la cui universalità consiste nel “subordinare a sé qualsiasi altro valore, anche quello religioso”.501 Schmitt non si avvede che confinando la fede alla sfera privata il Potere politico ribadisce il suo carattere altro da quello della verità, destinandosi a ricercare la durata dell‟atto di forza, cioè la sua efficacia, in antitesi all‟eternità del giudizio morale. Ma l‟assolutismo del politico emancipato dal morale, rende la sua dicotomia oppositiva del tutto interna alla finitezza mondana, privandola di quella legittimità morale che per Agostino costituisce il tratto caratteristico deteriore della civiltà pagana, incapace di vedere il “tutto nel frammento” della singola esistenza umana. Solo Dio può “trasformare le nature”, l‟uomo invece può solo pervenire a trascendere la propria. Questo limite sostanziale della realtà umana acquista valore di monito sia nel campo teoretiche che in quello delle
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Ved. K. Loewith, Significato e fine della storia, cit., pag. 186. G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 258.
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relazioni sociali in considerazione che “la vita dei mortali è di per sé tutta una castigo”,502 al quale l‟uomo da solo non può porre rimedio, poiché è conseguenza dell‟ “infame peccato compiuto nel paradiso terrestre”, e quanto l‟uomo della nuova alleanza cristana realizza di nuovo per riscattarsene appartiene alla speranza di poter “mortificare con lo spirito le opere della carne”.503 Ossia non c‟è alcun rimedio naturale che possa sanare il peccato d‟origine, salvo l‟espiazione spirituale attraverso l‟esempio di Cristo, Figlio di Dio che “rimanendo immutabile assunse da noi la nostra natura per assumerci in essa e conservando la propria atura si rese partecipe della nostra debolezza”, affinché partecipassimo del Suo bene eterno. Ed è questa partecipazione all‟eterno la vera “pace alla quale [l‟uomo] anela nelle lotte incessanti di qesta guerra, in cui la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito alla carne”. 504 Ecco il senso dell‟intestina escatologia, del trascendimento della dimensione naturale nella quale si manifesta il conflitto delle opposte tensioni, che alla sapienza profana possono apparire quelle della dialettica oggettiva del pensiero razionale, ma che in realtà sono di natura ontologica, e pertanto non risolvibili in alcuna sintesi pacificatrice che non sia alla fine dei tempi. Nel tempo, dunque, il conflitto naturale non è redimibile all‟interno del suo orizzonte esistenziale da alcun remedium politico-giuridico-razionale, ma solo trascendibile mercé l‟intervento della grazia, che, consentendo all‟uomo la metanoia spirituale, gli consente di superare la logica del “predominio” per pervenire al piano della coscienza agapica, alla “vera virtù che si ha nella fede in Cristo […] il Mediatore di Dio e degli uomini, che si è reso partecipe della nostra mortalità per renderci partecipi della sua divinità”. 505 Proprio la teoria schmittiana del politico e della sua pretesa nomotetica totalitaria illuminano significativamente sui termini, contenutisticamente indifferenti, della sistematica razionalizzazione universalistica della tecnica dialettica dell‟esclusione, che, assurta a di conoscenza e di giudizio, ed emancipandosi dalla paternità del suo fondamento di fede, non riconosce più alcun limite, pretendendo l‟onnipotenza che è solo
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Agostino, CD, XXI, 14. Agostino, CD, XXI, 15. 504 Ibidem. 505 Agostino, CD, XXI, 16. 503
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divina. La filiazione mitica del logos trovava nel nomos la sua sanzione politica e nella religio la sua legittimazione sacrale. La rescissione razionalistica del legame mitico ha assorbito il sacrum nel nomos e trasvalutato questo nel rito della legislazione. Ma la costituzione cristiana del Mistero come fondamento del Logos divino, destruttura il sistema mito-logo-poietico antico svalutandone sia l‟intima sacralità, ritenuta fabulosa, che la possibilità correttiva delle umane debolezze attribuita alla socialità. Agostino, infatti, criticando la tripertita theologia di Varrone506 sostituisce il fondamento di verità rivelata all‟equilibrio tradizionale delle rappresentazioni del divino, inutili per il filosofo, indispensabili per l‟incolto. “Estendendo a tutti la possibilità di un incontro con il divino nell‟uomo interiore, che di Dio porta l‟impronta più e meglio del cosmo stesso, che proprio per l‟uomo è stato creato, l‟antropocentrismo cristiano spazza via, con la necessità del nomos teologico-politico, la distinzione tra i molti e i pochi, tra i veri sapienti e il volgo”.507 Ciò non perché la visione cristiana aderisse a un insensato e astratto egalitarismo, ma per la ragione più semplice e più profonda che le differenze sociali e qualitative di ognuno non avevano rilevanza nell‟ambito spirituale, nel quale ciò che contava non era la rappresentazione della realtà di cui era diversamente capace ogni uomo, e dunque la sua attitudine noetica, ma l‟esperienza di vita espressa nella sua storia esistenziale, in relazione al grado di prossimità al modello divino. Nel momento in cui diventa rilevante la storia personale dello spirito umano, che continua anche post mortem, l‟immagine pubblica dell‟uomo, secondo il criterio umano della sua posizione nel mondo, perdeva tutta la sua pregnanza agli occhi della fede, e con essa ogni teologia politica, che è “teologia del visibile”.508 La questione teologico-politica si presenta con la necessità di destinare alla Chiesa una sua immagine formale, cioè istituzionale, e spirituale, cioè mistica, “distinta da quelle politico-civili tradizionali, con ciò venendosi concretamente a collocare nelle dinamiche dell‟esperienza mondana” e determinando così un rovesciamento “nel rapporto con il
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Agostino, CD, VI, passim. M. Rizzi, Teologia politica: la rappresentazione del potere e il potere della rappresentazione, in Il dio mortale, cit., pagg. 282-283. 508 M. Rizzi, Teologia politica, cit., pag. 285. 507
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visibile”, tale che “è la rappresentazione terrena del tempio celeste a determinare l‟ordinamento della chiesa sensibile”. [Ivi, pagg. 288 e 290.] Posto che la Chiesa visibile il tòpos della manifestazione della realtà spirituale oggettiva, anziché l‟interiorità della coscienza il luogo della testimonianza soggettiva, 509 resta incerto per Agostino se sia sulle macerie della Chiesa che si rivelerà l‟Anticristo di 2Tes, 4, oppure se egli si sostituirà alla Chiesa, ovvero se sia una “moltitudine di uomini che a lui appartiene come capo”.510 In ogni caso, pur attribuendo all‟Impero romano l‟allusione di Paolo a chi trattenga l‟Anticristo e alla perseveranza dei sinceri cristiani il disvelamento della falsa fede di quanti si nascondono nella Chiesa ma sono pronti a ubbidire a Satana,511 Agostino assicura che “Cristo non verrà a giudicare i vivi e i morti, se prima non verrà il suo avversario, l‟Anticristo, a trarre in errore i morti nell‟anima”.512 Agostino sposta la fonte della legittimazione del Potere politico dall‟Imperium di Roma, ossia dalla sua tradizione, all‟auctoritas divina, inserendo la potenza romana entro l‟economia della salvezza
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“Visibilità, mediazione e carattere pubblico della presenza rappresentata: queste sono state le caratteristiche specifiche della rappresentazione cattolica che si è contrapposta ad gni connotazione del trascendente in termini di „totalmente altro‟ e di Deus absconditus, ad ogni pretesa di immediatezza carismatica dello Spirito e ad ogni privatizzazione della relazione Dio/uomo in interiore homine. Rappresentazione in senso cattolico ha significato, al contrario, dare presenza alla persona dell‟Assente nella concreta visibilità del „successore apostolico‟, nel carisma d‟ufficio giuridicamente connotato; da questo punto di vista, la rappresentazione cattolica ha costituito il modello archetipico dell‟istituzione europea. E‟ attraverso tale concetto che si sono tracciati i caratteri peculiari del rapporto trascendente/mondo nell‟eone cristiano, caratterizzato da un fondamento teistico e non dall‟immediata identità di divino e cosmo come nell‟eone antico. La rappresentazione di un‟assenza mantiene un‟incolmabile distanza tra rappresentante e carattere trascendente del rappresentato. Senza Incarnazione non sarebbe stata possibile alcuna rappresentazione e senza cristianesimo non si sarebbe data alcuna autorità teologico politica. […] Solo la teologia teistica cattolica ha potuto sviluppare una centralità del concetto di autorità, quale presenza dell‟eterno sul mondo. Rappresentare non ha significato semplicemente rendere visibile l‟invisibile, ma tradurlo istituzionalmente in autorità sulla condizione del tempo”: Epimeteo, Finis Europae. Una catastrofe teologico politica, Napoli, 2007, pagg. 23-24 e 27. 510 Agostino, CD, XX, 19.2. 511 Agostino, CD, XX, 19.3. 512 Agostino, CD, XX, 19.4.
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escatologica, privando così l‟esperienza mondana della conquista del mondo conosciuto dalla sua presunta assolutezza ed eternità. La forma romano-imperiale, quale ratio politico-istituzionale del mondo civilizzato, diventava funzionale al telos soteriologico della fides cristiana, in nome della quale assumeva senso storico-religioso l‟impegno della Chiesa al mantenimento delle strutture di potere profane quale argine alla dissoluzione della civiltà cristianizzata. Tale impegno ostativo al disfacimento caotico è ciò che si intende per come “forza qui tenet” di 2Tes, la forza frenante “in grado di trattenere la fine del mondo […] contro lo schiacciante potere del male”. 513 L‟Anticristo è l‟informe forza spersonalizzata dello Spirito in funzione soteriologica, che usurpando il governo paterno del Verbo, nega anche la realtà trascendente del Figlio a favore di una assoluta mondanizzazione del Regno. Egli elegge a nemico l‟ordine trinitario, misconoscendone la funzione rappresentativa del potere istituzionale e di converso della sua forza frenante. Tale forza, nondimeno, non era quella del Potere politico qui talis, incarnata dal Cesare (= cesarismo come unitarismo del Potere contro la frammentazione della delle spinte nazionali o sociali) ma dell‟imperium christianum, il quale, rispetto alla potestas di quello romano pagano, aveva l’auctoritas del sacerdotium, ossia la legittimazione sacrale della fede in Cristo (il monarca imperiale rappresentante e custode dell‟ordine divino).514 La “unità dinamica e conflittuale” della potestas dell‟imperium e dell‟auctoritas del sacerdotium costituivano “il proprium della costruzione politica medievale”, che entra in crisi “con la separazione delle due istituzioni di
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C. Schmitt, Der Nomos der Erde, tr. it. cit., pagg. 43-44. “Il cristianesimo ha significato per l‟Europa l‟instaurazione di un fondamento trascendente di autorità e una sua configurazione spaziale. Lo spazio europeo è sorto sulla base del concetto teologico politico di istituzione. Il principio dell‟Ecclesia vivit lege romana ha senza dubbio costituito un elemento discriminante, ma il nucleo metafisico è sempre rimasto l‟evento dell‟Incarnazione del Padre tramite il Figlio. Questo è stato il centro dell‟Europa, il suo asse portante, la sua natura specifica. Da tale centro è dipesa la formazione di uno spazio e non vicevesa; non si sono rivelati eterminanti confini naturali o nazionali, ma il del dogma trinitario ha tracciato e consacrato una frontiera”: Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 65. In tal senso, l‟istituzione imperiale connessa a quella ecclesiale costituiva il modello ordinamentale specifico della civiltà europea cristiana. 514
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Chiesa e Impero, avvenuta nel XIII secolo, attraverso la loro definizione di societates perfectae ed autonome”, preludendo al “superamento del Medioevo”.515 Nella costituzione della respublica christiana l‟imperium ispirato dalla fede escatologica non era, come si è detto, una mera potestas politica, fondata sulla forza, ma era “un incarico proveniente da una sfera radicalmente diversa da quella della regalità”, 516 in quanto tributario di “caratteri innegabilmente spirituali e religiosi, e riguardava la funzione escatologica dell‟autorità civile, appunto la sua funzione catechontica”, la quale presupponeva “l‟unità delle due sfere dell‟autorità spirituale e del potere temporale, unità certamente differenziata al suo interno, e quindi complessa, dinamica e conflittuale, ma che permetteva comunque un collegamento e una relazione profonda”, costituendosi come “tramite della compatibilità tra storia ed escatologia”. 517 6. La dicotomia, o se vogliamo la dialettica, di realtà naturale e ordine morale è possibile individuarla in interiore homine oppure tra enti politicamente organizzati, cioè tra collettivi sociali. Il conflitto interiore assegna alla sfera dell‟invisibile la risoluzione dell‟agire conforme a una delle due tendenze, per cui l‟azione umana manifesta la deliberazione in uno o altro senso. Viceversa, l‟oggettivazione sociologica del conflitto tra entità politiche organizzate ne destina la soluzione all‟esito dello scontro, alla conseguenza del bellum. Nel caso individuale, la fenomenologia storica è concentrata sui facta, oggetto del giudizio dell‟interprete sulla loro essenza razionale; nel caso collettivo, di contro, il giudizio di valore è assegnato impersonalmente dall‟esito stesso della lotta, cioè dal risultato oggettivo ottenuto dalla prassi bellica. Qui il giudizio si concentra sulla fattibilità dell‟intenzione, anziché sul factum dell‟azione individuale, lasciando perciò indeterminato il giudizio in quanto non determinabile il processo avvenimenziale dei facta collettivi. Ed è esattamente tale indeterminazione avvenimenziale a procrastinare il “giudizio universale” alla “fine dei tempi”, ossia al termine dei processi storici collettivi, mentre restano alla portata del giudizio fattuale le vicende dei singoli uomini, di cui è possibile misurare le conseguenze
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M. Maraviglia, La penultina guerra, cit., pag. 243. C. Schmitt, Loc cit., pag. 46. 517 M. Maraviglia, Loc. cit., pagg. 244 e 249. 516
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reali. La filosofia, quale criterio di giudizio universale, si propone di far diventare oggetto della sua analisi razionale i singoli avvenimenti umani, assegnando loro un valore appunto “universale” che essi, in quanto tali, non hanno, e trasformandoli perciò in realtà simboliche. La differenza tra il valore effettuale dell‟agire umano e il suo valore simbolico stabilisce la distanza tra il livello di coscienza naturale e il livello di coscienza ideale dell‟uomo. Ma in cosa consiste tale differenza? Cos‟è il naturale, cosa l‟ideale? “Naturale” è il comportamento che persegue l‟istinto della sopravvivenza e che pertanto pone il proprio sé come fine di ogni azione e di ogni agire. L‟Altro, nella prospettiva naturalistica, è visto come l‟ostacolo ovvero lo strumento della vita. Ogni cosa vivente è in funzione della vita e tutto è in funzione di tutti. Qui l‟esistenza è ripiegata su se stessa, senza barlumi di trascendimento della vita biologica, segnata dalla lotta universale alla sopravvivenza. L‟essere della natura è tutto e solo in ciò che è, nella sua assoluta immanenza. Non c‟è disegno, né scopo ulteriore alla affermazione dell‟esistenza. Per la loro regolarità e prevedibilità, i fenomeni naturali devono essere dapprima adottati per poi essere adattati alla vita umana, rispetto alla quale essi sono funzioni strumentali. Questa conversione dei fenomeni naturali dallo scopo spontaneo al fine umano è opera della ragione strumentale, che costruisce un mondo umano dalla congerie dei fenomeni naturali, qualificandolo per il suo fine specifico di servire l‟uomo. L‟umanizzazione della natura costituisce la sua razionalizzazione in mondo. Il mondo umano è quella porzione di natura razionalizzata e trasformata in tòpos culturale. Il mondo è il luogo della natura culturalizzata dall‟agire dell‟uomo. Ma l‟agire funzionale non è che un servizio reso dall‟uomo alla stessa natura, poiché l‟impegno profuso a dominarla l‟assume comunque come antagonista imprescindibile, ossia come la necessità della vita umana. La dimensione alla quale l‟uomo è legato imprescindibilmente, lo comprende nella sua necessità di essere naturale. L‟uomo, da essere naturale, lotta per affermare sé contro le forze della natura. Esso è dentro tali forze naturali come una delle tante forze che si ostacolano e si combattono. La natura dunque è il regno della lotta di tutti contro tutti, il luogo del pòlemos. La ragione polemica consiste appunto nel distinguere ciò che avversa l‟uomo da ciò che l‟aiuta a vivere, in quanto addomesticato o innocuo. La distinzione primordiale tra l‟amico e il nemico dell‟uomo è la funzione primaria della ragione strumentale che agisce entro le forze
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cieche della natura. Il principio distinguente è la luce della ragione umana che diventa cultura, sapere tràdito, tradizione. La tradizione è il modo culturale di rapportarsi alla natura vincendone le forze funzionali all‟esistenza umana. La natura, rispetto alla varietà dei modi culturali di assevirla, è l‟Essere che non muta e che tutto comprende, da cui tutto viene e tutto ritorna. In considerazione della inevitabile morte dell‟uomo, che pure ha vinto momentaneamente la natura, l‟esistenza umana appare tanto preziosa quanto assurda. Preziosa, in quanto asservisce la natura ai suoi scopi pratici; assurda, in quanto soccombe di fronte all‟Essere naturale. L‟inganno leopardiano della madre che si rivela matrigna rappresenta il destino stesso dell‟uomo come essere naturale. Il modo di uscire dalle tenebre dell‟ingannevole esistenza naturale è quello di pensare l‟uomo emancipato dalla necessità delle forze della natura, quale essere spiritualmente libero, non soggetto quindi alla fatalità della morte. Rimuovere l‟ostacolo naturale della morte, significa per l‟uomo acquisire un‟essenza divina. Finquando tale essenza rimane di carattere nominale, essa può essere identificata con ogni essere di natura, che in virtù di tale identificazione viene divinizzato, sia una cosa, un animale o un essere umano. Gli dèi non sono che proiezioni naturalistiche di tale identità immortale. L‟idealismo greco appartiene a questa fase del pensiero umano, a questo orizzonte di coscienza naturalistico. Esso infatti concepisce l‟Idea come un ente di natura dotato di qualità divine: immortalità, perfezione, unità, etc. Entro l‟orizzonte identitario idealistico il valore di ogni ente è la sua appartenenza all‟Unità dell‟Essere che tutti li comprende e che costituisce il valore massimo. Tutto ciò che è riportabile all‟unità essenziale ha valore, il resto è negativo, non-essere. Col Cristianesimo nasce la frattura della coscienza umana dalla natura attraverso il suo trascendimento. Non si tratta più di pensare l‟ente come essere divino, ma di pensare il divino come Altro dall‟Essere naturale, e quindi dallo stesso uomo in quanto essere inscritto nella necessità della natura. Non più la forza divina come super-umana, ma come altra rispetto all‟umano. E poiché l‟esistenza naturale, compresa quella umana, è carattrizzata dalla lotta per la sopravvivenza, cioè dal polemos, la forza divina altra da quella naturale non è ciò che soverchia l‟altro ma ciò che l‟include senza annientarlo come Altro, ossia lo ama nel suo essere Altro da sé. La divinità intesa come alterità rappresenta il mondo, non più come forza maggiore, ossia potenza, ma come espressione simbolica
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dell‟eterno, di ciò che è altro dall’essere naturale. Tale pensiero dell‟Altro dall‟essere naturale, se supera l‟idolatria dell‟ente tributario di divinità, divinizza l‟Idea quale simbolo dell‟universalità, unità ed eternità ontologica, non trascendendo del tutto quindi dalla concezione della dvinità come suprema potenza. Il Dio dei filosofi è un‟Idea di Dio, un simbolo dell‟Uno eterno. La conseguenza dell‟assunzione del punto di vista simbolico quale criterio di giudizio delle azioni umane è di assegnare ad esse un valore assoluto e dunque autonomo dalla complessiva esperienza esistenziale dell‟autore, che perde ogni realtà di fronte all‟unica considerazione delle sue azioni. Entro questo orizzonte di coscienza, l‟elemento rilevante è il fenomeno, e non il travaglio esistenziale che l‟ha determinato così e non altrimenti, per cui ogni giudizio di valore non è altro che lo stesso valore riconosciuto nel fenomeno che lo rivela, ossia è una tautologia in cui l‟essere degli enti è lo stesso Essere di cui gli enti sono realtà fenomenica. Questa modalità simbolica di concezione della realtà è propria della filosofia, ossia del razionalismo idealistico, che vede nei fenomeni ideali la stessa Idea che li riconosce come tali. Ed è la stessa modalità che, trasferita in ambito reigioso, consente di vedere lo Spirito o Dio stesso in ogni singola creatura umana, con la conseguenza di sacralizzare la persona umana negandole ogni concretezza esistenziale, abolendo, alla stregua idealistica, la differenza tra la dimensione divina e la dimensione creaturale. Orbene, l‟estensione in senso universale di questo orizzonte di coscienza idealistico ai fenomeni collettivi è all‟origine teoretica della teologia politica, ossia della considerazione simbolica dei processi storici dei gruppi sociali politicamente organizzati in termini di elementi della dialettica spirituale in lotta reciproca per affermare il Bene contro il Male. Tale universalizzazione idealistica del livello di coscienza simbolica è possibile solo a condizione di rimuovere la differenza ontologica tra il piano di realtà effettuale o storico e il piano di realtà escatologico, unificando e confondendoli in una stessa fenomenologia storicospirituale, originariamente assegnata solo alle singole esperienze esistenziali dell‟uomo quale testimone della fede, e non alle astratte collettività socio-politiche. La rimozione della differenza ontologica consiste nel disconoscimento nella realtà umana di ciò che non appare, ossia del Mistero dell‟esistenza umana, che precede ogni singola azione dell‟uomo e che è all‟orizzonte delle azioni collettive, ossia dei processi storici. Considerando rilevante per il giudizio razionale solo ciò-che-è,
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ossia il fenomeno attuale, l‟agire umano viene reciso da ogni legame con il trascendente e concatenato ai soli avvenimenti empirici, moralmente neutri e perciò giudicabili secondo l‟arbitrio interessato dell‟interprete. Ne consegue che la teologia politica, eliminando la differenza tra il piano della coscienza individuale e quello della realtà fenomenica, rimuove anche la differenza tra la fede in Dio e l‟obbedienza a Cesare, con tutto ciò che ne consegue sulla determinazione dei rapporti umani. A partire dal misconoscimento del proprium della realtà assegnata a Cesare, cioè della dimensione di vita naturale, il “destino” che per Kierkegaard incombe sull‟uomo che per Hobbes era lo status naturae e che Schmitt denomina “il politico” ciò che per gli antichi Greci era il polemos, il conflitto, la possibilità che l‟uomo uccida l‟altro uomo. Da questa consapevolezza nasce la necessità di regolamentare il male, ossia l‟offensività potenziale dell‟uomo, in termini razionalmente accettabili. 518 Da questa normazione nasce il giudizio di “pericolosità” dell‟uomo, che non ha alcun significato immediatamente politico, in quanto non indica una posizione bellicistica, ma solo una determinazione morale, che legittima l‟esistenza dello Stato. 519 Ma il giudizio morale consiste nel definire come politico quanto non compreso nell‟essere dello Stato quale realtà etica, che dunque dev‟essere presupposta all‟esistenza politica. non in senso temporale, ma in senso appunto morale. E‟ l‟essere morale che definisce l‟essere naturale come dinamica del politico, e quindi il politico come l‟essenza dinamica dell‟essere naturale. Ma se tale essere naturale non viene trasceso da un punto di vista altro da quello dell‟ontologia naturalistica dell‟idealismo classico, il politico rimarrà la condizione insuperabile entro quell‟orizzonte di coscienza. Infatti, la soggettivazione dell‟agire storico come azione individuale, perdendo ogni riferimento istituzionale col trascendente, lo relegava nell‟intimità in-mediata della coscienza, facendo dello Stato una proiezione idealistica di luogo dell‟universale eticità, ossia di una sua rappresentazione mitologica,
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“Schmitt contrassegna come presupposto ultimo della posizione del politico la tesi della pericolosità umana: quanto ferma è la pericolosità umana tanto lo è la necessità del politico”: L. Strauss, Anmerkungen zu C. Schmitt, Der Begriff des Politischen (1932), in G. Duso (a cura), Filosofia politica e pratica del pensiero, Milano, 1988, pag. 324. 519 Ivi, pag. 325.
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spacciata come realismo politico.520 L‟uomo, da essere naturale, lotta per affermare sé contro le forze della natura. Esso è dentro tali forze naturali come una delle tante forze che si ostacolano e si combattono. La natura dunque è il regno della lotta di tutti contro tutti, il luogo del pòlemos. La ragione polemica consiste appunto nel distinguere ciò che avversa l‟uomo da ciò che l‟aiuta a vivere, in quanto addomesticato o innocuo. La distinzione primordiale tra l‟amico e il nemico dell‟uomo è la funzione primaria della ragione strumentale che agisce entro le forze cieche della natura. Il principio distinguente è la luce della ragione umana che diventa cultura, sapere tràdito, tradizione. La tradizione è il modo culturale di rapportarsi alla natura vincendone le forze funzionali all‟esistenza umana. La natura, rispetto alla varietà dei modi culturali di assevirla, è l‟Essere che non muta e che tutto comprende, da cui tutto viene e tutto ritorna. In considerazione della inevitabile morte dell‟uomo, che pure ha vinto momentaneamente la natura, l‟esistenza umana appare tanto preziosa quanto assurda. Preziosa, in quanto asservisce la natura ai suoi scopi pratici; assurda, in quanto soccombe di fronte all‟Essere naturale. L‟inganno leopardiano della madre che si rivela matrigna rappresenta il destino stesso dell‟uomo come essere naturale. Il modo di uscire dalle tenebre dell‟ingannevole esistenza naturale è quello di pensare l‟uomo emancipato dalla necessità delle forze della natura, quale essere spiritualmente libero, non soggetto quindi alla fatalità della morte. Rimuovere l‟ostacolo naturale della morte, significa per l‟uomo acquisire un‟essenza divina. Finquando tale essenza rimane di carattere nominale, essa può essere identificata con ogni essere di natura
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Campioni di tale storiografia idealistica sono la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e la Storia d’Europa nel secolo decimonono di B. Croce, in cui il resoconto drammatizzato degli avvenimenti storici viene trasvalutato in intemporale racconto mitico, dove la coscienza critico-politica dell‟autore fa le veci del giudizio universale del Deus absconditus che aveva lasciato allo storico la responsabilità vicaria di attribuire alla realtà oggettiva il bene (la libertà presente) e il male (la rivoluzione futura). L‟esito di tali rappresentazioni fu la rimozione della realtà del negativo, ossia la incomprensione razionale della rivoluzione industriale e di quella nazionalistica, espressioni di quella culturale dell‟Europa post 1848 che si andava emancipando dalla struttura teologicopolitica che aveva retto le sorti della sua civiltà per un millennio.
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Il modo di uscire dalle tenebre dell‟ingannevole esistenza naturale è quello di pensare l‟uomo emancipato dalla necessità delle forze della natura, quale essere spiritualmente libero, non soggetto quindi alla fatalità della morte. Rimuovere l‟ostacolo naturale della morte, significa per l‟uomo acquisire un‟essenza divina. Finquando tale essenza rimane di carattere nominale, essa può essere identificata con ogni essere di natura, che in virtù di tale identificazione viene divinizzato, sia una cosa, un animale o un essere umano. Gli dèi non sono che proiezioni naturalistiche di tale identità immortale. L‟idealismo greco appartiene a questa fase del pensiero umano, a questo orizzonte di coscienza naturalistico. Esso infatti concepisce l‟Idea come un ente di natura dotato di qualità divine: immortalità, perfezione, unità, etc. Entro l‟orizzonte identitario idealistico il valore di ogni ente è la sua appartenenza all‟Unità dell‟Essere che tutti li comprende e che costituisce il valore massimo. Tutto ciò che è riportabile all‟unità essenziale ha valore, il resto è negativo, non-essere. Col Cristianesimo nasce la frattura della coscienza umana dalla natura attraverso il suo trascendimento. Il miracolo dell‟Incarnazione dell‟Eterno (Dio) nel tempo (umanità), stabilendo una conciliazione tra l‟Essere divino e la realtà finita attraverso la mediazione del Cristo, ne afferma al contempo la insuperabile differenza ontologica, confutando il principio di identità e non contraddizione che è a fondamento della metafisica naturalistica greca, ripresa in età moderna da Spinoza. L‟identità di Essere ed ente, che il naturalismo poneva come principio razionale di realtà, viene assunto dal pensiero cristiano come evento eccezionale e miracoloso, punto universale. Non si tratta più di pensare l‟Essere dell‟ente come divino, ma di pensare il divino come Altro (l‟Eterno) dall‟Essere naturale (temporale), e quindi dallo stesso uomo in quanto essere inscritto nella necessità della natura. Non più la forza divina come super-umana, ma come altra rispetto all‟umano. E poiché l‟esistenza naturale, compresa quella umana, è carattrizzata dalla lotta (polemos) per l‟affermazione dell‟identità ontologica e la negazione della contraddizione dualistica, cioè della differenza ontologica, la forza divina altra da quella naturale non è ciò che soverchia l‟altro omologandolo al sé, ma ciò che l‟include comprendendolo senza annientarlo come Altro, ossia lo ama nel suo essere Altro da sé. La divinità intesa come alterità rappresenta il mondo non più come forza maggiore, ossia potenza, ma come espressione simbolica dell‟Eterno, di ciò che è Altro dall‟essere naturale. Tale pensiero dell‟alterità, se supera l‟idolatria dell‟ente
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tributario di divinità, e quindi confuta il politeismo antico, adottando però il principio identitario della logica naturalistica, finisce per divinizzare l‟Idea quale forma dell‟universalità e unità ontologica, non liberandosi del tutto quindi dalla concezione pagana della divinità come suprema potenza (dynamis). Il Dio dei filosofi è un‟Idea di Dio, un‟immagine dell‟Unità razionale del Molteplice, ma non è il Dio trascendente del dogma trinitario. E adorare il simulacro ( ) di Dio, è idolatria anch‟essa. La visione naturalistica dell‟uomo è al fondo una concezione bellicistica, che legittima razionalmente la teoria dello Stato come luogo della regolamentazione del politico e il cui limite teoretico è simmetrico a quello della visione spiritualistica che è all‟origine della concezione pacifistica della convivenza umana. Le opposte concezioni hanno in comune l‟astratta universalità delle loro visioni ideali, e la conseguente oggettivazione di un elemento esistenziale dell‟esperienza umana a scapito della negazione dell‟altro, sicché, se lo statalismo riduce tutta l‟esperienza umana a politica, lo spiritualismo conduce all‟anarchia individualistica. Entrambe sono visioni unilaterali, in quanto prive della conoscenza della concreta esistenza umana, che si alimenta della dialettica dei due compresenti elementi, e quindi la loro unilaterale rappresentazione antropologica, pur se “reale”, basandosi su dati di fatto, non è “vera”, anche se, in virtù di quei dati di fatto, non è del tutto falsa. E ciò che è indistntamente vero e falso è il contenuto del Mito, del quale la stessa filosofia greca è una rielaborazione logicamente coerente, ma pur sempre mito-logica, in quanto ha inteso la verità della realtà dell‟uomo nei termini dell‟universalità dell‟Idea, e la concretezza esistenziale in termini di una corrispondenza dell‟esistenza all‟essenza ideale. Questa è la ragione per cui il contrasto tra le due dimensioni ontologiche della coscienza umana è stato inteso razionalisticamente come solo travaglio morale se interiore, mentre se esteriore e fattuale solo come conflitto politico, secondo il principio fallace della “doppia verità”, in sé contraddittorio, in quanto l‟ammesso pluralismo elimina la differenza tra ciò che è vero e ciò che è solo creduto, e quindi il principio di stesso di realtà come identità di essere ed esistenza. Se l‟elemento fattuale viene distinto, in quanto oggettivo, dal principio morale soggettivo, e inteso nel senso della assolutezza universale, il valore politico risulterà comprensivo del conflitto morale di ogni singola coscienza, per cui la forza del suo principio essenziale, il polemos, sarà di
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conseguenza l‟unica legge che governa il cosmo, sia la realtà naturale che il mondo umano. Se, viceversa, è il conflitto morale che viene oggettivato in entità formali, allora ogni lotta politica perde il suo valore fattuale contingente e relativo, e quindi componibile entro una visione comprensiva delle singole istanze partciolari, per assumerne uno assoluto e appunto morale, incomponibile senza apparire ignobile. Politicizzando la morale, la si nega come valore universale, mentre moralizzando la politica, la morale perde il suo valore essenziale di determinare il limite eterno insuperabile dalla forza contingente, facendo di questa una potenza illimitata, sacrilega in quanto a imitazione di quella divina. Soltanto la coscienza della differenza irriducibile del piano morale, interiore ma eterno, dal piano naturale dei contrasti politici legati ai bisogni materiali, può garantire un rapporto di giustizia nella verità che nessuno dei due astratti elementi può da solo assicurare. Infatti, ogni aspetto della vita naturale non può mai comprendere il “giusto” o il “buono”, né tanto meno rappresentarlo se non simbolicamente, cioè per analogia, ma mai sostanzialmente, perché trascendente. E poiché il piano coscienziale appartiene evangelicamente a Dio, esso non è negoziabile né coercibile, come invece è sempre il piano relativo dei rapporti umani, il cui conflitto è perciò sempre sanabile con la buona volontà. Ogni identificazione del valore eterno con la cosa che idealmente la simboleggia sarebbe pertanto idolatria quanto la venerazione di un uomo come Dio, scambiando Cristo con un Imperatore. La negazione razionalistica del fondamento fideistico, così come la kenosis del Padre nella figura razionalizzata del Figlio e nella conseguente cristologia storicistica, provocano una surrettizia riabilitazione del Mito, il quale “tende a sostituirsi alla persona trascendente, esaurendola in sé e impossessandosi della sua autorità fondativa”, non limitandosi “a riprodurla” ma assumendosene “i poteri”.521 Ciò comporta che la tensione dialettica non è più tra alterità interne a una stessa matrice ontologica, ma tra diversità uni-versalizzate e concepite come espressione reale di una intrinseca dialettica la cui polarità negativa è il Nulla, rispetto al quale ogni astratta determinazione positiva viene radicalizzata dalla sua stessa assolutezza. Si apre in questo modo lo spazio dialettico del politico, che sin dalle origini greche si
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Epimeteo, Finis Europae, Napoli, 2007, pag. 230.
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determina come confine antropologico in lotta con il negativo trascendente la propria mondana positività. “Al tempo storico senza Dio” della moderna società secolarizzata, la rappresentazione negativa dell‟Altro assume la fisionomia estremistica del nemico ideologico, il negativo assoluto inconvertibile alla propria causa positiva, mentre “il trascendente”, reinterpretato in chiave di immanente processualità infinita, “non funge più da elemento costitutivo, ma da forza motrice dell‟agire mitico”,522 sicché “la teologia priva della mediazione politica si rovescia in mito, la politica senza un referente teologico genera guerra civile”.523 Il moderno processo di civilizzazione non è altro che la traduzione sociologico-istituzionale del movimento di razionalizzazione anti-dogmatica dei fondamenti teologici della cultura europea e la loro parallela sostituzione con nuovi statuti mitico-politici. Compromesso “l‟ancoraggio trascendente, […] le istituzioni si consolidavano nel loro meccanismo di autotutela quali gabbie razionalizzate, così come i valori decadevano da ogni loro pretesa metafisica. Lo spazio europeo, sempre rimasto intimamente estraneo al concetto di mondo, mostrava esaurita la propria forza istitutiva teologico politica”.524 Da quanto affermato, ne consegue che l‟immagine dell‟Altro che è in noi è una ipostatizzazione di uno degli elementi costitutivi della coscienza umana, che si mostra “amicus” nell‟atto della conciliazione di sé col mondo esterno, e viceversa “hostis” nel caso del conflitto della contraddizione. L‟amicizia, pertanto, è l‟appartenenza organica alla dimensione naturale, entro la quale il conflitto è condizione spontanea e innocente, perché inscritta nell‟ordine della necessità della sopravvivenza. In tal senso, l‟inimicizia è il rapporto conflittuale con l‟Altro, estraneo all‟ordine spontaneo del gruppo biologico, che insidia il proprio status naturae. L‟articolazione della dialettica politica sorge all‟interno del gruppo umano, in cui la divisione tra sottogruppi insorge come possibilità di una diversa destinazione razionale della vita sociale, e dunque all‟interno di una realtà emancipata dal destino naturale. In tal senso, il destino del conflitto politico è tanto poco naturale quanto esso sia razionale. Di contro, esso è proprio della condizione della possibilità,
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Ivi, pag. 231. Ivi, pag. 235. 524 Ivi, pag. 233. 523
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e dunque della libertà umana, e quando Schmitt considera quella del politico come la condizione conflittuale “naturale” dell‟uomo, in contrapposizione a quella “civile” hobbesiana della pacificazione, in realtà la situa in un ambito in cui la natura umana è già cultura, in quanto interna alla possibilità che manca alla condizione di necessità propria dello stato naturale. Posta la condizione umana come intrinsecamente conflittuale, il “giusto” (aequus) è il contemperamento delle due tendenze attraverso il reciproco riconoscimento, mentre l‟ “ingiusto” (iniquus) è l‟indebita prevaricazione dell‟uno sull‟altro, che crea “disordine” ( ), contro il quale deve intervenire un provvidenziale “potere frenante” (), che stabilisce il Governo morale sull‟operare dell‟uomo. La proiezione sociale di tale Governo morale è l‟ordinamento ecclesiale, che affianca il Potere dello Stato nella regolamentazione del conflitto tra i gruppi politicamente concorrenti. Lo “hostis” in senso schmittiano “non è il concorrente o l‟avversario in generale [ma] è solo il nemico pubblico”,525 cioè riconosciuto come l‟Altro dalla comunità morale, che lo qualifica come “colui che esprime la negazione del modo di esistere di un altro”.526 E la esprime nel modo politico, ossia relativo alla determinazione razionale dell‟affermazione-negazione, secondo quindi una idea di socialità, che non va confusa con il valore morale. La modalità di esistenza dell‟uomo storico può essere cambiata, essendo qualità del suo divenire temporale, per cui la “negazione” modale è l‟oggetto della politica. Ciò che invece non può essere cambiato, e perciò non è oggetto di contesa, è l‟essere dell‟ “altro” come persona spirituale e creatura divina. Questo riconoscimento implica la trascendenza dell‟Essere spirituale, non confondibile con l‟idea naturalistica di unità del molteplice, quale la sostanza di Spinoza. Infatti, la compresenza di natura ( ) e spirito () non annulla la loro differenza, che è la differenza tra Dio e l‟uomo, ma implica la mediazione del Cristo, che, quale Persona divina, è fondamento della persona umana. Ed è la mediazione di Cristo a impedire il rapporto diretto di Dio con l‟uomo, ossia la loro confusione idealistica, che a nnullando la separazione tra Creatore e creatura porterebbe una
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C. Schmitt, Glossarium (1991), tr. it., Milano, 2001, pag. 111. M. Nicoletti, Sul concetto di “Teologia politica” in Carl Schmitt, in Il dio mortale cit., pag. 340. 526
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cristologia monofisita e alla conseguente divinizzazione razionalistica dell‟uomo (homo homini Deus). L‟unità di Dio, pensata come Idea naturalistica, è potenza infinita che si riflette nell‟ordine necessario del cosmo razionale come necessità della realtà sostanziale totale, in cui, come in Spinoza, “realtà e perfezione si sovrappongono”. “Sostanza significa allora il complesso delle leggi e delle relazioni necessarie dei modi che seguono all‟unità”, così come “all‟identità ella sostanza fa riscontro un cosmo composito, in cui ogni soggettività appare modalità necessaria della potenza della sostanza”, con Dio che “non si colloca al di sopra delle leggi, ma si manifesta quale ordine geometrico naturale”,527 immutabile ed eterno. Il superamento della mediazione cristica rimuove lo spazio dogmatico teologico-politico continentale, entro il quali si erano riuniti in una stessa persona giuridico-religiosa la dignità morale e la sovranità politica, dando l‟abbrivio a una plurivoca rappresentazione mitopoietica spacciata per Rationalisierung mondialistica della Zivilisation occidentale in versione marittima. La conseguenza politica di tale organicismo della totalità sostanziale o umanità è l‟impossibilità moralistica di pensare il rapporto con l‟Altro in termini di libera relazione di possibilità, ma sempre in termini di necessità quale prodotto della catena di causalità, per cui, radicalizzando l‟istanza monistica del tutto spersonalizzata, “l‟alternativa tra struttura dogmatica istituzionale e ratio di una sostanza metafisica, tra teologia politica e sistema sociale si esprimerà infine nell‟alterità Europa o democrazia”, 528 con l‟inversione della fonte della potestas da Dio al popolo, dal diritto divino al diritto della società. Nella prospettiva sociale, la legge naturale è l‟impulso utilitaristico a confermare la potenza del sistema sostanziale attraverso la tutela del proprio interesse, cioè del proprio potere. “E‟ la stessa tendenza umana all‟utile che sovrappone aspettativa del singolo e legge civile”, ossia “governo della moltitudine” (democratic government), che costituisce un terminus ad quem, “quale effetto dell‟adattamento reciproco delle singole volontà a un potere unico e condiviso”, anziché un dato originario a quo. Infatti, “l‟esistenza precede il cogito, come la libertà la ratio, e la democrazia si esprime quale libertà ed eguaglianza
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Epimeteo, Finis Europae, cit., pagg. 291 e 292. Ivi, pagg. 294 e 296.
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ridefinite metafisicamente”.529 La democrazia, quale governo “il più naturale e il più conforme” alla attività della sostanza, e quindi alla “libertà” di ognuno, non può ammettere alternative al suo sistema, per cui lo Stato, secondo Spinoza, “con qualunque mezzo a sua disposizione, può di diritto costringerlo o all‟ubbidienza o all‟alleanza”,530 sicché la determinazione del “nemico” non è interna allo jus publicum ma esterno alla ratio dello jus societatis, in una prospettiva assolutistica di esclusione/inclusione dell‟Altro ove l‟alternativa alla guerra, al pari del suo risultato, è la integrazione impolitica nella struttura ontologico-sostanziale del sistema democratico, poiché “non esistono alternative alla necessità causale del mondo”, intesa come la stessa “potenza infinita di Dio”, rispetto al quale “ogni comportamento conflittuale, ancor prima che irrazionale, appare inefficace, in quanto per il soggetto ogni possibilità di modificazione di una tale struttura si dimostra già preclusa ab imo”.531 Alla “unicità metafisica” del cosmo democratico totalitario niente resta esterno ma “tutto si tiene, da Dio all‟uomo, dalle leggi naturali al potere civile”. Il regno della libertà democratica è segnato dalla fine dello Stato politico e l‟approdo a “un assolutismo senza sovranità, nella forma di monismo sociale”,532 “dotato di una potenza ordinaria, cui non necessita più alcuna decisione straordinaria”, essendo il mondo che ha condotto a compimento la “oggettivizzazione sociale”, ossia “la radicalizzazione del monismo” idealistico, che, “tramite un rigorismo etico e logico, si rivela una forza inesauribile di razionalizzazione della società”. 533 La ratio non è determinazione ed esplicazione della revelatio quale criterio ordinativo del mondo, ma ne prende il posto, per cui, a prescindere dalla rappresentazione concreta della trascendenza nell‟Incarnazione, “Dio regna grazie a chi governa e il Regno di Dio è quello in cui giustizia e carità hanno vigore di legge e decreto”. 534 Diversa da quella messianica è
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Ivi, pag. 301. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, XVI, 197, 9; cit. da Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 302. 531 Ivi, pag. 304. 532 Ivi, pag. 303. 530
533 534
Ivi, pag. 304. Ivi, pag. 306.
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la prospettiva cristiana della “responsabilità” dell‟uomo, non in quanto soggetto empirico ma quale rappresentazione visibile del trascendente, di fronte al mondo. Infatti, la “Rapraesentatio in absentia contemplava la verità dell‟Incarnazione” rendendola “sempre presente” nella “persona” umana quale imago Dei. Ciò comporta che la rappresentazione istituzionale non è desumibile da né definiscibile entro un rapporto puramente formale inerente alla titolarità di diritti in capo a una “persona”, in quanto questa non è un mero soggetto di diritti ma “Traeger di una rappresentazione dall‟alto”, intesa come “visibilità del divino” e dunque come “mediazione tra autorità divina e potestà del mondo“. La “Persona” di Cristo, rappresentando la trascendenza di Dio, diventa rappresentante della stessa Sua autorità (auctoritas), e quindi la fonte di legittimità di ogni Potere mondano (potestas). Da qui l‟inconsutile rapporto tra Cristo e il Suo corpo mistico, la Chiesa, la quale costituisce lo spazio istituzionale del charisma veritatis nel mondo sotto forma di ordinamento giuridico, e dunque per Schmitt “l‟archetipo dell‟unità politica”.535 Ma da qui anche la insuperabile differenza tra l‟Autorità, intesa come “rappresentazione trascendente nel mondo”, 536 espletata dal Governo, e l‟esercizio della forza sociale da parte del Potere politico dello Stato, senza la quale differenza veniva a compiersi il trionfo della malefica risoluzione unitaria di regnum e di sacerdotium in una supposta societas perfecta, in cui “nella reductio ad unum di regno e sacerdozio, si poteva scorgere il compimento escatologico, ossia l‟unità del mondo quale avvento dell‟Anticristo”.537 L‟antitesi al fondamento cristologico si manifesta, coerentemente al presupposto rappresentativo di natura politica, come suo speculare rovesciamento della potestas, la quale non trova più la sua origine in Dio, ossia nell‟autorità trascendente, ma nel popolo, cioè nel collettivo sociale, la impersonale società, la cui opinione pubblica legittima la sovranità di un Potere senza auctoritas fidei, che si costituisce come una pura forma giuridica (potere coercitivo) senza fondamento di verità (relativismo positivo). Col ristabilimento della dòxa quale fonte di legittimazione del
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Ivi, pagg. 311-312. Ivi, pag. 317. 537 Ivi, pag. 319. 536
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Potere, si riabilitano tutte quelle forme di comunicazione retoriche che la logica filosofica aveva confutato contestandone il fondamento mitico e non scientifico, ossia il loro carattere non universale. Con la rinascita di una mitopoiesi nell‟ambito della vita pubblica, e dunque del contesto politico, il pensiero filosofico, privato del suo fondamento di verità teologico, è tornato ad essere, al pari della fede in quel fondamento, ciò che era in origine, ossia un esercizio di virtù privata, senza alcuna rilevanza pubblica, la quale era stata acquisita alla filosofia attraverso la sua connessione funzionale alla fede cristiana quale “discorso su Dio”. La crisi del fondamento cristologico del sapere si manifesta anche come crisi del discorso sulla fede. Il sapere filosofico, illudendosi di acquisire uno statuto epistemologico autonomo da quello garantito dalla fede cristiana, viene a perdere con l‟antico nesso cristologico ogni rilevanza pubblica, legata alla struttura teologico-politica della rappresentazione nello spazio cristiano. L‟ordine teologico del mondo cristianizzato ha costituito non solo la premessa dogmatica del suo governo politico, consentendone il mantenimento dell‟Ordnung istituzionale giuridicamente stabilito, ma anche il fondamento della sua elaborazione esegetica con gli strumenti teoretici della filosofia. La dissoluzione di quell‟ordine ha comportato anche il venir meno della rilevanza pubblica del fondamentale oggetto filosofico, la Persona divina, e con essa anche dell‟elemento divino presente nell‟uomo, pensato in termini universali. L‟elemento trascendente della persona singolare, che l‟emancipa dalla empirica individualità naturale, è la sua appartenenza al corpus mistycum Christi, coincidente storicamente con la sua rappresentazione istituzionale. Su questa coincidenza si fonda la teologia politica della Cristianità europea erede dell‟Imperium romano, il cui campione è Eusebio, “posto da Peterson nel punto visibile in lontananza di una falsa teologia politica”, 538 e non Agostino, fautore invece della irreducibilità della civitas Dei all‟Ordnung politico. In ogni caso, il pensiero teo-logico della essenza trascendente della persona, divina e umana, è stato elaborato per mezzo della filosofia, la quale pertanto ha funto nell‟ambito della cristianità da logos pubblico, da linguaggio della mediazione ( ) istituzionale. In questo senso, la “decisione” politica interna allo spazio teologico-politico cristiano ha rivestito anche il carattere del giudizio filosofico, e in questa
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C. Schmitt, Politische Theologie II, tr. it. cit., pag. 15.
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strutturale connessione va intesa la dialettica istituzionale tra Chiesa e Stato, parallela a quella teoretica tra fede e ragione. La teologia politica, pertanto, prima di una “decisione sul mondo” all‟interno della “questione del nemico”,539.] è una decisione sull‟essere del mondo, interna alla questione metafisica, ossia alla struttura ontologica dell‟Essere. La logica dialettica, fondata sul principio di identità e non contraddizione, pensava l‟Essere come Natura, e non come l‟Essere di Dio, la cui natura trinitaria mal si conciliava con la tecnica binaria dell‟opposizione dialettica, che pure è stata utilizzata dalla teo-logia e dalla conseguente ratio politica quale theologia civilis. E‟ chiaro a questo punto che Peterson e Schmitt si riferissero a orizzonti teologici diversi; Schmitt a quello pre-moderno antecedente alla frattura della Riforma, di retaggio romano-alessandrino, mentre Peterson si riferiva alla tradizione post-tridentina, segnata, sia pure polemicamente, dalle correnti protestanti, che trovavano in Paolo (Lutero) e in Agostino (Calvino), e non in Eusebio e in Tommaso, i loro comuni auctores. Il senso spirituale e religioso della Riforma era stato per l‟appunto la “liquidazione” della teologia politica come chiave di lettura esegetica del Nuovo Testamento. Rispetto alla posizione post-moderna di Peterson, quella di Schmitt appare ancora interna alla frattura del moderno, alla crisi del sincretismo scolastico, che l‟inerzia istituzionale stava consumando sino alle estreme conclusioni pratiche della finis Europae. Il dramma storico della Chiesa cattolica, che si rifletteva nel dramma intellettuale di Schmitt, consisteva nella rimozione logica della Riforma, considerata fenomeno ereticale e politico rispetto all‟universo totalistico della teo-logia romana, e come tale da negare anziché comprendere, alla stregua di ogni opposizione logica. L‟in-comprensione di Schmitt del senso anti-logico della Riforma si determina come catastrofismo apocalittico e radicalismo ideologico del tutto privo di evangelica speranza, incapace perciò di superare la crisi del cristianesimo europeo interpretandola alla luce della sua responsabile incongruenza teologico-politica, consistente nella credenza nella insuperabilità dell‟eone politico, e quindi nella problematica fede cristologica nella intrascendibilità dell‟orizzonte del politico, foriera della moralizzazione delle posizioni politiche, ognuna delle quali si pone contro ogni altra come rappresentante della totalità. Nelle parole di Schmitt, “ogni potere è
539
Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 319.
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trascendente, il trascendente è il potere”. 540 Conseguenza di tale posizione è l‟identificazione teo-logica della verità con l‟Uno della metafisica idealistica, e il conseguente pensiero della rappresentanza come forma istituzionale, la cui autorità carismatica è legata al monopolio esegetico della verità. Il carattere politico della autorità della Chiesa è dovuto alla necessità di prevedere, ai fini della propria sussistenza carismatica, un antagonista dialettico interno al proprio orizzonte di coscienza, depositario della potestas politica verso la quale è possibile definire l‟auctoritas ecclesiale come istanza trascendente. Ma proprio tale necessità di dialettizzare il carisma sacerdotale con il potere mondano fa sì che “il cristianesimo della Chiesa cattolica appaia costitutivamente e indissolubilmente politico”, e tale che “disarticolare un aspetto dall‟altro significa ridurre la teologia a una corrente di pensiero tra le altre e subordinare la politica a una prassi amministrativa del mondo”, confondendo una tradizionale Weltanschauung di una istituzione storica ormai giunta al suo redde rationem con “la rottura nell‟unità trinitario del divino”, e la stessa “neutralizzazione del trascendente”541 operata dalla teologia politica come la conseguenza passiva del venir meno del suo , detentore monopolistico del trascendente, anziché come la sua origine attiva, suppostamente katechontica, giungendo surrettiziamente a smentire per supponenza umana, assieme al significato religioso della Riforma, lo stesso provvidenziale piano divino che l‟aveva ammessa, interpretando il moderno come l‟Ausnahme anziché l‟esito apocalittico coerente della destrutturazione dell‟ordo cattolico come Erledigung del cosmo cristiano. Da un lato l‟identità del Padre col Figlio, e dall‟altra la decisiva emancipazione cristologica dalla tradizione ebraica paterna hanno incubato una intrinseca contraddizione strutturale della teologia che, contenuta all‟interno dell‟ortodossia, è esplosa prima con la Riforma come conflitto teologico tra confessioni cristiane, proiettandosi quindi come dramma politico tra gruppi cristiani, la cui posta in gioco era la de-finizione dell‟, nella oggettivazione istituzionale cattolica, ovvero la sua libera e astorica soggettivazione in interiore. La posizione istituzionalistica di Schmitt, “nel tentativo di riagguantare la cristologia dentro l‟unità politica
540 541
C. Schmitt, Glossarium, cit. da Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 324. Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 321.
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ordinamentale del trinitarismo”,542 riflette l‟istanza unitaria dell‟ordine politico attraverso una visione stasiologia della trinità, giustapponendo e risolvendo le dinamiche pneumatiche in termini di conflittualità logicopolitica. Questa operazione assumeva implicitamente il fondamento trascendente all‟interno della cristologia cattolica, istituzionalizzando, per così dire, il motivo escatologico nell‟ambito della storia della Chiesa, oggettivando nella forma istituzionale il processo di salvezza spirituale agostinianamente previsto in interiore homine, concependo quindi la Chiesa stessa come Storia, cioè come “escatologia realizzata”. All‟interno di questo orizzonte storico immanentistico, in cui la trascendenza dell‟ordinamento positivo era identificata razionalisticamente con l‟idealità formale della istituzione storica sacralizzata, col , ogni posizione metafisica veniva interpretata in termini polemici e ogni articolazione teoretica tradotta in posizione politica. In questo senso, “Schmitt, pur aprendosi al problema dell‟origine della forma, resta condizionato dal pensiero della forma, che è al suo culmine problema dell‟unità, e perciò dal pensiero dello Stato […] Perciò si ha la centralità nel suo pensiero dell‟elemento istituzionale per quanto riguarda lo Stato così come la Chiesa”.543 Il razionalismo di tale posizione schmittiana è confermata dall‟esito contraddittorio della sua iniziale posizione, che volendo disgiungere l‟essenza del politico dalla sua moderna forma statuale finisce per congiungerlo alla archetipipa forma ecclesiale, sovrapponendo la questione teologica del monopolio esegetico a quella della “legittimità”, cioè del monopolio della forza. Il limite teoretico di una tale impostazione idealistica è l‟incidenza convergente del teorico sul pratico come sforzo di adeguamento del concreto molteplice all‟unità ideale della “verità”, che, eliminando ogni spazio di movimento interno alla processualità fenomenica proria alla sfera pratica, impedisce il trascendimento della legalità dogmatica riducendo la libertà della prassi nei termini della esecutività di un sapere ridotto a tecnica o a scienza avalutativa. La inibizione della libertà della sfera pratica, dal punto di vista esistenziale delle singole persone
542
Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 326.
543
G. Duso, Filosofia pratica o pratica della filosofia? La ripresa della filosofia pratica ed Eric Voegelin, in Filosofia politica e pratica del pensiero, cit., pag. 177.
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costitutive dell‟unità statuale, implica la pulsione legalistica della loro astratta risoluzione rappresentativa entro lo schema formale dell‟ordinamento istituzionale dello Stato, venendo così a perdere il carattere di singolare totalità comprensiva dell‟essenza spirituale destinata a Dio e non a Cesare, e quindi a una rappresentazione impolitica trascendente la relazione comando-ubbidienza. La rappresentazione politica, infatti, immanentizzando la trascendenza, “la perde”. 544 La considerazione o meno della libertà spirituale nei rapporti sociali, e la conseguente distinzione dei rapporti esistenziali dai rapporti propriamente politici, stabilisce il discrimine tra il Potere (Herschaft) politico, basato sui rapporti di forza (Macht), e il Governo spirituale (Regierun), fondato su ruoli carismatici. Questa differenza apre un vulnus in ogni teoria democratica, in quanto determina la possibilità di una rappresentanza elettorale nei soli termini di un mandato privatistico, sia pure di rilevanza pubblica, degli interessi di gruppi sociali in reciproca competizione e riconoscimento, mentre una autentica rappresentazione dei valori trascendenti sotto forma di interessi comuni richiede una titolarità carismatica del tutto svincolata dalla rappresentanza degli interessi particolari, e legata al solo vincolo del riconoscimento pubblico. Ma la pubblicità del vincolo carismatico è molto diversa dalla sua accezione di senso politico. Mentre infatti il riconoscimento dell‟auctoritas carismatica è in funzione della sua rappresentazione del comune valore trascendente il Potere politico, l‟istanza di legittimità che essa avanza nei confronti della potestas inerisce al riconoscimento di una sua limitazione, ossia di una sua determinazione formale, una sua legalizzazione. Se, dunque, il ruolo carismatico immanentizzato in una forma istituzionalmente prescrittiva perderrebbe la qualità trascendente della sua rappresentazione, viceversa la funzione potestativa non istituzionalizzata perderebbe la sua efficacia politica. E come il Potere trova la sua legittimazione temporale nel rapporto verso il Governo che lo limita, determinandolo entro la sua sfera istituzionale, parimenti l‟esercizio della sua potestà ha il suo momento di inveramento nella relazione col suo fondamento () veritativo trascendente, con “l‟origine dell‟essere”. La dialettica tra Potere istituzionale e Governo carismatico, ovvero la “tensione tra l‟ordine reale della società e l‟ordine della coscienza”,
544
G. Duso, Loc. cit., pag. 183.
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inibisce l‟implementazione di un costrutto teorico in un ordinamento socio-politico perfetto che ne sia il riflesso ideale, che sarebbe possibile solo a condizione di una “immanentizzazione del fondamento emerso nella coscienza”, ossia a condizione della rimozione/misconoscimento della differenza tra “l‟apparato concettuale prodotto dalla società per il suo funzionamento”, cioè la sua struttura giuridico-istituzionale, e la “rappresentazione noetica di una realtà esistente” in immagini simboliche indicanti “l‟esperienza della coscienza”, 545 quale era il filosofare in senso greco, inteso appunto come “esperienza del trascendente” e non una mera concettualizzazione formale del Bene ( ).546 A partire da questa premessa teoretica, Voegelin critica la dottrina costituzionalistica di Schmitt, per il quale costituzione non deve significare né la concreta esistenza politica di un popolo né una particolare forma di esistenza politica, e neppure una forma fondamentale o una legge fondamentale che costituisca lo Stato come un‟unità giuridica [e] neppure qualche speciale legge costituzionale. Si tratta invece della decisione totale con cui la totalità di un‟unità politica determina 547 la propria particolare forma di esistenza .
Per Voegelin, “la trasposizione del principio della purezza metodologica nel campo della scienza umana è inattuabile”, in quanto “l‟ambito di indagine” scientifica presenta degli “elementi costitutivi particolari” che impediscono alla ricerca di compiersi “solo in base ai suoi propri princìpi”, ma deve costituirsi nel senso di una “imitazione del modello”.548 Da qui la colleganza con la “teoria della decisione totale” di Schmitt, il quale nega la derivabilità delle norme costituzionali “da una norma contenutistica superiore”, dipendendo il suo contenuto “dalla situazione politica e sociale presente al momento della loro nascita”. 549 Tale assunto, nondimeno, per quanto “liberi la sfera normativa dal suo
545
G. Duso, Loc. cit., pagg. 186-187. Ved. E. Voegelin, Plato (1966), cit. da G. Duso, Loc. cit., pag. 190. 547 [E. Voegelin, Die Verfassunglehre von Carl Schmitt. Versuch einer konstruktiven Analyse ihrer staatstheorischen Prinzipien (1931), tr. it. di G. Zanetti in Filosofia politica e pratica del pensiero, cit., pag. 292. 548 Ivi, pag. 293. 549 Ivi, pag. 294. 546
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inopportuno isolamento metodologico” in cui l‟aveva confinato la dottrina pura del diritto kelseniana, riconducendola invece “al fondamento dell‟esistenza politica dove questa empiricamente si trova”, introduce un elemento di conoscenza trascendentale “come principio originario dell‟unità del diritto”, il “concetto di dovere”, che “tronca radicalmente ogni questione sul fondamento esistenziale delle norme”, in quanto rileva la validità del diritto “in virtù dei postulati conoscitivi”. 550 Il fondamento oggettivo di validità è per Schmitt la “volontà”, la quale “indica una entità esistente in quanto origine di un dovere” e la cui “potestas o autorità consiste nel suo essere”.551 L‟essere politico unitario di un popolo è lo Stato, nella cui esistenza fattuale risiede la sua stessa legittimità, sicché per Schmitt “una costituzione è legittima, cioè riconosciuta non solo come situazione di fatto, ma anche come ordinamento giuridico, quando è riconosciuta la forza e l‟autorità del potere costituente, sulla cui decisione essa si basa”. 552 La legittimità è valore etico, inerente alla convinzione sulla necessità dell‟imperatività dei contenuti giuridici, mentre la vigenza, ossia l‟essere del potere, è una condizione fattuale, la cui unità strutturale non è data dall‟esistenza dello Stato, in quanto “un‟unità dello Stato si dà solo nella sintesi della scienza politica” come “concetto tipologico”. 553 Per la costituzione delle varie forme di Stato, secondo Schmitt “agiscono due principi formali: il principio di identità e quello di rappresentanza”, che consentono congiuntamente al “popolo” di pervenire ad unità politica.554 L‟obiezione che Voegelin muove alla dottrina schmittiana è di trascurare “per principio” l‟elemento personale dell‟attività politica, che non può mai involgere “l‟intera esistenza” dell‟uomo, per cui è “un‟illusione credere che attraverso determinate forme d‟atto […] si giunga più vicino [che attraverso altre] all‟esistenza in quanto tale”, la quale va distinta, per il suo carattere trascendente, dalla specifica esistenza politica.555 L‟unità trascendente di un popolo, che “comprende
550 551
Ivi, pag. 295. C. Schmitt, Verfassunglehre (1928), cit. in Ivi, pag. 296.
552
Cit. in Ivi, pag. 299. E. Voegelin, Loc. cit., pag. 301. 554 Ivi, pag. 303. 555 Ivi, pag. 305. 553
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tutte le persone”, non può identificarsi con l‟empirica unità politica, poiché se ogni persona, avendo un suo status politico, “rappreseta l‟unità politica”, nessuna di esse né “tutti i singoli presi insieme sono l‟unità politica”.556 Ora, chi “rappresenta e concretizza il principio spirituale dell‟esistenza politica” per Schmitt è “solo chi governa”, la cui funzione lo distingue da un mero “mandatario” o da un “aggressore” esterno. 557 Si giunge così al cuore concettuale della dottrina schmittiana, il concetto di rappresentanza. “Rappresentare – egli sostiene – significa rendere visibile e illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente pubblicamente. La dialettica del concetto consiste nel fatto che l‟invisibile è presupposto come assente ed è al tempo stesso reso presente”. La natura della rappresentanza politica è l‟esistenza dell‟unità politica di un popolo, distinta dalla mera “esistenza naturale di un qualsiasi gruppo di uomini che vivono insieme”. 558 Tale differenza viene individuata da Schmitt nel comune riconoscimento dei membri del popolo dell‟esistenza della loro unità ideale, lo Stato. Nella democrazia, questa unità ideale del popolo non è incarnata da un uomo solo, quale “immagine” dello Stato, come è il re monarchico. “Il sovrano democratico è – anche quando sia caratterizzato da una differenza qualitativa enorme – solo uno del popolo, un individuo qualsiasi che è al potere” solo perché gode della fiducia popolare. Al popolo appartengono “i non privilegiati” per posizione economica o sociale o educativa, quale la borghesia prima della Rivoluzione francese e il proletariato nello Stato borghese, e dunque il suo complessivo valore è una Negatività, la mancanza di una immagine formale,559 legata al presupposto della “uguaglianza sostanziale” dei membri dello Stato. Questa uguaglianza ha un carattere immanentistico, in quanto ogni attività politica resta interna all‟omogeneità sostanziale dell‟unità statuale. Quindi se l‟identità coincide con “l‟effettività dell‟uità politica del popolo”, al di là di ogni differenza qualitativa, l‟uguaglianza sostanziale non è che la stessa omogeneità democratica del popolo, ossia col suo “amorfismo”, che ne 556 557 558 559
Ivi, pag. 304. Ivi, pag. 305. Cit. in Ivi, pag. 306. Ivi, pag. 309.
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indica la “genesi liberale, distruttrice della forma”, anche se la realizzazione della democrazia si fonda sulla “illibertà”, intesa come “esclusione e repressione radicale dei non uniformi”.560 Orbene, questa stessa posizione politica, in quanto inerisce alla volontà del Potere, e non implica la condizione fattuale, razionalizzata in immagine idealtipica di Stato, costituisce quella unità simbolica assente formalmente dallo Stato, sostituendo alla negazione liberale del politico la posizione ideo-logica. Questa posizione del negativo come realtà positiva rappresenta ideologicamente l‟idea assente nella concreta esistenza storica dello Stato, i cui atti vengono trasvalutati dal loro significato simbolico che è meta-politico. L‟elemento ultroneo legato a tale rappresentazione simbolica, di carattere meta-politico, non interesse la precipua dinamica oppositiva del politico, ossia i contenuti dei concreti rapporti di forza sociali, ma investe quell‟area valoriale trascendente a sua volta non oggettivabile che riduttivamente, ossia simbolicamente, negli atti politici, la quale è la fonte significativa di quegli atti. Questo orizzonte di valore in-esistente e solo rappresentabile per atto di fede degli attri politici che lo adottano come orizzonte di senso simbolicamente significativo, è quello del Mito, la fonte archetipa di ogni valore simbolico. Proprio nel contesto della realtà democratica avviene l‟immanentizzazione del trascendente attraverso l‟identità di governati e governanti che elimina la necessità della rappresentanza dei primi da parte dei secondi, e con essa, a seguito della sistematica determinazione universale valevole per ogni atto politicamente significativo, elimina anche il carattere eccezionale dalla decisione politica, ossia la dialettica stessa del principio politico. L‟atto politico, privato così della sua originaria opposizione, si risolve in funzione amministrativa, in prassi legale, conseguenza della contrattazione privata tra le parti concorrenti, divenute, da nemiche, avversarie. La decisione politica per l‟unità, pertanto, come atto fondativo della costituzione statuale, se considerato dalla prospettiva valoriale, è un atto di fede nella realtà di ciò che è effettualmente in-esistente e solo simbolicamente rappresentabile, mentre, dal punto prospettico della
560
Ivi, pagg. 310-311. Sulla questione della società liberale come “società astratta”, ved. C. Marco, L’ordine pigro, cit., vol. I, cap. III, pagg. 189-196 e vol. II, l‟intero cap. X, pagg. 627-735.
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processualità della vita giuridico-istituzionale, essa, manifestandosi, si determina come volontà di potenza. E poiché ogni atto volitivo è consustanziale a quello di ogni altro interno allo Stato omogeneo democratico, l‟alternativa alla neutralizzazione amministrativa delle prerogative politiche diventa la lotta paritetica di ognuno contro ogni altro e di tutti contro tutti, ossia il ritorno allo stato belluino pre-civile e naturalistico per il suo superamento del quale si era costituita l‟unità politica. per superare questa paradossale eterogenesi dei fini, lo Stato democratico deve ricorrere alla rappresentazione unitaria del politico, ma non più come dinamica nello Stato, le cui componenti sociali sono state qualitativamente (espressione di Schmitt) omogeneizzate, ma come dinamica dello Stato verso altri Stati. In questa rappresentazione surrogatoria dell‟unità dello Stato democratico, l‟identità politica del popolo e la rappresentanza ideale dello Stato convergono nello stesso simbolo oggettivato del Capo carismatico, la cui immagine esistenziale è quella del rappresentante totale, sulla falsariga dell‟Imperatore secondo Eusebio, mediatore tra i sudditi razionali e l‟Ente supremo trascendente.561 L‟imperialismo cristologico eusebiano, al pari del logocentrismo platonico, è la forma teologico-politica derivata dal parricidio metafisico, perpetrato rispettivamente, dalla teologia cristiana, verso il Padre della religione ebraica, e dall‟idealismo razionalistico verso la sua scaturigine mitica, e consistente nella astratta oggettivazione dei contenuti della credenza ontologica del Mito per mezzo della tecnica logico-dialettica. Questi contenuti, astratti dal loro fondamento mitopoietico e distinti in virtù della loro consustanzialità logico-razionale, affermano come reale soltanto l‟ente di essenza razionale, mentre rimuovono ontologicamente quanto di quei contenuti sia insussumibile entro le categorie universali, destinandolo al Negativo, al non-essere, all‟irreale. La affermazione di realtà ontologica non è altro che la posizione di fede nella esistenza di ciò che viene affermato come realmente essente, ossia consiste nella credenza nell‟identità di essenza ed esistenza nel sinolo, considerato come l‟intera realtà, l‟Uno. Ora, poiché questa realtà onto-
561
Ved. R. Farina, L’Impero e l’Imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea, cit., pagg. 167 sgg.
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logica non comprende nella sua unità la rimanenza residuale distinta dialetticamente come irreale, essa non può costituire la Totalità, ma solo rappresentarla, e pertanto la rappresentazione della Totalità come Unità ideale è una con-venzione intellettuale, un pre-giudizio fideistico, ma non costituisce la verità, che trascende quindi la realtà in senso onto-logico. La forma politica di rappresentanza dell‟unità ideale della molteplicità singolare è lo Stato, la cui realtà dunque è affermata razionalmente come il Tutto, pur non essendolo esistenzialmente per i suoi membri. La condizione di tale assunzione di realtà politica è la determinazione degli elementi personali in enti ideali di ragione politica, in soggetti politici. Tale determinazione-negazione afferma come razionalmente (ossia politicamente) reali soltanto gli enti politici idealmente assimilabili (gli amici), dichiarando negativi gli altri (i nemici). La rappresentazione universale del principio di realtà politica è la democrazia, che omologa ogni membro sociale all‟unità sostanziale dello Stato inteso come la rappresentazione del Tutto esistenziale dell‟uomo animale sociorazionale. Questa unità razionale, astratta dalla vera Totalità originaria del Mito, deve affermarsi lottando contro il residuo negativo della sua esclusione logica, per affermarsi come l‟unica ed intera realtà. Ma poiché l‟affermazione della parte per il tutto può costituirsi come la realtà ideale ma non come la verità eterna, per affermare universalmente la propria parzialità contro il negativo osteggiato come nemico, deve determinarsi con una esclusiva immagine positiva, creduta come vera ma che però è falsa. In tal senso, i regimi di credenza totalitaria si fondano sulla menzogna (mendacium). Come chiarisce Agostino, “non chiunque dice il falso mente, se crede o stima che sia vero ciò che dice”. Infatti, “chi ha un‟opinione pensa di sapere quel che non sa”, per cui è “dall‟intenzione dell‟animo e non dalla verità o falsità delle cose in sé che bisogna giudicare se uno mente o non mente”.562 Da queste premesse, derivano due questioni molto rilevanti per il nostro discorso. La prima, è se la “decisione” politica, quale fondamento di ragione che sostiene l‟immagine della unitaria struttura istituzionale dello Stato, possa paragonarsi analogicamente a una credenza personale (animi sui sententia), essendo cristallizzata nella forma giuridica quella tensione spirituale che alimenta ogni fede umana. 562
Agostino, De mendacio, 3.3, tr. it. di M. Bettetini, Milano, 2010, pag. 31.
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La seconda questione verte sulla analogia tra le credenze religiose che hanno miticamente sostenuto l‟opinione (dòxa) politica dei sistemi sociali pagani, e il fondamento di fede cristiano (l‟Incarnazione) che ha sorretto per oltre un millennio la teologia politica dello Stato dei cristiani. Circa la prima questione, l‟idealismo politico, pagano e cristiano, ha risposto sostanzialmente in senso affermativo, essendo la sua rappresentazione della realtà dello Stato razionale l‟unità mistico-ideale del corpo sociale. E proprio dall‟universalizzazione idealistica del principio politico esclusivo nasce l‟aspirazione alla identità sostanziale del corpo politico, ossia la la democratica omogeneità dei governanti coi governati, e la conseguente proiezione della sua unità nella figura carismatica del Capo. Venendo alla seconda questione, la risposta è decisamente negativa, in quanto, come si è più volte ribadito, la fede cristiana si fonda sulla fatticità esistenziale dei contenuti di credenza e non già su una ipotesi epistemologica da rielaborare per discernere l‟elemento reale-razionale da quello mitico-fantasioso. Ma proprio per questo al fondamento di verità cristiano non è applicabile il metodo dialettico della gnosi idealistica, a cui si rifanno l‟istanza unitaria e la modalità rappresentativa che sorreggono la dottrina schmittiana dello Stato. Ne consegue che lo stesso criterio di legittimità (nomos) che sostiene la struttura giuridica statuale (Potestas legislativa), ossia l‟Incarnazione di Dio in Cristo, non può essere creduto alla stregua di un Mito, né essere rappresentato alla stregua di una Idea. Ciò comporta che il fondamento di fede che legittima l‟istituzione cristiana è trascendente, e non può perciò coincidere con una Idea di Stato, né tanto meno l‟immagne simbolica della trascendenza divina può realizzarsi compiutamente in una esistenza politica concreta come lo Stato, la cui realtà assoluta richiede invece il valore universale del suo Potere. Questo valore ideale non è la verità testimonianta e predicata da Cristo, il quale non intendeva riformare lo Stato idolatrico in senso cristiano, come invece avvenne in virtù della trascrizione romanoalessandrina della Verità trascendente come Logos razionale. E a questa interpretazione razionalistica si rifà appunto Schmitt per la sua teoria del politica e dello Stato. Ma, come afferma Agostino, poiché “tutte le bugie sono radicalmente da abolire dalla dottrina religiosa e da quei discorsi che si enunciano in favore della dottrina religiosa, quando la si insegna e
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quando la si impara”,563 essa, al di là della fede personale e della sincerità delle sue opinioni scientifiche, non può ascriversi alcuna paternità cristiana, come giustamente suggerito da Voegelin. Anzi essa registra con perizia magistrale gli stessi termini della crisi del paradigma teologico-politico cattolico-romano, di cui l‟Autore non sa darsi ragione comprendente in quanto la sua analisi è ancora interna a “l‟orizzonte delle idee del XIX secolo” in cui si muoveva la sua coscienza storica. 564 Ciò che di originale era intervenuto nel sec. XX era stato il compimento dell‟immanentizzazione del fondamento veritativo della fede cristiana, non come mondanizzazione della santità ma, al contrario, come santificazione del mondo, con un rovesciamento dialettico parallelo alla conversione positiva della negatività del liberalismo anti-autoritativo in democrazia totalitaria, il cui decisionismo assoluto, privo della mediazione della veritas trascendente, segnava l‟apogeo dell‟antropologismo ateistico. La neutralizzazione dello spazio pubblico incentrato sul fondamento fideistico del Verbum caro aveva corroso ogni delimitazione autoritativa dell‟unità politico-statuale, consentendo alla auto-determinazione della potestas secolare di costituirsi in funzione katechontica, assumendo interamente su di sé la ormai moralmente irresponsabile responsabilità politica di arginare la dissoluzione rivoluzionaria, intesa appunto come oggettivo, ossia razionale, attentato all‟auto-determinazione politica. Il nemico non è dunque che il negativo oggettivato in realtà positiva, dichiarato irrazionale in relazione alla propria politica positività. La decisione politica metafisicizzata e affermata come realtà totalitaria segna l‟esito estremo della dissoluzione del sincretismo fideo-razionalistico dell‟onto-teo-logia politica eusebiana, iniziata nel IV secolo, ma non ancora del tutto conchiusa. Resta infatti ancora a testimoniarne i fasti teoretico-politici l‟assolutezza del Logos immanentizzato e ridotto a mera tecnica, non più solo dialettico-retorica, ossia sofistica del consenso democratico, ma tecno-logia applicata, economia di mercato finanziaria. A questo punto ci è possibile comprendere che l‟affermazione dell‟autodeterminazione immanentistica della volontà di essere ciò che si vuole essere, e dunque assoluta, emancipata da ogni limite morale, si stabilisca
563 564
Agostino, De mendacio, 10.17, tr. it. cit., pag. 63. E. Voegelin, Loc. cit., pag. 311.
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attraverso la lotta contro quello stesso limite, interpretato come la Negatività anch‟essa assolutizzata, e rappresentata dall‟Altro, dal nemico oggettivo, la cui esistenza nega l‟assolutezza della realtà totalizzata dell‟Unità ideale realizzata storicamente. Ma questa negazione della realtà razionalizzata in senso assoluto e osteggiata politicamente come l‟Altro irrazionale, il Niente che minaccia l‟Essere posizionale della fede ontologica nel mondo rappresentativo dell‟Io umanistico, è appunto quel Limite trascendente ogni umana potestas, che è l‟auctoritas di Dio-Padre creatore del Logos-Figlio, considerato dalla cristo-logia ellenisticoromana come Persona abscondita, la cui realtà in-esistente potevasi solo rappresentare come immagine antropomorfica, come Persona nel Figlio e come Corpo mistico nella Chiesa: il . L‟elemento in-rappresentabile, ma esistenzialmente reale, dell‟unità etico-politica o di quella mistico-ecclesiale è la fede nel fondamento autoritativo, la quale, pur non oggettivabile, costituisce il vero presupposto di ogni validità in quanto decisiva nella determinazione della volontà. L‟elemento fideistico, tributario dell‟auctoritas carismatica del Potere, è il pathos che trasforma la potestas in Diritto. Esso costituisce il fondamento legittimante del Potere, ciò che lo determina come rappresentativo dell‟unità simbolica. Tale fides fondamentale collega la volontà dei governati alla potestas dei governanti: fa da “mediazione” (logos) tra la sovranità e l‟istituzione. Ma questo logos è la ratio del Potere, non nel senso della forza della voluntas ma nel senso della sua intentio come télos, che, come abbiamo visto a proposito della mendacio in Agostino, non può consistere indifferentemente in una o altra opinione (doxa) ma avere per contenuto la verità. Pertanto, la fides costituisce il fondamento di verità dell‟atto politico, della funzione istituzionale, del Potere statuale; che non può essere posto dalla volontà politica ma ne è invece il pre-supposto, senza il quale il dominio diventa arbitrio. Non essendo oggettivabile, in quanto non è l‟oggetto della volontà ma il presupposto, la fede non è neppure manipolabile e custodita in interiore homine come verità trascendente ogni manifestazione della volontà. Ed è questa che Agostino chiama l‟intentio dell‟agente. A differenza di una disposizione normativa di vigenza erga omnes emanata dal Potere in considerazione dell‟unità politica come forza necessaria al suo indirizzo pubblico, il fondamento autoritativo della fides è di natura strettamente personale, ossia individuale e soggettivo, e come tale in-disponibile dal Potere. Ciò vuol dire, non che ogni soggetto al diritto può liberamente
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aderire alle disposizioni normative del Potere, rendendo facoltativa l‟ubbidienza all‟ordine potestativo, ma che il Potere non può controllare l‟intentio di chi ubbidisce, che perciò può anche essere mendace. Ma escludendo il controllo delle intentiones soggettive dei governati, il Potere stesso deve limitarsi al controllo dei fenomeni della volontà, alle azioni, e dunque non può aspirare ad essere totale ma solo a costituire l‟unità politica. da qui sorge la necessità per il Potere di riconoscere il suo limite di esercizio, che non può valicare i termini dell‟ ordine giuridicopolitico, e con quel limite riconoscere così anche il carattere di finitezza della sua essenza rappresentativa, cioè della rappresentanza dell‟unità politica. Una volontà politica, avente cioè una ratio ordinis rei publicae, che voglia affermarsi in difformità con i fondamenti fideistici del gruppo sociale, opera nel senso della dissoluzione dell‟equilibrio sociale e per lo stabilimento di un ordine razionalmente allotrio a quello originario. Quando la ratio politica diverge dai fondamentali fideistici del gruppo sociale, non sussiste più alcuna rappresentanza esistenziale dell‟unità politica, ma soltanto una di carattere formale. Le due nature della rappresentanza politica sono compresenti nei sistemi democratici moderni, i quali deliberatamente hanno inteso prescindere dalla considerazione dei fondamentali religiosi dei popoli per affermare in sostituzioni d‟essi una supposta fede comune di carattere civile, idonea a far ammettere la validità universale della volontà maggioritaria, la quale esprime una rappresentanza esistenziale che per la parte minoritaria è solo formale. Perché la rappresentanza formale potesse coincidere in valore con la rappresentanza esistenziale, occorreva rimuovere dalla rilevanza pubblica la considerazione dei fondamenti religiosi dei popoli, che ne determinavano in origine l‟appartenenza identitaria, sostituita con l‟appartenenza politica all‟identità statuale. Ciò implica che la convertibilità della sovranità regale nella sovranità popolare doveva presupporre una omogeneità dei fondamenti di fede nei due ambiti di sovranità convertibili, la quale venne smentita dal principio politicistico del cuius regio, eius religio uscito dalla Pace di Augusta (1555) e confermato a Vestfalia nel 1648 dopo la Guerra dei trent‟anni, col quale principio si stabiliva l‟assolutezza del Potere, emancipato da ogni appartenenza fideistica, ossia da ogni limitazione dell‟auctoritas morale, rappresentata istituzionalmente dalla Chiesa. Il processo di assolutezza del Potere, e quello parallelo di omogeneizzazione politica della società
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iniziato con la Riforma, viene a compimento con la democratizzazione della società civile, nei totalitarismi del XX secolo, ovvero con la socializzazione della politica nella versione liberal-capitalistica. Con i regimi democratici si universalizza il principio dell‟autonomia politica del Potere, la cui rappresentanza, in una società omogeneizzata e unitaria, può incarnarsi volta in volta nel Popolo o nel Capo, entrambi depositari omogenei della sovranità entro lo spazio-mondo dello Stato. E‟ improprio asserire che “la veritas poggiava su un presupposto dogmatico”, mentre è vero che “l‟auctoritas istituiva una corrispondente legittimità”.565 Infatti, la natura fideistica della veritas era trascendente ogni razionale determinazione, per cui la sua definizione dogmatica non poteva stabilirla autoritativamente, alla stregua di una normativa legale, per atto d‟imperio, mentre nei concilii avvenne proprio questo. I concilii sono i prototipi dei moderni parlamenti legislativi, nei quali si deliberava a maggioranza la definizione dogmatica dei contenuti di fede, circoscrivendo la fides nei termini concettuali del Logos naturalistico greco, cioè di quel sapere che secondo Paolo per il cristianesimo era “stoltizia” perché pretendeva di racchiudere nei termini della ragione umano-naturale l‟in-finitezza spirituale di Dio. E pertanto l‟espressione dogmatico non era il “presupposto” della fede, così come l‟editto imperiale lo era per la legge, ma viceversa era la fede il presupposto del riconoscimento della formula dogmatica. Nel momento in cui l‟organo esegetico-legislativo, il Concilio oppure la Chiesa, assume in sé la rapraesentatio della potestas fidei, essa stabilisce un rapporto identitario, e non solo più simbolico, tra il Logos-Christos e il corpus Christi, e conseguentemente tra la persona storica di Cristo e il corpus mistycum dell‟unità ecclesiale, per cui la Chiesa, rappresentante del corpus christianum ecclesiale diventava rappresentante del Logos stesso, ossia una quarta Persona ipostatica analoga a quella del Cristo. Orbene, tale pretesa era assolutamente indebita, in quanto lo Spirito, proprio perché consustanziale alla Persona di Cristo lo è anche di DioPadre, e come tale non è rappresentabile che da se stessa, ovvero appunto solo da Cristo Verbum caro, e non anche da una istituzione storica, Chiesa o Impero che sia, né da nessun ente ideale, quale a es. il Popolo o
565
Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 329.
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lo Stato democratico quale sua forma razionale. La rappresentanza spirituale di Cristo risiede nella fede soggettiva nella sua Persona, nel Suo ruolo di mediazione tra Creatore e creature, non in una istituzione storica oggettiva. Esattamente questo transfert è all‟origine della rimozione della fides a favore di una ratio ordinis di natura politica, che trova nella Chiesa il suo prototipo istituzionale e nello Stato assolutistico moderno la sua versione secolaristica, emendata di ogni riferimento all‟auctoritas divina. Pertanto il Cristo, quale “fondamento visibile della verità”, non poteva dunque determinare ”l‟unità politica”, ossia lo Stato, come invece pretendeva la teologia politica alla quale si ispirava Schmitt, ma solo l‟unità ecclesiale, che su di esso “poggiava la sua autorità”.566 L‟unità politica, quale forma ideale del , era una determinazione puramente razionale se astratta dal suo fondamento autoritativo di natura religiosa. Ma proprio perciò essa non poteva determinarsi per atto di volontà costituente, come preteso da Hobbes e dal contrattualismo moderno e come riteneva anche Schmitt, ma solo a seguito, come conseguenza, di una pre-supposta unità di fede () di cui la forma politica era una rappresentazione oggettiva del suo Gestaltungsprinzip. E se atto con-seguente non poteva essere originario, sicché lo Stato razionale derivava per generazione () da una rappresentazione fideistica della realtà, ossia mitica, della quale era una rappresentazione razionalmente rielaborata ( ) in forma istituzionale unitaria. Il passaggio ( ) dalla rappresentazione mitico-fideistica () alla rappresentazione formale-razionale () comportava la lacerazione dialettica ( ) del politico, la distinzione operata sul piano esistenziale tra la positività dell‟amico () e la negatività () del nemico (). In altri termini, la rappresentazione politica era il risvolto civile del ludus drammaturgico della dialettica filosofica quale appare nei dialoghi platonici, ovvero la messa in scena dell‟agone politico del Potere dei ruoli assegnati nello spazio pubblico dallo Stato. Un gioco delle parti sociali in cui s‟intrecciano e si scontrano la cruda ragione della forza e il sortilegio dell‟immaginazione creativa. Ma, così come l‟aspirazione filosofica a dare evidenza al fondamento ideale finiva per esaltare il ruolo
566
Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 329.
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tecnico della strumentalità politica, parimenti l‟istanza costruttivistica della teologia politica assegnava al Potere una funzione demiurgicokatechontica che esonerava il governo provvidenziale di un mondo compiutamente umanizzato, lasciandolo alla mercé della tecno-logia, intesa come economia del danno e politica dell‟utile. L‟universalità del metodo tecnico, la sua polifunzionalità e versatilità nel servizio a diversi padroni, traduce in termini d‟immanenza l‟in-finitezza del principio trascendente, la sua in-determinatezza entro uno spazio determinato, consentendo così la sua rimozione. Con la rimozione del trascend-ente, si compie l‟assoluta razionalizzazione del mundus, dello spazio antropizzato, all‟interno del quale ogni processo creativo può essere preventivato e pertanto controllato e dominato. La liberazione dall‟autorità divina si converte dunque nella weberiana “gabbia d‟acciaio” della illibertà di un Potere senza più limiti perché senza più appelli trascendenti, puro . L‟apoteosi della voluntas politica socializzata è la nazione, intesa come “entità personale”, ossia una Idea fornita di attributi divini, “ordinatrice di un nuovo diritto internazionale” rispetto a quello universalistico dell‟Empire capitalistico propugnato dalle democrazie occidentali. Una nuova ideo-logia fondata sulla oggettivazione razionalistica di un ente empirico idealizzato, comprensivo di una moltitudine di soggetti esistenziali unificati da una forma politica, lo Stato-Reich nazionale. L‟elemento vizioso, ossia l‟incongruenza teorica, delle rappresentazioni dello Stato democratico consiste nella razionalistica identificazione del trascendente con l‟universale, e dunque della comunità mistico-spirituale (ekklesia) riunità nella Persona di Cristo, con l‟unità politico-istituzionale (Stato) rappresentata dal Capo. L‟esistenza storica della Chiesa, paradigma dell‟unità mistica dei credenti istituzionalmente rappresentativa, non poteva essere rimossa da un‟altra entità oggettivata che ambisse all‟universalità se non politicamente, ma non sul piano della rappresentazione, dal momento che quello inerente alla dimensione ecclesiale non era sovrapponibile al piano della dimensione politica, secondo le stesse indicazioni evangeliche. La costituzione, pertanto, di un Impero esclusivamente politico avrebbe dovuto presupporre il suo fondamento di fede, o riconoscendo la realtà storica della sua rappresentazione istituzionale, la Chiesa, ovvero assumendolo in proprio avendone negato la rappresentazione nella Chiesa. L‟opzione imperiale continentale, da Costantino fino all‟ultimo zar russo, ammetteva che la
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rappresentazione del fondamento di fede fosse pertinente all‟istituzione ecclesiastica, parallela all‟istituzione rappresentativa dell‟unità politica dei credenti. L‟opzione imperiale del commonwealth britannico, invece, assunse sulla rappresentazione politica anche quella ecclesiale, facendo del monarca anche il capo della Chiesa nazionale, anglicana e non più cattolica. E‟ chiaro che l‟identificazione delle distinte rappresentazioni in un unico simbolo istituzionale presupponeva anche la coincidenza della universalità cristiana (cattolicità) con l‟universalismo politico (imperialismo), per cui l‟incidenza del fondamento spirituale della fede cristiana veniva commisurato al grado di espansionismo politico del Potere imperiale. Questo criterio teologico-politico immanentistico fu esportato nelle colonie britanniche del Nuovo Mondo e divenne, dopo la loro secessione dall‟impero, la cultura politica del nuovo Stato democratico americano. Con l‟instaurazione della civil religion nello Stato democratico universale d‟oltre oceano, la fonte teologico-politica della nuova entità politicoistituzionale non è più (storico-) trascendente ma (storico-) immanente, rappresentata dalla corona britannica, il cui topos originario diventa il sostrato mitologico del quale l‟esperienza democratica americana è l‟elaborazione razionalizzata. Sorge una nuova religione immanentistica rispetto a quella ebraico-cristiana cattolico-romana, fondata su una cristologia etico-politica. La processualità del fondamento cristologico comune al cattolicesimo e all‟anglicanesimo, si sviluppa a partire dalla secessione americana dalla madre patria europea come settarismo territoriale di libere chiese in liberi Stati, col quale”si realizzava l‟attualizzazione dell‟”.567 La detronizzazione del Dio trascendente avveniva appunto con l‟auto-referenzialità del politico come spazio sacrale attraverso la sua rappresentazione istituzionale. La distinzione stabilita da Schmitt tra una interpretazione “filosofica” e una “religiosa” della Storia,568 nella prospettiva ideo-logica democraticototalitaria viene a perdere la pregnanza teoretica che aveva avuto nei secc. XVIII-XIX, in quanto il processo storico veniva comunque considerato 567
Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 344.
568
C. Schmitt, L’unità del mondo (1951), cit. da Epimeteo, Finis Europae, cit., pagg. 344-345.
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alla luce della fenomenologia del Logos incarnato, non più nella Chiesa romano-imperiale né nella Corona britannica ma nel Sacro Impero Democratico Americano, fautore culturale e propugnatore politico di una nuova unità etico-politica mondiale di tipo religioso, quale non riuscì a Federico II né al Sacro Romano Impero tedesco per l‟opposizione della Chiesa, e che Dante aveva teorizzato per il cattolicesimo romano. L‟elemento trascendente della tradizione cattolica europea veniva surrogato dal messianismo di origine ebraica e di segno democratico, con una tensione soteriologica declinata in chiave utilitaristica, il cui stigma elettivo era il welfare consumistico. La razionalizzazione del mondo veniva a coincidere, nella prospettiva democraticistica della salvezza, con la socializzazione della politica, ossia con la sua riduzione a economia di mercato, in cui il conflitto veniva trascritto nei termini edulcorati della concorrenza. L‟occidentalismo acquistava dalla sponda americana una accezione di distanza emancipativa dal centro originario della civiltà europea, il cui declino appariva anche topograficamente come la terra di mezzo tra un Ovest liberalizzato e un Est militarizzato, lacerato da opposte tensioni demagogiche eversive, privo più di identità culturale e politica. Entrambe le ali annunciavano la rivoluzione, cioè la trasvalutazione dell‟Altro oggettivato nel proprio Sé universalizzato e interpretato come Tutto, mentre l‟Europa, dai tempi della Roma imperiale, aveva sempre inteso la sua espansione come l‟esportazione dell‟ordine, della pax. La tecnocrazia mercatistica e quella militaristica delle ideologie democratiche non esporta pace ma rivoluzione sociale, sia nel senso del sovvertimento dei ceti tradizionali, sia sul piano dei valori civili dei popoli e delle nazioni assoggettate, sconvolgendone l‟equilibrio organico da esse raggiunto storicamente in lunghi secoli o millenni. La novità rivoluzionaria di tali ideologie consiste nel voler unire identicamente e identitariamente ciò che Gesù chiedeva di mantenere divisi: cielo e terra, trascendenza e finitezza, Dio e Cesare, assumendo nella propria rappresentazione universale dell‟umanità il simbolo stesso del divino incarnato, all‟infuori del cui orizzonte etico-esistenziale non c‟è alcuna possibilità di una dialettica ma solo di uno scontro radicale tra i rappresentanti dell‟Essere e quelli del Niente. 569
569
Ved. C. Schmitt, La tirannia dei valori (1967), tr. it., Roma, 1987.
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Ma proprio nell‟assolutezza di tale prerogativa etico-messianica si gioca lo scontro preventivo tra omologhi concorrenti in corsa per il primato universale, la cui posta in gioco è il Potere mondiale sull‟intera umanità, l‟estrema semplificazione democratica dell‟identità dei governati coi governanti, rappresentata da una élite oligarchica che nomina il Capo supremo, godendone quindi dei favori di casta rispetto all‟universale sudditanza comune. La rivoluzione dunque come la conversione speculare della libertaria volontà in volontaria cattività, secondo la confermata realizzazione esistenziale dell‟opposto ideale, la cui specularità trasfigura la stessa fisionomia personale del Capo, che sotto le mentite spoglie dell‟incarnazione divina lascia intravvedere l‟immagine dell‟Anticristo. Nazionalismo, nell‟accezione di Schmitt, voleva significare radicamento territoriale, topicità politica, identità culturale contro ogni forma di neonomadismo astrattamente umanitario, legato al commercio mondiale e ai grandi imperi. Un vincolo etico astratto dal suo fondamento topico è la idealizzazione del vincolo amicale astratto dal suo rapporto politico, ma costituisce anche il risvolto polare della opposta oggettivazione del nemico astratta da ogni relazione esistenziale, per cui, l‟antitesi tra l‟ “imperialismo economico” delle democrazie anglo-sassoni, e l‟ “imperialismo politico” delle democrazie militariste, che ha costituito la “peculiarità dell‟imperialismo americano [sin] dall‟inizio, dal primo secolo della sua esistenza”, ossia a partire dal discorso di commiato di G. Washington del 1796, ubbidisce a una stessa logica razionalistica con cui le due versioni giustificano il loro rispettivo “principio di legittimità”. 570 Con essa l‟uno e l‟altro imperialismo si attribuisce il compito di assolvere a una sorta di dovere umanitario nel dominare i popoli assoggettati. A proposito dell‟imperialismo europeo, Schmitt ricorda che il diritto internazionale moderno, a partire dal sec. XVI e fino al sec. XIX, distingueva i popoli a seconda della loro religione, regolando su tale discrimine le relazioni internazionali tra gli Stati. Solo a partire dal sec. XIX, simbolicamente dall‟inserimento nel 1856 della Turchia nel novero delle nazioni riconosciute, la distinzione venne secolarizzata in “popoli civilizzati, non civilizzati e semicivilizzati”. In questo contesto
570
C. Schmitt, Voelkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus (1932), tr. it. in Posizioni e concetti, cit., pagg. 266-267.
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rievocativo, Schmitt, commentando la disciplina del mandato stabilito all‟art. 22 dello Statuto della Società delle Nazioni come “l‟esempio più conciso della funzione legittimante della distinzione fra popoli civilizzati e popoli non civilizzati, sulla cui base i popoli civilizzati si attribuiscono il diritto di educare, cioè dominare, i popoli meno civilizzati nella forma di mandati, protettorati e colonie”. 571 Notevoli in questa esposizione sono due aspetti, riguardanti, l‟uno, la identificazione dei “popoli” con i loro governi, e l‟altro la identificazione del compito di educare i popoli protetti o colonizzati col loro dominio, dove “educare” diventa sinonimo eufemistico di “dominare”. La prima indistinzione produce l‟altra, poiché assume l‟identità democratica di governati e governanti come un dato razionale anziché storico, e tale quindi da rimuovere la differenza qualitativa, cioè concreta, tra il controllo politico di uno Stato, ossia di un potere istituzionale, su un determinato territorio, e il governo civile di un popolo non civilizzato da parte di un insediamento umano civilizzato. Sono aspetti non soltanto formalmente distinti, ma soprattutto esistenzialmente diversi, che però vengono identificati dal presupposto teorico della unitaria rappresentanza istituzionale della molteplicità empirica del gruppo politico. In virtù di tale presupposto di natura politica, ogni altro aspetto della “civilizzazione” europea viene semplicemente rimosso, non perché storicamente inesistente e sociologicamente non argomentabile, ma in quanto inafferente alla determinazione politica del concetto di Governo in termini di puro dominio, ossia appunto di Potere politico. Ed è a seguito di questa reductio a una dimensione del rapporto internazionale tra Stati e popoli che il movimento di civilizzazione degli Stati europei è stato identificato, non solo nei rapporti internazionali, col processo di razionalizzazione del Potere di dominio dei popoli deboli da parte dei popoli più forti, a prescindere da ogni apporto di carattere culturale ed extra-politico che costituisce il contenuto di ogni autentica “egemonia”, 572 che Schmitt collega inscindibilmente quale tratto caratteristico di “ogni
571
Ivi, pag. 268.
572
Sul concetto di “egemonia culturale” e “morale” distinta dal concetto di puro “dominio”, ved. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di F. Platone, Torino, 19481951, q. 19 § 24.
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imperialismo”.573 A questa logica imperialistico-politica, che divide i popoli tra dominanti e dominati, corrisponde quella imperialisticoeconomica che li distingue in “creditori e debitori”. 574 Cosa hanno in comune le due distinte dottrine? La comune sconsiderazione di una fondazione trascendente limitativa dei loro rispettivi principii di legittimità, che ne stabilisca il senso direttivo e teleologico, assegnando loro una validità circoscritta per luogo e per condizione. Solo infatti in considerazione di una comune fondazione autoritativa è possibile pervenire ad accordi internazionali tra Stati rappresentativi di nazioni che siano garantiti in senso solidale per tutti i contraenti, altrimenti penalizzati verso gli Stati più forti. 575 In questo senso, il “diritto” internazionale trova la sua ragion d‟essere, non sul deterrente bellico della reazione militare o economica alla sua infrazione, ma sul comune fondamento solidale degli Stati, che non impegna la loro potenza ma la loro credibilità etica. Un tale principio è trascendente proprio in quanto la sua validità non è determinata dalla forza chi di vi si ispiri, ma dalla fede comune a cui si aderisce, per intima scelta politica dei governi e disposizione morale dei popoli. Con l‟inserzione della Turchia nel consesso delle nazioni cristiane, il fondamento solidale degli Stati cristiani viene a mancare, surrogato da una pattuizione giuridica garantita dai rapporti di forza in gioco. Nello stesso senso, la “dottrina Monroe” del 1823 del governo americano pro tempore non è un “principio imperialistico” privo di autorità in quanto “unilaterale” e “non concordato con altri Stati”,576 ma lo è in considerazione della assoluta autoreferenzialità etico-politica, la cui legittimità è dettata solo ed esclusivamente dall‟interesse alla potenza della federazione americana. Un interesse economico-politico la cui legittimità è posta dalla stessa possibilità di renderlo effettivo. Ed è questa esigenza di effettività, comprovantene la giustezza, ad escludere ogni razionale limitazione di quel principio che non sia intrinseca alla sua stessa efficacia, per cui di fronte ad esso ogni appello che non incida in senso deterrente sulla sua
573
C. Schmitt, Voelkerrechtliche Formen, tr. it. cit., pag. 277. Ivi, pag. 269. 575 Nel saggio cit., Schmitt illustra il caso eclatante di “svolta dialettica” nelle relazioni tra USA e Cuba: Ivi, pagg. 277 sgg. 576 Ivi, pag. 273. 574
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potenza non può essere presa in considerazione, pena la sua stessa sconfessione. Il passaggio dal peccato morale alla colpa giuridica si accompagna alla possibilità di una sanzione, e non alla minaccia di una scomunica. Ciò comporta che il fondamento di legittimità dei rapporti internazionali tra Stati coincida con la loro forza economico-politica, che determina anche la natura storica di quei rapporti. A questo punto, rimossa la determinazione trascendente, la specificità “economica” ovvero “politica” è solo terminologica. Differentemente da questa concezione imperialistica, che chiamiamo “immanentistica”, è quella teologico-politica di Dante, che poneva a presupposto della costituzione dell‟Imperium la cristianizzazione dello spazio universale, la quale non comportava necessariamente e direttamente la conversione forzata dei popoli - per la semplice ragione che una conversione “forzata” sarebbe un ossimoro moralmente inaccettabile, e che comunque la conversione riguarda i singoli e non gli enti collettivi né le unità politiche -, ma il riconoscimento delle diverse culture religiose del comune fondamento trascendente. E‟ appena il caso di aggiungere che, in concorde considerazione delle ragioni qui espresse, a fronte della globalizzazione del principio economico di legittimità perorato dall‟imperialismo anglo-americano attraverso la sua politica egemonica, le religioni storiche si stanno muovendo nel senso dell‟ecumenismo del fondamento trascendente (che non equivale al sincretismo delle confessioni particolari). In che consisterebbe dunque, a fronte del principio imperialistico di “egemonia” economico-politica, la “cristianizzazione dello spazio universale”? Appunto nel riconoscimento dell‟identità religiosa delle culture nazionali come fondamento trascendente della costituzione delle loro identità etico-politiche, le quali pertanto acquisterebbero un significato anch‟esso trascendente e non ascrivibile ai soli termini riduttivi del loro potenziale latamente economico, comprensivo della produttività industriale e della capacità militare. E in questa convergenza teologico-politica, stabilizzare i territori abitati e controllati dall‟uomo nel senso di una coesistenza pacifica finalizzata dal comune motivo escatologico, che per i cristiani è già inscritto nell‟evento dell‟Incarnazione. A quel punto, il dialogo tra le diverse culture teologiche e tradizioni religiose e civili, costituirebbe l‟orizzonte comunicativo dei popoli della Terra, alternativo alla dialettica delle relazioni politiche.
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Rispetto a questo orizzonte di coscienza, che porterebbe ogni determinazione razionale dei valori particolari e storici al loro centro verbale, ossia alla loro comune matrice originariamente legoica (da lègein) comprensiva di ogni possibile elaborazione logica (del logos filosofico) e dunque archeo-logica o mitica; rispetto ad esso, la dottrina internazionalistica schmittiana di Grossraumordnung, ossia “l‟idea di una terra ripartita in grandi spazi continentali” unificati politicamente e quindi in stato di guerra permanente,577 appare una variante topologicopolitica578 di imperialismo immanentistico declinata in chiave nazionalistica. Il nazionalismo, dalla prospettiva americana stabilita dal patto Kellogg del 1928, recepito all‟art. 21 della Società delle Nazioni di Ginevra, era considerato sinonimo di “guerra”, condannata appunto in quanto “strumento della politica nazionale”, per cui, come obietta Schmitt, “le guerre che sono strumento di politica internazionale sono eo ipso giuste”. E poiché “l‟imperialismo non fa guerre nazionali, queste vengono piuttosto bandite; [e inoltre, dal momento che] esso fa soprattutto guerre che servono ad una politica internazionale, [l‟imperialismo stesso] non fa nessuna guerra ingiusta, solo guerre giuste”. 579 La questione di “cosa sia una guerra”, al di là delle conseguenze pratiche scaturite dalla decisione circa la sua insorgenza, è rilevante nell‟economia del presente discorso poiché la determinazione autonoma – cioè superiorem non recognoscentem - da parte di un ente politico sulla definizione, interpretazione e applicazione di una dottrina o di un principio politico stabilisce implicitamente che venga assegnato allo Stato sovrano il monopolio dell‟attività esegetica dei trattati, ossia delle costituzioni formali aventi un contenuto politico stipulate in termini giuridici. La giuridicizzazione dei rapporti politici comporta che ogni trascrizione in termini normativi di principi di valore morale, fondativi della legittimità dei comportamenti politici degli Stati contraenti, sia
577
C. Schmitt, L’unità del mondo (1951), cit. da Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 351. 578 E‟ lo stesso C. Schmitt ad ammettere che “il punto di partenza” della sua dottrina del Grossraum risiedeva nel “concetto di spazio”, che della teoria del “grande spazio” costituiva “il criterio di scientificità”: Id., Antworten in Nuernberg (scritti del 1947, raccolti e pubblicati nel 2000), tr. it., Roma-Bari, 2006, pag. 94. 579 Ivi, pag. 287.
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“difficile”, cioè razionalmente incongrua e politicamente inefficace, in quanto non comporta “nessuna sanzione, nessuna organizzazione e nessuna definizione”,580 ossia nessuna conseguenza omogenea, il che vuol dire nessun controllo limitativo dello stesso genere politico-potestativo. Si stabilisce così l‟emancipazione della sfera politica da quella morale, eterogenea e non giuridicizzata, per cui dal principio che Caesar dominus et supra grammaticam, deriva che “in un imperialismo storicamente è essenziale non soltanto l‟armamento militare e marittimo, non soltanto la ricchezza economica e finanziaria, ma anche questa capacità di stabilire da sé il contenuto dei concetti politici e giuridici”. 581 L‟auto-nomia degli enti politici imperiali si determina quindi anche sul piano dei valori fondativi la prassi politica, e non solo sulla scelta dei mezzi economici per realizzarli, confermando in tal modo che il servizio strumentale destinato ai principii della politica è lo stesso utilizzato per realizzare i suoi fini, per cui chi controlla i fondamenti dell‟azione politica ne determina anche la destinazione. Rispetto al tradizionale referente spirituale, riconosciuto dallo Stato politico europeo come appannaggio della Chiesa, la nuova logica imperiale post-moderna, prodottasi dalla dissoluzione dello jus publicum europaeum di origine cristiana, si afferma come assoluta immanentizzazione del fondamento del Potere e la sua risoluzione nella totalità del suo assoluto esercizio, ossia nella riduzione della stessa politica nella determinazione dei suoi strumenti economici, segnando per tal verso l‟apoteosi della voluntas absoluta come libertà illimitata della sua affermazione, non più circoscritta allo spazio “pubblico” della regio cuius religio, ma aperta a in-finite determinazioni auto-poietiche. Una ratio che diventa inventio delinea un orizzonte mitologico del tutto arbitrario, perché privo di fede: il mito nichilista soreliano. Ed è questo il percorso auspicato da Schmitt per la Germania.582 Quando il giurista di Plettenberg scrive che “in un imperialismo storicamente è essenziale non soltanto l‟armamentario militare e marittimo, non soltanto la ricchezza economica e finanziaria, ma anche la
580
Ivi, pag. 290. Ivi, pagg. 291-292. 582 Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 352. 581
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capacità di stabilire da sé il contenuto dei concetti politici e giuridici”, 583 teorizza l‟assolutezza della posizione politica rispetto ad ogni altra considerazione che potrebbe con la sua autonomia limitarla. Ma è propriamente questa assolutezza che nega in radice lo spirito del Cristianesimo, della conoscenza cristiana dell‟uomo. Infatti, se noi consideriamo la differenza essenziale tra l‟ “amico” e il “nemico” in senso politico, troviamo che il carattere “pubblico” del rapporto politico consiste nella determinazione della appartenenza come partecipazione o meno a un bene comune. Se tale Bene è interno al gruppo politico, ogni membro del gruppo ne è partecipe; se viceversa tale Bene è esterno, cioè non fruibile dal gruppo, non essendo comune non è neppure partecipabile. La stessa determinazione simbolicamente spaziale del Bene, come “interno” ovvero “esterno” al gruppo politico, implica che la natura topica del Bene lo destina a una sua insuperabile limitatezza e contestualità non partecipabile all‟esterno, almeno allo stesso titolo e modo che all‟interno del gruppo, ossia che si tratta di un Bene relativo, non universalizzabile extra moenia, e come tale non fruibile da tutti, a prescindere dalla loro appartenenza politica. L‟appartenenza locale, la fruibilità circoscritta al gruppo politico e il suo valore interno è quanto Schmitt indica con il concetto empirico di “nazione”, per cui nazionale è ciò che appartiene, vale ed è interno al gruppo politico. Ciò che è interno al gruppo politico, il comune valore partecipabile, è il contenuto pubblico della “amicizia” politica. Ma qual è il principio razionale che stabilisce tale valore, e di conseguenza distingue anche l‟appartenenza politica? Essendo un principio relativo al gruppo, non è universale anche se comune ai membri del gruppo, ma empirico e di natura finita, non trascendente. Esso, pertanto, non è un principio morale ma economico, e l‟essenza razionale dell‟economico è l‟utilità. Il nazionalismo, come principio razionale di appartenenza a un gruppo politico determinato, consiste nel valore dell‟utilità relativa all‟esistenza del gruppo. Utile al gruppo è ciò che consente la sua esistenza; dis-utile, quanto la nega. Chi è apportatore di utilità per l‟esistenza del gruppo, chi è politicamente utile, è appunto “amico” politico; chi, viceversa, ostacola l‟esistenza del gruppo gli è “nemico” politico.
583
Ibidem.
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Il Bene in senso nazionale è dunque quello utile al gruppo politico, il cui orizzonte valoriale si determina politicamente, e non secondo altri principii, come quello morale o religioso, essenzialmente universali. E la determinazione politica del principio di appartenenza, fa sì che la sua affermazione implichi una negazione, per cui si è “amici” di un gruppo politico in quanto esistono dei “nemici” esterni al gruppo, che non partecipano al suo Bene interno. La differenza rispetto alla determinazione del principio di appartenenza a un gruppo religioso è che, seppure non tutti i gruppi umani né tutti i membri di ogni gruppo umano siano di una sola religiosa, ossia compongano uno stesso e solo gruppo, quegli stessi gruppi e membri che non appartengono allo stesso gruppo religioso potrebbero in teoria costituirlo, mentre nessun gruppo politico, presupponendo il nemico per la sua stessa determinazione, potrebbe costituire un unico comprensivo di tutti i membri degli altri gruppi. In altri termini, la determinazione economica del gruppo politico implica una realtà molteplice, e per sua natura intrinsecamente conflittuale, cioè esclusiva dell‟Altro dal godimento del suo utile, e perciò di natura egoistica (sia pure di un Ego collettivo) e non altruistica, ossia morale in senso cristiano. La ragione politica, per la sua essenza utilitaristica, è pertanto, in quanto ragione economica particolare, alternativa alla ragione morale universale, che fa capo a Dio, non al padrone economico, che è Cesare. Tutti i popoli possono sottostare all‟Imperium romano, ma non possono diventare romani, poiché l‟identità romana non è riducibile all‟appartenenza politica. Allorquando infatti la cittadinanza romana fu estesa a tutti i sudditi di Roma, l‟unità politica venne a perdere il suo concreto significato esistenziale per assumerne uno astrattamente giuridico. Ora, l‟intento profondo di Schmitt è quello di collegare strettamente l‟unità giuridica a quella politica, concependo un‟unità congiunta di tipo spaziale, il cui topos terraneo segna i confini del valore politico e giuridico, la loro finitezza, indicata appunto come nazionale. La determinazione del valore nazionale del principio politico sta a indicarne la sua finitezza, la sua determinazione empirica e non universale. Potenzialmente inclusiva dell‟amico ma in quanto contestualmente esclusiva del nemico, la cui opposizione al gruppo politico ne definisce l‟appartenenza. L‟Impero, nella accezione americana recepita da Schmitt, esprime l‟ammissione etica del principio politico, ossia l‟assunzione del principio utilitaristico-nazionalistico come valore universale, il riconoscimento
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della legittimità etica del conflitto (pòlemos) come ragione di carattere universale. L‟incongruenza di tale pretesa universalistica o imperiale, e dunque il carattere capzioso della sua natura giuridica, consiste nella pretesa del suo riconoscimento universale come indicativo del suo carattere etico, facendo coincidere l‟eticità del contenuto politico con l‟universalità del suo riconoscimento, e questo riconoscimento universale con la reciprocità che è la condizione fondamentale per la definizione dell‟etica.584 Ma proprio Schmitt, a proposito della dottrina Monroe applicata ai piccoli Stati sud-americani, aveva rilevato come il riconoscimento giuridico di una condizione politica potesse anche essere estorto, concernendo così una voluntas priva affatto di veridica intentio, per cui la stessa dottrina imperialistica ne risulta inficiata ponendo la fictio juris che ne stabilisce il principio interno come ragione di pretesa universalità legata non già al suo contenuto ma al suo riconoscimento. Lo spostamento dal contenuto universale del valore al suo universale riconoscimento indica appunto il formalismo di tale pretesa imperiale, e dunque il suo carattere arbitrario e politico. Ma proprio contro il formalismo della Legge e l‟assolutezza del principio politico si espresse la dottrina morale di Gesù, che stabilisce appunto la insuperabile differenza tra il principio naturalistico del Potere (potestas) di Cesare, e il carattere spirituale del Governo (auctoritas) di Dio. Se la potestà politica si determina attraverso la fattualità delle azioni umane considerate nel loro significato pubblico, per cui il giudizio politico ha come oggetto le actiones e non le intentiones, l‟autorità morale si stabilisce nella considerazione delle azioni umane in riferimento alla totalità della personalità che le ha intenzionalmente o meno poste in essere, e le cui determinazioni storiche, non essendo preventivabili in quanto legate non a una costante necessità naturale ma all‟imponderabile libero arbitrio di ogni uomo, non sono umanamente giudicabili in sé ma solo in riferimento al valore morale meta-temporale, che in quanto eterno non può essere quello prescritto dalla legge, che è universale solo nel senso di comune al gruppo. Da qui la differenza tra la
584
Ved. J. Habermas, La sostanzialità contraffatta (1970), in Profili politico-filosofici, tr. it., Milano, 2000.
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fittizia universalità della vigenza erga omnes della lex politica e la vera universalità del nomos morale, trascendente ogni determinazione politica particolare. Ma da qui anche la radicale differenza tra la conoscenza dell‟Altro in senso morale, e il riconoscimento dell‟Altro in senso giuridico-politico. La conoscenza morale inerisce alla intierezza della esistenza dell‟Altro come persona spirituale, creativa di storia e quindi come agente di libertà, mentre il riconoscimento politico dell‟Altro riguarda i soli aspetti del gruppo riconosciuto legati alla sussistenza economica del gruppo riconoscente, a esclusione di ogni altro aspetto, politicamente inafferente. La conoscenza morale è inclusiva del riconoscimento politico, laddove questo è esclusivo della conoscenza morale. La conoscenza che, per statuto epistemologico, è “esclusiva di valori” (Wertfrei) è quella della logica scientifica, la conoscenza razionale per definizione, il cui oggetto di giudizio sono i “fatti”, cioè la realtà fenomenica. I fatti della realtà umana sono le “azioni” (res gesta), espressioni della volontà, e non le “intenzioni”, le quali includono sia la volontà che la nolontà, ossia tanto la voluntas che l‟intentio. La conoscenza razionale considera i soli dati di fatto, che, acquisiti come se fossero uguali e costanti, li unisce secondo una ipotetica legge universale. Questa ipotesi non è possibile formularla nel caso delle azioni umane, le quali, essendo libere di determinarsi secondo l‟arbitrio singolare, no sono prevedibili. L‟accertamento di una condotta umana, legale come politica, è subordinato sempre alla prescrizione della sua fenomenologia nel senso della sua rilevanza ovvero della sua irrilevanza rispetto al modello prescritto come valido, come rilevante. La prescrizione di cui si tratta è dunque un punto di vista sul tutto: una opinione razionalizzata come realtà valida distinta da quella invalida e perciò indifferente al giudizio prescrittivo. Dal punto di vista morale, invece, nessuna azione o volizione o intenzione è indifferente al giudizio sulla persona, cioè alla sua valutazione totale. Ciò comporta che il giudizio morale non distingue né esclude il valore rilevate dall‟irrilevante nella persona, essendo valore rilevante non ciò che fa la persona ma ciò che essa è in quanto storia spirituale in fieri. Il giudizio razionale essendo relativo ai facta inerisce sempre al passato, il quale costituisce la dimensione di certezza del valore considerato, laddove il giudizio morale è aperto al futuro, alla speranza, al mistero e all‟incognito. E proprio la considerazione dell‟esperienza umana come mistero dell‟esistenza dell‟uomo, fa di quella esperienza esistenziale una storia spirituale intessuta dello stesso Mistero divino,
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inconoscibile all‟uomo ma la cui consapevolezza lo costituisce come la fonte medesima della Verità. La Verità come mysterium Dei è la cifra spirituale della conoscenza umana in senso cristiano. In questo senso, possiamo ben intendere la radicale differenza tra la conoscenza razionale della realtà delle opere umane, ossia la realtà del mondo, e l‟intuizione cristiana dell‟esistenza umana come storia spirituale. La conoscenza razionale interessa l‟Essere del mondo, è cioè una onto-logia, laddove la conoscenza cristiana dell‟uomo è l‟intuizione del suo Mistero, la veritas che abita in interiore homine. Considerare come rilevante rispetto al valore razionale il solo Essere dell‟uomo, a scapito dell‟ignoranza del Mistero che comprende la sua esistenza, significa ridurre la conoscenza alla sola fatticità, alla sola produzione fattuale, la quale, rimossa da essa ogni rilevanza intenzionale ossia morale, non è giudicabile sotto la luce eterna ma solo distinguibile in relazione al giudizio politico, ossia all‟utilità relativa al gruppo giudicante. Tale criterio politico, universalizzato nel senso dell‟unica rilevanza di conoscenza scientifica dell‟uomo, istituisce convenzionalmente il principio utilitaristico come il solo universalmente riconosciuto come valido nelle relazioni pubbliche fra gli uomini e fra i gruppi umani. In questa globale convenzione giuridica circa l‟unicità del valore economico-politico come valore universale dell‟umanità consiste l‟idolatria elettiva dell‟Anticristo, ossia dell‟ideologia democratica mondialista, fautrice dell‟origine popolare anziché divina della Verità intesa come opinio communis e del Potere. All‟interno dell‟orizzonte democratico, cioè della dottrina per la quale omnia potestas a populo, le diverse e confliggenti interpretazioni del principio mitico si scontrano per l‟egemonia della propria versione razionalizzata e, come al tempo delle sentite tensioni teologiche del cristianesimo dei primi secoli, cercano tenacemente e cruentemente di affermarsi a scapito e ad esclusione delle ideo-logie concorrenti. Esse sono l‟ideologia nazionalistica del fascismo politico, l‟ideologia comunistica del socialismo politico e l‟ideologia capitalistica del liberalismo politico. Tutte queste ideologie democraticistiche di cultura immanentistica hanno un comune nemico, la religione trascendente universale che ha dominato la cultura e la politica mondiale per oltre un millennio. Con l‟eliminazione della fascistica e della socialistica, a competere il campo alla dottrina cristiana è rimasta l‟ideologia capitalistica, con la sua religione civile democratico-eudemonistica, che a fronte della massimizzazione della produzione e dei consumi promette a
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ognuno il massimo della disponibilità del mondo e di se stessi, cioè della libertà da ogni dovere che non sia quello della miglior vita possibile per tutti. Seduzione subdola quanto penetrante, diabolicamente duttile e pervasiva, che s‟insinua tra le pieghe di ogni civiltà e ogni cultura, trasformandone per mezzo della funzionale razionalità della tecnica la tradizionale potenza spirituale del sapere che le governava con l‟antico retaggio sapienziale, in superflua archeologia sovrastrutturale, allo scopo di inaugurare un nuovo eone post-cristiano all‟insegna dell‟homo technicus democraticus di modello americano, che segnerebbe la fine dell‟identità di Cristianesimo e Storia umana e l‟instaurazione del nuovo Regno dell‟umanità pleromatica dell‟homo homini deus. Contro la minaccia del pleroma democratico-capitalistico concorrente alla Weltanschauung cattolica e subentrante nella pretesa mondialistica, la teologia politica cristiana, dalla cui crisi si è sviluppata, per un verso, la secolarizzazione delle culture politiche dell‟orizzonte cristiano-europeo, e per l‟altro la sacralizzazione del sistema sociale democraticocapitalistico, non può che ripartire dal pensiero di Agostino, la cui intuizione della verità della fede ha fondato una lettura del mondo e dell‟esistenza umana in esso diversa da quella alessandrina che si definì nella teologia politica di Eusebio di Cesarea e che entrò in crisi a partire della Riforma consumandosi nel XX secolo nell‟estremo appello di Schmitt. Ciò che entrò in crisi di quella teologia politica fu la pretesa teocratica di “ridurre la persona divina alla vigenza del mondo”,585 dalla cui reazione sorse l‟opposta tendenza scissionista, lo spiritualismo protestantico e il liberalismo politico. Agostino, con la sua teoria insuperabilmente dualistica, offrì una rappresentazione del divino nel mondo che non lo confuse col mondo, e dunque non lo risolse nell‟immagine mitizzata del mondo, ma istituì la autorità divina sul mondo mantenendola nella sua differenza dal mondo; differenza in cui risiede la sua autorità: l‟autorità della “differenza ontologica” (Heidegger) di ciò che permane rispetto a ciò che diviene. 586
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Epimeteo, Finis Europae, cit., pag. 381. “Agli occhi di Agostino, tutta la storia si deve leggere come un incessante conflitto tra due forme di socialità, l‟una fondata sul bene e sull‟amore dell‟uomo per Dio, l‟altra sull‟egoismo e sull‟amore dell‟uomo per se stesso. Questa distinzione separa l‟umanità in due città distinte, ma invisibili e contemporaneamente presenti nel mondo”, di cui una sola, “la più importante delle due” è “destinata a durare oltre l‟orizzonte del tempo”. 586
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Una questione che rimane essenziale, perché prioritaria rispetto a ogni determinazione teologico-politica, è quella inerente alla natura singolare ovvero collettiva dell‟attesa escatologica, sulla cui base è possibile pervenire a una concreta teoria dell‟azione cristiana nel mondo. A seconda infatti della definizione della modalità di quella natura escatologica, ne dipende la relativa considerazione della funzione della Chiesa e dello Stato. Solo una declinazione soggettiva della salvezza dell‟anima può pervenire a risoluzione politica di tipo contrattualistico, rientrando nella disponibilità di ogni contraente del patto civile la libertà di testimoniare la sua singolare identità spirituale. Viceversa, una determinazione collettiva dell‟attesa escatologica nel tempo intermedio stabilisce la fondamentale e imprescindibile realtà istituzionale della Chiesa, la cui funzione politica storicamente coincide con la sua stessa rappresentatività del corpo mistico cristiano. E se la prospettiva individualistica giunge alla costituzione dello Stato in assenza o in alternativa alla non necessaria istituzione ecclesiale, la affermazione della prospettiva collettiva postula il riconoscimento della necessità escatologica della sola Chiesa, rispetto alla cui necessaria esistenza la formazione storica degli Stati, ossia della forma politica di convivenza umana, appare un‟opzione secondaria e transeunte, ossia accidentale. La secolarizzazione della cultura moderna, e dunque della definizione razionale delle diverse e contrastanti prospettive politiche del tempo, si riflette nella preventiva rimozione ideologica di questo discrimine teologico, senza il quale la questione religiosa viene a perdere ogni rilevanza “pubblica”. La perdita della rilevanza pubblica, ossia politica in senso schmittiano, della questione teologica è la condizione della assolutizzazione della posizione politica, priva di ogni fondamento teologico al pari di ogni sapere razionalistico moderno, privato del suo fondamento mitico-veritativo. Questa rimozione razionalistica del fondamento ha consentito l‟affermazione culturale delle ideologie totalitarie, e la stessa posteriore occupazione dello spazio pubblico da parte della versione capitalistica, la quale appunto postula l‟origine
“Agostino vedeva con molta più chiarezza di Ippolito e Girolamo che quello di Roma era solo uno dei tanti regni di questo mondo, destinato a passare e a essere sostituito, come tutti quelli che l‟avevano preceduto”: M. Rizzi, Anticristo. L’inizio della fine del mondo, Bologna, 2015, pagg. 51 e 57.
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popolare e non divina della sovranità politica in conseguenza della negazione protestantica dell‟istituzione che presidia la realtà collettiva dell‟identità spirituale, alla quale l‟ideologia democratica sostituisce l‟identità politica assolutizzata. Le due diverse prospettive teologiche disegnano due rispettive antropologie, l‟una costruita sulla possibilità di ogni uomo di conformarsi liberamente alla giustizia divina sulla base di una oggettiva razionalità che priva il giudizio divino nel secondo avvento di ogni arbitrarietà, rendendolo in qualche modo umanamente prevedibile e legittimo, mentre l‟altra ripone ogni salvezza umana sull‟imponderabile intervento salvifico dello Spirito santo, verso il quale l‟uomo deve disporsi ad accoglierlo, senza alcuna certezza di tempo né di contenuti. Nel primo caso, l‟accento cade più sulla modalità del giudizio che sulla condizionatezza esistenziale dell‟avvento, laddove nell‟altro caso la sua imponderabilità ispira una solidale disposizione fraterna che nella propria condizione di fragilità riflette la condizione comune a ogni uomo. Nel primo caso, la socialità è una deliberata opzione di opportunità economica, che non determina l‟identità spirituale singolare dell‟uomo, nell‟altro invece la condivisione dell‟attesa della compiutezza escatologica induce nell‟interim ad affidarsi alla guida pastorale del magistero apostolico. Inoltre, l‟individualismo soteriologico sposta il paradigma storico della vita collettiva dell‟uomo sulla socialità politica, quale atteggiamento volontaristico dell‟agire razionalmente predisposto dal libero accordo degli uomini, laddove la seconda prospettiva riconosce nella stessa condizione spirituale dell‟uomo l‟essenza della sua storicità come dato esistenziale originario e consustanziale al suo agire nel tempo. La possibilità di assimilarsi a Dio (homòiosis) attraverso l‟esercizio delle virtù e della contemplazione era prevista sin dalla tradizione alessandrina, che riteneva di poter pervenire alla vita eticamente perfetta. Ma, rispetto alla prospettiva antica della beatitudine, la teoria moderna non si concentra sulla perfezione morale e gnoseologica, ma sull‟intelligenza pratica e sul progresso nella perfezione delle possibilità tecniche dell‟homo oeconomicus. Non si assomiglia più a Dio attraverso la sapiente esegesi del Suo logos, ossia in ambito teoretico, ma nel potere di modificare l‟immagine, se non proprio la struttura, del mondo. La “convinzione che un mutamento nell‟ordine dell‟essere rientri nell‟ambito dell‟azione umana” è il tratto immanentistico tipicamente gnostico della cultura del fare che caratterizza il nostro tempo, in cui “la
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conoscenza – gnosi – del metodo per trasformare l‟essere costituisce la preoccupazione centrale”.587 La relativa “formula della salvezza dell‟io e del mondo” è, nella forma ideologica residuale dopo la fine del nazionalismo e del comunismo storici, la democrazia capitalistica. Essa è la forma più radicale di immanentizzazione dell‟éschaton cristiano, sostituito con una salvezza mondana a portata della volontà umana. Immanenza significa inversione dell‟ordine valoriale nella concezione antropologica, per cui non è l‟orizzonte spirituale, incentrato sulla ricerca e il perseguimento del Bene, quello di riferimento per l‟ azione umana ma l‟orizzonte naturalistico, dominato dagli istinti della sopravvivenza e della paura della morte. “Lo stato „naturale‟ della società dev‟essere quindi concepito come la guerra di tutti contro tutti [e] il solo modo per gli uomini di uscire dalla guerra di questo stato di natura condizionato dalla passione è di sottomettersi a una passione più forte di tutte le altre, che domerà la loro aggressività e il loro impulso di dominazione e li indurrà a vivere in un ordine pacifico”. 588 Da qui il primato della prassi sulla contemplazione, e della politica e dell‟economia, quali scienze mondane, sulla metafisica e sulla teologia, ridotte a saperi privati. Ma da qui anche l‟inevitabile decadenza della civiltà in progressione della potenza sociale, che sviluppandosi fuori di ogni controllo governamentale rischia di introflettersi provocandone la auto-dissoluzione per mancanza di finalità trascendenti l‟acquisizione della potenza stessa. L‟esito di questo processo dissolutivo è la guerra indiscriminata, prodotta dalla inconoscibilità dell‟uomo da parte dell‟altro uomo a seguito della mancanza di un Logos comune al quale ognuno partecipi e sia consustanziale alla propria natura. L‟alterità quale condizione naturale ed esistenziale dell‟uomo domina l‟orizzonte fisiologico della guerra universale, del principio politico nel senso di Schmitt. Questa ritorsione irrazionalistica e anti-cristiana di una ratio assolutizzata e priva di ogni tèlos trascendente è la conclusione superstiziosa dell‟emancipazione dalla fede nei fondamenti del sapere patrocinata dalla secolarizzata scienza tecnologica moderna; un sapere frantumato nelle sue molteplici direzioni particolari, prive di metafisica unità.
587 588
Ved. E. Voegelin, Ersatz Religion (1960), tr. it., Milano, 1990, pag. 9. E. Voegelin, Loc. cit., pag. 28.
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7. La logica stabilisce la sua unità sul fondamento del rapporto formacontenuto. Questa correlazione concettuale costituisce una forma d‟essere che insieme determina un modo d‟essere del suo contenuto esistentivo. Il modo d‟essere di ciò che è, interessa nel contempo il modo d‟essere di ciò che esiste, per cui ciò che esiste nel modo d‟essere del suo essere, esiste come ciò che è. Esistere come essere, significa essere contenuto di una forma. Nell‟ambito del rapporto logico, l‟essere del contenuto coincide con l‟essere della forma, per cui l‟esistenza di ciò che logicamente è viene identificata con l‟essenza ideale, e l‟essenza ideale identificata con l‟esistenza reale. Ma la realtà logica non è la realtà spazio-temporale propria dell‟essere fisico, per cui la determinazione formale dell‟essere contenuto della forma logica non determina anche l‟esistenza spaziotemporale dell‟essere concettuale. Questa determinazione reale è esterna al concetto d‟essere formale, il quale, senza tale determinazione reale, stabilisce col suo contenuto una correlazione assoluta, che è la realtà propria della forma artistica. L‟opera d‟arte è una realtà in sé conchiusa, il cui contenuto è giustificato soltanto dalla sua forma. Questa relazione assoluta consente all‟opera d‟arte di non sottostare ad alcun giudizio di realtà conseguente ad altro criterio che non sia quello formale suo proprio, per cui nell‟arte non c‟è errore perché non è possibile stabilire la correlazione tra l‟essere ideale formale e l‟essere reale in senso spazio-temporale o esistentivo. Correlazione che stabilisce il criterio di verità di ogni concetto logico, il quale o è oppure non è vero. Criterio del tutto estraneo all‟arte, per cui assumere l‟essere dell‟arte come modello d‟essere del concetto logico di realtà è una aristotelica “metabasi in altro genere”, che confonde la realtà dei contenuti di coscienza, prodotto della nostra immaginazione creativa, con la realtà degli enti fenomenici. L‟arte, infatti, rappresenta la realtà, ma non la sua essenza della realtà, la quale a sua volta è diversa dalla sua esperienza reale. Un botanico può conoscere quasi tutto dei girasoli, ma non alla maniera di Van Gogh, il quale dipingendoli li rappresenta, ma non ne esprime l‟essenza ideale, che è univoca, bensì l‟essenza formale, che è simbolica. Il contenuto dell‟arte è creato dalla sua forma simbolica, mentre la conoscenza logica dei fenomeni tratta della loro esistenza reale o fenomenica. Il che vuol dire che nella sfera logica l‟esistenza precede l‟essenza: la realtà è cioè indipendente dalla conoscenza. Questa realtà
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indipendente, non è distinta da quella teoretica, cioè pratica, ma è altra. Ed è tale alterità dalla forma conoscitiva a fare del mondo-della-vita un contenuto simbolico della conoscenza, e cioè possibile. Ed è questo contenuto ad essere l‟oggetto dell‟arte. La possibilità della conoscenza è dovuta all‟Essere della coscienza, determinabile in relazione al suo orizzonte di senso. Se infatti il contenuto, non essendo determinato dalla forma conoscitiva se non nel concetto o atto conoscente, esso non è pertanto pre-determinato logicamente, ma aperto a diverse possibili determinazioni conoscitive. E se il contenuto logico è un contenuto determinato necessariamente, tale cioè che il suo essere implica l‟esclusione di ogni suo non-essere, il contenuto che nn-è logico è disponibile ad altre determinazioni, per cui il suo essere proprio è la Possibilità, e non l‟essenza, che è la forma esclusiva dell‟essere logico. Il mondo-della-vita è la realtà possibile di molteplici determinazioni formali e perciò aperto alla trascendenza. Infatti, la realtà de-terminata in senso logico è de-finita dal suo concetto ideale, che è immanente al suo oggetto reale. La finitezza della de-finizione è quella della realtà del suo oggetto, per cui l‟immanenza dell‟idea nell‟oggetto di pensiero costituisce la loro corrispondenza ideale-reale, ossia la correlazione della realtà alla sua idea. Questa correlazione è intesa come certezza della coscienza razionale, che è la dimensione della necessità in cui si muove la conoscenza logica, per cui ciò che è così com‟è, non può essere altro da ciò che è. Da questa necessità deriva ogni etica, che in essa trova il suo fondamento deontologico. La realtà simbolica, invece, inerisce alla possibilità d‟essere di ciò che nonè determinato logicamente, e che esiste in quanto altro da ciò che è. Ciò che è, ossia l‟ente, è determinato dalla sua necessità d‟essere così com‟è, ossia dalla sua attualità. L‟attualità è la modalità d‟essere di ciò che è necessitato di essere ciò che è, cioè un ente logicamente de-finito, laddove ciò che non-è definito, è consegnato alla possibilità d‟essere altro da ciò che è necessario, e quindi alla sua libertà, la quale è la dimensione propria della realtà del mondo-della-vita, e quindi dell‟arte. Ma la libertà, che è l‟essenza dell‟Essere possibile, cioè la realtà della Possibilità, è l‟orizzonte di senso simbolico della fede, la quale dunque si rappresenta nella forma della possibilità, non della necessità, e quindi nella forma dell‟arte e non della logica. La fede nell‟Essere, in cui consiste l‟affermazione della sua esistenza, non esclude la sua determinazione logica, cioè la sua definizione, ma è la definizione logica che esclude la
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possibilità della fede in nome della necessità della certezza. E pertanto, se l‟orizzonte di senso della fede include il livello di coscienza logico, la coscienza logica esclude sempre, per de-finizione, la possibilità della fede. In tal senso, la realtà esclusa dalla definizione logica dell‟Essere, ossia la realtà possibile, è l‟orizzonte di senso della fede, ossia esclude la rappresentazione simbolica del mondo-della-vita, che è rappresentata dall‟arte. I contenuti simbolici dell‟arte sono gli stessi contenuti simbolici della fede, per cui la realtà del sacro è la realtà rappresentata dall‟arte. E non già la realtà oggetto della conoscenza logica. Aver determinato logicamente i contenuti simbolici della fede, è equivalso ad aver rappresentato l‟Essere possibile nei termini della necessità, anziché della libertà, che è l‟essenza della fede. Questo ha costituito l‟errore fondamentale della coscienza religiosa cristiana, che si è determinata attraverso le forme teoretiche della logica greca, e da cui è nato il formalismo razionalistico del mondo moderno. La possibilità, quale dimensione aperta a una pluralità di determinazioni di pensiero, e quindi libera, si traduce in necessità di ciò che è così e non altrimenti, nel concetto, il quale attribuisce al suo contenuto un significato determinato. Ciò vuol dire che nella definizione concettuale la determinazione logica rappresenta una necessità valida solo nell‟ambito di quella determinazione, ma non è costitutiva dell‟essere del suo contenuto extra-categoriale. Tale “essere”, fuori del concetto, è un essere esistenziale, aperto alla possibilità d‟essere altrimenti da ciò che è. L‟essere esistenziale e l‟essere essenziale coincidono solo nel concetto, ma non nel mondo-dellavita, che è l‟orizzonte ontologico della possibilità. Poiché i fenomeni mondani, gli enti, si manifestano in una relazione che non è temporale ma di senso, il “dato” fenomenico si presenta alla coscienza logica in un ordine di senso empirico che è “sistemico” in relazione alla comprensibilità razionale presupposta dal “sistema”. Ed è questa struttura empirica del “sistema” di senso a variare storicamente nel tempo in relazione alle forme di cultura di un‟epoca o di una civiltà. Ma questo ordine sistematico, empirico, è ben diverso da una “sistemazione” propria di un ordine trascendentale, originario e costitutivo quanto l‟altro sia riflesso. Per cui “si deve considerare la sistemazione come una forma costitutiva, perché un oggetto teorico non sistematizzato è addirittura
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inconcepibile”.589 Ciò significa che il “dato” dell‟esperienza appartiene a una “sistemazione”, prima di appartenere a un eventuale “sistema” di relazioni empiriche riflesse razionalmente. La sistemazione logico-trascendentale è un ordine puramente formale, oggettivo e indipendente da ogni attività concettualizzante soggettiva. Un teorema, un giudizio, un concetto, la soluzione di un problema, hanno un senso soltanto se si presuppone che c‟è una soluzione corretta, per quanto provvisoria ed erronea possa essere quella momentanea, che c‟è una verità valida indipendentemente dal nostro contributo che non sorge nel nostro pensiero, ma al contrario viene da esso cercata, voluta e in caso positivo raggiunta. Per formare comunque un concetto, si deve emettere un giudizio, si devono presupporre le sistemazioni nelle loro forme postulate come completamente chiuse e valide in sé.590
Solo in relazione alla sua “forma” un contenuto può essere giudicato vero o falso. Ma la forma può essere vera o falsa solo in rapporto alla verità in sé, ossia alla relazione che il concetto ha col suo contesto sistematico. I problema della conoscenza come “teoria” formale, presuppone che la conoscenza abbia di necessità un carattere “razionale”, confondendo la “conoscenza” con il “sistema” razionale. Ma la conoscenza razionale è conoscenza non di realtà, ma di relazioni, sicché essa opera astraendo dalla concreta realtà dei fenomeni per assumerne il solo valore di senso, e cioè, appunto, di relazione. La considerazione dei fenomeni si sposta dal loro essere evidente al loro essere in relazione ideale, il quale è perciò relativo al processo entro il quale i fenomeni vengono inscritti. Nella conoscenza razionale, dunque, non sono i fenomeni ad avere valore ma la loro relazione di senso. Ciò implica che i fenomeni oggetto della conoscenza, astratti del loro valore assoluto, proprio alla loro singolarità esistenziale, possano essere intercambiabili senza che venga a perdersi il loro valore di senso, cioè il valore conoscitivo della relazione razionale. In questa trasposizione della realtà propria con la realtà ideale consiste la astrattezza della conoscenza scientifica,la quale non considera i suoi oggetti quali
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K. Mannheim, La logica della sistemazione filosofica, in L’analisi strutturale della epistemologia (1922), tr. it., Milano, 1967, pag. 45. 590 Ivi, pag. 48.
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appaiono all‟esperienza concreta, ma in quanto realtà relativa al loro nesso razionale, sistemico. Il “relativismo” è il carattere proprio della conoscenza scientifica, che considera dello stesso valore oggettivo tanto l‟evento meramente temporale (Ereignis) – la presa della Bastiglia o la morte di Cesare – che l‟evento escatologico (Dòkema). La conoscenza della realtà nella sua dis-formità concretamente in divenire, è percezione intuitiva, non razionale. L‟intuizione conosce i fenomeni nella loro apparenza mondana, per cui, mentre la ragione astrae da questa intuizione del mondo per stabilire tra i fenomeni una relazione di tipo logico, l‟intuizione aderisce completamente alla realtà come essa appare all‟esperienza immediata. Immediatezza ed apparenza sono i caratteri dell‟intuizione, ma anche della conoscenza razionale, per cui non è da essi che questa astrae per affermarsi. Infatti, il carattere ulteriore e fondamentale dell‟intuizione, in quanto originario, e dal quale la conoscenza razionale astrae per stabilire i rapporti causali tra i fenomeni, è la Possibilità dell‟essere di divenire altro da ciò che appare, ossia di essere altro da ciò che attualmente è. L‟intuizione coglie il divenire della possibilità dell‟Essere, e quindi anche l‟elemento negativo che la conoscenza razionale non considera a favore della sola positività attuale del tempo presente. Il presente è il tempo della storia, in cui tutto è ciò che è in relazione alla sua attualità fenomenica, ossia entro la realtà di senso logico, esclusivo di ogni altro. Ed è l‟evento storico quello che sorge e termina dal Negativo opposto alla positività dell‟attualità, e non già il fenomeno intuito secondo la sua possibilità d‟essere nell‟Essere possibile, ulteriore a quello esclusivamente attuale. Nell‟orizzonte di senso della Possibilità va intuito l‟evento escatologico fondativo del senso stesso della Storia, il Dòkema di Cristo, che sussiste nella storia umana come la Storia significativa della possibilità di essere sempre altro da ciò che è, e quindi di essere oltre l‟effettualità del solo presente. Tale alterità ontologica e tale ulteriorità temporale costituiscono i caratteri essenziali della trascendenza dalla attualità della storia e della conoscenza razionale. Il fondamento di realtà della conoscenza intuitiva del mondo non è lo stesso fondamento di realtà della conoscenza razionale. Questa differenza fondamentale è la stessa che distingue la libertà della Possibilità dalla necessità dell‟Attualità. Ed è la stessa differenza che distingue l‟intuizione dell‟Essere possibile dalla conoscenza dell‟Essere certo. La certezza non appartiene all‟intuizione, ma alla cognizione razionale, che appunto non è
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libera di determinarsi ma soggetta alla necessità. Se questo è chiaro, si comprende bene l‟impossibilità, o improprietà, di conoscere razionalmente l‟Evento escatologico, e quindi l‟impossibilità o improprietà di giustificare la fede nel Dòkema con la ragione. La conseguenza di tale coscienza è che la stessa libertà umana sussiste solo entro l‟orizzonte di senso ontologico della possibilità, per cui ogni forma di relazione razionale tende a convertirla in necessità. Sicché la forma di socialità definita attraverso il patto politico di società è fondamentalmente illiberale, in quanto determinata secondo i senso della necessità razionale. La forma di socialità predicata da Cristo non è, dunque, quella politica derivata dalla conoscenza razionale del mondo, ma bensì quella della verità che libera da tale costrizione razionalistica. La “verità che rende liberi” è quella che afferma che l‟essenza dell‟Essere sia la Possibilità, e non la necessità, per cui l‟essenza della realtà sia l‟amore e non già la legge. Amore vuol dire anzitutto a-more, ossia differenza dalle convenzioni sociali, dalle regole di condotta stabilite secondo prescrizione legale. Il modo d‟essere della relazione libera è di costituirsi fuori della costrizione legale, fuori del pactum societatis, ma per libera adesione. Aderire alla comunità di fede significa convertirsi alla libertà. E “conversione” non significa “rivoluzione”, cioè passaggio dalla condizione concreta a quella razionale, ma l‟opposto, ossia considerazione della insuperabile finitezza della condizione umana. Come aveva ben intuito Chateaubriand il fondamento dottrinario della socialità razionalisticamente intesa è il “sistema di perfezione”,591 consistente nel principio secondo il quale i governi sono predisposti a conseguire il bene comune dei governati. In base a tale principio, la politica diventa il sostituto razionale della Provvidenza, agendo sulla realtà razionalizzata della società con la tempestività e giustizia relativa alla certezza della sua cognizione morale. Conoscenza razionale e politica stanno in un rapporto logico molto stretto, chiaramente colto da Mannheim, per il quale “alla base di ogni pensiero politico stanno certi assunti filosofici, mentre in ogni filosofia sono impliciti un certo modello d‟azione
591
F.R. de Chateaubriand, Essai historique, politique et moral sur les révolutions anciennes et modernes, considérées dans leurs rapports avec la Révolution Française (1797 e 1826), tr. it., Milano, 2006, pag. 82.
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e un dato modo di vedere il mondo”.592 Esisterebbe dunque una corrispondenza logica necessaria tra pensiero e azione che, sia pure inconsapevolmente, consente la leggibilità razionale della prassi politica attraverso il riferimento (implicito) ai suoi principi ispiratori di natura ideale. ciò vuol dire che la prassi è orientata sulla falsariga di una necessità logica che la sovrasta e che la costituisce come senso tendenziale del suo processo razionale. Prosegue Mannheim: Dal nostro punto di vista, tutta la filosofia non è che un‟elaborazione più profonda di un dato tipo d‟azione. Per comprendere la filosofia, si deve comprendere la natura dell‟azione (dell‟approccio pratico al mondo) che ne è alla base. Questa „azione‟ è un modo speciale, specifico di ogni gruppo, di penetrare la realtà sociale; le sue forme più tangibili sono quelle politiche. La lotta politica esprime i fini e gli scopi che danno vita inconsciamente, ma coerentemente in tutte le interpretazioni coscienti o pre-coscienti del mondo, proprio di un gruppo determinato.593
Il “punto di vista” assunto è quello del sistema razionale che cerca nessi coerenti e li trova nel “rispecchiamento” ideale del sistema d‟azione nel modello formale. La forma è una “elaborazione” dell‟azione, ossia la sua sistematica spiegazione razionale secondo un “sistema” di corrispondenze razionalmente coerenti. Su questo schema Pareto ha derivato la sua teoria delle “derivazioni”. In essa la filosofia ha solo una funzione pragmatica, ovvero, come in Hegel, una funzione esplicativa della prassi, a seconda che il punto di osservazione sia, rispettivamente, ex ante ovvero ex post. Spostato modernamente il senso unitario dalla religione alla politica, il pensiero diventa funzionale alla prassi, da funzione ancillare che quest‟ultima aveva in origine. Finché ci si poneva all‟interno dell‟orizzonte di senso metafisico tradizionale, era impossibile almeno affrontare la crisi nei termini di una corretta presa di coscienza, tale cioè che non rinviasse, come proponeva Husserl, a un ritorno ai fondamenti del Logos interni allo stesso filosofare. In verità, l‟appello ai fondamenti poteva trovare una qualche plausibilità solo se auspicava un trascendimento dell‟orizzonte noetico
592
K. Mannheim, Il pensiero conservatore (1927), tr. it. in Id., L’analisi strutturale della epistemologia, Roma, 1967, pag. 148. 593 Ibidem.
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tradizionale, giunto appunto inequivocabilmente alla crisi estrema nel luogo stesso del suo rispecchiamento esistenziale, lo spazio politico. Trascendere lo spazio politico significava tornare alla pienezza del Verbo, allo spazio del legein in cui originavano le stesse determinazioni del logos razionale, cioè di quel pensiero filosofico che aveva suscitato e ispirato la téchne politiké. Il legein quale capacità umana di comunicare con gli altri costitutiva secondo Aristotile dell‟essenza dell‟uomo, non è originariamente il ragionare sui principi, ossia il distinguere l‟Essere dal non-essere, ma il rappresentare la realtà stabilendo un legame verbale – un legein appunto – tra la posizione dell‟uomo (la sua coscienza) e le cose. Solo dopo interverrà il bisogno di stabilire una relazione anche tra le cose, distinguendole, e pertanto di stabilire le differenze nominali e le relazioni razionali tra esse. Il logos è funzionale all‟agire comunicativo, ossia all‟attività politica, mentre il legein non aveva una finalità pratica, cioè trasformativa, ma rappresentativa, cioè contemplativa, del mondo. Aristotile stesso aveva fatto iniziare il filosofare dal thaumazein, che è l‟atteggiamento della meraviglia verso quanto accade fuori dell‟uomo e della sua portata materiale. Ciò che appare e resta fuori della portata manipolatrice dell‟uomo suscita meraviglia, che si riassume negli atteggiamenti essenziali del fascino e della paura. Per scongiurare la dipendenza ovvero l‟impotenza dell‟uomo da questi fenomeni, la coscienza sviluppa un discorso di relazione con l‟evento meraviglioso che lo rappresenta come un accadimento verbale, un racconto. Il modo propriamente umano di entrare in relazione con l‟evento in-dipendente da lui e fuori quindi della sua portata è di assumerlo come vento rappresentativo di una stria verbale, come racconto narrato, ossia Mito. Il Mito dunque è la narrazione della relazione dell‟uomo, ovvero della coscienza umana, con ciò che non dipende dall‟uomo, col divino. Il divino, nella rielaborazione razionale del Mito, diventa l‟Essere, cioè la fonte originaria oggettivata dell‟evento, l‟arché dell‟ente, di ciò che appare. La modalità di relazionarsi del logos col mondo e di emanciparsi quindi dal legein è la scrittura, con cui istituzionalizziamo la nostra relazione con il mondo. Il mondo non viene più soltanto “chiamato”, ma anche “de-finito”, ossia ordinato secondo il suo essere-ciò-che-è anziché altro. La determinazione dell‟essere dell‟ente consiste nell‟attribuirgli un ordine nel mondo. Pensare all‟ente significa assegnargli un posto, il suo posto nel mondo, e quindi organizzare il mondo. Assegnare un posto all‟ente comporta anche il garantirgli la sua stabilità,
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la persistenza nel suo essere ciò che è anziché altro. La garanzia dell‟ordine mondano appella l‟esercizio della forza garante della stabilità. Ma l‟appello alla forza, ossia la garanzia della stabilità dell‟ordine del mondo, non deriva immediatamente, cioè necessariamente, dall‟appello, dalla nominazione degli enti (Nennen). Essa è la conseguenza della volontà di affermare l‟ordine nominale come una determinazione universale, riconoscibile da tutti, e quindi de-finitiva. Definire l‟ente nel suo ordine mondano significa stabilire la sua relazione con gli altri enti in maniera stabile e duratura, de-finitiva. Ed è a garanzia di tale di-finitività che il pensiero si appella alla forza garante, la quale altro non è che l‟organizzazione della vita in comune in relazione all‟ordine definitorio degli enti. In questo senso, la definizione aristotelica dell‟uomo come essere politico è collegata strettamente al suo potere di nominazione degli enti. Le due condizioni antropologiche si richiamano a vicenda e si integrano nella reciproca legittimazione. E‟ allorquando le due qualità antropologiche fanno a meno del riconoscimento della loro derivazione mitica che avviene lo strappo logoico dal legein. La parola unita alla forza si sostengono a vicenda nel costituire l‟orizzonte significativo per l‟uomo. Assumendo l‟Essere come oggetto del pensiero inizia la filosofia, il legein viene reinterpretato alla luce del logos, cioè del discorso logico che distingue all‟interno della rappresentazione mitica l‟ente reale-razionale dalla rappresentazione non reale, fantastica, che diventa l‟elemento negativo dell‟Essere razionalmente conosciuto. Ed questa in-realtà della rappresentazione mitica originaria che viene rimossa dalla rappresentazione razionalistica della realtà. Ed è da questa rimozione dell‟originaria totalità paterna a ispirare il sentimento dell‟angoscia e il senso di colpa per il parricidio metafisico della ragione, perpetrato per confermare l‟ordine razionale, definito dalla ragione. L‟ordine della ragione emancipata dal semplice legein originario e stabilito in modo definitivo è il Potere. Dall‟indistinto mitico eviene qualcosa (tò sumpipton), che si distacca dalla eterna durata del Tutto ed assume una sua realtà reale-temporale: l‟hic et nunc è anche istante temporale, attualità. Ciò che è, è tempo. L‟ente è in quanto presente. La temporalizzazione ontica di ciò che è, indica una origine dalla pura durata, e quindi dall‟Eterno, che per i teologi greci come Anassimandro era il luogo degli dèi, che governavano il Tutto. In questo senso, la determinazione dell‟ente dall‟Essere divino
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originario si costituisce come evento della temporalità presente che si distingue dall‟ambito dell‟eterno Governo divino. L‟organizzazione definitoria degli enti mondani stabilisce un ordinamento temporale la cui de-finizione attuale si stabilisce in termini di durata di ciò-che-è, ossia del presente, quale semper del nunc. La stabilizzazione de-finitiva di ciòche-è, dell‟ente, è la de-finizione razionale del concetto operata dal logos. Logico è ciò che viene nominalmente stabilito per durare: la de-finizione universale, l‟Idea. Ma ciò che viene idealmente stabilito è appunto l‟ente, ciò-che-è, ossia l‟evento attuale. E pertanto la definizione concettuale o ideale o categoriale dell‟universale è la determinazione de-finitiva dell‟ente, la stabilizzazione di ciò-che-è presente assunto in termini di durata. L‟Idea è l‟ente in senso universale, ossia il presente assunto (nominato) in termini di durata in-finita. E quindi come se fosse evento in-definito, ossia mitico. Ma rispetto alla durata mitica, la durata universale è puramente ideale, ossia ipoteticamente simile a quella vera, la originaria, e perciò la concettualità razionalistica è in sé puramente convenzionale. La con-venzionalità della de-finizione razionale è il carattere della opinione socializzata, ossia della asserzione definitoria creduta vera nell‟ambito ideale della sua stessa credenza. E poiché l‟ambito della credenza è quello sociale del convivenza umana, ecco il carattere politico di ogni opinione di valore pubblico. Razionalità e pubblicità sono gli aspetti concomitanti del logos, rispetto al cui orizzonte de-finitorio la verità archetipa originaria del legein mitico è trascendente. La verità trascende l‟Idea, la forma razionale del mondo, il cui topos è la polis. Entro la “differenza ontologica” tra enti ed Essere s‟insinua la libertà quale spazio della possibilità di trascendere la finitezza della condizione politica e accedere, attraverso il suo richiamo, all‟Essere. Fondamentale alla libertà è dunque l‟attesa per l‟ascolto, la vocazione. Condizione dell‟ascolto, e quindi della libertà umana, è la fede nella realtà dell‟Essere, che per Heidegger, è ciò che non-è ente, cioè fenomeno, e perciò, come insegnava S. Paolo, può raggiungersi solo attraverso la credenza nella sua esistenza, la fede, che accede all‟Eterno, al luogo del divino. La fede nella realtà dell‟evento non deriva dall‟evento stesso quale sua necessità razionale, ma dal libero convincimento del soggetto conoscente. Senza tale convincimento di fede, l‟evento non è una realtà razionale ma tutt‟al più una realtà fenomenica. In tal senso sarebbe più opportuno
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asserire che all‟inizio di ogni discorso razionale sulla realtà, c‟è la fede nella realtà. La colpa, quale sentimento morale, è il portato dell‟oblio dell‟Essere, ossia dell‟abbandono della coscienza alla realtà fenomenica, al mondo della finitezza. La colpa morale nasce dalla consapevolezza della riduzione dell‟esistenza umana alla dimensione della finitezza naturalistica, in cui regnano le relazioni di dominio. La libertà è la gratuità della fede ovvero dell‟oblio. L‟Essere e gli enti, ossia il Non-essere e il Molteplice, sono in relazione di differenza, ma tale relazione li costituisce entrambi come coappartenenti a un orizzonte di realtà che solo la parola (logos) può attingere e a cui può pervenire. Questa regione “legoica”, cioè del lègein comprensivo sia dell‟Essere che degli enti, distinta da quella “logoica” o del logos filosofico, è quella del Mito, dove l‟in-definizione del logos inesistente (e perciò fantastico) e la determinazione ontica propria del logos razionale coesistono nella stesso orizzonte del linguaggio. L‟Essere per la metafisica greca è l‟unità di ciò che è, l‟universalità degli enti, la loro sostanza costante nel divenire della loro alterità e temporalità. L‟Essere, nel senso di Heidegger, è ciò da cui gli enti si distinguono come determinazioni particolari. Se tali determinazioni molteplici sono dell’Essere, sono sue determinazioni, allora l‟Essere ne è l‟unità substanziale, e in tal caso viene confermata l‟unità sia ontologica che gnoseologica. A un Essere corrisponde una conoscenza dell‟unica verità. Se, invece, l‟Essere è il Negativo dell‟ente, la loro differenza apre uno spazio ontologico che solo la fede può collegare. L‟esito di questo collegamento è la rappresentazione del loro rapporto, il racconto della differenza e della relazione. Questa rappresentazione (Vor-stellung) e questo racconto (Dar-stellung), inerendo a dimensioni eterogenee, o procedono alla rimozione delle differenze a favore dell‟omogeneizzazione ontologica, riducendo l‟altro al sé; ovvero operano nel senso della radicalizzazione della differenza attraverso l‟eliminazione del ponte della fede, intendendo questa come mera contemplazione dell‟assolutamente Altro. La terza possibilità di contemplare la con-presenza dei due elementi costitutivi della differenza entro l‟esistenza dell‟uomo, la cui rappresentazione si avvale di un linguaggio che non è quello razionalistico della prima opzione o quello mistico della seconda, ma che è simbolico, tale ciò da rimandare dall‟una all‟altra dimensione attraverso la polisemia delle cifre simbolico-
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rappresentative. Questa strada è quella perseguita sia dal linguaggio dell‟arte che dal linguaggio religioso, forme entrambe espressive del linguaggio mitopoietico. Esso, nondimeno, fu anche il linguaggio del primo grande filosofo della tradizione occidentale, Platone, nei cui dialoghi la poesia era commista alla ragione. Il maggiore dei filosofi fu perciò anche uno dei maggiori mitologi. Ma la rappresentazione narrativa più ricca di significati simbolici è quella che s‟incentra sulla vicenda esistenziale di Gesù il Cristo, la cui mito-logia costituisce il paradigma antropologico dell‟uomo pneumatico. L‟evento cristico unisce la verità del divino e la realtà del finito. Il Logos del Christos, pertanto, non è quello convenzionale del razionalismo greco che la tran-sumptio ellenistica ha lasciato credere, ma la cifra mondano-temporale della kénosis della paternità divina, la quale la costituisce nel suo significato escatologico. Tale significato era emerso storicamente con la crisi moderna della teologia politica cattolica, che aveva messo in discussione la sintesi tra cristianesimo e cultura razionalistica che in Eusebio di Cesarea e in Agostino trovava i due campioni teologici principali. Il loro intento, nella diversità delle rispettive prospettive, era stato quello di far convergere su uno stesso piano di realtà il tempo e l‟eternità, di cui Kierkegaard aveva denunciato, prima di Overbeck e di Barth, la insuperabile diversità.594 La diastasi tra fede e cultura si rifletteva in campo filosofico come mancanza di fondamenti veritativi e declinazione del sapere in senso scientifico e tecnologico, mentre nel campo politico si rifletteva come mancanza di legittimità del Potere. In modi diversi, in entrambi i casi si metteva in risalto la condizione di in-dipendenza dell‟esistenza umana da vincoli e da limiti incontrovertibili che, se in un clima di ingenuo ottimismo positivistico potevano far supporre fosse scaturigine di libertà, in realtà attestavano l‟alienazione spirituale moderna di cui aveva parlato Hegel e la “gettatezza” (Geworfenheit) esistenziale chiarita da Heidegger, che richiamavano l‟analogo concetto gnostico tramandatoci da Clemente alessandrino o da Ireneo di estraneazione dell‟uomo pneumatico dal 594
Sulla scorta della posizione kierkegaardiana, Barth “interpreta l‟evento di Cristo attraverso il concetto di istante, che egli intende come quell‟invisibile punto di intersezione di due piani, che in quanto tale non possiede alcuna estensione sul piano a noi noto del mondo storico”: G. Essen, Storia, escatologia, teologia, in Il Cristianesimo. Grande atlante, vol. III cit., pag. 1286.
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mondo, che solo la gnosis poteva salvare.595 L‟aspetto culturalmente più rilevante di questa situazione critica è che la sua insorgenza interveniva proprio a seguito della dissoluzione di quella teologia cristiana che aveva costituito la risposta all‟analoga crisi del mondo antico. Il dubbio era se la dissoluzione teologica fosse dovuta al logoramento morale della sua rappresentanza istituzionale ovvero al superamento intellettuale della sua forza katechontica, ma che la fede nei fondamenti cristiani della civiltà europea non fosse più il sostegno della vita pubblica e privata era palese. La posizione più nichilistica di fronte a tale constatazione insisteva sulla impossibilità per la coscienza moderna di una nuova soluzione religiosa, almeno nei termini trascendenti tradizionali. Ciò nondimeno non escludeva che lo spazio lasciato vuoto dalla fede tradizionale potesse essere riempito da altre fedi secolari e da utopie palingenetiche surrogatorie, quali le ideologie neo-gnostiche appunto propugnavano. Ma l‟insorgenza delle ideologie è nella loro possibilità d‟essere della loro temporalizzazione. Tale possibilità è insita nella determinazione razionale dell‟Essere quale latenza del logos. L‟Essere che eviene e si determina come ente presente, è ciò che era in potenza d‟essere sin dall‟origine del suo costituirsi e si attualizza, cioè si oggettiva onticamente come storico. La maggiore rappresentazione che il nostro sapere ha elaborato al fine di giustificare razionalmente la determinazione dell‟Essere nell‟ente è quella cristiana del Logos, all‟interno del cui orizzonte ontologico si è costituito il senso, cioè il movimento, del processo storico della nostra civiltà. L‟Uno è il discorso (legein) che non esce da se stesso, che rimane in se stesso, che non si determina attraverso distinzioni di senso decisivo. Il legein si determina quando esce dalla sua in-distinzione e si mostra per ciò che è, come Essere. L‟Essere che è, è l‟ente. Il mostrarsi dell‟Essere come ciò che è, come ente, è la sua oggettivazione. Il dire (legein) diventa cosa che è detta (logos), e si mostra nel suo essere distinta dal fluire del dire, separata, objectum. L‟Essere Uno esce dalla sua unità e di-viene, cioè diventa due. L‟Uno si finitizza ossia si temporalizza e di-viene presente a sé, immagine di sé. Il presente è il doppio dell‟essere nella sua presenza, in ciò-che-è immagine
595
E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis (1959), tr. it. in Il mito del mondo nuovo, cit., pagg. 54-57.
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di sé. Immagine finita, che la parola de-finisce, cioè de-limita come altro dall‟Essere in-finito che di-viene suo oggetto. L‟in-finitezza dell‟Essere è la sua in-determinatezza, la sua inlimitatezza, la sua in-temporalità. Nell‟atto della sua finitezza presente, l‟Essere si dispiega temporalmente, escludendosi dall‟ente che-è sia come passato originario dell‟ente stesso presente, sia come futuro, ossia come dinamicità dell‟ente, come divenire. Da qui, dalla sua de-finizione, l‟Essere acquisisce una triplice fisionomia temporale, la cui unità dinamica costituisce la sua eternità. E-terno significa appunto che proviene dal suo essere trino. La e-ternità è la in-determinazione temporale di ciò che proviene dalla trinità del passato-presente-futuro. Le personae ossia le immagini della e-ternità sono il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Esse sono in quanto l‟Essere originario si è de-terminato nel presente, si è finitizzato in realtà ontica. Si è “incarnato”. Ma perché l‟Essere originario (Dio) ha voluto uscire da sé e determinarsi? La ragione ontologica della determinazione dell‟Essere in trinità temporale va cercata nella necessità insita nella in-finitezza di mostrare la sua potenza attraverso la possibilità di uscire da sé manifestandosi a se stessa. La possibilità di manifestare la propria potenza consiste nel rappresentarsi come un altro se stesso a se stesso, di-venendo perciò due, ossia immagine di sé, di procreare un suo Figlio costituendosi come Padre originario. La dualità dell‟Essere originario dalla sua immagine consiste nella sua diferenza, cioè nel suo esistere cme altro dall‟Essere, dal suo essere due. Il Figlio di-ferisce dal Padre in quanto è portatore (ferente) della sua dualità. Ma la differenza è dy-namismo, cioè movimento, dy-venire, diventare appunto due, ovvero Molteplice rispetto all‟Uno. Questo dinamismo, questo diventare altro rispetto all‟Uno,e dunque due, è lo Spirito dell‟Essere, che accomuna sia l‟Uno che l‟Altro. Ed è in questa comunanza dinamica o spiritualità della tri-nità che si dispiega tanto la potenza quanto la temporalità dell‟Essere. Lo Spirito dell‟Essere è la sua Potenza. Il prodotto della Potenza spirituale dell‟Essere è la sua creazione finita, il Figlio, la sua immagine presente. Il Padre è presente a se stesso come Figlio, e lo è per mezzo della sua potenza, cioè del suo Spirito. La potenza spirituale dell‟Essere consiste nel farsi immagine di sé stessa, di du-plicarsi come Altro da sé che è sé stesso. Il sé stesso come immagine, come Altro, è potenza poietica, creazione, ossia possibilità d‟essere presente a sé stessi.
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La nominazione logica, ossia la determinazione, nasce dal thauma di fronte alla creazione divina. La meraviglia filosofica consiste nella constatazione della differenza ontologica tra il prodotto divino e quello umanamente possibile. Distinguere le cose del mondo dando loro un nome significa affermare la differenza ontologica tra ciò che è per potenza divina e ciò che è per volontà umana. Da questa distinzione ontologica nasce il filosofare, l‟attività distinguente del logos razionale. Nominare è commisurare la potenza di sé, la propria umana potenza, dalla potenza di Dio. da questa considerazione nasce la fede ontologica, cioè il rispetto e la credenza, nella esistenza di e nella differenza da Dio. La constatazione della potenza di Dio è congiunta alla possibilità della propria potenza. Circoscrivere il pensiero alla sola considerazione della propria potenza, ossia della sola datità della propria presenza, e dunque considerarsi come immagine separata dal suo modello eterno, è ciò che Agostino indica come appartenenza alla “città dell‟uomo”, alla realtà di Cesare, cioè la polis. La esclusiva considerazione della dimensione della presenza dell‟uomo in termini di realtà politica costituisce i contenuto della filosofia in senso greco. Filosofare significa rapportare l‟immagine dell‟uomo agli altri uomini, anziché a Dio, ossia costituire l‟essenza umana come auto-rivelazione di sé a se stesso attraverso gli altri. La grammatica del politico consiste infatti nella distinzione del potere di Sé da quello dell‟Altro. La fondazione filosofica della presenza di Sé nella relazione con l‟Altro si stabilisce attraverso la rimozione dell‟Origine divina, ossia dell‟uomo come immagine di Dio, come sua creazione. La filosofia assumendo la sola ed esclusiva immagine anziché l‟Origine di sé nasce orfana, e nomina il mondo a partire non da Dio ma dal niente. Questo peccato originale del pensiero filosofico consiste col parricidio metafisico della rimozione dell‟arché, dell‟Eterno, a favore del solo presente, della esclusiva presenza ontica dell‟uomo nel tempo che è presente. Pensare razionalmente, cioè in modo logico, equivale a pensare la presenza, cioè il presente, l‟ente, in maniera assoluta, cioè universale, come se fosse l‟unica dimensione del tempo. la logica dilata la presenza facendola diventare unica, ossia universalizzandola. Universalizzare la presenza significa farla derivare da sé stessa e perpetuarla, ossia che prima e dopo della presenza ci sia Niente. Dio, l‟Origine, come Niente. Il razionalismo greco è dunque in essenza nichilismo. Pensare l‟uomo come origine dal Niente, se esalta la creazione umana e la
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potenza della sua possibilità di nominarla e de-finirla, nello stesso tempo la costituisce come una finzione: la finzione che prima del presente sia il Niente anziché l‟Eterno. A partire da questa Finzione ontologica, nasce la metafisica razionalistica occidentale come conoscenza (gnosis) dell‟Essere. Voegelin sostenne che tutti i movimenti gnostici mirano a recidere i legami dell‟essere con la sua origine, cioè con l‟essere divino e trascendente, per proporre un ordine dell‟essere immanente al mondo, la cui perfezione sarebbe a portata dell‟azione umana. Si tratta di modificare la struttura del mondo (avvertita come inadeguata) in maniera così radicale che da quella modifica emerga un 596 mondo nuovo, di piena soddisfazione ”
Egli caratterizza “tre casi esemplari” di movimenti gnostici nei quali un “fattore della realtà è stato omesso al fine di far sembrare plausibile la possibilità di un‟alterazione nello stato di cose insoddisfacente”,597 ma in realtà, come abbiamo visto, è la costituzione del discorso razionale stesso a de-finirsi come scissione dall‟unità del legein in forma oggettiva del logos. Ogni discorso razionale è una oggettivazione dell‟Essere, come determinazione del legein da parte del logos, ogni ragionamento è una elaborazione del Mito, una mito-logia, una intenzionale rappresentazione della realtà, che è oggetto della filosofia. Come afferma Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, “la filosofia è essenzialmente nell‟elemento dell‟universalità che chiude in sé il particolare”598 In realtà, la comprensione del “particolare” è il modo proprio del logos di rappresentare la realtà come “unità di tutte le cose”, che Aristile chiamava “anima” 599 e che per Nietzsche è “quell‟imperioso qualcosa che è chiamato „spirito‟ dal volgo che vuole signoreggiarein sé e intorno a sée sentirsi padrone [e che] possiede la volontà di ridurre il molteplice ad unità, una vlontà allacciante, infrenante, avida di dominio e realmente dominatrice” nella sua “inclinazione ad
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E. Voegelin, Ersatz Religion cit., pagg. 24-25. Ivi, pag. 26. 598 G.W.F. Hegel, Die Phaenomenologie des Geistes (1807), tr. it. di E. De Negri, Firenze, 1960, vol. I, pag. 1. da ora FdS. 599 “L‟anima è in qualche maniera tutte le cose”: Aristotele, Dell’anima b, 21, tr. it. di R. Laurenti, in Opere, cit., vol. II, pag. 545. 597
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assimilare il nuovo all‟antico, a semplificare il molteplice, a ignorare o a respingere quel che è del tutto contraddittorio” al suo “orizzonte che rinchiude”.600 Ma tale unità non riguarda veramente “tutte le cose” in quanto cose, ma solo la loro determinazione ideale. Ciò vuol dire che nella rappresentazione logoica le cose che sono, sono in quanto enti logici, e non concreti, cioè naturali, poiché nella loro concretezza le cose naturali non sono unificabili, ma conservano la loro inseità, cioè appunto la loro concretezza o naturalità, ossia la loro in-oggettualità. E quando Marx scrive che “l‟uomo è direttamente un essere di natura”, intendendo la sua appartenenza al “mondo esterno sensibile”, e che “l‟oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si leva di fronte ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente dal produttore”, cioè che “il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che è diventato cosa: è l‟oggettivazione del lavoro”,601 vuole intendere che l‟assunzione del prodotto umano in un ambito in-naturale quale il valore economico, è una considerazione astratta del lavoro, non naturale, ossia non finalizzata al suo utilizzo naturale, in-mediato. La in-mediatezza, cioè la condizione nella quale non interviene il logos oggettivante, e dunque astraente, sarebbe quella naturale, in cui le cose sono ciò-che-sono e non enti destinati dall‟uomo a essere altro da ciò che originariamente sono. Il cambiamento di status operato dal logos sulle cose consiste nella loro oggettivazione, ossia nella astrazione dalla loro origine naturale e inserzione in una destinazione altra da quella naturale originaria. Qual è tale destinazione logica altra da quella naturale? Appunto la loro con-prensione entro una identità razionale. Il passaggio estraniante dall‟in-determinatezza originaria alla determinazione razionale è l‟opera propria del logos. Il pensiero costruito sulla base di tale opera estraniante del logos è il pensiero filosofico, la cui “verità” è il concetto della sua con-prensione della realtà. Il “cominciamento del conoscere” filosofico coincide con la differenza ontologica dall‟unità in-distinta del Tutto, operata appunto dal logos. Come dice Hegel, “La differenza è il limite della cosa; essa è là dove la cosa cessa, o è ciò che questa non è”,602 ossia l‟ambito fuori del quale la cosa
600
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, af. 230. K. Marx, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, tr. it. di F. Andolfi, Milano, 2016, pag. 56. 602 G.W.F. Hegel, Introduzione alla FdS, pag. 3. 601
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cessa di essere un ente di ragione è l‟unità con-prendente razionale, l‟unità operata dal logos a seguito della sottrazione delle cose dal loro essere naturale. Ciò vuol dire che l‟unità logica è diversa dall‟appartenenza di ogni cosa all‟Uno originario, al Tutto, il quale costituisce appunto una unità diversa dall‟Essere oggetto del logos filosofico. Il peccato originale di cui è macchiata la conoscenza razionale consiste nella rappresentazione della realtà quale Essere del mondo umano, anziché quale opera di Dio. ed è questo il senso originario della distinzione operata da Agostino tra le due città, tra le due realtà. E poiché, come afferma 603 Heidegger, “l‟Essere è sempre l‟essere di un ente”, l‟essenza della realtà onto-logica è una essenza esclusiva della totalità, ossia non la con-prende, ma si costituisce come realtà diversa e in-dipendente da quella stessa totalità originaria. Come afferma Hegel, “la vera figura nella quale la verità esiste, può essere soltanto il sistema scientifico di essa”, la cui “interiore necessità […] sta nella sua natura”,604 ovvero nella ragione stessa della sua costituzione differente, esclusiva, filosofica. La costituzione della verità filosofica come realtà razionale dell‟Essere esclusiva della alterità rispetto ad esso, affermando sé come differenza dal non-Essere, afferma che il Tutto da cui l‟Essere del logos proviene, sia Niente. E in tale negazione del Tutto per l‟Essere esclusivo, che è inscritta nella genesi stessa del logos apofantico, è per sua natura a-tea, differente dalla considerazione di Dio quale creatore della Natura e dell‟uomo stesso naturale. Se Dio aveva bisogno dell‟uomo per affermare la Sua potenza creatrice, creando l‟immagine di Sé, l‟uomo, per affermare la sua immagine del mondo, la sua rappresentazione razionale, ha bisogno di Dio come termine di alterità negativa del suo proprio Essere. E pertanto, se il Tutto (o Dio) si afferma come determinazione positiva di sé stesso, divenendo altro da sé, questa immagine del sé originario divenuta Altro da quel sé, per affermare il proprio sé deve negare il suo Altro, ossia il Tutto di Dio. La ragione dell‟esistenza dell‟uomo, la sua onticità differente, cioè la sua essenza ontologica, si costituisce nel limite di tale differenza ontologica, entro il cui orizzonte il prodotto della sua oggettivazione della realtà ha valore di verità. Ciò implica che il valore di verità razionale, ossia la sua
603 604
M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi, Milano, 1976, pag. 24. G.W.F. Hegel, Introduzione alla FdS, pag. 4.
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“universalità”, che è la condizione per la quale “solo nel concetto la verità trova l‟elemento della sua esistenza”,605 tanto più si afferma la sua differenza quanto più nega la sua origine arcaica, trascendente l‟Essere. L‟espansione del razionalismo come metodo di conoscenza della realtà è il risvolto gnostico della rimozione della realtà di Dio dalla realtà umanizzata del mondo razionalizzato, rappresentato come Essere di ragione, come marxiana “natura antropologica”.606 La Finzione ontologica, sul cui fondamento si rappresenta l‟immagine della verità del logos, è l‟immagine di Dio che si rappresenta negandoLo, e in questo paradosso si sviluppa l‟intero discorso razionale della conoscenza filosofica in quanto tale, ossia della “pura ragione”. L‟aspetto paradossale della rappresentazione logica della realtà non inerisce soltanto al parricidio divino operato dall‟uomo attraverso il logos, ma alla stessa costituzione ontologica dell‟Essere come ente di ragione, “essenza” che è “presenza universale”,607 la cui universalità consiste cioè nella pretesa anticipazione nel concetto di tutti gli “adesso” costitutivi della presenza (parousia) originaria quale atto creativo della potenza di Dio. Attraverso la rimozione di quella potenza arcaica e l‟assunzione della creazione come fare oggettivato nel prodotto, la coscienza forma la realtà razionale in cui abita, ossia il mondo antropologico della socialità politica e della parola. Ma alla base di questa realtà oggettivata dalla coscienza razionale c‟è l‟atto di fede nella verità dell‟obiettivazione, che Hegel chiama il “sentimento dell‟essenza”,608 per cui la rappresentazione sé creduta vera a esclusione di ogni altra possibile. E proprio in questa esclusione di possibilità consiste la negazione con cui il logos afferma la necessità della sua determinazione apofantica, la sua potenza ontologica. La realtà oggettiva di tale potenza esclusiva è il Potere politico, il giudizio politico che si manifesta come forza sociale istituzionalizzata, in “rappresentazione” (Schmitt). Il destino, ossia la necessità, che ispira il processo fenomenologico del Logos, èdi dover tornare sempre all‟origine della sua posizione ontologica, come al rifugio di una trincea dietro la quale il Logos sarebbe sospinto
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G.W.F. Hegel, Introduzione alla FdS, pag. 5.
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K. Marx, Manoscritt del 1848, cit. da E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, tr. it. cit., pag. 70. 607 G.W.F. Hegel, Introduzione alla FdS, pag. 6. 608 Ibidem.
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verso l‟abisso nel Niente. Questo “eterno ritorno” all‟inizio della posizione ontologica, è una ripartenza dalla Finzione della originaria presenza, dalla “immediatezza del sapere” che per Hegel è lo stesso Essere. 609 Voegelin distingue “tre stadi dell‟inganno”: quello del “giudizio erroneo”, quello della “consapevole perseveranza” in cui l‟errore diventa “truffa intellettuale”, quello infine della “rivelazione” e del “riconoscimento che la truffa è causata dalla rivolta contro Dio”, in cui l‟inganno diventa “menzogna demoniaca”.610 Quest‟ultimo è lo stadio dell‟odio prometeico verso gli dèi, il nosos spirituale che colpì l‟eroe negativo di Eschilo, che Platone chiama “follia” (nosema), e che consiste nella volontà di confermare scientemente la rinuncia a ogni origine del pensiero che non sia auto-posizione di sé, ossia volontà di essere se stesso anziché l‟Altro, cioè potenza. Il destino di tornare in una “seconda navigazione” della coscienza all‟orgine del suo cominciamento, consiste nel ri-posizionare l‟inizio per atto non più ingenuamento ingenuo ma volontariamente voluto. Questa auto-posizione della coscienza filosofica costituisce per Voegelin il passaggio hegeliano dalla filosofia, come “amore della conoscenza” (Liebe zum Wissen) alla gnosi quale “vera conoscenza” (wirkliches Wissen).611 Voegelin stesso raffronta la posizione hegeliana con quella platonica del Fedro in cui si stabilisce la differenza tra il sophos, che è “colui che conosce”, e il philosophos, che è il pensatore secondo il Logos.612 Dal raffronto “dovremo concludere che, mentre è possibile un progresso, in fatto di chiarezza e precisione, nella conoscnza dell‟ordine e dell‟essere, il salto oltre i confini del finito nella perfezine della conoscenza vera è impossibie. Se un pensatore tenta tale salto, non fa progredire la filosofia, ma l‟abbandona per diventare uno gnostico”, che è colui che, attraverso la “scienza”, ossia un pensiero sistematico e coerente di comprensione universale dell‟Essere emancipato da ogni origine trascendente, “svela la sua volontà di farsi signore dell‟essere”613 La gnosi, dunque, consisterebbe per Voegelin, nella sistematica volontà della filosofia di costituirsi come
609
G.W.F. Hegel, Introduzione alla FdS, pag. 13. E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, tr. it. cit, pagg. 82-83. 611 Ivi, pag. 90. 612 Platone, Fedro, 278d, cit. da E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, pag. 91. 613 Ivi, pagg. 92-93. 610
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scienza degli unversali, lasciando supporre l‟innocenza dello statuto filosofico non sistematico, puramente discorsivo e circoscritto entro il suo orizzonte noetico. Eppure, comeabbiamo visto in diversi momenti della nostra ricerca, la posizione filosofica ha in sé latente la dis-posizione a costituirsi come valore universale, inclusivo nella sua con-prensione ogni aspetto inerente all‟Essere. questa tendenza latente veniva mitigata in Platone, ma rigettata quindi da Aristotile, da quelle “distinzioni del pensiero” in molteplici idee quali “il Bello, il Sacro, l‟Eterno, la Religione, l‟Amore”, che Hegel considera delle “esche” teoretiche adatte a “stuzzicare non il concetto ma l‟estasi”, che però non soddisfanolo spirito scientifico, il quale “pretende ora dalla filosofia non tanto di sapere che cosa esso è, quanto di riuscire, mediante lei, alla ricostituzione della perduta sostanzialità e della compattezza dell‟essere”.614 La filosofia, dunque, nella prospettiva scientifica di Hegel, diventa strumento teoretico finalizzato a una conoscenza superiore, conseguita la quale il medesimo philosophos platonico diventi theophilos, cioè “amante di Dio”.615 La conoscenza razionale, dunque, per conservare il suo precipuo statuto filosofico doveva mantenersi all‟interno di un orizzonte teoretico in cui la logica non trasmodasse in ideo-logia, ossia in un sapere che da universale diventasse totale, occupando perciò ogni ambito di conoscenza.616 Ma questa pretesa limitatezza del pensiero razionale già in Platone mostra la sua impossibile affermazione allorquando il metodo dialettico esce dall‟ambito contemplativo del cenacolo sapienziale esoterico per diventare tecno-logia politica, sapere applicato alla prassi sociale. E‟ pur vero che l‟ipotesi di un elitario Governo filosofico pare conservare una differenza tra il valore in sé e il valore riconosciuto dalla massa dei sudditi, ma la comune vigenza erga omnes degli stessi principi veritativi attestava quella differenza nei termini puramente sociologici di una aristocrazia al potere dominante sulla
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G.W.F. Hegel, Introduzione alla FdS, pag. 6. E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, pag. 92. 616 Questa tesi filosofica fu sostenuta in Italia da B. Croce, in polemica costante con l‟attualismo dell‟altro neo-hegeliano G. Gentile. Ma sia l‟esito platonico del sistema crociano, per cui le categorie ideali del giudizio sono esse stesse in-definibili e quindi riportano a un‟unità indistinta originaria, che l‟esito prassistico della autoctisi gentiliana, per cui l‟assoluto pensiero si converte nel suo opposto reale, stanno a dimostrare l‟impossibile trascendimento dell‟orizzonte razionalistico del filosofare per concetti. Ved. C. Marco, Benedetto Croce filosofo della libertà, Lungro di Cosenza, 2003. 615
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moltitudine. Infatti, una volta ammessa l‟universalità del valore sociale, la forma storica della costituzione politica era puramente contingente e reformabile, potendo allo stesso titolo razionale l‟unità politica essere rappresentata tanto dal monarca che dal popolo sovrano, entrambi titolari della sovranità razionale, strappata agli dèi appunto dal Logos. L‟aporia cui giunge il pensiero razionalistico è quella già avvertita da Platone della in-definibilità del Bene, di cui le azioni buone sono testimonianza empirica e significativa ma non risolutiva. L‟illusione filosofica di poter attingere razionalmente, cioè attraverso il concetto, al Bene mostra tutta la sua inanità nel momento in cui si perviene alla constatazione dell‟insuperabile imperfezione del prodotto umano, che origina dalla stessa impotenza a de-finire il modello ideale che lo ispira. L‟unica possibilità che la ragine finita ha di restare sé stessa è di trascendersi, ossia di riconoscere il proprio limite ontologico, perdendo l‟ambizione di poter de-finire universalmente la realtà. Ovvero, in altri termini, ammettendo che l‟orizzonte di con-prensione razionale della realtà non sia intrascendibile, ma che esiste qualcosa di altro dal proprio oggetto, che non è dominabile con la ragione e dunque non è disponibile all‟uomo. “La gnosi”, scrive Voegelin, “aspira a dominare l‟essere [e] lo gnostico costruisce il suo sistema con questo scopo. La costruzione di sistemi è una forma gnostica di ragionamento, non una forma filosofica”.617 Egli vuol dire che l‟ordine del discorso razionale quando viene sistematizzato in senso universale, diventando così legge di ragione e modello valoriale di comportamento scientifico, perde il suo carattere filosofico, di contemplazione dell‟Essere, per diventare gnosi, cioè ideo-logia. Ciò significa, altrimenti detto, che la ragione permane nel suo pensiero filosoficamente giusto se si auto-limita, rifiutando di diventare “sistema”. “Se, dunque, io possono costruire un sistema, la verità della premessa ne risulta provata; il fatto che io possa costruire un sistema su una premessa falsa non è neppure preso in considerazione. Il sistema è giustificato dal fatto di venir costruito […]”.618 Ma il limite della ragione non può essere ammesso dalla ragione stessa, la cui validità gnoseologica consiste nella sua pretesa universalità, che è la
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E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, cit., pag. 93. Ivi, pag. 94.
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fede epistemologica del razionalista. Affermare un giudizio che non fosse universalizzabile equivarrebbe a porre un principio fintamente vero, una ipotesi o “congettura” destinata a essere confutata empiricamente. E pertanto il filosofare stesso, allorquando volesse affermare la propria universalità, verrebbe a perdere il suo carattere veritativo, che, a questo punto, non si capisce più quale sia. Ma l‟ambizione di Socrate e poi ancora più smodata di Platone, era quella di determinare un pensiero non soggetto a confutazioni empiriche, e dunque diverso dall‟opinione molteplice dei retori chiacchieroni, dei sofisti. E‟ esattamente questa ambizione ciò cui dovrebbero rinunciare i filosofi, e che costituisce l‟obiettivo di Hegel. Ma perché il filosofo non prende in considerazione l‟ipotesi che egli ragioni a partire da una premessa falsa? Per la semplice ed essenziae ragione che quella premessa, quel principio di ragione, per il filosofo è vero, ed egli crede nella sua verità. Senza quela fede, non soltanto non ci sarebbe alcun sistema, ma neppure alcun ragionamento razionale, poiché quella fede nella verità del principio di ragione costituisce la differenza tra il ragionare filosofico e il raccontare mitografico, tra il pensiero e l‟affabulazione. La fede nel logos costituisce il discrimine tra la realtà e la fantasia, per cui il principio filosofico è lo stesso principio di realtà, venuto meno i quale, confutato o negato, lo stesso ragionamento, compreso lo stesso sistema, viene a cadere, a perdere la sua credibilità, divenendo solo cimento letterario, fabula. Il filosofo non può mettere in dubbio la veridicità del suo principio di ragine senza screditare lo stesso suo ragionamento. Ammettere la finzione iniziale, ossia attribuendo alla conoscenza razionale un valore puramente ipotetico, nn significa conoscere la realtà ma appunto soltanto dominarla per mezzo del pensiero. L‟esito pragmatistico del razionalismo moderno, e quello probabilistico dello scientismo, derivano dalla sconfessione, non già del principio di realtà, ma del suo valore universale. Ma la contestualizzazione del sapere in un ambito situazionale riporta la conoscenza nei termini delle “visioni del mondo” (Weltanschauungen) proprie delle culture locali e degli orizzonti di coscienza che la filosofia intendeva superare in vista di un sapere universale. Questo processo di neutralizzazione del valore universale delle forme di pensiero filosofico consegna i “sistemi” alla dimensione del Mito, dell‟affabulazione fantastica, mentre la conservazione del principio di realtà sul quale quei sistemi erano costruiti destina la metodica teoretica del logos alla sua mera fruizione tecnica. L‟esito paradossale del sapere filosofico a tecnica del
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pensare per causas è già inscritto nella originaria Finzione metafisica del logos, il cui svelamento la rivela, poiché la sua ammissione di in-potenza universale non l‟ha negato come principio di realtà, ma lo ha soltanto ridimensionato alla sua destinazione di potenza, diventata consapevolmente tale, ossia consapevole “volontà di potenza”. E dunque, questa volontà, celata sotto la fede noetica del filosofare, era inscritta sin all‟origine dell‟assunzione del logos a principio di realtà. Ed è bastato svelarne la pretesa universalistica per neutralizzarlo nei termini neutri di una tecnica di dominio del mondo. A questo punto sorgono due questioni essenziali. La prima riguarda la possibilità che il logos svolta una funzione puramente tecnica, e considerati gli esiti dell‟espansione della scienza come accreditato sapere universale, parrebbe di sì. L‟altra questione inerisce invece alla possibilità stessa del logos a costituirsi come sapere. Nel primo caso, si ammette la tecnica razionale ma non la possibilità di un sistema razionalistico. Nel secondo caso, si nega più radicalmente ogni possibiità al logos di essere fondamento di realtà. L‟opzione di Voegelin è la prima, ma in entrambi i casi la sorte della filosofia quale conoscenza di valore universale è segnata. Ora, che la pretesa fideistica della filosofia di costituire il principio di realtà fosse “follia” al cospetto della vera fede, era convinzione già del cristiano Paolo, e dunque non è una novità assoluta. Ciò che è nuovo in Nietzsche è che tale consapevolezza emerga all‟interno dell‟orizzonte di fede razionalistica, cioè all‟interno della filosofia, e non fuori di essa, ossia nel campo della fede cristiana. E‟ lo scienziato Nietzsche, e non l‟uomo di fede religiosa, ad assumere la “follia” come cifra originaria del filosofare, come fondamento menzognero e illusorio del discorso razionale. Da parte cristiana questo lo si sapeva ab origine. L‟aspetto problematico di tale consapevolezza cristiana è l‟adozione del metodo filosofico, ossia della sua tecnica procedurale del logos, ai fini di giustificare razionalmente la fede cristiana. L‟inserzione della follia della ratio nel corpus fidei cristiano ha dato origine alla teologia del cristianesimo, alla cristologia quale rappresentazione escatologica del mondo. L‟innovazione fondamentae di tale rappresentazione cosmica, rispetto a quella della filosofia pagana, è nel suo fondamento ontologico, inteso non più come una ipotesi teoretica o una finzione cosmologica, cioè come un Mito, ma come la Verità stessa, ossia come la vera universalità, sul fondamento della quale il logos poteva finalmente manifestare tutte intere
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le possibilità di costituirsi come sapere universale, sia pure in funzione ancillare. L‟universalizzazione del logos, non in quanto filosofia ma in quanto metodo, tecnica, di analisi universale costituisce l‟essenza stessa del cristianesimo come teo-logia, sapere primo ed ultimo del mondo umanodivino fondato sulla fede in Cristo, sull‟evento reale e storico del di-venire umano di Dio. In cosa consiste la “follia” del logos? Consiste nel trasferimento della potenza creatrice dall‟Uno-Dio all‟Essere, e appunto “è la potenza dell‟essere che conferisce la sua autorità alla posizione del pensatore gnostico”.619 L‟autorità di Dio deriva dalla sua auto-posizione di entità increata. “Io sono ciò che sono”, dice Dio di sé a Mosè. L‟Essere, invece, è creato da Dio, come esistente. Dio non esiste rispetto all‟Essere, se non appunto nella persona del Figlio, non a caso indicato da Giovanni e quindi dagli alessandrini come Logos. Il Cristo-Figlio è la presenza (parousia) di Dio, l‟esistenza di Dio, altrimenti trascendente. ma Cristo medesimo è generato da Dio, è Figlio; pro-viene da Dio. La differenza rispetto al Logos filosofico è che in Cristo è esplicita la autorità derivata, rappresentata dalla sua Persona umano-divina, mentre nel Logos filosofico l‟autorità divina è occultata e sostituita con quella dell‟Essere stesso. L‟assunzione della autorità paterna da parte dell‟immagine oggettivata di Dio costituisce il parricidio metafisico del razionalismo filosofico. La differenza insuperabile tra Creatore originario ed eterno e creatura temporale e finita, in ambito ontologico viene dialettizzata nei termini dell‟Essere e dell‟esistenza, indicando il primo come l‟unità universale della categoria e l‟altra come la presenza deterinata dell‟ente. L‟Essere presente, quale prodotto divino, diventa essenza produttiva, soggettività attiva: umanità. L‟uomo diveta creatore di mondo prendendo il posto di Dio. In questa sostituzione di Dio con l‟uomo, in questo umanesimo, si delinea la trama del pensiero razionalistico occidentale. Rispetto al rapporto uomo-Dio della fede ebraico-cristiana, l‟ontologia del pensiero filosofante opera la scissione dialettica all’interno dell‟Essere creatore, il quale pone il suo oggetto, ciè la sua creatura finita, come il prodotto di sé stesso.620 In questa auto-poiesi del Logos si manifesta la sua
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E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, cit., pag. 96. “Si commette l‟assassinio di Dio quando si interpreta speculativamente l‟essere divino come opera del‟uomo”: E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, pag. 104. 620
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stessa potenza, intesa come actio di una voluntas dominandi. La poiesi dell‟Essere è in questa attività creatrice di esistenza, che Gentile chiama “autoctisi”. La potenza dell‟atto poietico costituisce lo stesso divenire infinito dell‟Essere, la sua infinta attualità. Ma perché l‟Essere possa concepirsi come autore e produttore di esistenza deve coincidere con il pensiero che lo pensa, con il soggetto trascendentale, ovvero con la coscienza universale dell‟Uomo in idea. L‟Uomo universale, creando la realtà, di cui la coscienza fondante è l‟essenza, diventa l‟artifex della “verità di questo mondo” (Marx) e, sostituendo all‟autorità divina della teologia l‟autorità del Potere politico, anche il dominus mundi. Ma di quale mundus? Quello definito dall‟Essere stesso come sostanza universale, che Hegel chiama Spirito (Geist) e Marx “l‟essere-di-per-sé” (Durchsichselbstsein). Ecco che la fenomenologia dello Spirito disegna l‟andata spontanea e il ritorno consapevole del concetto, il cui viaggio della coscienza è un perenne anabasi che torna sulla rotta della “seconda navigazione” della sua catabasi, in quella “notte profonda dove l‟Io è uguale all‟Io” e avviene la “spiritualizzazione” della coscienza che diventa “soggetto” auto-cosciente universale, “scienza”, di cui parla Hegel nella Fenomenlogia.621 Il destino di questo “eterno ritorno” della coscienza razionale al suo principio coincide con la parabola rivoluzionaria del Logos che torna tautologicamente al suo fondamento. Ed è questo viaggio della coscienza noetica, in cui il Logos perviene al ciò che Voegelin definisce “la costruzione del processo chiuso dell‟essere”,622 che Hegel chiama il “sistema”. La rappresentazione post-ideologica mondata di ogni finalismo escatologico, in cui il dinamismo dell‟Essere viene rappresentato “vuoto di ogni contenuto”, nei termini dell‟assoluta potenza dominante, manifesta “la natura della speculazione gnostica come l‟espressione simbolica di un‟aspettazione della salvazione in cui la potenza dell‟essere si sostituisce alla potenza di Dio e la parusia dell‟essere si sostituisce alla Parusia di Cristo”.623 La rivoluzione interna all‟ontologia razionalistica, che dalla teologia della Riforma si trasferisce nel campo della filosofia con l‟Illuminismo e quindi
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Cit. da E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, pag. 123. Ivi, pag. 98. 623 Ivi, pag. 99. 622
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con Marx, il cui fine è di “distruggere l‟ordine dell‟essere”,624 nasce dalla oggettivazione di quel Negativo che l‟ordine razionale aveva escluso dalla sua cosmo-logia. I reietti sociali del Logos, che Marx chiama “la classe operaia” in contrapposizione alla “borghesia” elitaria detentrice del Potere ordinativo dell‟ordine sociale, non sono che gli esclusi dalla ragione, la materia informe che il Potere politico modella a immagine della forma ideale di Stato razionale. La moderna “ribellione delle masse” non è altro che l‟espressione sociologica di quella reiezione, espressiva della logica del dominio del pensiero razionalistico, che al “deicidio dei teorici gnostici” fa seguire “l‟omicidio dei professionisti della rivoluzione”.625 Il fine della rivoluzione, proprio perché essa è condotta con gli strumenti della ragione di cui è informato l‟ordine da distruggere, coincide, e non può non coincidere – da qui la sua tragica necessità – con la restaurazione di un ordine razionale specularmente opposto a quello riformato, nel quale il Negativo escluso dall‟ordine antico viene a prendere il suo posto di Potere ordinamentale, diventando realtà positiva. E in questa positivizzazione del Negativo consiste l‟essenza razionale della struttura della moderna civilizzazione europea, “l‟ordine pigro” della sua civiltà liberale.626 8. “La gnosis è un sapere che sa e il cui annuncio si può riassumere così: chi è illuminato non ascolta più (via l‟antica fides ex auditu!), perché ormai ha visto”.627 La vista della mente, l‟idea, sostituisce l‟esperienza, riservata ai non illuminati, mentre coloro che vivono nella luce, gli illuminati appunto, non hanno più bisogno di esperire il futuro, ossia l‟ignoto avvenire, poiché esso, se vorrà avere un senso veritiero, non potrà che coincidere con la realtà del vero originario. La visione del futuro è la realizzazione dell‟inizio, sicché l‟interpretazione razionale del processo storico è vista come una progressiva opera di demitizzazione storicistica, che libererebbe gli eventi significativi dalla loro relazione col trascendente, secondando una dinamica immanentistica che riporta ogni
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Ivi, pag. 103. Ivi, pag. 116. 626 Ved. per uno sviluppo analitico del tema, C. Marco, L’ordine pigro, cit., vol. I, L’Europa civile, cap. III, pagg. 123-229. 627 E. Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Milano, 1991, pagg. 7-8. 625
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evento al suo contesto intieramente umano. Questo “riduzionismo” umanistico-storicistico, “attraverso il quale si riduce una forma ignota ad una forma nota”,628 viene imputato alla mentalità gnostica, ma in realtà nasce dallo stesso processo di razionalizzazione della conoscenza e della prassi in cui consiste la essenza ideale della civiltà europea. Secondo gli gnostici antichi, l‟unica condizione naturale è lo stadio finale, coincidente con quello originario iniziale, in cui si aveva la koinonia del comunismo, dell‟androginia e della vita in comune, sicché la condizione di uguaglianza, in cui l‟inizio coincide con la fine, è la autentica. 629 Ma l‟esigenza di riportarsi all‟inizio, annullando il tempo connettendo il presente all‟origine, è propria di ogni razionalismo idealistico, che fonda sull‟identità con l‟Essere la ragione della realtà dell‟ente presente alla coscienza.630 L‟unità, come funzione teoetica, è l‟uniformità delle determinazioni possibili dell‟Essere, e dunque l‟unità della molteplicità del suo apparire, e dunque della sua esperienza. Il Molteplice, come unità delle esperienze possibili, diventa realtà dell‟Essere in quanto forma ideale del Possibile. La riduzione del Possibile all‟Essere fa sì che l‟esperienza possa diventare oggetto della conoscenza; anzi, il suo contenuto privilegiato, poiché l‟esperienza elevata al pensiero, è l‟unica, vera e legittima specie di conoscenza, mentre il mero pensiero concettuale puro che astrae dall‟esperienza, nella misura in cui vuole essere qualcosa a se stante, è in fondo un ideale rovesciato, un problema non solo irrisolvibile, ma posto in modo sbagliato.631
Nel Parmenide Platone pone l‟apparire (Erscheinen) come Essere (Sein). L‟apparire è oggetto del pensiero in quanto espressione empirica dell‟unità del Molteplice idealizzato, ossia inteso come forma del Possibile. In che
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Ivi, pag. 25. Ivi, pagg. 160-161. 630 Croce parla di “indissolubile nesso di vita e pensiero nella storia”, negli stessi termini gnostici dell‟identità della realtà passata attraverso la tecnica storiografica col modello ideale. Ved. B. Croce, Teoria e storia della storiografia (1917), Roma-Bari, 1976, pagg. 19-36. 631 P. Natorp, Platos Ideenlehre, tr. it. cit., pag. 343. 629
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modo il non-essere diventa parte dell‟Essere? Attraverso la riduzione eidetica all‟unità, cioè alla determinazione del Possibile come forma ideale, unità ideale del Molteplice. Dunque, reale è solo ciò che è ideale, ossia riducibile a unità formale. In verità, proprio tale reductio ad unitatem definisce la conoscenza come “apparenza” dell‟Essere, come suo analogon. L‟apparire diventa oggetto di pensiero, cioè realtà positiva, in quanto riferibile all‟unità ideale, alla forma del Possibile o Molteplice; ciò implica che l‟apparire di tale unità sia rappresentata come l‟estetica dell‟Idea, una sua determinazione empirica particolare, che a sua volta è ideale in quanto la sua realtà è giudicata secondo il suo fondamento onto-logico (“principio di realtà”).632 La parvenza (analogon) dell‟Essere è la apparizione (estetica) della Idea unitaria della Possibilità delle sue manifestazioni, de-finite logicamente dal concetto de-finitorio di ogni sua possibilità d‟essere ciòche-è. L‟apparire di ciò-che-è, è l‟apparenza dell‟Essere, cioè l‟apparenza della definizione ideale dell‟unità delle sue possibili esperienze: dell‟Essere e dell‟ente. Tutte le possibili apparizioni dell‟Idea sono le possibili esperienze dotate di senso ideale, ossia manifestazioni dell‟Uno-stesso che appare in tutte le sue possibilità fenomeniche (estetiche). Questa modalità di conoscenza oggettiva dell‟Essere non è che il modo in cui l‟Idea si rappresenta come reale: ma si conosce, attraverso le sue possibili manifestazioni, solo l‟Idea stessa, cioè la sua definizione unitaria fondamentale, assunta come totalità delle sue possibili determinazioni. Tale totalità è dunque solo ideale, cioè fondazionale, e dunque convenzionale, e legata alla sua credenza ontologica, e perciò soggettiva. Il Soggetto trascendentale pone l‟Essere come Idea e lo conosce come oggetto concettuale: niente è fuori dall‟Essere, posto come totalità ideale. Mentre l‟apparire è molteplice, (l‟Idea de) l‟Essere è lo stesso in ogni suo apparire. La positività dell‟apparire è legata al suo divenire altro, ossia altro dal suo essere oggetto di giudizio di realtà, ovvero di appartenenza ideale all‟Essere, laddove la positività dell‟Essere è nel suo fondamento di giudizio, che è una credenza ontologica, che determina la possibilità per l‟ente di appartenere all‟Essere. In questa possibilità di permanere attraverso (e nonostante) ogni apparire, l‟Essere trascende ogni realtà
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Su questa bifocalità idealistica è pensata l‟estetica del Croce, su cui ved. C. Marco, Benedetto Croce filosofo della libertà, Lungro di Cosenza, 2003, pagg. 219-269.
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positiva dell‟ente, compreso il suo divenire interno alla possibilità d‟essere espressione dell‟Essere, che è il suo negativo-relativo o alterità, poiché la trascendenza dell‟Essere è relativa alla possibilità dell‟ente di apparire nella sua empirica positività, intesa dunque come appartenenza all‟Essere. Se chiamiamo “realtà” l‟apparire dell‟ente interno all‟Essere, cioè alla sua possibilità di appartenergli, l‟essere reale dell‟ente con-ferma l‟essere fondamentale dell‟Essere, che è la condizione della sua realtà positiva in quanto ente. Ma tale realtà o positività dell‟ente è solo ideale, cioè interna al suo fondamento ontologico, al fondamento del suo apparire come apparizione dell‟Essere ideale, e dunque apparizione a sua volta ideale, dove per “ideale” va inteso come legato alla sua determinazione concettuale, dipendente esclusivamente dal suo Essere, e non già dal suo essere reale in sé. La inseità della realtà fenomenica ha la stessa determinazione negativa della aristotelica materia prima, in-possibile fuori della sua forma ideale, cioè della sua determinazione ontologica necessaria. L‟inseità sarebbe dunque una realtà indipendente dal suo Essere, e perciò in-possibile. Infatti, la possibilità dell‟ente di essere altro da ciò che è per l‟Essere del giudizio è la sua negatività, che ne fa un ni-ente. Assumere la negatività come realtà meontica, fa del niente una realtà a suo modo positiva, la cui allotria possibilità d‟essere, trascende la realta ontica e la sua stessa necessità ideale di essere ciò-che-è. La trascendenza meontica è in-apparente, e dunque in-attuale, la cui possibilità limita la necessità deontologica dell‟ente a disporsi come oggetto dell‟Essere, e insieme la necessità ontologica dell‟Essere di costituirsi come l‟esclusiva realtà di senso dell‟ente. Ciò implica che la realtà che trascende sia l‟ente che l‟Essere sia negativa, e pertanto il trascendente meontico è l‟unità che include con l‟Essere anche ogni sua determinazione positiva. Non dipendendo dalla sua determinazione apparente, o realtà positiva, il Negativo trascende ogni realtà ontologica, includendola come possibilità senza esaurirsi in essa, costituendosi perciò quale fondamento originario comune all‟Essere e a ogni ente apparente. E in quanto fondamento assoluto, il Negativo conferma la relatività di ogni possibilità ontologica, la relatività di ogni essere dell‟ente. Non confinato entro l‟opposizione dialettica, ma assunto come il vero vettore di senso di ciò che è ontologicamente reale, il Negativo coincide col Trascendente, la cui funzione di metron della Necessità legata all‟Essere, lo costituisce come lo sfondo di Libertà in cui si muove ogni possibile determinazione ontica. Confermato nella sua Differenza dall‟Essere, il Trascendente dispiega la
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sua realtà meontica come l‟in-esistente che limita ogni esistenza d‟ente, liberandolo dalla sua necessità d‟essere ciò-che-è e disponendolo alla libertà d‟essere altro. Tale alterità rimanda la relatività ontologica di ciò che è razionalmente reale al suo fondamento di verità originario, che non è l‟aitìa dell‟Essere, ma l‟arché del Kaos, da cui tutto ha origine. Il Dio dell‟Antico Testamento si fa buono, ma può anche essere terribile; si fa misericordioso, ma può anche essere implacabile; si fa presente all‟uomo, ma può anche restare ascondito. In codesta possibilità risiede la Sua libertà, che è trascendenza rispetto ogni finitezza, significatività oltre ogni significazione, futuro rispetto a ogni presente, soluzione rispetto a ogni decisione. Jahwe è libero di distruggere ciò che ha creato, di sciogliere ciò che ha legato, di essere e di non essere, di rivelarsi o ignorarsi. In tal senso, la realtà e storicità di Cristo è una possibilità, che l‟uomo può negligere ignorando l‟atto d‟amore divino, e perdersi senza che Dio lo salvi. Cristo è una possibilità di salvezza per l‟uomo, non una obbligazione legale: “farsi come Dio”, non significa diventare onnipotenti, cioè controllare ogni possibilità d‟essere degli enti, ma accogliere la possibilità di salvarsi in Cristo con la stessa libertà con cui Dio si è offerto per salvare l‟uomo dal gorgo del divenire cosmico del Kaos. Essere simile a Dio equivale a rientrare nel Kaos originario e decidersi in libertà per la possibilità. Nella prospettiva dell‟Origine, l‟Essere è solo una possibilità. Nella visuale della Differenza la Necessità che incatena gli enti all‟Essere per mezzo del Logos è una condizione meramente ontica, conseguente alla decisione ontologica. A questo punto interviene la domanda: L’essere dell’ente è la sua realtà ideale o empirica? Nel giudizio ento-logico le due realtà coincidono, e in questa coincidenza con-siste la sua verità ideale. Fuori del giudizio, nel pre-giudizio dell‟esperienza spontanea, le due realtà sono distinte e spesso separate, tali che per l‟una l‟altra non esiste ovvero è irreale. In questa condizione, il Molteplice si rivela come caos ermeneutico, per sopperire al quale il giudizio logico assegna alla realtà non omologabile uno spazio ontologicamente periferico ma non fuori della portata della ragione e perciò ascrivibile come limite alla sua postulata universalità: lo spazio della esistenza pratica, in cui è consentito alla libera volontà di esercitarsi fuori di ogni consegna teleologica; un recinto esistenziale dove tutto è possibile senza essere necessariamente razionalmente reale. È lo “stato di eccezione”, in cui la volontà libera di determinarsi, e perciò violenta verso le altre volontà, viene legittimata da una superiore legalità che la esonera dalla sua stessa necessità, che arretra di fronte alla spontanea fattualità,
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salvo a sindacarne la razionalità della sua destinazione in sede di giudizio. Lo scopo di tale confinamento è di controllare le forze eversive dell‟ordine razionale dell‟Essere, assegnando alla rivoluzione una modalità di esercizio eslege ma neutralizzata dei suoi effetti extra-giuridici in quanto declinata in termini di istanza morale,633 inafferenti alle ragioni cogenti del Potere. La scissione tra Ragione e morale ha lo scopo surrettizio di liberare la volontà, quale economia della forza, dalle pastoie necessarie della legalità, facendo dello stato di eccezione un‟esistenza parallela e alternativa a quella dello Stato razionale, caratterizzato da dispositivi finalizzati al mantenimento della subordinazione dell‟uomo ad altri uomini. La morale, ossia l‟insieme delle relazioni “fondate sul sentimento dei doveri reciproci”, stabilisce un rapporto di collaborazione che “elimina la subordinazione, così come la subordinazione esclude la complementarità umana”, per cui “moralità e strumentalità si contraddicono radicalmente”, come l‟esterno visibile della volontà e l‟interno invisibile della intenzione, che disegnano due rispettivi modelli di civiltà: la civiltà della Ragione, “visibile, perché costituita di istituzioni, di meccanismi, di strutture esteriori, di oggetti misurabili”, di contro alla civiltà dell’Amore, “invisibile, fatta di sentimenti, di tenerezza, di emozioni, di cuore”.634 Mosè guarda l‟uomo dal di fuori, sotto la Legge, mentre Paolo lo guarda dall‟interno, dalla prospettiva della coscienza.635 Queste due forme di civiltà rispecchiano due diversi orizzonti di coscienza, l‟uno indicabile come la “fase mitica”, l‟altro come la “fase razionalistica”. Nella fase mitica, la rappresentazione del mondo è di una una realtà compatta e unitaria, governata dalla forza di conservazione sinergica degli elementi dell‟Essere, dove l‟ordine è costituito dalla prevalenza delle forze del Kaos originario naturale. Kaos è la dinamica che spinge la vita verso la morte, la legge della Natura. La Legge è sconosciuta all‟uomo e perciò misteriosa e irrazionale, ma non priva di una sua intrinseca ragion d‟essere, che è però ignorata dall‟uomo e perciò ritenuta fatale, ossia necessaria e mortifera, dipendente dalla sola forza della Natura. Nella fase razionalistica non vi è più coesistenza tra contrastanti elementi
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Ved. G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, 2003, pagg. 37-43. A. Labriola, Le crépuscule de la civilisation, cit., pagg. 141-145. A. Orbe, La teologia dei secoli II e III, cit., vol. I, pag. 13.
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che spingono alla vita e, rispettivamente, alla morte in modo tragico, ma la scelta è compiuta in esclusiva per la vita, indicata come l‟Essere, opposto al non-essere della Morte. La dinamica della coscienza razionale procede nel senso della negazione dell‟originario fondamento caotico per la affermazione del prodotto ideale onto-logico. Ogni successivo grado ideale di sviluppo provoca la rimozione del suo fondamento, che viene rimosso a favore del suo pro-dotto: dalla forma ideale al formato reale. Il prodotto reale – il formato – viene assunto come l‟inizio di un nuovo processo di formazione, da cui si emancipa un nuovo prodotto, all‟infinito. Questa dinamica provocherebbe, se lasciata libera, un movimento a sua volta caotico e irrazionale, del tutto opposto e speculare all‟ordine razionale istituito, e che perciò va fermato fissando dei modelli stabiliti di forme istituzionali, che diventano i codici di significazione comuni a una determinata cultura fondativa di una civiltà storica. L‟ordine istituzionale consiste nella determinazione del limite del movimento, riconosciuto come legittimo entro un ambito di sviluppo prefissato, di valore significativo riconosciuto dal gruppo sociale. Fuori di tale ambito riconosciuto, il movimento produttore di senso diventa eversivo dell‟ordine socio-culturale stabilito. Tale ambito socialmente riconosciuto è assunto come “ragionevole” e legittimo, mentre ciò che vi eccede è giudicato irragionevole e assurdo, e perseguito come atteggiamento antigiuridico. La giuridicizzazione dell‟ordine sociale razionalizzato ha proceduto a scapito degli elementi morali della vita sociale, i quali, rimossi dall‟orizzonte valoriale pubblico, si sono coltivati in una privatezza inevitabilmente eversiva e antigiuridica. La rivoluzione, religiosa o politica che sia, ha sempre una legittimazione morale, che è negativa in riferimento al piano di realtà stabilito per decisione ontologica. Ma il fatto stesso di essere e di costituire una minaccia perenne all‟ordine politico costituito dimostra che la chiave di lettura utilizzata per la sua comprensione è inadeguata. La logica giuridica si spiega con la politica, ossia con l‟equilibrio delle forze economiche, ma tale equilibrio non spiega a sua volta la politica, perchè esso è di natura etica, il cui fondamento di legittimità è morale. Aver perciò costituito da parte del Potere razionale dello Stato moderno un ambito di libertà civili tendenzialmente giuridicizzato e del tutto de-moralizzato, ha provocato nel suo ambito la rimozione del fondamento politico e l‟elezione della sua relativa negatività in petizione positiva, logicamente eversiva. In altri termini, lo Stato di diritto, elevando la sfera economica a una esistenza autonoma dal finalismo etico, dichiarandola moral free, ha creato le
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premesse rivoluzionarie della sua istabilità istituzionale, generando la risposta socialistica all‟individualismo economico delle libere volontà. In tal senso, l‟esito totalitario dello Stato di diritto moderno era inscritto nella sua stessa origine razionalistica. È il fondamento ideale razionalistico la premessa della sua autonegazione reale. L‟autonomia della volontà dal fine etico della politica, se libera l‟attività economica da ogni limite ostativo della sua pretesa universalità, la costituisce come concorrente alla pretesa legalitaria del Potere, a sua volta emancipato da ogni vincolo morale. Tra queste tre distinte sfere di validità ideale sussiste soltanto l‟unità comune che le trascende tutte, quella del Negativo, in relazione al quale ognuna di esse si costituisce come diversa dalle altre. Ma la sussistenza della Differenza entro l‟unità dell‟Essere fa del principio aristotelico di non contraddizione un postulato relativo all‟assolutezza dell‟Essere come totalità delle determinazioni degli enti, ma non può estendersi all‟ente in quanto tale, il quale può essere vero o falso nello stesso tempo in quanto diverso, poiché senza alterità, l‟ente non potrebbe neppure essere compreso nella verità del giudizio di ragione. Tale verità, nondimeno, è sempre relativa alla posizione ontologica, non è originario, ma deriva dal comune fondamento negativo, che è dunque la verità comune a ogni determinazione relativa e dunque l‟unica assoluta, rispetto alla quale la verità ideale è errore, opera di derivata rimozione del fondamento. “Se l‟errore viene sempre dopo la verità, sarà tanto più degno di studio quanto più scopre le sue comuni radici o fonti di ispirazione”.636 L‟alterità, essendo la trascendenza di ogni possibilità dell‟ente, elimina l‟assolutezza di ogni giudizio di realtà, riportando la sua pretesa universalità alla sua relatività rispetto al Negativo, che diventa la misura di ogni ontologica possibilità. La relatività dell‟ente, il cui manifestarsi costituisce la certezza della sua oggettività scientifica, eliminando dall‟Essere ogni pretesa universalità, delegittima anche la violenza riduttrice di ogni alterità possibile alla definizione della sua assoluta realtà. La realtà dell‟Essere, infatti, è la sua definizione, per cui il superamento della sua presunta assolutezza apre la parola definitoria alla sua relatività ideale, esponendola di contro alla possibilità della sua relativa alterità. La parola (Logos), aperta al linguaggio, cioè alla sua possibilità di definirsi altrimenti, apre il pensiero dialettico all‟originario linguaggio del Mito, dal
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A. Orbe, La teologia dei secoli II e III, cit., pag. 18.
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quale proviene ogni definizione. La verità del Mito non è una verità di ragione, asserita in opposizione a ciò che la nega, ma è una verità di fede, inerente alla totalità comprensiva di ogni differenza. E pertanto “la fede è il fondamento di ogni conoscenza. Essa diviene più luminosa nel conoscere, ma non è mai da questo dimostrata”,637 in quanto trascendente. La verità della fede è nella sua rivelazione, non nella sua intellezione, sicché ogni theo-logia, cioè giustificazione razionale della fede, è una partecipazione in lingua umana del Kerigma di Dio, la cui intuita esistenza va tenuta ben distinta dalla sua concezione, cioè dalla rappresentazione razionale di Dio. Se dunque il fondamento della Parola è la fede, l‟intuizione della verità è anteriore alla sua rappresentazione logica, come la creazione è anteriore all‟Essere e il Mythos al Logos. Questa originarietà, liberando l‟ente dalla necessità razionale dell‟Essere, libera altresì l‟ascolto della verità, ossia il racconto kerigmatico, dalle sue determinazioni logiche, poiché, nella coscienza della relatività di ogni determinazione razionale, “non si può fissare un limite tra ciò cui bisogna ubbidire e ciò che si può criticamente discutere, tra la rivelazione e l‟intelligenza della rivelazione”. La verità della fede precede ogni sua giustificazione razionale, e dunque anche “ogni linguaggio comunemente intelligibile”, poiché essa è fondata su se stessa, ed è “un punto di riferimento, che è, sì, inteso nella lungua, ma che non può comunicarsi in essa”. Perciò, “chi non crede nella rivelazione non può ottenere un concetto chiaro della rivelazione”.638 È la fede il limite trascendente della ontologia. L‟errore dunque consiste nella rimozione del fondamento della verità razionale, e quindi della inconsiderazione della relatività di ogni determinazione logica e nell‟assunzione della definizione concettuale come valore universale assoluto di realtà dell‟ente fenomenico. La definizione (che cosa sia) dell‟ente definisce l‟apparire dell‟Essere nella sua contingente possibilità temporale. Assumere la relatività come valore assoluto è errore, in quanto nessuna realtà positiva è assoluta, ma solo possibile nel tempo e dunque relativa rispetto alla verità trascendente del Negativo, la sola realtà assoluta rispetto a ogni positiva determinazione onto-logica. La Scrittura, che è Parola, rappresenta la realtà di Cristo come storicopositiva, come esistenza temporale, ma la Sua esistenza non esaurisce la
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K. Jaspers, Der philosophische Glaube, trad. it. cit., pag. 49. Ivi, pag. 56.
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Sua esperienza spirituale, la Sua storia divino-umana, che può essere narrata ma non definita nei termini di una oggettività ideale-razionale. Solo la narrazione mitica può rendere la Parola spiritualmente espressiva della fede nella Sua verità.639 Solo la narrazione mitica può rendere la Parola espressiva in senso spirituale, aperto al Trascendente. La spiritualità non è altro che la consapevole appartenenza della positività dell‟Essere al suo fondamento negativo, alla sua Trascendenza, che è eternità rispetto all‟apparire dell‟ente nel tempo. Una Storia pragmatica, intesa come possibilità dell‟apparire dell‟Essere, è destinata a scontrarsi con la sua relatività, e dunque a perdere ogni pretesa di verità assoluta, confermata dalla stessa caducità delle istituzioni politiche della città dell‟uomo. Da qui l‟inevitabile crisi del razionalismo storicistico e della sua goffa lamentazione dell‟impraticabilità di far coincidere i fatti con le idee, possibile soltanto nel racconto storiografico, il moderno mito della corripondenza. Da qui inoltre la perdita di credibilità di ogni definizione della realtà dell‟Essere come valore universale assoluto, in cui il giudizio di interpretazione vanifica l‟oggettività del suo apparire ontico, facendo dipendere l‟ente dalla sua forma ideale, accreditando così l‟istanza metafisica marxiana espressa nella undicesima delle Tesi su Feuerbach. L‟identità di interpretazione, significato e forma, in cui il “fatto” scompare come materia in-forme, non è che un‟astrazione idealistica, in cui l‟ipotetico valore universale del giudizio categoriale rimanda alla presunta totalità dell‟Essere ideale, attraverso la rimozione dialettica di ogni limite alla sua affermazione teoretica e vigenza gnoseologica. È l‟istanza universalistica a costituire come limite ogni impedimento dialettico alla sua determinazione assoluta di realtà incontrovertibile. Tale limite si costituisce ascrivendolo alla opposizione logica un disvalore ideale, identificato col Negativo originariamente rimosso, tale che la sua esistenza negherebbe quella universalità necessaria all‟Essere di
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La verità intesa come enunciato descrittivo empiricamente verificabile è dunque solo una credenza ontologica nella realtà della corrispondenza tra fatti ed enunciati. Il verità cristiana si declina invece come Storia esemplare della totalità incarnata nell‟Uomo. Sin dai primi seguaci e con Paolo, “Cristo riassumeva tutto nella sua duplice dimensione divina e umana. Verbo Figlio di Dio, paradigma dell‟uomo, mediatore salvifico tra Dio Padre e gli uomini, principio dello Spirito del nuovo popolo (chiesa). Per mezzo della sua venuta tra gli uomini nella pienezza dei tempi determinava il centro della storia, conferendole un significato definitivo”: A. Orbe, Loc. cit., pag. 12.
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costituirsi come Tutto, e dunque da redimere o sopprimere. La vera realtà non è quella che si dà nella apparenza, ma quella del valore che la costituisce come realtà ideale, presente alla coscienza che la pensa come a sé presente nell‟attualità dell‟interesse storiografico, che risolve il mero racconto mitico (la “cronaca”) nell‟eterno presente della soggettività teoretica. Lo storicismo idealistico sostituisce la verità totale (trascendente e perciò mysteriosa) con la sua rappresentazione ideale, analogica, affermata come l‟unica reale. La riduzione ermeneutica del Tutto all‟Essere antepone l‟interpretazione come valore significativo al limite del Mystero della creazione, cioè dell‟Origine dell‟Essere, assegnando alla Parola, cioè al Logos, una funzione soteriologica che eleva lo strumento a fine. Questa operazione teoretica avviene attraverso la eliminazione concettuale del Negativo, quale irrazionale, e assegnando all‟oggetto di pensiero razionale il valore di “realtà” definita positivamente. Con la definizione concettuale si tracciano i confini dell‟Essere da ciò che lo trascende, giudicandolo in-reale, e dall‟informe crogiuolo dell‟esperienza della vita pratica, assunta come il deposito astratto di ogni superiore elaborazione ideale. È dunque intrinseco alla sua costituzione ontologica la destinazione nichilistica dell‟Essere, che ascrive al Negativo ogni sua opposizione, come se, dal punto di vista del prima e del dopo tale de-finizione, non fosse l‟Essere l‟equivalente opposto. Con la logica dell‟als ob, infatti, il Tutto si riduce alla verbalità dell‟interpretazione, alla quale ogni riforma logica non aggiunge niente di significativo, poiché non intacca il lato oscuro del fondamento ontologico. Eliminando formalmente la trascendenza del Negativo, l‟Essere afferma la sua totalità definendola nella distinzione da ciò che non è partecipabile della sua realtà universale. Poichè la definizione è la rappresentazione dell‟Essere, cioè dell‟oggetto pensato come ente di ragione, essa rimanda all‟Essere, alla sua totalità, come al luogo della vera realtà onto-logica, ogni esperienza difettiva del mondo fenomenico viene compensata da tale rimando alla totalità, alla stregua di una promessa di compiutezza presso il modello ideale perfetto ed eterno, di assoluta positività, dove non vi è motivo di divenire altro da sé, di mutare di essenza. La de-finizione è lo strumento teoretico per affermare una realtà de-finitiva, eterna. Si comprende bene la portata dell‟innesto che la prospettiva soteriologica cristiana ha operato entro la metafisica greca, al fine di fruirne come strumento tecnico di giustificazione della fede. Operazione quanto mai dubbia e azzardata che, con l‟eliminazione del
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Negativo dall‟esperienza storico-conoscitiva, ha provocato l‟esclusione del Mystero dall‟orizzonte della coscienza e della Verità, e con esso l‟annessa sapienza, la consapevolezza della Differenza tra il determinato (contingente) e il Tutto (necessario), provocando la soppressione della distanza tra la coscienza e le cose, ridotte queste a oggetto e possesso del pensiero formalizzante che le rappresenta. La rappresentazione, pensata non già come rappresentanza analogica ma come “creazione” della realtà informe e astratta, la coscienza poietica del Soggetto trascendentale si sostituisce all‟onnipotenza di Dio, subendo la stessa sorte di rimozione. Il Soggetto prende il posto di Dio nella scala ridotta dell‟Essere, attribuendo alla realtà un significato giustificato razionalmente dalla “sublime tautologia” (l‟espressione è del Croce) per cui ogni ente rappresenta la realtà dell‟Essere, e dunque è l‟Essere stesso come ente apparente, sostituendo per convenzione logica ciò che non è presente. L‟Essere (assente) è (presente), mentre il non-Essere (il Tutto) non-è (presente): esiste solo l‟ente, ciò-che-è (to òn). Ma assegnare all‟ente il significato di Essere equivale a fare della definizione il luogo della verità. La rappresentazione della realtà, il suo significato razionale, prende il posto della Verità; la rappresentazione come Tutto, sostituendo il positum all‟arché, la Parola al Verbo. La Rivelazione come Cristo a Dio. Da qui consegue la rimozione della fede in Lui a favore della sua Chiesa, del prodotto storico del kerigma. “In principio era la parola, il Logos (...) tutto è divenuto per opera sua”: La Parola (umana) al posto del Verbo (divino), la Rivelazione dell‟Incarnato ha preso il posto di Dio, il Cristianesimo dell‟Ebraismo. Tutto (Dio) è (rappresentato dall‟Uomo) fittizio (Cristo).640 Su questo “paradosso” si dispiega la cristologia, versione sacra della pagana ontologia. 641
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Sul docetismo di Marcione, ved. A. Von Harnack, Marcion. Das Evangelium vom Fremden Gott (1921), tr. it., Genova, 2007, pagg. 200-228. 641 “Poiché del Figlio si può parlare solamente in connessione con la rivelazione di Dio, e del Padre invece, in linea di principio, anche lasciando da parte la rivelazione, e poiché d‟altra parte il Nuovo Testamento ha per oggetto solo la rivelazione, nasce appunto il paradosso neotestamentario (intorno al cui chiarimento i teologi cristiani posteriori, muovendo da un punto di vista filosofico-speculativo, si sono affaticati invano), per il quale il Padre e il Figlio sono nello stesso tempo tutt‟uno eppure diversi”: O. Cullmann, Die Christologie des Neuen Testaments (1957), tr. it., Bologna, 1970, pag. 373.
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La crisi della metafisica classica trascina con sé anche la giustificazione razionale della fede che su quell‟impianto teoretico si era fondata, provocabdo l‟isolamento culturale della teologia cristiana, costretta a difendersi dal suo stesso prodotto ideale: il mondo moderno, il razionalismo e lo storicismo sociologico, insomma l‟ateismo quale rimozione dell‟origine cristologica del significato della Storia. Il significato della Parola, la sua esegesi razionale, divente il surrogato della fede, e la difesa del monopolio ermeneutico l‟impegno mondano suppletivo della evangelizzazione. Ma se la Verità esaurisce ogni possibilità, la definizione invera solo ciò che ha postulato a premessa del suo costrutto sillogistico. “Ogni” vuol dire anche il Negativo, che il giudizio logico esclude per metodo. La ratio misura la corrispondenza tra il postulato (l‟Essere) e il giudicato reale secondo ragione, ossia esistente. Ma cos‟è il Negativo, il me-on o ni-ente, se non ciò che trascende l‟ente? E cosa trascende l‟ente se non ciò che trascende la sua necessità d‟essere? Il Negativo è la libertà, che è la condizione della fede; è la speranza, che è la premessa del futuro; è il Mystero divino, che è il senso della Storia. Il razionalismo elimina dall‟esperienza umana la tensione verso la trascendenza del Finito mercé “la tecnica scissoria, dialettica, polarizzante, tendente a rompere la compattezza del sociale”, in vista di uan conflittualità immanente al processo storico, inteso e vissuto come trama polemica di interessi in competizione. 642 Questa impostazione storicistica del poilemos come dimensione universale della esistenza umana e della convivenza sociale, non appartiene al solo marxismo, che traduce in rapporti di forza ogni esperienza socializzata e perciò “reale”, ma è propria della gnosi razionalistica, che oppone la sua onto-logia al Nulla, a ciò che non-è interno all‟Essere. La dialettica esclusivista e negazionista è ideo-logica in quanto onto-logica, razionale in quanto coerente al suo fondamento, a cui ogni ente riporta. L‟Essere, negando il Nulla, rimuove il suo fondamento arcaico e si fonda sul Nulla. La negazione dell‟opposto, che è la condizione d‟essere della realtà ontologica, si risolve in una negazione di sé: il parricidio è il modello metafisico della Ragione, che dopo aver negato il fondamento divino per affermare la storicità del Figlio, nega la Storia cristiana per affermare l‟ibrido Soggetto trascendentale, il quale
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E. Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi, cit., pag. 136.
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verrà a sua volta negato dalla Storia stessa, intesa come meta fenomenologia della volontà autopoietica, assoluta attualità dell‟autoctisi. Eliminando il trascendente l‟Essere ( ) si rimuove l‟origine stessa dell‟Essere, preesistente ogni esistenza ( ). Come è stato giustamente affermato, “la via della negazione può condurre solo a una conoscenza analogica di Dio (che) si nasconde (ed) è ignoto, perché inconoscibile ()”.643 La strada razionale è preclusa. La conoscenza di Dio alternativa alla ragione umana “è la gnosi (salvifica) positivamente voluta e instaurata da Dio. Più che una via umana della conoscenza, si tratta di una via divina, resa accessibile all‟uomo al livello della Sua esclusiva conoscenza”. Tale via salvifica procede da Dio, “unico autore della salvezza. E non procede da Dio se non è Lui l‟autore della gnosi offerta all‟uomo. Nella prospettiva gnoseologica pagana, mutuata dalle grandi gnosi eterodosse del sec. II, la conoscenza divina, generosamente offerta all‟uomo, è comune a Dio e all‟uomo, eccedente le vie normali dell‟umano conoscere (...)”. 644 Qual è questa gnosi alternativa alla ragione umana, di carattere divino? La conoscenza di Dio è possibile in quanto l‟uomo ha essenza simile a quella divina: “somiglianza sostanziale della mente umana con Dio”, ovvero “somiglianza qualitativa dell‟intelletto umano” con quello divino.645 L‟uomo conosce il divino in sé stesso mediante il divino di sé stesso, scoprendo nel proprio interno “la preistoria e la metastoria dell‟individuo”, per cui la historia salutis rimane priva di basi: “la storia, in quanto tale, non interessa”.646 Ciò che importa è raggiungere l‟Infinito, attraverso una intersezione di scienza e salvezza, in cui predomina listanza soteriologica., sicché “gli ideologi pagani invitano a combinare un percorso concettuale con un altro non concettuale, per giungere all‟intuizione dell‟infinito”, che è la dimensione di Dio che, da ignoto, “si apre all‟uomo per attiralo a sé, senza rinunciare alla Sua superiorità”.647 La conoscenza per la salvezza è diversa dalla conoscenza esatta; questa è propria della dimensione dell‟uomo razionale, rappresentato da Abele, 643
A. Orbe, Loc. cit., pag. 25. Ibidem. 645 Ivi, pag. 26. 646 Ivi, pag. 27. 647 Ivi, pag. 29. 644
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laddove la conoscenza di Dio è appannaggio dell‟homo religiosus, il credente amico della verità, custode dell‟anima spirituale, la cui specie è rappresentata da Set, capostipite della specie pneumatica, che possiede “la chiave del Verbo incarnato”, senza la quale “le Scritture sono religiosamente enigmatiche”.648 Per gli gnostici, come per Marcione, “prima della venuta del Salvatore nessuno aveva raggiunto la gnosi del vero Dio, nella quale consiste la Salvezza”, sicché il tempo dell‟Antico Testamento era stato “un tempo di ignoranza”. 649 Evidentemente, l‟ignoranza era riferita all‟insipienza del significato analogico della Parola, che, in quanto interpretata in senso letterale o razionale, mancava del suo significato spirituale. La superiorità della ermenutiva analogica è nella sua inclusività nell‟ambito della Verità anche della interpretazione razionale. Infatti, il versetto (logion) ispirato da Jahwè, non era falso, ma aveva un significato diverso da quello ispirato dalla sapienza del Figlio, e “l‟uno e l‟altro veri”.650 La Verità spirituale, ispirata da Dio all‟uomo religioso o pneumatico, coglieva intuitivamente ciò che la coscienza dell‟uomo psichico poteva conoscere soltanto con la ragione umana (logos). La mente spirituale (nous, pneuma) non conosce per causas, ma con l‟esercizio della contemplazione (noesis, gnosis), in cui consiste l‟ascolto del Verbo divino, lo Spirito, per mezzo dell‟intelletto divino, che non è la ragione. Tra le due facoltà si pone la Rivelazione del Figlio, che supera l‟ignoranza veterotestamentaria risvegliando nell‟uomo per illuminazione la sua anima spirituale. “Venuto il Figlio nella pienezza dei tempi, rese possibile, con la sua mediazione, la conoscenza del Padre”. 651 Il Mediatore consente allo spirito divino di comunicare, di unirsi nella reciproca conoscenza: di Dio, delle intenzioni umane; dell‟uomo, della verità di Dio. Questa conoscenza spirituale è intuitiva, non passa attraverso la parola (logos). La conoscenza attraverso la parola, compresa quella scritturale, è per mezzo dell‟intervento di un altro, ossia è una conoscenza per fede: fede, appunto, di un altro. La Parola evangelica è pur sempre parola umana, legata alla finitezza, che ha un suo proprio
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Ivi, pag. 33. Ivi, pag. 39. 650 Ibidem.. 651 Ivi, pag. 42. 649
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linguaggio cognitivo, quello appunto razionale, il quale deve trovare conferma nell‟altro per sussistere come linguaggio di verità comune, condivisa, pubblica, ecclesiale. La conoscenza del Padre è il Verbo di verità, l‟Origine preesistente ogni esistenza (), l‟Ordine preontologico da cui ogni cosa deriva, inattingibile dalla ragione. Cosa conosce la Ragione? Ciò che è comune in Natura, l‟essenza razionale in cui consiste la dinamica dei processo naturali. L‟essenza delle cose finite è appunto la loro ragion d’essere, la ragione della loro esistenza. Qual è la ragione della realtà finita? È la sua destinazione a finire. La ragione delle cose è la Morte, come destino universale, consustanziale alla loro finitezza. La ragione del mondo è ben diversa dalla Verità eterna, dalla realtà spirituale, che non è una “essenza”, ma la Trascendenza, ciò che va oltre la finitezza. Non essendo una entità, non è un concetto, ma una intuizione. La realtà di Dio è una presenza intuitiva. La conoscenza razionale (scienza) è imperfetta, relativa al Finito, a ciò che passa, scienza delle cause, intelligenza delle relazioni mezzi-fini, logica, economica, scienza della volontà, mentre la conoscenza spirituale (gnosi) è perfetta, relativa all‟Infinito, a ciò che è eterno. Il razionalismo è economismo, riduzione della conoscenza (e dunque del significato dell‟agire umano) a intelligenza razionale delle cause degli eventi empirici. L‟intelligenza razionale è la scienza, che è il prodotto della rimossa filosofia. Il sistema sociale economicistico, retto cioè dal principio di ragione economica, è il Capitalismo, la cui genesi è teologica, e nella theo-logia ha il suo fondamento rimosso di verità. La conoscenza razionale definisce l‟esperienza umana nei termini della sua esistenza finita; esistenza che è consustanziale alla esperienza umana, sicché la sua conoscenza è a suo modo conoscenza vera. La conoscenza razionale ha il suo momento di verità relativa nell‟autocoscienza del destino universale di morte. La rappresentazione storica razionalistica ha il suo senso universale nel destino cosmico di Morte. L‟unità razionale della storia del genere umano è nel suo valore di temporalità finita, che ha un terminus a quo iniziaòe e un terminus ad quem finale. L‟assolutizzazione della Finitudine come dimensione esistenziale è una trascrizione naturalistica della moderna cosmologia, regressiva rispetto alla sapienza spirituale, fondata sulla intuizione della Differenza. Per la Ragione, la conoscenza è uni-versalità, o legge dei rapporti causali necessari. Per lo Spirito, conoscenza è differenza tra Finito e Infinito. La verità del Padre è la Legge della creazione del mondo finito, destinato
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alla Morte. La verità del Figlio è la rivelazione della Differenza tra salus carnis , derivata dalla fede psichica nella ragione, e salus animae, fede spirituale nella Salvezza, che salva dal destino di Morte. La conoscenza spirituale, comportando una metànoia, cioè un passaggio dal piano della finitezza o temporalità, a quello della eternità o pienezza escatologica, introduce nell‟unità del genere umano una frattura, una rivelazione della verità, non conseguibile per eduicazione (paideia), ma per illuminazione intuitiva. L‟intuizione spirituale è la conoscenza della verità come Differenza tra razionale e spirituale, tra legislazione causale e salvezza. Tale salto di conoscenza è il passaggio noetico all‟aldilà della salis spiritus o santità, che è la condizione di verità non confutabile empiricamente, perché trascendente. L‟Incarnazione cristica rivela lo Spirito eterno, la verità trascendente la realtà regolata dalle leggi naturali della ragione finita, e si manifesta come consustanzialità, riconciliazione del Finuito con l‟Infinito, del tempo con l‟eterno, dell‟umano col divino. Se la legge divina del Padre iveste la natura di tutte le creature, l‟elezione spirituale compete solo agli uomini di buon volontà, che intuiscono la Verità e vi aderiscono non con l‟ossequio alla Parola, ma con la testimonianza, che è l‟imitazione esistenziale della Storia di Cristo. Chi ha fede in Cristo non aderisce alla Sua dottrina, ma alla sua Storia, assumendola come paradigmatica di ogni storia umana, in quanto fondata sulla Verità, non sulla decisione ontologica. La Ragione pone la sua verità finita come decisione per l‟Essere. Lo Spirito rivela la Verità come adesione all‟Eterno. Nella conoscenza razionale c‟è identità di sostanza o essenziale. Nella intuizione spirituale c‟è analogia di eternità e di eskaton. Il Verbo, incarnandosi si fa Parola, racconto della Storia di Cristo, Mito. La Parola, de-finendosi secondo l‟Essere naturale della logica antica, diventa Cristologia, trasvalutazione religiosa della antica onto-logia. Il motivo gnoseologico della tesi gnostica fu rigettato dagli ecclesiastici come ereticale, ma in realtà l‟intero impianto metafisico della gnosi cristiana è una riabilitazione surrettizia della gnoseologia naturalistica pagana, la cui purezza modernamente riscoperta ha condotto, complice la Chiesa alla sua fedeltà al Dòkema anziché alla Verità rivelata, all‟ateismo della civiltà razionalistica post-cristiana. Da cosa potrà venire la salvezza del mondo? Da un nuovo inizio spirituale, di fede anziché di ragione. Nelle Leggi Platone asserisce che se per “natura” s‟intende “la
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generazione delle realtà originarie”, la qualifica di “naturale” spetti più propriamente all‟anima che ai “primi elementi”, essendo questa anteriore a quelli.652 Egli parte dal dato d‟esperienza che “ogni realtà viene alla luce per via di trasformazione e di movimento e un essere è veramente sussistente solo finché permane se stesso, e quando invece si muta in un altro stato si distrugge definitivamente”.653 Il movimento consta di due generi: “quello che ha la capacità di muovere qualcos‟altro, ma non se stesso (...) e quello che sempre riesce a muovere sia se stesso che le altre cose (...) e che, quindi, armonizza in sé ogni principio attivo e passivo (per cui) in senso proprio è questo che merita il noime di cambiamento e movimento di tutte le cose che sono”.654 Il movimento primo di tutti i successivi movimenti è “il movimento che muove se medesimo”, che, non essendo mosso da altri, costituisce “il principio di tutti i movimenti” e quello “più antico”. Un essere, muovendosi da sé, è vivo, e dunque ha un‟anima ( ).655 E l‟anima non è altro che il nome che noi attribuiamo a “ciò che muove se stesso” ed è “principio () di movimento di tutte le cose”. Da ciò consegue che “l‟anima in noi uomini è venuta all‟essere prima del corpo (e) che per natura ha funzione di guida, mentre il corpo è guidato dall‟anima”, la quale è “causa ( ) di tutte le cose”.656 Questa doppia nomenclatura esprime anche una duplice funzione: quella, per così dire, interna all‟anima, e concernente i “movimenti primari” (), quali i pensieri e le decisioni, e quella esterna, concernente i “movimenti secondari” ( ), ossia “i moti dei corpi”.657 La “oscillazione del significato della parola „fondamento‟ o „principio‟ ”, era già stata notata da Carnap, il quale si decide a interpretarne il senso univoco in ciò che, essendo primo e “in quanto presupposto, determina la conseguenza conforme alla legge dell‟accadere”, 658 che è la sua ragione, ossia la sua necessità.
Pur trattandosi dell‟anima, prosegue Platone, il movimento che essa determina nei corpi, compresi quelli celesti, “è di natura analoga al movimento e all‟andamento dell‟intelletto, ossia ai ragionamenti, sì che quella si muove in sintonia con questi, allora risulta evidente che è
652
Platone, Leggi, X, 892 c. Ivi, 894 a. 654 Ivi, 894 b-c. 655 Ivi, 895 b-c. 656 Ivi, 896 a-c. 657 Ivi, 897 a. 658 R. Carnap, Op. cit., pag. 457. 653
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l‟anima migliore quella che presiede a tutto il cosmo, e che lo guida sulla sua via”.659 La migliore è dunque l‟anima razionale, quella che è omologa all‟intelletto umano, ossia che consente una interpretazione razionale dei suoi movimenti. Il punto decisivo è questo: l‟omogeneità tra movimenti razionale e comprensione intellettuale e finalismo benigno. Infatti, “se questo movimento (cosmico) fosse senza senso e senza ordine, l‟anima sarebbe malvagia”.660 Il Bene, dunque, è la ragionevolezza del movimento dell‟anima cosmica quale legge universale, con la quale l‟intelletto umano deve mettersi in sintonia se vuole partecipare del suo bene, ossia deve uniformarsi alla legge di ragione. Ma qual è codesta legge? Le parole di Platone, per quanto elittiche, non lasciano dubbi: è la legge dell‟Ordine, inteso come “un‟unica regola”, una “disposizione prefissata” e una “logica prestabilita”. 661 La “circolarità” del moto sta a indicare la corrispondenza tra l‟evento o movimento particolare e “tutto il complesso” cosmico, ossia cosmo-logico.662 Poiché non è possibile cogliere coi sensi la totalità cosmica, dobbiamo conseguire con l‟intelletto e con l‟intelligenza l‟anima che lo muove, riconoscendone la “natura divina”, che assicura “l‟ordine dell‟universo intero”.663 Tale Ordine universale, essendo intelligente, è riferibile a un “ordinatore” che lo governa col fine di assicurare che “alla vita del tutto sia presente l‟essenza della felicità”, a cui ogni uomo deve partecipare facendone parte organica.664 L‟idea dell‟Ordine è gerarchica, e spiega altresì il movimento stesso dell‟anima (o degli dèi che ne eseguono la funzione ordinatrice), ovvero dell‟intelligenza di “chi muove le pedine”, consistente nel “mettere il carattere migliore nel posto migliore, e quello che è peggiore nel luogo peggiore, affinché ciascuno abbia quel che gli tocca e la sorte conveniente”.665 Dunque, l‟Ordine consiste nella 1) gerarchia delle 659 660
Leggi, 897 c. Ivi, 897 d.
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Ivi, 898 b. Ivi, 898 d. 663 Ivi, 899 b. 664 Ivi, 903 c. 665 Ivi, 903 d. 662
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funzioni, nella loro 2) regolarità, e cioè razionalità e giustizia, e nella coerente 3) corrispondenza di ogni parte al Tutto. Epperò qui sorge il problema di conciliare il modello dell‟Ordine ideale col movimento che, per quanto stabilito da leggi eterne e superiori, pare contraddirlo; infatti, se fosse un ordinamento universalmente cogente e necessario, perché mai un governo intelligente a regolarne il funzionamento? Ciò vuol dire che all‟interno dell‟anima esistono due pulsioni opposte: quella che afferma l‟Ordine legale-razionale, e quella che tende a negarlo, obbligando l‟azione correttiva dell‟intelligenza divina. L‟anima “buona” è quella che tende all‟Idea, non già al movimento, che pure è stato indicato, come abbiamo visto, con “la vita”. Se, dunque, il movimento è vitale, perché assegnare la bontà del fine all‟Ordine? La risposta è, nella sua essenzialità, molto semplice: la bontà del movimento non è nella sua dinamica, ma nel suo fine idealerazionale, senza il quale il movimento stesso sarebbe disordinato e maligno, cioè caotico. Sicché l‟intelligenza divina che muove il mondo ne indica la direzione salvifica, ma non crea il movimento, se non come motore correttivo, in quanto il movimento, cioè la vita cosmica, sussisterebbe ugualmente, anche senza la bontà dell‟intelligenza divina, ma in termini malevoli, caotici. Dunque l‟intelligenza divina che muove tutte le cose è distinta dal movimento spontaneo di esse, tale che “l‟anima migliore” interviene a correggere le pieghe spontanee della peggiore. Sicché il cosmo divinizzato non è la realtà naturale della vita spontanea originaria, la quale è in sé priva di intelligenza, ossia di fine teleologico, che costituisce l‟Ordine felice universale. L‟intelligenza che governa il mondo lo costringe entro le leggi divine della Ragione, che sono quelle stesse dell‟intelletto umano e che determinano il fine del movimento spontaneo nell‟alveo della logica necessità, che la dialettica discopre attraverso la pratica maieutica. Senza tale Ordine, ossia senza l‟intelligenza della necessità universale, il movimento ricadrebbe nel caos originario, nella confusione cioè di bene e male, di piccolo e grande, di giusto e ingiusto, di contingente e necessario. Il principio arcaico ( ) viene posto sullo sfondo dall‟inizio logico () dell‟Ordine cosmico (), che lo rimuove nel suo nuovo fondamento, dando vita al movimento intelligente, che è la legge sovrana del governo divino dell‟universo. Di riflesso, il governo politico non può che rifarsi a questo principio d‟Ordine razionale, non certamente al movimento caotico privo di fine e dunque di felicità. La
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metafisica greca nasce su questo fondamento onto-logico, e su questa rimozione dell‟origine caotica indicata come movimento maligno in quanto ateleologico e in-intelligente, insomma come il Negativo rispetto alla positività dell‟Ordine razionale universale. Questo “salto nell‟Essere”, come l‟ha chiamato Voegelin, non è che la scoperta dell‟Ordine come riferimento di ogni fenomeno empirico al suo modello organico ideale. E su questo modello si sviluppa la theo-logia cristiana, concependo un Dio onnipotente ordinatore del Kaos, che trae l‟Essere del mondo dal Nulla, pensato questo come Male, come privazione, come negativo, e Cristo come suo criterio ordinatore (Logos). La questione è che l‟anima (psyché) del mondo, il movimento della vita, che è la pre-condizione della razionalità, così come la Natura (physis) è la materia informata dall‟Idea, è in sé una sostanza, rispetto alla quale l‟Ordine è contingente e accidentale. In altri termini, il movimento in sé (dynamis) è come la materia prima aristotelica, un‟astrazione concettuale che la distingue dalla ragion pura, oppure è una sostanza che può sussistere anche senza ordine razionale (energeia)? In Aristotile psyché e physis non sono contrapposti come l‟Essere alla coscienza, ma sono correlati nei termini dell‟universale e del particolare. La physis è la condizione d‟essere dell‟ente, che rimane invariata sia nel suo essere che nel suo agire,666 mentre la psyché è la forma ideale () del corpo fisico, il luogo ideale ( ) e finale del suo fondamento ().667 L‟identificazione del movimento vitale () col Male e col Negativo (privatio Boni), in quanto informe materia, implica la sua scissione dall‟unità originaria e la opposizione logica in relazione al prodotto formato (), che è un ente () idealizzato. La rimozione del Negativo consegue alla identità del “reale”, l‟ente formato oggetto di giudizio, col “razionale”, prodotto noetico, mettendo in antitesi il mondo naturale col mondo razionalizzato, ma considerando “vera” solo la loro unità ideale-reale di essenza ed esistenza. L‟Essere dell‟onto-logia è già l‟Idea dell‟Essere, prodotto della scissione e dunque derivato, così come il Christos-Logos è il Figlio di Dio. L‟identità del Figlio (Deus visibilis et imago Dei) col Padre (Deus
666 667
Aristotile, Phys., 192 B 13. Aristotile, De anima, 429 A 27, 432 A 2.
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absconditus et incomprehensibilis) resta logicamente problematica,668 proprio perché la logica è stata assunta sia come criterio di giudizio, ossia di identità/distinzione dell‟ente con l‟Essere, che di realtà, cioè di determinazione empirico-fenomenica. Ciò che pare indubitabile è che l‟Incarnazione del Figlio, rispetto alla potenza divina del Padre, introduce nell‟Essere quell‟elemento di dinamicità spontanea, cioè di relazione con la corporeità e naturalità dell‟esistenza concreta, che il concetto aveva rimosso come negativa particolarità. 9. La pietà cristana verso il Negativo è l‟Amore (agape) della riconciliazione (Vesoehnung) della coscienza umana col mondo, che non risolve nel potere della Legge l‟ordine esistenziale, e dunque nella forma istituzionalizzata della struttura politica di Cesare, ma accoglie nella esperienza della fede quella particolare accidentalità individuale che non ha significato proprio e personale nella forma universale dell‟Idea. Questa pietosa accoglienza della singolare vicenda umana della persona nella valutazione della sua esperienza esistenziale come una realtà che trascende le singole manifestazioni delle sue azioni visibili, cioè della sua volontà, e coinvolge anche e primieramente l‟ambito della sua riposta coscienza, cioè la sua segreta intenzione, supera, con l‟oggettività del giudizio razionale, lo stesso criterio di giustizia della Legge, che giudica le opere umane, le res gestae, ma non considera, come invece fa l‟Amore, la vicenda dell‟uomo come storia spirituale nel tempo, comprendendola in rapporto alla salvezza eterna, che trascende la storia pragmatica (historia rerum gestarum). Tale caritatevole comprensione dell‟uomo spirituale inerisce la considerazione dell‟in-visibile, e dunque include quel Negativo, rimosso dal giudizio di ragione, dalla realtà onto-logica, pervenendo alla compiutezza propria della coscienza divina, che ha in Cristo il suo modello divino-umano, storico-escatologico, spirituale. Il rapporto tra il modello divino e quello umano permane all‟interno della Differenza tra il Finito e l‟Infinito, nelle sue diverse articolazioni, e perciò non si risolve in una identità, ovvero in una assimilazione logica dell‟altro, in senso, rispettivamente, teopanistico o panteistico, per riprendere la dicotomia di Przywara, ma si può ben rappresentare nei
668
“Non vi è contrasto più grande che fra Dio e immagine di Dio”: K. Kraus, Sprueche und Widersprueche (1909), tr. it., Milano, 1972.
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termini di una analogia, del quale il pensatore gesuita polacco ha offerto una elaborata teoria.669 Egli, pur riconoscendo come imprescindibile a ogni discorso metafisico la “equazione esaustiva tra conoscenza ed essere, per cui la conoscenza non è altro che l‟essere in quanto portato ad espressione o, per meglio dire, l‟essere che manifesta se stesso (giacché solo in tal modo si esclude una tensione tra il „che cosa‟ e il „come‟”, muove “dal problema dell‟atto” per definire la struttura formale della metafisica, in cui una “meta-noetica immanente” si compenetra a una “meta-ontica” in cui “giunge ad espressione esplicita lo sviluppo delle categorie meta-ontiche immanente all‟atto”, in modo che “la coscienza e l‟essere sono reciprocamente connessi”, e in questa reciprocità far consistere “il problema supremo della metafisica”, poiché inerisce alla stessa “struttura del mondo”. 670 La panoplia noetica dei trascendentali (verum, bonum, pulchrum) deve trovare un focus metafisico (unum) di verità in cui “i punti di vista logico (“vero”), etico (“buono”) ed estetico (“bello”) trovino una “convergenza che trascende nell‟essere”, andando a costituire un “trascendentalismo metafisico”.671 Ma se l‟esse riguarda la metafisica in senso stretto, l‟unum riguarda invece la matematica, la cui questione dell‟Uno e del Molteplice costituisce “il supremo problema della forma di tutte le possibilità sistematiche”672 proprio della metafisica. Questa a sua volta può essere deduttiva (cioè a priori dell‟oggetto: dalla causa all‟effetto), ovvero induttiva (ossia a posteriori dell‟oggetto: dall‟effetto alla causa), ma comunque convergente sulla problematica dell‟oggetto, il “che cosa”, in senso ideativo (l‟ platonico: metafisica eidetica) o in senso reale (la aristotelica: metafisica morfologica). 673 Nondimeno, anche l‟ scientifico-reale, anche nella sua forma più rigorosa
669
“Il teopanismo è il fondamento formale della metafisica puramente a priori, il panteismo della metafisica puramente a posteriori”. Da questa “sciagurata alternativa” resterebbe per l‟Autore “un‟unica forma residua (dal punto di vista della questione del fondamento formale) che è la teologia cattolica”: E. Przywara, Analogia entis. Metafisica (1932), tr. it., Milano, 1995, pagg. 61, 62, 65; da ora AE. 670 Ivi, pagg. 16-17. 671 Ivi, pag. 21. 672 Ivi, pag. 24. 673 Ivi, pag. 30.
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() necessita di una impalcatura eidetico-deduttiva che ne chiarisca i presupposti che la sottraggano dall‟essere una “opinione incontrollata” (). Ciò implica dunque che il rapporto tra le due unità metafisiche va trovato nel luogo in cui “l‟hanno trovata Platone, Aristotele e Tommaso d‟Aquino: in una suprema reciprocità e compenetrazione”, tali che l‟eidetica si occupi, non di essenze in sé, ma degli “eide reali dell‟essere reale” di “questo mondo” (essentiae rerum), dei quali le forme pure kantiane e gli eide fenomenologici rappresentano “i limiti estremi” dei dati mondani. L‟incontro di morphé (la forma delle cose) ed eidos (l‟idea delle cose), diversamente dalla fenomenologia di Husserl, riabiliterebbe a suo dire l‟esistenza concreta, da essa messa “tra parentesi” per applicarsi alla “coscienza pura”. 674 Il mondo concreto, egli afferma, lo è non solo in quanto “c‟è”, ma in quanto gli enti determinati e “con-cresciuti” nella intima reciprocità di essenza ed esistenza costituiscono una struttura che crescendo diventa “mondo” dove vige “la legge dell‟eterno oscillare che le unisce”, quella della “essenza dentrosopra l‟esistenza”, propria della “metafisica creaturale”. 675 Nella polemica con Barth, il teologo protestante mette in luce la questione essenziale che condiziona gli sforzi, pur notevoli, del pensatore cattolico di articolare le forme eidetiche con una unità ontologica sostanziale ma anch‟essa formale che è l‟Essere, inteso inevitabilmente come struttura della Necessità. Invece, “per Barth l‟analogia tra il condizionato e l‟incondizionato non può concernere un essere che li accomuni al di là di qualsiasi dissimiglianza, ma nient‟altro che un agire. Vale a dire l‟agire determinato dalla decisione umana e l‟agire divino della Grazia”. 676 Ma, se la prospettiva barthiana coglie indubbiamente il nucleo problematico della ideazione metafisica, che rende il formalismo ontologico, dopo la svolta dialettica hegeliana e la critica di Heidegger e Dilthey, ormai impraticabile, la sua indicazione gnoseologica, che partendo dai “segni” sensibili della presenza divina conduce alla “conoscenza indiretta di Dio nelle sue opere”,677 trova, come abbiamo
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Ivi, pag. 33-35. Ivi, pag. 36. 676 P. Volonté, Introduzione a AE, pag. XVII. 677 K. Barth, Kirkliche Dogmatik, I/2, 243 sgg., II/1, 17 sgg.; tr. it., Bologna,1968, pagg. 32-34. 675
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visto, nella dinamica relazionale tra finito e infinito non in una struttura ontologica ma nell‟ “agire” di Dio e dell‟uomo. Rispetto alla risoluzione greca della dinamica spirituale nell‟Essere, la posizione di Barth è senza dubbio spiritualmente più avveduta in senso cristiano, ma neanch‟essa sfugge alla concezione dinamica propria dell‟ontologia, quella appunto dell‟agire come atto di volontà, che risolve nella positività oggettiva la fenomenologia spirituale678, escludendo dalla realtà dell‟Essere quanto non sia rapportabile all‟Essere, il physio-logico che permane dunque a de-finire l‟orizzonte di senso della stessa relazione umanodivina, travisando in senso ontico l‟indicazione psychica platonica e stabilendo una identità formale tra coscienza ed Essere, inteso come essere della physis. Ed è propriamente la dimensione physio-logica a consentire l‟assolutizzazione delle forme eidetiche e la reificazione dei suoi prodotti ontici, in cui l‟aspetto formale e quello empirico diventano opposte prospettive ideo-logiche della essenza e dell‟esistenza legittimate teoreticamente dalla loro assolutezza. Da qui il carattere volontaristico della loro mobile relazione, che si determina nei modi del “come”. 679 Che il legame tra Dio e l‟uomo passi attraverso la parola, quale “segno” privilegiato della coscienza, implica una comunanza tra “la parola di Dio” () e quella umana che, al di là della distanza tra la sophia e la philìa, sussista come possibilità della stessa relazione di partecipazione, sicché l‟esito per cui “l‟assolutezza di Dio si è a tal punto trasformata nell‟assolutezza della creatura, che la parola di quest‟ultima è parola divina: ”,680 delle moderne filosofie assolute quali “teologie de-teologizzate”, è già inscritto nella premessa ontologica. Infatti, è pur vero, come sostiene Przywara, che “la filosofia in quanto tale è già teologia”,681 ma lo è nel presupposto che il fondamento della fede ontologica (che l‟Essere è) sia identificato con Dio (l‟Essere è Dio). Infatti, pur asserendosi che la metafisica sia in generale un “andar dietro le quinte” della physis, e quindi dell‟Essere, il carattere formale del suo costituirsi come “fondamento, fine e senso che agisce in esso” è, come ammette lo stesso Przywara, “in verità qualcosa di simile a un concetto
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E. Przywara, AE, pagg. 59-60. E. Przywara, AE, pag. 56. 680 Ivi, pag. 61. 681 Ibidem. 679
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limite positivo del movimento spirituale metafisico”, in cui lo stesso “Dio è oggetto nella misura in cui la creatura è oggetto”, poiché la misura della sua attività è quella stessa della filosofia, e quindi della logica. 682 Sicché la distinzione che assegna Fides e gratia alla teologia, e ratio e natura alla filosofia, è puramente empirica e non metodologica, in quanto la natura formale dell‟oggetto persiste in entrambi i casi di “realtà”, con perfetta intercambiabilità della fides con la coscienza e della gratia con l‟Essere, intendendo il “soggetto divino dell‟atto” un “soggetto visibile”. Ciò ha legittimato la funzione ermeneutica decisionale della Chiesa, custode infallibile del del Verbo quale “parola positiva”, presentata e fissata nella forma di una “teologia ecclesiale della rivelazione”.683 Il carattere positivo della “realtà formata” determina il rapporto tra fides et ratio in termini gerarchici, con una prevalenza del “sopra” sul “dentro” che si traduce in una interpretazione autentica del pensiero sub specie theologiae (positivo ecclesiale, cioè ecclesiastica cattolica), con una interpretazione del credo ut intelligam agostiniano che risolve la fede nella espressione della sua intelligenza formale, e non nel senso che la fede sia la ragione dell‟intelligenza della realtà. Inoltre, la rappresentazione di Dio come Bene, che è concetto positivo, comporta che “qualsiasi teoria in cui il male viene presentato come contraddittorio all‟idea di un Dio buono sia dunque, in fondo, un ateismo”,684 ossia la trasposizione di un giudizio logico in realtà ontologica. Infatti, non potendosi ammettere che il male proceda “dal bene, suo contrario”, si assegna al solo Bene valore di realtà, mentre all‟essere del male il solo valore di copula, di “legame logico di una proposizione vera”, non avvedendosi che questo comporta l‟ammissione di un Essere assolutamente positivo che, per essere comunque “incompleto, inarmonico, più o meno degradato”, 685 non può, senza 682
Ivi, pag. 64. Sulla “ragione essenziale, o il concetto di ente”, ved. F. Suàrez, Disputationes metaphysicae (1597), Disputatio II.1, tr.it. di C. Esposito, Milano, 2007, pagg. 368-395. 683
Ivi, pagg. 66 e 67. A.-D. Sertillages, La philosophie de S. Thomas D’Aquin (1940), tr. it., Roma, 1957, pag. 276. 685 Ivi, pag. 277. 684
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l‟elemento deficitario, essere Tutto, rimanendone fuori il suo “contrario”. Per impedire l‟attenuazione (remissio) dell‟Essere e a garanzia della sua pienezza soccorre la volontà, cioè la potenza dell‟azione, la cui economia è governata dal Potere, finalisticamente spirituale (la Chiesa) e operativamente politico (lo Stato). Questo ausilio deontologico, non potendo aggiungere all‟Essere la sua naturale positività, ne corrobora però l‟ “appetito” del bene, confermandolo nel suo essere nel contrastare il suo contrario. Ma se si ammette che “ogni essere manifesta un‟attività”,686 questa non può che derivare dall‟imperfezione del suo status naturae, ossia del suo stesso essere, che agisce in quanto imperfetto, sicché è nel fine verso cui tende l‟agire che si misura il rapporto tra bene e male,687 la cui contrarietà diventa complementare in relazione al Tutto, ossia alla relativa perfezione. Il fine dell‟Essere, cioè il suo Bene, è l‟essere stesso, mentre il fine contrario è la sua negazione (libido). Questa, si dice, “è un infinito; se ne può attribuire a un essere quanta se ne vuole senza che venga qualificato in alcun modo, né toccato in bene o in male”, poiché l‟assenza in sé non cambia la natura degli esseri. Infatti, “se l‟assenza pura e semplice di un bene fosse un male, quel che non è affatto sarebbe un male e quindi tutte le cose sarebbero cattive per il solo fatto che ciascuna non possiede ciò che fa la bontà di un‟altra. (...) Ben diversa è la privazione, che nega il bene in un soggetto che dovrebbe possederlo”.688 Si nega la sussistenza ontologica del male nell‟atto stesso di affermarlo esistenzialmente, lasciando impregiudicata la questione circa la (possibilità della) privazione del bene nella condizione che dovrebbe prevederlo. Agostino, spostando la questione sul piano della volontà, riferisce alla (libertà di) coscienza ciò che rimane inspiegabile sul piano dell‟Essere, inteso come sommo Bene. La volontà diventa il movimento della coscienza, la dinamica della fede come intelligere che parte dal credo (ut intelligam) e vi giunge (intelligo ut credam), trovando in fine la “veritas incommutabilis del Deus Verbum: dal credere all‟intelligere, al videre”.689 Il Verbo divino si rivela mysterioso (mysterium del Deus ignotus: “I miei pensieri non sono i
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Ivi, pag. 58. Agostino, Confessioni, 2, IV; De Libero Arbitrio, I, III 6-9. 688 A.-D. Sertillanges, Loc. cit., pag. 59. 689 Agostino, De Trinitate, IX, 1, 1, cit. da Przywara, AE, pag. 76. 687
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vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie”), cioè opposto al profanum, e quindi occluso () al concetto (Begriff) della parola (). L‟ulteriorità della verità è un itinerario verso il Mystero, che però non coincide, come ritiene il teologo, con “la pienezza del concetto teologico”,690 ma con quell‟Infinito negativo (), contrario dell‟Essere, che tutto lo comprende, in quanto trascende il theo-logico. La sua compiutezza non è positiva meno che negativa, proprio perché è totalità, così come la sua infinita unicità non è il riflesso della molteplicità ontica, ma ciò che trascende ogni finitezza necessariamente molteplice, e lo stesso logos che lo forma. Compreso quello cristo-logico della Parola, di cui la Chiesa è depositaria. L‟ammonimento agostiniano del trascende te ipsum non si arresta al Soggetto trascendentale, ma arriva al se abnegare del Vangelo inerente ogni de-finizione dogmatica della Verità (theologia positiva), intesa appunto come reductio in mysterium (theologia negativa). Il senso della analogia come esprime l‟esigenza di andare oltre () il in direzione di ciò che lo trascende. Ciò che trascende il non è il suo “contrario”, ossia l‟altro (), il Male, poiché essi sono due, e perciò “ciascuno di essi è uno”, cioè una Idea.691 E in quanto unità ideale del Molteplice esprimono, ognuna, “una propria essenza stabile (...) per natura”. 692 Non vi è unità ideale senza molteplicità sensibile, come non è un modello formale senza le diverse differenti particolarità delle sue empiriche manifestazioni, sicché “il discorso vero”, ossia l‟Idea, è vero sia “nella sua intierezza” che “nelle sue parti”,693 che sono le parole: le parole vere, sono espressioni particolari del discorso vero; le patrole false, lo sono del discorso falso. Vero e falso, sono due discorsi, due enunciati positivi, espressi in parole. Ogni parola esprime una cosa, che è “reale” se fa parte del discorso vero, e viceversa è “irreale” se parte del discorso falso o immaginario. Sia essa reale ovvero irreale, la parola esprime comunque, in quanto parola espressa, una entità, una essenza ontica. Tale essenza, o è un dato originario, che la parola semplicemente esprime, oppure è un significato
690
Przywara, AE, pag. 79. Platone, Repubblica, V, 475 E-476 A. 692 Platone, Cratilo, 386 E. 693 Ivi, 385 C. 691
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convenzionale, che si dà col fatto stesso del suo nominarsi. La coppia di significati di logos formata dai termini “concetto” e “cosa” definisce i confini di questa tensione. Interpretato come “cosa”, il logos è un concetto che include la cosa stessa. L‟essere (della “cosa”) è il suo proprio
esser-manifesto (come “concetto”). In quanto “senso” (pre-dato ed emettente la “parola”), inoltre, in questa sua concezione limite il logos come “cosa” costituisce la regione dell‟onto-(logia), cioè di un “essere come senso” che può essere “appreso” “nella” ragione (intesa in senso passivo). Questa è la dimensione hegeliana dell‟Essere come realtà onto-logica. Ma a questa concezione dell‟ontologia si contrappone un‟altra, “quella che interpreta il logos come “concetto” (Begriff),694 in cui Il logos, in quanto “parola” che viene posta nella pratica e che com-pone il “senso”, in questa sua concezione limite di “concetto” costituisce la regione dell‟(onto)-logia, cioè di una spontanea riconduzione dell‟essere (quale “materia”) alle categorie del “senso puro” (quali forme reali di asserzione) “per mezzo di” una ragione (intesa in senso attivo) che “intraprende” le “cose”.
Questa è l‟oggettività hegeliana del giudizio in cui “la struttura della cosa va interamente ricondotta alla struttura del concetto”. 695 Ma è inevitabile che il logos abbia una valenza plurima e composita, poiché una forma pura di “logia” è di principio impossibile, andando a coincidere con la stessa essenza di Dio.696 La stessa dialettica, sia in senso platonicoaporetico, cui si rifà Kierkegaard, che in quello aristotelico-sillogistico, proprio di Hegel, rivela il movimento interno dello spirito che oscilla “tra una presa di distanza critica e la fusione quasi mistica con la verità”, la cui “legge fondamentale si chiama ”. Tra la illusione di una “logica” che ascenda alla regione divina e una “dialettica” che si
694
Sulle diverse accezioni di , ved. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi,, Milano, 1976, pagg. 51-54. 695 Przywara, AE, pag. 92. 696 Ivi, pag. 93.
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dibatte tra gli opposti irreconciliabili e la fusione mistica, la “analogia” si pone come “l‟intima soluzione di questo intrico” che supera la logica e la dialettica in una “logica creaturale” e nella relativa metafisica. 697
Il rapporto fondamentale assolutamente formale proprio del della “logica pura” è la “identità dall‟inizio alla fine”, quello proprio del della dialettica è invece la “identità nella contraddizione”, mentre quello proprio dell‟ dell‟analogia è lo “indirizzarsi per mezzo di un essere-indirizzati”.698
Al di là della specifica nomenclatura, anche nell‟analogia la verità si dispiega negli opposti e si concentra nell‟uno, sopra la quale dinamica si trova l‟assolutezza di Dio, presso cui il divenire si fa ordine, ossia Essere. La misura di tale ordinamento poietico è l‟aristotelico “principio di non contraddizione”, che costituisce lo “equilibrio proporzionato” tra il “tutto si muove” di Eraclito e il “tutto riposa” di Parmenide, in cui consiste appunto l‟analogia (), che è la “fondazione di ogni pensare nel principio di non contraddizione quale centro” dinamico immanente.699 Essa consta della relazione tra la possibilità () e la realtà () intesa come fine (), ma sempre interna all‟Essere, cioè a un‟onto-logia, in cui aristotelicamente la realtà precede la possibilità, nel senso che lo sviluppo dinamico sia solo ed esclusivamente il fine del sé (), il fine di pervenire all‟inizio, al positum verum et bonum, che è l‟È divino, che “è ciò che è”, ossia solo se stesso. “In questo senso analogia significa analogia entis”, in cui “l‟attributo entis sta a indicare che il luogo decisivo dell‟analogia coincide con quanto espresso dal principio di non contraddizione: l‟è (vale) quale non non è (vale)”, e quindi costitutivo della “suprema struttura che include e informa ogni cosa”.700 Ma l‟aspetto più importante e ricco di conseguenze, non solo noetiche, della struttura tautologica della forma analogica dell‟Essere, è la conclusione nichilistica in cui si converte il sostanzialismo onto-logico, per cui la differenza tra l‟È divino e l‟è creaturale, se vuole mantenere la sua distanza incommensurabile (extra omne genus), deve concepirsi come
697
Ivi, pagg. 94-95. Ivi, pag. 96. 699 Ivi, pag. 105. 700 Ivi, pag. 134. 698
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il Nulla rispetto all‟ente, tale che la communitas analogiae sia fondata sul Nulla.701 L‟esito nichilistico del razionalismo theo-logico, col suo annesso “ateismo pratico”, come lo chiamava Maritain, ne costituisce la sua confutazione empirica più manifesta, che palesa l‟impercorribilità storicoculturale del sincretismo tomista del naturalismo greco e dello spiritualismo cristiano, acquisito dalla Chiesa come philosophia perennis. La trascrizione del Verbo divino nella parola del logos dell‟ontologia, rende cattolica la metafisica greca, reinterpretandola in senso religiosamente universale, ma a scapito del motivo autentico del Vangelo, l‟annuncio del Dio dell‟Amore, la cui dinamica non è l‟energia della volontà ma la carità della fede, che ha nella Storia di Cristo il suo modello eponimo, e nella Sua santità la fonte della analogia Amoris. L‟amore non è un oggetto di conoscenza sensibile che si possa afferrare con uno sguardo o anche con un sentimento, bensì un avvenimento morale come lo sono l‟assassinio premeditato, la giustizia e il disprezzo: e questo significa tra l‟altro che è possibile fra tutti i suoi esempi una catena di comparazioni con molte varianti e con fondamenti di ogni genere, i cui estremi possono essere molto dissimili, anzi diversi fino alla contraddizione, e tuttavia sono legati da una assonanza che corre dall‟uno all‟altro. Trattando dell‟amore, si può dunque giungere fino all‟odio; e tuttavia la causa non è la famosa “ambivalenza”, il dualismo del sentimento, ma appunto l‟unità stessa della vita.702
Il grande scrittore austriaco coglie da par suo l‟essenza della questione amorosa, la sua irriducibilità a oggetto materiale e a dato cosale di giudizio, la sua natura molteplice e relativa alla natura stessa della vita spirituale, che è una in quanto unica e singolarmente dissimile da uomo ad uomo, e infine – ed è l‟aspetto più importante – il carattere trascendente di ogni sua manifestazione, che richiama simbolicamente altri eventi, altre “varianti” di una catena di “comparazioni” che, nella loro similarità, rivelano anche una loro ineffabile “contraddizione”,
701
Ivi, pag. 135. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften (1931), tr. it., Torino, 19 , vol. III, pagg. 85-86. 702
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quella appunto della vita spirituale come mystero che si fa storia vissuta, totalità escatologica che si dispiega nel tempo, in una travagliata congiunzione che non si esaurisce mai in una compiuta convergenza. L‟amore è malinconia divina, perché tende a quella divina infinitezza che è impedita dalla condizione umana, e che trova nell‟amore quella traccia d‟infinito che, nel travaglio ambiguo della platonica mancanza e sovrabbondanaza, s‟individua in una figura, in un nome, in una esistenza che l‟amore rende unica, individua, singolare. Come la Storia di Cristo, in cui il Gesù umano s‟interseca col Suo modello universale, eterno, simbolico, divino, da cui ogni valore nasce e ritorna come significato. L‟amore si differenzia da tutte le altre risposte ai valori anche profondamente affettive, per il fatto che in esso la persona amata è tematica come persona nel suo complesso, che l‟amore si dirige ad essa e il ruolo dei valori e della bellezza complessiva dell‟individuo, per quanto sia stato grande nel motivare l‟amore, resta poi dietro alla persona come tale (e) la supposizione stessa di una persona che possieda la stessa bellezza complessiva qualitativa, non cambierebbe per nulla il fatto che noi amiamo questo individuo unico, che nessun‟altra persona potrebbe sostituire. 703
La carità, a luogo della volontà energetica, è la qualità soprannaturale comune all‟amor Dei e all‟amor mundi, ma irriducibile a ogni sua manifestazione e destinazione, in quanto mantiene in sé quell‟anelito trascendente ogni dialettica formale e ogni contrasto esistenziale, e dunque ogni contraddizione e ogni obbligazione, in vista di una superiore riconciliazione della differenza di volontà e affetto, di carattere morale. 704 La moralità dell‟amore è nella considerazione dell‟Altro come origine del valore dell‟Io e del “flusso di bonta” che si dirige a lui e che fa diventare “buono” il Soggetto, nel senso della “attualizzazione della bontà insita nell‟anima di colui che ama”, secondo una modalità in cui il dono dell‟amore verso il Tu risveglia l‟atteggiamento originario insito nel proprio animo che si traduce in una “intenzione benevolente” (intentio benevolentiae) universale.
703 704
D. von Hildebrand, Das Wesen der Liebe (1971), tr. it., Milano, 2003, pag. 249. Agostino, Trattato sul Vangelo di S. Giovanni, XXVI, 4; da ora TVG.
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Colui che nell‟amore cristiano al prossimo si dona all‟altro amando, diventa per lui “buono” a causa della bontà e dell‟atteggiamento fondamentale che dominavano in lui già prima del contatto con l‟altro. Non diventa perciò mai solo “buono” per quest‟uomo, ma potenzialmente per ogni membro del prossimo. Non può perciò nello stesso tempo amare un uomo e odiarne qualche altro.705
L‟intentio benevolentiae è pertanto uno stato originario della coscienza antecedente ogni atteggiamento volitivo, per cui la sua sussistente potenzialità non è relativa alla manifestazione oggettiva di un‟azione qualificata come “buona” da un principio ideale, ma è inerente a una peculiare disposizione d‟animo di rovesciamento della prospettiva (metanoia) che privilegia la relazione moralmente asimmetrica con un Tu, la cui realtà totale è avvertita prima dell‟Io divisivo del cogito, che pertanto fonda la sua legalità di giudizio su quel fondamento originario, che non è ontologico e relativo all‟esperienza pragmatica, ma spirituale e inerente al destino di salvezza dell‟uomo, il cui fine non è l‟autodeterminazione del Soggetto trascendentale e politico-economico, ma l‟unione santa con Dio, limite di ogni hybris e senso (significato e direzione) della storia umana. Come ha profondamente rilevato Guardini, Chi ha il senso del destino rigetta con particolare orrore l‟eventualità di essere lui stesso a determinare la propria sorte. Questo orrore contiene la convinzione che certe cose non le si deve volere e che non si vede sapere
nemmeno se sono tenute in serbo per noi – oltre a qualcosa di più profondo, vale a dire un atavico timore del destino, la percezione di una rete di caese ed effetti che oltrepassa la sfera d‟azione individuale e che non si deve cercare di “predeterminare”. L‟uomo che sente veramente la potenza del destino non si appoggia né alle proprie capacità né alle potenze che giacciono nelle profondità del suo inconscio individuale, bensì a qualcosa che sta sopra di lui. 706 Le implicazione di questa prospettiva di resa liberatoria a Dio di ciò che è
705
D. von Hildebrand, Loc. cit., pag. 647. R. Guardini, Der Mensch. Grundzuege einer christlichen Antropologie, tr. it., Op. Om. III/2, Brescia, 2009, pag. 174. 706
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di Dio sono di immensa portata antropologica e storica, investendo la rappresentazione dell‟esperienza umana non più all‟insegna della finitudine fattuale, ma aperta al mystero del trascendente che incombe nella storia pragmatica come l‟impronta archetipa divina, inclusiva di ogni dicotomia metafisica, compreso l‟Essere e il Nulla divisi dal Logos, e orientativa di quella Versoehnung di verità e libertà che non si realizza in conformità di una forma ideale ma nell‟Amore,707 quella lex scripta in cordibus nostris che per Agostino è la verità inscritta come lex interna nella nostra conscientia. Ma di quale coscienza si tratta? Per la coscienza naturale, cioè razionale del , essa consiste nella aspirazione (appetitus) alla “vita eterna e beata”708 in cui non c‟è l‟insidia della morte. “La vita felice si trova là dove il nostro essere non incorrerà nella morte. Il bene dunque, al quale aspira l‟amore, è la vita, e il male, che la paura fugge, è la morte”.709 L‟antitesi naturalistica di Vita e Morte trascrive simbolicamente quella metafisica di Essere e Nulla, intesi, rispettivamente, come eterna realtà e transeunte divenire.710 Per la coscienza naturale, la vita è la sua rappresentazione, la rappresentazione del mondo senza il divenire, e quindi eterno. L‟eternità del mondo rappresentato garantisce l‟eternità della coscienza rappresentativa, indicata come “felicità” o beata vita. Il bonum di questa beate vivere è dunque la durata, e ha per riferimento dialettico il malum della condizione temporalmente finita dell‟uomo. È la dimensione razionalistica che fa da sfondo alla vita activa della politica, il cui scopo è di costruire e garantire strutture di convivenza sociale che durino, superando l‟edacità del tempo. La politica costituisce la risposta physio-logica alla condizione mortale dell‟esistenza umana. Contro la Morte, la Durata della città politica. Questa soluzione, ci dice Agostino, è illusoria, dal momento che ogni costruzione umana è destinata a finire. “Arderà pure il mondo, che fu
707
La citazione del testo è chiaramente dallo Spirito del Cristianesimo e il suo destino di Hegel, sul quale ved. di chi scrive Ragione, simbolo e tragedia e V. Mancuso, Hegel teologo (1996), Milano, 2018, pagg. 103-105. 708 “Ipsa est vita quae et aeterna et beata”: Agostino, Sermones, CCCVI, 7. 709 H. Arendt, Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen Interpretation (1929), tr. it., Milano 2004, pag. 25. Da ora LbA. 710 Ivi, pag. 29.
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creato da Dio... Cielo e terra trapasseranno: che meraviglia, se un giorno una città avrà fine? E forse la città non avrà fine ora; pure un giorno la città avrà fine”.711 L‟amore mondano, “che si aggrappa al mondo”, a un mondo caduco e destinato ad arrendersi alla morte, “visto dal punto di vista dell‟uomo, di colui che è moriturus”, è un falso amore, che Agostino chiama, traducendo l‟orexis aristotelica, cupiditas.712 Esso è caratterizzato dal desiderio di rendere eterne le cose destinate a perire, e dunque è soggiogato dall‟illusione di poter mutare il destino del mondo, spossessando in qualche modo il governo della Morte con le sue inesorabili leggi finali, usurpandone il potere sulle cose e sugli uomini. La città dell‟uomo è dunque il rifugio umano alla caducità della Natura, il fortilizio politico in cui regna la legge della durata, che ispira le azioni virtuose degli eroi. La stoltezza di tale inane impresa consiste nello operare inconsapevole dell‟uomo alla volontà surrettizia della Morte, che attende al varco le opere umane per falciarle con la lama del tempo. In tal senso, l‟intera metafisica naturalistica della sapienza pagana si fonda su una ontologia che, celebrando l‟Essere della vita, in realtà costruisce una struttura teoretica ed esistenziale predisposta per la Morte. Sicché, di converso, l‟analitica esistenziale che, come quella heideggeriana, mira a costituire l‟autenticità (Eigentlichkeit) dell‟Esserci nella consapevolezza del destino di morte, non soltanto “fallisce e nasconde se stesso” nel modo d‟essere-nel-mondo della “quotidianità”,713 ma inscrive l‟intera sua esistenza nell‟orizzonte di quella illusoria cupiditas mundi che caratterizza la vita naturalistica dell‟uomo adamitico pre-cristiano. Il modo cristiano di amare, invece, è quello che ha per dimensione l‟eterno, lo spazio infinito che si apre trascurando il mundus, non già prendendosi cura di esso, ma considerarlo alla stregua di un eremus.714 La cura di sé (epimeleia) come cura del mondo-di-qua (Sorge), viene sostituita dalla cura del mondo-di-là, a cui tendere, indicata come caritas.
711
Sono passi notissimi del primo libro della Civitas Dei, riportati da A. Pincherle, Sant’Agostino d’Ippona vescovo e teologo, Bari, 1930, pag. 200. 712 H. Arendt, LbA, pag. 30. 713 M. Heidegger, Loc. cit., pag. 167. 714 Agostino, Trattato sull’epistola di Giovanni ai Parti, VII, I; Id., TVG, XXVIII, 9. Ved. H. Arendt, LbA, pag. 31.
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Dio è l‟Altro (Andere) da Sè in quanto totalità, alla quale bisogna tendere (inhaerere) per raggiungere la pienezza, la condizione della beatitudo, che costituisce il superamento della finitezza, cioè della vita-per-la-morte. La finitezza dunque è la condizione umana scissa dall‟orizzonte divino, che produce isolamento, non autonomia, del quale l‟amore è indizio. “La vita vuole incessantemente uscire dall‟isolamento mediante l‟amor che si esprime nella caritas e nella cupiditas poiché non possiede l‟autosufficienza”.715 Dunque, l‟affezione amorosa non è una “passione”,716 un moto volontario dell‟anima, ma è un sentimento connaturato alla condizione umana, quindi un bisogno di completarsi nell‟altro. Se tale movimento tende all‟alterità anch‟essa finita come la soggettività, allora l‟amore ripiega sulla stessa condizione umana, eleggendo la finitudine come orizzonte di possibilità risolutive. Questa è l‟illusione che ha animato il sapere pre-cristiano, concentrato sulla dimensione dell‟Essere physio-logico, e che ha ispirato le res gestae delle imprese politiche, legate alla voluntas, intesa come volontà di potenza sul mondo, che si desidera in quanto non si ha potestas su di esso. La dinamica della potenza è di portare l‟altro a sé, il fori all‟intra me, acquisendo il mondo dal mondo e facendosi perciò mondo. “Vivendo nella cupiditas, l‟uomo diventa mondo”.717 Questo farsi mondo è una “fuga da se stessi” (dispersio) nell‟atteggiamento mimetico dell‟aderenza alla realtà esterna al sé della coscienza, coprendo coi rumores mondani la voce di Dio, che parla nella coscienza e che esige perciò l‟interrogante silenzio dell‟attesa della Sua parola. Solo in interiore l‟uomo in ascolto (se quaerere) conosce liberamente se stesso.718 Conoscenza di sé e conoscenza di Dio vengono a coinciderenella stessa parola della coscienza, poiché è nella ricerca di sé che s‟incontra Dio, ed è in questo itinerario che l‟homo interior si allontana dal mondo e partecipa alla aeternitas dell‟amore di
715
H. Arendt, LbA, pag. 33. “L‟amore è un‟emozione dell‟anima cagionata dal movimento degli spiriti, che la incita ad unirsi volontariamente agli oggetti che sembrano convenirle”: R. Cartesio, Le passion dell’anima (1649), tr. it. in Cartesio, vol. I, Milano, 2018, pag. 195. 717 H. Arendt, LbA, pag. 34. 718 “L‟atto libero (dell‟ascoltante), preso nella sua essenza originaria, non è tanto il pore una 716
realtà estranea o un‟opera, che nella sua alterità si oppone ad esso quanto un perfezionamento della propria essenza, una presa di possesso di se stesso e del reale potere creativo che si ha anche nei riguardi di se stessi”: K.. Rahner, Hoerer des Wortes (1937), tr. it., Roma, 2006, pag. 134.
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Dio, che lo rende sempiterno.719 L‟attesa di Dio è oblio del mondo, delle sue ragioni, e dunque della sua propria modalità di conoscenza presente. In questa rimozione del mondo e in questo superamento della sua temporalità in vista e in attesa di ciò che va oltre la ragione del mondo, ossia il presente, consiste l‟oblio della propria finitezza nella trascendenza. In questo transcendere avviene la conversione (metanoia) alla fede, “l‟oltrepassamento della temporalità” nell‟eterno. Infatti, “se dimentichiamo il tempo, dimentichiamo la nostra mortalità, dimentichiamo noi stessi per l‟eternità”.720 Ma cos‟altro indica tale trapasso se non l‟abbandono della realtà dell‟Essere per la speranza di ciò che non è ancora (nondum), e dunque il già stato (ante) per il non-essere? La prospettiva ontologica viene capovolta: partire dalla Mancanza per definire l‟uomo, anziché dall‟Essere, intendendo l‟esistenza umana come Storia della Mancanza, quale percorso dal non-essere all‟Essere, che diventa così il posterius, anziché il prius. Ciò implica che la creazione dell‟uomo, diversamente da quella della Natura e delle altre specie viventi, sia in origine mancante, e a partire da questa infirmitas antropica muovere verso la speranza della compiutezza finale. E pertanto la comprensione della storia umana, quale ricerca della compiutezza spirituale nell‟orizzonte della Mancanza, costituisce una rappresentazione dell‟uomo opposta a quella della metafisica classica, fondata sull‟ontologia, cioè sull‟Essere come pienezza dell‟arché, la quale ha dell‟uomo l‟idea di una essenza in sé compiuta e solo da portare in evidenza, manifestandola come volontà d‟essere chi già si è in potenza. L‟energeia della volontà non è che la realtà attuale della potenzialità dynamica, il cui dispiegamento compiuto realizza ogni fine immanente all‟ente, confinato pur nella compiutezza entro la dimensione del Finito. È questo orizzonte a fare dell‟appetitus dell‟amore profano una modalità esistenziale interna all‟intrascendibile destino di morte. Così come la caritas, quale ricerca della compiutezza spirituale (beatitudo), trascende l‟amor mundi, anche la storia spirituale in senso cristiano non ha niente a che vedere con la historia rerum gestarum della prospettiva naturalistica. L‟amore in senso cristiano è un appartenere, anziché un possedere, quindi un dono di sé all‟Altro, non già una omologazione del dissimile a Sé.
719 720
H. Arendt, LbA, pag. 36. Ivi, pag. 39.
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“Solo l‟amore mette fine realmente all‟abbandono dell‟uomo da parte di Dio, ossia non è un appetitus, ma espressione dell‟appartenenza a Dio (...) e solo in esso si ha un reale superamento della creaturalità dell‟uomo, del suo essere-mondo”.721 La conversione (metanoia) del naturale al piano spirituale non è un oblio di sé come carne () ma del sé come partecipe del destino di morte. 722 La decisione a favore della appartenenza allo Spirito di Dio sottrae l‟uomo all‟appartenenza alla finitezza della Natura. Questa conversione non dà l‟immortalità, ma apre alla coscienza lo scenario dell‟eterno, il luogo del bene dove ogni cosa è Tutto e Tutto è ogni cosa, poiché il significato aderisce totalmente al significante, senza mediazione simbolica, luce da luce, vero da vero. La fruizione del mondo viene superata nella condizione del bene spirituale, nella beatitudine, che è lo stato in cui la Morte, e la relativa paura umana di essa, non incide più come ragione di vita, come motivo causale dell‟agire mondano, dal momento che la dimensione della temporalità è soistituita dalla coscienza dell‟eterno. Con l‟Essere viene superato così anche il tempo e la stessa cura del mondo (Sorge) e del sé come suo elemento più prossimo. Mi penso come mondo, dunque sono mondo. L‟analogia entis, che presuppone l‟autonomia del mondo, la sua compiutezza, viene superata dall‟analogia amoris, che suppone la finitezza del mondo e la sua fruibilità in vista della compiutezza spirituale. 723 Lamore di sé, ossia del mondo di cui ci si sente parte, è cura del presente, e di sé nel presente, nell‟orizzonte della ragione (logos, ratio), della economia della vita. La dinamica dal nomos dell‟oikos al logos della polis disegna l‟intero percorso della coscienza entro l‟orizzonte della finitezza, che nella Durata risolve la sua Mancanza naturale (Mangelwesen), la quale è radicalmente diversa dalla infirmitas spirituale, in quanto il corr ettivo razionale della specie umana che Gehlen chiama “esonero”
721
Ivi, pag. 42. Questo tema è stato affrontato da chi scrive nel suo saggio su Kierkegaard, previsto come n. 12 di “Coscienza storica”. 723 “L‟amor per il mondo, guidato dal fine ultimo, ha natura secondaria. Nel tendere al summum bonum, viene dimenticata l‟autonomia del mondo, del quale fa parte l‟amans”: H. Arendt, LbA, pag. 48. 722
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(Entlastung),724 inteso come la capacità umana di sopperire alle proprie mancanze fisiologiche con l‟immaginazione (facultas imaginandi), mira all‟integrazione nel mondo, non già all‟oblio del mondo. Non è la facoltà (Vermoegen) kantiana di rappresentare l‟assente sensibile rendendolo intuitivamente presente,725 La navigazione della coscienza (che chiamiamo morale per distinguerla da quella razionale) nel senso della trascendenza della condizione naturale, ossia del superamento della originaria finitezza, ha per fine non già il conseguimento di un ordine politico-sociale (polis) corrispondente alla visione ideale del suo modello razionale (la città dell‟uomo), ma persegue il fine di una societas armonica di proximi per affinità d‟anima (ekklesìa), che si riconoscano non in un nomos comune ma in Cristo, verità vivente. L‟ideale aristocratico greco dell‟autarchia viene sostituito dal modello cristico della syn-pathìa, che pone l‟Altro come referente morale del Sé, sicché il prossimo è collocato nell‟ordinamento del mondo accanto all‟io-sé, allo stesso livello. Ne consegue che io devo amarlo come me stesso. Il fatto che anch‟esso possa frui di Dio lo colloca nell‟ordine del mondo come prossimo. Il prossimo è tale solo in quanto si pone in relazione a Dio allo stesso modo di me stesso.726
Con una essenziale precisazione, che il “come” della relazione presuppone che il “me stesso” non sia il soggetto egoistico della storia pragmatica,727 della vita pratica nel mondo che si prende cura di sé, ma sia la persona spiritualmente convertita alla fede in Cristo, il Quale
724
A. Gehlen, Der mensch, seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940), tr.it., Milano-Udine, 2010, pagg. 104 e 422. Sull‟argomento, ved. il mio saggio Verità e oggettività, in “Coscienza storica” n. 9. 725 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 151, tr. it., Bari, 1963, pag. 150. 726 H. Arendt, LbA, pag. 52. 727 E. v. Hartmann considera l‟amore come il sentimento che considera l‟amato come se fosse identito per essenza al proprio io, per cui l‟identificazione dell‟amato con l‟amante viene desritta come una estensione dell‟egoismo attraverso l‟assunzione dell‟altro nel proprio sé: Phaenomenologie des sittlichen Bewusstsein, cit. da M. Scheler, Wesen und Formen der Sympathie (1923), tr. it., Milano, 2010, pag. 94. Da ora WFS.
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pertanto costituisce l‟elemento di comparazione al posto dell‟Io empirico dello amans. Il me che partecipa della Verità in Cristo non è più la misura dello amore del prossimo, misura che è costituita appunto da Cristo, il fondamento unitivo (koinonìa) della comunione spirituale ed ecclesiale. Tale fondamento non è essenziale, relativo alla essentia che accomuna gli enti all‟Essere, ma storica e inerente all‟esistenza di Gesù nel tempo, la cui fede nell‟Incarnazione di Dio nel tempo sostituisce la credenza ontologica nella totalità dell‟Essere. Nella dimensione spirituale della fede non si trovano enti di ragione di cui svelare la realtà, ma esistenze concrete di persone che hanno trovato la “via, la vita e la verità” nella Storia esemplare del Cristo, i cui momenti vissuti sono altrettanti exempla di storie particolari, di situazioni esistenziali in cui l‟uomo alla ricerca della compiutezza di sé in Dio in comunione col prossimo percorre la sua strada, singolare in quanto coscienza in ascolto, ed ecclesiale in quanto partecipata agli altri fedeli. Questa compiutezza non è la condizione dell‟Essere stabile dell‟eterno presente () di cui Plotino,728 ma è la stessa condizione umana vissuta esemplarmente nella prospettiva della eternità di Dio. La vita di Gesù non ha niente che non sia umano, essendo essa immersa nella carne e nel tempo, e quindi soggetta all‟edacità di ogni esistenza finita, dal destino mortale. La Sua eccezionale peculiarità risiede nella possibilità, ossia nella libertà, di trasvalutare ogni esperienza esistenziale alla luce dell‟eternità, agendo nella dimensione dello spirito (), anziche in quella della carne ( ). Non già che la carne non abbia il suo peso biologico nella esperienza della vita concreta, ma essa non è la ragione per cui si viva, avendo perso il senso della sua necessità incombente; un senso razionale interno alla sfera della economia politica. Nella economia della salvezza, invece, la ragione della carne non è decisiva, poiché la tensione vitale non è volta a garantire la sopravvivenza biologica o la durata delle forme culturali della coesistenza socio-politica, ma bensì a pervenire a ciò che “è migliore del mondo”.729 L‟autonomia individuale ( ) dai bisogni naturali del mondo era nella tradizione greca, si pensi a Plotino, conseguita dall‟appagamento del desiderio () e dall‟allontanamento da ogni relativa attività
728 729
Plotino, Enneadi, III, 7, 3-9; ved. H. Arendt, LbA, pagg. 54-55. Agostino, De Natura boni, I, 34.
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() tesa a procurarsi la libertà dal mondo. La è appunto questo commercio col mondo di fuori ( ) per conseguire il bene (), il cui luogo è lo spirito ( ).730 Questo Altrove rispetto al mondo è dunque già nella tradizione neoplatoniva in interiore homine, che è il luogo alternativo al mundum, inteso come “il complesso di coloro che vivono secondo la concupiscenza del mondo” e che per tale dipendenza “non sono in tale stato di grazia, da essere scelti (dalla gratia Dei) in modo da non far parte del mondo (ut eligantur ex mundo)”.731 Dunque la Grazia divina consiste nella elexio ex mundo, la quale non è altro che la dello Spirito di Dio, che è amore, così come era per Platone la dell‟.732 Ma in cosa consiste tale amore? “Amare è morire rispetto al mondo, e vivere con Dio”. 733 Secundum Deum vivere consiste nell‟imitare Dio invece che il mondo, dunque l‟imitari è la struttura ontologica fondamentale della condizione umana, al di là del suo referente, recte ovvero perverse,734 legata alla Mancanza. In senso ontologico, tale si è sviluppata come ana-logìa, sul modo del logos, il cui arché è l‟Essere: l‟imitari onto-logico è riportare all‟essenza () ogni evidenza, mentre l‟imitatio Christi comporta il rapportarsi (ana) al Verbum, che è narratio, , , non . Una volta, l‟inizio, cioè il modello, era la Parola; poi, con la rivelazione cristiana, in principio c‟è Dio, che è Amore. E pertanto l‟atteggiamento mimetico della coscienza dell‟uomo va indirizzato verso questo nuovo e vero inizio (arché). E poiché aequari creatura non potest Creatori,735 l‟imitatio consiste non già nell‟impossibile esse sicut Deus, ma nell‟amare, ossia nel porsi all‟interno dell‟orizzonte di coscienza dell‟eterno, escludendo da esso, non dialetticamente il ni-ente opposto all‟ente, ma la Morte, la dimensione della finitezza e la relativa paura quale sentimento condizionante la manchevole esistenza umana, che nella prospettiva spirituale della coscienza morale è la condizione originaria di
730
Plotino, Enneadi, VI, 8, 2-4; ved. H. Arendt, LbA, pagg. 56-57. Agostino, TVG, CVII, I; cit. da H. Arendt, LbA, pag. 93. 732 Platone, Timeo, 38 a; ved. H. Arendt, LbA, pag. 121. 733 Agostino, TVG, LXV, I. 734 H. Arendt, LbA, pag. 94. 735 Agostino, TVG, XLII, 10. 731
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peccaminosità. La Mancanza umana è dunque il peccato originale della condizione morale dell‟uomo separato dalla Grazia di Dio, equivalente al de mundo esse dell‟uomo naturale, preda della cupiditas. Entro l‟orizzonte agapico dell‟eletto, ogni suo atto d‟amore (dilectio) è in se stesso compiuto, in quanto diretto al prossimo come a Dio, cioè in contemporaneità e in similitudine, per cui la prossimità ha il valore della . L‟amore in senso cristiano compie nel suo manifestarsi quella trascendenza mimetica del mondo in Dio, invano perseguita dal concetto, la cui assolutezza e universalità non poteva comunque oggettivare Dio; e la compie semplicemente restando se stesso, restando amore, tanto che diligendo fratrum, Deum diligit et dilectionem.736 La compiutezza realizzata dall‟atto di amore è conseguita nella in-distinzione di Sé, Dio e prossimo, che costituisce quell‟orizzonte di pienezza in cui Dio si fa Uomo e l‟uomo si fa Altro, in un connubio trinitario inclusivo e radicalmente diverso dal processo esclusivo della dialettica. Ciò avviene nell‟oblio di sé, inteso come Soggetto mondano interprete razionale del mondo. La razionalità e la soggettività sono i due aspetti correlati della coscienza finita autodeterminata,737 che vede Dio e l‟Altro, il prossimo, nel modo della distinzione, cioè appunto della ragione. Il modo proprio dell‟Amore, inclusivo e spirituale, è quello morale, della compiuta totalità, in cui non vi è Sé senza Dio e senza l‟Altro: “totum exigit te qui fecit te”.738 La societas morale, diversamente da quella politica, non si basa sulla complementarietà del dare et accipere delle relazioni economiche, ma dalla comune condizione di fede, ossia di dipendenza da Dio in quanto peccatori. Questa condizione originaria (peccatum originale) fa degli uomini una comunità di eguali rispetto alla comune dipendenza dalla Grazia divina. Ed è tale koinonìa che induce gli uomini ad amarsi amando Dio “come se stessi”. Questo amor Dei celestiale è un collante morale unitivo del genere
736
Agostino, TVG, IX, 10; H. Arendt, LbA, pag. 119. “Il soggetto è il centro da cui si originano tutti quegli atti che hanno in se stessi la propria validità; a esso è riconducibile l‟unità delle categorie su cui tale validità si fonda. (...) Dietro il soggetto non vi è più nulla a cui si possa fare riferimento, perché l‟atto stesso di fare riferimento può essere realizzato solo per il tramite delle categorie della soggettività (quale espressione) dell‟uomo-natura (Mensch-Natur)”: R. Guardini, L’uomo, cit., pag. 225. 738 Agostino, Sermo XXXIV, 7; H. Arendt, LbA, pag. 128. 737
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umano, diverso dal divisivo amor mundi, che origina la civitas terrena.739 L‟appartenenza ad esso, conseguente alla fede che nutre l‟Amore spirituale, non è una condizione di destino naturale (generatione), ma una condizione elettiva, di libera determinazione personale (imitatione), conseguente alla Rivelazione cristica. La dilectio proximi “implica che l‟essere-insieme degli uomini nella comunità, da necessario ed evidente, diventa liberamente scelto e vincolante per ognuno (dal) comune essere-peccatori”.740 Il passaggio spirituale dall‟amor mundi all‟amor Dei implica una nuova forma di socialità all‟insegna della libertà morale di scelta pro Deo. La primiera condizione umana socialitaria era fondata sull‟auto determinazione dell‟uomo adamitico, privo della rivelazione divina e dunque fondata su una legittimazione puramente fattuale, priva della scelta di libertà per una diversa costituzione comunitaria. Solo la rigenerazione spirituale in Dio crea le premesse di una nuova socialità, non secolare, non legata al mondo storico (saeculum) indipendente da Dio.741 La dipendenza da Dio, conseguente alla Rivelazione divina, comincia a essere un motivo di libera scelta dell‟uomo a partire dalla fede in Cristo, la cui esistenza storica manifesta la possibilità dell‟uomo di trascendere la propria finitezza e ignoranza di sé, nel senso di un nuovo percorso di salvezza spirituale. L‟uomo diventa libero in Cristo: questo il significato meta-storico e universale del messaggio evangelico, la cui bontà dell‟annuncio risiede nella proclamazione al mondo della possibilità di emanciparsi con la fede dalla necessità del destino naturale di morte cui soggiace la condizione finita dell‟uomo. Vivere come se non ci fosse la Morte a determinare i modi della esistenza umana; e il come consiste appunto nell‟ordo amoris, in cui gli uomini non sono uguali di fronte al Potere della necessità e della legalità, ma di fronte a Dio, la dipendenza verso il Quale è in spirito liberatoria. L‟Amore, quale dipendenza liberatoria, liberando la coscienza umana dal principio di contraddizione, la libera anche dal Logos, secondo la metanoia paolina. Ed è appunto il logos a essere ispirato dall‟eros, “che
739
“Fecerunt itaque civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, coelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui”: Agostino, Civitas Dei, XIV, XXVIII; H. Arendt, LbA, pag. 133. 740 H. Arendt, LbA, pag. 134. 741 Ivi, pag. 135.
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non sa nulla dell‟Altro nell‟altro, vedendo nell‟altro soltanto quello che è. Lo „ama‟ nella sua esistenza non-esistenziale, senza osservare che appunto questo è il „male‟ in lui. Mentre l‟amore è la permanente elezione e reiezione dell‟altro, l‟elezione di quello che egli non è (e questo è, nella sua totalità, il „male‟ in lui)”.742 Ma se la fraternità del genere umano, in quanto legata alla condizione genetica, deve portarsi alla condizione elettiva di libertà attraverso la fede, ispiratrice dell‟Amore spirituale in Cristo (caritas), perciò occorre diffondere la fede per totum orbem se si vuol amare Cristo (se vis Christum amare).743 Non vi è comunità elettiva senza amore, così come non vi è ekklesia senza la fede in Cristo. La societas cristiana non è dunque egalitaria alla maniera della comune condizione naturale, ma è costituita dalla libera scelta della fede, che emenda dal peccato e dal passato legame col mundum della civitas iniquorum, che costringe l‟uomo alla necessità della Morte. 744 La nuova koinonìa spirituale è dovuta alla fides che rende significativa la caritas come colleganza esterna rispetto al sentimento della coscienza interiore che la lega a Dio (conscientia coram Deo). Ma, proprio perché direzionata nel contempo a Dio e al prossimo, la caritas non perde il suo carattere singolare elettivo, sia in senso ricettivo che comunicativo, sicché la stessa communitas è una societas di singoli: uniti in Cristo ma come persone singole di fronte a Dio. Ed è questa peculiare singolarità a fare di ogni esperienza umana una storia spirituale unica nel comune riferimento mediatore alla vicenda paradigmatica di Cristo. Il paradigma cristico si fonda sulla coincidenza esistenziale di due elementi che la tradizione filosofica disgiunge: la vita contemplativa ( ) e la vita attiva (). Come riteneva Kant, “nessuno può sempre garantire che ciò che egli dice sia vero, giacché può sbagliare, ma ognuno può e deve garantire che la sua professione di fede è vera, giacché
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K. Barth, Der Roemerbrief (1954), tr. it. G. Miegge, Milano (1962), 2002, pag. 436. Agostino, Tr. epist. a Giov., X, 8; H. Arendt, LbA, pag. 141. 744 “La nuova vita socialis, fondata su Cristo, è determinata dal diligere invicem. L‟amore reciproco dissolve la dipendenza reciproca. Nella fede viene superata l‟appartenenza al mondo nel senso originario della civitas terrena e al tempo stesso viene superata la relazione reciproca degli uomini. In questo modo anche il riferimento all‟altro perde l‟ovvietà risultante dalla dipendenza”: H. Arendt, LbA, pag. 142. 743
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egli ne è direttamente consapevole”.745 Ciò implicitamente vuol dire che la verità verte sull‟autenticità del Soggetto, mentre l‟errore inerisce a quella dell‟oggetto. Sono due dimensioni della realtà che sono considerabili secondo due diversi criteri di verificazione della loro autenticità, l‟uno basato sulla introspezione della coscienza, l‟altro sulla corrispondenza della rappresentazione coi suoi contenuti fattuali. Questo sviluppò nel tempo due indirizzi di ricerca, confermati da Cartesio, che Kant cercò di riunire. L‟intero impianto gnoseologico della Critica della ragion pura è fondato su un elemento irriducibile alla deduzione a priori, il dato sensibile, che costituisce, o meglio, sostituisce, la realtà esistenziale oggetto del giudizio razionale. In questo senso, l‟idealismo critico kantiano, in quanto comporta questo momento empirico, si costituisce come un realismo, distante da ogni idealismo assoluto, alla Wolff, che possiamo indicare con Gilson come un “realismo dell‟esistenza”.746 Ma proprio in considerazione della differenza tra ciò che si conosce (il visibile) e ciò a cui si crede (l‟invisibile), l‟esistenza umana non può essere omologata a uno solo degli aspetti in questione, poiché la realtà della coscienza personale rappresenta per l‟Altro l‟elemento invisibile al quale egli è tenuto a credere volendolo conoscere. La coscienza dell‟uomo, quale luogo della verità della persona, non si può mai conoscere come si conosce un elemento sensibile, ma soltanto per fede. Ossia, l‟esistenza dell‟uomo non è rappresentabile come una idea, in quanto esiste l‟uomo, non l‟idea dell‟uomo, così come, asseriva Florensky, esiste la Chiesa di Cristo, non già l‟idea di Chiesa.747 L‟esistenza dell‟uomo si rappresenta come una storia della persona la cui verità di coscienza è un mistero per l‟Altro; mistero che si rivela alla stessa coscienza personale nell‟incontro che essa fa con l‟Altro. La verità è dunque una rivelazione, la rivelazione della coscienza attraverso (la vita del) l‟Altro, che è Cristo. La verità rivelata da Cristo è quell‟elemento irriducibile all‟oggettività che è l‟Amore, inteso come presenza dell‟Altro nella coscienza, appunto come verità: l‟Altro come propria verità. La fede nella verità dell‟Altro è Amore. Ciò che l‟uomo concretamente è e ciò che con lui si realizza non coincide
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Cit. da K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., pag. 514. Ved. E. Gilson, L’etre et l’essence (1948), tr. it., Milano, 1988, pagg. 184-186. 747 Cit. da P. Evdokimov, L’Orthodoxie (1959), tr. it., Bologna, 1965, pag. 173. 746
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dunque con la sfera apparente della oggettiva datità. (...) La nostra esistenza concreta è molto meno l‟effetto di una disposizione data una volta per tutte, e molto più un continuo e spontaneo processo di autoaffermazione, di quanto non 748 si pensi di solito.
Questo processo di autoaffermazione è “spontaneo” sia in quanto non determinabile dall‟esterno, ma interno alla coscienzae quindi inerente alla dimensione della verità, e sia in quanto atto di libertà. L‟autoaffermazione, ossia la consapevole determinazione della coscienza come fonte di verità, è una possibilità consentita alla persona dall‟Amore dell‟Altro, che non è dovuta a un condizionamento esterno e contingente, ma a una risposta che la coscienza si dà di fronte alla rivelazione della verità d‟amore: che tutto l‟essere dell‟uomo, la sua intiera esistenza, cioè la sua storia, ha valore. Mai come nel caso dell‟esistenza umana vale il principio di Hegel per cui “la verità è l‟intero”, che è la vita stessa dell‟uomo, in cui confluiscono ciò che la ragione ha distinto e separato. Perciò la facoltà della conoscenza d‟amore non può essere l‟intelletto, ma il “cuore”, sede simbolica dello amore in cui s‟incontra l‟Altro nella verità della coscienza. Nessuno come Dante ha compreso il valore dell‟incontro d‟amore, ossia il “nesso tra percezione di valore e amore come atteggiamento fondamentale del cuore”. Non appena il cuore, attraverso l‟incontro con la persona amata, si scioglie, si sprigiona la forza della valutazione. Dato che tutto l‟essere ha valore, sa entrare anche in rapporto col cuore e venirne modellato. L‟esperienza amorosa di Dante fu davvero questa: che egli dopo l‟incontro con Beatrice entrò in contatto con l‟autenticoìa pienezza dell‟esistenza. Il suo eros è pienamente vissuto, ma non lirico, lontano dalla realtà, estraneo all‟azione; con l‟amore, piuttosto, si risveglia immediatamente la ricchezza di relazioni con cose e persone. La storia diventa viva, Stato e Chiesa diventano attuali, gli ordini del mondo risplendono ed esigono soddisfazione. Tramite l‟esperienza di Beatrice tutti i valori e le pretese di valori che riposano nell‟esistenza vengono attuati. 749
Attraverso la conoscenza dell‟Altro, che per Dante è Beatrice, “la storia
748
R. Guardini, Loc. cit., pag. 338. R. Guardini, Il carattere mondano della Divina Commedia di Dante, in La Divina Commedia di Dante. I principali concetti filosofici e religiosi, Op. Om. XIX/2, Brescia, 2012, pag. 203. 749
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diventa viva”, cioè si anima di amore partecipato in scala universale. L‟Amore ha la funzione analoga a quella del concetto, ma relativa all‟esistenza umana, così come la Divina Commedia rappresenta sub specie Amoris quell‟itinerario verso la verità che Platone rappresenta sub specie intellecti nel mito della caverna: l‟ascesa della coscienza verso la verità, che cristiamente è Agape, e non filosofica Aletheia. In entrambe le parole c‟è l‟alfa privativa. In a-gape indica la non appartenenza alla dimensione naturale, alla terra Gea, che nel caso privativo mantiene la radice dorica gae quindi l‟appartenenza a un‟altra dimensione, diversa da quella della necessità, propria degli elementi sensibili, che è la dimensione della libertà, in cui si decide in coscienza se seguir “lo mondo cieco”, vissuto “come se tutto movesse seco di necessitate”, oppure il “libero voler”, per cui “lume v‟è dato a bene e a malizia”. Due strade infatti può percorrere “l‟anima semplicetta che sa nulla”, essendo immersa nella Mancanza originaria: quella che porta “al mondo”, in cui la volontà è mossa da Necessità, oppure quella che conduce “a Deo”, caratterizzata dal libero arbitrio.750 Questo percorso di libertà è “quel secondo regno dove l‟umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno” grazie alla virtù che “de l‟alto scende”, e fa sì che l‟anima, mondata di ogni necessità, gradisca la libertà “ch‟è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”,751 ricercandola a costo della stessa vita. Libertà, dunque, dal mondo e dalla sua legge di necessità, espressa come volontà d‟essere, potenza che muove ogni ente finito. Diversamente, la libertà è mossa dalla eterna Verità, che è Amore, attività del cuore che sente tutto intero il valore divino delle creature, non frantumando il giudizio sulle loro empiriche azioni particolari, ma considerandole alla luce dell‟eterno, spoglie di ogni carattere mortale, che ne vela la vista. Non è un caso che i grandi interpreti del mystero dell‟amore siano i cultori del , i creatori della parola libera dal significato necessario, necessitato dalla definizione logica, dal Logos che impone il suo potere coercitivo alla coscienza razionale, che conosce la realtà fondata sui dati sensibili. Un potere che esige un mondo ridotto a dati oggettivi, disponibili a essere collegati in nessi necessari, che impongono il silenzio alla possibile libertà. La luce a cui assurge la coscienza d‟amore non è quella
750 751
Sono versi tratti dal Canto 16 del Purgatorio, 66, 68-9, 75-76, 88, 108. Dante, Purgatorio, Canto I, vv. 4-6, 70-72.
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della sophia platonica della Aletheia, ma quella celeste del Verbo divino, che nell‟Amore accoglie la possibilità di essere libera dalla necessità. La prima conseguenza di tale liberazione è l‟emancipazione dell‟amore dal principio di causalità, in quanto amare non è un atto cognitivo, né l‟amato il mezzo per conseguire uno scopo del volere, ma è un valore in sé stesso, in quanto atto, “indipendentemente da ciò che produce e opera”.752 L‟Amore è una tendenza (intentio, Streben) orientata verso l‟Altro (proximum), che non ha un contenuto assiologico (bonum), razionalmente rappresentabile dalla coscienza oggettivante,753 il cui scopo è la volontà (voluntas) intenta a dominare i fenomeni (cupiditas), ma un valore soteriologico, di liberazione (dilectio) della persona dalla volontà di dominio (concupiscentia) della condizione dell‟uomo naturale. Nella dilectio proximi, “l‟altro, il prossimo, perde il significato che risiede nella sua esistenza mondana concreta” per definirsi soltanto come “creatura di Dio e il suo incontro avviene con l‟uomo definito a partire dall‟amore divino come a Deo creatus”.754 L‟Altro amato viene nell‟amore spogliato della sua fisionomia culturale, cioè delle sue differenze individuali, per assumere un valore significativo in sé, cioè legato alla sua stessa esistenza, che costituisce propriamente il contenuto dell‟Amore. Amare l‟esistenza dell‟Altro equivale ad accoglierne il suo valore creaturale. In tal senso, l‟amore verso la creatura comporta anche nel contempo l‟amore che la eguaglia a Sè (aequalis sibi) e a Dio stesso (similiorem esse Deo).755 La sua caratteristica è di essere, secondo la definizione di Scheler, un “atteggiamento emozionale immediato e originario” privo di “valutazione di valore”,756 che “spezza e dissolve ogni norma della vita naturale spontanea”.757 Nondimeno, l‟Amore, per il suo valore liberatorio della condizione umana naturale, deve essere posto in relazione all‟odio nei termini, non già di una mera opposizione, di una radicale differenza teleologica, poiché, se l‟Amore tende a liberare l‟uomo,
752
M. Scheler, Das Ressentiment im Aufbau der Moralen (1912), tr. it., Milano, 1975, pagg. 81, 89. 753 Ved. a riguardo M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik (1916), tr. it., Milano, 2013, pag. 101. Da ora FEW. 754 H. Arendt, LbA, pag. 115. 755 Ivi, pag. 96. 756 M. Scheler, WFS, pag. 156. 757 M. Scheler, Das Ressentiment, cit., pag. 78.
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l‟odio viceversa tende a costringerlo entro la sua dimensione naturale di necessità destinato alla Morte, la quale invece viene esclusa dall‟orizzonte di coscienza amoroso (beatitudo). Questa destinazione alla finitezza è nell‟uomo legata strettamente alla sua condizione sociale, entro la quale l‟atteggiamento benevolo verso l‟Altro indeterminato si determina come “altruismo”, che però non ha niente a vedere con l‟atteggiamento desocializzante dello Amore cristiano, che trova il suo valor d‟essere “all‟interno di un mondo essenzialmente aldilà della vita e dei suoi destini possibili”.758 Questa epoché della vita biologica e sociale indica, come giustamente notato da Scheler, non già una “opposizione al mondo”, ma una indipendenza dai suoi valori, la quale comporta un superamento del “vecchio rapporto contrattuale tra Dio e l‟uomo, radice di ogni legalità”, e una considerazione non circoscritta alle opere, ma estesa a “tutte le esperienze del Suo agire”, che le opere “appena manifestano”.759 Vi è dunque un valore ultroneo a quello razionalmente oggettivabile dai riscontri sensibili, che nell‟Amore coinvolge il rapporto tra le coscienze in direzione di un appello comune alla mediazione della divina creativa d‟amore. Il rapporto d‟amore, proprio in quanto “creativo”, non può stabilirsi entro delle forme pre-costituite e astratte di legalità, ma si sviluppa secondo modalità del tutto spontanee e relative all‟esperienza degli amanti, ossia ai loro relativi vissuti e, nel contempo, al grado di emancipazione da essi che la relazione amorosa riesce a rivelare in rapporto al mystero che avvolge l‟esistenza spirituale di ogni uomo. Sia il carattere storico che il carattere trascendente dell‟Amore, lo pongono in un piano di realtà non socializzabile, perché originario e pre-sociale, in cui la relazione con l‟Altro è liberata dalla caduta adamitica, e superata la Mancanza antropica originale in una condizione edenica del tutto priva del carattere polemico proprio al rapporto naturale, che è conflittuale in quanto privo di quella mediazione d‟amore delle creature col Creatore che la relazione amorosa va invece a ristabilire. Una mediazione che con la Incarnazione si fa da mistica esistenziale anch‟essa come il vissuto di ognuno, che si può cogliere intuitivamente in interiore, e quindi rivelata da segni esterni che ne confermano la presenza. La priorità interna fa dell‟amore una condizione originaria, anteriore alla decisione per l‟Essere, che il giudizio razionale
758 759
Ivi, pagg. 88-89 e 85 n.; WFS, pag. 157. M. Scheler, Das Ressentiment, pagg. 88 n. e 90.
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non può oggettivare e che perciò confina nella regione del Negativo, che è quella del Mystero. L‟Amore, in quanto “movimento intenzionale” della coscienza, crea una situazione esistenziale diversa da quella decisa per l‟Essere e dunque aperta, anziché alla Necessità, alla Possibilità, in cui si delinea una “immagine di valore” dell‟Altro che “viene afferrata unitariamente come il suo „vero‟ e „reale‟, autentico esistere ed essere di valore”.760 Tale intuizione dell‟Altro come esistenza totale trasvaluta nell‟immagine amorosa anche quelli che sono giudicati “difetti” alla luce dei valori sociali, e li “perdona” nel segno della riconciliazione spirituale, superiore a ogni motivo di discordia e pragmaticamente divisivo, in quanto accoglimento dell‟Altro nella sua pura esistenza spirituale, libera da ogni determinazione empirica, e pertanto anche da ogni pretesa conformità a modelli deontologici predeterminati. Questa liberazione spirituale fa dell‟uomo “il portatore di una tendenza trascendente ogni possibile valore vitale”, cioè ogni forma di organizzazione razionale della convivenza sociale per la Durata, e perciò “orientata verso il divino”,761 anziché verso una Idea o un modello formale. L‟orientamento verso il divino è un rapporto che la coscienza stabilisce con il fondamento creatore della vita indicato con Dio, il Quale non è una mera fonte energetica spirituale, ma anche una incarnata esperienza esistenziale che nella vita di Cristo trova la sua rappresentazione storica, la sua temporalizzazione empirica e oggettività fenomenica, contenuto di una avvenimenzialità narrativa, congiuntamente storica, in quanto collocabile in un determinato contesto spazio-temporale, e mitica, in quanto di significato spirituale meta-storico e di valore trascendente. L‟orientamento verso il divino è dunque la fede in Cristo, la quale, per le sue implicazioni esistenziali, andrebbe considerata come una possibilità dell‟esistenza umana, rientrante così nell‟oggetto dell‟analitica filosofica. Se infatti “l‟esistenza umana da un punto di vista puramente formale è caratterizzata dalla storicità, ogni forma concreta di esistenza – ivi compresa l‟esistenza della fede – dovrà muoversi necessariamente all‟interno di quella determinazione”.762 Ma paragonare la decisione esistentiva di fede per l‟amore con la condizione di Entschlossenheit del Dasein significa
760
M. Scheler, WFS, pagg. 159-160. M. Scheler, FEW, pag. 573. 762 F. Bianco, Distruzione e riconquista del mito, Parma, 1962, pag. 137. 761
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interpretare la condizione di storicità interna alla finitezza, caratterizzata dalla Morte, che proprio l‟Amore rimuove come limite all‟apertura spirituale. Sicché, ciò che è “esistenza autentica” in senso cristiano è quella in cui avviene il trascendimento spirituale dell‟esistenza finita entro il destino mortale (Sein zum Tode), e non già quella che considera la Morte come l‟orizzonte di totalità del Dasein. Affermando che il messaggio cristiano tuttavia, sostituendo quale limite dell‟uomo alla morte l‟amore, non smentisce affatto i risultati dell‟analitica esistenziale, poiché non evita al credente di trovarsi anch‟egli di fronte alla morte. Tale condizione però perde per il credente quel carattere di limite che ad essa inerisce nel pensiero di Heidegger, dal momento che essa perde ogni potenza su chi ha il dono della fede e dell‟amore, pur restando l‟esistenza del credente in tutto analoga a quella del Dasein naturale,763
si poneva la Morte come limite della possibilità umana di de-finirsi entro l‟esistenza storica come spirito vivente, laddove, come aveva ben colto Gogarten, per il cristiano “solo il prossimo, solo il „tu‟ pone l‟uomo nell‟alternativa della autentica scelta storica, nell‟alternativa cioè dell‟odio e dell‟amore”.764 Ciò che Bultmann affermava, ossia che “nel cristianesimo l‟uomo veniva a trovarsi di fronte all‟amore in posizione analoga a quella in cui il Dasein viene a trovarsi di fronte alla morte nell‟analitica ontologica, vale a dire di fronte alla sua più autentica possibilità”,765 deflette completamente la destinazione della rivelazione evangelica, dalla trascendenza ogni esistenza finita attraverso l‟incontro d‟amore dell‟Altro in Cristo, alla finitezza di una soggettività autofondata e priva di relazione con l‟Altro, che nell‟amore rivela alla coscienza del Sé la possibilità di trascendere la propria finitezza attraverso la mediazione divina. L‟esito infausto di tale speculazione teologica della finitezza è, come sappiamo, la “demitizzazione” (Entmythologisierung) della Parola evangelica,766 che 763
Ivi, pag. 141. F. Gogarten, Ich glaube an den dreienigen Gott. Eine Untesuschung ueber Glauben und Geschichte (1926), cit. da F. Bianco, Op. cit., pag. 138. 765 R. Bultmann, Die Geschichtichkeit des Dasein und der Glaub (1930), cit. da F. Bianco, Op. cit., pagg. 141-142. 766 Come ricordato da Bianco, “tanto la tematica specifica quanto l‟impalcatura sistematico-concettuale della Entmythologisierung sono già presenti nel pensatore di 764
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rappresenta simbolicamente l‟Holzweg dell‟intero percorso ereticale del protestantesimo, che a partire da Lutero intese la relazione con Dio come un rapporto diretto con la Parola, cioè col simbolo umano rappresentativo della solitaria coscienza soggettiva, alienata dal prossimo e dal Verbo. La teologia della Riforma, contestando la fides implicita della Chiesa cattolica, la volle sostituire col personale esame di coscienza della fede, confessando a sé stessi i peccati e sperimentando in proprio, col significato del pentimento, anche quello della redenzione in Cristo. Con la esautorazione della mediazione ecclesiastica, la confessione divenne una relazione personale e solitaria con Dio, la cui singolare passione si trasfigurò in passione personale del credente. Questi, nella varietà delle diverse possibilità di ognuno di rappresentarsi tale rapporto, fu istruito di una modalità di accesso teologico estremamente esemplificata nei termini di una universale comprensibilità, inevitabilmente ridotta a formule razionali, che aprirono la strada al razionalismo illuministico.767 La premessa dell‟esautorazione della funzione magistrale della Chiesa ebbe per conseguenza la soppressione della funzione spirituale dell‟Altro a favore di una introspezione autonoma del soggetto trascendentale, che dal piano morale si estese a ogni ambito della vita teoretica e pratica, omologate dal predominio accordato alla volontà nella determinazione dell‟ autonomia come sua consegna deontologica. Proprio il soggettivismo moderno, nei suoi due opposti risvolti, razionalistico e mistico, che si convertono a indicare la loro astratta assolutezza, rappresenta per il cristianesimo l‟autentica pierre de touche che segna il limes non più
Marburgo almeno dieci anni prima della formulazione esplicita del suo noto programma”, trovando la radice concettuale in “quell‟unica istanza cetrale già affermatasi chiaramente sul principio degli anni trenta”: Loc. cit., pag. 143. 767 ”Nell‟istruzione religiosa si deve insegnare ciò che è razionalmente comprensibile, perché è necessario che tutti conoscano ciò che il catechismo dice e intende. La conseguenza di ciò fu che le dottrine, per diventare più comprensibili, dovettero essere rese più orecchiabili. Questo fu uno dei modi in cui l‟istruzione religiosa servì da preparazione all‟illuminismo. (...) Nel Protestantesimo i fedeli non frequentano la chiesa, non ascoltano la messa, non si confessano, come fanno i cattolici. Vadano o non vadano in chiesa, i protestanti devono avere un diretto rapporto personale con Dio. Devono imparare con le proprie forze, senza l‟aiuto di preti e professori. Perciò la dottrina deve essere resa comprensibile (...) Questa semplificazione è diventata sempre più una razionalizzazione”: P. Tillich, Perspectives on 19th and 20th century protestant theology (1963), tr. it., Umanesimo cristiano nel XIX e XX secolo, Roma, 1969, pag. 43.
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valicabile che separa la sua visione spirituale dell‟uomo concreto dalla antropologia naturalistica dell‟ontologia greca, il cui sincretismo scolastico implose con la Riforma, separando la teologia razionale, o naturalistica, che “è una teologia che attraverso tesi a favore dell‟esistenza di Dio, e simili, tenta di costruire una teologia universalmente accettabile dalla pura ragione”, dalla teologia rivelata o soprannaturalistica, che accentua l‟elemento mistico della partecipazione interiore alla presenza del divino.768 Le conseguenze culturali di tale implosione furono la rimozione della sovrastruttura rivelata e l‟isolamento concettuale della struttura razionalistica, che produsse, attraverso una trascrizione secolaristica, l‟impianto teoretico complessivo del pensiero moderno, il quale, sul piano ideologico, condusse all‟antagonismo politico tra l‟individualismo razionalistico liberale e il misticismo nazionalistico socialista, dalla cui varia composizione derivano a loro volta i governi misti delle attuali democrazie occidentali, in cui i singoli cittadini, alla stregua delle singole coscienze religiose, vengono investiti di una responsabilità etico-politica che il più delle volte non sono in grado di assolvere, affidandosi così alla semplificazione demagogica della propaganza elettoralistica e alla rassicurante delega a esponenti di partiti politici che la gestiscono spesso per fini fraudolenti e inconfessabili, comunque favorevoli alla costituzione e conservazione del loro potere oligarchico. La tradizione religiosa e la cultura civile s‟intrecciano pertanto in una tessitura intellettuale e morale non sempre districabile, che nella rimozione del fondamento teologico trova il suo inconsapevole centro problematico e nel messaggio cristiano l‟orizzonte risolutivo. Se ci poniamo la domanda circa il futuro del Cristianesimo nel mondo desacralizzato odierno, tecnologico ed economicistico, la risposta è che, nonostante la caduta a livelli barbarici della coscienza spirituale, non soltanto comune ma presso gran parte della intellettualità formata dai programmi scolastici statali, il messaggio cristiano rappresenta per la civiltà universale, a partire da quella europea, il futuro dell‟umanità, in quanto soltanto la fede cristiana pone al centro e a significato della storia personale e universale la figura teandrica del Dio incarnato come modello esistenziale eterno. Dalla riconsiderazione del precipuo valore spirituale del
768
Ivi, pagg. 44-47.
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messaggio cristico in una chiave di storia spirituale, non economicopragmatica, incentrata non sul Soggetto trascendentale ed empirico ma sulla Persona trascendente fondata sulla relazione ecclesiale, mediata dalla comune fede in Cristo e non dalla Parola umana, che assuma come valore pedagogico non la ragione ma l‟esperienza esistenziale totale dell‟Amore, valore relazionale non polemico ma con-prensivo; da tale riconsiderazione potrà nascere la speranza salvifica, fondata sulla carità sostenuta dalla fede. Ma per giungere a una rinascenza dello spirito cristiano è imprescindibile affrontare due questioni essenziali: quella del linguaggio della fede, inteso come discorso di senso soteriologico, creativo e non cognitivo; e quella della via che conduce a Dio: se passi attraverso la storia o attraverso la metafisica. La prima questione è intimamente legata al discorso d‟Amore, che nel sermone della Montagna trova il suo nucleo mito-poietico, ma che si dispiega nei Vangeli sinottici in rappresentazione simbolica vivente.769 La seconda questione è tutta moderna per consapevolezza, ma è antica per contenuto. Secondo Harnack la duplice via, della fede e della metafisica, fu intrapresa dagli apologeti sin dal sec. II, costituendo a suo dire un cedimento cristiano di fronte alla pressione intellettuale dello spirito greco, che, attraverso un adattamento del cristianesimo alla metafisica classica, avrebbe tradito l‟essenza della nuova religione, trasformata in un deismo religioso fruibile universalmente.770 Secondo Prestige, il metodo razionale, pur scoperto dai Greci, sarebbe patrimonio dello spirito umano, per cui, se influenza ci fu, lo fu soprattutto nell‟adattamento della filosofia, intesa come uso della ragione, alla fede cristiana. Come egli scrive, “non credo che l‟introduzione del razionalismo ellenico, allo scopo di esporre e di spiegare i fatti della storia cristiana, sia stato illegittimo. Le menti finite non potranno mai teorizzare in modo adeguato sull‟infinito, ma la ragione umana è un valido strumento per sviluppare ciò che è implicito nell‟umana esperienza”.771 Ma confondere razionalismo ellenico e uso della ragione significa non cogliere la portata ontologica dell‟ibridismo teologico. Infatti, non è in questione “il rifiuto di pensare”, ma la categorizzazione della fede
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La questione verrà da noi distesamente affrontata in altro luogo. A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, vol. I, Die Entstehung des kirchlichen Dogmas (1886), tr. it. 1912, rist. Brescia, 2012, pagg. 161, 251-297. 771 G. Prestige, God in Patristic Thought (1936), tr. it., Bologna, 1981, pag. 6. 770
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che sposta il fondamento dalla intuizione mistica dell‟incontro della coscienza umana con Dio alla fondazione ontologica, propria della metafisica del Logos finito; e neppure che le idee filosofiche subissero “delle trasformazioni sostanziali che le rendessero adatte al nuovo ambiente” cristiano, ma la questione era sulla possibilità di mantenere a fondamento del discorso theo-logico il Mystero divino, anziché l‟Essere dell‟ontologia greca. Aver indicato l‟Essere come Dio non risolveva la radicale diversità di posizioni, ma nascondeva il problema che emergerà in età moderna come razionalismo. La differenza tra la ousia in senso logico e l‟ousia come sostanza divina delle tre Persone è il fondamento di Agape che anima la Trinità divina, e che manca nella forma astratta, la quale ha bisogno della volontà (thelesis) per attivarsi. In ambito teoretico, l‟attività (thelema) è il giudizio apofantico; in ambito pratico, è l‟azione razionale. Solo l‟atto di Amore è in sé concreto e compiuto. Affermare che “Dio è un unico essere” sbilancia in senso ontologico la ousia divina, trasformando gli atti d‟Amore divini in attività di potenza. L‟attività in senso onto-logico è causa (aitìa) e il movimento (dynamis) è relazione di effetto da un soggetto attore a un oggetto. L‟atto di Amore, invece, è coinvolgente, non distinguente il Sé dall‟Altro, sicché il soggetto che ama riceva anch‟egli amore, in un movimento che è tanto transitivo che riflessivo. Ciò comporta, per la sua sussistenza, la relazione con l‟Altro, che è relazione creativa e non oggettiva. Senza l‟Altro, non c‟è Amore. E se la forma astratta dell‟Essere può permanere in sé come realtà potenziale nona ncora espressa, la realtà di Amore per sussistere ed esplicarsi ha bisogno dell‟Altro, implica la sua esistenza. Perciò Dio è creatore d‟Amore, in quanto per amare deve creare il suo Altro amato, che coincide con la sua stessa creazione. Dunque amare e creare sono sinonimi. La creazione è Amore. Perché, dunque, Dio ha creato l‟uomo? Perché lo ama. E perché lo ama? In quanto l‟ha creato. L‟atto creatore non ha una causa, bensì è causa; causa in sé. Il modo d‟essere assoluto del Sé partecipato all‟Altro è un modo d‟essere relazionale. Assoluto, non in quanto isolabile astrattamente in una soggettività attiva, ma in quanto originario e non abbisognevole di ragione sufficiente per giustificarsi, per giustificare la sua attività. L‟Amore è ragione a sé stesso. Non vi è un telos razionale che non sia anche ragione di sé. Se il fine della vita biologica è la sopravvivenza, cioè la persistenza
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del Sé, il fine della vita spirituale è l‟Amore. Il senso della esistenza umana è nell‟amare, non nel vivere.772 L‟uomo che non ama, non vive umanamente, secondo lo spirito. Un oggetto logico, un ente, può essere bello o brutto, buono o cattivo, restando sé stesso. Ma non nell‟atto di Amore. In riferimento all‟Amore, qualcosa (qualcuno) che non si ama, non esiste. Ecco perché l‟Amore è creazione; senza Amore, il mondo è Natura, realtà indeterminata e generica. Ed è proprio a tale realtà generale che si applica il concetto di ousia come essenza universale cui si riferisce Musil. L‟atto di Amore è invece individuo e particolare perché sempre concreto. Non si ama in astratto e in universale, ma sempre qualcosa determinata. In tal senso amare è creazione di Amore. Adottata la metafisica aristotelica, la deriva naturalistica era inevitabile: “tutto il guaio consiste nella deplorevole equiparazione di ousia con physis”,773 che la riduce a un‟astrazione. Nell‟atto di Amore, invece, non si distingue una essenza (ousia) da una Persona (ipostasi), ma esso coinvolge l‟intera Trinità nella sua concreta relazione con l‟amato. In questa confusione consiste l‟Amore. Identificare lo Spirito (pneuma) con l‟anima razionale condizionò l‟intero pensiero theo-logico in termini metafisici e naturalistici. Se Dio è Amore, non può essere una ousia, né in senso platonico di oggetto concreto, né in senso aristotelico di universale astratto. “Aver equiparato la cristologia e la „teologia‟ fece sì che la dottrina trinitaria fosse subito invasa dalle astrazioni”,774 che rappresentano la negazione delle due nature (perichoresis) di Cristo unite nella stessa Persona, compenetrazione del divino nell‟umano (e non viceversa). L‟immanenza dello Spirito, non solo nell‟opera speciale della santificazione, ma anche nella guida dell‟universo intero verso le finalità assegnategli, afferma il principio che Dio non è soltanto trascendente in massimo grado, non si limita 775 ad agire e controllare il mondo ab extra, ma opera anche in esso dall‟interno.
La è l‟una nell’altra, e non si possono astrarre da Cristo. La Sua vita concreta è la totalità dell‟esistenza umana come storia spirituale.
772
Ved. M. Scheler, WFS, pagg. 179-187. G. Prestige, Op. cit., pag. 282. 774 Ivi, pag. 287. 775 Ivi, pag. 306. 773
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Lo stesso vale per la Chiesa, la quale, come ha ricordato Lossky,776 nel suo aspetto cristologico appare come un organismo a due nature, a due operazioni, a due volontà. Nella storia del dogma cristiano tutte le eresie cristologiche risorgeranno e si riprodurranno a proposito della Chiesa. Così, vedremo sorgere un nestorianesimo ecclesiologico, 777 (e un) monofisismo.778
Soltanto l‟Amore, che è acquisizione della Grazia, può condurre ad unità ciò che la ragione divide, ossia la natura creata con la natura increata, sì che l‟unione che è stata compiuta nella persona di Cristo deve compiersi nelle nostre persone mediante lo Spirito Santo e mediante la nostra libertà. Di qui i due aspetti della Chiesa: l‟aspetto compiuto e l‟aspetto del divenire. L‟ultimo si 779 fonda sul primo, che è la sua condizione oggettiva.
L‟eresia del monotelismo si manifesta come “negazione dell‟economia della Chiesa di fronte al mondo esterno, per la cui salvezza la Chiesa è stata fondata”, producendo a sua volta l‟errore contrario che “consiste in una posizione di compromesso, pronta a sacrificare la verità agli scopi della economia ecclesiastica verso il mondo: è il relativismo ecclesiologico dei movimenti detti „ecumenici‟ e di altri simili”.780 Una analisi che, pur trovandosi concordi, rivela a un di presso i limiti di una impostazione razionalistica, che omologando un organismo sociale, quale la Chiesa, alla natura teandrica di Cristo, riabilita surrettiziamente quella visione dokema-
776
V. Lossky, Théologie mystique de l’Eglise d’Orient (1944), tr. it., Bologna, 1967. “L‟errore di coloro che vogliono separare la Chiesa in due esseri distinti: la Chiesa celeste, invisibile, sola vera ed assoluta, e la Chiesa (o piuttosto „le Chiese‟) terrena, imperfetta e relativa, che erra nelle tenebre, società umane che cercano di avvicinarsi, nella misura delle loro possibilità, alla perfezione trascendente”: , pag. 178. 778 “Desiderio di vedere nella Chiesa l‟essere divino per eccellenza, in cui ogni dettaglio è sacro, in cui tutto s‟impone con un carattere di necessità divina, in cui nulla può essere cambiato o modificato, perché la libertà umana, la „sinergia‟, la collaborazione degli uomini con Dio non trova posto in un organismo ieratico che esclude l‟aspetto umano: è una magia della salvezza che si esercita nei sacramenti e nei riti fedelmente compiuti”: Ivi, pagg. 178-179. 779 Ivi, pag. 178. 780 Ivi, pag. 179. 777
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tica che impedisce di scorgere nel fenomeno ecclesiale l‟esperienza vivente della fede come relazione spirituale, non istituzionale, con lo Spirito Santo. Così, tutto ciò che può essere negato o affermato a proposito di Cristo può esserlo ugualmente a proposito della Chiesa, in quanto essa è un organismo teandrico o, più esattamente, una natura creata unita inseparabilmente a Dio nell‟ipostasi del Figlio, un essere che ha come Lui due nature, due volontà, due operazioni inseparabili e distinte al tempo stesso. Questa struttura cristologica determina un‟azione permanente e necessaria dello Spirito Santo nella Chiesa, azione che è funzionale a quella di Cristo (...). Questa unione impersonale con lo Spirito Santo conferisce un carattere oggettivo, indipendente dalle persone e dalle intenzioni, anzitutto alle azioni teurgiche del clero (...).781
La Chiesa non nasce con Cristo, non è un Suo prodotto, ma dall‟uomo come prodotto umano che rappresenta l‟unità in Cristo. Una realtà dinamica infra-storica ma non meta-storica, essendo il luogo dell‟unità fra i credenti quello stesso della loro relazione, che è l‟Amore, non una istituzione storica. E la relazione spirituale è storica in quanto costituita fra persone concrete, ognuna delle quali vive il suo vissuto, cioè la sua storia spirituale, come mystero, che nella relazione d‟amore si rivela trascendente. La sostituzione simbolica della impersonale istituzione ecclesiastica alla concreta relazione spirituale, genera, all‟interno della comunità di fede, la struttura di potere propria di ogni duratura socialità, e con essa le eresie relative alla sua definizione razionale. Ciò è tanto vero che la madre di tutte le eresie, il catarismo, volse anch‟essa, dopo averne contestata la corruzione della struttura gerarchica, ad imitare la Chiesa.782 L‟obiettivo di “scalzare l‟edificio cattolico” raccolse varie tendenze, di diversa provenienza, che si divisero in “due nuclei eterogenei”, molto simili a quelli ricordati da Lossky: il primo formato dalle dottrine dommatiche dualistiche, cagione di austero ascetismo, e di stravaganti superstizioni; il secondo composta in gran parte
781
Ivi, pagg. 179-180. Infatti, il movimento dei Catari “voleva sostituire al domma dell‟unicità di Dio, o del creatore quello del dualismo, ed alla Chiesa cattolica già gerarchicamente costituita opponeva un‟altra, che avesse anch‟essa i suoi sacerdoti e vescovi, e perfino anche un papa”: F. Tocco, L’eresia nel Me dio Evo, Firenze, 1884, pag. 257. 782
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dalle dottrine più o meno razionalistiche, che cercavano di ridurre ognor più il mistero, limitavano al possibile la sfera d‟azione dell‟autorità, e tendevano a sopprimere a poco a poco il bisogno degl‟intermediarii tra l‟uomo e Dio. La differenza, anzi opposizione tra queste due parti fece sì, che la seconda si staccasse dalla prima, e mentre quella si rendea sempre più estranea al genio occidentale, questa seguia trionfante il suo corso, e col tempo da valdese tramutossi in protestante. (...) E quando questa setta scomparve, un‟altra ne sorse in luogo suo prendicando con maggiore energia le stesse massime. È questa la setta dei Gioachimiti (...),783
il cui fondatore intuì essere la carità il “principio motore del dinamismo divino”.784 Fu Lutero, dopo che la bolla Exsurge Domine fu emanata (15 giugno 1520), a esprimere nel suo messaggio su La libertà di un cristiano l‟idea che, avendo stabilito una “relazione diretta con Dio”, la libertà non passasse più attraverso la conciliazione con Roma e con la “tirannia clericale”, ma si confondesse con la “schiavitù della responsabilità di cristiani che devono realizzare l‟amore di Dio nel mondo”.785 Si noti l‟intento di “realizzare l‟amore”, che ebbe come unica fatale conseguenza la dislocazione delle questioni religiose dalla sede teologica a quella politica della dieta di Worms. Tesi audace quanto pericolosa, peraltro contraddetta dall‟altra dello stesso Lutero sulla impossibilità per l‟uomo peccatore di adempiere alla Legge, che fu poi rigettata nel Concilio di Trento dalle ferme posizioni cattoliche sulla giustificazione, risalenti ad Agostino, che rimettevano la salvezza a Dio, mediante la grazia, ma anche all‟uomo, in quanto detentore del libero arbitrio.786 Ma se la tesi luterana risolveva nella Necessità regolatrice dei processi politici la libertà della fede, la tesi cattolica risolveva la libertà nella conoscenza della Verità (intelligere Deum) custodita dalla Chiesa, interprete del Logos sapienziale. Due modi opposti ma coincidenti di risolvere l‟esperienza singolare della fede e dell‟uomo in una astratta
783
Ivi, pagg. 257-258. G.L. Potestà, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Roma-Bari, 2004, pag. 156. 785 M. Greengrass, Christendom Destroyed. Europe 1517-1648 (2014), tr. it., RomaBari, 2017, pagg. 368-369. 786 D. MacCulloch, Reformation. Europe’s House Divided, 1490-1700 (2003), tr. it., Roma, 2017, pagg. 320-321 784
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totalità, si trattasse della Storia o della Chiesa, per la comprensione delle cui dinamiche bastava la ragione, sia pure declinata come ragion di Stato o ecclesiastica. Sicché il libero arbitrio e la libertà della fede non era altro che una adesione al bene necessario. L‟eresia, dunque, era un errore di cultura, una privatio sapientiae, confutabile sul piano dottrinale; così come, viceversa, la tradizione romana non era che l‟ideologia di un potere mondano. Le schermaglie teologiche si svolgevano a difesa o contro una istituzione storica, fuori di ogni comune ispirazione spirituale. L‟esito del conflitto è stato il razionalismo e l‟esautorazione progressiva del sacro dalla cultura comune e dallo spazio pubblico, con tutto ciò che ha comportato per la civiltà europea, rimasta priva di identità e di fondamenti morali, indispensabili per la stessa esistenza umana. Ciò che la moderna civiltà ha conquistato in potenza ha perduto in ispirito, con la “cultura” che ha sostituito la religione e il sentimento del Mystero divino, il Soggetto che diventa garante autonomo della verità, e la Natura che da creatura diventa realtà assoluta, “massa caotica di possibilità dalla quale l‟autonoma azione formatrice del soggetto porta alla luce il mondo della cultura”.787 Superare la prospettiva moderna significa superare le sue essenze di fondazione, riscoprendo il valore relazionale del religioso, il quale, ricorda Guardini, non è affatto un fenomeno privato come vorrebbe l‟individualismo; esso non scaturisce dalla sola iniziativa individuale, né dimora soltanto nell‟interiorità del singolo. Il religioso è una qualità del mondo, dell‟esserci inteso tanto nella 788 sua interezza quanto nei suoi singoli àmbiti (cioè ai) gruppi. (...)
Ma ciò detto, asserire, pur veridicamente, che “il singolo, dunque, entra a far parte di relazioni religiose già alla sua nascita, e continua a farlo nel corso della vita”,789 rimane ancora sulla soglia della questione della Verità, che viene appena lambita allorquando si nota che “attraverso il religioso non viene data risposta a nessuna domanda sul mondo, né viene risolta alcuna questione; piuttosto, tutte le risposte vengono collocate su un nuovo livello e ricevono un nuovo criterio e una nuova forza”,790 in quanto, per
787
R. Guardini, L’uomo, cit., pag. 229; ved. pagg. 221-237. Ivi, pag. 180. 789 Ibidem. 790 Ivi, pag. 182. 788
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dare al religioso il suo valore di senso, occorre aggiungere che l‟impotenza circa le “domande sul mondo” è la stessa testimoniata dal riserbo di Gesù sugli affari di Cesare, i quali non trovano nella dimensione d‟Amore la loro risposta mondana, affidata alla ragione e alla scienza, ma trovano invece la loro risposta spirituale, alla luce dell‟eterno, il “nuovo livello” in cui si pone la coscienza cristiana, il cui “criterio” è la relazionalità d‟Amore supportata dalla “forza” della fede nella verità di Cristo, anziché del Logos. Il Logos è sempre in equilibrio tra bene e male, diviso tra anima e corpo, come i cavalli dell‟auriga alata nel mito del Fedro; quando tale equilibrio si rompe, l‟anima decade, e tale anima è l‟intelletto, che nella sua solitudine nel corpo mortale contempla la verità a cui non può unirsi (per almeno diecimila anni).791 Ma se l‟anima che contempla è del filosofo, ciò che questi contempla è l‟Idea, verso la quale lo muove Eros, attratto dalla Bellezza, che è la maschera sensibile dell‟Idea. Ciò che Platone chiama decadenza dell‟anima è la divisione delle due nature dell‟uomo, quella del corpo, che mira al piacere, e quella dell‟anima, che mira al bene. Ma tale Bene, è la stessa verità dell‟Essere, che non è di questo mondo sensibile, poiché è “senza colore, privo di figura e non visibile, e può essere contemplato solo dalla guida dell‟anima, ossia dall‟intelletto, intorno a cui verte la conoscenza vera”.792 L‟Essere ideale della sapienza antica è oltre il vivibile, e la sua eternità iperuranea si oppone alla umana caducità del divenire naturale. La congiunzione possibile è la contemplazione (theorein), che a sua volta si oppone alla vita activa, legata alla necessità fisiologica del corpo. La decadenza, dunque, è inscritta nella stessa condizione di precaria prossimità dell‟anima all‟Essere. Una condizione che è senza rimedio esistenziale, essendo l‟unico rimedio alla caduta quello intellettuale, che equivale a una sospensione dal mondo della vita (epoché). Diversamente, nella prospettiva cristiana, la caduta dell‟anima coincide con la condizione solitaria del soggetto privo dell‟amore divino che cerca un conforto mondano. Il remedium mali alla perdizione mondana è la trascendenza della finitezza della condizione mortale, non già attraverso la contemplazione dell‟Idea impersonale e astratta dalla esistenza concreta,
791 792
Platone, Fedro, 248 E. Ivi, 246 C.
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ma per mezzo dell‟amore, che è la Verità e la Vita di Colui che è Amore. In questo senso, la solitudine del Soggetto non può essere la soluzione al Male, ma il Male stesso, che nell‟Amore dell‟Altro cerca il suo rimedio. Occorre pertanto partire dalla Relazione per intraprendere il percorso della salvezza dalla caduta, non dal Soggetto, come invece fa il razionalismo. In questa prospettiva relazionale acquista tutto il suo significato soteriologico l‟Incarnazione divina e l‟esistenza di Cristo come figura teandrica concreta. La fede in Cristo è dunque fede in Sé, nell‟Altro e nell‟Amore, inconsutilmente, e in questa unione mistica ed esistenziale trova significato la storia personale di ogni uomo e la Storia stessa dell‟umanità, decaduta e redenta in Cristo, che di Cristo è la sua Chiesa. La Storia che la Rivelazione inaugura nel mondo è non è più l‟esperienza dell‟uomo nella realtà naturale, ma l‟esistenza della persona nella relazione spirituale. Per comprendere la portata di tale “svolta” (Umwendung) antropologica l‟appello ai motivi teologici tradizionali inevitabilmente stride con la rinnovata coscienza filosofica circa la impraticabilità della metafisica, che coesiste significativamente con la stessa denuncia dei limiti della cultura moderna, che ne rappresenta la versione più coerente, sicché la superiorità della visione cristiana sulla razionalistica antica e moderna resta impotente nella civiltà che ha perso il suo orientamento escatologico. 10. La concezione classica della Natura esprime l‟idea di una unità ultima e definitiva, priva di un inizio che non sia dedotto in se stesso, e perciò considerato definitivo, già originariamente giustificato e recante quindi “il carattere della normatività” anche in ambito antropologico, “espressione dell‟uomo come dev‟essere”.793 Di fronte a ciò che è naturale sta la coscienza del Soggetto, inteso come “misura dei valori” dell‟intera vita, che “reca in sé la legge della sua esistenza”, che è la stessa della Natura, recando lo stesso principio di validità del fondamento naturale. “Tutto ciò che fino ad allora era stato definito a partire dall‟originarietà di ciò che è vivente, trova la sua espressione formale nell‟idea di Soggetto”,794 il titolare degli atti che hanno valore e l‟unità delle categorie che determinano tale validità. Il carattere del Soggetto è l‟autonomia, ossia “il sussistere-in-
793
R. Guardini, Welt und Person. Versuche zur christliche Lehre von Menschen (1939), tr. it., Brescia, 2000, pag. 27; da ora WuP. 794 Ivi, pag. 29.
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se-stesso, la natura di principio e la validità originaria del Soggetto”.795 Natura e Soggetto sono i due poli della realtà onto-antropologica antica, e “stanno l‟una di fronte all‟altro come realtà ultime”, tali che “l‟esistenza è data come Natura e come Soggetto, semplicemente”.796 Tra questi due poli, si pone la cultura, quale prodotto della creazione del Soggetto, il quale, con la sua volontà di cultura si accinge a costruire il mondo come opera sua. “Ciò che si cela in tale volontà si rivela con la dottrina dell‟autonomia della cultura dai vincoli della fede e da ogni etica universalmente obbligante e le fonda su ste stesse”.797 La ”autarchia antropologica” (Selbstgenuegsamkeit) è il modello ideale d‟uomo pensato come autosufficiente, bastante a se stesso grazie alla dote naturale della ragione, quel Logos che è insieme intelletto (nous) e favella (legein). L‟idea moderna dell‟uomo come microcosmo nasce appunto dal presupposto naturalistico antico che fa della Natura una totalità, indipendente dalla destinazione dell‟uomo e soprattutto fuori della dialettica esodo/incontro con l‟Altro, costitutiva della concezione cristiana della Persona. L‟idea del mondo come totalità dell‟esistenza è la stessa concezione dell‟Essere come realtà assoluta, oltre la quale c‟è il Nulla, il non-essere. Il mondo è dunque una unità onto-logica, che comprende tutti gli enti nella sua forma costitutiva originaria. “Un compendio o sintesi, quindi, che esprime alcunché di radicale e di assoluto” che “sussiste nella modalità di ciò che ha senso”, per cui ciò che è mondo “deve poter essere colto in ogni punto” della realtà complessiva unitaria.798 Ciò che la gnoseologia moderna ha creduto di scoprire, ossia che tale realtà ontologica costituisce una totalità per la coscienza del Soggetto che la rappresenta a se stesso, era già implicito nell‟idealismo platonico, il quale, pensando la realtà ontica in relazione all‟unità di senso fornita dal Logos, pensa tale relazione come il carattere proprio della coscienza pensante, quel nous che per Parmenide era in grado di cogliere intuitivamente l‟unità dell‟Essere. La realtà trova il suo senso razionale all‟interno del suo essere, che coincide con la totalità dello
795
Ivi, pag. 30. Ivi, pag. 31. 797 Ivi, pag. 33. 796
798
Ivi, pagg. 90, 94 e 96.
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Essere, oltre il quale per Parmenide c‟è il Nulla, mentre per Platone ci sono le Idee. Dislocando le Idee, cioè le forme eterne dell‟Essere, dallo iperuraneo al Soggetto trascendentale, il pensiero moderno porta a compimento l‟assolutizzazione totalitaria del naturalismo ontologico greco, fissandolo nel rapporto tra Soggetto e Oggetto, dove esso si determina nella finitezza, che è appunto la realtà finita dell‟Oggetto. È infatti l‟Oggetto finito, la realtà percepita dall‟intuizione sensibile, a determinare il pensiero finito, che è tale appunto perché concerne un contenuto finito. La finitezza dell‟Oggetto è la sua in-determinazione, ossia la possibilità che il pensiero determinante possa determinarsi con oggetti molteplici, ognuno dei quali è contingente – ossia indifferente – alla determinazione del pensiero. Soggetto è la coscienza che determina l‟Oggetto; è un impersonale Io determinante. L‟Oggetto del pensiero “è” ciò che è determinato dal pensiero, e niente oltre il pensiero. La finitezza dell‟Oggetto è il suo mostrarsi disponibile per il pensiero determinante. La “cura” (Sorge) che il Soggetto ha del mondo è il corrispettivo della disponibilità degli enti mondani a costituirsi come mondo umanizzato, come “ambiente” (Umwelt). In esso rientrano anche gli altri soggetti generici, che entrano in relazione razionale con la coscienza soggettiva come oggetti, che servono il giudizio del Soggetto perdendo la loro esistenzialità particolare. L‟intero mondo-della-vita deve perdere la sua mondanità per diventare oggetto di pensiero, assimilato alla coscienza del Soggetto che ne stabilisce l‟appartenenza all‟Essere anziché al Nulla. La realtà (das Seiende) perde la sua naturalità per diventare realtà oggettiva, spazio dell‟esistenza del Soggetto, un sistema di astratte relazioni spaziotemporali fondato su un ordine razionale in cui vige la legge di identità e di non contraddizione. L‟identità è l‟omologia all‟Essere Uno-Tutto; la contraddizione è l‟in-appartenenza al Tutto, come ni-ente, come non-essere logicamente in-esistente. Il passaggio dall‟inesistenza logica a quella storica è breve, e ha la stessa distanza che separa l‟opposto ideale dal nemico politico. La condizione per creare un cosmo totalmente compreso nella legislazione del Logos era di eliminare dall‟Ordine razionale ogni ingerenza, libera e perciò imponderabile, di autorità divine, che con la loro libera intrusione avrebbero scompigliato la giurisdizione degli assetti formali. L‟incertezza degli dèi che Socrate lamenta con Eutifrone rappresentava il limite che circonda la regione dell‟Essere, e che potrebbe tragicamente penetrare minandone la compattezza cosmica. La filosofia è una decisione per
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l‟Essere che lo spirito tragico lasciava sospesa nel conflitto delle opposte ragioni particolari, che il concetto universale doveva condurre a sintesi. In che modo? Eliminando l‟incertezza del cielo e la concretezza del particolare, cioè la Differenza tra l‟Essere e il Nulla che faceva gravitare verso la positività depurata del negativo la rappresentazione della vita ideale, dialettuicamente privata dell‟angoscia della mysteriosa alterità del divino Nulla. Cos‟altro è la potenza del Negativo, che limita l‟Essere, fa emergere la sua finitezza e la sua destinazione se non la presenza di Dio? “Solo a partire da Dio si può realmente esperire il mondo” come realtà finita. E quando “Dio entra nel mondo, si fa uomo, e in relazione a Lui il mondo mostra qual è il suo orientamento intenzionale intimo”, allora il mondo creduto compiuto mostra le sue crepe d‟imperfezione, rivelando la sua finitezza al cospetto della Verità di Cristo, sicché nella “prospettiva cristiana, il mondo si presenta alla coscienza unicamente a partire dal giudizio di Dio”,799 che è esterno a trascendente il mondo. Il “giudizio” evangelico (Gv 3 e 19) è la rivelazione della Differenza tra la compiutezza della santità divina e la mancanza umana, antropologica, che la volontà umana tende a rimuovere, rinserrando l‟uomo “in se stesso e attorno al proprio essere”, cercando di “rendenrlo autonomo e autarchico”, facendo scomparire il “senso autentico del limite”.800 La rimozione del Limite sposta il confine del finito fino a farne un in-finito senza limiti, cioè a farne l‟Infinito, in senso assoluto. Ma questo finito che si converte in Assoluto si rovescia nel suo opposto, nella finitezza e nella fattualità, rivelando il suo volto inautentico, l‟irrequieto divenire proprio di ciò che è complementare e non “riposa perfettamente in se stesso”.801 I fenomeni complementari si pongono in un reciproco rapporto dialettico, qual è la finitezza con l‟infinitezza, l‟assoluto col fattuale, riferendosi entrambi alla vita che sussiste in entrambi. L‟idea di autonomia e di sussistenza che regge una polarità le consente di fondare il mondo esterno e il mondo interno come “universo” e rispettivamente “soggetto”, facendo assumere a ciò che è solo complementare il carattere di assolutezza ontologica e di necessità metafisica che spetta solo all‟Intero. Ed è la credenza in tale necessità a rendere plausibile la costituzione del
799
Ivi, pag. 103. Ivi, pag. 104. 801 Ivi, pag. 105. 800
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relativo come Assoluto, facendone una realtà autonoma. “La volontà di autonomia”, eliminando il Mystero divino della creazione, “getta sul creato” la sua pienezza e ne fa una religione immanentistica e secolare, che “diviene un mezzo per chiudere il mondo in se stesso”.802 La Rivelazione cristiana rivela la Differenza tra il mondo finito, che si consegna al potere di Cesare, e la realtà infinita di Dio, che è Amore. La Rivelazione divina anticipa il Mystero della morte entro la vita naturale per illuminarla della verità eterna, che non è un concetto metafisico partorito dalla ragione umana, ma è una relazione esistenziale, invisibile, “esperita con l‟intimità della partecipazione amorosa”.803 L‟Amore cristiano (agape) è relazione, e la relazione tra natura e coscienza si rivela grazie alla Parola (Logos), che rivela la natura finita del mondo al cospetto della Verità eterna. Cristo è Colui che, per mezzo della Parola veritiera, ispirata dallo Spirito Santo, ri-forma il mondo consentendo alla coscienza umana un nuovo rapporto col supposto Tutto mondano, fondato sull‟eterno, e non più sull‟opera dell‟uomo, sulla realtà culturale. La cultura umana viene transvalutata in prodotto relativo, imperfetto e transeunte di fronte alla creazione divina e consegnata alla sua vera destinazione, che non è mondana ma trascendente, salvifica. Con la rivelazione del vero essere, “la creaziobne è sottratta alla potenza del Nulla ed elevata all‟eterna tutela offertale dalla esistenza divina”.804 L‟esistenza in Cristo emancipa l‟essere dalla sua destinazione naturale verso la Morte, che è la cifra simbolica della Finitezza, e lo consegna all‟eternità spirituale. “Nella natura umana di Cristo ciò che è creato è in un modo per il quale non si dà alcuna categoria che parta da ciò ch‟è naturale” ma partecipa della realtà divina. Partecipare a questa realtà di rinascita nello spirito cristico è rivivere in sé la gratia unionis delle Sue due nature,805 la cui costituzione va oltre l’uomo di natura, rappresentando il modello universale della Persona, paradigma storico della nuova umanità.
802
“L‟esistenza può essere voluta come autonoma solo quando è sorretta da corrente religiosa (che) le conferisce quella pienezza di senso, in ragione della quale lo spirito trova che valga la pena e sia possibile porre in mondo fondato solo su sé stesso”: Ivi, pag. 109. 803 Ivi, pag. 116. 804 Ivi, pag. 124. 805 Ibidem.
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Il mondo è redento (dalla Grazia) non solo nell‟immediato ambito personale di Cristo, ma quest‟ambito è dinamico e si espande ulteriormente. Egli viene annunciato e deve essere creduto; è eretto come norma e dev‟essere riprodotto; nel mistero dell‟Eucaristia si dà come cibo e dev‟essere assunto. L‟intero mondo dev‟essere ripreso entro di Lui e trasformato nella nuova creazione. 806
Cristo è il Mediatore fra i due mondi, il sacro e il profano, l‟eterno e il finito, il naturale e il divino. “A partire da questo limite continua a costituirsi il mondo nuovo”, il “cielo nuovo e la nuova terra” della Apocalisse, la “conversione di senso” (metanoia) a “l‟uomo nuovo”.807 L‟evento cristico rappresenta il superamento della coscienza naturalistica della sapienza greca, fondata sulla identità di Essere e pensiero, ovvero sulla non contraddizione tra ciò che l‟Essere è e ciò che di esso appare, tale che la necessità che regge il cosmo naturale sia normativa anche per la coscienza umana, il cui compito è di conformarsi. Ogni considerazione che oltrepassi la condizione naturale è da considerare opera della immaginazione fantastica e dell‟affabulazione mitica, alla quale manca il metron del Logos, che stabilisce la corrispondenza tra ciò che veramente è e ciò che solamente appare, e dunque non è. Secondo la formulazione classica di Parmenide, soltanto l‟Essere “è” reale, mentre ciò che esorbita dall‟Essere “non è” elemento della Natura, ma appartiene all‟ineffabile inesistente. Nello stesso ente, dunque, non è possibile la coesistenza della contraddizione tra ciò che è e ciò che non è presente. Su questo principio si fonda l‟ontologia greca ereditata dall‟intera tradizione filosofica fino a Hegel. Orbene, in Cristo coesistono le due nature che sono per essenza differenti: la umana e la divina, superando sul piano dell‟esistenza ciò che è distinto sul piano della logica. E anche incompatibile, poiché propria della coscienza divina è l‟identità conforme dell‟Essere al pensiero, senza mediazioni e adattamenti tecnici tra la rappresentazione della coscienza e la realtà del rappresentato. La coscienza di Dio è il regno della Libertà, ossia della coincidenza del mondo pensato col mondo reale, che nell‟uomo è possibile solo entro la sua coscienza immaginativa e desiderativa. Nell‟esistenza concreta, invece, il mondo resta esterno alla coscienza, con
806 807
Ivi, pagg. 124-125. Ivi, pag. 126.
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le sue leggi necessarie e costanti. Per renderlo compatibile alla rappresentazione umana, bisogna oggettivarlo, assimilarlo al pensiero, umanizzarlo nei limiti delle umane possibilità. La coscienza divina, invece, infrange la normatività della Natura, superando la sua autonoma legislazione col semplice intervento del desiderio, che “innamora” la realtà e la rende docile, comunicando con la sua anima interna, destinata all‟atto della creazione. Questa fusione creatrice di realtà è ciò che si dice Amore. Dio è Amore (Agape), e l‟Amore è la Verità di Dio comunicata dal LogosChristos. Se Cristo è la Verità, il superamento del principio ontologico di non contraddizione non può restare senza conseguenze noetiche. La prima è che la fattualità dei giudizi logici, su cui si fonda la realtà storica, è solo una rappresentazione mitica del mondo, simile alla ”esposizione di fatti” che Platone afferma nella Repubblica (III 392 d) caratterizzi il racconto dei “creatori di miti” e dei “poeti”. Infatti, l‟Intero non è giudicabile per determinazioni particolari. Solo la coscienza superna, quella divina, può farlo. E la divina Persona di Cristo, superando l‟umana finitezza, supera anche la differenza tra l‟apparenza sensibile e la verità della realtà eterna. In Dio il principio ontologico per cui “lo stesso è pensare ed essere”, affermato nel frammento 3 di Parmenide, si è pensato valesse nel senso della realtà del pensiero, anziché dell‟Essere, poiché pensiero ed Essere in Lui sarebbero lo stesso, essendo conciliata nella Sua persona realtà e coscienza, che nell‟uomo sono scisse e distinte. Ma questa ipotesi teologica ha fatto di Dio una coscienza onnipotente, capace di piegare alla Sua volontà il mondo e le sue leggi, ma travisando completamente il senso della Rivelazione cristica. Infatti, l‟identità di Essere e pensiero fa della finitezza logica l‟orizzonte stesso della verità dell‟Essere, che è la Necessità naturalistica. Il carattere totale dell‟Essere è quello della Natura, che identifica Essere con Physis, la realtà sensibile, percepibile con la vista. Da qui la in-esistenza di ciò che non è visibile, cioè percepibile coi sensi, la realtà immaginaria e mitica del non-essere, che introdotto nella realtà che è vera, diventa errore. L‟in-dicibilità del ni-ente lo qualifica come negativo in-esistente. Ma l‟in-esistenza ontologica è relativa all‟orizzonte del linguaggio che rende presente l‟Essere alla coscienza, quello logico, sicché ciò che è espresso nel Logos, esiste come realtà di pensiero, di ragione. La ragione afferma (= giudica) l‟esistenza di ciò che è secondo il Logos: il puro positivo, privo di contraddittoria negatività, e quindi emendato di ogni differenza dal divenire. Questo assoluto carattere positivo fa dell‟Essere una totalità che comprende in sé ogni ente: una realtà che sempre “è” se
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stessa. Orbene, proprio questo carattere unitario di totalità fa dell‟Essere una rappresentazione immaginaria della coscienza finita, la quale, non avendo misura di sé, possibile solo ponendosi fuori di sé, fa della sua rappresentazione un Essere uguale a se stesso in ogni sua parte. Solo il nonEssere potrebbe de-finirlo come un Tutto unitario, mentre la sua introspezione, non ammettendo altro da sé, impedisce all‟Essere di conoscersi come totalità, sicché tale totalità è postulabile solo per fede. La credenza ontologica dell‟Essere come una realtà assoluta e totale ne fa una rappresentazione fantastica, un Mito, che è all‟origine della mito-logia razionalistica. Credere nella esistenza dell‟Essere, cioè nella realtà degli enti, presuppone la fede che l‟Essere sia prima di ogni sua de-finizione come oggetto di pensiero, ossia che l‟Essere sia vero al di fuori del Logos che lo nomina. Dunque, se l‟Essere può essere nonostante non sia nominato dal Logos, la sua possibilità si estende anche agli enti che partecipano della sua essenza, i quali diventano perciò essi stessi contingenti e non necessari. Ma la possibilità dell‟Essere è il contrario della sua asserita necessità d‟essere, sicché la sua realtà, la possibilità che l‟Essere sia, non è in assoluto diversa dalla possibilità del suo non-essere, cioè che l‟Essere nonsia, ma uguale. Essere e non-Essere sono dunque lo stesso nella Possibilità che entrambi li comprende, e che è il vero Tutto, fondamento degli opposti. L‟Essere, dunque, rispetto al non-Essere, è il suo apparire, la Physis che è materia del giudizio logico, mentre il non-Essere è ciò che del Tutto rimane nascosto, in-attuale. Anche l‟in-attuale appartiene alla Possibilità, quale Essere possibile, e non appunto presente, esistente, ma trascendente. La realtà trascendente la finitezza dell‟ente presente in natura come fattualità oggettivabile, non è il contenuto del Logos, che questo espunge come negativo, imputandogli l‟in-esistenza sua propria come un errore. Su questa imputazione logica, la metafisica classica ha costruito la sua verità ontologica e la sua antropologia soggettivistica. Cosa sia il Soggetto per il pensiero della tradizione metafisica greca, ellenismo e modernismo compresi, lo possiamo desumere dalle fonti più prossime al pensiero cristiano, quella platonica e quella neo-platonica. Nel Simposio, Platone, trattando di Eros, lo fa discendere da Poros, che rappresenta il Logos, e da Penia, che rappresenta la materia informe.808 La loro unione anima il corpo materiale con la ragione divina, che non
808
Platone, Simposio, 203 B-E.
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appartiene alla Natura ma informa quella umana della sua essenza spirituale, logica: sia nel senso della razionalità che della parola, che della razionalità è l‟espressione sensibile, estetica. Eros, pertanto, “è un dio grande e meraviglioso e si estende sia sulle cose umane sia sulle divine”,809 una sorta di demone () che unisce le due realtà divise in origine, le quali si riflettono anche nella stessa natura umana, che Eros appunto “cerca di risanare, facendo di due uno”.810 La scissione è riscontrabile già nei due sessi in cui è costituito il genere umano, che è uno ma diviso. L‟unità è l‟intima missione di Eros, in quanto essa unità è la condizione armonica. Negli stessi termini si esprime Plotino nel libro III delle Enneadi dedicate all‟Amore (), là dove identifica Poros col Logos e Penia con la materia ().811 L‟individuo umano è costituito di parti diverse ma complementari, tali da comporsi in una compiutezza naturale, che dalla unione sessuale alla convivenza sociale, attraverso tutte le relazioni intermedie e particolari, perviene alla desiderata unità; una unità dunque che, essendo in Natura, è anche nell‟uomo. La stessa distinzione tra “un Eros Pandemio, ossia volgare, e un Eros Uranio, ossia celeste”, secondo la duplice figura di Afrodite,812 declina due modalità di manifestazione che non inficiano la loro comune natura erotica, tendente a compiersi entro la medesima realtà finita, cioè naturale. Come già la ragione, anche l‟amore è parte della Natura; parte spirituale ma non di meno naturale. L‟essere umano, entro la sua dimensione naturale, coniugando i complementari aspetti della realtà finita, perviene, attraverso una paideia che lo incammina sulla via della integrazione con il cosmo naturale, a una sua completezza di Soggetto individuale, che assomma armonicamente in sé ciò che in natura è sparso e confliggente. La sapienza antica è nella vita coerente alle leggi del cosmo naturale, ossia nella integrazione dell‟uomo nel mondo. Radicalmente diversa è la prospettiva cristiana, che non parte dal mondo naturale come da una realtà originaria ed eterna, ma come un prodotto della creazione divina che non emerge dal Nulla, ma dalla Possibilità, che la theo-logia ha inteso come la volontà di Dio. In realtà, come vedremo, l‟atto d‟Amore divino non è un‟azione che si rivolge a una alterità esterna al
809
Ivi, 186 B. Ivi, 191 D. 811 Plotino, Enneadi, III 7, 9. 812 Simposio, 180 D-E. 810
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proprio orizzonte di coscienza, ma è una situazione di relazione con l‟Altro che non esiste fuori della relazione stessa, e dunque è creato dalla relazione. Il racconto biblico della Creazione non è mitologico, poiché “in esso non è il mondo a parlare di sé ma è una parola superiore a definire il mondo, riconducendolo ai confini che essa stessa delinea”.813 Dio creatore del mondo è posto fuori del mondo, e quindi libero dalla Necessità naturalistica che manteneva l‟uomo all‟interno del destino di morte. Nella nuova prospettiva, libera dalla rappresentazione naturalistica dell‟ontologia greca, l‟uomo perde la sua compiutezza de-finita dalla Necessità e acquista la fisionomia dell‟essere spiritualmente libero, cioè della Persona. “L‟assolutezza della creazione (...) diviene rivelazione della libertà dal mondo e nel mondo e garanzia della possibilità di un‟esistenza personale”.814 L‟ordine del mondo creato si dispone intorno alla Persona spirituale, ossia a “l‟uomo che serve Dio”. È quest‟uomo che che ha ricevuto la cura del mondo, non l‟homo sapiens o faber, le cui pretese autonomistiche destinano al caos l‟ordine creato su quella autonomia. La subordinazione del mondo all‟uomo e il dominio di quest‟ultimo sulle cose e sugli animali sono dunque qualcosa di completamente diverso dal potere che l‟essere umano trae dalla mera superiorità intellettuale e tecnica. Il racconto della creazione e l‟ordine che esso prospetta non sono affatto una esposizione mitica della civiltà umana e del dominio dell‟uomo sul mondo, bensì l‟annuncio di un ordine che deve essere realizzato tramite la fede e la obbedienza. Solo queste condizioni legittimano la signoria dell‟uomo sul mondo (in quanto) il signore del mondo è solo Dio.815
Abbiamo dunque due situazioni esistenziali: quella in cui vige la signoria di Dio (Gottesherrschaft), e quella in cui vige la signoria dell‟uomo. È dunque possibile vivere senza Dio, ma l‟ordine umano non obbediente alle disposizioni divine volge al caos, cioè al dis-ordine, che è la condizione contraria alla conciliazione con la Natura e con la stabilità del mondo. Dunque il caos non è una situazione contingente a seguito di una degenerazione della ordoinaria convivenza politica, ma è il prodotto
813 814 815
R. Guardini, L’uomo, cit., pag. 260. Ivi, pag. 261. Ivi, pag. 263.
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conseguente all‟autonomia dell‟uomo da Dio. E come tale, non essendo una condizione esistenziale originaria, può essere evitata dall‟uomo. Il senso della Creazione è dunque nell‟ordinamento divino del mondo, che viene contrastato “dalla volontà di edificare un ordinamento la cui disposizione non segua quella già esistente”,816 e che in realtà è il contrario dell‟ordine, il caos appunto. Il caos è la condizione tragica dell‟esistenza umana senza la relazione con Dio, la situazione di soggettività naturalistica, in-relata dall‟Altro trascendente, il Quale in termini religiosi è il Sacro, in termini metafisici è il Nulla e in termini esistenziale è il Mystero. Il prodotto razionalistico dell‟autonomia da Dio è il soggettivismo teoretico e l‟individualismo pratico, che sono i modi di esistenza tragici dell‟uomo chiuso nella sua natura finita, e perciò incantato dalla credenza della rappresentazione totalitaria dell‟Essere, la quale, essendo astratta, si converte storicamente nel suo contrario, nel suo opposto logico. La conversione dell‟ordine politico razionalmente autonomo è il caos sociale, l‟anarchia. Sicché il tentativo umano di conseguire un ordine stabile e definitivo secondo le leggi di Natura è destinato a fallire. Per un motivo semplice quanto essenziale: perché l‟uomo non è un animale. Se infatti “l‟animale riceve la sua vita dall‟atto generale della creazione, vale a dire dalla natura, l‟uomo invece riceve la sua vita autentica direttamente da Dio”.817 L‟inizio dell‟uomo è Dio, non la Natura. Da qui la sua somiglianza divina. La vita umana “è più della mera vita biologica”, perché il suo fine non è di giungere alla sua fine, cioè alla Morte, quale mezzo che consente altra vita, ma di congiungersi a Dio, cioè di divinizzarsi superando la finitezza dell‟uomo naturale. L‟oltre-uomo cristiano è la Persona spirituale. La condizione tragica della vita irrelata dalla relazione d‟Amore con Dio nasce dalla circostanza che la perdita di Dio non fa del genere umano una specie omologa alle altre specie animali, poiché la natura dell‟uomo è divina, non solo biologica, per cui la sua condizione perduta lo destina a un‟esistenza caotica, per quanto coscientemente autonoma e razionale. In tal senso, l‟uomo non è un animale razionale, ma una persona spirituale, la cui socialità originaria non è un prodotto convenzionale o derivante dalla potenza leviatanica di Cesare, ma nasce dalla relazione con Dio, l‟Altro
816 817
Ibidem. Ivi, pag. 267.
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originario per l‟uomo, di Cui il prossimo è immagine storica. Dio dunque è il principio costitutivo e unitivo dell‟uomo. Per la tradizione teologica, il creare di Dio “si realizza attraverso la Parola”,818 il Logos, inteso come “comando” ossia come volontà. Su questa interpretazione nasce il connubio metafisico della theo-logia cristiana con la ontologia greca. “Laddove Platone situava l‟idewa del Bene (Agaton), sta ora Dio”, inteso appunto grecamente come Logos, ossia “potenza fondamentale dell‟esserci (...) orientata alla verità”, per cui, si ritiene, “nella Parola ogni cosa è creata e ogni cosa trova la sua residenza eterna, e in essa risiede anche il fondamento dell‟essere dell‟uomo”.819 Senonché, per il Greci la Parola è pensiero; pensiero attivo, dunque azione, ossia volontà. La volontà della Parola è la Parola della volontà. La volontà informata alla Parola costituisce l‟ordine razionale del mondo: l‟ambiente politico governato filosoficamente. Questa la Repubblica ideale platonica. Il Regno di Dio, che è Amore, è radicalmente un‟altra realtà. L‟equivoca interpretazione del vangelo di Giovanni reca in nuce il razionalismo della metafisica greca. Infatti, la “volontà” di Dio è l‟atto di una potenza solitaria che genera il mondo. L‟atto generativo esprime la potenza divina, che pertanto è volontà, azione trasformatrice. Dio è quando crea, e crea nell‟atto di volere il mondo: Dio è volontà creatrice. La sola Parola non basta. Tra l‟autore e la sua creazione si pone la potenza della volontà. Dalla solitudine di Dio nasce l‟idea della Sua onnipotenza creatrice. L‟aspetto tragico (cioè umanistico senza Dio) di tale concezione volontaristica è la trascrizione dell‟Eros platonico in criterio di potenza comune all‟umano e al divino, premessa dell‟onnipotenza dell‟uomo autonomo, emancipato dalla tutela divina. L‟autodeterminazione dell‟uomo razionale consiste nella assolutezza della sua volontà, simile a quella divina, al suo modello rimosso come mitico dal razionalismo. “Creare nella Parola significa creare nella verità”, intesa però in senso greco di analogia entis: “creare a partire dalla somiglianza” con la Parola dell‟Essere chiamato Dio. “Parlare non è solo comunicazione, parlare è vita. Lo spèirito non potrebbe vivere nel Verbo se egli – e il mondo in generale – non fosse stato creato simile a Dio. L‟uomo è in possesso della
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Ivi, pag. 270. Ivi, pagg. 271 e 272.
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parola perché è simile al Dio che, nella Parola, crea”.820 In Dio la Parola è creazione. La divina Parola creatrice. Nell‟uomo la parola non è creatrice di realtà, ma di rappresentazione della realtà. Perché la parola umana divenga creatrice di realtà, occorre che sia coadiuvata dalla volontà, cioè dalla potenza della forza, dalla tecnica. Potenza che in Dio è Amore. Solo in Dio, che è Amore, potenza e volontà coincidono, mentre nell‟uomo sono disgiunte: la rappresentazione noetica del mondo pensa la realtà come corrispondenza tra Essere e pensiero, ma è una immaginazione della coscienza intuitiva che pensa in termini di unità; la volontà che opera nel mondo, assume la sua rappresentazione come realtà finale, condenda, la cui realizzazione comporta il confronto/scontro col mondo. Se in Dio la Parola è creatrice di realtà, nell‟uomo è immagine di una realtà ideale da costruire. In Dio la Parola è Amore. Perché nell‟uomo la parola si congiunga all‟Amore bisogna che la sua rappresentazione del mondo sia ispirata da Dio, dal suo Spirito Santo, da un Mediatore d‟Amore. Il Mediatore che è Parola vivente, cioè Spirito incarnato, Amore in esistenza, è Cristo, il Quale è esistenza d‟Amore e la cui storia è Parola (vangelo) d‟Amore. La volontà umana, agendo nel mondo, può assumerlo nel suo intrinseco valore di realtà creata, da contemplare e conservare, ovvero con l‟intento “di distruggere l‟esistenza com‟è data, per costruirne una nuova; di creare una configurazione del mondo che esprima un senso nato dallo spirito”821 dell‟uomo, cioè conforme alla rappresentazione della sua coscienza naturale, non in comunione con Dio e col creato. In questa solitudine della coscienza soggettiva, la parola non è creatrice di realtà ma trasformatrice, non è Parola d‟Amore, ma Logos razionale, rappresentazione del mondo come cosmo causalmente strutturato in corrispondenza coerente al suo fine biologico immanente, che è la mera vita, e che la volontà conformativa mette in pericolo. Il pericolo consiste nella incidenza della volontà soggettiva in un contesto dall‟equilibrio strutturale già costituito, rispetto al quale la coscienza umana si pone come forza esterna ed estranea. L‟atteggiamento polemico verso il mondo scaturisce dalla distanza tra l‟immagine rappresentativa del mondo e la sua realtà ontica. Mancando la mediazione della comune origine di realtà creata, la distanza può essere
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Ivi, pag. 274. R. Guardini, WuP, pag. 145.
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colmata solo attraverso la riduzione del mondo a oggetto della coscienza, ovvero la riduzione della coscienza a elemento indistinto del mondo. La volontà ispirata dalla visione del mondo che ne ha la coscienza naturale intende realizzare la rappresentazione del mondo ideale nella vita del mondo reale, piegandola a quella rappresentazione. Sicché, se il benessere del mondo è la persistenza nel suo essere naturale, il bene dell‟uomo è l‟affermazione della sua visione del mondo rappresentata nella sua coscienza come la vera immagine della realtà. In tal senso, la coscienza del mondo è l‟assunzione della realtà ontica come oggetto del pensiero, ossia come suo prodotto. Questa sostituzione della rappresentazione della coscienza alla realtà del mondo è la conseguenza del principio identitario di Essere e di pensiero proprio della coscienza intuitiva che intende la verità come unità. Che tale unità sia mistica o razionale, poco importa ai fini della rappresentazione, la quale, sostituendo la propria immagine del mondo alla realtà in sé del creato, costituisce la volontà come organo della coscienza operativa, la quale agisce nel senso della ri-creazione del mondo in funzione dell‟immagine umana, asservendo la Natura ai suoi fini immaginativi e operativi. Entro questa tensione ideo-logica, “spirituale” è la volontà che mira a emancipare l‟uomo dalla necessità dell‟ordine naturale, indicando i suoi sforzi come atti di “libertà”. La libertà dalla Natura è quella dal suo Creatore. Che tale tensione libertaria sia illusoria lo prova il limite della rappresentazione idealistica del mondo, la quale lo pensa come una totalità compiuta. Ma l‟intierezza della rappresentazione della coscienza non è la totalità del mondo, il quale non si adatta mai completamente, per quanto umanizzato e razionalizzato, ai fini umani e ai suoi modelli ideali, mostrando come le trasformazioni apportate dalla volontà dell‟uomo non alterano il suo carattere finito, cioè il suo destino di morte. Il mondo conforme all‟immagine umana è appunto solo una sua immagine, culturalmente mutevole e storicamente varia col variare della rappresentazione umana di esso. La riduzione del mondo alla sua immagine è analoga alla riduzione della Parola divina alla interpretazione umana, identificando la parola col Logos razionale, ossia con l‟immagine naturalistica dell‟Essere conoscibile dal Logos. Per il riduzionismo naturalistico “l‟uomo è fondamentalmente
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uguale agli altri esseri viventi, ovvero un animale altamente evoluto”.822 La sua evoluzione è interna alla sua natura finita, la quale, alla luce della Verità rivelata, è l‟espressione della credenza ontologica nella totalità dell‟Essere. Soltanto l‟assunzione della realtà del mondo come una realtà non originaria ma originata può consentire una visione fondata non sulla identità ma sulla Differenza, superando la tautologia logica che riporta la realtà di ogni ente al suo fondamento di credenza, che è l‟Essere. Per la concezione cristiana, “l‟essere dell‟uomo è l‟elemento umano (das Menschliche)”, non riducibile né a un elemento biologico e neppure all‟ipotesi “che coincida in toto con lo spirituale (das Geistige)”, poiché “l‟uomo è l‟uomo”, cioè “un fenomeno originario (Urphaenomen)” uguale solo a sé stesso.823 L‟errore antropologico di considerare questa originaria umanità una totalità in sé compiuta confonde il Soggetto teoretico con la Persona spirituale. Infatti definire “l‟anima” come “l‟interiorità vivente in cui io sono solo con me stesso”, ossia “la sfera a partire dalla quale mi avvicino alle cose e alla quale ritorno con quanto ho raccolto in tale incontro”,824 costituisce il precedente del soggettivismo razionalistico del Cogito cartesiano, che assume la “vita come ne stesso” a fondamento di ogni successiva relazione col mondo. Se l‟anima fosse il principio e la fine di ogni relazione, questa relazione non sarebbe necessaria alla conoscenza (di sé), ma potrebbe anche essere “posta” dal Soggetto trascendentale. Questa impostazione soggettivistica è la premessa dell‟ateismo, cioè della superfluità della relazione con Dio ai fini del perfezionamento umano, il quale si ottiene solo nella situazione di relazione con Dio. La solitudine dell‟anima rappresenta invece una caduta dalla condizione originaria di relazione con Dio, verso il ripristino della quale tende la redenzione. Definire l‟anima “il lato interiore” dell‟uomo, “in quanto differente dal mero corpo”,825 significa introdurre un dualismo astratto interno alla unitaria realtà psicofisica umana, che, in quanto Soggetto appartiene alla Natura. “L‟innaturale può esistere soltanto perché l‟uomo non rimane rinzhiuso nel
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R. Guardini, L’uomo, cit., pag. 279. Ivi, pag. 280. 824 Ivi, pag. 281. 825 Ibidem. 823
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contesto naturale immediato (ma) si riscatta”826 nella relazione con l‟Altro, che è un movimento esistenziale “che mi fa abbandonare il mio centro per ri-centrarmi su un altro”.827 Questo movimento verso l‟Altro è l‟Amore (Agape) che assume a modello esistenziale la vita di Cristo. Il fondamento di ogni relazionalità, sia religiosa che politica, è la infirmitas dell‟uomo, la sua mancanza originaria di compiutezza naturale e spirituale, il suo non essere una totalità, quale invece viene rappresentata dalla soggettività. È questa mancanza ontologica a consentire, per un verso, la coscienza del male come finitudine naturale, e per l‟altro la possibilità di trascendere la condizione naturale nel senso della Persona divina del Cristo. La Persona cristiana non è il Soggetto razionalistico, ma la esistenza dell‟uomo nella situazione di relazione con Dio, nella quale si manifesta la libertà dell‟amare. Una libertà che non è riducibile alla consapevolezza della Necessità che governa il mondo e neppure possibilità di scelta tra opzioni legate all‟agire pratico nel mondo e comunque limitate dalla finitezza delle condizioni mondane. La libertà in senso cristiano non è una condizione del mondo, ma è libertà dal mondo, in quanto relazione con la Verità trascendente la realtà finita e le sue condizioni di necessità. Trascendere queste condizioni finite significa incontrare l‟Altro nell‟Amore, liberamente, nella verità della fede in Lui, nel Suo mystero. La fede è l‟Amore dell‟Altro che è un mysterium (Geheimnis), il quale si rivela nella relazione esistenziale: da qui l‟unicità originale di ogni autentica relazione. Infatti, solo nella relazione d‟Amore l‟uomo si rivela Persona, poiché l‟Altro viene considerato nella sua possibile totalità, comprensiva del mystero di un‟esistenza che non può essere pre-determinata da alcuna struttura formale a priori, ideale o giuridica. E pertanto non può esserci alcuna totalità del singolo fuori della relazione d‟Amore con l‟Altro. Non dunque una relazione qualunque libera l‟uomo dalla Necessità e dalla finitezza della condizione naturale, ma soltanto la relazione di verità, cioè d‟Amore. La verità cristiana dell‟Amore non è una formula scientifica o una definizione dottrinale, cioè una teoria ideale, ma è la rivelazione del senso della esistenza dell‟uomo come ricerca dell‟Altro nella sua stessa Persona. L‟Altro diventa così cifra di Verità, che è libertà e Amore. Non vi
826 827
Ivi, pag. 223. Ivi, pag. 299.
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è verità dell‟uomo fuori della relazione d‟Amore, per cui in essa viene creata la Persona. La creazione è appunto relazione d‟Amore, e solo all‟interno della relazione d‟Amore vi è libertà, cioè identità riconciliata di essere e di pensiero. Ogni altra costruzione della libertà attraverso l‟opera della volontà agente nel mondo è illusoria e caduca. Solo all‟interno della relazione vi è autentica libertà. L‟uomo solo, l‟individuo, come il Soggetto teoretico, non è libero, ma limitato dalla sua condizione finita e dalla sua relativa coscienza naturalistica. L‟errore razionalistico, da Pelagio ai filosofi illuministi, consiste proprio nella falsa credenza che l‟uomo sia naturalmente libero, e dunque anche libero dal bisogno di essere completato dalla Grazia, di essere salvato dalla Verità divina, di essere liberato dalla Rivelazione cristica della sua naturale finitezza, dell‟incanto ontologico della Finitudine, ossia la credenza che l‟Essere sia il Tutto. Guardini definisce la libertà formale e la materiale come tipologie “pre morali e meramente psicologiche”, in quanto la libertà per lui “è per sua essenza rivolta a ciò che deve essere, ovvero alla sfera morale”,828 e dunque consiste nell‟azione giusta. Come egli scrive, La libertà formale diviene morale quando la sovranità della sua scelta si dirige al bene morale, e la libertà materiale quando la scelta porta a espressione non ciò che l‟individuo è di fatto ma ciò che egli deve essere. 829
Il dovere (Sollen) è la condizione spirituale di chi riconosce la propria limitatezza costitutiva della sua umanità. Il dovere morale è la spinta ad amndare oltre il limite della propria soggettività, della propria condizione finita. Ciò che l‟uomo deve essere è di non essere un soggetto autonomo e autodeterminato dalla sola ragione, ma porsi in relazione con ciò che è oltre lui, al di là della propria finitezza. L‟auto-appartenenza dell‟uomo alla sua condizione naturale di animale razionale non è la virtù morale, ma è la malattia spirituale che la coscienza consapevole, cioè appunto la coscienza morale, cerca di sanare attraverso la relazione con l‟Altro, che è Persona da rivelare e non oggetto da de-finire. Preosegue significativamente Guardini: La capacità di agire di propria iniziativa realizza se stessa in maniera piena e vitale solo grazie all‟oggetto del volere e alle esigenze che quest‟ultimo le pone
828 829
Ivi, pag. 302. Ivi, pag. 302.
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di fronte. La sovranità della scelta si manifesta con tanta più purezza quanto meno il soggetto agente pensa alla libertà del suo agire e quanto più egli si concentra sulle richieste provenienti dalla cosa stessa,830
che è poi il Bene platonico.831 Non si esce dalla dialettica SoggettoOggetto, che pone il bene nell‟oggetto, tomisticamente. Ma l‟agire autonomo è il contrario del movimento che “parte dal sé e si dirige verso l‟altro”. La libertà è oltre l‟autonomia e l‟eteronomia: è relazione agapica. Vivere fuori di tale relazione non è una opzione preferenziale, ma una caduta nell’Essere, nella Finitudine del Dasein. “Se è vero che ogni essere si realizza pienamente solo nel rapporto con un altro, allora l‟intera sfera dell‟esserci deve essere percorsa da relazioni reciproche”, poiché “vi è un ordine che rende ogni unità e ogni gruppo dipendente dagli altri”.832 Il dover-essere non è una scelta volontaria eventuale, ma la conseguenza dell‟essere stesso, insufficiente a se stesso. La relazione con l‟Altro non è un posterius contingente, ma la situazione originaria, che può essere perduta, come nel caso dell‟uomo e dell‟angelo decaduto, e che deve essere riconquistata. La riconciliazione (Versoehnung) non è (solo) una istanza della ragione, ma una ricerca esistenziale dell‟uomo dopo la caduta nell‟Essere. Si intende come “caduta nell‟Essere” la condizione naturalistica dell‟uomo non più in relazione con Dio. Entro l‟orizzonte ontologico di tale caduta sorge il pensiero dell‟esserci (Dasein) come condizione naturale; il pensiero della Finitudine. Il movimento morale della libertà procede verso il Bene da una condizione di Male, che è appunto la Finitudine come orizzonte della soggettività razionale, di cui l‟egoismo è il risvolto pratico. Entro l‟orizzonte naturalistico della Finitudine può sorgere l‟atruismo, ma non la salvezza morale in senso cristiano, che si realizza nella relazione d‟Amore, che è la simbolica fraternità evangelica del prossimo (caritas). Ciò che si dice “orientamento al Male”,833 non è altro che la volontà del Sé di affermarsi come Soggetto autonomo. Ed è questa istanza egoistica che è compresa nella condizione ontologica, dove ogni essere ontico non può non essere ciò che è, non può
830
Ivi, pag. 303. Ivi, pag. 304. 832 Ivi, pag. 307. 833 Ibidem. 831
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essere diverso, dominato com‟è dalla Necessità di essere così-e-non-altro. Che è condizione contraria a quella di libertà, per la quale la coscienza può permanere nella Finitudine, ovvero volgersi all‟Altro, amandolo come nella condizione naturale ama Sé stesso. Questo volgersi all‟Altro costituisce la metanoia paolina che segna il passaggio dalla soggettività naturalistica alla situazione di relazione, al Noi dall‟Io e Tu della condizione finita. La conversione alla fede d‟Amore salva dalla caduta ontologica, che ha due caratteri essenziali complementari: a) la razionalizzazione tecnica della trasformazione del mondo secondo la sua immagine ideo-logica, che si manifesta come estensione universale della volontà di potenza; b) la permanenza dell‟esistenza umana in un perenne “stato di eccezione”, che non è soltanto una realtà giuridica (Ausnahmezustand),834 ma è la stessa condizione umana scissa dalla relazione d‟Amore con Dio e con l‟ordine normativo divino. Dalla caduta dell‟uomo deriva la sua condizione di estraneità dal mondo e lo stupore (thaumazein) di fronte all‟esperienza che “gli eventi (del mondo) procedono per conto loro”, non curando di essere corrispondenti alle aspettative derivanti dall‟immagine che egli ha del mondo, portandolo a credere di essere “al di fuori dell‟ordinamento della Natura”.835 La città dell‟uomo, per quanto estesa all‟intera realtà del mondo, non può riuscire a governarlo se non nei limiti di Necessità segnati dalla Finitudine, entro la cui dimensione l‟uomo non può realizzare alcun regno di libertà, che è propria solo del Regno di Dio. Come potrebbero gli eventi naturali salvaguardare chi lotta per emanciparsi dalla loro necessità? La “impotenza dei valori sommi nel mondo reale”836 è la conseguenza della distanza tra l‟immagine del mondo che ha l‟uomo dalla realtà del mondo. I “valori sommi” sono gli ideali alternativi al destino di morte dei processi naturali, ossia sono le strutture con cui l‟uomo intende salvarsi dal ritmo mortale della Natura, la quale, pervasa dalla Necessità, ha un dinamismo biologico che non è spirituale, non trascende cioè la mortale Finitudine. Entro la realtà dell‟Essere, dunque, anche se trascritta in termini metafisici, non vi è salvezza per l‟uomo dal destino di morte. La Rivelazione cristiana si
834
Sull‟argomento, ved. G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, 2003. R. Guardini, L’uomo, cit., pag. 309. 836 Ibidem.. 835
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compendia in questo annuncio: che la sapienza politica di Cesare non salva gli ideali umani dal destino mortale dei processi naturali. La città dell‟uomo, per quanto razionalizzata in una coerente economia della conservazione del corpo biologico (Leib), non resiste all‟azione corrosiva dei corpi fisici (Koerper), che hanno comunque un termine, a prescindere dalla loro durata. L‟Essere è tempo. I valori ideali, che sono la definizione deontologica delle rappresentazioni del mondo della coscienza razionale, sono mitici, ideali rappresentazioni del desiderio umano di durare, ma che non sono fondati su ciò che è eterno, chiamata “anima” (pneuma). La città di Dio è l‟esistenza della persona in relazione con la realtà eterna dell‟anima, che comprende la fisicità del corpo come suo tramite espressivo col mondo, ma non è compresa entro il corpo fisico, come invece credeva Platone. La metanoia cristiana è in questo cambiamento di prospettiva, per cui solo lo spirituale è veramente reale, e non l‟Essere ideale, che è soltanto una rappresentazione analogica. La Verità, quale realtà eterna, è l‟Amore, lo Spirito di Dio. 11. Ciò che nella prospettiva ontologica era la partecipazione dell‟ente all‟Essere, nella prospettiva agapica è la relazione con Dio. L‟Amore è questa condizione di “essere in rapporto con” (das Auf-hin) l‟Altro, che è una condizione inclusiva. L‟ascesa platonica all‟Idea avviene attraverso la negazione di ciò che non può essere omologato all‟Essere. L‟impulso che porta a tale movimento, ovvero l‟Eros, sorge spontaneamente nell‟uomo; l‟Idea non è dotata né di movimento, né di volontà, né ancora di sensibilità. Essa sussiste nella sua eterna validità e nel suo puro essere: senza 837 essere mossa da nulla, suscita movimento in altro.
Anche le Idee stanno in rapporto reciproco con il Bene (Agaton), che tutte le comprende. L‟uomo trova il suo senso ideale partecipando alla sua umanità eterna, l‟Idea dell‟uomo, che trae il suo status ontologico partecipando a sua volta all‟Idea del Bene, che si fonda su se stesso e che nel neo-platonismo è identificato con Dio. Per Plotino, “la divinità anela a riversare all‟esterno la propria pienezza; questo suo Eros, ed è questa dinamica a dar vita agli esseri finiti”, che restano però incompleti fin
837
Ivi, pag. 312.
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quando Eros non li spinge a tornare al luogo divino della originaria perfezione, al Bene.838 L‟Eros, dunque, come una sorta di eccedenza spermatica. Nel Cristianesimo, “Dio è una realtà personale”, un attivo soggetto d‟Amore.839 Se l‟Idea platonica è un assoluto vincolato alla propria essenza, il Dio cristiano è Persona non definibile con alcuna categoria perché non è finito, ma si manifesta attraverso la “consapevolezza che Gesù ha di lui”, sicché “il Dio cristiano può essere pensato solo partecipando, nella fede, alla consapevolezza di Cristo”, cioè aderendo alla Sua verità, che è relazione d‟Amore, “il movimento con cui Dio entra in rapporto con l‟uomo”.840 Ma l‟infinito Amore non può incontrare la finitezza umana se non a sua volta facendosi esistenza d‟uomo. “La rivelazione mostra Dio come colui che viene, parla, opera nella storia ed è sottoposto al destino”, non di una simbolica o mitica fatalità del fattuale, ma in senso assoluto di “ciò che non può essere diversamente da come è”.841 Il Dio biblico è il Dio che amae che chiama a sé l‟uomo (poiché) si fa visibile solo nell‟incontro. Il punto dell‟incontro è la persona di Cristo; l‟ora dell‟incontro è per la totalità del mondo quella della nascita di Gesù (mentre) per il singolo il 842 momento in cui egli stesso si imbatte in Cristo.
L‟incontro di Dio con l‟uomo è nella storia, cioè nel tempo dell‟esistenza naturale; ed è un incontro tra persone spirituali, libere, e perciò il loro è un incontro libero, non necessitato da presupposti logici o sociologici: “l‟incontro avviene solo se Dio vuole, e con l‟assoluta libertà che lo caratterizza”.843 Libertà sta per storicità, cioè contingenza e volontarietà dell‟incontro, il quale per ciò stesso porta con sé il mystero della persona, che solo la fede può superare. La fede è la fiduzia, la speranza e la carità che l‟Altro entri nella relazione d‟Amore. Sia Dio che l‟uomo si conoscono nella relazione d‟Amore. Persona con persona. L‟uomo non ha una natura
838
Ivi, pag. 313. Ivi, pag. 314. 840 Ivi, pag. 315. 841 Ivi, pagg. 316-317. 842 Ivi, pag. 317. 843 Ivi, pag. 318. 839
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predeterminata biologicamente o metafisicamente (entelechia naturalistica), ma “egli si realizza autenticamente solo quando incontra Dio”.844 Ma anche di Dio si può dire lo stesso, e cioè che il Suo incontro con l‟uomo non può avvenire senza la kenosis dell‟Incarnazione in Gesù Cristo, convertendo l‟Agape divina, infinita e trascendente, in Logos umano finito e storico. Il sacrificio, non soltanto simbolico, di Cristo nella croce è la negazione della verità della Finitudine, e quindi anche del Logos finito che la rappresenta. Cristo muore come uomo e risorge come Persona divina eterna. L‟incontro d‟Amore, tra persone, non è più rapporto di socialità tra soggetti razionali e individui naturali, ma è relazione spirituale. “Spirituale non è il polo opposto della corporeità ma uno stato che riguarda l‟uomo nella sua totalità, corpo e spirito insieme (che) ha origine dall‟incontro con lo Spirito e con il Pneuma, ovvero dall‟essere investiti dagli effetti dello Spirito Santi”. Spirituale è la condizione di relazione dell‟uomo con Dio, “è l‟uomo orientato a Dio e determinato da Lui”.845 Ciò vuol dire che la stessa persona non è una condizione naturale, originata dalla nscita naturale, ma esiste solo nel rapporto Io-Tu con quel Dio che viene nel mondo e agisce nella storia. Questo rapporto non si fonda nell‟uomo (naturale), bensì nell‟atto con cui Dio chiama l‟uomo nella relazione con lui, (facendolo) uscire dalla condizione di apparente autonomia che è propria della sua personalità naturale.846
La condizione di apparente autonomia è quella dell‟uomo che crede di potersi integrare nella Natura adattandola ai suoi bisogni di salvezza. Ma così come la sua immagine del mondo non corrisponde alla realtà del mondo in sé, anche la propria immagine fisica di uomo non corrisponde alla verità della sua condizione spirituale. L‟uomo fisico, naturale, di animal rationale dell‟antropologia greca, è solo l‟immagine biologica ed estetica della persona. La corporeità in senso cristiano è “il corpo come espressione dello spirito”, lo “spirito resosi visibile” nella figura e nella parola, ch‟è “essenzialmente diverso dal corpo animale in quanto si realizza
844 845 846
Ivi, pag. 319. Ivi, pag. 320. Ivi, pag. 321.
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nel rapporto con lo spirito (ed è) determinato dallo spirito”847 divino. Costruire un mondo sulla razionalità finita equivale a costituire sullo stato di eccezione una condizione di normalità, razionalmente normativa ma spiritualmente erronea, perseverante nella colpa della scissione da Dio. Quresta condizione naturale, che è normale per ogni altra specie vivente in Natura, per l‟uomo è eccezionale, poiché la sua normatività riflette i parametri della finitezza, e non già quelli spirituali della identità di Essere e pensiero, cioè della Libertà desiderata dalla coscienza, la quale, riferita alla realtà del mondo naturale, in cui vige la legge della Necessità, è illusoria, e ogni struttura ideale concepita su tale illusione è una rappresentazione mitica, una mito-logia, la cui narrazione storiografica, perché basata sulla sua metafisica naturalistica, è una mito-grafia. Infatti, “l‟uomo non è un essere naturale, non si sviluppa spontaneamente a partire da un autonomo principio evolutivo. Egli è persona, e la persona si realizza nell‟incontro, (e) solo in esso l‟uomo diventa colui che autenticamente è”.848 Se l‟uomo si conosce come persona attraverso l‟Altro, “ciò che per l‟uomo è definitivo si delinea soltanto nel suo rapporto con Dio (in cui) si realizza l‟autentica potenzialità della natura dell‟uomo”,849 la quale, non essendo determinata da un istinto naturale, non è conoscibile come comportamento di specie, ma soltanto alla fine dell‟esistenza personale, che nel suo farsi evidente a se stessa, nella sua incompiutezza rimane un mystero. Mistero (Geheimnis) è la possibilità del bene che “ancora non è” e che “coincide con il compito della libertà”.850 L‟idea che la libertà sia un atto del volere, un agire pratico finalizzato alla realizzazione del Bene, cambiando il mondo dove vi manchi, costituisce la premessa teoretica dell‟istanza etica della rivoluzione e dell‟economismo come prassi razionale, che proietta nell‟ordine condendo la compiutezza della rappresentazione dell‟ordine ideologico. Teoria errata quanto pericolosa, che contravviene in radice alla missione evangelica di riconoscere il Bene nell‟uomo, non già di realizzarlo perfezionando la creazione divina. Riconoscere il Bene significa amare. Nel riconoscimento reciproce del Bene consiste l‟Amore, come verità comune. Il contenuto
847
Ivi, pag. 322. Ivi, pag. 342. 849 Ibidem. 850 Ivi, pag. 390. 848
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della Rivelazione cristiana è che l‟esistenza autentica per l‟uomo è la relazione d‟Amore. Il concetto cristiano dell‟Amore è carico del destino della Libertà nell‟Altro, non contro o con l‟Altro rimanendo Sé, Soggetto. “Amare significa lasciar cadere la corazza della solitudine che vuole bastare a se stessa e prendere sul serio l‟altro. E già questo è destino”.851 Ritrovare la Libertà perduta nello stato di grazia precedente il peccato originale significa uscire dallo stato di necessità dell‟esistenza naturale, dominata dalla logica economica che governa la città politica, ricucendo la frattura dell‟infedeltà dell‟uomo a Dio. Intendenre erroneamente la morale come un‟azione, anziché una condizione, ha creato i presupposti dell‟esisrbitante importanza attribuita alla volontà, al volere quale azione economica della salvezza, intesa come dover-essere di ciò che non è. Il Male non è un atto del Soggetto, un‟azione che nasce e si riflette nell‟Io, ma è un atteggiamento verso l‟Altro, la rittura del legame spirituale comune che costotuisce il rapporto relazionale tra persone. Il Male è la soggettività alternativa alla relazione, il soggettivismo autonomo dalla situazione di libertà e riconoscimento nell‟Altro, che per tutti è Cristo. Attraverso la relazione con Cristo, la esistenza umana diventa sacra, e l‟infrazione per defezione diventa peccato, “empietà contro il sacro”.852 Il soggettivismo, cioè la rappresentazione dell‟uomo creatore del mondo, è la concezione della vita de-sacralizzata, fuori della relazione con Dio. La concezione che ne deriva non è solo diversa da quella sacra del Cristianesimo, ma è antropologicamente sbagliata, pensando l‟uomo come egli non è nella verità, ma come un essere autonomo di natura. Tutta la cultura razionalistica moderna, che confonde l‟esistenza umana con il “sum” del Cogito, concepisce l‟uomo fuori della verità della sua esistenza, che non è nel pensiero del Soggetto, ma nella relazione, nella esistenza-inrelazione, rispetto alla quale l‟ontologia e la metafisica del Soggetto rappresentano un‟astrazione fantastica, creduta vera. L‟autentica mitologia è la cosmologia sociologica razionalistica, in cui agisce il Soggetto e i gruppi sociali di individui legati da rapporti estrinseci, di tipo giuridico ed economico. Di contro, la persona vive la sua esistenza come ricerca
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Ivi, pag. 398. Ivi, pagg. 408 e 412.
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spirituale della compiutezza originaria perduta. L‟esistenza della persona è una persi-stenza storica, che si compie nel ritorno al Padre, nella redenzione. Il figlio prodigo che ha vissuto del Sé, manifestandolo come la sua condizione normale, è l‟uomo naturale dell‟antropologia razionalistica, che il Padre e Signore del mondo ha perdonato all‟uomo adamitico, indicandogli la via della salvezza, la redenzione nella verità di Cristo, nella cui fede consiste la rinascita spirituale dell‟uomo nella persona. Egli ha insegnato all‟uomo come diventare essere divino, integrale, totale. Per la coscienza cristiana la totalità dell‟esserci non è qualcosa di naturale, che possa essere spiegato tramite le categorie delle scienze naturali; né è qualcosa di ideale in senso generale, esprimibile con concetti filosofici, bensì è qualcosa il cui vertice effettivo risiede nella persona. L‟esserci come totalità è determinato a partire dalla persona dell‟uomo, che sta essa stessa nel nerbo della personalità di Dio.853
Non nel senso che tutto si risolva nel soggetto empirico, o in quello ideale, cioè nell‟uomo astratto dal rapporto con Dio, ma che l‟uomo è persona integrale solo nella relazione con Dio, in cui l‟uomo naturale diventa persona spirituale. “In conseguenza di ciò l‟uomo non è qualcosa di fondato e autosussistente, che trova in sé stesso il proprio compimento come l‟albero o l‟animale; egli sta invece in un particolare rapporto con ciò che lo oltrepassa, con Dio”.854 Fuori di tale essenziale rapporto, l‟uomo è “inautentico”, dimidiato, “un frammento di uomo”. Da qui il carattere tragico dell‟esistenza umana non conciliata con la verità divina, ma vissuta nel peccato naturale derivato dalla roittura della relazione con Dio. IN questo senso profondo, “il peccato è un fenomeno esistenziale in senso stretto”,855 che muta l‟uomo, alterandolo nel suo essere. Questa condizione viene negata dal razionalismo, che intende il peccato come un‟infrazione morale a cui la volontà può rimediare. La redenzione in senso cristiano, il redire ad Deum, non è una nozione da giustificare filosoficamente con un concetto o con una rappresentazione religiosa o un qualunque presupposto intramondano, poiché investe la persi-stenza totale, che inerisce l‟essere e il
853
Ivi, pag. 416. Ivi, pag. 418. 855 Ivi, pag. 420. 854
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fare dell‟uomo, e che scaturisce dall‟iniziativa libera di Dio che si rivela nella fede, cioè nell‟ascolto della sua offerta d‟Amore.856 L‟Amore redentore di Dio ha lo stesso rango della creazione, sicché la fede non va intesa come sentimento personale o credenza anti-scientifica, ma nel senso cristiano della risposta dell‟uomo alla rivelazione della verità della condizione umana, che chiama all‟integralità dell‟esistenza spirituale nel rapporto d‟Amore con Dio. Come ha giustamente asserito Guardini, “è nel suo verificarsi che la redenzione (Erloesung) dice ciò che è”.857 A questo punto, la fede deve trovare nella verità rivelata la risposta alla domanda essenziale “Perché l‟uomo è mancante?” La domanda implica una ancora più radicale e tremenda: “Perché Dio lo ha creato imperfetto?” La colpa umana è inseparabile dalla sua imperfezione, così come la libertà dalla responsabilità del peccato. Dio non poteva non sapere dell‟imperfezione umana, e l‟ha consentità: perché? L‟unica risposta, semplice e definitiva è perché soltanto l‟imperfezione consente l‟Amore, così come soltanto il peccato la redenzione. Se l‟uomo non fosse peccatore, non potrebbe redimersi con l‟Amore, ma vivrebbe come se non dovesse persistere in relazione con l‟Altro; esattamente come vive il Soggetto della metafisica razionalistica, che ha rimosso la colpa dalla sua coscienza, e quindi la ricerca dell‟Altro nella sua esistenza, evitando pertanto di redimersi con l‟Amore dalla Finitudine della vita naturale. Il Soggettivismo è il prodotto del razionalismo, che legittima il volontarismo e fonda il moderno economismo, che nella coscienza umana prende il luogo della responsabile condizione di persistenzialità spirituale. Fuori della relazione d‟Amore con l‟Altro, la vita umana viene concepita come rapporto di forza tra opposte volontà in competizione reciproca per il maggior dominio. Invece del prossimo, il rivale, il concorrente, il nemico, insomma l‟opposto da combattere e sottomettere alle ragioni del Soggetto. Il soggettivisnmo concepisce l‟uomo come autonomo e completo, in grado di autodeterminarsi, senza mancanze né peccato originale: un essere di natura. La caduta della persona spirituale nell‟uomo naturale e inautentico riduce l‟esistenza a vita biologica, puramente psico-fisica, a presidere la quale si pone il sapere pragmatico e un governo bio-politico. Il travisamente del Male dell‟autonomia da Dio nel Bene dell‟auto-
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Ivi, pag. 426. Ivi, pag. 427.
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determinazione razionale dell‟uomo naturale è la cifra della perversione morale cui giunge la coscienza dell‟Essere assoluto e increato, che è posto all‟inizio e da cui ogni ente mondano deriva. Pensare l‟Essere come fonte di ogni determinazione logica, e pensarlo assente e distante dai processi razionali, è tutt‟uno. Dall‟innesto di queste due teorie con la spiritualità cristiana è nata la theo-logia cristiana, la giustificazione razionale della fede, ossia la trascrizione in dottrina naturale della Verità che è Amore. L‟uomo Soggetto è un derivato razionalistico del Dio creatore onnipotente, della Sua rappresentazione ideale, che riflette l‟immagine che ne ha l‟uomo naturale, incapace di de-finire il Mystero della trascendenza di Dio. In quanto Mystero trascendente, Dio ha creato l‟uomo a Sua immagine, fornendolo della coscienza divina di concepire il mondo nell‟identità dello Essere al pensiero, esattamente come Lui stesso l‟ha pensato creandolo. Ma fuori del Suo amore, l‟uomo non può “spostare le montagne”, cioè creare. Perché riacquisti la sua potenza creatrice l‟uomo deve andare oltre la sua umanità naturale, svincolarsi, non da Dio, che è la fonte dell‟Amore universale, ma dalla Necessità, che è la legge della Natura finita, la ragione. Fondare sulla ragione naturale l‟esistenza umana, significa cercare di perfezionare, anziché sé stesso, il mondo creato da Dio come in sé perfetto. Non è la Natura che va perfezionata, potendo essa procedere come se l‟uomo non esistesse, ma è l‟uomo che necessita di superare la sua condizione naturale, uscendo dallo stato di eccezione per riconciliarsi con la Verità. Proprio perché Amore, Dio non resta in attesa dell‟avvicinamento umano, che la cattività naturale ha reso più difficile, poiché nella dimensione del tempo la memoria si fà flebile e il ricordo dell‟origine sempre più labile; è una conseguenza del peccato originale che l‟uomo individuo perda la memoria e debba a ogni nuova nascita riacquistarla. Diversamente dall‟animale, ha ancora il senso del passato e non vive di solo presente, ma l‟uomo senza Dio perde sé stesso, si dimentica. Non sa chi sia. Da qui occorre partire per intraprendere la fuoriuscita dal peccato naturale: dal mystero di sé; e concepire Dio appunto come Mystero, anziché come Essere. Il Mystero dell‟Amore. E come Amore, Dio si è avvicinato all‟uomo per offrirglielo: diventando Lui stesso un uomo. A partire da questo orizzonte di fede derivano tre corollarii. I. Perché anche Dio provasse Amore, lo stesso bisogno di compiutezza che prova l‟uomo, ha doivuto umanizzarsi diventando anch‟Egli mancante come l‟uomo, e incarnarsi in un essere finito (kenosis). Non si comprende il valore liberatorio della passione di Cristo dalla finitezza della condizione
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mortale senza la previa considerazione dell‟Amore di Dio come ricerca di relazione con l‟uomo. Dio si è rivelato all‟uomo, si è fatti riconoscere, diventando uomo come lui; un uomo che, in quanto divino, custodiva la compiutezza della coscienza eterna, ma in quanto umano provava in sé l‟incompiutezza dell‟uomo nel suo esilio da Dio. Anche Cristo, fuori dell‟Amore di Dio, è soggetto alle leggi del mondo umano, quelle politiche, e muore come un qualsiasi altro uomo. Anche Cristo può vivere la sua divinità eterna solo nella relazione d‟Amore, solo nella fede del riconoscimento umano, solo, cioè, a seguito della metanoia spirituale, che è l‟oltrepassamento della condizione naturale, della Finitudine. Cristo è l‟agnello sacrificato all‟Amore. Dio, in quanto totalità in sé sussistente, non può concretamente amare la Sua creatura fuori del rapporto d‟Amore; ma per sentire l‟incompiutezza della condizione che ambisce alla relazione d‟Amore, deve farsi finito, Logos Christos. Solo Cristo può, in quanto nato da donna e dunque uomo mancante, pur senza il peccato originale, provare Amore per l‟uomo, e, avendo ereditato da Maria la coscienza del peccato, prova in sé il bisogno di Dio, invocato sulla croce. Nessun uomo commette il peccato originale, ma ognuno che è umano lo eredita. Cristo vive questa condizione umana tragica e anch‟Egli la riscatta nella relazione d‟Amore col Suo prossimo. È la condizione di Dio ad abbandonare Cristo al suo destino di sofferenza; ed è la condizione umana di Gesù a subire la sorte comune a ogni uomo separato dall‟Amore del prossimo. Dio non può sentire Amore se non facendosi uomo, mancante di Amore. L‟Agaton, il Colmo-d‟Amore, non può sentire la fame d‟Amore. Solo l‟uomo ne sente la mancanza. L‟uomo sente la mancanza di Dio – che è Amore -, ma Dio non può sentire la mancanza di Sé stesso, se non facendosi a sua volta Altro, Persona. Dio è Persona rispetto all‟Altro, a un‟altra persona; ma in sé non è persona, perché non ha esistenza personale, non ha la persistenzialità dell‟uomo. Dio, propriamente, non esiste, se non come immagine finita, come Logos Christos; quando Dio esiste, esiste come Cristo. Cristo esiste come uomo nel tempo, ma come essere divino è Spirito trascendente ogni finitezza, ogni sofferenza umana, inclusa la morte. Non è lo Zarathustra di Nietzsche a declamare la” morte di Dio”, ma la cattiva teologia dell‟incarnazione, che vede nel Gesù sulla croce il Dio morente. Ma l‟Eterno non può morire, così come non può nascere. Può morire l‟uomo, per rinascere Spirito: questo il senso simbolico della passione cristica, il viatico di ogni uomo naturale che voglia superarsi in persona colma d‟Amore divino. L‟uomo naturale muore per rinascere
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persona spirituale, partecipe dell‟Amore eterno di Dio. Per sentire la incompiutezza umana, Dio ha dovuto farsi uomo, entrare nell‟esistenza storica e patire la dissociazione e il disamore della solitudine umana fuori della relazione filiale. II. La storicità di Cristo si costituisce nella Differenza dalla trascendenza e sussistenza di Dio. Storicità e dissociazione sono sinonimi. L‟esistenza personale, la persistenza, ha una storia finquando non si risolve nella relazione d‟Amore. Infatti, nella relazione con l‟Altro l‟uomo non esiste più, non ha più storia, ma vive la sua condizione di beatitudine edenica. L‟Amore trascende la storicità, l‟esistenza mancante dell‟uomo fuori della relazione con Dio-Amore. L‟uomo ama l‟Altro tramite Dio che è Amore, e ama Dio tramite l‟Altro che è la Sua immagine. Dio, che è Amore, non si può amare come Dio, amando l‟Amore. Dio si può amarlo solo attraverso la Sua immagine finita, che è l‟Altro, il Cristo, e chiunque abbia fede in Lui. Senza la fede in Cristo, si ama l‟uomo naturale, non la persona spirituale. Bisogna incontrare Cristo per diventare persona spirituale, cioè bisogna convertirsi alla fede che Cristo sia l‟immagine dell‟Amore divino, la stessa che è in ogni uomo in quanto creatura di Dio. Se l‟uomo non può amare direttamente Dio senza la mediazione di Cristo, neppure Dio può amare l‟uomo senza che sia Cristo a farlo per Lui. Ogni volta che Dio ama, è Cristo che ama: il Dio-Uomo. III. L‟uomo, per la sua Mancanza, non può auto-determinanrsi, ma per salvarsi e compiere la sua storia, ha bisogno dell‟Altro, non come socius o amicus, ma come persona spirituale, dove per “spirituale” s‟intende “in situazione di relazione con Dio attraverso la fede in Cristo”. Dunque il prossimo è la persona spirituale che si ama in quanto tra il Me e l‟Altro c‟è Dio, che è Amore. Amando la persona di Cristo, che è il Gesù storico, si ama Dio, “Colui che è” altrove rispetto al mondo finito in cui si esiste (Dasein). Si esce dalla finitudine naturale della condizione umana dissociata dall‟Amore di Dio in Cristo, così come si esce dalla condizione di peccato; non coesistendo con un altro generico, ma risolvendo la propria esistenza personale nella persistenzialità comune, che trascende la soggettività razionale nel Noi relazionale. In conclusione, Dio è Mystero in quanto non ha esistenza, non ha storia e non ama, se non rivelandosi e incarnandosi e vivendo la condizione umana. Per sortire dalla condizione umana l‟uomo naturale deve oltrepassare la propria condizione finita, caratterizzata dalla relazione di potere tra gli uomini.
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Il Potere nasce dalla volontà del Soggetto di sottomettere l‟Altro alla sua volontà, privandolo il più possibile della sua. In realtà, in gioco nella tensione polemica tra le volontà è rispettiva libertà delle parti in contesa, ossia la rappresentazione che la coscienza ha della realtà, in quanto la volontà non è altro che il tentativo, consapevole o meno, di ridurre il mondo a oggetto della propria coscienza, cioè a fatto umano. Ciò che è fatto dall‟uomo, è opera sua. La relazione che il Soggetto stabilisce con l‟Altro è il contrario della situazione d‟Amore, in cui l‟Altro non è il fine della relazione stessa, ma il tramite per superare la sfera della soggettività. Nella relazione di Potere prevale il Soggetto naturale, il frammento d‟uomo mancante che vuole superare la mancanza asservendo l‟Altro, nell‟illusione di poter così andare oltre sé stesso e la propria finitezza. Il Potere è inversamente proporzionale all‟Amore: “quanto più elevato è il valore, tanto minore è il potere”.858 L‟anti-Potere è l‟Amore. Il Potere è esercizio di forza, l‟Amore di abnegazione. Sono parametri opposti: l‟uno misura l‟annientamento relativo dell‟Altro per l‟affermazione del Sé, laddove l‟Amore invece misura l‟elevazione dell‟Altro attraverso la dedizione di Sé. Nella relazione di potere l‟uomo non è mai totalmente se stesso, mancandogli la presenza dell‟Altro, che il Potere tende a ridurre a strumento del Sé, della soggettività. Questa non è soltanto una posizione teoretica, ma è una condizione esistenziale, in cui l‟uomo è ridotto a essere naturale, ad animal rationale, le cui funzioni vitali tendono alla sola conservazione di Sé, come individuo e come specie. La coscienza che si fonda sul Sé naturale concepisce ciò che oltrepassa la soggettività come estranea, pericolosa, in quanto inconoscibile, perché non pro-dotta dall‟uomo. La considerazione del limite della soggettività, porta la coscienza verso il rapporto di subordinazione, ovvero di dominio del Sé. In questa dialettica del potere viene in luce la parzialità della condizione naturale, la quale, nell‟atto doi affermare il potere del Sé è costretta, nell‟esercitarlo contro qualcosa o qualcuno, a riconoscerne il limite. La parzialità, che è la stessa finitezza della condizione naturale, non è mai verità, la quale coincide con la totalità. Solo nella relazione d‟Amore l‟uomo è totalmente nella verità, poiché si pone in una dimensione superiore a quella naturale, da dove può giudicarne la limitatezza. Solo amando l‟uomo è integralmente autentico, integrale Sé
858
Ivi, pag. 441.
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stesso, perché nella Verità. Questa condizione integralmente autentica e vera è quella della Redenzione. Per riprendere le parole adatte di Guardini, “l‟esistenza cristiana è basata sulla Redenzione (la quale) determina la conoscenza in quanto tale, il mio essere me stesso, il modo in cui esisto, il mio senso complessivo”.859 La Redenzione non muove da un atto di volontà del Soggetto che acquisisce uno stato di vantaggio, in quanto avviene non per opera del redento, ma di un redentore, che per il cristianesimo è Dio.860 Ma a questo punto sorge una questione essenziale per la coscienza cristiana, la quale per salvare la verità della persistenza deve partire dal mystero dell‟Altro, e non dalla rappresentazione del Soggetto, al quale vanno riferite le seguenti considerazioni di Guardini. Di fronte all‟Altro il Sé non può non rinchiudersi in un atteggiamento di difesa (...) e cerca di definirsi come fonte della propria identità (...). Ed è qui che affonda le radici il pensiero dell‟autonomia (che) si costituisce nella contrapposizione (Gegenspiel) all‟Altro.861
È evidente il cedimento di fronte al soggettivismo, dovuto all‟acquisizione della teologia tomistica, per la quale l‟Essere è il Bene e tutto il Bene, che non si spiega la soggettività che in termini di caduta, e non come errore di cultura, ossia come fosse un peccato religioso anziché, come invece è, una colpa teoretica. Il soggettivismo non è una opzione filosofica, giustificabile o confutabile razionalmente, ma un errore antropologico, di cultura; non in relazione alla dottrina cristiana, ma alla comprensione della condizione umana stessa, che è relazionale e persistenziale. Sicché, la contrapposizione dialettica tra Io e Tu non è un momento necessitato dalla originaria condizione esistenziale, ma una modalità di relazione che non è quella antropologicamente vera per l‟uomo, bensì mutuata dall‟esempio delle relazioni naturali, conseguenti allo stato di eccezione storico. “Una tale naturalità, nella prospespettiva della Rivelazione, è in realtà del tutto innaturale (poiché) è la condizione che ha fatto seguito al peccato (e che per accecamento fa considerare se stessa come naturale ovvero come valida
859
Ivi, pag. 453. Ivi, pag. 457. 861 Ivi, pag. 459. 860
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e sensata”.862 Ma se è vero, come sostiene Guardini, che “al Sé non pertiene alcuna categoria autonoma, in quanto esso dipende esclusivamente dalla definizione di Dio”, e che “alla sua essenza appartiene la creaturalità, che costituisce la forma della sua esistenza”,863 allora l‟Io soggettivo si fonda e si definisce in Dio, non già nel fondamento della coscienza del Sé. La forma che l‟auto-coscienza cristiana assume a seguito della fede è la Grazia, la quale non è un comportamento dell‟uomo ma di Dio.864 Nel senso che è l‟Amore di Dio a muovere la coscienza dell‟uomo di fede. Infatti, “solo attraverso la fede nella Rivelazione si può avere accesso all‟esperienza della Grazia, ma tale fede è indipendente da qualsiasi vissuto empirico”, nel senso che essa è un atteggiamento della coscienza che non deriva da un presupposto percettivo della realtà esterna, ma dalla relazione mistica con Dio, interamente in interiore homine. È una relazione col Trascendente che non parte da alcuna intuizione dell‟Essere, ma che si rivela nel suo costituirsi. In tal senso, “quella di „Grazia‟ è quindi una categoria rivelata (che) dipende dal fatto che Dio è Amore (...) personale, (coincidente con) la condotta che Dio (...) assume nei nostri confronti”,865 elevandoci a Lui, alla situazione d‟Amore. Ciò che è l‟ordine della pace politica nella relazione naturale, è lo stato di Grazia nella relazione agapica. L‟incontro con Dio è personale, ma non soggettivo. Il significato di Cristo non è il mero annuncio della redenzione in Lui, né pure limitato all‟effetto concreto esercitato nei singoli e nella storia. Nel quale caso, “la redenzione viene sì considerata reale, ma di una realtà solo psicologica e culturale; il nucleo più autentico del cristianesimo diventa un fattore storico e viene pensato tramite le stesse categorie delle cose della storia”. Ma questa non è la concezione del Nuovo Testamento, secondo il quale la redenzione è un evento oggettivo, realizzato nell‟esserci reale della persona reale di Gesù Cristo. La redenzione non è fondata nella sfera della soggettività ma nell‟ordine oggettivo dell‟Essere, ovvero nell‟Essere così come esso è di fronte a Dio. La redenzione è un evento reale che ha dato una nuova forma alla
862
Ivi, pag. 460. Ivi, pag. 461. 864 Ivi, pagg. 462-463. 865 Ivi, pag. 463. 863
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storia e all‟esserci dell‟uomo (inteso nella sua totalità e nel suo rapporto con Dio) [che ha rinnovato la realtà dell‟Essere, uomo e mondo.] Il valore che questa totalità esistenziale ha assunto di fronte a Dio – ovvero la colpa dovuta al peccato, che ha portato l‟esserci in una posizione di integrale disaccordo con Dio – non è più presente come fatto determinato. La colpa, intesa come colpevolezza della totalità, viene tolta. La realtà dell‟esserci riceve una nuova impostazione oggettiva: in essa erompono, a partire da Dio, una nuova vita, un nuovo sistema di valori e una nuova modalità dell‟agire. 866
La Redenzione va dunque pensata come una nuova creazione: “in entrambi i casi si tratta di un atto che scaturisce dalla libertà di Dio e che ha come oggetto la totalità dell‟esserci”,867 e come scenario universale la storia, che perciò acquista un significato nuovo, che consiste nella realtà esistenziale di Cristo mandato da Dio.868 La persi-stenza di Cristo determina una svolta irrevocabile della storia, dando inizio a “una nuova forma dell‟esserci”, impostata sulla possibilità della salvezza.869 La Redenzione non va però intesa come una condizione automatica o magica, ma una situazione collegata alla libertà della persona, ossia alla posizione dell‟uomo nel mondo, resa difficile dalle resistenze mondane e dalla non corrispondenza degli effetti con la validità dei presupposti di verità. In questo senso, La redenzione si presenta nella forma di una contraddizione con il mondo e di un oltrepassamento del peccato. Essa è sin dall‟inizio scandalo (Aergernis) e stoltezza (Torheit) [in quanto] vuole togliere l‟esserci dalle sue origini “naturali” per dargli un nuovo inizio, il che esige che si accetti il rischio di una radicale perdita del Sé.870
La non corrispondenza tra salvezza ed effetti pratici elimina ogni nesso di causalità tra valori trascendenti e prodotti umani, così come pure tra parola e vita. La redenzione cristiana salva dunque dalla finitezza assoluta del mondo e dalle sue leggi di necessità, che nella sfera della rappresentazione
866
Ivi, pag. 466. Ibidem. 868 Ivi, pag. 467. 869 Ibidem. 870 Ivi, pag. 469. 867
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noetica sono rette dal principio di non contraddizione, che vincola gli oggetti del pensiero al loro significato razionale. La libertà spirituale in senso cristiano si esercita anche sul dominio della parola sulla coscienza umana, liberandola dalla servitù del Logos, ossia dalla rappresentazione naturalistica degli eventi nel loro rapporto causale. L‟avvento cristico rivela l‟inanità di ogni cambiamento di immagini del mondo entro la realtà finita, che non viene interessata dai cambiamenti strutturali delle sue forme istituzionali derivate dalle rappresentazioni ideali. Il rifiuto di Cristo di partecipare alla causa degli zeloti era conseguente alla consapevolezza divina che i cambiamenti socio-politici non mutavano i processi naturali fondamentali, che soltanto la libertà spirituale potrebbe superare. Infatti, la libertà spirituale rompe la necessità delle leggi naturali, che il pensiero antico identificava con quelle del discorso logico, costruito sulla coerenza dei nessi causali e fondato sul principio di non contraddizione, per il quale soltanto l‟Essere è reale, e perciò esso è Uno e Tutto, mentre quanto non sia riportabile alla sua unitaria essenza non esiste, è ni-ente. Solo il mondo apparente dunque, per la coscienza antica, aveva dignità di realtà, sicché soltanto il mondo naturale era la struttura normativa per l‟uomo, perché eterno e immodificabile dalla volontà umana. Con l‟irruzione della Rivelazione cristiana, la prospettiva muta l‟orizzonte noetico, per cui la fede in Dio relativizza ciò che per il pensiero antico era un valore assoluto, l‟Essere (del mondo naturale), introducendo nella realtà dell‟esserci la sfera trascendente, la realtà che “non è di questo mondo”, l‟aldilà. La coscienza della Differenza può allora de-finire il mondo entro i suoi limiti di finitezza, concependolo non più come il Tutto, ma soltanto come l‟aspetto visibile e transeunte di una totalità che rimane mysteriosa al pensiero della finitezza, quello razionale. L‟affermazione evangelica che la realtà non è solo quella del mondo naturale, destinato alla morte, implica che anche le sue leggi cosmiche non siano di validità assoluta, ma relativa alla dimensione finita. Da qui la critica del valore di verità custodito dal sapere filosofico, la cui pretesa diventa “follia” al cospetto della divina Verità rivelata da Dio, ossia che la legge che governa il mondo creato non sia quella del Logos ma l‟Amore, che è lo spirito di Dio e Dio stesso. La verità, pertanto, non ha fondamento nella parola (logos) che definisce l‟esistente, ma nella creazione che lo ama. Il concetto di Creazione e quello di Amore cristiano sono correlati e del tutto indipendenti dal principio di causalità efficiente e non contraddizione
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logica. La rivelazione della verità trascendente la finitezza del mondo naturale introduce la Differenza dove prima c‟era la causa, e la Libertà dove prima c‟era la Necessità, di necessaria consequenzialità. L‟Amore sposta su Dio la verità che la metafisica antica riponeva nel Nous umano, privando di ogni valore di verità il giudizio razionale del mondo sull‟animo umano. Il cristiano consapevole come Paolo “potrà persino rifiutare che il suo essere cristiano sia giudicato in base alle qualità osservabili della sua persona e della sua condotta [...], perché un tale giudizio è riservato esclusivamente a Cristo”,871 il Quale è l‟unico a conoscere l‟animo umano, la coscienza invisibile e l‟intenzione che la anima. La fede nella verità di Cristo esonera la coscienza dalla necessità di una legittimazione razionale del suo valore salvifico, spostando sulla coscienza il luogo simbolico della verità, prima assegnato all‟intelletto, e quindi emancipando l‟uomo da ogni filtro gerarchico di accesso alla verità, facendo della fede la chiave universale che non consentito essere alla filosofia, elettivamente esclusiva. Ogni uomo può, confidando in Cristo, essere persona spirituale. Rispetto a questa universale possibilità spirituale la cd. “libertà” di autodeterminazione dell‟uomo, confinata nelle determinazioni della volizione razionale, non è veramente libera, ma costretta a de-finirsi entro le forme della rappresentazione ideale, che non coincide mai con la realtà concreta, e contro le altre rappresentazioni della coscienza, ognuna delle quali esige la sua corrispondente effettualità reale. E quando si afferma che “la libertà del singolo finisce dove inizia la libertà dell‟altro”, si sostiene surrettiziamente che nessuna delle due è veramente libera di determinarsi, perché nessuna libertà crea il mondo secondo l‟immagine che ha di esso la coscienza. La libertà, che è identità di Essere e pensiero, nell‟uomo è solo quella interna alla sua coscienza, mentre in rapporto al mondo, la libertà si scontra con la libertà altrui, arrendendosi alla necessità della forza maggiore. Sicché si chiama “libertà” la volontà superiore che la vince sulla minore, per la quale la libertà dell‟altro più forte è “violenza”. La libertà della volontà è quella di negare razionalmente ogni differenza insussumibile nell‟idea che la coscienza soggettiva ha dell‟Essere; e poco importa se tale negazione sia legittima o non anche per la coscienza dell‟Altro: ciò che importa è che sia giustificata dalla volontà che la
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Ivi, pagg. 469 e 470.
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afferma, la cui razionalità è di essere la più forte nell‟affermare l‟Essere. Diversa è la nozione cristiana di Verità, che non si fonda sulla corrispondenza dell‟ente all‟Essere, ma sulla relazione dell‟intenzione umana con l‟Amore di Dio, che comprende ogni uomo e ogni realtà, anche quella esclusa dal concetto logico, persino il male e l‟errore per il giudizio dell‟uomo, ma che trovano comprensione nel giudizio di Dio, l‟unico interprete verace della coscienza umana. Ciò che è assurdo per la ragione è verità per la fede, la quale pone a fondamento di essa non l‟Essere ma il Mystero divino, che nessuna parola umana può de-finire, essendo trascendente ogni de-finizione, ma solo evocare per simboli. Da qui la forma simbolica della narrazione evangelica. Eè ovvio che stabilito un limite alla assolutezza della ragione, questa perde il suo valore universale per diventare solo scienza delle certezze relative alle sue premesse ipotetiche, cioè alle umane rappresentazioni del mondo. Il cristianesimo non introduce un nuovo linguaggio rispetto a quello della metafisica greca, ma offre, anzi rivela, un nuovo significato di verità, che non consiste più nell‟episteme, ma nella esistenza di Cristo, a cui si perviene non per percorso logico, ma per fede, la quale “non è affatto il risultato di riflessioni precedenti, né l‟univoca conseguenza di una serie di nessi causali percorribili a ritroso, bensì è essa stessa effetto del nuovo inizio e irruzione del nuovo; per questo essa si sostiene su se stessa”,872 e non su qualcosa di esterno. Il punto di vista cristiano non è relativo al mondo e perciò contingente, ma è “assoluto e capace di porsi di fronte alla totalità dell‟esserci: è l‟inizio di un nuovo esserci, nel senso più proprio del termine”.873 L‟esserci (Dasein) non è una totalità di elementi soggettivi in relazione, ma è la relazione stessa. La forma (Gestalt) della persona in senso cristiano non è la soggettività, ma la relazione spirituale con l‟Altro. La presenza dell‟Altro, che per ognuno in relazione è Cristo, costituisce un superamento della soggettività, cioè dell‟autismo teoretico, nella prospettiva della esistenza relazionale o persi-stenza, in cui non c‟è un Sé senza l‟Altro, così come non vi è una coscienza teoretica che non sia anche coscienza esistenziale. Nella prospettiva cristiana, la distinzione tra una
872 873
Ivi, pag. 470. Ibidem.
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sfera della soggettività teoretica e una della collettività pratica non ha senso, poiché non esiste una persona fuori della sua relazione spirituale con l‟Altro. L‟astratto Soggetto assoluto, trascendentale, del razionalismo “è” solo nell‟ambito della realtà della coscienza individuale, è il sum di quel cogito che per esserci si astrae dal mondo-della-vita, cioè da quella concreta esistenza sulla quale si fonda la relazione spirituale, la storicità in senso personale cristiano che la teoresi mette in epoché. Giungere al nuovo inizio esistenziale nella fede “non è l‟esito di un continuo progredire, o di un processo che si possa analizzare logicamente, ma di un percorso che coincide con Cristo e per la cui comprensione è del tutto appropriato richiamarsi alla conoscenza interiore”.874 L?interiorità agostiniana, cui fa riferimento Guardini, non è quella del nous parmenideo o del cogito cartesiano, ma allude alla presenza di Cristo come Amore imprescindibile per la relazione con l‟Altro; come la Grazia della fede in Lui, nell‟Amore. Il nuovo esserci non nasce dal nulla, ma dalla lotta col vecchio uomo, che stabilisce le sue relazioni col mondo attraverso l‟intuizione sensibile della realtà naturale. “L‟esistenza cristiana si costituisce quindi come una tensione polare tra ciò che si sa per esperienza immediata e ciò che va creduto per fede”,875 l‟in-visibile che per il giudizio razionale è ni-ente. Da una parte vi è il mondo, dall‟altra “la realtà che, nella Rivelazione, scaturisce dalla propria libertà”,876 intesa come emancipazione spirituale dalla necessità dell‟essere naturale. La realtà immanente della Natura e quella trascendente di Dio, indipendente dal mondo perchè originaria e non creata. In tal senso, “la nuova ed elevata dimensione che scaturisce dalla Rivelazione è più reale di tutto ciò che chiamiamo mondo”, essendo la “realtà”, non già la mera sussistenza dell‟esserci, “ma un superiore grado di effettività, una maggiore distanza dal nulla”, inteso come l‟impensabile alterità differente rispetto all‟Essere dell‟ontologia greca. Non vi è più, nella nuova dimensione esistenziale cristiana, relazionale, una radicale separazione della coscienza dal concreto mondo-della-vita, poiché “la vita cristiana passa dall‟ambito dell‟esperienza a quello della fede, e viceversa”, in una dimensione di integralità esistenziale nella quale la realtà non è sottoposta al giudizio dell‟astratta ragione dialettica, ma “il mondo è
874
Ivi, pag. 471. Ivi, pag. 473. 876 Ivi, pag. 474. 875
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compreso tramite la fede, che la vita cristiana cerca di mettere in pratica nella vita immediata del singolo”,877 essendo la fede vita di relazione, Amore. A fronte di questa rinascita dell‟uomo nella persistenzilità della persona spirituale, il mondo naturale o della storia profana procede nel suo ciclo mortale, privo della luce della Redenzione, che schiude dall‟alto la dimensione dell‟eterno che si insinua nella coscienza dell‟uomo come istanza di trascendenza del finito, e nella sua esistenza come motivo di relazione con l‟Altro, le cui scansioni vengono (da Agostino) sottomesse all‟economia della salvezza, in vista della quale anche gli imperi secolari appaiono comparse transeunti. Il mondo finito non rimane separato dalla città di Dio, ma trasvalutato alla luce dei suoi eterni valori di verità, di una spiritualità divina. La libertà della fede non è un fantasma della coscienza che riflette sulle mende della storia profana, e neppure una sorda resistenza alle pretese del Potere, riservando al culto lo spazio e il tempo della verità cristiana. Al contrario, la metanoia offerta e procurata dalla Grazia si riflette nel mondo come “il sale” della vita, cioè il senso (significato e direzione) stesso della esistenza, che smaschera l‟insufficienza delle soluzioni naturalistiche della sapienza razionalista, rivelando la natura spirituale dell‟uomo quale natura originaria,, rispetto alla quale le strutture della socialità politica sono espedienti fallaci di una conoscenza tarata dal peccato originale, che consiste appunto nella rimozione dell‟origine, dell‟oblio di un fondamento ben più radicale dell‟Essere. Non può assumersi un doppio registro di valutazione sulla qualità dell‟esistenza mondana. Si può anche continuare a vivere in un mondo infisso sui cardini delle leggi naturali, ma solo se la Rivelazione cristiana venga rimossa dopo la manifestazione del Salvatore dalla coscienza dell‟uomo, con l‟effetto non di affermare la credibilità del vecchio, ma solo di impedire l‟affermazione del nuovo, della persona spirituale. La coscienza risvegliata dalla Croce non può negare l‟oggettiva rinascita spirituale dell‟uomo se non delegittimando le trascendenti verità sul piano della sua rappresentazione onto-razionale, fondativa della legittimità dei
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Ivi, pag. 474.
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rapporti umani stabiliti sull‟esercizio della volontà, costitutiva di ogni forma di socialità e di coesistenza politica. Confermando la dimensione politica come quella naturale dell‟esistenza umana si legittima di conseguenza anche l‟antropologia che è alla base, quella naturalistica aristotelica, facendo della comunità ecclesiale cristiana un‟area di più o meno riconosciuta religiosità, ma priva di ogni effetto idealmente contaminante sul modello razionalistico, rappresentato come l‟unico “scientificamente” giustificabile, e dunque storicamente insuperabile. Questa neutralizzazione ideologica della visione cristiana dell‟uomo è stata resa possibile dalla posizione sincretistica della onto-theo-logia ecclesiastica, che si riflette a tratti anche in Guardini, il cui discorso conferma la sussistenza, su piani diversi, delle due modalità dell‟esperienza esistenziale, la cui coesistenza invalida proprio quel carattere “oggettivo” rimarcato dal teologo, che una verità minore, quella relativistica delle scienze naturali, non può offuscare. Tale sincretismo accomodante – che in campo idealistico tende a giustificare la legittimità della conoscienza scientifica sul piano della “utilità”, come se non fosse questo piano l‟unico dell‟orizzonte scientifico – è all‟origine di quella “doppia verità” che rende la Rivelazione cristiana una opzione noetica soggettiva, teoreticamente svalutata rispetto al sapere naturalistico, l‟unico in grado di adattare il mondo alle esigenze di vita umana, coinsentendo così all‟utilità del Male una pragmatica legittimità di empirico benessere, sul quale non a caso fa leva l‟Anticristo di Soloviev per accattivarsi il consenso universale. Senza avvedersi che assegnare alla volontà umana un ruolo di liberazione dalla Necessità costituisce un criterio che, per la sua astratta valenza universale, si può trasferire dal piano naturale a quello sociale, con ricadute rivoluzionarie devastanti sull‟ordine politico. Com‟è appunto avvenuto. 12. Il senso della trascendenza non può risiedere sullo stesso piano della realtà finita, che altrimenti lo tradurrebbe in valore omologato. La sua posizione rispetto al finito non è perciò dialettizzabile in forma oppositiva, ma mantiene una sua costitutiva alterità (Gegenueber) che non è definibile in termini logico-formali ma solo relazionali-esistenziali. In cosa consiste una tale alterità? Consiste nel superamento della condizione ontologica di finitezza, ossia della Finitudine, determinata sul piano metafisico dal pensiero della soggettività. Finito è il mondo (teoretico e pratico) del Soggetto, individuale e trascendentale, la cui costituzione ideale deriva dal suo presupposto naturalistico di autore imputabile di azioni a lui
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causalmente riferibili. La Trascendenza è superamento della dimensione della soggettività e trasposizione dell‟esperienza esistenziale e noetica dello uomo inteso come animal rationale dal piano della conflittualità dialettica e politica al piano della situazione mistico-relazionale. La relazione-con l‟Altro è una modalità interna alla Trascendenza della sfera della soggettività intesa come orizzonte ontologico di totalità dello Essere, per cui ogni prospettiva che assuma tale orizzonte ontologico soggettivistico, sia essa religiosa o sociologica, ricade sul piano della Finitudine, privo di Trascendenza e di vera Libertà, e legato invece alla Necessità della causalità, fenomenica e logica. La Trascendenza del Soggetto è pertanto sia del mondo finito e del suo orizzonte naturalistico, che del Logos che lo definisce nei termini della necessaria consequenzialità naturalistica. Naturale è la condizione mortale, che è singolare per definizione, mentre spirituale è la condizione d‟Amore relazionale, rivelata dall‟esistenza storica di Cristo, caratterizzata dal dono libero di Sé all‟Altro per la co-esistenza mistica del Noi, che costituisce la situazione di trascendenza della soggettività naturalistico-razionalistica e del suo vitalismo astratto, assunto come opposto alla condizione mortale, considerata extra esistenziale alla stregua del niente dialettico. L‟ammissione della realtà della Trascendenza consente la considerazione della Differenza indispensabile alla conoscenza della realtà finita trascesa. Infatti, solo chi, in un senso qualsiasi, si trova al di là del suo limite è consapevole di trovarsi all‟interno di esso, ne riconosce la natura di limite in generale [...]. Il concetto e la speculazione, la costruzione e il calcolo ci conducono al di là del mondo che noi possediamo, per così dire, nel pieno della realtà sensibile, e solo con ciò ce lo mostrano come un mondo limitato, ce ne fanno vedere i limiti dal di fuori. La nostra vita concreta e immediata definisce un ambito che giace tra un confine superiore e uno inferiore; ma la consapevolezza di ciò, il rendersene conto, dipende dal fatto che la vita, divenendo un qualcosa di astratto, che si estende ulteriormente, sposta in avanti o supera il limite, e ciò facendo lo riconosce come limite.878
L‟astrazione, come superamento del Sé, non perviene alla autentica
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G. Simmel, Transzendenz des Lebens in Lebensanschauung (1918), tr. it., MilanoUdine, 2021, pag. 31. Da ora TuL
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conoscenza, possibile soltanto attraverso la consapevolezza del limite che separa e nel contempo unisce la coscienza soggettiva e il mondo-della-vita. Il limite stesso è partecipe dell‟al di qua e del suo al di là, così l‟atto unitario della vita include l‟essere limitato e il superamento del limite, indifferente al fatto che ciò, pensato esattamente come unità, sembri comportare una 879 contraddizione logica.
La distanza tra l‟esserci esistenziale e la rappresentazione del mondo rappresenta lo sfondo problematico irrisolto di ogni contenuto di pensiero, la premessa scandalosa di ogni riflessione teoretica e di ogni volizione tendente, se non ad annullarla, quanto meno a conciliarla. Se la conoscenza è la sussunzione dei dati nelle categorie di pensiero, tali che ne diventino l‟oggetto, l‟omologazione di quei dati, la loro determinazione categoriale, non è però supportata da alcuna garanzia che il dato, offertoci per via sensibile o per via metafisica, entri anche realmente per intero nelle forme del nostro effettivo e definitivo conoscere, [sicché] il fatto che noi, in quanto esseri conoscenti e all‟interno stesso della possibilità del conoscere, possiamo concepire in generale l‟idea che il mondo non si esaurisca nelle forme del nostro conoscere, [e che noi] possiamo pensare una datità del mondo che appunto non siamo in grado di pensare – tutto ciò costituisce un trascendimento della vita spirituale oltre se stessa.880
Il superamento del limite dell‟orizzonte razionalistico-scientifico coincide col suo riconoscimento, ossia con il carattere fittizio e meramente convenzionale dell‟universalità delle forme categoriali, rispetto alle quali l‟ammissione del limite consegue “l‟infinitezza autentica del movimento della vita sul piano dello spirito”. In questo riconosciuto limite del proprio potere cognitivo “l‟Io soccombe a sé stesso mentre vince, vince mentre soccombe”, in una dinamica logicamente contraddittoria in cui il cosciente superamento è avazamento e chi supera è nello stesso tempo superato. Contraddittoria è la posizione antitetica dei due movimenti contrapposti, che in realtà si escludono a vicenda nel processo unitario della conoscenza, 879 880
Ivi, pag. 32. Ivi, pag. 33.
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ma non nella vita etica, dove il limite è ciò che va superato, tanto che “anche quale soggetto etico l‟uomo è l‟essere-limite che non ha limite”.881 In quanto processo vitale, la temporalità dell‟esistenza psichica non è scindibile in astratti momenti irrelati dal tutto diveniente, essa “vive oltre il suo momento presente”, custodendo in sé il futuro, che “è realtà” non meno del passato, sicché “la vita è effettivamente passato e futuro”. La vita ogni volta presente oltrepassa sé stessa, il suo presente costituisce un‟unità col non-ancora del futuro. Finché si mantengono separati, con rigore concettuale, passato, presente e futuro, il tempo è irreale, perché solo il momento presente temporalmente inesteso, e cioè intemporale, è reale. Ma la vita è quella peculiare modalità di esistenza per la cui fattualità questa separazione non vale; solo scomponendoli successivamente, seguendo uno schema meccanico, i tre modi temporali, nella loro separatezza logica, le sono applicabili. Solo per la vita il tempo è reale. [...] Solo la vita trascende nelle due direzioni il momento presente intemporale di ogni altra realtà e con ciò solo essa realizza l‟estensione temporale, ossia il tempo.882
Il legame del tempo con l‟Essere attuale del giudizio logico alla coscienza rivela la sua fragilità strutturale non appena lo si commisuri all‟esperienza dell‟esistenza storica, con quel mondo-della-vita che la contemplazione deve mettere in epoché per trarne l‟essenza considerata l‟unica “reale”, mondata di quel movimento negativo che ne inficia la chiarezza, ma che costituisce quella realtà ultronea non razionalmente visibile che però colma la vita d‟oltre limite di quella realtà informe che del giudizio costituisce il contenuto. Simmel, dunque, coglie la “situazione antinomica” della vita, che contrappone il suo flusso vitale dalla singolarità degli individui, considerati “esseri compiuti, centrati in sé stessi, inequivocabilmente separati l‟uno dall‟altro”,883 e vede l‟essenza della vita nel suo fluire ininterrotto e nel contempo [nell‟essere] qualcosa di definito nei suoi soggetti e nei suoi contenuti, qualcosa che ha preso forma, si è individualizzato intorno a un nucleo centrale e perciò, visto nell‟altra direzione, una struttura
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Ivi, pag. 34. Ivi, pagg. 37 e 38. Ivi, pag. 38.
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sempre limitata che oltrepassa continuamente la propria limitatezza.884
Simmel riconosce il carattere simbolico della sua “categforia del trascendimento della vita oltre sé stessa”,885 ma non ne coglie tuttavia la ragione, che risiede nel carattere naturalistico del Soggetto di coscienza, che egli pone alla stregua di un individuo biologico “compiuto”. Non è dunque “la vita” l‟orizzonte della trascendenza, ma bensì l‟esistenza umana, cosciente di sé come persona la cui soggettività è naturalmente finita ma spiritualmente trascendente. Infatti, ciò che è trascendente rispetto alla vita è lo spirito, ossia l‟esistenza umana alla luce della Verità, che è eterna rispetto alla vita biologica, legata al destino di morte di ogni essere naturale. La vita naturale non può trascendersi, ma solo durare; e la durata è appunto il prolungamento temporale di un vivere comunque destinato individualmente a finire, smentendo la presunta compiutezza umana. Solo la esistenza spirituale può trascendenre la vita naturale, la sua destinazione mortale, costituendosi rispetto ad essa come la realtà vera rispetto alla realtà illusoria fondata sull‟apparenza sensibile. Non è spostando il limite della durata temporale della vita naturale che si riesce a cogliere per empiria la conoscenza del finito cui tende la ragione scientifica, ma trascendendo la Finitudine come orizzonte ontologico, ponendosi oltre la soglia del limite, che coincide con il limite stesso della ragione umana. In tal senso, il passaggio spirituale coincide con un atto di umiltà intellettuale. La perdita di una completa autodeterminazione dell‟individuo bio-psichico, compreso nell‟orizzonte biologico come suo supposto elemento organico, viene compensata spiritualmente da una compiutezza esistenziale, inpossibile nella vita naturale, in quanto nessuna complementarità può stabilirsi in natura tra l‟esistenza dell‟uomo e l‟habitat locale, come invece avviene nelle altre specie viventi, le quali, diversamente dall‟uomo, non necessitano per vivere di alcuna fruizione tecnologica strumentale. Ogni adattamento umano all‟ambiente naturale comporta comunque l‟utilizzo di una mediazione tecnologica che superi in qualche modo e mai completamente il divario tra uomo e Natura, a segno della insopprimibile eterogeneità tra i due elementi. Solo in ambito spirituale si può ottenere invece quello stato di compiutezza reciproca tra persone in relazione, ed è
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Ivi, pag. 39. Ibidem.
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l‟istanza di compiutezza spirituale a spingere l‟uomo, non alla impossibile integrazione nel contesto biologico, ma alla sua trascendenza, al passaggio a un piano in-naturale, quello appunto spirituale, dove è possebile conseguirla con un suo simile, come lui mancante. In tal senso, l‟uomo, in quanto essere spirituale, non è mai un individuo singolare, ma sempre una persona in situazione di relazione-con. Nell‟uomo non vale la costituzione soggettiva a cui riportare l‟Essere, in quanto nell‟uomo non opera la realtà dell‟Essere dell‟ontologia naturalistica, che vale per la conoscenza della realtà bio-fisica, ma si dispiega la situazione dell‟Esistere, che si svolge come persistenza storica, di una temporalità vissuta dallo spirito vivente. Nell‟auto-coscienza del cogito, la persona spirituale distingue il Soggetto naturale dall‟autentico Sé, e ne fa il suo oggetto di pensiero. Il sum della coscienza di Cartesio è l‟oggetto del cogito, il quale rimane sempre distinto dalla persona spirituale, che non deriva da una conseguenza logica o dallo elemento residuale di una riduzione fenomenologica, ma si rivela nella situazione di relazione, in quanto mystero a sé stessa. E non perché l‟uomo si sdoppi nell‟esistenza, ma perché la coscienza di qualcosa, compreso quella di sé, non può riguardare che l‟elemento finito, l‟unico che il pensiero possa de-finire. Il pensiero, che è coscienza del finito, non può pertanto definire ciò che lo trascende, lo spirito, che si pone su un piano di in-finitezza trascendente il finito e lo stesso Soggetto. “L‟autotrascendenza spirituale della vita si manifesta nella coscienza dell‟Io [come coscienza della coscienza dell‟Io]”,886 che è la coscienza dell‟Altro. L‟essere dell‟Io, il sum, è il pensiero dell‟Io, il cogito, la sua coscienza intuitiva, che dunque è diversa dallo stesso Io finito, e che lo trascende. La coscienza trascendentale, finquando e in quanto è legata al suo oggetto finito, è una coscienza finita e non solo del finito. Perciò la coscienza finita non può conoscere sé stessa; conoscenza che è riservata alla coscienza dell‟Altro, trascendente la soggettività del Sé formalmente conosciuto. Come scrive Simmel, “la forma è individualità”. La forma, dotata di questa sua unicità metafisica, rende l‟esemplare materiale da essa forgiato un esemplare individuale, designabile per sé, differenziato dsa altri esemplari formati diversamente. [La forma dunque è in antitesi con il fluire della vita, il cui progredire lotta contro] la fissità storica e la rigidità
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Ivi, pag. 39.
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formale del contenuto di cultura ogni volta presente, diventando quindi il motivo più profondo della trasformazione culturale. 887
La dinamica conservazione formale / trasformazione vitale cela il motivo propulsore, l‟intima legge di necessità, propria della Natura finita: la mortalità. “La morte è insita nella vita sin da principio”, sicché la vita “può esistere solo in quanto è più-vita”, eccedenza di Eros e di Agaton; infatti, “già l‟autoconservazione fisiologica è produzione continua di nuova vita, [e] solo così facendo la vita è appunto vita”, ossia ciclo biologico, che però declina inesorabilmente verso il suo esito necessario, la morte.888 La vita travolge ogni forma determinata “in quanto forma”, e in quanto vita essa “non può in nessun modo esaurirsi nella forma”, affetta com‟è “da questa contraddizione”, per la quale se per un verso “essa può trovare ricetto solo in forme, neppure può trovare ricetto in quelle forme, per cui oltrepassa e infrange ogni forma prodotta”, per cui è inevitabile concludere che “la vita immediatamente vissuta è appunto l‟unità tra essere-formato e aspirare-oltre, è fluire oltre la forma in generale, [cioè è] più-vita rispetto a ciò che ha spazio nella forma di volta in volta ad essa data, da essa stessa sviluppata”.889 Rispetto al processo dialettico hegeliano, il vitalismo simmeliano ascrive la dinamica a una eccedenza energetica che la rende inquieta come un‟anima imprigionata in una struttura formale che le va stretta e da cui evade incessantemente per ritrovarla in altre forme contingenti e momentanee. Questa rappresentazione della vita come la “estrema oggettività a cui noi come soggetti spirituali possiamo giungere direttamente”, in quanto costituisce “quell‟essere [terzo] che si trova fra la coscienza e l‟essere in generale” e che come tale “è il concetto superiore e il dato di fatto superiore rispetto alla coscienza”, non è, come intende Lukàcs una “irrazionalistica zona intermedia pseudo-oggettiva che non solo consente ma promuove
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Ivi, pag. 43.
Ivi, pag. 45. Ivi, pagg. 46-47.
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un‟illimitata preponderanza della soggettività”,890 bensì è il tentativo di recuperare alla coscienza quella realtà del Negativo che la ragione esclusiva sacrificava alle sue determinazioni formali, e che invece si rivelavano essere la componente rimossa ma insopprimibile dell‟esperienza umana vissuta, prima e oltre ogni legislazione formale, che perciò andava rivista in senso inclusivo del mondo-della-vita, e che Simmel indica come trascendenza spirituale. “Le nostre rappresentazioni e conoscenze, – come egli scrive - i nostri valori e giudizi, con il loro significato, la loro intelliggibilità oggettiva ed efficacia storica, stanno del tutto al di là della vita che li ha creati – è questo appunto l‟elemento che cointrassegna la vita”, la quale, nel suo valore spirituale, “produce qualcosa di autonomo, dotato di un significato proprio”.891 La condizione di autonomia è quella della Trascendenza, che non può assegnarsi come costitutiva del Soggetto, in quanto la sua coscienza è immersa nel processo vitale, che esprime, esso e non la coscienza, quella dimensione oggettiva che invano si cerca nella forma del pensiero razionale. Solo una posizione ontologica assoluta rispetto a ogni considerazione della realtà effettuale del Negativo può assumere l‟istanza di trascendenza di Simmel come motivo irrazionalistico e idealistico, laddove essa cercava l‟espressione di un più consapevole e maturo pensiero della storicità, che dietro il formulario vitalistico confermava implicitamente il carattere insuperabilmente tragico della esistenza umana; una tragedia che nessuna forma ideale poteva rimuovere. Guardini di ciò era consapevole citando la posizione di Heidegger, secondo il quale “la conoscenza decisiva dell‟Essere [des Seins], quella che fonda la verità della coscienza, si rende possibile solo quando tale essere viene considerato in presenza del nulla. Ciò viene nel vissuto della angoscia”.892 Se l‟angoscia è un‟Erlebnis, un vissuto, il Nulla è una realtà positiva, una vivente polarità rispetto alla positività dell‟Essere, che deontologicamente cerca di affermarsi. Ma se l‟Essere e il Nulla si contendono la realtà dell‟uomo, entrambi sono angoscianti, poiché nessuno dei due può da solo costituire il Tutto che ricerca la coscienza. L‟esserci non dà alcuna contentezza fuori della situazione di relazione (mit-sein). “L‟esserci creato
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G. Lukàcs, Die Zerstoerung der Vernunft (1954), tr. it., Torino, 1959, vol. II, pag. 446. La cit. di Simmel è dai Fragmente und Aufsaetze (1923) riportati da Lukàcs. 891 G. Simmel, TuL, pag. 48. 892 R. Guardini, L’uomo, cit., pag. 494.
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da Dio era sì finito, ma era anche in un continuo rapporto con la grazia e con l‟amore, [sicché] costituiva con Dio un‟unità che oltrepassa tutte le categorie del pensiero dopo la caduta”.893 Ciò implica l‟incompiutezza esistenziale dell‟uomo dopo la caduta, allorquando l‟unità divina si è infranta e “la finitezza è divenuta mera finitezza”,894 ossia realtà naturale destinata alla morte. Trascendere la condizione finita e vincere la condizione mortale è tutt‟uno. L‟esserci dunque dell‟uomo in quanto uomo è una condizione di caduta nella finitezza, e pertanto non originaria della creazione divina, ma conseguente alla colpa per la scissione della relazione con Dio. L‟angoscia è soltanto la coscienza di tale finitezza, che è costitutiva dell‟esistenza umana naturale, che chiamiamo “vita”, sospesa verso la Morte. La vita naturale non è “reale” rispetto alla esistenza spirituale, perché astratta dalla relazione d‟Amore, che è la condizione compiuta originaria. L‟uomo non è sempre angosciato per la sua condizione individuale perché non sempre ne è consapevole, persistendo in relazione con altri uomini o con Dio. L‟angoscia interviene quando la rottura si fa esistente e la condizione individuale nella sua nuda fattualità, quando cioè essa appare irrimediabile. Lo stesso pensiero del mondo come realtà in sé, come universo fisico, provoca l‟angoscia della fragilità umana di fronte alla potenza infinita del cosmo, legata alla sua spirituale estraneità da essa. La vita naturale dell‟uomo, compresa nella sua insuperabile necessità, non rappresenta la sua situazione “normale”, tant‟è che la sua condizione eccezionale viene avvertita come angosciante. La conversione (Umkehr) indicata dal Nuovo Testamento “non è solo una mutata disposizione d‟animo” utile a “cambiare la propria vita”, ma costituisce una “svolta” (Umwendung) del pensiero che “consiste nel cercare i criteri del vero e del falso non più sulla „seconda natura‟ che si è instaurata dopo il peccato, bensì nella rivelazione o, più esattamente, nella esistenza (Existenz) di Cristo”,895 che in sé compendia il modo d‟essere della persona nella Grazia, ossia quell‟esserci eterno che ha superato la solitudine della frattura spirituale. Con Cristo il senso dell‟esistenza umana giunge al suo significato ultimo, escatologico, che è anche il primo, anteriore al tempo
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Ivi, pag. 495. Ivi, pag. 496. 895 Ivi, pag. 497. 894
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del peccato; a quella pienezza del tempo (Fuelle der Zeit) in cui l‟esserci “emerge dalla condizione generale del peccato, dal percorso precedentemente compiuto dall‟umanità, dalla storia e dalla rivelazione del Vecchio Testamento”, pervenendo alla coscienza che “il regno di Dio è arrivato e vuole instaurarsi”. Il Regno di Dio è appunto la trasformazione dell‟esserci grazie alla forza del Pneuma.896 La condizione pneumatica supera anche, con l‟angoscia del singolo, l‟esperienza dell‟esserci che sente la precarietà del mondo, la distanza dalla coscienza che anela alla compiutezza e che la tecnologia cerca invano di colmare attraverso la conoscenza sempre più avanzata della Natura. La conoscenza razionale della Natura e dell‟anima non cessa di progredire ed è convinta, nel suo fondo, di poter ricondurre tutto ad elementi ultimi integralmente comprensibili. Alla conoscenza razionale corrisponde un‟analoga potenza: l‟arte dell‟agire finalizzato, la tecnica, che rende l‟uomo ampiamente indipendente dalle condizioni date dall‟esserci, [permettendogli di superare i suoi ostacoli e di conseguenza di conseguire i suoi fini]. L‟esserci perde il carattere del mistero e il senso del destino, e diviene qualcosa che può essere calcolato, pianificato e piegato alla propria volontà.
Così che la “responsabilità per il mondo” può passare da Dio all‟uomo, e la stessa Provvidenza alla “giurisdizione degli uomini”.897 Il controllo tecnico del mondo, la cui “cura” (Sorge) si può limitare all‟ambiente immediato ovvero estendersi indefinitamente, tende a conseguire la conversione universale della materia a oggetto della forma ideale, così come viene concepita dalla coscienza razionale, la quale, per le sue pretese ontologiche totalitarie, crede di poter pervenire a colmare la distanza tra Essere e pensiero, la cui constatazione desta la meraviglia (thauma) del filosofo. La concezione naturalistica sviluppa una visione materialistica e biologistica dell‟uomo che “non lascia spazio all‟elemento escatologico”,898 il quale presuppone una concezione relazionale dell‟esistenza e metafisicamente dualistica, incentrata sulla Differenza, e non sull‟unità ontologica, sicché “l‟elemento escatologico svanisce anche quando l‟essenza dell‟uomo viene
896
Ivi, pag. 518. Ivi, pag. 501. 898 Ivi, pag. 508. 897
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fatta coincidere esclusivamente con lo spirito, come [appunto] accade nel razionalismo e nell‟idealismo critico”.899 Perché si possa cogliere il senso escatologico dell‟esistenza occorre considerare la totalità, che è solo nella realtà spirituale, e non nei limiti della sola ragione, che rassicura del momentaneo controllo pratico del mondo; viceversa, “lo spirito è propriamente la capacità di oltrepassare i confini di ciò che è sicuro”,900 sconfinando nel Mystero che è la realtà che stabilisce la Differenza.
Soltanto la coscienza della Differenza può suscitare l‟intuizione della totalità spirituale, che non coincide con i confini della metafisica razionalistica. “Il contesto salvifico della rivelazione non è la metafisica ma la storia”, in cui si inserisce “l‟intera esistenza di Gesù”, la cui “novella sovverte il precedente ordine di valori”, in quanto la Sua persi-stenza “dà esecuzione a un giudizio (Gericht)” che non riordina l‟esistente in una modalità prospettica relativamente più compatibile con la visione corrente del mondo, ma “compie la frattura” tra antico e nuovo ordine, che non mette in discussione una tradizione metafisica o teologica, ma “il reale destino dell‟esserci”. Non a caso, “la novella del regno viene avvertita come estranea e sia i potenti che il popolo la rifiutano”,901 destinando il Salvatore al calvario. A questo punto sorge la delicata questione della mancata instaurazione del Regno di Dio nella storia. Partendo dalla certezza di fede che “il regno di Dio modifica il suo rapporto con il mondo e apre un altro ordine di possibilità”, le attese messianiche di una “instaurazione diretta e aperta” del Regno, sfumando, rendono “superata” la “prima situazione escatologica”, determinando la credenza per cui, al posto di “un‟irruzione creatrice, che sovverte il mondo in una sola volta”, si attende la sua attualità “laddove e nella misura in cui la decisione del singolo, o la presa di posizione di un piccolo gruppo, o ancora le caratteristiche dell‟epoca lo renderanno di volta in volta possibile”, interpretando la sua storicità nei meri termini “di una
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Ivi, pag. 509. Ivi, pag. 509. 901 Ivi, pag. 519. 900
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possibilità costitutiva, che si offre fino alla fine dei giorni”.902 Questo ritenimento teologico conferma l‟incomprensione della portata storica della Rivelazione cristica nell‟ambito suo proprio, che è quello spirituale, e non politico-istituzionale o latamente sociologico. La storicità dell‟evento escatologico non va intesa come trasformazione rivoluzionaria degli assetti tradizionali, secondo una declinazione gnostica della salvezza, ma come una “svolta” (metanoia, Umwendung) del pensiero che sposta il referente normativo del senso dell‟esistenza personale, della persi-stenza, dal Soggetto, singolare o collettivo, che si relaziona al mondo attraverso l‟opera della volontà trasformatrice della Natura in senso coerente alla immagine che della sua realtà ne ha la coscienza razionale, alla persona dell‟Altro, la cui esistenza mysteriosa trascende l‟immagine della sua vita biologica e la stessa immagine che la coscienza soggettiva ha sulla base dei suoi atti volitivi. Ciò che rileva, sul precipuo piano spirituale in cui si pone la coscienza cristiana della persona, non è il comportamento dell‟uomo col mondo naturale, ai fini della sua adattabilità alla vita; ciò che invece rileva cristianamente è l‟atteggiamento intenzionale che la persona assume verso l‟Altro, al fine non già di asservirlo in senso hegeliano, oggettivandolo come ente di pensiero, disponibile al dover-essere elemento dell‟Essere, con le conseguenze politiche di legittimazione del Potere dell‟uomo sull‟uomo, ma di rivelarlo a sé come destinatario del proprio Amore e tramite dell‟Amore di Dio. In altri termini, il Regno di Dio coincide con il riconoscimento dell‟esistenza storica e simbolica di Cristo come modello esistenziale universale, in quanto la figura di Cristo è l‟Amore di Dio nella esistenza umana, e non nella forma della sua rappresentazione concettuale. La fede in Cristo è la considerazione dell‟Altro, il prossimo, “come sé stesso”, cioè al posto del Sé soggettivo, così come il Dio-Amore si è insediato dove in origine c‟era il Verbo, cioè il Logos razionale. L‟oggettività della Rivelazione consiste nella sperimentata impraticabilità di ogni struttura esistenziale e socio-politica, per quanto razionalmente elaborata, fondata su un‟antropologia naturalistica, che destina alla rovina ogni isttuzione storica astratta dalla verità sull‟uomo. La Rivelazione della verità trascendente elimina dalla coscienza umana il limite dell‟ignoranza derivata dalla natura stessa della sua intelligenza finita, sollevando l‟uomo dalla sua mancanza originaria conseguente al peccato. La “decisione”
902
Ivi, pag. 520.
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(Gericht) è la stessa fede nella Rivelazione. Va precisato che la fede nella verità rivelata non è un‟opzione facoltativa, ma decide dell‟esistenza dell‟uomo e del corso della storia, che giungono alla salvezza o la mancano in base al fine che li sostiene e li motiva, cioè all‟intenzionalità d‟Amore. Non c‟è salvezza fuori della Rivelazione della verità, e propriamente neppure storia della persona spirituale, persistenzialità, ma solo fenomenologia dell‟errore, che è vita irrelata da Dio. Il rapporto tra uomo e Dio è decisivo della verità dell‟esistenza umana. Infatti, aver rinnegato Cristo, non riconoscendo la sua Rivelazione, equivale ad aver mancato il Regno terrestre, ossia di riconciliarsi con Dio tramite Cristo. L‟elezione individuale della santità, fuori del Regno, è martirio, sofferenza sotto la legge di una ragione finita viziata dalla colpa di rinnegare Dio per la seconda volta, nonostante la Sua rivelazione come uomo, la Sua kenosis antropomorfica. Non riconoscere Cristo significa non volere la riconciliazione con Dio neppure se Lui si presenta come Verità, così com‟è, cioè Amore, anziché Signore del mondo. L‟uomo che rinnega Cristo respinge non solo i dettami di Dio, ma la Verità, scegliendo all‟Amore il destino naturale di morte. Con Cristo muore la possibilità di edificare il Regno dell‟Amore al posto del dominio () di Satana, che ogni cosa destina alla Morte. Qual è il rapporto tra Satana e la Morte? Se l‟Amore deve incarnarsi per parteciparsi all‟uomo, anche il Male non può sussistere senza una relazione con la realtà finita. Dio manifesta il suo Amore partecipando dell‟esistenza dell‟uomo entrando in relazione con la sua persona, mentre Satana, signore del mondo naturale, ha con le creature che l‟abitano una relazione mediata dalla Morte, che è il corrispondente destino della vita biologica di ciò che è l‟Amore per la esistenza spirituale. Il Regno di Dio non è una potenza mondana che combatte per l‟esistenza contro altre analoghe potenze avverse, e non è neppure la dottrina di un “altro modo di vivere”, concorrente alle tante rappresentazioni analogiche del mondo ideate dalle culture storiche dell‟umanità; esso non rappresenta la vita naturale dell‟uomo trasvalutata in esistenza spirituale, proprio perché non è una religione, sia pure dell‟Amore, così come lo è la filosofia, ma è fede in una Persona che indica con la Sua esistenza storica la vita per vivere nella verità, che è relazione d‟Amore, unità spirituale finalizzata al disvelamento del mystero della vita dell‟uomo, salvandolo dal destino della mortalità, che caratterizza la vita biologica degli essi di natura. L‟uomo può pervenire all‟identità di verità e pensiero liberandosi del feticcio dell‟Essere la mitica entità originaria onnicomprensiva da cui tutto muove e a cui tutto
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torna, sostituendolo le sue vestigia naturalistiche con la immagine della Verità di Dio, che è Cristo. Alla credenza ontologica la Rivelazione oppone la Verità divina ed eterna, la vera fede, non basata, come quella ontologica, sulla potenza della volontà di trasformare il mondo secondo l‟immagine del pensiero, ma sulla intenzionalità della trascendenza della propria natura nel riconoscimento dell‟Altro come presenza simbolica e creaturale di Dio.non c‟è mediazione tra errore e verità, tra fede nella potenza finita e nella trascendenza agapica. Non si tratta di spostare in un indeterminato futuro la realtà della Verità, la sua effettualità esistenziale, ma di accoglierla come rinascita del senso dell‟esistenza nella luce dell‟eternità. Il dialogo col mondo dell‟errore, che la Rivelazione era venuta a denegare, è comuinciato, come abbiamo visto diffusamente supra, con l‟elaborazione teologica della Rivelazione come dottrina metafisica, accogliendo il suo Logos come lo strumento della rappresentazione della verità cristiana, come se il cristianesimo fosse un ideale, una immagine religiosa del mondo e la professione di una credenza teoreticamente più giustificabile in base alle stesse regole del linguaggio razionale della scienza epistemica. È pure vero che la predicazione evangelica non poteva che avvenire in un linguaggio umano, ma non era nella parola il senso univoco della Rivelazione, quanto nell‟esistenza esemplare di Cristo, che doveva essere imitata ancor più di quanto la Sua parola andasse ripetuta, poiché non la parola, il linguaggio del Logos, rappresentava l‟orizzonte di senso della rinnovata coscienza cristiana, ma la relazione di fusione d‟Amore della persona con l‟Altro, che trascende la temporalità del divenire nella conpresenza del comune spirito di verità. L‟adozione del linguaggio della ragione finita, accolto come Logos anche divino, ha consentito la trascrizione della verità cristiana in dottrina metafisica, nell‟acquietante consolazione che “verrà un tempo in cui la verità sarà svelata e sarà eretto il giusto ordinamento”,903 lasciando supporre che la vera rivelazione non fosse quella di Cristo ma di una evidenza di tipo razionale o politica: un convincimento dottrinale o un‟affermazione di potere istituzionale, che sono “modalità in cui il nostro pensiero può cogliere e ordinare l‟essere”904 inteso come totalità ontica (das Seiende). La questione derimente è che l‟Essere pensato come fondamento di ogni discorso metafisico sul mondo e
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Ivi, pag. 522. Ivi, pag. 524.
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sulla stessa realtà umana, alla luce della Verità rivelata, è un mitema, una mera rappresentazione ideo-logica, sulla credenza della quale si è venuto a costruire la narrazione filosofica e scientifica del mondo. L‟autocoscienza cristiana è fondata sulla Rivelazione, la quale “afferma un inizio radicale”, ossia un atto di creazione che non è scaturito da alcun precedente e a cui si partecipa solo in modo esistenziale, pensando anche al mondo come a una creatura creata come “io stesso lo sono stato”.905 La comune condizione creaturale riporta anche la Natura a uno stato di dipendenza da Dio, che l‟uomo però non può considerare intrinsecamente, mentre questa consapevolezza rende il suo rapporto con la Natura, avvertendosi come “parte integrante del tessuto complessivo delle cose” che culmina con la sua coscienza spirituale, che inerisce al rapporto che l‟uomo ha con Dio.906 Questa duplice fisionomia esistenziale dell‟uomo, volta per un verso al rapporto con la Natura e per l‟altro al rapporto con Dio, prefigura il carattere tragico della coscienza umanae della sua esistenza storica. Il rapporto che l‟uomo ha con la Natura è simmetrico a quello che egli ha con Dio, rivelando in entrambi i casi la posizione umana nel cosmo. Riguardo alla Natura, se essa fosse una totalità indipendente dalla spiritualità umana, questa agirebbe contro-natura nella sua pretesa di prevalere sull‟ordine naturale spontaneo, imponendo al suo posto la propria immagine del mondo. Invece, la Mancanza umana – ossia la distanza che la separa dall‟ordine naturale – è la coscienza critica della Mancanza della intera Natura, la quale dipende dalla coscienza dell‟uomo come questa dalla coscienza di Dio. Il mondo naturale non sa del suo destino di morte e non può perciò redimersi dalla sua condizione, laddove l‟uomo può farlo in conseguenza della Rivelazione, che svela la sua originaria condizione spirituale, che è ragione della sua distanza dalla condizione naturale. L‟uomo, prima della Rivelazione, a causa della caduta per il peccato, credeva di appartenere alla Natura, nella quale cercava di integrarsi assumendone le leggi universali, ma la Verità gli ha indicato una destinazione diversa da quella delle cose del mondo, che rende la libertà umana inderivabile dalla libertà sostanziale che ha destinato il mondo naturale a divenire, senza mai raggiungere la coscienza di sé come Essere. L‟idea stessa di Essere, come modello di mondo, rivela all‟uomo la sua
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Ivi, pag. 528. Ibidem.
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diversità dal mondo naturale, che vive nella sua inconsapevole finitezza, ma la dipendenza spirituale che l‟uomo ha da Dio si rivela prendendo coscienza che l‟Essere naturale, non solo non è effettualmente identico al pensiero umano che lo pensa, per cui si richiede un‟opera di adattamento del mondo alla coscienza che ne ha l‟uomo e che rappresenta lo stesso sforzo della civiltà, ma che l‟Essere, non essendo l‟origine di tutto, non è neppure Tutto il pensabile, esistendo altrove un altro Regno, che è di Dio. La Finitudine in cui si vede l‟uomo, dopo la Rivelazione diventa una scelta esistenziale, non più una necessità di natura, e la sua consapevolezza in vista del superamento spirituale si manifesta oltre l‟originario patto con Israele a tutto il genere umano. L‟instaurazione del Regno di Dio sorto dalla decisione di fede in Cristo segna la fine della condizione umana naturale e la rinascita spirituale nella persona. In senso cristiano, la fine “non è un processo naturale scientificamente indagabile [ma] è piuttosto un atto che scaturisce dalla libertà e trova fondamento in se stesso”.907 Libertà di Dio, ma anche della coscienza personale dell‟uomo in relazione con Dio. L‟atto d‟Amore, dunque, nella sua assolutezza, è nel contempo una fine e un inizio, e perciò libero, come mai si è sentito il pensiero onto-logico che immaginava l‟identità con l‟Essere; e soprattutto come mai si è sentita la volontà umana nell‟opera di trasformazione del mondo in coerenza alla sua immagine ideale. La libertà vera è solo spirituale, nella relazione d‟Amore, in cui ciò che la coscienza crea l‟esperienza vive nella esistenza finalmente completa, che ha superato la Mancanza pervenendo a uno stadio di coscienza in cui il tempo si concentra nell‟attimo di un presente assoluto, ben più vero di quello del giudizio, che “non può essere colto da un punto di vista logico”, poiché la sua scansione non è misurata dalla durata del “punto tramite cui ciò che non è ancora trapassa in ciò che era”,908 ma dalla intensità dei momenti, ognuno dei quali si costituisce come eterno nella sua assolutezza. L‟eterno, infatti, non ha a che fare con il tempo, ma è ciò che sta a sé assolutamente, come un atto di creazione dell‟Amore che coinvolge non l‟individuo fisico, ma la persona spirituale, il cui rapporto con l‟Altro “non si istituisce semplicemente e in maniera naturale ma scaturisce da una libera decisione”, che è quella della nuova esistenza, rigenerata dall‟Amore. In tal senso, “l‟eternità è una dimensione esistenziale, un modo d‟essere al
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Ivi, pag. 530. Ivi, pag. 532.
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quale la persona arriva solo attraverso la decisione”909 nei confronti dell‟assoluto, cioè della Verità. Il presente è l‟attimo in cui cade questa decisione, che è l‟incontro con Cristo, che avviene nella “situazione” predisposta dalla Provvidenza, che è la storia spirituale della personalità, intesa come umanità rinata spiritualmente nella fede cristiana; il suo racconto. “Se si vuole dare una rappresentazione complessiva dell‟esserci cristiano non lo si deve fare nella forma di un sistema, bensì in quella di un racconto”,910 il vangelo della vera Storia dell’oltre-Uomo divino. Il mystero della persona è legato alla sua realtà spirituale, che la mette in relazione con l‟Infinito, che a sua volta, nella relazione, non è un Assoluto, ma l‟alterità trascendente la finitezza, e dunque l‟Altro che non è finito. L‟infinità dell‟alterità trascendente è il Negativo relativo alla totalità dell‟Essere onto-logico, ossia la totalità me-ontica. Se la relazione fisico-meccanica tra elementi finiti e de-finibili ha un alto tasso di prevedibilità fattuale, sulla quale la conoscenza scientifica basa le sue certezze metodiche, la relazione spirituale non è prevedibile né accertabile in quanto si instaura tra realtà, una delle quali, la persona umana, è esistenzialmente indeterminata, storica, mentre l‟altra, Dio, è infinita in quanto trascendente. Da qui la difficoltà di definire in senso concettuale e dottrinale i contenuti della predicazione evangelica senza assegnare a una determinata interpretazione un carattere dogmatico, relativo a una scelta tra varianti ermeneutiche possibili, e con ciò assegnando ai suoi contenuti spirituali una forma oggettiva che ne trasfiguri il senso simbolico in termini metafisici, esponendoli così a una riduzione ontologica che la fede trascendente dovrebbe invece superare per affermare la sua verità alternativa a quella razionalistica. Fra tante soggettive rappresentazioni della realtà del mondo, la definizione logica trasceglie quella conforme al criterio d‟ordine eletto teoreticamente come “vero”, ascrivendolo come comune, cioè universale. Ma in questa scelta elettiva è implicita una istanza deontologica, che è quella del Potere che governa il molteplice portandolo a unità razionale, cioè la volontà di Cesare, la cui “verità” logica è ben differente dalla Verità del regno di Dio. La rappresentazione (Darstellung), diversamente dal concetto logico, non sussume una molteplicità di enti astratti dalla loro concreta particolarità,
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Ivi, pag. 534. Ivi, pag. 539.
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che nel caso dell‟uomo è esistenziale, ma la conserva senza omologare la loro diversità a una essenza ontologica comune, consentendo così la reciproca relazione mysteriosa e problematica, come ogni relazione libera, ma perciò non determinabile causalmente. La differenza tra una rappresentazione narrativa e un concetto logico è che la visione rappresentativa lascia sussistere la molteplicità della concreta realrà del mondo-della-vita, sia pure stilizzandola in forme esistetiche simboliche, lasciando impregiudicata la loro problamatica coesistenza, senza avanzare la pretesa di uniformare il diverso al modello per serrarlo in una coerente immagine universalistica, confermativa l‟astratta unità dell‟Essere, comprensivo di una supposta totalità ontica, che in realtà è solo il costrutto formale di un presupposto ideale. La rappresentazione del mondo, diversamente dal theorein, non si astrae dalla concreta realtà fenomenica, ma la trascrive in senso simbolico, in modo tale che l‟evocazione del suo contenuto simbolico abbia anche un valore testimoniale di una realtà effettuale. Orbene, la narrazione degli evangeli è quella della persi-stenza storica di Gesù, non già la descrizione allegorica di una persona ideale, la cui rappresentatività estetica era tanto più simbolicamente efficace quanto maggiore la distanza dai suoi riferimenti esistenziali. In questo senso Platone stigmatizzava l‟astrattezza della falsa rappresentazione del mondo da parte della mitologia rispetto alla astrattezza verace delle forme ideali, le quali non erano rappresentazioni immaginarie del mondo ma determinazioni concettuali. Tenendo conto di quanto detto, la lotta che sin dai primi secoli la teologia ecclesiastica condusse contro la “gnosis intesa come sapere rivelato, superiore alla pura filosofia”,911 è il prodromo della lotta che la teologia condusse in età moderna contro la metafisica quale libera costruzione teorica di pensatori indipendenti, imprimendo ai contenuti della narrazione evangelica un carattere dottrinario che, se per un verso si rivelava efficace nella loro ecclesiale determinazione univoca, d‟altro canto subordinava alla fruizione degli strumenti concettuali della metafisica naturalistica precristiana il carattere “scientifico” dell‟ermeneutica teologica, le cui ricadute razionalistiche saranno devastanti, sia per il carattere istituzionalistico della Chiesa cattolica, che per il controllo intellettuale delle coscienze dei suoi membri, la cui fede passava decisamente in secondo piano, o addirittura
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A. Magris, La logica del pensiero gnostico (1997), Brescia, 2011, pag. 52.
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nella irrilevanza, rispetto alla sua professione dottrinale. Come è stato opportunamente precisato, l‟ermeneutica gnostica non era una fantasiosa rappresentazione cristianamente ispirata; ovvero non era riducibile a questo, poiché anche “ il pensiero gnostico ha una logica, che [però] non è la logica formale basata su categorie intellettualistiche e sul principio di non-contraddizione: una logica invece caratterizzata dagli strumenti “mitici” della raffigurazione narrativa, della libera associazione e dello scarto fra contenuto latente e contenuto manifesto , analogamente a quanto avviene nei processi onirici che, com‟è noto, sono tutt‟altro che insensati. A maggior ragione ciò viene in luce proprio dal confronto con le argomentazioni critiche degli eresiologi cristiani e dei filosofi i quali, educati da secoli di razionalismo platonico-aristotelico, erano lontanissimi dal capire cosa potesse star dietro le “favole” gnostiche. 912
Ma quel favoleggiare era appunto il tentativo, anche immaginifico, di pervenire a una rappresentazione del messaggio evangelico fondato su una intuizione di fede nella verità trascendente che i costrutti metafisici erano indotti, per esigenze metodologiche, a mettere in ombra, ovvero a rendere compatibili con la credibilità delle coerenti argomentazioni razionalistiche, rivolte a persuadere intellettualmente soprattutto il mondo pagano, di chi cioè non aveva prioritariamente convertito la propria coscienza alla fede in Cristo, metanoia che costituiva il presupposto indispensabile per la comprensione del messaggio salvifico. La theo-logia cristiana, appropriandosi della della filosofia greca, ha proceduto alla rimozione del fondamento ontologico che sosteneva l‟impianto teoretico della sua metafisica, che, a detta di Heidegger, con Nietzsche “entra nella sua fine”. Secondo il pensatore tedesco, la filosofia, nata con Platone, “ha la stessa età e la stessa storia del principio (Beginn) e della storia e del compimento della metafisica”, che a suo parere coincide appunto “con la metafisica di Nietzsche”. A partire da quel momento ideale, la filosofia verrebbe “necessariamente sostituita dalla „visione del mondo‟ [la quale sarebbe] il modo di „guidare‟ della „filosofia‟, nella misura in cui questa continua a sussistere in forma di scuola e in forma erudita”, ma trasformata “in una scolastica della visione
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Ivi, pagg. 57-58.
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del mondo”, sia nel senso di un suo “strumento concettuale”, e sia come “atteggiamento della ancella sottomessa apertamente o di nascosto alla „verità‟ della visione del mondo e rinunciando alla pretesa di un domandare originario o addirittura iniziale”. Heidegger vede in questo “processo” la fase propria del “compimento della metafisica”.913 La sostanziale incomprensione che ha Heidegger del Cristianesimo, inteso da lui come “l‟estrema umanizzazione dell‟uomo e la sdivinizzazione del suo Dio”, si manifesta anche qui nell‟evitare di porre al domandare filosofico la domanda fondamentale circa l‟essenza della filosofia; domanda che può essere fatta solo ponendosi in una prospettiva esterna e trascendente il filosofare stesso; prospettiva che ha offerto appunto la rivelazione cristiana della verità, che non va confusa, come pure fa Heidegger, con lasua trascrizione in termini di dottrina teologica. Cos‟è dunque la filosofia? Essa è il discorso razionale fondato sulla credenza ontologica che l‟Essere sia Tutto il reale, ossia tutta la realtà pensabile in termini di verità incontrovertibile. L‟Essere della realtà “è” quella e soltanto quella presente alla coscienza del Soggetto pensante, sicché l‟identità di essere e pensiero consente di pensare la realtà del mondo come se fosse il mondo stesso. Tutto la verità del discorso filosofico si fonda su questa credenza ontologica, e la filosofia, sin da Parmenide, è la rappresentazione del mondo come Essere, ossia come ciò-che-è presentealla coscienza, come ente. Questa credenza ontologica è costituita da due aspetti essenziali: I. che il mondo “vero” sia quello della rappresentazione della coscienza, e non già quello della esperienza sensibile; II. che la realtà sensibile del mondo naturale sia la materia da portare a forma, ossia da trans-formare secondo il modello della sua ideale rappresentazione, cioè secondo l‟idea del mondo che ne ha la coscienza. È vero che in Aristotele la Physis conserva una sua dinamica indipendente da quella del pensiero umano e che si consuma nel passaggio autonomo della vita dalla potenza all‟atto, ma nondimeno la costitutiva essenza dialogica dell‟uomo differenzia la sua prassi sociale dalle determinazioni necessarie della vita biologica, disegnando pertanto un autonomo orizzonte antropologico, caratterizzato da fini etici razionali, conformi cioè al senso del fondamento, appunto logico, della realtà significativa, quella appunto
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M. Heidegger, Ueberlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), tr. it., Milano, 2016, pagg. 272-273.
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dell‟Essere. L‟azione etica è il comportamento umano dotato di senso razionale, cioè conforme alla rappresentazione della realtà onto-logica. Così come non ogni fenomeno rientra nell‟essere oggetto del pensiero razionale, altresì non ogni discorso umano è vero secondo la logica, e parimenti non ogni comportamento umano è razionale secondo l‟etica. Ciò implica che tra la realtà fenomenica e la rappresentazione di essa secondo l‟Essere, vi sia una differenza insuperabile che smentisce l‟identità ontologica fondamentale alla veridicità del discorso filosofico, e che perciò va soppressa o superata per mezzo di una trasformazione del mondo così come originariamente appare in un mondo come dev’essere secondo il pensiero. La trasformazione del mondo naturale in mondo formare avviene per mezzo della volontà, che opera come strumento della tecnica razionale. La tecnica razionale di trasformare il linguaggio in-formale in discorso filosofico è la dialettica; la tecnica razionale di trasformare il mondo naturale in ambiente umanizzato è la scienza; la tecnica razionale di trasformare la volontà spontanea dell‟uomo particolare in volontà organizzata ad assolvere scopi comuni è la politica. Il presupposto che legittima la necessità della trasformazione della realtà in mondo ideale, conforme alla rappresentazione razionale di esso, è l‟incompiutezza del mondo naturale rispetto alla coscienza dell‟uomo, che è il luogo dove il mondo così come dev’essere viene pensato. La coscienza, dunque, quale fondamento di senso della realtà, è il luogo dell‟Essere, che viene delocalizzato dall‟Iperuraneo platonico al moderno Soggetto trascendentale. La credenza ontologica nella identità di Essere e di pensiero che giustificava la necessità di conformare la realtà naturale a quella ideale, viene messa in discussione dalla Rivelazione cristiana, per la quale non è la rappresentazione del Soggetto razionale la verità, ma l‟esperienza esistenziale della Persona di Cristo, che salva l‟uomo sia dalla necessità naturale, cioè dalla dipendenza dalle leggi di natura che destinano ogni essere alla morte, come pure dalla necessità razionale di conformare la Natura creata così da Dio al modello ideale della coscienza umana. Questa duplice dipendenza dell‟uomo dalla Natura e dall‟Essere costituivano i segni esistenziali del peccato, ossia della scissione dell‟esistenza umana dal rapporto con Dio. La predicazione di Cristo indica il vero obiettivo da conseguire per modificare la condizione umana nel senso della salvezza, ossia della libertà. Anziché modificare il mondo naturale, creato da Dio come cosmo autoregolato per la sua sussistenza, l‟uomo deve proporsi di cambiare la prospettiva assiologica della propria coscienza, passando da un
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orizzonte di pensiero naturalistico, che è la premessa della dialettica del Logos tra forma e materia, a un orizzonte pneumatico, ossia spiritualistico e divino, la cui dinamica è l‟Agape. La fede cristiana nell‟Amore come ragione del mondo è alternativa alla fede ontologica della filosofia, in quanto l‟Amore implica una relazione di libertà tra le persone che si riconoscono nella verità di Cristo, laddove il Logos implica un conflitto escludente il niente dalla determinazione dialettica dell‟ente. La relazione agapica è garantita dalla fede comune in Cristo, non da un nomos legale o metafisico. Ciò comporta una interiorizzazione del legame tra gli uomini che sostituisce la stessa legalità giuridica del potere cesareo, esterno e formale, e perciò precario, ponendo a garanzia del patto sociale la forza della legge anziché quella della coscienza.914 La fine della filosofia come verità ontologica, coincidendo con l‟accogliemto della verità in Cristo, comporta come conseguente implicazione esistenziale un cambio di paradigmi sociali, a partire dal legame politico, ossia dalla questione del Potere, la cui legittimità discende dal modo di rapporto che ha l‟uomo con l‟Altro. Il passaggio (metanoia) dalla coscienza naturalistica alla coscienza pneumatica non poteva lasciare impregiudicati i rapporti sociali, cioè il modo della convivenza tra gli uomini, poiché implicava la stessa identità antropologica dell‟uomo già naturale o ora cristianamente personale. La fede cristiana non è l‟adesione a una visione del mondo custodita come verità dalla Bibbia, ma è l‟adesione all‟esistenza di Cristo come modello di persona oltre-umana. Non si tratta di un “progresso” nella scala evolutiva dell‟homo sapiens, in grado di un maggiore controllo delle forze della Natura da parte della sua volontà tecnicamente perfezionata. Al contrario, ogni opera di manipolazione del mondo creato da Dio in funzione della sua riducibilità ad ambiente umanizzato, non tenendo conto della condizione creaturale del cosmo, viola lo stesso ordine divino, ossia quell‟equilibrio universale retto dall‟energia dell‟Amore, e non da una qualche Necessità di dover essere, che costituisce la credenza ontologica, la quale, agli occhi della Rivelazione cristiana appare un mito: il mito dell‟Essere. La giustificazione razionale della fede in Cristo, che si è affermata come metodo scientifico in concorrenza teoretica con la rappresentazione gnostica della verità cristiana, ha consentito la sopravvivenza della filosofia
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Questo è ben chiaro a Guardini, che ne tratta in Das Ende der Neuzeit (1950), tr. it., Brescia, 1993, pag. 97.
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in funzione ancillare e strumentale al discorso theo-logico e polito-logico, trasformando la stessa verità di fede in rappresentazione metafisica. Come afferma giustamente Heidegger, “la „filosofia cristiana‟ è dunque ogni volta l‟abbinamento di due „mezze misure‟ ”, trascurando che il supposto “intero, così calcolato, può essere solo una intera, vale a dire completa, mezza misura, nella quale le due metà incomplete non vengono rimosse bensì accresciute al punto tale che l‟intero rappresenta la piena nullità della rappresentazione di una „filosofia cristiana‟ ”.915 Ciò che Heidegger, da filosofo superstite, non dice è che la filosofia stessa è una “visione del mondo” per chi non creda nella identità onto-logica di Essere e di Logos. La rimozione moderna di questa antica fede ontologica ha sostituito la metafisica con la scienza come religione universale, alternativa a quella cristiana di struttura theo-logica. Non a caso, ma per la conformazione metafisica della theo-logia cristiana, la rimozione del fondamento ontologico, sia della metafisica che della scienza, ha comportato anche la fine della visione del mondo cristo-logica, ossia la fine della rappresentazione della verità cristiana in termini metafisici. Considerata la centralità della Rivelazione di Cristo nella storia, non è la Sua verità che è stata coinvolta dalla crisi moderna della conoscenza e della relativa tradizione filosofica, ma appunto la sua rappresentazione metafisica, il suo Dokema.
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M. Heidegger, Ueberlegungen, tr. it. cit., pag. 278.
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