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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da
Costantino Marco
MARCO EDITORE
Segretario di redazione: Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it. In copertina: Delfi, Tempio di Apollo, Cariatidi
Coscienza Storica
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Coscienza Storica Nuova Serie 13
Le due città I.
Capitoli I-IV
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I RAGIONE E UNIVERSALE RELIGIOSO
“Ogni filosofia al suo inizio e alla sua fine non fa che dispiegare il proprio presupposto. […] Il presupposto della filosofia – non è qualcosa che sta prima e al di fuori di essa e che entra in gioco di tanto in tanto – e possibilmente in modo occulto. È anzi l’apertura dell’intero stesso, proprio ciò che c’è da principio costantemente fino alla fine e che permane nel dispiegamento. (M. Heidegger)
1. Per migliaia di anni le religioni sono state componente organica della cultura locale di un popolo, di una civiltà e di una lingua. Da queste “religioni primarie”, tra le quali comprendiamo anche “gli universi culturali e i pantheon dell’antichità egizia, babilonese e greco-romana”, si differenziano le “religioni secondarie”, le quali “devono la loro esistenza a un atto di rivelazione e di fondazione”. 1 La relazione fra le due specie religiose è di filiazione e rinnegamento filiale, secondo una modalità paradigmatica che riguarderà anche il rapporto tra Mito e mito-logia filosofica; ma la principale peculiarità risiede nel loro carattere universale, legato all’autonomia dal contesto politico-culturale originario e al canone sacrale scritturale utilizzato “per codificare le verità rivelate”.2 Le implicazioni di tali caratteristiche sono, rispettivamente: l’astrattezza del messaggio soteriologico, collegato alla sua valenza universale; il suo carattere totalitario, legato alla rescissione di ogni rapporto genetico esplicativo di senso religioso; il carattere intellettuale 1
J. Assmann, Die Mosaische Unterscheidung oder der Preis des Monotheismus (2003), tr. it., Milano, 2011, pag. 13. Da ora DM. La distinzione tra “religioni primarie” e “secondarie” si deve a Th. Sundermeier, al quale l’A. ha dedicato il suo saggio. 2 Ivi, pag. 14.
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della sua comunicazione, dovuto allo strumento della scrittura. Secondo Assmann, “il nucleo di questa svolta” religiosa sarebbe la distinzione “tra vero e falso in ambito religioso, tra il vero Dio e i falsi dèi, tra la vera dottrina e le false dottrine, ossia tra il sapere e l’ignoranza”.3 Quella che Assmann indica paradigmaticamente come “distinzione mosaica”, non sarebbe a suo dire”un evento storico tale da cambiare il mondo una volta per tutte”, ma consisterebbe in una “idea regolativa”, che sviluppandosi quale “idea risoluta di verità” avrebbe “nei secoli e nei millenni” avuto la capacità di cambiare il mondo.4 Ciò che presagisce Assmann è la dialettica tipica del Logos, esclusiva di ogni elemento incongruo alla sua definizione comprensiva. Questa modalità gnoseologica, che potrebbe essere stata trasmessa al pensiero greco attraverso appunto la religione mosaica del libro, ossia la vulgata del Vecchio Testamento in aree linguistiche e religiose non ebraiche, non dimeno non sarebbe la caratteristica peculiare della predicazione evangelica, essenzialmente inclusiva e fondata sul sentimento della carità, ma semmai alla teologia cristiana, intrisa di filosofia greca. Infatti, ciò che caratterizza essenzialmente la predicazione cristiana, non è tanto la distinzione tra vero Dio e falsi idoli, che pure esiste come premessa della conversione alla verità, ma la disposizione accogliente della carità cristiana verso l’errore e il male del mondo. E proprio in virtù di tale sentimento caritatevole, l’elemento polemico della dialettica tra Bene e Male, sul quale ha insistito Barth, non ne costituisce il senso finale della fede escatologica, ma solo il momento preliminare, propedeutico alla comprensione della verità che è Cristo. A differenza degli altri credi religiosi sorti nella “età assiale” (Jaspers), la predicazione cristiana non tendeva ad affermare la Verità in termini teoreticamente e antropologicamente esclusivi, ma a proporla come possibilità di emanciparsi dalla finitezza del mondo e dai legami necessari che ne costituiscono la relativa dimensione esistenziale, ossia come libertà di coscienza. La conversione del cuore (metanoia) non isolava il vero dal falso per una ideale epoché, propria dell’ atteggiamento teoretico di una
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Ivi, pag. 15. Ivi, pag. 16.
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“controreligione” sottolineato da Assmann, 5 ma tendeva a cogliere e mettere in risalto significativo l’aspetto malefico della esistenza umana funzionale al Bene, e perciò non astrattamente isolabile e biasimevole. Questo lato dialettico del sentimento cristiano, colto pienamente da Schleiermacher, non presagiva una sintesi in senso hegeliano, ma rappresenta un livello di coscienza superiore perché più comprensivo di senso, rispetto a quello inferiore della coscienza polemica, propria appunto della “distinzione mosaica”. Il senso intimo di tale distinzione è giustamente riportato da Assmann alla Necessità ontologica interpretata dal Logos, che afferma il “diritto” dell’Essere a sussistere invece che non essere e che secondo Parmenide “deriva dal riconoscimento dell’impossibilità della contraddizione logica”. Come ha ben riassunto Jaeger, “questo carattere costrittivo di ciò che si coglie nel puro pensiero è la grande scoperta che domina la filosofia dell’Eleate. Essa determina la forma del tutto polemica in cui egli svolge le sue idee”,6 che trasposte sul piano logico, pervengono a negare il divenire, mentre sul piano concreto stabilisce una differenza radicale tra il mondo dell’apparenza (dòxa), in cui vive l’uomo naturale intriso di “pensiero selvaggio”, e il mondo della verità (alétheia), proprio dei filosofi, custodi del “pensiero logico”, dominato dalla “cogenza del principio di non-contraddizione”.7 Da qui l’analogia riscontrata da Assmann tra il “concetto di sapere introdotto dai Greci”, fondato sulla distinzione scientifica tra vero e falso, mito e logos, e “il nuovo concetto di religione introdotto dagli Ebrei e associato al nome di Mosè”, caratterizzato dalla distinzione tra “paganesimo e religione”. Sicché al “controsapere” espresso dall’unica vera scienza corrisponde la “controreligione” monoteista espressa dalla teologia, per cui “gli Ebrei, introducendo la distinzione mosaica, hanno rivoluzionato il mondo in maniera almeno altrettanto radicale quanto i Greci, e hanno introdotto una forma di religione che si distingue da tutte le religioni cosiddette
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Ivi, pag. 17. W. Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen (1934-1944), tr. it., Milano, 2003, pagg. 327-328. 7 J. Assmann, DM, pag. 25. 6
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tradizionali almeno altrettanto nettamente quanto la scienza greca si distingue da tutte le scienze cosiddette tradizionali”.8 Ciò che invece Assmann non dice è che in conseguenza di tale operazione teoretico-religiosa, la presuntiva neutralità della sua posizione scientifica, propria di chi “cerca solo di descrivere e di capire”, non è più possibile, poiché codesta posizione asetticamente descrittiva sarebbe in realtà metascientifica e più vera della scienza, nel cui nome lo spettatore del mondo sarebbe wertfrei e sicut Deum. Sicché la “intolleranza” attribuita al sapere scientifico è in realtà conseguenza della stessa scelta di fede ontologica operata sia dalla conoscenza che dalla religione, e che il “sapere scientifico”, astratto da quella fede, intende rimuovere. Infatti, il sapere scientifico, per la sua supposta posizione superiore a ogni “pensiero selvaggio”, si costituisce come una fede universale, non diversamente da come si sono costituite le altre religioni mosaiche, rinnegando cioè la loro filiazione mitico-religiosa, all’origine della quale risale la credenza che la scienza sia la (unica) verità (anche quando viene confutata) e le altre gnosi solo false credenze (anche quando storicamente praticate). I lògoi meramente descrittivi, ponendo sullo stesso piano epistemologico sia le ipotesi euristiche semplicemente credute che quelle scientificamente credute vere, essendo anche le ipotesi scientifiche soggette a confutazione, riporta la conoscenza a un livello pre-veritativo proprio delle Weltanschauungen naturali, ossia entro lo spazio del “pensiero debole” in cui si aggiravano le doxai, dominato dal “dubbio” e dalla certezza superstiziosa, che per ammettere la legittimità di una tesi deve riconoscerne la conciliabilità con ogni altra credenza, ossia con il politeismo dei valori, in cui coesisteva quel “tutto e il contrario di tutto”, imputato al “pensiero selvaggio”.9 Quanto alla supposta “tolleranza” del politeismo, essa era semplicemente dovuta al limitato raggio d’azione dei valori religiosamente custoditi, all’interno dei cui orizzonti normativi la vigenza era assiologicamente assoluta, similmente ai campi di attinenza dei distinti saperi scientifici o della forza del potere politico. Allorquando l’orizzonte assiologico si è esteso in senso universale, anche le religioni e i saperi che ne erano 8 9
Ivi, pag. 26. Ivi, pag. 27.
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portatori allargarono universalmente il loro “carattere di autorità”. Ma questo processo va collegato a quello generale delle scienze, inserendo cioè le singole conoscenze in un “sistema” che sia in grado, come dicevamo, di mostrarsi “superiore a tutte le concezioni del mondo indimostrabili”.10 Orbene, questa conoscenza di grado superiore è esattamente la gnosi totalitaria tentata dalla teologia patristica e dai padri della Chiesa tramandata come consegna metafisica a ogni summa theologica medievale. Ma questo tentativo, che riprendeva l’analogo disegno idealistico platonico, fu perseguito con gli strumenti dialettici della logica scientifica greca, intrinsecamente inadatti all’impresa, in quanto metodicamente esclusivi della differenza, che, per quanto logicamente negativa, era onticamente reale al pari degli enti di ragione concettualmente omologati. Soltanto il verbo di Cristo, tra le altre religioni “secondarie”, ha inteso includere il differente come Altro in uno stesso orizzonte soteriologico, che ispirò a Hegel l’idea grandiosa di una dialettica inclusiva funzionale a un sapere assoluto. E ciò era possibile solo assumendo la predicazione cristiana come una fede interiore singolare, anziché come una impersonale religione, oggettivabile e riducibile a un’idea, vagliabile teoreticamente al pari di ogni contenuto di sapere. Solo a condizione di uniformare il cristianesimo alle altre professioni religiose “secondarie” è possibile confermare storicamente il Grande Equivoco, nato insieme alla teologia alessandrina dei Padri cappadoci, di uniformare la sapienza rivelata a un contenuto di “sapere” universale nel senso logico della scienza greca, stabilendo così anche in ambito cristiano “l’analogia tra religione e scienza”.11 Nell’equivoco rientra a suo modo anche la distinzione, da Assmann ritenuta “rivoluzionaria”, tra “credere”, quale ritenimento di “qualcosa che non può essere dimostrato in modo scientifico”, e “sapere” inteso come “verità relativa e superabile, ma per contro dimostrabile e verificabile criticamente”. 12In realtà essa nasce dalla assolutizzazione del sapere astratto dai suoi fondamenti di fede, la cui rimozione metodica non priva affatto la scienza della sua credenza ontologica che l’Essere sia 10
W. Dilthey, Das Problem der Religion (1911), tr. it., Milano, 1992, pag. 140. J. Assmann, DM, pag. 28. 12 Ibidem. 11
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anziché non, ma soltanto l’occulta per la stessa istanza universalistica e totalitaria riscontrata a proposito delle religioni del Libro rispetto alle relative tradizioni orali, e del Logos filosofico rispetto al legein mitico e ai logoi epici e doxastici. Nessun sapere,anche in senso scientifico moderno, può infatti sussistere senza la previa credenza ontologica nella identità dell’Essere con l’essenza del pensiero, nella cui credenza rientra anche la fede cristiana. Ma proprio sulla consapevolezza di questa unità di fede comune fa leva la gnosi cristiana per fondare la verità universale del suo credo in unum Deum. L’Essere, per il pensiero greco, era la Natura, il cui Logos costituiva la norma generale di funzionamento. Asserendo l’identità ontologica di Essere e pensiero, si fa rientrare nella dinamica del Logos naturalistico anche il movimento del pensiero umano, facendo così dell’identità spirituale un connotato anch’esso naturalistico. L’universalità del principio naturale è dunque ritagliata su queste premesse, in conseguenza delle quali la fisionomia essenziale ed esistenziale dell’uomo sarebbe ritagliata sulle stesse leggi che regolano il cosmo fisico. L’uomo, nondimeno, non ossequiava alle regole cosmiche alla stregua delle altre specie viventi, ma gli occorreva un supplemento di coscienza per conquistare quel posto naturale che gli animali avevano invece d’istinto. Ciò indusse a credere in una imperfezione umana, legata proprio alla sua libertà, che invece era il tratto caratteristico della sua diversità da ogni altra realtà naturale. la libertà di coscienza e quindi di azione dell’uomo, è ciò che lo contraddistingue e consiste nella sua facoltà di emanciparsi dalla necessità delle leggi di natura, le quali incidono sulla vita delle altre specie viventi determinandone la forma e la condotta. Ora, se la Weltanschauung naturale ravvede nella distonia umana un difetto da correggere imperativamente attraverso azioni compulsive esterne, di carattere religioso o genericamente istituzionale, operate da un Potere preposto all’ufficio, la predicazione cristiana individua proprio nella libertà di coscienza dell’uomo il tratto precipuo della sua essenza divina, facendo appello ad essa per la sua redenzione dalla necessità della Natura, chiamandolo ad emanciparvisi attraverso un atto di conversione spirituale (metanoia) alla fede. questa fede si fonda sulla credenza che l’umanità dell’uomo, la sua essenza profonda, sia fatta a immagine di Dio, la cui realtà esistenziale è manifestata dal Cristo, che rappresenta
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l’anti-uomo naturale. Tutta la vita di Gesù Cristo è improntata a una concezione e a una condotta diversa da quella dell’uomo naturale, e fondata sulla testimonianza di tale diversità rispetto ai parametri e ai criteri della vita sociale pagana. Ma in che cosa consiste tale diversità spirituale professata da Cristo rispetto all’immagine naturalistica dell’uomo rappresentata dalla sapienza filosofica greca? Essa consiste nella insuperabile singolarità di ogni uomo quale persona spirituale, legata a un rapporto trascendente con Dio che nessuna omogeneizzazione artificiale operata dall’uomo attraverso i suoi poteri mondani può negare e cancellare. Se dunque per altri versi, sociologici e fisici, l’uomo appartiene alle regole del mondo, ossia alla Necessità del cosmo naturale, per il verso precipuamente umano, cioè per l’aspetto spirituale, l’uomo non può essere mai sottratto alla sua Libertà, ossia al suo libero rapporto con Dio. Questa fondamentale ed originaria condizione umana costituisce il Mystero stesso della divinità che è in lui, e che nessuna dottrina naturalistica filosofica potrà svelare. Se infatti l’interrogativo filosofico primario riguarda la realtà dell’Essere, le cui risposte vertono dunque sulla sua costituzione ontologico-naturale, l’interrogativo originario della fede riguarda l’identità dell’uomo storico, cioè l’esistenza di ogni singolo uomo, chiamato ognuno a rispondere alla domanda “Chi sono io?”, con la quale s’inaugura la relazione con Dio, interpellato a rispondere, posto che l’uomo non abbia una risposta. La consapevolezza di questa ignoranza stabilisce il rapporto di dipendenza da Dio in cui consiste la fede. La risposta di Dio all’appello dell’uomo è al tempo stesso univoca nel rimando a Cristo, e personale nelle modalità. Essa non è costituita da parole, ma da segni, ovvero da “cifre della trascendenza” (Jaspers), che rimandano sempre al vissuto paradigmatico di Cristo, il santo Mediatore (), che attraverso il Suo vissuto umano si esprime nel linguaggio spirituale di Dio. Al cospetto della Verità spirituale annunciata da Cristo, le presunte verità naturali, legate alla costituzione fisica dell’uomo, sono solo ipotesi “ingenue” e “frammentarie”, secondo l’indicazione ricordata di Clemente. E pertanto ogni rappresentazione naturalistica di Dio, quale infinita potenza o volontà o onniscienza, sono solo immagini antropomorfiche che rapportano al piano della finitezza mondana in cui vive l’uomo naturale ciò che non è rappresentabile in parole di senso compiuto, cioè
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concettualmente definito, ma soltanto evocative della alterità di Dio rispetto alla dimensione della finitezza. Lo stessa narrazione evangelica è un continuo esperire tale alterità attraverso parabole evocative di un senso ultroneo, oggettivamente indefinibile, in quanto legato alla singolare domanda e risposta che ogni uomo pone e riceve dall’incontro con Cristo. Ciò detto, l’unica essenziale distinzione stabilita dalla gnosi cristiana non è tra parti della stessa realtà finita, secondo un criterio logicamente esclusivo, ma tra conoscenza del finito (scienza) e sapere di Dio (fede). la differenza è radicale, nel senso che la conoscenza dell’Essere particolare coltivato dalle scienze, non potendo esaurire lo scibile e l’esperienza molteplice, rimanda continuamente a una istanza di perfezione che però non è possibile conseguire entro l’orizzonte di coscienza naturalistico, ontologicamente finito e diveniente. Diversamente, il sapere di Dio tende all’origine di ciò che può essere, ossia alla Possibilità stessa che qualcosa non sia; possibilità che l’ontologia per statuto metodologico non considera, concentrata com’è sulla presenza (Gegenwart) dell’Essere come ente, e dunque sulla fatticità dell’evento nel tempo, l’unico che essa considera reale; e che invece la fede assume come lo spazio di esistenza interiore in cui si manifesta alla coscienza la Libertà spirituale come intenzione, che occhio non vede e orecchio non ode e parola non dice. Entro tale dimensione in-attuale della Possibilità si annida il Mystero divino dell’uomo, la sua libertà di essere ciò che crede di essere (autentico), ovvero di essere ciò che solo manifesta al mondo (inautentico). Appare chiara la differenza di prospettiva rispetto a un sapere fondato sulla sola evidenza, identificativa e risolutiva di ogni possibile essere. Questa riduzione dell’Essere alla sua presenza costituisce appunto la credenza ontologica a partire dalla quale si costruisce il sapere filosofico greco e la scienza da esso derivata: la credenza consiste appunto che l’Essere, così come conosciuto dal pensiero razionale oggettivato concettualmente, sia il Tutto. Che il Tutto, ossia Dio, venga identificato con la Natura, è l’errore che il cristianesimo imputa al sapere naturalistico greco, tacciato appunto di idolatria e di superstizione. Che tale superstizione idolatrica sia un errore di cultura, non è l’opinione espressa da una dottrina concorrente, ma nasce dalla consapevolezza che il Tutto, se è veramente tale, non può escludere alcunché, ma deve
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comprenderlo nella sua unità in-finita. L’Agape cristiana è appunto il sentimento di comune appartenenza all’Unità del Tutto che chiamiamo Dio, e inconciliabile logicamente con il criterio esclusivo di Eros che ispira il sapere filosofico secondo la metafisica greca, quello polemico enunciato da Parmenide. Il credo in unum Deum è la fede nella vera unità totale, comprensiva anche della falsa, quale momento imperfetto della coscienza finita dell’uomo naturale, che va accolto non per il suo errore ma per l’anelito che anima la sua ricerca della Verità, che non può che essere la stessa per ogni coscienza consapevole e matura. L’istanza ecumenica della coscienza cristiana rappresenta la differenza rispetto a quella polemica ed esclusiva della coscienza filosofica greca e genericamente pagana, espressiva della Weltanschauung naturale. A ben vedere, non è qui in questione il monoteismo, poiché la distinzione dal Dio di Abramo non verte su una divinità idealmente opposta ma consustanziale alla stessa realtà ontologica, bensì su una dimensione di coscienza che trascende la realtà finita entro la quale si muove la vita naturale. L’unità del Dio cristiano, non è pertanto la dimensione etnica o culturale, e neppure l’unità ideale del concetto logico, ma comprende la totalità inclusiva del Tutto, rispetto al quale non ci può essere che la differenza della parte, cioè la falsa unità di una fallace totalità, il cui errore di coscienza nasconde o rimuove il Nulla (das Nicht) che immane sulla realtà finita. Rispetto al comune sentimento religioso, che W. James indicava come un “insieme” inclusivo anche “degli atti e delle esperienze degli individui soli con se stessi [che] si accorgano di essere in rapporto con qualcosa che considerano divino”,13 il “sentimento di dipendenza” dei cristiani da Dio era ben più di un senso di presenza di qualcosa di inesplicabile cui attribuivano carattere divino, ma rappresentava la precisa coscienza di “dipendere” dal Creatore del mondo, non in quanto potenza incoercibile ma perché aventi in comune con Lui lo stesso Spirito (pnèuma), che i Greci indicavano con il Logos naturale cosmico, ossia appunto quella legge universale della distinzione tra vero e falso e tra Bene e Male che costituiva la realtà della Physis interpretata dalla ragione umana, ma che era tutt’altro dallo Spirito agapico cristiano. 13
W. James, The Varieties of Religious Experience (1902), cit. da E. R. Dodds, Pagan and Christian in an Age of Anxiety (1965), tr. it., Firenze, 1970, pag. 2. Da ora PeC.
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Se è chiara la differenza, ci rendiamo conto della radicale diversità del cristianesimo da ogni altra religione storica, compresa quella ebraica dal cui ceppo essa pur sorse,14 in virtù della quale la rappresentazione storica della sua versione religiosa costituisce una immagine reale della sua idealizzazione razionale, da noi indicata come , la quale risente delle forme culturali della più elaborata sapienza filosofica pagana, quella greco-romana, di cui la teologia cristiana si è servita per giustificare la fede razionalmente. L’universalismo della ragione, diversamente dall’Amore inclusivo cristiano, riguarda solo gli enti sussumibili entro il concetto del giudizio tetico, a esclusione di tutti gli altri, considerati niente, in-esistenti. Un universalismo concettuale, come un universalismo religioso, esclude dalla propria unità l’elemento anti-tetico, che invece l’Amore cristiano include in quanto totalità. Ciò non significa che la fede cristiana non distingua il Bene dal Male, ma vuol dire che l’invito a “non giudicare” vuol scongiurare l’errore di confondere l’oggetto del giudizio (ad es. la prostituzione della Maddalena o il triplice rinnegamento di Pietro) con l’intera personalità dei personaggi evangelici, l’Amore cristiano per i quali deve poter considerare i loro peccati entro la loro rispettiva vicenda esistenziale, ossia la loro singolare storia spirituale. L’atteggiamento caritatevole verso il prossimo implica la comprensione del Male come prevaricazione della natura polemica sullo Spirito agapico. Perciò la Verità cristiana non può essere accettata o imposta, ma solo ispirata dalla Grazia attraverso la conversine alla fede in Cristo. Questo aspetto viene del tutto negletto dalla promiscua considerazione dei monoteismi islamico e cristiano da parte di Jassmann, 15 il quale confonde il cristianesimo evangelico con la cristianità ecclesiale interpretata dalla Chiesa quale . Non ha senso infatti parlare di “intolleranza” a proposito di una fede che, credendo in un Dio innominabile, non poteva neppure de-nominarlo e così tradurla in altro credo religioso. 16 Il Dio vivente dell’Incarnazione è Cristo, ed Egli non è una idea ma un evento esistenziale, cioè una Storia.
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Ved. J. Assmann, DM, pagg. 31-32. Ivi, pag. 32. 16 Ivi, pag. 35. 15
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Quanto al rapporto tra “monoteismo e violenza”, equiparare nella stessa considerazione la “violenza subita” con quella “inflitta” ai martiri della fede che “preferivano la morte” anziché “accettare una religione riconosciuta per falsa”17 è come dire che Socrate fosse altrettanto violento dei suoi carnefici per non aver tollerato che l’errore fosse equiparato alla verità filosofica. In entrambi i casi infatti ciò che le vittime ammettevano non era l’esercizio della violenza, attiva o passiva che fosse, ma la superiorità morale della verità sull’errore, che ribaltava sui carnefici la responsabilità del loro gesto violento verso la verità che testimoniavano e che li liberava dal loro destino. La “forza di negazione” e la “energia antagonistica”, non appartengono dunque alla fede cristiana quale verità singolare, ma alla istituzione ecclesiastica che l’ha interpretata come religione storica legata all’Imperium politico secolare. È infatti la forma canonica istituzionalizzata a determinare una “ermeneutica della differenza” tesa alla salvaguardia della ragione del Sé.18 Ed è proprio la Chiesa di Roma, ovvero la sua teologia istituzionale, a rappresentare la persona di Cristo come “immagine” mondana, astratta dalla sua storia singolare e tradotta in storia collettiva del “corpo mistico” quale proiezione reale del ideale. Non è dunque il monoteismo in sé a far “mancare alle religioni dell’immagine” il loro “orientamento etico”,19 ma la natura trascendente dell’unico Dio, irriducibile a una sua determinazione finita. Nel caso cristiano, l’Incarnazione ha lasciato l’adito alla idealizzazione razionale della persona di Cristo, di Cui la Chiesa diventa la proiezione ontica della sua essenza ideale. così che i singoli fedeli diventano, da persone singolari e storie spirituali uniche, enti di ragione sussunti nel concetto universale di Chiesa. Ed è la insussumibilità della realtà razionale di un ente a stabilire la sua condizione eslege, eretica, da assumere come opposto negativo, come niente. Il giudizio logicamente discriminante diventa praticamente esclusivo col passaggio dalla differenza onto-logica a quello della opposizione razionale. Solo attraverso la mediazione della posizione logica il diverso diventa l’opposto negativo, e come tale appunto da 17
Ivi, pag. 36. Ivi, pag. 39. 19 Ivi, pag. 46. 18
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negare come non-essere. Questa operazione esclusiva è resa possibile considerando della concreta persona dell’uomo la sola entità razionale, attraverso un’operazione intellettuale riduttiva della sua persona esistenziale a ente di giudizio. Esattamente ciò che la posizione cristiana stigmatizzava come errata e parziale rispetto alla considerazione caritatevole e totale della persona, le cui “proprietà ontologiche sono quelle dell’intero, non quelle della parte”.20 La tensione verso l’Uno, non potendosi rapportare alla realtà molteplice della concreta “situazione storica”, la si cercò in un’altra dimensione, più vera ed eterna, religiosa o ideale, ma comunque altra da quella mondana, come “posizione mentale”.21 Questa Spannung la cultura ebraica la intese in senso religioso, quella greca in senso filosofico e concettualmente “più rigoroso”. L’incontro delle due culture fu interpretato dalla teologica cristiana nel senso della coniugazione della coscienza con la vita, sicché la composizione delle “sistematico-normative” con la “pratica religiosa” costituisce il Leitmotiv del pensiero di Clemente, di Origene, di Eusebio, come di Agostino, di Gregorio Magno, di Tommaso, di Bonaventura, di Ockam, della seconda Scolastica e degli altri grandi testimoni della fede, tra i quali tutti campeggia la figura a sé di Francesco d’Assisi, il più “illetterato” e vicino allo spirito evangelico originario. Proprio perché il monoteismo, come “idea regolativa”, è compatibile con l’ammissione di altri dèi, il suo “potenziale [carattere] rivoluzionario”, in grado di ispirare storicamente “una grande forza [morale] capace di cambiare il mondo”,22 gli deriva dalla sua interpretazione razionalistica, ossia dall’incontro con la metafisica greca e la sua trasformazione in “religione esclusiva”; il connubio dello spirito religioso concettualizzato con la politica produce la ideo-logia. Il cristianesimo realizzò tale connubio di sacro e profano, a partire da Paolo, il primo teologo della religione monoteista universale, cioè pensata in termini di concetti filosofici, e la sua deriva ideologica con Eusebio di Cesarea. Pur pensando a Hegel, a questa deriva ideologica della fede si riferiva Kierkegaard a proposito delle incrostazioni intellettualistiche che a suo 20
Ved. R. de Monticelli, La conoscenza personale, Milano, 1998, pag. 119. J. Assmann, DM, pag. 49. 22 Ivi, pag. 50. 21
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dire avrebbero offuscato il senso autentico della coscienza cristiana e della sua esigenza di “raggiungere la semplicità”. 23 Il collegamento qui accennato tra religione, filosofia e politica non può essere compendiato, come fa Jassmann, nel concetto di “monoteismo”, che concerne il primo dei tre elementi della sintesi storica; né tampoco in quello di “distinzione mosaica”, che riguarda il secondo. Quanto al terzo, propriamente politico, egli lo affronta trattando della “controreligione”. Jassmann afferma di non riuscire a capire, e dunque neppure a credere in una “religione politeistica”, essendoci tale comprensione essendoci ormai “preclusa dopo oltre duemila anni di monoteismo”. 24 Eppure la civiltà contemporanea vive all’interno di un orizzonte culturale di “politeismo di valori” (M. Weber) che, grazie alla fede scientista, ha rimosso la questione della Verità unica ed eterna, che aveva invece occupato la riflessione dei pensatori antichi e medievali, fino a Cartesio. Il nostro immaginario è infatti pervaso di nuove idolatrie, che la dissoluzione del sapere metafisico ha portato in auge o ha creato ex novo, riportando la mentalità comune, dominata dai sentimenti delle masse abbandonate a se stesse, sotto il dominio della Necessità, riesumata oggi sotto le vesti seducenti del benessere economico e dei modelli consumistici. Non a caso la nuova invoca il Potere resosi assoluto da ogni vincolo morale trascendente e perciò bio-politico, a rimedio esistenziale del kaos subentrato alla dissoluzione dell’ordine eterno garantito da Dio. La “nostalgia egizia” del politeismo,25 era latente nella cultura occidentale più che altro come tentazione alternativa all’unità del sapere teologico garantito, anziché dalla fede, dalla Chiesa, che ha sempre combattuto il risvolto politeistico insito nella costruzioni metafisiche extra-teologiche. Questa repressione della libertà di pensiero, ovvero per riprendere le parole di Scheler, questo “duplice soffocamento del desiderio di sapere metafisico e della libera speculazione religiosa, da un lato ad opera delle chiese depositarie di una rivelazione e sempre più saldamente chiuse, dall’altro ad opera della scienza positiva”, è stato funzionale al 23
S. Kierkegaard, Sulla mia attività di scrittore (1851), tr. it. a c. di C. Fabro, in Opere, Casale Monferrato, 1995, vol. I, pag. 7. 24 Ivi, pag. 57. 25 J. Assmann, DM, pag. 57.
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perseguimento in Occidente della “legge direttiva generale” di separare la coscienza religiosa dalla libertà, distogliendo questa dalla ricerca autonoma della verità, garantita dall’istituzione ecclesiastica, e dirottarla verso lo sforzo mondano di “continuamente incrementare l’attività della mente diretta verso la terra nel lavoro, nella tecnica, nella professione, nell’economia e nella politica di potere”.26 Questa distrazione della libertà di coscienza dalla sfera religiosa ha storicamente e culturalmente rappresentato una deformazione aberrante della concezione cristiana della fede, che proprio nella libertà di coscienza fondava la sua forza morale. Una libertà ridotta ad attività pratica, non poteva non concentrarsi sul carattere volitivo della personalità umana, anziché sulla sua singolare e intima coscienza interiore, comportando per tal verso che la attività teoretica, per conquistare la sua prerogativa di libertà di coscienza, dovesse emanciparsi dalle strutture teologiche costruite dalla religione istituzionale, e con essa dalla stessa fondazione di fede, che in origine e per principio doveva garantire quella libertà di fatto negata dalle dottrine religiose canonizzate. Se per un verso questa dissociazione tra religione e libertà ha consentito alla civiltà occidentale di potenziare le sue energie pratico-scientifiche in ambito mondano e secolare, dall’altro ha relegato la religione in un ambito istituzionale, sovrapponendo il suo carisma di autorevolezza alla funzione di supporto all’autorità politica, secondando una modalità tipica delle religioni pagane confutate dalla gnosi patristica dei primi secoli. E’ ovvio che “un ritorno al politeismo [antico] è [storicamente] impensabile”,27 ma non lo è, di contro, la “posizione mentale” ricorrente che lo fa germogliare e culturalmente lo favorisce, sicché la stessa frammentazione dei saperi particolari e la poliarchia dei poteri geo-politici regionali, prodotta e a un tempo veicolata dalle ideologie democratiche e dalla propaganda dei suoi regimi statuali, ne è un sintomo, sia pure in chiave secolaristica e intellettualmente agnostica o relativistica. La stessa relegazione delle confessioni religiose tradizionali tra le potenze mondane (), di una sua cultura tra molteplici culture, attesta se non altro la perdita del significato metafisico del cosmo 26 27
M. Scheler, Wissenssoziologie, tr. it. Roma (1966), 19762, pagg. 134-135. J. Assmann, DM, pag. 59.
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unitario, ma soprattutto la determinazione dell’identità personale dell’uomo singolo in chiave non spiritualistica e puramente formale di portatore di diritti civili e politici. Questa parabola odeporica di ritorno alle origini pre-cristiane della cultura contemporanea non può essere ignorata a seguito del suo carattere profano, dal momento che essa mette in luce la sotterranea continuità che, attraverso le vicende religiose e civili dell’Occidente, ne costituisce la trama culturale di collegamento tra il nuovo, il medio e l’antico evo, ossia il sostrato razionalistico delle varie e diverse rappresentazioni, sacre e profane, del mondo. L’aspetto contraddittorio e paradossale di questo processo culturale, contrassegnato dal razionalismo, è costituito dal suo insuperabile limite (Grenze) dialettico, ossia dalla sua necessità di superare la situazione frastagliata della realtà molteplice attraverso un coagulo dei saperi e dei poteri, che pone così in rilievo l’istanza metafisica originaria di unità, identificata con l’ordine e la stabilità del cosmo naturale e socio-politico, alla quale dapprima la filosofia imperfettamente e quindi la teologia cristiana hanno offerto le risposte; su un piano meta-empirico, nella cui prospettiva sfumano le supposte moderne conquiste emancipatorie dei saperi particolari e delle libertà autonomi dall’autorità teologico-politica medievale, a conferma implicita della impossibilità di trovare nella dimensione dell’immanenza della realtà molteplice quella agognata unità dell’ordine universale, che nessun sapere naturalistico e mondano riesce a conseguire. Ed è appunto questa inevitabile consapevolezza che costituisce la premessa stessa del ricorso di una rinnovata cultura religiosa “secondaria”, sia in ordine alla trascendenza che di carattere monoteistica che la veicoli. La ricerca di una alternativa alla frammentazione, ma soprattutto al fallimento del tentativo politico organicista, inficia l’emancipazione dal “rapporto simbiotico col mondo” 28 in quanto questo era per l’appunto un rapporto di dipendenza a cui l’uomo soggiaceva, che la sudditanza politica confermava; sicché lo spostamento in senso teonomico della relazione dell’uomo voleva attestare la ricerca di un modus vivendi svincolato dall’ineluttabilità naturale dell’, che si rifletteva simbolicamente nella servitù egizia trattata nell’Esodo. Vi è da dire che la 28
Ivi, pag. 59.
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predicazione cristiana, per il suo carattere totalitario, ovvero integrale, non si limita a una “relativizzazione del coinvolgimento integrale nel mondo”,29 ma intende reinterpretare la vita biologica e naturale entro il finalismo escatologico pneumatico. In tal senso, la trascendenza di Dio rappresenta, con la sua distanza dalle logiche polemiche del mondo, quella unità cosmica, cioè ordinamentale, che era impossibile rinvenire nell’immanenza mondana. In altri termini, la distanza dal mondo ne implicava la sottomissione, la perdita della sua ritenuta (dalla cultura antica) assolutezza. La conseguenza della separazione della coscienza religiosa dalla libertà, ha fatto sì che la sua versione pratica si esplicasse nell’ambito sociale come politica della libertà, ossia in libertà dal Potere, e quindi nella negazione stessa del politico come esercizio del potere, ossia come Governo. Come abbiamo chiarito supra, il momento propriamente politico, nel senso dialettico definito dalla Arendt, è propedeutico all’esercizio del Potere quale decisione razionale conseguente alle diverse opinioni in dibattimento. Perché la politica possa conservare la sua libertà, è necessario che la decisione del Governo non coincida con una determinazione di forza maggiore tra forze minori, come avviene nella logica democratica, ma si stabilisca in virtù di una autorità (auctoritas) legittimata dalla sua funzione meta-politica, di natura trascendente. Questo rapporto differenziale tra manifestazione della libertà come istanza politica, ed esercizio del Governo, non è possibile entro il piano d’immanenza, ma presuppone l’origine appunto trascendente, e quindi divina, del Potere, riassunta dal brocardo per cui omnia potestas a Deo. Ciò non implica che l’esercizio del Potere sia divino, poiché la reale potestas resta di appannaggio umano, ma significa che la sua legittimazione non dipende dalla sua forza ma dall’auctoritas che la omologa. Il Limite () che il Potere riconosce alla libertà politica, è esattamente quello che la potenza naturale riconosce all’elemento spirituale dell’uomo, e quindi del mondo costruito dagli uomini. Ciò comporta che la libertà della dimensione politica non sia originaria, ma acquisisca uno statuto politico a seguito del riconoscimento della sua originaria natura spirituale, e quindi del superiore ordinamento divino 29
Ivi, pag. 60.
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della realtà, compresa di quella naturale. In virtù di tale riconoscimento, il Potere può stabilire un limite al suo esercizio, altrimenti non garantito, poiché ogni sua determinazione legale, essendo umana e contingente, può essere rimossa e modificata a favore della parte leonina del patto sociale. E’ vero, pertanto, che “il monoteismo è teologia politica”, 30 ma non ogni teologia politica è una teologia della libertà, ispiratrice perciò di una libertà politica. Le ideologie che sostengono che la fonte della legittimità del Potere sia il popolo sovrano (omnia potestas a populo), sostituiscono un’astrazione formale idolatrica al Dio della Rivelazione cristiana. Questa superstizione giuridica moderna, le cui varianti sociologiche sono la nazione etnica del fascismo e la classe sociale del comunismo come idolum tribus, non risolve il problema della fondazione della libertà umana considerandola come “volontà di potenza”. I falsi idoli non hanno garantito la vittoria proletaria e nazionale, a riprova empirica della incapacità dell’ipotesi ateistica di fondare un impero universale. Ma la stessa sorte toccherà al capitalismo democratico, che nei giorni nostri tende ad esportare attraverso la tecnica finanziaria e del mercato una forma di Potere, quella sedicente democratica appunto, che corrisponda al sistema politico funzionale all’homo oeconomicus, seguace dell’idolatria immanentistica del Valore economico. Tale ideologia imperialistica, propone la democrazia come criterio di valore universale atto a redimere le vertenze sociali e a uniformare le credenze religiose che ancora oppongono resistenza al novello idolo ideologico che ha saputo affermarsi contro gli altri idoli monoteistici rivali, concorrenti nella ricerca del primato mondiale. L’ideologia capitalistica attribuisce all’ente collettivo spinoziano tutti gli attributi divini pertinenti alla persona di Cristo, con in più l’idea propriamente greca della universalità orizzontale della libertà come volontà dell’homo politicus aristotelico. Facendo di ogni produttore-consumatore un dio in miniatura, in grado di gestire la propria libertà al pari del Potere per mandato elettorale, essa traduce in termini mondani il destino soteriologico assegnato alla persona spirituale, operando un effettivo rispecchiamento idealistico in senso immanentistico. Se affermiamo, come fa la Arendt, che il progresso della 30
Ivi, pag. 63.
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Germania, e per essa del nuovo corso dell’Europa, non può non essere che nel segno dell’ideologia americana, 31 noi ci poniamo già all’interno della visione idolatrica post-crstiana. E poiché della fede cristiana ne conserviamo le vestigia secolarizzate, il richiamo all’unità ideale di un umanesimo del riscatto e della potenza dalle altre forze mondiali, appare nel segno della riabilitazione del Dio ebraico della guerra, a preferenza dell’esegesi cristiana dell’amore. In questo titanismo religioso il neoebraismo universalistico incontra la cultura razionalistica pagana su un piano, sicuramente monoteistico, ma dichiaratamente polemico, ben diverso da quello cristiano, sempre rifiutato, ma anche diverso dalla prospettiva della politeia classica, dove era determinante l’elemento della persuasione, e non del rapporto di comando e obbedienza, tipico, non solo dell’agire guerresco,32 ma anche dell’etica religiosa ebraica. L’ideologia democratica capitalistica sembra dunque ereditare l’universalismo umanistico cristiano, ma in una chiave naturalistica pagana, sicché la sua riduzione razionalistica del cattolicesimo incontra il monoteismo guerriero ebraico attraverso Spinoza, diventandone il referente politico imperiale. Il nuovo credo sincretistico ha segnato la rivalsa dei farisei sul sacrificio di Cristo, ma ciò che ha persistito sotto la congerie millenaria degli eventi religiosi e politici come una conquista durevole della civiltà, è l’universalismo razionalistico quale criterio avvalorante della bontà e giustezza di una tesi. Kart non ha fatto che confermare in ambito critico il criterio razionalistico greco del valore universale del concetto logico. Nondimeno, esattamente questo criterio di validità si scontra inevitabilmente con le concrete condizioni di commisurazione, originando la gnosi relativistica e gli atteggiamenti scettici ammantati di realismo. La stessa epistemologia del sapere scientifico moderno ha confezionato una teoria gnoseologica che ammette preventivamente l’inevitabile esito confutatorio di ogni ipotesi euristica universale. Ciò è inevitabile dal punto di vista del’idealismo classico, che antepone un modello astratto e immobile all’esperienza molteplice della realtà fenomenica. La prospettiva teoretica idealistica, sul piano pratico, aspira a 31 32
H. Arendt, WP, pagg. 65 sgg. H. Arendt, WP, pag. 73.
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rapportare ogni movimento reale al suo modello universale, cercando di far coincidere la realtà con la sua Idea. In questa ricerca di uniformità, la Ragione deve servirsi della politica e diventare logica del Potere. Il connubio tra Ragione e Potere genera violenza, volontà di potenza politico-religiosa, stabilita sulla distinzione amico / nemico. 33 Se non comprendiamo questo processo genetico originario del razionalismo occidentale, non riusciamo a darci ragione dell’esito nichilistico della cultura occidentale. Infatti, la riduzione del Molteplice all’Uno ideale genera violenza, e una realtà costretta ad astrarsi dalla sua concretezza particolare per somigliare come anaogon al suo modello razionale, diventa altro-da-sé, ossia ciò che non-è, un ni-ente privo di processualità spontanea e di libero movimento. Poiché, però, l’essere proprio di ciò che non-è in senso razionale, non può nientificarsi ma solo mutare di aspetto quale diverso, ogni mutamento reale rivela la sua essenza originaria e tende a deflagrare dal suo status artificiale, tornando al suo essere originario. Questo ritorno all’essere originario degli enti logicamente negativi, è ciò che chiamiamo “rivoluzione”, fenomeno che dal punto di vista socio-politico segna la dissoluzione dell’impianto strutturale del sistema more geometrico di Potere razionalistico, che Foucault chiama “dispositivo”.34 Niente dura nel suo essere negativo, sia un atteggiamento umano che una intera civiltà. In questa prospettiva, il movimento storico tendente a uniformare la realtà concreta all’astratto modello ideale, non può essere un “progresso”, se non nel senso della inevitabile catastrofe socioculturale. Aver giustapposto al percorso soteriologico dello spirito verso la sua redenzione morale un progresso politico-sociale di tipo eudemonistico, ha rappresentato un travisamento metafisico di enorme portata culturale ed esistenziale, che ha condotto la politica ideologizzata alla sua costituzione totalitaria, ossia alla blasfema e folle illusione di “mantenere la padronanza del mondo”. 35 Essa nasce dall’intento di uniformare il molteplice reale al modello ideale, creando un Impero 33
J. Assmann, Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, Bologna, 2007, pagg. 71-72. 34 Ved. G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Roma, 2006. 35 H. Arendt, WP, pag. 65.
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universale a immagine di quel totem tribale. Mai il potere imperiale antico ebbe tale pretesa, concependo l’Imperium come emanazione di un comando che raggiungesse tutti i sudditi, senza però volerli mutare in Romani. La stessa cittadinanza non comportava l’omologazione degli usi e dei costumi locali tradizionali. Solo col cattolicesimo si nutrì l’esigenza di coniugare l’Imperium alla personale metanoia spirituale, assegnando al Potere compiti improprii e nefasti. Ciò che doveva essere una spontanea trasformazione in interiore, diventa una condizione politica, che identifica l’Imperium divino del Cristo con quello profano dell’Imperatore, secondo la formula teologico-politica di Eusebio.36 2. Artemidoro, nota oniromanta dell’antichità, “divideva i racconti in tre categorie: storie vere, non vere e tali che vengono spesso raccontate e che molti credono”. 37 H. Broch scrive che Nel mito le verità fondamentali dell’anima si rivelano ad essa stessa; essa le riconosce negli eventi del mondo e della natura e le mette in atto. In un processo parallelo, la ragione (mind) afferma, come sue verità fondamentali, i princìpi della logica; essa riconosce questa logica nel mondo esterno, nella concatenazione di causa e di effetto, mettendosi, in questo modo, in grado di servirsi di essa. Mythos e Logos sono i due archetipi del contenuto e della forma: essi si rispecchiano a vicenda e si ritrovano uniti, n un modo meraviglioso, nel più umano di tutti i fenomeni: nel linguaggio.38
Ciò vuol significare che il linguaggio, in quanto orizzonte totale espressivo del pensiero umano, è un composto di forme logiche e di 36
Non a caso Eusebio di Cesarea, al pari di Giustino, di Clemente e di Origene, fu un grande estimatore di Platone, che considerava il sommo filosofo greco, al quale dedicò lunghe disamine concernenti le analogie tra le sue dottrine e quelle che egli ritiene le fonti mosaiche del platonismo. Ved. Id., Preparazione evangelica, tr. it. Roma, 2012, vol. III, libri 11-14. 37 C. Kerény, Miti e misteri, Torino, 1950, pag. 272. 38 H. Broch, The Heritage of Mith in Literature (1946), cit. da C. Kerény, Op. cit., pag. 289.
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contenuti mitici, che si implicano in ogni racconto, espressivo di una esperienza vissuta: o come esperienza reale (per la coscienza che la riconosce come esistente), ovvero come esperienza ideale (per la coscienza che l’assume mediatamente attraverso l’oggettivazione razionale). A seconda del punto di vista in cui si pone la coscienza, il (racconto del) pensiero umano può essere giudicato mitico ovvero logico, attribuendo al “mito” l’accezione di irreale e immaginario, e alla dimensione della realtà la rappresentazione razionalmente giustificata. Ora, poiché la qualifica di esistenza attribuita ai contenuti della rappresentazione razionale è essa stessa un prodotto della coscienza rappresentativa che li assume come credibili (veri) anziché incredibili (falsi), e quindi quella medesima qualifica di realtà è legata a una credenza onto-logica, con la sintesi kantiana a priori si è creduto di eliminare tale credenza attribuendo alle rappresentazioni razionali un contenuto non immaginario ma sensibile, tratto dall’esperienza fenomenica. Sennonché, non potendosi determinare concettualmente ciò che quei contenuti siano in sé, la loro veridicità è demandata alla rappresentazione che ne fa la coscienza, la quale, essendo libera di determinarsi, li valuta intenzionalmente, ossia in modo non necessario ma discrezionale, e dunque li rappresenta soggettivamente. La discrezionalità e libertà della rappresentazione soggettiva del mondo riconferma al linguaggio la sua natura ibrida e perciò la sua funzione narrante intrinsecamente mitopoietica. La conoscenza razionale del mondo si esercita sulla cernita, entro la rappresentazione mitologica del pensiero, dell’elemento logico del mitologema da quello mitico, astraendoli dalla concreta rappresentazione del linguaggio. Questa critica del pensiero vero dal pensiero giudicato razionalmente falso, è esso stesso un prodotto intenzionale della coscienza, la cui valutazione assiologica non ha alcuna necessità ontologica che non sia quella che le attribuisce la coscienza credente, quella appunto intenzionale che pone la realtà razionale come vera. L’atto di tale posizione ontologica di esistenza è un atto di credenza, la cui legittimazione formale è legata alla sua pretesa uni-versalità, cioè esclusività, dell’archetipo logico. Ed è in questa esclusione dell’archetipo mitico operata dal logos creduto universale che si determina quell’ “oblio dell’Essere” come totalità di cui parlava Heidegger, e che coincide con la razionalizzazione (della visione) del mondo proposta dalla metafisica
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occidentale, sviluppatasi storicamente come processo di civilizzazione europea e quindi mondiale. L’originaria trascendenza del linguaggio, attribuita miticamente alla insondabilità del pensiero divino, è stata tradotta razionalisticamente in contestualità ermeneutica di una circoscritta tradizione letteraria, la cui fattualità scritturale consentiva l’esperibilità empirica dei contenuti di coscienza, richiesti dalla metodologia critica come condizione di validità della conoscenza razionale. Ma tale tradizione, idealmente entificata in unità normativa, era essa stessa una rappresentazione convenzionale del canone linguistico, euristicamente utile al criterio gnoseologico, ma ontologicamente arbitraria, proprio perché esclusiva dell’altro-da-sé. La trascrizione del mitema originario di ogni rappresentazione linguistica del pensiero, in forma ideale dei suoi contenuti empirici, ha sostituito con la dialettica Soggetto-Oggetto la relazione Verbo-Parola, circoscrivendo alla dimensione della finitezza ciò che per sua natura è in-finito, cioè l’orizzonte trascendente del linguaggio, il Verbo divino, l’Essere. L’elemento discrezionale della coscienza non è, come ricordava Broch, l’Essere, inteso come totalità linguisticamente rappresentabile, il Mythos, ma l’ente, cioè i contenuti ontici della rappresentazione, che possono essere veri o falsi, a secondo della credenza che li pensa come esistenti o non. E’ pertanto l’esistenza il discrimine dialettico vero/falso, non l’Essere, il quale, anche se assunto nella sola dimensione logicamente reale, pur sempre è, anche se giudicato non esistente. E dunque, l’Essere comprende anche ciò che è in-esistente, cioè non è presente alla coscienza come realtà vera, e in quanto immanente sia all’ente che al niente, l’Essere stesso è trascendente la realtà ontica, così come il linguaggio, ossia il Verbo divino, è trascende rispetto ad ogni espressione linguistica umanamente determinata, ossia rispetto alla finitezza della Parola. L’esistenza è il contenuto della rappresentazione razionale del mondo, che destina all’in-esistenza i contenuti mitici. Ma poiché intrinsecamente mitica è anche la coscienza razionale che pone l’esistenza della realtà fenomenica (), l’identità razionalistica di essenza ideale ed esistenza reale è una posizione mito-logica, espressiva di una rappresentazione del mondo la cui legittimità è puramente formale, legata cioè alla pretesa universalità del valore del suo metodo razionale. Il
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valore metodico suppostamente universale di questa riduzione ontologica dell’Essere (il Mythos o Verbo) all’Idea (al Logos o Parola), e conseguente riduzione del Molteplice () alla sua unità formale, è la tecnica moderna di rendere esistente il razionalmente pensabile. Non più l’essere, la verità, delle cose, ma la loro misura: la conoscenza metodica è una “tecnica” a cui è ridotta la ragione. La sua funzione ontologica è di porre in relazione dialettica il Tutto con la parte, attraverso l’omologazione dell’Essere all’ente, operata dalla tecnica universale di rendere tutto omogeneo al logos, che è la scienza. Il fine della dialettica onto-logica è di pervenire alla unità ideale del Molteplice, ossia alla identità del soggetto pensante con l’oggetto pensato, che diventa perciò il suo prodotto, emancipato dalla spontanea potenza creatrice della Natura e di quella imperscrutabile di Dio. L’esito di questa liberazione dalla necessità naturale e divina è l’assoggettamento della realtà alla volontà del Soggetto, il quale la interpreta, cioè la rappresenta, non più come si deve, cioè come arginante la della arbitraria assolutizzazione del Sé, ma a modo suo, a sua libito. Ma la scienza non nasce ex nihilo, essa è preparata dall’incubazione teologica conseguente all’acquisizione del razionalismo greco, naturalistico, il quale, rivelando modernamente le sue potenzialità metodiche, si è sviluppato autonomamente perdendo l’originario finalismo metafisico. Il razionalismo scientifico era già insito nell’ontologia greca, il cui metron non era costituito dalla Differenza ontologica ma dalla portata culturale della sua visione antropologica, limitata all’uomo greco, coltivato nella propria paideia. Il “metodo” scientifico era la conoscenza “tecnica” della realtà visibile ( ) a portata dell’uomo: un’arte, funzionale alla vita della polis. La nuova scienza,di contro, è “assoggettata alla finalità pratica del dominio della natura: azione e non contemplazione; utilità pratica e non verità di un principio o di un concetto; fisica o scienza della natura e non metafisica; le faccende e non le virtù come dignità morale dell’uomo”. 39 La scienza sostituisce la metafisica e si pone “al servizio delle ideologie politiche ed
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M.F. Sciacca, OdI, pag. 111.
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economiche, il solo potentissimo campo di verifica di ogni attività umana”.40 Il racconto dell’esperienza umana all’interno dell’orizzonte della riduzione ontologica del razionalismo è la storiografia, la rappresentazione dell’ “essenza” che “produce l’ente nella sua oggettività” in “funzione della vita” ridotta ad “animalità” razionale dell’ente-uomo storiografico, portando “a compimento il cartesiano ego cogito – ergo sum”. D’altro canto, a conferma della trascendenza dell’Essere, “la storiografia dell’ente può ricoprire e dunque celare la storia dell’Essere e tenerla lontana dall’orizzonte dell’uomo – essa però non può mai intaccare l’iniziare in quanto tale”, che non è “un passato che viene superato”,41 ma è la condizione fondamentale di ogni storia umana, intesa come narrazione della sua vicenda spirituale, che non inerisce al. bagaglio cognitivo del sapere scientifico, ma la conoscenza e l’esperienza di vita che conducono, attraverso un progressivo processo di chiarificazione dell’esistenza, alla saggezza.42 Questa progressione è in verità un ritorno alle origini, da ogni parola ha inizio e senso, al Verbo mitico. Se noi indichiamo come orizzonte spirituale lo spazio culturale all’interno del quale è sorta e si è sviluppata la theo-logia cristiana, come immagine la rappresentazione iconografica e architettonica delle vicende che riguardano la figura di Cristo, intesa come principio formativo di ogni mitologema cristiano, abbiamo in compendio il Mito fondativo della civiltà europea, i cui archetipi sono i racconti evangelici e la tradizione cristo-logica. A partire dalla Riforma protestante, la produzione noetica interna all’orizzonte spirituale cristiano si è sviluppata in due direzioni scientifiche, una rivolta alla elaborazione theo-logica del mito cristiano, un’altra alla emancipazione razionalistica dalla mito-logia cristiana. Questo secondo percorso di ricerca, in apparenza intellettualmente più 40
“Il progresso della conoscenza consiste soltanto nel perfezionare gli strumenti di osservazione e quello strumentale che è la ragione con nuove tecniche di calcolo al fine dello sfruttamento delle cose, del dominio dell’uomo su di esse e sull’uomo stesso: sapere è potere di dominio anche, soprattutto, di un uomo su gli altri”: Ivi, pag. 112. 41 M. Heidegger, Ueberlugungen VII-XI (Sch. Hefte 1938-1939), cit., pagg. 374, 380. 42 C. Kerény, Op. cit., pag. 288.
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disincantato rispetto al finalismo apologetico dell’altro, è risultato storicamente dominante, ma dal punto di vista epistemico il pensiero razionalistico rappresenta, a fronte di un affinamento metodologico dell’approccio gnoseologico, una regressione, perdendo progressivamente di vista, con l’arché, anche il télos della conoscenza, ridotta a tecnica razionalizzante dei contenuti dell’esperienza e conseguente spiegazione per causas, che non dice alcunché sulla domanda di senso fondamentale e sull’Essere. Infatti, per quanto pervasiva, la tecno-logia non potrà mai esaurire i contenuti di coscienza mitici senza esaurire la sua stessa funzione demitizzante, sicché lo stesso suo potenziamento critico sviluppa simmetricamente una dialettica mitopoietica non meno pervasiva, che R. Barths ha descritto.43 La svolta moderna, come processo di progressiva libertà dal mito, si è costituita attraverso la narrazione delle “cose essenti”, manifestazione storica delle relative “essenze” metafisiche, cioè come , che rappresenta l’archetipo alternativo al , cioè al “poetare e pensare dell’Essere”,44 contrassegnando il dominio dell’ente, ossia della “vita”, assunta come il fondamento (Grundlegung) della spiegazione metafisica dell’uomo e il “culmine supremo della umanizzazione”. Le determinazioni dell’ente che riguardano l’antropologia platonicocristiana, che sta a paradigma metafisico di questa onto-logia, “si esauriscono nella generale distinzione di essere e divenire”, 45 dove il secondo elemento è il movimento della dialettica storica contenuto nel principio onto-logico assolutizzato quale ragione del suo stesso storicizzarsi come suo riflesso. Il fondamento assoluto ha in sé stesso, nella sua assolutezza, la necessità del suo processo storico, che diviene il modo del suo manifestarsi, cioè il suo “come” (wie), che è l’existentia. Poiché il fondamento è l’essentia (Wesen) dell’ente, il Wesen di ciò che è esistente (was), il movimento dell’assoluto è la sua finitezza. Ma la scaturigine del processo dialettico, pensata come esser-causa (aitìa) della “cosa originaria” (Ur-sache), non è l’origine (arché) mitica del Logos, ma è il principio pensato come essenza, cioè come sostanza (hypokeimenon) 43
R. Barthes, Mythologies (1957), tr. it., Miti d’oggi, Milano, 2004. M. Heidegger, Ueberlugungen VII-XI (Scharze Hefte 1938-1939), cit., pag. 294. 45 Ivi, pag. 297. 44
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di pensiero, e dunque come attività del soggetto, come soggettività. La realtà fenomenica di tale sostanza è l’oggetto del pensiero, il pensato, il cui contenuto è presente alla coscienza secondo il modo dell’existentia. Ma tale modalità (wie), che identifica la realtà con l’oggetto del pensiero, è una credenza onto-logica che non è stabilita su una relazione (Verhaeltnis) tra Io e mondo ma sull’identità originaria di Essere e pensiero, e dunque di soggettività e realtà. La “libertà” in senso razionalistico moderno viene dunque intesa come la vis activa del Soggetto, in grado di manifestare il suo sé senza l’ausilio di una causa esterna. Tale forza (dynamis) coincide aristotelicamente con l’energeia, quale “modalità suprema dell’essere che si addice all’ousia”,46 impulso vitale del Soggetto, la cui attività (das Wirkende) auto-propulsiva consiste nella razionalizzazione del mondo, ossia nella riduzione del molteplice apparire dell’ente all’unità della sua essenza logica (eidos), ossia alla sua identità con l’Essere del Logos. Solo considerando il non-essere come eteron rispetto all’eidos si può platonicamente determinare quest’ ultimo come essente per sé, per cui essere (necessario) ed apparire (possibile) sono congiunti in un unico cerchio concettuale, al quale appartiene tutto ciò che è e che non è (in quanto ancora non è, ed esiste nella forma privativa di questo “ancora”). In realtà, l’unità essenziale dei due momenti, quello oggettivo del pensiero e quello possibile del fenomeno, si può dare solo sul medesimo piano logico del rapporto dialettizzato, ma non propriamente sul piano ontologico, in quanto l’essenza del Negativo non coincide con l’inattualità temporale del positivo, cioè con la presenza ontica, rispetto alla quale l’ancora sarebbe inscritto nella necessità dell’Essere, aristotelicamente. “Oggettivo” può essere solo il fenomeno presente, laddove l’in-attualità del possibile si differenzia dall’attualità del possibile in quanto trascendente ogni possibilità attuale. La trascendenza di ogni possibilità attuale è, non già “l’infinità che toglie le differenze”, 47 ma l’infinità della Differenza, ossia la trascendenza, la quale resta aperta alla infinita possibilità rispetto alla finitezza di ciò che è attuale, oggetto 46
M. Heidegger, Segnavia, tr. it., Milano, 1987, pag. 240. Ved. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, tr. it., Firenze, 1960, vol. I, pagg. 147 sgg. 47
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di pensiero. L’infinità non precede temporalmente la finitezza di ciò che è attuale, ma la trascende come possibilità appunto in-finita, metatemporale e perciò libera dalla necessità di determinarsi. Tale libertà trascendente fa sì che la Possibilità si costituisca come l’alterità non dialettizzabile alla Necessità, e che pertanto ri-chiede (invoca) una mediazione con-sustanziale, che sia cioè nel contempo libera e storica, infinita e determinata, eterna e nel tempo, o altrimenti divina e umana. Il differente dall’Essere pensato come principio del Logos, non è il suo opposto logico, il negativo dialettico, ma l’altro archetipico del mitologema, irriducibile a ogni coincidenza logica, astratta dalla sua infinità, che non è il divenire rispetto al proteron dell’Essere ideale, ma la infinita possibilità del Verbo, il Mythos. Nell’orizzonte della rappresentazione mito-logica, ogni determinazione presente è la “traccia” (Lichtung) che segna il “limite” (Grenze) della possibilità dell’Essere, la quale rinvia infinitamente alla Differenza in-nominata, che la Parola (Logos) argina con la de-finizione (katechon), impedendo l’ del linguaggio, il Kaos dis-ordinato del pensiero in-razionale. E dunque il racconto spirituale dell’uomo (Mytho-logein) si costruisce nella relazione (Verhaeltnis) dei due archetipi del Mythos e del Logos, i quali, pur mantenendo la differenza originaria (Ur-teil), si rapportano l’uno all’altro come il Kaos e il Katechon, che se disgiunti sarebbero un inutile Poros senza la relativa Penìa. La relazione archetipa costituisce il “gioco della scrittura” di una diégesis inclusiva della differenza, e perciò comprensivo di quel mondo-della-vita che resta escluso dalla dialettica vero / falso della diairesis filosofica. Il cui metodo dialettico porta alla cognizione scientifica delle essenze, la cui fenomenologia consiste nell’attività dello Spirito assoluto che, come “una forza magica che converte il negativo nell’essere”,48 nega le proprie posizioni, ma non al sapere spirituale, alla divina sophia, la saggezza. Questa non consiste nell’attività dell’umkehren (metabolè)del Soggetto assoluto, ma nel movimento della Possibilità (Moeglichkeit), che è percorso contrario a quello della dynamis della Necessità, stando al primo come la poiesis sta alla energeia. La rimozione dell’Origine () dispone che l’Origine sia il Nulla e l’Essere sia il Tutto, sicché l’essenza (Wesen) 48
Hegel, Fenomenologia dello Spirito, vol. I, cit., pag. 26.
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dello Spirito è il suo movimento, cioè la riflessione noetica dell’esistenza fattuale, che in Aristotile è naturale e in Hegel storica. La dialettica esclusiva del Logos è la esclusione della Differenza. In tal senso la filosofia dialettica costituisce la tecnica dell’esclusione della Differenza, pensata come necessità da cui liberarsi. La filosofia ha dunque di mira la liberazione del pensiero dalla necessità della Differenza. La logica dialettica, eliminando la Differenza (Unterschied) ontologica, pone enti omologhi, ossia pro-duce uguaglianza. Ed è tale uguaglianza degli enti il contenuto oggettivato della rappresentazione razionalistica dell’Essere come Idea dell’ente. L’Essere, ridotto a unità ideale di enti uguali e proiettato nella realtà socio-politica, ossia pensato come realtà esistente, è lo Stato razionale, vagheggiato da Platone e realizzato dai moderni. Lo Stato giuridico come remedium mali delle passioni naturali dell’uomo economico in preda all’anarchia. Non più indirizzo etico, ma rimozione delle passioni. La norma razionale procede per esclusione dell’opposto, esattamente come il concetto logico. Lo Stato diviene “assoluto” in quanto elimina ogni opposizione politica. Lo Stato hegeliano realizza la communitas christianorum, mentre lo Stato hobbesiano realizza l’unico bene a l’uomo possibile, quello politico. L’antropologia naturalistica hobbesiana non considera la salvezza cristiana, non in quanto patrocini l’idea dell’uomo quale “essere pericoloso e amante del rischio” (Schmitt), ma i quanto ripone nella politica la salvezza destinata alla Grazia, ossia al potere umano la redenzione concessa agli uomini liberamente da Dio. La morale del battezzato diventa modernamente l’etica del citoyen. L’emancipazione del Logos da ogni fondazione eteronoma, poiché oltre l’Essere che è Tutto c’è il Nulla, si costituisce come universalità del concetto, e sul piano storico come mondializzazione politica dello Stato universale e omogeneo, ordinatore di ogni ente, dove scompaiono tutte le antinomie sociali, e con esse “la possibilità stessa da cui il politico trae la propria ragione di sussistenza: l’emancipazione politica comporta simultaneamente l’emancipazione dal politico”, inteso come “autocertezza normativa della coscienza storica”, per cui, per dirla con
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Heidegger, “la Fraglosigkeit del politico e la sua totalità si appartengono reciprocamente (gehoeren zusammen)”.49 Nella Logica di Hegel si legge che “il non essere del finito è l’essere dell’assoluto”,50 sicché egli concepisce la finitezza come determinazione oggettiva dell’ente in campo, non gnoseologico ma ontologico, giungendo così a quella “magia” di cui si diceva, che trascrive in termini idealistici e profani la creazione divina dell’ens creatum, sicché “il concetto di finitudine, per la prima volta staccato dalla tradizione teologica, diventa esso stesso infinito, poiché nulla gli si oppone in senso ontologico senza esserne già dialetticamente condizionato”; ciò vuol dire che “il mondo in Egeo è finito non perché creato da Dio ma perché la finitudine è la sua qualità intrinseca”.51 La qualità finita del mondo, che è il suo essere costituito dal non-essere, ne fa una infinità, cioè un universo che ha in sé le sue ragioni, e quindi un assoluto, che è l’Origine da cui muove dialetticamente ogni determinazione ontica. La negazione del finito da parte dell’assoluto, comporta la riduzione dell’assoluto alla finitezza, che è l’essenza del finito. Infatti, la finitezza, come essenza del finito, coincide con il Negativo, sicché l’atto di negare il finito coincide con l’assolutizzazione della negatività o finitezza. Assolutizzare la finitezza significa rendere il finito auto-nomo, universale. L’affermazione dell’assoluto, che si compie con la negazione del finito, coincide dialetticamente con l’assolutizzazione della finitezza, ossia col rendere il finito un assoluto, e quindi la sua essenza negativa una realtà assoluta. Ciò implica che l’affermazione-negazione dell’assoluto attraverso il finito, realizza il non-essere come realtà assoluta. Portare a realtà finita l’assoluto, significa negare il finito attraverso l’assolutizzazione della sua finitezza. Questo esito paradossale (l’assolutizzazione del finito come finitezza) è legato al pregiudizio ontologico della metafisica greca per cui l’Essere è il (pensiero, cioè il concetto del) Tutto, per cui l’oltre-Tutto è Nulla. Ossia,ciò che non-è (presente come oggetto del pensiero) è ni-ente. E 49
M. Heidegger, Hoelderlins Hymne “Der Ister” (1942), cit. da M. Vegetti, Hegel e i confini dell’Occidente, Napoli, 2005, pag. 279. 50 Cit. in M. Vegetti, Loc. cit., pag. 137. 51 Ivi, pagg. 135-136.
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poiché ciò che è (l’ente) è in quanto altro dal non-essere, al Negativo assoluto corrisponde l’Essere assoluto. La loro identità logica comporta il carattere totalitario della loro coincidente esistenza, dal momento che affermare l’assolutezza equivale ad assolutizzare la finitezza, cioè universalizzare il non-essere del finito facendone un assoluto reale. Se questa premessa onto-logica, la scienza moderna, universalizzando il metodo razionalistico, ha assorbito nella sua assolutezza ogni fondamento teologico, prendendone il posto. L’assoluto non è l’ente, ma perché l’assoluto si realizzi,si storicizzi, si mondanizzi come suo “accadere”, deve finitizzarsi, trasfondendo i proprio essere (cioè la propria assolutezza) nel positum finito, nell’ente, appunto. Ed in questa “rivelazione” che il “verbo” pensato alla luce del Logos, “diventa carne”, cioè ente mondano. Tale secolarizzazione dell’Incarnazione divina costituisce il paradigma della divinizzazione del mondo a opera del Soggetto trascendentale, ma anche la radice magica della trascrizione ontologica della dialettica egologica hegeliana. 52 In cosa consiste la radice “magica” della dialettica hegeliana? Essa consiste nell’ipostasi del Negativo, cioè nella rappresentazione della alterità dell’assoluto come una realtà ontologica trasfusa nella dimensione finita della Storia pensata come unità universale, come concetto. L’assolutezza dell’essenza dell’ente, il suo concetto, è la sua universalità, che coincide con la sua emancipazione da ciò che negandolo l’ha posto. Recidendo ogni origine dell’ente dalla sua matrice archetipa, la presenza (Gegenwart) di ciò-cheè viene creduta come la realtà di tutto ciò che è possibile esista. L’assolutezza dell’ente è la sintesi della sua realtà finita e dell’universalità dell’assoluto. Poiché la sua realtà finita (existentia) è il suo non-essere (assoluto), l’assolutezza della sua finitezza coincide con l’universalità della sua negazione. Ma assolutizzare la negazione significa credere che il Niente universale (Nulla) sia il Tutto. Credere che il Nulla sua Tutto è l’essenza del nichilismo, il quale consiste appunto nella credenza ontologica che l’ente universalizzato dal concetto (cioè reso reale dall’assoluto che lo pone in essere storicamente come ente esistente) 52
“Al centro dell’ interpretazione filosofica compiuta da Hegel sta perciò l’incarnazione di Dio e il rapporto tra Padre, Figlio e Spirito Santo”: K. Loewith, Hegels Aufhebung der christlichen Religion (1962), tr. it. in Id., Hegel e il cristianesimo, Roma-Bari, 1976, pag. 51. Da ora HC.
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sia altro da ciò che è, ossia sia assoluto, e come tale sia Tutto (il reale possibile). La logica dialettica è il procedimento metodico attraverso il quale si compie la transustanziazione dell’ente, originariamente opposto all’Essere assoluto che lo pone come suo negativo, e perciò non-essere l’Assoluto, che diviene realtà assoluta. Al parricidio dell’ente perpetrato dalla logica dialettica (techne dialektiké) corrisponde la divinizzazione del Figlio emancipato dal suo Creatore. La secolarizzazione dell’Incarnazione cristiana consiste nella rescissione (Entzweiung) metodica del prodotto storico (l’ente, trasfigurazione logica del Figlio) dalla sua matrice meta-storica, dall’Assoluto (trasfigurazione logica del Padre). In questo senso trasfigurato, il Geist hegeliano rappresentala trascrizione logica dello Spirito santo. La trasfigurazione magica consiste nell’occultamento della Differenza (Unterschied) ontologica dell’ente dall’Assoluto. Se pensiamo tale Assoluto come linguaggio, la dialettica ci appare come il metodo tecnico con cui il Verbo diventa Parola. Ma tale passaggio (Uebergang) consegue alla oggettivazione concettuale del mondo-dellavita, è cioè una rappresentazione del mondo che ha come fondamento d’essere la credenza nella sua realtà; in tal senso, tale rappresentazione contiene un insopprimibile elemento intenzionale ’a sua volta non oggettivabile se non come interpretazione dell’analogon, ossia come nuova rappresentazione analogica dell’espressione ( che, riformando il suo oggetto lo “de-forma” 53 dal suo essere così com’è, secondo la dinamica propria di ogni diegesi. Ciò attesta che se l’Essere della rappresentazione “è”, in quanto intenzionale, può anche “non essere”.Tale possibilità d’essere altro da ciò che è, fa sì che la rappresentazione del mondo non sia legata ad alcuna necessità metafisica che non sia quella creduta fondativa dell’esistenza; ed è questa credenza che fonda la rappresentazione della realtà in quanto intenzionalità, a costituire l’elemento mitico dell’affabulazione, la quale “pone” l’essere, ossia intende che l’essere “è” anziché non.
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Secondo R. Barthes, la funzione del mito è di deformare il senso originario, per cui “il rapporto che unisce il concetto del mito al senso è essenzialmente un rapporto di deformazione”: Il mito, oggi, in tr. cit., pag. 203.
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Ogni posizione ontologica della coscienza si rapporta ai modi di datità in cui il mondo è già dato, cioè alle forme del sapere in cui opera la sua conoscenza della Lebenswelt, in senso conforme alla considerazione della loro assolutezza assiologica da parte del contesto culturale in cui si trova, ovvero in senso critico rispetto all’orizzonte epistemologico contestuale. Il fondamento della metafisica greco-cristiana, che risale a Parmenide e a Platone, è pensato come a) l’assolutamente altro rispetto al condizionato mondo sensibile, e quindi come Mistero ineffabile divino, e come b) assoluta identità, contrapposta alla relazione tra enti finiti non-assoluti. Questa posizione noematica è a sua volta sostenuta dalla credenza che l’assoluta identità del fondamento sia identica a quella tra Essere e Pensiero, ovvero che il fondamento stesso sia il Logos. Pertanto, i due contenuti noematici dell’intuizione ontologica fondamentale pensata dai Greci costituiscono gli archetipi mito-logici della metafisica grecocristiana. Essi si richiamano a vicenda e costituiscono un unico mitologema, in cui i contenuti teoretici (le idee) partecipano delle credenze (nella loro necessità onto-logica) espresse in forma testuale. Da questo punto di vista, l’atteggiamento intellettuale dei pensatori cristiani dei primi secoli, rivela una matura consapevolezza della necessità, o quanto meno della opportunità, di una de-formazione della sapientia antica in termini funzionali alla fede cristiana e quindi strumentali alla definizione dei nuovi paradigmi theo-logici. Uno dei più convinti assertori della opportunità di una doctrina christiana è Agostino, il quale “vuole una cultura strettaente e direttamente subordinata al cristianesimo; [tale che] tutte le manifestazioni della vita intellettuale dovessero essere al servizio della vita religiosa, non essere che una funzione di essa”. 54 Egli comprende che per giungere a una nuova de-finizione dell’uomo cristiano occorresse pensarlo alla luce di una nuova interpretazione spiritualistica che trasvalutasse l’antropologia antica nei termini del nuovo Mito cristologico, il cui “principio” è l’ “anima”, quella che per la tradizione greca era l’essenza vitale dell’uomo, 55 e che per Agostino 54
H.I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique (1971), tr. it., Milano, 1987, pag. 285. 55 E. Rohde, Psyche, cit., pag. 382; R. B. Onians, The Origins of European Thought (1951, 19542), tr. it., Milano (2006), 2011, pagg. 145 passim.
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diventa una “sostanza” riferita all’uomo, e dunque “ragionevole” come la sostanza umana.56 Seguendo Platone, che nell’Alcibiade aveva definito l’uomo “nient’altro che anima”,57 Agostino identifica l’uomo stesso con la “sostanza ragionevole” che anima il suo corpo. 58 Le implicazioni teoriche di tale definizione antropologica sono enormi, poiché attraverso di essa si stabilisce una gerarchia di valori tra l’anima e il corpo che implica la considerazione della “cura di sé” () in termini morali anziché fisici, e dunque finalizzata alla “conoscenza di noi stessi” per mezzo della “parola”.59 La conoscenza di ciò che è, coincide con la conoscenza delle idee, esistenti nella parola. La parola, pertanto, poteva essere intesa come il “corpo” delle “idee”. L’idea ( ) costituiva la parte logica del sistema platonico, la , mentre i sui contenuti, ad es. l’, nella nuova prospettiva cristiana di Agostino, diventavano un , espressione formale () di una realtà non (più) considerabile filosofica ma mitica ( ). Reinterpretati alla luce inverante della fede cristiana, i mitologemi di Platone appaiono ad Agostino contenuti mitici, “ma la [rispettiva] dottrina filosofica dei due pensatori ha la stessa struttura: i due mondi e Dio”, sicché si può stabilire un rapporto di de-formazione ermeneutica dei suoi contenuti perfettamente funzionale alle nuove esigenze mito-logiche, tanto da costituire un unico paradigma noetico. Infatti, “come il platonismo, con questa struttura, pose per la prima volta alla filosofia greca il suo proprio problema, così fece con analoga struttura l’agostinismo ponendo al pensiero filosofico cristiano i suo proprio problema”.60 Ma non solo “il problema”, ossia il contenuto noematico della rappresentazione del mondo, bensì anche la credenza che l’anima razionale non appartenga 56
Agostino, De quantitatae animae XIII, 22. Platone, Alcibiade, 130 c.; tr. it. a cura di G. Reale, Milano, 2014, pag. 623. 58 Ved. E. Gilson, Introduction à l’étude de Saint Augustin (1929), tr. it., Genova, 2015, pag. 62. 59 Platone, Alcibiade, 127 d - 129 c.; tr. it. cit., pagg. 620-621. 60 Ma “è possibile procedere ancora oltre. Proprio come il platonismo ci permette di comprendere l’intera filosofia greca successiva, come sviluppo problematico che ha origine da un unico punto di partenza, così avviene anche coll’agostinismo e con tutta la filosofia cristiana”: E. Hoffmann, Platonismus und christliche Philosophie (1960), tr. it., Bologna, 1967, pag. 208. 57
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alla (sua) coscienza individuale, ma all’uomo in quanto specie (come membro di una unità naturalistica, e non elettiva), e pertanto che anche l’uomo spirituale cristiano sia pensato sul modello della logica naturalistica greca, la quale pensa l’ente uomo particolare non come “persona” ma come determinazione empirica di una “idea”, il che fa dire ad Anselmo che chi non rifletta tale modello universale “non pensa”: non già da cristiano, ma da uomo. Dunque, pensare Dio alla maniera idealistica greca è pensare tout-court. Questa proiezione magica di una soggettiva dell’uomo è l’aspetto mitico della rappresentazione, che fa del contenuto noematico “uomo (dall’anima) razionale” una “figura” mito-logica. Il fondamento di credenza ontologico è ciò che Husserl chiama la “coscienza naturale” (cioè universale diventata canone mito-logico), ossia è la fede ontologica che l’ente sia essente, reale in senso dell’existentia. Le idee, dunque, anche per il neo-platonico Agostino, pur veicolando contenuti rappresentativi nuovi, sono “universali, comuni a tutti gli uomini [e] passano per mezzo dell’insegnamento da uno spirito all’altro”,61 attraverso la parola. Ciò vuol dire che, credendo nell’esistenza di un’anima razionale propria all’uomo, ogni racconto che riguarda l’uomo racconta della sua anima universale. E se il “mondo dell’uomo è il mondo della mitologia”, il racconto dell’anima razionale dell’ uomo è il Mythos proprio della mito-logia greco-cristiana, ereditata dalla cultura europea e della sua storica civiltà come figura canonica della sua produzione diegetica. Sul piano della storia delle idee, infatti, il modello teoretico agostiniano, fondato sul “mistero” dell’amore di Dio, trasvaluta in senso cristiano l’Eros platonico del Simposio, che è figlio della necessità (203 b) e creatore di sé stesso (206 e), nella libera Agape divina del Creatore, che ama per essere riamato, per cui “qualsiasi carattere sostanzialmente divino e autosufficiente dell’amor è allora divelto alla radice dal fatto che ogni amore di cui la creatura ama Dio è possibile solo mediante il precedente amore di Dio per la creatura, sicché l’amor stesso è un regalo
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M.F. Sciacca, S. Agostino, Brescia, 1949, pag. 209.
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del Dio che ama, in particolare della caritas di Dio, l’amore che dona senza aver bisogno di nulla”.62 Proprio il Dono, che Agostino pone al centro della sua riflessione teologica sulla caritas,63 costituisce per Derrida un tipico esempio di Differance, poiché stabilisce la differenza incolmabile tra chi dona e chi riceve. In Agostino, ciò che la originaria tensione erotica platonica prende forma nella de-finizione concettuale di Eros, si trasforma in relazione agapica uomo / Dio di tipo morale, stabilita sul piano della Differenza, cioè della Possibilità che rinvia infinitamente all’Altro e che perciò resta aperta e non oggettivabile logicamente sul piano della hegeliana “essenzialità” (Wesenheit), cioè di “determinazione della riflessione”. Ma questa mancanza (privatio) non è privazione di senso, ma solo di determinazione razionale, cioè di de-cisione de-finitiva e dunque interna alla Necessità del Logos. Restando interno della in-determinato propria del Mythos, il senso dell’agape agostiniana resta aperta a ogni possibile determinazione, esistenziale come temporale. La rappresentazione mitica è il luogo della Possibilità che qualcosa sia ciò che sarà. In esso, la dimensione del tempo mitico è unitaria, proiettiva verso l’essere, ma né presente né futura, bensì presente e futura; una temporalità possibile o del Possibile, che lascia aperta ogni temporale determinazione del . Questo tempo “pieno” è il tempo escatologico, meta-storico, della responsabilità morale, ossia della libera determinazione interiore che Agostino chiama “intenzione dell’ animo”, che è rilevante per il giudizio morale al di là della “verità o falsità delle cose in sé”. 64 La Differance della azione morale non è dunque un confine interno alla dicotomia ontologica Essere / ente, o logica Significato / significante, ma costituisce un orizzonte comprensivo e plurivoco in cui il legein (dire che raccoglie, che tiene in armonia) del mitologema non è (ancora) logos (discernimento esclusivo di possibilità) ma lo è (anche) come possibilità. Ciò che l’ “anche” e l’ “ancora” esprimono nella temporalità dei fenomeni storici in termini oppositivi, lo esprimono in termini con62
E. Przywara, Augustinus. Die Gestalt als Gefuege (1933), tr. it., Milano, 2007, pag. 38. 63 Ved. De grazia Christi, tr. it., Roma, 1981. 64 Agostino, De mendacio (395), 3. 3; tr. it., Milano, 2001, pag. 31.
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patibili, ossia co-esistentivi e con-temporanei a uno stesso pathos, all’interno del mitologema, che rappresenta l’alveo armonico delle opposizioni, metodicamente escluse dal costrutto logico. Solamente la in-determnazione della Differenza garantisce l’armonia degli opposti, ovvero la co-esistenza dei contrari. In senso morale, la coscienza in-riflessa, in-razionale rispetto alla attività del Soggetto trascendentale e dunque mitica, può contenere nella stessa personalità sia la modalità intenzionale (animus) che quella volitiva (voluntas agendi), mentre la determinazione fattuale dell’actio che si manifesta al presente può manifestarsi solo come volontà, rispetto alla quale la intentio interiore è possibilità in-esistente, cioè ni-ente. La realtà in atto (Wirklichkeit), prodotto della energeia aristotelica e della , può determinarsi solo come presente actio, e come tale partecipe dell’agere collettivo in cui l’esistenza dell’uomo concreto (persona, Dasein) è situata suo malgrado e da cui è condizionata. Soltanto l’intenzione morale ha una natura personale, nel cui orizzonte singolare è possibile pervenire alla “conoscenza di sé” richiesta dall’oracolo di Delfi e che Socrate pone come condizione della “cura” di Alcibiade, laddove l’actio ha una natura sociale e perciò oggettiva. La versione () razionalistica dell’archetipo costituito dalla figura antropologico-spiritualistica cristiana nella soggettività trascendentale è a sua volta un mitologema, che della intenzionalità singolare ha il carattere della libertà, e della possibilità attiva ha il carattere della volontà razionale, astratta da ogni concreta determinazione. Il connubio di intenzionalità e di volontà, di fides e di ratio, ha creato la figura archetipa dell’uomo moderno fornito da Kant di coscienza morale universale. Su questo ircocervo mitologico, che ha rappresentato la figura idealtipica dell’animal rationale moderno, l’homo faber, si è applicata la critica destrutturante della soggettività da parte di Nietzsche e poi dell’ermeneutica di Heidegger a partire dall’analisi della Differenza ontologica (Unterschied), che Agostino aveva rappresentato nel segno del Mistero della fede cui approda la ragione consapevole della sua finitezza, ossia la stessa attività noetica del “comprendere”che incontra il limite dell’Altro. La considerazione del mistero di Dio, che “è tutto in tutti”, non è soltanto quindi una posizione di fede, ma rappresenta la condizione ontologica che rende ragionevole per il cuore la legge della
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caritas altruistica che prescrive di amare il prossimo. In tal senso, l’affermazione “tu ami te stesso utilmente, se ami Dio più di te”, 65 è il segno sia della relazione trascendente il moto egoistico dell’amor di sé 66 che determina l’atteggiamento immorale, che della stessa finitezza della ragione umana, che approda al Mistero. E pertanto, “la spinta per cui il comprendere di Agostino […] si avvia verso il mistero incomprensibile è tanto intima e costitutiva, quanto quella per cui il processo della fede al sapere si compie, in Hegel, nella ragione e nel concetto. Mentre Hegel mette capo ad un rigido sistema di formule, in Agostino si spalanca veramente l’esperienza […] del continuo dilatarsi [del rapporto agapico], che è attirato nell’infinità di Dio”. 67 La caritas diventa forma (non concettuale, ma) morale (non del conoscere, ma) del credere. 68 La fede amorevole in Dio è in Agostino la trascrizione mitica della tensione erotica platonica verso l’unità ideale; tensione che nell’Eutifrone rimane in-compiuta, 69 in quanto l’eros è strumentale alla conoscenza, mentre si compie in Agostino, per il quale è il sapere ( ) che si risolve nell’amore di Dio (caritas). In questo senso, la ratio praecedit fidem, ossia la ragione è strumento che conduce alla fede consapevole (amor Dei). Il principio () fondamentale della conoscenza (), da cui muove la ricerca di Dio, è l’amore stesso, la fede (), sia pure inconsapevole,70 la quale diverrà cosciente di sé alla fine del percorso, che coincide con il suo inizio, ossia con Dio, che perciò “è tutto” 71 e “deve essere cercato e invocato nella profondità dell’anima razionale, che è chiamata l’uomo interiore”. 72
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Agostino, De moribus ecclesiae catholicae, I 26, 49. “L’amore di Dio fino al disprezzo di sé”: De civitate Dei, 14, 28. 67 E. Przywara, Augustinus., tr. cit., pag. 41. 68 “Amare nel credere”, Commento al Vangelo di Giovanni, 75, 5. 69 “Ciò che è giusto è amato dagli dèi perché è giusto, o è giusto perché è amato?”, Eutifrone, 15 b. 70 “Non esisterei, dunque, Dio mio, non esisterei affatto, se tu non fossi in me”, Confessioni, II, tr. it. a cura di A. Landi, Alba, 1979, pag. 31. 71 Soliloqui, I 1, 4. 72 De Magistro, tr. it. a cura di A. Pieretti, Milano, 1990, pagg. 84-85. 66
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Nel De Magistro,73 Agostino affronta il problema se le idee siano sempre contenute nelle parole e se ci sia sempre corrispondenza perfetta tra linguaggio e pensiero. Le parole sono “signa” di idee e di cose, dei “significabilia”, ovvero “segni di parole”. 74 Le parole però possono avere significati diversi ed essere intese in modo diverso da persone diverse, senza tener conto della volontà di pronunciarle per celare il proprio pensiero anziché renderlo manifesto. “Non di rado, dunque quello che sembra un dialogo tra due spiriti è in realtà due monologhi paralleli, impenetrabili: le stesse parole sono i segni di idee diverse”. In tal caso si ha scambio di parole anziché comunicazione di idee. “Se la comunicazione delle idee fosse impossibile, sarebbe impossibile anche l’insegnamento”. 75 Ciò però non vuol dire che la parola soddisfi la comunicazione del pensiero e coincida con esso. A maggior ragione l’intelletto non può esprimere la Verità. che perciò è trascendente rispetto la ragione e l’espressione umane. La Verità si mostra agli uomini come Dio si è manifestato in Cristo, ma se la parola “si fa voce ma non si trasforma in voce, così la Parola di Dio certamente si è fatta carne”, ma non perciò “si è trasformata in carne!”. 76 Infatti la carne è il corpo dell’uomo, così che il suo pensiero è l’anima. “L’unica cosa di cui l’anima sia sicura, è di essere un pensiero”, 77 e pertanto “le parole, come le altre categorie di segni, sono inadeguate ad esprimere il pensiero”, il quale “è anteriore a tutti i segni che lo manifestano”. 78 Se dunque il pensiero che risuona in noi è la stessa Parola di Dio in quanto Verità, ed essendo l’essenza del pensiero il conoscere, la conoscenza di sé coincide con la stessa conoscenza della Parola di Dio e viceversa. 79 In tal senso, la conoscenza di sé coincide con la comprensione della Parola di Dio, cioè con la Verità trascendente la ragione uma na.
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Il De Magistro fu scritto da Agostino nel 389. De Magistro, 2. 3 e 8, tr. cit., pagg. 88 e 101. 75 M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pagg. 210-211. 76 Agostino, De Trinitate, XV, xi, 20, tr. cit., pag. 919. 77 E. Gilson, Introduzione, cit., pag. 64. 78 M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pagg. 213-214. 79 E. Gilson, Introduzione, cit., pag. 65. 74
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Stabilità l’identità tra l’anima, creata da Dio, e il pensiero, Agostino precisa che “anima non est pars Dei”, cioè non è “un frammento staccato della sostanza divina”, altrimenti “dovrebbe essere assolutamente immutabile e incorruttibile”, e se così fosse “non potrebbe né divenire meno buona, né migliore di come è”. 80 L’aspetto soggettivo del viaggio verso la conoscenza di Dio è la ricezione individuale della Verità, cioè la sua interpretazione e rappresentazione. La Verità resta unica e immutabile, ma poiché è comunicata in pensieri e parole, nessuno può pensare al posto della coscienza che conosce, sicché l’insegnamento non è un “travaso esteriore” ma inerisce a ciò che già vi è nell’animo umano, e come la verità è (già) in noi come Verità immutabile e universale, non di meno essa diventa intelligibile al discente come la sua soggettiva verità. Essa non passa da uno spirito all’altro: l’insegnamento non è travaso d’idee, ma stimolo a scoprire la verità che ogni spirito ha dentro di sé. le parole non trasmettono idee, ma sono avvertimenti, segni che invitano l’anima a rientrare in se stessa, a consultare la verità che ha dentro di sé. […] L’insegnamento è un invito alla verità, che chi sa rivolge a chi ancora non sa di sapere. […] Insegnare una verità è semplicemente farla scoprire a chi l’ascolta [sicché] l’apprendere non è un atto passivo, ma attivo, come l’insegnare non è un imprimere dal di fuori, ma un suscitare dal di dentro. […] Chi ascolta non è passivo, giudica quel che gli si dice e il giudizio è suo,
pur non sapendo se l’insegnamento è del vero o del falso.81 Agostino rigetta l’innatismo platonico, mentre “accetta che la ragione scopre nella mente le verità intelligibili”. Riassumendo: “il pensiero non crea, ma scopre la verità; dunque la verità è prima del pensiero; la verità si scopre in noi e non fuori di noi”, non nel senso dell’innatismo ma dell’interiorismo.82 Rispetto alla posizione razionalistica, la ricerca della verità è una rivoluzione, cioè un viaggio a ritroso verso le origini del pensiero, verso l’arché, e non un itinerario ad quem. Il Mistero in cui è avvolta la Verità e 80
Ivi, pag. 69. M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 215. 82 Ivi, pag. 217. 81
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Dio stesso, è pertanto all’inizio del pensabile, e non può essere valicabile dalla ragione finita, la quale perciò si appella alla fede come l’intelletto al cuore. Ciò significa che la Verità di Dio coincide con il Mistero di Dio, e che entrambe sono Dio. Tale essere divino, non è però l’existentia ma l’esistenza dell’uomo come depositario della coscienza, ovvero del pensiero. Da qui l’analogia tra il Christos-Logos e ogni uomo in quanto essere di coscienza. La verità non è la verità del maestro o del discepolo, ma la stessa per tutti. L’universalità si trasfonde nella comunità; ma non immediatamente. Perché l’anima possa ascoltare e comprendere la voce del Maestro interiore, è necessario che essa sia disposta, preparata ad ascoltarla e ad intenderla. La verità è in tutte le anime; eppure non tutte le anime la intelligono, non tutte discernono il vero dal falso, non a tutte essa si rivela; la ricerca interiore è essenziale moralità. La verità si dona e si rivela o si occulta nella misura in cui la volontà è buona o malvagia.83
“Sive malam sive bonam voluntatem potest”. Se la volontà, ossia per meglio dire l’intenzione, fa parte del processo teoretico, significa che il logos è solo un elemento di esso, e che la Verità non è soltanto processo intellettivo. D’altro canto, se la Verità non è neppure solo intenzionalità, essa è una presenza che pur essendo interiore all’anima, non è soggettivamente imputabile alla coscienza personale. La verità “abita” la coscienza, ma non è creata da essa: la trascende. Nel senso che la sua traccia che pro-viene dal di fuori la evoca come scoperta della coscienza, sicché la verità pur essendo un evento interno alla coscienza non è interno, cioè non è circoscritto alla finitezza della coscienza. Essa è propiziata dalla mediazione dalla fonte esterna del magister, che sollecita la coscienza all’ascolto della verità, che diventa parola nella relazione interna. La volontà morale è la risposta positiva a tale sollecitazione, che accoglie la Verità. L’accoglimento della Verità stabilisce l’armonia tra l’intenzione (la coscienza finita) e la Parola di verità, che è il “Verbo di Dio”, premio alla caritas, cioè alla disposizione morale della coscienza. La sola intenzione umana, per quanto benevola, nondimeno non basta; 83
M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 219. Agostino, De Magistro, 11, 38; tr. it., pagg. 156-157.
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occorre che essa si diriga, per conseguire l’armonia della Verità, verso la Parola mercé l’intercessione della Grazia divina. In altri termini, la libera rappresentazione del mondo, perché non devii dalla recta ratio, mostrandosi come mera immagine soggettiva del mondo, necessita del conforto del Logos. In questo senso i teologi del sec. XII pensano nella presenza eucaristica Cristo sia in figura e in veritate. Agostino, nella Summa sententiarum (ca. 1141) tra il sacramentum e la res sacramenti introduce il termine medio, costituito appunto dalla Grazia di Cristo che unisce la verità e realtà del sacramento al fedele, rendendo possibile la comunità ecclesiale. 84 La mediazione divina è dovuta alla natura della comunicazione come atto d’amore, “e precisamente l’atto con cui gli spiriti interrogano la verità; ma è anche dono dell’amore, che è la stessa verità, il Verbo incarnato. Le verità razionali scaturiscono dalla Verità, che sovrasta alla ragione”. 85 La conclusione gnoseologica di Agostino, per cui “le verità intelligibili sono in noi: il pensiero non le crea”, è giustificata per Agostino “perché in noi è l’intuizione originaria di essa”, la presenza illuminante di Dio. Non è “ricordo”, alla maniera platonica, ma presenza di Dio all’anima, sicché “conoscere o pensare è apprendere Dio analogicamente”. 86 Esistono due modi per incontrare Dio nell’anima: 1. per illuminazione divina della mente; 2. per suscitazione in noi della Sua presenza, rinvenibile col ripiegamento dell’anima in se stessa. Anche per Platone sono due i modi del conoscerle Idee: o per visione (Fedro, 29; Repubblica, VI), ovvero per ricordo (Fedone, Menone). Ciò che appare chiaro dal discorso di Agostino è che la Verità sia altro da una creazione della mente, ossia da un concetto. Ma ciò che resta ambigua è l’identificazione della Verità con l’Idea, la quale è una forma categoriale. La situazione che la Verità abiti nell’uomo, “in interiore”, stabilisce già la premessa o condizione della relazione tra la coscienza e la Verità stessa. 84
Ved. P. De Feo, Il Cristo delle scuole. Il dibattito cristologico nella prima metà del secolo XII, Roma, 2012, pagg. 122-123. L’esposizione più matura del simbolismo sacramentale Agostino la propone nel De doctrina christiana, in cui la sua ermeneutica sacra viene illustrata sulla base di una filosofia dei segni. Ved. M.-D. Chenu, La théologie au douzième siècle (1976), tr. it., Milano, 2016, pag. 193. 85 M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 219. 86 Ivi, pag. 221.
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Se pertanto la posizione platonica della coscienza è di contemplazione della Verità lontana e inaccessibile, la posizione agostiniana ammette una relazione e dunque un qualche accesso: una partecipazione a una presenza che è in noi e che va riesumata attualmente come Parola, la quale è pertanto la presenza dell’Idea nella coscienza.87 Se la Verità è presenza divina, e non già un deposito mnestico cui attingere ad libitum, il cogitare è un raccoglimento interiore atto “ad oltrepassare l’anima [razionale] che testimonia della verità trascendente, fonte del nostro cogitare, nel momento stesso che il pensiero ha l’intellezione della verità intelligibile”. 88 Se pertanto pensiamo alla filosofia come a “quella forma di pensiero che si interroga non tanto su quel che è vero e quel che è falso [ma come] la forma di pensiero che cerca di determinare le condizioni e i limiti entro cui può avvenire l’accesso del soggetto alla verità”, allora “potremo definire ‘spiritualità’ la ricerca, la pratica e l’esperienza per mezzo delle quali il soggetto opera su se stesso le trasformazioni necessarie per avere accesso alla verità”. 89 La “cura di sé” () designa l’insieme delle “condizioni di spiritualità” e delle “trasformazioni di sé” necessarie all’accesso alla verità. Esse sono: il desiderio della verità (eros), come predisposizione dell’anima, e la concentrazione ascetica (askesis), trasfigurante la personalità del soggetto grazie agli “effetti di ritorno” del sapere appreso. 90 Durante tutta l’antichità, dai pitagorici ai neoplatonici, i due aspetti, quello relativo al “come avere accesso alla verità” e quello circa “le trasformazioni necessarie per rendere possibile l’accesso alla verità”, “non sono mai stati disgiunti l’uno dall’altro”, se non, significativamente, 87
“Cogitare per Agostino è colligere, raccogliere con la forza del pensiero e con accuratezza considerare le conoscenze (quelle di cui non riceviamo le immagini per mezzo dei sensi, ma per se ipsa intus cernimus) che, sparsa et neglecta, si trovano già nella memoria, in modo da poterle sottoporre alla riflessione. Apprendere e sapere è l’atto con cui il pensiero raccoglie le conoscenze latenti e non mai considerate; ricordare è riconquistare le conoscenze prima apprese e poi dimenticate”: M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 222, n. 85. 88 Ivi, pag. 224. 89 M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982, tr. it., Milano, 2016, pag. 17. Da ora HS. 90 Ivi, pag. 18.
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in Aristotile, il pensatore nel quale “abbiamo poi riconosciuto il fondatore stesso della filosofia nel senso moderno del termine”, quello insomma per cui “quel che consente di avere accesso alla verità è diventata la conoscenza stessa, ed essa sola”. 91 Anche in Agostino vi è il momento dell’intelligenza e quello della illuminazione. Se occorre l’illuminazione divina per intelligere, significa che la ragione umana da sola non perviene alla Verità, la quale pertanto è oltre la ragione finita, essendo un prodotto eterno di Dio, “Pater veritatis, pater sapientiae”, 92 al Quale perciò noi crediamo. 93 Dio, Padre del Verbo e “Padre della luce intelligibile è la trasposizione cristiana dell’Idea del Bene di Platone”, che (Repubblica, VII) è fonte della illuminazione e della conoscenza delle altre Idee. Il Bene, dunque, come valore assoluto e fonte della conoscenza, non è una Idea come altre ma l’archè che a un tempo muove lo spirito della conoscenza e la rende possibile. Questo è Eros, che in Agostino diventa la Verità del Cristo, presso il Quale “ogni anima che è nella verità è un’anima illuminata” 94 dal Suo amore. Dio è Verità e dà verità tramite l’intelligenza. La Verità di Dio si riflette come intelligenza nell’anima umana, che, come la luna dell’immagine di Plotino, è luce indiretta tratta dal sole. L’aspetto più interessante di questa gnoseologia è la posizione dell’Amore quale originaria “illuminazione”, la quale “è di natura teologica ed è data singolarmente”, 95 ossia costituisce l’elemento della soggettività quale sentimento agapico introduttivo all’amor Dei intellectualis. Non è l’elemento dialettico della conoscenza ma un suo elemento costitutivo, che è il principale e fondativo il sapere razionale. L’Agape cristiana non confligge con la ragione, ma la innerva come l’Eros platonico motiva l’epimeleia spirituale, che nell’intelligenza naturale trova la sua ragione di verità, illuminata a sua volta dall’amor Dei. L’illuminazione è quella condizione d’amore che guida la ragione 91
Ivi, pag. 19. Soliloqui, I, c. 1, n. 2. 93 M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 225. 94 Ivi, pag. 227. 95 Ivi, pag. 228. 92
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umana, e “ogni qualvolta la ragione è fuori di questa luce, è fuori della verità: l’anima è fuori di se stessa […].” 96 Essendo fugace e mutevole a seguito del peccato originale, la ragione ha bisogno di un correttivo trascendente per pervenire alla luce della Verità. In questo consiste il riscatto di Cristo, che colma il vuoto della finitezza dell’uomo, consentendogli di “aspirare alla pienezza” della Verità e della vita. 97 La ragione umana discerne e unifica il molteplice idealmente pensato, per cui la conoscenza razionale è la scienza. Ma la ragione conosce le idee “non come sono in Dio, ma come le scopre nella luce dell’intelligenza”. Ma la conoscenza scientifica non è l’ultimo grado del sapere, non è “il punto d’arrivo, ma una tappa che guarda alla meta: mens insatiata, cor irrequietum”.98 Ma come si colma la distanza? Agostino lo chiarisce nel suo Commento al Vangelo di Giovanni 99 allorquando descrive il suo ritiro da ogni illusione mondana, concentrandosi sulla luce interiore che illumina la ragione, quando egli scopre alla fine ciò che non muta ed è migliore di tutto ciò che muta: l’Essere, ciò che sommamente è. Scopre cioè l’Idea platonica, che era all’inizio di ogni pensiero particolare. Il circolo si chiude in se stesso. “Allora la ragione vede Dio, ma non è più ragione, è intellectus, intelligentia […]: è il compimento della ragione, il possesso della beatitudine”. Della ragione, appunto. “La Verità è intervenuta ed ha donato ciò che la ragione ha sempre cercato, sempre ha amato ed ama incondizionatamente, il Bene, che è il dono dell’Amore all’amore. Allora la ragione vede Dio”.100 La conoscenza razionale, da sola, conosce il Molteplice, ma non coglie la verità dell’Essere,101 che anche Agostino, identificandola con Dio, intende come unità dell’Idea. In questa identità si annida l’equivoco naturalistico 96
Ivi, pag. 229. Ivi, pag. 230. 98 M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 232. 99 Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, tr. it., Roma, 2005, Omelia 41, 1; pag. 667-669. Da ora CVG. 100 Ibidem. 101 “A fondamento dell’ideale agostiniano è posta la fiducia nella presenza di un progetto divino che coinvolge l’uomo ma la cui esistenza prescinde dalla capacità umana di coglierne i tratti” (cfr. De ordine, I, 1, 2, 979): A. Bisogno, Sententiae philosophorum. L’alto Medioevo e la storia della filosofia, Roma, 2011, pag. 83. 97
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nello spiritualismo cristiano. Infatti, l’Essere, inteso come unità ideale, è l’unità del finito, sicché l’intellezione () del bonum divinum “nihil aliud est quam praesentia quocumque modo” (De utilitate credendi, cap. XI), ove l’objectum optimum, cioè Dio, secondo Heidegger, è l’ente della metafisica greca, per cui la conoscenza è anche per Agostino, come per Platone, “visione della cosa attualmente ed essenzialmente presente”.102 In realtà, la prospettiva di Agostino non era il dominio dei sensi, ossia la conoscenza della Natura, per lasciar posto allo spirito, ma l’armonia dei due elementi della conoscenza per raggiungere la “salvezza” dell’anima, che è “sagge” e non solo “sapere” teoretico. La Verità cristiana non è dunque la stessa di quella che intendevano i Greci. La verità in senso greco è la tecnica di dominio concettuale del mondo finito, che essi chiamavano Essere, che comprendeva l’unità del visibile ( ), ponendolo a Principio di ogni pensiero, al quale andavano conformate le azioni umane, sicché la metafisica che ne deriva è una sorta di grandiosa economia del potere ideale, ordinatore del mondo. L’ordine del mondo è il sistema coerentemente razionale di omologare gli enti secondo il Principio, che è l’Essere, anziché il non-essere. La Bestimmung cristiana non è tesa all’ordine del mondo, che è la Sorge dell’homo oeconomicus, alla sua conformità all’ideale razionale, ma alla luce della conoscenza di Dio che è Amore, che è cura dell’Altro, la Besorge dell’homo spiritualis volto all’amore del prossimo. Una conoscenza che non è obiettiva ma sommamente soggettiva, applicata in interiore. “Chi cerca la verità dentro di sé, sa già che essa non è fuori, cioè che non è nelle cose, che giudica vere non perché sono la verità, ma per il grado di verità di cui partecipano”. 103 Ciò significa che la Verità non è di questo mondo, e che tutto ciò che è vero non lo è in sé, ma in quanto partecipa della realtà divina, che è altra da quella finita, e assoluta. “L’ordo al quale aspira Agostino non è soltanto la coerente organizzazione delle idee [pulchritudo rationis], che esprime, con la conseguente correttezza delle parle, la fondante razionalità della realtà: è 102
M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit (1925-1926), tr. it., Milano, 1986, pag. 83. 103 M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 233.
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l’immagine fedele dell’impalcatura razionale di tutto il creato e, dunque, della stessa ricerca dell’ordine universale” 104 Possiamo dunque concludere che l’immagine di Dio prefigurata dalla conoscenza dell’Amore cristiano non è l’Idea platonica, che è l’Essere della metafisica naturalistica greca, ma è l’analogon personale che la rappresentazione umana si fa della figura spirituale di Dio nel Cristo, quale Parola umana del Verbo divino. Commentando l’opera del Verbo di Dio, cioè il Cristo, Agostino parte dall’idea come modello di un’opera non ancora eseguita, per giungere al mondo come creazione del Verbo. Per chiarire il valore del Verbo divino, egli invita a non confonderlo con le parole comuni, quelle “che si ascoltano ogni giorno” e che “a forza di usarle, perdono il loro valore”. per non confondere con il Verbo di Dio, il credente deve intendere il Verbo con lo stesso Dio.105 Su questo piano ermeneutico si muove la coscienza della fede, che prende le distanze dal ragionamento comune (rehma) per ascoltare la parola del Logos. Infatti “le parole che noi pronunciamo volano via”, mentre il “pensiero invece rimane, e dal pensiero che rimane, trai le molte parole che dici e passano”, sicché quando si concepisce la parola corrispondente alla cosa che si vuole intendere, “la concezione stessa della cosa nel tuo cuore è già parola […] nata nel tuo cuore […] dove spiritualmente l’hai concepita. La tua anima è spirito, e quindi anche la parola che tu hai concepito è spirituale […]. E’ così che Dio ha concepito il suo Verbo, cioè ha generato suo Figlio”, non legato al tempo finito ma “fuori del tempo”, per cui la parola del Figlio è “non la sua parola, ma la Parola del Padre”.106 Per comprendere ciò che Agostino intenda, occorre riferirci alla differenza rispetto ai dialettici pagani, la quale consiste nel fatto che “il cristiano vive nella consapevolezza della superiorità della sua dottrina [e] tale consapevolezza gli permette di utilizzare i medesimi strumenti dei filosofi ma di farlo secondo verità”.107 Il filosofo e il cristiano ricercano entrambi la verità, ma la Verità del cristiano non è la stessa di quella del 104
A. Bisogno, Op. cit., pag. 53. Agostino, CVG, pagg. 84-85.] 106 Agostino, CVG, Omelia 14, 7, pagg. 318-320. 107 A. Bisogno, Op. cit., pag. 51. 105
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filosofo. Infatti, la Verità che è Cristo è anche la sua Parola, che è la stessa di Dio. Una Parola che non è parola ma è Qualcuno, ossia la stessa esperienza vissuta di Cristo, Persona divina. E dunque la differenza rispetto alla parola comune e a quella filosofica, è che la Parola cristiana vive nella verità perché è la Verità. E la Verità è Cristo che comunica la Parola del Padre. La Verità della Parola divina, rispetto alla verità filosofica, è nella pienezza del senso, non solamente teoretico ma esistenziale. Il Verbo divino, incarnandosi diventa Storia di Cristo, la cui existentia è “via, verità e vita”, che non sono tre cose ma una sola. In questo senso, “il processo del conoscere s’identifica con il processo della nostra salvezza”.108 Agostino ammette l’opportunità di usare gli strumenti teoretici dei filosofi pagani, presso i quali “vi si trovano talune affermazioni vere. […] Quando perciò il cristiano interiormente si separa dalla loro miserabile società, deve strapparne tali verità, per usarle in modo giusto nell’annuncio del Vangelo”.109 Ciò comprova che anche la sapienza pagana è opera di Dio. Ciò che spetta al cristiano è l’usus iustum della eruditio, che è quello secundum veritatem.110 Esso consiste nell’ermeneusi spirituale della coscienza cristiana, la quale rinviene (intelligat) nel processo della Creazione divina le tracce della presenza di Dio, ossia del suo Logos. Ed è in questa rappresentazione del divino che la veritas in interiore acquista valore di coscienza universale, facendo della coscienza personale il luogo della esperienza spirituale. Così l’epimeleia spirituale del singolo si compie come itinerario verso (la verità di) Dio. Da qui l’importanza della pre-disposizione del discente a recepire la verità insegnata come “verità interiore”,111 ossia a interpretarla alla luce dell’Amore divino. Il compendio dell’ermeneusi dell’Amore cristiano è la Civitas Dei, in cui Agostino legge in filigrana la trama del Logos divino entro la storia umana. Lo spostamento del referente ermeneutico dal comunicante al ricevente, è la coscienza destinataria a dare senso alla comunicazione, per cui se 108
M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 234. Agostino, Doctrina christiana, II, 40, 60; tr. cit., pag. 215. 110 A. Bisogno, Op. cit., pag. 52. 111 Agostino, De magistro, 14, 45; tr. cit., pag. 169. 109
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l’uditore è privo di capacità recettive dei suoi contenuti veritativi, “la comunicazione sarà sterile”.112 Il “discepolo della verità” è colui che è in grado di coglierla, per cui “la comunicazione non si fonda dunque sulla sola intenzione di colui che parla, ma sull’incontro tra tale intenzione e la capacità recettiva di chi ascolta”.113 Questo modello ermeneutico comporta due conseguenze: la prima è che le parole che esprimono il contenuto del pensiero sono neutre rispetto alla verità; 114 la seconda è che il fine della comunicazione è (di giungere a) l’Altro, ossia di stabilire una relazione ermeneutica con la coscienza comune, la quale pertanto si assume come trascendente le coscienze singolari. Poiché i contenuti della coscienza sono intenzionali, cioè diretti a un oggetto determinato, il presupposto dell’Altro stabilisce la relazione tra la finitezza dell’oggetto della coscienza singolare e ciò che la trascende. E ciò che viene prima e che trascende ogni pensiero finito è, per Agostino, l’amor Dei, quell’Amore che si rivolge al “prossimo” come la coscienza soggettiva si rivolge a se stessa, cioè al Soggetto pensante. A questo punto possiamo renderci consapevoli che l’Amore divino, di cui l’Altro è cifra, consiste nella considerazione che i nostri contenuti di pensiero non riguardano che la coscienza finita, e non l’Intero, inclusivo della coscienza dell’Altro, per cui “amare l’Altro” significa trascendere la finitezza della coscienza singolare stabilendo un dialogo con ciò che va oltre i suoi contenuti, che appartengono solo ad essa. Prendersi cura dell’Altro diventa dunque il modo per trascendere la propria finitezza e pervenire alla coscienza del Tutto, cioè a Dio. Questa coscienza di Dio non comporta la conoscenza di Dio, poiché la conoscenza è appunto sempre de-terminata, e cioè finita. Come non possiamo conoscere l’Altro se non attraverso i prodotti della sua coscienza, e quindi se non come coscienza, parimenti possiamo conoscere Dio soltanto come Sua coscienza altra dalla nostra finita, come coscienza infinita.115 Ed è questa relazione con ciò che non dipende dalla 112
A. Bisogno, Op. cit., pag. 57. Ivi, pag. 58. 114 Agostino, DM, 13, 41, tr. cit. pag. 164. 115 L’infinità della coscienza di Dio consiste nella identità presso di Lui di essere ed essenza. Ved. Tommaso, Summa contra gentiles, I, cap. XXII; tr. it., Torino, 1975, pagg. 111-114. 113
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nostra coscienza, e dunque è assoluto, che discopre la Differenza ontologica. Vi sono due modalità di rapportarsi all’assoluto: a) concepirlo come immanente, oppure b) come trascendente. La soluzione greca è nel senso dell’immanenza: il particolare si rapporta alla sua forma universale che concettualmente lo con-prende e lo giustifica razionalmente. La forma universale è la sostanza eterna di ciò che muta e trascorre, ma a questa omogenea.116 La soluzione cristiana è nel senso della trascendenza: il personale si rapporta al suo Creatore universale come un frammento di una unità mistica di sostanza spirituale. La con-sustanzialità spirituale trasferisce il luogo della omogeneità dall’Idea astratta di essenza (ousia) alla partecipazione volontaria allo Spirito divino trascendente e altro dal sé finito. a) L’assoluto immanente è la forma ideale dell’ente finito naturale, ne è una rappresentazione priva della concretezza distintiva un ente da un altro esistente. Per quanto collocabile nell’Iperuraneo, l’Idea è la proiezione ideale della realtà finita: la sua immagine razionale, indicato come Essere. b) L’assoluto trascendente non è l’Essere ideale della metafisica greca, poiché Egli non è un ente di pensiero ma una coscienza, ossia una Persona, che ha creato l’Essere, poiché in Lui pensiero ed esistenza coincidono non solo nella coscienza ma anche nella realtà, di cui Egli è perciò l’autore. Ciò comporta che l’Essere Lo rappresenta, per cui non può essere una realtà negativa e malvagia, da negare per affermarLo: la realtà finita partecipa al Bene assoluto del suo Creatore. Lo fa, come realtà naturale, inconsapevolmente, laddove nell’uomo la partecipazione è consapevole e libera, ossia volontaria. La libertà umana di non partecipare della realtà spirituale divina non nega ontologicamente la 116
Aver indicato questa omogeneità sostanziale come “il tutto delle scienze che hanno per oggetto la realtà storico-sociale”, non cambia il senso onto-gnoseo-logico del discorso. Infatti, per “scienza” si intende “un insieme di proposizioni i cui elementi siano concetti, cioè siano perfettamente definiti, abbiano un significato costante e universalmente valido nel contesto discorsivo: un insieme i cui legamenti siano giustificati e in cui finalmente le parti siano collegate ad un tutto al fine della comunicazione, vuoi che con tale congiunzione di proposizioni si tratti di pensare nella sua completezza una parte costitutiva della realtà di fatto, vuoi che si tratti di disciplinare un rampo dell’attività umana”: W. Dilthey, Einleitung in die Geisteswissenschaften (1883), tr. it., Firenze, 1974, pag. 16. Da ora EG.
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realtà di Dio, che essendo assoluta non dipende dalla coscienza umana, ma assolutizza logicamente i contenuti della coscienza finita, ponendoli al posto del vero Assoluto. Quando la coscienza finita universalizza i suoi contenuti ponendoli come l’Intero, crede che la parte sia il Tutto, e che il finito sia in-finito. Questa falsa credenza ontologica, che pone la determinazione logica come assoluta dalla realtà del Tutto, è il della rappresentazione razionalistica della realtà. Orbene, è proprio questa Darstellung che caratterizza la metafisica greca, che pone l’Essere creato (dalla coscienza di Dio) al posto del Dio creatore, sicché aver identificato l’Essere in senso greco col Dio cristiano è stato un travisamento teoretico e teologico fatale quanto tragico, in quanto ha posto l’assoluto immanente, il Logos, col quale la metafisica greca identificava l’Essere, al servizio dell’Assoluto divino, facendo della conoscenza razionale la giustificazione della Verità. ma poiché l’Essere è la rappresentazione ideale dell’ente finito, ciò che la coscienza ideale nega è che esista qualcosa che vada oltre di essa, alla maniera in cui Anselmo pensava Dio. Il pensare l’Essere-Dio come l’ente di pensiero “il più grande”, equivale a concepire la coscienza finita come infinita, perché atta a pensare l’infinito, l’assoluto. La coscienza finita pensata come assoluta, è la coscienza che non è in relazione con Dio, con la coscienza veramente infinita e assoluta, prendendone il posto. La moderna idolatria della dea Ragione ha in questa falsa assolutezza la sua radice metafisica; e tale idolatria razionalistica si chiama scienza. La razionalizzazione di tale rappresentazione ideale consiste nell’astrarre la tecnica di universalizzazione del finito dai suoi contenuti rappresentativi, esclusi come mitici, conservando la sola risultanza procedurale: il metodo scientifico di razionalizzare i contenuti della coscienza. Nell’esclusione metodica dei contenuti mitici della coscienza finita consiste la secolarizzazione della cultura scientifica propria della Darstellung razionalistica, che ha dato origine alla Weltanschauung moderna, che ha escluso Dio dalla conoscenza del mondo, pensata aristotelicamente come autonoma dalla Verità spirituale. Quando Agostino cerca di comprendere la tradizione filosofica, quale ricerca dettata dall’amore della sapienza, nell’amore per l’unica Verità, quella del Dio cristiano, pensa alla “vera sapienza”, ossia, tra i filosofi, solo “quelli con cui si possa trattare convenientemente il problema in
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parola”,117 ossia i platonici.118 La ricerca della “vera sapienza” caratterizza dunque il filosofo cristiano dal filosofo antico, pagano, che risolveva la sua ricerca nel falso sapere, quello che assolutizzava i contenuti della coscienza razionale ponendoli come verità, ossia facendo del proprio analogon la realtà di Dio. non c’è una posizione più critica del soggettivismo razionalistico di quella di Agostino critico della tradizione intellettuale pagana. In tal senso, la “vera filosofia” è la theo-logia, cioè “il ragionamento o il discorso intorno alla divinità”, che presupponga quindi “l’esistenza e la provvidenza divina”,119 cioè che Dio esista e si prenda cura delle cose umane. La “cura di sé” è pervenire a questa consapevolezza, mentre l’amore di Dio è trascendere la conoscenza razionale (eruditio) nella sapienza (sophia), ossia andare oltre la finitezza entrando in dialogo con l’Infinito. Ma poiché l’Infinito è Dio, la Sua verità, che è Amore, e che quindi è Principio ordinatore di verità, l’Amore divino che è il Principio (archè) di ogni sapere è ciò che trascende la coscienza finta, ossia l’Intero. Amore, cioè Dio, cioè la Verità, è la sapienza che la ragione finita deve risolversi nella realtà infinita; ma poiché tra la ragione finita e la sapienza infinita c’è la stessa distanza tra l’uomo e Dio, l’unica partecipazione alla Verità è la relazione con Dio, l’ascolto della sua Parola, che è la storia di Cristo, la Parola viva che comunica all’uomo il Verbo di Dio. La Verità, comune a ogni coscienza pensante, non è la communis opinio che sta a pre-giudizio del circolo ermeneutico della ragione come Darstellung del soggetto sociale collettivo (doxa), ma è il fondamento (episteme) dei logoi prodotti dalla coscienza finita, e che non è prodotto di essa, cioè non è Logos, parola, ma suo generatore, ossia Verbo, che trascende ogni parola logoica (gnosi) e si trova in interiore homine. La Verità comune trascendente è spirituale e costituisce una comunità spirituale, e non storica; in tal senso la ekklesia mistica è comunità di fede trascendente ogni determinazione storicoculturale, e dunque più comprensiva della comunità eidetica ricercata dai filosofi, uniti nel metodo dialettico di discernere il vero dal falso secondo ragione. La finitezza del metodo razionalistico è anche sociologica, 117
Agostino, CD, VIII, 1, tr. it., Roma, 2000, pag. 361. [A. Bisogno, Op. cit., pag. 75.] 119 [Agostino, Ibidem.] 118
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poiché la filosofia è destinata a pochi cultori, laddove la presenza divina è l’unica ad essere in ogni uomo. Ma se così è, che senso ha la “cura di sé” da parte di un cristiano? Se il progetto divino, pur coinvolgendo l’uomo, prescinde dalla sua consapevolezza, perché deplorare chi rimane sconosciuto a se stesso (“sibi ipse incognitus”)?120 Per superare tale aporia, bisogna ammettere che l’essenza spirituale universale dell’uomo non è razionale, e che il metodo della conoscenza razionale, la scienza, è proprio del sapere (gnosi) naturalistico (logico), che il sapere finito non è funzionale alla conoscenza di Dio, ma soltanto alla consapevolezza che esso non può coglierla, ossia del proprio limite (Grenze) onto-gnoseo-logico.121 La ragione serve a se stessa, a chiarire i propri limiti, che sono gli stessi dell’uomo senza la Grazia di Dio, dell’umanità chiusa nell’esistenza naturale, occlusa entro la propria finitezza temporale, vinta dalla Necessità della morte. La vera vita, quella spirituale, non è nell’orizzonte della morte, nella sottomissione alle leggi naturali, ma nella relazione con l’Eterno, con la Verità che trascende la finitezza della coscienza umana, razionale. Il fine della ragione coincide con la sua fine, con la sua finitezza originaria e finale: l’Essere. Il pensiero filosofico è il tentativo di pensare l’Essere fuori della morte, fuori della finitezza, come se (al ob) fosse assoluto, idolatrando il modello metafisico, l’Idea, dell’ente finito, e quindi facendo coincidere il sapere con una finzione: la credenza che l’Essere sia l’Intero, mentre esso non è che la proiezione ideale del finito, inteso, relativamente al’uomo, come “natura umana”.122 120
Agostino, De ordine, I, 1, 2, 979; cit. da A. Bisogno, Op. cit., pag. 83. “Ogni scienza è scienza d’esperienza,ma ogni esperienza ha una sua coesione originaria e, determinata da questa, una sua validità nelle condizioni della nostra coscienza, in cui l’esperienza si produce, una sua coesione e validità nel tutto della nostra natura. E questo punto di vista, che quindi ammette l’impossibilità di un vedere senza occhio e di un volger lo sguardo della conoscenza al di là dell’occhio stesso che conosce, lo chiamiamo la prospettiva gnoseologica; la scienza moderna non ne può riconoscere alcun’altra”: W. Dilthey, EG, pag. 8. 122 Intesa appunto come “totalità del nostro essere”, che è quel “tutto, del cui effettivo processo vitale il volere, il sentire e il rappresentare sono soltanto lati diversi”: W. Dilthey, EG, pag. 9. 121
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A partire da questa unità naturalistica, la vita spirituale è intesa come “il limite superiore dei fatti della natura”, 123 per cui il movimento dialettico della polarità Spirito / natura colloca la realtà fisica nel campo inferiore dell’esperienza umana, rimosso il quale la coscienza può dedicarsi alla connessione delle essenze, che sono appunto le costanti ideali della realtà in divenire degli enti fenomenici. Da qui la ricerca delle “leggi spirituali”, mutuate da quelle naturali.124 L’intera teoresi antica era fondata sulla distinzione dei piani di coscienza, empirico e psichico, al fine di dare la predominanza a quello noetico, ritenuto superiore. In età moderna, “secolarizzare” ha significato distinguere l’immagine dell’Essere (Dio) dal metodo della conoscenza, la ragione. Il razionalismo moderno, a partire dall’Umanesimo, ha inteso risalire alle fonti della rappresentazione teologica dell’Essere divino, rinvenendo il carattere naturalistico della metafisica classica. La posizione critica si è emancipata dal rivestimento teologico dell’Essere, giudicando metafisica la stessa immagine ideale dell’Essere, conservando come epistemologicamente accettabile il solo sistema di ricerca razionale della verità, ormai ridotta alla certezza sensibile, con conseguente trionfo del metodo scientifico. Ma ciò non ha risolto “il problema del rapporto delle scienze dello spirito con la conoscenza della natura”, rimanendo opposto “il punto di vista trascendentale, per cui la natura è sottoposta alle condizioni della coscienza e il punto di vista empirico atteggiato oggettivamente, per cui lo sviluppo dello spirituale è sottoposto alle condizioni del tutto della natura”.125 La questione rimaneva irrisolta fin quando l’uno veniva opposto dialetticamente all’altro piano di realtà nell’ambito dello stesso orizzonte della finitezza naturale in cui veniva forzosamente compresa l’esperienza umana. Infatti, in quell’ambito, l’uno dei due poli opposti poteva omologare l’altro ponendosi come assoluto e universale, facendo dell’altro il suo oggetto. Soltanto l’ammissione della Differenza ontologica poteva stabilire una relazione non omologante, tale da conservare all’esperienza spirituale un carattere di singolarità che non 123
Ivi, pag. 32. Ivi, pag. 34. 125 Ivi, pag. 36. 124
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poteva identificarsi con alcuna particolarità empirica dell’ente naturale, in quanto la singolarità umana era storia personale, non fenomeno trattabile come astratto oggetto di pensiero calcolante. La storia dell’uomo, in quanto persona spirituale, non consiste nei rapporti con la Natura, che ha per fine la potenza e il dominio delle forze naturali da parte dell’intelligenza umana, ma nella relazione con Dio, che ha per fine la salvezza dalla necessità che regna nel mondo naturale, compreso quello socio-politico. L’idea pertanto che “il processo del conoscere s’identifica con il processo della nostra salvezza” condiziona l’intera gnosi cristiana. La filosofia cristiana, non di meno, acquisisce il metodo della ragione come quello stesso della conoscenza teologica, di cui diventa il criterio di invalidazione della stessa fede, convinti che “la ragione, attraverso l’immagine della verità in noi”, cioè attraverso la rappresentazione ideale della Verità, “è unita a Dio”, convinti che “le idee e le cose portano impressa l’orma del Creatore”,126 la cui trascendenza diventa perciò puramente formale, ossia ideale, come qualunque altra Idea che la gnosi naturalistica può quindi liquidare come mitica. La Verità divina, divenuta verità ideale, è pensata come oggetto della coscienza razionale. Ma la verità formale, pur ritenuta creata da Dio e “sostanziale”, è in realtà posta dalla stessa coscienza come fondamento del suo discorso razionale, a cui deve tornare. La critica della “sostanza”, dopo Cartesio, coincise quindi con la liquidazione della metafisica in generale.127 Infatti, scoperta l’auto-posizione del fondamento razionale, la coscienza critica nega di conseguenza la realtà del supposto Creatore divino, e diventa atea, per cui “la storia cristiana non può che essere una leggenda, e la sua dogmatica una mitologia” che, secondo le parole di Nietzsche, “lo stesso Kant non ha completamente abbandonato, che Platone ha preparato all’Europa per sua disgrazia [e che] ha ormai fatto il suo tempo”.128 Con la sintesi a priori del concetto elaborata da Kant, la scienza viene indicata come scienza del fenomeno e a ciò deve limitarsi, non potendo 126
M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 234. W. Dilthey, EG, pag. 21. 128 F. Nietzsche, un frammento del 1885 (tr. it. in Frammenti postumi 1885-87, Milano, 1975), cit. da H. De Lubac, Le drame de l’humanisme athée (1943), tr. it., Milano, 1992, pag. 97. 127
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conoscere ciò che le cose sono in sé, la loro natura ontologica, potendo invece conoscere solo ciò che le cose sono n apparenza, i fenomeni, di cui ha contezza valida oggettivamente, universalmente e necessariamente. E’ ovvio che l’attribuzione di un limite logico come credenza ontologica generi una reazione opposta e contraria, tesa a ribaltare la pretesa iniziale della tesi unilaterale. Il limite galileano di una scienza come conoscenza quantitativa della realtà viene abbandonata a favore di una teoresi inclusiva di ogni aspetto ontologico, per cui ciò che intende Kant come fenomeno non è lo stesso della concezione di Galileo. Il realismo, esigenza primaria di ogni scienza, viene a cadere di fronte al fondamento soggettivo della rappresentazione kantiana del mondo. Oggettivo vale per reale, che in Kant non si dà fuori del concetto gnoseologico, ovvero del fenomeno in senso della sua gnoseologia. La “purezza” della fisica kantiana è una costruzione ideale a priori, che interessa persino la legge newtoniana dell’attrazione universale espressa dalla formula dell’inverso rapporto del quadrato delle distanze.129 L’equazione razionalistica Realtà di pensiero = Verità è aporetica, poiché identificando l’essenza ideale con l’esistenza ontologica, fa della certezza fenomenica un assoluto che, se indicato come realtà finita, giunge al panteismo, mentre, se indicato nella coscienza teoretica finisce per divinizzare il Soggetto trascendentale, cioè la stessa coscienza finita. Infatti, se è vero che “la verità non è creata dall’umana mente ma [è] ad essa data”, è altresì vero che “la mente umana partecipa della verità” 130 partecipare significa condividere una stessa essenza. Qui si annida l’equivoco razionalistico, per cui la ragione si ritiene in grado di conoscere il Mistero divino, e quindi è potenzialmente divina. “L’uomo partecipa della verità, dunque la sua mente è illuminata dalla verità. Chi la illumina? La stessa Verità, Dio”. La questione non è inerente all’aiuto divino, ossia all’intervento della Grazia, ma alla possibilità che la ragione umana ha di pervenire alla Verità, scambiata con la sua rappresentazione ideale. “Che cosa vede [la mente illuminata da Dio]? Gli oggetti intelligibili,le idee”. Conoscere è partecipare della scienza divina, quae est lux hominum: conoscere la verità è esserne illuminati. […]. Perciò la 129 130
Ved. F. Amerio, Epistemologia, Brescia, 1948, pag. 197. M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 236.
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ragione che giudica secondo le regole […] pronunzia giudizi veri”. 131 Quindi la verità coincide col giudizio logicamente corretto dalla GraziaRagione di Dio, il quale è però il dio dei filosofi, non quello della predicazione evangelica. Infatti, è vero che se “non c’è conoscenza intelligibile senza la illuminazione divina”, anche “è vero che noi conosciamo qualcosa della Verità divina per mezzo delle idee (immagini in noi)”, e per tale mezzo dunque “conosciamo Dio”.132 La conoscenza è analogica e non diretta, in quanto le Idee sono le nostre immagini – ossia le nostre rappresentazioni – di Dio, che non può, essendo Tutto, diventare oggetto di pensiero. Le Idee, che sono il modo umano di conoscere Dio, sono intese, in quanto esse stesse divine, “regole eterne ed immutabili”, per mezzo delle quali “la mente si eleva alla Verità”: 133 essendo partecipe della Verità, lo strumento razionale acquista qualità divine. Ma la verità umana, pur essendo riflesso della luce divina, è comunque la stessa verità come Idea, una rappresentazione finita. Altrimenti, viene asserita l’onnipotenza della ragione quale tecnica dialettica per giungere alla Verità, ridotta a oggetto del pensiero finito, scientifica, in cui l’intelligenza del pensiero illuminato dalla Grazia non è più processo intuitivo alternativo a quello analitico razionale, ma aggiuntivo, quale “compimento della mente”. 134 In altri termini, la frattura morale ed esistenziale evangelica dalla logica del mondo sensibile dominato dalla Necessità, perviene a riconciliazione come sintesi teoretica, che è sintesi di necessità,e non di libertà. Se la ricezione aristotelica nel tomismo porta a privilegiare la ratio quale techne della Verità, in Agostino, invece, la “intelligentia” pur non sostituendosi alla ragione, poiché “non c’è l’intellectus senza la ratio”, tuttavia “ne fonda la capacità di giudicare”, ossia non ne costituisce il Principio (arché), ma il correttivo: “è la mente illuminata (l’intelligentia) che ‘vede’; è la ratio nella luce delle verità intellettive che ‘giudica’”.135
131
Ibidem. Ivi, pag. 237. 133 Ivi, pag. 238. 134 Ivi, pag. 239. 135 Ibidem. 132
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Ma qual è il giudizio possibile della ratio? La distinzione e il nesso tra fenomeni, e dunque il portare alla coscienza il filosofo circa i limiti della conoscenza del finito; e solo in conseguenza del riconoscimento dei limiti della sua ragione egli “riconosce la realtà trascendente della verità, cioè di Dio”.136 La ragione, per quanto recta perché illuminata dalla Grazia, non può conoscere ciò che, essendo “tutto”, la trascende, e ciò significa che la stessa forma ideale, pur concepita come Intero, ossia come unità metafisica necessaria alla determinazione della parte oggettivata, non è il “tutto” trascendente, che è il Dio dell’amore, del dono e della libertà. Ponendo il Logos, cioè la mediazione tra cielo e terra, tra verità e vita, all’inizio dell’esperienza della coscienza, la filosofia credeva di poter ascendere alla Verità. In realtà, la coscienza umana può solo restare vigile in attesa () della Parola di Verità, perché la colga come premessa di fede a ogni discorso razionale. Se la Verità non scende a noi, diventando parola, la coscienza non può darsela da sé, inventando il suo fondamento ontologico alla stregua di un mito cosmologico, come una credenza. Eppure è esattamente ciò che la gnosi antica ha fatto, per cui il pensiero filosofico, costituendosi come elaborazione razionale del Mito fondativo dell’Essere, cioè come mito-logia, è priva di fondamenti di verità. Al loro posto essa ha sostituito il metodo, la certezza di procedere con le sole sue forze logicamente ordinate in nessi sistematici, in scienza. Questa, al pari del suo prototipo dialettico, la filosofia, parte da un’ipotesi euristica, che è la riproposizione del modello mitico, la cui verità dipende interamente dalla credenza che se ne ha. 3. La Necessità è l’appartenenza materica al cosmo naturale privo di coscienza, che è agito per la forza del suo essere ciò che è, insopprimibile e indifferente. Sottrarsi alla Necessità significa avere coscienza del proprio Sé individuale, e consegnarsi all’Altro. L’Amore interrompe la catena causale e apre un varco oltre il destino, trapassando l’orizzonte zoetico della propria ipseità naturalistica, indipendente dalla volontà di esistenza. Essere fuori della Necessità non è una condizione statica e definitiva, ma conseguente a un atto di rinuncia alla relazione col proprio sé con il proprio destino. Emanciparsi dal destino, sottrarsi alla Necessità 136
Ivi, pag. 240.
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e consegnarsi all’Altro costituisce il più grande rischio, l’autentico azzardo d’amore della esistenza umana, che si apre nella sua nudità senza riserve, in questo gesto di consegna all’Altro si rivela la capacità umana alla sofferenza, passiva e attiva, ricevuta e inferta al consegnato. In questo atto d’amore, che riprende nell’uomo la decisione divina di consegnare il Figlio alla mercé dell’umanità, si realizza la possibilità – senza sicurezza – di sortire dalla Necessità ed entrare nella Libertà. In tale stato consiste l’attesa, che è l’intermezzo tra l’uscita dalla Necessità e l’entrata nella sperata Libertà. In questo irreale e indescrivibile di sospensione del Sé nell’Altro, la coscienza si libera della Necessità del suo essere materico e trascende il suo stesso essere nell’Essere. Cosa è l’Essere? E’ il mondo quale appare (), compreso come ci appare (): la realtà fenomenica sulla quale dirigere la nostra volontà intelligente e immaginifica. E’ la realtà sensibile, filtrata attraverso l’attività dei sensi: la natura. Esiste purtuttavia un’altra realtà, invisibile e intangibile, dove non agisce la volontà di affermare la propria particolarità, ma l’amore dell’Altro in quanto tale. E poiché “non si ama per volontà propria”, 137 quest’ambito di realtà è dominato dalla dipendenza da Dio, diversa dalla dipendenza sociale, dove domina la volontà di potenza verso l’opposto alla attività del Sé. Neppure l’attesa di Dio è un ascolto passivo, ma una attesa anch’essa attiva: attendere nel senso di “occuparsi di” (Besorge). E l’attività consiste nel riscontrare la presenza di Dio nelle Sue creature, ossia nell’amare l’Altro, il prossimo. L’attesa di Dio consiste nel rapportarsi agli altri a preferenza di sé. La rinuncia al Sé imita la kenosis divina; e limitarsi significa fare l’esperienza del Limite ( ), ossia della Necessità, che equivale al silenzio di Dio. La Necessità (Ananke) è presente all’uomo come “sventura”, che corrisponde alla negazione di sé, cioè della volontà. La volontà del mondo, trattenuta nell’attesa di Dio, è la condizione della Verità. L’attesa è dunque della Verità. L’attesa attiva è attesa della Verità dell’Altro, che si riveli come immagine di Dio: una attesa dedicata all’Altro, riconoscendogli la sua unicità singolare. Se la Verità è l’Altro, non può essere creata dal soggetto coscienziale, ma solo 137
S. Weil, Attente de Dieu (1941-1942), tr. it., Milano, 2008, pag. 11. Da ora AD.
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rivelata. E nella Rivelazione la filosofia incontra il suo Limite. 138 Il suo bisogno di luce divina. Cos’è che Dio illumina? Qual è il contenuto della Sua illuminazione? Dio illumina la parola col Verbo della Verità, facendone una Parola “vera”. Dio consente che nel discorso umano si trovino le parole giuste, quelle appunto “vere” rintracciate dalla lettura di Agostino dei filosofi antichi. In che consiste la verità dei filosofi? Nel ritagliare la cosa dalla realtà indistinta, nel de-finirla distinguendola dall’in-distinto naturale. La parola sottrae la cosa nominata dall’unità originaria. Se noi chiamiamo questa unità Essere, allora nominando l’Essere lo sottraiamo al potere originario divino: da qui l’attività del Logos come opera di de-mitizzazione dell’indistinto linguaggio originario del Kaos, che soltanto gli dèi potevano dominare. Se il potere divino domina il linguaggio originario, la filosofia accende una lotta avverso alla caotica Necessità divina, dai disegni imperscrutabili ai quali è legato il destino umano attraverso il suo linguaggio naturale, generico, contingente, che può essere revocato in dubbio. Filosofare è stabilire tra la parola e la cosa un senso necessario ma perenne, non più esposto al capriccio degli dèi. Ed è questo significato tecnico a sottrarre la cosa all’unità ontologica originaria per consegnarla a un significato uni-versale, che va oltre il mero suono verbale dell’oralità tradizionale. Con la filosofia la parola acquista un senso esclusivo di altri significati pro-fani e comuni. La sacertà del senso filosofico entra in concorrenza con le pretese cosmologiche divine narrate dal Mythos, che tende a mantenere alla parola un significato simbolico, ritualogico e non tecnico, ma univoco e convenzionale, tale cioè che trovi il suo valore significativo all’interno del discorso razionale, e non originariamente. In tal guisa, il discorso filosofico de-pura il linguaggio dalla destinazione originaria delle parole, privandole della loro contingenza e 138
“La ricerca razionale, la filosofia suggella in questo punto del suo itinerario la propria inadeguazione alla verità, nel momento stesso che conquista sempre più chiaramente coscienza della propria vocazione per la verità stessa. La ragione non è il compimento di se stessa: coglie il suo scopo supremo, la saggezza, al di sopra di sé, in un dono da Dio, in un intervento che essa prepara col disporsi ad entrare, secondo la sua natura, nella luce. E la conoscenza razionale sarà oltrepassata se e quando alla mens sarà concessa la visio, la pura luce intellettuale che fa l’anima beata”: M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 241.
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indeterminatezza che consentiva al potere divino di esercitare, attraverso di esse, sul destino umano la loro mutevole scelta di senso, e assegnando loro un senso de-terminato e non più plurivoco, ma dal senso de-finito una tantum, cioè uni-versale. I depositari di questa assegnazione si attribuivano un potere cosmo-logico nuovo e confliggente con quello divino originario, caratterizzato da formule tipiche memorizzate e rese rituali come formule magiche. Con la filosofia, non sono le vuote formule tradizionali a produrre effetti ma i contenuti razionali veicolati dalle parole dotate di senso univoco, di senso logico. La parola filosofica non ripete moduli collettivi prestabiliti dalla tradizione, ma crea un senso significativo, evocato dal ragionamento stesso interpretato dal filosofo, il quale astrae dalla rappresentazione rituale il senso univoco della parola, emancipandola dall’impersonale modulo collettivo e attribuendo il suo senso al discorso, che ne diventa l’orizzonte di senso, chiamato Logos. La caratteristica del Logos, cioè del discorso filosofico, è la sua opera di dislocazione delle parole dal contesto rituale fisso e significativo originariamente sacro, e loro assegnazione a un contesto verbale di senso tecnico, distinto da quello generico comune, che perciò viene escluso. Il Logos astrae le parole dal significato comune e le destina al senso del discorso razionale. Rispetto alle parole comuni, quelle filosofiche perdono il loro rapporto originario con l’esistenza umana e si ritirano nel discorso, il loro orizzonte di senso noetico, distinto da quello pratico. La parola di senso divino, mitico, viene sostituita dalla parola di senso teoretico, compiuto, rispetto al senso in-compiuto originario, che attendeva l’evento rituale per compiersi, laddove la compiutezza del senso filosofico o profano veniva ora assegnata dal discorso, sostitutivo del rito. Il dialogo platonico è a metà tra la scena rituale e il contesto discorsivo. Ogni attore ha una parte drammaturgica che serve il discorso generale, il vero protagonista della scena. Se le parole tradizionali avevano un senso comune, questo era assegnato loro dai demiurghi divini. Con la filosofia, il senso è attribuito dal discorso stesso, dal Logos, l’autore produttore dei singoli logoi delle parti in scena. E’ il Logos che assegna autorità alle parole, e non più gli dèi. La theomachia è sostituita dalla logomachia. La parola, già partecipata, ora diventa creata, e da simbolica diventa
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significativa, cioè inerente al discorso, il suo contesto di senso. L’esigenza di affermare la validità del contesto dia-logico confligge con la validità tradizionale del senso comune delle parole, sicché l’orizzonte filosofico è vocazionalmente polemico verso il contesto sacrale, essenzialmente sinestetico, cioè tanto orale che drammaturgico. La polemica contro la parola comune (“naturale”, direbbe Husserl) è anche una diversa declinazione del tempo: non è più la ricorrenza rituale tradizionale ad attribuire valore pregnante alle parole, ma il loro senso costante e dunque a-temporale. Sottrarre le parole alla durata significa assegnarle a una dimensione temporale avulsa dal divenire, entro la quale le parole restano come temporalmente sospese. L’orizzonte di senso filosofico è un contesto a-temporale, come pure de-spazializzato. Non è più il tempo e il luogo ad attribuire senso e valore alle parole, ma il discorso, un luogo dunque per antonomasia privato (alla pubblica ricorrenza sacrale). Libera da ogni fruizione circostanziata, la parola esprime il suo senso de-finitivo fuori dalla in-condizionatezza del vagolamento semantico proprio dell’uso mitico. Tale trarsi fuori delle parole dal senso comune costituisce il loro senso concettuale, il senso della loro astrazione dalle cose del mondo. Le parole filosofiche non indicano le cose comuni del mondo-della-vita, ma solo il significato attribuito loro dal Logos. Il linguaggio arcaico del Mito è la ripetizione rituale del già detto, mentre il linguaggio filosofico è ciò-che-si-dice, e indica pertanto ciò-che-è, l’ente. La parola filosofica non indica la generica cosa particolare e concreta, ma l’ente, l’immagine ideal della cosa di senso universale. Il senso tecnico, gergale, si abbina al senso universale, logico, sicché le parole filosofiche creano una realtà parallela a quella contingente e comune. Da questa alterità strutturale prende ispirazione la tesi platonica di una Alterità assoluta e originaria, che si riflette nel pensiero filosofico. Il senso filosofico del discorso non è un senso letterale, poiché questo senso è demandato al suo contesto semantico complessivo. La parola filosofica è de-terminativa di senso, ma la sua determinatezza è prodotta dal senso del discorso, ossia da un processo ermeneutico di de-cifrazione letteraria. Il passaggio dal letterale al letterario è lo stesso che dal Mythos al Logos. Il senso letterale è in-determinato proprio n virtù della fruizione in-differente e polisemica della parola rituale. Il senso letterario, di
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contro, è determinato dal suo orizzonte argomentativo, che dunque viene prima del senso letterale delle parole. Il senso univoco della parola filosofica non è dato dalla parola stessa, ma dal Logos, cioè dal suo orizzonte di senso razionale, senza il quale la parola resta in-compresa, cioè con-fusa col suo senso letterale comune. La parola mitica è appunto quella razionalmente de-contestualizzata, il cui senso è letterale, e proprio perciò in-determinato e generico; priva di contenuti formali, e perciò altamente e-vocativa di senso, ossia predisposta a tali contenuti de-finitorii. Ogni fruizione definitoria astrae la parola dalle sue particolarità indicative, espressive di una concretezza empirica, e la destina a una funzionalità semantica determinata, cioè oggettiva. L’oggettivazione della parola consiste nella sua disposizione entro un costrutto formale, non meramente simbolico e polisenso ma univoco. La portata semantica della parola oggettivata è più ristretta rispetto alla fruizione simbolica, poiché è ascritta a un senso univoco coerente a quello del contesto significativo di cui essa è elemento formale costitutivo. Il senso eventuale della parola simbolica, cioè il suo carattere di “evento” evocativo di senso, viene sostituito da un senso logicamente necessario, razionale, tale che assume su di sé quel carattere di necessità che il Logos ha strappato al Mythos. La differenza tra i due contesti necessarii è che, mentre nel Mito la necessità è nella statuizione dell’ordinamento cosmologico,entro il costrutto logico la necessità è consapevolmente declinata come intrinseca alla struttura formale del ragionamento. In altri termini, la Necessità (Ananke) mitica è impersonale e ineludibile, perché di natura divina, mentre la necessità logica è facoltativa e opzionale, legata com’è alle virtù noetiche del pensatore, che non sono naturali ma dovute alla sua pre-disposizione interiore, alla “cura di sé”. Nel caso del racconto mitico, la parola ha un senso sospeso ed evoca quindi mistero; nel caso del ragionamento filosofico, la parola indica certezza denotativa ed esclusiva di altri sensi reconditi. La varietà del senso simbolico è legata alla concretezza del suo riferimento empirico a quella cosa e non altra, sicché l’esclusività dell’accezione tecnico-logica della parola è legata alla astrazione da ogni suo riferimento empiricoconcreto. E’ tale astrazione dal mondo del linguaggio comune che ne consente il valore universale.
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Ma da cosa è determinato tale valore universale? In che cosa consiste? Esattamente dalla fede nella trascendibilità dello spazio naturale (finito) nel tempo spirituale (eterno). In tale de-localizzazione consiste la possibilità (Moeglichkeit) del Logos, l’attività spirituale che, distinguendo l’essere (ousia) dall’apparire, fa sì che il suo telos non coincida col suo movimento finale necessario, proprio degli esseri di natura, lo costituisce nella sua libertà, che esistenzialmente consiste nella “realtà” del suo atto determinato, originariamente concepito come (astratta) possibilità. Rispetto alla potenza della dynamis naturale, la possibilità propria alla libertà spirituale non è pre-vista come fine necessario del suo essere, cioè dell’ente a cui si ascrive. Nell’uomo, l’anima è l’origine (arché) della volizione, ma non la causa razionale (aitìa) dell’atto teleologico, il quale perciò non è conoscibile ex ante ma solo ex post, e perciò non necessario ma libero. L’esistenza dell’uomo non è la “potenza” (dynamis) degli enti naturali, ma è atto creativo (poiesis), sicché, se nell’ente naturale il suo essere coincide interamente col suo poter-essere, nell’uomo l’essere è sempre altro (eteron) dal suo poter essere (Moeglichkeit), come il definito è altro dall’in-definito e il de-terminato dall’in-determinato. In senso storico, l’indeterminato è il tempo, e il determinato lo spazio. Come infatti asserisce Hegel, “tempo e spazio non esprimono in loro una loro origine unica [poiché] essi sono reciprocamente indifferenti, proprio come lo sono le loro grandezze”. 139 Il movimento della libertà, cioè l’essere della Possibilità, se vincolato alla Necessità dell’ “atto di ciò che è in potenza”, diventa in sé inspiegabile perché contraddittorio. E poiché il movimento (energeia) è “reale” nel senso della sua empirica effettualità, esso non coincide con la libertà ma con la Necessità, che è il regno della Natura (Physis). La libertà della possibilità riguarda perciò la “realtà” dello spirito, ossia la dimensione non-naturale propria dell’esistenza umana. La existentia in senso spirituale non è la “presenza” in senso greco dell’”esser in generale”. La presenza per Aristotile è la pre-condizione ontica della possibilità ontologica, sicché essa si pone in sé come realtà necessaria a ogni possibilità: ciò da cui la possibilità dipende. In tal senso, la presenza coincide con la stessa Necessità, la quale pertanto è l’ousia della presenza, il suo concetto ideale. Idealizzare 139
G.W.F. Hegel, FS, vol. I, tr. cit., pagg. 126-127.
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il fenomeno in-definito, significa assumere l’Idea come realtà, ossia la realtà del fenomeno come Idea di esso. Poiché il fenomeno è ontologicamente finito, cioè logicamente determinato, assumerlo in Idea significa assumerlo come infinito. Ed è questa assunzione il processo astrattivo operato dal Logos: universalizzare il dato di realtà assumendolo come se (als ob) fosse idealmente reale, possibile in quanto ideale e determinato in quanto reale. Esattamente questa costituzione onto-logica fa dell’Essere una realtà necessaria, ossia dominata dalla Necessità. Poiché tale necessità ontologica è presunta metodologicamente dalla idealizzazione della realtà ontica, essa resta arbitraria e perciò un “enigma” (Raetsel).140 Per dialettizzare la Presenza, si assume la realtà fenomenica come Idea, privandola della sua finitezza e della sua molteplicità, trasvalutandola in un dato di coscienza.141 La temporalizzazione del movimento dialettico ubbidisce alla stessa necessità che sostanzia il movimento naturale, poiché la possibilità dinamica che rende possibile la e-videnza dell’ente all’eidos ne sancisce anche il suo limite (peras) di finitezza temporale; infatti il proteron, essendo inscritto già nel telos, è lo stesso fine considerato come possibilità, cioè come non-atto. La pre-comprensione dell’atto come possibilità prevedibile, nega in radice la sua libertà, facendola consistere e costituire dalla sua intrinseca necessità. La “libertà” della natura, la sua legge energetico-dinamica, è la stessa Necessità che si realizza in atto. Il movimento del’Essere è dunque l’Essere stesso che viene alla luce “nella presenza compiuta del suo aspetto finito”.142 La duplice natura del movimento prelude alla sua processualità dialettica che si compie nel Logos, nel discorso razionale, che diventa perciò la sua 140
“Il movimento è evidentemente un atto, ma è un atto incompleto: e per questo è difficile comprender cosa sia […], pertanto non resta che la spiegazione che ne abbiamo dato: il movimento è atto e non atto, e questo è difficile da comprendere, ma è possibile”: Aristotile, Metafisica, XI, 9, 1066 a; ved. M. Vegetti, Op. cit., pag. 111, n. 102. 141 Su questo presupposto idealistico della gnosi filosofica, ebbe buon gioco il fisicalismo scientistico moderno, che rivendicò la natura appunto finita e molteplice della realtà sensibile, riportandola a se stessa. 142 M. Vegetti, Op. cit., pag. 113.
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immanente verità, la verità logica dell’Essere. Ma l’inizio della Forza è l’astratto opposto alla fine della effettualità o compiutezza dell’atto. Con questa biforcazione intellettualistica di un negativo assunto astratto dal movimento attuale di un fine (telos) posto al di là del movimento come presenza attuale intemporale, giunge lo sforzo teorico della metafisica, compiuto da Aristotile a Egeo per mostrare nella kinesis il fondamento d’essenza dell’Essere, risolvendosi per Heidegger in un “enigma fondamentale” che investe tutto il pensiero occidentale, consistente nella “distruzione del movimento come condizione onto-logica della sua intelligenza”.143 Se storico è il movimento manifesto, “storica non è mai la presenza del Geist, ma la sua conoscenza, di cui la presenza è condizione”. Esseno la condizione assoluta, l’apparenza del movimento è solo “apparente”, restando sullo sfondo di ciò che già è, e che non si muove, e annullandosi all’atto dell’auto-coscienza che perviene a sé eliminando il movimento che la media con l’ente fenomenico. “Il movimento dell’apparire diviene dunque tale, apparente, nella misura in cui per suo tramite si dispiega l’altro da sé, il logos ab-solutus, sciolto dall’affezione del movimento, che nella fine rovescia il non essere nell’essere, e mostra se stesso come il primo”. In tutta la storia della metafisica occidentale, da Aristotile a Hegel, “l’enigma della ratio” ruota intorno alla “essenza del proteron, nell’esser-già di questo, [che] condotto a manifestazione della kinesis, è nel contempo prima della sua manifestazione, e fonda il divenire nell’atto stesso con cui lo rimuove onto-logicamente”.144 L’ “enigma” in cui si avvolge “il movimento della vita della verità” 145 è la rimozione del Tutto pre-categoriale (ossia il Mito come proto-logia del Logos) e la costituzione credenziale (nel senso di credenza, posizione fideistica) della Presenza come condizione universale ideal-razionale dell’ente che è realtà dell’Idea, manifestazione finita (storica e temporale) della Presenza in-finita ed eterna della verità. Il carattere intemporale del Vero, ossia del Tempo quale ente supremo o Essere su cui 143
Ivi, pag. 113. Ivi, pag. 114. Corsivo nostro. 145 “L’apparire è il sorgere ed il passare che né sorge né passa, ma, in sé restando, stabilisce la realtà ed i movimento della vita della verità”: G.W.F. Hegel, FS, vol. I, tr. cit., pagg. 37-38. 144
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l’ente fonda la stessa possibilità d’essere, non consentendo la sua predicabilità, possibile solo dell’ente, fa sì che l’a priori su cui si regola ogni interrogazione ontologica dell’ente, suppone una determinata pre-comprensione della temporalità: l’essenza della priorità è il tempo e reversibilmente, dove non ci fosse tempo, non sarebbe alcun prima, dunque neppure l’essere dell’ente […]. Non c’è nessun prima senza il tempo”.146
Lo spirito in atto è presente allorquando sospende la sua attualità cinetica e si finitizza come ente sensibile, come fenomeno naturale nel senso di Gentile. In questo suo mondanizzarsi e storicizzarsi, il Geist non è più sé ma altro, cioè natura,ente. Ciò vuol dire che la realtà dell’Essere-Spirito è la sua finitezza, ossia la sua negazione: la negazione della sua infinitezza. Nella rifrazione reciproca dell’Essere nell’ente e viceversa, nessuno dei due elementi è reale fuori della relazione. Sicché la rispettiva realtà è soltanto un punto di vista onto-logico, una interpretazione, che de-finisce concettualmente a preferenza l’Essere dell’ente anziché la presenza fenomenica dell’Essere. In questa necessaria alterità prospettica, la verità della relazione non può trascenderli ma solo astrattamente negarli, ponendo uno dei due quale oggetto della coscienza. Ma in questa decisione il giudizio apofantico si costituisce come negazione della relazione, ossia del movimento o Tempo, che è il fondamento (Darstellung) dell’Essere. “Il tempo dell’essere è il presente eterno che non conosce passato e futuro, ma questo eterno presente è per il regno della storia dell’uomo l’intemporale passato cui soggiace ogni futuro”.147 L’aspetto singolare di tale condizione ontologica è che “il presente eterno” è sempre il negativo dialettico del passato e/o del futuro, le uniche realtà storico-temporali che di fronte al Presente sono a loro volta inreali, e perciò oggetto di fede, secondo la profonda consapevolezza di Agostino.148 Ciò vuol dire che l’essenza fondamentale dell’Essere, sia 146
M. Vegetti, Op. cit., pag. 115. M. Vegetti, Op. cit., pag. 117. 148 “Come fanno dunque ad esistere i due tempi, passato e futuro, dal momento che il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora? Quanto poi al presente, se 147
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esso considerato nella sua eterna Presenza che nella scansione finita della temporalità storico-effettuale, è il Negativo, rispetto al quale l’Essere si costituisce come positività storico-temporale. Ma ciò implica che l’origine arcaica dell’Essere è il Nulla, l’unica unità inglobante che trascenda ogni determinazione d’essere dell’ente e ogni entificazione reale del’Essere. A questa conclusione era già pervenuto Platone nel Sofista, che testimonia che la trascendenza del Negativo è il portato metafisico dell’ontologia naturalistica greca. Il tempo passato, il “passato” dell’ente, è un tempo logico, o per meglio dire intellettivo. E’ l’intelletto che isola il fenomeno dal processo che lo contiene per giudicarne l’attualità, ossia per affermarlo come “presente” nel giudizio storico. All’interno del processo avvenimenziale, non vi è scansione temporale che non sia relativa al presente. Solo ciò che è “presente” alla coscienza è “reale” in senso razionale. Dalla prospettiva ontologica, il passato è l’antecedente della realtà oggetto di giudizio. Ma ciò che ante-cede, ossia che sta prima della “caduta” nel tempo, è il Negativo rispetto all’Essere del Logos, l’in-espresso in-temporale e infinito. Poiché da tale Infinito viene in essere la realtà finita dell’ente, esso è a un tempo l’Essere in-determinato e il suo Negativo trascendente; ossia è Tutto. Ciò che antecede l’Essere e il Tempo è pertanto il Tutto, ineffabile. Quando si afferma che “solo in virtù della ‘caduta’ [katàstrophè] si apre lo spazio di abitabilità dell’esperienza della verità, del fondamento-passato che l’assoluto deve negare per affermare positivamente il proprio essere”, 149 non si deve intendere che la “esperienza della verità” sia più che un’occasione o cifra della Verità del Tutto. Infatti, la coscienza storica, in cui il passato si converte concettualmente nella presenza infinita dello spirito auto-cosciente, è un presente eterno, perché sempre trascende in quella conversione (Umkehrung) attuale il dato fenomenico-temporale passato (Gewesenseit). Ciò implica che l’ousia della Verità è trascendente ogni rimanesse sempre presente e non diventasse passato, non sarebbe più tempo ma eternità. E allora, se anche il presente, per essere tempo deve diventare passato, come possiamo dire che esiste, dal momento che la sua ragion d’essere è che non esisterà? Ciò significa che non possiamo dire veramente che esiste il tempo se non in quanto esso tende al non essere!”: Agostino, Conf., XI, tr. cit., pag. 384. 149 M. Vegetti, Op. cit., pag. 117.
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storica fenomenicità, e che la sua con-prensione concettuale trova il suo limite (Grenze) nella sua stessa de-finizione temporalizzante. La conoscenza come ritorno a sé di ciò che già era, non è mai il “ritornato”, quale passato attualizzato dal giudizio logico della coscienza storica, ma è sempre il “ritorno” stesso, la periegesi della coscienza consapevole di sé (la seconda navigazione platonica, l’auto-coscienza hegeliana, l’introspezione agostiniana) La “storia” di tale viaggio è a quo, a partire da un “passato” astratto dal suo divenire, cioè dal processo in cui è inserito come Verbeigang. Ma astrarre il “divenuto” è identico al convertire (Umkehren) il factum ontico in accadimento (Ereignis) ideale, de-spazializzato e collocato nella sua forma significativa, cioè messo in relazione necessaria con l’oggetto della coscienza del Soggetto trascendentale, che funge da a priori universale. L’ a priori come passato originario è solo la presenza che fu rispetto alla coscienza attuale, ma, seppure nell’Umkehrung del concetto “elimina il tempo”,150 non è - come invece crede Heidegger – il pre-temporale arcaico. Il passato veramente originario, pre-temporale, è come nonessere-presente come ente. E ciò che insieme è e non è, non può essere né l’ente (to òn) e neanche l’Essere (la cui essenza è positiva), ma il Tutto, che trascende la Presenza in generale, e a fortiori la presenza attuale, “vivente” (Lebendige Gegenwart). Il “precedente” logico è “il passato giunto alla quiete”, ma il pre-cedente ontologico, l’arcaico, è il Tutto avvolgente, che per Agostino è l’Amore di Dio, Dio come Amore. La “circolarità del concetto che si muove in sé e tiene in sé le sue figure”151 disegna l’orizzonte della finitezza, senza poterlo varcare, sicché l’ “automovimento del fondamento” è solo il viaggio della coscienza che parte dall’ente e torna all’ente, circumnavigando la regione dell’Essere circondato dal Nulla originario. Il “movimento” che agisce cineticamente è la volontà della stessa coscienza che opera noeticamente alla stregua dell’energeia della Physis. In tale circolo onto-logico, non vi è passaggio 150
M. Heidegger, La fenomeologia dello Spirito di Hegel, tr. it., Napoli, 1988, pag.
41. 151
“La circolarità del concetto che si muove in sé e tiene in sé le sue figure, toglie nella sua attualità autosussistente la potenza del divenire, e però, come il primo motore aristotelico, ne mantiene la traccia, proprio in quanto automovimento del fondamento, e quantunque disalienato dal tempo”: M. Vegetti, Op. cit., pag. 118.
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che dall’Essere (universale) all’ente (particolare), e non già dal Nulla all’Essere. In quel senso idealistico, è la stessa coscienza (Cogito) che pone la sua determinazione oggettiva (cogitatum), passando dal possibile all’attuale senza uscire dallo stesso pensiero, cioè senza poter ri-trovare coscientemente alla fine della dialettica trascendentale altro da ciò che aveva posto inconsapevolmente all’inizio: la realtà finita. L’intero campo intenzionale della coscienza, l’intero Erlebnis, nel suo tendersi verso il suo oggetto, non va oltre il Soggetto, la sua finitezza universale.152 Il trascendimento del Sé inteso come auto-coscienza non è che la coscienza del suo limite, del limite della coscienza finita. La sua tensione è nel senso della relazione con l’Altro, nel superamento della finitezza del Sé nella luce della comunione noica, del Noi spirituale, il luogo del trascendimento del tempo naturale, del presente. L’attualità della coscienza è dunque nel suo tendersi verso il Negativo, le “zone in ombra” (Abschattungen) non presentemente illuminate dal pensiero de-finitorio. Ed è tale negativo ciò che si nega alla luminosità della coscienza (Kern). Da qui il rimando implicito al tempo altro dal presente, che come passato o futuro, incombe sulla coscienza come esigenza di compiutezza, che è trascendimento dell’orizzonte naturale entro il quale la gnosi antica ha creduto di risolvere la finitezza, e che è stato recuperato dai moderni come tempo della storia, intesa come orizzonte universale della socialità e del politico, già prefigurato da Platone. La “circolarità del concetto” ontologico, dell’Essere come assoluta presenza, ossia come Idea, disegna il percorso odeporico della Soggettività pura, che si dispiega come volontà, che, se introflessa nella relazione orizzontale della socialità politica, è “volontà di potenza”, ma che, se trascesa nella relazionalità verticale, si predispone all’ascolto della Parola amorevole, ossia a quell’ “attente de Dieu” come prossimo, che compie il tempo nell’Amore, che libera dalla finitezza cronologica della Necessità nella intenzionalità d’amore per l’Altro (charitas), la relazione agapica che trascende escatologicamente la incompleta socialità naturale, la koinonìa politica all’insegna dell’Eros. La trascendenza della coscienza è la immagine trasvalutata dell’Uomo che nell’Altro vede ciò che dalla 152
E. Husserl, Cartesianische Meditationen, V § 44, tr. it., Milano, 2004, pagg. 116121. Da ora CM.
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soggettività del Cogito restava in ombra: la totalità originaria di Dio, l’arché e il totum di ogni Erlebnis. La natura finita dell’esperienza umana circoscritta alla temporalità naturale impedisce quella compiutezza dei tempi che solo l’eskaton può assicurare attraverso il paradigma esistenziale di Gesù, la cui vicenda terrena rappresenta la perfezione umana non conseguibile nella temporalità finita, cioè nello spazio politico, che “appartiene al principe di questo mondo”, 153 ma solo nel tempo escatologico. La Darstellung che scaturisce dalla metanoia della coscienza cristiana è un mondo-della-vita (Lebenswelt) trasvalutato analogicamente in mondo-dell’-amore (Liebeswelt), in cui l’intenzionalità della coscienza non tende più alla “visione ideale” ( ) della storia socio-politica (Geschichte), ma tende alla Parola illuminante della Storia spirituale (Gedichte), attraverso la preghiera, l’invocazione del precarius, di chi ha ottenuto la vita (e la ragione) in dono dal Padre per amore, e dal Quale attende la illuminazione divina, la Verità. La presenza di Dio non è immagine, cioè rappresentazione fisica e visibile, ma è Parola interna, udibile in interiore quale Verbum della coscienza, non esteriore dictum della volontà. La dialettica filosofica si fa nel cristiano dialogo spirituale (askesis), la cui esperienza intersoggettiva non è l’agere della relazione politica e la praxis della relazione sociale, all’insegna della “cura di sé” (Sorge), ma l’attesa di Dio come “cura dell’Altro” (Besorge). La rappresentazione idealistica del mondo ha come fondamento di realtà, come “in sé” di ogni atto di coscienza, il mondo-della-vita (Lebenswelt), dal quale trarrebbe origine ogni contenuto dell’attività dell’ego trascendentale, sicché l’orizzonte di coscienza trascendentale è identico alla stessa soggettività del Cogito. Come si pone in tale orizzonte la relazione della coscienza soggettiva con l’estraneo (che, concettualmente, è il mondo oggettivo)? L’operazione noetica che più si avvicina alla sursumactio cristiana di pervenire alla “saggezza spirituale” di “possedere il tutto”, 154 è il metodo fenomenologico di Husserl, col quale si opera una trans-posizione della “descrizione empirica” alla dimensione della “descrizione eidetica”, avente un “principio proprio”, che è “l’eidos”, il quale, essendo 153 154
S. Weil, AD, pag. 15. M.F. Sciacca, S. Agostino, cit., pag. 243.
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“incondizionato cioè non condizionato da alcun fatto”, è un “universale puro” che viene “prima di ogni concetto”, antecedente ogni “significato della parola”, ossia all’origine di ogni de-finizione della realtà quale oggetto di pensiero, e quindi a fondamento della “coscienza intuitiva della universalità”. Come spiega Husserl, “la fenomenologia eidetica ricerca dunque quell’apriorità universale, senza la quale non si può pensare un io né l’io trascendentale in generale”, per cui essa ricerca “l’universale legalità d’essenza” che prescrive il “senso possibile” di ogni proposizione.155 Questo processo viene indicato come “riduzione fenomenologica”. Per Husserl “ridurre”, in via generale, vuol dire negare il modo non vero, non autentico, con il quale a noi si presentano le cose [poiché esse] si presentano a noi in modo da non essere quelle che sono. Il loro modo di presentarsi è, dunque, un non essere che si presenta come essere: ridurre vuol dire far in modo che a noi si presentino, si rivelino le cose stesse, così come sono […] in modo autentico ed originario […] perché le cose si presentano secondo un essere che non è il loro vero essere [ma] che è altro dall’essere. questo modo nel quale il fenomeno non è essere ma è l’essere di un non essere viene detto da Husserl “naturalistico”, [il quale, essendo] l’altro come non essere. […] deve essere negato perché l’essere possa rivelarsi. […] La fenomenologia ha il “compito” di trasformare l’apparire falso in apparire vero.156
L’immagine che deriva dalla riduzione fenomenologica della realtà naturale è pertanto quella del “vero” fenomeno, della originaria “cosa in sé”, che, per stessa ammissione metodologica, è un’eidos, che, inteso come “fondamento antepredicativo del discorso” è la credenza ontologica nell’Essere che coincide con lo stesso orizzonte trascendentale dell’Ego. Ma poiché l’essere apparente (Schein) è lo stesso essere dell’essere vero che non appare in sé (soviel Schein, soviel Sein); questo in sé di entrambi è il Sein eidetico, cioè l’Idea di verità, ma non ciò che la contiene insieme alla alterità del Niente. Rispetto al livello della coscienza agostiniana dell’Infinito quale trascendenza delle opposizioni modali dell’onticità, il 155
E. Husserl, C M, IV, § 34, pagg. 95-97. E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl (1961), Milano, 1990, pag. 5. Da ora TeV. 156
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livello fenomenologico è ristretto all’unità di un polo dialettico assunto idealmente come vero ad esclusione dell’altro, ritenuto falso.157 Ma la supposta incontrovertibilità epistemica che il naturalismo impedirebbe mostrando l’immagine falsa dell’Essere, in realtà è solo il pre-giudizio legato al credito assegnato alla posizione onto-logica originaria (Grundlegung), che nella sua Fenomenologia Hegel ritroverà come Vollendung del percorso della coscienza razionale. Ma il “Tutto” di Agostino è ben più della coincidentia oppositorum hegeliana.158 L’intenzionalità husserliana è negazione del mondo naturale (Weltvernichtung), ossia conferimento di senso (Sinngebung) razionale, conforme all’Idea.159 E’ nella sua legislazione formale che l’Essere trova il suo senso. La realtà in sé, infatti, “tanto quella delle cose singolarmente prese, quanto quella del mondo intero, manca essenzialmente di autosufficienza. Essa non è in se stessa qualcosa di assoluto […] non ha alcuna ‘essenza assoluta’, ma ha l’essenzialità di qualcosa che per principio è soltanto intenzionale”.160 In questo senso Husserl sostiene che “l’intero mondo spazio-temporale, al quale l’uomo e l’io umano appartengono come singole realtà subordinate, è secondo il suo senso un essere puramente intenzionale, in quanto ha il senso, meramente 157
In questo senso Adorno ha potuto identificare il Geist di Husserl con la “totalità concreta” di Hegel. Ved. Zur Metakritik der Erkenntnistheorie, Stuttgart, 1956, pagg. 192-195; cit. da E. Paci, Loc. cit., pag. 6 n. 6. 158 “Proprio perché il tutto non è l’essere e solo l’essere ma un tutto aperto che comprende anche quello che mai è stato e mai sarà, il Cogito vive nel tutto e ha in sé il tutto senza poterlo mai esaurire”: E. Paci, TeV, pag. 9. Si noti il concetto diacronico di tempo, privo della dimensione infinita ed eterna dell’eskaton, che è radicalmente diverso dalla “forma del tempo del mondo” (Weltzeit), interno al Grenze ontico. Infatti il tempo che circonda la coscienza assoluta è “infinito del passato e infinito del futuro” (pag. 13). Ma se fosse veramente “infinito” lo sarebbe in entrambi i versi, e non potrebbe finire nel qui e ora dell’atto della coscienza intenzionale. 159 “Se dunque pensiamo la fenomenologia formata puramente secondo il metodo eidetico come scienza intuitiva a priori, tutte le ricerche di essenze non sono allora altro che rivelazioni dell’ universale ego trascendentale in generale contenente in sé tutte le variazioni pure di possibilità del mio io esistente di fatto e questo io stesso come possibilità.”: E. Husserl, C M, IV, § 34, pag. 97. 160 E. Husserl, Ideen zu einer Phaenomenologie und phaenomenologischen Philosophie (1931), vol. I, § 50, tr. it. Torino, 1965, pag. 109. da ora Ideen.
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secondario e relativo, di un essere per una coscienza”, 161 a sua volta “assoluta”, posto che “nessun essere reale, tale che si rappresenti e si giustifichi coscienzialmente mediante apparizioni, è necessario all’essere della coscienza”.162 Il mondo-della-vita è una realtà “di fatto”, privo di senso, valido all’interno della coscienza solo come termine dialettico “tra il proprio e l’estraneo”, come nel Sofista platonico.163 Il Geist è il movimento del concetto quale Idea e soggettività pura (Cogito), cioè assoluto presente senza passato né avvenire, in sé e per sé eterna che si esaurisce nella sua potenza, nella sua volontà. Spirito è tuttociò-che-è, il Presente assoluto, ossia astratto dal suo arché “naturalistico”, anteriore alla potenza: al suo a priori, ovvero, kantianamente, alla sua “pura possibilità”.164 E perciò, “non potendo pensare l’anteriorità della potenza sull’atto, alla metafisica è precluso anche il pensiero del tempo, vale a dire la condizione di possibilità dell’apparire dell’ente nella finitudine storica dell’esistenza”.165 Infatti, “laddove s’incontra l’ente l’essere è ‘fin dall’inizio già’ progettato”, ossia appunto è apriori. Ogni asserzione sull’essere inerisce alla temporalità, per cui “tutte le proposizioni ontologiche […] sono proposizioni temporali”, le quali “debbono essere proposizioni aprioriche”.166 Nella prospettiva ontologica, la libertà è attività della dynamis che libera la forza “nel luogo decisionale dello storicizzarsi originario dell’esser-ci”. E nella dynamis-Moeglichkeit “Heidegger fa risiedere quell’origine della possibilità in generale che consente all’esserci di porsi come libero progetto del mondo, cioè di negare l’essenza della libertà scegliendo, determinandola progettualmente”. Ma se la libertà è la dinamica della presenza, questa si manifesta come la sua negazione, per cui “il mondo è tenuto nella libertà contro la libertà stessa”, ritirandosi “nella propria 161
Ivi, § 49, pag. 109. Ivi, § 49, pag. 107. 163 E. Paci, TeV, pag. 13. 164 I. Kant, Primi principi metafisici della scienza della natura, Bologna, 1959, pag. 11. 165 M. Vegetti, Op. cit., pag. 119. Sulla scienza dell’apparente e la sua fondazione, ved. V. Vitiello, Non dividere il si dal no, Roma-Bari, 1996. 166 M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phaenomenologie (1927), tr. it., Genova 1990, pag. 311. Da ora GPh. 162
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infondatezza ogni volta che avviene il passaggio dal possibile al reale, lasciando così che il passaggio abbia luogo, e che la trascendenza resti costantemente aperta verso le sue possibilità storiche”. 167 Si è giunti così al limite periegetico del circolo concettuale. Raggiunto il Grenze, il suo superamento doveva interessare inevitabilmente il ripensamento del concetto quale orizzonte modale di universalizzazione della presenza della realtà ontica nel tempo storico per mezzo dell’affermazione ontologica. Doveva cioè segnare la Vollendung della metafisica così come era stata pensata da Platone a Hegel. Il nuovo sforzo filosofico sarebbe stato per Heidegger di pensare non più la storia (Geschichte) ma la “storicità”, la kinesis del possibile, ovvero “l’enigma ontologico del movimento dello storicizzarsi in generale”. Infatti, “il passare (Vorbeigang) e l’accadere (Ereignis) e la storia (Geschichte) non possono essere affatto concepiti come modi del movimento, perché il movimento (pensato anche come metabolè) rinvia sempre all’on e all’ousia, e sono sempre comunque in rapporto con la dynamis e l’energeia o con le loro più tarde derivazioni”. Questi chiarimenti di Heidegger stanno a indicar che “la distruzione del movimento razionale della sostanza-soggetto doveva passare di qui, per poi rifluire in una nuova figura della metabolè, in quela epochè dell’essere che si nasconde nel movimento della sua presentazione”.168 Invece dell’atto-factum del giudizio abbiamo l’Ereignis, priva di fondamento, che nella sua possibilità ha la sua necessità energetica di venire in essere. L’Ereignis è il venire alla presenza e “unità originaria di spazio e tempo”. Quando si tratterà di pensare la kinesis dell’essere nella storicità dell’ente, Heidegger parlerà di una “tremito dell’Essere” (Erzitterung des Sein), dove coesistono il negativo che è nell’Essere che si ritrae per lasciar essere gli enti e si nega all’oggettivazione, 169 confermando la Differance ontologica tra Essere ed ente (Unterschied). Per Hegel, il “tremore” non è una categoria dello spirito, ma resta la differenza comune al differenziarsi di ogni differenza, “ciò a partire da 167
M. Vegetti, Op. cit., pag. 121. M. Vegetti, Op. cit., pag. 123. 169 “La tensione permanente che precede l’apparire delle forme, non si lascia categorizzare come la presenza attuale di questa antecedenza”: M. Vegetti, Op. cit., pag. 125. 168
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cui l’uno e l’altro [l’essere e il non-essere] vengono a manifestazione, la potenza di di-venire alla presenza, o la relazione ontologica dell’Essere al nulla, che in quanto tale, non diviene (poiché non ha in sé alcuna differenza da sviluppare, avendo tutte le differenze dentro di sé), né sta (poiché essa [la vita] è l’essenza di ogni rapporto, e di ogni differenza)”.170 Il problema della verità è connesso alla storia del movimento della vita, che è l’essenza storica della verità. 171 Per Heidegger la differenza tra l’Essere e l’ente è trascendente; per Hegel è l’immanenza che sopporta la negatività, la lacerazione (Bruch) della contraddizione, lasciando travedere, nel finito, l’infinità del concetto assoluto. E’ la materia sensibile del concetto la dimensione autentica della negatività, che il movimento progressivo del concetto spirituale traduce in positivo. Ciò significa che nell’ oggettivazione razionale avviene la trasfigurazione fenomenologica dell’ente già naturalistico in essenza universale: l’universalità come valore trasfigurante (metabolè). Che è processo inverso alla metabasis del giudizio razionale nel genos ideologico dell’orizzonte politico. La dinamica dialettica costituisce la kinesis dell’oggettivazione razionale di tutto ciò che è, quale modalità essenziale del processo di conversione fenomenologica. L’operazione logica come dinamica ontologica: la “forza magica” dell’Umkehr di cui dice Hegel nella Fenomenologia. “Svolgendo l’ufficio di convertire (umkehren) il negativo nell’essere, la dialettica non può infatti pensare l’identità dell’essere e del nulla oltre l’orizzonte ontologico pregiudicato dall’idea regolativa della presenza […], non può esprimere la cooriginarietà inestinguibile del Non all’essere che è”.172 E poiché la Fenomenologia hegeliana è il tentativo di fondare la metafisica nel senso, non della gnoseologia ma dell’ontologia,173 la stessa metafisica si compie nella stessa pretesa idealistica di fondazione della filosofia come scienza assoluta, con la conseguenza che la tradizionale categoria di sostanza giunge in Hegel a dissolversi nella soggettività assoluta, da cui dipende 170
Ivi, pag. 125. Ivi, pag. 126. 172 Ivi, pag. 127. 173 Ivi, pag. 132. 171
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l’apparire del’ente. Lo svolgimento coerente che l’ego-logia filosofica moderna compie da Kant a Hegel, comporta dunque lo svolgimento della metafisica da conoscenza entro i limiti della pura ragione (finita), a conoscenza assoluta. A partire da Fiche, e compiutamente in Hegel, la “logica” si costituisce come “scienza del Logos”, cioè metafisica pura, 174 la cui Darstellung universale è una absolute Theologie, in cui il Theos è pensato logicamente, ossia come oggetto del pensiero speculativo.175 La realtà ontica, in cui l’ente appare nella sua ambivalenza originaria percepita dalla “coscienza naturale”, costituisce l’orizzonte originario negativo che la riduzione fenomenologica deve negare per affermare l’Essere, quale realtà generalissima, universale e trascendente ogni determinazione concreta, entro la quale l’ente si presenta. La “presenza” dell’ente è la sua “forma” () conoscibile (). L’Essere, inteso in tal modo, costituisce una totalità, comprensiva di tutte le differenze possibili in ogni tempo e luogo ( ). Ma, costituendo la negazione del mondo-della-vita, che è quello naturalistico in cui le cose si presentano come ni-ente, l’Essere rappresenta la Differenza dalle cose del mondo, “il non essere del finito”. Per il suo carattere universale, l’Essere della coscienza razionale è un assoluto rispetto al suo mutevole opposto esistenziale, il Lebenswelt, che ne dipende. E’ un assoluto negativo che negando il mondo naturalistico si pone come assoluto positivo. L’Essere ha in signoria l’ente, ma per la sua assolutezza positiva, ne dipende, poiché senza l’ente negato, l’Essere non potrebbe sussistere, non avendo niente da negare. Come l’uomo libero antico, la cui libertà dipende dalla subordinazione dell’idios, che col suo lavoro servile libera il signore dalla fatica della vita naturale, cioè dalla necessità. La libertà (spirituale), dunque, si afferma negando la necessità (naturale). Ma se questa dialettica è la condizione perché l’ente sia nell’Essere (assoluto) anziché nel Niente, il koinon tra l’Essere e il Niente è il vero assoluto, che è sia nel caso l’ente sia nell’Essere che nel Niente. Infatti, poiché l’ente altro (eteron) viene negato dall’ente autentico, entrambi sono giudicati dalla stessa coscienza assoluta, che decide del loro essere. La decisione del Soggetto assoluto è anch’essa assoluta, così 174 175
Ivi, pag. 134. M. Vegetti, Op. cit., pag. 85.
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come l’oggetto che ne dipende, il quale, nel concetto, è anch’esso assoluto. Ma l’assolutezza dell’ente (e dell’opposto niente) è nel concetto, ossia nella sua attualità, e non apriori, ossia non originariamente, poiché originariamente l’ente è solo se stesso, in-pregiudicato. Ma se l’essere dell’ente (seiendes) è l’essenza (Sein), l’essere dell’ens qua ens (), cioè la forma universale della cosa in sé, è la mera esistenza (Vorhandenheit), che è il modo d’essere fattuale di ciò che non è razionale, ma naturale e soggetto a essere superato (Absolvenz). Naturalistica è pertanto quella condizione esistenziale il cui modo d’essere fattuale coincide con la sua forma universale, la cosalità (Sachheit), la quale è la stessa esistenza (existentia), che è a sua volta il “come” (wie) della presenza ontologica. In questa dimensione di realtà, che è quella della finitezza geometrica (res extensa), la coincidenza identitaria della presenza esistenziale con la sua forma ideale è nella fatticità (Faktizitaet), ossia nella dimensione della mera esistenza fattuale. La fatticità è il mondo-della-vita, ossia la Natura, che è il regno della Necessità e nel contempo la materia dell’oggettività concettuale. A questo punto, si comprende facilmente come il processo fenomenologico si dispieghi come il movimento simmetrico alla fatticità, teso a far rientrare l’esistenza fattuale, accidentale e neutra, della sach nell’orizzonte di senso ideale dominato dall’Essere, dalla oggettivazione dell’ente pensato come razionale, ossia nella modalità dell’affermazione onto-logica del Cogito, propria del fondamento già dato dell’Idea. Tale affermazione onto-logica dell’ente è lo stesso movimento con cui viene regressivamente “disvelato” anche il fondamento (Grundlegung) da parte della “scienza”, che è appunto “una modalità del conoscere volta all’esser-disvelato in quanto tale”, indicato come “verità”.176 Posto che il “movimento dell’assoluto” sia la sua finitezza, l’assoluto diviene per essenza ciò che esso non è, sicché il non-essere dell’assoluto gli appartiene per essenza, ciò vuol dire che “nel suo altro, nel finito, esso è ancora presso di sé, benché nella modalità onticamente difettiva del non-ancora, cioè del non ancora sciolto (ab-solutus) dalla relatività in cui accade”.177 Se, dunque, l’essenza dell’essere è l’infinità dell’assoluto, 176 177
M. Heidegger, GPh, pag. 307. M. Vegetti, Op. cit., pag. 87.
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dove “l’essere assoluto”, come afferma Hegel nella sua Logica, è “il non essere del finito”, l’essere dell’assoluto è l’infinità della possibilità del Soggetto. Ma tale possibilità coincide con la stessa libertà di determinarsi positivamente nella finitezza, come finitezza assoluta. Ora, tale assoluta soggettività non è altro che il movimento fenomenologico di razionalizzazione della Natura, la quale, costituendo la materia e il limite della libertà soggettiva, si costituisce anche come il limite della possibilità, per superare il quale il Soggetto deve de-finire la sua stessa assolutezza nei termini della temporalità presente dell’ “ora”, che è la stessa temporalità dell’intuizione sensibile, ma dilatata come assoluta intemporalità, cioè come tempo universale. Questa modalità universale opera comunque sul come dell’existentia, sicché l’auto-coscienza fenomenologica ritrova alla fine ciò che aveva posto all’inizio, l’Essere dell’Idea. Questa posizione originaria fondamentale è una Darstellung che predetermina la modalità di pensare l’essere dell’ente. Tale modalità absoluta dalla Necessità del mondo-della-vita è quel disvelamento scientifico indicato come “verità”, consistente nel porre la positività dell’essere universale come reale, a esclusione della fattuale alterità del niente relativo. Ma tale posizione fondamentale è il pre-giudizio ontologico che consente alla modalità universalizzante del concetto di essere creduta valida. La fondazione (Grundlegung) onto-logica, dunque, è una credenza archetipa, fondativa della mito-logia metafisica. Il racconto mitico del Logos, come ogni mitologema, ha due archetipi, che, come ha notato Loewith, sono due totalità contrapposte, che sono i due momenti della coscienza assoluta di cui sopra: “da una parte una filosofia divenuta totale in se stessa e dall’altra il mondo ‘reale’ di una totale non-filosofia [quale] conseguenza della scissione dell’intero mondo della teoria e della prassi in due totalità separate”.178 La sostituzione della coscienza soggettiva alla mediazione del LogosChristos, ha fatto del soggetto trascendentale il depositario originario della verità intesa come concetto logico. Il Soggetto che fonte decisiva tra il mondo naturale e lo spirito interiore, categoriale e non più rivelato. Il trasferimento nella coscienza del Soggetto universale della verità del 178
K. Loewith, Da Hegel a Nietzsche (1941), tr. it., Torino, 1949, pag. 148.
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mondo ha creato con Kant le premesse dello storicismo spiritualistico hegeliano, che ha conservato la riduzione della Mediazione trascendente a mediazione umana immanente. Il tentativo di Hegel di superare la scissione di essere e dover-essere consumata dalla Rivoluzione francese e dall’Illuminismo, al fine di evitare il nichilismo della civiltà tardo moderna europea, avviene mediante lo strumento della ragione naturalistica, e non del Logos divino, la misericordia, che per definizione non giunge a nessuna sintesi storica ma si compie alla fine della storia escatologica. La ragione come Spirito autocosciente è appunto la versione cristianizzata, e dunque secolarizzata, del percorso anamnestico platonico e del processo naturalistico del logos antico, il cui orizzonte metafisico era, come abbiamo visto, la Necessità, e non la Libertà. Come Hegel, volendo “inverare” la theo-logia la trasformò in onto-logia, parimenti Marx, volendo “realizzare” la filosofia la ridusse a ideologia.179 “Il presupposto di questo transito è però già insito nel fallimento della mediazione assoluta hegeliana”. 180 La genesi della modernità è nel compimento marxiano della metafisica rovesciata. La storia ridotta al suo processo avvenimenziale non offre più valori di riferimento con cui interpretarla. Hegel assolve a fornire una teodicea razionale al pensiero post-cristiano, “in grado di ricondurre il disordine del mondo visibile all’ordine invisibile di un telos spirituale”.181 La trasmutazione della fede cristiana in ragione, e la teologia della storia in filosofia della storia, è l’operazione compiuta dal pensiero cristiano di sostenere la fede con la ragione, conseguenze alla identificazione teologica della mediazione del Cristo come Logos aristotelico avanzata dalla scolastica. Infine, la risoluzione della fides nella ratio è il travisamento originario che ha segnato la parabola teologico-politica della cultura e della civiltà cristiane, tale che “il divenire della salvezza viene 179
“Le ideologie sono –ismi che per la soddisfazione dei loro aderenti possono spiegare ogni cosa e ogni avvenimento facendoli derivare da una singola premessa. […] Le ideologie sono note per il loro carattere scientifico: esse combinano l’approccio scientifico con risultati di rilevanza filosofica e pretendono di essere una filosofia scientifica”: H. Arendt, The Origins of Totalitarianism (1951), tr. it., Milano, 1999, pag. 641. 180 M. Vegetti, Op. cit., pag. 215. 181 Ivi, pag. 226.
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proiettato sul piano della storia del mondo e quest’ultima viene innalzata al piano del primo. Il cristianesimo hegeliano trasforma la volontà di Dio nello spirito del mondo e negli spiriti dei popoli”. 182 Questa era la condizione della riconciliazione universale dello Spirito col mondo-dellavita, del mondo apparente, con la realtà storica dopo la rivelazione scientifico-fenomenologica: l’essere come “vita” della coscienza. Il pensiero di Heidegger si dipana si dipana anch’esso come un’ontologia dell’essere-della-vita, che diventa l’apriori opposto al soggetto ideale hegeliano, ma simmetricamente analogo, in quanto “ontologia del soggetto, sovraordinata rispetto a quella della vita”, in cui comprensione dell’essere (noesi) ed essenza dell’essere (noema) tendono a coincidere.183 Ma ciò può avvenire in quanto l’Essere (Sein) e il Nulla (Nicht), nella coscienza assoluta, rappresentano i poli dialettici della Differance, il cui koinon tra l’Essere come ni-ente e l’ente (seiendes) come non-Essere è un Nihil absolutum, il quale è la condizione di existentia sia dell’Essere che dell’ente. Ciò implica, per un verso, che il Dasein si muova nella possibilità d’essere ontologica ovvero ontica, e per l’altro che l’apriori della coscienza assoluta trova il suo Grenze nel rimosso nichilismo fondamentale del Nihil originario. Ciò vuol dire che ogni determinazione della coscienza assoluta è una negazione dell’arché negativo originario, il cui “oblio” proietta sul mondo-della-vita un’ombra di peccaminosità che pre-dispone il Dasein alla Sorge, alla cura del mondo come “progettarsi per il nulla”. Se la stessa assolutezza della coscienza dipende dalla posizione originaria dell’Absolvenz, cioè del mondo da negare, il cui orizzonte è la finitezza, la finitezza assoluta del mondo è il luogo della rivelazione della verità, “la verità vivente a partire dalla fonte vivente della vita assoluta”, di cui parla Husserl a proposito della “verità assolutizzata nei suoi orizzonti, che non vengono trascurati, né coperti da veli, bensì esplicitati sistematicamente”.184 Ma il possedere da parte dell’Ego assoluto “la verità in un’intenzionalità vivente, il cui contenuto proprio permette di distinguere tra ‘ciò che è dato effettivamente in sé’ e ‘ciò che è anticipato’, o che ritenzionalmente è 182
K. Loewith, Significato e fine della storia, cit. da M. Vegetti, Op. cit., pag. 227. E. Przywara, Op. cit., pag. 95. 184 E. Husserl, Formale und transzendentale Logik (1929), tr. it., Bari, 1966, pag. 342. 183
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‘ancora in mente’ o è ‘appresentato come estraneo all’io’ e via dicendo”,185 non è forse “una strada che sfocia nell’usurpazione dell’intuizione che di sé e delle cose ha Dio” e quindi alla “divinizzazione della creatura”? 186 Non è forse la versione secolarizzata della Rivelazione della Verità di Dio nella storia? L’ipotesi della redenzione del Male attraverso la ragione (illuministica o fenomenologica, poco importa) viene investita dal problema dell’uomo nella civiltà moderna, il quale, volendo dominare il cosmo naturale ed artificiale da lui creato, si trova a fronteggiare il sine nomine monstrum della “tecnica”, ossia del processo metodico della scienza applicata universalmente e resosi autonomo, cm’è nell’intima vocazione di ogni sistema assolutizzato dalla sua matrice allotria originaria, in tal caso dal fondamento della coscienza egoica. La tecno-logia, perdendo il suo rapporto strumentale con la ragione teleologica, con ogni teleologia razionale, pre-tende, nella sua assolutezza, a superare definitivamente il Male quale essenza storica della Necessità naturale, al fine di pervenire empiricamente, ma non perciò meno sistematicamente, alla redenzione dell’uomo nella modalità del dominio sulla natura. Che è poi un altro modo, elittico, di allontanare il destino umano dalla Creazione, secondo un movimento tragico di tenore manicheo, in cui fatticità e idealità si stagliano irrelate, prive di ogni mediazione soteriologica, esponendo l’uomo allo scacco di fede malriposta nelle credenze idolatriche universali del nostro tempo, quali le ideo-logie del progresso, dell’utile e della potenza, che sono state “causa, o per lo meno occasione, di una nuova forma di antiche perplessità”. 187 I tratti essenziali del mondo della superorganizzazione moderna, ripresa secolarizzata dell’antico cattolicesimo tradotto in moderno “ordine sociale”, diventa nell’Europa della (infinita) rivoluzione industriale la nuova trinità senza Mistero saintsimoniana della Religione come morale, della Scienza sostitutiva della teologia e dell’Industria quale nuovo culto, che ripropone in chiave sociologica e/o politica la mai sopita tensione
185
Ivi, pagg. 342-343. Cfr. E. Przywara, Op. cit., pagg. 97. 187 R. Niebuhr, Faith and History (1949), tr. it., Bologna, 1966, pag. 7. Da ora FaH. 186
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escatologica gioachimita.188 I prodromi di questa tensione secolarizzata erano già presenti, non a caso ancora in Francia, nella concezione illuministica della religione, la quale “si divincola dal dominio del pensiero metafisico e teologico e si crea una nuova misura, una nuova norma di giudizio”. Tale norma è in realtà un mitologema, i cui due elementi archetipici sono lo “spirito razionale” e lo “spirito storico”, tenuti in continua tensione dialettica, interna a un unico orizzonte veritativo che trovava in essi un coerente rispecchiamento. 189 Ma era stato il Rinascimento neo-classico a riproporre l’anaciclosi pagana dei processi storici in termini di “ricorsi” progressivi, che vedevano l’uomo interpretare un ruolo di autore di continui processi di libertà. “Il diciannovesimo secolo aggiunse a questa nuova certezza non soltanto la sicurezza che la natura fosse soggetta ad uno sviluppo, ma anche gli evidenti risultati della scienza applicata”.190 L’esito dei progressi tecnici fu il dominio sulla natura in un tempo non più ritmato dalle cadenze intergenerazionali, ma concentrato nell’ambito di una temporalità accelerata, e dunque anch’essa controllabile tecnologicamente. Ciò aumentò la fiducia dell’uomo nella storia, nel cui orizzonte mondano era possibile interpretare quegli aspetti della vita che erano stati tradizionalmente circondati di mistero. “La storia non era più un enigma: divenne certezza della redenzione dell’uomo da ogni suo male”. 191 L’antica “cura di sé” trovò una applicazione funzionale al dominio sulla natura. Natura per altri versi era anche la condizione politica della socialità umana, ma il senso moderno di razionalizzazione della vita aveva acquisito un’accezione universalistica che mancava alla “libertà degli antichi”. Lo scenario antico era la polis, lo scenario moderno diventava la storia, che era lo spazio della razionalità in cui si muoveva lo spirito assoluto, svincolato ormai da ogni legamento con la Necessità. E una volta libero e consapevole del suo potere, l’uomo non avrebbe potuto più stabilire rapporti umani inutilmente conflittuali. Lo spirito 188
Ved. H. De Lubac, La posterité spirituelle de Joachim de Flore (1981), tr. it., Milano, 1983, vol. II, pagg. 38 sgg. 189 Ved. E. Cassirer, Die Philosophie der Aufklaerung, (1932), tr. it., Firenze, 1936, pagg. 257-258. 190 R. Niebuhr, FaH, pag. 8. 191 Ivi, pag. 9.
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dell’utilitarismo razionalistico, infatti, non è il superamento dei contrasti mercé l’amore cristiano, ma è l’economia del conflitto, la saggezza del conflitto utile, che vale la pena sostenere a fronte dei conflitti inutili. Anche la cernita dell’utilità delle energie, eticizzata a criterio di prassi sociale, costituiva una forma di prevalenza del potere razionalizzante dello spirito umano sulle forze regressive degli istinti irrazionali naturali, ossia pre-civili e pre-istorici che resistevano dialetticamente ai processi fenomenologici progressivi. La civilizzazione nel segno della ragione stabiliva una tendenza inevitabile verso l’uguaglianza formale, sotto una unità categoriale comune, che, tradotta in termini istituzionali, oscillava tra lo Stato e il Mercato. Ma il segno comune di ogni unitarismo, logico come sociologico o politico, era il dualismo polemico, l’intrascendibilità della dicotomia ontologica tra gli opposti, che, assunta entro l’orizzonte della storia, riproduceva esistenzialmente la polarità dialettica propria del modello razionalistico di realtà. Istituzionalizzata la lotta come movente fisiologico dell’azione, le dinamiche storiche sono state tutte improntate alla necessità di costituirla, al fine di imprimere ai processi lenti della stabilità sociale tradizionale un moto di accelerazione, interpretata come in sé progressista. Di conseguenza, la metabolè diventava, da indice della sacra potenza delle forze divine e naturali, a cinetica dell’onto-storia. La trasfigurazione della dissoluzione della civiltà cristiana, della Verfallgeschichte occidentale, a “Erzitterung des Sein” fa il paio con la rimozione dell’Eterno come confine del tempo e cioè della vita, assunta nella sua assoluta positività. La rimozione dell’Origine, nella declinazione vitalistica della modalità storicistica della temporalità, equivaleva alla rimozione della morte. La morte come eternità.192 La rimozione del messaggio kerygmatico trasforma a sua volta l’ens creatum in uno scenario problematico in cui, a partire da Hegel, “il divenire della salvezza viene proiettato sul piano della storia del mondo”.193 Il nucleo problematico di una storicità pensata 192
“La morte, in quanto scopo sempre già posto in anticipo, assume la parte dell’eternità in un’esistenza decisa a tutto come a nulla”: K. Loewith, Da Hegel a Nietzsche, cit., pag. 314. 193 K. Loewith, Meaning in History (1949), tr. it., Milano, 1989, pag. 80. Da ora MH.
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come un “diritto assoluto del presente”,194 rimanda inevitabilmente all’assolutezza del Cogito e pertanto alla premessa metafisica dell’identità del pensare con l’Essere che rappresenta, ormai sempre più consapevolmente da Nietzsche, l’origine mitica della “ambiguità” (Loewith) teoretica di voler costituire come universalità auto-normativa un atto di fede ontologica. Non a caso la rimozione della Necessità nei termini della dipendenza teologica si trasforma in affermazione dogmatica della necessaria assolutezza del Soggetto, quale condizione imprescindibile per pensare l’oggetto della filosofia come esistente anziché non, senza però giustificare tale esistenza, essendo l’oggetto del pensiero auto-prodotto dalla stessa coscienza poietica pensante. Da qui la sostanziale ambiguità di un pensiero assoluto da ogni superiore inveramento originario che tende discrezionalmente all’essere ovvero al nulla.195 L’essere inteso come piano di realtà ontica privilegiato perché posto assolutamente, ritrovando nel niente la sua opposizione non meno reale, anche se di segno negativo, sente vacillare la propria hybris ottimistica all’atto della incapacità tecnica di impedire l’delle forze regressive giudicate irrazionali che, incuranti di ogni anatema catechontico, procedono inarrestabili alla “distruzione della ragione”. Per fronteggiare questo presente non restava che rappresentarlo come l’analogon di un tempo pre-istorico, ossia come un passato di ritorno che, lasciato inavvertitamente indietro dai processi di civilizzazione, emerge dal sottosuolo della caverna europea a reclamare uno sforzo suppletivo di razionalità.196 Ma questa Darstellung autoconsolatoria non è 194
Da una lettera di K. Loewith a Leo Strauss dell’8 gennaio 1933, riportata in J.A. Barash, Politiques de l’histoire. L’historicisme comme promesse et comme mythe (2004), tr. it., Milano, 2009, pag. 170. 195 “Nell’assoluta affermazione della razionalità dell’accadere è già infatti in cammino la tesi contraria, poiché laddove ciò che accade, accade in uno con il suo significato, il divenire stesso, che ha in sé ogni ragione, appare infine privo di ragione, cioè essenzialmente infondato”: M. Vegetti, Op. cit., pag. 253. 196 “La credenza che la brutalità umana sia un rimasuglio del passato animale o primitivo dell’uomo à rappresenta una delle più care illusioni della cultura moderna, alla quale gli uomini si aggrappano tenacemente anche quando essa è contraddetta da ogni esperienza contemporanea”: R. Niebuhr, FaH, pag. 18.
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che lo sviluppo narrativo del mito originario, che pone il paradigma naturalistico come risorsa obliata della saggezza umana, al quale occorre tornare dopo ogni fuga in avanti della immaginazione creatrice. Il tratto infatti smarrito del modello naturalistico è la compattezza del suo essere col suo apparire, che invece la filosofia moderna non ha saputo adeguatamente conseguire, dominata com’è da quel “dualismo tra pensiero ed essere, concetto e realtà, spirito e natura, soggetto e oggetto”,197 che la stessa poiesi del Cogito è costretta, come si è visto, a porre per giustificare il suo movimento. Ma è esattamente il racconto fenomenologico del continuo Aufhebung del prodotto assolutamente libero del Geist fino alla finale parousia a costituire il contenuto della del Mito moderno; il racconto di una ragione che, pur ponendosi di valore assoluto, insegue incessantemente la compiutezza dell’Intero, cioè dell’intera esperienza umana, che essa non può darsi, in quanto giudizio razionale, e non morale, della storia. ed è invece “la credenza moderna che la ‘oggettività scientifica’ può essere semplicemente estesa dal campo della natura a quello della storia [che] offusca l’unità dell’io che agisce nella storia ma è anche determinato dalla storia”. L’estensione delle tecniche scientifiche con cui l’homo faber ha domato le forze della natura, a scopo redentivo dei limiti umani, “non è semplicemente un’illusione accidentale, causata dai fenomenali risultati delle scienze naturali: è l’errore fondamentale del fraintendimento che l’uomo moderno ha di se stesso”. Da tale fraintendimento nasce appunto “la crisi culturale della nostra epoca al di là e al di sopra della crisi politica in cui la nostra civiltà è implicata”.198 Il “fraintendimento” non è uno smarrimento occasionale ma è la conseguenza di un processo teorico che ha posto “la conoscenza” quale condizione esclusiva dell’ “accesso alla verità” da parte del soggetto, che Foucault chiama “il momento cartesiano” della gnosi moderna, consistente nella credenza che il filosofo o lo scienziato sia il grado di accedere alla verità “in virtù ei suoi soli atti di conoscenza, senza che da 197
C. Schmitt, Politische Romantik (1924), tr. it., Milano, 1981, pag. 86. Sul rapporto tra “crisi religiosa e crisi filosofica”, ved. C. Marco, L’ordine pigro. Nascita e declino dell’Europa civile, Lungro di Cosenza, 2012, vol. II, pagg. 757-823. 198 R. Niebuhr, FaH, pagg. 20-21.
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lui si esiga più nient’altro, ovvero senza che il suo essere di soggetto debba essere modificato o alterato” in senso spirituale. 199 Ossia, la gnosi moderna comincia con la credenza in quella che Husserl chiama la “assolutezza della coscienza” del Soggetto, la quale implica l’emancipazione, tipicamente razionalistica, della conoscenza da ogni retaggio storico e tradizionale, e dunque comporta l’autonomia dell’attività teoretica da ogni vincolo di legame istituzionale e morale, considerate pre-giudiziali o “naturalistiche”. L’analisi fenomenologica non si discosta pertanto da questa tendenza di principio della coscienza intellettuale moderna, che fonda sul concetto razionale le stesse ragioni della conoscenza, senza alcun limite di potenza. Ciò significa che la finalità della “salvezza” spirituale, ossia della trasfigurazione (metànoia) della coscienza personale viene del tutto trascurata a favore della ricerca in sé ella conoscenza, identificata ormai con la stessa verità, sicché “la conoscenza si limiterà a dischiudersi sulla dimensione indefinita di un progresso del quale non si conosce il termine, e il cui beneficio sarà ripagato, nel corso della storia, solamente dall’accumulazione organizzata delle conoscenze”.200 Questa economia della conoscenza non è sostanzialmente diversa, ma si inscrive anzi nello stesso processo di “neutralizzazione” delle forme spirituali operata dal razionalismo moderno per eludere il limite opposto alla ragion pratica dalle metafisiche del trascendente, ossia dal pensiero della Differenza tra cielo e terra, che aveva teologicamente piegato la ragione astratta al ruolo servile alla salvezza spirituale.201 Ma, come giustamente sottolinea Foucault, fu la teologia di stampo aristotelico che con Tommaso si propose di costituirsi come “riflessione razionale destinata, a partire dal cristianesimo naturalmente, a fondare una fede con una vocazione a sua volta universale”, che poneva il 199
M. Foucault, HS, pag. 19. Ivi, pag. 21. 201 Ved. C. Schmitt, Das Zeitalter der Neutralisierungen und Entpolitisierungen (1929), tr. it. in Id., Le categorie del ‘politico’, Bologna, 1972, in cui “Schmitt presenta le principali ideologie razionalistiche e individualistiche moderne come prodotti inconsapevoli delle logiche autenticamente politiche dell’assolutismo”: C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, 1996, pag. 366. 200
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soggetto in una posizione assoluta, che “trovava in Dio il suo modello”. 202 Fu con la “distruzione dell’antica metafisica realistica, d’orientamento ontologico […] fondata sulla visione relativamente naturale del mondo dell’epoca”, che emerge una nuova visione del mondo, incentrata sul “modo di pensare nominalistico”, cioè sulla “coscienza universale che l’essenza dell’uomo sia radicata nella sua volontà sovrana – e non nell’intelletto meramente contemplativo”; anteposizione della “certezza della conoscenza” alla “verità”; la “libertà della scoperta, ovvero della decisine nelle cose della fede”, quale “pensare autonomo” in contrasto con “l’accettazione della dottrina tradizionale”; il nuovo “dualismo tra spirito e carne”, comune sia allo scientismo che al movimento religioso riformato.203 La nuova visione borghese e scientifica del mondo “sarà fondata in un nuovo orientamento della volontà di dominio”, che costituisce “l’istinto illimitato, cioè non limitato da alcuna necessità speciale, […] di dominio sulla natura, non occasionale ma sistematico e in tutte le forme”, il quale è altresì istinto di illimitato immagazzinamento e capitalizzazione d’un sapere sulla natura e sull’anima tale che natura ed anima, sebbene non potessero esser dominate realmente secondo questo sapere, […] potessero tuttavia esser pensate come dominabili, e dunque guidabili, con una qualche forma di movimento e di intervento, ovvero che ‘l’anima’ potesse essere diretta e guidata attraverso la politica, l’educazione, l’istruzione, l’organizzazione . 204
202
“La corrispondenza tra un Dio onnisciente e dei soggetti tutti capaci di conoscere, beninteso grazie alla fede, è indubbiamente uno degli elementi principali che [hanno] fatto sì che il pensiero occidentale, e in particolare quello filosofico – o le principali forme di riflessione – si siano come svincolate, affrancate, separate dalle condizioni di spiritualità che le avevano fino a quel momento accompagnate, e di cui il principio dell’epimeleia heautou costituiva la formulazione più generale. […] Nel corso di questi dodici secoli [a partire dalla fine del V secolo (con sant’Agostino, ovviamente) fino al XVII secolo] non è avvenuto un conflitto tra la spiritualità e la scienza, bensì tra la spiritualità e la teologia”: M. Foucault, HS, pag. 23. 203 M. Scheler, Wissenssoziologie (1924) tr. it., Roma, 19762, pagg. 165-166. 204 Ivi, pag. 181.
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Il pensiero, inteso non più come contemplazione dell’ordine divino, ma come struttura formale del cosmo razionale, si proietta nella realtà “naturale” come modello ideale al quale rapportare il “legno storto dell’umanità”, ossia la congerie di manifestazioni più o meno spontanee e tradizionali che costituivano il retaggio di un’epoca dominata dalla centralità teologica del divino e non dalle leggi del moderno pensiero scientifico, emancipato da ogni limite trascendente. La ricaduta politica di tale costrutto idealistico è intuibile. Infatti, nella nuova Weltanschauung moderna, il fondamento (Grundlegung) del pensiero non è più una rappresentazione (Darstellung) del mondo, secondo i significati derivati dalla “esperienza emozionale del valore” attribuito alla fede nella Rivelazione cristiana espressa nelle parole scritturali, ma è un’Idea, alla cui uni-versalità di ragione deve corrispondere una opposta realtà naturale da con-vertire idealmente che, rispetto al modello razionale, è anch’essa una realtà nella sua intierezza negativa. Poiché la visione “naturale” del mondo “non è assolutamente una e costante”, 205 ma è una pluralità di immagini relative ai diversi orizzonti di coscienza socioculturali storicamente presenti in un’epoca e in un luogo, dei gruppi e perfino delle singole rappresentazioni, la universale considerazione negativa dei pre-giudizi culturali che costituiscono l’oggetto della relazione dialettica col soggetto ideale, ossia il contenuto della riduzione fenomenologica, assume tale realtà “naturale” per ciò che essa realmente non è, ossia appunto una realtà univoca e unitaria, sicché la sua razionalizzazione viene logicamente preceduta da una uniformizzazione dei contenuti socio-culturali particolari, la quale viene intesa come opera di civilizzazione delle società tradizionali. E poiché “la percezione del valore precede sempre la percezione della realtà”,206 la razionalizzazione scientifica del mondo nuovo doveva procedere, attraverso l’opera di civilizzazione, alla rimozione politico-culturale di quei valori tradizionali che fossero in contrasto intellettuale con i valori nuovi, ossia con l’Idea fondativa che li legittimava. E’ questo il senso essenziale del processo ideo-logico della modernizzazione condotta dalla gnosi moderna solidalmente al potere dello Stato assoluto di diritto. Questo “idolo della 205 206
M. Scheler, Op. cit., pag. 123. Ivi, pag. 178.
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teoria della conoscenza durato fino ad oggi” 207 ha l’effetto di spostare il limite (Grenze) della potenza concettuale della coscienza dalla realtà insuperabile dell’Infinito religioso alla dimensione della superabile finitezza storico-sociologica, entro la quale “le limitazioni dell’io in quanto creatura che corrompono le sue azioni in quanto creatore” sono credute “dovute a pura ignoranza” delle tecniche scientifiche, 208] sicché l’intero corpo sociale, considerato come una informe realtà unitaria “naturale” oggetto di razionalizzazione, viene trattato alla stregua di una coscienza unitaria da trasformare, trasferendo sul piano della collettività l’epimeleia un tempo heutou, cioè riservata al sé personale. La rimozione del fondamento tradizionale con quello razionale, non può non incidere sulla ousia della temporalità, nei termini della distruzione del tempo escatologico, della pensabilità del tempo che si pone fuori del tempo della “presenza” concettuale, ossia dell’hic et nunc della diegesi dell’onto-logia concettuale, cioè della moderna storiografia, la tipica narrazione mito-logica dell’età della scienza, in cui l’ente di giudizio si fa res extensa, lo spazio indifferenziato della contraddizione in cui, secondo Hegel, cade il tempo quale “negatività totale” e che solo il concetto rende “concreta”.209 Il contesto problematico hegeliano è quello stesso della natura aristotelica, in cui l’essere dello spazio è pensato come negazione del negativo, che si dispiega come tempo, lo Jetzt-Zeit dell’ora-qui, in grado di costituirsi come determinazione della coscienza assoluta (das absolute Diese der Zeit). 210 Ma “formale” sta per concettuale, e dunque apriori. La “unità” è data dall’assimilazione dell’”ora” al “punto”, cioè del tempo allo spazio. E l’assimilazione consiste nella numerazione progressiva del continuum temporale in tempo meccanico, quantitativo, scientifico207
Ivi, pag. 123. R. Niebuhr, FaH, pag. 20. 209 Ved. G.W.F. Hegel, Encyclopaedie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1817), § 260, tr. it. di B. Croce, Bari, 1963, pag. 221. Da ora EWG. 210 “La priorità hegeliana del tempo sullo spazio non è di ordine fondativo, ma è invece il risultato di un’assimilazione dialettica delle due sfere resa possibile dalla formale identità dell’unità astratta di ‘punto’ e ‘ora’, cioè dalla struttura temporale dello spazio in quanto simutaneità (ordo eorum quae sunt simul)”: M. Vegetti, Op. cit., pag. 71. 208
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razionale, ossia appunto “geometrico”. Questo tempo scansionato e spazializzato trasforma la sua durata in processo diveniente, n cui al’ “ora” si oppone il negativo che lo nega, perché dal suo superamento nasca il futuro di un altro “ora”. Portare ad espressione tal “ora” significa tradurre in linguaggio razionale l’essenza metafisica del tempo, la sua trascendente durata, la quale, per essere affermata dal concetto, deve poter essere reale, cioè qualcosa anziché niente. Il dire razionale, del concetto logico, ha come oggetto la sola “presenza” di ciò che è, l’ente, come qualcosa di positivo; il negativo resta perciò fuori dal dire. Ma questo negativo non è che il passato dell’ “ora”, che nell’atto della nominazione la parola afferma negandolo come “altro”. Lo afferma come qualcosa, ma che non è “ora”, bensì come “passato”. Vuol dire che ogni affermazione di ciò-che-è implica la negazione di ciò-che-è-stato e non-è più “ora” (omnia determinatio est negatio). Per sollevare dall’essere la sua negazione, lo si rende assoluto, ossia universale. L’essenza universale dell’ “ora” – e del “qui” – è l’aspetto categoriale (eidos) dell’ente, la sua rappresentazione universale, per cui “universale” diventa la misura esclusiva di ciò che non-è attuale, ossia presente: la “misura giuridica dell’essente e del non essente”. 211 E poiché l’essente è la certezza sensibile, ecco che l’universalità che ne dipende risulta esserne ladimensione ideale, la categoria dell’ente naturalistico oggetto di pensiero. Ne consegue che il “principio di realtà” che tributa di verità l’intuizione sensibile è anch’esso naturalistico-sensibile, nel senso che l’universalità ideale del “questo” intuito è prodotta dalla certezza che lo stesso ente sia “reale” rispetto alla irrealtà di ciò che sopravanza l’ “ora” nell’intemporalità del passato o del futuro, assegnata alla metatemporalità negativa di ciò che è, il ti esti positivo del contenuto logicamente reale. Il negativo “naturale”, omologato dialetticamente all’oggetto del giudizio, non è originariamente identico all’essere, ma è identificato, ossia è considerato come essente, e creduto come identico e perciò compreso nell’oggettivazione universale derivata dalla Sinngebung del fondamento ontologico. Poiché questo è dato originariamentecome Essere dell’ente, la determinatio del giudizio di realtà si costituisce come la negatio del negativo. Ma questo negativo non è lo scarto logico, il 211
M. Vegetti, Op. cit., pag. 72.
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residuo naturalistico del presente, ma è la pienezza del tempo non parcellizzato nella scansione dell’ “ora”, ossia è il tempo in-finito escatologico: l’eterno. Solo in questa dimensione si può ritrovare la certezza originaria del vivere il mondo conformemente alla visione essenziale arcaica, che de-realizza il mondo “naturale” in vista del suo significato meta-empirico, ideale nel senso di trascendente.212 In tal senso, razionalizzare significa ridurre il tempo escatologico, ossia l’eterno, alla dimensione del solo presente, all’ “ora” dell’intuizione sensibile, trascrivendo il tempo in spazio-orario. La dialettica del concetto è dunque una riduzione fenomenologica dell’ente naturale alla fisicità idealizzata, 213 sicché il Logos cosmico è la legge universale ordinatrice di ciò che è eterno in ciò che è naturale; il metodo di tale sistematica reductio ad quantitatem è la scienza, che opera la magica metabolè del negativo in positiva realtà razionale. La negatività (Nichtigkeit) “naturale” del mondo-della-vita non è resa possibile dal tempo, nel senso che è il tempo a costituirla, ma essa è la possibilità del tempo come divenire, ossia come processo fenomenico. La negatività è ciò che il tempo esclude dalla sua determinazione presente, dalla sua attualità, dalla sua realtà idealizzata e resa universale, assoluta. Tale realtà meontica, passivamente soggetta all’arbitraria oggettivazione della coscienza razionale è il sottosuolo della storia ideale, la Lebenswelt delle apparenze. “Temporalizzare” è equivalente ad assumere l’Essere 212
Va precisato che il piano scientifico per Scheler non va confuso con quello tecnologico, dominato questo dallo stretto scopo utilitaristico, pur legati dallo stesso procedimento cognitivo di tipo induttivo, dovuto alla relatività del soggetto empirico. Solamente il sapere di essenza, che “ideifica” la realtà concreta, costituisce per Scheler l’assoluto e il definitivo superamento di questa condizione di coscienza finita. Ved. F. Bosio, L’idea dell’uomo e la filosofia nel pensiero di Max Scheler, Roma, 1976, pagg. 44 sgg. 213 L’idea di potenza e di libertà dell’uomo moderno anima le stesse scoperte e invenzioni, proiettandosi da un atteggiamento contemplativo della potenza di Dio, proprio del Medioevo, a una direzione secolarizzata nel contesto spazio-temporale che, dopo quindici secoli di dominio teologico, diventa dominante nell’era del modello meccanicistico della natura, dell’anima e della società, precorso dallo schema meccanico-formale delle idee quale “potenza cinetica pensabile – non reale – [con cui è possibile] ‘guidare’ nella direzione desiderata ogni evento della natura”, che lo si voglia o no. Ved. M. Scheler, Op. cit., pagg. 196-198.
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come realtà in divenire, come processo misurabile entro lo spazio geometrico-matematico: ciò che si dice Storia, in senso della ragione naturalistica. La metafisica, poiché “del tempo si può dire in senso positivo: solo il presente è, il prima e il dopo non sono”, non “distrugge” propriamente il tempo, ma assume il presente universalizzato nell’Idea come se fosse “eternità”,214 contrapposta al temporale. In realtà, per la stessa presenza assoluta dell’essere-che-è, cioè dell’ente, l’idealizzazione metafisica assume l’ente ideale come l’assoluto, credendolo eterno, secondo la conclusione cui perviene Hegel nella Fenomenologia.215 Ma si tratta soltanto di una credenza ontologica, appunto, una fede metafisica. Il potere divino è quello della ragione, consistente nella infinita conoscenza che, umanizzata, diventa potenza concettuale. “Questa capacità, una volta purgata rigorosamente dalle macchie e dalle corruzioni che le passioni e i sensi dell’esistenza fisica dell’uomo comportano, eleva l’uomo in un regno atemporale”,216 emancipato del tutto dalla caducità e ripetitività dei cicli naturali. Nella concezione cristiana elaborata da Agostino, la distanza siderale della visione classica della coscienza ideale, viene intesa come dialettica della coscienza dell’eterno nel tempo, che attraverso la memoria del passato libera l’avvenimenzialità dell’agire umano dalla necessità delle determinazioni naturali presenti, facendo della memoria “il fulcro della libertà nella storia”.217 Perché? Essa ripercorrendo il senso degli avvenimenti umani nel tempo, ossia reinterpretandoli alla luce della presente consapevolezza, li pre-dispone, sia pure a posteriori, in una sequenza significativa libera da ogni costrizione necessaria, inserendoli in un orizzonte di senso più ampio e creativo di una unità puramente logica, inclusivo di quella Nichtigkeit che il movimento esclusivo della ragione aveva destinato all’irrilevanza, e la cui funzione non era quella di far emergere un presente giustificato dall’irrazionalità del suo opposto negativo, ma di darsi ragione di quegli eventi a priori imponderabili e che pure si manifestavano come una innegabile realtà che richiedeva rinnovate 214
M. Vegetti, Op. cit., pag. 74. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, § 259, tr. cit., pagg. 218-221. 216 R. Niebuhr, FaH, pag. 25. 217 Ivi, pag. 29. 215
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interpretazioni inclusive della loro rilevanza. Da qui la fondatezza della teoria gnoseologica di Scheler, per il quale, come abbiamo accennato , ogni cognizione intellettiva della realtà presuppone una esperienza emozionale del valore dell’oggetto della sua rappresentazione. Ciò vuol dire che il riordino della memoria, attraverso l’affabulazione, fa del costrutto diegetico il “fulcro della libertà” anche dalla storia, interpretando il suo significato razionale sul fondamento preventivo di un valore assiologico la cui rilevanza e pertinenza la considerazione scientifica degli avvenimenti aveva metodologicamente escluso, come se gli attori umani, agendo sullo scenario della storia, non lo ponessero al principio della loro rappresentazione del mondo quale fondamentale “datore di senso” (Sinngebung). Ecco che la memoria ermeneutica della coscienza storica riabilita, non soltanto quel sottofondo pregiudiziale che costituiva l’opinione della doxa “naturalistica”, ma la funzione mitopoietica della parola entro la stessa rappresentazione memorialistica della storiografia razionalistica, costituendola come la espressione moderna della antica mito-logia. Proprio sulla qualità del valore significativo, Agostino misurò la portata storica della civiltà romana, fondata sulla memoria eternizzata dello Stato, che è invece un prodotto umano, e come tale destinato a perire. Da ciò egli trae il carattere mitico della rappresentazione romana della “eternità secolare” dell’urbs, la cui mistificazione era svelata dalla consapevolezza della coscienza cristiana che l’affermata grandezza del saeculum nascondesse in realtà la incombente dissoluzione dell’Impero. 218 Solo la coscienza cristiana dell’eterno, il suo carattere divino, poteva proporre un paradigma universalistico della storia, non circoscritto all’esperienza, sia pure significativa e grandiosa, di un singolo popolo e una singola civiltà, ma inclusivo di un processo totale di natura trascendente, entro il quale le forze delle contrastanti tensioni umane non si risolvono in una dialettica dell’immanenza, poiché la loro significazione finale va considerata all’interno del significato originario della libertà umana, di essenza morale, e non politica, economica o naturale. Infatti, il significato finale è dato dal fondamento di ragione dell’Essere, che è all’origine. Il creazionismo, facendo derivare l’Essere 218
Ved. G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino, cit., pag. 275.
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dal Nulla, non pone la positività ontica all’origine, come invece l’ontologia naturalistica greca, per cui al principio di ogni divenire c’è il rischio del male, la privatio boni essenti, che condiziona originariamente l’intera storia dell’uomo, che vi può ricadere. Per questa ragione fondamentale, era impossibile per il cristiano credere nella stabilità eterna delle istituzioni umane, dominate dal mysterium mortis che, “in quanto imponderabile, è il grande ‘no’ detto alla coscienza, e, in quanto indisponibile, è il grande ‘no’ detto alla libertà”, andando a costituire “l’oscurità del futuro assoluto, del futuro, cioè, non edificato dalle nostre mani, non programmato, sfuggente e ignoto e sempre in agguato”. 219 La risposta politica alla precarietà dell’esistenza trovava il suo limite ontologico nella minaccia di “svuotamento di significato che entra nella storia attraverso la corruzione della libertà dell’uomo”,220 come avevano riferito le Questioni Naturali di Seneca e gli Annali di Tacito sul triste periodo neroniano. La dialettica autenticamente universale è “tra bene e male, che formano il contenuto morale della storia” 221 e che, se per un verso consegnano l’uomo alle sue personali e inderogabili responsabilità, per l’altro ripongono nella suprema forza divina la risorsa che rimane indisponibile a ogni volontà umana, anche imperiale. Questa duplice dislocazione della salvezza, personale e storica, dispone parimenti a una relativa allocazione delle virtù umane, rispettivamente, in interiore homine e nell’opera della Provvidenza, distraendole dalla sede istituzionale della tradizione politica pagana, la polis e lo Stato. Il senso profondo della Civitas Dei agostiniana risiede nella sua re-interpretazione della storia alla luce del fondamento morale cristiano, che stabilisce il nuovo paradigma rappresentativo delle vicende umane sub specie spiritualis. Essa conferma in maniera grandiosa che al fondamento (Grundlegung) dell’Essere non vi è una Idea platonica, un concetto, ma una rappresentazione (Darstellung), la quale è espressa nelle parole della memoria (Mythos) e nel significato (Logos) che le commenta. Se l’Idea, in quanto concetto di pretesa universale, 219
B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Cinisello Balsamo, 1985, pag. 261. da ora GdN. 220 R. Niebuhr, FaH, pag. 33. 221 Ibidem.
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tende a negare il valore originario della parola, facendo del Mito, ossia della possibilità della molteplice espressività, il negativo della coscienza razionale, cioè del Cogito, stabilisce la necessità all’interno del Logos. Tale compressione della Parola nel suo significato determinato, si converte dialetticamente nel suo opposto, ossia nel caos delle interpretazioni, rompendo l’equilibrio armonico del Tutto, che trascende la insopprimibile polarità dei due archetipi di ogni mito-logia, di ogni memoria dotata di senso (morale). La novità del senso cristiano della storia è la contemperanza dei due momenti, che, attraverso la salvaguardia del valore della memoria, inevitabilmente singolare, salva la persona dalla fagocitazione della rappresentazione razionalistica, astratta da ogni concreta esperienza individuale, che diventa invece centrale attraverso la vicenda del Cristo, il quale “non è un’idea, una forza indeterminata, ma è proprio il concreto Messia crocifisso, che insieme compie e sovverte le attese giudaiche e con il quale si scontra la sapienza dei pagani”.222 Il paradigma ontologico classico, smentito dal Cristianesimo, è che l’Eterno sia l’Essere, e che l’Essere sia il pensiero razionale, il Logos, il presente “ora” dell’intuizione sensibile universalizzato come Idea metafisica. La Differance di tale realtà di pensiero non è il futuro, poiché questo è durata del presente, né il passato, che è la necessità del presente, ma è l’eterno della pienezza del tempo escatologico. In questo senso Hegel ha potuto affermare che “l’essenza del presente è il futuro”, poiché il futuro stesso è l’essenza del presente: sono omologhi e perciò dialettizzabili nel divenire. Ma questa omologazione deriva tecnicamente dalla credenza ontologica che il solo Essere è reale, ossia che l’unica realtà sia quella dell’Essere presente alla coscienza razionale, ossia l’ente. LO Spirito (Geist) di cui parla Hegel nelle Lezioni di storia della filosofia, che si dispiega nel tempo “allo stesso modo i cui l’idea si dispiega come natura nello spazio”, è l’idea metafisica che l’Essere (sensibile, e dunque la natura concettualizzata) sia i Tutto che si temporalizza nello spazio storicizzato. Da qui l’identità strutturale di Geist e Zeit notata da Heidegger in Essere e tempo,223 che consente la sua 222 223
B. Forte, GdN, pag. 127. M. Vegetti, Op. cit., pag. 75.
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dialetticità, ossia la posizione che si nega e diviene, creando instabilità esistenziale ed istituzionale. Infatti, essendo ogni posizione logica determinata ontologicamente come “reale”, esistente allo stesso titolo razionale del suo opposto logico, al quale però la posizione tetica nega il diritto all’esistenza ontica nell’atto in cui lo riconosce essenziale al suo svolgimento storico, il privilegio dell’essere sul non-essere si regge sulla forza del primo e sulla debolezza relativa dell’altro, talché la mutazione delle loro reciproche possibilità determinano la conversione del reale presente nel suo opposto inattuale, per cui la libertà reale è quella affermata dal Potere, che si afferma sulla servitù degli impotenti, così come la verità filosofica diventa ideologia politica per i suoi potenti assertori, convertendosi in dover-essere che nega l’essere teoretico originario. Da qui la caducità dei regimi politici storici e la decadenza del loro principio valoriale in opposta barbarie. Lo Spirito cade nella storia razionalizzata come Idea in movimento, cioè come odeporia del Logos della coscienza in cerca di sé, di un’essenza sovratemporale che si rapporta al Sé come un atto presente dilatato nella durata, creduta eterna e perciò asserita come universale. Ma la continua sospensione del presente nel tempo negativo che l’incalza, smaga l’illusione della sua eternità. Il vero eterno non è qualcosa di positivo o di negativo, ma è i Tutto inclusivo degli opposti momenti temporali, e perciò eterna Possibilità d’essere di ciò che (ancora) non-è presente: il contrario dell’universalità del concetto, dell’assoluto presente che esclude nella durata ideale il suo opposto temporale reale, negativo. La Possibilità non è la hegeliana “differenziazione delle differenze”, cioè movimento riflessivo mediato, 224 ma è libertà dalla determinazione, è il Tutto che non “deve” apparire nel tempo per essere qualcosa, un ente, ma che sussiste come Tutto originario. Nn è pertanto la potenza che è condizione (negativa) della sua esistenza (oggettiva), bensì la libertà di essere e insieme di non essere: Amore comprensivo di senso, e non giudizio esclusivo di realtà. Se l’autocoscienza hegeliana deve tradursi nel tempo “in virtù della destinazione inscritta nella legge dell’apparire fenomenico”, che impone, cioè, la “presenza” sensibile come condizione di realtà logicamente pensata, e dunque come “certezza di sé” che 224
Ved. M. Vegetti, Op. cit., pag. 76.
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necessariamente “appare nel tempo”, la Possibilità del Tutto è libertà che non ha alcun dovere di manifestarsi come qualcosa, ma che si offre graziosamente come presenza di sé in ciò che è, quando vuole. Ed è appunto tale eventualità a rendere la presenza dell’Eterno un dono, non regolabile né prevedibile, e dunque estraneo alla necessità e al potere umano. Se “l’essenza dello spirito porta con sé il suo apparire nel tempo”, la natura intemporale del Tutto sussiste oltre i tempo, come pienezza non diveniente ma eskatica. Il portare con sé è il divenire necessario, la potenza del negativo che incombe su ogni determinazione ontica. Lo spirito razionale è dominato dalla potenza del suo divenire necessario, dal Macht del concetto. Il Geist hegeliano è dunque dominato dalla Necessità, che spinge al superamento (Ueberwindung) dell’ “ora” nel negativo progressivo del movimento tipico dell’inquietudine storico-temporale. L’apparire dell’ente naturale coincide metafisicamente con la posizione della realtà del giudizio, il cui concetto puro è la posizione assoluta dell’ente invece del niente, la cui negazione genera a sua volta il processo temporale, il movimento storico. “La storicità dello spirito si mostra irretita nella negatività del divenire solo intuito, fintanto che lo spirito non sopprime quel rapporto al nonessere del tempo che lo qualifica come presenza non ancora giunta all’esser-per-sé, e perciò essenzialmente estraneata”.225 Il Fallen dello Spirito nel tempo dell’ente produce rappresentazioni ideali dell’eternità che velano miticamente la verità del Logos. La verità disvelata del Logos è che esso non sia il Principio, e che il Principio sia il Verbo, cioè il Mistero, il quale “è il presupposto della storia della cultura di una religione fondata sul senso della centralità della rivelazione”.226 Con la Rivelazione, il Male è posto nell’uomo, nella sua finitezza, e dunque superabile non attraverso una dialettica storicoeffettuale ma nella relazione con l’Eterno, e dunque entro l’orizzonte di coscienza della Differenza dal Bene. La soggettività teoretica della sapienza pagana non viene decostruita (cioè reinterpretata) dalla gnosi cristiana per demolirne l’orgoglio lasciando che il Kaos si impadronisca del Kosmos, ma per con-finarla nel suo ruolo funzionale, ricettivo della 225 226
M. Vegetti, Op. cit., pag. 77. R. Niebuhr, FaH, pag. 36.
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Verità trascendente, comprensiva di ogni razionale negatività. Come scrive Agostino, “neppure lo stesso fuoco eterno, che tormenta gli empi, è una natura cattiva, in quanto ha una sua misura, una sua forma e un suo ordine” relativo all’Eterno. infatti, “il fuoco non è eterno come è eterno Dio, perché anche se esso è senza fine, non è tuttavia senza inizio”.227 Questa essenziale annotazione morale confuta la pretesa dell’eternità secolare di Roma, che affonda nel mito le sue origini occultando con esse l’edacità (essa sì perenne!) dell’opera umana, per quanto grandiosa e duratura. La natura veridica della Parola scritturale, rispetto alle altre rappresentazioni mito-logiche, non riposa sulla mera fede ma sulla razionale consapevolezza che il dramma rivelato della Storia non è in funzione dei rapporti umani, e dunque il suo senso non è umano, ma è custodito nel mistero degli stessi atti rivelatori, il cui Verbo impegna un esercizio ermeneutico che non è solo esegetico ma esistenziale, dal momento che la Parola di Gesù si intreccia inconsutilmente con la Sua esistenza storica. La Rivelazione porta alla comprensione del Male, che consiste nella assunzione della dimensione finita della storia come realtà universale, assoluta e irrelata perciò dal rapporto col Dio creatore, col fondamento stesso dell’Essere. “Il dramma consiste nel fatto che Dio si oppone agli uomini, i quali sono tutti inclini a sfidarlo per il fatto che tendono a fare della loro vita il centro del significato della storia”. 228 E poiché la vita dell’uomo è consequenziale alla sua rappresentazione del mondo, l’assolutismo del significato umano consiste nella uni-versalità della sua finitezza: sia centrata sulla narrazione esistenziale, e dunque sulla sua descrizione storiografica; sia che inerisca al significato di essa, e dunque alla sua de-finizione noetica. Questa centralità antropo-logica sta all’origine del Male come riduzionismo ontologico alla misura umana e misconoscimento dell’amore di Dio (la “follia della croce”), che di fronte all’avversione umana alla sua saggezza appare come potenza distruttrice (la ”ira di Dio”), così come la volontà superiore, priva di riconoscimento morale, appare come semplice forza. La risposta soteriologica risolutiva non è la preferenza di un riferimento all’altro del dramma: una predilezione del Mito al Logos o viceversa, ma la conversione (metanoia) 227 228
Agostino, De natura boni, II, §§ 38-39, tr. it. di G. Reale, Milano, 2016, pag. 179. R. Niebuhr, FaH, pag. 39.
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della finitezza alla verità del Tutto, che è il Mistero che sta a fondamento di tutto ciò che è. Se il Mistero è all’origine di tutto, ogni cosa ne è investita,sicché ogni possibile rappresentazione gioca la sua possibilità sull’incertezza della sua positiva ma inesaustiva determinazione. Per questo motivo “la storia è un regno di infinite possibilità di rinnovamento e di rinascita”, 229 in quanto ogni determinazione di senso importa la presenza ineludibile del mistero originario, che ogni coscienza riflette nella propria soggettività, la cui assolutezza, al cospetto dell’infinito Mistero, appare paradossale: il paradosso di una illusione, di poter imitare Dio pensando come Lui. Ma la vanità dell’impresa mimetica è resa dall’economia della salvezza divina, espressa dalla narrazione degli eventi scritturali narrati dai Vangeli, dove il loro senso si può evincere solo dalla correlazione originaria, e non dalla ri-costruzione esegetica, in quanto essi ruotano tutti intorno a un evento centrale, non surrogabile, in cui si condensano “tutti gli avvenimenti, quelli passati come quelli presenti e quelli attesi nel futuro”, costituito dalla “morte di Gesù sulla croce e [dalla] risurrezione che l’ha seguita”.230 Qualunque altra ricostruzione storica potrebbe ridefinire i termini dello svolgimento diacronico degli eventi umani secondo una prospettiva ermeneutica variabile, tranne quella narrata dai Vangeli, i quali, proprio per il loro carattere definitivo, assumono un conseguente valore definitorio di ogni possibile esegesi, costituendosi dunque come la Parola espressiva del Mistero del Verbo originario di Dio. Nella relazione tra il Verbo mysterioso e la Parola evangelica si dispiega lo spazio che segna l’orizzonte storico entro il quale si confronta la declinazione perifrastica del narrato, in cui la variazione del tema, propria della circolarità del Mito, si compone con il senso ermenuticamente rinnovato della Parola. L’elusione di tale relazione coincide appunto con la rimozione dell’orizzonte della Differenza a favore dell’assolutezza della coscienza finita, le cui dinamiche, a partire dal Rinascimento, furono dialettizzate entro la realtà ontica naturalisticamente intesa, alla maniera della metafisica classica, dove il 229
Ivi, pag. 40. O. Cullmann, Heil als Geschichte. Heilsgeschichtliche Existenz im Neuen Testament (1966), tr. it., Bologna, 1966, pagg. 109-110. 230
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principio di causalità naturale e la durata divennero fondamentali per spiegare la vita e la storia. Ma il “trionfo della cultura moderna sulla fede cristiana” non si comprenderebbe senza tener conto della concezione del tempo come progresso indefinito, che piegava la circolarità dell’esegesi scritturale a una decostruzione storicistica il cui senso ermeneutico era tutto spostato sul referente razionalistico, che faceva apparire la concezione crstologica un mito, il cui mistero era tutto interno alla fede della tradizione autoreferenziale che la sosteneva; per cui il nuovo paradigma storicistico e umanistico, opponendo alla antica rappresentazione sacrale la “visione di un mondo in movimento, in crescita e in sviluppo, sembrava risolvere ogni perplessità sulla vita e mantenere la promessa dell’emancipazione da ogni male”. 231 Questa supposta emancipazione finì per identificarsi con l’emancipazione dallo stesso “mito” della fondazione theo-logica, quel proteron che da sacro mistero diventa un “enigma” (Raetsel) per la ragione. Senza Principio (arché) e senza la Mediazione cristica, i concetto riflette interamente se stesso, è pura potenza (Macht) e interno movimento poietico: la “pura attualità” di Gentile, a Wirklichkeit in cui il “movimento della sostanza” spinoziana è lo stesso movimento della riflessione hegeliana, cioè l’attività del Soggetto pensata nella Logica come libertà e intima necessità della sua libertà. La riduzione fenomenologica di Husserl ripropone, mutatis mutandum, la visione antica del male quale “intrusione del caos naturale nei fini razionali della storia”, con la significativa correzione che, la coscienza assoluta moderna, “a differenza della cultura classica, considerava illimitate le possibilità della crescita della ragione e interpretava quindi la storia come un movimento verso il trionfo finale dell’ordine razionale sul caos primitivo”, 1 considerato come il fondale pre-istorico in cui si depositavano tutti i mali del mondo. L’auto-coscienza del Logos razionale aveva come riflesso temporale la storia spiegata col processo storico stesso, che assumeva perciò il valore di una auto-rivelazione mondana. Il limite fatale di questa ermeneutica razionalistica della storia è che l’universalità della visione concentrata sul solo archetipo logico faceva perdere la visione d’insieme dell’esperienza umana, rimuovendo, con la 231
R. Niebuhr, FaH, pag. 43.
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personale responsabilità del singolo verso i valori regolativi della propria esistenza, la stessa presenza del Male nelle vicende umane, che veniva rimosso idealisticamente dalla storia alla stregua di quel dato naturale non contemplabile nel processo progressivo della libertà che come scoria residuale di una imperfetta civilizzazione, coincidente con la stessa espansione esclusiva del sapere scientifico.
II LA DIALETTICA DELLA SECOLARIZZAZIONE
“Con secolarizzazione intendiamo l’atteggiamento per il quale la storia,inclusi i fenomeni religiosi cristiani, è concepitacome una catena intramondana di eventi umani mentre, allo stesso tempo, viene conservata la credenza cristianain un ordine universale e sensato della storia umana.” (E. Voegelin)
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1. La Chiesa, quale corpo mistico di Cristo, è una forma logicoconcettuale, ovvero una realtà esistenziale costituita di un numero indeterminato di persone? Se il Christos-Logos è un concetto e dunque un ente di pensiero, la sua forma logica si riflette nella Chiesa come rappresentazione della sua realtà; ma essa può anche essere intesa come una mera realtà istituzionale, storicamente affermatasi per una molteplicità di fattori contingenti e caratterizzata da una dottrina teologica che ne legittima l’azione nel mondo. Nel primo caso, quello in cui la Chiesa sia intesa come una rappresentazione dell’Essere-Cristo, la sua realtà nel mondo ha la stessa posizione assoluta del concetto rappresentato. Ma questa rappresentanza della realtà divina, farebbe di una realtà storica una ipostasi, ossia una copia ipostatica della seconda Persona della Trinità. Poiché la Chiesa è stata “posta” da Cristo, la posizione è quella della immagine di Cristo. Di conseguenza, la realtà della Chiesa, in quanto imago Dei, è il riflesso storico della rappresentazione (Darstellung) che del mondo aveva Cristo, e non della rappresentanza di Cristo, stabilente con Lui una relazione ideale che si richiama vicendevolmente, e tale per cui la esistenza reciproca ne dipende. Infatti, la realtà di un concetto è in colui che lo pensa, e in tal senso Anselmo sosteneva che chi pensi non può non pensare Dio, e pensandolo non può pensarlo che esistente. L’aspetto paradossale di questo costrutto idealistico è che la esistenza di Dio dipenda dal cogito della Sua creatura, senza la quale Egli non sussisterebbe in quanto concetto o ente ideale. Ma nel momento in cui il soggetto che pensa Dio è esso stesso la Sua immagine, pensando Dio pensa se stesso, e si pensa come Dio. L’esito conseguente dell’idealismo cristiano è l’esautorazione di Dio per la Sua immagine storica: una forma criptica di docetismo gnostico immanentistico che radica l’immagine di Cristo nella storia fino a farne l’esperienza assoluta della Sua realtà. A nostro giudizio, la concezione razionalistica della Chiesa come è all’origine della secolarizzazione dei concetti cristologici fondamentali della cultura occidentale moderna. Essa, non di meno, si è rivelata nel Moderno come consapevole processo di pensiero emancipato dai suoi fondamenti di fede a seguito della dissoluzione della metafisica
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sincretistica della scolastica medievale, ma la natura anfibologica del pensiero cristiano era costitutiva dell’intero impianto teoretico della teologia patristica, a esclusione di Agostino. L’auto-emendamento razionalistico dei fondamenti di fede mitici è un processo tipico della teoresi filosofica sin dalle origini platoniche (rappresentato nell’Eutifrone), che manifesta la tendenza costante a trovare in se stessa le basi razionali della propria fondazione epistemologica.232 Per il Cristianesimo, l’operazione si è rivelata particolarmente improvvida, in quanto i suoi fondamenti veritativi, fideistici e trascendenti, e non concettuali, avevano costituito il “sale” nuovo del pensiero umano, sicché la loro elaborazione nei termini concettuali della metafisica greca, segnatamente aristotelica, e quindi naturalistica, ha surrettiziamente trasformato il Mistero della Rivelazione cristiana in un mito cosmologico, omologo a quello di cui si è emendato il pensiero filosofico pagano. Nell’età moderna, l’approfondimento del pensiero filosofico stesso promosso dalla scolastica medievale, ha condotto alla frattura sempre più marcata tra le origini religiose della fede cristiana e il metodo di analisi razionale con cui si giustificavano i dogmi della dottrina della Chiesa. Ma tale frattura era già intrinseca potenzialmente nella costruzione teo-logica ecclesiastica. La questione teo-logica, per le sue implicanze pratiche, di amministrazione del popolo di Dio compreso nella Chiesa, si congiungeva strettamente alla questione del Potere, sia in termini di relazione con l’Impero romano nei primi secoli, e sia in seguito all’editto cristianizzante di Costantino, in termini di servizio religioso funzionale al novus ordo christianorum. La teologia cristiana sviluppo, per una dialettica interna alla stessa istanza universalistica del cattolicesimo romano una correlativa dottrina politica, che doveva soddisfare il bisogno di unità dogmatica di una Chiesa comprensiva della molteplice varietà di tradizioni e di etnie religiose interne all’orizzonte imperiale di Roma. Ma perché, se Dio si è manifestato agli uomini in Cristo, Questi ha posto la Chiesa come Sua immagine? Se la ragione è perché convertisse tutte le genti, allora il programma di evangelizzazione universale ha potuto 232
Come Aristotile operò sul pensiero di Platone, Kant sulla metafisica scolastica, Hegel sul trascendentalismo di Kant, Marx sull’idealismo di Hegel e lo strutturalismo ancora sul trascendentalismo kantiano, per fare degli esempi tra i più significativi.
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facilmente confondersi con il fine filosofico di razionalizzare il mondo. La civiltà cristiano-razionalista nasce su queste premesse ideo-logiche, il cui sviluppo socio-culturale andrà a caratterizzare il processo di civilizzazione dell’Occidente, il cui esito storico non è la secolarizzazione ma il nichilismo. Nel programma universalistico della Chiesa si annida il motivo nichilistico, in quanto se l’infinitezza di Dio ha trovato la sua kenosis nella storia di Cristo, l’umanità del Messia ha costituito di per sé un limite alla Sua essenza infinta. L’infinitezza dell’uomo rappresenta il peccato originale della specie, ma anche lo strumento metafisico della stessa possibilità di Dio di essere nella Storia attraverso la Rivelazione. La distanza tra l’infinitezza divina e la finitezza umana disegna l’insuperabilità dei due piani di realtà sui quali si muovono rispettivamente la Civitas Dei e la secolare civitas hominis agostiniane. Tra le due insuperabili realtà opera la Grazia divina, che subentra alla resurrezione di Cristo, cioè alla fine della sua parabola umana. Questo, però, farebbe della Chiesa la traccia storica della presenza mondana di Cristo, ossia la memoria della Sua mondanizzazione. Mondana è la posizione di Dio come (realtà storica di) Cristo, il positum sacro della divinità. Il pensare Dio come “Id quo maius cogitari nequit” (Anselmo d’Aosta), equivale a pensarlo come l’essere dell’Ente; ma poiché il dogma niceno ha decretato la omousia delle due Persone del Padre e del Figlio, l’identità dell’Essere con l’Ente ne fu la conseguenza logica, che produsse culturalmente la sacralizzazione del finito, di cui la Chiesa era custode e immagine. Perdurando la fede nei fondamenti divini dell’Ente mondano, la sacralizzazione della realtà terrena finita significò l’elevazione dell’uomo (e francescanamente di tutto il creato) allo spirito divino; a seguito della emancipazione filosofica moderna della ratio dalla fides, la sacralizzazione della realtà finita coincise con l’assolutizzazione dell’Ente mondano, ossia dell’uomo stesso, attribuendogli tutte le qualità dell’Essere divino, facendo della Sua infinitezza l’equivalente della possibilità della libertà umana., ritenuta appunto infinita. La lettura moderna e razionalistica della omousia della cristologia nicena sostanzia il fenomeno processuale della secolarizzazione. Uno dei critici più attenti e perspicaci del processo di secolarizzazione della cultura moderna è stato Hans Blumenberg, le cui tesi sono
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particolarmente interessanti ai fini della nostra disamina critica, mostrando come anche la più perspicace acribia degli storici dipenda nelle sue valutazioni dall’approfondimento delle questioni teoretiche che spesso la mera narrazione storiografica sottintende quale acquisto duraturo e confermato, ovvero ignora del tutto. Il concetto cardine da cui parte Blumenberg nel suo magistrale saggio del 1966 sulla Legittimità del Moderno è quello di “mondanizzazione”, inteso nei termini di “un anatema spirituale nei confronti di ciò che dopo il Medioevo è diventato storia, appartiene a un vocabolario il cui valore esplicativo dipende da presupposti che dal punto di vista teoretico non sono disponibili e che non possono essere attribuiti o riconosciuti a quell’intelligenza della realtà che viene caratterizzata come mondana”.233 Dopo essere diventata, sul piano della politica culturale, il valore programmatico della emancipazione da ogni dominazione teologicoecclesiastica,della liquidazione di residui del Medioevo, la secolarizzazione si prestò a esser formulata come postulato del chiarimento dei fronti, di una separazione degli spiriti, decisa e tale da costringere a una decisione anticipando quel giudizio escatologico che separa definitivamente questo mondo e quel mondo”. 234
Il mondano dal non-mondano. La separazione della realtà mondana da quella trascendente costituiva i termini della crisi intervenuta all’interno dell’orizzonte di coscienza teologico e sanzionata come ereticale dalla teologia cattolica a seguito delle posizioni separatistiche sostenute dal Protestantesimo, che pertanto costituisce la matrice del paradigma culturale riferito da Blumenberg. Stante a queste premesse, la vicenda del Moderno va pertanto interpretata come interna a codesta frattura, e dunque l’idea della decadenza riferita alla dissoluzione delle grandi sintesi teologico-politiche medievali non interessa un termine anziché l’altro della dicotomia ratio o fides, ma il processo stesso delle rispettive destinazioni separate dei due termini, caratterizzante appunto la cultura moderna. Infatti, la tematica relativa alla immanenza del sacro entro la 233
H. Blumenberg, Die Legitimitaet der Neuzeit (1966), tr. it. Genova, 1992, pag. 11. Da ora in poi LdN. 234 Ivi, pagg. 11-12.
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realtà mondana nei termini di una presenza divina nella Storia umana, ossia di una cristologia, non escludeva ma esaltava la mondanità spiritualizzata, superando la visione pre-cristana di quella radicale alterità tra dimensione mondana e divina che venne riaffermata, con toni apocalittici o razionalistici ma comunque neo-pagani, nel Moderno. In tal senso il cd. “moderno” è in realtà un ritorno all’antico, più che un superamento dell’età di mezzo cristiana. In altri termini, la sfera mondana si costituisce come valore storicamente significativo in quanto assunta dal Cristianesimo come scenario fenomenologico della kenosis divina del Verbo incarnato, senza il cui evento non ci sarebbe stato alcun “mondo umano” ma soltanto una congerie di singole determinazioni sociopolitiche che andavano dalla polis etnica all’Impero territoriale multietnico. La posizione dialettica verso l’altro termine della dicotomia fede-ragione consegue alla rimozione della condizione di alterità dei due termini, tale che il loro confronto si ponga sul piano d’immanenza, proprio della sola logica mondana, che è quella degli enti molteplici prodotti della determinazione razionale. Ciò che Blumenberg chiama la “entità essenziale intangibile” della sfera religiosa, 235 in realtà può essere assunto come ente privilegiato tra enti mondani solo in quanto modello razionale della “autoconservazione teologica”, ma non in quanto contenuto della fede, poiché, questo contenuto, essendo a sua volta una relazione uomoDio, è possibile solo un piano che trascenda ogni determinazione formale. Infatti, se la forma religiosa si costituisce come paradigma significativo di senso universale, astratto perciò da ogni concreta relazione singolare, questa concreta relazione si costituisce a sua volta come manifestazione singolare, la cui concretezza risiede appunto nella sua singolarità e unicità, ossia nella sua diversità rispetto all’astratta universalità del rapporto formale. Nella considerazione razionalistica delle vicende umane, la Storia si riduce a manifestazione di eventi temporali, la cui razionalità risiede nella loro considerazione di senso universale, nella loro astrazione dalla concretezza della loro singolarità. Ma la singolarità non consiste nella diversità della loro manifestazione individuale, come riteneva 235
Ivi, pag. 12.
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erroneamente lo storicismo, bensì nel carattere trascendente della loro relazione con l’Unità. Pertanto è la natura del rapporto che l’individuale ha con la sua universalità l’elemento differenziale tra la considerazione cristiana della Storia e quella razionalistico-pagana riabilitata concettualmente nel Moderno appunto come “secolarizzazione” della cultura. A tal proposito va rilevato che non ci sarebbe alcuna “fine della Storia”, quale “oggetto riservato alla teologia” 236 senza l’idea stessa di una Storia umana come “processo di mondanizzazione”. E’ stata infatti la prospettiva cristiana ad assegnare alla Storia un valore trascendente il senso contestuale trascritto dalle dinamiche politiche, le quali, sia pure trasvalutate dal Logos tucidideo, non erano depositarie di un senso ultroneo alla dialettica bellica emersa dalla analisi comparatistica dei gruppi umani in tensione polemica. E proprio la trascrizione del Logos storico in termini di dinamica politica diventa il contrassegno teoretico della narrazione razionalistica delle vicende umana fino al Cristianesimo; o meglio, alla predicazione evangelica. Infatti, il cattolicesimo alessandrino riabiliterà teoreticamente il Logos greco all’interno del suo orizzonte teologico, anche se l’idea di un disegno storico unitario, prima ancora che dal cristiano, fu tentato in senso organico-naturalistico da Polibio, il quale secondo Bultmann “in tal modo prepara, in un certo senso, la successiva storia universale cristiana” 237 “Nella gnoseologia dell’età moderna, il primato della questione della sicurezza, della certezza teoretica è la secolarizzazione del problema cristiano fondamentale della certezza della salvezza” quale superamento del dubbio scettico, e dunque quale trascrizione della funzione esercitata dal dogma della Chiesa quale “assicurazione generalmente spirituale dell’esistenza”.238 Del tutto fuorviante. Infatti, la certezza teoretica di riferimento della scienza è del tutto fenomenica, laddove l’ipotesi euristica, la “congettura” popperiana, è l’elemento aleatorio del tutto privo di assicurazione preventiva. Se il fondamento congetturale della teoria attende il suo momento confermativo per la sua veidicità, il “pari” della fede attende 236
H. Blumenberg, LdN, pag. 13. R. Bultmann, Geschichte und Eschatologie (1955), tr. it., Brescia 1989, pag. 26. 238 H. Blumenberg, LdN, pag. 19. 237
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ben altrimenti la sua esaudizione ultramondana, in termini non di riscontro empirico ma escatologico. Ciò vuol dire che se la teoria scientifica è appesa alla sua stessa dialettica ipotesi/certezza, la certezza della salvezza è assicurata dalla sola fede preventiva, la quale, a differenza di quella scientifica, soggetta all’accreditamento oggettivo, si costituisce come verità definitiva e non opinabile se non all’interno della stessa coscienza di fede soggettiva. Il dogma ecclesiastico, pur pretendendo di avere una funzione normativa derimente tra diverse interpretazioni ontologiche, non può essere il modello della legge scientifica, in quanto il fondamento di validità del dogma è riservato a un dato originario di natura carismatica, di cui la certezza scientifica oggettiva è del tutto privo. Sicché la validità del precetto dogmatico resta vincolato alla certezza soggettiva della fede, senza la quale il vincolo non sussisterebbe, laddove il fondamento veritativo della teoria è sì legato alla preventivo accoglimento dell’ipotesi euristica ma solo momentaneamente, senza alcun vincolo di certezza. In tal senso, se la fede si verifica con l’ubbidienza, cioè con un atto soggettivo di coscienza, che vincola il solo credente, l’ipotesi scientifica non vincola il precetto alla (congettura della) coscienza, ma questa alla legge, ossia appunto alla certezza metodica, che elimina per statuto gnoseologico ogni riferimento alla soggettività della credenza. Ed è questo assunto il tipico atteggiamento della posizione “scientifica” del pensiero dialettico della filosofia, che non a caso si costituisce a partire dal Socrate platonico in polemica alla credenza mitica della religione, accusata di non essere universale. La “struttura sistematica nella quale [i concetti teologici secolarizzati] funzionano” 239 è il portato del razionalismo cattolico di matrice alessandrina, che ha definito le forme significative dei sistemi razionali della nostra civiltà, diventati universali nella fruizione metodica. Ed è proprio tale fruizione che, avendo isolato il metodo dal suo fondamento di fede (escatologica e trascendente), ne ha consentito la declinazione “secolaristica”, ossia neutra rispetto ai fini perché appunto privata del suo principio. Questo principio, infatti, essendo la realtà di Dio e pertanto fondamento indisponibile scientificamente quale premessa assiologica 239
H. Blumenberg, LdN, pag. 20.
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assoluta, è stato rimosso a vantaggio del solo metodo, la cui condizione epistemologica di validità multiuso universale è che non contempli la fede originaria nella verità, la quale diventa perciò un movente privato scientificamente irrilevante ai fini della funzionalità gnoseologica del sistema, che risulterà a tale condizione valido etsi Deus non daretur. Con l’assunzione della logica razionale nella formulazione della verità cristiana il cattolicesimo romano interiorizza col metodo filosofico anche la sua essenza polemica, ossia lo sfondo naturalistico della sua antropologia politica, riportando entro l’orizzonte della fede escatologica cristiana della “ecclesia”, la dimensione politica propria della sociologia pagana, provocando l’insorgenza del principio della “doppia verità”, religiosa e mondana, umana e divina, che il monoteismo cristiano negava in principio in considerazione della fede nell’unica verità trascendente. Dalla riduzione della fede cristiana a religio sociale, a instrumentum regni, nasce la teologia politica cattolica e il conflitto strutturale tra Chiesa e Stato e tra fides et ratio che caratterizza la cultura europea. Presumendo di poter “secolarizzare l’infinitezza”, 240 la cultura razionalistica moderna intende rispecchiare Dio nel mondo, divinizzando l’uomo in senso contrario a quello cristiano; nel senso cioè di convalidare ogni sua esperienza esistenziale nei termini immanentistici di una fenomenologia di valore assoluto. Questa possibilità deve imprescindibilmente escludere la distanza tra Dio e il mondo, facendo della creazione un rispecchiamento della perfezione divina, e l’ammissione del peccato originale, che segna la differenza ontologica tra Dio e l’uomo. E pertanto, rendendo la coscienza umana partecipe della mente razionale divina, e facendo delle leggi di natura la realtà normativa della volontà di Dio, la coscienza razionale dell’uomo diventa il luogo della mediazione universale e assoluta, invece del Cristo, il Mediatore per antonomasia, addivenendo così alla declinazione secolaristica del Logos divino originario, tornato ad essere logos in senso puramente filosofico, ossia techné dialektiké.
240
H. Blumenberg, LdN, pag. 21.
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2. La scienza che, secondo Hegel, “di per sé si sviluppa come una Chiesa fino alla totalità di un principio peculiare” 241 subentra alla teologia attraverso un processo teoretico di inveramento già intrapreso da Aristotile nei confronti dell’idealismo platonico, consistente nella enucleazione di un sistema razionale dall’interno di una organica generazione mitopoietica, tale che la filiazione genetica costituisca il prodotto di una razionale demitizzazione dei suoi fondamenti archetipi. Anche in questo processo riduttivo ed emancipativo del pensiero razionale dalle sue origini mitiche è possibile rinvenire, quale mutuo classico in ambito cristiano, la processione cristologica dall’originaria fonte vetero-testamentaria. Questo movimento dialettico di destrutturazione del Mito in sistema nucleare razionale, promosso anche da Marx nei confronti della metafisica di Hegel, è conseguenze al presupposto di credenza ontologica per cui la verità sia l’Essere, e l’Essere sia il pensiero concettuale. Ma l’identità della verità al concetto, e della coscienza razionale come il luogo della verità, è solo una credenza umanistica, essa stessa opinabile come ogni altro fondamento scientifico ipotetico, che si scontra radicalmente con l’idea cristiana di Verità come unità dell’Intero, comprensiva tanto del Bene quanto del Male, tanto del Mediatore-Cristo che del Tentatore-Diavolo. La concezione cristiana supera l’antagonismo esclusivista del metodo dialettico, accogliendo nella Verità anche l’altro, il differente, il logicamente negativo, a condizione che la Verità stessa sia trascendete la finitezza delle parti in conflitto; ed è in tale ulteriorità rispetto ai singole parti determinate che va intesa la funzione del Mediatore divino, nel cui comune riconoscimento è possibile superare la finitezza (della ragione) particolare, che già appariva sofisma agli occhi del filosofo platonico e che diventa stoltezza alla coscienza del cristiano Paolo. Ora, il rapporto dialettico tra verità-manifesta, cioè concettualmente definita, e verità-nascosta, ossia negata dalla affermazione esclusiva, coincide con l’attività del processo ermeneutico, che svela appunto il “senso nascosto del presente”, parafrasando Gadamer,242 ossia il senso rimosso di ciò-che-è, che è per l'appunto quanto negato dal contenuto della definizione concettuale. Sciogliere 241 242
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit. in LdN, pag. 21. H. Blumenberg, LdN, pag. 23.
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questo nodo dialettico consente di sfuggire all’alternativa predisposta come ineluttabile da Blumenberg tra il trasferimento della infinitezza di Dio sul mondo quale conseguenza dell’idea di creazione, e l’usurpazione di tale idea da parte del mondo che è subentrato a Dio. 243 Infatti, il tertium tra le due ipotesi euristiche consegue alla chiarificazione del concetto stesso di “infinitezza”, che a partire dall’idealismo platonico ha designato la proiezione universale (l’idea, appunto) di una realtà empirica (l’ente), di cui è diventata il modello ontologico. Tale modello consiste nel concepire l’idea di un ente, ossia l’Essere concettuale, come la essenza meta-fisica dell’ente astratto dal suo divenire, ossia dalla sua finitezza ontica, rispetto alla quale l’affermazione ideale si costituisce come infinitezza onto-logica. Pertanto, il negativo espunto dall’affermazione di realtà concettuale è il divenire, la finitezza dell’ente, di cui l’idea è il modello universale, la sua essenza in-finita. Ora, per tornare alla “alternativa” di Blumenberg, la “infinitezza di Dio”, concepita alla stregua della universalità del concetto filosofico, trasforma Dio in un Ente ideale, e come tale soggetto alla reductio ad rationem tipica del processo filosofico di demitizzazione di cui si è detto e in cui consiste propriamente il fenomeno culturale che a partire da C. Schmitt è noto come “secolarizzazione”. La stessa escatologia cristiana ha subito una riduzione di secolarizzazione in quanto interpretata in senso idealistico e non trascendentistico, e tale perciò da consentire quel “rispecchiamento” dell’idea nell’ente e viceversa caratteristico della logica idealistica, escludente ogni mediazione tra i due poli dialettici. Non è difficile renderci conto che, adottata tale dialettica come orizzonte teoretico della scienza moderna, la figura del Cristo Mediatore sia stata rimossa a favore dell’esclusivo metodo razionalistico di conoscenza della realtà, quale risvolto teoretico dell’ateismo pratico, proprio della cultura moderna. Se volessimo dunque precisare i termini concettuali della “illegittimità del concetto di secolarizzazione”, 244 dovremmo riferirla alla sua originaria declinazione immanentistica, interna all’orizzonte teoretico del razionalismo filosofico greco, che ammette la reductio del mito come attività stessa della teoresi razionale, e di conseguenza la trasposizione di 243 244
Ivi, pag. 25. H. Blumenberg, LdN, pag. 26.
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senso giuridico-politico che l’ha resa nota. In questo senso, la accezione canonica della saecularisatio, che sta a indicare il passaggio da una comunità fondata sul vincolo cristiano della carità, a una condizione di prete secolare, allude a un risvolto storico-esistenziale nel quale la testimonianza cristiana ha come ambito operativo una socialità fondata su presupposti razionali etico-politici e non mistico-caritativi. L’uso, per così dire legittimo del termine interno alla concezione cristiana, è offerto invece dall’omocentrismo della testimonianza francescana, in cui la ratio volendi caritatevole è il riflesso dell’amore divino, che per Duns Scoto si manifesta come praxis. In questo ambito la nozione correlativa alla “mondanizzazione” è l’Incarnazione del Verbo come kenosis, la quale per Scoto è l’ “articulus principalis omnium rerum unius mundi”, il fatto più saliente della creazione, il “capolavoro di Dio (“summum opus Dei”), in cui si manifesta la Sua definizione umana, l’eterno nel finito, nel tempo, che è concetto teologico correlativo alla sintesi idealistica di infinitofinito. L’ambito cristiano della comunità dei credenti è la Chiesa, il corpo mistico di Cristo, il cui fine è la gloria di Dio attraverso lo strumento della charitas. La Chiesa è il correlativo religioso della società politica secolare, che ha per fine razionale il Potere. E’ importante tenere presente la differenza dei due contesti comunitari per comprenderne la insuperabile differenza. Infatti, l’amore dell’uomo, che corrisponde alla ratio nel contesto politico mondano, è finito e incommensurabile a quello divino, sicché solo una persona, pur umana ma divina, poteva eguagliarlo, il Cristo. La centralità della figura del Mediatore rende insurrogabile tanto il modello di santità che rappresenta, - eliminando in radice la possibilità dell’uomo di salvarsi, ossia di superare la propria finitezza, senza la Sua presenza - che la realtà storica della Chiesa, il cui senso mistico può essere rimosso soltanto attraverso un processo di razionalizzazione dei fondamenti di verità di fede, analogo a quello di demitizzazione tipico del pensiero filosofico, e che caratterizza appunto la cultura moderna come movimento ideale di secolarizzazione. L’opera di riduzione razionalistica del sacro al secolare passa dunque attraverso la rimozione della mediazione cristica, ossia attraverso la perdita della destinazione morale del telos escatologico. Qual è la destinazione del Cristo fatto uomo? E’ l’interrogativo teologico
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fondamentale di Scoto. Cosa intende perseguire Dio attraverso Cristo? Essendo Dio “formaliter charitas”, il Suo amore per l’uomo ha per fine l’essere amato dall’uomo: la Sua gloria (Is. 43, 7). Come scrive Scoto, “Dio amando se stesso ha predestinato gli altri a se stesso” (Deus diligendo se praedestinavit alios ad se). E per colmare la differenza tra Sé e l’uomo, concepisce il Cristo, la cui glorificazione era condizione della soddisfazione dell’amore di Dio. la tensione soteriologica in chiave ecclesiale diventa missione pastorale e dottrina morale. Il problema fondamentale dell’etica greca post-socratica è la ricerca della felicità, ovvero della “vita beata”, che per Socrate si poteva raggiungere solo attraverso la virtù. Il valore del’uomo è in sé stesso, non nella reputazione o nei suoi beni materiali: da qui la superiorità e autonomia della vita spirituale e la dedizione del filosofo alla ricerca della verità. La (prudenza) è conoscenza intellettuale e volizione pratica, per cui la virtù è una scienza pratica. Essa è la modalità di estrinsecare la volontà nell’azione, è una tecnica comportamentale. L’equivalente cristiano della è la libertà, intesa come atteggiamento responsabile, come scelta tra volizione morale e volontà pratica. La considera la realtà contestuale per orientare efficacemente l’azione, mentre la libertà considera il valore simbolico del comportamento ai fini della sua spirituale significazione. Al significato sociale, socialmente razionale, la libertà cristiana preferisce il significato spirituale, e dunque universale. “Razionale” è il comportamento che ha senso per gli altri secondo l’opinione condivisa; “universale” è il comportamento che ha senso in riferimento al valore spirituale. La condanna di Socrate era razionale rispetto al senso socio-politico del reato, così come irrazionale la sua posizione morale rispetto all’etica pubblica della polis. La razionalità politica, cioè l’etica pubblica, da Platone è considerata , cioè un’opinione semplicemente condivisa, ma non perciò vera. Vera infatti è solo la posizione della Ragione “universale”, che appare irrazionale alla ragione comune. Poiché la Ragione universale (Logos) si oppone alla ragione comune (dòxa), essa è “negativa” rispetto alla positività della ragione vigente. Universale in tal senso è ciò che non-è reale ma solo intenzionale, possibile cioè nella coscienza, e perciò “ideale”. L’idealismo platonico considera “ideale” l’immagine perfetta
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della realtà, facendo dell’Idea la proiezione, l’immagine, della realtà emendata del suo divenire e in tal senso eterna. Questa posizione razionalistica falsa la dialettica ideale in senso storicistico, concependo l’Idea come la Ragione universale (Logos) di ciò che è molteplice e contingente, e soggetto alla dòxa. In senso spiritualistico cristiano, però, l’Universale non è l’opposto logico dell’ente concreto, il suo modello speculare, ma il diverso trascendente, l’infinito rispetto al finito, per cui i due elementi non si possono dialettizzare, in quanto l’Universale non è il negativo degli enti particolari, la loro Unità, ma è il Tutto infinito rispetto al singolare finito. Il Tutto trascendente infinito è appunto l’Universale in-reale, e in tal senso spirituale. La declinazione naturalistica e onto-logica dello idealismo platonico ha smarrito il senso fondamentale e irriducibile della differenza tra l’Universale trascendente il razionale del particolare, l’Unità del Molteplice. Aver positivizzato l’Idea, rendendo di converso negativa la realtà finita, ha posto il filosofo contro la società, mentre aver positivizzato la realtà finita come mondo razionale ha condotto il politico a negare realtà sociale al valore ideale. Solo entrambe pretese particolari in conflitto, tali che l’una può affermarsi solo soppiantando l’altra. Da questo confitto irriducibile degli opposti logici nasce l’istanza razionalistica, già avanzata da Platone nella Repubblica, di razionalizzare la realtà fenomenica, rendendo universale il reale. Universale in senso razionalistico vale per unitario o coerente al modello ideale, rendendo conforme il Molteplice all’Uno. Razionalizzare la realtà significa assimilare al modello astratto ogni singolo concreto, negando quella diversità specifica che lo rende appunto singolarmente diverso da ogni altro. La negazione concettuale, in sede sociale è la eliminazione politica. La logica razionalistica è un pensiero esclusivo, così come il fine dell’azione razionale o virtuosa è di essere utile alla vita sociale. L’utilità va intesa in senso socratico di “pubblica” utilità, cioè come bene “politico”. La dimensione politica per i Greci è l’orizzonte della attività umana, compresa la sapienza. La stabilisce infatti la inscindibilità tra la vita teoretica (bios theoretikos) e la vita pratica (bios praktikos), tra pensiero e azione. Ma ciò vuol dire solo che tale inscindibilità sia una relazione tra due distinte sfere esistenziali: quella soggettiva della coscienza, e quella oggettiva della socialità. Tale
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relazione deve esser armoniosa perché non ci sia lacerazione tra coscienza e politica. la saggezza greca puntava all’armonia poiché non concepiva una vita umana distinta esistenzialmente da quella sociale, per cui il fine della sapienza è eudemonistico anche il filosofo ha bisogno del riconoscimento sociale per potersi realizzare come uomo pubblico (la fama). Ma poiché la sua sapienza è divina, cioè ideale, spetta alla coscienza comune conformarvisi, lasciandosi guidare dalla filosofia anziché dalla tradizione e dalla prassi sociale. La sapienza cristiana, invece, non si dirige a “questo mondo”, ossia non ha per fine la socialità politica, ma la salvezza dell’anima singolare. Ciò significa che la “conversione” al Logos cristico è individuale, anche quando collettiva e condivisa, per cui le singole anime possono giungere alla unione mistica ma non alla unità delle loro singole personalità spirituali, ognuna delle quali partecipa nella sua destinazione e possibilità concreta della natura divina di cui è imago. Inoltre, che la filosofia è intrinsecamente una logica “sociale”, ossia ha una funzione pragmatica, mentre la fede cristiana non offre una “dottrina sociale”, informata a regole razionali, indipendentemente dalla fede in Cristo, ossia dalla trascendenza della Verità. E’ la condizione trascendente che fa della verità un’esperienza singolare e personale, e non un oggetto di pensiero dominato dalla ragione. Solo l’alterità della Verità trascendente rispetto a ogni posizione razionale può condurre ogni uomo a conseguirla anche al di là della coscienza collettiva, cioè dell’opinione comune. “Trascendente” vuol dire appunto comprendente ogni relativa opposizione logica, totalità. Totale è ciò che trascende la polarità dialettica e comprende nella loro realtà particolare gli opposti. E in quanto la realtà fenomenica comprende quegli opposti che la ragione astraente distingue e contrappone, la realtà divina è più simile alla realtà concreta che alla astratta realtà ideale, sistemata dalle leggi umane della ragione. Questo il senso della polemica di Gesù verso il legalismo farisaico, e surrettiziamente verso ogni posizione filosofica pagana, che considera appunto “reale” solo l’ente di ragione, rappresentabile razionalmente, trascurando la considerazione della realtà concreta e finita, la quale, inerendo l’esistenza umana singolare, è sempre unica e irripetibile quanto la persona del singolo uomo. L’implicazione di tale singolarità umana è la sua irrapresentabilità formale, logica ed etico-
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politica. La singolarità umana non è rappresentabile come realtà esistenziale, spirituale, ma può solo essere vissuta come esperienza totale. Ed è questo il senso autentico dell’Incarnazione divina, altrimenti inutile se la totalità di Dio potesse rendersi per soli concetti anziché per esperienza di vita. L’esistenza storica del Cristo conferma l’assoluta alterità di Dio, la Sua “totalità”, il Suo totale non-essere rispetto a ogni determinazione razionale. L’Incarnazione è l’accesso a Dio. Quando Gesù afferma “io sono la verità”, non intende la verità di ragione. L’interpretazione razionalistica di Dio ha portato a venerare il Logos inteso come tecnica di accesso, come mediazione razionale, ossia la lettera anziché il senso simbolico: l’uomo-creatura, anziché l’immagine divina, la Chiesa anziché il Cristo risorto. La interpretazione razionalistica del Logos ha costruito una civiltà dei costumi, un’etica cristiana, ma non ha convertito l’uomo, poiché la conversione consisteva proprio nell’abbandono della gnoseologia razionalistica, fondata sul principio polemico esclusivo dell’altro, a favore del’esistenza fraterna fondata sulla fede misericordiosa. Non si trattava di riformare lo Stato di Cesare, ma di testimoniare la verità trascendente di Dio, con l’amore del prossimo. La distinzione aristotelica tra la forma ideale e la forma reale dell’essere, tra l’idea e la realtà, si riferiva ad aspetti opposti di una unica realtà. Infatti lo Zeller coglie bene la questione quando afferma che il materialismo greco nasce dalla credenza che fosse l’esistenza il criterio di realtà, cioè la natura percepibile dai sensi. Il sensismo gnoseologico non consentiva di concepire un valore meta-individuale, oggettivo e universale. Il Logos spermatico diventa l’energia vitale che pervade ogni processo cosmico, fornendolo di un fine razionale. In questo finalismo i Greci concepivano l’intelligenza universale della natura organizzata in cosmo, le cui leggi diventavano oggetto di pensiero. Il naturalismo e la razionalità erano intimamente congiunti. Natura-Ragione-Pensiero costituivano il circolo ermeneutico che racchiudeva l’esperienza del cosmo. La forza impersonale e incoercibile era la stoica, la forza generativa e regolativa della vita, e come tale da venerare religiosamente. La legge razionale, scientifica, diventa anche legge religiosa, ragione e giustizia immanente. Il destino è il potere divino, la ragione delle cose in connessine causale. Causalità e razionalità costituiscono il processo della natura. La realtà come essere di ragione, è
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realtà naturalistica. Il razionalismo greco, come ontologia, è naturalismo. Lo stesso primato dell’azione è consequenziale alla premessa naturalistica, poiché il retto agire è l’inserimento opportuno nel generale processo razionale, la conoscenza del quale è la virtù e ascendenza del sapiente. Lo stoicismo sviluppa l’esigenza di approntare una dottrina scientifica della conoscenza ai fini dell’azione virtuosa. La cultura filosofica acquista così un valore non solo intimo ma sociologico, funzionale sia all’esistenza personale che al progresso della vita sociale. E’ infatti il presupposto tanto della virtù civica che della condotta morale. Il Bene è ciò che è perfetto secondo la natura razionale. “La virtù non è soltanto uno stato interiore dell’anima; essa è la più grande potenza di azione che possa esistere e la più diversa nelle sue applicazioni”.245 La Verità cristiana, per la sua essenza trascendente, non è socializzabile, non è una “dottrina sociale”, ma, al contrario, è un dialogo con Cristo, col Mediatore, che è Logos spirituale. La condizione della socialità naturale viene superata dalla conversione spirituale (metanoia). S. Bonaventura coniò a proposito il termine di sursumactio, per indicare “l’azione elevante, che compendia lo sforzo umano e la Grazia divina nel vincere il peso morto della natura, [ed] è condizione indispensabile dell’agire come del contemplare cristianamente”.246 La Ragione è lo strumento di conoscenza dell’ente, onto-logia; ma essa non può fare altro che raggiungere il limite dell’Essere, oltre il quale c’è il Nulla, inconoscibile con la Ragione, che è la logica del Molteplice. Il Nulla è l’Uno, l’in-distinto, presso il quale non vigono regole causali, leggi fenomenistiche legate agli enti molteplici. Ma non vi si può giungere attraverso la ragione, ma solo per intuizione mistica, per fede. Con la Ragione si giunge sino alla soglia , al Limite della conoscenza razionale, della coscienza di non sapere (la docta ignorantia). Non vi può essere continuità tra sapere antico pagano e sapere cristiano, senza la frattura gnoseologica che differenzia la fede dalla ragione, l’intuizione spirituale della Verità dal Logos naturalistico. Rispetto alla Verità cristiana, inclusiva del Nulla che la logica razionalistica elimina dalla 245
E. D’Ascoli, in Giovanni Duns Scoto nel VII centenario della sua nascita, cit., pag. 213. 246 A. Gemelli, Il Francescanesimo, Milano, 19455, pag. 468.
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realtà dell’Essere, il fondamento del sapere ontologico è mitica, per cui la stessa rielaborazione filosofica del Mythos naturalistico greco è una mitologia, la quale, come tale, conserva del mito il suo fondamento originario, archetipico. Quale elemento del Mito viene mantenuto nell’elaborazione razionale del discorso filosofico? Questo elemento originario è la visione universale dell’ente, l’ , che consente di rappresentare la realtà di senso razionale come astratta dal divenire, esprimendo un’esigenza d’ordine () stabile, originario () e immutabile in quanto non soggetto a divisioni tra opposti (). Ciò che si dice “principio” e “fondamento” metafisico di tutte le cose conosciute dal Logos ha dunque un’origine mitica, sicché ogni rappresentazione di un fenomeno o di un evento che gli attribuisca significato universale, è mitica. La scienza stessa è mito-logica. Se non teniamo da conto questa considerazione di premessa, ogni discorso ricostruttivo sulla genesi dei concetti caratterizzanti il Moderno rischia di perdere l’intima dinamica che oppone lo sfondo metafisico dell’ontologia greca e il razionalismo della teologia cristiana, il cui carattere sincretistico viene alla luce e si manifesta in tutta la sua portata contraddittoria rispetto alla fede escatologica trascendente proprio con la cultura moderna. In tale prospettiva, parlare di una “separazione” della conoscenza scientifica moderna dalle sue fonti originarie cristiane, ovvero del mondo moderno come “risultato di una secolarizzazione del Cristianesimo”, 247 diventa fuorviante rispetto al corretto intendimento dei processi culturali, in quanto sovrappone due ordini di discorso che vanno tenuti invece separati. Infatti, il processo di riduzione demitizzante dei costrutti teologici cristiani, conosciuto come secolarizzazione, è possibile giustificarlo teoreticamente quale reale fenomeno storico-culturale solo se si ammette una sostanziale continuità tra la cultura del mondo antico e la cultura cristiana. In tal senso è giusto il giudizio di Blumenberg quando afferma che “il teorema della secolarizzazione” sia “un caso speciale di sostanzialismo storico”.248 La questione, non di meno, è complicata dalla circostanza che il Dio cristiano di Agostino (Civitas Dei) e quello stoico della Natura di Seneca (De beneficiis) non sono espressioni dello stesso 247 248
Ved. H. Blumenberg, LdN, pagg. 30-31. Ivi, pag. 35.
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Logos. In comune hanno, nondimeno, l’esigenza di collegare i molteplici eventi dell’esperienza di vita con un principio fondamentale, esplicativo di senso universale, indicativo cioè di un fine (télos) che è un valore assiologico, attribuito all’Essere stesso ma che in realtà è del concetto, la cui validità è assegnata appunto alla sua valenza universale, che, essendo ideale, ispira l’istanza deontologica del suo rispecchiamento reale, cioè della sua realizzazione pratica.249 Il martirio della carne del Crocifisso fu nel contempo anche quello della parola, insufficiente a redimere l’umanità dal Male, come invece credevano i filosofi pagani. La sapienza dell’uso del Logos non bastava: occorreva fondarlo sull’amore, ossia sulla fede nella redenzione finale, nell’eskaton dell’ultimo giorno a venire, che supera ogni concezione sociologica della storia umana propria della cultura politica antica. La contemplazione filosofica pagana acquista nella predicazione evangelica l’inveramento della testimonianza esistenziale,ossia la concretezza della speranza, che per Socrate era riposta nella volontà politica del collettivo sociale, tutta immanente alla realtà terrena, mentre per Gesù era nell’affidamento alla Grazia divina, ossia alla più alta istanza trascendente e meta-fisica. Il Logos pagano, fondato sulla necessità della Natura e delle sue leggi, diventa nel Cristianesimo fondamento spirituale del Verbo nella sua origine divina, come aveva intuito Platone. Delocalizzando il fondamento del Logos dall’esperienza sociale alla verità trascendente, il Verbo stesso viene trasvalutato nella sua letteralità, aprendosi al senso non-convenzionale nel quale invece l’aveva ascritto il Potere politico. rispetto alla prospettiva del Fedone, l’aspirazione della Repubblica rappresenta una regressione in senso ontico della coscienza filosofica verso l’uso esegetico della parola in termini ideo-logici. Lo stesso errore platonico verrà commesso dalla teologia politica ecclesiastica della dòkesis eusebiana,250 negatrice della lettura più 249
Sulla “relazione” dei fenomeni empirici con “un universale”, ved. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. I, tr. it., Firenze, 1930, pagg. 9 sgg. Sull’argomento, rimando a C. Marco, “L’Uno, il Molteplice, la Mediazione”, in L’ordine pigro, II, cit., pagg. 627-753. 250 “Eusebio è stato il primo a tracciare la figura dell’Imperatore cristiano ideale [il quale] entra in qualche modo nella Trinità divina ed è in pratica la concretizzazione della mediazione di governo (e non solo di governo) del Logos e del Cristo. Egli è il
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autenticamente evangelica della Storia offerta da Agostino, il quale teorizza non già la continuità sostanziale della Storia umana ma l’innesto della fenomenologia pre-istorica della civiltà pagana nel processo propriamente storico del Cristianesimo. La Storia umana comincia con la Rivelazione, che inaugura il tempo dello Spirito incarnato che segue al ciclo naturalistico della cultura antica. La Storia spirituale presuppone dunque la frattura e il superamento del Limite della concezione naturalistica pagana. Storia è la rappresentazione simbolica della vicenda terrena di Gesù: dalla nascita umile alla passione, e dalla morte fisica alla resurrezione spirituale della Pasqua, che perviene alla Gloria divina. Nella compiutezza di una vita paradigmatica si rappresenta il percorso esistenziale dell’intera umanità, sia pure nella molteplice varietà delle esperienze singolari. Il Logos cristico non è una Idea ma una esistenza concreta nella Storia; è la storia di quella esistenza. una storia simbolica perché anch’essa unica,anche se paradigmatica. Non c’è universalità nel senso razionalistico della filosofia greca, ma con-presenza di singolari vicende spirituali, ognuna delle quali ha la sua storia, che riflette simbolicamente la Storia del Cristo. In questa concreta corrispondenza tra sapere e prassi mondana si superala stessa distinzione aristotelica tra theorein e praxis. Infatti la verità cristiana è allocata in interiore homine, anche se non è puramente coscienziale, ma costituita dal rapporto della coscienza singolare con l’intuizione di Dio, con l’ispirazione della Grazia divina, che esprime la intenzione morale, la libertà dell’uomo. Questa, poi, incontra l’opinione comune entro la quale è sorta, al fine di superare, attraverso l’atteggiamento misericordioso, la sua alterità polemica, la sua mediatore tra i sudditi razionali e Cristo e il Padre, loro Re. Questa visione entra complessivamente nell’ideologia ellenistica di tempo e di spazio in cui Eusebio vive”: R. Farina, L’Impero e l’Imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea. La prima teologia politica del Cristianesimo, Zuerich, 1966, pagg. 166 e 167. La versione speculare a quella eusebiana è l’idea di Impero elaborata da Dante nel Monarchia, in cui, rifacendosi espressamente alla teoria dell’inseparabilità della potenza dall’atto formulata da Averroè commentatore del De anima aristotelico, il Poeta asserisce che “poiché tale potenza non potrebbe ridursi tutta quanta insieme ad opera di un solo uomo o d’una sola delle particolari comunità, […] è necessario vi sia nel genere umano una moltitudine, per mezzo della quale tutta quanta questa potenza venga attuata”: Monarchia, I, 3, 8-9. Ved. B. Nardi, La filosofia di Dante, Milano, 1952, pag. 91.
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politicità,pervenendo a un rapporto d’amore altruistico che è radicalmente diverso dall’atteggiamento dialettico ed esclusivo del dissimile dal Sé tetico. Accogliendo la Verità che è nell’Altro, la coscienza la riconosce come verità comune, anziché, secondo la modalità logico-politica, assorbire nella propria tesi l’antitesi dialettica. La visione razionalistica stabilisce un legame tra gli enti fenomenici fondato sulla corrispondenza del modello ideale di ente al suo ente singolare. Il significato razionale è quello conforme alla relazione ideale tra modello astratto ed ente concreto. Una relazione non concorde è una relazione “falsa”, e dunque irrazionale e meramente soggettiva. Il legame logico tra gli enti, essendo esclusivo di ogni senso immaginativo soggettivo e perciò opinabile, è un legame necessario, e non già libero. Logicamente non si può non-credere. La fede coincide con la logica stessa, come aveva ben compreso Anselmo d’Aosta. Su questo presupposto il razionalismo si emancipa dal fideismo doxastico della conoscenza mitica per auto-costituirsi come pensiero assoluto e come tale “verità” necessaria e non opinabile. Nella dimensione di coscienza razionalistica, la necessità della relazione coincide con la sua universalità. Uni-versale vuol dire pertanto necessario per tutti coloro che pensano in maniera logica. Il regno della logica è il regno della necessità. La necessità universale è la “legge” normativa del cosmo naturale e umano. Su tale premessa è possibile per il razionalista conformare la spontaneità umana alle leggi della natura, al fine di integrare la coscienza umana nel cosmo universale. Il rapporto tra individuale e universale viene inteso nei termini della corrispondenza del particolare contingente al generale necessario, per cui è possibile – acquisendo teoreticamente la conoscenza dell’universale eterno e perfetto – imitarlo storicamente. L’ontologia razionalistica è ispirativa di una conseguente deontologia. La coscienza sensibile conosce il particolare, l’empirico e contingente ente, mentre l’intelletto speculativo conosce l’Idea universale, il concetto. Nella cosmologia classica non vi era altra libertà che quella di conformarsi alla necessità cosmica. Ma allora perché l’uomo era refrattario a cedere all’istinto vitale e resisteva allo spontaneismo delle altre specie? Qual era la natura dell’ “irrazionale”? A questo punto si inserisce la prospettiva cristiana, che chiarisce il limite insuperabile del razionalismo filosofico classico (e di quello neo-classico o moderno),che trasfigura l’anelito
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all’universale della coscienza umana nei termini del modello ideale dell’ente, non riuscendo per tale via a darsi ragione della libertà umana, intesa come deviazione, ignoranza e aberrazione dal retto sentire del Logos filosofico. Per cui, ciò che è propriamente umano – la libertà, ossia l’intenzione – veniva stigmatizzato come elemento spurio del sistema normativo dello spirito razionale quale pathos irrazionale, senza considerare che quanto appariva fantasticheria o aberrazione dell’immaginazione costituiva ciò che emancipava l’uomo dalla necessità naturale, facendo della sua esistenza una “storia” unica e singolare all’insegna della libertà, ossia della disposizione spirituale irriducibile alla necessità naturale di concepire un mondo disegnato a sua immagine e somiglianza. “Concepire” è l’attività teoretica di astrarsi dalla realtà sensibile; ma non per rifletterla nell’Idea, come pensavano gli idealisti, bensì per integrarla di ciò che la Natura era sprovvista: la relazione significativa. Il mondo umano, diversamente dallo habitat naturale, è una realtà significativa, un mondo dotato di senso da parte dell’uomo attraverso la parola. La parola offre ed esprime il senso della realtà, non solo il significato del mondo attraverso i concetti strutturati in modo paradigmatico,251 ma anche la sua destinazione. Il mondo strutturato dalla parola cristiana non è più soltanto la realtà del discorso razionale, secondo le forme istituzionalizzate della società politica, ma diventa il luogo dell’attesa del compimento e della preparazione dell’apocalisse finale di Cristo. Tale movimento lineare, indicato da K. Loewith nella sua opera del 1949 Meaning in the History, come una “frattura epocale” consistente nello “allontanamento dal cosmos pagano dell’Antichità e dalla sua struttura ciclica protettiva e l’adesione all’azione temporale unica di tipo biblicocristiano”,252 in realtà, a seguito della teologia politica eusebiana elaborata dal cattolicesimo romano, perse di pregnanza escatologica a favore di una sua trascrizione in termini secolaristici legata appunto alla esigenza di pervenire alla rappresentazione di un disegno soteriologico interno alla storia universale di senso politico, la cui preminenza viene pertanto 251
E. Hoffmann, Platonismo e filosofia cristiana (1960), tr. it., Bologna, 1967, pag. 150. 252 H. Blumenberg, Op. cit., pag. 34.
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accordata, alla maniera classica, al mondo naturale delle relazioni sociali, assegnandole di un indeterminato finalismo escatologico. Come il Logos platonico sorge dal Nulla dell’opinione comune ( ), così il senso della Storia cristiana costituito dal Logos-Christos, nasce dalla pre-istoria della civiltà pagana rappresentata dall’Imperium romano. Il fondamento mitico della nuova rappresentazione cosmologica cristiana è la Rivelazione, dalla cui fede si sviluppa il discorso cristologico della Chiesa, la comunità di fede () nel Cristo e “pietra” teologica su cui si fondano le rappresentazioni metafisiche ( ) della civiltà cristiana. Rimosso modernamente il presupposto dokematico della rappresentazione teologico-politica della civiltà cristiana, ossia il fondamento di fede di cui le rappresentazioni razionali della teologia sono elaborazioni oggettivate, il residuo della demitizzazione cristiana è il mondo naturale pagano ma desacralizzato, nichilista. Il nichilismo moderno nasce dal processo di demitizzazione proprio della cultura cristiano-razionalistica della sua credenza fondamentale, la , l’orizzonte di fede della comunità dei credenti, nella cui persistenza si sono determinate le particolari elaborazioni teologiche dei pesatori cristiani, ognuna delle quali, se recepita, acquistava valore significativo interno al patrimonio comune tradizionale.253 È appena il caso di aggiungere a coronamento del discorso che la elaborazione del patrimonio teologico cristiano in chiave demitizzante è stata consentita dalla fruizione di uno stesso armamentario teoretico, quello del razionalismo greco, comune tanto alla teologia quanto alla filosofia critica; ed è proprio da questo inveramento razionalistico moderno del patrimonio tradizionale che si è sviluppata l’idea di un “progresso” gnoseologico quale “futuro immanente” all’orizzonte dogmatico tradizionale, indicativo, col miglioramento, della stessa continuità, che avvalora la tesi che “senza il Cristianesimo l’età moderna sarebbe impensabile”.254 Allorquando la speranza escatologica viene, per Abbiamo indicato come la singola teoresi teologica, per distinguerla dalle elaborazioni metafisiche della filosofia razionalistica. 254 Ivi, pag. 37. “L’autoparagone con le auctoritates dell’Antichità e la riflessione sul metodo con cui questo paragone poteva essere deciso positivamente a favore di ogni presente furono i punti di partenza più efficaci dell’idea di progresso”: Ivi, pag. 39. 253
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così dire, istituzionalizzata nella forma eccesiastica, attraverso la fusione sincretistica della comunità spirituale con quella politica, il finalismo soteriologico si riveste di mondane strutture socio-politiche, manifestando la sua coerenza ideo-logica come progresso oggettivo di attese di salvezza mondana esaudite. Dalla dismisura dei due termini nasce l’utopismo, connaturato alla prospettiva idealistica del rispecchiamento reale del modello ideale e surrettiziamente riconfermato in ambito razionalistico cristiano come tensione politica progressista.255 La deviazione naturalistica intrinseca al passaggio dalla visione escatologico-religiosa a quella politico-progressista consiste nella trascrizione dell’idea di salvezza spirituale individuale in termini etici collettivi. Ma questo stesso passaggio non sarebbe stato possibile senza una previa assunzione teologica del concetto razionalistico di universalità, giustificativo della posizione storica della Chiesa come unità politicoreligiosa. L’unione ecclesiale attraverso la fede in Cristo viene rappresentata mondanamente come unità imperiale sotto il Cesare cristiano, rendendo possibile l’analogia tra la conversione spirituale personale e la salvezza collettiva, dove l’intenzione singolare acquista le proporzioni di volontà socio-politica. La ”idea del metodo” è proprio della dimensione teoretica del razionalismo filosofico, esercitato sulla Storia interpretata come Natura. Infatti se la Provvidenza divina rimane imponderabile in quanto inerente la singola disposizione delle anime nei riguardi di Dio, la Storia come processo naturalistico contiene sue proprie leggi di sviluppo razionale che l’uomo ha da individuare e nelle quali inserirsi. In questo senso il metodo “non è una trasformazione del piano di salvezza divino, ma la produzione della disposizione del soggetto a partecipare in sua vece a un progetto che fornisce conoscenza in modo trans-soggettivo”,256 ossia appunto universale, e perciò potenzialmente “infinito”. Ciò che dunque appare a Blumenberg come una questione di appartenenza originaria del patrimonio teologico cristiano, contestando la quale si perverrebbe a una “riscoperta, indipendente dal Medioevo, dell’Antichità”,257 in realtà è una questione di identità culturale, relativa 255
Ved. R. Koselleck, Kritik und Krise (1959), cit. da Blumenberg, Ivi, pag. 38. Ivi, pag. 39. 257 Ivi, pag. 45. 256
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alla ammissione della premessa mitica in senso sociologico-naturalistico pagano ovvero spiritualistico-trascendente cristiano. Entro questa opzione identitaria, che la teologia cristiana aveva creduto di scongiurare mantenendola nell’orizzonte di coscienza della fede come dialettica tra ortodossia ed eresia, prende corpo la relativa mito-logia letteraria propriamente moderna. L’estensione al mondo politico - mercé il metodo universale della ragione naturalistica - della prospettiva escatologica riservata alla salvezza individuale, non ha propriamente “storicizzato l’escatologia” (Bultmann), poiché la Storia stessa nasce all’atto della destinazione teleologica del percorso spirituale in senso cristiano, ma l’ha trasformata in destino mondano collettivo extra-ecclesiale. Soltanto l’unità storica della Chiesa e dell’Impero poteva garantire l’immanenza di un processo soteriologico altrimenti individuale ed ecumenicamente non disponibile dall’uomo ma riservato al trascendente disegno provvidenziale. Con la disintegrazione dell’unità imperiale cattolicoromana l’attesa messianica acquista rilievo politico, alimentando la dialettica tra religioso e secolare tipica del cristianesimo europeo medievale, contenuta fino alla Riforma all’interno dell’orizzonte tomista. La crisi dell’unità ecclesiale alimenta spinte messianiche di carattere politico, tese a scongiurare katechonticamente la completa deriva secolaristica relativa alla perdita di controllo religioso dell’ecumene imperiale. La mondanizzazione della tensione escatologica deriva dalla dissolvenza dell’unità imperiale e dalla divaricazione culturale e istituzionale della polarità di fede e ragione, diventando ognuno dei due termini connotativo di opposte ed indipendenti istanze universalistiche in conflitto esclusivo. Moderna non è la dialettica tra fede e ragione, ma la loro separata universalizzazione razionalistica, che le ha rese astratte dalla loro originaria unità teo-logica. 3. Con l’assolutizzazione dei poli dialettici, gli “eventi decisivi della salvezza” si delocalizzano dalla sfera spirituale, entro la quale li conteneva l’orizzonte dell’ortodossia cattolica, alla sfera politica, sì che, a fronte della compiutezza personale intervenuta col battesimo, il compimento soteriologico collettivo diventava una missione da compiere attraverso un progetto politico che implicava l’investimento di risorse di stretta economia mondana. Dal divario tra i due momenti, personale e
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collettivo, nasce la “delusione escatologica”, 258 che assumerà connotati storico-politici alla dissoluzione progressiva dell’Impero cristiano, manifestandosi come delusine sociologica. La salvezza di ognuno, assimilandosi alla salvezza universale, sposta il momento escatologico all’interno della Storia, assegnando alla fattualità umana la compiutezza collettiva dell’ultimo giorno delegata alla Provvidenza, anticipandone così con il disegno apocalittico la stessa parusia. Attraverso la lettura razionalistica della Storia della salvezza umana, la preghiera della Grazia diventa riflessione metodica funzionale agli scopi contingenti, il cui risultato storico provocato dall’ingegno umano può esautorare il ruolo divino all’atto stesso di emanciparlo dal significato di fede, secolarizzandone il valore in termini di risultati economici oggettivi. Lo stretto rapporto tra secolarizzazione dei significati trascendenti in valori economici e metodica scientifica avalutativa della società capitalistica spiegata da M. Weber, non è spiegabile fuori dell’originaria rappresentazione teologica della storia umana, che consente che l’attesa di Dio come evento in interiore homine si manifesti come factum prodotto di ragione, che perde il suo carattere di ineffabile illuminazione singolare per acquisire quello dell’impersonale riproducibilità tecnica. La ragione divina, diventata ragione strumentale, trasforma la Storia della salvezza in storia delle conquiste tecnologiche, collegate indissolubilmente al potere autonomo dell’uomo emancipato dalla dipendenza divina. Negare il rapporto ideale tra progresso tecnicoscientifico e secolarizzazione culturale significa perdere di vista la dinamica sottesa al rapporto tra fede e ragione, costitutivo della civiltà europea. Se ciò che trapassa non è il mondo, che resta ancorato ai suoi cardini naturali, ma il movimento della coscienza spirituale, l’evento salvifico, pur situato nel passato storico, costituisce un futuro per la coscienza che non ha conseguito la fede. La dislocazione del tempo della coscienza, della storia spirituale, nel tempo fenomenico della storia mondana, denuncia sempre un ritardo tra l’evento escatologico e il tempo della compiutezza universale preludio dell’apocalisse. Questo il senso dell’avvento del “tempo della salute” nei due tempi: il presente dei 258
H. Blumenberg, Loc. cit., pag. 49.
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Vangeli di Luca e di Matteo, e nel futuro regno di Dio del Padre Nostro. Diversamente dalla concezione apocalittica giudaica e giudeo-cristiana, 259 che dava all’annuncio un carattere di imminenza cronologica, nella concezione cristiana tradizionale la storia della salvezza viene “identificata concretamente con la storia della comunità ecclesiale”, 260 sicché la determinazione secolaristica del corpo mistico ecclesiale come comunità etico-politica consente la traslazione del senso escatologico dal piano religioso a quello civile, entro il quale la promiscuità del genus humanum genera una dialettica tra compimento cristiano-comunitario e conversione dei pagani che differisce i tempi del compimento alla volontà divina e rende più pregnante il ruolo della Chiesa come realtà stabilizzante. E’ la concettualizzazione della Chiesa come realtà istituzionale – ente giuridico in quanto di ragione – a promuovere l’ideazione di un modello oggettivo di realtà collettiva, la cui fruizione metodica in senso secolaristico diventa l’umanità dell’Impero e il popolo dello Stato nazionale. Questo sdoppiamento del modello teologico religioso nel modello laico profano è insito nella struttura del pensiero della Chiesa come , che è la forma razionalizzata della “memoria” religiosa quale fonte di fede costituito dalla comunità dei credenti attraverso la sua tradizione storico-culturale. La “memoria” era per Scoto la fonte da cui emana il linguaggio intellettuale, la facoltà che lo produce. E come la memoria si pone tra l’immaginazione e l’intelletto, stabilendo un vincolo di rapporto e di comunicazione tra la coscienza singolare e la comunità dei parlanti, la stessa funzione mediatrice, sul piano sociale, viene esplicata dalla istituzione ecclesiastica, che custodisce la memoria collettiva regolando e indirizzando l’orizzonte religioso tradizionale, il depositum fidei. Nell’ambito della comunità cristiana, l’istituzione della memoria è dunque la Chiesa, la quale, come è interna alla ecclesia mistica, così come Cristo è a un tempo il Figlio di Dio e il Figlio dell’Uomo. Le due distinte ma congiunte nature non vanno confuse, sicché quando la Chiesa perde il suo carattere 259
Sulla apocalittica giudeo-cristiana, ved. J. Daniélou, Théologie du JudéoChristianisme. Histoire des doctrines chrétiennes avant Nicée (1964), tr. it., Bologna, 2016, pagg. 171-195. 260 V. Loi, Le origini del cristianesimo, Roma, 1993, pagg. 62 e sgg.
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carismatico e mistico per concentrarsi su quello politico e istituzionale, stabilisce un rapporto col mondo di tipo secolaristico, costituendo una immagine storica di sé come potenza mondana. Ma la duplice rappresentazione di sé come corpo mistico e come , è intrinseca alla stessa concezione cristologica. 261 La Glorificazione, cioè l’ascensione al Padre, parte dall’umanità di Gesù e giunge alla divinità del Cristo, perciò la resurrezione diventa l’annuncio centrale della salvezza che prefigura il rapporto finale tra Dio e il mondo nella fase estrema della glorificazione. Questo aspetto è caratteristico della religiosità orientale. Il punto di vista della Incarnazione parte dal prologo di Giovanni, per cui il Verbo si è fatto carne (Verbum caro factum est), e accentua la funzione della liberazione dal peccato e la salvezza dell’uomo da parte del Redentore, nuovo Adamo. In questa funzione soteriologica, propria della concezione occidentale, viene accentuata la natura volitiva dell’amor Dei come ratio volendi, in virtù della quale la missione evangelizzatrice del testimone della fede acquista una rilevanza operativa che implica un rapporto pre-fideistico con l’antagonista dialettico suppostamente non credente. Da qui la necessità della rielaborazione dei contenuti della fede svolta in termini comprensibili all’intelletto umano, al fine di renderlo plausibile oggettivamente, al di fuori della fede stessa nella verità della Incarnazione. Ma proprio in questa opera di razionalizzazione dell’evento scritturale possiamo assistere al tipico movimento intellettuale che caratterizzerà la cultura umanistica moderna. Infatti, il tentativo teologico di giustificare razionalmente il Mistero, rappresenta il cedimento della 261
“Gesù Cristo è uomo e Dio; umanità e divinità coesistono in Lui: a seconda che si guardi dal punto di vista della divinità o dell’umanità del Cristo, si può cadere nell’unilateralità con le relative conseguenze sul modo di vedere come coesistono umanità e divinità in Cristo. E difatti la cristologia nella sua evoluzione storica s’è sviluppata secondo una duplice direzione […], così ne è risultata una linea di pensiero, in cui ha dominato il punto di vista della glorificazione del Cristo, precedendo dal ‘basso in alto’; ed un’altra, in cui ha dominato il punto di vista dell’Incarnazione, con un procedimento dall’ ‘altro in basso’: Pietro da Nocere, Il primato di Cristo nel pensiero di Duns Scoto, in Giovanni Duns Scoto nel VII centenario della sua nascita, Napoli, 1967, pagg. 149-150. La terminologia di Cristologia “dall’alto in basso e dal basso in alto” è di H. Vogel, Gott im Christo, Basel, 1951.
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fede verso la sua rappresentazione filosofica, secondo una modalità tipicamente mito-logica già adottata da Platone. Il rischio intrinseco a tali rappresentazioni è che il presupposto della loro validazione razionale è la stessa fede che esse vorrebbero giustificare, per cui il venir meno della plausibilità razionale del Mistero di fede coinvolge inesorabilmente la stessa fondatezza del discorso teologico, che dal punto prospettico del filosofo appare mito-grafia religiosa. Se infatti Platone assume il mito in funzione del discorso logico, che interessa il filosofo, il quale dunque ne invera i contenuti nella sua oggettivazione razionale, il teologo cristiano, mutuando il metodo filosofico ma rigettando lo scopo cui è preposto, ossia la confutazione del mito, appare colui che strumentalizza il racconto razionale al fine apologetico. Nel caso platonico, si ottiene la narrazione mitica di una verità filosofica, il cui nucleo razionale può essere emendato di ogni rivestimento affabulatorio; nel caso teologico, si ottiene invece la elaborazione razionale della presupposta verità di fede, che priva la stessa fede dunque della sua fondazione, cioè di se stessa come verità, e dunque della ragione della sua verità, che è appunto quella della fede (intesa originariamente come Mistero e ora declinata metodologicamente come Mito) e non quella relativa alla sua plausibilità razionale, cioè alla capacità del racconto di essere credibile. Questa impostazione filosofica del costrutto teologico è risultata fatale per ogni dòkesis elaborata dalla metafisica cristiana post-agostiniana di influsso aristotelico, avendo delle ricadute sul piano etico contraddittorie dal punto di vista cristiano. Infatti, il Verbo è la gloria stessa di Dio attraverso l’unione della sua natura con quella del Cristo. Nell’azione del’artefice l’esecuzione rappresenta il processo contrario a quello dell’intenzione: nell’ordine dell’esecuzione la natura umana ha preceduto la gloria divina, mentre l’ordine dell’intenzione contempla prima la natura divina e poi quella umana. E’ molto interessante la inversione del processo intenzionale, dove la fine è preordinata rispetto all’inizio pratico, poiché ciò vuol dire che nell’intenzione il processo è astratto da ogni accidentale considerazione contingente, dovuta all’intervento dell’agente collettivo impersonale entro il luogo mondano del tempo secolare. La coscienza cristiana redenta trova nel mondo dominato dalla logica di Cesare il limite alla sua compiutezza storica, il senso cioè della sua finitezza rispetto alla
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posizione di Dio, dove non vi è differenza tra intenzione e volontà, tra pensiero e azione, tra tempo spirituale e durata cronologica, la cui distanza è all’origine della passione di Cristo, Uomo tra altri uomini. Ciò che patisce è “la carne”, ossia la realtà mondana all’interno della quale si pone la Chiesa storica, il cui interim terreno rappresenta l’immagine simbolica del Cristo, non già la Sua realtà divina. Infatti la dimensione terrena è segnata dal peccato originale della finitezza, dalla esistenza decaduta alla quale non può sottrarsi lo stesso Gesù, che muore in croce per congiungersi al Padre. La necessità della morte per la liberazione dalla finitezza corporale rappresenta il superamento della condizione mondana di attesa escatologica della resurrezione finale. Una resurrezione preventiva, in quanto l’evento escatologico è preordinato ab aeterno da Dio e anticipato dalla fede, che riempie il tempo intermedio manifestandosi come amore del prossimo,come solidale convivenza fra creature che anticipa in terra la condizione spirituale conseguita compiutamente post mortem nel tempo dell’unione mistica con Dio. e pertanto l’amore come manifestazione della fede nel futuro escatologico è il modo umano di testimoniare la condizione spirituale preordinata da Dio, ovvero il modo propriamente ecclesiale di testimoniare la fede in Dio nel tempo dell’attesa, nell’interim fra il “già” dell’evento kerygmatico e il “non ancora” della compiutezza escatologica. La “redenzione” dal peccato è dunque il passaggio attraverso il tempo terreno, culminante nella morte, che conchiude il ciclo paziente (della sofferenza) e schiude il tempo della libertà spirituale dalla finitezza storica del mondo. Nel tempo della transizione, il movimento spirituale della coscienza singolare incontra la volontà impersonale dell’Altro così come la testimonianza della Chiesa incontra la forza ostativa del Potere politico. La fede nella realtà finale, annunciata dall’eskaton cristico, è l’anticipazione soggettiva dell’apocalisse finale dell’ultimo giorno, che si manifesta come vicenda esistenziale nella temporalità dell’attesa, cioè come Storia dell’uomo singolo. La Chiesa, come corpo mistico dei cristiani, è la proiezione indebita dell’unione singolare con Dio e del corpus istituzionale costitutivo della sincretistica figura della , in cui coesistono in perenne equilibrio instabile l’istanza trascendente della conversione del cuore e l’esigenza politica di preservarsi mondanamente nel tempo dell’attesa.
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I due momenti della storia del mondo e della storia sacra s’intersecano all’interno di una medesima storia provvidenziale, i cui processi reconditi erano svelati solo ai profeti, ma mai “al di fuori degli stretti limiti delle Scritture”. 262 Ciò implicava che la storia della salvezza fosse già definita nella Rivelazione. Ciò che subentrava “dopo” partecipava comunque dell’evento soteriologico, a prescindere dalla parte che storicamente assumeva in senso conforme o contrario alla dottrina evangelica. La stessa istituzionalizzazione della tensione escatologica ubbidiva a questo spirito, anche se la conversione di Costantino, “seguita dalla cristianizzazione su larga scala della società nel giro di poche generazioni, sembrò trasformare drasticamente le condizioni dell’esistenza cristiana, e certamente in maniera più visibile del grande jato introdotto dall’Incarnazione”, il cui carattere politico così dirompente indusse molti “a credere che fosse iniziata una nuova era messianica”.263 Ma l’animus renascendi fu uno stato d’animo costante del pensiero cristiano, “dai suoi inizi, coi Padri della Chiesa, fino all’Umanesimo del quindicesimo secolo”,264 che tese a conservare la sapienza antica ai fini apologetici. Codesto innesto teoretico nella fede originaria, che era del tutto aliena da ogni necessità di completamento filosofico, va considerato parallelamente alla cristianizzazione dell’Impero, la cui gestione mondana richiedeva un orizzonte di coscienza sociologico che la conversione individuale non poteva considerare, rappresentando anzi una rottura con la logica del mondo. Proprio tale originario distacco dai valori profani, compreso lo stesso vero scientifico, dalla giustizia e dai valori estetici, forniva al cristianesimo una potenza sentimentale superiore a quella di ogni altra religione ellenistica, la quale poté essere investita sul piano della considerazione cosmica dell’escatologia,al di fuori di ogni “scappatoia scelta dal primo Cristianesimo per unire i vantaggi del messianismo irrealizzato con la certezza della fede nell’assoluzione già proclamata”, sospettata da Blumenberg.265 La “sostanza autentica delle 262
R.A. Markus, The End of Ancient Christianity (1990), tr. it., Roma, 2010 2, pag. 112. 263 Ivi, pag. 113. 264 E. Hoffmann, Platonismo, cit., pag. 137. 265 H. Blumenberg, Op. cit., pag. 52.
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concezioni escatologiche”,266 cristiane era soteriologica e non ineriva immediatamente alla salvezza del mondo, ma dal mondo. Ora, i termini di tale evento, storicizzati nella durata degli eventi secolari, assegnavano a fattori esterni alla coscienza personale un compito di redenzione universale ovviamente non disponibile ai singoli fedeli, e ciò fa del mondo una realtà concomitante con i processi spirituali, sia nel senso della interferenza che della possibilità funzionale. L’idea che il mondo fosse “condannato a perire”, non sorge dalla “delusione escatologica” di una fine annunciata ma non imminente, ma dalla nuova prospettiva fideistica della resurrezione post mortem che dilatava i tempi dello spirito ben oltre la finitezza della condizione esistenziale dell’uomo storico. Che la vita storica fosse “un episodio” della vita spirituale dell’uomo, non era un éscamotage dialettico ma costituiva il nucleo stesso della fede nella salvezza. La dicotomia tra mondano e non-mondano rappresentava la distanza tra la realtà infinta di Dio e la possibilità politica di Cesare di organizzare l’esistente intorno a giudizi di valore suppostamente e falsamente sacri ma in realtà destinati a soccombere di fronte alla Verità unica di ciò che era stato rivelato e non poteva essere ideato e costruito dall’uomo. La coscienza della Verità emancipava il mondo da sé stesso e dalla sua auto-affermazione, istituendo nella dimensione del tempo in cui si manifestava la volontà umana della cultura pagana la presenza divina del Redentore, che privava il tempo della sua previa assolutezza. La fede che il mondo non fosse auto-sufficiente e quindi abbandonato alla volontà dell’uomo, non esautorava questi da una sua testimonianza attiva, né il Potere dalle sue responsabilità di presa di coscienza, ma stabiliva un nuovo rapporto tra Verità e possibilità umane che assegnava di conserva una nuova interpretazione dell’esperienza religiosa, non più intesa come funzionale all’ordine politico, ma considerata come propedeutica alla vita eterna. Non sono due realtà che si fronteggiano come due istituzioni storiche, quali la Chiesa e l’Impero, ma due dimensioni che coesistono all’interno di uno stesso processo soteriologico, che per i cristiani era consapevole e non misterioso. Il Mistero, attinto con la fede, acquista valore di Verità, a partire dalla quale e all’interno della quale è possibile ridefinire l’esperienza umana anche in termini razionali. Ciò che invece 266
Ivi, pag. 53.
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rappresenta una rinuncia alla Verità è l’assunzione del metodo razionale come alternativo al Mistero, inteso modernamente non più come fonte veritativa ma come Mito anti-tetico al discorso filosofico. Ed è facile comprendere come l’assolutezza del metodo razionalistico sia parallelo alla leggibilità del mondo come storia profana, tornata ad essere universo conchiuso che abbia in sé le sue intrinseche ragioni di esistenza. Il “progresso” scientifico moderno misura la distanza di tale emancipazione dalla Verità originaria, rivoltando specularmente la prospettiva cristiana che poneva l’assolutezza del mondo pagano come premessa temporale e cognitiva del processo veritativo subentrato con la Rivelazione. Nella coscienza rinnovata dal messaggio evangelico, il processo storico assume una valenza assiologica prima ignota o solo lambita da alcune coscienze filosofiche, non trovando più l’anelito umano alla conoscenza nella sfida all’inconoscibile, al quale il sapere strappava un lembo di mistero, ma nella certezza (dogma) della fede nella Verità quale fonte originaria di ogni discorso gnoseologico. Nella prospettiva cristiana, la verità non è conseguita al termine del processo logico-discorsivo, ma ne è la premessa, tale che ogni possibile teorema esplicativo di senso razionale disegni un perimetro ermeneutico in cui l’inizio coincide con la fine, secondo un disegno circolare della coscienza che caratterizza anche il tempo escatologico dell’attesa e della fine, e che pone al centro della Storia l’evento cristico.267 La rimozione della premessa archetipa, il fondamento di Verità cristologico-trinitario, emancipa la coscienza moderna dalla dipendenza dal Padre. Questa liberazione dall’autorità paterna, perseguita come metodo razionale di analisi decostruttiva del Potere storico-istituzionale, acquista una valenza metodologica anche in ambito politico come ideologia dell’anti-ideologia, in cui la critica alla soggettività trascendentale del pensiero tradizionale (“umanistico”) si coniuga con l’istanza di “liberare ciò che era confinato nell’oscurità della notte”,268 mettendo alla luce la trama teoretica della corrispondente “politica della verità”, propria di una “società disciplinare”. 269 Stante il Sul rapporto tra l’e l’ nel Nuovo Testamento, ved. O. Cullmann, Christus und die Zeit (1946), tr. it., Bologna, 1980, pagg. 59-93. 268 M. Foucault, Les Mots et les Choses (1966), Milano, 1988, pag. 353. 269 Ved. R. Ciccarelli, Immanenza. Filosofia, diritto e politica della vita dal XIX al XX secolo, Bologna, 2008, pagg. 545 sgg. 267
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legame genetico tra la cristologia trinitaria e la teologia politica che a partire da Eusebio caratterizzerà l’organizzazione ecclesiale nel contesto imperiale nei termini della legittimazione cristiana del Potere, 270 e lo stretto legame stabilito dall’Editto di Tessalonica del 380 (Cunctos populos), che sarà in seguito incluso nel Codice Teodosiano, tra l’orbis romanus con l’orbis christianus,271 l’analisi decostruttiva del pensiero soggettivistico umanistico-cristiano implicava la critica radicale della struttura socio-politica della civiltà europea tout-court, la cui essenza totalitaria era già stata rinvenuta da Popper nella dialettica tra singolare e universale, la quale indubbiamente era il riflesso idealistico del rapporto teologico tra finito e Infinito. Il motivo razionalistico della liberazione dalla dominazione del Potere totalitario (da quello ecclesiastico a quello statuale, a partire dal dominio napoleonico) si convertiva implicitamente nella dissacrazione dello stesso Logos, anche nel suo precipuo senso tecnico-teoretico, originando un’esigenza riformatrice della dialettica tradizionale in nome della ragione storica, ossia della concretezza esistenziale. Il fallimento della prospettiva storicistica desacralizzata, compreso il tentativo hegeliano di riforma della logica antica, risiede nella impossibilità di concepire razionalmente un Tutto unitario, che rimaneva al fondo dell’aspirazione pan-logistica della Fenomenologia, senza ammettere la premessa convenzionale della Ragione come “unità di pensare ed essere”,272 che finisce per rappresentare perciò il processo avvenimenziale come una ricostruzione puramente ipotetica, e in quanto tale necessariamente inclusiva dell’errore/opposizione, l’elemento spurio che il discorso razionale aveva il compito metodologico di espungere dalla realtà significativa. Da qui l’aspetto fantasioso e arbitrario di ogni récit moderno agli occhi del pensiero decostruttivo, che nell’atto di voler esplicare in termini razionali la realtà fenomenica, ne confermava la sua natura apparentemente caotica, perché la riconosceva priva di fondamenti incontrovertibili e destinati a essere superati da nuovi punti di vista. Non 270
Ved. P. Brown, Potere e cristianesimo nella tarda antichità, Roma-Bari, 1995. Ved. G. Ruggieri, Cristianesimo, chiese e vangelo, Bologna, 2002, pag. 41. 272 Ved. H.G. Gadamer, La dialettica dell’autocoscienza, tr. it. in La dialettica di Hegel, Genova, 1996, pag. 61 passim. 271
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rimaneva altro che sancire nichilisticamente la rinuncia a ogni pretesa totalitaria della ragione, la cui azione circoscritta alla dinamica epistemologica della congettura euristica e della smentita empirica confermava indirettamente la inconseguibilità concettuale di una visione unitaria del mondo e dunque di un “giudizio universale” secolarizzato. La “libertà” umana di ascrivere alla Ragione – quale tecnica filosofica, o logica – la possibilità metodologica di creare il mondo a immagine di un archetipo ideale, è il peccato gnostico già da Agostino indicato come stigma del peccato antropologico di non voler tener conto della realtà cosmica di Dio. la buona volontà dell’uomo consisteva dunque nello sforzo di arginare gl’impulsi malefici attraverso opere di bene, correttive della sua condizione morale originaria. “La concezione [moderna] di progresso, richiede la reversibilità del rapporto di condizionamento tra mali morali e mali fisici; essa si fonda sull’ammissione che in un mondo migliore sarebbe più facile essere migliori”.273 Ma il rapporto tra dimensione morale (valore assoluto) e realtà mondana (finitezza ontologica) è esso stesso da giustificare razionalmente se si vuol stabilire un nesso di inferenza reciproca tra due dimensioni altrimenti incommensurabili al di fuori della mediazione divina. Proprio l’impossibilità di stabilire tale rapporto in termini razionali ha provocato la reazione alle tradizionali forme teo-logiche di rappresentazione del mondo, accomunate a questo da un complessivo giudizio di disvalore. La negatività assoluta, perché divina e non umanamente redimibile senza l’intervento della Grazia, della condizione umana, assegna all’uomo una responsabilità relativa ma moralmente cogente in quanto imago Dei; mentre la negatività relativa, legata alle contingenti e reversibili condizioni storiche, assegna di contro all’uomo una responsabilità volontaria ma assoluta: quella appunto di riformare il mondo in quanto possibile. E la possibilità derivava all’uomo dal principio della ragion sufficiente, escluso sempre dai pensatori cristiani e introdotto modernamente da Leibniz, ossia dalla comprensibilità del disegno divino, confermata tanto dalla inclusione hegeliana del negativo nella sintesi concettuale quanto dalla esclusione del fondamento mitizzato del Mistero dal metodo della conoscenza storica. Il negativo logico, riflesso teoretico 273
H. Blumenberg, Op. cit., pag. 59.
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del male morale, essendo partecipe del processo razionale dello Spirito (Geist), “venne visto come manifestamente necessario e utile”, sicché “il divieto di fare del male perse la propria evidenza”.274 Vi è da dire che la giustificazione razionale della volontà divina non fu una invenzione di Leibniz ma è un portato del razionalismo greco ereditato dalla teologia cristiana, che a partire da Gregorio di Nissa (335395) ha tradotto in termini concettuali la verità rivelata (De vita Moysis). Dio infatti per Gregorio, avendo creato l’universo razionalmente, nel suo Logos, avrebbe perciò reso intelligibile il mondo.275 Essendo molti cristiani dell’età imperiale dei convertiti che avevano ricevuto una prima educazione pagana, anche all’interno della tradizione cristiana gli autori usufruirono di metodiche mutuate dall’esegesi invalsa nella tradizione pagana, come “l’impiego dell’allegoresi,, assunta dai cristiani per spiegare soprattutto il testo dell’Antico Testamento, così come i loro colleghi pagani facevano, in quegli stessi anni, con le opere di Omero”. 276 È la prima opera di demitizzazione condotta dal pensiero cristiano sui testi veterotestamentari, considerati alla stregua degli antichi miti pagani, teorie cosmologiche, inverate dalla fede nel Logos cristico. Solo Agostino, con la sua teoria della illuminazione, spiega la conoscenza diretta delle verità eterne in modo diverso dalla ratio che discorre delle cose sensibili e su cui si fonda la scientia. Con la prova ontologica di Anselmo d’Aosta Dio viene pensato come un ente, ossia id quod magis cogitari nequit, a cui perciò appartiene l’esistenza. Infatti, ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere soltanto nell’intelletto: se fosse nel solo intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà: il che sarebbe qualcosa di più […] Ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esiste dunque indubbiamente e nell’intelletto e nella realtà.277 274
L. Strauss, Natural Right and History (1950), cit. in H. Blumenberg, Op. cit., pag.
61. 275
Ved. S. Vanni Rovighi, Storia della filosofia medievale. Dalla patristica al secolo XIV, Milano, 2006, pag. 12. 276 E. Dal Covolo-E. Vimercati, Filosofia e teologia tra il IV e il V secolo, Roma, 2016, pagg. 70-71. 277 Anselmo d’Aosta, Proslogion, tr. it. di M.T. Antonelli, Torino, 1956, pagg. 9-10.
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La conoscenza opera per astrazione, e in ogni concetto è implicito quello di essere, per cui la conoscenza dell’essere imperfetto implica quella dell’Essere perfetto, che non può aversi per esperienza o cognizione, ma solo per illuminazione divina. Sul principio aristotelico per cui ogni scienza presuppone l’esistenza del suo oggetto si fonda la dottrina razionale su Dio, la teo-logia. Con la conversione della illuminazione agostiniana in termini di univocità concettuale, Duns Scoto stabilisce la correlazione tra Dio e concetto filosofico di ente infinito, di cui bisogna dimostrare l’esistenza. Se qualcosa esiste è in virtù del prodotto da cui deriva, e non potendosi procedere all’infinito, occorre presupporre una causa prima, che è verità necessaria per pensare alla possibilità che qualcosa sia anziché non. L’accertamento della realtà dell’ente (res effecta) è il prodotto della cognizione pratica, mentre la conoscenza della possibilità (res effectibilis) non è legata alla verifica empirica della sua attualità, ma all’intuizione delle essenze, logicamente anteriore alla conoscenza di qualunque fatto, per cui “avere la nozione di essere non vuol dire per Duns Scoto cogliere il significato intelligibile di un fatto, ma intuire un intelligibile indipendentemente dal sensibile. Sulla intuizione della necessità del possibile si fonda la dimostrazione della necessità della causa (del fondamento della possibilità): se è necessario che qualcosa sia possibile, è necessario che sia possibile una Causa prima”, la quale dunque, “se è possibile, esiste”. 278 Ed è in Scoto l’origine della tesi di Leibniz formulata nella Monadologia (§§ 42-45) e ammessa quindi da Kant come l’unica prova ontologica valida di Dio. La theo-logia, quale scienza di verità necessarie, pur fondata su una evidenza originaria e intuitiva che non ha bisogno di essere dimostrata, procede attraverso il metodo filosofico, sviluppando il quale Ockham anticipa Kant nella distinzione tra la notitia intuitiva, che implica l’evidenza dell’esistenza dell’oggetto e a qua incipit notitia experimentalis, e la notitia abstractiva, che prescinde dall’evidenza ma presuppone sempre la conoscenza intuitiva, la quale, come riprenderà Croce, può anche essere fallace e inerente a realtà non esistenti. Identificata l’astrazione concettuale con la conoscenza universale, 278
S. Vanni Rovighi, Op. cit., pag. 135.
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l’intelletto diventa la sede della elaborazione dell’universale, ovvero come dirà Averroè e confermerà Tommaso, “intellectus est qui agit universalitatem in rebus”. La conoscenza vera è il giudizio. Il verum è una relazione tra l’oggetto e la conoscenza, assegnata dallo est, che designa non già l’esistenza ma l’esse verum, ossia un modo di realtà “La relazione di valore propria della copula, cioè lo esse quale relazione fra soggetto e predicato, si rivela come l’autentico portatore della verità”. Ne consegue che tale relazione non inerisce a una datità ontologica, poiché nell’oggetto di giudizio il contenuto è solo virtuale e non apporta niente di nuovo relativamente alla cosa, ma stabilisce una realtà valoriale, cioè “una conoscenza che ha valore”; valore di verità. E pertanto, “il vero si costituisce nella conoscenza”. 279 In virtù della conoscenza, la realtà è dotata di senso oggettivo. La distanza tra la realtà oggettiva (ens rationis) conosciuta mercé il giudizio (ens cognitum), e la realtà in sé (ens naturae) è nella natura irreale dell’ens logicum, il quale è ens in anima e perciò diminutum rispetto alla realtà di natura che possiede “l’effettività propria dell’esistenza reale”, ossia “un accadere, sorgere e perire, di processi e avvenimenti” cui si possa applicare “la categoria della causalità” 280 La prima intentio della conoscenza naturale costituisce un ambito di coscienza del tutto diverso da quello predisposto dal pensiero atto a conoscere il suo oggetto. Questa modalità mediata è la secunda intentio, nel cui ambito “c’è per noi solo un sapere intorno agli oggetti”. 281 Ora, la caratteristica di tale intentio è la sua portata universale, consistente nella “convertibilità dell’ens logicum con gli oggetti”, e più decisivamente nella proprietà per cui “ciò che è un oggetto può divenire sempre un ens diminutum”: quidquid enim est simpliciter ens, potest esse ens diminutum. E ciò comporta di conseguenza che “solo quando vivo in ciò che ha validità, so qualcosa di ciò che esiste”.282
279
Ved. M. Heidegger, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus (1916), tr. it., Milano-Udine, 2015, pagg. 97-102. 280 Ivi, pag. 107. 281 Ivi, pag. 110. 282 Ivi, pag. 111.
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l'atto coscienziale di universalizzare consiste nel convertire le cose finite in oggetti privi di finitezza. Universalizzare significa astrarre dalla finitezza e rappresentare il fenomeno come in-limitato, come ciò-chenon-è finito e limitato, e dunque portare l’essere di natura a al non-esserereale della conoscenza logica. Ma astrarre l’ente dal divenire, emancipandolo da ogni rapporto causale, significa assolutizzare l’immagine ideale dell’ente e vederlo come uni-versale, concependolo come valore privo di divenire, come ente assoluto, liberato dal processo naturale-per-la-morte, e perciò eterno. Universalizzare è dunque immaginare l’ente astratto dal suo divenire. Questa operazione astraente equivale a fare dell’ente un Mito, ovvero della realtà concreta una rappresentazione astratta dal suo rapporto con la natura, attribuendole un valore assoluto e perciò positivo. La narrazione logica del processo coscienziale di tale positività è la filosofia. L’autonomia della filosofia come scienza metodica consiste nella universalizzazione del suo principio gnoseologico (la conversione dell’ente naturale in ente di ragione) e del suo postulato teoretico (la validità è la conoscenza stessa). Il criterio della “validità”, sostitutivo a quello della “verità”, è un portato della gnoseologia scientista moderna, ma la determinazione della sfera di senso logico degli oggetti reali risale appunto a Scoto. Col metodo logico la realtà “viene differenziata, delimitata e ordinata. Ciò che crea l’ordinamento ha il carattere di forma [e] la forma che conferisce l’ordinamento , propria dell’elemento logico, è il giudizio” (predicari), la cui possibilità è legata alla sua validità. Col giudizio dunque “otteniamo la conoscenza”.283 Dunque il valore di conoscenza relativo agli oggetti delle categorie di pensiero logico è determinato dal giudizio, che consiste in una asserzione univoca, di carattere intenzionale. In tal senso, predicari est intentio. Ossia, “il momento che determina l’ordine [formale] e che caratterizza l’ambito logico è l’intenzionalità”.284 Se la questione gnoseologica finisce in età moderna a soppiantare la tradizionale metafisica e la stessa teologia è dominata dalla concezione scientistica di un Dio assimilato cosmologicamente alla Legge 283 284
Ivi, pagg. 111-112. Ivi, pag. 113.
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dell’universo, è perché è intervenuto uno spostamento semantico dal significato originario di intentio. Questa equivale in origine a intimo convincimento interiore, ovvero a quella che Agostino chiama “intenzione dell’animo” (intentio animi) per distinguerla “dalla verità o falsità delle cose in sé”,285 oggetto della ratio, il cui corrispondente ens rationis secondo Scoto “non dependet ab anima”, come invece l’ens naturae del primum modum, che costituisce solo l’occasio che movet intellectum, il quale a sua volta è principali causa intentionis.286 Ed è appunto la intentio relativa all’ens naturae a fondare l’autodeterminazione originaria della coscienza costitutiva della verità di fede; questa intenzione, che ha per oggetto l’ente naturale e nel cui ambito cognitivo vige l’analogia, è ben diversa dalla volontà, il cui verum è stabilito sulla base di un costrutto logico univoco e razionalmente necessario. 4. L’analogia fruisce di un discorso simbolico, che riguarda l’Altro come referente molteplice e vario, senza il quale la de-finizione del Sé resterebbe in-possibile. Il Sé analogico si definisce nel riportamento simbolico continuo agli altri. Il discorso logico riguarda invece l’Altro elettivamente, e dunque univocamente, poiché soltanto l’opposto razionale è scelto come alterità significativa ai fini della definizione del Sé tetico. Distratto dal proprio opposto, il Sé muta posizione, diventando a sua volta altro-da-sé, ossia diverso. Il diverso è un altro Sé, una antitesi, la cui realtà, come è chiaro dal Sofista di Platone, contrasta l’esistenza del Sé, che ambisce ridurlo al proprio opposto negativo. La logica lotta contro la diversità intesa come opposta. Il discorso filosofico espunge dal caos delle interpretazioni il senso univoco della realtà, quello logico, de-finendola in opposizione al Molteplice. La realtà naturale, molteplice e contraddittoria ma coesistente in una in-forme datità originaria, diventa l’Altro da negare per affermare l’univocità del Sé logico, della forma de-finitoria. La Negazione, e non più il Molteplice, acquista valore di Limite in-razionale. Ma poiché il Molteplice è rimosso dalla realtà concreta a favore dell’univoco, il sé univoco si rappresenta 285 286
Agostino, De mendacio, 3.3, tr. it. di M. Bettetini, Milano, 2010, pag. 31. M. Heidegger, Op. cit., pag. 112.
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come uni-versale reale, ossia l’Assoluto che non ammette alcun Altro da sé. In questo senso il monoteismo si presta al discorso filosofico di senso universalistico, ma al costo di negare la creazione divina, l’Altro appunto, che Gesù indica come il Prossimo. Il Prossimo è l’Altro come diverso ma non opposto. Ma perché l’Altro non sia considerato come un opposto – e dunque come un nemico politico -, occorre che rientri nel discorso simbolico, che non rientri ovvero che si emancipi cioè dal discorso logico. Ciò farebbe cadere, con la Teo-crazia unitaria, anche ogni omologa Teo-logia, ossia ogni discorso logico su Dio, il Quale non andrebbe più giustificato con l’ausilio mediatore della Ragione, ma con la misericordia. Si avrebbe uno spostamento di senso del Limite dalla sfera mondana, dominata dal Logos-polemos, alla sfera celeste, dove regna Amore. In tal modo, l’unicità del Pantokrator sarebbe trasvalutata evangelicamente nell’unità spirituale mistica, che non si afferma per negazione dell’Altro ma per inclusione del diverso. Sin dalle origini del razionalismo, con Socrate, il Limite morale è inteso come controllo e ripudio degli istinti belluini naturali attraverso l’uso della ragione, cioè della conoscenza, che caratterizza l’uomo. “Lo stato naturale”, afferma Callicle nel Gorgia, “è quello in cui il forte dà libero sviluppo alla sua potenza e vive abbandonandosi alle proprie brame”. 287 La Ragione doveva stabilire un Limite insuperabile tra il male e il Bene, il vizio e la virtù, ma essendo unito l’uomo alla stessa dipendenza naturale degli déi, alla stessa logica immanente che ne presiede le regole immutabili, ecco che il confronto tra uomo e un dio dell’Olimpo è sempre esposto al “rischio di superare con presuntuosa temerarietà i limiti. Questa ambiziosa passione (ciò che i Greci chiamano hybris) l’Europa ha ereditato dai Greci (nonostante il cristianesimo, anzi in un certo senso potenziata dal cristianesimo) come un vizio contrapposto alle sue virtù, che ha sempre dovuto duramente scontare”.288 Questa traslazione è stata possibile in virtù della conservazione del senso greco del Logos come legge naturale universale, costitutiva della comune necessità cosmica, dalla quale la carità cristiana doveva emancipare l’uomo; e non la filosofia, che 287
B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it., Torino, 2002, pag. 256. 288 Ivi, pag. 60. Corsivo tra parentesi nostro.
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l’avrebbe invece adottata, liberatasi presto dalle superfetazioni erotiche del platonismo, evocate nel Simposio. La filosofia greca era essenzialmente dunque una fisica. Diverso l’atteggiamento cristiano, che affidando alla natura (anche umana) una relazione creaturale con Dio poneva nella trascendenza la modalità del rapporto con la verità, fondativo della stessa libertà quale concetto morale, e non politico, come era invece per i Greci. Per “indipendenza” dell’uomo dalla natura i Greci intendevano “la signoria dell’uomo su se stesso”, e, “in senso socratico”, essa significava “l’indipendenza dell’uomo dalla parte animale della sua natura. Questo però non è in contraddizione con l’esistenza di una superire legge cosmica nella quale anche questo fenomeno morale dell’autodominio dell’uomo trovi il suo luogo”. 289 Questa universale necessità cosmiconaturale costituiva lo stesso contenuto del pensiero, il cui rapporto logicomatematico verrà assurto in età moderna, e segnatamente da Spinoza, come giustificativo dell’esistente, in cui non c’è posto per la libertà. Il Dio-causa di Spinoza, come il dio-legge dei Greci, è la Natura stessa, in cui materia e spirito coincidono. E’ un dio cosmologico che, come ragione assoluta, niente ha a che fare col Dio-persona cristiano. L’interpretazione del Cristo come Logos ha perseguito il percorso filosofico della sapienza pagana, facendo della teo-logia il fine della filosofia. Ma poiché il fine razionale (telos) non è che lo svolgimento dell’inizio (arché), l’affinamento metodico del discorso filosofico ha coinciso implicitamente con la sua autonomia dal fondamento di verità rivelata, ossia con la sua scientificità, e dunque di converso con la avaluatività dei fini da parte della scienza. La rimozione metodologica del Principio e della Fine del sapere scientifico coincide con la autonomia della Ragione da ogni altra autorità. La ragione umana autosufficiente e fondata sopra se stessa stabilisce il fondamento economico della Politica, le cui opere possono rivaleggiare con la memoria mitica (Mnemosyne) e dunque fare a meno di ogni ricorso al divino. La teologia ridotta a cosmologia, trasforma il problema della verità in quello della conoscenza scientifico-razionale. Con Cartesio la filosofia 289
W. Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen (1934-44), tr. it., (Firenze, 1937-59), Milano, 2011, pag. 778.
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moderna non è più dottrina dell’Essere, ontologia, ma diventa scienza della conoscenza, gnoseologia. Ma questo movimento interno alla filosofia moderna è già inscritto nella dialettica del pensiero razionalistico antico. Il passaggio al moderno è contrassegnato da una significativa differenza, inerente la concezione dell’intenzionalità dell’azione. Infatti, in senso classico, la causa immanente all’azione (causa actio immanens) era quella che permaneva nella sua intentio, diversa dalla determinazione esterna della volontà che si manifestava come azione (causa transiens). In senso moderno, “l’opposizione non è più tra l’azione che resta all’interno e quella che va fuori (exiens), ma tra l’azione interna all’essere in cui si produce e quella che viene da fuori”, per cui “l’opposizione immanenzatrascendenza acquista un significato nuovo: la prima viene ad indicare l’autosufficienza dell’essere a cui tutto è immanente, che è principio di se stesso […]; la seconda sta a significare una causa o principio che venendo dal di fuori limita l’incondizionalità dell’essere su cui agisce e lo fa da esso dipendere”.290 La Ragione, essendo legge del mondo, ha in se stessa i suo principio dinamico, è auto-poietica, e dunque auto-sufficiente al pari di Dio. E come Dio costituisce una Unità non condizionata e perfetta, originaria e “naturale”. Deus sive Natura. Il processo immanentistico viene a coscienza in età moderna, ma è latente già nel razionalismo cristiano medievale, quando si perviene alla “scoperta” della Natura appunto come un “universo”, cioè “come un tutto”, che, come abbiamo visto,era “convinzione fondamentale già per gli Antichi ed ora ripresa” dai teologi.291 In Scoto, l’universale inteso come “scientia realis”, ha per oggetto la res della verità creduta, la verità di fede (“scientia realis est de universali primo modo, quod est res”), mentre la logica è il modo proprio dell’universalità intenzionale (“Logica est de universali secundo modo, quod est intentio”). 292 L’intenzione ora inerisce all’ens rationalis, oggetto dell’intellectum, la cui proprietà è l’universalità, ossia la capacità di sussumere sotto di sé ogni ens naturalis. “Non enim est aliquod ens 290
M.F. Sciacca, La filosofia moderna da Kant ai nostri giorni, in C. Fabro (a cura), Storia della filosofia, cit., pag. 516. 291 M.-D. Chenu, La théologie au douzième siècle (1976), tr. it., Milano (1983) 2016, pag. 27. 292 Cit. da M. Heidegger, Op. cit., pag. 113.
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naturae, quin possit cadere sub ente rationis et quin super ipsum fundari possit aliqua intentio”. 293 La conversione all’universale, ossia al metodo logico di conoscere la realtà naturale secondo parametri razionali, ha sostituito la metanoia della fede, surclassando quella verità naturale che conosceva attraverso relazioni analogiche la realtà del creato. Un pensiero così concepito torna alla sua arché razionalistica precristiana, di tipo naturalistico, fondata sulla cosmologia materialistica e mitica. Stabilendo l’intentio rationalis a fondamento della verità di oggettiva ragione, e non più la verità dell’intimo convincimento di fede, la verità del cuore di Pascal, si opera una prima traslazione teoretica dal mondo reale, che inerisce al convincimento singolare, personale, al mondo virtuale che investe la conoscenza universale, oggettiva. Gli stessi concetti di causa, sostanza, necessità, meccanismo proprii del pensiero scientifico moderno, vengono adottati dal metodo filosofico perché sorti dal suo ambito teoretico. Le mito-logie moderne nascono dalle fondazioni mitiche del razionalismo filosofico, resosi autonomo dalla verità cristiana che serviva entro la sintesi scolastica. Una volta sostituita la verità di fede con la verità di ragione quale fondamento ontologico di ogni discorso razionale sulla realtà, i principi in senso razionalistico vengono creduti a priori, evidenti per se stessi. Tramite tali principi l’uomo perviene al dominio razionale della realtà, la cui universalità non ammette altra autorità, e in tal senso autonoma e autosufficiente. E’ il presupposto della critica di ogni autorità tradizionale, di tipo storico e religioso, in nome dell’autorità scientifica della ragione, ora assunta come “naturale”, che sta appunto per “razionale”, nell’accezione di non-rivelato. Il manifesto del razionalismo moderno è indicato nel Discorso sul metodo di Cartesio, non nasce dunque da una rottura improvvisa con la tradizione di pensiero cristiana, ma ne svolge il percorso inscritto nelle premesse del razionalismo della teoresi medievale. Non a caso nelle Meditazioni si sono ravvisate, “in forma di oscuro presupposto”, secondo l’espressione di Husserl, molti punti in comune con la filosofia scolastica, come messo in evidenza dalle ricerche di Gilson e di Koyré.294 293
Cit. da M. Heidegger, Op. cit., pag. 112. Ved. E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vortaege (1929), tr. it. dall’ed. ted. del 1950 di F. Costa, Milano, 2004, pag. 56. 294
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Il dominio razionale della realtà diventa il fine stesso della conoscenza ripiegata sul mondo, la cui “sostanza” non è più divina e trascendente, ma lo stesso insieme unitario di relazioni fisiche percepite nella loro contiguità temporale e causale. Priva di una verità oggettiva ed eterna, rivelata da Dio e custodita dalla fede, lo scenario mondano diventa il campo fenomenologico della stessa volontà e conoscenza umana: la Storia secolarizzata, privata cioè del suo fine escatologico, esce dalla mente di Dio per diventare l’oggetto del pensiero umano che la crea. La cognizione della realtà, diventa la creazione della realtà stessa, sicché ogni ricostruzione razionale degli eventi umani nel tempo da parte della coscienza soggettiva costituisce la Storia. Essendo l’universalità nel metodo, ogni suo fruitore prende il posto creatore di Dio: è questo il senso profondo del soggettivismo moderno, il cui pensiero coincide appunto con un’infinita attività ermeneutica. Il rapporto che il Cristianesimo ebbe con la Storia profana è antico e risale alle origini, allorquando l’inserimento nella realtà religiosa romana, caratterizzata dalla sua funzionalità al mantenimento della pax deorum, la indusse ad assumere anch’esse una fisionomia sociale e religioso in senso istituzionale.295 L’atteggiamento intellettuale dei cristiani sin dai primi secoli, e che rimase una costante del modo peculiare di assimilare il mondo alla loro sfera dei valori, è di reinterpretarne i significati pagani entro le forme del nuovo ordine teologico. Così Tertulliano nell’Apologeticum riassumerà entro l’orizzonte di senso cristiano le divinità pagane, divenute “demoni” protagonisti dei “disordini dello spirito umano” e delle stesse “malattie del corpo”, essendo “l’opera dei demoni la distruzione dell’uomo”. 296 Il modo proprio di trasformare le antiche divinità pagane alla luce della religione cristiana, senza intaccare il loro portato di fede, era di trasvalutare il senso del loro valore nel rapporto con gli uomini in ordine alla loro potenza, ossia attraverso un metro di considerazione del tutto profano e mondano, la cui possibile commensurabilità fornisce il riscontro stesso della loro natura demoniaca e quindi della necessaria subordinazione al Dio cristiano. Se infatti i 295
J. Daniélou, Les origines du christianisme latin (1978), tr. it., Bologna, 1991, pag. 381. 296 Tertulliano, Apologeticum, 22, 4, cit. da J. Daniélou, Loc. cit., pag. 387.
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demoni sono sottomessi ai cristiani, che li bruciano negli esorcismi, sarebbe assurdo adorarli. Come spiega Tertulliano ai pagani, “la vostra divinità è già stata sottomessa ai cristiani. Per questo, non può più essere considerata divinità, perché è sottomessa a un uomo. quindi ciò che voi chiamate divinità, non lo è affatto”.297 Ciò che è sottomesso a un uomo, dunque, non è divino. Divino è ciò che trascende la potenza umana. E una volta che la stessa potenza cosmica viene assunta come prodotto della creazione divina, e a essa pertanto sottomessa, divinizzare la Natura non ha più senso. Idem dicasi per la Storia, ossia le res gesta humanorum, oggetto della riflessione di Agostino. Ma lo stesso vale per la Ragione umana, che è lo strumento naturale della conoscenza profana, oggetto della considerazione di Scoto. Solo, insomma, se riconsiderata nell’orizzonte di senso cristiano, l’esperienza umana può essere trasvalutata e giustificata agli occhi della fede, che la riconcilia a Dio grazie alla mediazione del Cristo. In generale ciò vuol significare che la destinazione del mondo è mutata, ossia che esso ha acquisito un senso che è sia teleologico che escatologico. Il senso teleologico è, per così dire, oggettivo e indipendente dalla volontà umana; il secondo invece, quello escatologico, è legato alla fede personale, perché non oggettivabile in una rappresentazione razionale; ed è proprio quest’ultimo senso a dare significato escatologico all’esperienza storico-mondana, che altrimenti ne sarebbe priva. Sul registro di questo duplice movimento, provvidenziale e coscienziale, si costruisce il rapporto tra fides et ratio, tipico della costruzione di senso cristiana del mondo. Le conseguenze gnosiche sono notevoli. In riferimento al processo storico complessivo, essendo il prodotto del disegno provvidenziale di Dio, non è razionalmente oggettivabile, e dunque non può essere oggetto di giudizio critico; in altri termini, non può assumersi nei termini di una filosofia della storia, ma solo in quelli di una teologia della storia, alla maniera di Agostino. La filosofia infatti, come scienza del discorso razionale, può vertere soltanto sui rapporti finiti, riflette perciò relazioni che hanno un termine accertabile: la morte come condizione del giudizio storico. La visione escatologica, che trascende la finitezza e quindi la morte, non può essere rappresentata razionalmente, nei termini cioè proprii alla logica del 297
Tertulliano, Apologeticum, 23, 8-10, cit. da J. Daniélou, Loc. cit., pag. 387.
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finito. Proiettare il sistema della finitezza, la scienza tout court, nell’ambito dei processi storici, significa universalizzare la finitezza, idealizzare l’ente mondano facendolo immagine di ogni ente omologo. L’operazione di omologazione degli enti molteplici al modello ideale è l’astrazione universalizzante propria del discorso logico-razionale, che della realtà finita non considera la finitezza, assumendola nella rappresentazione razionale “come se” (als ob) non lo fosse. Questa finzione teoretica viene rivelata dalla coscienza cristiana riportando alla sua finitezza gli enti storico-filosofici, attribuendo loro il loro senso mondano e non-divino, il loro carattere demoniaco. Il peccato adamitico della conoscenza risiede appunto nella considerazione del sapere mondano come un valore assoluto, universale, e non trasvalutato dalla Rivelazione della verità trascendente per mezzo della quale quel sapere acquista il suo senso relativo alla naturale coscienza umana. Il secondo Adamo, il Cristo, è l’Uomo che ha salvato il mondo dalla sua assoluta finitezza, vincendone la morte con la rivelazione della natura spirituale e divina del sé creaturale. Ma qual era questo valore assoluto che il pensiero cristiano trasvalutò nella sua concezione trascendente della vita? Esso era quanto di più maturo aveva prodotto la sapienza pagana circa l’uomo: la cognizione della cultura greca che poi fu indicata col termine latino di humanitas. 5. L’ideale greco dell’uomo era naturalistico, legato appunto alla “visione” (eidos)298 che se ne faceva la mente in considerazione della connessione organica che ogni elemento particolare ha nel nesso vivo di un tutto, dal quale riceveva la sua posizione e il suo significato. […] Il bisogno dello spirito greco di una comprensione cosciente delle leggi della realtà, che si rivela in ogni campo della vita, nel pensiero, 298
Aristotile: “Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose”: Metafisica, A 1, 980a, 21-28.
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nella parola e nell’azione come in ogni specie di creazione artistica, è connesso con questa capacità di cogliere la struttura naturale, insita, originaria, organica dell’essere.299
Questa immagine d’uomo ideale non era riferibile a una astratta configurazione dell’essere umano, ma si rapportava a una ben concreta determinazione di umanità storica che fungeva da modello antropologico universale. Tale universalità, che determinava il legame cosmico dell’uomo con il resto della Natura, era indicata dai Greci nel Logos. Il Logos è per Eraclito “l’elemento comune” dello spirito (nous),300 Non il singolo né l’informe moltitudine fu considerato dai Greci come il modello educativo della “vera umanità”, ma “l’uomo quale idea”, che era posto “al di sopra dell’uomo-gregge, come al di sopra dell’uomo preteso io autonomo”.301 La figura normativa di ciò che rappresenta la forma della costituzione comune agli uomini, e dunque dell’umanità, è pertanto la “idea razionale”, attraverso la quale la coscienza esprime “le leggi universali della natura umana”..302 Ma qual era il senso profondo di tale universalità, al contempo naturale e umana, tale che secondo Wilamowitz-Moellendorff impediva di riferirlo, attraverso una parola che richiamasse l’anthropos, esclusivamente all’uomo quale essere terreno e mortale? Per comprenderlo, Kerényi ci invita a considerare il significato dell’espressione del motto delfico Conosci te stesso (), il quale si palesa solo integrandolo con le parole “in quanto sei uomo” ( ), cioè un mortale (), che non condivide la sorte beata degli déi () 303 Come infatti lo riferisce Omero nell’Iliade, Zeus reputa che “non vi è nulla di
299
W. Jaeger, Op. cit., pag. 11. “Perciò bisogna seguire ciò che è comune: il Logos è comune, ma i più vivono come avendo ciascuno una loro mente”: Eraclito, 7; tr. it. in I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Milano, 19944, pag. 9. 301 W. Jaeger, Op. cit., pag. 13. 302 Ivi, pag. 15. 303 C. Kerényi, Miti e misteri, compendio di scritti tratti da Die Geburt der Helena (1945) e Niobe (1949), tr. it., Torino, 1950, pag. 493. 300
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più misero () dell’uomo tra gli esseri che respirano e strisciano sulla terra”.304 L’è colui che patisce gli affanni, e perciò piange la sua sorte di essere debole e mortale, esposto alla consunzione del tempo, propria della sua condizione terrestre (). Ma la descrizione più pregnante e “più dettagliata del modo in cui i Greci vedevano l’uomo” è offerta da Sofocle nell’Antigone (vv. 332-364) 305 dove nell’accenno alla condizione mortale e terrestre traspare la necessità di tener presente il Limite che lo separa dagli déi. Qual è codesto limite? Appunto l’auto-conoscenza, propria dell’attività dello spirito (), che consiste nell’esercizio del Logos, il . Ed essendo lo spirito “ciò che l’uomo ha di meglio, l’elemento divino in lui”, la conoscenza noetica trascende per Aristotile il “ragionare in modo umano”, il modo mortale di rapportarsi alle cose, consentendo ai mortali di “rendersi immortali per quanto ciò sia possibile”, al fine di rendere la vita in modo conforme a “ciò che è in noi la parte migliore”.306 Si comprende bene come l’universalità trasversale, di specie, accomuna tutti gli uomini in quanto condizione antropologica, costitutiva, insieme alla socialità, dell’essere umano, mentre l’universalità verticale accomuna gli uomini dediti all’attività noetica agli stessi déi. Nell’incrocio dei due segmenti della necessità ontologica e della possibilità teoretica, si posiziona il saggio, il filosofo, colui che ha fruito del fuoco prometeico per vincere la condizione naturale dell’uomo e assurgere a quella divina. La formazione originaria dell’uomo, l’antropogonia, secondo la concezione greca, si svolge in due fasi: la prima è la nascita terrena, la seconda l’iniziazione ai misteri. 307 Il grande Mediatore è Prometeo, che ruba il fuoco agli déi regalandolo agli uomini. Egli rappresenta il mitologema greco corrispondente a ciò che fu Cristo per i cristiani. 308 Ma 304
Omero, Iliade, XVII, 443-447; cit. da Kerényi, Loc. cit., pag. 494. Ivi, pag. 498. 306 Aristotile, Etica a Nicomaco, X 7; cit. da C. Kerényi, Loc. cit., pag. 500.] 307 C. Kerényi, Loc. cit., pag. 502. 308 R. Bultmann, nel suo commento a Das Evangelium des JohannesIvi (1941, pagg. 10 sgg.) sostiene che la filiazione del concetto cristiano è piuttosto gnostica che grecofilosofica. 305
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la differenza è lampante. Il dono prometeico è la conoscenza del fuoco, di un elemento naturale, funzionale alla vita mondana; il dono cristiano è la conoscenza della charitas, di una dimensione dello spirito che, diversamente da quello greco, non si vede con l’occhio dei sensi o della mente. Se dunque l’unità della realtà oggetto del Logos era per i Greci una realtà naturale,309 e perciò organica al pari della condizione socialitaria dei cittadini della polis, l’unità spirituale cristiana non era di questo mondo, ossia non era sensibile, ma perseguibile solo per via di fede, la conoscenza non sperimentale di una certezza non empirica. È chiaro a questo punto che la cognizione dell’Unità della realtà, che per i Greci era il cosmo naturale, conosciuto come razionale, per i cristiani era di essenza non razionale in quanto non naturale, ma spirituale. In questo senso, tale Unità o intierezza del Tutto, non poteva cristianamente cogliersi per via concettuale. Era questa la stoltizia metodologica di cui parlava Paolo a proposito della sapienza pagana. Essa consisteva nella credenza che la Natura fosse l’Intero e dunque l’inizio di ogni molteplice divenire. Con la concezione creazionistica, l’arché si disloca dal prodotto naturale verso il divino Creatore, sicché l’Uno da cui genera il Logos cristico è il Dio dell’Antico Testamento. Il concetto di Logos così come veniva inteso nella cultura ellenistica - certamente non ignota all’evangelista Giovanni, che per primo indicò nel Prologo al suo Vangelo appunto Cristo come Logos incarnato – era, come nello stoicismo o nel platonismo, l’anima impersonale del mondo, che domina l’universo e che è presente nella mente umana come una “astrazione”, e non certo come una “ipostasi”, per cui, come avverte Cullmann, “dobbiamo guardarci dal ricercare, a causa del’analogia terminologica, la concezione giudaica più tarda del Logos, e tantomeno giovannea, nelle considerazioni dei filosofi”.310 Infatti lo stesso termine, nei due casi, designa una sostanza diversa. La definizione giovannea del Logos, 309
“Non a me ma dando ascolto al Logos, è saggio dire con esso che tutte le cose sono una”: Eraclito, 6; tr. it. cit., pag. 9. L’unità cui si riferisce Eraclito è costituita dalla coesistenza dialettica dell’Uno e del Molteplice interno all’unità dell’Essere. Come infatti indicato da Platone nel Sofista (242 c sgg.) il grande “merito” di Eraclito “è il fatto che l’uno e il molteplice non si alternano, ma sono l’intera verità dell’essere”: H.-G. Gadamer, Heracli Studien (1991), tr. it. in Id., Eraclito. Ermeneutica e mondo antico, Roma, 2004, pag. 11.
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rispetto alle diffuse idee pagane, rappresenta una “struttura interamente nuova”, coincidente con la “rivelazione di Dio in Gesù”, che “solo sul terreno alessandrino, nel giudaismo ellenistico” si trasfonde in una immagine ipostatica, che fa del Logos una “sapienza personificata”.311 Ma qual è il senso teo-logico della Rivelazione cristiana? Il “concetto fondamentale di Giovanni [consiste nel] fatto che Gesù non solamente porta la rivelazione, ma è nella propria persona la rivelazione”; e così come Egli nello stesso tempo porta ed è la luce e la verità e la vita, allo stesso modo come Logos “porta la Parola perché è la Parola”.312 L’aspetto esistenziale del Logos cristico va messo in stretta correlazione con l’ascolto della Parola di Dio per mezzo della fede, che dunque non è un’azione sensoriale ma un atto spirituale, coincidente con il kerygma. Il Verbum caro del Vangelo di Giovanni “intende mostrare che l’intera vita umana vissuta da Gesù è centro della rivelazione della verità divina”, e ciò implica che la Verità indicata dal Logos è la stessa storia esistenziale di Gesù. Qui l’incontro di Dio-Uno e della vicenda umana, il Molteplice come Storia, non è una sequenza di avvenimenti naturali, inscritti in un ciclo fissato da una legge impersonale e omni-comprensiva, ma è la concreta esperienza dell’Uomo, spiritualmente unito all’Uno-Dio, e temporalmente distinto in innumeri realtà esistenziali, ognuna delle quali è singolare per la carne, e partecipe dell’identica Storia per lo spirito. Il Logos-Debar-Verbum-Parola rappresentato o per meglio dire “incarnato”, da Gesù, è per l’appunto la sua Storia, comprensiva del suo pensiero e delle sue azioni.313 Questa unità esistenziale non è pertanto un concetto logico, una realtà solo razionale, ma un vissuto significativo. L’intersezione dei due elementi dell’universalità in senso greco, quella orizzontale della condizione umana e quella verticale della condizione divina, implicava uno scarto qualitativo attraverso la paideia tra l’umanità generica e molteplice, sospinta dalla preponderante necessità naturale a differenziarsi empiricamente senza cogliere l’unità razionale del mondo, 310
O. Cullmann, Die Christologie des Neuen Testaments (1957), tr. it., Bologna, 1970, pagg. 378 e 379. 311 Ivi, pagg. 382 e 384. 312 Ivi, pag. 389. 313 Ivi, pag. 391.
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costituita da uomini che vivono “avendo ciascuno una loro mente”, per riprendere Eraclito, che sono poi gli idioi di Aristotile, dediti ai soli fabbisogni materiali; e l’umanità eletta dei sapienti, educati a ragionare col lo strumento tecnico del metodo dialettico. Questo concetto di universalità relativa stabilisce una differenza interna all’umanità che si riflette all’interno della società in termini di struttura gerarchica. L’aspirazione dei filosofi come Platone era di far collimare le due aree ideali, del sapiente e del cittadino, perché coincidessero a formare il cittadino-filosofo conformemente al modello ideale, che restava però iperuraneo. La vera mediazione tra le due emisfere, ideale ed esistenziale, era costituito dall’educazione filosofica, l’apprendimento a ragionare secondo il logos. 6. Con la Rivelazione cristiana, il Logos è un Uomo, il modello eterno si è incarnato in un nuovo paradigma antropologico, che, in quanto fatto di carne, patisce come ogni uomo mortale. Ma è in questa universalità umana che il Logos cristiano diventa una dimensione assoluta, che, diversamente dal Logos elettivo in senso greco, non esclude nessuno. Ciò non vuol dire, come hanno potuto ritenere i filosofi di ogni tempo, che il pensiero filosofante sia potenzialmente comprensivo del Tutto, e che ogni filosofo ne ricerca la chiave logica per coglierlo, ma che la ragione conserva un ambito di validità relativo alle cose terrene, molteplici e finite, ma non può attingere l’interezza della realtà, costituita da una unità che non è astrattamente logica e relativa all’idea dei molteplici enti empirici, ma è spirituale, e in quanto tale divina. E pertanto, se il Logos razionale era comune tanto ai mortali che ai beati, secondo l’ipotesi filosofica greca, ed esso riguarda la sola realtà del mondo finito, ecco il motivo per i quale a detta dei cristiani, come abbiamo visto, gli déi pagani appartenevano anch’essi alla realtà umana. Commisurare gli dèi pagani ai parametri umani significava stabilire un rapporto di omologia che è esattamente quanto venga ricusato dal pensiero cristiano. Infatti, la “misura” cristiana di Dio, che è il Bene, è fondata sulla differenza qualitativa rispetto ad ogni misura aritmetica, perché di tipo assiologico. Dopo aver precisato che “ogni misura, in quanto misura, è un bene”, Agostino afferma che “Dio è al di sopra di ogni misura di ciò che è creato, al di sopra di ogni forma e di ogni ordine.
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Ed è al di sopra non già per distanza di spazi, ma per una potenza ineffabile e singolare, da cui deriva ogni misura, ogni forma e ogni ordine”. 314 Ciò significa che Dio è Bene, ed essendo origine di ogni bene, è, per riprendere la fonte platonica di Agostino, 315 “la misura suprema di tutte le cose, assai più di quanto non lo sia alcun uomo”. 316 Qui viene ribaltato il principio umanistico di Protagora, che assegnava all’uomo la misura di tutte le cose, individuando il criterio metretico che poneva in Dio la misura assiologica trascendente ogni dimensione puramente fisica. Significativamente lo stesso Platone ci avverte nel Fedro che “per noi, la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo mediante il corpo, ma con essa non si vede la saggezza” 317 Nondimeno, l’Idea platonica, come precisato nello stesso luogo, può comprendere, grazie a “la ragione del filosofo”, la sola unità numerica, “andando da una molteplicità di sensazioni ad una unità colta col pensiero”, 318 ossia permanendo all’interno dell’orizzonte cosmologico naturalistico. Sicché, la “potenza” di Dio, a cui alludeva Agostino, non può misurarsi in termini razionali, e perciò “ineffabile”, perché non è inerente alla potenza del Logos filosofico che si esprime in parole. Il “parlare” di Dio non è il dialogo del filosofo, ma è il suo “agire” attraverso la vita di Gesù, con la cui mediazione esistenziale “si costituisce il naturale collegamento col suo parlare creatore, col quale si è manifestato fin dal ‘principio’.” E pertanto, “Se il parlare di Dio che ha dato vita al mondo (‘e fu fatta la luce’) è quello stesso che parla a noi nella vita di Gesù, l’identificazione di Gesù con il Logos divino è stabilita”. La “Parola” è dunque sinonimo di “rivelazione”.319 Il Logos cristiano esprime la pienezza dell’Essere, inclusiva di ogni negazione razionalmente contraddittoria, e dunque esistenzialmente anche della Morte, che entra nella Storia, non come l’opposto della vita, ma 314
Agostino, De natura boni, I, 22 (399), tr. it. a cura di G. Reale, Milano, 2011, pag. 147. 315 Ved. G. Reale, Saggio introduttivo ad Agostino, De natura boni, cit., pagg. 64 sgg. 316 Platone, Leggi, IV 716 C. 317 Platone, Fedro, 250 D 2-3. Corsivo nostro. 318 Ivi, 249 B 6-C 1. 319 O. Cullmann, Op. cit., pag. 392-3.
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come il riscatto della finitezza, ossia di quella “pena” di cui i mortali non sapevano darsi ragione. Infatti la sapienza pagana la distingueva dalla vita corporea senza attribuirle un valore meta-fisico, tanto che ha bisogno di designare le qualità vitali come forze naturali e rappresentazioni di animali, che agiscono anche nell’uomo, per caratterizzarne la prestanza o per avversarlo,320 e la morte come “rifugio nell’indifferenza, in rapporto alle esigenze della vita”, ossia una “morte logica”, come nel socratico Egesia.321 La morte, infatti, costituiva per il pensiero razionale il più grande scandalo, proprio perché, contraddicendo ogni esigenza di coerenza logica, non si lasciava commisurare ad alcun parametro vitale. Una conoscenza che è fondata sulla coerenza, lotta non solo contro le contraddizioni ma anche contro tutto ciò che si nega all’evidenza, compresa l’azione subdola. “Come nella logica così nell’etica, la coerenza non fa che escludere l’errore o il falso, senza con ciò rispondere al problema della verità e della virtù”.322 Ma il coerente non è il tutto, così come la vita non è l’intera esistenza. C’è alcunché che trascende la vita, pur essendo immanente ad essa; che le consente di schiudersi meta-fisicamente all’Altro, a una alterità che non resta chiusa nella finitezza della mera esistenza. Questa traccia di trascendenza che attraversa la vita essendone all’inizio e alla fine, è appunto la Morte, l’origine di ciò-che-è, e la destinazione finale di ciò che è stato e che sarà. La vera Unità omni-comprensiva è dunque ciò che Essere non-è, che sussiste come Altro rispetto alla Logos, ma che pure con-siste in ogni esperienza esistenziale, come paura o come tramite, ma comunque ineliminabile. La Rivelazione cristiana la rappresenta come l’alterità appartenente, e non più, come nella sapienza pagana, l’alterità rifiutata. Tale appartenenza caritatevole omologa l’alterità al Sé, le tenebre alla luce, il sentimento alla ragione, delineando un nuovo orizzonte di senso che disloca la percezione dell’Essere dalla vista all’udito. La Parola dunque acquista il significato simbolico di tale traslazione, che sposta nell’intimità del sentire in interiore la certezza affidata originariamente alla realtà del fenomeno, oggetto del pensiero 320
Ved. B. Snell, Op. cit., pag. 285. P. Rotta, I socratici minori, Brescia, 1948, pagg. 125-6. 322 B. Snell, Loc. cit., pag. 240. 321
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razionale. La Parola di Dio è udibile solo a chi si presta all’ascolto, all’uomo di fede, che crede nella verità di ciò che non si vede, di ciò che non è presente alla vista. Ecco che la Storia in senso cristiano con-prende nella sua fenomenologia spirituale l’intero vissuto umano, fatto di azioni e di intenzioni, di possibilità e di rinunce, appunto di vita e di morte. E si perviene a questa comprensione di senso totale della realtà attraverso l’adesione all’amore di Dio, la fede nel suo Mediatore, che vive e muore, come singolo e come simbolo dell’umanità. In tal senso, rispetto alla “concettualità filosofico-mitologica” delle speculazioni platoniche ed ellenistiche, “il punto di partenza completamente diverso della riflessione giovannea, e cioè un accadimento concreto (la vita di Gesù), conferisce all’asserzione cristiana antica intorno al Logos un orientamento radicalmente nuovo”.323 Anche se non “in tutti i suoi elementi”, come invece sostiene Cullmann. Infatti il pensiero dei filosofi Greci intorno al Logos poteva anche essere “formalmente esatto”, ma la coerenza formale, ossia concettuale, non coincide con la Verità rivelata da Gesù, il Logos cristiano. L’Idea dell’Essere che la forma concettuale esprime, infatti, è quella naturalistica di cui si è detto, sicché è fuorviante asserire che “l’universalismo del Vangelo di Giovanni consiste in questo: dove i pagani hanno affermato cose vere, egli vede Cristo, il medesimo Cristo che è divenuto uomo in un tempo concreto e determinato”. 324 Se è vero che i Greci, parlando del Logos, non possedessero “la vera conoscenza”, e che “il soggetto Logos indica nel Vangelo di Giovanni in partenza il Gesù di Nazareth incarnato, cioè la parola divenuta carne, che in questa vita umana di Gesù rappresenta la rivelazione definitiva di Dio al mondo: idea questa inaudita fuori del cristianesimo, anche se ogni volta il predicato relativo al Logos possa suonare uguale”,325 allora non può essere che i Greci e Giovanni parlassero dello stesso Logos, poiché la conoscenza formale del Logos era puramente idealistica, ossia era la proiezione ideale di un ente empirico, che non avrebbe mai potuto essere Gesù, in quanto la sua determinazione razionale ineriva a una universalità astratta dal divenire, laddove il modello cristico era un paradigma simbolico che 323
O. Cullmann, Loc. cit., pag. 393. Ivi, pag. 395. 325 Ivi, pag. 394. 324
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richiamava una totalità immanente in senso classico, ma che nell’uomo si realizzava in interiore in virtù dell’intervento provvidenziale della Grazia divina, ossia per causa esterna, e quindi per principio trascendente. Dalla confusione del Logos naturale oggetto della conoscenza razionale, con il Logos rivelato, oggetto della Storia spirituale dell’uomo, è derivata la negazione moderna della trascendenza dell’Essere, la cui conoscenza formale, esaurendo nei suoi termini concettuali l’orizzonte di senso della realtà fenomenica, implicava l’auto-sufficienza del mondo avente in se stesso il suo principio immanente.326 È pertanto il razionalismo moderno che ha secolarizzato la cultura cristiana, confondendo Dio e mondo nella stessa unità onto-logica, è la conseguenza logica di una rappresentazione teo-logica della verità cristiana in cui l’essenza pragmatica del Logos viene indicata nell’agire della volontà, la “libertà”, le cui modalità razionali ne garantiscono l’ordine formale. Questo, in ogni caso, è un ordo condendo, in quanto la riduzione razionale di processi provvidenziali, ossia la filosofia della storia, “non giustifica mai il mondo come creazione, ma come qualcosa da creare”.327 Il progetto creativo assegnato alla volontà razionale dell’uomo che agisce nella Storia come auctor mundi, è lo stesso principio razionale, ossia l’universalità, che consiste nella omologazione di tutti gli enti reali in enti ideali.328 Esso consiste appunto nel liberare la storia degli uomini particolari dalla dipendenza dall’autorità che ne destina i fini, dal Potere, in relazione alla trasposizione pratica di ciò che è l’emancipazione della ratio dal fondamento metafisico della fides, custode della potentia absoluta di Dio. Ma questa reductio ad rationem è un portato del razionalismo teo-logico cristiano, che ha concepito una “ragione fedele”,329 che ha fatto della ragione divina del mondo la garanzia 326
Ved. M.F. Sciacca, Loc. cit., pag. 516. H. Blumenberg, Op. cit., pag. 64. 328 La stessa diffusione planetaria, preconizzata già da Tocqueville, del principio egalitario proprio dei regimi democratici, ha per presupposto la missione razionalistica del Logos filosofico a omologare gli enti civili, variamente articolati in base alla loro diversa esperienza storica, in cittadini, rappresentanti ideali dell’Idea di società razionale. 329 L’espressione è di O. Marquard, Skeptische Methode im Blick au Kant, Friburgo, 1958, pag. 79; ved. H. Blumenberg, Op. cit., pag. 67 n. 59. 327
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dell’ordine cosmo-logico. “Nel momento in cui la regolarità dei fenomeni naturali non doveva più necessariamente riposare su questa garanzia”, bastando a questo ufficio il Logos universale di reminiscenza stoica, Dio ne è stato esautorato con la indimostrabilità kantiana della Sua esistenza.330 In tal senso, l’Illuminismo è stato la traduzione secolaristica della redenzione spirituale cristiana. Ciò che nell’ambito della volizione interessa la conoscenza è la ragione dell’actio transiens, ossia la causa naturale della sua realtà esteriore (exiens), astratta dalla verità dell’in-visibile intentio del soggetto spirituale, che rileva gnoseologicamente solo in quanto attore sociale, protagonista della scena del mondo, e non già in quanto uditore della Parola divina, il cui senso intimo e personale non è oggettivabile in termini universali. Pertanto l’universalismo del Logos della sapienza pagana è il prodotto della sua rappresentazione formale, ossia il carattere della sua astratta razionalità, e non ha niente a che fare con la universale singolarità del paradigma cristico, che ha in Dio la sua ragion d’essere, e non nella concatenazione dei nessi razionali. E’ questo il senso della prossimità unilaterale del Logos a Dio () notata da Bultmann, il quale fa acutamente notare che, essendo Dio stesso il Logos (), ossia appunto la ragione di Sé che si rivela, “la proposizione del versetto non si può mai invertire”, asserendo cioè che Dio era presso il Logos.331 La del Figlio col Padre non consiste nel rispecchiamento al modello ideale di comportamento razionale alla prassi sociale conforme sorvegliata dalla politica filosofica, ma riguarda la salvezza escatologica, fatta di “attesa di futuro” ma anche di vita interiore “vissuta nella meditazione presente”, 332 ossia nel rapporto della coscienza con la Parola. La peculiare condizione divina, in cui la consustanzialità del Logos-Figlio a Dio-Padre non implica omologia e dunque contraddice il principio logico fondamentale della reciprocità dell’uguaglianza (se A = B, anche B
330
H. Blumenberg, Op. cit., pag. 65. R. Bultmann, Johanneskmmentar, cit. da O. Cullmann, Loc. cit., pag. 396. 332 R. Bultmann, Die drei Johannesbriefe (1967), tr. it. di A. Rizzi, Brescia, 1977, pag. 34 n. 28. 331
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= A), è “paradossale” 333 solo se riferita alla logica della sapienza profana, la quale non contempla l’Intero (Dio) come unità spirituale ipostatica comprensiva della diversità ontologica, ma alla riferita maniera eraclitea di coincidentia oppositorum, la quale presuppone invece l’omogeneità ontologica dell’Essere parmenideo inteso come il tutto dell’ente mondano, ove il tà panta coincide con il tà onta. Infatti l’universalità dell’Idea rispetto agli enti omologhi, non è assimilabile alla infinitezza della trascendente essenza di Dio rispetto alla finitezza della condizione umana. La “indigenza linguistica” del pensiero filosofico ricordata da Gadamer, è riferibile non già alla esigenza di “trovare un’espressione adeguata per ciò che propriamente deve dire [il concetto]”, rompendo il loro linguisticamente irrigidito carattere normativo, 334 quanto alla incongruità di oggettivare la realtà trascendente l’onticità dell’Essere, proprio perché nell’uomo è presente lo stesso Spirito di Dio incarnatosi nel Logos cristico, che non è l’Essere naturalistico conosciuto dal filosofare per concetti, e la cui trascendenza si manifesta come inadeguatezza logica. In tal senso è detto dall’Apostolo che “l’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio” (1 Cor 2, 14), per cui, considerando i limiti della finitezza umana, “chi è in grado di parlare in modo adeguato?”.335 E dunque, il Logos in senso giovanneo è Dio stesso, in quanto Spirito, e in tal senso “il Figlio e il Padre sono una cosa sola” (Giov., 10, 30), mentre Dio non è il Logos incarnato destinato al Golgota, per cui “Il Padre è maggiore del Figlio” (Giov., 14, 28).336 Tenuto in debito conto di ciò, va precisato che l’ “agire” di Dio è comunicativo, nel senso kerygmatico neotestamentario, e insieme originario, nel senso “fin dall’inizio ogni rivelazione è un accadimento, un agire di Dio […] dovuto a Cristo; in altre parole: che creazione e redenzione sono unite come accadimento salvifico”.337 Si può dire altrimenti, che gli eventi propriamente storici sono quelli spirituali, nei 333
O. Cullmann, Loc. cit., pag. 397. H.-G. Gadamer, Semantica ed ermeneutica (1968), tr. it. di R. Dottori, in Verità e metodo 2. Integrazioni, Milano, 2001, pagg. 145-149. 335 Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 1, 1, tr. it. di E. Gandolfo, Roma, 2005, pag. 78. 336 O. Cullmann, Ibidem. 337 O. Cullmann, Op. cit., pag. 398, corsivo nostro. 334
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quali cioè la presenza del Logos divino si manifesta come evento escatologico. Il Logos cristiano non è una legge cosmologica ma una funzione soteriologica, che pone “la vita umana, terrena di Gesù [come] il centro della rivelazione divina”, tale che “la Parola di Dio, annunciata da Gesù, è nello stesso tempo la Parola vissuta da lui; egli stesso è la Parola di Dio”. 338 Il richiamo al vissuto storico importa la considerazione della esperienza escatologica nella sua dimensione totale, tale cioè da non inerire al solo presente crono-logico, quale si rappresenta alla coscienza onto-logica del giudizio di realtà. In tal senso escatologico, ciò che è manifestato al presente, è anche stato e sarà nella pienezza dei tempi. La capacità solo umana e non ferina, la “sapienza”, di cogliere la pienezza del senso della vita (la “luce”) consiste appunto nell’ascolto della Parola di Dio grazie all’ “anima razionale capace di accoglierla”, propria di chi è fatto a “immagine di Dio”,339 intendendo per “immagine” non l’Idea platonica ma consustanzialità spirituale, quella che per mezzo dell’Incarnazione è divenuta visibile in un uomo, cioè si è manifestata entro il tempo finito dei mortali, la Storia, e appunto come “storia della rivelazione”, alla cui fine, al cui compimento, Dio sarà “tutto in tutto”, per cui la Sua stessa Parola, la manifestazione del Cristo, sarà congiunta a Lui. 340 Tale unità escatologica, che è “visibile” entro l’esperienza umana nel tempo finito solo per fede, costituisce la “sapienza” cristiana di cui parla Agostino, la quale, com’è ormai chiaro, non è quella del filosofo. Essa infatti non perviene alla conoscenza scrutando la realtà empirica e cercando di coglierne le leggi regolative del suo organismo vivente, ma attraverso l’ascolto della Parola, evocata dal senso interno, il “cuore” umano, la coscienza della “verità che è in noi”, che riconosce il Cristo il Logos di Dio. E Cristo che è Parola di Dio non è un concetto ma un Uomo. La “luce” che la fede consente è quella che trascende il senso della vista comune della realtà naturale e vede con gli occhi della fede, l’amore cristiano, che l’Uomo Gesù è il Cristo, l’unto del Signore. In tal senso, come abbiamo ricordato, Paolo afferma che all’ “uomo naturale” non è dato “comprende le cose dello Spirito di Dio”. La sua sapienza 338
Ivi, pag. 399. Agostino, Commento, tr. cit., pag. 92. 340 O. Cullmann, Op. cit., pag. 400. 339
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deve prima emendarsi attraverso la luce divina della fede, riconoscendo i “peccati” relativi alla gnosi naturale, alla logica della vita terrena, che ci accomuna alle fiere incoscienti, e quindi pervenire alla verità. La quale non si coglie noeticamente per mezzo della riflessione filosofica, ma “si fa”, come scrive Giovanni (I Lett., 1, 5). Fare la verità in senso morale cristiano significa testimoniarla vivendo, non già pensandola, alla maniera della sapienza greca, filosofando, “giacché la vita si attua nell’azione”. Qui va intesa come “realtà autentica”, contrapposta a ”l’inautentico”, inteso come non reale.341 Per giungere alla essenza ideale delle cose il pensiero astrae da quella vita vivente, concreta, che costituisce l’unicum di ogni realtà particolare, che il concetto rimuove per pervenire all’unità degli enti idealmente omologati, portati ad unità dal logos, e perciò uni-versali; realtà particolare che invece la charitas considera imprescindibile per conoscere la storia dell’uomo singolare. Di ogni uomo fatto ad immagine di Dio. L’unione di ognuno, di ogni uno, è ben diversa dall’unità ideale. Dunque la verità in senso cristiano non è la conoscenza di ciò che permane in ogni divenire ma è “rimanere nella parola”, ossia nello stato di grazia trascendente la logica della finitezza, poiché è questo trans-umanarsi, questo in-diarsi, che “rende liberi” (Gv 8, 31-32), e non già sottrarsi all’autorità di ciò che è stato rivelato, secondo il tipico movimento intellettuale moderno, stabilito ab antiquo dal razionalismo ottico. La conoscenza per fede, al contrario, conosce ciò che “non può essere visto dagli occhi, né udito dagli orecchi, né può essere compreso dal cuore dell’uomo” (Is 64,3; 1 Cor 2, 9). Il piano di realtà è ribaltato rispetto alla gnosi filosofica: non si crede a ciò che si vede, ma si vede ciò che si crede. “Che cosa è infatti la fede”, si chiede Agostino, “se non credere ciò che non vedi? La fede è ciò che non vedi: la verità è vedere ciò che hai creduto”. Ed ecco il senso simbolico della storia dal Signore, il quale al fine di stabilire la fede, s’intrattenne in un primo tempo qui in terra. Era uomo, si era umiliato, tutti lo vedevano ma non tutti lo riconoscevano. Rifiutato dalla maggioranza, messo a morte dalla moltitudine, da pochi fu pianto, e tuttavia, anche questi dai quali fu pianto, non era ancora conosciuto 341
R. Bultmann, Die drei Johannesbriefe, tr. it. cit., pag. 42.
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per quel che esattamente era. Tutto ciò era come un tracciare le linee fondamentali della fede e della sua futura struttura [per cui] coloro che lo ascoltavano, lo vedevano […] 342
Non è dunque il fenomeno l’orizzonte della conoscenza umana, trascendentale, ma il simbolo che esso richiama. Il senso del permanere nella parola è l’attesa escatologica di poter “contemplare la verità quale essa è, non per mezzo di parole”.343 Il Logos, strumento di verità, non può rappresentare la verità qual è, nella sua compiutezza, poiché essa non si manifesta più come sequenza di eventi simbolicamente significativi, ma nella sua divina intierezza, che è “luce”. L’appartenenza alla luce corrisponde alla verità, così come vivere nell’errore corrisponde al vedere in senso greco. “Il dualismo di e corrisponde a quello di e ”. E infatti tanto la luce quanto la verità non sono delle percezioni o facoltà occasionali, ma “una modalità dell’essere umano”, che interessa il senso della sua esistenza. “Infatti [in senso cristiano e giovanneo] significa non lo svelamento dell’essere ottenuto nella conoscenza, secondo la concezione greca, ma la realtà di Dio”.344 La costruzione cosmologica, che costituisce l’orizzonte stesso del razionalismo, lascia insolute alcune questioni fondamentali, sia della esistenza umana che del pensiero, la cui stessa persistenza diacronica costituisce un elemento identitario del processo storico, inducendo a credere, per la sua reiterata problematicità, a una “identità delle funzioni” di determinati topoi teoretici nell’ambito dell’economia dei sistemi di interpretazione del mondo, che non riguardano la sola età moderna, sicché nel caso del “processo interpretato come secolarizzazione” sarebbe corretto descriverne il fenomeno “non come trasposizione di contenuti autenticamente teologici nella loro autoalienazione secolare, ma come nuova occupazione di posizioni divenute vacanti da parte di risposte le cui relative domande non poterono essere eliminate”. Lo stesso Cristianesimo delle origini fu “soggetto a una simile pressione 342
Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, ed. it. cit., pag. 664. Ivi, pag. 665. 344 R. Bultmann, Die drei Johannesbriefe, tr. it. cit., pag. 42. 343
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problematica di questioni che gli erano genuinamente estranee”, quali le antiche cosmologie pagane.345 Ma lo stesso Illuminismo, cercando “un sostituto per il popolo della presunta storia eletta dell’Antico Testamento, che desse una espressione più adatta alla ragione”, credette di rinvenire nell’ “antichità sostanziale della ragione” un “equivalente alla rinnovata idea, conciliatrice di rischiaramento e religione, di una rivelazione primitiva”, imputandola al sapere riposto di culture esotiche come l’egizia e la cinese, che risultarono consapevoli “degli enigmi della natura, più di quanto dopo molti trionfi della scienza sembrava essere toccato in sorte al secolo del rischiaramento”. Ed appunto da questa rifrazione problematica di questioni aperte lo storico desume l’esistenza di “un elemento permanente dell’Erlebnis calendariale del tempo”.346 Questa consapevolezza storica, anziché indurci a spiegare le molteplici rappresentazioni problematiche alle quali ogni epoca offre le sue storiche risposte, dovrebbe liberarci “dalla concezione secondo la quale ci sarebbe un canone fisso di grandi questioni che lungo la storia occuperebbero con un’urgenza costante il desiderio di sapere umano e motiverebbero l’aspirazione all’interpretazione di sé e del mondo”, con le quali spiegare “i mutevoli sistemi delle mitologie, teologie e filosofie” alle quali commisurare le risposte relative a quel “canone di questioni”; risposte che restano sempre deficitarie rispetto alla loro “pretesa di totalità”.347 A parte le assonanze spengleriane della teoria di Blumenberg della dinamica dei vuoti formali riempiti con nuovi contenuti, la questione centrale da lui sollevata riguarda due concomitanti e integrativi interrogativi storici: il primo, inerisce alla possibilità di trasmissione tra civiltà e culture diverse di uno stesso nucleo problematico; il secondo, alla possibilità di offrire risposte razionali totali. Se infatti, come avverte lo stesso Blumenberg, “la credibilità e l’autorità di tali risposte svaniscono, ad esempio perché emergono delle infondatezze nel sistema,
345
H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pagg. 70-71. H. Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt (1981), tr. it., Bologna, 1984, pagg. 164165. 347 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pag. 71. 346
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esse lasciano in eredità le questioni che corrispondono ad esse e alle quali si deve poi trovare una nuova risposta”. 348 Ma per quale ragione l’ambito problematico delineato da una cultura storica debba costituire un lascito vincolante a una cultura diversa, impegnandola a offrire a sua volta risposte plausibili a questioni germogliate in altro contesto culturale? Posta in termini di ragionevolezza, la questione è insolubile a detta dello stesso storico, il quale ammette che, anche qualora si riuscisse “a smantellare criticamente la questione stessa e ad operare amputazioni nel sistema della spiegazione del mondo”, tale operazione non potrebbe essere “un’operazione puramente razionale”.349 Implicitamente ammettendo il carattere non razionale del nucleo problematico costante delle questioni alle quali si offre una varietà di risposte razionali, la costanza non viene indicata nella gamma delle risposte culturali, appunto variabili e transeunti, ma in quel residuo esplicativo razionalmente insoddisfatto, che stabilisce la distanza tra la l’istanza di domanda e la possibilità di una risposta esaustiva. Che non si tratti di una mera “indigenza linguistica”, lo attesta la perpetuità dell’indigenza stessa, ricordata già da Agostino. La sua natura va dunque ricercata sulla diversità dei piani referenziali, tale che l’incongruità della risposta al domandare stesso dell’uomo non possa non richiamare quell’orizzonte inautentico dell’errare della coscienza di cui parlava la prima Lettera di Giovanni, e sul quale insisterà l’analisi di Heidegger, riferendolo alla contestualità della finitezza ontica. Non a caso la prospettiva cristiana ribalta il piano si sequenza tradizionale, anteponendo la risposta alla domanda, assegnando all’uomo il compito dell’attesa dell’ascolto, e a Dio la libertà dell’esaudizione a ri-velare quanto sia stato già annunciato come Verità perenne. Tale ribaltamento non ripropone la meraviglia filosofica ( ) come antecedente occasionale al discorsivo, ma stabilisce una relazione assiologica tra il Logos umano e la Parola divina, la quale trascende ogni possibile determinazione naturale-razionale, per cui ispira il bisogno di continue determinazioni finite, ognuna delle quali resterà pur 348 349
Ivi, pag. 72. Corsivo nostro. Ibidem.
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sempre inadeguata proprio perché inscritta nella sua insuperabile finitezza umana. Ciò comporta che la comprensione del Vero, che è la Parola di Dio, assegni all’uso dello strumento umano del ragionamento filosofico il limite strumentale legato alla sua natura, e dunque inerente allo stesso domandare come dialettica filosofica. Ed è questo permanere del Logos umano-naturale nel suo ambito onto-gnoseologico la condizione stessa dell’ordine, esistenziale e spirituale, che Agostino chiama Bene, il quale non è un concetto ideale ma una condizione relazionale, storica tra uomo e uomini, e morale, tra singola coscienza e Dio. Se tutte le nature manterranno la misura, la forma e l’ordine che sono loro proprii, non ci sarà alcun male. Se, invece, qualcuno vorrà fare cattivo uso di questi beni, non vincerà, con questo, la volontà di Dio, che sa ordinare anche gli ingiusti in modo giusto.350
Misura, forma e ordine anche del discorso, sicché la sua inerenza all’orizzonte razionale del Logos naturale non può esaudire l’istanza di domanda, la cui risposta filosofica resta aperta, come attestano molti dialoghi platonici, in quanto il suo orizzonte ontologico non trascende la sua finitezza. Viceversa, nella prospettiva cristiana, è la Parola a ispirare la domanda e la stessa risposta possibile. Ma se la risposta non ascolta, non tiene conto del suo limite insuperabile, ignorando il fondamento di verità trascendente che l’ispira, essa si muove nell’orizzonte dell’errore, della realtà inautentica, e non perviene alla Verità rivelata e non conseguita dall’attività tecnico-dialettica del Logos. La conseguenza gnoseologica di tale persistenza nello è la ripetitività della domanda insoluta, che ha come corrispettivo storico la ciclicità delle esperienze culturali. Da qui il senso della progressione lineare della Storia cristiana, la quale, essendo riflesso esistenziale della fede, e dunque della condizione di verità in cui l’uomo di fede si trova, si dipana tra l’archetipo cristico dell’evento escatologico dell’Incarnazione e la parusìa apocalittica alla compiutezza dei tempi. E pertanto, se la logica del mondo persegue una sua circolarità di percorso vitale e problematico al quale sono legati gli uomini per natura, la verità cristiana li “rende 350
Agostino, De natura boni, II, 37, tr. it. cit., pag. 177.
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liberi”, ossia apre la loro esistenza mondana all’autenticità della Verità trascendente.351 L’impeto libertario che assale l’uomo razionale non persuaso dalla Rivelazione, è il sintomo di un disagio esistenziale che è anche metafisico, e che caratterizza lo stato di angoscia, in cui l’uomo si avvede della inautenticità (Uneigentlichkeit) di una vita che gli appartiene, ossia nella quale non è libero. La libertà, l’autenticità e la Verità, sono i correlati di una condizione umana che trascende la sua finitezza aprendosi alla trascendenza della Parola divina, e dunque alla linearità teleologica della Storia spirituale. La “insopportabilità dello stato vigente” è il sintomo interiore, psicologico, della condizione naturale che tende per reazione a perseguire uno stato di appagamento eliminando l’opposizione che lo rivela, attraverso l’universale disponibilità omologante della ragione. La potenza razionalizzante della tecno-logia moderna è la rivalsa sul potere divino che ha disposto della finitezza naturale, nel senso del suo (impossibile) superamento. L’esito improvvido di tale escatologia infra-storica è la “nevrosi” freudiana, che alla fine assale la civiltà umanistica ponendo “sotto sequestro il mondo intero”, secondo l’espressione di Freud.352 La rivelazione cristiana trasvaluta l’antica eudaimonìa ricercata dal filosofo, ma in un senso che elimina la frattura tradizionale tra sapienza e inconsapevolezza, in un senso tanto radicale quanto inaudito, che è quello di attribuire alla stessa sapienza umana un non-senso rispetto alla Verità rivelata, la quale fornisce così la chiave interpretativa dell’intero processo significativo della vita vera (bios), quella escatologica, che libera l’esperienza del zoòn politikçn dalla necessità fatale che tanto aveva afflitto l’uomo della tragedia classica e la riflessione etica socratica. Con la censura della sapienza umana interviene anche la relativizzazione della esperienza sociale, l’orizzonte assoluto in cui si muoveva la coscienza filosofica pagana. Cristo non forniva risposte competitive a quelle della cosmologia pagana, ma risposte definitive; e non perché più sistematiche e razionalmente convincenti di quelle della tradizione filosofica, ma in quanto precedenti ogni domanda, e in tal senso originario risolutive di 351
Ved. O. Cullmann, Christus und die Zeit (1946), tr. it. Bologna, 1980, pagg. 74-84. L’espressione di Freud si trova in Totem e tabù. Ved. H. Blumenberg, Op. cit., pag. 73. 352
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ogni possibile domanda. In che modo? Annunciando le risposte, e lasciando a ogni uomo di fede di formulare le domande corrispondenti. Tutta l’esegesi cristiana è un catalogo di domande esplicative del senso delle eterne risposte. Rispetto alle rappresentazioni pagane del Mito, i mitemi cristiani sono auto-rappresentativi, esponendo ogni questione del senso del mondo da essi custoditi alla domanda fondamentale che corrisponde all’identità del suo modello archetipo come exemplum di vita beata. 353 Ciò importa che la peculiare “elaborazione del Mito” cristiano abbia assunto la forma di una Cristo-logia, ossia di una “scienza che ha per oggetto Cristo, la sua persona e la sua opera” 354 che, in considerazione della sua pretesa di costituire un sistema ultimativo di asserzioni razionali, “si dogmatizzò nella lingua della metafisica antica”. 355 Ma il carattere proprio di questa “scienza”, che la distingue da ogni altra disciplina scientifica, è la sua presuntiva custodia dei fondamenti di fede, senza la cui implicita vigenza l’intero impianto esegetico della struttura rappresentativa perde il suo significato simbolico. E proprio questa trascrizione semantica del simbolico reintroduce entro la scienza su Cristo, entro la rielaborazione della narrazione della sua Rivelazione, la dinamica propria alla metodica razionalista relativa alla de-finizione filosofica del significato oggettivo, inducendo i pensatori cristiani a “strappare i tesori di verità” dalle dottrine dei filosofi pagani e “utilizzarli in modo giusto per annunciare il Vangelo”. 356 Codesta conversione di senso teo-logico non costituisce esattamente un caso di “sovrapposizione di identità formale e discontinuità materiale”, tipica dei “rivolgimenti epocali della nostra storia”, come vorrebbe Blumenberg, 357 perché non ha 353
“Storia e significato convergono così nell’attestare l’importanza della domanda sul Nazareno: essa investe il fondamento della fede e della speranza cristiana e si pone al centro della narrazione pasquale della vita di Gesù e al centro della fede, che a quest’annuncio risponde. Chiunque abbia a che fare seriamente con Lui, non può sottrarsi all’interrogativo sulla sua identità” : B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Cinisello Balsamo, 1985, pag. 160. 354 O. Cullmann, Cristologia, tr. it. cit., pag. 37. 355 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pag. 74. 356 Agostino, De doctrina christiana, II, 39-40, 60; cit. da H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, tr. it. cit., pag. 76. 357 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pag. 79.
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operato sul fenomeno storico originario dell’esegesi cristologica, che è la vita di Gesù narrata dai Vangeli, ma sul fenomeno secondario della elaborazione razionalistica pagana del senso del mondo, la quale a sua volta aveva come fondamento polemico del discorso filosofico la cosmologia mitologica, non già la Rivelazione della Verità. e pertanto l’esigenza metodica di strutturale in senso razionale la rappresentazione cristologica, con la missione di custodire il fondamento di fede trascendente di ogni rappresentazione di senso simbolica, ha divaricato in età moderna l’appartenenza dell’esegeta razionalista dall’orizzonte di fede postulatoria, facendo apparire mistificante la conversio ad sensum della tradizione filosofica, indicata da Agostino come possibilità stessa di inclusione della sapienza pagana nell’orizzonte escatologico della Verità, al fine di renderla anch’essa simbolicamente significativa. Ma la conversione genetica della verità degli antichi garantita dalla fede, che appare a Blumenberg una “incredibile licenza” dei pensatori cristiani, 358 è in realtà il risvolto inverante, nell’ambito dell’economia religiosa della historia cristiana, di ciò che alla luce della fede il retaggio veritativo della sapienza antica appariva una fabula pagana. Infatti, come era chiaro sin dai tempi della prima scolastica, “la religione di Cristo è fondata non sulla logica, ma su fatti registrati in una storia, storia che si dovrà leggere – nel senso tecnico della lectio medievale – secondo un metodo appropriato, non secondo l’architettura dialettica di un sistema”. 359 Ed è l’approvazione per fede del fondamento veritativo a costituire la fonte di legittimazione sociale della sua custodia teoretica, creando così le premesse del monopolio esegetico sia di quella custodia che della sua elaborazione razionale, che caratterizzerà il potere spirituale (e mondano) della Chiesa. È fuorviante l’analogia tra il monopolio esegetico della Chiesa e il concetto giuridico della proprietà, ritenendo che “la correlazione tra concetto di verità e concezione della proprietà non è dunque stata fondata solo nell’età moderna sulla base degli atteggiamenti borghesi”, come afferma Blumenberg.360 È invece vero che la potestas 358
H. Blumenberg, Op. cit., pag. 77. M.-D. Chenu, La théologie au douzième siècle (1976), tr. it., Milano, 2016, pag. 74. 360 H. Blumenberg, Op. cit., pag. 79. 359
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secolare del monopolio giuridico della forza aveva già prescritto la condizione fideistica che invece costituiva il presupposto dell’appartenenza alla comunità ecclesiale, che, diversamente, dallo obbligatorio rapporto giuridico, poneva la conversione a Cristo come conditio sine qua non della auctoritas ecclesiastica. Tale condizione imprescindibile di validità personale della Verità, contrasta con la pretesa universalistica della verità in senso razionalistico, poiché distingue nella coesistenza il piano veritativo, autentico, da quello erroneo e inautentico della coscienza e dell’esistenza umana. Solo nell’unità trascendente di perviene all’armonizzazione dei due piani, che non sono dialettizzabili in quanto metafisicamente diversi. In questi termini si esprime Agostino allorquando sostiene che “Dio, per la giustizia del suo potere, farà buon uso dei mali [degli ingiusti], ordinando giustamente nelle pene coloro che hanno pervertito l’ordine nei loro peccati”.361 Soltanto entro un comune piano ordinamentale sarebbe possibile derivare un criterio di giustizia retributiva di carattere razionale, basata sulla corrispondenza delle pene ai delitti. Ma ciò non è di pertinenza umana, e dunque l’intervento provvidenziale non può essere oggetto di una misura di giustizia razionale. Solo a seguito di una identificazione di Dio con la Natura (Deus sive Natura) è stato possibile applicare il principio di ragion sufficiente alla volontà di divina, facendo di Dio un operatore legale. 362 La presunta “ambiguità”, denunciata da Blumenberg, sul “volontarismo della fondazione di verità razionali”, sostenuto da Cartesio, consiste appunto nella giustapposizione indebita dei due piani ordinamentali: quello naturale, in cui opera la causa efficiente, e quello divino, in cui opera la Grazia. La fruizione ipoteticamente strumentale della ragione nell’ambito delle considerazioni teo-logiche, genera lo sviluppo del presupposto di validità dello strumento concettuale, la sua universalità, la quale, affermandosi nell’ambito del discorso sulle cose sacre, omologa la lettura razionale dei processi socio-politici a quanto era proprio dello 361
Agostino, De natura boni, II, 37, tr. it. cit., pagg. 177-179. “La giustificazione di Dio [della Sua opera, e dunque “di mezzi riprovevoli con la sublimità dello scopo generale”] è per Leibniz l’assicurazione del principio più radicale che si possa immaginare dell’autonomia filosofica: il principio della ragione sufficiente”: H. Blumenberg, Op. cit., pag. 61. 362
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studium divinarum scripturarum, con la conseguenza di sviluppare un processo di rielaborazione della Verità scritturale, simile a quello sviluppato dalla filosofia classica nei confronti del Mito. Da qui l’origine della secolarizzazione della cultura occidentale moderna, e l’annessa pretesa di valore universale. Questo movimento non è punto secolaristico e derivato dal corso della filosofia moderna a partire da Cartesio, ma inizia nel sec. XIII nell’ambito del pensiero cristiano post-tomista, e propriamente con Duns Scoto, il quale sostiene sulla scorta di Avicenna che “il primo oggetto naturale del nostro intelletto è l’essere in quanto essere”, per cui “ogni cosa intelligibile cade nel campo dell’intelletto”, con la conseguenza che “l’essere infinito, Dio, è un oggetto naturale dell’intelletto umano”.363 Sulla scorta di questa premessa, si apre la strada al criticismo radicale di Occam. Ma già la lettura universalistica della teoria tomista della quidditas, liberata dalla limitazione del suo fantasma materiale ed estesa alle cose immateriali, accettando anch’egli come Tommaso la teoria aristotelica dell’astrazione, pur cui l’oggetto della conoscenza intellettuale, sia pure non esclusivo, è l’universale, 364 realizza le condizioni del razionalismo gnoseologico moderno. L’errore ermeneutico di Blumenberg nel paragonare “l’atto di fondazione” cristiano con quello dell’età moderna 365 nasce dal disconoscimento della radicale differenza tra il piano di realtà proprio della Rivelazione e il piano di realtà proprio della storia pragmatica razionalistica. Il primo piano, infatti, procede per sequenze di relazioni motivazionali di senso simbolico, caratteristiche della durée interna soggettiva, mentre il secondo piano si dispiega per sequenze avvenimenziali di senso causale, proprio della dimensionalità spaziotemporale oggettiva. La sua stessa constatazione del “fallimento” filosofico moderno a seguito della impossibilità di “fornire la riduzione dei propri presupposti”,366 conferma storicamente l’inadeguatezza
363
G. Duns Scoto, Opus oxoniense, Pr., q. 1. Ved. F. Copleston, A History of Philosophy II Mediaeval Philosophy, Augustin to Scotus (1950), tr. it., Brescia, 1971, pag.-609-614. 365 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pag. 80. 366 Ibidem. 364
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metafisica della pretesa universalistica del razionalismo come inizio assoluto del sapere, ovvero come sapere assoluto. 7. Bergson367 distingueva tra “il semplice vivere nello scorrere dei vissuti” e il vivere nella dimensione del mondo concettuale spazio-temporale. Nella durée non vi è un trascorrere quantitativo ed uniforme, cioè astratto dalla temporalità interna, ma è una molteplicità qualitativa continua del divenire. “Ciò che viviamo nella durata non è un essere dai confini fissi e ben determinati ma un passaggio costante da un adesso e così ad un nuovo adesso e così”. In questo flusso di durata interno, l’essere, non essendo determinato, è dunque irriflesso e fuori della portata dell’intelletto. Infatti, “la riflessione è una funzione dell’intelletto che, in quanto tale, appartiene al mondo dello spazio-tempo in cui ci muoviamo nella nostra esistenza quotidiana”. 368 In un passo della Evoluzione creatrice, lo stesso Bergson chiarisce che “la nostra durata non è un istante che sostituisce un altro istante: non vi sarebbe in quel caso mai altro che il presente, nessun prolungamento del passato nell’attuale, nessuna evoluzione, nessuna durata concreta. La durata è il continuo avanzare del passato che rode il futuro e che si gonfia a mano a mano che avanza. Dal momento che si accresce di continuo, il passato si conserva anche all’infinito” 369 Anche Husserl ritiene che possiamo considerare gli atti umani come processi di coscienza svolgentesi nella durata, oppure come azioni già compiute, trascorse e spazializzate. Le rispettive intenzionalità vengono indicate come “trasversale”, inerente al tempo immanente e oggettivo, in cui si dà mutamento di ciò che dura, e intenzionalità “longitudinale”, in cui la temporalità è pre-immanente e pre-fenomenica si dispiega come l’adesso fluente in cui si costituisce il tempo. Si tratta di due piani di coscienza: uno proprio alla vita quotidiana, dove la coscienza è immersa nella dimensione spazio-temporale, e l’altro della durata pura, in cui la coscienza in cui l’essere delimitato e rigido delle immagini “si trasforma 367
H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience, Paris, 1889. A. Schuetz, Die sinnhafte Aufbau der sozialen Welt (1960), tr. it., Bologna, 1974, pag. 63. 369 H. Bergson, L’évolution créatrice (1907), tr. it. a cura di M. Acerra, Milano, 2012, pag. 14. 368
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in uno scorrere e trascorrere in cui non è più reperibile alcuna linea di contorno, di delimitazione o di separazione”. Da qui la conclusione di Bergson che “ogni delimitazione e separazione dei vissuti dall’unico corso unitario della durata è artificiale e cioè inadeguato alla durata pura, e che ogni frammentazione del suo corso non fa che trasferire dei modi di rappresentazione spazio-temporali a quella realtà di tipo tutto differente che è appunto la durée”.370 Questa analisi, pur rilevando la duplicità dei piani di coscienza, nondimeno trascura l’essenziale motivo, implicito nella sua considerazione, della comprensione del tempo come spazio, ossia come una dimensione interna alle distinte regioni dell’essere univocamente pensato come realtà ontica, e dunque in “funzione ontologica” di “criterio della distinzione”, laddove in realtà l’essere stesso “non è comprensibile che in riferimento al tempo”.371 Ciò che rileva, ma che non viene pensato nella considerazione della concezione tradizionale della temporalità, da Aristotile a Bergson, non è la distinta determinazione delle sequenze interne al flusso temporale, tali che la loro scansione oggettiva ovvero interiore sia comunque reciprocamente riferibile alla stessa referenza ideale della temporalità, quella onto-logica, quanto invece la differenza tra il piano del tempo escatologico, propriamente storico in quanto relativo alla storia della salvezza, e quello del tempo spazializzato, astratto, dove la mancanza di un processo teleologico circoscrive l’anelito di libertà al destino singolare, e il bisogno di rivelazione induce a “ricorrere ad una mistica atemporale che pensa in categorie spaziali”. Infatti, “il rifiuto dell’attesa della fine del mondo, proprio del cristianesimo primitivo”, che distingue caratteristicamente il tempo in un aiòn presente e in un aiòn futuro, “viene sostituita dalla distinzione metafisica, greca, tra il quaggiù e l’aldilà”.372 370
A. Schuetz, Op. cit., pagg. 64-65. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi, Milano, 1976, pagg. 36-37. 372 O. Cullmann, Cristo e il tempo, tr. it. cit., pagg. 77 e 79. “Poiché nel pensiero greco il tempo non è concepito come una linea continua che abbia un inizio ed una fine, ma come un circolo, il fatto che l’uomo sia legato al tempo vi viene necessariamente inteso come una schiavitù ed una maledizione. Il tempo si dispiega secondo un ciclo eterno in cui tutto si ripete. Per questo il pensiero filosofico greco si affatica nella 371
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In che consiste la “temporalità” ebraico-cristiana? Nel caso della percezione di un oggetto temporale”, scrive Husserl, “questa ha come termine un’apprensione in forma di adesso cioè una percezione nel senso di una posizione di un presente”.373 Come ci avverte Heidegger, “la temporalità è la condizione della possibilità della storicità, quale modo d’essere temporale dell’Esserci”, il cui “carattere [della storicità] viene prima di ciò che si designa col termine storia (lo storicizzarsi della storia universale)”. La storicità consiste dunque nella “costituzione d’essere dello ‘storicizzarsi’ dell’Esserci come tale, [cioè “a prescindere dal problema se e come l’Esserci sia un ente che è ‘nel tempo’ ”] sul fondamento del quale soltanto diviene possibile qualcosa come la ‘storia del mondo’ e l’appartenenza storica alla storia universale”.374 Ciò significa che l’Esserci, nella sua effettività, non è solo presente, ma “esso è il suo passato”; e non nel senso che “possiede ciò che è passato come una qualità ancora presente che, di tanto in tanto, reagisce su di esso, [ma] l’Esserci è il proprio passato nella maniera del proprio essere”, che via via si storicizza nel corso del suo “avvenire, ossia del divenire futuro. 375 Il passato che è nel presente dell’Esserci, ossia nella concreta esperienza esistenziale dell’uomo, non è un atto della memoria, un ricordare (Erinnerung), ma i suo proprio modo d’essere. Ciò comporta che ogni considerazione oggettiva dell’Esserci che proceda alla determinazione d’essere di ciò che semplicemente esso è, deve astrarre dall’esperienza effettiva, cioè dalla realtà concreta della sua storicità, la risoluzione del problema dl tempo e si sforza di liberarsi dalla morsa di questo ciclo eterno, di liberarsi dunque dal tempo stesso. I Greci non riescono a pensare che la liberazione possa prodursi attraverso un atto compiuto da Dio nella stria temporale. La liberazione può consistere, per essi, soltanto nel passare dall’esistenza di quaggiù legata al ciclo del tempo, ad un aldilà, sottratto al tempo e sempre accessibile. La rappresentazione della felicità secondo i Greci è dunque spaziale, determinata dall’opposizione quaggiù aldilà, e non temporale, caratterizzata quindi dal contrasto tra il presente e l’avvenire. […] Al contrario, la concezione della salvezza nella predicazione cristiana primitiva è rigorosamente temporale e corrisponde alla concezione lineare del tempo propria della Bibbia”: Ivi, pagg. 75, 76. 373 E. Husserl, Vorlesungen zur Phaenomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1904), cit. da A. Schuetz, Op. cit., pag. 66. 374 M. Heidegger, Op. cit., pagg. 37-38. 375 Ivi, pag. 38.
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modalità propria della sua costituzione storica, che possiamo indicare con la condizione pneumatica dell’uomo. Pertanto, è questa condizione pneumatica la stessa possibilità d’essere della storicità dell’Esserci, la condizione per cui sia possibile che l’Esserci sia storico, e in quanto tale abbia una storia. Se la condizione autentica dell’Esserci è quella storica, il modo inautentico d’essere dell’Esserci è la privazione della autenticità o storicità o pneumaticità. Tale privazione consiste nella riduzione della temporalità autentica dell’Essere alla falsa temporalità del mero presente, che è quella datità evidente sulla si fonda ogni criterio di validità scientifico. 376 In termini metafisici, la riduzione ontologica consiste nella astrazione concettuale dell’unità oggettuale dell’ente concreto dal processo avvenimenziale del suo divenire temporale. La fissazione ideale delle possibili determinazioni concettuali dell’ente ridotto a oggetto del giudizio (res appartenente alla universalità della Realitaet in senso formale kantiano), è un riflesso universale dell’ente empirico trasformato in oggetto di giudizio logico. E dunque, per risolvere il paradosso di una “esperienza vivente” (lebendige Gegenwart) che fornisce, per così dire, la materia reale della conoscenza, ma non i dati di realtà oggetto della conoscenza scientifico-razionale, bisogna convertire la datità originaria e logicamente indistinta in una datità concettualmente sistematica, cioè necessaria. Infatti, come precisa Husserl, “sono i concetti che delineano tutte le demarcazioni formali dell’idea-forma di un mondo possibile in generale e debbono quindi essere i veri concetti fondamentali di tutte le scienze”, e per esse delle “diverse regioni dell’essere”. Questo “sistema dell’a priori universale” è una ontologia universale intesa come sviluppo sistematico del logos universale di ogni essere immaginabile”. Tale ontologia, tiene a precisare Husserl, non è “un’ontologia vuota, formale” ma è una “universale ontologia concreta”, che è “l’universo scientifico in sé primo dotato di fondazione assoluta”.377 Ma ciò non può essere se non identificando l’essenza dell’Essere con l’essenza logica che si rivela nella riflessione, attraverso l’analisi fenomenologica delle stesse strutture essenziali del 376
“Ove manchi l’evidenza io non posso pretendere ad alcuna validità definitiva”: E. Husserl, Meditazioni cartesiane, tr. it. cit., pag. 48. 377 Ivi, pag. 32.
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conoscere, che sono esse stesse logiche, che si realizza come una “teoria della scienza”.378 Nella condizione di fatto di un mondo non oggettivato, la coscienza deve convertirsi a una condizione di autenticità, predisponendosi all’analisi dei dati oggetti della conoscenza scientifica. Si noti significativamente che il passaggio dal “mondo dello smarrimento” (Weltverlorenheit) alla riconquista del mondo dopo la epoché fenomenologica, è un procedimento specularmente inverso al passaggio dall’errore alla verità di cui parlava l’Evangelista, nel senso che l’ di cui parlava Giovanni era la riconquista della pienezza dell’esperienza esistenziale, mentre era il mondo inautentico della mera attualità fenomenica. Nella prospettiva husserliana, nondimeno, “la filosofia non deve, astrattamente, teoricamente, tentare di tradurre in parole il mondo com’è, il Sosein, e pretendere che la traduzione sia una spiegazione, [ma] il mondo ‘reale’ deve essere vissuto in moda da diventare un nuovo mondo secondo l’intenzionalità della verità”.Questa Leistung è un atto creativo, “una poiesis”, propria del procedimento fenomenologico. “Il compito della fenomenologia, infatti, non è quello di far passare, sic et simpliciter, il reale nel razionale, ma è quello di dare un senso al mondo, alla vita, alla storia. questo senso il reale ‘mondano’ non l’ha ed è per questo che il mondano deve essere perduto”. Va da sé che tale rischio coinvolge la stessa scienza, la quale “si mondanizza e si perde nel mondo quando pretende di chiudere in sé la razionalità del mondo”, perdendo così l’intenzionalità, ovvero “la sua funzione nella storia, nella storia dell’umanità come entelechia”.379 Il movimento lato sensu gnoseologico, sin dal percorso storiografico di Tucidide, ricerca nella molteplicità degli eventi mondani il filo rosso teleo-logico utile a trarre dalla congerie della realtà immediata (Sosein), conosciuta dai sensi, il processo razionale del divenire, ossia la necessità intrinseca agli eventi che assiologicamente li giustificasse. Tale ricerca in ogni caso procede sul fondamento del presupposto razionalistico che il senso della realtà mondana sia di natura scientifica; e sulla base di tale presupposto, l’analisi fenomenologica consegue alla pre-disposizione 378 379
E. Husserl, Formale und transzendentale Logik (1929), tr. it., Bari, 1966, pag. 13. E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, cit., pag. 41.
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della molteplice realtà fenomenica alle “condizioni a priori di ogni esperienza possibile”, ossia di possibilità del giudizio razionale di valore epistemologico, inteso come “esperire autentico” (Selbsterfahren) in cui la visione da particolare diventa universale. Questa “estensione dell’eidos” equivale alla “essenza puramente concettuale”, intesa “come infinità di singolarità possibili che cadono sotto di essa e che ne sono delle ‘individuazioni’ e stanno verso di essa, con espressione platonica, nel rapporto di partecipazione: ogni individuo pensabile in generale è riferito all’essenza, ha parte ad essa ed ai suoi momenti d’essenza”; e questa estensione partecipativa ha un carattere di “totalità delle singolarità che cadono sotto di essa”. 380 L’estensione dell’universalità pura, a detta dello stesso Husserl, “non può naturalmente avere un’estensione di fatti o di effettive realtà empiriche ma solo un’estensione di possibilità pure”, le quali, nella congerie delle possibili varianti, si dispiegano sempre all’interno di una “struttura necessaria”, quella dell’eidos, e pertanto all’interno di “leggi di necessità le quali determinano ciò che deve necessariamente convenire ad un oggetto quand’esso deve poter essere un oggetto di una certa specie” 381 L’ambito eidetico, o delle pure verità universali d’essenza, “precedono tutte le questioni sui fatti e sulle verità effettive intorno ad essi. Per ciò le verità di essenza si chiamano a priori ossia precedenti ogni esser di fatto per la loro validità, precedenti ogni affermazione tratta dall’esperienza”.382 Ma ciò che qui più rileva ai fini del nostro argomento è che l’analisi a priori, o delle “leggi d’essenza” circa la valutazione delle “realtà effettive secondo le leggi della loro possibilità pura […] costituisce un compito universale che deve essere riferito a qualsiasi realtà effettiva e che è assolutamente necessario”, per cui tale “metodica del pensare a priori” non c’è ragione per limitarla al campo della matematica.383 Va estesa dunque anche al campo del mondo umano e della durata temporale. 380
E. Husserl, Erfahrung und Urteil (1948), tr. it. a c. di F. Costa, Milano, 1965, pagg. 397-398. 381 Ivi, pagg. 400-401. 382 Ivi, pag. 401. 383 Ivi, pag. 402.
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Nel concetto puro di “uomo” si comprendono “tutti gli uomini che io posso mai immaginare”,siano essi del mondo o non, così come nell’idea di “durata temporale”, la quale “ricopre tutte le immaginabili durate temporali come tali senza connessione e effettivamente esperite ed esperibili, altrettanto che tutte le durate temporali nel tempo unico, ossia in quello reale”, senza peraltro che questa “totalità della estensione della durata temporale” fornisca “ alcuna individuazione della specie” di durata, la quale può essere eseguita solo come “comparazione di grandezza” delle diverse intuizioni temporali, le quali, come per ogni determinazione oggettiva della differenziale individuale, sono possibili solo se interne a un “mondo”.384 Ossia incluse in una unità di senso omogeneo che non coincide con la totalità empirica, poiché la cui stessa condizione di validità relativa al mondo eidetico, presuppone la differenza tra “la totalità dell’estensione pura di un concetto [e] la totalità degli oggetti (reali) del mondo”. Ogni “mondo” configura dunque un tutto, senza connessione reciproca di luogo e tempo, sicché al tutto di ogni mondo particolare “corrisponde necessariamente un tempo unico”. 385 La Leistung relativa al perdere e riconquistare il mondo è una poiesi che avviene nel tempo, consistente nella presentificazione del fattuale nella “esperienza vivente” (lebendige Gegenwart), ossia portare all’evidenza della verità dell’oggi un evento passato, inserendolo nel futuro del telos. In questo esercizio di presentificaze il passato rendendolo vivo alla coscienza dell’oggi consiste l’operazione del cogito, col quale supero il dubbio. La vita presente a me stesso come vivente è appunto il cogito, in cui consiste il residuo dell’epoché fenomenologica che si muove verso la verità, che è “il senso di un processo vivente” che “dà senso anche al passato”. In questo direzionarsi della coscienza dal passato al presente verso il futuro, l’Ego si costituisce come “corrente interna del tempo nel tempo”.386 Ed in questa “corrente di vita” (Erlebnisstrom) consiste il processo storico autentico, la auto-rappresentazione razionale del mondo
384
Ivi, pagg. 403-404. Ivi, pag. 405. 386 E. Paci, Op. cit., pagg. 41-43. 385
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e la fuoriuscita dall’Ego come pura Erlebnis intenzionale, ossia come trascendenza. 387 Questo movimento di prima e seconda navigazione platonica è palesemente l’analogon in chiave razionalistica della metanoia cristiana, dove la fondazione di senso intenzionale rappresenta in versione secolaristica la visione escatologica rivolta assiologicamente verso la rivelazione della Verità come compimento dell’evento metodicamente pre-figurato attraverso un necessario percorso ermeneutico, il cui esito è la trascendenza del tempo come superamento della finitezza nel compimento del’eterno. L’aspetto più saliente del costrutto metodico husserliano è che, al di là dei proponimenti, il prodotto di realtà che si ottiene dal processo fenomenologico, è sì una realtà oggettiva, ma non una realtà effettiva, poiché la Realtà che si determina a seguito del discernimento analitico è nel flusso del pensiero che costituisce un mondo di senso, ma non è in senso esistenziale, dal momento che questa esistenzialità è per supposizione metodica pre-formale, non oggettivata e solo possibile. Come ricorda Heidegger, la “totalità degli oggetti possibili”, la possibilitas in senso di Leibniz, è ciò che Kant indicava come omnitudo realitatis, la totalità ideale delle res. La Realitas (Realitaet) non indica appunto “la totalità di ciò che effettivamente sussiste [Wirklichkeit], ma, al contrario, allude proprio alla totalità delle possibili determinazioni della cosa, alla totalità dei suoi contenuti, delle sue componenti essenziali”, e pertanto questo concetto kantiano (e husserliano) di realtà “è sinonimo del concetto platonico di ”.388 Husserl aveva già chiarito all’esordio della sua opera sulla Logica del 1929 che “la scienza ha la sua origine nella fondazione platonica della logica, intesa come luogo dell’indagine sulle esigenze essenziali del ‘vero’ sapere e della ‘vera’ scienza, nel quale perciò devono essere messe in luce le norme secondo cui possa costituirsi una scienza che tenda consapevolmente ad una universale legalità normativa e sia in grado di giustificare consapevolmente il proprio metodo e la propria teoria”. 389 Ciò 387
Ivi, pag. 47. M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phaenomenologie (1927, 1975), tr.it. di A. Fabris, Genova, 1990, pag. 31. 389 E. Husserl, Logica formale e trascendentale, cit., pag. 3. Corsivo nostro. 388
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implica che il concetto di verità filosofico che costituisce il principio del discorso logico sul metodo della conoscenza è puramente logico. La fondazione di una conoscenza puramente filosofica coincide dunque con la fondazione di una conoscenza puramente logica ma la cui validità è normativa e non esistenziale. Il valore, nella prospettiva di Lotze, determina la possibilità dell’esistenza, la quale possibilità in termini logici è una necessità: quella per cui qualcosa che vale debba esistere. Da ciò l’inferenza che sia “il valore [che] stabilisce il passaggio dal possibile all’esistente”. Non a caso, il concetto di “validità” (Geltung) non venga logicamente definito dal suo inventore, Lotze appunto, poiché esso coincide col criterio metodico di valore del concetto, che è la sua universalità, la quale, poiché “non si dà nella realtà delle cose”, ma è il contenuto della loro rappresentazione concettuale, è una credenza ontologica nella loro oggettività, anziché in quella del solo concetto. Ed è appunto a tale contenuto di pensiero (Begriffsinhalt) che si attribuisce validità universale “al di là del tempo” (Zeitjenseitigkeit). In realtà, come aveva già notato Lask, l’oggetto concreto è unitario, e solo successivamente diviene oggetto concettuale della artificiale soggettività, astratto dalla sua categoria effettiva. Subordinare il valore della conoscenza alla determinazione logico-formale dell’ente è l’opera di riduzione propria della scienza, il cui metodo, non potendo poggiare sull’intuizione extralogico dell’Intero, ne considera solo l’elemento astratto dal suo divenire concreto, facendone materia di una forma concettuale, il soggetto di un predicato. Sul rapporto tra intuizione e concetto è basata la struttura categoriale della logica di Croce, il quale però interpreta l’intuizione come la conoscenza del particolare (das ist), e non dell’Intero (la verità), confermando quella concettuale come la conoscenza dell’universale. Il sapere filosofico, inteso come distinzione della credenza soggettiva (la doxa platonica) dal senso dell’enunciato (Sinn), si riduce a metodo-logia della scienza, a una astratta conoscenza della realtà, creduta l’unica vera, a prescindere dal suo valore di verità (Bedeutung). Ma, mentre l’ente esiste intuitivamente indipendentemente dal suo essere determinato, la coincidenza della sua esistenza con la sua determinazione logico-formale è appunto un atto di fede onto-logica, la cui validità (Geltung) è indicata da Heidegger come un “idolo verbale” (Wortgoetze), che non afferisce
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alla realtà esistenziale dell’ente, ma solo alla sua realtà ideale. Se, come crede e pretende l’idealismo da Platone in poi, l’essere dell’ente fosse anche la sua realtà esistenziale, non si spiegherebbe la “volontà di credere” che, distinguendo la coscienza noetica dalla coscienza comune, costituisce la condizione indispensabile di validità della fede filosofica, che consegue appunto a una conversione della coscienza. La esistenza dell’oggetto di pensiero, è reale nel pensiero, così come l’oggetto della fantasia lo è nell’immaginazione. In entrambi i casi, nondimeno, non c’è verità nelle rispettive rappresentazioni della realtà, poiché vero è solo l’Intero, di cui esse sono astratte rappresentazioni. La credenza circa la verità di esse, cioè la loro effettiva esistenza (Wirklichkeit) dipende dal fondamento di credenza pre-categoriale che rende vera la realtà dei costrutti intellettuali (fides quaerens intellectum), ma l’istanza autonomistica della gnoseologia razionalistica dalla fede arcaica, presume invece l’ignoranza o la negazione dell’Intero, ossia della realtà dell’unica verità, la realtà dell’Uno. C’è un filo sottile che unisce la rimozione dell’unico Dio, la negazione della fede nell’unica Verità e il misconoscimento del carattere singolare dell’esistenza umana, a favore della tecno-logia come esclusivo piano astratto e impersonale, ossia universale, di realtà dell’esperienza comune, garantita dalla fede ontologica del razionalismo scientifico. Il metodo del razionalismo infatti è per separazione, e separazione vuol dire appunto negazione. Se dunque “l’essere delle cose è”, e “l’essere delle idee vale”, per riprendere la terminologia di Lotze, perché una rappresentazione ideale possa essere considerata wirklich essa deve essere realizzata, in modo tale che la sua oggettività sia la realtà stessa dell’Idea, la mondanizzazione del logos.390 In realtà, tale “passaggio” dalla condizione deontologica ideale alla esistenza storico-effettuale non è punto logico, ma di natura pratica, e 390
Sulla teoria del valore di Lotze, ved. F. De Vincenzis, Saggio introduttivo alla Logik (1843) di R.H. Lotze, tr. it., Milano, 2010. Sulla critica a quella teoria, ved. B. Centi, L’armonia impossibile, Milano, 1993. Sullo psicologismo della gnoseologia di Lotze, ved. M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit (1925-‘26), tr. it., Milano, 1986, pagg. 43-60. Sulla critica di Lask alla logica formale, ved. M. Friedman, A Parting of the Ways (2000), tr. it., La filosofia al bivio, Milano, 2004. Sul pensiero di Croce, ved. C. Marco, Benedetto Croce filosofo della libertà, Lungro di Cosenza, 2003.
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più esattamente istituzionale,391 ed è questa la ragione per la quale la legittimazione razionale dell’istanza assiologica abbia costituito l’elemento propulsivo dell’attività politica mirante al rispecchiamento pratico del valore ideale, provocando, parallelamente ai processi di razionalizzazione del Potere assolutistico nella civiltà europea, anche i movimenti progressisti e rivoluzionarii, tendenti ad affermare l’universalità di quel valore, proprio appunto al suo carattere razionale. Da qui il grande peso della politica nella cultura razionalistica europea moderna, simmetrico in ambito sociale al peso della tecnica nell’ambito economico. E costituisce la ragione storica della dominanza teoretica della ragion pratica nella cultura moderna a partire da Kant, in cui il valore etico e il criterio logico si intrecciano sulla comune istanza universalistica sino a confondersi come generale Bestimmung teleologica. Ma è appunto questa supposta identità di concettuale ed esistenziale, già prescritta da Platone nel Parmenide, a costituire “il senso finale della scienza” (Zwecksinn der Wissenschaft) come “orizzonte noematico” del Cogito, da raggiungere come meta ideale, come “idea finalistica” condenda, non essendo un “possesso di fatto”. In questa tensione (Stimmung) verso la trascendenza noematica si realizza il distacco fenomenologico dal mondo, tale che “l’Ego in quanto trascendenza è nel mondo ma non è del mondo. Io vivo come prima, ho tutta la mia vita psichica, fisica, percettiva, ma questa vita non è più del mondo perché l’Ego come vita della trascendenza non è parte del mondo”,392 sicché il fine della scienza è anche quello di riconciliare l’opinione (meinen) con il sapere (wissen). Orbene, le assonanze con la metanoia cristiana non sono finite. Infatti, “la stessa idea di una scienza finale non è garantita anticipatamente ma è ipotetica”, 393 ossia è legata alla credibilità della fede nella sua possibilità d’essere ciò che si vuole che sia. Ed è all’internodi questa visione eidetica che l’analisi filosofica diventa programma deontologico: quello di universalizzare la prospettiva noematica in ambito mondano, profano, 391
Ved. C. Marco, L’istituzione storica. Modelli formali e struttura sciale, in La questione arbreshe, Lungro di Cosenza, 2006, pagg. 157-204. 392 E. Paci, Op. cit., pag. 49. 393 E. Paci, Op. cit., pag. 48.
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delle opinioni o secolare a dir si voglia, al fine di addivenire a una conformità storica tra finito (tempo) e infinito (Eterno). 8. La trascendenza dell’Ego cogitans della noesi nel noema di cui parla Husserl è un modo di superare il tempo storico nella temporalità dell’Eterno, sia pure inteso in senso hegeliano di infinitezza ideale, ossia come infinita possibilità di una realtà pensata in termini logicamente necessarii, e perciò restando all’interno della modalità soggettiva dell’intelletto, cioè con quelle “condizioni formali dell’esperienza” che ne costituiscono la possibilità dell’oggetto. E noi sappiamo con Kant che “i predicati della possibilità, realtà e necessità non accrescono menomamente il concetto del quale si predicano, con l’aggiunta di qualcosa alla rappresentazione dell’oggetto”, 394 nel nostro caso il flusso vitale dell’Erlebnis. La realtà della possibilità non è dunque la realtà della cosa, ma la realtà dell’idea della cosa. L’idea della cosa è il concetto, e il concetto non è che l’universale (das Allgemeine) delle singole percezioni e dei singoli oggetti. Nonostante la posizione razionalistica per cui le forme logiche costituirebbero gli stessi contenuti della conoscenza del mondo ideale, la realtà fenomenica della fatticità resta ancora al di qua delle determinazioni formali della realtà oggettiva, nel luogo pre-logico della totalità in-forme dell’Unità in-distinta. L’Uno in-distinto da cui si dispiega la molteplicità di ogni determinazione possibile del Logos è il suo concreto fondamento di realtà (Grund der Wirklichkeit); il quale, essendo trasceso in una forma ideale, come abbiamo visto è ipotetico, ossia legato alla validità di una credenza (Glaube) pre-giudiziale di universalità consustanziale dalla quale di-partire come dal principio unitario di ogni molteplice possibilità d’essere di ciò-che-è. Questo fondamento di realtà extra-metodico, e dunque assoluto, ipoteticamente valido come criterio di realtà reale-ideale, è un Mito, inteso come spazio di credenza pre-formale () in cui si costituisce il senso (dynamis) del discorso (), o altrimenti la intuizione unitaria del mondo che rappresenta il mistero della fede per la decisione ontologica a favore dell’Essere (cosmo-logico formale, ordine necessario) anziché del Nulla (caos 394
I. Kant, Kritik der reiner Vernunft (1781), tr. it. Gentile e Lombardo-Radice, riv. da Mathieu, Bari 1963, pag. 243.
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informale, disordine del contingente), sul quale si eserciterà il discorso di elaborazione razionale al fine della sua chiarificazione giustificativa, cioè la mito-logia filosofica, di cui l’arte è la sua rappresentazione estetica. L’arte cristiano-razionale occidentale è appunto una estetica dello spazio significativo, una mito-grafia, custode di una molteplice possibilità esegetica propria della in-determinatezza metafisica del Mito.395 Dalla riduzione della Storia della Rivelazione a mitologema cristiano è nato il discorso teo-logico, che fa di Dio un essere ideale, il Quale, come il concetto platonico, “ha tratto ogni cosa dal nulla”, 396 è “al di fuori di ogni tempo” 397 e che “se appena si può pensare che sia, è necessario che esso sia”.398 E al pari dell’Idea del Parmenide, l’Uno che è parte (ente fenomenico, cioè ogni cosa creata) partecipa dell’Uno che è intero. 399 Ma cos’è l’Uno in relazione al discorso filosofico? L’Uno è il discorso (legein) che non esce da se stesso, che rimane in se stesso, che non si determina attraverso distinzioni di senso decisivo. Il legein si determina quando esce dalla sua in-distinzione e si mostra per ciò che è, come essere dell’ente. L’Essere che è, è l’ente. Il mostrarsi dell’Essere come ciò che è, come ente, è la sua oggettivazione. Il dire (legein) diventa cosa che è detta (logos), e si mostra nel suo essere distinta dal fluire del dire, separata, objectum. L’Essere Uno esce dalla sua unità e di-viene, cioè diventa due. L’Uno si finitizza ossia si temporalizza e nella coscienza di-viene presente a sé, immagine di sé. Il presente è il doppio dell’essere nella sua presenza, in ciò-che-è immagine di sé. Immagine finita, che la parola de-finisce, cioè de-limita come altro dall’Essere in-finito che di-viene suo oggetto. L’in-finitezza dell’Essere è la sua in-determinatezza, la sua in-limitatezza, 395
La dis-locazione mito-grafica dell’arte occidentale, quale in-determinata possibilità d’essere del fondamento significativo, rispetto alla formalizzazione della forma concettuale significante, è all’origine della disposizione trascendente dell’opera d’arte rispetto a ogni determinazione ermeneuticamente chiusa. E proprio per tale suo carattere aperto, l’arte si pone sempre in posizione di avanguardia rispetto all’ordine concettuale definito, cioè al sistema di valori contestualmente dominante. 396 A. d’Aosta, Proslogion, tr. cit., pag. 12. 397 Ivi, pag. 28. 398 Ivi, pag. 46. 399 Platone, Parmenide, 157 a-158 b.
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la sua in-temporalità. Nell’atto della sua finitezza presente, l’Essere si dispiega temporalmente, escludendosi dall’ente che-è sia come passato originario dell’ente stesso presente, sia come futuro, ossia come dinamicità dell’ente, come divenire. Da qui, dalla sua de-finizione, l’Essere acquisisce una triplice fisionomia temporale, la cui unità dinamica costituisce la sua eternità. E-terno significa appunto che proviene dal suo essere trino. La e-ternità è la in-determinazione temporale di ciò che proviene dalla trinità del passato-presente-futuro. Le personae ossia le immagini della e-ternità, sono il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Esse sono in quanto l’Essere originario si è de-terminato nel presente, si è finitizzato in realtà ontica. Si è “incarnato”. Ma perché l’Essere originario (Dio) ha voluto uscire da sé e determinarsi? La ragione ontologica della determinazione dell’Essere in trinità temporale va cercata nella necessità insita nella in-finitezza di mostrare la sua potenza attraverso la possibilità di uscire da sé manifestandosi a se stessa. La possibilità di manifestare la propria potenza consiste nel rappresentarsi come un altro se stesso a se stesso, di-venendo perciò due, ossia immagine di sé, di procreare un suo Figlio costituendosi come Padre originario. La dualità dell’Essere originario dalla sua immagine consiste nella sua diferenza, cioè nel suo esistere come altro dall’Essere, dal suo essere due. Il Figlio di-ferisce dal Padre in quanto è portatore (ferente) della sua dualità. Ma la differenza è dy-namismo, cioè movimento, dy-venire, diventare appunto due, ovvero Molteplice rispetto all’Uno. Questo dinamismo, questo diventare altro rispetto all’Uno, e dunque due, è lo Spirito dell’Essere, che accomuna sia l’Uno che l’Altro. Ed è in questa comunanza dinamica o spiritualità della tri-unità che si dispiega tanto la potenza quanto la temporalità dell’Essere. Lo Spirito dell’Essere è la sua Potenza. Il prodotto della Potenza spirituale dell’Essere è la sua creazione finita, il Figlio, che è la Sua immagine presente. Il Padre è presente a se stesso come Figlio, e lo è per mezzo della sua potenza, cioè del suo Spirito. La potenza spirituale dell’Essere consiste nel farsi immagine di sé stesso, di dy-plicarsi come Altro da sé che è sé stesso. Il sé stesso come immagine, come Altro, è potenza poietica, creazione, ossia possibilità d’essere presente a sé stesso. La nominazione logica, ossia la determinazione, nasce dal thauma di
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fronte alla creazione divina. La meraviglia filosofica consiste nella constatazione della differenza ontologica tra il prodotto divino e quello umanamente possibile. Distinguere le cose del mondo dando loro un nome significa affermare la differenza ontologica tra ciò che è per potenza divina e ciò che è per volontà umana. Da questa distinzione ontologica nasce il filosofare, l’attività distinguente del logos razionale. Nominare è commisurare la potenza di sé, la propria umana potenza, dalla potenza di Dio. da questa considerazione nasce la fede, il rispetto e la credenza nella differenza di e da Dio. La constatazione della potenza di Dio è congiunta alla possibilità della propria potenza. Circoscrivere il pensiero alla sola considerazione della propria potenza, ossia della sola datità della propria presenza, e dunque considerarsi come immagine separata dal suo modello eterno, è ciò che Agostino indica come appartenenza alla “città dell’uomo”, alla realtà di Cesare, cioè la polis. La esclusiva considerazione della dimensione della presenza dell’uomo in termini di realtà politica costituisce i contenuto della filosofia in senso greco. Filosofare significa rapportare l’immagine dell’uomo agli altri uomini, anziché a Dio, ossia costituire l’essenza umana come auto-rivelazione di sé a se stesso attraverso gli altri. La grammatica del politico consiste infatti nella distinzione del potere di Sé da quello dell’Altro. La fondazione filosofica della presenza di Sé nella relazione con l’Altro si stabilisce attraverso la rimozione dell’Origine divina, ossia dell’uomo come immagine di Dio, come sua creazione. La filosofia assumendo la sola ed esclusiva immagine anziché l’Origine di sé nasce orfana, e nomina il mondo a partire non da Dio ma dal niente. Questo peccato originale del pensiero filosofico consiste col parricidio metafisico della rimozione dell’arché, dell’Eterno, a favore del solo presente, della esclusiva presenza ontica dell’uomo nel tempo che è presente. Pensare razionalmente, cioè in modo logico, equivale a pensare la presenza, cioè il presente, l’ente, in maniera assoluta, cioè universale, come se fosse l’unica dimensione del tempo. la logica dilata la presenza facendola diventare unica, ossia universalizzandola. Universalizzare la presenza significa farla derivare da sé stessa e perpetuarla, ossia che prima e dopo della presenza ci sia Niente. Dio, l’Origine, come Niente. Il razionalismo greco è dunque in essenza nichilismo.
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Pensare l’uomo come origine dal Niente, se esalta la creazione umana e la potenza della sua possibilità di nominarla e de-finirla, nello stesso tempo la costituisce come una finzione: la finzione che prima del presente sia il Niente anziché l’Eterno. A partire da questa Finzione ontologica, nasce la metafisica razionalistica occidentale come conoscenza (gnosis) dell’Essere. Voegelin sostenne che “tutti i movimenti gnostici mirano a recidere i legami dell’essere con la sua origine, cioè con l’essere divino e trascendente, per proporre un ordine dell’essere immanente al mondo, la cui perfezione sarebbe a portata dell’azione umana. Si tratta di modificare la struttura del mondo (avvertita come inadeguata) in maniera così radicale che da quella modifica emerga un mondo nuovo, di piena soddisfazione”. Egli caratterizza “tre casi esemplari” di movimenti gnostici nei quali un “fattore della realtà è stato omesso al fine di far sembrare plausibile la possibilità di un’alterazione nello stato di cose insoddisfacente”,400 ma in realtà, come abbiamo visto, è la costituzione del discorso razionale stesso a de-finirsi come scissione dall’unità del legein in forma oggettiva del logos. Ogni discorso razionale è una oggettivazione dell’Essere, come determinazione del legein da parte del logos. Ogni ragionamento filosofico è una elaborazione del Mito, una mito-logia. Come abbiamo accennato sopra, il senso teleologico universale è assegnato al Logos quale criterio della sua stessa validità scientifica, e poiché nella prospettiva razionalistica, all’interno della quale vige tale credenza assiologica, il fondamento della sua gnoseologia riposa sull’identità ontologica dell’Essere col Pensiero, l’universalità è creduta essere una qualità dell’Essere, anziché una specifica modalità teoretica del concetto. Questa credenza ontologica è per l’appunto un mito razionalistico, che ispira e sollecita l’idealistica conversione del supposto principio universale in una condenda realtà effettuale, che solo attraverso il suo rispecchiamento ideale acquisterebbe senso razionale (télos), coincidente imprescindibilmente con il suo immanente valore esistenziale. La conseguenza storica di tale mito-logia è l’esaltazione filosofica della praxis – e quindi della politica come strumento di 400
E. Voegelin, Ersatz Religion cit., pagg. 24-26.
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inveramento dei processi storici -, e la connessa trasformazione tecnologica della Natura – e quindi del lavoro come attività precipuamente umana di razionalizzazione della produzione naturale. A seguito dell’adozione in ambito teo-logico cristiano della forma universale di rappresentazione della Verità, e quindi il concetto stesso del Logos cristico, la elaborazione stessa di una cristo-logia ha supposto come fondamento veritativo il valore universale di ogni sua determinazione razionale,il cui valore normativo, stabilito dogmaticamente, ha assegnato alla missione evangelizzatrice dei testimoni della fede cristiana un compito politicamente, e quindi mondanamente, analogo a quello della razionalizzazione del mondo, sicché i due fini assiologici hanno finito idealmente per coincidere nel dar vita alla civiltà razionalistico-cristiana occidentale, in cui le funzioni concorrenti della Istituzione religiosa (la Chiesa) e di quella secolare (lo Stato) sono entrambe portatrici di valori universali, idealmente univoci ma praticamente confliggenti allorquando una di esse ne invoca il senso logicamente assoluto del principio universale che la ispiri. In questo caso, la coerente applicazione pratica del modello ideale universale si produce come una ideo-logia, il cui orizzonte di valore universale non ammette alcun dualismo metafisico tra piano immanente e piano trascendente, concependoli coincidenti sul piano assiologico, cioè etico-politico, che diventa il luogo di rifrazione del valore ideale. Essendo il “valore” universale una modalità onto-logica, ossia dell’essere dell’ente concettualmente definito, e gnoseologica, ossia dell’ente logicamente conosciuto nella sua realtà razionale, la sua creduta identità necessaria con l’Essere trascendentale fonda la posizione deonto-logica dell’etica razionale. Questa si determina praticamente come una coerente conseguenza della credenza originaria che si determina come tendenza ad assimilare l’ente razionale all’ente esistenziale, in un perpetua progresso di identificazione effettuale, la cui infinita processione verso la compiutezza si determina storicamente come infinita possibilità del finito, scambiata come tensione dialettica della libertà storico-spirituale. In realtà, il divario ontologico tra la concreta manifestazione effettuale dell’esperienza umana e la sua astratta determinazione concettuale marca una differenza esistenziale che non è umanamente colmabile, e che si è superata solo nell’evento segnato dal kairos dell’Incarnazione.
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La querelle sulla secolarizzazione, da cui ha preso le mosse il nostro ragionamento, va considerata all’interno di un movimento dialettico di natura teologico-politica che origina dai fondamentali, ossia dal mito gnoseologico greco della verità dell’Essere come determinazione concettuale del Logos, acquisito nella elaborazione della cristo-logia da parte della Chiesa cattolica. Essendo tale principio universale, la informe e spontanea realtà naturale diventa mondo umanizzato, e dunque storia, solo a seguito della sua (opera politica e tecno-logica di) razionalizzazione, legittimata dalla credenza che le leggi consapevoli del pensiero razionale siano le stesse leggi implicite che sottendono la realtà naturale, la cui scoperta ne è dunque il benefico svelamento (). Il rapporto tra fede e ragione, espresso in verbum, ossia attraverso la rappresentazione nell’astratta ma universale trascrizione in discorso logico, annidava l’equivoco antropologico-culturale che ha attraversato l’intera civiltà occidentale umanistico-cristiana. Infatti, la coincidenza fra l’universalità del valore del Logos astratto dal fondamento di fede, e l’universalità del metodo del linguaggio filosofico ha portato a ritenere superfluea la considerazione del fondamento di fede che rende veritiera la validità del linguaggio della ragione, ridotto, a seguito della rimozione di quel fondamento di verità, a grammatica meramente tecnica. In altri termini, la verità degli universali logico-concettuali risiedeva non già nel metodo ma nel fondamento di fede ontologica che li assumeva come linguaggio della conoscenza della realtà. Ma al di fuori di quel fondamento di fede, l’intera struttura metafisica restava sospesa al puntello della tradizione che l’aveva concepita ed elaborata, quella cristiana. Questa tradizione, alla coscienza de-mitologizzante del pensiero razionalistico moderno, apparve universale solo all’interno del suo ambito valoriale, confermando surrettiziamente proprio la dissociazione tra verità e validità, sempre negata dal razionalismo, che è alla base della mancanza di legittimità del Moderno. Il processo di modernizzazione della civiltà europea e quello di secolarizzazione della cultura religiosa in ethos civile, sono simmetrici e paralleli, e consistono essenzialmente nella trascrizione dei contenuti del Mythos originario e fondativo del senso della realtà, in termini di rappresentazione razionale, cioè come Idea di valore universale e quindi di portata normativa assoluta, alla quale doveva
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conformarsi una prassi ad essa coerente e legittimata dalla sua struttura formale. La crisi della civiltà occidentale inizia nel separare la ragione dal suo fondamento di fede, pensandola nei termini naturalistici della cultura antica pagana. La cultura scientifica quale onto-logia è fondata sulla realtà dell’ente fenomenico, ossia sulla evidenza del mondo visibile, sensibile, percepibile, naturale. L’ignoranza o la rimozione dell’in-visibile è ciò che Sciacca chiama “stupidita”.401 La stupidità metafisica è la riduzione ontologica dell’Essere all’ente. La crisi della civiltà occidentale inizia nel separare la ragione dal suo fondamento di fede, pensandola nei termini naturalistici della cultura antica pagana. La universalità della scienza che ne deriva è dovuta appunto alla sua rimozione dei fondamenti di fede, ossia della messa tra parentesi della sua verità, che solo la fede può garantire, a favore della sola validità dei suoi metodi, assunti consapevolmente come ipotetici e 401
“Se il limite è il segno dell’intelligenza, la sua dimenticanza o perdita o misconoscimento è la stupidità; perduto il segno, si perde il significato e niente è significante”. Perciò essa consiste nel credere che “quel che non si vede non-è”. Essa infatti “presuppone che è solo ciò che è oggetto di osservazione sensibile o sensibilmente ‘rappresentabile’ o che dà ‘impressioni’, come tale conoscibile e verificabile per esperienza sensoriale e ragione, che poi è il senso comune; e che non è quel che non visibile e non toccabile non è calcolabile e utilizzabile; di qui l’identificazione del sapere con l’esperibile-razionalizzabile e di questo con il cosiddetto ‘scibile’ umano. Donde l’inversione: non l’essere segna i limiti del conoscere, ma il conoscere all’essere: quel che non è conoscibile per questa via, non è; dunque per l’uomo tutto è conoscibile: il problema teoretico del principio del sapere e del logos primo fondante è sostituito dal’altro dei mezzi tecnici del conoscere sensibile-razionale, la cui soluzione è solo una ‘questione di tempo’, quello che trascorrerà tra il ‘conoscibile’ e il tutto ‘conosciuto’, dove il ‘tutto’, negato l’essere, è il ‘rappresentabile’ funzionalizzato, niente. Questa posizione ateoretica e meramente gnoseologistica di riduzione del sapere al minimo del sensibile calcolabile comporta la negazione ‘razionale’ dell’intelligenza e del limite, del sapere non-sensibile, limite della ragione, e la sua negazione pratica o il suo misconoscimento; o per la ‘sostituzione’ del sensibile all’intelligibile, dei mezzi conoscitivi da applicare al primo, al principio della verità; in breve, riduce il teoretico a un insieme di strumenti di ordinamento o di sistemazione dei dati osservati a loro volta strumenti del fare: questo il tutto essente e conoscibile”: M.F. Sciacca, L’oscuramento dell’intelligenza, Milano, 1970, pagg. 61-63.
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soggetti a smentita empirica, e dunque temporanei. Scienza e ateismo sono aspetti confluenti a determinare il moderno relativismo ipoteticistico della conoscenza razionale per verba. Come è stato osservato, la “essenza della crisi” della cultura moderna “consiste nella crescente perdita di autorità dei nostri valori etici e giuridici […]sempre più ritenuti mere razionalizzazioni” che nasconderebbero i vantaggi concreti che li hanno ispirati.402 “Razionalizzazione” non significa acquisizione di uno statuto normativo fondato su criteri incontrovertibili, come era nella intenzione di Platone, ma equivale a perdita di credibilità dei valori trascendenti, la cui originaria forza cogente di carattere morale viene trasferita nelle pene afflittive conseguenti all’inadempimento di prescrizioni legali e di natura meramente umana, e dunque prescrittibili e cangianti. Proprio il carattere contingente delle prescrizioni umane legalizzate fa del diritto una struttura coercitiva funzionale al Potere assolutistico, superiorem non reconoscentem.403 In questa fase gnoseologica, nella quale “gli spazi pubblici sono stati svuotati di Dio”,404 gli strumenti della tecnica filosofica devono necessariamente essere adattati e piegati al meglio alle nuove esigenze teoretiche, speculari a quelle che caratterizzarono i primi secoli della Chiesa cristiana. Infatti, modernamente l’esigenza non è più della fides quaerens intellectum ma è, al contrario, l’intellectum a quaerere la fidem. Come perorato da Agostino in Contra Academicos, (III, 20, 43), la fede e la ragione non sono separabili né contrapponibili, essendo le due congiunte forze che consentono la conoscenza, e pertanto l’ingiunzione “Crede ut intelligas” si abbina indissolubilmente all’altra “Intellige ut credas” (Sermoni, 43, 9). Ma è proprio in questa trascrizione razionalizzatrice della gnosi che il 402
P.A. Sorokin, The Crisis of Our Age (1941), tr. it. Bologna, 2000, pag. 153. “In questa situazione, né la logica, né la filosofia, né la scienza possono invocare un qualsiasi valore trascendente in grado di mitigare i confitti o aiutare l’uomo a distinguere tra relativismo morale giusto e sbagliato; tra mezzi leciti e illeciti per conseguire la felicità; tra dovere morale e arbitrio egoistico; tra forza e diritto. […] Come risultato, la forza si è trasformata in diritto e ha sollevato di nuovo il suo capo mostruoso il bellum omnium contra omnes”: Ivi, pagg. 155 e 157. 404 L’espressione è di Ch. Taylor, A secular Age (2007), tr. it. Milano, 2009, pag. 12. da ora SA. 403
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metodo dialettico elaborato dalla tradizione filosofica greco-ellenistica mostra, oggi come allora, tutto il suo insopprimibile potenziale naturalistico e anti-spiritualistico. Infatti, la conoscenza che voglia essere sia di verità che universale deve presupporre la fede ontologica nella loro corrispondenza, facendo della ragione uno strumento valido in sé a determinare ogni tipo di universalità, e di converso di questa supposizione strumentale un atto di fede, surrogatoria di quella cristiana in Dio. Lo scientismo moderno è dunque una idolatria della ragione, non diversa da quella della metafisica naturalistica greca, che, in sede filosofica, aveva inteso emanciparsi da ogni fondamento di credenza mitico. L’innesto della ratio antica nella fides cristiana era stato possibile in quanto la ragione in sé, la ratio absoluta, non aveva condotto alla verità, che a detta di Platone, è “sapere divino”, ma alle molteplici dottrine dei filosofi, messe in pasto al surrogato moderno della vox Dei costituito dalla hegeliana oeffentliche Meinung. Rispetto all’antica aporia greca, richiamata da Platone nel Timeo, la fede cristiana stabilisce la verità sul suo stesso fondamento, per cui “la verità è che tutto viene da Dio” (Gregorio di Nissa, IV sec.). Questo postulato di fede, e non di ragione, consente di superare d’un balzo la varietà cosmologica della sapienza profana, offrendo alla scienza il suo agognato fondamento originario incontrovertibile, quell’Unità metafisica che per Agostino è “origine, ragione e fine dell’intera esistenza creaturale”, e che rappresenta il fondamento morale della stessa unità sociale. 405 Il rapporto tra fede e ragione che prende a delinearsi teoreticamente nel sec. XI, precisando l’oggetto della speculazione, le norme e lo stile con cui condurla, inaugura quella tradizione filosofica che ha il suo acme nel sec. XIII e che si propaga fino al sec. XVII, nota come Scolastica e caratterizzata dall’ordinamento compatto delle questioni teoriche attraverso una logica stringente e sistematica che le riporta a una visione comprensiva e unitaria che si compendia nelle Summae. La “Summa” è l’espressione tipica di questo ideale unitario che per metodo e sistemazione offre una visione conclusiva ideale. Da qui l’esigenza di una disciplina di metodo e di linguaggio filosofico considerata essenziale all’argomentare, che, tramandato come pure esercizio dialettico e arte 405
Ved. G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino d’Ippona, Roma,1988, pag. 54.
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retorica dall’Alto Medioevo, con la Scolastica conquista il senso di un mezzo di inquisitio e di inventio filosofiche, identificandosi con lo stesso procedimento del pensare e con le leggi del pensiero, riflesso della struttura metafisica del mondo pensato nella visione filosofica. Il Monologion di Anselmo, il Sic et non di Abelardo e la Summa di Alessandro di Hales sono i saggi capitali di quell’argomentazione sistematica e di quella sistemazione disciplinata che saranno tipici del filosofare scolastico.406 Il rapporto tra fede e ragione, nel senso del fondamento della conoscenza razionale, nacque a seguito della Rivelazione cristiana. Se infatti nell’ambito della gnosi filosofica antica, il rapporto era di sostanziale alterità ed esclusività, a partire da Anselmo (1033-1109), e poi maggiormente con Tommaso e Agostino, si va definendo la funzione teoretica dell’intellectus come facoltà precipuamente umana che consente la conoscenza della verità attraverso l’esercizio metodico dell’ ars ratiocinandi, ossia della dialettica. Con la conoscenza di Aristotile, nel pensiero cristiano viene a porsi la questione degli universali, che trovò una prima notevole esegesi nelle meditazioni di Porfirio (233-305), l’allievo di Plotino cui si deve la messa a punto editoriale delle Enneadi, e di Boezio (480-525), che commentò a sua volta l’Isagoge di Porfirio, “un libro di introduzione alle Categorie di Aristotele”.407 La questione della fede, come agostiniano sapere interiore, rispetto al quale la ratio segue come forma modale di rappresentazione consapevole del credo, è strettamente congiunta con il problema degli universali, ossia dei concetti attraverso i quali si enuncia la verità che sussiste in interiore homine, cioè nella nostra mente. A partire da Boezio, il problema degli universali viene impostato “nei termini precisi di una ricerca del fondamento dell’universale, indispensabile perché potesse essere garantita la validità dell’universale stesso”. Tale “fondamento della verità del concetto” veniva “fatto consistere nel suo grado di realtà”; 408 e fu così che la questione della realtà dell’universale fu tramandata alla filosofia 406
Ved. M.T. Antonelli, Introduzione al Proslogion di Anselmo d’Aosta, Torino, 1956, pag. XV. 407 S. Vanni Rovighi, Storia della filosofia medievale, cit., pag. 28. 408 M.T. Antonelli, Introduzione cit., pag. XIX.
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posteriore, fino a Lotze e allo stesso Husserl, le cui ricerche sulla Wesensschau e la intenzionalità richiamano temi già presenti nella riflessione della scolastica del sec. XV, che tanta analogia ha anche con la filosofia analitica contemporanea.409 Certamente va considerata la frattura della gnoseologia kantiana, che sposta che sposta il termine polemico del Logos filosofico moderno dalla mitologia alla natura, che per la concezione classica costituiva “la” realtà oggettiva per antonomasia. La trascendentalità, elevata a principio metafisico, fa perdere al concetto razionale “il senso autentico della interiorità, che vene ad esaurirsi, coerentemente all’immanentismo più rigoroso, nel progresso e nel divenire storico”, ossia nella “temporalità”, che diviene pertanto “l’essenza stessa dell’essere del pensiero”. 410 Il Logos coscientizzato dell’idealismo moderno produce il soggettivismo idealistico, il quale, non riconoscendo alcun fine trascendente al pensiero filosofico, si determina come una forma moderna di naturalismo, criticando come mitologici quei fondamenti di fede pre-categoriali che il pensiero cristiano aveva anteposto a condizione di verità dei costrutti logico-razionali dell’intelletto. Come ha ben sintetizzato Sciacca, la trascendentalità, concepita come attività del soggetto, è il soggetto stesso e perciò infinito e universale è lo stesso soggetto pensante. Invece, secondo l’idealismo classico, l’a priori non è forma trascendentale, ma oggetto dell’ intelligenza e, per conseguenza, pur essendo l’idea madre che rende possibile la conoscenza del reale, non è condizionato metafisicamente dall’esperienza, né limitato ad essa; né è attività del soggetto pensante, ma suo oggetto e dunque l’infinità e l’universalità non è del soggetto, ma dell’oggetto che a esso è presente 411
Le conseguenze pratiche della impostazione moderna rispetto a quella dell’idealismo classico, sono enormi. Infatti, stando l’oggetto fuori del soggetto, non è manipolabile né riducibile ala volontà. Ed essendo universale oggettivo, sta al soggetto il compito di conoscerlo nella sua realtà. La soggettivizzazione, capovolgendo la prospettiva teoretica classica, fa della coscienza trascendentale l’infinito; non nel senso della 409
S. Vanni Rovighi, Op. cit., pag. 140. M.F. Sciacca, Loc. cit., pag. 554. 411 Ivi., pag. 555. 410
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sua oggettività ontologica, ma in quello della illimitatezza della coscienza alla sua attività poietica. Con due conseguenze rilevantissime. La prima è che la coscienza trascendentale prende il posto di Dio come creatore del mondo e degli enti di pensiero concepiti come “reali”; la seconda è che ogni coscienza empirica, rientrando nella universalità trascendentale, partecipa di essa, eliminando così la differenza tra distinti livelli di coscienza, tra la maggiore o minore qualità. Ed è questa la strada teoretica che si intraprende per legittimare ogni istanza ideologica egalitaria, che rivendica i suoi “diritti” in nome appunto del principio universale. In senso metafisico classico, l’universalità indicava l’oggettività ed eternità delle leggi naturali, nel cui orizzonte ontologico rientrava il pensiero filosofico come auto-coscienza di ciò che è reale indipendentemente dal pensiero che lo riconosce. In senso coscienzialistico moderno, essa indica l’infinita attività del soggetto trascendentale, le cui categorie stabiliscono la possibilità di ridurre ogni fenomeno distinto empiricamente all’oggettività della forma spirituale a priori. E’ dunque la Possibilità ad essere universale, e consiste nella attività di tradurre ogni fenomeno in realtà ideale, in prodotto categoriale della coscienza teoretica. La “possibilità” teoretica, in ambito pratico è “potere” ideo-logico, inteso come “libertà” creativa (del pensiero) e creatrice di realtà (socio-politica). Le due sfere coincidono in Hegel. La logica, scienza del pensiero, è anche metafisica, scienza della realtà, perché unico è il principio che governa il reale e il pensiero. Il reale non è l’essere, come era nella metafisica di Aristotile, ma la sintesi a priori dialettica, che non coincide né con la dialettica di Platone, né con la sintesi a priori di Kart; essa è il “concetto” quale forma dell’Assoluto. Lo spirito (Geist) esprime il suo contenuto universale in concetti, categorie o forme della realtà. Pensare è processo di unificazione del dinamismo dialettico, sintesi degli opposti. Attraverso il perenne divenire dialettico dell’Essere, il pensiero ricostituisce in se stesso il processo razionale del mondo, per cui realtà e razionalità coincidono. Nella prospettiva filosofica moderna, che ricupera così quella antica precristiana, l’Essere è pensiero, e il pensiero dell’Essere è la sua realtà espressa nel concetto. Il possesso razionale della realtà è la libertà assoluta, liberata da ogni vincolo di necessità naturalistico o divino. La filosofia è la forma esplicita dell’Assoluto, la cui realizzazione è la Storia,
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che pertanto è “storia della libertà”. Nel pensiero, nella sua attività raziocinante, si trasferisce il movimento stesso della realtà, non più (soltanto) come dinamica dei processi fisiologici, dai quali la filosofia aveva desunto analogicamente la struttura legale uniforme della Natura, ma come la poiesi creativa del demiurgo noetico, la cui possibilità, e dunque libertà, diventava in-finita al pari della stessa apertura illimitata del concetto universale, la cui circoscrizione funzionale non era più limitata alla vita della polis, ma si allargava all’intero spettro delle vicende umane di ogni tempo ed epoca storica. Il pensiero che pensa la Storia è Dio che pensa se stesso, la Verità. La riduzione ontologica di ogni ente fenomenico a ente ideale, e la trasformazione pratica di ogni realtà a oggetto della volontà, sono attività correlate del Soggetto trascendentale. Il conoscere diventa principio a se stesso, perché è il Soggetto che conoscendo si conosce.412 Il problema del Mistero, che segna il limite metafisico a partire dal quale ha senso il processo stesso della conoscenza, nella prospettiva razionalistica moderna diventa questione gnoseologica. L’uomo non si conosce attraverso il Mistero, che fonda nella Verità trascendente ogni ragione immanente, ma conosce il Mistero conoscendo se stesso come Storia. Riducendo l’Essere alla coscienza, la conoscenza di sé, l’autocoscienza, è lo svelamento del Mistero stesso, che diventa problema razionale, e non più questione divina legata alla Rivelazione. La “esperienza” di Kant si fa “storia” in Hegel, nella cui prospettiva la verità divinamente rivelata diventa rivelazione razionale (Lichtung) della stessa infinità del Geist, cioè umanesimo ateistico e immanentistico. La verità dell’Essere è la conoscenza dell’uomo, ossia un’antropologia filosofica, in cui ciò che era stato “una filosofia dell’essere astratto in generale e del mondo nel suo insieme, dive l’uomo era un essere ben distinto da altri, ma pur sempre una parte, […] è diventato una filosofia di quell’essere che, come universalità concreta, è l’idea dell’essere e perciò anche il luogo dove l’essere viene compreso e ascoltato”.413 Il fondamento del conoscere ancora in Kant è Dio, mentre in Hegel è 412
M.F. Sciacca, Filosofia e Metafisica, Brescia, 1950, pagg. 152-153. H.U. von Balthasar, Die Gottesfrage des heutigen Menschen (1956), tr. it., Brescia, 2013, pag. 48. 413
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nella coscienza stessa, luogo costitutivo della verità come ragione del mondo, razionalità in divenire, Storia puramente umana. L’idealismo trascendentale è una espressione teoretica di autismo filosofico, dove la verità diventa l’attività del pensiero, anziché il suo oggetto.414 Lo storicismo hegeliano, che a parte subjecti si dispiega come campo fenomenologico della coscienza razionale, a parte objecti è la hostoria rerum gestarum che dilata in senso universale il luogo topico del politico, ossia le vicende umane relative alla vita dello Stato e alla lotta per il Potere. Come notato da Marcuse, “l’infinito di Hegel non è che l’altro lato del finito e pertanto dipende dalla finitudine”: è in sé stesso un’infinità finita”, quella dell’unico mondo, “questo”, ossia dell’uomo storico.415 Eppure tale esito immanentistico dello storicismo idealistico potrebbe apparire ragionevolmente l’estremo epilogo della premessa cristologica dell’Incarnazione, a seguito della quale l’antico rapporto tra oggettività e soggettività veniva risolta nel senso della trasvalutazione veritativa precategoriale della fede in quell’Infinito che costituiva il presupposto della stessa dialettica della finitezza, ossia rappresentava il fondamento occulto dell’Essere di cui si occuperà la riflessione di Heidegger. E proprio tale consapevolezza ontologica spingerà l’analitica heideggeriana della finitezza ontica del Dasein a superare l’idealismo coscienzialismo di impronta kantiana, che era rimasto la traccia di percorso della fenomenologia di Husserl.416 Il Soggetto trascendentale, avendo rimosso dall’orizzonte fenomenologico della sua produttività razionale il fondamento veritativo del valore della poiesi concettuale, fa di se stesso, cioè della sua stessa attività, l’attribuente della qualità dell’oggetto, cioè della sua verità, facendo del pensiero un analogon della creazione divina. Ma anche questo esito era inscritto nel precetto cristiano di diventare, attraverso la 414
“E’ la verità dell’essere che fa essere il pensiero e non il pensiero la verità dell’essere”: M.F. Sciacca, La filosofia moderna, cit., pag. 561. 415 H. Marcuse, Reason and Revolution. Hegel and the Rise of Social Theory (1941), tr. it. della III ed., Bologna, 1997, pag. 163. 416 In tal senso Gadamer in H.G. Gadamer-J. Habermas, L’eredità di Hegel (1979), tr. it., Napoli, 1988, pag. 51. Ved. M. Vegetti, Hegel e i confini dell’Occidente, Napoli, 2005, pag. 136-137.
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fede, sicut Deum. La conclusione paradossale della conversione moderna del verum col factum da parte dell’ idealismo autistico, per cui l’assoluto razionalismo si converte in assoluto irrazionalismo, 417 è dovuta alla stessa assolutezza della ragione quale attività consapevole della coscienza, la cui premessa metodologica è la credenza che la realtà dell’Essere sia lo stesso Soggetto. Ma fondare la verità sull’uomo e la sua coscienza ha significato fare dell’uomo la verità, ossia prendere il posto di Dio. Questa è stata la “illusione fatale” della emancipazione della ratio dalla fides, che, anziché all’oltre uomo, ha condotto al “disfacimento dell’uomo” moderno, il quale, “contro le sue stesse esigenze, ha perduto proprio quei valori che credeva riscattare, affermare e giustificare”.418 L’eterogenesi dei fini di tale processo immanentistico, a partire dalla similitudo cogitata di Boezio, ha condotto l’estremo idealismo, astratto dai suoi fondamenti pre-categoriali ritenuti mitici perché extra-metodici, a convertirsi nel suo astratto opposto, cioè in estremo realismo, in razionalismo scientifico, in positivismo, ossia in metodologia delle scienze naturali, in epistemologia. La ragione, quale metodo di conoscenza della natura, presuppone che tutta la realtà del mondo sia prodotto di ragione, ossia storia di “fatti”, historia rerum gestarum, in cui “la divinità del pensiero è divinità delle cose”, per cui “la Ragione-Dio dello Hegel si sviluppa, senza che vi sia opposizione sostanziale, come Scienza-Dio o Storia-Dio”.419 Il “nocciolo della questione” della moderna filosofia della Storia è il venir meno della prospettiva escatologica, propriamente cristiana, della “salvezza” che, a partire dalla predicazione di Gesù, apre alla realtà presente, risultato del “già” passato, la prospettiva del futuro compito di santificazione del mondo, “non ancora” giunto a compimento. 420 La rimozione di questa prospettiva escatologica dalla Storia lineare concepita dal cristianesimo, è all’origine di quella “mitologie della ragione” che invadono l’uomo moderno a seguito della perdita della “armonia” spirituale, ossia appunto della visione complessiva 417
M.F. Sciacca, Loc. cit., pag. 562. Ivi, pag. 567. 419 Ivi, pagg. 590-591. 420 O. Cullmann, Cristo e il tempo, cit., pagg. 21-22. 418
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dell’esperienza umana come “storia della salvezza” nella “totalità della storia cosmica”,421 a opera della gnosi razionalistica, spingono l’individuo sociologico, separato dalla sua singolarità spirituale trascendente, a cercare di (ri)trovare nella socialità la perduta “totalità” sottoforma di “alleanza dinamica delle forze che è la vita comunitaria, l’eticità”. 422 La rivoluzione moderna del razionalismo che si compie attraverso il ritorno al passato delle origini filosofiche greche, ossia nel riassorbimento della esperienza storica dell’uomo nel naturalismo dal quale il creazionismo cristiano l’aveva emancipata. A questa visione si deve l’esaltazione tutta moderna della politica intesa come quel Potere, scientificamente sostenuto, in grado di “unificare il mondo” al posto della direzione spirituale di Dio, e la cui assolutezza in-limitata da alcun principio trascendente maschererà il suo “aspetto demoniaco”.423 La dinamica storica, come dialettica della permanente totalità sacra e delle sue transeunti rappresentazioni profane o secolarizzate, articolandosi nelle diverse civiltà umane, è perciò stesso attraversata da un senso direttivo di intrinseca coerenza, di coerente processione teleologica, che costituisce la trama metafisica degli eventi temporali, il loro Logos, quella “ragione vera, che per lo più rimane oscura” ai profani, di cui parla Tucidide, il quale critica in modo tipicamente razionalista il loro atteggiamento, che è quello dei più, i quali appunto “trascurano la ricerca della verità e preferiscono restare aderenti alle opinioni tradizionali”,424 alle quali egli contrappone la “causa verissima” della guerra, che è l’esistenza dell’ “impero ateniese intollerabile per Sparta”. 425 Questo “conduttore” storico (Traeger), come ebbe a chiamarlo K. Thieme,426 non è originariamente una istituzione, quale il Senato romano e la Chiesa cattolica, ma un fondamento di legittimità dei valori razionalmente rappresentati e costitutivi dell’officium istituzionale, di 421
J. Daniélou, Essai sur le mystère de l’Histoire (1953), tr. it., Brescia (1957), 2012, pag. 38. 422 R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Bologna, 2016, pag. 102. 423 J. Daniélou, Op. cit., pag. 41. 424 Tucidide, Storia della Guerra del Peloponneso, I, 23. e I, 20, 3. 425 Ved. L. Canfora, La guerra civile ateniese, Milano, 2013, pag. 18. 426 K. Thieme, Gott und die Geschichte, 1948.
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natura trascendente, ossia tale che non si identifichi se non storicamente con i suoi custodi temporali. Ciò vuol dire che l’etica dello Stato non sia lo Stato stesso quale suo rappresentante, tale che l’Etica e lo Stato siano uno. In questo senso, la universalità del principio pratico non è pratica, e nello stesso senso, il ecclesiale non è la fede in Cristo, che trascende ogni sua rappresentazione istituzionale. Che questo principio archetipo sia di natura teoretica, è la credenza caratteristica della cultura greca e poi acquisita dalla gnosi cristiana. Nel momento in cui l’evangelista Giovanni traduce il termine ebraico dabar con il greco logos, non soltanto compie “un gesto di grande audacia”, ma trasferisce nell’orizzonte religioso cristiano una espressione che non era semplicemente “carica di risonanze panteistiche o razionalistiche”, 427 ma che rappresentava concettualmente quel fondamento di credenza che ha legittimato la stessa teo-logia cristiana, e dunque l’intero percorso culturale della civiltà occidentale. L’acquisizione del fondamento polemico (del pòlemos) come Logos metafisico sotterraneo del processo storico caratterizzerà a partire da Tucidide il criterio di pensiero della filosofia greca, la cui dinamica dialettica esclusiva dell’opposto riflette in campo teoretico la lotta nella pratica politica. Se pertanto questi “idoli terreni”, come li chiama Agostino, sono gli ispiratori storici cui si sottomettono “gli uomini che si compiacciono nella volontà di potenza e nello spirito di dominazione, nelle grandi illusioni dei prestigi mondani, e tutti gli spiriti che amano queste cose e cercano la loro gloria, rendendo gli uomini loro schiavi”, 428 i principi direttivi che ispirano la testimonianza cristiana del percorso della salvezza non possono con essi confondersi nella stessa logica mondana, dalla quale l’Incarnazione del Verbo ha inteso liberare e trasfigurare la coscienza del mondo. “Non ci sono intermediari fra i due mondi”, sacro e profano, ma, sottolinea Agostino, neppure visibili frontiere di separatezza. Ciò vuol dire che l’intreccio inestricabile di del principio dell’Utile e di quello del Giusto procedono intermezzati da kairoi, ossia da “crisi decisive, che sono ogni volta il crollo e la condanna di una
427 428
J. Daniélou, Essai, cit., pag. 47. Agostino, De catizandis rudibus, 37 e 31.
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civiltà che ha peccato per eccesso d’hybris”.429 Queste rotture epocali ristabiliscono l’equilibrio invisibile tra i due poli dialettici, che si manifestano come tensioni perenni tra ciò che immane e ciò che trascende l’esistenza umana nel tempo, rappresentate rispettivamente dal regno di Cesare e da quello di Dio. Ma la “irruzione di Dio nel mondo”, 430 non è un evento di per sé universale, esso ha infatti bisogno della presa di coscienza dell’uomo circa la sua significanza simbolica. Costituisce, cioè, un problema di cultura, senza la quale l’evento kairotico non manifesta la sua portata escatologica, che richiama il kairos fondamentale dell’Incarnazione, e per cui da questo deve necessariamente partire per la sua comprensione. Il senso di queste rotture è l’emersione del significato evangelico dell’Incarnazione come principio di Verità trascendente, diverso da, e alternativo a, quello mondano rappresentato dal Logos greco, la cui incidenza interna alla storia cristiana costituisce la polarità dialettica caratteristica della civiltà che si è sviluppata dall’intersezione dei due princìpi. Se non comprendiamo questa ibrida condizione culturale originaria e permanente, non potremo darci ragione né della intrinseca instabilità dei processi ideazionali della tradizione razionalistico-cristiana, né delle conseguenti dinamiche socio-politiche della storia europea. Ed è la ragione per cui quello della cd. “secolarizzazione” sia un fenomeno intellettuale tanto esterno all’orizzonte religioso tradizionale quanto interno al cristianesimo. D’altronde, l’irruzione di Dio nel mondo, e l’Incarnazione stessa dello Spirito nell’Uomo, manifestano la compresenza dell’elemento modano e di quello spirituale nella stessa esperienza esistenziale degli uomini, senza che però i due termini polari possano essere considerati alla stregua di due opzioni ideologiche o di due credenze religiose equivalenti. Infatti, la dimensione universale dl principio logoico è una derivazione in termini cristiani della antropologia greca, fondata su riscontri naturalistici delle caratteristiche fisiologiche delle diverse stirpi umane. In ogni caso, proprio in conseguenza del suo impianto naturalistico, la cultura greca era essenzialmente mondana, ossia circoscritta all’esperienza politica dell’uomo, intesa quale gestione 429 430
J. Daniélou, Op. cit., pag. 42. Ivi, pag. 46.
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del mundus costruito dalla sapienza dell’uomo, che era la polis. Il Logos era per l’appunto il principio che reggeva il mondo naturale e quello umano che ne faceva parte. La teoria creazionistica, invece, includeva il mondo naturale e umano nella creazione divina, secondo un disegno razionalmente imperscrutabile ma di cui partecipavano a vario titolo le diverse culture umane, le quali però non ne esaurivano il valore nei termini della loro esperienza storica. Per questa ragione, la visione cristiana non è passibile di quelle “antinomie” legate alla “variabilità delle forme umane di esistenza [cui] corrisponde la molteplicità dei modi di pensiero, dei sistemi religiosi, degli ideali etici e dei sistemi metafisici”, che perciò risultano “storicamente condizionati” e pertanto in contraddizione con la pretesa validità universale e oggettività della loro conoscenza metafisica. 431 Infatti, il credo cristiano, la sua “fede” nel trascendente che s’incarna nell’uomo, diversamente da ogni religione storica, non ha una funzione politica in senso ciceroniano, ossia non acquista il suo valore morale in conseguenza del suo ruolo etico di collante sociale ma indipendentemente da quello. In tal senso, la sua concorrenza culturale con le credenze ideologiche storiche si svolge su un altro piano di incidenza, quello interiore e morale della coscienza singolare. Ciò stabilisce una relazione del credente con Dio che supera la mediazione del Potere sociale, anche se non può prescindere dalla condizione di finitezza ontologica della condizione umana, dalla carnalità dell’uomo. Ed è proprio sul piano della che agisce la mediazione istituzionale della Chiesa, con le sue strutture pastorali e le sue dottrine teologali, tese a costituire una barriera katechontica alla pervasività della logica mondana. Come concilia la Chiesa la sua funzione storica con la sua rappresentanza dell’Eterno? Su questo aspetto la dottrina cristologica della Chiesa cattolica è sin dai primi secoli fortemente impregnata di esigenze di natura politica, legate alla sua sussistenza istituzionale e confessionale. Tutta la storia della Chiesa smentisce infatti la sua cattolicità confessionale, rivelando nel contempo il carattere mondano della sua pretesa egemonica circa il 431
W. Dilthey, Weltanschauungslehre. Abhandunglen zur Philosophie der Philosophie, tr. it., Napoli, 1998, pag. 62.
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monopolio della sua rappresentanza dell’ Eterno, interpretata surrettiziamente come rappresentanza eterna, in maniera non dissimile dalla teoria hegeliana dello Stato etico. Tipica a riguardo la versione di Daniélou, il quale, se per un verso sostiene che “la chiesa non si identifica con nessuna civiltà”, per l’altro afferma che “il suo contatto con ogni civiltà costituisce un apporto eterno”, sicché “la Chiesa sarebbe unità per sempre alla civiltà latina e alla situazione storica che ha fissato a Roma il seggio di Pietro”, portando a riprova della sua tesi quella analoga dell’ortodosso Florovsky, il quale sostiene appunto che “l’ellenismo [dogmatico, di quello della liturgia, dell’icona] nella Chiesa non sia una tappa [e che] quando il teologo comincia a ritenere che le categorie greche siano superate, ciò significherebbe semplicemente che sarebbe uscito dal ritmo della comunione”, concludendo con affermazione apodittica che “la teologia non può essere cattolica che nell’ellenismo”. 432 Ora, a me pare che proprio la conclusione sia un tributo inconsapevole alla credenza pagana che il Logos sia l’unico e quindi il vero principio universale della conoscenza, che è quanto il principio di fede cristiano ha rigettato sin dall’origine della predicazione evangelica. Infatti, se fosse vero ciò che sostengono in sintonia il pensatore cattolico e quello ortodosso, tanto la “civiltà latina” che “l’ellenismo” sarebbero, non solo coappartenenti alla stessa “cattolicità”,433 ma sarebbero universali alla stregua del cristianesimo, mentre invece ciò che essi intendono altrimenti dire è che le rispettive Weltanschauungen teologico-politiche sono il prodotto culturale della loro rappresentazione simbolica razionalizzata della fede cristiana, la quale non può per definizione identificarsi con alcuna sua determinazione storico-concettuale, che appartiene al tempo mondano e non a quello escatologico. Infatti, l’unità del tempo oggettivo è l’unità del tempo del mondo,434 mentre “il messaggio del Cristianesimo è assolutamente trascendente rispetto a tutte le civiltà e a tutte le culture”. Ma se questo è vero, contrasta con la pretesa che la “unità della Chiesa” coincida con la “unità del dogma [che] si esprime attraverso il
432
J. Daniélou, Op. cit., pag. 51. Ivi, pag. 52. 434 E. Husserl, Erfahrung und Urteil (1939), tr. it., Milano, 1965, § 64, pagg. 284 sgg. 433
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differenziarsi delle mentalità, delle culture, delle civiltà”, 435 poiché in tal caso si dovrebbe ammettere che la koinonia che le collega nella diversità sarebbe appunto il Logos esegetico della “lingua sacrale”, 436 e non quello divino trascendente. A riprova, la comune accoglienza teo-logica del fondamento logoico della conoscenza, e quindi della sua strumentalità rappresentativa della verità cristiana, non ha impedito, ma anzi è all’origine, delle storiche divisioni confessionali della cristianità, così come la comune cultura e religione dei Greci non ha impedito la Guerra del Peloponneso, né mai la comune fede cristiana ha impedito le guerre tra i popoli europei, poiché quel principio è, come abbiamo visto, per l’appunto polemico. E in conseguenza della legittimazione archetipa delle loro posizioni teologico-politiche che le confessioni storiche possono rivendicare un primato religioso di tipo universale, tale cioè che esprima un valore normativo applicabile erga omnes, ma circoscritto contestualmente a un ambito mondanamente definito; esattamente come per la legislazione profana degli Stati, della quale le regole religiose sono il modello ideale prototipico. Orbene, se questa analogia tra forme valoriali universali concorrenti ha legittimato la loro conflittualità politica, ha mascherato anche l’identificazione, inevitabilmente idolatrica, del Logos divino trascendente con il Logos razionale universale della filosofia naturalistica greca, ossia la rappresentazione dell’Eterno con l’eternità del rappresentante, facendo del soggetto istituzionale e del suo prodotto concettuale il sostituto reale del Rappresentato, cioè di Dio, anticipando così in ambito ecclesiale il movimento di secolarizzazione dell’ambito intellettuale. Un momento importante di verifica della incompatibilità degli attributi divini con quelli naturali fu rappresentato dal concetto di “infinito” applicato allo spazio. Con la contestazione di Leibniz alla definizione di Newton nella sua Ottica del 1706 dello “spazio assoluto” come “sensorium dei”, quale ripresa della kantiana “infinita estensione della presenza divina” contenuta nella Storia universale della natura e teoria del cielo, e quindi con la criticata compatibilità con l’attributo del potere 435
J. Daniélou, Op. cit., pag. 53. L’espressione è di H. Blumenberg (Op. cit., pag. 83), il quale aggiunge che “la costanza della lingua indica la costanza della funzione della coscienza, ma non l’identità del contenuto”: Ivi, pag. 93. 436
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divino, si perviene a una svolta decisiva in senso razionalistico moderno della conoscenza del mondo, in quanto “Leibniz idealizza lo spazio non nell’interesse dell’onnipotenza di Dio, bensì in quello della competenza assoluta della ragione”. 437 Per Leibniz, come già per Aristotile, e dopo per Fiche e quindi per Hegel, essenziale era il problema della fondazione (Begrundung) della filosofia come scienza rigorosa del Logos, la cui premessa era il riconoscimento della finitezza del mondo come essa stessa il principio infinito della sua determinazione razionale. Questo presupposto ontologico offriva alla logica filosofica il suo carattere scientifico, ossia la sua legittimazione metafisica a costituirsi come l’unica gnosi della verità. La constatazione empirica della antinomia tra “l’uomo universale” del Soggetto trascendentale, e la caduca singolarità del tempo umano, viene superata attraverso il ricorso alla dimensione storica del processo della Ragione, che per “ogni soggetto speculativo” rappresenta la “compensazione di quella delusione provocata dal fatto che l’affermata razionalità della storia non giova all’individuo ma, al contrario, è ciò che gli rende davvero insopportabile la contingenza della sua posizione temporale in un processo infinito”, 438 che ha per protagonista la “umanità”, un concetto assunto come realtà ipostatica in funzione di negazione dialettica della finitezza dell’uomo empirico. E pertanto la “infinità” diventa “un predicato dell’indeterminazione”, che assolve la funzione di fondazione dei logoi determinativi che provengono dalla comune origine mitica, la quale, come sappiamo dal Sofista, è il niente originario dal quale deriva l’essere del pensiero. L’infinito dunque, pur non designando concettualmente niente di reale, prende il posto della trascendenza teologica. Ma qual è il valore di cui l’infinito partecipa il concetto? Esso è l’universalità, intesa come “forma ideale” ovvero “legge universale che deve servire come principio per una disposizione sistematica di un materiale molteplice”, di cui la logica è “il metodo”. 439
437
H. Blumenberg, Op. cit., pag. 87. H. Blumenberg, Op. cit., pag. 91. 439 R.H. Lotze, Logik, tr. it. cit., pag. 135. 438
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9. La filosofia moderna, come notavamo supra con Sciacca, si concepisce come teoria della conoscenza, come gnoseologia, pur nella univoca consapevolezza che “la conoscenza, sotto una qualsiasi forma, non può mai essere le cose stesse ma solo rappresentarle”, con la conseguenza che l’ipotetica esistenza delle cose non riguardi la conoscenza, la quale di esse “apprende solamente il loro aspetto fenomenico, non la loro essenza”.440 E poiché, avverte Lotze, l’apprensione minimale della conoscenza, ossia il fenomeno, non deve tradursi in un “pregiudizio”, quello di “accontentarsi” del risultato appunto minimale, tradendo le aspettative riservate di diritto alla conoscenza, di cogliere cioè “l’essenza delle cose”, “una tale valutazione [riduttiva] può non essere legittimata in base a quanto deciderà l’ulteriore progresso della scienza che non siamo in grado di anticipare”. 441 Ecco che, entro il principio scientifico della universalità della conoscenza, la consapevolezza della sua attuale inadeguatezza viene rimossa dal principio accessorio della speranza nel progresso della scienza logica, che rispecchia palesemente la speranza nel progresso della umanità,di cui si diceva supra, che richiama a sua volta la tensione escatologica secolarizzata della speranza cristiana. Non di meno, l’aspetto ancor più rilevante, è che la rappresentazione logico-ideale della realtà difetti nonostante il valore universale delle sue determinazioni concettuali, il che trasforma quel valore scientifico di verità della relativa conoscenza in una credenza epistemologica non dissimile da una fede religiosa. Quale è la credenza che sorregge la scienza moderna se non l’assunzione fideistica che la conoscenza universale dei suoi oggetti di pensiero siano considerati come se (als ob) rappresentassero l’Intero? Ossia “se [l’uomo] è la verità totale delle cose, può sperimentarle e sperimentare il loro rapporto con lui soltanto se si comporta verso di esse con verità totale”, 442 assorbendo nella sua visione anche quel divenire che l’astrazione concettuale ha negato all’atto della sua determinazione onto-logica? In altri termini: la conoscenza logicoconcettuale non fa forse consistere il suo valore uni-versale nel presupposto (che è pregiudizio, credenza e fede) che la sua 440
Ivi, pag. 971. Ivi, pag. 973. 442 H.U. von Balthasar, Op. cit., pag. 48. 441
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rappresentazione della realtà comprenda anche l’elemento di essa di cui viene per statuto metodologico esclusa l’esistenza in sede concettuale, ossia il divenire del mondo informe comune, dal quale l’idea astrae per determinarsi razionalmente? E dunque non è forse tale credenza gnoseologica nella validità universale della conoscenza scientifica un portato della sua fede nel valore della infinita possibilità di determinazione razionale dell’Infinito? Difficile negarlo; così come è ineludibile l’accostamento del rapporto tra l’ipostasi negativa dell’Infinito e la positiva determinazione concettuale, col rapporto tra il Dio trascendente ebraico e la storica incarnazione del Figlio, che derivano entrambi dal paradigma del rapporto tra Mythos e Logos della gnosi razionalistica greca. Da qui la centralità del discorso platonico. Nel Simposio Diotima chiarisce a Socrate la posizione intermedia di Eros, tra la sapienza degli dèi e l’ignoranza del volgo. 443 Ma sulla questione fondamentale, circa il vantaggio arrecato da Eros agli uomini, Diotima offre una risposta sostanzialmente elusiva, di carattere eudemonistico: il possesso delle cose belle arreca all’uomo felicità,444 la quale consiste nel conseguire l’Intero, ritornando così all’Uno originario, che era l’antica natura degli uomini. 445 L’aspirazione erotica dell’uomo a riconquistare attraverso il suo demone l’unità perduta, non coinvolge gli altri, ma è una ricerca singolare, dove l’aspirazione ad avere per sé il Bello costituisce lo scopo stesso della ricerca filosofica. Il rapporto riflessivo e intransitivo tra l’Io ed Eros contrasta radicalmente con il precetto evangelico di “amare il prossimo”, quale fine stesso dell’atteggiamento cristiano, quale modalità esistenziale della fede, conseguente alla conversione del cuore. Nell’atteggiamento platonico non è richiesta alcuna metanoia, ma soltanto una decisione per la sapienza, che coinvolge la volontà del filosofo. Diversamente, il rapporto d’amore in senso cristiano, non considera la fede “come una propria decisione, ma come un’azione di Dio che si è deciso incondizionatamente per gli uomini, così come è divenuto evidente in Gesù Cristo e per mezzo di lui, e che mediante il Suo spirito permette agli 443
Platone, Simposio, 203 e – 204 c. Ivi, 204 c – 205 a. 445 Ivi, 192 e – 193 d. 444
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uomini di decidersi per questa decisione, come risulta evidente nel passaggio dall’incredulità a una vita nella fede” attraverso il battesimo. In questa “decisione di Dio per gli uomini” consiste “il dono” che li libera dall’incredulità e li congiunge alla comunione divina.446 Ciò significa che, a fronte dell’atteggiamento libero dell’uomo di porsi all’ascolto della Parola di Dio, la relazione con Dio dipende dal Suo “dono”, e pertanto, la stessa distanza profana del mondo dalla dimensione sacra, ossia la stessa secolarità in cui si trascrive lo heideggeriano “oblio del’Essere”, ne dipende. “La nuova identità” cristiana, in virtù del libero dono di Dio, non soltanto non può determinarsi come “diritto”, ma neppure “dipende dall’accettazione o dal rifiuto che se ne può fare, bensì li precede e ne è la condizione di possibilità”.447 Al di là dei risvolti elettivi di una teologia della de-responsabilità storica dell’uomo, la questione rivela una disposizione metafisica al riconoscimento del limite ontologico tra il referente divino, Infinito, e la coscienza dell’uomo finito, che è venuta a mancare nella visione scientifica moderna con l’eliminazione del Mistero della Incarnazione come preambulum fidei e fondamento di validità del discorso razionale, e la sua sostituzione con il principio di potenza in-finita, il quale sta a indicare non una differenza ontologica rispetto alla finitezza, ma solo un grado indeterminato di maggiore possibilità. Si ripropone nel moderno, in altre guise, la tensione originaria tra cosmo magico (maghéia), dominato da potenze numinose incontrollabili, e legalità filosofica dell’ordine normativo immutabile del Logos (sophìa) del quale il pensiero dell’uomo è la coscienza riflessa. Il cosmo ordinato, va da sé, è quello della Natura, mentre il Logos, tradizionalmente divino e congiunto da Platone a Goethe in “un unico entusiasmo cosmico come disposizione dell’animo dello uomo che contempla la presenza divina nel mondo”, nel periodo moderno, a seguito dell’affermarsi delle scienze matematiche, la rappresentazione del mondo cambia paradigma, per cui “l’antico atteggiamento contemplativo-religioso è respinto, combattuto e infine
446
I.U. Dalferth, Traszendenz und saekular Welt. Lebensorieniterung an letzer Gegenwart (2015), tr. it., Brescia, 2016, pag. 21. 447 Ivi, pagg. 21 e 22.
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abbattuto senza scalpore” a opera della “nuova mentalità oggettiva”, 448 la quale riposiziona la figura dell’uomo nell’immaginario intellettuale e sociale, facendone il protagonista di un nuovo “ordine morale” fondato sul “diritto naturale”. Originariamente, in pensatori come Grozio e Locke, l’ordine sociale ideale che ne derivava “ non veniva concepito come un’invenzione meramente umana. Era piuttosto il frutto di un disegno divino, un ordine in cui tutto combacia in armonia con gli scopi di Dio. Successivamente, nel corso del XVIII secolo, lo stesso modello venne esteso a un livello cosmico, e sfociò in una visione dell’universo come un insieme di parti che si combinano perfettamente, in cui gli scopi di ogni genere di creatura s’intrecciano con gli scopi di tutte le altre. Questo ordine stabilisce il fine della nostra attività costruttiva nella misura in cui è in nostro potere stravolgerlo o realizzarlo. Ovviamente, quando rivolgiamo lo sguardo al tutto, vediamo sino a che punto l’ordine è già realizzato. Ma quando posiamo gli occhi sulle vicende umane, ci rendiamo conto di quanto abbiamo deviato dall’ordine e in che misura l’abbiamo stravolto; esso diventa dunque la norma a cui dobbiamo sforzarci di ritornare. L’idea era che questo ordine trasparisse dalla natura stessa delle cose. […] Ma la ragione da sola può già indicarci gli scopi di Dio.449
In che senso da sola? E soprattutto perché? Per comprenderlo, bisogna partire dal discrimine tra “l’idealizzazione” dell’ordine naturale e “l’effettivo corso degli eventi, e quindi con l’immaginario sociale vigente, più o meno a tutti i livelli della società”. 450 Ciò significa che storicamente il processo di sviluppo della civiltà, nella sua spontaneità, differisse dal modello ideale, come sapevamo già con Platone, e pertanto l’intervento umano mondanizzante, ossia l’opera di costruzione del mondo umano, abbisognasse di un correttivo razionale, al fine di pervenire al riaccostamento col modello naturale. Come dirà Rousseau in altri termini, il processo della civiltà è una deviazione dall’ordine naturale, in senso corruttivo e non virtuoso. Il mito romantico del buon selvaggio è in essenza rivoluzionario, cioè auspica un ritorno alle origini, appunto 448
H.U. von Balthasar, Op. cit., pagg. 36-37. Ch. Taylor, SA, pag. 218. Corsivo nostro. 450 Ivi, pag. 219. 449
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naturalistiche. La designazione di “naturale” definisce la corrispondenza di un evento, di una aspirazione o di una istituzione al suo paradigma normativo universale. Individuato questo principio informante il cosmo nella ragione, ossia nel Logos cosmico, esso solo avrebbe dovuto regolare, conformemente ai processi naturali, anche i processi storici, poiché il suo valore consisteva appunto nella sua normatività universale. E, dal momento che la storia umana aveva seguito un percorso diverso da quello naturale, compito dell’azine razionale dell’uomo era prescriverlo ai fini eudemonistici della riconciliazione col Tutto, che tornava ad essere appunto, come ab antiquo, la Natura, in cui il Logos stoico e quello cristiano si sovrapponevano. 10. La grande differenza moderna, rispetto alla mentalità naturalistica antica, consiste nel diverso indirizzo della . Infatti, se l’arte di vivere in senso classico, stabilita nell’Alcibiade platonico, poneva come conditio sine qua non la cura di sé quale formazione (, instructio) spirituale concepita come una “armatura protettiva nei confronti del resto del mondo, nei confronti di tutti gli accidenti o di tutti gli eventi che potrebbero verificarsi”. 451 Il che a un tempo presupponeva e implicava una conversione del proprio modo d’essere, che Platone chiama e Seneca convertere ad se, “concepita come la sola cosa capace di dare accesso alla verità”.452 Le diverse fasi di tale “conversione” consistevano, in senso platonico, in un processo di “liberazione” della coscienza pensante dalle apparenze del mondo naturale, per conseguire la “visione” di un altro mondo, quello perfetto e immutabile delle idee, mentre nella cultura ellenistica e romana, invece, tale liberazione della mente “si verifica piuttosto all’interno dello stesso asse dell’immanenza, ovvero [nei termini] di una liberazione rispetto a ciò di cui noi non siamo padroni, per giungere finalmente a ciò di cui possiamo, invece, essere padroni”. 453 Nondimeno, le due forme di conversione (quella platonica, di tipo 451
M. Foucault, L’hermenetique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982, tr. it., Milano (2003) 2011, pag. 85. 452 Ivi, pag. 167. 453 Ivi, pag. 186.
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sapienziale e diretta alla reminiscenza ( ) della condizione originaria della coscienza, cioè all’archetipo mitico dell’Intero; l’altra, quella ellenistica, volta alla , quale esercizio auto-riflessivo della volontà), al di là delle differenze, hanno in comune lo stesso presupposto antropologico della possibilità di evadere dalla necessità legata alla condizione naturale della finitezza, attraverso lo strumento della ragione, il logos o la ratio. L’ costituisce, nelle due varianti, uno dei due momenti costitutivi, secondo P. Hadot, della “polarità permanente all’interno del pensiero, della spiritualità, e della filosofia occidentali”; l’altro è la cristiana,454 di cui diremo oltre. In ogni caso, il mutamento della coscienza attesta la possibilità della sua liberazione; ed è esattamente tale possibilità che verrà considerata dal razionalismo moderno per stabilire, a partire da Cartesio, una rappresentazione dell’uomo bi-polare, proteso metodicamente tanto verso la dimensione naturale dell’ésprit de géometrie, che verso la sua “capacità di verità”. Come ha sottolineato Foucault, “il ruolo della pratica scientifica ha avuto un ruolo decisivo” nella “trasformazione” dell’uomo che semplicemente vede in uomo che osserva metodicamente, per cui “è sufficiente aprire gli occhi, basta ragionare rettamente, in maniera coerente e conseguente, perseverando costantemente lungo la linea dell’evidenza, senza abbandonarla un istante, per diventare capaci di verità”.455 Qui la capacità non è una qualità precipua del filosofo, ma alla portata di chiunque. Se dunque la dialettica socratica aveva lo scopo di evidenziare la differenza tra l’opinione comune e quella scientifica, il metodo avanzato da Cartesio diventava lo strumento della trasformazione, e dunque della liberazione, universale. Viene a cadere modernamente “la condizione di spiritualità per avere accesso alla verità”, e la cognizione metodica della verità ha proprio la funzione di dimostrare che “l’idea di una certa trasformazione spirituale del soggetto, destinata a consentirgli, infine, l’accesso a qualche cosa a cui, per il momento, non ha la possibilità di accedere, risulta chimerica e paradossale”; 456 ossia ha la funzione di evidenziare la natura mitica dell’ordine spirituale che stava a 454
Ivi, pag. 193. Ivi, pag. 167. 456 Ivi, pag. 168. 455
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fondamento di legittimità dell’ordinamento sociale gerarchico, lasciando cadere così, con la funzione pedagogica della classica paideia come criterio selettivo e di merito, anche il ruolo dei clércs che la praticavano. Con l’universalismo metodologico viene pertanto a scardinarsi anche quella “complementarità gerarchica che era il principio sulla base del quale operavano le vite concrete degli individui, a partire dal reame sino alla città, alla diocesi, alla parrocchia, al clan e alla famiglia”. Si è trattato di una “lunga marcia” di “un processo in cui l’idealizzazione moderna […] è entrata in connessione col nostro immaginario sociale, trasformandolo pressoché a ogni livello con conseguenze rivoluzionarie”. 457 Se Cartesio sostiene dunque che ogni uomo, in quanto tale, è capace di conoscere in quanto soggetto la cui struttura gli consente l’accesso alla verità, Kant interviene a completare il “giro di volta supplementare, consistente nel dire quel che non siamo capaci di conoscere costituisce la struttura stessa del soggetto che conosce, che fa sì che non possiamo conoscere neppure quest’ultimo”,458 che perciò trasforma in mitica la pretesa classica. I modi teoretici della universalizzazione eidetica vengono chiariti scientificamente da un critico acerrimo dei limiti della ragione formale cartesiana, Husserl, il quale nella Quarta meditazione cartesiana descrive il “metodo della descrizione eidetica” a partire della percezione empirica della realtà per risalire all’ego trascendentale. Quando infatti ci imbattiamo in eventi reali dell’io trascendentale esistente di fatto, noi descriviamo eventi reali aventi un significato empirico, la cui generalità tuttavia pareva mantenerli in una condizine di indipendenza dalla fatticità empirica dell’io trascendentale stesso.459 Nell’atto di trasferire il fatto della percezione sensibile alla sua “possibilità pura”, senza entrare nel merito del suo “valor d’essere”, trasferiamo la purezza della percezione nella purezza della sua possibilità, trasferendo “in pari modo la percezione effettiva nel regno delle irrealtà effettive, del come-se, che ci procura le possibilità pure, pure da tutto ciò che è connesso con il fatto o con ogni fatto in generale”, a prescindere 457
Ch. Taylor, SA, pag. 219. M. Foucault, Op. cit., pag. 168. 459 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, § 34, tr. it. cit., pag. 95. 458
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dallo stesso legame con l’ego, la cui esistenza sia pure ammessa di fatto, ponendole così “solo come enti immaginabili dalla fantasia in piena libertà”, e dunque omologandoli al “fantasticare entro una percezione, al di fuori di ogni rapporto con la nostra vita esistente di fatto”. Ed è così che noi otteniamo una “percezione universale” concepita come “pura immaginabilità”, sottratta a ogni fatticità e divenuto “l’eidos percezione, il cui ambito ideale è costituito da tutte le percezioni idealiter possibili come pure immaginabilità”. Tali analisi fenomenologiche della percezione sono dunque “analisi di essenze”, le cui possibili variazioni sono di una tale libertà da costituirle come casi singoli di una “possibilità pura” ovvero di necessaria “universalità di essenza” di una intuizione originaria, il cui “correlato è perciò la coscienza intuitiva e apodittica della universalità”. Ciò vuol dire che “l’eidos stesso è un universale puro, veduto o visibile, incondizionato cioè non condizionato da alcun fatto”, e come tale è condizione che precede ogni concetto, il quale anzi, costituendosi nella sua purezza, ne dipende, ossia deve conformarsi a esso.460 Da qui discende che se dunque pensiamo la fenomenologia formata puramente secondo i metodo eidetico come scienza intuitiva a priori, tutte le ricerche di essenze non sono allora altro che rivelazioni dell’universale ego trascendentale in generale contenente in sé tutte le variazioni pure di possibilità del mio io esistente di fatto e quest’io stesso come possibilità. La fenomenologia eidetica ricerca dunque quell’apriorità universale, senza la quale non si può pensare un io né l’io trascendentale in generale; ovvero, poiché ogni universalità d’essenza ha il valore di una legalità inviolabile, la fenomenologia eidetica ricerca l’universale legalità d’essenza che a ogni proposizione di fatto intorno al trascendentale prescrive il suo senso possibile (assieme al suo opposto controsenso).
Ed è per tale via, conclude qui Husserl, che l’io che medita cartesianamente è “condotto dall’idea di una filosofia come scienza universale a fondazione rigorosa e assoluta”, rispetto alla quale la fenomenologia ha la costituzione di una “filosofia prima” 461 460 461
Ivi, pag. 96. Ivi, pag. 97.
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La “priorità universale” ricercata dalla filosofia per fondarsi come scienza rigorosa è a sua volta “un universale puro”, indipendente cioè da ogni realtà effettuale, che “precede” ogni giudizio e ne stabilisce la “legalità”, prescrivendone il “senso possibile”. Lo spirito del sistema è nella sua stessa sistematica autoreferenzialità, o come direbbe Croce, nella sua “sublime tautologia”. La quale, però, non riesce a darsi ragione della realtà concettuale, ossia della rappresentazione ideale del mondo, se non distinguendola dalla realtà fattuale del mondo. Ma qual è il “principio di realtà” che distingue, all’interno del concetto rappresentativo di realtà, la sua “fattualità” dalla mera “immaginabilità”? L’unica risposta razionale possibile è appunto la “universalità” del concetto, ossia il suo stesso principio di validità, il quale, come abbiamo visto, è fondativo di ogni discorso che si voglia scientificamente filosofico, e per l’appunto mitico. Qual è dunque l’aspetto mitico originario e caratteristico del sapere filosofico? Ce lo spiega in un sintetico compendio Heidegger, esattamente a proposito della conoscenza fenomenologica come metodo scientifico del filosofare. Infatti, come egli afferma, la ricerca fenomenologica, considerata nella sua tendenza fondamentale, non può essere altro che la comprensione più esplicita e radicale di quell’idea di scientificità a cui la filosofia ha aspirato, in una serie di sforzi sempre rinnovati e convergenti, in tutte le sue differenti realizzazioni dall’antichità fino a Hegel. […] Noi riteniamo che la fenomenologia non sia una scienza filosofica tra le altre e neppure una propedeutica alle restanti discipline filosofiche, ma che l’espressione ‘fenomenologia’ indichi il metodo della filosofia scientifica in generale. […] È la filosofia, cioè la speculazione teoretica, che deve elaborare e fornire […] la visione filosofica del mondo, escludendo tutte le interpretazioni religiose ed artistiche del mondo e dell’esserci [quale] scopo autentico e l’essenza stessa della filosofia [che perciò,] considerata nel suo concetto, è filosofia delle visioni del mondo.
Fin qui l’identità di ricerca scientifica e filosofia, identificata non con una generica “visione del mondo” (Weltanschauung) ma come espressione teoretico-concettuale ossia speculativa del mondo. ma in che cosa consiste propriamente tale “visione filosofica del mondo”? Come, in altri
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termini, differenziarla dalle altre visioni? Heidegger non elude la questione essenziale, ma la chiarisce in pochi tratti veloci ed essenziali. Dal momento che la filosofia mira a quel che nel mondo vi è di universale e a ciò che è ultimo nell’esserci, mira cioè all’origine, al fine e al perché del mondo e della vita, e vi tende al modo della conoscenza teoretica […] che la filosofia abbia come scopo la costruzione di una visione del mondo sembra fuori discussione. Questo compito deve determinare l’essenza della filosofia e il suo concetto. La filosofia è filosofia delle visioni del mondo.462
Dunque “la filosofia mira a quel che nel mondo vi è di universale”, supponendo che tale universalità esista indubitabilmente, e diventi solo di conseguenza oggetto di ricerca e di riflessione teoretica. Ed è appunto tale credenza a fondare e dirigere i logoi filosofici, le sue mito-logie speculative, esclusive degli “approcci artistici e religiosi” che a suo dire “non si fondano primariamente su di un atteggiamento teoretico” 463 Anche la filosofia dunque è una “visione del mondo”, cioè una “visione della vita” che, al pari delle altre, “sorge da una meditazione complessiva sul mondo e sull’esserci umano”,464 ma è l’unica a poter offrire una visione universale, fondata sul concetto, ossia sul pensiero metodicamente logico, sulla techne razionalista, che non consiste in quella che Kant chiamava un po’ spregiativamente “la dottrina dell’abilità della ragione”, di tradizione scolastica, ma nel senso scientifico e kantiano di “concetto cosmico” (in sensu cosmico), inteso come “la scienza della relazione di ogni conoscenza e di ogni uso della ragione con lo scopo finale della ragione umana, al quale, in quanto fine supremo, tutti gli altri fini sono subordinati e nel quale devono raccogliersi in unità”.465 Ma questo era già l’intento della filosofia “secondo il concetto scolastico”, la quale doveva nelle intenzioni “abbracciare la totalità dei concetti fondamentali, formali e materiali, e dei principii della 462
M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phaenomenologie (1927), tr. it., Genova, 1990, pagg. 2, 3 e 6. Da ora GdPh. 463 Ivi, pag. 6. 464 Ivi, pag. 5. 465 I passi della Kritik ripresi da Heidegger sono in GdPh., pag. 7.
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conoscenza razionale”.466 Lo scopo della filosofia come Weltanschauung scientifica è ben chiaro: fondare un sapere di pretesa universale e che sia fondato su una conoscenza totale della realtà, tale da sostituire la Rivelazione divina col suo proprio fondamento unitario. In questo modo, metodicamente scientifico e moderno, la filosofia intende procedere all’unificazione del mondo, secondo una dinamica sapienziale originariamente cristiana ma di una cattolicità non più emotiva e trascendente, ma razionale e mondana, in altri termini universale. Tale assunto universalistico doveva eliminare lo scoglio della concezione tradizionale del sapere filosofico come disposizione aristocratica dell’anima, destinata a pochi eletti fautori di quella che costituiva la premessa all’iniziazione spirituale, e che la predicazione cristiana aveva trasfigurato in senso teologico nell’idea di metanoia, assegnandole una accezione non teoretica ma esistenziale, e quindi non esclusiva ma possibile a ogni disposizione dello spirito benevola verso Dio. Ma proprio la struttura razionale con la quale si è teorizzato il significato della conversione cristiana rappresenta, a parere di Foucault, “un tipo di conoscenza [che] permette al soggetto – in quanto soggetto razionale, e solo in quanto soggetto razionale – di avere accesso alla verità di Dio, senza condizione di spiritualità”,467 presentandosi dunque storicamente come il paradigma ideale di quella universalità propugnata dalla filosofia moderna come scienza rigorosa dell’essere, che perciò ne rappresenta la versione secolaristica. Secolarizzazione equivale dunque a mondanizzazione senza trascendenza, e quindi a immanentismo. Che cosa immane secondo Kant se non appunto la legge universale della Natura? Essa costituisce la verità in senso illuministico: la verità della invariabilità della natura umana, presupposto della pensabilità filosofica del mondo secondo leggi universali eterne che sottendono ogni variazione storico-temporale.468 Inteso il senso costante e regolare della processualità naturale, è possibile applicarla anche alla 466
M. Heidegger, Ibidem.
467
M. Foucault, Op. cit., pag. 168. Ved. R.G. Collingwood, The Idea of History (1946), tr. it., Milano, 1966, pag. 110.
468
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storia umana, la cui considerazione scientifica consente di tenerla per magistra vitae nella spiegazione attualizzante del passato. Questo sostanzialismo storico consente all’uomo di liberarsi dalla dipendenza eteronoma divina e di collegarsi alla vita cosmica del Logos. La despiritualizzazione della Storia naturalisticamente pensata collega l’idea di salvezza, non più alla volontà graziosa di Dio, ma alla liberazione universale dell’umanità da quanto la legasse alla Provvidenza, per affermare di contro la piena autonomia della sua responsabilità verso il Logos. Dopo la dissoluzione della grandiosa sintesi di Storia e Spirito tentata da Hegel, codesto affrancamento storico in senso in senso filosofico fu indicato come rivoluzione, che rappresentava il momento operativo del concetto, il rispecchiamento pratico dell’Idea, divenuta “visione del mondo filosofica”. Anche questa prospettiva possiamo intenderla solo se collegata al paradigma apocalittico cristiano, in cui la speranza dell’Antico Testamento viene intesa come destino del popolo, coincidente con “la responsabilità del singolo”, che pertanto diviene “responsabile soltanto di se stesso”.469 Infatti, delusa l’attesa escatologica della fine del mondo e differita alla fine dei tempi la parousìa di Cristo, l’attenzione della coscienza si spostò sulla realtà del tempo finito, dove la fede ricerca la prova della sua credibilità storica. La narratio della vita di Gesù viene proposta da Luca appunto come una vicenda situata nel tempo profano, in cui la testimonianza oculare viene mano a mano tramandata come depositum fidei.470 Con Paolo e Giovanni, nasce l’idea del “tempo intermedio” tra l’avvento del Paraclito e il Suo ritorno, con una inflessione del tempo vieppiù cronologica, dove viene diluita l’originaria tensione escatologica paolina legata alla purificazione del battesimo e della rinascita dopo la vita peccaminosa.471 Ed è propriamente questa concezione della seconda nascita a caratterizzare la metanoia cristiana, che è anche il modello teologico del rischiaramento razionale propugnato dall’Illuminismo, in cui nella visione kantiana della storia viene “mantenuta in forma
469
R. Bultmann, Storia ed escatologia, cit., pagg. 44-45. Ivi, pagg. 53-54. 471 Ivi, pag. 67. 470
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secolarizzata anche l’idea del compimento escatologico”. Infatti nella filosofia critica di Kant, si mantiene l’idea della storia universale come campo teleologico [dove] la storia, non meno della natura, deve essere vista come un insieme di fatti che si svolgono secondo un disegno. Il fine di questo piano è la realizzazione dell’essere umano in quanto essere razionale e morale, [che] deve avvenire non soltanto nel singolo individuo ma anche nella storia come totalità. […] Essa è dunque il progresso morale verso la razionalità, la religione razionale, la fede morale. Così la storia del Cristianesimo viene interpretata come l’evoluzione dalla religione rivelata alla religione razionale. Il suo fine non è il regno di Dio come condizione astorica di felicità, ma il regno di Dio come comunità etica sulla terra. […] La conversione dell’uomo alla fede cristiana è per Kant la riconversione degli impulsi all’interno dell’uomo. per questo scopo l’uomo ha bisogno di credere in un potere divino. […] La visione kantiana della storia è così una secolarizzazione in chiave morale della teologia cristiana della storia con la sua escatologia.472
Il “passaggio” da quello che possiamo chiamare per intenderci lo storicismo sacro allo storicismo profano è segnato dalla diversa concezione della verità quale stabilita da Platone e rispettivamente da Cartesio. La classica “salvezza di sé” platonica, intesa come soteriologia catartica, implicava la salvezza collettiva e politica: ne era la condizione. Nei primi secoli cristiani, invece, cioè in età ellenistica, la relazione viene “rovesciata: ci si deve curare di sé perché si è se stessi, e semplicemente per se stessi. E i vantaggi per gli altri, la salvezza degli altri, o quel determinato modo di curarsi degli altri che permetterà la loro salvezza, sopravverranno a titolo di beneficio supplementare”, quale “effetto” della cura di sé (epimeleia heautou). 473 Il circuito virtuoso nel primo caso si determina all’interno della sfera socio-politica, cioè del riconoscimento collettivo della virtù che la coscienza si propone di conseguire. Il fine etico dell’azione salvifica coincide col suo inizio sociale. Gli altri sono i destinatari della salvezza individuale in quanto ne sono la condizione. 472 473
R. Bultmann, Op. cit., pagg. 87 e 88. M. Foucault, Op. cit., pag. 170.
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Non vi è un luogo ove ci si possa salvare se non il consorzio sociale, la città politica. Non ci si salva da soli. Nell’altro caso, la cura di sé è una conseguenza del deficit antropologico dell’uomo che, a differenza degli animali, è abbandonato a se stesso, alla sua imperfezione naturale, alla quale deve supplire l’uso della ragione. Questa concezione attraversa, da Epitteto a Gehlen, tutto il pensiero naturalistico, facendo della razionalità umana un correttivo naturale. Ma il termine naturale, come sappiamo, non designa razionalisticamente una condizione sub-umana ma la appartenenza a un ordine cosmico nel quale è inscritta l’esperienza umana e di cui fa parte l’uomo in quanto essere appunto naturale. In questo senso la cura di sé coincide con la ricerca del proprio posto nel mondo, del cui ordine universale il singolo è parte. E tanto più egli pervenga a stabilire ciò che è adeguato al suo essere naturale particolare, tanto più la sua posizione nel mondo è razionale. E’ questo il senso filosofico della “cultura di sé” come paideia e come techne tou biou. La conversione cristiana (metanoia) non è una progressio ad perfectionem, ma una “rottura” interiore, a seguito della quale “il sé che si converte è u sé che ha rinunciato a se stesso [per] rinascere in un altro sé e in una forma del tutto nuova”.474 Questa ri-nascita è anche una rivoluzione, ossia un volgersi alle origini del senso della vita che potremmo indicare come un mutamento del fondamento dell’Essere. l’uomo, animal rationale, prendendo coscienza di sé come essere spirituale, si converte, ossia converte la sua coscienza, alla dimensione dell’in-finito, che è il regno di Dio. E la conversione consiste non tanto nel distacco dal mondo fenomenico, che già era stato prescritto dalla filosofia greca, quanto nella riconsiderazione della realtà del mondo, che la metanoia fa vedere con altri occhi. È opportuno l’accostamento fatta da Foucault del “guardare” in senso greco col “conoscere”, sicché guardarsi vale a conoscersi, ma sarebbe riduttivo assegnargli il senso di una “consegna di vigilanza” 475 Infatti col Cristianesimo cambia lo sguardo dell’uomo sul mondo.476 La sua vista non vede più il mondo nel suo 474
M. Foucault, Op. cit., pag. 188. Ivi, pag. 194. 476 Ivi, pag. 195. 475
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funzionamento organico e auto-sufficiente, ma nella sua destinazione finale, ma lo trascende E ciò che lo sguardo della fede trascende è la realtà naturale del mondo, assegnandogli un inizio creativo e un fine meta-fisico. La rottura di cui si diceva è il “pentimento”, indicato appunto dai classici col verbo , che vuol dire ricredersi degli errori, indicante perciò “un significato sempre negativo”, 477 che va evitato grazie alla accortezza, allo scrupolo, alla preparazione. Il senso cristiano di metanoia è invece tutt’altro e positivo. Anzitutto, l’ascesi cristiana pone la rinuncia a sé come strumentale all’accesso “all’altra vita, alla luce, alla verità e alla salvezza”.478 Inoltre, la precettistica morale sul soggetto non era cristianamente intesa in funzione della sua liberazione dal Potere attraverso una resistenza caratteriale o intellettuale, quale istanza immanente alla condizione socio-politica, ma in funzione del dialogo con Dio.479 Ma, ciò nonostante, se considerassimo la genesi dello atteggiamento ascetico cristiano che si sviluppò tra il III e il IV secolo secondo una prospettiva, e all’interno di una linearità, di tipo storico, potremmo [inferire che] nel precetto ellenistico e romano della conversione a sé [è,] forse, possibile identificare il punto d’origine e il primo radicamento di tutte quelle pratiche e di tutte quelle conoscenze che saranno, in seguito, sviluppate nel mondo cristiano e in quello moderno, intravvedendo in quel nucleo di pensiero “la prima forma di quelle che in seguito potranno essere chiamate le scienze dello spirito, la psicologia, l’analisi della coscienza, etc. [da cui] ha potuto prendere forma la questione della verità del soggetto.480
Il “modello cristiano” conosce il sé attraverso l’esegesi della Parola di Dio riportata dal Libro e quindi ottempera a una precettistica morale caratteristicamente non-egoistica, ma tuttavia nata “all’interno di un paesaggio profondamente contraddistinto dall’obbligo di occuparsi di se stessi” come quello ellenistico, il cui fondamentale precetto della cura di sé “è stato dimenticato” e culturalmente “cancellato” dopo circa un millennio a causa dell’insorgenza del “momento cartesiano”. Questo 477
Ivi, pag. 191. Ivi, pag. 220. 479 Ivi, pag. 225. 480 M. Foucault, Op. cit., pag. 223. 478
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metodo, come è attestato nelle Meditazioni, “ha posto all’origine, nel punto di partenza del procedimento filosofico, l’evidenza […]così come essa si offre effettivamente alla coscienza”, ponendo dunque la coscienza alla base della conoscenza di sé e del mondo e facendo “del conosci te stesso uno degli accessi fondamentali alla verità”.481 Se per la sapienza antica l’accesso alla verità era condizionato dalla purificazione spirituale, intendendo per “spiritualità l’insieme di quelle ricerche, di quelle pratiche e di quelle esperienze, conversioni dello sguardo e modificazioni d’esistenza” indispensabili al soggetto per accedere alla verità divenendone “capace” di riceverla. 482 In seguito egli perviene alla sua trasfigurazione, poiché “per la spiritualità, la verità non è semplicemente quel che è stato concesso al soggetto per ricompensarlo, in qualche modo, dell’atto di conoscenza e per portare a compimento tale atto, [ma] la verità è quel che illumina il soggetto, quel che gli concede la beatitudine [e] che realizza il soggetto stesso, che realizza l’essere stesso del soggetto”. 483 La tradizione filosofica è pervenuta alla gnosi cristiana attraverso Aristotele, ossia il filosofo “per il quale la questione della spiritualità è stata meno importante”, riconoscendolo come “il fondatore stesso della filosofia nel senso moderno del termine”, intendendo per età moderna della storia della verità “il giorno in cui si è ammesso che è la conoscenza, e la conoscenza solamente, a consentire l’accesso alla verità e a fissare le condizioni in base alle quali il soggetto può avere accesso a essa ”, ciò che Foucault chiama il “momento cartesiano” della verità. 484 Moderna è dunque la concezione secondo la quale il filosofo in qualità di scienziato può accedere alla verità in virtù della sua stessa condizione umana, ossia grazie alla sola conoscenza, a prescindere da ogni sua predisposizione e pre-parazione spirituale. Sono le regulae, il metodo, a consentire l’accesso universale alla verità, ossia condizioni formali e non legate alla qualità spirituale della coscienza. La conseguenza esistenziale di tale credenza gnoseologica moderna è che, a fronte della possibilità che l’uomo acceda alla verità rimanendo nella sua condizione pregressa, 481
Ivi, pagg. 15-16. Ivi, pag. 17. 483 Ivi, pag. 18. 484 Ivi, pag. 19. 482
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proprio perciò questa diventa un percorso progressivo e indefinito verso la verità, e non già un punto di svolta a partire dal quale l’uomo spirituale si salvi dalla sua precedente ignoranza della verità. La conoscenza in senso moderno pertanto non salva più l’uomo. 485 Da che cosa doveva essere salvato l’uomo moderno? Certamente dal “dubbio” circa la possibilità di pervenire alla verità, ossia sulle capacità dell’uomo di conoscere la verità, che un tempo era la parola di Dio e ora ri-diventa il sistema della Natura e la realtà della storia umana che è inscritta nella sua legislazione. Il dubbio diventava appunto “metodico”, relativo cioè al metodo della ricerca scientifica della verità. Anche questa posizione derivava dalla questione della verità che occupava la riflessione teologica come indagine continua circa il contenuto della Rivelazione sull’uomo nuovo fautore di un mondo nuovo. “Dubbio in questo senso significava confrontazione con la questione della verità come compito che non finisce mai, che sempre si imponeva al teologo” medievale, che procedeva attraverso la formulazione di quaestiones, che erano “interrogativi formulati chiaramente e in modo il più possibile preciso”486 Ora tale dubbio assumeva il valore cartesiano della premessa della conoscenza. L’uomo non dipendeva più dalla Parola, ma dal metodo della conoscenza, che l’avrebbe sollevato dalla infinita esegesi della Rivelazione, ossia proprio da quel Logos che costituiva l’ambito della ricerca filosofica, e per la cui penetrazione l’animo doveva prepararsi e la mente allenarsi. Con Cartesio, l’incontro socratico-platonico dell’immagine con a parola, dell’intuizione sensibile con la sua rappresentazione subisce una scissione metafisica, tra la spazialità fisica e la perspicuità intellettiva. L’ambito arcaico non è più, nello spirito moderno, la Parola in-determinata e perciò misteriosa della Rivelazione, ma l’immagine della Natura, il fenomeno, nella sua nuda presenza fisica. Era consequenziale che la conoscenza trovasse nella fisicità della realtà naturale i suoi contenuti teoretici e i suoi limiti ermeneutici, propri della logica trascendentale. E pertanto, all’inizio della riflessione metodica non c’è più il Mistero della salvezza () le cui formule 485
Ivi, pag. 21. K. Barth, Einfuehrung in die evangelische Theologie (1961-62), tr. it., Cinisello Balsamo, 1990, pagg. 161-162. 486
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kerygmatiche della siano da decriptare esegeticamente, per mezzo di una e di una particolari, ma l’enigma, che verrà sciolto metodicamente dalla ragione scientifica. La salvezza cristiana () si identificava con la stessa vita () e indicava la “liberazione dalla morte” attraverso il sacrificio divino. Cristo è perciò appellato come il e di conseguenza il Vangelo è indicato anche come (Atti 13,26). La salvezza dalla morte indicava il superamento della condizione finita, da parte del Risorto, e generalmente l’emancipazione dalla dipendenza dalle potenze cosmiche (), tra le quali rientrava la morte, e dunque una liberazione () dai limiti della finitezza naturale. 487 Ma ciò che qui più rileva è che “il rapporto tra presente e futuro della salvezza”, ottenuta col battesimo, così come viene inteso in Paolo e in Giovanni, non consiste nella liberazione una tantum dal “potere del peccato”, ma soltanto crea la premessa di una salvezza futura ottenuta attraverso l’ossequio ai comandamenti di Dio, che è (Gc 1,25; 2,12).488 Ciò vuol dire che la fede () nell’esistenza di Dio, e dunque la conversione spirituale, è la condizione preventiva della validità soteriologica della ortoprassi dell’uomo redento, che mette in pratica le leggi divine come operatore di opere (). Il rinnovamento della fede è la rinascita spirituale del “giusto” ( ) tramite il battesimo, “fonda una nuova vita mediante il dono del ”, che per Paolo è la forza del vivere cristiano, sicché ogni cristiano possa essere chiamato un essere “spirituale” (), in antitesi all’essere meramente naturale (), seguendo il precetto per la rettitudine (), e tutti gli uomini possano essere esortati a “diventare esseri spirituali” ().489 D’altronde, essendo la Dio stesso, ogni esegesi della Sua parola è un “discorso sulla fede” () che mira a preservare la comunità ecclesiale dall’ostilità del mondo, che è la condizione storica presente del “tempo di salvezza inaugurato dall’atto di Dio in Cristo con la vittoria 487
R. Bultmann, Theologie des Neuen Testaments (1953), tr. it., Brescia, 19922, pagg. 482-483. 488 Ivi, pag. 486. 489 Ivi, pag. 488.
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sulle potenze cosmiche”, rappresentato dal battesimo quale “pegno” () della salvezza futura (Ef. 1,13 sgg), e confermato da una condotta di vita obbediente,490 per cui “la vita del cristiano viene intesa da capo a fondo come la preparazione alla salvezza futura mediante l’osservanza delle , mediante uno stile di vita che rinuncia al mondo”.491 La caratteristica del moralismo cristiano, rispetto a quello della tradizione sinagogale, è che “risente” soprattutto delle “tendenze ellenistiche di fuga del mondo e di ascesi”. 492 Ora possiamo ben intendere che la salvezza annunciata dall’ consiste nella rivelazione del Mistero, custodito dalla Parola comunicata all’uomo, e dunque nella “conoscenza che lo attinge”. 493 Anzi, per Paolo, la conoscenza della volontà di Dio diventa la “qualità centrale” dell’essere cristiani e la condizione preventiva di una “condotta degna” (Col. 1,9s.28; 4,5; Ef. 5,17).494 La prospettiva escatologica comincia a sfumare già nelle Pastorali, anche se in esse la grazia viene ancora considerata “la forza che plasma la vita civile”, mentre nella prima lettera di Clemente “la tensione escatologica è scomparsa”, e il senso della fede ( ) viene a perdere il senso paolino e giovanneo per assumere un’accezione etica, di comune pietà religiosa (). Anche la non è più “un carisma particolare” che “ha un oggetto specifico”, ma ha valore di “conoscenza cristiana in generale”.495 Nelle lettere di Ignazio, infine, “l’immagine tradizionale dell’escatologia cristiana primitiva è del tutto scomparsa [e] la speranza ha ormai interamente come oggetto la salvezza dell’individuo”, così che “la dimensione temporale si è ormai ritratta per lasciar posto alla dimensione spaziale dell’aldiqua in confronto all’aldilà”.496 L’individualità spirituale, a sua volta, viene intesa come salvezza comunitaria nell’ambito della religiosità ecclesiale, con il 490
Ivi, pagg. 498-499. Ivi, pag. 495. 492 Ivi, pag. 493. 493 Ivi, pag. 499. 494 Ivi, pag. 500. 495 Ivi, pagg. 506-510. 496 Ivi, pag. 511. 491
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vescovo a capo della comunità eucaristica.497 Con Ignazio la non indica più la salvezza ma la rettitudine morale, né il termine la forza della vita morale ma la sfera della realtà trascendente, interpretati in una chiave legalistica e all’interno della cornice culturale ellenistica, 498 dove il tempo escatologico e demondanizzato paolino di Gal, Fil e 1 Cor, e soprattutto giovanneo, lascia il passo al tempo cronologico, che fa del “tempo intermedio” dell’eone cristiano il presente di un atteso futuro. E’ già dunque tutta delineata la piega storicistica e umanistica interna alla condizione paradossale del Cristo, nella cui figura coesiste pariteticamente tanto l’umanizzazione di Dio che la divinizzazione dell’uomo, in una oscillazione non dialettizzabile e non definibile quindi entro le forme della gnosi razionalistica della cultura ellenistica, e perciò sempre sospesa tra antica legalità normativa e nuova spiritualità profetica. Come ha magistralmente riassunto Bultmann, “quanto più la fede cristiana degenera in religione della legge, tanto più il significato di Cristo si riduce alla sua sola presenza ed efficacia nel sacramento. Quanto meno egli è presente nella parola, tanto più la chiesa diventa un dispositivo sacramentale di salvezza”.499 Due osservazioni ci sembrano rilevanti. La prima, riguarda il rapporto tra la “cura di sé” spirituale e la Verità; la seconda, inerisce invece alla complementarietà della salvezza spirituale possibile solo all’interno della comunità ecclesiale. La Parola divina è per definizione esterna perché rivelata, e dunque presuppone l’inaccessibilità umana senza la grazia di Dio e l’Incarnazione del Figlio come Logos mediatore tra la Verità stessa e gli uomini. L’uomo dunque deve mettersi in condizione di riceverla attraverso la conversione del cuore o la fede. ma in che senso allora Agostino affermava che la verità è all’interno dell’uomo? In questo caso, la “veritas” che abita “in interiore homine” non equivale al Verbum divino, ma neppure alla sua interpretazione da parte degli esegeti. In Agostino la “verità” interiore è il sentimento della fede che si predispone ad accogliere la parola di Dio, ossia l’intuizione che subentra nell’animo di chi si sia messo nelle 497
Ivi, pag. 512. Ivi, pag. 517. 499 Ivi, pag. 520. 498
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condizioni di, curando sé al fine di, accogliere la Verità. e dunque la verità è dentro l’uomo allorquando egli si sia già predisposto, e soltanto allora, quando egli cioè di sente pronto ad accoglierla, la Verità sopraggiunge in lui, essendo già presente in chi la ricercasse. Ora, venendo all’altro aspetto, poiché la fede cristiana è essenzialmente charitas, ossia cura del prossimo, la rivelazione interiore della propria fede avviene attraverso la cura del prossimo, ossia all’interno della comunità dei credenti, che è la ekklesìa, che diventa il luogo della preparazione ad accogliere la Verità. Trai due aspetti esiste una forte correlazione, in quanto non c’è Verità senza Rivelazione, e non c’è preparazione alla Verità senza la chiesa di Cristo, che ne è il Mediatore. La Verità dunque è Cristo che è anche la chiesa. Non ci sarebbe Verità né chiesa senza Cristo. ma è proprio questa identificazione tra la Verità di Cristo e la chiesa di Cristo, a ingenerare l’identità traslata di Chiesa e Verità. in realtà, la chiesa di Cristo è la comunità dei cristiani, il corpo mistico () il quale, per il suo carattere esistenziale e non formale - poiché costituito di tante singolarità ognuna delle quali si prepara ad accogliere la Verità in interiore -, non può essere rappresentata, se non appunto astraendo dalla concreta realtà singolare dei suoi componenti. La chiesa cristiana, cioè, non è un consorzio civile stabile nei suoi interessi e nei suoi fini mondani, ma il luogo operativo in cui si pratica la carità preparandosi ad accogliere la Parola. Diversamente dalla sinagoga, la chiesa cristiana è un “tempio mistico”, cioè un luogo pneumatico (), dove avviene l’evento eucaristico e si manifesta il presente escatologico. Il luogo in cui ci si libera delle identità mondane per acquisire lo status fidelis, quello in cui ognuno, spogliandosi della sua identità sociale e politica, perviene alla sua trasfigurazione in essere spirituale realizzando la sua “libertà” spirituale dal mondo. Non può sfuggire l’analogia e soprattutto la radicale differenza con l’isonomia quale status pubblico del cittadino libero ateniese che, in virtù della cittadinanza, poteva vantare il suo diritto alla partecipazione alla vita politica. Nel caso della ekklesìa il nomos è quello delle della Parola divina, e in luogo della cittadinanza abbiamo l’appartenenza per fede (), ma in entrambi i casi vi è il comune presupposto della condizione di uomo libero, certamente declinata in senso diverso e
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opposto, ma comunque indicativo di uno status libertatis che qualificava il singolo e lo abilitava alla partecipazione comunitaria. La libertà politica era sicuramente diversa da quella spirituale, in quanto qualificava la condizione del cittadino che entrava in dialogo con gli atri cittadini, secondando un atteggiamento conforme alla natura dell’uomo quale logos ekon, capace cioè di parlare. Era la stessa condizione umana di parlante a fare aristotelicamente dell’uomo un essere politico, essendo la parola espressiva, a un tempo, sia della facoltà raziocinante che della necessità di coesistere nel dialogo con gli altri simili. Il dia-logo rivelava la necessità di trascendere in qualche modo la propria finitezza singolare della natura umana, partecipando appunto alla vita politica. la politica dialogica costituiva il luogo in cui si realizzava la pienezza dell’esistenza logoica, di cui la tecnica dialettica dei filosofi rappresentava il versante scientifico, propriamente logico. Nell’ambito ecclesiale, il dia-logo consisteva nella comunicazione commentata della Parola divina tra fedeli a Cristo, che costituiva il corrispondente spirituale del Logos politico e di quello filosofico. Ma si trattava di una corrispondenza soltanto funzionale, non già sostanziale, anche se l’analogia è evidente e all’origine della rappresentazione razionalistica della Cristo-logia e della teo-logia ecclesiale della Chiesa cattolica come , come rappresentazione ideale e oggettiva del corpo mistico di Cristo, con una inversione di senso radicale rispetto alla comunione in cui l’intendeva Paolo in Col ed Ef. Anche l’impegno politico comporta una gestione di sé che è bensì legata allo status civilis dell’uomo libero, che ha tempo di occuparsi di sé non essendo legato al bisogno di procurarsi il sostentamento di che vivere, ma è dipendente dalla necessità di prepararsi alla vita pubblica, di ricevere cioè una educazione adeguata al ruolo pubblico. Come ha notato opportunamente Foucault commentando l’Alcibiade di Platone, la questione della cura di sé, il tema della cura di se stessi, non fa la sua comparsa [nel dialogo tra Alcibiade e Socrate] come se si trattasse di uno degli aspetti di un privilegio statutario, bensì emerge, piuttosto, come una condizione, e precisamente la condizione necessaria per passare dal privilegio statutario proprio di Alcibiade (appartenenza a una grande famiglia, ricca, tradizionale, e così via) a un’azione politica definita, al governo effettivo
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della città. Il fatto di “occuparsi di se stessi”, come si vede, risulta presupposto nella, e viene dedotto dalla, volontà dell’individuo di esercitare il potere politico sugli altri. Non si possono governare gli altri, non li si può governare bene, non si possono cioè trasformare i propri privilegi in azione politica sugli altri, in azione razionale, se non ci si è presi cura di sé stessi. Il punto in cui emerge una nozione come quella di cura di sé si situa dunque tra privilegio e azione politica.500
Ciò che emerge dal passo citato, e che non viene messo in risalto da Foucault, è che la non riguarda la cura come Besorgen, ossia come l’avere cura di sé, in qual caso essa coinciderebbe con la ; ma la cura nel senso heideggeriano di Fuersorge, ossia il prendersi cura degli altri, che è una delle accezioni di . E infatti indica l’amministrazione della res publica, ossia il Governo. Tale occupazione degli affari comuni non è una semplice cura di sé, legata alla condizione esistenziale dell’uomo: la Sorge di cui parla Heidegger. Essa è l’attività propria di chi trasferisce nel comportamento altrui la propria condizione libera, ovvero “i propri privilegi”. In questa “trasformazione” degli altri nel modello ideale incarnato dal governante consiste la “azione politica” intesa come “azione razionale”, che lo stesso Foucault usa come sinonimi. La cura di sé, pertanto, di cui discorre Socrate a proposito del Governo della città, non è l’apprendistato generico di chi intenda conquistare il Potere politico, ma di chi volesse esercitarlo adeguatamente, con . Ma “il modo adeguato” è anche il che tende, non già alla conformità al modello ideale unitario, a cui è preposto appunto il Potere, bensì ad assicurare quella auctoritas limitante l’espansione del Potere in senso assolutistico. Da quanto detto, emerge dunque che la cura razionale di sé coincide col fine di occuparsi della vita pubblica, non in quanto mero detentore della libertà politica, ma in quanto promotore della sua razionalizzazione, la quale consiste nell’uniformare le molteplici e diverse libertà legate allo status di cittadinanza, ossia alla isonomia, al modello ideale unitario, che 500
M. Foucault, Op. cit., pag. 33.
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è quello appunto razionale. Il Governo come politica razionale equivale a dare forma unitaria al socialmente molteplice. Il correttivo razionalistico, assegnato da Platone come compito precipuo del Governo ideale della città, è il senso razionale della intesa come neutro esercizio della libertà della cittadinanza: è il suo universale. Per comprendere la differenza tra la libertà in senso razionalistico greco, come politica, e la libertà in senso spiritualistico cristiano, dobbiamo considerare la differente “cura di sé” richiesta nei due casi.
III
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IL SENSO GRECO DELLA POLITICA
I Greci d’altronde, se consideriamo l’altezza solare e unica della loro arte, noi dobbiamo costruirli già a priori come gli “uomini politici in sé”. (F. Nietsche)
1. Secondo Hannah Arendt, interprete attenta della filosofia politica greca, “la politica si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini. Dio ha creato l’uomo, gli uomini sono un prodotto umano, terreno, il prodotto della natura umana”.501 Avendo creato l’uomo, Dio ha con esso stabilito l’unità spirituale del genere umano, tale che, come notò Kierkegaard, l’evenienza in cui occorre Adamo di manifesta altresì in tutti i singoli uomini, ella specie umana stessa. Ma da ciò consegue che gli uomini, fuori della loro identità spirituale, si determinino storicamente sulla loro empirica diversità, a partir dalla quale nasce il problema fattuale della loro relazione, per cui ogni problematica inerente ai rapporti tra uomini sarebbe di carattere storico ed empirico. Esiste dunque una duplicità di approcci al tema della natura umana. L’approccio spiritualistico, che ha come tema l’uomo e la sua unità di genere meta-fisico, e l’approccio storico-sociologico, che ha per tema le relazioni fra gli uomini. Poiché “per tutto il pensiero scientifico esiste solo l’uomo”,’approccio scientifico pretende di considerare le relazioni fra gli uomini nei termini di una presunta condizione ontologica definitiva e necessaria, originaria e immutabile, servendosi di un modello universale il quale, dovendo rispecchiare una situazione storica, non è che la proiezione ideale di una condizione empirica oggettivata, cioè razionale. Così ha inteso la politica il pensiero classico a partire da Platone. la 501
H. Arendt, Was ist Politik? (1950-1956), tr. it. della ed. ted. (1993), Milano (1995) 1997, pag. 5. Da ora WiP.
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filosofia politica è una relazione idealizzata tra gli uomini pensati come uguali. Per la Arendt, “la politica tratta della convivenza e comunanza dei diversi”, 502 e dunque l’approccio corretto sarebbe quello sociologico, e non quello scientifico-filosofico. Da qui la sua ipotesi per cui “politicamente gli uomini si organizzarono in base a determinati tratti comuni essenziali all’interno di un caos assoluto, oppure da un assoluto caos di differenze”.503 Ma quali sarebbero tali “tratti comuni essenziali”? La questione è decisiva. Infatti, la risposta greca fu nel senso della essenziale naturalità della comunanza fra gli uomini, tale che la sua rilevazione scientifico-razionale coincidesse con le leggi cosmologiche interne alla stessa Natura, della quale l’uomo faceva parte integrante e organica. Questa ipotesi legittimava l’approccio filosofico universalistico. La risposta cristiana, invece, concepisce l’unità del genere umano nella sua essenza spirituale, tale che ogni razionalizzazione teoretica la presupponga, e quindi sia di carattere teo-logico, e non socio-logico. Se per comprendere la libertà del cittadino occorre considerare la libertà nella polis, per comprendere la libertà dell’uomo spirituale bisogna partire dalla libertà di Dio, quale “fonte e criterio di ogni libertà”. E poiché “Dio non è senza l’uomo […] la libertà di Dio va riconosciuta come la libertà per gli uomini”, sicché non si può trattare della libertà se non nella relazione dell’uomo con Dio, nella “guardando alla storia tra Dio e l’uomo”. 504 La concretezza dell’esistenza umana e dunque della libertà dell’uomo è nel rapporto che la condizione libera intrattiene con la libertà di Dio, del Suo determinarsi come storia umana. E proprio in questa presenza immanente del trascendente, “fin dall’inizio e attraverso tutte le peripezie, […] in questo suo essere e agire con l’uomo, Dio inaugura la storia della salvezza”.505 Esiste dunque la storia umana, in senso spirituale, solo entro la dimensione del rapporto di libertà col divino. La cura di sé in senso cristiano è la coltivazione di tale rapporto, che nel pensiero greco diventa rapporto del pensiero col Logos, sicché il 502
Ibidem. Ibidem. 504 K. Barth, Il dono della libertà (1953), in Mit dem Anfang anfangen. Karl BarthLesebuch (1985), tr. it. Iniziare dall’inizio, Brescia, 1990, pagg. 96-97. 505 Ivi, pag. 97. 503
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rapporto spirituale cristiano tra (la libertà de) l’uomo con (la libertà di) Dio è l’analogo del dialogo razionale, tra la coscienza filosofica e il Logos. Non c’è filosofia senza dialogo logico, così come non c’è libertà fuori del rapporto con Dio. La stessa realtà storica della convivenza umana rivela che esiste una condizione relazionale fra gli uomini che non è artificiale, ma coniuga nella sua esistenza sia l’aspetto naturalistico che quello spiritualistico: la comunità famigliare. Questa infatti assolve sia alla procreazione e perpetuazione naturale della specie umana,che ai primari bisogni morali dell’uomo di riconoscersi come affine nella diversità singolare attraverso il sentimento che lega i membri del nucleo parentale. Finché gli organismi politici sono edificati sulla famiglia e intesi nel quadro della famiglia, l’affinità ai suoi vari livelli è considerata da un lato l’elemento che può unificare i diversi, e dall’altro quello che consente a strutture di tipo individuale di discostarsi e distinguersi l’una dall’altra.
Ciò per la Arendt provoca la “duplice rovina della politica”, in quando si prende “a fingere che si possa uscire per vie naturali dal principio della diversità”, sicché “invece di procreare un uomo si cerca di creare, a propria immagine e somiglianza, l’uomo”, ovvero “ci si comincia a credere Dio”. 506 Ma cosa si intende per “principio della diversità”?Esso è naturalistico o spiritualistico? Ricordiamo che la visione dell’universalismo razionalistico nasce in conseguenza della fisiologia umana, da cui procede l’unità tipologica dell’uomo come specie. Dal punto di vista naturalistico, non c’è diversità essenziale tra gli uomini, ma solo accidentale ed empirica. Per questo è possibile risalire dalla diversità empirica all’unità fisiologica della condizione antropologica e trattare l’uomo come tipo naturale o zoòn politikòn. In senso naturalistico la famiglia è un nucleo aggregativo originario, poiché la condizione di socialità è inscritta nell’unità funzionale della specie, come dato fisiologico caratterizzante, al pari del numero degli organi e della loro posizione. E dunque il “principio della diversità” bisogna rintracciarlo altrove, ossia nel campo delle facoltà spirituali: nel logos, o meglio nel legein, cioè nel dire. 506
H. Arendt, WiP, pag. 6.
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La pluralità che origina dalla singolarità spirituale non inficia il rapporto naturale, cioè l’omogeneità fisiologica, ma ne determina il precipuo rapporto relazionale, dal quale nasce la problematica politica. Se infatti il rapporto politico fosse meramente interno alla dimensione naturalistica, la socialità naturale dell’uomo sarebbe inscritta nell’organizzazione stessa della famiglia, in cui consisterebbe ab origine. Ma il rapporto politico si distingue da un rapporto similare delle altre specie naturali in quanto segnato dalla singolarità dell’uomo come essere spirituale, dotato perciò di parola. Nel parlare l’uomo manifesta la sua singolarità. La convivenza famigliare armonizza la singolarità umana attraverso il sentimento d’appartenenza comunitaria, mentre la coesistenza tra nuclei conviventi (la ) genera la questione politica, specificamente umana. Negare la convivenza familiare per assumere il solo dato singolare dell’uomo è possibile attraverso una relazione sentimentale più ampia di quella familiare, ma omogenea nell’ispirazione. Laddove l’unità più ampia ottenibile fosse di carattere politico, essa dovrebbe negare la singolarità degli uomini a favore del principio egalitario che la negherebbe in senso costrittivo. La storia politica dell’umanità è perciò una storia di violenza perpetuata contro la singolarità spirituale dell’uomo, contro la sua libertà di parola. La libertà è carattere coessenziale alla singolarità dell’uomo quae essere spirituale, e tale in quanto in grado di rappresentare la realtà esistenziale in termini logoici, ossia mitopoietici. La parola è il modo di rappresentare l’esistenza umana come esperienza singolare, cioè come libertà spirituale. La rappresentazione spirituale è espressiva della libertà di parola. Poiché la parola comunica, essa dev’essere funzionale alla convivenza, e in tal senso essa è espressione “politica” della socialità umana un rapporto sociale basato sulla parola è fondato sul convincimento, sull’adesione volontaria al significato comune dei termini del dialogo, e non può basarsi sulla costrizione, ossia sulla relazione di forza, la cui violenza consiste appunto nell’ignorare la singolarità spirituale dell’uomo e alla sua insita libertà di rappresentazione dell’esistenza. ed è appunto tale concezione dei rapporti socio-politici a “non lasciare spazio al singolo, al diverso”. 507 La relazione politica pertanto implica la conformità a un 507
Ibidem.
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modello statutario e normativo che renda compatibile la diversità molteplice con l’unità funzionale al tutto. Poiché la molteplicità è di natura diversa dall’unità politica, la condizione di esistenza della società politica è nella possibilità di trasformare la diversità originaria in omogeneità appunto politica. Ed è appunto tale pretesa trasformazione l’origine della scelta tra amicus e hostis sulla base della compatibilità al modello univoco, al fine di determinare una realtà di fatto. E poiché la realtà nella sua determinazione unitaria è sempre una rappresentazione ideale, la sua determinazione univoca è anch’essa una verità di fatto, che “è politica per natura” e “informa il pensiero politico così come la verità razionale informa la speculazione filosofica”. 508 La differenza rispetto alla verità razionale è indicata già nel Timeo, dove Platone traccia una linea di demarcazione tra gli uomini capaci di percepire la verità e coloro a cui capita di avere delle opinioni giuste. Nei primi, l’organo di percezione della verità [] è risvegliato attraverso l’istruzione, che naturalmente implica l’ineguaglianza e che può essere considerata una forma lieve di coercizione, mentre i secondi sono stati semplicemente persuasi. Le vedute dei primi – dice Platone – sono immutabili, mentre i secondi possono sempre essere convinti a cambiare la loro opinione.509
Ma Platone aggiunge che dei “due generi di conoscenza”, “l’uno si accompagna sempre al ragionamento veritiero, l’altro, invece, è irrazionale”. Ed è appunto per il suo carattere razionale che “l’uno non si piega alla persuasione, [mentre] l’altro muta per opera della persuasione”. E chiarisce inoltre che la ragione per la quale la verità razionale non muta riposa nella circostanza che “dell’intelligenza partecipano gli dèi, e il genere degli uomini in piccola misura”.510 Ciò significa, seguendo le premesse platoniche, che l’omogeneità politica non può essere conseguita spontaneamente, dal momento che la maggior parte degli uomini segue opinioni mutevoli e solo una minoranza strenua segue l’intelligenza divina delle cose. E dunque la preparazione al 508
H. Arendt, Truth and Politics (1954), tr. it. Torino, 1995, pag. 44. Ivi, pag. 46. 510 Platone, Timeo, 51 e. 509
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Governo politico della città implica l’uso costrittivo della ragione al fine di omologare ad essa la varia opinione. La natura violenta dell’esercizio politico del Governo deriva dal fatto che si tratti di “due generi di conoscenza”, uno dei quali deve prevalere sull’altro operando una , cioè un cambiamento di natura, tale che la verità filosofica, entrando nella “piazza pubblica” si trasformi in “opinione”,511 ovvero, come auspicava Platone, che l’opinione sia omologata e stabilita dalla verità filosofica garantita dal Potere politico. nei due casi per pervenire all’unità si deve astrarre dalla realtà antitetica dell’altro, per affermare solo la realtà tetica come l’unica positiva. Tale astrazione, in termini politici effettuali, equivale alla negazione di fatto. Ma proprio perciò, la stessa verità razionale, non avendo più la sua antitesi, si converte anch’essa in verità di fatto. E dunque comprendiamo che l’essenza della verità di ragione non è nel suo carattere razionale - il quale, come abbiamo visto, può anch’esso trasformarsi e dunque mutarsi in altro, cioè in opinione -, ma nel suo elemento trascendente, che Platone stesso chiama “divino”, e che non muta, né per opera della persuasione e neppure per opera della necessità politica. La trascendenza della verità, il carattere immutabile della sua costituzione eterna e non omologabile a nessuna mutevole opinione, consiste appunto in quella relazione della libertà-parola dell’uomo con la libertà-parola di Dio, di cui dicevamo con Barth. Proprio il teologo ci aiuta a comprendere le ragioni per cui Gesù non accoglie la prospettiva politica che essendo esclusiva dello hostis negava in radice la charitas. “Egli, assieme ai suoi discepoli, non si è allineato a nessuno dei fronti che esistevano al suo tempo”, neppure quello contrario ai farisei, ma “mise in questione tutti i programmi, tutti i princìpi, […] semplicemente perché, di fronte a tutti gli ordinamenti per i quali intorno a lui si lottava in senso positivo o negativo, egli aveva e mostrava una singolare libertà”, che si può definire “regale”, in quanto nessuna posizione politica per Lui costituiva una “autorità assoluta”, ma erano tutte opinioni alle quali Gesù oppose il limite comune, ossia “la libertà del regno di Dio”.512 511 512
H. Arendt, Truth and Politics, tr. it. cit., pag. 43. K. Barth, testo del 1953 poi in D. E. Antologia, Bologna, 1968, pagg. 103-104.
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La libertà di Dio è la Sua stessa trascendenza, la alterità della Sua infinitezza rispetto alla finitezza umana, che Lo rendono unico. La Arendt sostiene che “l’idea monoteistica dl Dio a immagine del quale deve essere creato l’uomo” sia all’origine della solitudine dello stato di natura, riflesso della “solitudine di Dio”.513 L’equivoco teologico-politico è evidente. Dio infatti è Uno perché referente unitario trascendente di ogni singolarità storica dell’uomo spirituale. Solo l’uomo spirituale è singolare e creato a immagine di Dio, non certo l’uomo empirico, che convive in famiglia e coesiste nella società. La “guerra di ribellione di ognuno contro tutti gli altri”, ossia la hobbesiana state of nature as a war of all against all, deriva dalla perdita dell’unità spirituale, ossia del collante religioso la cui mancanza esalta la relazione politica priva di regolamentazione morale trascendente i rapporti sociali di forza, e pertanto schiacciata nella finitezza e immanenza. La pace sociale legata al compromesso pattizio delle forze antagoniste è sempre precario e instabile, proprio perché prescinde dall’unità spirituale, l’unica possibile unità fra innumeri diverse singolarità; l’unità dell’appartenenza filiale all’unica paternità del Creatore trascendente, dalla quale deriva l’unità religiosa di una società e in genere di un gruppo umano. Dell’unità religiosa, quella politica è un succedaneo razionalistico, che pone al posto della fede in Dio la credenza nel Logos, in nome del quale costituire l’unità politica. Ma l’autoreferenzialità della politica legittimata dal Logos emancipato dalla fede originaria, non crea unità ma ordine (), ossia coesistenza pacifica temporanea. L’unità dei diversi molteplici è data soltanto dall’essenza spirituale, trascendente, della quale la soggettività trascendentale è un derivato logico, ottenuto per astrazione dalla esistenza concreta degli enti, dalla loro finitezza ontica, che nella considerazione dell’uomo si realizza come rimozione della sua natura spirituale, ovvero della condizione stessa di pervenire all’unità. Da qui il destino fallimentare di ogni tentativo di unità politica, già sottolineata da Agostino nella Civitas Dei, e l’annesso bisogno di correggere la inevitabile finitezza delle costruzioni empiriche della politica, cioè delle sue forme d’ordine, con la proiezione universale dei suoi istituti storici, eticamente idealizzati, che si trasformano in ideo-logie, in idola tribus, 513
H. Arendt, WiP, pag. 7.
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che sono la fonte della legittimazione delle , ossia delle opinioni combattute da Platone. Ora ci rendiamo meglio conto del fine della , la quale consiste, da un lato, nella comprensione del limite che separa la verità trascendente e divina dalle opinioni politiche e comuni, in cui consiste la e dall’altro nella adozione della adeguata al Governo, la , che Platone fa coincidere con la stessa filosofia. La sovrapposizione dell’unità e infinitezza spirituale (trascendente) con l’astratta unità dell’ordine politico, fraintende il senso della “sostituzione della politica con la stria universale”, intendendolo una “via di uscita della politica [dal] mito occidentale della creazione”, 514 non cogliendone il valore teleologico della storia spirituale dell’uomo e interpretando l’itinerario di salvezza singolare in termini di processi sociologici collettivi, ossia come problemi di coesistenza politica, secondo un procedimento ermeneutico proprio del razionalismo ateo della cultura secolarizzata, antica e moderna, che mutua il senso trascendente delle categorie cosmologiche, trascrivendole in senso razionalistico immanente, sotto forma di categorie storiografiche. Già Tucidide infatti concepiva la dinamica storica alla stregua del realismo dei sofisti come lotta per il Potere politico, espressione militare della disputa verbale tra posizioni divergenti, i di Protagora. 515 La giustapposizione dell’ordine politico all’armonia spirituale per mezzo della “metamorfosi” razionalistica, ha creato “l’aspetto mostruoso e disumano della storia”, che porta a ritenere che “la libertà esiste soltanto nel peculiare infra della politica”,516 ossia nella pace tra due conflitti. Come precisa la Arendt, “la politica infatti organizza a priori gli assolutamente diversi in vista di una uguaglianza relativa, e per distinguerli dai relativamente diversi”.517 È questa la missione impossibile della politica, la ricerca dell’uguaglianza fra diversi, interna ai rapporti 514
H. Arendt, WiP, pag. 7. Paradigmatico il dialogo degli Ateniesi e dei Melii nel libro V 105, dove si dichiara la legge del più forte, quella che nel libro III 45,3 viene estesa a norma comportamentale di tutti gli uomini, che praticherebbero il sopruso “per natura”. 516 H. Arendt, WiP, pag. 7. 517 Ivi, pag. 8. 515
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sociali, nella dimensione immanente del conflitto di interessi vitali. Da questa utopia messianica origina ogni violenza storica, sociale, politica, poiché essa è violenza metafisica, irresolubile in libertà e pace perpetua. Ogni prospettiva di tipo economico (abolizione della proprietà privata, distribuzione delle risorse, socializzazione dei mezzi di produzione, assistenza garantita ai meno abbienti, etc.) o di tipo istituzionale (Stato di diritto, rappresentanza democratica, diritti civili,, pluralismo ideologico, etc.) sono destinati a naufragare di fronte alla diversità ontologica originaria tra ciò che pertiene a Dio e ciò che attiene a Cesare, costituendo quindi nient’altro che soluzioni palliative e transitorie, superate dai processi storici stessi che mettono in moto. La definizione della politica come “relazione tra governanti e governati”518 tradisce esattamente il pregiudizio politicistico della costituzione pattizia di tale relazione, che nasconde o estromette il presupposto metafisico che sta a fondamento della sua legittimazione e che lo rende patto di libertà anziché di dominio. Infatti, la “sfera del mondo dove gli uomini si presentano primariamente come soggetti attivi”, 519 perché non sia totalizzante ed esclusiva dei più deboli, necessita di uno statuto primario non negoziabile politicamente e condiviso originariamente, e quindi prelogico. Proprio la rimozione di questo argine metafisico ha trasformato l’agire politico in mera “forma di dominio”,520 legata alla possibilità teorica di una rappresentanza oligarchica del consenso politico, la cui volontà maggioritaria o del più forte, viene assunta come bene comune o interesse generale. La forma rappresentativa, originariamente di natura privatistica, è stata estesa all’ambito pubblicistico dalle teorie razionalistiche del Potere affermatesi durante la Rivoluzione francese, ma essa stabilisce convenzionalmente un trasferimento di volontà che in realtà non può essere esteso fuori del campo degli interessi particolari, ossia di un mandato diretto e circoscritto, poiché non è possibile stabilire preventivamente la concreta determinazione della volontà dei singoli diversi o dei gruppi rappresentati, a meno che non si stabilisca la rilevanza comune del solo fine stabilito dai rappresentati e da perseguire a 518 519 520
Ivi, pag. 10.
Ibidem. Ivi, pag. 11.
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opera dei rappresentanti, distinto dai mezzi che questi utilizzino all’uopo. Ed è in questa prospettiva che viene a giustificarsi il motto machiavelliano per cui “il fine giustifica i mezzi”. Ma concretamente la volontà umana dei singoli non è rappresentabile per quanto riguarda le future manifestazioni di essa di fronte alle evenienze della vita, dal momento che il carattere singolare della oggettiva voluntas è derivato dalla implicita e interna intentio, che è moto dell’anima con cui in libertà di coscienza si delibera l’atteggiamento esteriore, la volontà appunto. Nella intenzione risiede la libertà, mentre la volontà è sempre condizionata dalla contestualità della sua concreta determinazione fattuale, cioè dalla situazione storica, e precisamente politica. assumere come rilevante per la rappresentanza il solo elemento volitivo, senza considerare l’intenzionalità delle scelte singolari, equivale a fare dell’attività politica il campo di scontro delle forze in lotta per il potere, così come pensavano i sofisti e Tucidide. D’altronde, a riprova di ciò, si può addurre la possibilità dell’unico modo certo di rappresentare la volontà, quello che inerisce la volontà passata, la cui rappresentanza coincide con la sua rappresentazione razionale, ossia con la sua interpretazione storica, che è un giudizio logico che ha per contenuti delle res gestae ossia dei facta, che sono enti di giudizio razionalmente ma non concretamente reali, come sappiamo con Lotze. Ciò che è concretamente fattuale, storicamente reale, non è pre-determinabile, perché inerisce appunto l’imponderabile intenzione degli uomini, la cui deliberazione rimane dunque un mistero, il mistero stesso della libertà. E noi sappiamo che il mistero della libertà dell’uomo è lo stesso mistero della libertà di Dio, nella cui relazione si concretizza l’evento singolare, l’unico veramente storico, oggetto della historia rerum gestarum. La sua conoscibilità a posteriori, come evento del passato accertabile al presente, ne indica la differenza rispetto all’evento escatologico, caratterizzato dalla pienezza del tempo, inclusivo del futuro, di cui è sprovvista la storiografia, che non a caso ha per oggetto privilegiato le gesta politiche. Il carattere fittizio della rappresentanza politica, meramente convenzionale e giuridicistico, svilisce lo scopo stesso della politica intesa come ambito di libertà e di partecipazione, accreditando “l’idea che la politica in sostanza sia una trama di menzogne e inganni prodotta da
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interessi meschini e da una ancor più meschina ideologia”. 521 Il carattere violento del Potere nasce dalla pretesa di rappresentare la “volontà generale”, intesa non come Bene oggettivo, relativo al giudizio storico sul passato, ma come “volontà del popolo”, una realtà esistenziale idealizzata, cioè oggetto di rappresentazione ideale, e come tale rappresentata dal Potere; il quale, pertanto, non rappresenta il concreto popolo, fatto di singole unità storico-esistenziali, ma l’idea che esso ha del popolo. Da qui il carattere ideo-logico dell’attività politica improntata alla rappresentanza di un ente ideale, che è il popolo, supposto depositario della sovranità politica e quindi mandante della delega rappresentativa. Tale pretesa rappresentativa è dunque nient’altro che un “pregiudizio” nell’accezione harendtiana di falso giudizio sostitutivo del giudizio vero, quello razionale avente “l’evidenza di percezioni sensorie”, 522 mentre non lo è la fede originaria suppostamente comune nella giustezza del carattere violento del Potere, che invece il Potere deve presupporre per esercitarlo in condizione di monopolio. E’ il Potere quindi che per la sua legittimazione all’esercizio della violenza legale deve fondarsi su un pregiudizio: quello che lo vuole rappresentante del Bene. Perciò l’affermazione che “il pensiero politico si fonda essenzialmente sul giudizio”.523 è errata se riferita all’agire politico, e corretta se riferita al pensiero razionale del giudizio storico, che in sé non è però “politico” ma logico. Il pre-giudizio non è che i convincimento socializzato in opinione comune. Perché si radichi un’opinione, originariamente provata, e diventi comune,cioè condivisa entro lo spazio pubblico in cui le opinioni riconosciute dal Potere hanno rilevanza generale, essa deve diventare ragione istituzionale, referente ideale del senso (e sentimento) pubblico. Il fondamento originario dei giudizi razionali, utile all’orientamento comune, era tradizionalmente la morale, frutto dell’insegnamento religioso. Da quando, in età moderna, il giudizio di ragione si è separato dal suo fondamento morale, questo è diventato un “rischio”, e ciò che ne costituiva il merito virtuoso, ossia l’essere “sempre en radicato nel passato” quale fonte tradizionale del valore, diventa nella 521
H. Arendt, WiP, pag. 11. Ivi, pag. 13. 523 Ivi, pag. 14. 522
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mentalità razionalistica un ostacolo che “impedisce una effettiva esperienza del presente”.524 Il “presente” è appunto l’orizzonte del giudizio razionale reciso da ogni processo storico che lo ostacola e lo relativizza mettendolo a confronto col “passato”, cioè con l’origine del senso attuale. Il razionalismo si è sempre esercitato nella lotta contro il passato, e il passato della Ragione è il Mito, il “luogo comune” del sapere originario. La pretesa della ragione politica, ossia del pensiero razionalistico che si struttura in istituzione di Potere, è di abolire il passato per iniziare un nuovo corso storico, informato ai principi di verità logicamente pensati come assoluti. Liberati, cioè, dalle origini pre-logiche e pre-politiche. La lotta della Ragione contro il Mito è la tensione paradigmatica della polemica che la politica stabilisce con la religione, ossia con la morale comune. La civilizzazione politica, e quindi l’uso disinibito degli strumenti economici funzionali al Potere, si afferma a scapito dei valori morali tradizionali che hanno informato la mentalità comune, e sotto forma di razionalizzazione dei costumi e di diffusione dello spirito utilitaristico. Razionalizzare significa essenzialmente scindere dai fini gli strumenti, facendo dell’uso di questi una ragione autonoma dalla finalità morale e dotata perciò di una legittimazione propria, sistemica, cioè autoreferenziale. In tal senso l’autonomia del soggetto morale in senso kantiano è il portato dell’autonomia del Soggetto trascendentale dal legame metafisico con il fondamento di fede originario, che dà senso (nella duplice accezione di significato e di direzione = télos) al Logos. La razionalizzazione dei costumi sociali è l’affermazione della logica politica come sfera dominante del senso comune, come sfera pubblica, in cui si esercita l’isonomia, il modello della cittadinanza universale delle democrazie. La logica utilitaristica, come movente dell’agire economico significativo, è quella del capitalismo moderno. Questi due movimenti concomitanti della civilizzazione razionalistica hanno teso a emancipare congiuntamente i processi storici in corso dalla loro dipendenza dal passato, cioè dalla loro irrazionale normatività. Questa emancipazione è possibile assegnando rilevanza significativa ai soli movimenti storici rappresentabili per mezzo di un giudizio razionale, metodicamente 524
Ibidem.
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esclusivo di ogni altra allotria significazione (morale, emozionale o meramente convenzionale). A questo proposito, la Arendt, riprendendo la dicotomia kantiana tra “giudizio determinante” e “giudizio riflettente”, distingue “due significati” del “termine giudicare”. Da un lato esso sta a indicare la sussunzione ordinatrice del singolo e del particolare sotto un’entità generale e universale [che costituisce] la valutazione normalizzatrice secondo criteri in base ai quali il concreto deve legittimarsi e in base ai quali se ne decide.
Per la Arendt questo giudizio “contiene sempre un pregiudizio”, poiché si limita a considerare il particolare tralasciando “il criterio in sé”, ossia la congruità razionale degli elementi di commisurazione, che si assume come un dato non più soggetto a verifica, e quindi pre-giudiziale. Infatti, anche il criterio è stato a suo tempo deciso con un giudizio, ma adesso quel giudizio è stato adottato ed è divenuto per così dire un mezzo per poter continuare a giudicare. 525
Questo dato funzionale tradizionale disturba il principio di verifica razionale del criterio di giudizio, e anziché essere assunto come valore aggiunto a seguito della sua perpetuità adottiva, ossia come un criterio di legittimazione, viene considerato un pre-giudizio a sua volta da giustificare razionalmente. Giustificare equivale in tal senso ad attualizzare il passato nel senso della presente oggettivazione razionale della coscienza, del Cogito. Ma giudicare può anche voler dire trovarsi a spiegare il nuovo senza avere criteri tradizionali di giudizio. Questo giudizio, che è privo di criteri, non ha altri riferimento che l’evidenza del giudicato e non ha altri presupposti che l’umana facoltà di giudizio, la quale ha molto più a che fare con la facoltà di discernimento che con la facoltà di ordinare e sussumere. [È questo il giudizio estetico secondo Kant, che] ritroviamo nella vita comune, ogni qualvolta in una condizione ancora
525
H. Arendt, WiP, pagg. 14-15.
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incerta pensiamo che questo o quello avrebbe giudicato la situazione bene o male.526
Il senso kantiano del non disputandum viene completamente travisato, poiché non si coglie il senso recondito di tale giudizio, che è “estetico” in relazione al fenomeno nella sua immediata apparenza, ma che in quanto “giudizio” affermativo di senso della realtà, apofantico, esso suppone una credenza ontologica che tale realtà sia anziché non. Tale credenza è sempre assiologica, poiché da essa dipende il valore della realtà. In altri termini, ciò che è (stabilito essere reale), anche vale (come vero), e di contro ciò di cui si afferma il valore, se ne afferma anche l’esistenza. La verità razionale diventa verità di fatto, ossia affermazione politica, nel senso che la situazione di fatto ne determina il valore, il quale perciò storicamente muta insieme ai rapporti di forza che l’affermano o lo negano. E ciò spiega l’atteggiamento di Gesù, il Quale poteva anche tenere in altrettanto seria considerazione il fatto che i romani, assieme ai loro vassalli locali, erano nel paese e a Roma c’era l’imperatore che deteneva l’autorità suprema anche sul paese e sul popolo dell’alleanza con Dio. Egli poteva anche tener conto del fatto che c’erano famiglie e c’erano ricchi e poveri. Egli non disse mai che tutto ciò non avrebbe dovuto esistere. A tutti questi “sistemi” non ne oppose nessun altro [ma] mise soltanto in luce i limiti di tutto ciò […].527
Il “limite” della politica, come di ogni opinione ideologica, è appunto l’identificazione della verità col valore razionale, facendo della posizione logica una realtà di fatto, una verità politica. Essa, in quanto “facoltà di discernere”,528 esprime un giudizio apofantico di realtà, che sottende sempre una credenza ontologica, un pre-giudizio assiologico insito nel giudizio razionale. Questo pre-giudizio non è motivato razionalmente, ma è pur sempre discretivo, in quanto affermativo di realtà. Ed è questo stesso giudizio non giustificato razionalmente, e perciò costitutivo di una credenza ontologica, che Kant chiama “gusto” (Geschmack), 526
Ivi, pag. 15. K. Barth, Kirchiche Dogmatik IV/2, tr. it. cit., pag. 104. 528 H. Arendt, WiP, pag. 15. 527
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corrispondente alla “opinione”() platonica in quanto privo di ogni significato conoscitivo.529 Il sensus communis che la opinione esprime circa la realtà di qualcosa, ereditata dal passato trova la sua forza nella tradizione stessa, mentre la sua debolezza, di contro, risiede nella sua legittimazione fideistica, non giustificata razionalmente, sicché “in ogni crisi storica” dei valori tradizionali “i pregiudizi sono i primi a vacillare”, in quanto non più supportati dal senso continuativo della loro vigenza, interrotta dall’evento critico. La “crisi” consiste esattamente in questa interruzione del senso comune, che abbisogna di nuove credenziali, di nuove fondazioni di fede, di nuove definizioni razionalizzate che quelle fondazioni giustifichino. In una simile situazione di smarrimento del senso comune tradizionale, intervengono i surrogati ideologici, ossia “quelle pseudo teorie che sotto forma di Weltanschauungen hanno una spiegazione per tutto, pretendono di comprendere l’intera realtà storica e politica”.530 Le ideologie pretendono di giudicare il “Tutto”, ossia la “intera realtà”. In che senso, e donde nasce codesta pretesa? La ragione di tale pretesa coincide con la stessa differenza rispetto al giudizio razionale. Se infatti questo si caratterizza per la distinzione e conseguente rimozione del Mito dalla considerazione della realtà attraverso la formulazione del giudizio logico, la posizione ideologica tende a riunire ciò che la logica ha diviso, prendendo le distanze teoretiche e metodologiche dalla gnosi razionalistica, criticando la sua arroganza selettiva prediligente l’astratto alla vita concreta. L’ideologia combatte la Ragione sul piano della concretezza della realtà comune, opponendosi pertanto alla sua metodica astraente e alla conseguente astrattezza dei suoi giudizi di valore; dove “astrazione”, si comprende bene, vale per “universalità”. La Ragione astratta è falsamente universale, poiché l’unica realtà vera è quella concretamente storica. Da qui il culto della storia delle ideologie totalitarie. La Storia come fonte di legittimazione della verità, contrapposta alla astratta Ragione, la quale, proprio in quanto astratta non può cogliere il Tutto, ossia il senso della intera realtà, affidata appunto all’intuizione irrazionale, che soppianta il 529
Ved. H.G. Gadamer, WuM, pag. 68; per l’analisi del giudizio in relazione al gusto, Ivi, pagg. 54-81. 530 H. Arendt, WiP, pag. 15.
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metodo scientifico della conoscenza. In tal senso, l’ideologia è una riabilitazione del Mito, ma in funzione politica, e dunque come religione civile, perseverando nel disegno razionalistico di esautorare il Limite che Gesù, non parteggiando politicamente, asseriva in merito alla “libertà di Dio”, ossia alla natura trascendente della libertà dell’uomo, non omologabile alla uniformità del comportamento sociale, cioè alla conformità delle astratte volontà collettive al precetto legale, e pertanto non disponibile dalla volontà del Potere di questo mondo, cioè politico. La pretesa totalitaria di fondare la realtà storica sul principio politico, fa di questo principio il contenuto stesso del Mito, declinato in termini escatologici, e perciò falsamente idolatrici, facendo della temporale storia politica la trasfigurazione messianica della storia della salvezza, che è un altro modo per eliminare Dio dalla vita dell’uomo. Ma l’atteggiamento idealistico di costituire lo spazio politico come spazio di libertà, ossia di salvezza dell’uomo, è comune a ogni rappresentazione pan-politicistica della realtà, antica come moderna, dalle quali rimane distante la qualificazione escatologica della Storia da parte di Gesù nel senso della pienezza del tempo, a partire da quello presente, dall’attualità della sua decisione morale a favore dell’ascolto della parola di Dio, o delle leggi di Cesare. Come infatti ha ben detto W. Kasper, “poiché Cristo ha riqualificato il tempo come spazio di tempo della salvezza, l’escatologia non è affatto attesa di qualcosa di remotissimo; essa riqualifica anzi il presente e lo rende tempo di decisione”.531 La decisione singolare è l’atteggiamento di libertà che il Potere politico deve preventivamente consegnare alla obbedienza alla astratta volontà legale, allo scopo di neutralizzare l’alea della sua imprevedibilità. Come la Ragione si libera dal del mistero imprimendo alla realtà il suo senso razionale, la politica elimina l’alea della libertà per affermare la sua ragion d’ordine. Il mistero teoretico è la disubbidienza politica, e alla negazione logica corrisponde l’esclusione del nemico. L’incontro escatologico con Dio, invece, avviene nella libertà dell’ascolto nella fede; ed è la natura libera dell’incontro a consentire l’unità spirituale che invano ricerca la politica quale esercizio della costrizione all’obbedienza. La differenza tra l’Abramo del panegirico di Kierkegaard e un cittadino di 531
W. Kasper, Glaube und Geschichte (1970), tr. it. Brescia, 19933, pagg. 76-77.
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Roma è che l’ebreo avrebbe potuto ribellarsi a Dio, mentre il romano non poteva ribellarsi a Cesare. Ciò significa che la “carne” è soggetta alla necessità,mentre lo “spirito” si manifesta nella libertà, e implica che il passaggio dall’una all’altra dimensione umana impegna la cura di sé. La visione che la Arendt ha della funzione del pregiudizio è del tutto economica. Secondo lei infatti “la funzione del pregiudizio consiste nel preservare l’uomo che giudica dall’obbligo di esporsi apertamente e di affrontare intellettualmente ogni realtà che incontra”, consentendo perciò alle ideologie di adempiere “bene [il compito] di proteggere da ogni esperienza”.532 L’idea che ogni uomo fosse in grado di “affrontare intellettualmente ogni realtà” è come sappiamo una petizione di principio razionalistica, mutuata a contrario dalla dottrina deterministica protestantica in campo spirituale, per cui se ogni azione umana è predeterminata da Dio,la comprensione delle vicende umane coincidono con le ragioni stesse di Dio. Teoria che anticipa sia il razionalismo geometrico cartesiano, che il Deus sive Natura di Spinoza che infine il pan-logismo di Hegel.533 La questione è che se la fede religiosa acquieta l’animo umano fornendogli le ragioni morali del suo comportamento, la convinzione intellettuale, fondata sul dubbio metodico, non può mai “preservare l’uomo” dal dubbio esistenziale e ontologico, e proprio in questa pretesa impossibile di fare di ogni uomo 532
H. Arendt, WiP, pag. 15. Diversamente dai teologi scolastici, “che dicevano soprannaturale il gradimento di cui Adamo godeva presso Dio” Lutero “lo disse naturale; e in opposizione agli scolastici, che lo avevano concepito come un accidente, egli lo concepì come un elemento essenziale della natura umana e come una parte costitutiva ultima e integrante della stessa”, sicché “le varie e singole parti della natura di Adamo esistevano in perfettissimo equilibrio tra di loro, e tutto l’uomo si trovava nel giusto rapporto verso Dio”, senza distinguere alla maniera cattolica, tra “immagine di Dio”, come attitudine religiosa, e “somiglianza con Dio”, per intendere l’esplicazione di essa gradita a Dio. Nel De servo arbitrio sostiene poi che “l’uomo non possiede alcuna libertà, che tutta l’attività (presuntamente) libera è basata solo su un’apparenza, che un’innegabile necessità divina domina tutto e che ogni azione umana in fondo è solo azione di Dio”. Melantone dichiara guerra anche all’espressione “libertà di scelta” a proposito dell’uomo spirituale, attribuendolo alla introduzione nel linguaggio della Chiesa, al pari della nefasta “ragione”, dalla filosofia maneggiata dai sofistici teologi medievali: A.J. Moehler, Symbolik (18385), tr. it., Milano 1984, pagg. 81-83. 533
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un filosofo che prende piede l’opera delle ideologie tranquillanti e semplificatrici. E’ pertanto il sonno della fede a generare i mostri ideologici, ossia è l’opera della ragione a creare le condizioni culturali dell’esposizione comune alle lusinghe dell’ideologia. Aver sostituito il pensiero deduttivo a quello giudicativo, ha privato l’uomo moderno di ogni riconosciuta fede ontologica e quindi di ogni criterio morale comune. Infatti la differenza tra giudizio morale e conclusione logica è lo stesso che tra convincimento e persuasione. La persuasione non ha mai un valore cogente, perché non indirizza l’azione, ossia non dirige la volontà, la quale necessita per l’agire o di un libero convincimento (intentio), ovvero di una induzione a opera della forza. Questo elemento deontologico esterno alla volontà interiore, ossia appunto alla soggettiva convinzione dell’agente, è il campo operativo e la necessità razionale delle istituzioni storiche, preposte a realizzare l’astratto dovere sociale relativo alla disposizione di valore comune. Ed è in questo ambito operativo che si inserisce la forza socializzante del Potere, teso appunto ad affermare una volontà comunemente significativa funzionale alla coesistenza umana tra singoli e gruppi diversi, a prescindere dalla pluralità dei codici comportamentali relativi al ibero convincimento soggettivo o di gruppo dei destinatari dell’ordinamento sovrano. L’autonomia del politico, si inscrive in tale ambito prescrittivo, nei termini del forzato adeguamento della volontà alle disposizioni del Potere. Quell’autonomia si determina rimuovendo dall’ordine normativo la variabile della possibilità, inerente alla singolarità del rapporto libero di ognuno con Dio. La possibilità è il contrario della necessità, per cui ammetterla inficerebbe l’ordine sistematico e il rapporto verticale tra Potere e sudditi, che la predicazione cristiana rimuove confutando la legalità, e introducendo al suo posto la libertà, del rapporto dell’uomo con Dio. L’autonomia del politico è quindi l’autonomia del Potere dal rapporto di libertà, e l’affermazione della logica della necessità, esclusiva della possibilità, ovvero della libertà dal normativo, dalla legge uniformante, il cui modello teoretico è quello della legge di ragione universale, l’universalità. L’atto divino di libertà esclude la necessità dell’incontro con l’uomo, perciò esso è accidentale e propiziato da entrambe le parti;diversamente dal rapporto legale tra sudditi e sovrano, al cui comando non si può derogare. La libertà insita nella possibilità del
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dialogo con Dio sostanzia la relazione d’amore, il cui principio è la spontanea adesione della volontà all’intima e incoercibile intenzione delle parti, esclusa per principio dal legalismo giuridico del Potere, di carattere assoluto. Il Cristianesimo, d’altro canto, non inventa la coscienza morale, ma ne scopre la funzione assiologica, per cui il richiamo alla sua libertà traduce l’istanza di emancipazione dell’intenzione soggettiva dalla sua identificazione con la oggettiva volontà, che per la considerazione razionalistica dell’agire è l’unico elemento rilevante, sia ai fini della sua determinazione razionale che, va da sé, ai fini del suo controllo sociale. Come afferma la Arendt a proposito,”in modo cogente si può dimostrare soltanto l’attribuzione, il misurare e applicare criteri, la conseguente normalizzazione del particolare concreto, che presuppone la congruenza del criterio con la natura della cosa”, con l’unico effetto di poter valutare solo la “correttezza o scorrettezza del procedimento”, 534 inerente al pensiero deduttivo. I contenuti pertanto restano impregiudicati, indifferenti rispetto alla rilevanza metodica, per cui la credibilità razionale del procedimento deduttivo e applicativo rimane immutato in qualsivoglia relazione che lo rispetti. Ma è proprio tale “avalutatività del metodo scientifico” a costituire la sua assolutezza rispetto a ogni fondamento ontologico di fede e di ogni destinazione finale. Creando così un ambito di autonomia teoretica e funzionale, il Potere ne diventa il custode e la politica la logica della sua amministrazione. Venendo a mancare nell’orizzonte moderno ogni referente normativo pre-politico, ossia extra-giuridico, la cogenza viene assicurata, etsi Deus non daretur, dalla sola effettualità del Potere, la cui efficacia coincide con gli stessi termini della congruità del metodo di “normalizzazione”, ossia di uniformità del diverso al modello universale. In tale indifferenza metodica verso la singolarità e libertà della coscienza umana, consiste l’aspetto compulsivo del Potere, la violenza essenziale della politica come pratica di socializzazione della volontà. La conseguenza culturale della dissociazione della funzione politica dall’alveo del convincimento morale è il progressivo aumento dell’uniformità comportamentale dei diversi gruppi sociali e il correlativo 534
H. Arendt, WiP, pagg. 16-17.
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degrado della civilizzazione a struttura omologante, negatrice della natura spirituale e creativa dell’uomo. “Al centro della politica vi è sempre la preoccupazione per il mondo, non per l’uomo”, afferma la Arendt, ossia sulla sua costituzione oggettiva e impersonale, astratta dalle singole esistenze. Questo è il regno di Cesare, non creato per l’uomo ma dall’uomo perché resti nel passare delle esistenze particolari. E’ la “società” nel senso di Durkheim, stabilita nei suoi assetti istituzionali privi di fondamenti morali per i singoli uomini. Un mondo non si cambia cambiandone gli uomini […].Se si vuole cambiare una istituzione, una organizzazione, un qualunque corporazione pubblica mondana, se ne può solo rimuovere la costituzione, le leggi, gli istituti, e sperare che tutto il resto venga da sé. 535
Tutto il resto è l’esistenza singolare e spirituale dell’uomo, che non è riconosciuta derimente ma originante i conflitti dalla logica politica, che però a tempo debito avanza le sue pretese insopprimibili, che non sono quelle conflittuali della dialettica amicus-hostis, che “li separa l’uno dall’altro”, ma di altra natura, metafisica e unitiva, , tendente a quella solidarietà dei sentimenti morali che rende degna l’esistenza comune. La predicazione evangelica sostituisce a “il mondo [che] si frappone [agli uomini]” la mediazione cristica divina, costitutiva della ekklesia, la dimensione conviviale che non è fatta di “cose” di una “realtà durevole”,536 ma dell’intuizione dell’eterno, cioè della pienezza del tempo escatologico. D’altronde, la fatticità è sempre relativa al potere contestuale dell’uomo su altri uomini, ovvero sulla natura, ma non può mai rendere il senso della pienezza della vita, che è spirituale, e che costituisce il limite invalicabile al Potere, quale sua misura morale e metafisica. La Arendt ribadisce il suo convincimento che “il senso della politica sia la libertà”.537 da quanto si è detto è vero semmai il contrario. La politica nasce per affermare la volontà umana alternativa alla necessità naturale. Il 535
H. Arendt, WiP, pag. 18. Ivi, pag. 19. 537 Ivi, pag. 21. 536
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mondo stabilito dall’uomo è il regno della volontà umana. Ma volere significa stabilire delle relazioni causali tra fenomeni reali a partire dalla propria condizione d’essere, ossia dalla situazione singolare, assunta come privilegiata rispetto alla volontà altrui, cioè alle ragioni del mondo. La politica è l’agone di tale affermazione, che ne costituisce la libertà, intesa quale volontà preminente, che ha potere. L’uomo che può affermare la sua libertà, ha potere. questa concezione “antica” della libertà come potere della volontà nasconde l’aspetto drammatico dell’esistenza del Potere: la sua affermazione contro l’intenzione dei singoli attori sociali. L’irruzione di una volontà che si afferma contro, cioè nonostante, il processo avvenimenziale, il “contesto processuale in cui irrompe” è per la Arendt una sorta di “miracolo”, quello di ogni “inizio” storico. Come ella scrive, “il processo storico è nato da iniziative umane, ed è continuamente attraversato da nuove iniziative”, la cui improbabilità interna al processo considerato in sé e non come frutto dell’ “agire in comune degli uomini”, presenta “ogni nuovo inizio, positivo o negativo che sia” appunto come un miracolo. 538 36 [36. Rispetto alla probabilità della perpetuità dei fenomeni naturali, gli eventi-miracolo entro la sfera delle faccende umane, [la differenza] sta nel fatto che qui c’è un taumaturgo e che l’uomo stesso, in maniera alquanto meravigliosa e misteriosa, sembra avere il talento di compiere miracoli. nel linguaggio corrente e trito, questo talento è chiamato agire. L’agire ha la particolarità di provocare processi il cui automatismo somiglia molto a quello dei processi naturali, e di sancire un nuovo inizio, di cominciare qualcosa di nuovo, di prendere l’iniziativa, oppure, in termini kantiani, di avviare una catena. Il miracolo della libertà è insito in questo saper cominciare, che a sua volta è insito nel dato di fatto di ogni uomo, in quanto per nascita è venuto al mondo che esisteva prima di lui, e che continuerà dopo di lui, è a sua volta un nuovo inizio.539
Ma è questo il vero miracolo della nascita singolare dell’uomo? Cioè, la sua condizione di fatto? O non piuttosto il superamento di essa da parte del suo libero arbitrio? Per la Arendt la libertà è “volere semplicemente 538 539
Ivi, pag. 25. Ivi, pag. 26.
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che questo o quello sia così o cosà”, 540 rifacendosi al concetto greco di , comincare o governare, o a quello latino di agere,dare inizio a un processo. Dimentica che l’agire o il governare in senso classico avevano a riferimento i processi naturali, rispetto ai quali l’agire umano doveva conformarsi. Governare i processi significava in quella prospettiva naturalistica tornare alle origini, riprendere dall’inizio, ovvero agere nel senso di immergersi nel flusso degli avvenimenti. Scatenare un processo senza poterlo governare, che libertà può essere? Il governo degli avvenimenti non può che avere il significato di stabilirne i limiti volitivi, assegnando loro un termine di libertà. La guerra delle volontà può essere evitata soltanto stabilendo limiti invalicabili al Potere, alla volontà più forte. Il governo politico significava il governo da parte della forza del Potere. la politica acquistava dunque il senso dello spazio pubblico in cui si esercitava la libertà, cioè la condizione di affrancamento dalla necessità naturale e vitali. “Tale affrancamento dalla costrizione delle necessità vitali era il vero senso della scholè greca o dell’otium romano”. Diversamente dallo sfruttamento capitalistico, che persegue scopi puramente economici di arricchimento materiale, “l’antico sfruttamento del lavoro degli schiavi mirava a sollevare completamente i padroni dal lavoro, così da renderli disponibili per la libertà del politico”. 541 L’autonomia conseguita in ambito provato consentiva l’esercizio della libertà, ovvero il dialogo tra liberi che portava alla persuasione, anziché la relazione di forza che affermasse la predominanza di alcuno sui più deboli: la libertà di parola anziché l’esercizio della violenza. “Il politico, nel senso greco, è dunque incentrato sulla libertà; una libertà intesa in negativo come non-essere-dominati e non-dominare, e, in positivo, come spazio che può essere creato solo da molti e nel quale ognuno si muove tra i suoi pari”.542 E’ l’esercizio della libertà che rende liberi, e non il dominio, per cui l’agone della libertà presuppone l’esistenza di uomini liberi tra i quai poterla esercitare. Chi domina è certamente “più felice e invidiabile di quelli sui quali domina, ma non è affatto più libero”, poiché
540
Ibidem. Ivi, pag. 29. 542 Ivi, pag. 30. 541
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“anche lui si muove in uno spazio in cui la libertà non esiste”. 543 Libertà, dunque, come possibilità di esercizio della attività dialogica, in cui consisteva l’attività politica, l’isonomia. “Isonomia non significa che tutti sono uguali davanti alla legge, né che la legge è uguale per tutti; ma solo che tutti hanno pari diritto all’attività politica, che nella polis era prevalentemente una attività dialogica. Isonomia significa dune prevalentemente libertà di parola, e in quanto tale equivaleva a isegoria; più tardi, Polibio le definisce entrambe isologia”.544 Il dialogo era solo tra uomini liberi. “I greci, definendo gli schiavi e i barbari aneu logou, privi della facoltà di parola, volevano dire che costoro si trovavano in una condizione in cui non era possibile parlare liberamente”.545 Il despota non era un uomo libero, ma poteva solo comandare. “Quindi per la libertà non occorre una democrazia egalitaria in senso moderno, ma una sfera, pur limitata in senso oligarchico o aristocratico, nella quale almeno i pochi, o i migliori, si trattino da pari a pari,546 a prescindere da ogni criterio di giustizia. Tale spazio di libertà era la polis, lo spazio di esercizio della politica, che dunque assumeva il valore di spazio politico o della libertà. “Il fattore determinante di questa libertà politica è che essa è vincolata a uno spazio”, che “comincia proprio dove terminano il dominio dei bisogni materiali e quello della violenza fisica”.547 Il legame tra politica e libertà diventa patrimonio comune della conoscenza europea, reciso solo dai regimi totalitarii, che pretendevano sacrificarlo allo sviluppo storico, ossia a quel processo inaugurato dal loro atto fondativo rivoluzionario. Ma come si giunge a questa frattura? Fu vera poi essa stessa? Il totalitarismo nasce sul terreno della politica, come logica conseguenza. Infatti, l’oligarchia politicamente dominante era libera di esercitare il suo dominio ma attraverso il servaggio volontario del popolo, cioè a seguito del suo riconoscimento della legittimità del Potere. La volontà popolare come legittimazione della libertà oligarchica trasponeva sul piano politico 543
Ibidem. Ibidem. 545 Ivi, pag. 31. 546 Ibidem. 547 Ivi, pagg. 31 e 32. 544
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la condizione imprescindibile per la libertà autentica, ossia la possibilità del dominio sociale, che rimaneva privato. Nel regime totalitario il campo politico viene dilatato in senso comprensivo universale, senza alcun limite di controllo, né preventivo e neppure di esercizio del potere, mercé la rimozione della distinzione tra pubblico e privato, per cui quod principi placuit legis habet vigorem. La situazione della Roma del sec. IV si ripropone, mutatis mutandis, nell’Occidente del sec. XX, allorquando la erosione progressiva della proprietà privata come diritto inalienabile e consustanziale alla condizione umana provoca la creazioni di monopoli, corporations e trusts, che altera la fisionomia classica del proprietario a favore di una classe di managers che amministra in nome e per conto dei soci azionari. Questa casta economica ha agevolato il passaggio del monopolio dell’economia dai managers degli imperi industriali e finanziari privati alla burocrazia politica dei regimi totalitarii, come i primi amministratori di beni non proprii. “Da questo punto di vista, l’economia delle grandi corporations è una forma non accentrata di totalitarismo, mentre quello comunista, fascista e nazista, è accentrato intorno all’economia di un’unica corporation”.548 Non più, come nella polis, la sfera economica garantiva la libertà politica dello spazio pubblico, ma era lo spazio pubblico della politica a creare le condizioni della libertà dei pochi sui molti. La libertà non era più una condizione privata che si esercitasse sul terreno pubblico, ma era essa stessa una condizione pubblica nata sul terreno della politica. La condizione politica creava l’agire politico: una condizione impersonale crea una condizione personale. La condizione politica impersonale, assurta a sistema universale di convivenza, diventa la Storia, il cui pensiero in età moderno “subentrava al concetto di politica”. 549 Storia equivale a processualità di res gestae, mentre politica è “libero discorso”, isegoria, “comunicazione tra eguali nello spazio pubblico della agorà”. Il parlare come attività propriamente umana di rappresentare il mondo, è intesa in contrapposizione all’agire potente degli dèi che muove la volontà dell’uomo. La parola come riscatto dell’uomo alla sua impotenza naturale. Tra le due forme di realtà interviene una metabasi 548 549
P.A. Sorokin, The Crisis of Our Age, tr. it. cit., pag. 177. H. Arendt, WiP, pag. 33.
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che ne muta la natura originaria. Non si tratta di un semplice mutamento accidentale della stessa sostanza ( ), ma di una trasmutazione essenziale di carattere ontologico (Verwandlung), per cui ciò che viene trasfigurato “è il suo vero essere, di fronte al quale il suo essere precedente non è nulla“, ovvero “ciò che era prima non è più”. 550 E questa è la creazione propria del concetto secondo il Sofista, che fa sorgere l’essere dal nulla, per cui ogni fondazione iniziale di realtà nasce sul previo annullamento del suo opposto. Infatti il rapporto tra libertà privata e spazio pubblico viene alterata dalla universalizzazione del termine positivo del giudizio attraverso la negazione del suo termine dialettico che storicamente la definiva, sicché con la creazione della cittadinanza universale, viene meno la condizione del suo esercizio, rappresentata dagli idioti in senso classico, la cui esistenza consentiva l’esercizio aristocratico della libertà, facendo della rappresentanza sociale storica una questione politica gestita dal Potere. Abolito lo spazio privato che lo consentiva, lo spazio pubblico veniva a perdere altresì il suo carattere di eccezionalità e temporaneità, divenendo da contingente a stabile, e da possibile a necessario. Ma una libertà necessaria, cioè imposta dal Potere, ne dipende, e dunque è una emanazione della sua volontà sovrana, e non già la pre-condizione autonoma del suo esercizio spontaneo. Lo stesso dicasi della rivoluzione sovietica, dove il socialismo di Stato abolendo il proletariato ha abolito altresì le condizioni della libertà, strappata alla storica aristocrazia russa per negarla a tutti. E ciò avviene ogni qualvolta la libertà umana viene interpretata come necessità politica, succedanea di quella naturale. Ogni rivoluzione è un inizio. I mortali iniziano un’opera. L’inizio è sempre fondativo di realtà, a partire dalla nascita. L’archein è l’inizio e dunque il progetto d’essere di ciò che sarà. Iniziare equivale a interrompere il processo naturale inserendovi la spontaneità della libertà umana (Kant). In tal senso il mondo umano rinnova continuamente con la nascita quotidiana di nuove possibilità d’inizio, legate alla nascita di singole libertà, la struttura del cosmo naturale, infrangendone la necessità. “Solo depredando i nuovi nati della loro spontaneità, del loro diritto di
550
H.G. Gadamer, WuM, cit., pag. 143.
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iniziare qualcosa di nuovo, il corso del mondo può essere deciso e previsto in senso deterministico”.551 Ma se quanto afferma la Arendt è vero, deve ammettersi altresì che la libertà dell’uomo non riposa sulla possibilità del suo progetto di vita, bensì sull’ideazione di un’esistenza emancipata dal suo destino naturale. Ora, poiché la sua realizzabilità dipende dalla sua condizione sociopolitica, la stessa possibilità della libertà umana è legata alla condivisione di altri uomini liberi che la facciano propria e comune. In questo modo viene stabilita la dimensione collettiva, o comunque plurale, della libertà storica, della sua forma oggettiva e sociale. Ma, a ben guardare, tale libertà oggettivata in realtà politica, in socialità condivisa, è tanto libera quanto limitata dai termini stessi della partecipazione, cioè della condivisione, altrui, sicché la necessità ha ancora un suo ruolo nella libertà comune. Per trovare la libertà allo stato puro e incontaminato dalla necessità dobbiamo risalire alla coscienza umana, al foro interiore, dove la rappresentazione del mondo è assoluta e appunto libera da ogni condizionamento pratico e da ogni symploché. Il pratein è iniziato da qualcuno che ha il “coraggio di lanciarsi in un’impresa”, ma “l’agire non può mai svolgersi nell’isolamento, dato che chi inizia qualcosa può venirne a capo solo se trova altri che lo aiutino”, come asseriva Platone nella VII Lettera.552 E anche la Arendt deve pertanto ammettere che “la libertà della spontaneità è ancora per così dire prepolitica”, mentre la sua realizzazione storica “dipende dalle forme di organizzazione della convivenza, ossia “solo in quanto a sua volta può essere organizzata a partire dal mondo”, che per essa rappresenta la sua necessità storica”. 553 La libertà politica, dunque, come condizione realizzata, è composta, intrisa di necessità, come l’essere è intriso di non-essere. La Arendt in essa vede l’elemento volitivo, reale, inteso in senso della sua realtà razionale e oggettiva, ignorando l’aspetto necessario, considerato empirico e soggettivo, non reale; ma nella libertà condivisa e comune, ciò che è concretamente libero è il momento della soggettività, che dà inizio al processo, e che però viene contenuto all’interno di forme necessarie 551
H. Arendt, WiP, pag. 38. Ivi, pag. 39. 553 Ibidem. 552
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che lo limitano definendolo. E ciò che lo limita, ciò che storicamente limita l’agire umano, la sua libertà, è appunto il bisogno di condividerlo, la stessa socialità della symploché, Il “diverso” nel senso dialettico del Sofista è l’hostis in senso politico di Schmitt e l’Altro in senso esistenziale in cui ne ha parlato Sartre. La “realtà” del mondo sono “gli altri”, i diversi attraversi i quali definiamo l’essere storico.. La prospettiva singolare non consente la conoscenza “obiettiva” della realtà, ma solo il suo aspetto fenomenico, estetico in senso kantiano. Se infatti l’uomo, afferma la Arendt memore di Platone, vuole vedere ed esperire il mondo così come è “realmente”, può farlo solo considerandolo una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro opinioni e prospettive.554
La Arendt non si avvede di trattare della doxa, cioè dell’opinione soggettiva che nasce dall’esperienza individuale del mondo. solo le opinioni sono molteplici, mentre il dialogo filosofico non confronta opinioni, cioè esperienze, ma ricerca l’unità che le trascende, trascendendo la realtà molteplice del mondo della vita, la cui dimensione reale è appunto coincidente col vissuto empirico, singolarmente molteplice.”Vivere in un mondo reale e parlarne insieme agli altri sono in fondo una cosa sola”. 555 Ma appunto dalla distanza noetica dal vissuto realmente esperito prende inizio il filosofare, il pensare idealistico, nel quale il confronto e lo scontro delle opinioni-esperienze viene superato. La realtà della sfera politica coincide con la ricerca dell’accordo, attraverso lo scontro delle opinioni, cioè delle singole esperienze di vita. Lo scontro delle libertà, unite dal loro tratto comune, che è il mondo della coesistenza, l’ambito della loro stessa necessità. Tale accordo viene inteso come unità politica. L’unità politica è l’ordine della necessità del mondo, è la necessità del mondo stesso, il cui punto di coagulo delle confliggenti libertà è la necessità di convivere. L’ordine necessario è il fine violento della prassi politica, che nella opportunità di limitarsi 554 555
H. Arendt, WiP, pag. 40. Questa è la symploché di cui tratta il Sofista,XLIV, 259 e. Ibidem.
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(dialettica servo/padrone della Fenomenologia hegeliana) trova la sua mediazione con la comune libertà di ognuno. “Il senso del politico in sé” è ravvisato dalla Arendt nella “libertà di movimento”, intesa sia nel senso fisico di “andarsene”, sia in quello operativo di “iniziare qualcosa di nuovo e di inaudito”, che infine in quello di “comunicare con i molti e di esperire quella pluralità complessiva che è il mondo”.556 Orbene, questo “contenuto” dell’agire politico è la realtà stessa dell’autonomia dell’uomo libero e consapevole che si attiva nel mondo in modo originale e creativo. Per sua natura, tale libertà di pensiero e di azione è il risultato personale di una condizione storico-sociale che quella possibilità presuppone come esito a sua volta di un processo emancipativo dalla dipendenza dalla vita biologica, di carattere aristocratico ed esclusivo. La concezione della libertà aristocratica esclude appunto la partecipazione promiscua a una sorta di bene comune condiviso. La “libertà degli antichi” presupponeva infatti la dipendenza dei molti dai pochi eletti, i quali a loro volta dipendevano dai molti in relazione al soddisfacimento dei bisogni vitali. E pertanto la condizione politicamente elitaria si realizzava in conseguenza, ma non in virtù della dipendenza economica, tale che, rimossa questa, si potesse realizzare la libertà per tutti; non era, cioè, la libertà economica una condizione sufficiente per conseguire la libertà politica, come erroneamente crede ogni materialismo socialistico. Così come non era sufficiente il criterio tradizionalista, che trasformerebbe in valore sociale la durata storica delle forme istituzionali. Il passaggio dalla possibilità alla realtà effettuale è consentito da una relazione etica tra governati e governanti che stabilisce il criterio di qualità condiviso e riconosciuto come di valore comune. Tale criterio, che indichiamo come “criterio di socialità”, stabilisce la qualità politica della condizione aristocratica, che è prioritariamente una relazione sociale, senza la quale la libertà perdeva la sua caratteristica di status comunitario riconosciuto. Il presupposto sociologico della relazione politica, che era il riconoscimento comune dello status sociale degli uomini liberi, faceva della relativa libertà una condizione politica storicamente concreta, non meramente soggettiva e astratta, perciò reversibile e sovvertibile ad libitum. Attribuire alle aristocrazie sociali la 556
Arendt, WiP, pag. 40.
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posizione economica come la causa della condizione politica, equivale a indicare nella proprietà il criterio dell’ordine politico tradizionale, mentre in realtà è vero il contrario, ossia che è il criterio ideale dell’ordine sociale a stabilire il ruolo politico. Per cui si può essere ricchi possidenti e nobili senza perciò contare alcunché politicamente; così come si può essere poveri e plebei ed avere un riconosciuto ruolo politico. tutto dipende dal criterio di valore socialitario che legittima il ruolo politico dirigente. Rispetto a tale presupposto, la posizione filosofica, a partire da Socrate, assume il valore della libertà in senso meta-politico, ideale, e quindi di carattere noetico e contemplativo, nella cui prospettiva viene a perdersi la natura sociale della relazione politica, sostituta dall’astratto criterio razionale. Ciò comporta che il criterio idealistico della libertà politica, ubbidisce a una necessità razionale del tutto indipendente dalla credenza sociale della sua validità; ed è questa ideale indipendenza a fare della classe politica un ceto filosoficamente indipendente dall’opinione sociale (dòxa), e la supposta depositaria di valori universali. Il carattere solidale della libertà filosofico-politica viene conservata dalla condizione dialogica del theorein. La relazione inter-personale in cui si sostanziale e si manifesta la libertà politica in senso greco ne costituisce la sua essenza drammatica, propria di una cultura orale, il cui contesto linguistico era assunto come orizzonte identitario della stessa politeia. In tal senso, il era congiunto aristotelicamente alla condizione sociale dello dove il non è la parola, ma il parlare, ossia la generica capacità di comunicare la propria volontà e di recepire quella altrui, rispetto alla quale il discorso filosofico è una determinazione tecnica speciale. Questo spiega anche le riserve platoniche sulla scrittura come veicolo di comunicazione del pensiero. Comunicare e recepire il senso del discorso sono indissolubili; così come essere liberi e agire politicamente. La libertà politica presuppone dunque la dialettica servopadrone, ma su un piano di natura noetica, diverso da quello sociologico, in cui l’agire politico è il riflesso pratico del processo ideale, ne dipende come rispecchiamento razionale. In questa prospettiva idealistica della politica, il piano privato e quello pubblico restano distinti ma in senso polare dialettico, tale cioè da essere assorbiti in una relazione funzionale che li rende reciprocamente
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necessari ma solo per essere superati dalla determinazione di un mondo ideale, la cui universale libertà nasconde la sua inesorabile necessità, che invece era manifesta nella drammaturgia del rito controversistico delle libere opinioni; libere appunto dalla necessità, sia sociale dei bisogni naturali, che del logos razionale. Il Logos è la ragione che raddrizza le storture del mondo. E la prassi del ragionamento logico è la politica. Essa, attraverso il dialogo razionale, stabilisce il nuovo discrimine tra gli umani, tra coloro che possono sostenere il dialogo e gli altri, gli idioti del pensiero, diversi da quelli sociali, privi di coscienza politica e pubblica, depositari solo di una utilitaristica e particolare. Il principio d’ordine politico che fonda la giustizia sociale greca è armonico ma non egalitario, equitativo in senso sostanziale e non meramente legalistico e formale. Era questo suo carattere di concretezza a fare della libertà greca una condizione esistenziale, non solo astrattamente giuridica, come quella romana e quella moderna. Essa implica la condizione comunitaria della libertà politica, che si realizza tra persone che si conoscono e si riconoscono in quanto condividono uno stesso spazio esistenziale, un mondo legato al luogo, alla lingua e alle tradizioni comuni. La comunità territoriale, che è cosmo culturale, lega e con-lega gli uomini liberi al loro mutuo agire politico. Il legame logoico, del logos cioè in quanto facoltà del parlare, stabilisce relazioni elettive coi simili, fondate sulla comprensione del senso simbolico del linguaggio comune. Per l’idealismo platonico, non è tanto la parola che unisce, quanto il senso del discorso. La parola infatti può essere compresa da tutti i parlanti, o intuita anche dai barbari, mentre il senso del discorso accomuna soltanto i sodali e i simili. Questa koinonia costituisce il legame politico in senso razionalistico, che include sia un sentimento ludico che agonale, per cui “ognuno doveva continuamente sforzarsi di essere il migliore di tutti”. 557 L’esito, aleatorio o fatale che fosse, rimaneva comunque fuori della portata di tutti, ma solo di quella degli eletti.. mancando alcun criterio di certezza esistenziale, anche gli eroi erano soggetti al destino eteronomo che li dirigeva, come rappresentato nei poemi omerici e nelle tragedie classiche. E proprio per 557
H. Arendt, WiP, pag. 41.
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emanciparsi da tale dipendenza superna, che legava i destini della polis al livello della fallace e illusoria coscienza umana, Platone pensa di estendere alla comunità politica le acquisizioni teoretiche ottenute attraverso il metodo filosofico praticato nell’accademia, nel cenacolo elettivo ’, dove, “accanto alla sfera di libertà del politico, era nato uno spazio di libertà nuovo ed estremamente reale, che si perpetua tuttora nella libertà delle università e nella libertà di insegnamento accademico”. L’idea platonica di fatto introduce nel mondo una nuova idea di libertà. Diversamente da una libertà puramente filosofica e valida soltanto per il singolo, la quale è così distante da tutto il politico da far sì che il filosofo ormai abiti la polis soltanto con il corpo, questa libertà dei pochi è di natura affatto politica. Lo spazio di libertà dell’accademia doveva essere un sostituto pienamente valido della piazza del mercato, la agorà, il centrale spazio di libertà della polis.558
L’accademia costituiva l’altro spazio rispetto a quello privato e a quello pubblico. Uno spazio terzo e totale che del privato aveva l’autonomia economica, e del pubblico la funzione sociale pedagogica. Circa la relazione tra accademia e polis, entrambe mirano a u fine trascendente la mera vita biologica, la quale invece non ha alcun fine, poiché il fine della vita e di tutte le attività lavorative a essa correlata, evidentemente è la conservazione della vita e null’altro, e l’impulso a mantenersi in vita lavorando non è l’esterno alla vita, ma è insito nel processo vitale che ci obbliga a lavorare come ci costringe a mangiare.559
Non è pertanto la vita privata tesa al sostentamento vitale il mezzo per conseguire il fine politico o sapienziale, ma è “la padronanza delle necessità vitali e la potestà sul lavoro degli schiavi, esercitata in casa, il mezzo dell’affrancamento per il politico”.560 In altri termini, è la organizzazione della economia produttiva a costituirsi come mezzo 558
Ivi, pag. 42. Ivi, pag. 43. 560 Ivi, pag. 44. 559
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finalizzato alla libertà politica. Questa impostazione del tema della libertà politica come fine dell’organizzazione della produzione è durata effettivamente per due millenni nella nostra civiltà, messa in discussione dalla considerazione sociale dell’economia, ossia dalla sua rilevanza nell’ambito della sfera pubblica, da privata che era. La socializzazione dell’economia sposta il fine politico dalla libertà dei singoli alla libertà dai singoli proprietari. A partire dalla dipendenza dalla volontà degli dèi, dai quali, come ricordava Plutarco, dipendeva la vita biologica. L’economia considerata dal punto di vista finale della politica è un mezzo di libertà personale, e non un fine in sé, come è invece la produzione per la vita. Viceversa, la politica considerata dalla prospettiva economica appare un privilegio ingiustamente destinato a pochi detentori dei mezzi di produzione. Le due prospettive, nondimeno, non sono simmetriche, poiché la dipendenza dei padroni dai servi è legata alla necessità dell’ordine biologico della sopravvivenza naturale, laddove la dipendenza dei cittadini è legata al Potere, cioè ai vincoli del loro stesso riconoscimento politico.561 Eliminare la necessità che lega l’uomo alla Natura o agli dèi sarebbe stato il modo di emancipare l’uomo dalla dipendenza del Cielo, il produttore dai bisogni economici e il cittadino dalla sudditanza politica. Questi tre miti sono stati oggetto di considerazione teorica da parte di ideologie rivoluzionarie che, abolendo la proprietà privata e lo Stato, pensavano di affrancare l’uomo dalla sua condizione servile. Ma abolendo la proprietà privata si è invece abolita la libertà dei singoli, e abolendo lo Stato si è abolita la politica libera ma non il Potere dell’uomo sull’uomo, dimostrando che la libertà e il Potere sono legati alla stessa finitezza umana, l’una come aspirazione e l’altro come inibizione. Questi due motivi originari della condizione umana non sono superabili sul loro stesso terreno, per cui l’economia può essere destinata a un fine extra economico solo dalla politica, e la politica a sua volta può essere strumento di benessere sociale non riducendosi a economia di Potere, ma destinandosi a un fine trascendente, meta-fisico, che per Platone era filosofico. 561
La Arendt ricorda in una nota di The human Condition la discussione di Socrate con Eutero riportata da Senofonte nei Memorabili (2, 8) a proposito della volontà di indipendenza dell’uomo libero; tr. it., Vita activa, Milano, 2014, pag. 247.
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La filosofia come modello ideale della politica è dunque il fine della politica stessa, l ricerca alla quale si votano i sapienti a colloquio. Questo fine della politica, e quindi del suo Potere di destinare la vita economica e di guidare i destini degli uomini liberi, non è la politica stessa, la libertà in sé quale esercizio dell’autonomia – e del potere – dell’uomo nei confronti degli altri uomini, ma ciò che la trascende, e dunque la limita dal costituirsi come fine in sé, quale sarebbe la chiacchiera retorica e la volontà tirannica. Tale fine è il Governo, che da Platone e dai razionalisti di ogni tempo viene identificato con l’attività del Logos o della Ragione. Il fine della politica (e quindi del Potere) è trovare le regole del suo esercizio razionale, il Governo appunto, che, nell’ambito del discorso, stabilisce la ragionevolezza, mentre nell’ambito del Potere il suo adeguato esercizio e nell’ambito delle relazioni umane la formazione spirituale, la cura di sé. Platone affrontava la questione del Governo nell’ambito della sfera del ragionamento, in termini di tecnica dialettica, per cui il mondo politico doveva conformarsi ai termini della verità. Senza tale conformità la stessa filosofia finiva per essere esercizio virtuoso fine a se stesso, come quello socratico; laddove la sua significatività era riposta nel riconoscimento sociale come Governo politico, come guida degli uomini liberi. La guida della Ragione, e quindi dei pochi interpreti saggi sui molti ignari, legittimava il Governo aristocratico sul popolo, che sarebbe stato altrimenti comandato dal Potere, non razionalmente guidato. L’agorà, quale luogo simbolico della libertà, non poteva in sé contemplare una guida veritiera se affidata ai soli uomini, da sempre agiti dalla sapienza e dal capriccio degli dèi. Occorreva che la libertà umana fosse completata dalla emancipazione dalla dipendenza divina, ma tale che non comportasse il caos delle passioni proprie agli uomini e agli eroi. Occorreva, cioè, che l’arbitraria guida divina fosse sostituita dal timone fermo e stabile della Ragione, anch’essa di origine divina ma non accompagnata dalla volontà arbitraria degli dèi, che equiparava il dispotismo del monarca umana non sapiente. Ciò significava che la virtù insita nella Ragione doveva essere liberata dai moti irrazionali che la deturpavano, e dunque essere considerata e assunta nella sua purezza originaria. In questo consisteva il metodo dialettico, riportare il Logos alla sua purezza. E a questo servigio si prestava la filosofia, al quale non era
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punto “indifferente” nei confronti della politica. 562 I filosofi non erano oligarchi pretenziosi e aristocratici mutriosi che disprezzavano il popolo, ma seguaci della sapienza divina, da cui proveniva la verità logicamente appresa dal filosofo, come insegnava il Simposio. La libertà del si riempie di contenuti razionali, trova una sua forma ideale e si definisce, oggettivandosi. Il rapporto tra politica e filosofia è lo stesso che tra libertà e verità, incondizionatezza e determinatezza. Tra le due sfere intercorre una relazione di possibilità e realtà, per cui la loro complementarietà funzionale è derivata dal riconoscimento reciproco delle rispettive funzioni. Il potere politico garantisce il ruolo filosofico, il quale può esercitare la sua funzione di Governo riconoscendo l’origine politica della libertà. “Perciò la sfera di libertà dei pochi […] dipende dai molti per il suo puro e semplice esistere […] dell’accademia”. 563 Ciò non comporta, come ritiene la Arendt, una “degradazione del livello del politico” alla stregua dell’economico,564 poiché, come abbiamo chiarito, la condizione della sua relazione strumentale e di quella finale sono legate alla consapevolezza della realtà umana, ossia all’autocoscienza razionale, insita nella libertà stessa come patrimonio sociale ed esistenziale. Una libertà inconsapevole dei suoi fini sarebbe un parlare senza contenuto veritativo, che renderebbe arbitrario e ingiustificabile la stessa condizione economica che rende possibile la libertà. Solo nella coscienza della finalità predisposta dalla libertà è sostenibile la struttura razionale della polis, il suo carattere “politico”, sicché il ruolo del filosofo è imprescindibile dalla esistenza stessa di un luogo permanente di esercizio della libertà, cioè della polis stessa, la cui vita è nel suo principio di ragione, e non nelle condizioni di esistenza economica. Se Troia cade non avendo il favore degli dèi, l’impero persiano cade perché la sua potenza meramente economica non è sorretta da un principio di esistenza razionale. Ed è tale principio informatore della vita politica di un consorzio sociale a fare la differenza tra una nazione barbara e la greca. La questione non inerisce alla “persuasione” degli uomini liberi e del loro “comune accordo” in merito a decisioni operative, ma il presupposto che 562
H. Arendt, WiP, pag. 44. Ivi, pag. 45. 564 Ibidem. 563
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ogni accordo e ogni decisione comune non possa tralignare dai limiti imposti alla libertà, e dunque al Potere, da parte della Ragione. Rispetto alla necessità fatale o alla disposizione arbitraria divina, i limiti del Governo razionale presuppongono la consapevolezza della loro giustezza, anziché la sola rassegnazione alla forza maggiore. Questo fa della cultura politica greca un orizzonte di libertà finalizzato alla verità. Tale fine, lasciato aperto alla coscienza razionale dell’uomo, rappresenta il lascito metafisico più significativo del pensiero greco, passato in retaggio a quello cristiano, che lo emenda in senso singolare e trascendente. La fede in Cristo rivolge a Dio la fede che la devozione alla polis rivolgeva al Logos, facendo consistere la fede proprio in tale remissione. 565 I confini dello spazio liberale del pensiero greco erano quelli segnati dalla comunità politica, che costituiva la vita pubblica della realtà mondana; ove “pubblica” significava razionale. Il punto di mediazione tra la sfera privata e quella pubblica diventava l’intero spazio sociale politicizzato, ovvero l’originario spazio della politica socializzato. Ed è a questo punto che avviene idealmente la confusione dei due piani, con la conseguente totalizzazione del politico inteso come l’unico spazio della razionalmente necessaria libertà. Il mundus era il centro simbolico della città che univa il cielo e gli inferi, il punto di equilibrio cosmico della vita sociale dell’uomo. Il Cristianesimo contesta tale centralità, assegnandola a Cristo, il Mediatore. La differenza è radicale. Infatti il Bene cristiano è declinato in termini di carità, che pone al centro della relazione l’Altro, anziché in termini di giustizia, sempre riferibile alla soggettività, sempre da proteggere dalla vulnerabilità dell’eccesso altrui.
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“Proprio perché noi, facendo uso della nostra libertà,nell’ambito ella nostra propria possibilità non facciamo né faremo mai ciò che è giusto davanti a Dio – proprio per questo possiamo cercare la nostra giustizia soltanto là dove Dio ce l’ha donata e offerta: nella condiscendenza in cui Lui in Gesù Cristo si è messo al nostro posto, per rendere buono ciò che noi facciamo male. Questo, in effetti, significa credere: la decisione per Dio quale nostro Signore. Se Egli è nostro Signore, è anche nostra giustizia e noi, a nostra volta, possiamo riporre solo in Lui la nostra fiducia di essere giustificati davanti a Lui”: K. Barth, Reformation als Entscheidung (1933), tr. it., in Agire politico e libertà dell’Evangelo, Troina, 2004, pag. 70.
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Il fine della carità è la santità, secondo gli insegnamenti del Sermone della Montagna, mentre il fine della giustizia è la ragionevolezza nei rapporti sociali. L’orizzonte di coscienza della santità è l’interiorità dell’anima, laddove l’orizzonte della giustizia politica è la socialità della vita pubblica.. Col Cristianesimo la Verità torna a rapportarsi al potere divino trascendente (), che la Ragione aveva sostituito a favore dell’autorità del Potere politico (lex) degli uomini liberi. Nella dimensione interiore la Verità viene a a perdere la sua ragionevolezza sociale, legata alla condivisione del consenso, per diventare ragione di Dio, fede anteriore a ogni ragione, che non ha bisogno di essere dimostrata, ma solo di essere sentita. Il sentimento interiore entra con forza nella vita pubblica tradizionale all’atto della decisione cristiana tra Dio e Cesare. Veritas habitat in interiore homine, afferma Agostino, e dunque è misteriosa agli altri e invisibile, non ha da manifestarsi pubblicamente che come professione di fede vissuta. Anche la verità del Logos filosofico si manifesta intuitivamente al dialettico, ma viene evocata attraverso il processo metodico del discorso razionale. Per il cristiano invece è opera della Grazia divina ispirare la Verità anche gli umili bendisposti, suscitando fede e non persuasione dialettica. La fede, rispetto al giudizio razionale, più che incrollabile, è trasfigurante. Il Logos vince perché piega alla ragione più forte l’argomento più debole;la fede salva la coscienza dall’errore delle false credenze, cioè sottrae l’uomo alla forza esterna che l’opprime. Ciò che è l’ingiusta credenza per il filosofo, è l’oppressione della coscienza fedele per il cristiano. E opprimente è l’errore per entrambe le prospettive. Ma mentre l’errore per il filosofo è il ragionamento fallace che sottostà alla cattiva condotta sociale, per il cristiano è la mancanza di fede, l’ignoranza di Dio. La Ragione ha bisogno del collettivo per manifestare la sua effettualità, la fede invece si manifesta senza necessità di estroversione nell’interiorità dell’anima singolare. Non essendo uno status sociale, come la condizione privata del cittadino o dello schiavo, il sentimento della fede non può essere investito dall’universalità del concetto politico, che è l’autorità, e quindi può preservare la libertà personale molto più della condizione civile. 2. Secondo la Arendt, l’autorità, “concetto un tempo fondamentale per la teoria politica” è “scomparsa dal mondo moderno” per ragioni
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essenzialmente politiche, legate al discredito che le forze eversive del sistema dei partiti procurarono all’autorità dello Stato e che si diffuse quindi nei “settori prepolitici, quali la pedagogia e l’istruzione”. 566 Tale crisi fu conseguenza dell’affermazione dello Stato assolutistico o di diritto, che si assunse la prerogativa di socializzare in chiave politica l’identità culturale dei cittadini, sottraendone il compito alle tradizionali istituzioni pedagogiche, quali la famiglia e la Chiesa. Nondimeno, la “perdita della tradizione non implica la perdita del passato”, sicché perdendo l’una si è interrotto “il filo che ci guidava sicuri nel vasto dominio del passato, […] la catena che vincolava ogni generazione successiva a un determinato aspetto del passato”. 567 Essa, l’autorità, in quanto “radicata nel passato come su una indefettibile pietra angolare”, è necessaria a rendere il mondo “durevole e permanente”, per cui “averla perduta significa aver perduto le fondamenta del mondo”. 568 Ma perché l’autorità è necessaria dal punto di vista politico? La domanda è essenziale, e richiede una risposta non elusiva o generica. Nel regime autoritario la fonte dell’autorità è sempre una forza esterna e superiore al potere di questa: e da questa fonte, da questa forza esterna e superiore, che trascende il campo politico, le autorità derivano la loro “autorità”, cioè la loro legittimità, mentre proprio in rapporto a essa è possibile limitare il loro potere. […] Per cui la libertà, perdute le limitazioni restrittive che ne proteggevano i confini, è rimasta debole, indifesa e votata all’annientamento.569
La “conseguenza della perdita di tutte le autorità tradizionalmente riconosciute” è il totalitarismo, il quale perciò è “il risultato quasi inevitabile della democrazia”,570 il regime che ha messo in radicale discussione lo Stato autoritario e i valori tradizionali, la sua struttura gerarchica e dunque “l’ineguaglianza e la distinzione come principi 566
H. Arendt, What is Authority? (1954) in Between Past and Future (1954) tr. it., Milano (1991), 2011, pagg. 130-131. 567 Ivi, pag. 133. 568 Ivi, pag. 134. 569 Ivi, pag. 137. 570 Ivi, pag. 138.
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informatori dell’intero sistema”.571 In tal senso, la risi dell’autorità è sempre accompagnata dal declino della libertà. 572 E poiché la libertà in senso greco è essenzialmente politica, libertà e autorità sono congiunte nella stesa sussistenza della polis.”L’autorità”, afferma la Arendt, “comporta un’obbedienza nella quale gli uomini rimangono liberi”, 573 volendo intendere un rapporto che non sia vincolato ad personam ma in virtù di un principio mediatore, che per Platone era la legge, la cui impersonalità pareva garantire la libertà di chi le doveva sottostare. Ciò che non viene considerato in questo tipo di argomento, e che invece è un elemento decisivo del rapporto politico al fine della sua qualità, è l’adesione spontanea della parte sottostante alla norma sovrastante la sua volontà, ossia il consenso, senza il quale l’aspetto coercitivo della legge acquista valore caratterizzante. Il consenso presuppone la conoscenza della norma a cui aderire, e quindi la possibilità di un dialogo che si può ammettere solo in fase di elaborazione, ma non può essere un continuum relazionale. Ordunque, l’autorità, la conoscenza e il consenso – intesa come adesione di fede - sono gli elementi costitutivi e imprescindibili della relazione dell’uomo con Dio, la quale non si stabilisce tra una fonte impersonale e una destinazione variamente indeterminata, ma sempre tra il mio Dio e me, cioè tra due interlocutori occasionali che dialogano però ininterrottamente. Per tale modalità di rapporto singolare, la relazione cristiana con la Fonte normativa e della conoscenza è radicalmente diversa da ogni forma astratta di relazione, come appunto quella legale, sia essa di natura naturale, statuale o filosofica. Solo la relazione con Dio è ad personam, nella quale l’ubbidienza al Signore non è mai coercitiva ma volontaria, in quanto decisa dall’adesione della fede. In questa relazione mistica, agisce l’intima convinzione (intentio) del credente, non già l’estrinseca volontà (voluntas) del suddito. Nella relazione politico-razionale, la convinzione è un elemento che afferisce alla sola sfera del governante che dirige, ma non è richiesta come conditio sine qua non dell’efficacia e bontà del comando, che va 571
Ivi, pag. 139. Ivi, pag. 141. 573 Ivi, pag. 147. 572
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perciò eseguito dai destinatari, a prescindere dall’ “assenso dei molti” che pur costituiscono “il corpo politico”.574 Ma proprio l’assenza di tale elemento, l’assenso, trasforma la relazione politica in rapporto di forza; infatti è la violenza che in politica trasforma la verità in senso comune. Consentire a un comando, allora, diventa un’azione oggettiva, un comportamento fattuale, che prescinde da ogni atteggiamento interiore, da ogni intenzione, la quale, riguardando la propria coscienza, non può che essere verace.575 L’azione, invece, potendo divergere dalla ortoprassi stabilita deve essere indotta alla conformità prescritta. Ma ciò che può essere oggetto di costrizione è appunto la , la fisicità dell’uomo, che lascia impregiudicato appunto il convincimento interiore, oggetto della conversione (metanoia) del credente. Il governo ideale platonico, disegnato soprattutto nella Repubblica, ma anche nelle Leggi e nel Fedro, è quello in cui azione e intenzione combacino, in modo tale che a dominare non sia più il re-filosofo e a obbedire il popolo ignaro, ma la stessa filosofia, ossia quel Bene di cui parla Aristotile ne Il politico come “la misura più esatta di tutte le cose”. 576 I termini dialettici che ineriscono all’agire politico in cui l’intende la Arendt sono il linguaggio ( ) e l’azione (), rispetto ai quali la contemplazione filosofica ( ) è il momento del governo. Quest’ultimo manca all’umanità della caverna platonica in cui domina la e dunque basta sostituire l’opinione con la razionale per ottenerlo. Il governo dunque si può imporre anche dall’esterno agli ignari perché si abbia il giusto regime politico. Ciò sarebbe impossibile ammetterlo per realizzare la comunità ecclesiale. La rivelazione cristiana, infatti, non è scoperta emersa a seguito del filosofico, quasi fosse una evocazione del Logos propiziata dalla curiosità ontologica, e dunque non scaturisce dal dialogo interpersonale, che è attività politica per eccellenza, ma nasce dall’incontro della Verità trascendente con la coscienza in interiore. La Verità dunque 574
Ivi, pag. 150. A questo proposito la Arendt ricorda la scena ne I fratelli Karamazov in cui lo starec risponde al padre bugiardo, che gli chiedeva cosa fare per salvarsi, di non mentire mai a se stesso, che presuppone che anche i bugiardi volontari conoscano la differenza tra verità e menzogna. In H. Arendt, Truth and Politics, tr. it. cit., pag. 65. 576 Cit. da H. Arendt, Past and Future, tr. it. cit., pag. 302. 575
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è misteriosa agli altri e invisibile, non ha da manifestarsi pubblicamente che come professione di fede. anche la verità del Logos filosofico si manifesta intuitivamente al dialettico, ma viene evocata attraverso il processo metodico del discorso razionale. Per il cristiano invece è la Grazia di Dio a ispirare anche agli umili bendisposti la Verità, suscitando fede e non persuasione dialettca. Il Logos vince perché piega alla ragione più forte l’argomento più debole;la fede salva la coscienza dall’errore delle false credenze, cioè sottrae l’uomo alla forza esterna che l’opprime. L’ingiusta credenza per il filosofo è l’oppressione della coscienza fedele per il cristiano. E opprimente è l’errore per entrambe le prospettive. Ma mentre l’errore per il filosofo è il ragionamento fallace che sottostà alla condotta sociale, per il cristiano è la mancanza di fede, l’ignoranza di Dio. La Ragione ha bisogno del collettivo per manifestare la sua realtà umana, la fede si manifesta senza necessità, cioè costrizione, nell’interiorità del’anima singolare. La socialità della rivelazione razionale è nella sua realtà politica, che rimane dunque l’orizzonte intrascendibile della verità in senso greco. La conversione dei cuori prescinde invece dall’adozione collettiva propria del credo filosofico. Come avvertiva Pericle, la filosofia, senza il contesto del suo valore sociale, è soliloquio alienante, de-lirio, fuoriuscita dall’orizzonte politico. questa condizionatezza esistenziale lega il filosofo alla sua città terrena, al locus publicus, laddove “il messaggio cristiano suggeriva un tipo di vita in cui le faccende umane in genere dovevano essere trasferite dalla sfera pubblica a una sfera interpersonale, da uomo a uomo”.577 Una relazione che non era “privata”, come giustamente nota la Arendt, ma spirituale, e dunque elettiva. Era il Potere profano e totus politicus a spingere verso il non-luogo pubblico la fede trascendente, dichiarandola “privata” in quanto inafferente all’agire politico. Ma la reale portata politica della fede cristiana non fu tanto nella sua concreta ingerenza negli affari dello Stato in quanto fede trasvalutante la condizione esistenziale del credente, quanto fu nello stabilire un limite trascendente insuperabile alla stessa Ragione, tale che il Potere razionalizzato non potesse legittimamente fare le veci della volontà di Dio. La riaffermazione di un Limite alla volontà umana, pur metodicamente 577
H. Arendt, WiP, pag. 48.
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orientata al suo fine razionale, riconcilia la libertà dell’uomo alla sua origine divina, e dunque a una identità precedente e superiore a quella politica. Diversamente dalla limitazione intrinseca alla dimensione politica - tra uomini liberi e idioti e tra praticanti il bios theoretikòs da quelli che erano invece presi dagli affari pratici del bios politikòs -, la delimitazione metafisica tra sfera del Potere e la sfera spirituale assegnava alla dimensione della fede una integralità che riguardava l’intera vita umana in quanto rapporto ontologicamente coerente tra fede ed esistenza che caratterizzava la persona, aldilà di ogni determinazione formale qualificante. La persona non è un ente ideale ma una figura esistenziale, che si pone oltre la figura bio-logica, e non al di qua di essa, come condizione naturale (zoè). E l’alterità del personale rispetto al biologico è appunto nella sua integralità trascendente ogni determinazione concettuale e fattuale. La persona pertanto non si può distinguere in soggettività teoretica e pratica, politica ed economica, etc., ma va considerata come l’unica rappresentativa di una totalità singolare che non è rappresentabile che da se stessa. Se pertanto si può stabilire un mandato in relazione a un interesse pratico o a una funzione giuridica inerente l’ente politico “cittadino”, non si può delegare la personalità, che è un unicum singolare, e come tale non ascrivibile a un astratto modello universale, quale quello ideale o il soggetto della fattispecie giuridica. Ed è propriamente tale condizione a stabilire il rapporto impolitico della fraternità cristiana, la cui concretezza non è legata al bios naturale 578 ma appunto alla sua integralità esistenziale. Ed è tale integralità a costituire la persona come una realtà spirituale, non oggettivabile in una rappresentazione astratta e generale, e della quale pertanto il Potere non poteva disporre, non riuscendo a stabilire con ogni persona un distinto rapporto singolare e unico. Rapporto che invece poteva Dio. Egli è padre in quanto ha un rapporto singolare con ogni figlio; ma la figliolanza è spirituale, poiché non vi è una dipendenza naturale, biologica, tra Dio e gli uomini, improntata alla necessità, come quella con gli dèi naturalistici pagani, ma è una relazione spirituale, improntata alla volontarietà e alla disponibilità 578
Come invece ritiene R. Esposito, Bìos, Torino 2004, pag. 189.
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di entrambe le parti in dialogo. Solo la relazione spirituale è e rimane libera, poiché è volontaria e occasionale come il dialogo filosofico,ma sempre reversibile, come invece non è la verità concettuale, la quale si stabilizza in concetto di verità (), determinandosi logicamente come esatta rappresentazione dell’ente ideale. 579 La discussione politica, mantenendosi sul piano dell’opinione tra uomini liberi, cioè sul piano della , mantiene il suo carattere di libertà, ma allorquando perviene alla decisione esclusiva di ogni altra possibilità dialogica, essa si muta in potere, la cui forza ragionevole è nella sua vigenza normativa, cioè nella sua volontà. La forza della vigente volontà politica è il Potere. Se questo non trova limiti alla sua vigenza universale, che si afferma escludendo la libertà di opinione, negando cioè la libertà dalla quale si è originato, esso si converte nel suo opposto, in dispotismo, che per definizione è una condizione di dominio senza libertà. Tale costituisce il destino di ogni Potere che non riconosce il suo Limite trascendente, che è Dio, e che empiricamente è la persona spirituale, imago Dei. La politica assolutistica, portatrice di una razionalità totalitaria, per affermarsi è costretta a negarsi. La Arendt è convinta seguendo Aristotile che, a differenza del regime monarchico domestico, dove a governare sono i soli capo-famiglia, “la caratteristica della polis [fosse] di essere composta da molti che governano”, ossia dagli stessi capo-famiglia riuniti in consesso politico “a costituire la sfera politico-pubblica della vita cittadina”. 580 La filosofa tedesca si rende conto che codesto spazio pubblico del politico è qualcosa di diverso dal governo vero e proprio della città, che consiste nel prendere delle decisioni, le quali, pur tenendo conto delle opinioni che non sono conformi, deve di necessità escluderle, infrangendo così quella condizione paritaria che originariamente costituiva il tratto comune di tutti gli uomini liberi convenuti nella discussione. Infatti, la Arendt aggiunge che “il governare vero e proprio e la distinzione tra governanti e governati rientrano in un ambito che precede quello politico, e rimane distinto dalla sfera ‘economica’ della vita familiare in quanto la polis si 579
Ved. M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit (1947), tr.it. in Segnavia, Milano 1987, cit. da H. Arendt, Past and Future, tr. it. cit, pag. 301. 580 H. Arendt, Past and Future, tr. it. cit, pag. 161.
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fonda sull’uguaglianza e ignora le differenziazioni tra governanti e governati”,581 confermando così la distinzione tra la sfera privata e la pubblica che stabiliva “due ordini di esistenza” del cittadino ateniese: quello economico e quello politico, l’uno informato alla necessità della vita naturale (), l’altro alla libera determinazione della “buna vita” (), consistente dunque nel “dominio della necessità”. 582 La considerazione della Arendt è simmetrica a quella ricordata di Esposito a proposito della concretezza dell’esistenza umana rispetto alla sua astratta determinazione logica; entrambe attribuiscono alla condizione economica la polarità dialettica alla condizione politica, considerata razionale rispetto al fine eudemonistico. Entrambe le rispettive considerazioni sottintendono una visione naturalistica dell’unità metafisica, secondo la quale l’idea risolve nella sua astrazione dal divenire il movimento stesso dell’Essere, e la conseguente ricaduta immanentistica della concezione politica, per la quale il soggetto della libertà, come della Storia e della vita politica, sarebbe il collettivo, e non l’individuo, sicché è nell’incontro tra le singole esperienze che si realizzerebbe la compiutezza che ognuno non avrebbe. Ciò confermerebbe la prospettiva cosmologica antica nella quale l’uomo è inserito, stoicamente fiduciosa nella legalità razionale della natura, il cui fine sarebbe di sviluppare in senso armonico anche le diverse attitudini umane, per cui, parafrasando Kant, “il valore dell’esistenza dell’uomo può manifestarsi solo nella totalità e mai ad un singolo uomo o a una generazione di uomini, poiché il processo storico è indeterminabile”, 583 al pari, è il caso di aggiungere, della discussione politica. Questa visione rimuove del tutto il senso della posizione cristiana, che nella singolarità dell’uomo ha riposto il senso della Storia in termini di salvezza spirituale, e dunque interiore, e non della specie o universale come l’intesero Hegel e Marx. E tale rimozione impedisce di considerare meta-politico del Governo, che non consiste nella mera “decisione” tra posizioni in contrasto, ossia in un atto esclusivo, ma bensì nel giudizio 581
Ibidem. Ivi, pag. 162. 583 H. Arendt, Lectures on Kart’s Political Philosophy (1970), tr. it. Genova 1990, pagg. 89-90. 582
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circa il bene comune, la cui comunanza, per essere inclusiva e non parziale, deve trascendere le singole posizioni paritetiche, ossia riferirsi a un principio di valore meta-politico, e non già sub-politico o economico. L’etica weberiana della responsabilità è la stessa che ispira l’azione del Governo, la quale, dovendo risolvere quanto nella discussione politica costituisce l’ambito di libertà d’opinione degli uomini liberi, non può essere di natura politica. Infatti, mantenendosi nell’ambito politico l’azione di Governo di determina come imposizione decisionistica e deliberazione imperativa, ossia come volontà di Potere. Se manteniamo all’interno dell’orizzonte politico l’azione del Governo, esso partecipa della sua dialettica, alimentando e non risolvendo il conflitto delle libere opinioni, rendendo il processo nel suo complesso appunto “indeterminabile”, facendo coincidere la libertà del confronto con lo stesso movimento polemico. La soluzione platonica, come è noto, propende per una decisione razionale che stabilisca imperativamente l’affermazione dell’opinione più persuasiva. Ma questa risolve il conflitto solo nel senso di escludere le opposizioni, negandole dialetticamente, e interrompendo così la libertà e indeterminatezza delle opinioni. Il divide et impera è la determinazione pratica del metodo razionale, che isolando gli elementi compatibili da quelli che non lo sono forma un insieme omogeneo unitario. L’atteggiamento cristiano è diverso. Con Agostino “anche l’organismo politico accettò l’idea che la politica sia un mezzo per ottenere un fine superiore, e che la questione della libertà all’interno della politica interessi solo in quanto il politico si deve ritirare da determinati ambiti”.584 Avviene così un incontro tra politica e religione sul piano della comune convivenza umana, che impone ai cristiani un onere amorevole verso il prossimo e di occuparsi perciò della vita politica. È questa trasformazione del Cristianesimo operata dal pensiero e dagli atti di Agostino che alla fine consentì alla Chiesa di secolarizzare la fuga cristiana nell’ombra, tanto che i credenti costituirono nel mondo uno spazio pubblico
584
H. Arendt, WiP, pag. 49.
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del tutto nuovo, definito su basi religiose, che pur essendo pubblico non era politico. 585
La rilevanza pubblica della religione era legata al riconoscimento della sua funzione sociale, che la esponeva ad assumere posizioni nell’ambito della vita politica. quando la Riforma tornò a distrarre la fede dal suo ruolo sociale e visibile “scomparve anche il carattere pubblico di quegli spazi ecclesiali”,586 offrendo alla politica un rinnovato monopolio, da sempre ostacolato dal cattolicesimo, la cui stessa struttura ecclesiale richiedeva una organizzazione di tipo politico, “per potersi conservare e affermare sulla terra e nel mondo terreno come Chiesa visibile, distinta da quella invisibile la cui presunta esistenza non era mai stata messa in discussione dalla politica”, la quale “aveva bisogno della Chiesa per dimostrare la propria superiore giustificazione e legittimazione”.587 Il rapporto tra Stato e Chiesa era quello tra Governo spirituale e Potere secolare. Una politica estesa alla vita sociale, che comprendeva tutti gli uomini e non solo gli ambiti liberi privilegiati, produceva un nuovo ambito di manifestazione della libertà comune, la società appunto, inclusiva di quegli spazi economici originariamente esclusi dalla vita politica aristocratica. Con l’assolutizzazione della sfera politica a opera dello Stato razionale moderno, “la sfera religiosa ricadde nello spazio del privato, mentre la sfera della vita e delle sue necessità, che nell’antichità come nel Medioevo era stata considerata la sfera privata par excellence, acquistò una nuova dignità e si affermò sulla scena pubblica come società”.588 L’universalismo razionalistico si coniugò con il singolarismo spiritualistico cristiano, dando vita a una ideologia politica egalitaria che dominò dapprima la teoria e poi la scena pubblica europea del sec. XIX. Tornò la distinzione classica tra vita civile privata e vita politica pubblica, ma nel contesto di una teoria legalitaria che faceva del Potere statuale l’unico referente normativo, superiorem non reconoscentem. La conquista 585
Ivi, pag. 50. Ibidem. 587 Ivi, pag. 51. 588 Ibidem. 586
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cristiana della dignità della persona veniva riconosciuta nei soli termini dell’identità spirituale singolare, non afferente allo spazio pubblico, monopolizzato dalla ragion di Stato. modernamente, la libertà non veniva più intesa nella’gire comunicativo del singolo emancipato, ma nel riconoscimento ope legis dello Stato sovrano, per cui libertà e politica rimangono decisamente separate l’una dall’altra, e l’essere liberi nel senso di un’attività positiva, che si dispiega liberamente, è localizzato in un ambito in cui sono in gioco cose che per la loro natura non possono affatto essere comuni a tutti: la vita e la proprietà, ovvero quanto di più proprio vi sia [che era ab antiquo la sfera dell’idion, soggetta alla necessità anziché alla libertà. Lo scopo del’organizzazione politica della società divenne quello di garantire il benessere materiale dei cittadini, sicché] lo Stato è una funzione della società oppure un male necessario alla libertà sociale. [Questo concetto] si è imposto nella pratica come nella teoria, su quelle idee di una sovranità del popolo o della nazione, del tutto diverse e ispirate dall’antichità, che emergono ciclicamente in tutte le rivoluzioni dell’età moderna.589
La caratteristica di simili posizioni ideologiche, fondate sull’ideale identità di libertà e partecipazione, è quella per cui “non sono riuscite, almeno fino a oggi, a tradursi in una forma di governo”.590 Questa impossibilità non è empirica ma dovuta al presupposto ideologico moderno della sovranità popolare, intesa non più come nel medioevo nel senso della comunità religiosa, ma in senso politico, la cui funzione dirigente è rimessa agli stessi organi di controllo preposti alla sua salvaguardia, in modo tale che la titolarità della sovranità venga scissa dal suo concreto esercizio oligarchico, contraddicendo di fatto il suo presupposto identitario di diritto. La realtà comunitaria moderna è perciò in realtà un ente politico, scissa in due sfere, quella dello Stato (sfera del Potere) e quella della società (sfera economica), la prima dominata dalla forza, l’altra dalla libertà. L’unità ideale della polis era trovata nella razionalità dei suoi statuti giuridici, non più tradizionali ma filosoficopolitici. L’unità dello Stato moderno viene indicata nella titolarità della sovranità nazionale, di cui il depositario è di volta in volta il Re e il 589 590
Ivi, pag. 52. Ivi, pag. 53.
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Popolo, intesi entrambi come corpi giuridici, come enti razionali, anziché come soggetti esistenziali. Codesta fictio iuris apre uno spazio tra il modello formale di Stato politico unitario e la variegata e molteplice realtà dei contesti nazionali, entro il quale si sviluppa tutta la conflittualità – politica, sociale, economica e culturale - che caratterizza la storia dell’Europa moderna. E proprio a derimere il conflitto sociale è chiamato lo Stato, legittimato dal mandato politico dei titolari della sovranità, gli stessi che fruiscono del Potere per poter sussistere come gruppo sociale pacificamente organizzato. La dialettica moderna tra società e Stato, poiché è stabilita sulla scissione dello stesso principio unitario della sovranità popolare, alterna il predominio del Potere sulla libertà civile, al predominio delle pulsioni anarchiche della società sull’ordine pubblico stabilito dalle istituzioni e fondato sull’unità politica statuale. In questo senso, la rivoluzione, ovvero la rivolta sociale contro il Potere costituito, è immanente alla stessa concezione della convivenza socio-politica moderna, e insita nell’istanza libertaria quanto quella d’ordine politico necessaria a prevenirla e a sedarla. La strutturale instabilità degli Stati moderni deriva appunto dal contrasto insanabile tra istanze egualmente legittime, perché provenienti dalla stessa fonte originaria, costretta a scindere la propria unità ideale in elementi reciprocamente opposti, indispensabili a garantire, con la propria identità, anche il movimento storico, la vita del suo processo reale, la sua “fenomenologia”. Non è certo un caso che Hegel sarà il terminus a quo della teoria dialettica marxistica della storia e della politica. L’idea che l’unità dell’idea razionale includa anche il divenire reale, e quindi il movimento storico, come processo dialettico, discende dalla trama fenomenologica del Geist hegeliano, il cui immanentismo è una riedizione logicamente corretta del fisicalismo antico e aristotelico. L’aporia teorica di ogni filosofia politica fondata su quella premessa fisicalista dell’unità ideale, e ogni consequenziale disfunzione pratica, deriva dunque dalla pretesa di rendere immanente la fonte della sovranità alla stessa comunità sociale politicamente determinata, superando i limiti della originaria nozione aristocratica della politeia attraverso l’estensione universale del suo esercizio socializzato, ovvero l’assunzione universale del suo principio libertario, non più perciò elettivo e volontario, garantito dalla proprietà,
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ma reso comune e fruibile a tutti grazie alla proprietà socializzata, che rendendo libero lo Stato detentore, liberava logicamente tutti i cittadini che erano i mandanti della sua sovranità ideale. Se la concezione cristiana era riuscita a preservare l’unità spirituale del popolo di Dio nella diversità e pluralità delle componenti sociali e individuali del corpus mysticum grazie la considerazione della natura trascendente di quella unità, il cui riflesso storico virtuoso era di tipo istituzionale e giuridico, la concezione storicistico-razionalistica è costretta a rinvenirlo, quel riflesso, nella sfera sociologico-economica. Nella prospettiva spiritualistica l’unità trascendente era Cristo mentre la forma immanente era costituita dalla Chiesa, quale governo morale del corpo sociale, e dall’Impero quale forma del Potere secolare. La polarità istituzionale dei due poteri, sacrale e secolare, stabiliva il paradigma di quella che sarà la dialettica moderna tra Stato e società civile. Indicando nella potestà divina trascendente la fonte della legittimazione politica, ogni concreta costruzione istituzionale delle forme sociopolitiche di convivenza umana trovava con la sua ispirazione anche la sua finalità in un principio originario e pre-statuale non disponibile dal Potere e non alterabile dalla umana finitezza. Ma una volta rimosso tale principio trascendente dalla sfera pubblica monopolizzata dalla visione razionalistica della politica, l’agire politico venne a perdere la sua destinazione teleologica, scandendo a prassi di potere funzionale a scopi meramente eudemonistici, sia pure nominalmente libertari. D’altro canto, il consorzio civile, avendo come riferimento normativo ed etico la realtà dello Stato, coltivò la sua preservazione in collaborazione col Potere, ovvero nella resistenza alle sue pretese razionali ma illiberali e antieconomiche. E pertanto la pretesa razionalizzazione della società da parte del Potere dello Stato idealizzato, volendo sistemare, cioè portare a sistema, il movimento caotico delle libere e spontanee iniziative socioeconomiche, al fine di liberarle dalla necessità del loro movente irrazionale, e quindi dalla dipendenza dai bisogni della vita fisica (), produceva l’aumento del controllo politico statuale, che a sua volta alimentava spinte resistenziali di tipo liberale o palesemente eversive dell’ordine costituito. A una ragione interprete della volontà divina, custode del suo significato teoretico e della sua destinazione etica, la modernità ha sostituito una
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ragione essa stessa divinizzata, che sposta la mediazione tra Verità e fede dalla coscienza interiore del singolo al luogo della interpretazione condivisa, quello appunto politico che realizzava per la Arendt la libertà del cittadino partecipe del bìos politikòs, secondo una modalità doxastica già criticata da Platone e in voga presso la Sofistica, della quale ultima la dialettica ideologico-politica è una ripresa moderna in versione democratico-parlamentare. Ma è proprio l’istanza d’ordine del Potere razionalizzato a suscitare il suo sviluppo abnorme a scapito della vita spontanea della società civile, sotto forma di Governo totalitario, espressione politica della sua legittimazione razionale. La condizione di libertà dell’agire politico dei singoli pochi cittadini, sostenuto dallo sgravio del peso della dipendenza economica, non poteva che essere relativa alla necessità dei molti. Questi, diventati a loro volta “liberi” per statuizione politica, ma non per condizione individuale, dipendevano da quel Potere che così li aveva resi, e pertanto erano stati politicamente liberati solo per diventare soggetti alla politica. Tale conversione dell’astratto al suo opposto concreto, è tipico della razionalità che si dispiega dal suo stesso principio, il cui essere, essendo originato da niente che sia prima di lui, è esso stesso un niente verso cui tende la sua “pura risolutezza senza uno scopo preciso”, poiché il fine di ogni essere è già inscritto nel suo principio. Così, al posto della storia spirituale, ossia della creazione originata dallo Spirito divino, si ha la fenomenologia del nichilismo, quale “pura risolutezza di fronte al nulla”.591 Il tentativo dell’universalismo razionalistico di pervenire al Tutto, con Platone attraverso l’eliminazione del Negativo, e con Hegel attraverso il suo governo, è una causa persa, in quanto, nel primo caso, si risolve nell’abdicazione del filosofare all’agire politico, e nell’altro caso alla coincidenza dell’assolutezza del pensiero rispetto al divenire del mondo, col suo stesso movimento come storia del mondo. Ma come il concetto (logos) non può contenere il pensiero (nous), né l’uomo può sostituirsi alla Provvidenza divina, così il popolo, quale astratto ente collettivo non può controllare il Potere, che è esercizio reale del dominio oligarchico demandato a organi istituzionali preposti a quella 591
Le espressioni virgolettate sono di Karl Loewith, che le usò a proposito della filosofia di Heidegger in uno scritto del 1939, Der europaische Nichilismus, tr. it., Roma-Bari 1999, pag. 65.]
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funzione. Il controllo politico può intervenire, giusta l’osservazione di Montesquieu, solo attraverso altri organi politici; ma tale controllo è in realtà la regolamentazione di una lotta per l’affermazione del proprio essere a scapito dell’essere dell’altro, ossia il tentativo di imporre un ordine alla necessità del caos, che è tale proprio perché non dominabile. Se in caos è indomabile, la necessità domina la libertà politica, e non il contrario, e quindi, al di là delle buone intenzioni dei filosofi, gli dèi, anche se trasformati in potenze negative, dominano ancora i destini degli umani. L’unico possibile controllo che l’uomo può esercitare sull’altro uomo è quello di carattere esistenziale, esercitato cioè tra soggetti concreti, appartenenti al mondo sociale delle relazioni economiche. Agamennone controllava Achille, come Ulisse e gli altri eroi controllavano Agamennone. L’equilibrio era garantito dal mutuo controllo del consesso paritario, sotto l’egida degli dèi. Perché al controllo carismatico personale subentrasse un controllo formale, cioè istituzionale e impersonale, sia la volontà del Potere che quella del controllore dovevano assumere carattere oggettivo, ossia prevedibile e certo, in altri termini razionale. La Ragione al posto degli dèi capricciosi, comunque prevedeva un controllo esterno e super partes garante della indipendenza di ogni uomo libero. Questa funzione garante della libertà si poteva esercitare nell’unico modo possibile, che è quello di limitarla limitando le pretese di ognuno di prevaricare su ogni altro. Ma l’esigenza di un Leviatano è il riconoscimento della propria impotenza, ossia della impotenza della propria libertà, la quale pertanto non può esercitarsi se non negando la libertà altrui, secondo una dinamica che è propria del rapporto economico-sociale, legato alla vita biologica. Ciò implica che il mantenimento della libertà politica, o si affidava ai rapporti pre-politici, rinunciando a ogni determinazione-decisione di Governo che possa limitarla, e quindi stabilizzandosi entro le opinioni, oppure si affida a una autorità meta-politica, che, nel caso si voglia pervenire a una deliberazione razionale che escluda le opinioni errate facendo prevalere quella giusta, abbia il potere di opporsi a ogni potere individuale e di quello congiunto di tutti. In entrambi i casi, il mantenimento della libertà politica, e dunque dello stesso spazio del politico, si deve a qualcosa che politico non è.
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Il paradosso della libertà politica è che per poter sussistere nella sua condizione di libertà o deve rinunciare a definirsi come Governo, ovvero deve sapervi rinunciare per potersi strutturare in ordinamento statuale. Ne primo caso, l’agire politico non ha fine, è in-finito dialogo e confronto di opinioni, svincolate da alcun principio di autorità, per cui qualunque soluzione momentanea è reversibile e affidata alla forza contingente dell’opinione più condivisa, la quale non perciò cessa di essere una mera opinione. E’ il trionfo della logica economica, caratterizzante i moderi sistemi parlamentari. Nell’altro caso, l’essere politico (cittadino) nega il passato originario (il rapporto servo/padrone), così come la determinazione logico-concettuale nega la sua libertà di parola. Questo carattere negativo fa della decisione politica espressione del Logos esclusivo, cioè un esercizio di volontà di potenza e della sua manifestazione un agire all’insegna della violenza. La violenza si esercita anzitutto come damnatio memoriae: la realtà politica rappresenta soltanto il volto vittorioso del processo dialettico, la sua determinazione razionale che diventa ente di ragione storica. Ciò che pertanto nel famoso discorso di Pericle la politica consegna alla memoria dei posteri non è tutta la verità, cioè la verità del Tutto, ma soltanto la verità dell’essere che ha trionfato sul suo opposto polemico. E proprio la risorgenza del Negativo diventa la minaccia politica più saliente e anzi il fine stesso dell’agere politico come affermazione di sé contro l’altro, che, come ha spiegato Platone nel Sofista, è il diverso. Abbiamo richiamato supra la categoria di “persona”, che fin dall’origine del lessico cristiano connota la Trinità divina, ma anche il soggetto di diritto in quanto portatore di volontà razionale. [Nonostante la riduzione moderna, a partire da Hobbes,] all’ambito terreno [della interpretazione laica,] l’idea di persona non è mai interamente riducibile al sostrato biologico del soggetto che designa, ma trova, invece, il suo più pregnante significato precisamente in una sorta di eccedenza, di carattere spirituale o morale, che ne fa qualcosa di più di esso, senza coincidere del tutto neanche con l’individuo autosufficiente della tradizione liberale. 592 592
R. Esposto, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Torino, 2007, pag. 88.
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Si noti che la “eccedenza” di cui si parla è riferita non solo alla materia corporea dell’uomo ma anche al concetto razionale di persona, sicché l’erosione moderna della dimensione trascendente ha finito per intaccare lo stesso sostrato razionale sul quale erano stati concepiti i “diritti naturali” che ne erano il corollario etico-politico. Sennonché, l’accezione di persona come “titolare di volontà razionale in relazione a se stesso e ai suoi simili”, e quindi di un essere che, per quanto storico e finito, era “padrone del proprio destino all’interno di un quadro di valori condivisi”,593 riconsegnava la singolarità umana per un verso al contesto proprio della socialità e dell’organizzazione statuale razionaliste della convivenza politica, e dall’altro, in virtù di quella dipendenza politica, ne contraddiceva la supposta padronanza di destino, che invece era praticamente rimessa al Potere politico. I politici di professione negli Stati democratici diventavano così i rappresentanti della libertà di tutti e di ognuno. Una libertà politica rappresentata è pari a qualunque volontà demandata ad altri. Anche i padroni agivano per conto dei servi, che garantivano col loro servaggio la libertà dei padroni, anche se non parlavano in nome loro. La cittadinanza concessa alle persone titolari di diritti, ha trasformato in diritto una condizione che in origine – nel senso cristiano – era esistenziale e non legata a un qualche riconoscimento formale. E un diritto, poiché dev’essere concesso o riconosciuto da un qualche potere superiore a chi l’avanzi, può essere revocato o ridimensionato o sospeso, laddove lo status libertatis quale condizione personale non era soggetta a riconoscimento, in quanto originaria e prepolitica. La differenza tra il riconoscimento antico e quello moderno della libera volontà risiede nel carattere negativo del primo e positivo del secondo. Riconoscimento negativo è quello che non può sostituire i contenuti della libertà riconosciuta, ma solo negarli, in quanto la libertà non è stata costituita dalla stesa volontà che li nega. Ad es., Achille può dissentire dalle disposizioni ritenute ingiuste di Agamennone, rifiutando di scendere in battaglia, ma non può misconoscere l’autorità regale sostituendo la propria volontà a quella legittima del capo della spedizione militare.
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Ivi, pag. 89.
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Riconoscimento positivo è invece quello che delibera sui contenuti di libertà altrui, rappresentandoli formalmente. E’ il caso dei mandatari parlamentari, che agiscono in nome dei loro elettori, in un senso spesso non conforme alla loro reale volontà. In politica, il mandato imperativo non ha senso, in quanto la libertà individuale non può pre-determinata e quindi neanche essere delegata collettivamente, sicché la sovranità che non sia meramente presuntiva è tale se viene esercitata concretamente. Che i padroni agissero in libertà anche in nome dei loro servi, non equivaleva alla libertà dei servi. Da qui il carattere esistenziale della libertà degli antichi, necessariamente aristocratica in quanto esercitata da pochi, laddove la libertà formale dei moderni non prevede l’esercizio, ma solo la titolarità. Essere liberi di agire e di essere politicamente attivi[…] rimangono prerogative del governo e dei politici di professione, che si propongono al popolo come suoi rappresentanti attraverso il sistema dei partiti. 594 Il partito diventa modernamente il luogo politico della libertà, all’interno del quale vige un sistema oligarchico autoreferenziale che elabora i contenuti della volontà dei suoi mandanti formali, dei quali esso rappresenta gli interessi. Esattamente tale rappresentanza veniva esclusa dalla antica condizione di libertà politica, la quale era tale perché direttamente esercitata, e dunque esistenziale e non istituzionale. Surrogare la libertà personale con l’interesse collettivo, partito o classe sociale o Stato che sia, è possibile solo deprivando la prima del suo carattere singolare, trasformandola così in istanza razionale, e come tale prevedibile e rappresentabile. Divenuta volontà impersonale e oggettiva, la libertà perde il suo carattere misterioso (singolare e imprevedibile) e divino (in quanto originario e non arbitrariamente assegnato) per diventare condizione giuridica, status formale di cittadinanza, funzionale alla rappresentanza del corpo politico idealizzato come unitario ente assoluto identificato con quello concreto e molteplice e criterio di legittimazione del Potere esercitato su suo mandato volontario. Rispetto al corpo politico antico, quello moderno non discrimina il popolo in senso gerarchico ed esistenziale, ma in senso funzionale, attribuendogli una 594
H. Arendt, WiP, pag. 53.
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sovranità nominale non però esercitabile che da una oligarchia, vanificando per tal guisa l’attribuzione universale della personalità politica, anche in riferimento alla sola dello Stato. Con la distinzione giuridica tra la responsabilità personale di ogni membro del corpo politico, dalla responsabilità etico-politica della sola élite al Potere, che giustifica la condanna della di questa e l’assoluzione del primo, si appalesa l’incongruità della categoria razionalistica della persona, la quale, anche nella prospettiva cristiana del neo-tomista Maritain è “per legge naturale” titolare di diritti, e come tale “ha dei diritti per il fatto stesso che è persona: un tutto signore di sé stesso e dei suoi atti; e che per conseguenza non è soltanto un mezzo, ma un fine, un fine che deve essere trattato come tale”.595 Non si esce dall’equivoco di attribuire alla persona dei diritti “di natura” che si attivano solo a seguito del “riconoscimento” del potere politico, rendendoli di fatto dipendenti non dalla natura ma bensì dal Potere umano. L’equivoco consiste appunto nel chiamare “naturali” delle qualità semplicemente “razionali”, attribuite in virtù di un criterio oggettivo di ragione politica, e non originali e indisponibili perché attribuiti da Dio. Solo infatti concependo la “natura” della persona come “divina” si può uscire dall’angolo aporetico, spostando il focus semantico dall’ambito politico-razionale all’ambito mistico-spirituale. Solo se la persona viene intesa in senso di totalità singolare in virtù dell’unione mistica con Dio delle sue creature storiche, si può emancipare la personalità dall’idea di appartenenza politica, di ente concettualmente oggettivo e razionalmente partecipe della relazione politica. Infatti, ogni determinazione politica della persona ne contraddice la pretesa riconoscibilità universale, in quanto l’universalità politica è esclusiva per definizione; e dunque esclude dal riconoscimento alcuni uomini anch’essi titolari per natura dei diritti umani. La questione della libertà politica verte sulla difficoltà da sempre incontrata di conciliare la determinazione finita dei prodotti umani con i processi collettivi, che non hanno fine. Se l’ordine politico consiste nella prevedibilità degli eventi da controllare, proprio l’agire sociale dell’uomo 595
J. Maritain, Les droits de l’Homme e la loi naturelle (1942) , tr. it. Milano 1991, pag. 60; cit. da R. Esposto, Terza persona, cit., pag. 90.
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è impossibile da controllare, poiché, mentre la sua oggettivazione formale lo inscrive nell’ordine dei fenomeni naturali, i contenuti dell’agere, la praxis, rivela sempre tratti originali imprevedibili, propri della natura spirituale dell’uomo attore. La ragione per cui non siamo in grado di predire con certezza la riuscita e la fine di ogni azione è semplicemente che l’azione non ha fine. […] Chele azioni posseggano una così enorme capacità di durata, superiore a quello di qualsiasi altro prodotto umano, potrebbe essere ragione di orgoglio se gli uomini riuscissero a sopportare il suo fardello, il fardello dell’irreversibilità e dell’imprevedibilità, da cui il processo dell’azione trae la sua vera forza. Che questo sia impossibile gli uomini lo hanno sempre saputo.596
Ciò vuol dire che mentre la spiegazione dei fenomeni collettivi avviene attraverso la loro riduzione a fenomeni naturali, la loro conoscenza è possibile soltanto focalizzando l’attenzione sulle singole manifestazioni dell’umana libertà, ossia sul rapporto che i singoli attori stabiliscono coi processi stessi in cui sono inseriti. E così l’antico rapporto tra spirito e natura viene aggiornato nel nuovo tra libertà, quale “inizio spontaneo di qualcosa di nuovo”, e necessità storica, quale “rete predeterminata di relazioni” in cui naufraga la “libertà nel momento stesso in cui se ne fa uso”.597 L’errore, per la Arendt, è nella “identificazione di sovranità e libertà che è sempre stata data per scontata dal pensiero politico come da quello filosofico”. Se fosse vero che la sovranità e libertà si identificano, allora nessun uomo potrebbe esser libero, perché la sovranità, l’ideale di non compromettere l’autosufficienza e la padronanza di sé, è in contraddizione con la condizione della pluralità. Nessun uomo può essere sovrano perché non un uomo, ma gli uomini abitano la terra – e non, come sostiene la tradizione, a partire da Platone, a causa della forza limitata dell’uomo, che lo fa dipendere dall’aiuto degli altri. Tutti i consigli che la tradizione ha da offrire per superare la condizione di non-sovranità e conseguire un’intangibile integrità della persona umana si riducono a una compensazione per la “debolezza” 596 597
H. Arendt, Vita activa, cit., pag. 172. Ivi, pagg. 172-173.
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intrinseca della pluralità. Tuttavia, se questi suggerimenti fossero seguiti e il tentativo di superare le conseguenze della pluralità fosse coronato dal successo, il risultato non sarebbe tanto il dominio sovrano di se stessi, quanto il dominio arbitrario di tutti gli altri o, come nello stoicismo, lo scambio del mondo reale con uno immaginario in cui gli altri non esistono.598
Mentre il controllo esterno al Potere della libertà politica era in origine, oltre che esterno anche oggettivo, fosse quello divino o del Logos razionale, e non manipolabile, il controllo divenuto interno al corpo elettorale sovrano, in quanto non esercitabile direttamente da ogni cittadino sovrano se non in senso rivoluzionario e anti-sistemico, è neutralizzato in conseguenza della sua stessa inefficacia, e tale che in pratica non sia funzionale a correggere la volontà arbitraria della oligarchia al potere. Dalla premessa della sua inefficacia politica, il controllo interno può sviluppare una sua funzionalità correttiva contro “l’irreversibilità e l’imprevedibilità del processo avviato dall’azione” di libertà del singolo, ossia delle sue conseguenze future, grazie alla rilevanza della “facoltà di perdonare” il passato, mentre “rimedio all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e mantenere delle promesse”. Se il perdono libera dalla “spada di Damocle dei gesti del passato”, la promessa “serve a gettare nell’oceano dell’incertezza, quale è il futuro per definizione, isole di sicurezza senza le quali nemmeno la continuità, per non parlare di una durata di qualsiasi genere, sarebbe possibile nelle relazioni tra uomini”.599 Il lato oscuro di questa teoria arendtiana è l’assunzione della pluralità come un dato oggettivo indipendente dai suoi protagonisti individuali, tale appunto da stabilire un qualche rapporto con i singoli. “Entrambe le facoltà – ella sostiene a un di presso – dipendono dalla pluralità, dalla presenza e dall’agire degli altri, dato che nessuno può perdonare se stesso e sentirsi legato da una promessa fatta solo a se stesso”. 600 La Arendt non si avvede che se è possibile stabilire l’identità del singolo, l’identità collettiva non è rapportabile che a una dimensione istituzionale, senza la 598
Ivi, pag. 173. Ivi, pag. 175. 600 Ibidem. 599
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quale essa rappresenta il caos, il dinamismo indeterminato, e che la funzione della politica è proprio quella di arginare il caos, stabilendo il suo potere di katechon. L’istituzione socialitaria media il rapporto tra il singolo e la collettività non necessariamente a un livello di forza fisica, ossia di potere, ma stabilendo un ordine valoriale parallelo a quello legale, e originario, all’interno del quale l’uomo si senta libero. Questo è stato storicamente la funzione delle religioni. Riconoscerne il fine ordinamentale pre- ed extra-politico significa per il Potere auto-limitarsi, ammettendo il pluralismo dei referenti normativi, e quindi la validità di una istanza d’ordine che sia pubblica ma non-politica, che Platone chiamava “governo morale”, e che coincideva con l’ o “cura di sé”. La considerazione di questa realtà e della sua necessità per i rapporti sociali, sfugge a chi assuma la sola volontà come l’elemento decisivo dei rapporti umani, trascurando l’intima intenzione, che invece costituisce lo spazio interno di libertà più autentico, che nessuna istanza pubblica può rappresentare e dunque istituzionalizzare. Senza il governo di sé, nessun impegno potrà essere mantenuto, e la stessa minaccia penale diventa fine a se stessa, e in ogni caso non sanante la frattura esistenziale che provoca la rottura del patto fiduciario. La doverosità pattizia, che stabilisce che i pacta sunt servanda, è elemento giuridico tra astratte forme istituzionali, cioè tra enti a loro volta giuridici, ma non lo è tra personae umane concrete, le quali non stabiliscono accordi impersonali ma legami esistenziali. Le transazioni economiche infatti non sono valide in quanto stabilite ope legis ma in quanto tributarie di un valore significativo extragiuridico, la cui oggettivazione in termini monetarii rappresenta simbolicamente al pari e nei stessi limiti della rappresentanza politica della volontà del mandante. In questo senso, la “pluralità” di cui parla la Arendt non è un dato originario, esistenziale, dell’uomo, ma una rappresentazione ideale sub specie politicae, astratta dal dinamismo concreto delle singolarità in rapporto di esistenza. E proprio perciò essa ha memoria ma non ha storia, ossia è sempre il prodotto di ciò che era ma non ha discernimento di ciò che potrebbe essere: essa è inconsapevole, come la folla che sceglie Barabba e plaude al supplizio di Gesù. La astratta pluralità in quanto forma ideale, deve essere interpretata come soggetto collettivo, e come tale trattata dalla politica, che crede di poterla indirizzare come se fosse una realtà concreta. Ma la sua realtà è solo nel
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concetto, e solo entro la razionalità formale essa è prevedibile come oggetto dell’azione politica. L’azione personale invece è sempre attuale, vive cioè la sua fatticità come un evento intemporale, in cui lo svolgimento custodisce in sé il suo senso significativo, che perciò è simbolico e non logico, e come tale interpretato razionalmente. L’attualità dell’incontro umano è stabilito dal dialogo, che manifesta la realtà di due misteri che si riconoscono nella parola, in tal senso creatrice di realtà, e perciò libera. La libertà della parola dialogante è la realtà stessa della comunicazione verbale, il topos della libertà. Spostare l’accento dalla socialità esistenziale alla dimensione della modalità politica della convivenza, significa stabile un rapporto determinativo di tipo razionale entro un modus vivendi comunitario stabilito su rapporti suppostamente di tipo naturalistico,e comunque tali da poter essere assunti come contenuti trasvalutati di forme razionali. In altri termini, rimuovendo dalla socialità comunitaria il senso della sua destinazione finale originale, la razionalità politica ha potuto assumerla come strumentale ad altri fini, appunto razionali. La stessa reattività delle pulsioni umane, declinata in termini di aggressività istintuale di tipo ferino, privata della imponderabilità propria delle scaturigini emotive del comportamento umano, diventa materia della composizione politica, ossia oggetto della sua regolamentazione istituzionale. L’agire politico acquista in tal modo – cioè attraverso il controllo delle pulsioni spontanee - un valore di ordine e di pacificazione che si configura come il processo di sublimazione della stessa civiltà, intesa come emancipazione dalla necessità della vita naturale. Nell’ordine necessario del vincolo naturale è compresa la vendetta, quale risarcimento dell’ingiusto danno causato dall’uomo a un altro uomo. La liberazione (Losloesung) da tale vincolo vendicativo è costituita dal perdono, che rappresenta l’alternativa alla pena giusta, in quanto sposta nella dimensione del futuro la compensazione del disagio provocato nel passato, laddove la pena risarcisce soltanto al presente, ma lascia aperto l’adito all’incognito futuro. Il perdono, invece, ipoteca il futuro, liberandolo dal passato, cioè dalla necessità che vincola il presente. E lo ipoteca nel senso di consentire al colpevole di riappropriarsi del tempo della libertà, cioè appunto del futuro. Consentendogli di dispiegarlo fuori del legame passato. Il perdono è una rinascita che non espia il misfatto,
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come la pena, ma lo rimette alla libertà del suo autore, innescando un processo di responsabilità che absolve il colpevole, lo libera cioè dal legame necessario col passato. L’assoluzione è la forma tutta umana di emanciparsi dalla necessità del vincolo naturale. E in questo senso l’Incarnazione divina nel Cristo ha stabilito una assoluzione del genere umano dalla sua vincolante naturalità, liberandola dal male di vivere nella necessità. In questa condizione necessaria va incluso anche il rapporto politico, che sussiste grazie alla relazione sociale. L’ipotesi per cui l’uomo sia se stesso solo nella sua dimensione socio-politica, è la proiezione antropologica di una modalità di convivenza umana astratta dalla sua processualità problematica, ossia dal dinamismo della sua condizione strutturalmente polemica contro la quale si afferma il principio d’ordine politico risolutivo del caos dei rapporti naturali originari. Partire dalla condizione politica, equivale a stabilire la realtà del mondo a partire dall’Essere, che è il prodotto maieutico del travaglio del Logos, il concetto. Non si parte dalla socialità pre-politica dei rapporti economici, così come non si definisce la realtà ontologica che a partire dall’ente, cioè dal prodotto eventuale della scaturigine ex nihilo. Il pre-politico viene rimosso alla stregua del pre-razionale, entrambi considerati ni-ente rispetto alla esclusiva fatticità ontica. Questa rimozione del passato rappresenta il modello dialetticamente stilizzato della modalità propria del pensiero razionale, che afferma (il presente fenomenico) negando (il passato invisibile). Anche il perdono assolve dal peso del passato, ma – e qui sta la differenza irriducibile rispetto all’agire politico – non già per sostituire all’inconscio magmatico della immaginazione la necessità della determinazione razionale, perseguita sistematicamente, col metodo dialettico, bensì per trascendere ogni forma di pluralismo delle relazioni necessarie, disponendo la coscienza umana all’ascolto della Parola di Dio, che è priva di ogni necessità, essendo stabilita solo per fede, e quindi disponibile per intenzione libera, e non per volontà indotta. Il perdono non vincola chi lo ha offerto, rendendolo libero dalla necessità della vendetta, ma solo chi lo riceve, liberandolo dal peso del peccato, e quindi dall’onere della pena. Ciò vuol dire che il perdono stabilisce una relazione in cui i suoi termini pervengono entrambi alla condizione di
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libertà, diversamente dal rapporto politico in cui solo uno dei due termini in lotta per l’affermazione sarà libero, il vittorioso. Ciò che si rivela nel rapporto caritatevole non è l’attore preminente, non è cioè la positiva soggettività, esclusiva della polarità negativa; ma è la libertà stessa come trascendimento della finitezza naturale e del tempo diacronico proprio della processualità storico-mondana. Tale è l’amore in senso platonicocristiano. L’amore come l’intende la Arendt, invece, giudicandolo “estraneo al mondo”, e perciò “forse la più potente di tutte le forze umane antipolitiche”, viene a sua volta trascritta in termini dialettici al mondo politico, al fine della sua leggibilità razionale come “storia d’amore”, ossia una sequenza di eventi mondani che, come realtà del mondo, siano inseriti nella dinamica dell’esperienza comune attraverso l’evento mediatore della produzione della sua sintesi storica: il prodotto filiale. La condizione che il prodotto storico rientri nelle considerazioni mondane è la sua sussumibilità in un principio razionale, cioè in una categoria appunto politica, che la Arendt individua nella “rispetto”, indicante la aristotelica, “una specie di ‘amicizia’ senza intimità e senza vicinanza”. 601 E’ chiaro che la distanza dal mondo viene intesa dalla Arendt nel senso della appartenenza della “passione” a una dimensione pre-mondana che è sub-razionale, e non ultra-mondano e meta-razionale come invece l’intende il cristianesimo, che, col significativo precedente platonico, lo attesta come l’ambito di conoscibilità della verità della persona intesa come esistenza totale, volta alla realizzazione dell’Altro. Come scrive Sorokin, sul piano sociale l’amore è una significativa interazione, o relazione, fra due o più persone, nella quale le aspirazioni e gli scopi di una persona sono condivisi ed assecondati nella loro realizzazione da altre persone. Una persona che ama non solo non ostacola la realizzazione delle aspirazioni della persona amata ma addirittura la asseconda. Fintanto che egli è d’aiuto non provoca dolore o dispiacere alla persona amata, al contrario fa aumentare la sua felicità. È la gioia di dare e la gioia di ricevere; è completare se stessi negli altri e per mezzo degli altri.602 601
H. Arendt, Vita activa, cit., pag. 179.
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La relazione d’amore non è opposta alla relazione politica, ma è diversa. La sua diversità non è modale ma sostanziale, nel senso che non inerisce determinati aspetti della personalità umana, ma la sua intierezza, di fronte alla quale ogni altra relazione perde di significato proprio. Il proprio della relazione in questione è la persona stessa, inclusiva di ogni aspetto della sua esteriorità fenomenica e mondana e della sua vita interiore. Nessuna relazione coinvolge imprescindibilmente l’intenzione (intentio) come quella d’amore, la quale si stabilisce sul piano della verità, che è quella della conoscenza integrale dell’uomo. Se la relazione politica si stabilisce per escludere, altrimenti permane sul piano della opinione, la relazione agapica in senso paolino si stabilisce per includere, e perciò religiosa: “è benevolo, non invidia, non si vanta [né] cerca il proprio interesse, non manca di rispetto, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità, tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13, 4-7). La differenza è radicale, in quanto la relazione inclusiva, essendo volontaria e veritiera, è l’unica che stabilisce la pace senza un ordinamento costrittivo, ma per libera adesione delle parti. Ciò che la rende diversa anche dall’amicizia, è la sua disposizione impolitica, tale cioè che la sua costituzione non è contraria all’inimicizia, in virtù della quale si definisce, ma ne esclude la possibilità dal suo orizzonte esistenziale. È una relazione assoluta, non dialettica, perché coinvolge tutta la persona. Quanto alla presunta “irrealtà” del perdono dall’ambito della sfera pubblica, deve la sua “inammissibilità” 603 al monopolio politico di quella sfera, ossia alla prevalenza della logica della forza su quella dell’amore, che viene a seguito di quella dominanza confinato alla sfera privata. In merito alla facoltà di promettere, la Arendt le attribuisce la funzione di supplire alla “fluidità dell’uomo che non può garantire oggi chi sarà domani e [alla] impossibilità di predire le conseguenze di un atto in una comunità di eguali dove tutti hanno la stessa facoltà di agire”, ossia come correttivo alla libertà.604 602
P.A. Sorokin, The Ways and Power of Love. Types, Factors, and Techniques of Moral Transformation.(1954), tr. it., Roma 2005, pag. 55. 603 H. Arendt, Vita activa, cit., pag. 179. 604 Ivi, pag. 180.
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Il richiamo al potenziale belluino hobbesiano è evidente, come pure il travisamento in chiave politicistica del senso autentico del patto nel contesto dell’esistenza umana. La promessa, infatti, diversamente dall’accordo giuridico, che è un patto di volontà garantito dal Potere, è un vincolo morale legato tra intenzioni concordi e affidato alla custodia della memoria quale criterio di perseveranza che orienta nella dispersione delle occasioni. Ciò che si promette è la continuità nel tempo futuro del tempo presente, inteso come tempo della pienezza, e quindi come tempo escatologico. E qui si introduce l’altro riferimento accennato, quello teologico della prima Lettera di Paolo ai Corinzi. Solo dopo aver mondato il cuore di ciò che è di più naturalmente legato alla passione della volontà di potenza, l’affermazione di sé, sarà possibile pervenire a una relazione che stabilisca un vincolo morale garantito solo dalla fede, e dunque a imitazione dell’alleanza che l’uomo stabilisce con Dio non a seguito di un bisogno ma soltanto per agàpe, che è “la libertà di esserci gratis l’uno per l’altro: la libertà originariamente propria di Dio di esserci per l’uomo, e insieme la libertà o capacità donata dell’uomo di esserci per Dio”.605 La promessa tra uomini stabilita sul principio e fondamento dell’amore, oggetto della conoscenza teologica, per poter fondare una conoscenza, deve poter costituire una realtà, che è quella del concetto. Da questa constatazione di base prende l’abbrivio il discorso della conoscenza razionale di Dio. Se però noi partiamo dall’assunto evangelico che l’amore (agàpe) è “in Gesù Cristo” (Rm 8,39), per cui l’amore è dove è Lui, e che Gesù si manifesta nel tempo come storia spirituale, cioè vicenda esistenziale, l’amore non può essere u concetto, né tantomeno un oggetto, ma per l’appunto una situazione esistenziale, che non può essere logicamente rappresentata ma soltanto vissuta. E proprio per la sua originarietà e irrapresentabilità razionale, la relazione agapica può essere evocata soltanto come memoria. E quella che Nietzsche chiama nell’ambito della potenza sovrana dell’uomo “memoria della volontà”, per indicare la facoltà solo umana di promettere, è nell’ambito della verità dell’amore la memoria della fede. 605
K. Barth, Einfuehrung in die evangelische Theologie (1961-62), tr. it., Cinisello Balsamo 1990, pag. 233. Sulla “nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni”, ved. A. Nygren, Eros und Agape (1930), tr. it., Bologna, 1955.
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La memoria della volontà, socializzata in criterio di comportamento comune, diventa moralità, unità dei mores. La stessa relazione morale ma intesa come proiezione sociale della relazione agapica, costituita per analogia del modello originario, quello esistenziale di Gesù, diventa esperienza di verità. Se i precetti morali scaturiscono direttamente dalla “volontà di vivere assieme con gli altri nelle modalità dell’azione e del discorso”, ossia nella dimensione etica, senza la quale “non potremmo controllare i processi che abbiamo provocato e saremmo vittime di una necessità automatica”,606 la relazione d’amore supera quello che Solov’ev chiama il “chiasmo insormontabile fra il proprio ego e gli altri”, tipico della relazione polemica, affermando al contrario di questa, “con un sentimento soggettivo l’importanza incondizionata dell’individualità umana in un altro come un sé”, e trovando “anche nella realtà giustificazione di tale importanza incondizionata”. Infatti, l’amore, quale “ giustificazione e riconoscimento dell’individualità attraverso la rinuncia all’egoismo, ci libera dall’ineluttabilità della morte e colma le nostre esistenze di un contenuto assoluto”, andando oltre la “mera esistenza” per una “individualità eterna”.607 L’amore, cioè, libera i rapporti umani dalla necessità dei rapporti politici, informati appunto sulla paura belluina della morte, compresa quella per mano di altri uomini, e quindi ci emancipa dal fondamento polemico che i Greci ponevano a criterio della Storia, sostituendolo col fondamento dell’agàpe. Questo il vero autentico cambio di paradigma antropologico avanzato dal Cristianesimo rispetto alla sapienza antica, e il conseguente superamento della coscienza polemica incentrata sull’azione, intesa come la “facoltà di interrompere il corso della vita umana diretto verso la morte e di iniziare qualcosa di nuovo”. L’amore cristiano non è infatti mera azione, intenta a interrompere la “legge implacabile della mortalità di una vita spesa tra la nascita e la morte”, lasciando che essa continui a regnare come polo dialettico del mondo politicamente strutturato in ossequio all’intenzione dell’intelletto (Meinen), che legittima la volontà (wille) di tenere divise le cose che non possono essere divise, dal momento che ciascuno dei due opposti 606
H. Arendt, Vita activa, cit., pag. 181. V.S. Solov’evIvi, Il significato dell’amore, cit. da P.A. Sorokin, Il potere dell’amore, tr. it. cit., pag. 51. 607
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dialettici non possa sussistere senza il presupposto dell’altro, e dunque la pace senza il presupposto della guerra e l’amico senza il presupposto del nemico, che Schmitt indica non a caso come “fratelli”. 608 Superare la logica astratta che costituisce il senso delle relazioni umane attraverso una convenzionale “pace perpetua”, significa condannarsi a una eticità vaticinante, che conserva la ragione come “suprema potenza morale legislatrice”, la quale, all’atto di giustificare la propria essenza polemica, si prodiga a “condannare la guerra come procedimento giuridico”, limitandosi a “elevare a dovere immediato lo stato di pace”. 609 Non si esce dall’aporia razionalistica di una Ragione che si profonde nel mondo come volontà di affermazione del Sé per poi essere invocata come redentrice irenica, ossia di dover pensare l’Essere per negarlo, stabilendo nel pensiero (Logos) la casa dell’ente, altrimenti destinato al caos primordiale in cui ogni cosa rimane indistinta nel suo non-essere reale, e al caos pre-politico della guerra di tutti contro tutti. La prospettiva cristiana si apre su un altro scenario cosmico, dove la vita spirituale include il male nel bene senza negarlo ma perdonandolo,cioè assegnandolo all’esperienza dell’amore, a quel Tutto personale che resta un miraggio pratico dell’agire politico etico, cioè conforme a morale. Lo jus cristiano non è ordinamento imperativo che sospende la pace, ma Parola d’amore che esalta la libertà della verità interiore, la intentio, che, a differenza della Meinen razionalistica non si adopera per dividere l’Essere dalla sua fonte originaria, considerata come il Nulla, ma per congiungerlo alla sua matrice trascendente, la cui alterità non è Niente ma Tutto, ovvero Dio. L’essenza umana (Gattungwesen) è storica, ma la storicità dell’uomo come essere sociale è la storicità delle sue istituzioni storiche, ossia delle forme della sua socialità. L’essenza invece propriamente dell’uomo come realtà storicamente singolare e in sé totale, dell’uomo come persona, è spirituale. Se l’uomo può perdere il suo orizzonte storico mancando alla conoscenza del mondo e disorientandosi culturalmente, non può perdere la coscienza di sé come coscienza del mondo. può essere possibile 608
H. Arendt, Vita activa, cit., pag. 182. Sono i famosi passi kantiani di Zum ewigen Frieden, B 34. Cfr. H. Arendt, Lctures on Kart’s Political Philosophy, tr. it. cit., pag. 82. 609
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dunque che cambi il suo orizzonte di coscienza, ma non che venga meno la sua coscienza del mondo. In questi frangenti, il Cogito si smarrisce nel suo oggetto inesplicato e ripiega nel sé vuoto della coscienza del Niente. In tale stato di smarrimento, in cui l’angoscia si mischia con il mistero e la meraviglia, e la realtà non ha più cifre mondane, in questa perdizione metafisica l’uomo avendo solo se stesso si avvede che la vita demondanizzata non gli appartiene, che non può disporne, ed egli allora si sente libero di destinarsi a un fine, di disporsi verso uno scopo che non è più significativo per il mondo ma solo per la sua libertà. La cura di sé non può che essere questo lavacro, come pure la metanoia della conversione nella fede cristiana. Ed è questo il senso evangelico del “perdere il mondo” per trovare Dio. la libertà come perdita del mondo non è la risorsa stoica ricordata dalla Arendt, o la rinuncia cinica; è qualcosa di più profondo e radicale e decisivo: è il momento della preghiera, che è un noein alternativo al legein, è un Theo-rein. La contemplazione orante di ciò che trascende l’esperienza storica è la modalità meta-fisica di disporsi nello smarrimento della storicità, alternativo alla riduzione a essere di natura disposto al bellum che verrà sedato dalla pacificazione politica. La preghiera non è la ricerca del noi a compensazione della finitezza dell’io, ma è l’annuncio della disponibilità della coscienza de-mondanizzata a porsi all’ascolto di Dio. E’ l’annuncio del riconoscimento del limite della volontà umana, ossia l’emersione alla coscienza morale, con la quale l’uomo riconosce la sovranità di Dio, il Suo governo. La coscienza morale che è riconoscimento del Governo divino del mondo, si determina come rinuncia all’azione, “foss’anche la migliore e la meglio riuscita”, ossia all’agire politico dell’affermazione della propria volontà di potenza, ricco della consapevolezza che “è Dio colui che regna” sul mondo, e dunque sulla stessa opera umana. In che modo? Il Governo di Dio consiste nel dare un principio all’opera umana assegnandole un fine, “perché essa non resti o diventi un’opera sterile, perché all’uomo sia dato compierla nella chiarezza, cioè sotto la sovranità e la benedizione di Dio”.610 Essendo l’opera dell’uomo essenzialmente una produzione simbolica del mondo, cioè una rappresentazione razionale della realtà, riconoscere la 610
K. Barth, Einfuehrung, tr. it. cit., pag. 198.
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sovranità di Dio significa assegnare al discorso sul mondo il fondamento della verità di Dio, e pertanto all’Essere ontologico il senso della sua origine e della sua destinazione trascendente. E codesto assegnamento dell’arché e del télos all’agire umano consiste nel riconoscimento del limite morale alla potenza del Logos e conseguentemente a quella del Potere. La natura morale del Limite al Potere esautora ogni contro-potere in funzione di contrappeso politico, stabilendo una gerarchia tra le fonti normative che assegna alla direzione dell’agire il suo criterio di validità. Se infatti è vero, come sostiene Scheler, che “l’istinto di potere è la spinta motrice di ogni politica”, lo è nel senso che “esso risulta indifferente ai valori spirituali”. Nondimeno, “il potere positivo – al contrario dell’impotenza – ha un valore strumentale in vista dei valori spirituali, poiché esso è la sola forza in grado di realizzare anche questi”. Ciò presuppone che “il potere sia in sé ‘buono’ [e che] tuttavia sul piano morale-spirituale esso sia buono soltanto in virtù dei valori che tende a realizzare”.611 E lo è in quanto, essendo “il potere l’impulso motore della politica, il fine del volere non può risiedere nel potere”, altrimenti non potrebbe “essere oggettivato come fine”, 612 e dunque non potrebbe costituire un principio formale razionale. Sulla premessa che “Chi ha esercitato, nella sfera ideale della formazione delle idee e delle fedi umane, il più grande influsso sull’umanità (Gesù lo ha fatto in forma estrema), non ne ha avuto alcuno sulla struttura dei rapporti politici reali”, anche Scheler, come la Arendt, 613 ritiene che “soltanto innestandosi su interessi e istituzioni reali l’idea religiosa e la personalità religiosa possono esercitare un influsso sull’umanità; ma con tale innesto e amalgama esse non possono conservarsi ‘pure’ ”. 614 Ma la giustezza di questa considerazione è legata inscindibilmente all’idea greca della coincidenza dell’Essere con la sua conoscenza razionale, ossia sulla essenza razionale dell’Essere, di cui la conoscenza sarebbe lo svelamento. Questa premessa fa della politica la forza destinata a un fine 611
M. Scheler, Politik und Moral (1926-1928), tr. it., di L. Allodi, Brescia 2011, pagg. 114-115. 612 Ivi, pag. 116. 613 H. Arendt, WiP, pag. 43. 614 Ivi, pagg. 117-118.
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“oggettivo”, cioè razionale, e dunque del fine intrinseco alla politica la sua stessa essenza, appunto razionale. Ma assegnare alla forza un fine, che è quello politico per eccellenza, di razionalizzare la convivenza, equivale a stabilire quel fine come necessario e non contingente, e dunque assegnare alla politica una sostanziale omogeneità assiologica.. Ma se così fosse, ogni potere politico si legittimerebbe attraverso la possibilità di affermare la propria forza, facendo dell’affermazione il suo fine: la guerra perpetua. Scheler infatti definendo la politica “aspirazione al potere” e assegnandole “lo scopo di realizzare valori positivi”, le indica anche i suoi “limiti”, che sono quelli “dell’ordinamento dei valori che predomina in una collettività”. Ma qual è il senso logico di tale dominanza? E’ lo stesso Scheler a suggerircelo definendo la morale come un “sistema prescrittivo”, consistente in una “tecnica per far sì che la gerarchia di valori che anima l’ethos collettivo divenga attiva nella vita privata, tra i singoli individui”.615 Il sistema e la tecnica della morale vengono a coincidere in un'unica funzione, quella di prescrivere ed affermare i valori politicamente dominanti, che sono cioè quelli politici. Se infatti i valori fossero “dominanti” indipendentemente dalla forza, entrerebbero in collisione con la politica, la quale invece li afferma come valori comuni solo in quanto li riconosce come propri. Proprio tale collegamento funzionale dei valori morali con la forza politica è quanto Gesù ha denunciato come indebita legalizzazione farisaica della volontà di Dio, il cui valore si poneva su un altro piano di realtà. L’indebito consisteva nel fare della religione uno strumento politico, unitivo verso l’interno e divisivo verso l’esterno. Ciò impediva quell’universalismo personale che è proprio del messaggio cristiano. Come ha ricordato Assmann, la religione è stata “una delle più antiche e importanti tecniche culturali di traduzione, intesa come creazione di trasparenza e comprensione reciproca” fra gli uomini e le loro diverse espressioni culturali.616 Il valore e l’originalità del messaggio cristiano consistono nel cercare una rappresentazione dell’esperienza umana che superi il principio divisivo proprio del razionalismo politico, su un piano 615
Ivi, pag. 119. J. Assman, Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, Bologna, 2007, pag. 8. 616
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che non sia quello dell’identità biologica, nel quale è tradizionalmente stato possibile basare l’omogeneità degli uomini al di sotto delle loro differenze somatiche e culturali. Il messaggio ristiano ha cercato invece di rinvenire l’elemento unitivo delle diverse e spesso contrastanti forme di convivenza umane al di sopra della loro finitezza; ma non in un iperuraneo, come per la metafisica classica, ma nel concreto e singolare rapporto di ognuno con Dio, Padre e creatore, attraverso cioè un rapporto in interiore homine che sia nel contempo identitario, in riferimento a ciò che è propriamente possibile solo all’uomo quale essere spirituale, e personale, in quanto relativo alla propria singolare esperienza di vita. Tale prospettiva dialogica stabiliva come medium una essenza infinita non dipendente dall’uomo, sua creatura, ma presente nella sua storia esistenziale. Identificare questo Mediatore con il Logos della filosofia greca, è stato un totale travisamento dello spirito del messaggio evangelico in senso teologico-politico. La conversione (metanoia) proposta dal messaggio evangelico non contrasta con la “traducibilità” della verità “debole” di cui parla Assmann, 617 poiché non consisteva nell’entrata nell’esclusivo universo politico-concettuale cristiano, che differenziava settariamente i membri della ekklesia dai pagani, ma nel passaggio da una dimensione naturalistica dell’identità antropologica a una spiritualistica, nella quale le diversità storiche perdevano il loro significato culturalmente particolaristico e logicamente distintivo, in considerazione non già di astratti legami generalizzanti ma dell’unità concreta della stessa vicenda spirituale, comune a ogni singolo uomo e quindi umana per condizione esistenziale. Per ogni uomo, nella singolarità e differenza situazionale in cui si trovi per tempo, condizione e luogo, la storia spirituale che egli attraversa nella sua vita mondana è sempre la stessa, ed è quella vissuta per tutti da Gesù Cristo. Il Logos cristico dunque non è un paradigma teoretico, una categoria logica o una unità noetica, ma è una Persona della divina Trinità, che si è incarnata storicamente come Uomo per manifestare con la sua testimonianza concreta tale verità, che è terna e non può mutare. E dunque rispetto ad essa, ogni apparenza umana non è rivelatrice della verità, essendo questa trascendente ogni differenza e distinzione particolare. 617
J. Assmann, Loc. cit., pag. 11.
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La grandezza spirituale del cristianesimo non è quella di aver concepito il modello mimetico universale, ma di averlo differenziato nel senso dell’esperienza singolare dell’uomo. l’analogia col modello ideale è solo apparente, in quanto ogni esperienza singolare dell’uomo non è mai veramente la stessa, come nel caso della forma ideale, presso cui ogni espressione dell’essenza è l’essenza stessa, nel cui concetto ogni determinazione particolare è accidentale; né dunque è quella stessa vissuta da Gesù, ma la comunanza è solo simbolica, e tale che ogni esperienza sia singolare e irripetibile, ovvero costituisce una storia a sé. E mentre l’universalità del concetto logico consente di stabilire, con l’omogeneità dell’essenza comune agli enti particolari che vi partecipano, anche la necessità della loro ideale corrispondenza, la singolarità dell’esperienza spirituale cristianamente intesa fa di ogni esperienza personale un mistero, che rende ogni uomo un unicum, e perciò immagine di Dio, anch’Egli unico al pari di ogni uomo, immagine dell’unico Dio. La conversione consiste nel riconoscimento di tale immagine in sé, riflessa nella propria esperienza esistenziale. Non c’è alcuna relazione necessaria tra la esistenza di tale riflesso (oggettivo) e il suo riconoscimento (soggettivo), ma essa è lasciata alla libertà della consapevolezza di ogni singolo uomo. Non si può essere nel vero senza sapere della verità, o giusti senza avere cognizione della giustizia, ma si può vivere anche misconoscendo la relazione spirituale tra la propria esistenza e quella divina. E ciò fa della libertà dell’uomo la soluzione dello stesso mistero della sua vita, ossia la verità di essere un essere spirituale. Tale consapevolezza diventa decisiva nelle relazioni col Potere. infatti, la sua ignoranza, o la sua rimozione, legittima la violenza legale del Potere in nome dell’ordine politico giuridicamente costituito. La necessità della violenza nei rapporti umani è legata alla costituzione naturalistica dell’uomo come forma unitaria, rispetto alla quale ogni difformità è contrassegnata come eversiva dell’ordine omologante e quindi pericolosa e da punire. La riduzione dell’esperienza umana al rispetto dell’ordine socio-politico legittima il vigore della violenza legalizzata del Potere. La violenza quale esercizio politico è conseguenza del discrimine concettuale tra amico e nemico dell’ordine, il quale, costituito in Stato, diventa esso stesso criterio di legittimità, e quindi il fine stesso
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dell’azione politica, sovrana rispetto al sistema giuridico e alla sua giusta violenza. La violenza sovrana quale fine superiore a ogni giustizia rappresenta la necessità stessa dell’ordine naturale, che ne è il principio. Il principio della necessità (di ricondurre ogni diversità al modello universale) legittima il fine dell’agire politico, ossia la sua violenza, necessaria a conseguirlo, ossia a negare la differenza. Il principio politico così inteso è essenzialmente discriminatorio, e perciò esclusivo, e dunque parziale. E pertanto il concetto che lo legittima, quello della necessità, non può ordinare il Tutto, ma solo appunto la parte amicale. E la giustizia parziale legittima a sua volta la rivolta degli esclusi, dei nemici: da qui il carattere polemico del criterio politico, cioè dello stesso principio di necessità, che crea perciò dis-ordine, cioè l’opposto dell’ordine che vorrebbe costituire. Il carattere contraddittorio di ogni struttura politica la destina al fallimento storico. Ma qual è il senso naturale della necessità? Esattamente che non vi possa essere passaggio dalla condizione d’essere a quella di non essere ciò che è. L’essere è necessario in quanto non può non essere ciò che è. In natura non vi è conversione di condizione: “natura non facit saltus”. Lo status naturae è appunto necessario. La rappresentazione tragica dell’uomo spirituale descrive il tentativo di liberarsi da tale necessità, passando a una situazione di libertà. La passione dell’esistenza umana si compendia in questo tentato passaggio dalla condizione di necessità alla situazione di libertà. La legittimazione razionale del Potere è di impedire tale tentativo, naturalmente insensato ed eversivo perciò dell’ordine razionale costituito. Senso naturale e senso razionale vengono perciò a coincidere nella condizione d’ordine legittimo del Potere politico, il cui fine è di mantenere ciò che è contro ogni tentativo di sovversione rivoluzionaria. L’ordine e la rivoluzione diventano i poli dialettici della dinamica politica entro l’orizzonte di coscienza naturalistico della necessità. Ma, diversamente da quanto suppone Assmann, il tema della violenza non è riferito al principio della verità religiosa 618 ma è consustanziale al principio della necessità naturale, di cui la rappresentazione della sovranità politica è la sua forma di legittimazione razionale. 619 E’ il 618 619
Ivi, pag. 25. J. Assmann, Loc. cit., pag. 32.]
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principio della necessità naturale trascritta in termini razionali a costituire la violenza come misura correttiva dell’ informe eslege, e dalla sua definizione concettuale universale discende il fondamento della sovranità politica assoluta. In entrambi i casi, teoretico e pratico, il fine della violenza necessaria è l’unità esclusiva dell’ opposta molteplicità, ossia della diversità. Dal punto di vista ontologico, l’Uno è ciò che è. Dal punto di vista formale, l’Uno è inteso come l’Essere, cioè l’unità essenziale degli enti mondani. Ma a stabilire la corrispondenza tra il senso ontologico e quello formale dell’Essere è una credenza propria del razionalismo di origine greca, per il quale l’Uno coincide con la realtà del concetto, cioè con l’Essere del pensiero. Ed è questa idea di Essere a escludere dall’Uno il molteplice, ossia l’opposto di ciò-che-è, dell’ente, cioè il ni-ente. Letto in termini razionalistici, il Dio cristiano diventa la proiezione universale del Dio nazionale ebraico. Dal punto di vista religioso, infatti, l’Uno è Dio, che si presenta a Mosè come “Io sono ciò che sono”. Dal punto di vista politico, l’Uno in senso razionalistico è lo Stato, ossia il detentore esclusivo della sovranità del Potere. Ma l’equivoco sorse col Cristianesimo, ossia con l’Incarnazione di Dio, che per gli Ebrei era invisibile. Il Dio che è, se invisibile, non può essere presente alla maniera razionalistica, mentre il Figlio incarnato lo può. D’altro canto, come già aveva notato Freud,620 la irrapresentabilità di Dio forniva un grande impulso alla sua astratta concezione, ben diversa da una rappresentazione sensibile, dalla quale invece derivò l’arte sacra occidentale di ispirazione cristiana. Ciò significa che il Figlio visibile aveva tutti i requisiti astratti del Padre invisibile più la sua esistenza storica. e così fu facile coniugare la realtà fenomenica del Figlio all’essenza ideale del Padre, facendo di entrambi i termini della rappresentazione concettuale di un Dio infinito e universale che si fa immagine sensibile finita. L’in-finitezza di Dio era legata alla sua irrapresentabilità, siccome la Sua alterità rispetto ai dati fenomenici. Ma mentre la Sua potenza si manifestava originariamente attraverso la collettività del popolo ebraico, col cristianesimo essa prese forma umana singolare, destinandosi a una sua unità personale. Su questa 620
S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1939), tr. it. in Opere, XI, Torino, 1980.
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premessa personalistica fu possibile costruire una immagine regale di Cristo che trasponesse l’infinitezza spirituale in termini di potenza mondana, cioè in Potere politico. In questo modo nasce la teologia politica cristiana. Uno dei modi più efficaci di affermare il Potere in un contesto culturale fondato sulla comunicazione è quello di deprivare di senso comune, cioè di valore istituzionale, la semiotica delle azioni simboliche private. Stabilendo quale sia il valore comune privilegiato tra altri non omologati, si determina una relazione di dipendenza simbolica tra la manifestazione della volontà e il suo significato riconosciuto come legittimo. La legittimità del significato stabilisce sia il senso razionale della comunicazione che il piano dell’azione socialmente accreditata, a scapito di altre opzioni rimosse dallo scenario valoriale dominante. La conseguenza di tale deprivazione di senso è la riduzione dell’agire comunicativo a mera materialità espressiva, vuota esteriorità estetica dalla muta semantica, priva di riconosciuto valore sociale. Ogni società politica strutturata sul fondamento ontologico della necessità prevede un piano di realtà illegittima in cui relegare le manifestazioni private indegne di riconoscimento pubblico. Tale sottoinsieme dell’agire sociale culturalmente discriminato rappresenta la realtà del disvalore esistente, cioè del negativo reale: il diverso non contenibile nell’Uno formale, ossia l’irriducibile molteplice; irriducibile appunto all’unità ideale, oggetto del Potere. Il potere politico, in quanto orizzonte di senso razionale, è essenzialmente un potere semantico, basato sull’inclusione ed esclusione semiotica nel significato socializzato. Lo scarto ontologico è la pura immagine del Caos, ossia dell’ente acosmico irrelato da ogni destinazione di senso, isolato dall’Unità ideale. Tale immagine è quella del Negativo esistente, del Ni-ente, che non dovrebbe esistere ma che pur tuttavia c’è; essa rappresenta la contraddizione vivente, che nella dialettica politica è il nemico (hostis). Il nemico è colui che incarna il Caos e lo esprime vivendo la sua nientità. La lotta al nemico e la lotta per l’ordine politico sono le facce di una stessa tensione cosmo-logica in chiave politica e socio-logica. L’interdizione biblica (Esodo, 20, 3-6 e Deuteronomio, 5, 7-10) a raffigurare altri dèi e a rappresentare lo stesso Yahweh, non sono, come sembra ad Assmann, “due cose diverse”, di cui la prima sarebbe
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l’alternativa politica “tra fedeltà e apostasia”, e la seconda “una questione di strumenti di comunicazione”,621 ma afferiscono alla stessa possibilità del Potere di stabilire la legittimità dei termini della semantica sociale, cioè del senso socializzato dell’agire e della sua rappresentazione. Il potere politico della Chiesa si è determinato storicamente come monopolio ermeneutico, che lo Stato ha trasferito nella sua legislazione come monopolio legiferativo. Ma tale transizione secolaristica racchiude in sé una differenza sostanziale tra l’Unità simbolica richiesta vocazionalmente e spontaneamente al credente nel Cristo, e l’Unità mimetica imposta necessariamente e coattivamente al suddito politico; nel primo caso, l’Unità non si consegue senza l’adesione intima (intentio) del credente, mentre nell’altro caso la rilevanza è della sola volontà (voluntas) dell’attore sociale. Ed è la stessa differenza che esiste tra la penitenza soteriologica, tesa al corretto rapporto con Dio, e la pena afflittiva, tesa alla riparazione del torto sociale, e quindi alla corretta relazione tra gli uomini. Nel primo caso, non può sussistere alcuna violenza, poiché l‘efficacia della penitenza è legata alla sua volontaria accettazione, laddove la pena legale da infrazione giuridica è decisa dalla forza superiore del Potere che l’infligge, la cui efficacia è presunta dal suo valore sociale e non stabilita dal suo significato soggettivo. Una penitenza che non redime, è soggettivamente invalida; una pena comunque scontata ripara il dovere sociale, qualunque sia l’effetto soggettivo. Il rapporto interno / esterno è quello tra la fede della conversione e la osservanza alla legge. La fede presuppone l’esistenza della Verità, mentre l’osservanza presuppone la forza del Potere. Dio può esercitare un potere sull’uomo soltanto se c’è fede in Lui, cioè se esiste un previo riconoscimento intimo e personale della Sua potestà morale. La forza (auctoritas) di Dio risiede nella libertà dell’uomo. Diversamente, lo Stato può esercitare un potere (imperium) sull’uomo anche se chi ne subisce la forza legale non la riconosca come legittima. Ed è questa condizione di assolutezza della forza legale a fare del Potere politico una dimensione ordinamentale essenzialmente violenta.622 Se la “debolezza 621
J. Assmann, Loc. cit., pag. 69 passim. “La violenza pertiene all’ambito della politica, non a quello della religione, e una religione che si rifà alla violenza rimane bloccata nel campo della politica, mancando al suo specifico compito in questo mondo”: J. Assmann, Loc. cit., pag. 133. “La 622
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della verità” è la stessa libertà dell’uomo, legata alla sua intenzione a prestare ascolto alla parola di Dio, la forza del Potere è invece nel negare tale libertà umana, costringendo la volontà dell’uomo ad asservirsi alla parola della legge.623 L’atteggiamento fideistico è perciò impolitico per definizione e non può determinare il paradigma del discrimine politico tra amico e nemico, legato all’imperium.624 La critica di Gesù al legalismo farisaico - che tendeva a distrarre la relazione con Dio in una mediazione formale di carattere etico, e dunque emanazione del potere politico sul popolo ebraico inteso come nazione e non come comunità ecclesiale i senso cristiano -, era motivata dalla consapevolezza del pericolo spirituale per la fede nella verità dovuto alla “trasformazione della religione in etica e dell’etica in teologia”, 625 che caratterizzò l’esperienza ebraica e che si ripropose nel cattolicesimo romano, che indicò nell’integrazione dell’imperium secolare (il diritto, destinato alla relazione con gli uomini) nell’auctoritas sacrale (il culto, destinato alla relazione con Dio) il criterio di contemperamento morale del Potere politico. Nasce così la giuridicizzazione della religione e la sacralizzazione del Potere politico religiosamente legittimato ad esercitare le sue funzioni di violenza. La legittimazione della violenza giuridica indica una mediazione tra cielo e terra, sacro e profano, che pone lo Stato religioso come protagonista ed interprete di quella mediazione, in vece del Cristo e dei precetti evangelici, con tutte le conseguenze totalitarie derivate dalla sua moderna emancipazione dalla custodia sacrale. A questo stadio di assolutezza del Potere, la funzione katechontika della religione tende ad arginare quello che Assmann chiama il “caos dall’alto”,626 quello creato dal potere statale soverchiante ogni limite morale e assoluto nella sua legislazione, che persegue il suo ideale politica e il diritto sono possibili solo se, per la loro affermazione, possono ricorrere alla forza fisica ed escludere in modo efficace una forza che vi si opponga”: N. Luhmann, Coercizione giuridica e potere politico, cit. da J. Assmann, Ivi, pag. 92. 623 “La persona è per natura sottomessa alla collettività. Il diritto è per natura dipendente dalla forza”: S. Weil, La personne et le sacré (1943), tr. it., Milano, 2012, pag. 28. 624 Cfr. J. Assmann, Loc. cit., pagg. 71-72. 625 J. Assmann, Loc. cit., pag. 77. 626 J. Assmann, Loc. cit., pag. 81.
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unitario sul piano esclusivamente politico, servendosi della forza della vigenza, incurante di ogni intima adesione spontanea, procacciata ad libitum dalla propaganda ideologica. Ma la formale composizione istituzionale dell’istanza d’ordine propria del potere politico e l’istanza salvifica propria della autorità morale cristiana, non ressero all’interna contraddizione del principio della necessità naturale con quello della libertà spirituale, sicché la loro dialettica istituzionale e successiva dissoluzione culturale caratterizzeranno le vicende storiche della civiltà europea moderna. Infatti, la fede in senso cristiano non legalizzava un comportamento ortodosso ma interpretava l’esperienza dell’uomo in senso personale e non socio-politico. La decisione per la fede, la conversione, non stabiliva una opzione tra forze dialetticamente contrapposte (come nel caso della verità platonica contro le false versioni sofistiche), né stabiliva una preferenza cultuale tra religioni storiche disponibili (come nel caso del Dio ebraico nei confronti degli altri idoli), ma segnava il passaggio dal regno naturalistico della necessità a quello spiritualistico della libertà. La Verità cristiana è una non perché sia razionalmente migliore di altre tesi teoretiche, inducendo perciò la teologia a fornirsi dello strumento filosofico ancillare per stabilire un rapporto dialettico con le insidie del pensiero negazionista, confutativo delle sue istanze razionalistiche atee; essa è una in quanto si manifesta su un piano di esistenza singolare (in interiore homine) diverso da quello collettivo della realtà socio-politica, ossia trascendente. Sicché ogni uomo possiede la verità nell’atto della sua conoscenza di Dio, che è appunto Verità. La Rivelazione della personalità di Dio coincide con quella della personalità della verità. Ciò implica che non sia la “scrittura”, per il cristianesimo personalista, il luogo della verità, che “richiede una totale inversione dell’attenzione, la quale, rivolta originariamente ai fenomeni naturali e a quanto di sacro in essi si mostrava, deve ora concentrarsi esclusivamente sulla parola scritta e sulla sua esegesi”, 627 ma l’esistenza singolare come testimonianza della fede in Colui che ha vissuto fondandola, e dunque la personale interpretazione della Sua storia spirituale. In tal modo, il piano trascendente le relazioni contingenti diventa anche quello della concretezza, dove la verità 627
J. Assmann, Loc. cit., pag. 127.
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s’incontra con la testimonianza esistenziale, disegnando una totalità che è propria della persona umano-spirituale. Che cos’è la Verità di Dio e dell’uomo? In che modo essa si manifesta come personale esperienza esistenziale? La risposta della filosofia si dipana intorno alla soggettività trascendentale della coscienza che nella conoscenza si riappropria del mondo oggettivato come suo prodotto ideale. L’Eros della conoscenza è lo stesso della volizione che cerca di riportare il mondo al Sé della coscienza per ricomporlo in unità. Ogni rapporto, dialettico come conflittuale, di dispiega come antitesi tra opposte istanze che cercano di affermarsi a scapito dell’altra. In questo senso, sia la potenza del pensiero che della forza politica tendono all’affermazione della tesi contro la resistenza dell’antitesi; nello stesso senso, la volontà erotica che guida il movimento dialettico è una volontà di potenza. La prospettiva cristiana è del tutto diversa e contraria. Per il pensiero cristiano, la verità non è la navigazione della coscienza che torna a se stessa, ma è Agape, “amore dell’altro”. Come scrive Barth, L’amore cristiano si volge all’altro soltanto per amore dell’altro. Non lo desidera per sé: in genere non desidera nulla. Lo ama semplicemente perché è lì in quanto altro, proprio in quanto altro, nel suo valore o nella sua mancanza di valore. lo ama liberamente.628
La libertà dell’amore altruistico consiste nella decisione di rinnegare l’istinto egoistico naturale teso all’affermazione di sé come essere biologico, a favore della scelta per l’altro. L’altruità al posto dell’egoismo È la rivoluzione della coscienza che si dice “conversione” (metanoia). Rivoluzione significa ritorno alle origini, e alle origini dell’atteggiamento egotico c’è il Noi dell’unità mistica col Tutto, che per la Ragione è il Mito. La coscienza cristiana rinuncia al sé, a volere il mondo per sé, e quindi “a disporre di sé […] per donare senza riserve se stesso all’altro, a colui al quale si volge nel suo amore, perché se questo dono supremo mancasse, mancherebbe tutto!”. Nel senso che per conseguire il Tutto occorre acquisire il Noi, cioè la dimensione plurale, che la conoscenza 628
K. Barth, Kirchliche Dogmatik, IV/2 (1932), tr. it. Bologna, 1968, pag. 199. Da ora KD.
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razionale distingue dalla verità dell’Io universale, dominante su ogni possibile Tu, e che costituisce la verità dell’Eros quale “naturale affermazione di sé”, dove l’Altro è incontrato solo “in vista di uno scopo”.629 Nella relazione di Eros l’uomo, anche se in apparenza può dare del suo, prodigare e dissipare per l’oggetto amato ciò che gli appartiene, in realtà non dà veramente, ma anzi fa uso del suo come di una proprietà che gli serve per conquistarsi l’amato, assicurarsene e goderne il possesso […]. E così accade ancora che chi “ama”, per quanto possa in apparenza dimenticare se stesso e trascendersi in direzione dell’oggetto amato, […] in realtà, proprio quando conquista, possiede e gode l’ oggetto del suo amore, afferma ancora di più se stesso, ha di mira se stesso, conferma e accresce se stesso. 630
Lo scopo della potenza di sé, il potere di affermarsi sugli altri, allargando il controllo sul mondo, è una strada senza sbocco, uno Holzweg, poiché non perviene alla conquista del Tutto, ma soltanto all’allargamento della solitudine dell’Io che “rimane solo in campo” e “alla fine (e magari anche passando per l’infinito!) ritorna necessariamente al punto di partenza”.631 La dimensione plurale della libertà era una acquisizione già della sapienza greca, come abbiamo visto supra, ma il gioire di sé con gli altri rimane comunque “amore per se stessi”, che è “l’opposto dell’amore cristiano”, che trova la sua aspirazione “nel far dono di sé all’amato”. 632 L’uno non toglie l’esistenza dell’altro amore, che sono compresenti nell’animo umano, anche se sono antitetici e “vanno in direzioni esattamente opposte”.633 Ciò significa che non sono confondibili e neppure trasformabili l’uno nell’altro, ma necessitano di una scelta, poiché “dove entra in scena l’amore cristiano, ha inizio immediatamente il conflitto con l’altro amore e questo conflitto non ha più fine”. Tanto da potersi dire che “l’esistenza cristiana è la storia della continua distinzione dei due tipi d’amore”, che,nonostante l’opinione contraria di Origene, non 629
K. Barth, KD, tr. it. cit., pag. 200. Ivi, pag. 201. 631 Ibidem. 632 Ivi, pag. 202. 633 Ivi, pag. 203. 630
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ammette compromessi o tolleranze né tregue, le quali indicherebbero che “l’esistenza cristiana non sarebbe ancora iniziata, oppure sarebbe già estinta”. 634 Non a caso il Nuovo Testamento ha coniato un termine distinto da quello di , che non appare mia, e che è , che non è di uso classico e solo raramente ellenistico. Esso esprimeva l’anelito dell’uomo a superare la sua finitezza e sospensione tra due realtà metafisiche, “era la forma elevata, ipostatizzata, dell’esistenza dell’uomo in questa posizione intermedia e del momento di distacco dal basso e di tensione verso l’alto che questa posizione necessariamente comporta”. 635 E come tale poteva essere inteso come “il legame metafisico (il ) tra il mondo dell’apparenza e quello del vero essere, la sostanza del movimento dall’uno verso l’altro”, che Aristotile intende come entelechia o impulso, non solo antropologico, come in Platone, ma cosmologico, per cui tutti gli esseri tendono a raggiungere la pienezza della loro condizione normale, che per l’uomo è l’essenza incorruttibile, l’eidos, il Bello.636 In altri termini, l’Eros indica la tensione verso l’unità, che è ordine e armonia della molteplicità, che consente all’uomo di riconoscersi nella sua posizione nel mondo. Ma non è questo il fine della politica? la quale pertanto è l’attività che nella pratica ricerca l’ordine in cui l’uomo possa amare l’altro uomo come compartecipe dell’unità della polis. Dove “amore” sta qui per riconoscimento del ruolo politico. L’entelechia politica è la pace, intesa come mutuo riconoscimento delle rispettive posizioni nel mondo politicamente ordinato. E in questo senso l’eidos politico era l’ordinamento ideale platonico, la costituzione politica definitiva e immutabile nella sua necessaria, ossia razionale, perfezione. Questo il senso filosofico-politico. Barth tiene a precisare che entrambe le modalità di amore appartengono all’uomo allo stesso modo storico, ossia contingente, di esprimere la sua natura umana.637 Con la decisiva differenza che mentre “l’agape corrisponde alla natura umana, l’eros invece la contraddice”, per cui
634
Ivi, pag. 204. Ivi, pag. 208. 636 Ivi, pag. 209. 637 Ivi, pag. 212. 635
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“l’una è il suo analogon, l’altro è il suo katalogon”.638 Nel senso che l’agape realizza quella condizione di libertà reciproca tra Dio e uomo che invece l’eros nega a favore della sola considerazione di sé. Il “vero uomo” è colui che stabilisce la relazione con Dio e vive nella sua verità. La vita dell’uomo “si decide nel modo in cui egli è conforme a questa sua realtà, oppure l’eros se la nega”. Ed egli, in quanto uomo, “non può sottrarsi a questa determinazione, non può né distruggerla né perderla, non può alterare il fatto che questa è la sola cosa che faccia di lui un vero uomo, costituisca la sua natura e la sua essenza umana”. 639 Ma perché non può sottrarsi? Perché l’uomo cerca di affrancarsi dalla necessità naturalistica di lottare per sé secondando un’altra necessità? Perché la necessità guidata dall’eros estende il suo potere armonizzante entro la finitezza e caducità del mondo, la cui instabilità è insita nella sua imperfezione creaturale, cioè nella sua alterità rispetto a Dio creatore; mentre la necessità di agape spinge verso la libertà di sé come elemento conflittuale con l’Altro. Come aveva ben inteso Kierkegaard, la libertà dell’uomo è nell’affrancamento da questo “destino” naturale, di partecipare al polemos universale. E in tale rinuncia ad avvalersi delle sue ragioni di esistenza polemica consiste la libertà dell’uomo di mettersi all’ascolto della parola di Dio, di porsi cioè nella condizione di essere libero per Lui, “libero di mettersi al suo servizio”. 640 L’atto di remissione, di rinuncia a sé, attiva la considerazione dell’Altro, cioè la condizione di pervenire alla libertà di Dio, che è appunto amore verso l’uomo, e in questa consapevolezza raggiungere la Verità. Se la verità è nell’Altro come in interiore, ciò comporta che nel Cogito dell’Altro si ritrova il vero Sé, che dunque non è affermazione dello stesso Sé ma la sua negazione a favore dell’Altro. E se la verità risiede nella Negazione, essa è negativa; non nel senso che nega l’altro-da-sé per affermare il Sé, ma che nega il Sé per affermare l’Altro. Questo negare il Sé per l’Altro è appunto l’agape in senso cristiano, la Verità in senso contrario a quello filosofico della sapienza pagana. 638
639
640
Ivi, pag. 214. Ivi, pag. 215. Ivi, pag. 216.
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Le conseguenze sono immense, a partire dalla consapevolezza che la Verità, ossia Dio stesso, che è Amore e il Tutto, niente potendosi pensare più grande di Lui, è l’in-finito, e questo Infinito è Negativo. E dunque, il Niente, la scoria del pensiero razionale, che la logica esclusiva destina al non-essere, gli umili della vita e i nemici del Potere, è in realtà il Tutto, ossia che la Verità è non l’Essere della filosofia ma il Non-essere. E se l’Essere è temporalmente il presente dilatato nell’universalità del sempre onnicomprensivo della categoria ideale, il Non-essere è l’eterno, cioè che si pone al di là del tempo. Essere al di là del tempo ed essere al di là del polemos fa tutt’uno. In tal senso il tempo è l’Essere. E l’Essere è il pensiero, ossia il Sé cogitante, l’Io. Costruire un ordine sociale a partire dall’Io equivale a cercare di armonizzare il conflitto per il dominio dell’Io sull’Altro, ossia, come abbiamo visto supra, realizzare una contraddizione. Da qui l’eterogenesi dei fini, la metabasis e la conversione di ogni ordinamento politico di senso razionale in disordine irrazionale, che si riflette nel discredito culturale verso la stessa Ragione. L’amore di sé, l’Eros, si converte in dipendenza dall’Altro, in sudditanza. L’Eros è la negazione della libertà, cioè di Dio stesso, 641 e dunque della Verità. La “verità filosofica, quando entra nella piazza pubblica, cambia la propria natura e diventa opinione”, 642 cioè diventa menzogna, retorica ad captandum benevolentiae, sofisma della volontà di potenza, dis-ordine morale e caos civile nato dalla diffidenza universale, che è la condizione opposta a quella ricercata dall’amore politico. La consapevolezza della impossibilità di pervenire all’ordine della pace tra gli uomini attraverso lo strumento del politico, attraverso cioè la logica del polemos, deve indurci ad abbandonare la strada della socialità politica, ponendoci in relazione con Dio per essere accanto all’altro uomo. Come scrive Barth, Caratteristica essenziale e naturale dell’uomo, oltre a essere assieme a Dio, è […] quella di essere assieme all’altro uomo (e ciò in analogia alla comunione con Dio!). l’uomo non è solo, non è in antitesi, non è in una posizione di 641 642
Ivi, pag. 217. H. Arendt, WiP, pag. 43.
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neutralità rispetto al’altro uomo, e nemmeno è posto in rapporto con l’altro soltanto a posteriori; l’essere con l’altro è, al contrario, costitutivo della sua essenza, cioè egli è destinato fin dal principio all’incontro tra l’ “io” e il “tu” e senza il “tu” non può nemmeno essere “io”, senza l’altro non può essere uomo più di quanto lo possa essere senza Dio. […] La sua umanità consiste nella libertà di essere per l’altro un amico e un compagno, non solo perché spinto dalla necessità, ma spontaneamente. 643
La spontaneità, ossia la libertà, di stare con l’altro in rapporto agapico, ossia di donarsi, è legata alla necessità di conoscere Dio, cioè la Verità. L’uomo non può non conoscere la Verità, ossia non può stabilizzarsi entro la dimensione precaria della finitezza e della menzogna, che è l’orizzonte dell’Eros e del politico. Nell’orizzonte politico, la libertà si realizza col conflitto, il quale è sempre un conflitto di interpretazioni, poiché l’elemento mediano, unitivo / disgiuntivo, è un rapporto che l’uomo stabilisce coi valori dell’altro uomo. Questa mediazione, che è all’origine del discrimine amico / nemico, manca del tutto nel rapporto agapico, che “si riferisce sempre ad una persona individuale come totalità”,644 e non in relazione a un valore che essa incarna o rappresenta. Questo dà al sentimento verso la persona concreta una “qualità valoriale del tutto individuale, che inerisce [all’] individuo”, senza che entri in questione la “realizzazione di un valore generale”. 645 Infatti, “il ruolo dei diversi valori generali consiste qui in primo luogo nella costituzione della bellezza complessiva [dell’] individuo [amato] e non nella realizzazione [dei] tipi generali di valori, come nel caso dell’azione morale”, sicché “l’amore risponde non solo all’amato a causa della sua bellezza complessiva, ma abbraccia la sua persona reale come tale”. 646 Ciò vuol dire che la persona amata è un “soggetto” 647 che non è oggettivabile alla maniera di un ente di pensiero, e quindi non è fungibile, come chi ricopra una impersonale funzione sociale, dal momento che “il tema dell’amore è 643
K. Barth, KD, tr. it. cit., pag. 217-218. D. von Hildebrand, Das Wesen der Liebe (1971), tr. it., Milano, 20142, pag. 229. Da ora WL. 645 Ivi, pag. 235. 646 Ivi, pag. 237. 647 Ivi, pag. 239. 644
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esclusivamente l’altra persona […] reale individuale come totalità”. 648 Esso “va al di là della pura risposta al valore, in quanto in esso è contenuta una dedizione di tipo personalissimo, che non è obbligatoria e dà qualcosa che trascende tutte le risposte ai valori”,649 in quanto orientato alla “persona come tale”, 650 alla sua unicità singolare, la quale non dipende dal nostro amore alla stregua di un corrispettivo doveroso, che di debba cioè ai suoi meriti, soddisfacendo un dovere. Si ama un uomo solo nella consapevolezza che egli meriti “molto di più di quanto il nostro amore come tale gli dà”.651 Solo così è possibile trascendere la dimensione dell’Eros, la sua “solitudine”, che “è negazione della umanità”, la sua natura qualcosa transeunte, essendo destinato a finire “assieme a tutto il mondo che su di esso e costruito e da esso è dominato”, in vista di qualcosa che “rimane in eterno nel mondo che passa” e non verrà mai meno (1 Cor. 13, 8). 652 Tale anelito al trascendente che si manifesta nell’agape coinvolge la persona intera grazie alla sua “intenzione unitiva” (intentio unionis), la quale si distingue non solo dalla volontà egoistica ma anche dall’obbligazione morale, che contiene “un elemento di obbedienza” oggettiva a Dio, a sua volta “distinta anche dalla relazione assiologica che si dà in tutti i valori”.653 Nella relazione agapica non si richiede corrispondenza, gradualità, giustizia, reciprocità ma dedizione totale, “pienamente consapevole” quanto spontanea, “voluta liberamente”. 654 La libertà della dedizione si abbina alla completezza della totalità affettiva del “coinvolgimento del cuore”, cioè dell’intentio, che investe la “persona intera”,655 stabilendo pertanto un rapporto inter-personale non settorializzato ad ambiti determinati e potenzialmente divergenti, tali da provocare quella tipica frantumazione e precarietà del dominio del Potere 648
Ivi, pag. 241. Ivi, pag. 245. 650 Ivi, pag. 249. 651 Ivi, pag. 251. 652 K. Barth, KD, tr. it. cit., pagg. 219 e 220. 653 D. von Hildebrand, WL, tr. it. cit., pagg. 257-261.] 654 Ivi, pag. 267. 655 Ivi, pag. 279. 649
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che è all’origine del sentimento timotico di perderlo, ovvero della paura politica preventivamente ostile alle possibili, e a volte solo ipotetiche, minacce eversive. Il sentimento agapico fa convergere intenzione e volontà, liberando perciò la relazione umana da ogni suspiciosa riserva e rendendo perciò inutile la cultura della prudenza (sofrosyne) che caratterizza l’ordinamento giuridico del sistema politico. Questa “perfezione”, ossia compiutezza del sentimento, si manifesta come “volontà” (Wille) ma include l’intentio interiore, senza la quale essa non potrebbe essere “libera nel senso della diretta autodeterminazione dell’atto e del suo potere di iniziare una nuova catena causale”.656 Ciò implica che la totalità del rapporto, che coinvolge direttamente, cioè consapevolmente, o indirettamente, cioè implicitamente, Dio nella libera e spontanea relazione intenzionale, non possa determinarsi in termini di linguaggio razionale, e dunque non è oggettivabile come ente di pensiero logico, poiché non è un fatto, da sussumere sotto categorie esplicative di senso razionale, ma è un vissuto (Erlebnis), da narrare. Ed è perlappunto da questa esigenza rappresentativa, che non dispone di fatti ma espone eventi, che nasce la narrazione mitica, il récit tipico della tradizione mitologica, inclusiva di quelle contraddittorie istanze di libertà divina denunciate nell’Eutifrone platonico come incoerenti rispetto al piano esclusivo della ragione filosofica. In termini metafisici, la rinuncia a Dio e alla libertà del Suo rapporto, coincide con l’affrancamento della Ragione dal Mito arcaico e la determinazione del Logos dal legein originario. La demitologizzazione del legein operata dalla filosofia stabilisce il dominio della volontà sul linguaggio, destrutturando la rappresentazione mitica e ricomponendola alla luce del discorso razionale, esclusivo della spontaneità propria della libertà dell’intentio, e pervasivo della necessità del dominio del Logos in funzione ordinatrice del supposto caos avvenimenziale. Si comprende così come l’ordinamento razionale operato teoreticamente dal Logos apofantico della tradizione filosofica attraverso la demitologizzazione delle culture religiose tradizionali abbia come fine esplicito la negazione del valore teoretico del linguaggio simbolico, e come fine implicito la rimozione del trascendente, cioè della sfera del sacro, dall’esperienza 656
Ivi, pag. 281.
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umana. La quale rimozione, ponendo la distanza della meraviglia (thauma) al posto della deferenza amorevole al Mistero, ed negando valore conoscitivo alla intuizione mistica del rapporto simpatetico, esaltando al suo posto la volontà dell’intelletto come unica determinazione del senso della realtà, elimina ogni dipendenza del Logos dalla sua informale origine arcaica, cioè dal Mito divino, indicando tale sacrilega resezione parricida come “libertà” e auto-determinazione dell’uomo. Con la idolatria del Logos ha inizio l’eone dell’Eros, la civiltà della Ragione, entro la quale si inscrive la stessa Cristianità storica di impronta ellenistica, ma rispetto alla quale l’istanza agapica sostenuta dal messaggio evangelico e testimoniata dalla fede in Cristo costituisce il più possente katéchon ostativo alla dissoluzione dell’integralità dello umanesimo cristiano. Dalla prospettiva propriamente cristiana, la struttura feudale della società medievale, che secondo S. Weil trova il suo acmè nella “civiltà romanica” dei secc. X-XII,657 rappresenta un orizzonte esistenziale e valoriale più completo e ricco rispetto a quello sviluppatosi in età moderna col trionfo istituzionale del razionalismo erotico, in cui la logica della potenza burocratica soppianterà il criterio del riconoscimento proprio dell’etica cavalleresca, in cui la relazione assiologica veniva a stabilirsi sulla fede morale personale dei contraenti del pactum civilis.658 Ma l’aspetto più rilevate dal punto di vista esistenziale è nel rapporto non-conflittuale che la relazione agapica stabilisce anche con chi sia portatore dell’Eros, il quale è comunque un uomo creatura del Dio dell’Amore. L’Altro, anche in questo caso, non è visto come un portatore di interessi, esterno all’universo di senso cristiano, ma come una persona esposta al richiamo della libertà dal destino della necessità, sicché, come scrive Barth, quando Dio, che lo ama nonostante la sua perversità, lo chiama a decidersi per l’agape contro l’eros, si tratta della sua liberazione […] da questa presunta necessità [che lo fa] stare sempre sospeso a mezz’aria tra mancanza 657
S. Weil, Le domaine occitanien (1942), in Oeuvres complètes, vol. IV/2, Paris, 2009, pag. 418. 658 Non a caso M. Mauss, chiama “sistema delle prestazioni totali” quello in cui le parti contraenti erano “persone morali” e non meramente giuridiche: Essai sur le don (1923-24), tr. it., Torino, 2002, pag. 9.
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e desiderio [di] cercare la propria identità, con il risultato di non poterla trovare, ma anzi di perderla. Perché se il senso della vita fosse questo, se fosse che l’uomo, per trovare se stesso, deve cercarsi, egli non potrebbe che perdersi in questa ricerca e il senso della sua vita sarebbe la mancanza di senso. L’amore cristiano è la sua salvezza, proprio perché chi ama di questo amore cessa dal salvare se stesso, rinuncia a voler essere il proprio salvatore.659
È una prospettiva rovesciata rispetto alla gnosi politica pagana, che nell’auto-affermazione del Sé coscienziale sul sé collettivo intravvedeva la leva su cui appoggiare la cognizione del mondo come cosmo razionale. Nell’ordine politico la cultura greca trovava la mediazione tra cielo e terra, della “distanza infinita tra Dio e l’uomo”, lavorando perciò i migliori tra loro “a costruire ponti”, secondo “una nozione di armonia, di proporzione, che è al centro di tutto il loro pensiero, di tutta la loro arte, di tutta la loro scienza, di tutta la loro concezione della vita”. 660 Con il Cristianesimo, la Mediazione tanto agognata e inseguita teoreticamente divenne “visibile”, sostiene la Weil ricercando nel retaggio greco la continuità ispirativa dell’inveramento cristiano. E tutto ciò è senza dubbio vero, ma con l’avvertenza decisiva che la prospettiva cristiana guarda all’uomo come fine, e dunque alla sua storia come salvezza spirituale, e non come strumento eudemonistico dell’eu zén sociale ottenuto con la politica. La differenza è radicale e insuperabile, poiché la conoscenza del Sé non può avvenire senza la conoscenza di Dio, come invece prefigurava la soluzione filosofica, che concepiva il télos della ricerca teoretica come rimozione e disvelamento (a-letheia) del Mistero, e non come presupposto di ogni conoscenza. Sostituire l’agàpe al thàuma significava esattamente conciliarsi col Mistero, anziché tentare di negarlo, edificando un mondo senza Dio. E in questa divina conciliazione l’uomo cristiano trova quella libertà invano ricercata nell’ordine artificiale della Ragione politica. Libertà che è Amore dell’Altro e dunque non pace tra due conflitti ma rinvenimento della comune Verità. Ed è tale comunanza mediata dalla Verità che Gesù chiamò ekklesia, indicando il modello di una socialità alternativa a quella politica, informata al principio 659 660
K. Barth, KD, tr. it. cit., pagg. 222-223. S. Weil, Le domaine occitanien, cit., tr. it., Genova, 2010, pag. 29.
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dell’agàpe inclusiva di ogni persona, anziché al criterio del polemos esclusivo del diverso. Il potere del sé diventa dono di sé:di Dio all’uomo e di ogni uomo verso l’altro uomo. Ritrovare nell’Altro il proprio Sé, equivale a superare la dicotomia amicus / hostis nella prospettiva del prossimo, nella dimensione del dono disinteressato di sé in cui “l’eros non ha più ragione di essere”, diventando “semplicemente superfluo”.661 Questo l’esito soteriologico della conoscenza di sé prescritta dalla sapienza delfica. 2. La rimozione razionalistica dell’Amore come principio unitivo è legata indissolubilmente con l’auto-fondazione razionalistica del Logos e l’emancipazione della conoscenza dalle origini sacrali del Mito. La riduzione gnoseologica del sapere alla conoscenza razionale dei nessi tra gli enti oggetti della stessa ragione che li pone, esclude dal campo della fenomenologia spirituale dell’esperienza umana l’intero residuo della resezione logico-concettuale, quel campo del Non-essere che costituisce invece l’orizzonte in-visibile proprio dell’intuizione agapica, mirante al Tutto. La posizione dell’Amore, e cioè di Dio che è Amore, all’inizio e alla fine del processo della conoscenza umana della realtà parte dal Mistero, anziché dall’Essere, facendo di questo, o meglio delle sue determinazioni fenomeniche, dei lacerti di verità, anziché la fondante datità di ogni analisi conoscitiva di tipo metodico-scientifico. Di converso, il privilegio dell’in-visibile Niente esalta la capacità dello spirito umano di intuirne la presenza oltre la trascesa datità fenomenica, indicando nell’interprete, non già lo heideggeriano “custode [filosofico] dell’Essere” ma bensì il metafisico vegliante del Mistero. Il sapere come trascendimento del Sé in considerazione dell’Altro produce quella che Scheler chiama una “inversione di movimento” 662 rispetto alla dinamica prescritta per la conoscenza razionale, dal momento che pone il Mistero non solo come pre-messa ma anche come esito noetico, ossia la conoscenza di Dio, anziché l’illuminazione dell’Essere che ha il Cogito
661
K. Barth, KD, tr. it. cit., pag. 224. M. Scheler, Liebe und Erkenntnis (1915), tr. it., Brescia, 2009, pag. 58. Da ora LuE. 662
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trascendentale come suo centro poietico; un movimento estatico verso la partecipazione, anziché l’esclusione dell’Altro. La precedenza dell’Amore sulla conoscenza razionale consente appunto quella visibilità del Niente, altrimenti inaccessibile alla ragione, rivelando l’essenza riposta del mondo delle cose, che non è ontologica ma assiologica. Ciò fa sì che l’atto del disvelamento dell’Altro non sia un atto formale e impersonale, quale il concetto ha col suo oggetto, ma un evento esistenziale, che richiede la collaborazione dell’amato, che si offra al dono della conoscenza di sé donando se stesso come Mistero da svelare. E’ nella natura della relazione agapica l’in-determinatezza del risultato, che non perviene mai a un compimento oggettivo ma avviene sempre come evento disvelatore e perciò in-finito e personale. Ed è appunto tale soggettivazione della conoscenza agapica a impedirne il tralignamento possessivo, ossia quella metabasi politicistica in “verità di fatto” di cui parlava la Arendt in riferimento alla mondanizzazione della verità filosofica, consentendo nella presupposta libertà di offerta di sé la condizione di libertà biunivoca che il rapporto politico invece non consente, in conseguenza della determinazione esclusiva della sola tesi prevaricante sulla negata antitesi. Rispetto alla dinamica polemica, molto diversa è “la tensione (Spannung) tra le leggi terrene della vita politica e sociale e il grande comandamento” cristiano dell’Amore universale, tra Eros e Agape. Essa, come afferma Scheler, non deve frantumare la nostra unità vitale in due pezzi, in due metà,cosicché noi allo stesso tempo, in quanto corporei, potremmo seguire solo gli istinti del potere e dell’orgoglio, e potremmo abbandonare noi stessi e il nostro stato al dominio di regole meramente terrene della lotta tra gruppi, in quanto anime, invece, dovremmo essere aperti ai beni celesti solo nella fede o nella cosiddetta intenzione […] E’ la falsa via di una errata separazione tra Dio e mondo, tra anima e corpo, tra intenzione e azione, tra fede e opera, tra libertà esteriore politico-sociale e libertà ‘interiore’, e anche scissione tra politica e morale.663 663
M. Scheler, Die christliche Libebesidee un d die gegenwaertige Welt (1917), tr. it. in L’eterno nell’uomo, Milano 2009, pag. 889. Da ora ChL
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Ma questa unità di spirito e mondo doveva presupporre una costituzione della convivenza umana fondata su valori religiosi e non solamente culturali, che trovassero il loro perno “eterno” nel “comandamento dell’amore”. E ciò implicava nel contesto della civiltà europea moderna la questione dell’ “orientamento fondamentale della storia dell’Europa dell’epoca più recente nel suo complesso”, ovvero se “il cristianesimo è ancora il potere spirituale che di fatto guida in Europa, o non lo è”. La risposta negativa di Scheler, ossia che “in Europa l’ethos cristiano non è più il potere spirituale trainante” poiché “a livello intellettuale e formale, questo potere morale non è più la potenza vivente che orienta e conduce la vita pubblica e culturale dell’Europa”, e che gli ideali e le norme cristiane “non dominano più intimamente il nucleo dell’anima dell’Europa [e] non animano né guidano più lo ‘spirito oggettivo’ che prevale nelle opere, nelle forme, nelle istituzioni, nei costumi”, 664 induce a riflettere sulla “genealogia”, e dunque sulla “dottrina dell’origine dell’intera modalità della coscienza morale, che ha preso i comando e il timone in Europa, al posto dell’ethos cristiano”, ossia quello che Scheler indica come “l’ethos dello spirito moderno specificamente borghese e capitalista”, che ha soppiantato “il comandamento cristiano dell’amore e le idee e le norme della comunità umana che ne derivano, dunque l’idea cristiana di comunità”.665 E all’origine del displuvio tra le due prospettive ideali si pone il diverso principio di fondazione della ricerca umana del senso della vita, e quindi della destinazione dell’uomo verso la salvezza oppure verso la conoscenza, dal momento che l’esperienza culturale moderna ha manifestato quel dissidio tra Eros e Agape che il sincretismo metafisico dell’Età di Mezzo aveva cercato di comporre e perciò di occultare alla coscienza cristiana. L’atteggiamento sincretistico del pensiero cristiano, assumendo il dissidio come componibile all’interno di un ordinamento gerarchico dei valori che poneva Dio al fondamento del discorso filosofico, ossia entro l’orizzonte theo-logico, rimuoveva quel processo di liberazione (Losloesung) dalle forme ideali dell’Eros in cui propriamente consisteva la metanoia 664 665
Ivi, pag. 891-893. Ivi, pag. 895.
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cristiana, la quale, riservata alla sola interiorità della coscienza, finiva per trascurare la relazione che la testimonianza umana della fede come actio stabiliva con il tessuto istituzionale e il reticolo valoriale del senso dell’agire pubblico, ossia della sua inevitabile dimensione politica. Se la tendenza del Cristianesimo romano piegò verso la destinazione trascendente delle forme istituzionali erotiche, lasciando intatta la sua efficacia mondana entro la dimensione della loro funzionalità strumentale, la sensibilità protestantica accentuò l’aspetto libertario dell’istanza intimistica del sentimento, reagendo contro ogni rapporto di subalternità istituzionale in ambito coscienziale, ma lasciando perciò il campo delle relazioni pubbliche alla forza e alla logica del Potere secolare, e dunque all’etica dell’Eros. Quello che i due distinti ma convergenti percorsi teologici avevano rivelato è appunto la impercorribilità di una direzione unilaterale, in senso istituzionalistico oppure intimistico, nel processo di liberazione dello spirito convertito, che esige una corrispondenza tra la totalità della sua dedizione a Dio e le forme socialitarie della convivenza collettiva come Corpus Christi. Le forme precipuamente politiche della civilizzazione europea, basate su fondamenta sia culturali che naturalistici, avevano tralasciato l’identità spirituale comune alle nazioni, cioè la fede cristiana, riportando così in auge, con le strutture formali dello Stato moderno, anche la logica che le sottendeva, ossia esattamente quello spirito dell’Eros ostativo al dispiegamento e all’affermazione del principio dell’Agape. La dissoluzione dell’unità politica dell’Europa era parallela alla sua crisi spirituale, di cui gli assetti nazionali degli Stati e le guerre nazionalistiche erano la manifestazione storica evidente e drammatica. In questo contesto storico-spirituale, la Spannung tra la prospettiva erotica (razionalistica) e quella agapica (cristiana) non rifletteva due opzioni strutturalmente equivalenti e circoscritte ad astratti valori di riferimento formali, ma ineriva, soprattutto dopo il fallimento della civiltà europea moderna, alla stessa possibilità di edificare una società totalitaria in senso cristologico e spiritualistico, ovvero in senso ideologico e politicistico. L’esito del processo razionalistico di modernizzazione della società e della cultura europee portò all’annichilimento dello spirito agapico e al trionfo dello spirito erotico, e quindi al totalitarismo politico. L’alternativa a questo esito politicistico non poteva per Scheler essere
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costituita dall’individualismo empiristico e dalla logica del mercato capitalistico, che avevano già trionfato e fallito nella fase propedeutica all’instaurazione dello Stato totalitario sotto forma di economia monopolistica,666 ma da un cambio radicale di paradigma culturale nel senso del modello cristiano, emendato delle sue contaminazioni razionalistiche. Da qui un auspicato ritorno al primato agostiniano dell’amore sulla conoscenza,667 a seguito del quale la liberazione dal dominio culturale dell’Eros doveva coincidere con la rimozione delle sue forme istituzionali, ossia con una rivoluzione spirituale nel senso della salvezza dell’uomo, anziché della sua potenza. Salvare l’uomo, liberarlo dal giogo della potenza erotica e superare la civiltà moderna razionalistico-capitalistica, faceva tutt’uno. Ma per pervenire a questo obiettivo, di conciliare la rivelazione divina con la liberazione dell’uomo, occorreva ripensare la tradizione teologica nel suo rapporto con la sapienza greca, che poneva la conoscenza (e non l’amore) come lo strumento della libertà. Orbene, nonostante la comparsa di Cristo abbia costituito “l’esperienza più rilevante e più gravida di conseguenze vissuta dall’uomo europeo”, e nonostante proprio in seguito a questo evento sia mutata la struttura stessa del modo di fare esperienza del mondo, del prossimo e anzitutto della divinità con una radicalità senza pari nel mondo […], è mancato in maniera quasi incomprensibile uno sviluppo dal punto di vista speculativo e filosofico di questa veramente unica rivoluzione dello spirito umano [, non giungendo mai,] se non per accenni. El tutto insufficienti, ad un’immagine filosofica del mondo e dell’esistenza scaturita in modo originario e spontaneo dalla esperienza cristiana.668
Cioè una nuova teoria della conoscenza propriamente cristiana, a una “filosofia cristiana” tout-court. La conoscenza in senso greco è l’intenzionalità dell’intelletto a conseguire il fine della comprensione del suo oggetto di coscienza. 666
P.A. Sorokin, The Crisis of Our Age, tr. it. cit., pag. 177. M. Scheler, LuE, tr. it. cit., pag. 38. 668 Ivi, pag. 56. 667
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L’intenzionalità intellettiva è il movimento finalistico della coscienza, che ripone il suo senso razionale alla fine del processo conoscitivo, rispetto alla quale la tecnica logico-metodica è strumentale, sicché l’Eros “non precederebbe la conoscenza, ma ne sarebbe piuttosto una dinamica conseguenza, e inoltre in senso teleologico sarebbe solo via, methodos finalizzato ad incrementare la conoscenza”. 669 L’intenzionalità agapica è il movimento inverso, che muove dalla negazione del Sé a partire da Dio come l’Altro, e dunque non pone come fine (tèlos) la comprensione dell’Altro nel Sé, ma viceversa pone all’inizio (arché) la Verità dell’Altro come soggetto sostitutivo del Sé, sia in senso empirico (altruismo) che in senso trascendentale (spiritualismo), sicché ogni amore dell’Altro si realizza come conoscenza di Dio. La realizzazione ontologica legata alla oggettività del concetto. che tanto ha occupato l’intelligenza scolastica per secoli, va sostituita nella coscienza agapica con l’evento escatologico della liberazione mercé la Grazia di Dio dalla necessità di Eros, che è la logica diabolica di Cesare, per giungere sempre in virtù della Grazia divina alla santità. “Tutta la libertà e tutti i possibili meriti dell’uomo si trovano solo tra questi due punti”.670 Caratteristica dell’evento escatologico liberante è la sua in-perfezione, cioè alla sua apertura a nuove esperienze confermative del dono di sé a Dio-l’Altro, che tracciano in un percorso biografico unitario la storia spirituale della persona, la quale resta invece evanescente ed astratta nella conoscenza razionale della fattualità categorialmente determinata dal giudizio che la pone in essere. La storia spirituale della persona, assunta nella sua portata assiologica e non ontologica, non può essere inscritta nell’impersonale processualità collettiva, in quanto il suo senso è soteriologico, e non teleologico come è l’agire in senso razionale, tale che la compiutezza della storia spirituale è nel compimento stesso della personalità, ossia nella sua capacità di liberazione dal processo della necessità che caratterizza e muove le dinamiche dell’agire impersonale collettivo secondo l’Eros: in altri termini, nella capacità della persona di trascendere la sua finitezza esistenziale, rimuovendo la pubblica dialettica orizzontale dei rapporti politici con l’intimo dialogo verticale con Dio 669 670
M. Scheler, LuE, tr. it. cit., pag. 47. Ivi, pag. 59.
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(). La finitezza dell’uomo è appunto la de-finizione del suo Essere come oggetto del pensiero, come de-terminazione razionalmente distinta dalla sua storia spirituale. L’uomo finito è l’uomo dimensionato alla conoscenza particolare delle discipline scientifiche, che assumono la parte (il loro oggetto) come il tutto (come l’Essere), parcellizzando l’esperienza dell’uomo nella molteplicità dei suoi atti isolati e posti in una impersonale e astratta relazione causale priva di senso totale, metodologicamente rimosso come insignificante. E pertanto liberarsi dalla necessità dei processi mondani significa anzitutto liberarsi dai paradigmi della conoscenza ontologica della gnosi razionalistica, a partire dalla tendenza a vedere nell’amor intellectualis il conseguimento di una conoscenza accrescitiva dell’essere dell’oggetto in progressione alla sua comprensione. Il carattere in-finito della relazione agapica, poggiando sulla sua infinita perfettibilità indipendente dalla conoscenza, lascia invece intatta la condizione ontica del suo referente, il quale pertanto non altera il suo status ontologico in relazione al livello di introspezione intellettuale, restando sino alla fine così com’è all’inizio.671 Ciò sposta il criterio di perfezione dalla soggettività dell’atto conoscente alla compiutezza creaturale del destinatario del dono agapico, rendendo assente ogni intenzionalità performativa tesa a manu mittere l’esperienza vivente dell’Altro, fagocitandola nel proprio orizzonte di senso ego-istico. L’atto della conoscenza, conseguito il suo fine, decade a materia di altra conoscenza, a contenuto di altra forma, laddove l’atto d’amore eleva l’Altro dalla condizionatezza della sua esistenza, trascendendo la sua finitezza, per cui solo l’amare è un creare poietico, mentre il pensare è solo un ri-produrre materialmente la stessa forma ideale, ossia “conservazione della forma nel divenire della materia” tesa a sancire “una vittoria dell’impulso dell’eros, assetato d’essere e di durata”.672 Ciò che, sul piano teoretico, è la partecipazione della materia all’essenza, sul piano pratico è la con-labor-azione del singolo all’edificazione della comunità politica, la polis, alla sua realtà etica. In luogo della conoscenza, come reminiscenza () di ciò che da sempre è nell’iperuraneo, abbiamo la strutturazione razionale della stabilità dell’ordine politico, lo 671 672
M. Scheler, LuE, tr. it. cit., pagg. 48-49. Ivi, pagg. 50-51.
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Stato.Da luogo della libertà a istituzione di potere, lo Stato moderno doveva mutare anche la sua ispirazione etica. La sostituzione dell’ethos cristiano dell’economia – [un ethos] della soddisfazione dei bisogni, organizzata in modo solidale, di tutti i soggetti sociali economici, alla luce dei principi supremi della dottrina cristiana – con l’ethos dell’economia borghese capitalista, della produzione senza limiti e della lotta al guadagno altrettanto illimitata – sia dell’individuo di uno Stato o di un impero -, forze che non sono controllate da nulla, ma si sviluppano senza alcun vincolo nella libera concorrenza, unicamente entro i confini del punto di vista di ciò che è opportuno per lo Stato.673 La svolta avviene con i vari rinascimenti umanistici europei e soprattutto nel periodo illuministico, quando “tutti questi grandi movimenti si adoperano per la costruzione di un ethos che isola l’uomo e l’umanità da Dio, anzi, di frequente mette l’uomo contro Dio”, contravvenendo così al primo comandamento cristiano, che impone di amare Dio sopra ogni cosa.674 Rescindendo l’uomo da Dio lo si allontana di conseguenza anche dalla considerazione del prossimo, eliminando ogni limite al potere erotico e all’amore di sé che anima ogni forma di potere. Tommaso aveva chiamato la volontà ispirata da Eros “vis appetitiva”, distinguendola dalla conoscitiva “vis intellectiva”. Come giustamente nota Scheler, nel sistema tomista “all’amore spetta solo un ruolo del tutto di second’ordine […], dove sia lo spirito umano che quello divino vengono completamente scissi in intelletto e potere della volontà (due parti che trovano espressione dal punto di vista sociologico nell’ordine sacerdotale e nell’autorità temporale)”.675 In realtà, la dicotomia è puramente intellettualistica, non potendosi più discernere, a seguito della rimozione razionalistica dell’originario rapporto d’amore con Dio, l’atto volitivo dal trascendente atto intenzionale, per cui ogni azione umana limitata al campo immanente manifesta la sola volontà umana, sia quella sensitivamente appetitiva che quella razionalmente orientata. A seguito di questa lettura ontologica, non è più l’amore di Dio che graziosamente dispiegato si riverbera liberamente nelle creature come “reazione di 673
M. Scheler, ChL, tr. it. cit., pag. 897. Ivi, pag. 899. 675 M. Scheler, LuE, tr. it. cit., pagg. 67 e 68. 674
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risposta all’amore creatore che le ha poste in essere”, 676 ma è l’universale concatenamento funzionale degli enti nell’ordinamento gerarchico voluto da Dio a fungere da collante cosmico, in cui, sul presupposto del primato greco del conoscere sull’amare, è la legge del dovere morale a prescrivere l’amore. 677 All’interno della competizione tra le distinte volontà tendenti entrambe all’affermazione del Sé erotico si dispiega il conflitto storico tra papato e Impero, tra poter sacro e profano, così come il primato della volontà, in cui il volo realizza il contenuto del cogito, genera la sequela di teorie razionalistiche che da Scoto fino a Cartesio costellano il pensiero della Cristianità, preparando la “forma concettuale” allo “sfrenato spirito del lavoro della borghesia moderna”.678 Soltanto la posizione agostiniana del primato dell’amore sulla conoscenza fa di questa uno strumento mosso dall’amore, il quale, mediato a sua volta dalla conoscenza, muove la volontà. 679 E dunque solo con la teologia di Agostino “viene per la prima volta enunciata in modo puro l’idea relativa alla natura creatrice dell’amore, senza che ciò che di volta in volta v’è di nuovo nella creazione venga ridotto in senso platonico-romantico a mero ritorno di qualcosa che permane, a semplice conservazione di forma e figura”. 680 Le ricadute del principio del primato agostiniano dell’amore divino sulla conoscenza umana si riflettono sulla stessa concezione della libertà nell’economia della salvezza, in quanto la gratuita offerta divina della Grazia redentrice si riscontra elettivamente nella libera risposta dell’uomo di fede all’appello di Dio, lasciando gli altri uomini “abbandonati al verdetto di una legge che, a causa della caduta e del peccato originale, condanna tutti a pene eterne”: la legge naturale della necessità universale, alla quale, sul modello greco dell’, si conforma l’universalità di ogni categoria razionalistica, inclusa l’idea della Giustizia, che abbraccia 676
Ivi, pag. 68. Ivi, pag. 70. Sulla “completa falsità” del carattere imperativo dell’etica religiosa, ved. di Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik (19131916), tr. it., Milano 2013, pagg. 417 sgg. 678 M. Scheler, LuE, tr. it. cit., pag. 72. 679 Ivi, pag. 73. 680 Ivi, pag. 74. 677
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incondizionatamente tutti gli uomini. 681 Inoltre, si riflettono anche nel senso dell’ orientamento dell’agire umano quale “fonte originaria a cui attinge la nostra coscienza del mondo”,682 la quale, ponendo l’amore a fondamento della conoscenza e dell’azione, costituisce un movente alternativo alla volontà di potenza che spinge la relazione politica direzionata dal dialogo erotico-polemico; movente coltivato nella sfera morale, che antecede perciò anche in senso pedagogico oltre che gnoseologico la sfera intellettuale, posta dal razionalismo come quella antonomastica della libertà. Stabilire infatti un rapporto tra l’intensità di amore e la capacità di intuizione della realtà, implica una modalità di cura di sé relazionata all’accrescimento delle facoltà altruistiche e socialmente solidali, anziché alla ricerca esclusiva della diversità dell’Altro quale potenziale concorrente lupesco nel dominio del mondo. Anzi, la posizione dell’Altro verrebbe responsabilizzata in relazione al dono d’amore offerto liberamente dall’amante, nel senso della sua stessa libertà di ricambiarlo ai fini della reciproca armonica convivenza. In questo senso Scheler, commentando il senso ontico-metafisico della dottrina di Agostino, estende l’idea di “rivelazione” divina dalla sfera religiosa all’interno ambito “naturale”, secondando una tendenza tipicamente francescana di concepire l’amore di Dio, ripresa da Malebranche e dai logici di PortRoyal e soprattutto da Pascal. 683 Ma qual è il senso metafisico della Rivelazione divina? Sicuramente la possibilità umana di trascendere la necessità naturale, affermando la libertà dell’uomo di auto-determinarsi, di decidere. Il senso esistenziale di tale rivelazione è pertanto l’affermazione del libero arbitrio come condizione di vita personale e sociale. L’ulteriore e più decisiva interrogazione riguarda il senso di questa libertà dell’uomo. infatti una libertà indirizzata alla costituzione politica della socialità rischia di contraddire i suoi presupposti, trasformandosi in quella 681
Ibidem. Ivi, pag. 77. 683 “Non solo ogni atto soggettivo di comprensione e la scelta dei contenuti del mondo che giungono alla conoscenza sotto forma di sensazioni, rappresentazioni, ricordi e concetti, hanno il loro fondamento negli orientamenti dell’amore e dell’interesse, ma le stesse cose conosciute acquistano il loro pieno essere e il loro pieno valore solamente rivelandosi”: Ivi, pag. 79. 682
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catena costrittiva rappresentata dal diritto del Potere a esercitare la forza utile a contenerla. Se pertanto la libertà conduce al potere della forza, porta alla sua negazione, apparendo inutile e anzi dannosa. Come abbiamo rilevato supra, negare la libertà dell’uomo, da parte del Potere, equivale a privarla del suo carattere personale, ossia intenzionale, assumendola come esclusiva espressione della sua volontà oggettiva, ossia impersonale e razionale, e in quanto tale rappresentabile e prevedibile. Ma in che modo ciò avviene? Nel modo tipico all’essenza umana, intervenendo cioè nella struttura del linguaggio. La caratteristica verbale dello zoòn politikòn è la stessa della sua libertà, quale principio della sua stessa costituzione ontologica e divina. Non a caso in principio stat Verbum. Il Verbo è “principio” sia in senso di che in senso di . Non c’è volontà che non sia espressa in un linguaggio, ma soltanto il linguaggio verbale esprime il Logos come volontà comune, astratta dalla sua individualità, cioè dalla sua intenzionalità, che è il principio stesso della sua libertà. La lotta contro le rappresentazioni mitiche e le opinioni soggettive condotta dalla filosofia esprime l’esigenza di negare la libertà del informale, il caos delle intenzioni misteriose e imprevedibili, da riportare all’ordine del sistema razionale uni-versale: alla legge di necessità. L’ordine politico è la conseguenza dell’ordine strutturale del linguaggio normativamente conformato al principio di necessità, che politicamente è il Potere di sopprimere la libertà individuale, di negare l’intenzione personale per poter “padroneggiare l’evento aleatorio” attraverso preordinate “procedure d’esclusione”.684 In che senso all’inizio sta il Verbo? Il Verbo di Dio è l’Amore di Dio. Il Verbo è Amore. E Amore è libertà. Nel senso che la parola, o meglio il parlare, non è legato a nessuna legge di necessità. La stessa struttura sintattica non può contenere la libertà espressiva del parlare. Parlare equivale a esprimere libertà. La libertà è dunque la spontanea espressione del parlare. L’amore è nella libera espressione della parola, il parlare non legato a necessità. Filosofare è di contro introdurre la necessità nel parlare: logicizzare. La logica del dscorso è la stessa logica del Potere.
684
[177. M. Foucault, L’ordre du discours (1970), tr. it., Torino, 1972, pag. 9.
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La lotta filosofico al Mito divino acquista valore di emancipazione da ogni limite meta-politico, tale che esso vada rinvenuto all’interno dell’ “ordine del discorso”, come principio, non più sacro ma di ragione, ideale. Esso coincide con la universalità del concetto, inteso come valore etico-politico, ideo-logia. La libertà dei moderni, per costituirsi come assoluta da ogni limitazione religiosa, ha perduto il suo fine trascendente indicato dalla teologia politica cattolica, diventando diritto universale. La caratteristica della legislazione universale, propria dello Stato di diritto, è di potersi intendere sia come esercizio riconosciuto delle libertà di ogni cittadino di esprimere la propria volontà, sia come sudditanza universale al Potere egemone sovrastante. Nel primo caso, le libertà personali impediscono l’esercizio delle funzioni proprie al Governo morale, la cui funzione derimente presuppone il comune riconoscimento di una autorità superiore di natura extra-politica negata per principio dalla ragione politica. Nel secondo caso, l’imposizione di una volontà superiore da parte del Potere assoluto superiorem non reconoscentem si esercita con una efficacia che annulla relativamente, con la libertà politica di chi ne è soggetto, la stessa libertà di chi l’esercita, stabilendo la tipica condizione tirannica in cui essendo uno solo libero, non lo era in realtà nessuno. Per superare questa aporia, l’idea moderna di Potere ha progressivamente eliminato la funzione del Governo, assorbendola nella propria di esercizio della forza legittimata dal principio maggioritario, espressivo appunto della forza dominante. Il potere politico che si legittima attraverso lo strumento di cui si serve per esercitare le sue funzioni, è l’anaogon pratico della teologia che giustifica i suoi fondamenti teocratici attraverso lo strumento della ragione, con l’esito, rispettivamente, del dominio della forza in ambito politico, suppostamente libertario, e del dominio della filosofia razionalista nell’ambito teologico, suppostamente luogo della liberazione agapica dalla necessità naturalistica. Tornando al dominio del Logos in ambito politico, esso costituisce, in entrambi i casi esaminati, un diritto universale ma inconcludente, in quanto non può esercitare una funzione di Governo. Il totalitarismo ideologico è il risvolto fenomenologico dell’anarchia demo-cratica, ognuno dei quali richiama l’altro a seguito della instabilità insuperabile di una libertà (politica) senza il limite di autorità (morale). Lo stadio verbale
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proprio della democrazia anarchica è il dominio della chiacchiera, precipitato semantico di una libertà inconcludente che, non avendo limite alla sua libertà espressiva, non giunge mai a definizione, cioè a politica decisione, rimanendo sempre sospesa alla mutevole opinione. Propria dell’opinione è la sua indeterminazione; e ciò che non ha fine non ha neanche principio. La libertà politica, senza una previa determinazione teleologica di ordine morale, affidandosi alla sola statuizione contingente della forza, può dare origine soltanto a un “ordine pigro”, incompiuto, senza fini trascendenti la sua forma economico-giuridica, propria di una “società liquida”, priva di orientanti limiti morali alla libertà, ossia di autorità. In tal senso, la libertà che si voglia “politica” tout-court non può dar vita a una comunità stabilmente organizzata che sia essa stessa garante della libertà, poiché l’esercizio della libertà politica è manifestazione della volontà di potenza, ossia esercizio di potere, il quale, per essere omologo alle libertà altrui e non arbitrariamente soperchiante, necessita di essere regolato e limitato, ma non da altro potere concorrente alla sua volontà di dominio, ma da una autorità superiore, riconosciuta da ogni potere particolare ma che non necessità del riconoscimento di ognuno per sussistere come verità comune, e perciò trascendente il Potere. trascendere il Potere è andare oltre il suo esercizio, ossia la sua forza contingente e nello stesso tempo, finché vigente, necessaria; e andare oltre il tempo del Potere è stare all’inizio, quale fonte archetipa di ogni concreta determinazione storica della libertà. Tale arché è, per la costituzione politica, il Mito fondativo delle città, solitamente guerriero, che ha la forza come principio di azione virtuosa. Il Mito cristiano, invece, nn pone all’inizio una vittoria fatale, ma l’amore creatore di Dio, rivoltando la logica polemica delle rappresentazioni classiche della storia politica dei popoli pagani. All’origine del cammino spirituale dell’uomo cristiano non c’è la vittoria dell’eroe, ma al contrario la supremazia dell’anti-eroe: di Adamo e di Caino, che inaugurano il percorso redentivo cui è chiamata l’umanità coinvolta dal loro peccato originale. La città cristiana tende alla Grazia di Dio in quanto riconosce il limite insuperabile dall’uomo della sua peccaminosa finitezza ontologica, dalla quale non si emenda costruendo la comunità politica, ma riconoscendone l’integrazione nell’infinitezza di Dio, nell’indiarsi
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dell’uomo nel Suo amore. Ecco dunque il senso metafisico ed esistenziale delle due Città agostiniane. Il “ponte” ricercato dalla filosofia e dall’intiera cultura greca “tra cielo e terra” è la conseguenza della astratta distinzione razionalistica tra una materia informe e una forma ideale irrelate, alla continua ricerca di una mediazione metafisica ed empirica che le unisca annullando la distanza, che però resta incolmabile fino al Cristianesimo. Infatti l’unità, perché sia trovata dal pensiero, deve presupporsi originaria. Ma il senso dell’anamnesi platonica dell’origine unitaria dell’Essere non elimina la dicotomia tra presenza e assenza sulla quale si basa l’intero costrutto ontologico della conoscenza razionale. Questa infatti considera rilevante la sola presenza ontica, la realtà fenomenica, per poi negarla teoreticamente come realtà particolare all’atto della astrazione universalizzante del concetto, il quale ne prescinde statutariamente. Astrarre dalla particolarità significa però rimuovere, col movimento della vita in divenire, anche il proprio della materia, la sua tensione a conseguire la compiutezza, che è assente dalla condizione presente ma che pure è intrinseca alla sua realtà totale. Distinguere, nel caso del’esperienza umana, tra il presente e il fine dell’agire è una operazione intellettualistica che non consente di conoscere l’intero processo della storia dell’uomo, ma che si limita a controllarne lo sviluppo, come se fosse il pensiero a predeterminarlo, e non già lo spirito morale che anima la materia corporale. Al Potere politico, concentrato sul controllo dei corpi che agiscono, sfugge il Grande Assente che li anima, quella libertà che li rende misteriosa e problematica la vicende umana. La Rivelazione della libertà implica pertanto il problema della unità dell’uomo, tanto in relazione alla sua conoscenza (altra da quella razionale) quanto alla modalità di convivenza socialitaria (altra da quella politica). L’idea greca di poter creare la libertà attraverso il dialogo riponeva nel fenomeno politico il luogo antonomastico, insieme all’accademia, di disvelamento e socializzazione della libertà, e della polis il topos della sua fenomenologia. La condizione di isonomia, da cui deriva la moderna definizione della cittadinanza come categoria politica universale e promiscua, presuppone l’universalità del concetto razionale. Infatti, caratteristica della cittadinanza è la potenziale inclusione e partecipazione orizzontale ai diritti riconosciuti ope legis dal Potere costituito, che si
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esercita appunto attraverso tale attribuzioni formali. La dialettica del Potere moderno consiste nel decretare libertà che, per un verso attestano la sua possibilità di dominio, e per l’altro lo limitano attraverso l’espansione delle istanze sociali anelanti al riconoscimento. Più il Potere esercita le sue facoltà di riconoscimento delle istanze politiche provenienti dalla società, e più la forza del suo riconoscimento si determina come una sua potenziale limitazione. E ciò per il semplice ma essenziale motivo che la libertà politica (astratta dalla sua personale e misteriosa intenzione individuale) non può essere limitata dalle altra libertà se non sul piano dello scontro, cioè sul piano polemico, mentre la autentica limitazione della libertà può provenire solo dalla coscienza interiore, ossia da un principio morale superiore, in sé oggettivo e perfetto e non suscettivo di essere alterato dalla volontà umana né di manifestarsi in termini polemici per affermarsi. La libertà non delimitata da ciò che la include in una verità riconosciuta non può limitarsi da sé, ma solo scontrarsi con altre libertà, con cui pervenire a un accordo temporaneo ma giammai risolutivo nel senso della sua vera limitazione, consistente nel riconoscimento delle ragioni dell’Altro. Ciò che include la libertà di ognuno non è altra libertà, ma la libertà dell’Altro, e dunque non la legge, che è volontà del più forte, e come tale modificabile e transeunte, relativa alla situazione contestuale alla sua vigenza, ma è una autorità che la trascende, ossia che sta oltre il suo esercizio sociale, esercizio di volontà di potenza, mentre la libertà che si oppone ad altra libertà in realtà non la limita ma solamente la contrasta. Il pactum societatis è stato concepito appunto come un equilibrio di libertà, un contrasto di libertà in equilibrio di forze. Ed è tale equilibrio precario a definirsi “pace”, ma in realtà è solo una tregua. Perché ci sia vera pace nella libertà occorre che ogni possibile manifestazione di volontà sia limitata entro l’alveo della sua legittimità, fuori del quale essa diventa arbitraria. La legittimità, a sua volta, non deriva da una libertà più forte, leviathanica, ma da una autorità che sancisca ciò che può essere accolto di ogni volontà, compresa quella di più forte, del Potere, ossia il suo fine comune. E’ il fine della libertà ciò che la riconosce come legittima ovvero la sanzione come illegittima, e il fine è il principio stesso della libertà, l’arché e il télos, la sua “ragione”.
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La ragione della libertà dell’uomo non è la sua volontà, ossia il suo potere,ma il fine trascendente che fa dell’uomo un essere spirituale e morale. La società che faccia della libertà i fine stesso della libertà, è priva del principio direttivo e dunque di limiti all’esercizio della volontà, una società conflittuale. Estendere a tutti i cittadini la libertà politica come diritto formale, non significa fare di ognuno un uomo libero, dal momento che la libertà consiste nella possibilità di finalizzare la volontà alla sua intenzione morale. Infatti il senso finale non può essere concesso, creato dall’uomo, ma solo negato, perché originario alla coscienza umana. Rimosso tale fine morale dell’uomo dall’esercizio legittimo della sua libertà, questa si riduce a mera volontà di potenza. Ed è proprio questa volontà a essere oggetto della convenzione democratica moderna, del patto sociale costituente lo Stato di diritto. Ma nessuna convenzione può trasformare la volontà in atto morale, poiché la moralità di un atto di libertà è esterna alla sua volontà, la precede come principio e la trascende come il suo fine. Senza fine morale, cioè senza fondamento di libertà, questa si risolve in un mero esercizio polemico, in tecnica retorica, in sofistica. Lo attesta il fatto stesso che il patto societario non abbia valore fuori della cerchia dei consociati. Una tregua convenzionale che non vale a derimere conflitti tra Stati. La potenza polemica della volontà degli Stati non a caso si manifesta nella loro politica estera, dove vale il principio della forza allo stato puro. Se infatti il consorzio sociale viene stabilito per preservare i componenti dal rischio della vita, l’agire politico degli Stati mette costantemente in gioco la vita dei consociati attraverso la guerra. “Tale contraddizione si esprime nel modo più concreto nel fatto che da sempre il politico ha avuto il privilegio di esigere dagli uomini che vi avevano parte, in determinate circostanze, il sacrificio della vita”. 685 Non è il sacrificio della vita la contraddizione, ma la circostanza che a richiederlo sia un’altra volontà, che rispetto a quella sacrificata si pone come fine, ma che in realtà è solo una volontà più forte. Se fosse infatti i fine della libertà, non la sacrificherebbe ma la realizzerebbe, facendo del sacrificio l’estrema misura della propria libera scelta, quale fu quella di Gesù. L’unità che il Potere chiede ai cittadini è nella forza, mentre l’unità della fede è nella Verità, che suppone la libera adesione. In tal senso la 685
H. Arendt, WiP, pag. 55.
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Verità rende liberi, come mai potrebbe il Potere. Ma cos’è la Verità se non la Unità totale vanamente ricercata dal pensiero razionalista esclusivo? Cioè la possibilità della libertà di ognuno di manifestarsi nella pienezza della singolare intenzione della volontà riconosciuta come finalizzata alla libertà comune, ossia all’Amore in Dio, l’univa vera realtà, in relazione alla quale hanno significato le vicende particolare dei singoli uomini e delle singole vicende. In tal senso Solov’ev parla di “unitotalità” come “la piena libertà delle parti costitutive nella perfetta unità dell’intero”. 686 La theosis cui è chiamato l’uomo per realizzare la propria essenziale natura e libertà si compie quando, in primo luogo, gli elementi particolari non si escludono a vicenda ma al contrario si pongono reciprocamente l’uno nell’altro e sono reciprocamente solidali tra di loro; quando, in secondo luogo, non escludono l’intero ma fondano il proprio essere particolare su un’unica base universale comune; quando, in terzo luogo, questo fondamento unitotale o principio assoluto non schiaccia e fagocita gli elementi particolari ma invece, palesandosi in essi, concede loro ampio spazio i se stesso, allora abbiamo l’essere ideale o degno, ciò che deve essere.687
La mediazione del Cristo non è un “ponte” formale, ma una concreta incarnazione esistenziale situata nel tempo, e dunque singolare e paradigmatica insieme, segnando “la vittoria sulla divisione e l’affermazione della persona nella sua integralità”. 688 Il Verbum caro factum est supera la dicotomia tra ideale e reale, tra particolare e universale e singolare per proporsi come modello di vita totale, coinvolgente il sentire interiore quanto l’agire pubblico, ossia la “contraddizione tra libertà e vita”. 689 686
Vl. S. Solov’ev, La bellezza della natura, cit. da A. Dell’Asta, Introduzione a Id., Il significato dell’amore, Milano, 2013, pag. 41. Da ora SA. 687 Vl. S. Solov’ev, Il significato universale dell’arte, cit. da A. Dell’Asta, Introduzione a SA cit., pag. 40. 688 Ivi, pag. 50. 689 H. Arendt, WiP, pag. 55.
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La contraddizione notata dalla Arendt interessa un’idea di vita in senso naturalistico ed economico, non un’esistenza morale. Solo nella prospettiva biologica la vita e la libertà possono coincidere come sinonimi di vitalità di genere o di specie, mentre nella dimensione spirituale la libertà di dispiega a partire dalla sua trascendenza dalla vita bio-economica, dedita alla mera sopravvivenza e alla necessità, oggetto della bio-politica. Trascendere la vita significa assegnarle un fine che non è immanente alla vita stessa. Il fine immanente è il rapporto dialogicopolitico, che assume la libertà come semplice esercizio delle facoltà volitive e retoriche; trascendente, invece, è il fine che a partire dalla libertà politica se ne fa principio morale, destinazione e limite alla volontà e alla possibilità. Il limite indotto dalla costrizione istituzionale è quello etico della comunità politica, prescrittiva dell’ortoprassi sociale; il limite dettato dalla coscienza morale personale è proprio del Governo carismatico, la cui autorità non fa appello alla forza e alla costrizione eteronoma, ma alla convinzione autonoma, alla fede insomma nella Verità che stabilisce l’intenzione. La libertà destinata alla vita morale, spiritualmente ispirata, non si chiama “pace”, cioè tregua politica, ma salvezza, ossia liberazione dalle necessità della vita economico-materiale. Questo ci fa meglio comprendere come la libertà degli antichi, partendo proprio dalla emancipazione dalle necessità dell’oiks, non poteva esaurirsi in se stessa, cioè nella fruizione economica del suo bene esistenziale. Ciò che rappresentava la comunità dialogica era il luogo simbolico della ricerca e del perseguimento del fine comune trascendente, che Platone chiamò Bene o Ideale. l’espansione orizzontale della libertà, priva però della ricerca di quel Bene ideale, ha esattamente esaurito il problema della libertà umana nei termini della sua fruizione economica, lasciando nella indeterminatezza la questione del fine trascendente, e così concependo la dinamica storica come processo polemico teso ad affermare la condizione di libertà in se stessa, senza il télos. La Storia, intesa come processo della libertà, non può che essere quella economicopolitica, il cui fine immanente è la pace, cioè l’equilibrio delle forze sociali, la tregua tra due conflitti, assunta come scopo etico, ossia come una idolatria opposta e simmetrica all’etica eroica della libertà guerriera, in virtù della quale era possibile pervenire alla pace. Infatti, “nelle circostanze prevalenti in Europa sin dall’epoca romana, la guerra di fatto
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non era altro che un proseguimento della politica con altri mezzi”. 690 Si chiamava “pace” la tregua interna e “guerra” la politica estera, ma erano facce di una stessa medaglia ideologica. Non a caso, essa ha lasciato in retaggio l’idea della politica come “controllo degli armamenti” e “Stato di benessere”. Era inevitabile che “lo spazio politico-pubblico fosse divenuto un luogo di violenza”,691 poiché ciò era già all’origine di una concezione della politeia come mero esercizio delle virtù retoriche. La dialettica è la tecnica verbale della polemica politica, le cui dinamiche esclusive dell’Altro-nemico implicano la contraddizione, ossia l’affermazione che nega la libertà-volontà ritenuta incompatibile col principio comunitario, ostacolando la stessa pacifica convivenza. Significa che il principio comune fondativo della comunità dialogica, in quanto unitivo e inclusivo di ogni opposizione politica, non può essere di natura politica, ma pre- e meta-politica, limitativo in senso trascendente delle singole volontà-libertà. Tale è il principio del Governo morale. Il Limite che il Governo morale deve affermare come insuperabile, e dunque trascendente ogni Potere umano, riguarda l’invalidamento della possibilità che la libertà dell’uomo possa essere determinata in senso universale al fine di accreditarsi come analoga o superiore alle leggi naturali stabilite da Dio per ordinare il cosmo, per sovvertirne l’ordine oggettivo con l’intento di migliorarle o piegarle alla volontà. Il senso profondo della hybris, della sua inaccettabilità, è nella presunzione assurda di voler negare la molteplicità, ossia la differenza, per affermare l’unità, ossia l’uguaglianza. Ciò che invece si proponeva il concetto razionale: conseguire l’unità dalla molteplicità, l’astratta omologia invece della differenza concreta. Nello stesso senso, ogni Potere umano che stabilisse che una volontà fosse per statuto razionale valida per tutti e in tutte le situazioni, violerebbe l’ordine morale fondato sul riconoscimento della differenza esistenziale di ogni umana singolarità spirituale rispetto a ogni altra e dell’umanità rispetto a ogni altra specie vivente. Il riconoscimento della natura spirituale dell’uomo rivela l’inadeguatezza di ogni sua considerazione naturalistica in termini di specie bio-logica, ossia di quella 690 691
H. Arendt, WiP, pag. 56. Ivi, pag. 57.
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tipologia universale che è alla base della concezione universalistica greca dell’uomo, la quale era priva della coscienza della differenza tra l’essenza in-finita di Dio e la condizione finita dell’uomo, concependo la divinità come una Idea, ossia come il modello astratto e perfetto dell’ente empirico. La svolta naturalistica impressa da Aristotele all’idealismo platonico esautora del tutto la differenza tra la sapienza divina, ispiratrice di Eros, la sophia, e l’approssimazione umana ad essa, la filo-sophia, facendo della conoscenza scientifica della natura come dell’uomo il sapere assoluto, libero cioè di ogni esterna determinazione, soggetta solo a quella del suo metodo. E la conoscenza come metodica universale è appunto il sapere razionale assoluto, proprio della scienza moderna, che si è infine emancipata anche della teleologia aristotelica interna alla natura. La volontà umana, per quanto razionalmente giustificata, non potrebbe mai sovvertire l’ordinamento cosmico senza violare il Limite naturale legato alla stessa natura umana, dell’uomo cioè come essere naturale inscritto nell’ordine cosmico comune, come ammoniva il Coro dell’Antigone di Sofocle. Ma il limite indicato dallo stigma della hybris dell’uomo che “capisce, inventa, ha / sulle arti dominio / oltre l’attesa, e ora / al bene, ora / al male serpeggiando / volge”, ineriva alla inanità della potenza umana rispetto a quella cosmica: era una questione di relazioni di forze, come in ogni tensione polemica. La coscienza antica era sostenuta dalla convinzione che “la vita dell’uomo oscillasse tra ciò che perdura e ciò che muta: ciò che perdura era la Natura e ciò che muta le sue opere”, di cui “la più grande era la città”. Infatti, “l’invulnerabilità del tutto, che le molestie dell’uomo possono solo scalfire, cioè il carattere fondamentalmente immutabile della Natura in quanto ordine cosmico, era in verità lo sfondo di tutte le imprese dell’uomo mortale, comprese le sue intromissioni in quello stesso ordine”, 692 per cui era ignota l’ipotesi della libertà umana come innesto originale di una vicenda personale nella struttura cosmica, restando implicito che ogni intervento umano era tanto più accorto quanto più conforme alla processualità eterna. Nel cosmo naturalistico tutto era già stabilito all’origine, e le stesse fughe audaci del coraggio eversivo dell’eroe era inevitabile rientrassero nelle leggi di 692
H. Jonas, Technology and Responsability (1972), tr. it. in Id., Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Bologna 1991, pag. 45.
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compensazione dell’economia entropica del tutto. “Le città sorgono e cadono, le dominazioni vanno e vengono, le famiglie prosperano e declinano: nessun mutamento è durevole e, alla fine, poiché tutte le temporanee deviazioni si bilanciano, la condizione dell’uomo rimane quella che è sempre stata. E così, persino nel suo stesso artefatto, il controllo dell’uomo è limitato e prevale la sua natura durevole”. 693 Ogni rappresentazione del mondo siffattamente concepito tende ad avere del sapere un’idea di potere, come capacità tecnologica di soverchiare l’antagonismo naturale delle volontà antitetiche, al fine di pervenire a un ordine stabilito sul dominio del più forte, come teorizzato da Hobbes e praticato già dai Romani, i quali consideravano sacro l’atto di fondazione delle città, in quanto inizio di una vicenda collettiva da perseguire a opera delle future generazioni, e dunque costitutiva di memoria identitaria. Da qui il senso della distinzione tra la conduzione politica presente, legata a rapporti di forza contingenti, e la continuità e perpetuità della memoria dell’evento fondativo originario, l’augere le fondamenta della città.694 E tanta maggiore era l’auctoritas dei maiores sulla potestas del Potere contingente, quanto più era vetusta, poiché la durata era il maggior criterio di legittimazione della qualità in un mondo destinato a perire, e pertanto dominato da Necessità. Un mondo costruito per resistere alla Necessità del suo divenire altro, era una lotta impari, pur se degna, contro la Natura. E dalla consapevolezza di tale paradosso nasceva la frustrazione di ogni eroe, il quale doveva cercare un surrogato della memoria epica nella realtà politica. In ultima analisi, era la Natura il grande nemico della politica, l’avversario da combattere, che spingeva ogni opera umana verso l’abisso dell’oblio, dal quale Tucidide voleva riscattare gli eroi della guerra del Peloponneso. Ma la lotta era comunque impari, dal momento che l’opera umana era sempre particolare rispetto all’unità totale della Natura, per cui all’uomo non restava che affrontarla sul piano ideale, dove era forse possibile conseguir quella visione d’insieme che l’azione pratica non permetteva. La tensione teoretica verso l’Unità divenne la consegna filosofica del pensiero del sapiente, chiamato a rifare il mondo attraverso la parola. Nella 693 694
Ibidem. H. Arendt, Past and Future, tr. it. cit, pag. 167.
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rappresentazione storica, ossia nella memoria narrata degli avvenimenti passati, c’è posto anche per i nemici politici, come già nella pietas dei racconti omerici, ma manca una prospettiva onnicomprensiva alla luce della quale poter considerare il Tutto. Il Logos di Tucidide era il rapporto tra gi eventi, il legame sotterraneo che ne determinava il nesso, e non già l’occhio divino che scrutava le mosse degli uomini. Non a caso il cristiano Dante assegnava il suo posto infernale al superbo pagano Capaneo che, ebbro della sua superbia, aveva “Dio in disdegno” come a suo tempo aveva osato sfidare l’ira degli dèi e persino la clemenza di Zeus, che infine lo incenerì disgustato dalle sue folli invettive. 695 Ogni rappresentazione del mondo che voglia determinarsi come oggettiva solo in quanto prodotto della volontà razionale dell’uomo, ignorando deliberatamente o per insipienza il Mistero che è all’origine della differenza ontologica tra l’Unità che tutto comprende, e la Molteplicità empirica delle sue manifestazioni reali, nessuna delle quali vera in sé ma ognuna vera nel tutto; ogni simile rappresentazione, manca di verità, perché la ricerca della collazione delle res gesta, anziché nel campo spirituale, l’unico ambito in cui si possa conseguire. Non è questione di memoria storica, ma di eternità, ossia di ordine divino e non umanopolitico. La verità e oggettività dell’ordine divino deriva dalla consapevolezza dello stesso Mistero che l’avvolge e che appare come il suo stesso principio (arché) allorquando il sapere umano s’infrange contro il proprio limite della sua possibilità di comprensione di ciò che trascende la realtà attuale dei fenomeni, perché la presente determinazione non involge l’inattualità della loro origine e della loro destinazione, se non come considerazione puramente formale, che dietro la sua “oggettività” cela l’impossibilità di superare la parzialità dei punti di vista, ossia l’inconseguibilità nell’ambito dell’immanenza o “scienza di realtà”, della visione totale, la quale rimane irrappresentabile e pertanto misteriosa per la coscienza umana.696 La coscienza di tale Mistero costituisce il 695
Dante, Inferno, XIV, vv, 43-72. “Non c’è nessuna analisi scientifica puramente ‘oggettiva’ della vita culturale o – ciò che forse è più ristretto, ma che non vuol dire di certo nient’altro per il nostro scopo – dei ‘fenomeni sociali’, indipendentemente da punti di vista specifici e ‘unilaterali’, secondo cui essi – espressamente o tacitamente, consapevolmente o 696
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fondamento implicito della conoscenza umana, che perciò l’assume, anche inconsapevolmente, come il principio stesso della sua legittimazione epistemologica. In questo senso, ogni forma di gnosi che lo ignorasse sarebbe perciò stesso falsa e immorale. Questo è stato l’esito gnoseologico del sapere moderno, la sua pretesa amoralità. L’apoteosi della volontà come potenza universalizzante escludente ogni limite, in quanto inconoscibile perché irriducibile al suo principio di realtà, è la tecnica, quale esito della radicale emancipazione della conoscenza del Molteplice, la scienza, liberato dall’unità originaria del Tutto, assunta come Mythos, puro racconto fantastico indeterminato e perciò razionalmente irrappresentabile nella sua arcaica unità. L’elaborazione razionale del Mito secondo la tecnica dialettica della distinzione logica, produsse la violenza sistematica come esito inevitabile del processo dia-logico. Solo così fu possibile che il progresso tecnico si traducesse in primo luogo in un progresso delle possibilità di reciproca distruzione. Dato che ovunque gli uomini agiscano in comune si crea potere, e che tale agire-in-comune si svolge essenzialmente nello spazio politico, il potenziale potere insito in tutte le faccende umane si è affermato in uno spazio ch è dominato dalla violenza.
Per la Arendt tale connubio è circostanziale, e più che altro una “impressione”, mentre a suo dire in origine, e nel vero senso del termine, potere e violenza non soltanto non sono la stessa cosa: in un certo senso sono addirittura opposti, [in quanto la violenza] in realtà è un fenomeno del singolo o dei pochi.697
inconsapevolmente – sono scelti come oggetti di ricerca, analizzati e organizzati nell’esposizione. Il fondamento di ciò sta nel carattere specifico del fine conoscitivo di ogni lavoro di scienza sociale, che voglia procedere oltre una considerazione puramente formale delle norme – giuridiche o convenzionali – della sussistenza sociale”: M. Weber, Die “Objektivitaet” sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis (1904), tr. it. in Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, 1958, pag. 84.] 697 H. Arendt, WiP, pag. 57.
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In realtà, la violenza del Potere non è principalmente un agere, una condotta pratica, ma è il metodo stesso della volontà ce intende affermarsi sull’Altro escludendolo dalle sue posizioni, ossia dal suo essere-ciò-cheè. Negare l’essere dell’Altro per affermare il proprio essere e assumerlo quindi come l’Essere, significa dominare il ni-ente, senza peraltro conoscerlo. Ed è la conoscenza esclusiva dell’Essere a inibire la scienza greca alla comprensione del Tutto. Tale metodo è stato elaborato dalla tecnica dialettica del filosofare razionalistico, le cui posizioni teoretiche intendono avere un valore uni-versale, esclusivo di ogni ente analogo. Il paradigma categoriale logico-dialettico sostituisce alla concreta realtà esistenziale del singolo uomo la sua immagine analogico-ideale, per cui l’Altro dialettico diventa un Tu universale rimosso dalla realtà dell’essere dell’Io. La violenza è dunque processuale e insita nel metodo esclusivo della dialettica filosofica, la quale, volendosi costituire come criterio di valutazione politica, pensa la volontà di potenza come la ragione stessa di ogni libertà, il suo fine immanente. Violenza, Logos dialettico e Guerra sono aspetti connessi e inscindibili di una stesa filiazione genetica, il Polemos, quale principio archetipo della sapienza razionalistica greca e occidentale, motore del mondo. Il Cristianesimo opera un mutamento di paradigma, ponendo l’Agàpe in luogo del Polemos, ossia la Riconciliazione tra Natura e Spirito al posto della esclusione filosofica. L’amore cristiano depotenzia la volontà umana dalla sua carica di violenza e fa della parola il luogo inclusivo dell’annuncio della Verità che è presso Dio. Accogliere l’Altro nella persona eponima del Cristo è unirsi spiritualmente nella Verità comune; non più attraverso il Logos, cioè la mediazione del discorso razionale esclusivo, ma attraverso la fede in Cristo, il Mediatore per eccellenza, cioè attraverso una esperienza vissuta come testimonianza di fede. L’uomo non può separare ciò che Dio ha unito, la Natura e lo Spirito, ma deve accogliere la creazione come cifra della trascendenza, come segno simbolico dell’unità originaria. Di contro, l’unità conseguita attraverso l’esclusione sistematica dell’Altro, cioè l’unità politica dell’ideo-logia, conduce all’affermazione violenta della forza della Ragione, che è quella del Potere egemone. Questa falsa ed esclusiva unità non ha liberato l’uomo né dalla violenza contro e del suo simile, né da quella del Potere e neppure dalla necessità dl lavoro. Anzi, sopprimendo gli istituti
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tradizionali delle culture umane, ossia ogni forma di autorità, il razionalismo ha privato gli uomini di ogni difesa storica dall’invadenza della forza esclusiva del Potere. Sicché, affermare come fa la Arendt, che “nella società moderna, il lavoratore non è soggetto ad alcuna violenza o dominio [ma] è costretto [solo] dalla necessità immediata insita nella vita stessa”,698 dimostra che si è considerata adeguatamente la portata rivoluzionaria del messaggio evangelico in relazione alla funzione salvifica della libertà, l’unica prospettiva in grado di emanciparla dal’ipoteca della violenza e della natura polemica della pratica politica razionalizzata. Nn vi è possibile sviluppo della traccia filosofica classica che non sia nel segno della volontà di potenza universalizzata a criterio di determinazione e regolazione dei rapporti socio-politici. Codesta strada filosofica, aperta dalla metafisica greca, è sfociata nel totalitarismo politico, e dal punto di vista teoretico è una strada senza uscita, uno heideggeriano Holzweg. L’idea, propugnata dalla Arendt, che la violenza sia stata distratta “dalla sfera privata della casa e dalla sfera semipubblica del sociale” per destinarsi al “pubblico potere” dello Stato “che si pensava di riuscire a dominare poiché era stata definita espressamente come un mero mezzo al servizio della vita sociale, del libero sviluppo delle forze produttive”, 699 è stata una illusione, dal momento che il Potere, divenuto legittimo per mandato popolare, cioè sociale, ha avocato a sé la presunta volontà collettiva ridotta alla collettiva volontà di potenza, ossia di forza aggressiva e di benessere economico. La libertà ridotta a impulso vitale ha come fine in sé la sua conservazione interna tramite l’esterna violenza, secondo una modalità tipica della cosmologia greca. Ogni forma di democrazia moderna, da quella francese a quella americana, è violenza e aggressiva per queste stesse fondamentali ragioni. La violenza “limitata alla sfera statale” è stata concentrata nell’oligarchia democratica, sicché “l’epoca che nell’ottica storica appare la più pacifica e la meno violenta, ha direttamente prodotto il più grande e tremendo sviluppo degli strumenti di violenza”.700 698
H. Arendt, WiP, pag. 58. Ivi, pag. 59. 700 Ibidem. 699
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Ma non è la sfera pubblica in quanto tale a produrre violenza, bensì il principio dell’identità di libertà e volontà come realtà finale, come fine a sé bastevole della politica. I Greci pensavano che attraverso l’educazione personale si potesse ammansire il demone del sopruso eccedente la ragionevolezza (hybris), cioè appunto la volontà di potenza; ma l’ideale moderno partecipativo erga omnes della libertà riconosciuta e garantita dal Potere, ha fatto di questo un mostro che custodisce gli agnelli. Non più lo status personae era il fondamento della libertà, ma un astratto diritto elargito dal Potere statuale, che dunque lo poteva revocare ad libitum. La titolarità collettiva nominalmente custodita dal popolo assicurava la legittimità del Potere, ma non la bontà delle sue scelte politiche, poiché l’esercizio politica della libertà non è il Bene. A maggior ragione, il monopolio dell’esercizio della violenza non poteva che essere funesto per la libertà dei singoli, in quanto, spostando l’unità delle forze molteplici verso la concentrazione economica delle sue energie sparse, al fine di renderle più efficienti, ha visto nel potenziamento stesso il suo fine appunto economico-politico, cioè la sua espressione razionale. Con tale sistema ha proceduto storicamente sia la formazione degli Stati razionali moderni che lo sviluppo del capitalismo industriale, attraversati entrambi da una tendenza monopolistica del Potere che è stato il tratto caratteristico della civilizzazione occidentale. Rispetto allo scenario antico della costituzione politica imperiale, e a quello medievale della costituzione feudale, la costituzioni nazionali moderne hanno rappresentato una forma degenerata di Potere, tanto più perniciosa per la libertà dell’uomo, quanto più ammantata di ideologia eudemonistica e di etica razionalista, le quali congiuntamente hanno occultato le radici della violenza, rendendola sistematica nel senso di un valore universale, deprivando l’uomo di ogni principio di responsabilità, resa impossibile dalla sproporzione tra le singole possibilità operative e il Potere concentrato dello Stato monopolista della violenza e legislatore assoluto. Volendo fare la guerra ai pregiudizi, si è combattuta la morale, il senso comune della convivenza esistenziale tra diversi. I pre-giudizi morali, infatti, non “riguardano le cose che tutti noi involontariamente condividiamo con gli altri”,701 ma costituiscono le condizioni stesse della 701
Ivi, pag. 61.
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convivenza, come la lingua rispetto al discorso. Il discorso non è possibile senza la lingua, e lo stesso vale per il dialogo politico e filosofico rispetto ai fondamenti morali, pre-giudiziali a ogni discorso razionale, e rispettivamente unitivi in riferimento a ogni rapporto dialettico-politico. dal punto di vista filosofico, l’esclusione dei pregiudizi morali dall’ordine del discorso razionale ha coinciso con la lotta teoretica contro il Mito, il legein arcaico originario di ogni possibile logos e fonte morale della sua legittimazione. La lotta ingaggiata contro il Mito è assurdo e contraddittorio quanto il parricidio divino. Si può sopprimere un Dio dalla memoria filiale, ma non la paternità, ossia la possibilità stessa di perpetuare la libertà umana come prodotto genetico. La filosofia, quale idealizzazione di un modello di realtà, trovandosi di fronte alla concreta complessità del reale, tende a semplificarlo, uniformandolo al suo modello, anziché dichiarare astratto questo, indicando nel residuo mitico l’incongruenza della reductio ad unum, che invece è insopprimibile dal theorein quale processo modellante del divenire. Dalla crisi dei modelli razionalistici emergono i surrogati mitici delle ideologie, che a differenza delle Weltanschauungen, tendono a porre in luogo del Mito della loro generazione spontanea, la mitologia della loro legittimazione, facendo della credenza collettiva non una fonte di moralità ma un dovere etico-politico. la rimozione razionalistica della fede negli incontrovertibili lascia la struttura del discorso metodico priva di fondamento ontologico, priva di fede nella realtà; ed è su questo vuoto che le ideologie impongono una fede artificiale di rincalzo alla fede rimossa. Tale fede artificiale consiste nella credenza del nesso razionale del sistema idealistico di potenza concepito in termini di necessità inevitabile, similmente a quello della antica Natura, ora diventata artificialmente politica. Il pre-giudizio diventa dovere etico-politico, e la fede diventa forza. Non si possono opporre i giudizi ai pregiudizi se non nella vigenza della fede in questi ultimi, che, una volta rimossi, la dialettica tra fede e ragione viene a perdere la sua ragionevolezza, e il discorso decade ai puri termini della nuda volontà ideologica. Le ideologie, fondandosi su se stesse, ossia sulla funzionalità della loro forza, surrogano i fondamenti mitici diventando superstizioni collettive, religioni secolari, pregiudizi assoluti da ogni autorità tradizionale. Proprio l’assenza dei pregiudizi morali,
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eliminando il sentimento del limite dalla volontà di potenza, genera i mostri della Ragione. E allora il silenzio impotente del pensiero viene sancito dal fragore delle armi, che irrompe nello spazio politico con una potenza superiore a ogni menzogna retorica.. l’antico gioco cavalleresco, regolato dai trattati e dalle convenzioni religiose, viene infranto dall’ordalia barbarica del libero assalto mirante alla distruzione totale del nemico, l’ente negativo della Storia che deve tornare al suo nulla ideale. Strana ordalia, in cui il valore personale viene sostituito dalle tattiche di annientamento totale, non misurate ad personam come i veri duelli eroici, ma calibrate su obiettivi inermi, simbolici e reali a un tempo quali le città coi suoi numerosi e indifesi abitanti. Se la prima Guerra mondiale aveva selezionato le vittime con le divise mandandole al fronte, con la Seconda il perimetro bellico diventa variabile e senza restrizioni umanitarie. ‘Europa moderna consuma i suoi riti ideologici e profani contro se stessa, abiurando non solo più al Cristianesimo e alla sua etica filiaca, ma perfino alla propria comune identità culturale, aderendo passivamente a un rigurgito di barbarie che sembrava impossibile solo qualche decennio prima. Lo scontro politico non era più mediabile da alcuna ragione comune. Il popolo sovrano, giovane di energie politiche e acerbo di sapienza mondana, emerge dal suo atavico limbo pretendendo un protagonismo storico che lo salvi dall’ombra del suo oscuro destino primitivo. Gli uomini del sottosuolo arringano le folle demagogicamente e ottengono con minacce e soprusi illegali il Potere sui loro popoli, stremati dalla retorica dei sofismi ideologici, opposti ma convergenti verso la stessa polemica liquidatoria della morale della fede tradizionale. “Con la sostituzione della tradizione con la ragione astratta, l’ideologia e la dottrina divennero importantissime [poiché] le idee avevano raggiunto le masse”. 702 L’Europa, denudata dei suoi costumi cristiani, perpetua per mano delle masse un massacro fratricida che ha per posta il Potere assoluto e solitario, quello del tiranno antico che brandisce l’armamentario tecnologico moderno contro i fantasmi della Storia, contro la civiltà che li aveva relegati ai margini e di cui non sentivano il decadente fascino. Il 702
J. L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy (1952), tr. it., Bologna, 1967, pag. 98.
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popolo, senza la maschera della civiltà aristocratica, mostra il suo volto barbarico, che la saggezza politica ab antiquo aveva cercato di coprire dirozzandone le intemperanze e sedando le rivolte disperate. L’appello al popolo, sperimentato vittoriosamente nella Parigi del 1789, torna efficace nella Mosca del 1917, nella Roma del 1922 e nella Berlino del 1933. L’Europa cristiana pare un ricordo medievale, sotterrato dalla memoria corta delle nuove oligarchie atee che hanno decimato sistematicamente la superstite aristocrazia millenaria risparmiata dalla rivoluzione giacobina. Il potere dei nuovi barbari emersi dalle viscere europee è brutale e volgare, come scomposto è ogni atto bellico contro i nemici interni ed esterni, senza più differenza. La dialettica alimentata dal risentimento diventa odio, l’avversione acredine assassina. Tutto è fuori misura, ma al contempo perfettamente razionale. Da un canto ci sono gli amici ideologici e i sodali interessati; dall’altro i nemici, irriducibili e impersonali, oggettivi e assoluti. Il totalitarismo non è che l’espressione politica di una volontà annientante di un Potere senza limiti morali. Non è l’invasione degli Hyksos, ma la logica conseguenza della esclusione del Negativo concreto dal regno ideale realizzato della Ragione. Il mondo non appare più agli occhi dei nuovi padroni barbarici un museo da salvaguardare, ma un campo di cimelii insignificanti da depredare e bonificare di ogni memoria. L’egalitarismo infatti non è altro che la volontà di fare tabula rasa di ogni differenza annullando la memoria storica a favore di un cominciamento assoluto, fondativo di nuova realtà. I soggetto trascendentale kantiano s’incarna nel soggetto collettivo e mette in opera gli ideali rivoluzionari, realizzando la libertà come volontà di potenza, il cui esito è a barbarie. L’illuminismo si rovescia in oscurantismo. La tecnologia asservita alla barbarie muove la potenza della Natura contro il mondo umano, già concepito come la sfera della libertà sottratta alla necessità. L’odio dei nuovi padroni assetati di protagonismo dopo immemore astinenza si riversa contro ogni monumento della grandezza degli antichi, contro l’antica auctoritas maiorum. La socializzazione della libertà rese furiosi gli antichi servi, che intendevano fruire della nuova acquisizione dello status politico nell’unico modo da essi conosciuto, ribaltando l’antica condizione padronale, per rivalersi contro i fasti di una civiltà che li aveva sottomessi ed esclusi. La crisi politica moderna si
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riassumeva nella perdita di legittimità dell’antico Potere, che si rifletteva come perdita di autorevolezza dei suoi tradizionali interpreti politici. La lotta rivoluzionaria contro gli aristocratici parassiti di Versailles si coniuga con la critica del principio aristocratico, l’esprit de corps vulnerato dal razionalismo egalitario, che prelude alla teoria della sovranità popolare e alla eliminazione di ogni ingiusto privilegio. “L’uguaglianza è un postulato sia della ragione sia della giustizia 703] che sarà non a caso la consegna ideologica del populismo socialista dei due secoli a venire. I movimenti della rivoluzione totalitaria si fregeranno tutti della tradizione socialista, pur combattendola e osteggiandosi a vicenda. Ma sono rivalità parentali, interna alla stessa famiglia democratica. Alla fine l’ha spuntata la democrazia più forte e potente, la più fresca, quella capitalistica americana, che mise a terra i nemici radendo al suolo le città europee e umiliando l’eroismo nipponico sbriciolando Hyroshima e Nagasaki. Secondo la Arendt, i processi naturali prodotti per imitazione dall’uomo stesso e direttamente immessi nel suo mondo [hanno come elemento] caratteristico [la circostanza] che al pari del processo all’interno di un motore a scoppio procedono essenzialmente per esplosioni, o, in termini storici, per catastrofi; ma ognuna di quelle esplosioni o catastrofi manda avanti il processo in sé [che solitamente indichiamo come] progresso.704
In altri termini, il potere dell’uomo di scatenare a suo uso e consumo i fenomeni naturali, a scopi bellici o economico-produttivi, è limitato dalla imponderabilità della conseguenze azionate, che restano indipendenti dalla sua volontà e dalle sue capacità previsionali, che da facoltà virtuose diventano limiti esimenti di responsabilità. Il limite così appurato al suo potere di configurare idealisticamente l’immagine del mondo conferma drammaticamente la presenza incombente della necessità, dalla quale la libertà razionalistica intendeva emanciparsi per creare un “mondo nuovo” intieramente umanizzato e perciò disponibile. La rimozione di quel Limite trascendente ogni umana libertà e possibilità, torna a stagliarsi come il peccato fondamentale della coscienza umanistica, la cui superba 703 704
J. L. Talmon, Op. cit., pagg. 105-106. H. Arendt, WiP, pag. 64.
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pretenzione assolutistica non osa richiamare il ruolo della Provvidenza, e lo attribuisce al Progresso. Il Progresso è il feticcio che legittima le catastrofi politiche e umanitarie del nuovo processo democratico tardomoderno, al quale dedicare in olocausto le aberrazioni del razionalismo ideologico al potere. Il Dio negletto di Abramo lascia il posto all’idolo democratico, che richiede in sacrificio della fede in lui non singoli figli ma intere generazioni innocenti e interi popoli inermi, la cui sola colpa è di incarnare il Negativo esistenziale stabilito dalla logica esclusiva universalizzata a criterio di oggettiva discriminazione politica. il nemico democratico è l’occupante la fascia oscura del mondo, la zona degli intrusi ontologici, che non dovrebbero abitare l’Essere. la “soluzione finale” è perpetrata sistematicamente; è la logica del Potere razionalizzato a imporla. È la conseguenza dell’astrazione della libertà come qualità politica impersonale e universale, che cancella la singolarità personale dei figli di Dio, dei fratelli dell’Uomo. L’ente collettivo Popolo ha la sua ombra negativa, il suo opposto logico, il Nemico della civiltà e del Progresso: la tradizione. Il Progresso, secondo la Arendt, avrebbe risarcito la Germania, facendone “il paese europeo più moderno e avanzato”, rispetto a paesi come la Francia che, non avendo “subito una catastrofe concretamente devastante, sono rimasti indietro”.705 La questione rimane aperta. Se progresso è avanzamento nella distruzione della eredità della civiltà europea, la catastrofe della Germania è stata provvidenziale come un incendio che divori una foresta facendola rinascere più orgogliosa dalle sue ceneri. Se, di contro, progresso è corrosione dei valori superstiti di quella civiltà a favore dell’insorgenza barbarica di un mondo nuovo, somigliante a quello americano, senza radici e schiacciato sul presente, il predominio della tecnica ha segnato un progresso nella decadenza. La questione che si apre a questo punto è se possa effettivamente decadere una civiltà che non si è mai posseduta in coscienza, ossia se la crisi del sistema cristiano-liberale europeo possa essere avvertita tale da chi era fuori o ai margini della sua coscienza spirituale. La stessa domanda implica la differenza essenziale tra l’unità naturale dell’umanità e la sua diversità culturale, rispetto alla quale la visione 705
H. Arendt, WiP, pag. 65.
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cristiana dell’uomo quale essere spirituale ha offerto una risposta risolutiva nel senso della omogeneità trascendente e non storica, altrimenti impossibile da conseguire in senso immanentistico-egalitario tra i termini dialettici natura/cultura. Una civiltà aristocratica che rimanesse culturalmente distante dalla coscienza popolare, non potrebbe essere sentita come propria dal popolo escluso dai suoi benefici e dal godimento dei suoi prodotti, a meno che non sussistesse una omogeneità spirituale unitiva del vertice con la base. Questa unità spirituale, costituita dalla fede cristiana e dalla morale ispirata dalla sua dottrina teologica, è esattamente il valore che il razionalismo moderno, con le sue astratte teorie immanentistiche, ha intaccato fino alla dissoluzione ateistica, stabilendo una distanza tra Potere e popolo che nessuna teoria egalitaria è riuscita a colmare, in quanto basata sull’affermazione ideologica della esclusiva rilevanza della natura umana, a scapito di ogni concreta e insopprimibile differenza di cultura, storicamente ed esistenzialmente evidente fra gli uomini. L’idea della libertà come volontà politica sostenuta dalla Arendt, risale a Rousseau, per il quale la personalità dell’uomo è una condizione politica che nasce col contratto sociale, in virtù del quale “ogni esercizio della volontà generale costituisce una riaffermazione della libertà dell’uomo”, essendo essa a dover “stabilire la natura e i limiti di tutti i nostri doveri”.706 Ma fu con l’egalitarismo di Sieyès che l’uguaglianza della condizione naturale dell’uomo veniva a costituire il modello dello status politico, il quale si poneva in atteggiamento rivoluzionario proprio nel senso di voler tornare alle origini antropologiche e pre-culturali dell’umanità, pensata in termini idealistici come astratto ente di ragione, e non composta di singole concrete persone. L’ordine naturale, fondato sulla uguaglianza fisiologica, in conseguenza del patto politico diventa “la base di ogni ordine sociale”.707 È questa la rivoluzione propugnata da Sieyès: il cambiamento di status antropologico: da essere di cultura, e dunque storicamente diverso, a essere di natura, e perciò uguale. Ma si trattava di una astratta uguaglianza, assolutamente irrealistica e contraria al buon senso e alla concreta esperienza comune, che non 706 707
J. L. Talmon, Op. cit., pagg. 60-61. Ivi, pag. 105.
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incontra mai la nazione ma solo singoli cittadini, e mai ha a che fare con l’umanità ma solo con persone umane. L’homo di Terenzio e lo zoòn politkòn di Aristotile erano astrazioni concettuali di tipo naturalistico, esse stesse storiche e legate a una Weltanschauung sentita dai suoi portatori come non bisognosa di giustificazione ma sono forme di sapere solo suppostamente “naturali”, cioè universali ed eterne.708 In realtà sono elaborazioni “colte” della visione del mondo che riflettevano, 709 ovvero enti di ragione tra i quali era possibile stabilire un rapporto di eguaglianza solo in quanto astratti dalla loro concretezza individuale, la cui singolarità spirituale in relazione all’uomo era ignota e perciò ignorata. Epperò su codeste astrazioni fece leva il politicismo razionalistico moderno di Rousseau prima e poi degli ideologi e infine delle ideologie degli ultimi secoli, che, nonostante sforzi anche generosi, non riescono a risolvere l’insopprimibile diversità umana nei termini dell’uguaglianza politica unitaria sotto un Potere assoluto. Ed è proprio tale tentativo, dopo oltre un millennio di cristianesimo, a rappresentare l’aspetto più regressivo ed inquietante della coscienza moderna europea, che intende riportare sul piano dell’immanenza l’omogeneità spirituale della concezione cristiana, trascrivendola in termini di uguaglianza politica e quindi sociale, eliminando dalla scena della storia ogni differenza e singolarità, proprie della concreta esperienza umana, che la struttura gerarchica e feudale del Medio Evo cristiano aveva salvaguardato, costruendo su di esse, attraverso la lingua latina e le istituzioni monastiche, l’identità stessa della civiltà europea, pur covando nell’opera teologica di clarificare fidem i germi razionalistici della futura dissoluzione, annidantesi nella distinzione, modernamente radicalizzata, 708
M. Scheler, Probleme einer Soziologie des Wissens.(1926), tr. it., Sociologia del sapere, Roma (1966), 19762, pagg. 222-223. Da ora SW. 709 La distinzione tra Weltanschauungen naturali di un gruppo, intesa come “tutto ciò che, in questo gruppo, viene creduto e viene sentito come un quid che non ha bisogno di alcuna dimostrazione, che non è oggetto di alcun possibile carico di prove, cioè viene creduto e viene sentito come un quid completamente ovvio”, e “Weltanschauungen colte, che vengono costituite grazie a un’attività spirituale consapevole e si diffondono in base alla legge di ‘pochi’ capi personali e modelli e dei ‘molti’ seguaci e imitatori e [che] acquistano potere”, risale a M. Scheler, Weltangschauungslehre, Soziologie und Weltanschauungssetzung.(1922), tr. it. in Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Napoli 1988, pagg. 128-130 sgg. Da ora WSW.
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della “virtù intellettuale”, concentrata sul metodo di indagine, da quella “morale”, inerente all’oggetto della verità, già teorizzata da Aristotele nell’Etica Nicomachea ma tenuta a bada dal rapporto tra domina (la teologia) e ancillae (le discipline delle arti liberali). Sul rapporto tra filosofia e morale si è intrattenuto con la consueta acutezza e acribia Max Scheler in un saggio del 1917 su L’essenza della filosofia, in cui egli manifesta la consapevolezza che la filosofia sia “una conoscenza priva di presupposti”, ovvero “oggettivamente incondizionata” da altre conoscenze, storiche o scientifiche o rivelate, e “autonoma”, ossia che “cerca e trova la propria essenza e la propria norma esclusivamente attraverso se stessa, in se stessa e nella propria costituzione”. 710 Conseguenza di questa autonomia è la possibilità di definire la filosofia attraverso il filosofare, cioè l’atteggiamento spirituale del filosofo, anziché un suo oggetto proprio, come capita invece alle altre scienze,711 e quali non implicavano un “atto di tutta la personalità […] di natura innanzitutto morale, ma non per questo esclusivamente volizionale […] che manca all’uomo che si trova all’interno della concezione naturale del mondo”, e che consisteva nel togliere “un impedimento dello spirito”, ossia quel “velo” che copriva il e che era “insito nella condizione di tutte le visioni naturali del mondo, al fine di pervenire ad un eventuale contatto con il regno dell’essere autentico, in quanto regno dell’essere della filosofia” o dell’.712 Tale atto della conoscenza filosofica è “integrale” in relazione alla persona, in quanto platonicamente erotico, ossia “un atto di partecipazione, determinato dall’amore, del nucleo di una persona umana finita all’essenza di tutte le cose possibili”, sotto forma di “conoscenza intellettualistica”, e dunque formale e non immediata. 713 La conoscenza filosofica può estendersi fin dove sia possibile oggettivare l’essere dell’essenziale. Ma le cose cambianrono quando, col 710
M. Scheler, Vom Wesen der Philosophie und der moralischen Bedingung des philsophischen Erkennens (1917), tr. it. in L’eterno nell’uomo, cit., pag. 227. Da ora WdPh. 711 Ivi, pag. 231. 712 Ivi, pag. 233. 713 Ivi, pag. 237.
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Cristianesimo, “il contenuto dell’essenza originaria venne visto e vissuto come un infinito atto di amore creatore e misericordioso”, nel qual caso la partecipazione del filosofo non era più diretta alla conoscenza di un oggetto ma alla collaborazione a un atto. In tal caso, il contenuto della conoscenza filosofica induce la filosofia a “offrire la propria fonte di conoscenza, la ragione, ad un’altra forma essenziale di partecipazione all’essenza originaria”, divenendo “ancilla della fede”, intesa questa non come “atto soggettivo” ma “quale contenuto oggettivo”, costituito dalle “parole di Cristo”. Il presupposto di tale abnegazione della filosofia alla fede, è costituito dal libero “riconoscimento” del filosofo della “verità della definizione cristiana della essenza originaria”.714 Ciò inserisce un presupposto extra-razionale che mancava alla filosofia in senso classico: la fede, la quale diventa il fondamento veritativo del Logos. Il fondamento ontologico è dunque di natura in-razionale e prerazionale, e coincide col principio (arché) dell’Amore, il cui fine è la santità, ossia la salvezza spirituale, e non la conoscenza ontologica, sicché “lo status del filosofo, o del saggio, doveva passare in secondo piano rispetto a quello del santo”, al quale il primo doveva “subordinarsi coscientemente”.715 Un dovere libero, sorto cioè dalla consapevolezza interiore della verità, è la libertà stessa in senso cristiano. Scheler ricorda che “l’autolimitazione volontaria ed oggettivamente necessaria da parte della filosofia” nei confronti della fede era “l’esatto opposto all’introduzione di un principio eteronomo che limitasse la filosofia dall’esterno”, così come era l’opposto del limite gnoseologico del sapere trascendentale relativo alla cosa in sé, giungendo la filosofia con l’idealismo moderno a essere “considerata in generale come illimitata dal punto di vista del suo oggetto, in quanto avanzava la pretesa di essere metafisica e di conoscere tutto ciò che è nelle sue cause e fondamenti ultimi”, giungendo al presente “ad una situazione che rappresenta quasi l’esatto contrario di ciò che era espresso nella duplice pretesa dell’antica idea di filosofia – l’idea di essere contemporaneamente libera ancella della fede […] e regina di tutte le scienze”, diventando pertanto
714 715
Ivi, pag. 245. Ibidem.
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“usurpatrice della fede” e insieme “ancilla scientiarum”. 716 Ma come si è giunti a tale “perversione” teoretica “mai raggiunta dalla cultura europea”, la quale per altro “è solo un esempio particolare […] di quell’intimo sovvertimento dell’intero ordine dei valori […] che costituisce l’anima dell’epoca borghese-capitalistica”? 717 La risposta è nella stessa prerogativa assegnata alla filosofia come preambula fidei, a seguito della quale la fede perde il suo primato di fondamento, che torna così alla conoscenza razionale, fondando metodicamente non solo più solo se stessa ma la stessa teo-logia, il cui fine soteriologico, perduto il primato del principio fideistico, apparirà ai moderni una inutile superfetazione rispetto ai compiti essenziale del filosofare per metodo, simile all’esistenza delle Idee platoniche per il naturalismo aristotelico. Solo il principio archetipo, infatti, può avere la prerogativa del suo valore universale, contestato il quale esso diventa una opinione. Allorquando il valore che quel principio esprime sia diventato relativo, perché opinabile, oggetto di dubbio, ecco che la fede in esso diventa a sua volta un atto di volontà, che non coinvolge l’intera partecipazione dell’uomo ma solo l’intelletto agente, senza implicare l’intima adesione del cuore, l’intentio. Da qui il moderno Désordre dello spirito e del cuore” col suo conseguente “sovvertimento globale di valori” ricordato Scheler, consistente nella “ribellione”dell’inferiore al superiore, della filosofia contro la fede, e insomma del profano contro il sacro. “Questi processi non sono altro che la più diretta conseguenza del principio secondo il quale la ragione stessa è fatta in modo tale che le spetta di diritto eterno una certa autonomia e un potere su ciò che le è inferiore, sia sulla vita istintiva sia su tutte le ‘applicazioni’ delle sue leggi nella molteplicità dei diversi fenomeni sensibili”. Ma quando la filosofia perde la sua “connessione con Dio, come la luce originaria stessa”, allora essa perde anche la sua “dignità di regina delle scienze”, diventandone “schiava e prostituta”.718
716
Ivi, pag. 247.
717
Ivi, pag. 249.] M. Scheler, WdPh., pagg. 249-251.]
718
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La filosofia, quale “conoscenza evidente di essenze” (la platonica), è diversa dalla scienza quale “conoscenza reale”, che “resta essenzialmente nella sfera della probabilità”, che Platone assegnava alla ,719 per cui la “filosofia scientifica è un’assurdità, in quanto anche la scienza positiva deve porre da sé le sue premesse, essere in grado di trarre da sé tutte le possibili conseguenze, e anche risolvere da sé le sue contraddizioni”, senza che la filosofia vi interferisca. 720 Secondo Scheler, “ogni Weltanschauung colta si eleva sul fondamento precedente di una Weltanschauung naturale e non può mai né rovesciare né mutare essenzialmente la sua validità e la sua consistenza”. 721 Le visioni del mondo, tutt’altro che stabili ed eterne, “sono prodotti organici, che continuano a muoversi solo in dimensioni temporali molto grandi” e si trasformano “emergendo l’una dall’altra”, ma “sono perfettamente intangibili dalla speculazione teorica”, poiché “appartengono ai centri infimi dell’anima di gruppo, che opera in modo automatico – e niente affatto allo spirito di gruppo”, cioè a quelle forme colte che sulle prime sorgono come corrispondenti “tipi di sapere”. 722 Se le visioni “naturali” consistono in credenze archetipe non abbisognevoli di alcuna dimostrazione razionale, le visioni quali in Occidente la dottrina della fede, la scienza e la filosofia, hanno un carattere chiaramente “colto”. 723 Relativamente alla scienza, , fa parte della sua “essenza” la “molteplicità della divisione del lavoro”, per cui, in senso stretto, “la scienza non esiste”, ma esistono solo “scienze” al plurale; e ciò contrasta con l’esigenza unitaria della Weltanschauung, nel cui “operare non vi è alcuna divisione del lavoro”. Così come l’incompiutezza dell’illimitato processo della scienza contrasta con l’evidenza e l’esigenza di una conoscenza definitivamente e universalmente valida, propria della Wetanschauung. 724 Da ciò consegue che la scienza sia avalutativa “non perché non vi siano (come crede Max Weber) valori oggettivi […] bensì 719
Ivi, pag. 253.] Ivi, pag. 255. 721 M. Scheler, WS., pag. 129. 722 M. Scheler, SW, pag. 123-124. 723 M. Scheler, WSW, pag. 130. 724 Ivi, pag. 132. 720
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perché essa non può non prescindere arbitrariamente da tutti i valori […] per tener fermo il suo oggetto. Vale a dire: essa indaga il mondo come se non ci fossero persone libere e cause”, ponendosi la sua conoscenza tra la visione antropocentrica della Weltanschauung naturale e la sfera della esistenza assoluta, secondo un fine di “dominio sul mondo circostante”, che però “non è più relativo all’organizzazione umana”. E pertanto la validità universale della scienza può sussistere per “uomini in generale indipendentemente dalla cerchia culturale, dalla nazione, dal popolo, dalla disposizione personale”, ma non può essere confusa con l’essenza assoluta, ossia del tutto contemplativa, che è l’oggetto della Weltanschauung, che dunque è “essenzialmente personale” in quanto “determinata da egemonie personali” esercitata non da “scienziati” ma da “metafisici” e da “saggi”. 725 La conoscenza “personale” è la più oggettiva, perché l’unica “in grado di dare una totalità universale” propria del “livello assoluto di esistenza di tutte le cose in generale”; ed essa non è punto “soggettiva” in senso weberiano di disinteresse per i valori generali “in base a cui la scienza seleziona il mondo intuitivo e la realtà della vita allo scopo di dominare il mondo”.726 Weber, osserva Scheler, scambiando la dimensione personale con quella soggettiva, non vede che solo ciò che è “relativamente vero e buono può essere valido in generale, mentre soltanto la verità e la bontà personaleindividuale, non valida in generale, può essere l’assolutamente buono e vero”, ergendosi come una “superstruttura spirituale” su ciò che è “semplicemente valido in generale”.727 Essa consiste nella metafisica filosofica, che è una Weltanschauung ponente, la quale presuppone e integra “tre fonti di conoscenza [del mondo] diverse per natura”: la Weltanschauung naturale, l’eidologia filosofica e le scienze.728 Esistono diversi tipi di sistemi metafisici, storicamente ricorrenti, entro i quali si sviluppa complessivamente il sapere filosofico, che nondimeno 725
Ivi, pag. 133. Ibidem. 727 Ivi, pag. 134. 728 Ivi, pag. 135. 726
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facendo penetrare nel suo edificio le acquisizioni continue della scienza positiva, ne rimane condizionato per tempo e cultura, manifestandosi perciò come tipo storicamente dominante. Ma questa dominanza non è né un’opzione soggettiva e neppure la conferma della relatività dei sistemi metafisici, al di là del vero e del falso, ma dimostra soltanto che “l’organizzazione soggettiva della ragione, cioè il sistema categoriale soggettivo [dei] gruppi culturali è diverso” per tempo e luogo, proprio in considerazione dell’accettazione e diffusione dei suoi contenuti da parte della coscienza comune, tale che il cd. “spirito del tempo” inerisce soltanto “la componente scientifica di ogni filosofia”, la quale dunque essa sola “è necessariamente storica”, non già i contenuti metafisici, che sono invece perenni e coesistenti.729 Ma proprio questi contenuti costituiscono il senso della “saggezza”, l’unica categoria misconosciuta da Weber, “in cui l’anima mantiene l’equilibrio, sensibile e bello, delle sue diverse forze”, al quale tanto teneva il Socrate dell’Alcibiade, ricordato supra con Foucault a proposito della classica “cura di sé” () trascurata del tutto dall’universalismo scientifico moderno, il quale, affermando il primato della ragion pratica su quella teoretica, capovolge la posizione classica, che, nel primato nella vita contemplativa assumeva “l’ascesi di tutto l’uomo verso la realtà essenziale come precondizione della conoscenza filosofica”; ascesi che consisteva nel “superamento di tutti gli atteggiamenti solo pragmatici verso ciò che esiste”. 730 Il concetto che tanto la scienza – come complesso di prestazioni specialistiche specifiche, ditate di propria legalità -, quanto anche l’azione e la guida degli uomini, che forma il mondo, possano essere soltanto mezzi diversi per una formazione della persona dell’uomo, che è guidata dalla saggezza e che ad essa sempre eleva, e il concetto che solo in questa formazione dell’uomo l’una e l’altra attività abbiano il loro senso finale, era quanto mai lontano da Max Weber. 731 729
Ivi, pag. 139. M. Scheler, WdPh., pag. 259. 731 M. Scheler, Max Webers Ausschaltung der Philosophie.(1921-1923), tr. it. in Lo spirito del capitalismo, cit., pag. 147. 730
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La critica di Scheler a Weber va estesa all’intero orizzonte culturale dominante negli ultimi secoli e che Scheler riassume nel “nominalismo”, non solo inteso come dottrina logica ed etica ma come “modo di pensare stesso” dello scienziato moderno, il quale non distingue la “astrazione ideante”, tesa a cogliere l’essenza di un fenomeno, dalla “astrazione empirica, induttiva, dei cosiddetti tratti comuni di molteplici situazione di fatto casuali”. Weber, infatti, accogliendo la posizione di Rickert, condivide il rigido nominalismo della sua gnoseologia, ossia “la teoria secondo cui ogni pensiero concettuale avrebbe come fine solo il superamento di una molteplicità infinita estensiva ed intensiva”. 732 Codesto nominalismo non considera che la costituzione essenziale del mondo “delimita allo stesso tempo” ciò che la concezione weberiana teneva rigidamente separati, ovvero “la possibilità di esistenza delle cose e la possibilità di essere valore di questo esistente”, mentre nell’ordinamento essenziale indagato dallo spirito saggio sussistono, ancor prima della divisione, tanto la contingente effettualità dell’esistente che il suo dover-essere, per cui “la saggezza, come conoscenza del’essenza del mondo, non solo guiderà la conoscenza concettuale del mondo” di chi non si fermi a quel dualismo e individui una essenza oggettiva, “ma gli dirà anche quali istanze normative possano in generale essere poste al mondo”. 733 In altri termini, è impossibile scegliere razionalmente tra l’ideale concettuale e il diverso negativo che esso distingue all’atto del giudizio apofantico, senza una previa credenza ontologica nella fondatezza della validità di ciò che è rispetto a ciò che non-è. È tale credenza che qualifica l’actus, cioè l’azione del volere quale si manifesta esteriormente in un contesto significativo, e tale credenza è appunto l’intentio interiore che la motiva moralmente. In questo precipuo significato, il senso originario di ciò che è e di ciò che deve essere sono congiunti nella coscienza morale della persona, che è unitaria prima di manifestarsi in termini fenomenicamente distinti e come tali conosciuti dalla ragione. Come afferma Scheler, con accenti che richiamano Gentile, “questo actus sta prima e al di là del suo terminus a quo (del morto esser-divenuto) e del 732 733
Ivi, pag. 149. Ivi, pag. 151.
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suo terminus ad quem. È l’istante eterno, che muta solo individualmente dal punto di vista del contenuto, istante in cui la storia diviene – l’istante che non soltanto determina in maniera sovrana il futuro, ma che proprio così determina il contenuto di senso del passato storico”. 734 Non a caso, “l’atteggiamento nominalistico dello spirito […] si afferma là dove un dato mondo di forme dell’esistenza umana e della cultura va in dissoluzione”, riducendosi a mera tradizione e a consuetudine, incapace di animare “lo spirito d’iniziativa umano nel formare un nuovo mondo di forme”. Comunque si presenti, in forma sensualistica o mistica, “il nominalismo rimane sempre ostile per principio a ogni idea di strutturalità (Gestaltheit) dell’essere; la sua attività è sempre negativa, dissolutiva e culturalmente rivoluzionaria”, e ciò non in vista di un fine superiore, ma “per principio”, essendo la sua essenza “la critica, non la costruzione; la dissoluzione, non la creazione”. 735 Una mentalità che ha perduto il senso autentico e originario della libertà, divenendo liberalismo; e il senso originario e spirituale della persona, divenendo individualismo. Da quanto emerso, possiamo bene intendere che l’essenza dello atteggiamento nominalistico, che Sorokin chiama “sensismo”, è la visione delle forme dell’Essere astratte dai moventi originarii che ne hanno costituito il contenuto morale, quella intenzione pre-razionale che stabiliva in interiore homine il senso della verità di ciò che l’azione individuale manifestava nell’ambito dell’orizzonte di senso dell’agire sociale, il luogo pubblico in cui la Weltanschauung naturale e quella colta si intrecciano dando vita alle forme istituzionali che stabiliscono il criterio di significato della volontà dell’uomo e il relativo criterio di valore dell’azione umana. Senza questo ambito istituzionale non sarebbe possibile alcuna Gestaltheit storica, proprio perché non sussisterebbe tra le distinte e uniche persone spirituali alcuna relazione sociale e di senso, ossia alcuna comunicazione, attraverso la quale si stabilisce la mediazione tra singolari totalità empiriche.
734 735
Ivi, pag. 152. Ivi, pag. 154.
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È questo il senso essenziale della mediazione come Logos, che i Greci pensavano come ideale, e dunque come separatezza noetica dalla vita activa del , mentre i cristiani pensano come esistenziale. Proprio perché esistenziale, il Logos cristiano non può essere puramente e semplicemente formale. Così come la stessa struttura istituzionale che debba esprimerne il valore non può definirsi in termini puramente costituzionali, di ingegneria costituzionale, scientificamente astratta da ogni considerazione della concreta realtà umana chiamata ad animarla. Da questo punto di vista, la pretesa kantiana di fondare la conoscenza filosofica sulla sola teoresi, senza “nessuna precondizione specificamente morale nel filosofo”, rientra in quel caratteristico primato moderno della ragion pratica che ha “seppellito ed escluso alla radice l’idea che per la conoscenza pura di un determinato oggetto esistente sia presupposta proprio una certa forma di vita morale duratura e che precisamente le illusioni metafisiche siano legate all’atteggiamento naturale e a quello prevalentemente pratico verso il mondo”.736 Da qui il significato pedagogico della preparazione alla conoscenza, ossia l’educazione alla eliminazione dei motivi ostativi e ingannevoli alla intuizione dei valori, dei “motivi di illusione” che come “forme di vita pratica” inducono l’uomo a compiere “abitualmente ciò che è oggettivamente male”, abbassando la sua coscienza dei valori “fino al livello sul quale queste stesse forme di vita si trovano”. 737 Per poter giungere a un essere neutrale o indifferente ai valori, occorre dunque operare una astrazione artificiale da quei valori, per poi ricercare misure e norme “che conferiscano di uovo le differenze valoriali all’essere neutrale” 738. Lo stesso vale per le visoni del mondo nei popoli e nelle culture, in cui è la “coscienza del valore” a conferire “la forma normativa ultima alla loro visione del mondo complessiva”, sicché in ogni caso “colui che ama precede il colui che conosce, e non si dà alcun ambito dell’essere […], la cui indagine non passi attraverso una fase empatica, prima di entrare nella fase dell’analisi neutrale”. 739 Questa “condizione 736
M. Scheler, WdPh., pag. 259. Ivi, pag. 261. 738 Ivi, pag. 263. 739 Ivi, pag. 265. 737
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morale” è l’accesso alla conoscenza dell’Essere assoluto, per cui Il dato valoriale che si dà alla nostra intuizione possiede una priorità oggettiva rispetto ad ogni condotta, volere e agire buoni”, 740 anche se “il dato valoriale intuito è soggettivamente a posteriori rispetto alla condotta e al volere che siano oggettivamente buoni”. Per Scheler, sono gli “atti emozionali”, a partire da quelli più originari dell’amore e dell’odio, sono “fondamentali” per il nostro comportamento pratico e teoretico, di cui costituiscono “la radice comune” di ogni rappresentazione e di ogni giudizio e di ogni volizione, ossia della stessa unitaria “totalità della nostra vita”. 741 La “visione naturale del mondo” costituisce per l’uomo “il punto di partenza comune per tutti i tipi di attività spirituale” diretti verso i “valori spirituali”. Questa visione si caratterizza per la ritenuta identità tra il mondo esperito e l’Essere stesso del mondo, costitutivo del suo ”ambiente” 742 Esso corrisponde al mondo della ed è relativo “all’organizzazione biologica specifica dell’uomo, quale specie particolare della vita universale”. Questa relatività, considerata in generale, cioè astratta da ogni connotazione specifica dei singoli, dei popoli e delle razze, è oggetto della conoscenza scientifica “universalmente valida”, la quale studia “le forme strutturali della visione naturale del mondo” attuando una riduzione ontologica nei confronti dell’essere e dei contenuti dell’ambiente, tale che “resti soltanto la relatività rispetto all’organizzazione umana in generale o a ciò che è identico in ogni uomo”. 743 Diverso è l’approccio filosofico, che non ha per oggetto l’essere dell’ambiente umano in senso universale, ma una determinata “sfera dell’essere” che si trova al di là della “semplice sfera dell’ambiente dell’essere come tale”, ma è inerente a “l’essere del mondo in sé”. Questa conoscenza si consegue attraverso una “struttura di atti morali” che liberino la mente dai vincoli vitali che legano l’uomo al suo ambiente
740
Ivi, pag. 267. Ivi, pag. 269. 742 Ivi, pag. 279. 743 Ivi, pag. 281. 741
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naturale, o all’essere per la vita, per pervenire a “prender parte all’essere, in per se stesso e per se stesso”.744 Questi “atti morali fondamentali, che per loro essenza predispongono alla conoscenza filosofica” sono a) l’amore per l’essere assoluto, b) l’umiliazione dell’Io e del sé naturali, e c) il dominio su di sé e l’oggettivazione degli impulsi vitali corporei. Essi infatti dissolvono l’egocentrismo, il vitalismo e l’antropomorfismo naturali dell’uomo, 745 caratteristici della visione naturale dell’uomo e dell’essere-ambiente, e conducono la persona spirituale alla conoscenza dell’essere assoluto, che sta “oltre agli oggetti che esistono solo relativamente al nostro essere”.746 In altri termini, la conoscenza filosofica perviene alla conoscenza dell’essere assoluto rimuovendo l’esistenza contingente delle cose, che fa da ostacolo morale alla conoscenza essenziale, “oscurando l’occhio del nostro spirito” 747 Ma, a differenza del fatto che la scienza si occupi del mondo contingente (che presume la conoscenza essenziale ma non la produce) e che ricerchi “l’insieme di tutti gli oggetti che esistono, i quali sono onticamente relativi e come tali aperti alla possibilità di dominio e modifica da parte di una volontà razionale che è in sé guidata da, ma anche legata a eventuali fini e valori vitali”; e dunque, nonostante la scienza resti legata a “due fattori fondamentali dell’uomo: 1) il suo volere e 2) le sue proprietà vitali universali”; nonostante ciò, la scienza ha in comune con la filosofia “l’atteggiamento fondamentale del dominio di sé sugli impulsi istintivi per mezzo della volontà razionale, cui corrisponde l’aumento dell’adeguatezza della conoscenza”. 748 A questo punto, l’analisi di Scheler inclina verso una concezione che, per quanto intenda opporvisi, resta non di meno naturalistica, legata alla visione classica della ascesi come negazione degli impulsi vitali attraverso la ragione, pensata come strumento di dominio, sia pure dei sensi. Scheler, cioè, non si avvede che è esattamente questa funzione polemica all’origine dell’atteggiamento critico del razionalismo nei 744
Ivi, pag. 283. Ibidem. 746 Ivi, pag. 285. 747 Ivi, pag. 287. 748 Ibidem. 745
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confronti del mondo dato, nel quale l’atto razionale si inserisce come volontà de-strutturante e ordinatrice in senso egotico-sistematico. Una concezione erotica che resta al di qua della visione agapica cristiana. La volontà razionale, coincidente con i fini di un ordinamento di vita universale, è una volontà orientata verso il dominio della vita, pensata in termini di relazioni formali universali, cioè astratta da ogni concreto riferimento alla condizione personale come totalità vivente. La volontà razionale è per i suoi fini universali volontà di potenza. Infatti, la conoscenza scientifica, essendo puramente ed esclusivamente formale, ha per oggetto il generale, ciò che non-è singolare, e che come tale viene negato a favore del modello astratto di essere, che è appunto l’essere razionale. Un amore filosofico, inteso come negazione dell’essere vitale, pur estendendosi all’essere in sé degli oggetti, non potrà mai estendersi al proprio essere volizionale, ma solo arrestarlo “in atteggiamento di umiltà” estatica di fronte alla “essenza eterna”. 749 E ciò perché la volontà, così come l’amore per la conoscenza, è la stessa nei due casi. Infatti, ciò che Scheler chiama “amore” è l’Eros platonico, ossia la volontà di pervenire alla conoscenza razionale, per universali, negando la singolarità degli enti naturali per assurgere alla unità della loro immagine ideale. Universalizzare significa infatti negare per affermare, ossia escludere la concreta molteplicità (dei diversi) per l’astratta unità (dei simili). Come già avvertiva Herbart nella Prefazione ai suoi Hauptpuncte der Metaphysik, “se la filosofia non ha ad oggetto del suo conoscere il quid dell’essente, bensì qualcosa d’altro (qualunque cosa sia), allora essere dovrà tendere anche ad un’unità che non rispecchi per nulla un’unità dell’essere”. 750 Unità che è stata ricercata sia dalla filosofia antica che da quella medievale, che concepivano appunto la filosofia come conoscenza dell’Essere. Tale conoscenza della essenza presupponeva l’intuizione dell’Essere, affermata in forma di giudizio, che “in generale qualcosa è [e] che non c’è il nulla”, inteso non come il non-qualcosa opposto al qualcosa manifesto, ma come il Nulla assoluto. Questo giudizio, a sua 749
Ivi, pag. 289. J. F. Herbart, Hauptpuncte der Metaphysik (1806), tr. it. Milano-Udine, 2012, pag. 57. 750
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volta, affermava che l’ente particolare avvistato con certezza evidente dai sensi fosse la manifestazione empirica dell’Essere assoluto idealmente presente. E pertanto, l’affermazione intuitiva fondamentale della ricerca filosofica è una credenza ontologica, secondo la quale Tutto ciò che è, sia solo Essere, ossia che l’Essere sia il Tutto. Solo sul fondamento di tale credenza ontologica è possibile affermare che l’Essere è, e che il nonEssere, cioè il Nulla, non è. E dunque tale intuizione fondamentale è originaria, precedente ogni giudizio particolare, cioè ogni distinzione tra l’essenza e l’esistenza. L’intuizione ontologica riguarda l’evidenza dell’ente concreto, laddove il ritenimento che esso sia la manifestazione dell’Essere assoluto, è una credenza, ossia la fede che l’oggetto della nostra esperienza sensibile abbia un valore universale, e cioè che l’Essere sia necessariamente essente, e dunque che universale sia la necessità che domina l’Essere. Non è dunque l’intuizione l’ “oggetto della più intensa e ultimativa meraviglia filosofica”, ma la possibilità di pensare l’ente come Essere, ossia di pensarlo nella sua necessità onto-logica, filosoficamente. La fragilità del pensiero filosofico è riposta in codesta sua credenza originaria, nella sua fede nella necessità universale, che pensata come opposizione all’espansione del Nulla è , mentre come risposta razionale alla originaria meraviglia () diventa logica della necessità, discorso necessario, Logos. Lo sviluppo moderno della scienza, delle singole discipline scientifiche e della mentalità scientifica, è dovuta alla cultura razionalistica, la quale ha impregnato le istituzioni storiche, dallo Stato alla istruzione scolastica, portando a dominio le strutture formali della Weltanschauung colta legittimate dal fondamento naturalistico dell’Essere. ciò è potuto avvenire dopo un millennio e mezzo di Cristianesimo, in quanto la tradizione metafisica occidentale, compresa quella cristiana, ha continuato a commettere l’ “antico errore” di concepire la conoscenza come “un rispecchiamento di ciò che È”. 751 Questo “errore” si riflette anche in Scheler allorquando ipotizza, quale “seconda intuizione evidente”, l’esistenza di un Essere assoluto che “è in modo esclusivo” e che “ha il suo essere in sé e solo in sé”, incluso il suo 751
J. F. Herbart, Hauptpuncte cit., tr. it., pag. 57.
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fine, e che perciò non può essere pensato che “come effettivamente dato”, poiché, come per Anselmo, “non c’è nulla di ulteriore all’essere assoluto”. 752 L’amore filosofico consisterebbe appunto in questa credenza ontologica che l’Essere sia esclusivamente assoluto, ovvero che sia il Tutto, per cui l’ascesi noetica consisterebbe nella rimozione della relatività dell’essere in divenire e nel pensarlo come assoluto, ossia privo di determinazioni dialettiche, privo della polarità incombente del Nulla che aziona la poiesi del divenire, e dunque necessario. Pensare l’Essere come (als ob) necessariamente essente, significa considerare la sua modalità contingente e ontica come ontologicamente necessaria, e quindi doverosa. L’etica razionalistica che pone l’essenza dell’ente come un dover essere dell’Essere, esclude ogni altra modalità d’essere di ciò che è, ossia la Possibilità di non-essere ciò-che-è ma altro, e dunque il divenire stesso come mistero di libertà. Ciò che Scheler considera una “sovrastima naturale e istintiva” dovuta all’ “orgoglio naturale” della coscienza biologica che arriva a negare “anche la morte”, è invece il carattere proprio dell’ontologia razionalistica, la quale, ponendo che “ogni ente possibile possiede necessariamente un essere essenziale o essentia e una esistenza (exsistentia), e questo del tutto indipendentemente da ciò che può essere”,753 non riesce a darsi ragione del Male che affligge ogni ente esistente nel tentativo di riportarlo al Nulla. Essendo il dover essere la consegna morale della coscienza razionale, la difesa dei prodotti storici di tale coscienza, il mondo umano delle opere fattuali, diventa perciò il fine etico di ogni politica, il cui ordine razionalmente pensato coincide con la struttura stessa dell’esistenza universale, cioè con la scienza. Da qui il dominio culturale dello scientismo moderno, dimentico dell’essentia e occupato a dominare la sola existentia degli enti reali. Infatti, asserendo la tesi che “qualunque cosa sia contenuta nell’essenza di un oggetto o valga per essa come tale, è contenuta o vale a priori e necessariamente per tutti i possibili oggetti esistenti di quella stessa essenza – a prescindere dal fatto che questi oggetti esistenti, o una parte di essi, siano per noi conoscibili o 752 753
M. Scheler, WdPh., pag. 295-297. M. Scheler, WdPh., pag. 299.]
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meno”, 754 è inutile nell’economia della conoscenza tornare a pensare l’essenza a priori di ciò che appare, l’esistenza, essendo già stata intuita una tantum ab origine, come “intuizione definitiva”, non è più rilevante ripensare l’origine di ciò che è “assolutamente evidente”, 755 mentre lo è pensare l’esistenza contingente, sempre relativa, e quindi al modo di orientare l’esistente verso il fine etico di conservarlo nel suo sé assoluto, contenendo la sua dissoluzione nel divenire lottando katechonticamente contro il Nulla. L’esperienza del pensiero si dipana quindi come una assoluta tautologia, che parte dall’Essere e finisce nell’Essere, esattamente come il ciclo naturale della vita. Sull’Essere la ragione umana ha costruito la sua storia ideale, la sua fenomenologia, che, fondata su una intuizione di fede, cioè su un Mito, è una mito-logia, senza peraltro riuscire a scongiurare l’inevitabile fine di tutte le opere umane, ossia di vincere il Nulla, pur rimosso dalla coscienza ma che incombe sul mondo con la sua eterna minaccia di disfacimento. 3. Asserire che l’intuizione della realtà “vale a priori” e sia “definitiva”, non implica che “ogni vero essere a priori sia a priori di un’essenza”, poiché il processo di razionalizzazione del dato di realtà, ossia il giudizio di realtà, riguarda non già il principio di realtà ma la sua interpretazione, cioè i criteri di collegamento, i nessi, tra fenomeni. L’esigenza di stabilire dei nessi universali quale criterio di veridicità del giudizio, non è legata alla intuizione ma a quella determinata conoscenza di tipo razionale che è la conoscenza logica. Ora, l’intuizione cristiana del mondo, così come altre esperienze di indagini antropologico-culturali, confuta esattamente questo assunto scheleriano circa il carattere “naturale” della Weltanschauung grecooccidentale, la cui validità culturale è tutto interno all’orizzonte ontologico creduto vero. L’orizzonte di credenza cristiano, però, non è di tipo logico-razionale ma mstico-spiritualistico. Esso non pone infatti il Logos distinguente come criterio di veridicità metodica, ma il sentimento di amore creaturale verso Dio, e ciò che per l’esperienza razionale è un 754 755
Ivi, pag. 301. Ivi, pag. 303.
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fictum, per l’esperienza cristiana è una realtà altamente significativa. La circostanza storica per la quale il Cristianesimo non abbia sostanzialmente mutato il modo di pensare dei popoli cristianizzati, tanto da non impedire dopo duemila anni un ricorso pagano verso nuove o antiche idolatrie mondane, è dovuta alla particolarità del suo processo di acculturazione, in senso connettivo e integrativo, ma non radicalmente incisivo a livello di intuizione del mondo; ossia nel senso di un cambiamento di Weltanschauung dal tipo naturalistico a quello spiritualistico. Come ha spiegato Scheler, “ogni Weltanschauung colta si eleva sul fondamento precedente di una Weltanschauung relativamente naturale e [si noti!] non può mai né rovesciare né mutare essenzialmente la sua validità e la sua consistenza”756 La dottrina cristiana ha inciso sul livello culturale delle tradizioni pagane, concentrando sulle strutture istituzionali lo sforzo di affermazione dei suoi postulati, pensati come razionali, al fine di consentire un novus ordo christianum di carattere socio-politico-religioso, secondo modalità di relazione tipiche della cultura classica, che il fine escatologico della fede credeva di inverare. Questa situazione è anche all’origine della dicotomia del Potere, diviso tra l’autorità sacrale della Chiesa e la potestà secolare dello Stato (imperiale o nazionale che fosse), che preludeva alla futura divisione tra la sfera privata dei convincimenti religiosi e la sfera pubblica della logica politica. All’origine di questa situazione è la conservazione dei fondamenti della intuizione antica del mondo nell’ambito della metafisica cristiana, la quale non ha mai fondato intuitivamente, se non nei grandi santi, la sua Weltanschauung, limitandosi ad assimilare e reinterpretare in chiave cristologica i prodotti culturali elaborati dalla tradizione di pensiero intuitivamente naturalistica e dunque di retaggio pagano. Da questa prospettiva generale, la differenza tra scienza e filosofia – che a Scheler pareva “nettissima” -757 in realtà sfuma del tutto, dal momento che la tendenza sincretistica della teologia cristiana mirava, nell’atto di interpretare il senso della realtà in chiave religiosamente orientata, anche di orientarla secondo i fini contingenti del controllo mondano della Chiesa, agendo perciò come un qualunque Potere politico e fruendo della 756 757
M. Scheler, WS, pag. 129. Corsivo nostro. M. Scheler, WdPh., pag. 303.
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conoscenza scientifica, sia in senso metodologico per l’elaborazione dottrinale dei suoi postulati di fede, che in senso pratico per l’edificazione delle strutture istituzionali di dominio. Non è un caso che pressoché tutti i modelli intellettuali elaborati dalla civiltà europea siano stati prodotti dalla cultura religiosa cristiana, detentrice del monopolio culturale. In una conferenza del 1925, Scheler, a proposito della questione della “formazione” dell’uomo (cultura animi), asseriva che essa fosse “una categoria dell’essere, non del sapere e del vivere”, in quanto impronta e configurazione assunte da una totalità vivente nella forma del tempo, di una totalità che consiste soltanto di decorsi, processi, atti [di un soggetto, al quale] corrisponde di volta in volta un mondo – un microcosmo -, anch’esso da intendersi come una totalità che in nessuna delle sue parti e in ognuno dei suoi elementi porta a manifestazione oggettiva, in modo più ricco o più spoglio a seconda dei casi, quasi ne fosse il riflesso oggettivo, la forma di una singola persona e di nessun’altra, quella forma che si è impressa nella persona e che vi si va sviluppando come un essere vivente. Non un ambito del mondo inteso come oggetto del sapere e dell’opera formativa dell’uomo o come resistenza che egli incontra nel lavoro e nell’azione, bensì un mondo come totalità, nel quale si ritrovano articolate in una struttura ordinata tutte le idee e i valori essenziali delle cose, ossia l’intero patrimonio essenziale che si realizza in quell’unico, grande e assoluto universo reale al modo di una contingenza esistenziale mai perfettamente comprensibile all’uomo: questo “universo”, che si va riunendo e si trova riunito in un essere umano individuale, è il mondo della formazione. 758 .
L’uomo spirituale è il “riflesso della struttura essenziale del mondo” inteso come “intero”, Uno e Tutto, nel quale “le essenze delle cose si incrociano e tutte si ritrovano in modo reciprocamente solidale”.759 Un sistema, dunque, armonico e totale. Come può esserlo una personalità vista dall’esterno del suo processo formativo, cioè come soggetto di imputazione causale dei suoi atti, ma internamente sempre in evoluzione, se è vero che è inserito in una “contingenza esistenziale mai 758
M. Scheler, Die Formen des Wissens und die Bildung.(1925), tr. it. in Formare l’uomo, Milano 2009, pagg. 54-55. FWB. 759 Ibidem.
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perfettamente comprensibile”, perché in fieri. Ecco pertanto che ritorna la dicotomia ontologica tra una struttura essenziale dell’Essere, e un movimento diveniente dei suoi accidenti contingenti, di chiaro sapore naturalistico e aristotelico, in cui l’essere microcosmico interagisce nel senso della “partecipazione” all’ordine naturale eterno. infatti, nel primo libro della Metafisica, dedicato alla Sostanza, Aristotile mostra che la realtà dell’essere è nella sua indivisibile unità ontologica, che è tutto il contenuto di ciò che esso è. La realtà sostanziale è nell’uno, da cui dipende l’unità di significato della sua definizione, ossia della sua conoscenza.760 La formazione consiste perciò nella conoscenza di ciò che è essenziale al mondo, a cui l’uomo deve idealiter sollevarsi.761 Diversamente, chi pensasse all’essenza umana in termini puramente naturalistici, di homo naturalis, dedito solo alla “intelligenza pratica” di garantirsi la “conservazione del genere”, ossia la sopravvivenza biologica, allora dovrebbe coerentemente “rinunciare all’idea e al valore della formazione”, 762 invertendo l’ordine funzionale della struttura biologica a quella spirituale, facendo della prima un fine anziché uno strumento. Mentre, “l’idea della persona umana spirituale-razionale, il suo valore in sé, persino la superiorità del suo valore ontologico rispetto a ogni possibile valore produttivo o vitale”, può accettarlo, in compagnia dei maggiori filosofi europei, solo chi sostenga, come Kant, che l’uomo sia “cittadino di due mondi”, quello della natura e quello dello spirito. Il comune “fondamento sostanziale e divino” dell’uomo – si noti la giustapposizione del senso naturalistico e del senso spiritualistico di sostanza umana – viene da Scheler ravvisato nell’ “amore disinteressato e nella capacità di separare, in ogni oggetto, l’essenza (il che cos’è) da ciò che esiste contingentemente qui e ora ed è fatto in un certo modo”, in cui consiste “l’atto puramente ‘spirituale’ presente nell’uomo”.763 Ma l’identificazione dello spirito con la greca proprietà umana della ragione, resta alquanto problematica, dal momento che il filosofo deve 760
Aristotile, Metafisica, libro VII (Z) 1, 1028 sgg., ed. a cura di G. Reale, Milano, 2014, pagg. 287 sgg. 761 M. Scheler, FWB., tr. it. cit., pag. 56. 762 Ivi, pag. 60. 763 Ivi, pag. 61.
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ammettere come precipua all’uomo la ulteriore virtù cristiana dell’Amore come facoltà unificante, che contraddice la facoltà distinguente dell’intelletto. La supposta coesistenza di queste due tendenze, ugualmente originarie ma opposte, non giustifica razionalmente la preferenza ontologica di una all’altra, insinuando il suo carattere ideologico denunciato da Nietzsche, da Marx e da Freud. Asserire, infatti, che l’uomo naturale sia in un “vicolo cieco”, la cui “via d’uscita” sarebbe costituita dal suo “essere spirituale”, non si giustifica sul piano ontologico l’esigenza della sua “umanizzazione” intesa come “divinizzazione”, in un senso che per Scheler è promiscuamente “antico e cristiano”, 764 quasi che ci fosse per l’appunto una struttura originaria dell’essere umano che fondasse ogni paradigma antropologico colto, allo stesso modo fondato su una stessa Weltanschauung “naturale”, secondo una ipotesi apertamente negata dallo stesso Scheler, il quale, anche in questa sede, intende assumere un “concetto di uomo che non include alcuna nota empirica contingente della creatura terrena che porta questo stesso nome”, 765 volendo con ciò significare che il senso soteriologico della storia personale ne potesse prescindere. Ma proprio questa tensione (Spannung) a negare o a rimuovere l’elemento contingente della vita umana, se consentiva l’astrazione noetica propria del theorein metafisico, impediva la comprensione della concretezza esistenziale della persona totale, vivamente rivendicata dalla concezione cristiana dell’uomo, personalista proprio perché distante dalla visione greca dell’uomo come animal rationale. Educare l’uomo a considerare prioritaria la sua componente spirituale senza porla a dominio della sua natura biologica, è il contenuto della paideia cristiana correttamente intesa, che ha sempre rigettato le tesi monofisite e unilaterali, esclusive della parte vitale della creazione, presente imprescindibilmente anche nell’ uomo, e non nell’astratta “umanità” delle concezioni razionalistiche. Scheler sottolinea che “non è l’intelligenza pratico-tecnica a rendere l’uomo in senso essenziale l’uomo [ma] soltanto il possesso di atti che abbiano una legalità autonoma rispetto a tutta la causalità vitale psichica (ivi compresa l’intelligenza 764 765
Ivi, pagg. 62-63. Ivi, pag. 62.
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pratica governata dalle pulsioni) costituisce la vera novità”. Però, come aggiunge subito dopo Scheler, si tratta pur sempre di una “legalità”, la quale “non procede analogamente e parallelamente al decorso delle funzioni nel sistema nervoso, bensì in analogia e in parallelo alla struttura oggettiva, reale e assiologica del mondo stesso”,766 come se potesse cambiare qualcosa per l’uomo essere determinati da un destino naturale o dalla necessità della Ragione universale. Se infatti il destino, consapevole o istintivo, dell’uomo è l’uniformità alla struttura cosmica originaria, restiamo entro l’orizzonte naturalistico della Necessità, ossia della forza cosmica cogente, verso la quale la libertà cristiana è “follia”; compresa la costruzione politica come socialità alternativa a quella naturale. L’incivilimento come consapevole uniformità al Logos è istanza razionalistica della filosofia greca e della sua dottrina antropologica, ma non può essere la visione cristiana dell’uomo, anche perché non dà ragione della tensione eversiva dell’uomo dalle leggi, pur credute necessarie, della Natura. Esattamente l’esigenza unitaria della condotta umana di uni-formarsi alle leggi uni-versali del cosmo, indica il criterio razionale del pensiero filosofico in senso greco, la cui validità risiede appunto nella corrispondenza possibile tra l’agire umano e la necessità universale, riponendo nella riconosciuta universalità la forma stessa della verità di ogni possibile contenuto. Il punto di vista naturalistico nasconde l’atteggiamento incongruente ricordato da Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi e richiamata dallo stesso Scheler in una nota, 767 per cui se l’esito finale dell’artificio umano fosse di compiere i dettati della natura, allora il mezzo più efficace non sarebbe la ragione ma l’istinto animale. Ma la “capacità [umana] di cogliere un valore in astratto”, non vuol dire riconoscerne la sua verità, ma solo appunto la sua astrattezza, ossia l’oggettivazione del mondo, la quale operazione intellettiva, essendo generalmente possibile all’uomo, non dice ancora niente né della sua presunta necessità, né tampoco della sulla sua verità. Ogni teoria è il prodotto di una astrazione, ma quale sia quella vera, l’astrazione non dice. E appunto in questa indeterminatezza risiederebbe la differenza tra le scienze e la filosofia; che però Scheler non mostra, né potrebbe farlo, 766 767
Ivi, pag. 65. Ivi, pag. 61.
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poiché, sul fondamento del suo presupposto, non esiste, come infatti ha mostrato lo sviluppo della conoscenza. 768 D’altronde, che “le leggi universali – tanto come leggi di natura, quanto come leggi morali – siano sempre leggi esclusivamente negative”,769 non dimostra soltanto che la positiva manifestazione della volontà umana sia determinabile sulla circostanza della singolarità esistenziale dell’autore, ma anche e soprattutto che il vero principio universale è negativo, e pertanto non coincidente con alcuna qualità dell’Essere, come pensavano i Greci e pensano tutti i razionalisti. Ciò che l’uomo può fare, diversamente dagli animali, non è di cogliere un valore in astratto, operazione che anche un sistema intelligente può fare, ma di costruire su un valore una corrispondente realtà significativa. Ciò vuol dire che qualunque dato di realtà non viene considerato dall’uomo come originario, ma come prodotto di una genesi ideale. La differenza tra la genesi naturale e quella divina, è nella gratuità della seconda, la quale, a differenza della prima, non soggiace ad alcuna necessità ma è solo a una imponderabile volontarietà, ossia a libertà. L’agape cristiana è il sentimento di questa libera intenzione divina creatrice di realtà. Riguardo all’uomo, tale divina consustanzialità si manifesta come capacità di liberarsi dalla necessità della vita naturale, alla quale ogni altro esser vivente che non sia l’uomo soggiace inesorabilmente. Il senso greco di tale libertà era l’organizzazione politica, secondo un principio di ragion pratica che persiste anche nella sua elaborazione razionale, che ha per condizione la selezione dei comportamenti umani razionali secondo lo scopo, a esclusione di quelli difformi dal modello assiologico di prassi. Questa è la ragione per cui Platone ipotizzava la possibilità di indurre dall’esterno quella conversione del punto di vista non-razionale nel senso del modello formale, secondo una prospettiva istituzionalisticopedagogica praticata da tutti i popoli e magnificata dalla civiltà giuridica romana. Con la scoperta cristiana del valore della libertà come essenza della volizione umana, la prospettiva oggettivistica del razionalismo della civiltà pagana perde la sua funzione pedagogica, in quanto la scoperta 768
“Dal punto di vista teorico-conoscitivo l’assunzione della legalità di natura è soltanto un a priori che seleziona secondo un criterio vitale, non si tratta quindi di un a priori razionale ontologicamente valido”: Ivi, pag. 73. 769 Ivi, pag. 72.
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della personalità spirituale rivela la singolarità della vita interiore, ispirata dall’intenzione, ossia da un motivo che non è oggettivo né universale ma, al contrario soggettivo e personale, e perciò più vincolante di ogni ordine formale ed esterno, perché e quando spontaneamente considerato assiologicamente prioritario. In questo senso, la priorità temporale della sensazione e della appercezione della realtà naturale, lascia il posto alla priorità della valutazione morale del mondo, in base alla quale intuizione la realtà acquisisce un significato culturale. L’intuizione morale in cui è costruita la realtà politica e giuridica della civiltà antica appartiene a un orizzonte di senso completamente diverso da quello fondato sull’intuizione cristiana, che, al contrario della dialettica razionale, non distingue l’essenza razionale dalla esistenza contingente, ma afferma la fede nella totalità concreta della persona quale imago Dei, e come tale partecipe anche di quella alterità che non trova posto nella visione esclusiva del razionalismo, ma che appartiene all’uomo come male, peccato e smarrimento, che Kierkegaard chiama “angoscia”. Il filosofico non è l’angoscia cristiana, così come il filosofico non equivale alla conversine del cuore, alla . Non si tratta, cioè, nella prospettiva cristiana, di “mettere tra parentesi” la realtà vivente, ma di spiritualizzarla con la testimonianza della libertà della fede, per cui la “formazione” dell’uomo in senso spirituale costituisce sempre una rottura rispetto alla visione tradizionale del mondo, poiché il senso della fede è riposta nel dare credito a ciò che non è realtà attuale, agendo perché lo divenga. E non già per mero spirito utopistico o illusorio, ma in quanto la visione spiritualistica della realtà non è determinata nel senso della sua attualità, investendo la totalità che manca all’Essere attuale, esprimendosi non come giudizio parziale, inerente alla sola effettualità ontica generalizzata dal concetto, ma come amore verso tutto l’Essere, comprensivo di ciò che non appare. E non perché compresa idealmente nell’unità categoriale, ma perché riguarda la cifra simbolica che quella presenza rappresenta, e che riguardo l’uomo inerisce alla sua vita interiore, alle sue speranze e attese e delusioni e gioie. Se il giudizio è determinante, l’amore è totalizzante. Ma proprio perché “questa formazione strutturale riguarda non solo l’intelletto, il pensiero, l’intuire, bensì in misura non minore le funzioni dell’animo – ciò che il
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linguaggio popolare chiama il cuore”, la sua “essenza” non può essere “quella delle forme dell’intelletto”.770 Il “sapere in quanto tale”, se, come sostiene Scheler, “deve essere definito con concetti puramente ontologici”, essendo “un rapporto ontologico che presuppone le forme ontologiche dell’intero e della parte”, 771 non si supera l’orizzonte razionalistico, poiché il “prendere parte” che “non determina alcun cambiamento dell’esser-così di un altro ente”, non trascende l’essere in senso comprensivo del sé coscienziale e dell’ente di coscienza, ma stabilisce appunto solo una “relazione” di coscienza, che Scheler chiama “amore” ma che in realtà è una “coincidenza” dell’oggetto empirico intuito col modello ideale o significato. 772 E ogni atto di coincidenza presuppone la volontà di negare ciò che non coincide, ossia la totalità. Una volontà politica. L’agape è la risposta totale alla esclusività dell’agire politico in base alla logica della distinzione, che, come nei fenomeni naturali, privilegia il più forte, ossia il più partecipe alla legge universale della priorità dell’essere dell’ente sulla sua possibilità, giudicata ni-ente. La fede agapica, al contrario, privilegia tale possibilità sulla necessità che qualcosa sia anziché non, chiamando miracolo la realtà che manifesta la fede nella inpossibilità che diventa possibile. Ciò confuta la teoria scheleriana della libera volontà dell’uomo come “forza che inibisce e disinibisce le tendenze pulsionali” (non fiat), per cui lo spirito non sarebbe mai “un principio che crea, quanto un principio che pone limiti e mantiene la realtà contingente nella cornice di ciò che è possibile per essenza”, 773 poiché la posizione del Limite presuppone il dominio necessario della forza nelle relazioni umane, ossia l’organizzazione sociale informata alla logica del Potere come valore positivo, secondo la dinamica tipica caratteristica del rapporto tra auctoritas e potestas più volte richiamata. Invece, nella prospettiva cristiana, non vi è alcuna necessità acché il modus vivendi socialitario sia di tipo politico, ma solo l’intima disposizione degli uomini a crederlo naturale e come tale necessario. E 770
M. Scheler, FWB., tr. it. cit., pagg. 76-77. Ivi, pag. 78. 772 Ivi, pag. 80. 773 Ivi, pagg. 66 e 67 n. 15. 771
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dunque l’Amore o l’Odio non sono impulsi equivalenti nell’animo umano se non in astratto, ossia fuori della concreta determinazione della oro rispettiva ispirazione. Ma sul fondamento della loro priorità è possibile costruire la Città degli uomini, guidata da Cesare, ovvero la Chiesa, guidata da Dio. Quest’ultima non è una città al servizio di Dio ma per ogni altro verso politica, ma una comunità ispirata al modello di santità di Cristo, abitata solo in chi crede in quel fiat che edifica la realtà dell’Amore. La paideia ipotizzata da Scheler all’insegna della “umanizzazione che è una auto-deificazione”,774 prescrive una Bildung in cui è assente il ruolo della Grazia, chiudendo l’uomo nell’ autoreferenzialità della sua esperienza culturale, fuori di ogni apporto decisivo di verità rivelata, compensativa di quella anche se consolidata ma pur sempre limitata esperienza esistenziale di una civiltà. Ciò fa la differenza tra la santità o “deificazione” del cognoscere in lumine Dei, 775 ispirata dalla fede, e l’educazione rinascimentale dell’uomo universale, che presuppone “l’accettazione positiva del mondo”,776 ossia la credenza ontologica che l’Essere sia Tutto, e dunque l’esclusività della realtà ontica della creazione, senza la presenza decisiva del Creatore, senza la realtà del Quale non può neppure esercitarsi l’Amore alternativo al sentimento politico, non a caso dominante nella Città antica e nello Stato moderno sortito dal Rinascimento. È l’amore come Eros verso il mondo qual è a determinarlo in senso universale come necessario, sublimando nell’immagine ideale la caducità dell’ente fenomenico reale, negando il suo divenire, ossia la realtà effettuale in cui esso è inscritto. L’essenza costante delle cose non è altro dunque che l’immagine ideale privata del divenire reale. Tale negazione avviene assumendo il particolare come espressione dell’universale, come suo riflesso empirico oggettivato L’universalità, cioè la forma oggettivata di ciò che è, dell’ente, è la rappresentazione della realtà ideale come esistente in senso razionale; questa modalità di esistenza razionale è la premessa della conoscenza onto-logica o per essenze. Rispetto ad essa, la 774
Ivi, pag. 67. Ivi, pag. 70. 776 Ivi, pag. 69 n. 17. 775
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conoscenza scientifica è una derivazione metodica basata su tipologie che, diversamente da quelle ritenute eterne dalla metafisica, sono empiricamente verificabili. Questa esigenza di verificabilità delle astrazioni aprioristiche del metodo generalizzante, ha screditato la metafisica delle essenze tradizionale a favore di una più modesta ma anche più umana conoscenza trascendentale, la quale, trovando nella realtà naturale i suoi limiti euristici, ha fatto della conoscenza empirica del “contingente esser-così” il limite gnoseologico della conoscenza essenziale, rovesciando il rapporto assiologico suggerito da Scheler, a favore del “mondo vitale della relatività esistenziale” invece che della “realtà assoluta delle cose”.777 D’altronde, l’ammissione dellva utilità del sapere scientifico per la civiltà dell’uomo778 nasconde nel filosofo la necessità, già avvertita da Platone, di vedere confermate le sue “visioni” dal consenso generale, ossia dalla , così a suo tempo vilipesa, e quindi dalla validazione empirica dei costrutti razionali attraverso l’ordinamento sociale ( ), secondando l’esito ideologico della filosofia entrata nell’agone politico di cui si è detto con la Arendt. Ma proprio questa latente esigenza del mondo rivela surrettiziamente l’impraticabilità della strada filosofica tracciata dall’ontologia greca, la cui pretesa universalità si infrange con l’estremo limite della sua astratta conoscenza dell’ente, superato il quale per intima esigenza pervasiva, esso si converte nel suo opposto reale, ossia in quel ni-ente negato per statuto critico dalla necessità positiva del Logos. E dal temuto Nulla il metafisico cerca di salvarsi dedicandosi infine al “sapere di redenzione”, 779 ossia a quel principio archetipo dal quale il Logos per auto-definirsi si era emancipato e a cui era tornato per una intima del pensiero verso la divinizzazione, compiendo la “seconda navigazione” di cui ci parla Platone nella Lettera VII.
777
Ivi, pag. 85. Ivi, pag. 86. 779 Ivi, pag. 86. 778
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IV IL SENSO CRISTIANO DELLA STORIA
“Cultura come trionfo dello spirito sulla natura è l’opera più propria del cristianesimo, così come l’essere cristiano è, a sua volta, il culmine di una coscienza profondamente colta.” (K. Barth)
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1. Il senso greco del tempo è scandito dal doppio movimento del divenire di tutte le cose e dalla condizione immota delle idee. Questa costituisce una fuga fuori del tempo, parallela alla distanza ontologica che separa gli enti dalla loro essenza ideale, ma la regolarità del tempo è data dalla legge di sviluppo che presiede ai fenomeni naturali, che nella logica di Aristotile è indicata col termine di (o = concatenazione). Il termine deriva da (progressione) e “indicava non soltanto la connessione logica tra due affermazioni, ma la sequenza completa per mezzo della quale una enunciazione era ricollegata ai primi princìpi ()”.780 Secondo Gregorio di Nissa (335-395), ”esponente di spicco della retorica tardoantica”,781 “le leggi naturali non sono l’espressione di un cieco destino, ma di una Provvidenza che guida le cose al loro fine, che è l’unione con Dio”, e pertanto “l’ è un processo di divinizzazione”.782 Quello che l’ordine divino del cosmo doveva garantire è “una successione ordinata il cui termine è l’instaurazione di ogni cosa nel Cristo”, 783 per cui il sacro scopo finale che compendiava l’intera creazione ne giustificava lo svolgimento, costituendolo nella sua necessità, trascendente ma pur sempre tale. “Così la forma dell’uomo che deve esistere è in potenza nel germe, ma vi si trova ancora nascosta perché non può manifestarvisi che secondo una successione necessaria”. 784 La successione regolare () della creazione è parallela alla successione temporale () degli eoni, ma il principio originario che “sta al di sopra della creazione, sfugge a ogni successione temporale e non conosce progressione né limite a partire da nessun principio fino a J. Danielou, L’etre et le temps chez Gregoire de Nysse (1970), Roma, 1991, pag. 72. Il termine fu usato anche da Plotino : ” ”, Enneadi, I, 8, 2. 781 E. Dal Covolo-E. Vimercati, Filosofia e teologia tra il IV e il V secolo, Città del Vaticano, 2016, pag. 180. 782 J. Daniélou, Essai sur le mystère de l’Histoire (1953), tr. it., Brescia, 20123, pag. 263. 783 Ivi, pag. 262. 784 Gregorio di Nissa, Vita di Mosè, 236 B-C, cit. da J. Daniélou, Essai, tr. cit., pag. 264. 780
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nessun termine finale”. 785 Ciò vuol dire che l’ordine divino che conduce a Dio include una progressione infinita ( ) che, se per un verso si concilia con la singolarità dell’esperienza salvifica di ogni uomo, per l’altro conferma la distanza incolmabile tra le virtù umane e la santità divina, che appunto si pone fuori del tempo, ossia fuori del divenire. Vi è, non di meno, all’interno dell’economia della salvezza, un evento centrale, che è il Cristo, che è il focus ermeneutico e temporale esplicativo del senso della necessità della , che non è temporale, ma soteriologica. Da qui nasce l’esigenza di “dare una spiegazione coerente del passaggio dell’uomo dal suo stato originario di creazione allo stato attuale, partendo dai dati della Scrittura, ma interpretandoli”. In questa esegesi consiste la teologia intesa come “esercizio dell’intelligenza che cerca di penetrare l’oggetto della fede”. 786 L’intelligenza consiste perciò nel tradurre in senso umano-razionale il récit scritturale, assumendo implicitamente che il disegno della creazione sia razionalmente interpretabile. E da questa premessa deriva la consequenziale acquisizione del metodo filosofico in sede esegeticoteologica. Il senso etimologico e traslato della è indicato dal verbo che significa venir dietro, accompagnare, seguire, sicché l’espressione nominale astratta indica per traslato una condizione, volontaria o involontaria, consequenziale, e dunque in qualche modo necessaria, a un evento che la comporti. Ad es., la morte è “conseguenza” del peccato originale; ma non nel senso della causa diretta, ma come ripercussione.787 Il seguire qualcosa, accompagnarlo come un’ombra, sta a indicare un processo che dilaga indipendentemente dalla causa originaria. In questo senso intendeva il processo storico la Arendt, come “intrico delle relazioni umane”, in cui “avvio non si consuma mai inequivocabilmente in un singolo gesto o evento, e il [cui] vero significato non si rivela mai all’attore, ma solo allo sguardo retrospettivo dello storico che non agisce”.788 Il processo dell’azione è la conseguenza 785
XLV, 364 C, 365 A; cit. in J. Daniélou, Essai, tr. cit., pag. 265. J. Danielou, Essai, tr. cit. pag. 267. 787 J. Daniélou, Essai, tr. cit.., pag. 268. 788 H. Arendt, HC, tr. it. cit., pag. 172. 786
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() che si rende indipendente, e perciò necessaria, in quanto ne è lo sviluppo che incombe sugli eventi come una necessità incontrollabile e inevitabile. Ma qual è il senso di codesta incombente necessità? Per comprenderlo, dobbiamo rifarci alla differenza tra la volontà dell’uomo di dominare col pensiero e con l’azione il mondo, e la razione della Natura che oppone le sue leggi al desiderio umano di piegarle alla sua volontà. Il processo dell’è l’ordine naturale che l’azione umana viola nel tentativo di sovvertirlo. Quell’ordine che si oppone al desiderio umano rappresenta il Limite di una necessità incombente sull’agire degli uomini, che frena, che stabilisce la differenza tra desiderio astratto e libertà possibile. L’azione dell’uomo non è prevedibile nelle sue conseguenze, e perciò essa va limitata alle sue umane possibilità. L’imprevedibilità indica l’impotenza dell’uomo a dominare gli eventi da lui stesso procurati, e dunque indica la sua necessaria soggezione a una forza soverchiante i suoi desideri di dominio, alla quale egli è ragionevolmente tenuto conformarsi. L’indica positivamente tale conformità, nel senso dell’affidamento a ciò che travalica ogni umano potere di controllo. Vi sono dunque due risvolti della: quello negativo del Limite alla sovranità dell’uomo, e quello positivo della Conformità della condotta al senso del processo cosmico naturale. Il Limite e la Conformità sono i due elementi essenziali della saggezza, che impediscono sia la deriva della hybris che quella della servitù. La liberazione dalla della vita umana coincide anche in Gregorio con la contemplazione (), che, in senso classico, è una astensione dalle occupazioni della vita pratica, ossia un ritiro dal processo dell’agire umano collettivo. Sul piano morale, questo ritiro coincide col perdono, il quale consiste nell’astenersi dal giudicare le azioni umane che abbiano potuto incidere sugli eventi come loro Perdonare, significa dunque decidere di interrompere la catena causale, e dunque delle responsabilità, perché l’attore se ne liberi. Ma come può la debolezza umana interrompere la catena della Nel solo modo possibile, di astenersi dal farne parte. E quindi implicitamente nel riconoscerne la potenza, astenendosene dallo sfidarla, e così dal conformarvisi. Ma riconoscere la potenza della non vuol dire sottometterlesi.
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Questo il punto decisivo. Liberarsi da essa significa sì riconoscerla, ma come realtà altra. Il theorein presuppone una epoché del mondo comune, dominato dalla Necessità. Che è mediatamente la Natura, ma per l’uomo, direttamente, è il collettivo umano, gli altri. Fare l’ della , equivale a mettere tra parentesi la vita sociale, facendo emergere il singolo e la sua coscienza. Ma cosa se ne fa l’uomo di una libertà intesa come askesis, come rinuncia al mondo comune? La risposta filosofica verte sull’incontro della volontà umana con il Logos universale, che è la stessa ragione del mondo, e pertanto con la riconciliazione della coscienza razionalmente libera con la Necessità cosmica. In questo senso l’hanno intesa anche i teologi cristiani pensando alla ragione come serva della teologia. Ma questa identità di vedute è stata possibile in quanto il Cristo è stato pensato come il Logos della tradizione filosofica. In realtà, l’originaria risposta cristiana al fine della libertà era un’altra, consistente nell’inversione del processo universale a partire dall’evento del Mistero cristico, che per espansione () affermasse la “storia della salvezza come un’invasione progressiva del bene che cerca di ridurre il peccato”. 789 Si spiega così il senso della conferma in ambito di economia della salvezza del concetto naturalistico della , che, rivisitata in senso cristiano, sta a indicare appunto l’espansione di un principio contrario a partire dalla storia di Cristo e, per ogni uomo, dal suo agire conforme al Bene, secondo le sue capacità. Questa “reintegrazione della natura umana a opera di Cristo”, coincide con l’azione della Grazia in ogni anima umana,790 la quale pertanto si costituisce come una qualitativamente diversa da quella segnata dal peccato originale, come l’economia della storia della salvezza. Infatti, la decadenza dalla condizione edenica originaria ha comportato la perdita della completezza umana, che Dio aveva stabilito per ogni creatura. L’uomo, a seguito del suo desiderio di conoscenza, si è dissociato dalla Totalità ingenua della creazione, e cioè dal volere di Dio, verso il Quale egli deve ora tendere progressivamente, ossia nel tempo, per riconquistare 789 790
J. Daniélou, Essai, tr. cit., pag. 271. Ivi., pag. 272.
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l’origine perduta. In questo processo di divinizzazione, “il mistero del tempo finisce per chiarirsi completamente e appare il suo contenuto religioso: esso, come già aveva visto Origene, ha per fine di permettere il ritorno delle libertà a Dio, ritorno che non può essere che progressivo” ().791 La necessità della progressione, ossia dello svolgimento del processo nel tempo, è l’essenza del divenire, il quale non è altro che il processo ad quem di uno sviluppo imperfetto verso il suo compimento, che è anche il suo fine (telos). È la condizione imperfetta dell’uomo a necessitare il divenire verso la perfezione, consistente nel ritorno a Dio. Un ritorno storico, scandito nel tempo. La cognizione del divenire nella filosofia greca è data dall’Idea, che rappresenta la realtà immobile a fronte di quella diveniente. E l’astrazione che prescinde dal divenire per giungere al theorein indica esattamente il mezzo col quale si perviene alla realtà immobile ideale, quella appunto priva di divenire. L’adozione di concetti metafisici greci, a partire dal Logos, per rappresentare in senso teo-logico l’eskaton cristico, ha condizionato la tradizione cristiana, fino alla trasfigurazione della storia di Cristo, la cui unità è esistenziale, non concettuale. Col dogma di Calcedonia, in cui si definisce la Persona ipostatica di Cristo come Incarnazione del Verbo divino, e dunque la duplice natura teandrica del Figlio, si definisce anche il fine della natura umana, che è appunto la divinizzazione, il cui processo è già compiuto in Cristo ma non ancora nell’uomo. ancora una volta, però, il percorso della divinizzazione, è concepito come la teleiosis della fisica aristotelica, ossia un processo finale necessario e perfetto, e l’Incarnazione come la sua compiutezza “al di là della quale non v’è nulla”. 792 Anche questo ordinamento () è soggetto alla necessità di un processo ( ) che da naturale diventa spirituale, cioè storico ma, sia pure nella sua articolata scansione temporale, comunque teleologicamente necessario. L’evento della Incarnazione pertanto diventa la storia dell’asservimento dello Spirito libero alla necessità naturale, sia pure assunta come strumentale al fine escatologico del ritorno al Padre. Se dunque il telos della creazione è la divinizzazione come ritorno alla perfezione originaria 791 792
Ibidem. Ved. J. Daniélou, Origène (1948), trad. it., Roma, 1991, pagg. 337-342. J. Daniélou, Cristologia e storia, in Op. cit., pag. 210.
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pre-adamitica, il processo intermedio tra la caduta e la redenzione finale è il tempo della imperfezione, che si compie con la morte, la vittoria sulla quale definisce la compiutezza del percorso soteriologico. In altri termini, l’ è il processo (che per la condizione umana è naturalestorico) necessario al conseguimento della perfezione spirituale, la cui necessità è appunto relativa all’imperfezione umana, che nel caso della persona perfetta di Cristo, manca. A questo punto occorre ribadire che il concetto di compiutezza espresso dai Vangeli è diverso da quello idealistico greco. Cristo, infatti, non è un concetto ideale, ma un evento spirituale, la cui totalità consiste, non già nella compresenza delle tre dimensioni temporali in una indefinibile unità, quale viene solitamente rappresentata in termini cronologici, ma nella trascendenza della dimensione temporale, nel senso dell’eternità, la quale pertanto non può essere pensata con lo strumento dialettico della metafisica naturalistica della tradizione filosofica greca. Cosa vuol dire infatti divinizzarsi se non trascendere la finitezza della natura (ossia del linguaggio, del pensiero e dell’esistenza) umana nella considerazione della visione totale dell’uomo quale creatura spirituale? E in che altro consiste la “guarigione” dell’umanità a opera di Cristo se non dalla visione meramente temporale della vita e da quella statica e astorica della filosofia, per mezzo della nuova prospettiva escatologica? Secondo Daniélou, “il carattere escatologico [della Incarnazione] consiste nel fatto che nel Cristo l’alleanza tra la natura divina e la natura umana è per sempre acquisita”, e che “le due nature, una volta unite, non possono più essere separate”; ed è ciò che fa sì che “il Cristo sia veramente mediatore ossia riunisce in sé la due nature senza confonderle”. 793 In considerazione di questa condizione irreformabile, perché voluta da Dio e non prodotto del’uomo, non è possibile distinguere le due nature concettualmente, attraverso cioè lo strumento della logica naturalistica della metafisica greca, la quale sulla metodica distinzione di essere e nonessere basa la validità delle sue analisi teoretiche. Ciò comporta che la considerazione della persona umana come esistenza integrale o totalità non possa vertere sulle sole manifestazioni della sua volontà determinata, ma debba assumere un carattere comprensivo anche della sua intenzione 793
J. Daniélou, Loc. cit., pag. 213.
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non espressa, della intima realtà dell’animo umano. Questa realtà interiore infatti non consta di soli desideri astratti da ogni concreta fattibilità, cioè di fantasie interne alla sfera immaginativa, ma è custode di una possibilità non espressa di considerare l’uomo nella sua integralità esistenziale, oltre cioè le sue manifestazioni volitive, e comprensiva perciò della sua natura spirituale, che si rivela solo nella fede in Cristo come modello di persona integrale, e che si manifesta come amore dell’Altro (agape). All’interno del rapporto agapico, viene superata la distinzione tra natura e spirito, proprio in quanto non sono più rilevanti le sole azioni della volontà, ma anche le riposte intenzioni, che costituiscono la sfera del niente per la logica positiva. In questo precipuo senso comprensivo del Negativo, l’amore cristiano vince la morte, cioè l’in-esistente per antonomasia, costitutivo dell’in-visibile e dell’in-esprimibile, ossia appunto del ni-ente. Escatologico diventa dunque il punto di vista integrale, con-prensivo anche del Niente, anche cioè di quella realtà riposta dell’esperienza umana che non si manifesta, che è interiore e spirituale. La Rivelazione di Cristo è pertanto la manifestazione di ciò che è in-visbile alla ragione positiva, che l’ontologia pagana non considera perché non vede, identificando l’Essere reale con la volontà, e, come Pilato, la verità col Potere, la volontà più forte. L’esigenza di dare esistenza alla realtà concettuale deriva dal presupposto idealistico di considerare reali solo gli enti razionali. L’ulteriore passaggio realistico è stato quello kantiano di considerare reali solo i contenuti di pensiero fenomenici, esperibili nel mondo positivo. È impossibile non vedere lo stretto nesso esistente tra la logica trascendentale e la gnoseologia scientifica moderna; così come non è difficile scorgere lo stretto legame che intercorre tra la critica della metafisica medievale e la rimozione razionalistica dei fondamenti di fede trascendenti, ossia della rimozione della questione della Verità come conoscenza della Totalità, che anche in sede teologica ha coinciso con la tipica demitizzazione operata dalla filosofia. Ma cos’è considerato Mito dalla logica filosofica se non la realtà indistinta del Tutto? E cos’altro è il Mythos se non la realtà molteplice del legein precedente la distinzione tra essere e non-essere operata dal Logos razionale, che tra le tante doxai trasceglie l’unica vera? L’equivoco idealistico è quello di considerare verità l’opinione più
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universale, quella cioè più astratta dalla diversa particolarità degli enti molteplici, anziché il legein trascendente ogni particolare determinazione,e quindi più comprensivo di senso. Da qui la tendenza sistematica a distinguere il ragionevole-compatibile con l’irrazionaleincompatibile. Ma è sul piano teologico-politico che l’idea della unità della volontà sovrana trova il suo più chiaro rispecchiamento. Nella sfera dell’esistenza pratica, infatti, analogamente che “nei sistemi politeistici”, in cui “anche un dio, per quanto potente, non può essere sovrano”, in termini di realtà politica “nessun uomo può essere sovrano perché non un uomo, ma gli uomini abitano la terra”, e pertanto “solo con l’adozione di un solo dio sovranità e libertà possono identificarsi”. 794 Sicché il superamento della politeia come libero esercizio retorico degli uomini liberi può avvenire platonicamente soltanto imponendo sul piano teoretico una verità inoppugnabile, che sul piano politico si rispecchia in un sistema di relazioni sociali razionali. La lotta al politeismo,al pluralismo delle opinioni e alla policrazia dei sofismi sono aspetti di una stessa operazione di razionalizzazione del pensiero e della vita sociale a opera della filosofia. L’equivoco consisteva nel credere che la verità fosse l’Uno, inteso come l’opposto ai Molti, anziché il Tutto che li trascendeva. Ora, che l’avvento di Cristo segnasse la fine di un mondo, quello naturalisticamente pensato e vissuto, e l’inizio di uno nuovo, della concezione integrale dell’uomo (), è una verità di fede comune a tutte le confessioni cristiane, e non solo, che costituisce “uno dei tratti caratteristici della teologia cristiana della storia”. 795 Come infatti asseriva Gregorio di Nissa, l’avvento di Cristo era stato preparato da Dio con una educazione progressiva che includeva imprescindibilmente la concezione monoteistica, poiché “bisognava che il monoteismo fosse radicato nell’umanità perché questa fosse in grado di accogliere la rivelazione trinitaria”.796 Nondimeno, questa pedagogia della salvezza resta comunque legata alla misteriosa sapienza divina, che “è impossibile legare a una condizione qualsiasi determinata dall’uomo, non trattandosi di una maturazione che produrrebbe quasi necessariamente un frutto, [per 794
H. Arendt, HC, tr. it. cit., pag. 173. J. Daniélou, Op. cit., pag. 214. 796 Cit. da J. Daniélou, Loc. cit., pag. 218. 795
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cui] nessun criterio permetterebbe di calcolare in anticipo il tempo della venuto di Cristo”.797 Ciò significa che lo stesso disegno divino è slegato da ogni necessità naturalistica, inerendo a un’altra dimensione quella spirituale, che per definizione è caratterizzata dalla libertà. In questo senso, la sfera escatologica è quella della libertà, come la sfera ontologica è quella della temporalità. La totalità della persona umana è una totalità imperfetta, che necessita della presenza di Dio, ossia della mediazione di Cristo, per completare la sua fisionomia soteriologica. Il dialogo con Dio è la modalità propriamente spirituale dell’uomo di completarsi con l’agape, alternativa a quella greca della politicità (), intesa come dimensione dialogica all’insegna della tecnica razionale, e polemica all’insegna dell’Eros. In tal senso, il personalismo cristiano non è individualismo, ideale autosufficienza dell’homo rationalis; esso infatti presuppone un percorso di salvezza che, incentrato sulla Rivelazione come Verità di fede, si dispiega lungo l’esistenza dell’uomo come storia spirituale, scandita appunto da eventi significativi in relazione alla meta della divinizzazione. Il rapporto con Dio si può sviluppare come un itinerarium mentis o come un viaggio della salvezza scandito da eventi esistenziali significativi. In ogni caso, nell’ambito dell’economia odeporica, la diversa possibilità di considerare la funzionalità degli strumenti della salvezza resta vincolata alla meta prefissata di rappresentare il mondo sub specie Dei, che definisce la posizione dell’uomo nella storia trasvalutata dalla fede, costitutiva del suo carattere spirituale. Il carattere proprio della storia spirituale dell’uomo è escatologico. Solo se pensiamo la parousia di Cristo come evento “storico”, cioè nel tempo, e universale, cioè collettivo, è conseguente la delusione dell’attesa dell’evento apocalittico, reinterpretato nel senso di Mc 13,32 e At 1, 7 come “il giorno che nessuno conosce, fissato da Dio nella pienezza del suo potere” e differita “in una lontananza indeterminata”, durante le cui more opera un surrogato di atti sacramentali amministrati dalla Chiesa.798 Ma se, invece, pensiamo all’evento escatologico come incontro personale con Dio, allora esso 797 798
Ivi, pag. 219. R. Bultmann, Geschichte und Eschatologie, tr. it. cit., pagg. 68-69.
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diventa una realtà storicamente possibile nell’ambito della storia spirituale dell’uomo singolo. In questo caso, l’evento escatologico si realizza nell’esperienza personale come liberazione dalla storia e trascendimento del tempo nel senso dell’eterno: come o separazione (della coscienza) dell’uomo dalla necessità del divenire (). Nella condizione eterna il sistema dei significati formali elaborati dall’uomo entro la dimensione temporale non può rendere alcun servigio ermeneutico, in quanto l’esperienza vissuta nell’incontro con Dio non è riconducibile ad alcuna relazione ontologica, oggettivabile in un rapporto tra enti. Dio, infatti, è conoscibile razionalmente a condizione che venga pensato come esistente, ossia appunto come un Ente. In tal caso è possibile rimuovere l’esperienza vissuta dell’incontro personale con una immagine formale, significante universalmente, cioè razionalmente plausibile. Ma è esattamente tale condizione ontologica che rimuove il senso escatologico dell’evento dialogico (ma non dialettico) con Dio, riportandolo nell’ambito della storicità dal quale esso invece trascende, realizzandosi in tal senso come evento trascendente la Creazione stessa, dove la creatura umana, indiandosi, emerge dalla storia per incontrare Dio nel luogo arcaico pre-istorico. Ma qual è lo scopo che Dio consegue nell’incontrare l’Uomo? la volontà di Dio, sostiene Barth, “consiste nella liberazione della creatura e in una vita in comunione con essa, perché desidera essere riconosciuto e celebrato dalla creatura, di cui vuole l’esistenza e non la rovina, come il liberatore”.799 In che senso Dio vorrebbe “l’esistenza” dell’uomo? certamente non nello stesso senso in cui la vuole la Natura, gestore biologico della specie, o il Potere mondano dello Stato, gestore della sicurezza fisica dei suoi membri. Dio, secondo Barth, vorrebbe proteggere l’uomo dal Niente (das Nichtige), il quale, a suo dire, è un “fattore estraneo” che “corrompe la creazione”, opponendosi a Dio stesso, 800 come una “forza attiva di cui non si può render ragione né a partire dal Creatore stesso né mediante la creatura, né come azione dl primo né come atto esistenziale della seconda, e che pure non si può ignorare o negare, 799 800
K. Barth, KD, III/3, § 50 (1950), tr. it., Brescia, 2000, pag. 10. Il corsivo è nostro. Ivi, pag. 11.
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ma di cui occorre tener conto nella sua assoluta peculiarità”. 801 Come si concilia l’opera del Niente con la signoria divina? Esso non era già stato giudicato in Gesù Cristo nella Sua pasqua? In quanto theologia viatorum, anche la “nostra conoscenza è un’opera imperfetta”, che nella esistenza e attività del Niente rivela la “frattura (der Bruch) intervenuta tra il Creatore e la creatura”, la quale “non può essere fatta derivare” dalle due parti, “ma va definita da entrambi i versanti esclusivamente come inimicizia, ostilità!”.802 A parte la difficoltà di motivare questa ostilità con l’agape divina verso l’uomo e quella umana verso Dio, il rischio implicito alla considerazione della frattura come “momento estraneo, perturbante, frenante” ma pur sempre dialettico all’Amore nella rappresentazione della “storia del disporsi del Creatore verso la sua creatura” quale “oggetto della teologia”, che di essa ne è appunto il “racconto”.803 Barth avvertiva il pericolo del fraintendimento del “lato oscuro della creazione” e della sua “demitizzazione” che lo interpreti “come un elemento interno a un’immagine del mondo nel cui insieme non appare, in fondo, così pericoloso”.804 La narrazione teologica, sottolinea significativamente Barth, “non può prendere in considerazione conciliazioni e mediazioni che non figurano in quella storia”, ossia non le è lecito considerare le strutture istituzionali create dall’uomo per relazionarsi nel mondo, né trasformarsi in un “sistema” di compiuti rapporti formali. 805 Ciò significa, per un verso, che la storia teologica non può essere una “totalità” compiuta e offerta come un modello del tipo di quello tomistico adottato dalla Chiesa, e per l’altro che la sua narrazione resta aperta per il versante della sua determinazione storica particolare, inerendo non una astratta rappresentazione di rapporti formali, ma il concreto incontro di Dio con esistenze umane singolari. La “perfezione” a cui ambisce il cristiano è una considerazione della esperienza umana comprensiva del rapporto con Dio, il quale si pone, per la sua valenza fondamentale, all’origine (arché) della stessa Frattura dell’ 801
Ivi, pag. 14. Ivi, pag. 19. 803 Ivi, pag. 21. 804 Ivi, pag. 33. 805 Ivi, pag. 22. 802
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umano dal divino, ricomposta solo con l’Incarnazione, modello paradigmatico di ogni riconciliazione personale. Il rapporto con Dio, pertanto, non perde di significato soteriologico in quanto personale e non universale, costituendo anzi il suo valore elettivo attraverso l’aleatoria possibilità che non avvenga. Il timore di Dio deriva non già dalle Sue vendette conseguenti alle umane omissioni, ma dalla circostanza paventata dal pio che l’incontro divinativo possa non avvenire, destinando perciò l’uomo empirico alla condizione imperfetta dell’agire naturalistico, ambito proprio della cultura sociologica pagana. Così come il ridimensionamento (kenosis) della compiutezza di Dio nell’umanità imperfetta della creazione torna alla sua perfezione originaria con l’Incarnazione del Cristo, la storia spirituale di ogni uomo ha da prenderla nella storia di Gesù. Solo che tale compiutezza divina è già tutta in Cristo, come Persona trinitaria, ma non nel Gesù meramente storico, che affronta la passione come uomo. Senza la preventiva adesione di fede alla dimensione escatologica in cui si pone la passione di Gesù come il Cristo, resterebbe preclusa la sua significazione teologica. Perciò la narrazione teologica è fondativa di ogni narrato storico. Essa rivelando la Frattura originaria illumina la posizione della storia esistentiva, cioè della “esistenza come tale”,806 rappresentandola come “l’aspetto negativo della creazione” rispetto alla infinitezza divina, e come l’imperfezione rispetto alla compiutezza di Cristo. 807 Ne consegue che la pienezza della realtà non si dà nell’Essere, né la sua conoscenza nel concetto, ma soltanto nella Verità, la quale comprende il senso originario e la presenza storica del Niente. Il Niente, afferma Barth, non è il negativo della creazione opposto al suo lato buono, sintetizzabile in una qualche ragione positiva, ma è “l’estraneo in senso assoluto” in lotta contro la Creazione in quanto tale e complessivamente.808 Esso è “la carne” che ha rivestito il Verbo divino, insomma “la realtà per la quale (vale a dire: in opposizione alla quale) Dio è divenuto creatura entro il mondo in Gesù Cristo al fine di sottometterla e vincerla – ‘realtà’ che si oppone e resiste a Dio, ma che 806
Ivi, pag. 31. Ivi, pag. 219. 808 Ivi, pagg. 37 sgg. 807
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Dio rifiuta, realtà che, in quanto opposizione e resistenza a Dio, è del tutto distinta da Lui”. 809 E quale realtà può mai essere distinta radicalmente da Dio se non quella che risolve la sua esistenza entro la vita dal ciclo meramente biologico, di una vita perciò “prigioniera della necessità che pesa sul suo destino”? 810 Questo percorso naturalistico delle vicende umane era appunto l’anaciclosi dei processi storico-politici descritti da Polibio e da Aristotile, nei quali l’uomo era un mero zoòn politikòn, logos ekòn: pura carne, soggetta alla necessità; la stessa che ha condotto a morte Gesù. Il Niente, dunque, è la ragione della Storia. Per i Greci, a partire antonomasticamente da Tucidide, la ragione della Storia è il Logos, che “i più trascurano nella ricerca della verità, preferendo restare fedeli alle opinioni tramandate dalla tradizione”, 811 ignorando che i motivi occasionali spesso occultano “la vera ragione” degli eventi,812 esplicativa dunque della vera “realtà”. Questa supposizione è il contenuto ideologico dell’ontologia greca, della stessa tradizione filosofica che ha legittimato la nostra storia politica. Questa “realtà”, con la sua logica immanente, è quella che Barth indica come das Nichtige, il Niente. Questo, non potendo essere costituito di qualcosa che è (), il suo essere è il suo stesso non-essere, e noi sappiamo già dal Sofista che l’essere-non rispetto all’essere-che-è, è il suo differente. Pertanto, il Niente, che non è l’opposto relativo all’ente determinato, ma il differente rispetto all’infinitezza di Dio, è la Differenza altrettanto infinita del Negativo. Ma se non si vuole cadere nella dicotomia gnostica, né nell’assurdo di pensare due infiniti, già rilevato da Leibniz, dobbiamo pensare il Niente come intrinseco alla infinitezza stessa di Dio, il Quale, proprio perché di Lui “non si può pensare il maggiore”, lo contiene necessariamente. Ossia, il Niente è la stessa Necessità operante nella “realtà” imperfetta, che si oppone alla perfezione di Dio ed è vinta come Male dal Bene. Il Niente è dunque l’imperfezione della realtà, che si
809
Ivi, pag. 43. Ivi, pag. 44. 811 Tucidide, La guerra del Peloponneso, I 20, 3. 812 Ivi, I 23. 810
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oppone alla volontà di Dio come Necessità incombente sull’Essere, e dunque su ogni essente, come il suo “lato oscuro”.813 Ma cosa si oppone all’infinitezza di Dio se non la finitezza? Dunque la finitezza, con la creazione, partecipa dell’infinità di Dio, sia pure per avversione. Il Logos del mondo è la logica della finitezza che si oppone alla infinitezza di Dio. E si oppone come differenza, ossia come determinazione razionale, come giudizio logico, distinguente l’essere dal non-essere, incapace di cogliere il Tutto, ossia la realtà infinita di Dio. Ogni atto o giudizio umano che coglie la parte per il Tutto, commette un peccato di imperfezione, soggiacendo alla necessità di divenire altro da ciò per cui era stato creato: servire il Creatore, amarlo, “conformemente alla perfezione del Padre celeste”. 814 La libertà dell’uomo è nella sua possibilità di conformarsi a Dio o di allontanarsi dalla Sua grazia “per seguire le sue proprie vie. Così il peccato e il Niente appaiono in tutta la loro drammaticità: la nostra rivolta contro la bontà di Dio”. 815 Se così fosse, saremmo del tutto in ambito metafisico tradizionale: non andremmo oltre la Teodicea di Leibniz. Il Bene si identificherebbe con l’universalità del Logos rappresentato da Dio, e il Male non sarebbe altro che l’approssimazione imperfetta alla perfezione divina, che è l’Essere puro, rispetto al quale il Male tendit ad non esse. Esso procura sofferenza all’uomo, “ma si tratta di una imperfezione che è costitutiva” alla creatura e dunque non eliminabile.816 Ma il nulla (Nichts) come “assenza di qualcosa” che è la perfezione, che “non possiede, né opera alcunché” perché “privo di intenzione” e dunque che “non possiede né rappresenta una potenza annientatrice e divoratrice”, non è il Niente (das Nichtige) di cui tratta Barth.817 La rivolta dell’uomo non è contro un astratto comandamento divino ma, con l’Incarnazione, è contro la stessa natura dell’Uomo quale Figlio di Dio, costituita dalla persona di Cristo. “L’Incarnazione ha dunque costituito la rivelazione definitiva della sua grazia, la conferma della sua fedeltà che ha dichiarato alla sua creatura 813
K. Barth, Loc. cit., pag. 53. K. Barth, Loc. cit., pag. 49. 815 Ivi, pag. 50. 816 Ivi, pagg. 72-74. 817 Ivi, pag. 73. 814
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nell’atto di crearla. Essa ha provato che la misericordia di Dio è del tutto incondizionata e che nulla può distruggerla: né il peccato né il Niente”.818 Essendo Gesù Cristo “il fondamento della conoscenza”, “dove questo fondamento sia disconosciuto, non si perviene su questo problema ad alcuna seria conoscenza”819 della realtà umana e della vicenda dell’uomo, caratterizzata dal peccato, “legato alla tribolazione (Uebel) e alla morte” (malum afflictionis), non in senso fisiologico di “evento legato alla naturale finitudine della vita”, ma in senso “reale [di] definitiva irruzione e trionfo di quella [che per Barth è una] potenza estranea che stermina l’esistenza creata, compromettendo, con ciò, e sconfessando lo stesso creatore”.820 Il Niente “in generale” consiste dunque nella “negazione radicale della creatura e della sua natura [che] ha, in quanto negazione, la sua dinamica specifica: quella del nocumento e dell’annientamento, che la creatura non è in grado di fronteggiare”. 821 La ragione di tale impotenza deriva dalla circostanza che la conoscenza della “dinamica” con cui opera la Necessità importa un mutamento di prospettiva da parte dell’uomo, che, in quanto essere naturale soggetto all’ , è inscritto all’interno della “realtà” peccaminosa, ossia all’interno della stessa Necessità. Solo la Verità può rendere “libero” l’uomo dalla Necessità a cui, come essere naturale, è soggetto. Ed è in questa presa d’atto che consiste la conversione (metanoia) del cristiano, che abbandona il piano della “realtà” per dedicarsi al percorso della salvezza sulle tracce di Gesù il Cristo. Il Niente dunque è la realtà finita che si oppone a Dio come realtà totale e perciò fornita di una ragione assoluta,svincolata da ogni legame creaturale. Non pertanto la realtà creaturale è il peccato verso Dio, ma la presunzione della conoscenza delle sue dinamiche come leggi assolute, slegate da ogni relazione genetica con il fondamento arcaico, ossia con la Verità. Il Male, in altri termini, è la Storia fuori della salvezza, ossia come processo naturalistico e non spirituale, e la Scienza fuori della sua origine, ossia come gnosi razionalistica priva di fondamenti veritativi. 818
Ivi, pag. 51. Ivi, pagg. 50 e 52. 820 Ivi, pag. 53. 821 Ivi, pag. 54. 819
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Il peccato è la presunzione di auto-sufficienza delle creature, che abitano la realtà temporale come se fosse una condizione eterna, rinunciando perciò al percorso soteriologico verso la perfezione spirituale, sul modello di Cristo, che rappresenta la “misura totale” della verità e della vita.822 Mai epoca come quella moderna ha assunto questi valori nichilistici come paradigmi di vita e di conoscenza? Pensare il Moderno come epoca è identificarlo attraverso una determinazione di giudizio. Dire Moderno significa dunque rispondere alla domanda “Che cos’è il Moderno?”. Ogni determinazione positiva della sua definizione insiste sul suo essere. Ma perché qualcosa sia alla coscienza, è necessario che esso appaia alla coscienza stessa per ciò che esso non è. Ed è sulla consapevolezza di questo non-essere che noi giudichiamo l’essere di qualcosa che-è. Orbene, se il Moderno è l’epoca del compimento della ontologia quale de-finizione dell’Essere di ragione nel suo essere assoluto ed emancipato da ogni legame col Principio rispetto al quale l’Essere stesso è anziché non, è possibile definire l’Essere del Moderno solo stando fuori, solo cioè trascendendo il suo essere ciò che è, l’essere come ente. Trascendere l’Essere significa porsi nella dimensione del Niente, a partire dal quale l’Essere appare ciò che è, cioè appare la sua “realtà” finita e imperfetta. Se la coscienza dell’Essere si manifesta come “meraviglia” () che qualcosa (l’ente) sia anziché non, lo stato d’animo che rivela il Niente, e che dunque svela l’Essere del Moderno, è la “angoscia” (l’Angst di Heidegger, il délaissement di Sartre), la quale manifesta la realtà del Negativo come “indeterminato in quanto indeterminabile”.823 Rispetto alla domanda filosofica: “Perché l’Essere?”, che attende una risposta de-finitoria, e quindi de-terminante l’ente in relazione al suo essere, l’angoscia si pone all’interno, ossia nella prospettiva di ciò che l’Essere esclude da sé come Niente, non assumendo l’Essere come una “realtà” ma solo come una possibilità d’essere non reale. Questa in-realtà è in sé indeterminabile, e dunque annienta il potere dell’uomo di dire ciò che l’Essere è. In questo senso, il Niente nullifica l’uomo, privandolo del suo potere determinativo di dominare le cose nominandole, e con ciò de822 823
K. Barth, Loc. cit., pag. 56. K. Barth, Loc. cit., pag. 115.
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finendo il mondo sotto il suo imperium. Senza il potere di nominare alcunché, l’uomo si inoltra nell’angoscia, nel luogo della sua in-potenza. Ciò spiega il perché egli preferisca l’Essere al Niente: perché solo nell’emisfero ontologico l’uomo può dominare la realtà, rimuovendo con l’angoscia l’emisfero Negativo che la procura. E nella stessa preferenza metafisica dell’Essere va ricercata la tensione teoretica volta a isolare la realtà dell’Essere dal Niente, la determinazione dall’indeterminazione, il Logos dal Mythos, nel tentativo rassicurante di risolvere il Tutto nella realtà immanente dell’ente positivo, liberandolo dall’alea incontrollabile del trascendente, dalla volontà di Dio. La rimozione di Dio, la rescissione del cordone ombelicale con l’Inizio, consente all’uomo di emanciparsi dalla Sua tutela, ossia dalla componente spirituale di sé che, non potendo essere rimossa dalla sua natura, viene piegata a essere mera intelligenza pratica, funzionale allo scopo di esistere. Questa rivoluzione atea operata dall’umanesimo moderno segna un ritorno alle origini razionalistiche del pensiero greco, la cui presunta universalità viene estesa anche in senso temporale diacronico, tale che le sue categorie, considerate eterne ed eternamente valevoli per l’uomo, fungono da paradigmi mitici, surrogatori di quelli religiosi, per cui i che da essi procedono hanno tutti essenzialmente un carattere mitologico, che proprio in virtù di quei paradigmi ideali, viene indicato modernamente come ideo-logico. Le ideologie moderne non sono che il portato razionalistico dell’umanesimo ateo emancipatosi dalle sue origini sacre e dai suoi fondamenti teo-logici. Ed è in considerazione di tale presupposto rescissorio che l’ente di ragione, come già notato da Platone nel Sofista, si origina dal Nulla e, compiuta la sua parabola esistenziale, torna al Nulla. Ma questa condizione nichilistica consegue alla credenza ontologica che l’Essere sia il Tutto, e che pertanto prima e oltre non ci sia che il Nulla. Se comprendiamo bene codesta dinamica ideologica, dobbiamo convenire che il Nulla di cui parla Platone è in verità Dio stesso quale fondamento di Verità rimosso dal razionalismo. Infatti, Dio è il totalmente differente rispetto alla totalità dell’Essere. E l’apparente assurdità di due totalità è legata appunto alla credenza razionalistica che l’Essere sia Tutto, laddove la stessa credenza totalistica suppone che sia invece Dio una falsa totalità.
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Sulla falsariga razionalistica della totalità, si è sviluppata la “questione degli universali” nel sec. XII, che Boezio per primo aveva posto nel suo commentario all’Isagoge di Porfirio nei termini della astratta corrispondenza dell’idea con la concreta esistenza degli individui, di cui l’idea sarebbe appunto l’universale rappresentazione. 824 Secondo tale criterio, riassunto nella formula di Scoto, per cui “obiectum cuiuslibet scientiae inventae naturaliter est universale”: universale perché indeterminato, astratto perché comune a tutte le cose. 825 La validità dell’astrazione del pensiero universale dalla molteplice singolarità concreta implica l’esistenza di ciò rispetto al quale il pensiero universale è astratto. Sicché, parlando dell’idea dell’uomo si intende il genere umano sotto forma di pensiero, cioè l’universalità dei singoli uomini nella loro totalità. muovendo dall’universalità, si assume l’esistenza come contenuto dell’astrazione ideale; partendo invece dall’esistenza empirica, si giunge al concetto trascendentale kantiano. Nel primo caso, è l’universalità dell’idea di Dio a garantire l’esistenza di Dio; nel secondo caso, non potendo partire dall’esistenza empirica di Dio, sarebbe impossibile verificare razionalmente la validità dei concetti teologici. Ma poiché Dio è esistito empiricamente nell’Incarnazione del Cristo, la cristologia moderna per definirsi in senso della conoscenza scientifica, prende come fondamento dei suoi costrutti teologici la storia di Gesù, pur mantenendo come valida la grande sintesi tomista di fede ed epistemologia aristotelica, elaborata nel sec. XIII ma che “doveva dominare l’ulteriore sviluppo della dottrina sacra”.826 Con l’assunzione della scienza del pensiero aristotelica, l’oggetto della mente è il riflesso sensibile, ovvero l’idea dell’oggetto, la sua essenza. Sul fondamento naturalistico della conoscenza ideale, in essa agiscono delle relazioni costanti o leggi di natura che consentono di stabilire la conoscenza di invariabili proprie di realtà impersonali di vita, e l’idea che noi abbiamo di una realtà è riferita a tali invariabili, rispetto alle quali l’osservazione empirica è una conferma. Se fosse una smentita, l’idea 824
K. Barth, Loc. cit., pag. 115. Ved. O. Todisco, I rapporti tra filosofia e teologia, in AA.VV., Giovanni Duns Scoto nel VII Centenario della sua nascita, Napoli, 1967, pag. 35; da ora GDS. 826 M. D. Chenu, La Théologie comme science au XIII e siècle (1956), tr. it., Milano, 1971, pag. 11. 825
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sarebbe sbagliata. In virtù di questo modello naturalistico di gnosi, le idee riguardanti le qualità della conoscenza e dei comportamenti umani fungono da parametri di valutazione, rispetto ai quali l’agire viene giudicato conforme o scorretto.. Il rapporto, rispetto ai fenomeni naturali, viene invertito: non sono più i fenomeni a determinare la bontà delle idee, ma queste i fenomeni, sicché è il modello ideale a dare forma alla realtà umana. Le forme della realtà umana sono forme significative, nel senso che attribuiscono significato alla realtà. Nel caso dell’osservazione sensibile decisiva della validità delle idee, la priorità tocca ai fenomeni, di cui le relative idee sono derivazioni. Nel caso, invece, dei comportamenti umani, la priorità spetta ai modelli ideali significativi, che fungono da criteri valoriali di pensieri e di azioni. Tali modelli valoriali conservano la loro realtà significativa, ossia la loro validità universale, anche in mancanza di fenomeni cui commisurarli, essendo l’esistenza “ideale”. L’idea di Dio è di questo ultimo tipo. E’ un concetto di valore, equiparato al Bene. Ciò premesso, Dio esiste? E’ chiaro che Egli può esistere solo nel concetto che Lo pensa,alla stregua della Bellezza, che in realtà non esiste, se non come realtà concettuale. Stabilire la realtà di un fenomeno sulla base del principio di realtà, non ha senso al di fuori della sua realtà concettuale. Concepire Dio come modello ideale, come un ente di pensiero, significa porlo alla stregua di un’opera d’arte o di un’azione virtuosa, che è prima nella mente di chi la concepisce e poi nella realtà, facendo (della verità) di Dio un prodotto della mente umana, anziché il fondamento di ogni pensiero (di verità). Ciò comporta che il Dio dei filosofi è la rappresentazione mitologica di una persona ideale, il cui pensiero in termini oggettivi presuppone la rimozione concettuale del Suo “lato oscuro”, ossia di quel Niente (das Nichtige) rispetto al quale Dio è come (realtà del) Cristo. Una Cristologia fondata sulla realtà di Cristo, senza tener conto del telos escatologico della sua esistenza terrena, equivale a imperniare il discorso sulla fede cristiano sull’uomo, cioè sulla vicenda di Gesù, indipendentemente dal significato soteriorologico della Sua figura divina. Una storiografia scientificamente valida è possibile etsi Deus non daretur a condizione che si assuma preventivamente come fondamento ontologico il concetto naturalistico di Essere, negando con ciò in radice il
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fondamento spiritualistico e trascendente della Verità, che costituisce il contenuto di fede dell’Evangelo. Infatti, l’universalità dei concetti razionali sussume l’essere in quanto tale (ens ut ens), ossia tutto il pensabile, includendo nella loro validità ogni ordine di realtà, compresa quella spirituale, “altrimenti non sarebbero di portata metafisica”, nel senso che “non sono pure forme della mente ma regolano intrinsecamente la realtà di qualsiasi ordine”. Ciò non è senza conseguenze nel campo spirituale. Infatti, Il concetto di essere, essendo “simpliciter simplex”, è immune da dubbi o da errore. L’errore può sorgere nella attribuzione di un predicato non necessario a un soggetto, o anche nella deduzione di una proposizione da un’altra, ma non può sorgere in quelle nelle quali il predicato è identico col soggetto o contenuto in esso necessariamente. 827
L’Essere di Scoto è Uno, in-distinto e in-(de)finito. Il predicato è identico (uno) col soggetto (indistinto). Essendo in-determinato è privo di errata determinazione, e in tal senso vero. Ma se il vero consiste nella indeterminazione, ossia nel non-essere qualcosa di determinato, ma uno, ossia potenzialmente ogni cosa, l’Essere è Tutto. Questo Tutto, che è vero ed è Uno, è il negativo dell’essere determinato, cioè dell’ente. E’ il Negativo che secondo il Sofista, pre-siede a ogni determinazione d’essere, a ogni giudizio. Ciò che il giudizio apofantico esclude come non-essere rispetto a ciò che è oggetto del suo concetto, è appunto il Negativo come Tutto e Uno che contiene ogni determinazione possibile. In tal senso, il Vero a cui attinge il concetto è la Possibilità, e non la determinazione. Il Negativo, o Essere indeterminato che è Uno e Tutto, incombe su ogni ente di giudizio come Possibilità. Vuol dire che ogni determinazione ha in comune con ogni altra ciò che esclude da sé, il Negativo appunto, ossia quell’Essere simpliciter simplex di Scoto. Vuol dire inoltre che, mentre la determinazione esclude, il Negativo unisce ogni essente esclusivo dell’altro-da-sé, ogni ente. L’ontologia è la scienza della esclusività, dell’astrazione concettuale. Essa nasce sul presupposto della semplice verità dell’Uno, ma non lo coglie se non esclusivamente, per opposizione logica. La verità, invece, proprio perché totale, è inclusiva delle 827
A. G. Manno, Introduzione al concetto scotistico di essere, in GDS, pag. 61.
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differenze. Scoto, prima di Rosmini, intende l’Essere “secundum totam indifferentiam entis ad sensibilia et insensibilia”. In altri termini, “l’intelletto ha bisogno delle realtà sensibili e delle determinazioni particolari ma solo per specificare l’idea dell’essere, la quale precede ogni conoscenza concreta”.828 Scoto, avendo presente la differenza tra l’originaria condizione dello spirito umano prima del peccato (status naturae institutae) e quella successiva al peccato originale (status naturae decadutae), pensa che l’uomo decaduto, perché possa armonizzarsi alla realtà sensibile in cui vive, la sua coscienza si leghi i phantasmata della coscienza sensibile astrattiva. Contro l’ingenuo realismo, che fa dipendere la conoscenza dalla realtà sensibile, Scoto oppone l’autonomia dell’intelletto pensante; contro l’idealismo soggettivistico, che ritiene l’oggetto pura creazione del soggetto, egli oppone il limite della conoscenza intellettiva dell’Io trascendentale, la quale “sarebbe un’attività conoscitiva sufficiente per ogni oggetto solo se avesse in sé tutto l’essere”. Si dà il caso però che “l’intelletto non crea ma percepisce la realtà sensibile, che è indipendente da esso in quanto all’esistenza, la conoscenza [perciò è] un atto dello spirito, che fa sua la realtà esterna comprendendola e spiritualizzandola”. 829 L’intelletto è la facoltà artefice (causa efficiens principalis) della conoscenza, la quale è l’attività del conoscere. L’universalità, cioè il valore universale del concetto d’Essere, è la base della metafisica e della teologia razionale. Senza di essa cadrebbe anche l’analogia, “possibile in quanto i termini analoghi sono concepiti partecipi di un concetto, di una qualità o di un principio che li accomuni; se si nega il valore di questa unicità è tolta la base di ogni analogia e si danno solo termini irrelativi, atomisticamente separati o accostati solo estrinsecamente”.830 Ma se ciò è vero, l’unità esclusiva non può mai sussistere se non concettualmente entro la sua realtà ideale, cioè a condizione che l’Essere determinato dal concetto sia universale per sé, e solo creduto lo sia anche in sé. Se fosse infatti anche in sé, e dunque sussistesse quella 828
A. G. Manno, Loc. cit., pag. 64. Ivi, pagg. 66 e 67. 830 Ivi, pag. 72. 829
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corrispondenza tra l’essere e l’esistenza presunta dall’intelletto, l’universalità si rinverrebbe non solo nel concetto ma anche in rerum natura, in quella “realtà” che per creazione, oltre che per definizione, è molteplice. L’unità possibile in natura è la taxis politica, che è il Governo etico che seda i conflitti naturali. Ma sia per ciò che riguarda l’atto intellettivo, che l’opera politica, l’unità possibile è solo quella che astrae dalla “realtà”, negandola come molteplicità, e in questa negazione rappresentandola come se (als ob) non fosse reale. Solo nella negazione (della realtà molteplice) la molteplicità concreta può essere assunta come unità, poiché solo il Negativo è veramente universale. Per ottenere l’unità, il pensiero deve tornare all’indeterminazione, alla Possibilità che precede l’Essere, che è il luogo in cui non si è formato il Logos. In questo luogo indeterminato, non vige la Necessità, ma la Possibilità. L’Essere indeterminato è “neuter” (Avicenna), in quanto puro di determinazioni. Ma perciò stesso non può essere in sé un ente, può diventarlo determinandosi, limitando cioè la sua possibilità infinta in realtà finita. Su questa premessa è stata pensata la kenosis di Dio. Il concetto scotiano di Essere consentiva di conoscere ogni realtà, perché di valore universale. 52 L’universalità conduce al fenomenismo kantiano e al monismo fisicalista spinoziano, poiché l’Essere universale è inteso sia come principio di conoscenza (aitia) che come fonte originaria (arché) di ogni possibile conoscenza. Ma proprio la possibilità in-determinata non può produrre la determinazione reale dell’ente, dalla quale il concetto deve astrarre. Quindi, si conosce l’ente astraendo dalla sua realtà, ossia si conosce in astratto il particolare che è. Se potessimo conoscere l’ente per mezzo del principio universale, conosceremmo solo l’Idea o essenza (ousia) dell’ente, e non già un ente universale. Che non ente nn sia universale, lo attesta la molteplicità degli enti; ma che la stessa Idea dell’ente non sia propriamente universale se non in relazione alla sua essenza, cioè al suo concetto lo attesta la pluralità delle Idee. L’Idea è pertanto uni-versale solo in relazione al suo oggetto, col quale può stabilirsi la corrispondenza ideale tra predicato e soggetto, tra la finitezza dell’ente e la sua rappresentazione. Universale è l’Idea dell’ente, cioè appunto la sua rappresentazione ideale, ma non l’ente, che rimane in sé altro dalla sua idea razionale. Se noi chiamiamo Essere la rappresentazione ideale dell’ente, dobbiamo necessariamente riferirla al
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suo oggetto, la cui universalità è pertanto anch’essa “finita”. Se invece la riferissimo all’Idea, l’universalità dell’oggetto coinciderebbe con l’universalità dell’Idea stessa, ma sarebbe in tal caso un concetto indeterminato. Ma non è questo l’Essere universale di Scoto, la cui pretesa onnicomprensività non può essere mai concettualmente soddisfatta se non per finzione; infatti la molteplicità infinita degli enti reali è potenzialmente infinita, ma non lo è mai realmente,al pari dei numeri, i quali, se vogliono indicare realtà concrete devono definirsi in cifre finite. Sia il concetto di infinito che il calcolo infinitesimale sono pure finzioni mentali,non rappresentative di enti reali. Da cui se ne deduce che il principio di univocità-universalità applicato alle realtà finite del Molteplice si converte in Negativo opposto, poiché affermare che l’Essere sia in ogni ente equivale a dire che vi sia in tutti. Ma se è in tutti e in ognuno, nessuno di essi lo detiene in proprio e il tutto non è in nessuno di essi. Un ente è tale se si distingue dagli altri; affermare che l’Essere è in tutti e in ognuno, non li si distingue tra loro ma li si confonde, potendosi allo stesso modo dire che ogni ente è l’Essere, avendolo in sé, e contemporaneamente che non è l’Essere, essendo questo in ognuno. Gli astratti opposti si equivalgono. Ciò che l’Essere è in ognuno, è la sua determinazione; ciò che invece non è in ognuno degli enti è la sua universalità. E dunque l’universalità è una qualità che non appartiene agli enti ma all’Essere, mentre la determinazione è propria dei soli enti. Essendo dunque l’Essere indeterminato, ossia indefinito, esso solo è universale; ma l’universalità indefinita e indeterminata non è l’essenza (ousia) degli enti, la loro idealità, ma se essenza è, è diversa da quella degli enti, è una essenza negativa. La diversità ideale è l’opposizione logica; la diversità reale è la contrarietà fisica. L’opposizione logica è un negativo razionale e un positivo reale. Ciò che non è bello è qualcosa di brutto. La Bellezza può concepirsi astratta dal suo referente empirico e allocata nell’Iperuraneo, ma ciò che non-è bello non è una Idea, ma qualcosa che non appartiene all’Idea. E ciò che non è ideale è appunto empirico, realtà sensibile e finita. Ciò che accomuna la realtà ideale alla realtà empirica, ossia l’Essere indeterminato all’ente finito, è il Negativo, che trascende ogni differenza tra la Possibilità infinita e la determinazione finita. Questa trascendenza dall’Essere sia esso indeterminato che determinato, non può
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essere indicato, esattamente come il Dio di Abramo.In virtù della sua infinita Possibilità – che è stata intesa erroneamente come infinita Potenza - Dio non interviene nelle determinazioni delmondo finito se non attraverso il Cristo incarnato, “cifra” (Jaspers) sublime della Sua infinita possibilità. Dio come “totalmente altro” (Barth) dalla “realtà” finita dell’Essere, vive nella mediazione del Figlio, paradigma della conpresenza di Essere e di Niente, di possibilità e di realtà. Caratteristica della filosofia greca è di aver concepito l’ di Anassimandro, l’Essere infinito, come un ente, cioè come una realtà oggetto di pensiero, attribuendogli l’infinitezza propria di ciò che non-è reale ma soltanto possibile. Equiparando logicamente l’Infinito al Possibile, i Greci hanno creato le premesse della volontà di potenza quale realizzazione nel finito della Possibilità infinita di Dio, rimuovendo il limite che separa l’Infinito (la Possibilità) dal finito (la realtà), l’dall’Essere, intendendo questo come il Tutto. Ciò ha condotto al rischio, paventato da Barth, di confondere l’Essere col Niente, attribuendo all’Essere le qualità e le caratteristiche che sono invece del Niente, come appunto la Possibilità, intesa come potenza, e la Totalità intesa come universalità. Ed è quanto infatti avvenuto nella teologia cristiana, che ha pensato Dio come un Ente di ragione. L’infinitezza o univocità del Tutto non è l’astrazione concettuale, l’universalità dell’Idea, per cui l’intelletto agente che astrae dalla realtà sensibile per definire i suoi concetti, non può conoscere Dio se non attraverso le Sue manifestazioni finite: gli eventi naturali e quelli spirituali. Solo attraverso la mediazione della realtà finita noi possiamo riconoscere Dio, quindi lo conosciamo attraverso le Sue opere. In tal senso, non possiamo farci di Lui un concetto positivo, come invece presume Scoto, poiché Dio non-è un oggetto di pensiero se non nella Sua determinazione reale.831 L’analogia che è possibile instaurare tra tutti i fenomeni reali è la possibilità che ognuno di essi manifesti della Infinitezza di Dio, la quale trascende la realtà nella sua intierezza, come il Niente la realtà dell’Essere finito. Pensando l’Infinitezza di Dio come l’attributo di un ente, Dio è stato pensato come l’Essere, che in quanto totale è l’Altro rispetto alle 831
A. G. Manno, Loc. cit., pag. 75.
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determinazioni singolari della realtà molteplice. La filosofia, procedendo come pensiero dell’universale, pensa Dio come Essere, negandolo nella gnoseologia scientifica come Altro da ciò che è, dall’ente. Ma sono mitologumeni. Nella prospettiva evangelica, l’Ens commune che unisce gli uomini a Dio è il Cristo. L’universalità, come “essenza pura”, è appunto “pura” di realtà, e non può identificarsi con l’essenza “concreta”. l’essenza pura di realtà è solo legata alla fede, e non all’esistenza reale di Dio. Se Dio fosse “reale”, ossia esistente in natura, sarebbe in ogni cosa e persona, panteisticamente, e ogni ente mondano sarebbe perciò parte del Tutto. L’unico “concetto univoco” a Dio e alle creature è la realtà spirituale, diversa da quella fisica. Ed è proprio tale realtà spirituale l’ o il Tutto che è Dio. Ma esso non è un concetto positivo, ma solo negativo rispetto a ogni possibile determinazione. Hanno perciò ragione coloro che sostengono che, negando l’univocità dell’Essere, “non si può affermare di [Dio] neanche che esiste, perché l’esistenza implica il concetto di essere, e se questo non è riferibile a Dio, non possiamo attribuire a Lui neanche quella”.832 Infatti l’accesso alla trascendenza di Dio è una intuizione di fede, nn la ragione, che è a sua volta sostenuta dalla fede. Ma anche la posizione fideistica, propria dell’ebraismo, è suffragata dal realismo storico cristiano, dal momento che il Cristo è l’incarnazione fisica di Dio. E poiché è la “realtà” della Incarnazione a rendere storica la fede spirituale in Dio, ciò che concerne la realtà dell’Essere concerne anche la realtà di Cristo. Nella prospettiva cristologica, pertanto, la conoscibilità e la dimostrazione dell’esistenza di Dio è resa possibile dall’Incarnazione, la cui realtà afferisce al rapporto ontologico che l’uomo ha con Dio attraverso il Mediatore Cristo, il Logos-Christòs. Barth, nella consapevolezza dell’impossibilità di conoscere il Niente reale restando entro l’orizzonte dell’ontologia razionalistica, afferma che “non è possibile che il Niente reale sia colto da un tale punto di vista”, che è quello del cogito.833 Quanto all’essere del Niente, esso, afferma Barth, “non può essere come lo sono Dio e le sue creature […], ma non è neppure semplicemente 832 833
A. G. Manno, Loc. cit., pag. 76. K. Barth, Loc. cit., pag. 137.
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identico a ciò che non è, a ciò che la creatura non è”. 834 Esso è altro anche rispetto alle “differenze interne al mondo creato”, per cui “nessuna singola creatura è tutto, nessuno è simultaneamente l’altro”, ma si pone al limite della negazione, la quale “- come differenza da Dio e come differenziazione interna al mondo creato – appartiene alla natura della creatura”, la quale perciò, “da questo lato oscuro, confina con il Niente”.835 Esso dunque si rivela nella sua negatività, da ciò che non appartiene al mondo divino. Non appartiene cioè alla “positiva volontà di Dio”, alla Sua “scelta” e alla Sua “azione”, rispetto alla quale il Niente sta al limite, sicché la sua presenza “diviene ed è reale nel mondo creato mediante la violazione di questo limite da parte della creatura e mediante l’irruzione, l’attraversamento del limite”, rimosso il quale si viene a “una confusione tra il ‘non’ conforme all’ordine creato e il Niente”.836 In altri termini, il “non” che è conforme all’ordinamento divino, è la distinzione (luce / tenebre, cielo / terra, terra / mare), in virtù della quale ogni creatura è se stessa e non altra. E pertanto la volontà divina è nel senso della diversificazione del creato e della sua costituzione individuale, per singulos. Orbene, questa disposizione ontologica sembra all’origine della stessa facoltà raziocinante dell’uomo, che si manifesta appunto nella sua capacità di distinguere e riconoscere la differenza tra le creature e i suoi prodotti. D’altro canto, questa disposizione mentale della conoscenza umana, impediscono il riconoscimento del Niente. Infatti, la stessa essenza del Niente, inaccessibile alla creatura, fa sì che “la sua rivelazione e la sua conoscenza non possono essere oggetto di un discernimento che la creatura stessa sia in grado di operare da sé, frutto di una libera scelta e di una decisione”, per cui “il Niente non può essere oggetto di un riconoscimento naturale da parte della creatura”. 837 Ossia, non può essere oggetto di ragione, ma sta al di là di ogni discernimento razionale. Per riconoscere il Niente l’uomo deve conoscere Dio e la Sua relazione contro il Niente. Dio è il Medium tra l’uomo e il Niente, per cui valicare il limite dell’ordinamento divino significa entrare nella sfera del 834
Ivi, pagg. 145 e 146. Ivi, pag. 147. 836 Ivi, pagg. 147-148. 837 Ivi, pag. 148. 835
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Niente senza la mediazione di Dio, restandone irretiti dalla sua potestà. In che modo? A noi pare evidente: soggiacendo alla Necessità. Relazionarsi con Dio, significa fuoriuscire dall’orbita della Necessità; senza la presenza di Dio, se ne diviene soggetti. Essere soggetti al Niente, significa considerare la Necessità come l’unica realtà, l’unica legge che la domina, vivendo e pensando come se Dio, la Sua realtà e la Sua legge non esistessero. Il Niente dunque è l’esistenza senza la presenza di Dio: la vita biologica regolata sulla pura esistenza e finalizzata alla mera sopravvivenza. Il Niente dunque è la realtà terrena assoluta, svincolata da ogni presenza spirituale, da ogni legame con Dio. Ovvero, è la Weltanschauung naturalistica di cui parlava Scheler, di un mondo dominato da una invincibile , che invade ogni ambito esistenziale, incombendo nella realtà come Necessità ( ). Essa non può essere dominata dalla ragione, e dunque non può essere addomesticata ad uso umano. Ed è questo il motivo per cui i processi storici che coinvolgono gli uomini non possono essere padroneggiati da nessun uomo, sia un eroe o un sapiente, come ben sapeva Hegel. Il Niente, conclude Barth, “è ciò che Dio non vuole. […] Ciò che corrisponde al non-volere (Unwille) di Dio, è il Niente”, 838 Questo opus Dei alienum è il chaos di cui parla il Genesi, il quale è “non solo qualcosa di differente dall’opera di Dio, ma qualcosa che resta escluso dall’azione divina, un’ombra sfuggente, un limite che si ritrae”, 839 uno spazio nonluogo dominato dalla in-differenza acosmica, materia oscura che è antimateria. Questo, però, non corrisponde alla “realtà”, che viene anzi giustificata in quanto creazione, anche se imperfetta, diversa ontologicamente dal Niente. A ben vedere, lo schema barthiano riprende la tipica dicotomia cosmologica che è stata ripetuta dalla tecnica dialettica della distinzione, che pone la realtà positiva nell’ambito del dominio del Logos, che nel nostro caso diventa “ la grazia di Dio, [che] costituisce tanto il fondamento quanto la norma di tutto l’essere, la sorgente e il criterio di ogni bene”.840 Che però non spiegano il Male (Boese), che “resta privo in 838
Ivi, pagg. 151 e 152. Ivi, pag. 152. 840 Ivi, pag. 155. Corsivi nostri. 839
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generale di ogni spiegazione”,841 facendone come Tommaso una mera privatio Boni, intesa questa come Wille, come volontà di potenza, contro la quale il Niente sarebbe “il nemico”.842 Nemico di Dio è la forza che vorrebbe diventare come Dio di cui parla Gen.3, che sia “giudice del bene e del male, capace di operare la separazione già compiuta […] volendo fare il bene da sola”. 843 Una forza onnipotente, unica, assoluta e capace di dominare la possibilità di manipolare l’ordine della Creazione, ossia di rifare il mondo. Ma non è questo il modello antropologico del razionalismo e dell’umanesimo ateo? E che cosa esprime in compendio il principio e il criterio di universalità se non l’idea di costituire un regnum hominis del tutto scevro di dipendenza metafisica e morale dal divino? Una dipendenza sentita come “necessità” di fronte all’anelito di “libertà” dell’uomo? Il Niente è pertanto la dimensione ineliminabile dalla Creazione, ma delimitabile come movente naturale, segnato da Eros, lo Soannung che corrode ogni costruzione umana – e dunque anche la creazione divina dell’uomo – per riportarla alla condizione di materia, soggetta a incessante trasformazione, ma che resiste. Il limite naturale del Niente è la materia, che gli resiste, trasformandosi ma non lasciandosi del tutto assorbire. L’uomo, quale creatura naturale, partecipa dell’edacità e della resistenza della materia, sulla quale ha costruito le sue opere storiche. Ma queste non durano, per cui non si può resistere al Niente con la sola materia. Tutte le opere umane fondate sulla legge naturale della sopravvivenza, periscono. Occorre un salto di qualità, che la Natura non può fare, perché non è consapevole di soggiacere alla necessità. Quel salto è pensare la realtà sub specie aeternitatis, come realtà spirituale, che è il modo per liberarsi dalla Necessità e aggressività del Niente. E’ in questo orizzonte di coscienza che si pone la predicazione evangelica. Dio rifiuta il Niente con la Creazione.844 Ha ragione Barth. Nondimeno, l’amore di Dio per l’uomo non è nella sua creazione, poiché creandolo lo espone al Niente; il Suo amore è nel suggerirgli la soluzione, 841
Ivi, pag. 156. Ivi, pag. 155. 843 Ivi, pag. 160. 844 Ivi, pag. 161. 842
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distogliendolo dai vani tentativi materialistici e indicandogli la strada dell’agape tramite Gesù di Nazareth. Ma l’amore di Dio per l’uomo è remedium mali, non è creatio boni. Anzi, venir al mondo è esporsi al Male, che è male di vivere, universale richiamo verso il Niente: energia negativa che, sfidando Dio, trasforma la materia, rendendo transeunte ogni creazione divina e ogni trasformazione umana. Ma Dio non è “buono” se ha creato l’uomo esponendolo al Niente; Egli è però “misericordioso”, avendo pietà della Sua creatura. Ciò che patisce Cristo, lo patisce l’Uomo come creatura divina. Gesù nasce per morire; ma muore per rinascere. Gesù non staziona nel regno dei morti, come le ombre degli uomini secondo i pagani. Egli torna a Dio, si riunisce alla sua potenza, negando con ciò l’esposizione alla morte, e dunque al Niente, avuta nella vita. Gesù ha valicato il Limite della realtà naturale, non per soccombere al Niente, come ogni morte fisica che non può sottrarsi alla Necessità della condizione naturale, che tutto trasforma; ma per aggirare il Niente dimostrandone la falsa infinitezza, cioè la sua finitezza, e raggiungere il vero infinito, che è regno di Dio.845 E’ questo l’itinerario soteriologico dell’esistenza cristiana verso il regno della Libertà, in cui il Niente è impotente perché regno spirituale, dove la materia è assente, e il Niente non può infierirvi trasformandola. In questo senso, grazie “alla resurrezione di Gesù Cristo e nella prospettiva del suo ritorno, [il Niente] è il passato, l’antico, l’antica minaccia, l’antico pericolo, l’antica rovina, l’antico non-essere che oscura e devasta la creazione di Dio, la realtà ormai superata in Gesù Cristo”. 846 Ciò vuol dire che il Niente è altro da Dio nello stesso senso in cui la materia è altro dallo Spirito. Col Cristo, l’alterità diventa consustanzialità: coesistenza di Spirito e materia entro il processo del mondo, dominato dalla Necessità, e dunque dalla signoria del Niente. Come dunque opporsi al dominio del Niente da parte dell’uomo? Non più edificando opere materiali, inevitabilmente soggette all’edacità del tempo, ma con opere spirituali. Non più, cioè, edificando città politiche soggette ad Eros, nel tentativo di dominare la Natura che è nella vita
845 846
Ivi, pagg. 172-173. Ivi, pag. 174.
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umana, ma costruendo la città di Dio, la comunità ecclesiale, all’insegna dell’Amore spirituale. Torna il discorso di Agostino, ma in una luce offuscata dalle ricadute della storia umana nella perdita della memoria, ossia nello smarrimento dell’identità spirituale a favore della risposta naturalistica al Niente, basata sulla materia. La lotta contro il Nemico rimane come dato esistenziale e ontologico insopprimibile dalla vita e dalla esperienza umane, ma declinato modernamente in una chiave non spiritualistica che riporta all’età pagana del dominio della materia e del rapporto politico tra gli uomini. Le guerre di distruzione di massa riportano alla logica dei Greci contro i Melii, superata dalla visione cristiana dell’Altro come immagine di Dio. Restano perciò evasivamente ottimistiche, ed ambigue, le parole di Barth quando afferma che “il Niente può solo contare e avere valore nella misura in cui la rivelazione della sua eliminazione non ha ancora avuto luogo agli occhi di tutti, nella misura in cui la creazione intera deve ancora attenderla e sperare”.847 Come se l’ cristiana fosse una espansione spontanea, che guadagna terreno sul Niente residuale a seguito di una flebile eco della vittoria di Cristo. invece non è proprio così, dal momento che l’oblio di Dio è intervenuto all’interno della cristianità e della cultura cristiana. Avendo la cristianità preso coscienza del Male in conseguenza della conoscenza del Bene, la perdita del senso di questo è resa culturalmente più acuta dal conseguente smarrimento morale, ossia dei fondamenti stessi del pensare e dell’agire. Se questo generale smarrimento culturale e morale lo si mette in relazione con lo sviluppo parallelo della conoscenza e dell’istruzione media, allora il rapporto tra informazione intellettuale e formazione morale diventa oppositivo e contrastante. Di conseguenza, le ragioni di tale contrasto vanno ricercate sul piano della qualità del messaggio pedagogico, e sul piano della quantità relativa alla sua trasversale diffusione sociale. In tal senso, il nostro discorso critico si sviluppa secondo due coordinate direttive fondamentali: la prima orientata verso l’individuazione dei percorsi ideali che hanno maggiormente caratterizzato la cultura europea, e la seconda volta a indicare i processi storici e le dinamiche sociali che li hanno riflessi sul 847
Ivi, pag. 182.
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piano della vita pratica. La corrispondenza trai due piani di realtà, quello teoretico e quello pratico, non è, per così dire, immediata e automatica, ma stabilita sulla base di forme e strutture istituzionali che per tempo e luogo hanno stabilito le priorità e la dominanza di determinate visioni del mondo alle quali orientare i pensiero e l’azione degli uomini, anche a prescindere da una convinta adesione collettiva o di singoli alla loro credibilità ed efficacia. Ciò significa che le forme ideali legittimano le strutture istituzionali, ossia che gli ideali dominano socialmente attraverso organismi potestativi, secondo una correlazione dinamica e funzionale tra formule autoritative di pensiero (auctoritas) e relative strutture di Potere (potestas). L’esistenza di tale correlazione più o meno funzionale tra formule ideali e strutture di Potere, dimostra storicamente che al fondo di ogni regime costitutivo della socialità umana vi è una credenza che lo legittima idealmente, senza la quale nessun Potere potrebbe sussistere senza distruggersi. Ma la stessa circostanza della variabilità dei regimi storici di socialità, indica una dinamica interna a ogni forma istituzionale, che opera nel senso del suo disfacimento. I regimi politici non durano. Questa semplice costatazione ispira due rimedi consequenziali, uno diretto alla determinazione di forme istituzionali ottimali basate su ideali di perfetta razionalità: ed è la strada platonica della filosofia politica; l’altro tendente a trascendere la dimensione politica della socialità, al fine di pervenire a una modalità di convivenza fondata su principi non conflittuali: ed è la strada precipuamente cristiana dell’esistenza umana. Questi due diversi indirizzi, sociologico e spiritualistico, sia pure idealmente opposti, hanno convissuto nella cultura europea sotto forme di sincretismo teologicopolitico più o meno stabili, fino al collasso culturale e istituzionale, a seguito di un progressivo logoramento dialettico delle formule razionali, che si è riflesso sulla sempre più precaria legittimazione degli istituti politici storici, fino alla completa delegittimazione, il cui prodotto sociopolitico è la Rivoluzione, quale rigetto eversivo dell’ordine costituito. La Rivoluzione è il termine politico che indica il risvolto sul piano sociale del Chaos metafisico, che in termini teologici Barth ha chiamato Niente. L’assunzione del problema della Rivoluzione nell’ordine esclusivamente politico, in conseguenza della rimozione intellettuale dalla cultura razionalistica moderna dei fondamenti teologici del pensiero, e quindi
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morali del pensare stesso come tale, ha condotto a una serie di tentativi più o meno ingegnosi di arginare il pericolo dissolutorio attraverso strumenti di carattere meramente istituzionale e di natura economica, volti a prevenirne le cause o a tamponarne gli effetti, senza però alcuna possibilità di scongiurarla in radice, dal momento che la radice della Rivoluzione non è politica ma morale. Questa consapevolezza deve investire un piano di considerazione, negletto dalla diagnostica moderna, ma essenziale, circa la relazione tra i fondamenti di credenza ontologica che caratterizzano una cultura umana e la fenomenologia storica dei relativi processi socio-politici. La declinazione storicistica e sociologica del razionalismo, ossia della credenza che l’Essere sia il Tutto e che pensare l’Essere sia equivalente a pensare l’ente in universale, non affronta il problema radicale del Niente e perciò non può darsi ragione delle crisi epocali se non accertandole come effettive e spiegandole geneticamente ricercandone i soli nessi fattuali contingenti, alla stregua di fenomeni naturali. Ma proprio la rimozione della sfera spirituale dalla considerazione scientifica, per definizione Wertfrei, dei fenomeni sociali è la manifestazione teoretica dell’insipienza culturale a comprendere lo stesso vissuto umano da parte di una civiltà privata dei suoi fondamenti assiologici, destinata perciò a soccombere sotto la Necessità dell’incombenza del Niente, ossia a decadere ed estinguersi. La difficoltà, già avvertita da Nietzsche e lucidamente da Heidegger, di isolare concettualmente il fattore critico mercé gli strumenti teoretici della tradizione che lo ha prodotto, aumenta in considerazione del pregiudizio intellettuale che sostiene e avvalora ancora quella tradizione di pensiero, per cui la conoscenza valida non sia che quella scientifica, condotta cioè secondo quei principi epistemologici che l’analisi critica contesta e vorrebbe teoricamente confutare. Ciò implica che la critica culturologica, per potersi esplicare nelle guise conformi alle sue premesse euristiche, debba porsi su un livello di coscienza altro da quello proprio delle scienze, e tale che il suo valore conoscitivo non sia inficiato dalla inottemperanza metodologica ai criteri di validità propriamente scientifici. Senza questo cambiamento di orizzonte di coscienza, non si può parlare di mutamento di paradigmi culturali, ma soltanto di una eventuale riconversione degli stessi principi da un genere a un altro
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(). Ed è ciò che infatti è avvenuto nella civiltà europea attraverso il variare delle sue forme culturali, ma non dei suoi fondamentali principii ontologici, stabiliti dalla metafisica greca e definiti anzitutto dalla filosofia di Platone, costituente il paradigma del pensiero occidentale, compreso quello teologico cristiano. Con l’oblio della premessa della fede cristiana, che l’Essere non è il Tutto, la civiltà occidentale ha conservato la credenza ontologica greca, sviluppandola metodicamente fino alla moderna rimozione ateistica di Dio. E poiché, secondo Schleiermacher “il peccato è tale solo a partire dalla coscienza della grazia”, 848 è la rimozione della redenzione di Cristo all’origine della persistenza e diffusione del nichilismo nella cultura e nello stile di vita occidentali. Trascritto in termini teologici, “il peccato è l’inibizione della forza determinante dello ‘spirito’, a causa della indipendenza ancora efficace della funzione sensibile, è l’impotenza dello ‘spirito’ di fronte alla ‘carne’, [ovvero] è lo squilibrio derivante dallo sviluppo ineguale tra il nostro intelletto e la forza di volontà nel loro rapporto con la coscienza di Dio”.849 Ma codesta asimmetria tra coscienza ideale e comportamento pratico è anch’esso un portato della coscienza razionalistica greca, che la coscienza personalista cristiana aveva superato col modello esistenziale di uomo integrale, comprensivo non soltanto della “volontà” socializzata, legata all’intelletto, ma della intima “intenzione”, legata alla fede. E invece la civiltà moderna, riconfermando i fondamenti naturalistici della metafisica greca emancipati da ogni riformulazione teologica cristiana, ha riabilitato quella dicotomia, interpretando la distanza tra la sfera della coscienza razionale e quella del comportamento istintuale come una questione 848
“Noi abbiamo la coscienza del peccato ogni qualvolta la coscienza di Dio implicata in un vissuto, o che ad esso in qualche modo si aggiunge, determina la nostra autocoscienza come avversione, e pertanto concepiamo il peccato come u contrasto positivo della carne [“ossia la globalità delle cosiddette forze psichiche inferiori”] contro lo spirito [“principio motore autonomo”, conseguente alla coscienza di Dio]. […] Se si tratta anzitutto di comprendere quello che c’è di caratteristico nella coscienza della peccaminosità, nel campo della religiosità cristiana possiamo cercarlo non al di fuori del rapporto con la coscienza di Dio”: F. Schleiermacher, Glaubenslehre (18302), tr. it. a cura di S. Sorrentino, Brescia, 1981, vol. I, pag. 501. Da ora DF. 849 K. Barth, Dio e il Niente, cit., pag. 76.
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puramente pedagogica, risolubile per via metodica, non implicante quella metanoia personale ritenuta da Gesù essenziale per la svolta esistenziale in senso cristiano. L’intera filosofia moderna, sviluppando in senso metodico i fondamenti razionali del sapere, ha smarrito la coscienza della Grazia, e quindi la rimosso dal valido discorso umano la coscienza di Dio, ossia l’arcaico evento cristico, esponendosi così al Niente nello stesso tempo in cui, liberandosi dalla coscienza morale (das Gewissen) hanno ritenuto di liberarsi dal peccato, ossia dal “bisogno della redenzione”.850 In che relazione si pone questa condizione di coscienza morale con l’accadere storico degli eventi mondani? La risposta evasiva e liquidatoria delle analisi razionalistiche, si colloca nella situazione di ignoranza e di disconoscimento del Niente notato da Barth, a seguito della quale il ripiegamento scientifico sulle causalità endogene ai fenomeni sociali mostra tutto il suo limite nella impossibilità di costituirsi come legge costante di comportamento; impossibilità dovuta appunto alla assunzione arbitraria dei fenomeni umani come processi naturalistici, conseguentemente alla rimozione della natura spirituale dell’uomo. Da questo limite gnoseologico deriva la qualificazione empirica sia del Bene, frazionato in molteplici disvalori particolari (Bene economico, politico, sanitario, estetico, giuridico, etc.), che del Male come relativo dis-valore del Bene considerato, con conseguenza perdita di vista della loro rispettiva realtà totale, che la ragione esclusiva non può cogliere. La prospettiva soggettivistica di Schleiermaker, come quella del resto di Kierkegaard e di Tolstoj, per citare altre simili posizioni di autori di diversa confessione cristiana, tende, come vedremo oltre, a concentrarsi sullo stato d’animo interiore del singolo credente, senza addurre da esso alcuna norma di carattere generale o inferenza di natura oggettiva, sembrando con ciò rimuovere ogni considerazione sociale e collettiva del problema del Male a favore di una “teologia della realtà soggettiva” dalla quale emergesse solo “una descrizione storica degli stati d’animo dell’uomo cristiano pio”. 851
850 851
Ivi, pag. 83. K. Barth, Dio e il Niente, cit., pag. 86.
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In realtà, se per “peccato” è da intendere la “coscienza del mondo nella misura in cui diviene autonoma e si contrappone alla coscienza di Dio (con Paolo: allo ‘spirito’), invece di sottomettervisi”, 852 allora il peccato stesso, divenuto “dominante” entro un orizzonte di coscienza storicoculturale indicativo di comportamenti socio-politici, acquisisce il senso di una “realtà” totalizzante non riferibile più al (solo) stato d’animo soggettivo dell’uomo pio,853 ma alla complessiva direzione fenomenicosoteriologica del processo storico considerato, il quale, soltanto nell’orizzonte di coscienza teologica acquista il senso complessivo, che l’analisi razionalistica, ridimensionata la sua pretesa universalistica nel senso della dimensione storicistica dei valori culturali, non può (più) fornire, se non in relativis attraverso astratte comparazioni diacroniche con fenomeni ritenuti analoghi. Non è un caso, infatti, che la filosofia, per conservare un suo statuto identitario differente rispetto alle scienze, abbia concentrato le sue più profonde attenzioni ontologico-metafisiche sul Niente.854 L’impossibilità metodologica delle analisi razionalistiche di cogliere la totalità dei fenomeni morale, relativi cioè al Bene e al Male, deriva dalla stessa inibizione razionalistica a conoscere l’Uomo nella sua intierezza fisico-spirituale,sicché ogni determinazione concettuale della sua condizione storica rischia di costituirsi nello scarto metodologicamente sistematico dell’unica realtà veramente universale, che è quella appunto spirituale, che si configura come negativa in relazione alla visione onto-logica della esclusiva positività (e attualità) dell’Essere fattuale, e abbisognevole pertanto di una teoresi di natura propriamente meontica. Una delle principali conseguenze di tale disconoscimento del MaleNiente è l’incongruità di superarlo adottando rimedi estrinseci, puramente naturali o anche solo formali e istituzionali, attraverso prescrizioni deterrenti o punitive che non mettano al centro la questione della coscienza di Dio, e dunque la redenzione interiore dell’uomo spirituale. La coscienza di Dio è la condizione trascendente della soggettiva e storica 852
Ivi, pag. 87. Ivi, pagg. 96-97. 854 Ved. S. Givone, Storia del Nulla, Roma-Bari, (1995), 20032. 853
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coscienza morale, l’unica “causalità universale” che coinvolga l’intera esistenza fisico-spirituale dell’uomo, in grado perciò di stabilire un valore comune e intemporale, perché trascendente le specifiche determinazioni contingenti della condizione umana, singolare e collettiva. Non vi è alcun’altra prospettiva gnoseologica né alcun altro orizzonte di coscienza in grado di congiungere la realtà singolare dell’uomo e la sua esistenzialità collettiva in un’unica determinazione di valore, le cui prescrizioni negative, già notate da Scheler, attestano la natura meontica del suo precipuo orizzonte di coscienza. Ciò che nega e rigetta la coscienza morale è appunto la considerazione esclusiva e parziale del giudizio razionale dell’uomo sull’uomo, incapace pertanto di intuire la totalità della fisionomia personale, possibile solo entro la sfera morale e per mezzo dell’ atteggiamento agapico della charitas. Ora possiamo intendere ciò che Dio “non ha voluto”, per riprendere le parole di Barth, che è propriamente la considerazione esclusivamente naturale della persona umana, equiparata dalla Weltanschauung razionalistica, a partire segnatamente da Aristotile, alla stregua di una creatura puramente biologica e non anche spirituale, quale essa invece è per disposizione divina. E pertanto la metafisica naturalistica, entro il cui orizzonte è inquadrata l’esperienza esistenziale dell’uomo, rappresenta alla luce della rivelazione cristiana una visione del mondo essenzialmente amorale, come per l’appunto si definisce la gnoseologia scientifica. Il Niente, e dunque il Male, non ha una natura assoluta, ma nasce solo all’interno della relazione che l’uomo ha con Dio, ossia dal misconoscimento della Grazia.855 La relazione con Dio consiste appunto nel riconoscimento del Limite al potere dell’uomo / creatura di agire e di comprendere la realtà fuori della testimonianza di Cristo / Creatore. Cristo è santo in quanto totale, mentre la realtà del mondo è imperfetta e parziale in quanto priva della Grazia. Il peccato dell’uomo consiste nella rimozione del bisogno di Grazia, ossia del perfezionamento divino; perfezionamento che viene ricercato nell’ambito della stessa realtà imperfetta, in modo naturalistico e razionalistico, ossia scientifico. Ciò fa di questa possibilità, cioè della libertà dell’uomo di non completarsi in Dio, un percorso sbagliato e peccaminoso (indicato in teologia come 855
F. Schleiermacher, DF, pag. 503; K. Barth, Dio e il Niente, cit., pag. 104.
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Pelagianesimo), non equivalente a quello spirituale, sicché, finalmente, la libertà in senso improprio è il percorso umano di “allontanamento dal Creatore” verso la “indipendenza della funzione sensibile”, 856 alternativo alla redenzione dal peccato; un “abuso della libera volontà” 857 alternativo alla Grazia, che è ubbidienza a Dio. Il peccato consiste nel consegnare la propria volontà alla Necessità naturale, nel farsi homo naturalis, preda alle sole leggi di natura. La vera libertà consiste dunque nel riconoscere Cristo come il modello della perfezione umana di uomo emancipato dalla Necessità della natura. Ciò consente anche di comprendere la natura del Bene, che è appunto la trascendenza dalla finitudine naturale preda della Necessità, e della Redenzione, in cui consiste tale liberazione; e del Male, che è la permanenza volontaria nella condizione naturale:858 la scelta di non salvarsi, restando preda della Necessità, nella quale è rimasta irretita la metafisica pagana, che ha concepito il modello ideale come proiezione universale dello stesso ente finito. Solo ponendosi al di là dell’Essere è possibile vederne la realtà finita; così come soltanto ponendosi al di là del tempo è possibile comprendere che la sua pienezza non consiste nella unità delle sue distinte fasi diacroniche, cioè nella durata infinita di uno dei suoi momenti, ma nel porsi nella prospettiva escatologica della eternità. La prospettiva razionalistica pone tradizionalmente la questione del conflitto del Bene col Male come l’alternativa tra l’intelletto e la volontà, supponendo che l’intelletto sia la volontà razionale, volta cioè kantianamente al valore universale, inteso come “un’immagine generale” o “una formula”, che riduce l’antitesi a “un rapporto giuridico umano”. Ma la tesi più interessante di Scleiermacher è che il rapporto tra lo spirito e la carne si ponga sul piano della unità della coscienza morale contro la molteplicità delle manifestazioni del “potere della carne”, sicché “la stessa coscienza di Dio […] viene talmente alterata e frazionata [che] va persala stessa antitesi morale”.859
856
F. Schleiermacher, DF, § 66, pag. 503. Ivi, § 72, pag. 531. 858 F. Schleiermacher, DF, § 67, pag. 504. 859 F. Schleiermacher, DF, § 68, pagg. 508-509. 857
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Se, però, è la coscienza del Bene a far scaturire quella del Male, allora questo “è condizionato sempre da un bene, il quale deve aver avuto la precedenza, e può essere solo un risultato di quella perfezione originaria, insita in noi” e consistente nell’ “accordo con la coscienza di Dio”, che lascia un minimum di traccia anche in seguito, per cui “lo stato di peccaminosità presuppone nel suo intero campo la perfezione originaria ed è condizionato da essa; sicché come questo concetto esprime l’unità del nostro sviluppo, così da parte sua il peccato esprime lo spezzone isolato e frammentato di codesto sviluppo, laddove però quell’unità non è minimamente liquidata”.860 Ciò che dunque manca all’uomo è la coscienza unitaria del bene, la quale non perviene all’uomo “dalla Legge”, essa stessa un riflesso delle imperfezioni umane,ma solo dalla “condizione di piena assenza di peccato”, ossia dalla “assoluta forza spirituale del redentore”. 861 Il limite della visione cristocentrica di Schleiermacher è nel pensare che il “frazionamento” della coscienza del Bene sarebbe superabile dalla “piena certezza della sua inevitabilità”, cioè da una cognizione concettuale, suffragata da riscontri effettuali, alla cui necessità logica non potremmo sottrarci e quindi “non ci rimarrebbe altro che adattarvici tranquillamente”.862 È questo presupposto razionalistico che induce il teologo di Breslavia a giustificare in termini storico-psicologici assoluti la diversa configurazione personale della coscienza del peccato, fondandolo nell’uomo stesso, sia in senso singolare che come cultura collettiva. 863 Ed è lo stesso presupposto naturalistico a far ritenere, per analogia, originaria nell’uomo “la capacità di accogliere in sé la grazia” divina, quale “condizione indispensabile di ogni efficacia della medesima”, senza la quale si dovrebbe presupporre “una precedente trasformazione dell’uomo […] tale per cui solo allora viene suscitata n lui quella capacità”. 864 Ipotesi che Schleiermacher scarta per evitare l’auto-redenzione 860
Ivi, pag. 510. Ivi, pag. 511. 862 Ivi, pag. 510. 863 F. Schleiermacher, DF, pagg. 512-513. Ved. K. Barth, Dio e il Niente, cit., pag. 109. 864 F. Schleiermacher, DF, pagg. 517-518. 861
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dell’uomo, fraintendendo la posizione pelagiana con la metanoia cristiana, in cui consiste il passaggio dall’orizzonte di coscienza naturalistico a quello spiritualistico, entro i quale è possibile la “coscienza di Dio”, e quindi il dialogo consapevole con Lui, la cui volontà resta altrimenti un evento oggettivo ed esterno all’uomo. Inteso il peccato come “inclinazione” del genere umano, e non più dunque come condizione soggettiva relativa alla coscienza della Grazia, l’universalità del peccato originale, legata alla finitezza naturale del genere umano, di cui rappresenta la sua “colpa collettiva”, viene dal teologo considerata come “fondamento di tutti i peccati attuali” e collegata in parallelo al “riconoscimento dell’universale bisogno di redenzione”. 865 Sennonché, equiparando condizione naturale (universale), con condizione spirituale (responsabilmente legata alla libera scelta), si perde non tanto, come vorrebbe Barth, il carattere conflittuale del rapporto tra Grazia e peccato,866 quanto il dispiegamento di tale rapporto come una storia personale dell’uomo, la cui singolarità caratterizza la condizione eventuale e non necessaria e universale, della redenzione. In tal senso, universale va considerata il peccato in quanto condizione naturale, mentre la coscienza del peccato, dipendendo dalla possibilità della redenzione, è sempre attuale, ossia spiritualmente storica. Trasferire indebitamente l’universalità, ossia la naturale necessità, in ambito spirituale, è all’origine della confusione, e moderna preminenza, della volontà quale termine correlato all’operare,867 sulla intenzione, che ha portato a identificare la personale e intima sfera morale alla sfera etica, per definizione pubblica e impersonale, del potere politico. Asserire, come fa Schleiermacher, che “La pura possibilità non è nulla senza il passaggio alla realtà”,868 significa eliminare dalla realtà del Bene ogni intenzione impotente, compresa la preghiera e il sentimento d’amore non manifesto, ma non perciò meno vivo, assegnando alla volontà un primato che non è spirituale ma mondano.
865
Ivi, pagg. 520-521. K. Barth, Dio e il Niente, cit., pag. 108. 867 F. Schleiermacher, DF, § 70, pag. 517. 868 F. Schleiermacher, DF, § 72, pag. 536. 866
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Nell’ambito della Necessità naturale, non c’è “inclinazione” al Male, ma condizione comune e universale; viceversa, nell’orizzonte spirituale opera solamente la libertà della fede e dunque della scelta di pervenire all’ascolto di Dio. La “coscienza di Dio” è pertanto conseguente alla fede quale atto originario di porsi sul piano spirituale di personale libertà dalla universale Necessità naturale. Tale coscienza diventa “patrimonio comune”, ossia valore religioso di una cultura collettiva, non in virtù della universale condizione umana peccaminosa, ma in quanto è la sua articolazione istituzionale che “passa attraverso tutte le gradazioni del sentimento comune, attraverso le famiglie, le stirpi, le tribù, i popoli e le razze umane”.869 Affermare infatti, come fa Scleiermacher, che “tutto ciò che è incompatibile con la coscienza di Dio nelle azioni umane, può essere compresa solo nell’essere complessivo di ogni convivenza, ma mai completamente in una parte”,870 rischia di rendere paradossali nel senso della Verità le manifestazioni profetiche, a cominciare da quella di Gesù, mettendo in discussione lo stesso impianto ermeneutico della teologia della storia agostiniana, fondato sulla deliberata arbitrarietà divina dell’evento cristico in area giudaico-romana, destinando al compimento della evangelizzazione universale l’autentica coscienza umana della Redenzione. Ma soprattutto la natura personale e non indotta del peccato, il quale, a differenza del “castigo”, non può essere mai “arrecato” da altri, 871 confermando in altre guise l’impossibilità di oggettivare in una norma valevole erga omnes i contenuti della singolare intenzione, che resta all’esterno della coscienza personale un Mistero. Per questa ragione, “la coscienza del peccato, e il suo raccordo con il desiderio di una redenzione” non potrebbe, come invece pretende Schleiermacher, essere “sempre la stessa”,872 ma al contrario costituirà sempre un singolare rapporto di fede tra l’uomo e Dio. Se il Bene è nella “obbedienza spontanea” a Dio,873 l’abuso della libertà, costitutivo del peccato originale, è la volontaria interruzione del rapporto, conseguente alla 869
F. Schleiermacher, DF, § 71, pag. 523. Ivi, pag. 524. 871 Ivi, pag. 525. 872 F. Schleiermacher, DF, § 72, pag. 529. 873 Ivi, pag. 533. 870
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decisione di perseguire un proprio itinerario di sola ragione, svincolata dal legame divino. E’ questa la “conoscenza” interdetta ab origine ad Adamo: lasine fides. In questa libertà dissenziente consiste “l’autodeterminazione al male” da parte dell’uomo, la quale non esclude però “l’opera di Dio”, come invece ritiene Schleiermacher, per il quale essa “non sussiste più”,874 ma la rende, per così dire, indiretta, e tale che gli uomini che non l’abbiano scelta, la subiscano come contraccolpo involontario, ossia come effetto naturale. Seguire la sola natura è sbagliato di fronte a Dio, ma può non essere peccaminoso se manca nell’attore la coscienza di Dio. Con l’Incarnazione, l’annuncio della Verità diventa la condizione della consapevolezza del peccato, ponendo la coscienza umana in grado di scegliere pro o contra Dio, e perciò la “coscienza di Dio” diventa tutt’uno con la coscienza del peccato. Solo a seguito della rivelazione, la morte da evento naturale diventa realtà simbolica. Ma essa, in sé, non può definirsi un peccato, se non diventando un “atto”, una azione volontaria diretta a procurare la fine della vita. Allo stesso modo, il peccato originale non può definirsi un “atto collettivo del genere umano”,875 in quanto l’atto, propriamente, è sempre personale, e dunque soggettivo. La personalità dell’atto spirituale non è nell’agire, cioè nell’actio in quanto tale, che ha sempre un valore sociale in quanto oggetto di interpretazione secondo i valori contestualmente vigenti, ma nell’intentio, la quale va giudicata secondo l’intimo proponimento 876 e non secondo eteronome leggi comuni. L’ermeneutica dell’intentio sposta l’attenzione sull’Altro, ponendolo al centro del discorso e privando così il Potere delle sue prerogative di dominio esegetico. Gli atti di Gesù, Cristo dell’Amore, vengono interpretati come una sfida ermeneutica per il Sinedrio, custode dell’esegesi biblica. Il suo potere, come quello di ogni Potere, consisteva nel riportare il senso di ogni azione umana al parametro semiotico stabilito e normativamente oggettivato: la Legge che Gesù contestava, e alla quale opponeva il senso proprio alla Sua fede e alla Sua testimonianza. Nella prospettiva dell’Altro, si azzera ogni normazione 874
Ivi, pag. 536. Ivi, pag. 540. 876 Ivi, § 73, pag. 547. 875
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esegetica pregressa, in quanto il senso semiotico degli atti personali è tutto interno alla diegesi della storia spirituale singolare, in sé misteriosa. La coscienza di questo mistero coincide con la stessa coscienza di Dio, non potendosi alcuna singolarità personale rapportarsi alla comune natura biologica del genere umano, che costituisce invece la base analogica di ogni universalità razionalistica del dato ontico. Questa consapevolezza della presenza divina nell’uomo fa di questi una persona in grado di pervenire a un suo completamento antropologico non già per via eticopolitica, secondo l’opzione greca, ma per via mistico-spirituale, secondo la preferenza cristiana, e dunque scegliendo Dio alla polis. La centralità della figura del Christos-Logos, cioè del Mediatore, nasce dalla costituzione paradigmatica della Storia di Gesù narrata dai Vangeli, la cui trama diegetica non è più la sequenza di una fabula mitologica, ma il repertorio avvenimenziale della semiotica cifrata, che rimane dello stesso valore spirituale assoluto per quanto interpretata secondo possibilità relative alla propria possibilità esegetica. Questa condizione ermeneuticamente aperta dei testi evangelici è stata misconosciuta fino alla Riforma luterana, in quanto l’autorità ecclesiastica romana si era definita nei termini di un monopolio esegetico proprio di ogni Potere mondano di natura politica, secondo il procedimento tecnico-dialettico elaborato dalla metafisica razionalista della tradizione filosofica greca, incentrata sul primato della posizione tetica, alla quale andava riportata ogni antitesi dialettica. Con la predicazione dell’amore evangelico, la prospettiva andò rovesciandosi, per cui la Maddalena o Paolo, o lo stesso Giuda, o il tradimento di Pietro, non andavano “giudicati” secondo gli schemi fattuali della oggettiva legalità formale, ma sul fondamento delle loro rispettive intenzioni morali, indipendentemente dalle conseguenze razionali. Sicché né le fornicazioni della meretrice potevano cancellare la loro realtà fattuale, né le persecuzioni di Paolo potevano essere rimosse dalla sua coscienza convertita; ma la stessa storia di Roma non poteva essere cancellata dalla memoria dei popoli, cristiani o non. Esse tutte potevano però essere trasvalutate dalla coscienza religiosa, nei termini della loro misteriosa funzionalità al disegno provvidenziale, il quale, diversamente dalle dinamiche naturalistiche, spontanee o artificiali dello Stato razionale, non poteva essere previsto da mente umana, proprio in quanto scandito in tempi e modalità non universalizzabili in leggi
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costanti, ma pertinenti alla libertà del rapporto variabile e personale di Dio con ogni singolo uomo e col genere umano nel suo complesso. Ne consegue come mette in risalto Schleiermacher, 877 che la “qualità simbolica” del “racconto dell’origine del peccato” non è accreditata dal suo “valore universale”, ma questo da quella, per cui essa “è identica sempre e ovunque” solo in termini diegetici, ma propriamente in termini simbolici ed ermeneutici, nei quali prevale la natura molteplice degli approcci esegetici. Legando invece, come egli fa, il peccato alla inclinazione naturale anziché alla coscienza della redenzione, si espone al discorso aporetico e mitologico delle ipotesi sulle due nature, una “originaria” e l’altra “trasformata”, e quella di una natura “unica e ovunque uguale a se stessa senza eccezioni”, non cogliendo il valore simbolico della cifra originaria del primo uomo, il quale, come intese Kierkegaard, non fu il primo della specie in senso generativo, ma in quanto unico al pari di ogni altro uomo, che viene al mondo della “realtà”, nel senso di Barth di contesto peccaminoso, come un Adamo.878 Ed è perciò che “nell’intero ambito dell’umanità peccatrice non vi è neanche una sola azione che sia completamente e perfettamente buona”.879 Questa universale condizione peccaminosa di assenza o di imperfetta coscienza di Dio, unifica ogni uomo in rapporto al peccato, inteso come “una vittoria, per quanto momentanea o parziale, della carne sullo spirito”. Schleiermacher stabilisce una relazione di forza competitiva tra la coscienza di Dio e la forza deterrente del peccato, che simmetricamente si contenderebbero l’animo umano, “in rapporto allo stato di grazia del singolo”.880 Proprio la universale attribuzione della colpa che genera il peccato, fa di questo una condizione privativa di Bene senza differenza di contenuto, 881 confermando per altra via l’essenza negativa di tale universalità. Poiché, però, l’atto peccaminoso è comunque una manifestazione reale, interiore o esterna, il lato positivo della privazione deve essere giustificata nella 877
F. Schleiermacher, DF, § 72, pag. 543. Ivi, pagg. 544-545. 879 Ivi, § 73, pag. 547. 880 Ivi, pag. 549. 881 Ibidem. 878
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sua effettualità, il cui valore passa dalla sua intrinseca razionalità al supposto fine spirituale, secondo un criterio di validazione puramente formale e astratto, per cui “tutte le attività della carne sono buone se obbediscono allo spirito, e tutte sono cattive se disancorate da esso”, 882 che lascia impregiudicato il rapporto tra strumenti peccaminosi e fini morali, aprendo una questione che Croce, ragionando sul Machiavelli, definì “insolubile”. Infatti, nell’economia provvidenziale della creazione ogni aberrazione umana può essere giustificata assiologicamente spostando ogni volta i termini teleologici, che il teologo attribuisce al “carattere della religiosità cristiana”,883 fino alla apocalisse e alla estrema parusia divina. Per superare l’ostacolo della disparità tra il negativo del Bene e la positività del peccato, Schleiermacher ascrive al peccato un valore univoco, e la differenza alle sue manifestazioni formali, che sono all’origine anche nella distinta temporalità del “peccato esteriore” rispetto a quello “interiore”, dovuto alla circostanza, che resta comunque del tutto accidentale e non essenziale, che il primo “occupa un tempo divisibile in momenti”.884 Ma il lato più interessante del discorso teologico è il collegamento funzionale del mondo allo spirito, per cui la stessa connessione lo renderebbe “perfetto”. Ciò consente di posizionare l’uomo in posizione privilegiata in quanto la sua “organizzazione” è stabilita al fine di orientare “tutto il resto dell’essere” allo spirito, ossia alla coscienza di Dio.885 Ma in cosa consiste la “perfezione del mondo”? Nella possibilità di unificare il molteplice delle manifestazioni “alla medesima autocoscienza”, la quale “essendo indipendente da ogni singola azione esercitata su di essa, può essere qualificata come un solo ente, da cui a sua volta dipende ogni esperienza”. Ciò spiegherebbe a suo dire la connessione tra lo spirito finito e la materia, finalizzata al primo. “In effetti – come egli prosegue a dire – ambedue gli aspetti formano insieme un’unica cosa”, la cui perfezione risiede nella sua “conoscibilità”. “Solo 882
Ibidem. Ivi, § 59, pag. 456; ved. diffusamente il § 9, 1, pagg. 190-195, e il § 11, pagg. 208218. 884 Ivi, pag. 551. 885 Ivi, § 59, pag. 457. 883
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che la conoscibilità dell’essere costituisce il lato ideale, mentre l’esistenza naturale dell’organizzazione umana è il lato reale della perfezione originaria del mondo che afferisce direttamente alla recettività umana”. 886 Il mondo ridotto a unitario concetto razionale, in cui consiste infine la stessa coscienza di Dio, dove convergono “la coscienza della specie e l’autocoscienza personale dell’uomo”.887 Il senso teleologico della relazione tra spirito e mondo, o nell’uomo carne, è riposto nella funzione strumentale che la natura ha verso lo spirito, sicché, come lo spirito diventa anima nel corpo, così “il sapere intorno all’essere”, e quindi la stessa coscienza di Dio, incluse le produzioni umane, attraverso lo strumento sensoriale, si “traduce” in “coscienza reale, secondo i gradi più vari di rappresentazione universali e particolari”.888 La possibile reversibilità di verum et factum che consente l’unità e perfezione della realtà, si riflette immediatamente e inesorabilmente nella corrispondenza tra intenzionalità e attività, per cui “non esiste alcun momento interiore che non diventi altresì un momento esteriore”, inteso non solo come autocoscienza personale ma anche come generale “coscienza della specie” della realtà di Dio. Dalla “intima unione” di queste due coscienze, personale e collettiva, nasce la coscienza organica della comunità religiosa, la cui realtà vivente consente di “suscitare e conservare in toto il presupposto per cui con l’espressione esteriore, e a partire da essa, viene riconosciuta e compresa anche la realtà interiore”. Ed in questa “appartenenza reciproca” della coscienza individuale a quella socio-collettiva, Schleiermacher vede appunto “la perfezione originaria dell’uomo”, nonché la possibilità stessa della socialità, poiché “ogni comunità umana si fonda unicamente su […] la connessa comunicabilità della realtà interiore mediante l’espressione esteriore”. In altri termini, la comune “coscienza di Dio” fonda la realtà sociale in quanto comunità spirituale, legata religiosamente dalla correlazione tra intenzione interiore e volontà esteriore; e dalla consapevolezza di questa imprescindibile correlazione nasce la dipendenza (Abhangigkeit) della libertà a indirizzare la sua varia 886
Ibidem. Ivi, § 60, pag. 464. 888 Ivi, pag. 466. 887
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manifestazione in senso funzionale alla coscienza di Dio. 889 Tesi che ha un aspetto di verità, ma che è legata alla visione razionalistica della condizione umana e della sua coscienza, in conseguenza della quale Schleiermacher distingue nel “divenire umano” l’“affare di fede” dall’ “elemento fattuale”, assegnando a questo solo il carattere storico.890 L’orizzonte fattuale è la proiezione empirica dell’attività volitiva, la cui progressiva razionalità rappresenta lo sviluppo della coscienza dell’uomo e del mondo, a esclusione dei moti istintuali e inconsapevoli dell’animo umano, consegnati a una fase primordiale del tutto a-storica inintelligente. Contrasta tale visione progressista l’illuminazione della fede, la cui intelligenza della realtà è molto diversa qualitativamente dalla cognizione intellettiva, stabilita dal concetto. Se infatti è possibile stabilire un rapporto da minore a maggiore intellezione della realtà dal punto di vista intellettuale, riguardo alla fede si deve parlare solo di “passaggio” da un orizzonte di coscienza a un altro, indipendente dalla razionalità delle sue rappresentazioni. Nell’orizzonte cristiano, in cui opera Agape, il modello umano è la santità di Cristo, non già la sapienza del filosofo o l’erudizione dello storico. Ciò comporta che anche la percezione della realtà è diversa nei due casi. Compresa quindi la coscienza di Dio. Essa, spiega Schleiermacher, “in noi è data solo in connessione col nostro organismo psichico e corporeo”, sicché, in riferimento alla imago Dei, “bisognerebbe ammettere una delle due: o che il mondo intero si rapporta a Dio come il nostro organismo complessivo alla massima facoltà spirituale in noi”, nel qual caso Dio sarebbe “una cosa sola con il mondo; oppure che anche in Dio vi sarebbe qualcosa che come minimo corrisponderebbe al nostro organismo fisico”; in tal caso la sua rappresentazione “riceverebbe un forte inquinamento di umanità”, attribuendoGli “proprietà nelle quali nulla può essere pensato come divino”.891 Ciò ci indurrebbe a prendere cum grano salis alcune espressioni bibliche, anziché recepirle sic et simpliciter in sede dogmatica. Soprattutto in materia di peccato, la cui esistenza, induce a
889
Ivi, pag. 467. Ivi, pag. 469. 891 Ivi, § 61, pagg. 475-476. 890
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“ipotizzare una specifica attività divina”,892 distinta o opposta da quella in cui Dio “è autore della grazia”. Se questa è intesa come “la forza della coscienza di Dio nella nostra anima”, il peccato è la mancanza di quella coscienza, quando noi “siamo coscienti di esso come di un nostro atto personale staccato da quella comunicazione divina”. 893 In virtù di tale coscienza, di essere cioè determinati dalla coscienza di Dio, anche il peccato “sussiste accanto alla grazia”, come “la malvagia umana sussiste solo in relazione al bene”. Infatti, “se si potesse parlare di un peccato senza alcuna connessione con la redenzione, non si potrebbe ammettere una attività divina diretta all’esistenza di un tale peccato”.894 Su questa teoria insorge l’obiezione di Barth, in quale contesta il “rapporto positivo” tra grazia e peccato, i quali a suo dire starebbero in “una relazione di opposizione e di conflitto”, non già di “concordia”, sia pure nella prospettiva della vittoria della grazia.895 Ma il supposto “errore di Schleiermacher”, di aver considerato Dio anche “autore del peccato”, sia pure “solo in rapporto alla redenzione”,896 non è quello indicato da Barth; anzi, è proprio Barth ad assolutizzare i due momenti irrelati, destinando all’attività divina la sola grazia. L’errore è nel considerare la realtà della grazia e quella del peccato come una relazione dialettica, relativa all’attività della coscienza intellettuale dell’uomo. Infatti, il peccato, inteso come assenza di coscienza di Dio, e dunque come una aberrazione intellettuale, stabilisce nella conoscenza la base della moralità, spostando la supposta attività divina alla attività della coscienza umana e facendo pertanto del peccato un errore di ignoranza, ossia di omissione, personale. Per capire la posizione di Schleiermacher occorre risalire alla sua definizione di “santità di Dio”, la quale non è una condizione di perfezione indipendente dall’uomo e dalla sua coscienza, ma una “causalità” che agisce sulla vita umana come “coscienza” (Gewissen) del “bisogno della redenzione”. A sua volta “con il termine coscienza”, egli intende la consapevolezza che “tutti i moduli operativi 892
Ivi, § 79, pag. 574. Ivi, § 80, pag. 575. 894 Ivi, pag. 576. 895 K. Barth, Dio e il Niente, cit., pag. 108. 896 F. Schleiermacher, DF, § 80, pag. 577. 893
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derivanti dalla coscienza di Dio e stimolabili per suo tramite” non sono enunciati teoretici, ma stati di bisogno presenti nell’“autocoscienza” come “ostacolo alla vita, e quindi come peccato”. Non a caso Schleiermacher identifica la sensazione di penìa della coscienza umana al “rapporto con l’idea del Bene”.897 Questo Bene “costituisce la perfezione originaria della sua natura”, indipendente dalla sua “apparizione” nella coscienza dell’uomo, e che è presente alla coscienza umana “come una rivelazione originaria” che non ha bisogno di essere provata, in quanto “appartiene alle esperienze interiori che noi possiamo presupporre come generali nel nostro ambito”, ma non universali nell’ambito dell’intelletto, dal momento che vi è una “disparità nel suo apparire come intelletto e nel suo affiorare come volontà”. Schleiermacher introduce una distinzione fenomenologica tra il piano effettuale, legato all’occasionalità della coscienza umana, e il piano ontologico, o della “uniformità” tendenziale della coscienza, senza la quale “tutte le realtà di fatto che procedono da codesta disparità non sarebbero per noi peccato”. 898 E pertanto, se è la coscienza umana a rendere il senso del peccato, la causalità divina le è opposta, ossia “pertiene integralmente al campo dell’opposizione”, che è poi lo stesso campo esistenziale dell’uomo, entro il quale mercé la coscienza “un dato vissuto diventa peccato”, atto umano. La coscienza umana del peccato è la stessa risposta dell’uomo alla realtà del Bene, così come la causalità divina è lo stesso e unico atto col quale si dà la grazie e il peccato. Dalla qualità della risposta umana deriva l’atteggiamento dell’uomo verso la grazia ovvero verso il peccato. L’intero genere umano, destinatario comune della missione redentrice di Cristo, è ugualmente abbisognevole di redenzione, il bisogno comune della quale costituisce il legame tra gli uomini, la cui coscienza (Gewissen) “suscita sempre la coscienza del peccato”. È la disparità tra la grazia uniforme di Dio e la coscienza parziale del peccato da parte degli uomini a stabilire la ragion d’essere di una coscienza diversa da quella divina, e quindi di una “volontà [umana]” non “perfettamente unificata alla coscienza di Dio”. 899 897
Ivi, § 83, pagg. 594-595. Ivi, pag. 595. 899 Ivi, pag. 596. 898
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La disparità di coscienza richiama direttamente la singolarità delle esperienze umane, unificabili solo ammettendo una coscienza “identica in tutti e per tutti in una totalità vivente” come “legge”, sia in senso morale che civile., tale per cui “la santità divina è la causalità divina che legifera nella vita complessiva degli uomini”, ossia dell’ “intero corso storico”. 900 Il ragionamento di Schleiermacher è meno banale di come l’ha presentato Barth, e sicuramente più complesso. Egli infatti cerca di distinguere nel rapporto con l’uomo di attribuire a Dio la passività della imperfetta attività della grazia divino che invece riguarda le possibilità di ricezione umane, asserendo che “l’espressione del dispiacere divino, isolata dalla produzione del bene, non è altro che la produzione di questo dispiacere in colui che agisce tramite la coscienza e la legge”. Se invece volessimo allocare ogni traccia di “compiacimento nel bene” e di “dispiacere per il male” nella determinazione divina, allora dovrebbe conseguirne che “il male, nella misura in cui è contrapposto al bene come oggetto del dispiacere, non può neanche sussistere, e quindi non va posto neppure come un pensiero di Dio, ossia che non si dà nessuna essenza e nessuna idea del male”.901 La conseguenza logica è opposta alla pretesa di Barth, per cui L’essere finito non può produrre il male da se stesso, ossia che il male come opposizione reale al bene in generale non ha un’esistenza, e che quindi a rigore anche il dispiacere per il male prodotto in noi dalla causalità divina è solo il dispiacere per il ritardo della forza reale della coscienza di Dio sulla chiarezza della comprensione.902
Non è mera psicologia dell’uomo pio, come asserisce Barth, ma la conseguente presa di distanza metafisica sia dalla teologia naturale, ossia dall’ “illuminismo in cose di religione”, e sia dalla deriva pan-logistica hegeliano, e quindi dall’ipotesi di una Gestaltum filosoficamente fondata, a favore del principio vivente della fede.903 Proprio questa prospettiva, in 900
Ivi, pag. 597. Ivi, pagg. 598-599. 902 Ivi, pag. 599. 903 Ved. S. Sorrentino, Fede cristiana e produttività storica nella Glaubenslehre di Schleiermacher, Introduzione a F. Schleiermacher, DF, pag. 123. 901
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qualche modo propedeutica alle tesi teologiche del giovane Hegel, 904 fa della Glaubenslehre di Schleiermacher un notevole tentativo di riportare la dimensione religione in una sfera equidistante tanto dai “limiti della sola ragione”, quanto da quelli della “sola fede”, senza per altro (voler) pervenire alla successiva elaborazione teoretica della giustificazione filosofica di tale pretesa, secondo quanto invece farà Hegel col suo poderoso sistema. Ma ciò non toglie che lo sforzo di Schleiermacher sia tutt’altro che un grande equivoco da parte di un “cattivo teologo”, 905 dal momento che tenta di conciliare la storicità dell’esistenza umana con i fondamenti eterni divini, scongiurando la deriva relativistica conseguente alla definizione dell’uomo come mero “ente storico” (geschichtoliches Wesen)906 e “creatura del tempo” (Geschoepf der Zeit).907 fu di conciliare “l’essenza identica a se stessa della religiosità” quale coscienza universale “di noi stessi come assolutamente dipendenti” da Dio quale Identico, 908 con il dato singolare del sentimento religioso come mutevole esperienza esistenziale degli uomini, nel tentativo di definire “l’autonomia dell’esperienza religiosa”, contro la deriva “impura e acritica” di una gnoseologia, quella razionalistica, che, a imitazione della scienza della natura, “pretende di spiegare il senso del mondo e innalzarsi fino 904
“Hegel, l’altro pensatore che, a fianco di Schleiermacher, penetrò nelle profondità dell’esperienza religiosa, ricevette dai Discorsi di Schleiermacher uno stimolo straordinario”: W. Dilthey, Das Problem der Religion (1911), tr. it., a c. di G. Morra, Milano, 1992, pagg. 131-132. Da ora PR. Sulla forte influenza di Schleiermacher “nella religiosità e negli studi religiosi” del giovae Hegel, ved. Ivi, pagg. 124-125. Sulla formazione mistico-religiosa del panteismo hegeliano, ved. W. Dilthey, Die Jugendgeschichte Hegels (1921), tr. it. Napoli, 1986, pagg. 75-95. 905 L’espressione è di K. Barth, Ludwig Feuerbach, in Id., Antologia, a c. di E. Riverso, Milano, 1964, pagg. 105-134. 906 W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geistwissenschaften (1910), tr. it. in Crtica della ragion storica, Torino, 1954, pag. 220. 907 [W. Dilthey, Das Wesen der Philosophie (1907), tr. it. in Crtica della ragion storica, cit., pag. 419.] Lo sforzo “eroico” [K. Barth definì Schleiermacher “un eroe, come se ne offrono di rado alla teologia”, non essendo apparso chi possa stargli alla pari, nella sua monografia contenuta in Die protestantische Theologie im 19. Jahrhundert (1946) tr. it., Milano,1980, vol. II, pag. 3. Da ora PTh. 908 F. Schleiermacher, DF, § 4, pag. 155.
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all’anima universale partendo dalla totalità della natura e delle sue leggi”.909 Da questo proposito deriva il “contenuto della sua teologia”. Schleiermacher secondo Barth “ha visto il pericolo di una teologia impostata in senso essenzialmente apologetico, e la minaccia di una metamorfosi in una forma di filosofia”, alla quale egli “si è opposto quasi disperatamente”.910 Ciò che propugnava Schleiermacher era la costituzione della fede (segnatamente quella cristiana) come fondamento della cultura, ossia della stessa civiltà, e ciò che nel contempo combatteva era appunto l’autonomia della scienza dalla religione. Ciò voleva dire che la “dipendenza” (Abhangigkeit) dell’uomo da Dio non era soltanto una realtà intima e psicologica, ma metafisica, e pertanto esistenziale quanto culturale: una valore vitale (Lebenswert), per cui “la cultura senza la religione, senza la religione cristiana, non è una cultura completa 911 Già questa istanza lo poneva ai confini del moderno, se per moderno s’intende l’orizzonte culturale della emancipazione della ratio dalla fides, quello appunto della scienza moderna. Dilthey giustamente fa derivare dal carattere naturalistico della intelligenza scientifica la sua “pretesa al sapere universalmente valido”, 912 che confligge spontaneamente con il carattere di totalità che il religioso assume nella vita spirituale dell’uomo, in relazione con “la differenziazione progressiva della civiltà in sfere vitali autonome”, 913 ognuna delle quali, in virtù dei suoi statuti metodici, deborda nella illegittima pretesa di costituirsi come sapere universale, assumendo perciò, impropriamente, carattere a sua volta religioso. La prospettiva spiritualistica di Schleiermacher sposta l’attenzione teoretica sul dato intimo dell’Erlebnis religiosa. “Forse la cosa più profonda nella intuizione universale di Schleiermacher è che l’esperienza religiosa contiene in sé il principio esplicativo della diversità delle religioni e i fondamento della loro legittimità. La religione è intuizione e sentimento 909
W. Dilthey, PR, pag. 128. K. Barth, PTh, vol. II, pag. 8. 911 Ivi, pag. 19. 912 W. Dilthey, PR, pag. 117. 913 Ivi, pag. 116. 910
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suscitati dall’azione dell’universo sull’Io individuale”. 914 Era una riabilitazione neppure tanto indiretta della presenza dell’Infinito nella realtà umana, individuale ma anche storica e sociale, quale dato perenne confermato da ogni esperienza culturale dell’uomo storico, ben più profondo e incisivo di ogni altra ipotesi fondativa della socialità umana, e tale da non escludere distinte forme storiche di manifestazione. Tale potere inclusivo dello spirito religioso non aveva eguali rispetto ad altre forme spirituali, quali la filosofia o la politica, costruite in modo tale da definirsi in contrapposizione alle rispettive antitesi dialettiche. E proprio da questo assunto originario circa l’inclusività universale dello spirito religioso occorre partire per comprendere sia il programma etico di Schleiermacher, di assegnare il primato teoretico all’etica quale “scienza dei principi della storia”,915 che la riforma della dialettica hegeliana, che pone non più il Logos naturalistico antico ma il Geist al centro del movimento storico-ideale. L’intento etico di Schleiermacher, esplicitamente dichiarato sin dall’inizio della Glaubenslehre è di fondare la comunità ecclesiale sul principio della libertà, nella convinzione che la chiesa possa sorgere “solo dalle libere azioni umane, e solo attraverso queste può continuare a sussistere”.916 Le implicazioni strico-sociologiche di questo principio sono notevoli ed essenziali, in quanto il carattere volontaristico della costituzione politica era già acquisito dal contrattualismo razionalistico, ma solo come premessa formale della genesi del Potere come ordinamento giuridico costituito sul monopolio legittimo della violenza. in ambito ecclesiale, invece, la sua peculiare costituzione religiosa era all’insegna della conservazione della libertà come imprescindibile ed essenziale valore etico comunitario. L’etica presa in considerazione da Schleiermacher è a sua volta un concetto, ma non di una scienza astratta, poiché nessuna scienza infatti può raggiungere o produrre l’individuale attraverso il semplice pensiero, ma deve sempre arrestarsi a un momento generale. 914
Ivi, pag. 128. K. Barth, PTh, vol. II, pag. 21. 916 F. Schleiermacher, DF, vol. I, § 2, pag. 143. 915
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[Infatti,] come tutte le cosiddette costruzioni a priori sul piano storico hanno sempre fallito nel compito di dimostrare che quanto era stato dedotto in modo siffatto dall’alto si dovesse poi esibire altresì come realmente identico al dato storico, così pure in questo caso [– ossia la definizione scientifica di chiesa cristiana –] è innegabile un simile fallimento. […] Se ora tuttavia l’etica costruisce il concetto di chiesa, può altresì discriminare, all’altezza di ciò che forma la base di questa comunità, l’identico-a-sé-dovunque da ciò che si comporta come una grandezza variabile, [comprensiva cioè delle] formazioni individuali non appena vengano rinvenute storicamente.917
Il doppio registro, universale e singolare, proprio della dinamica storica della vita religiosa delle comunità cristiane, non essendo dunque garantito dalla ragione astratta e formale, i cui modelli ideali sono sempre empiricamente smentiti, deve fruire di una definizione etica di chiesa, che abbia per contenuto la libertà umana, e pertanto coincidente con la definizione stessa di libertà. La libertà in senso etico definisce la chiesa cristiana come comunità storica, la quale è perciò la realtà esistenziale della libertà umana come valore etico. Non è difficile comprende che la comunità di fede, ossia la realtà esistenziale della chiesa cristiana, è il corpo mistico di Cristo, secondo una prospettiva non istituzionalistica ma storico-esistenziale collettiva. Grande merito di Schleiermacher, riconosciuto da Barth quanto da Dilthey, fu per l’appunto di “collegare l’essenza del cristianesimo con il rapporto del cristiano con la persona di Cristo, nel quale venne realizzato l’ideale dell’umanità, e con l’esperienza che il cristiano fa del regno di Dio” 918. Nondimeno, a noi pare che la indicata preferenza che “delle due concezioni della teologia moderna”, Schleiermacher avrebbe dato al “cristianesimo come un rapporto storicamente determinato con la persona di Cristo”, anziché alla concezione del Cristo come “simbolo della verità eterna e dell’unità religiosa con Dio”,919 non vada enfatizzata, come abbiamo visto a proposito della questione del peccato, dove il rapporto storico della coscienza soggettiva con la infinita ed eterna “coscienza di Dio” stabiliva una dialettica spirituale di reale e ideale, di ispirazione 917
Ivi, pag. 144. W. Dilthey, PR, pag. 133. 919 [Ibidem. 918
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romantica, incentrata com’era sulla presenza divina nell’evento storico pensata in forma razionale, che Hegel cercherà appunto di trascrivere in termini logico-fenomenologici. L’errore razionalistico, che né Schleiermacher né Hegel seppero sciogliere, fu quello di identificare l’Infinito ricercato dalla religione e qualità propria dello Spirito, con l’ideale universalistico della scienza di origine naturalistica, suppostamente riposto nella Storia o nell’Umanità intesa come unità divina del mondo, immanentizzando pertanto quell’essenza trascendente dello Spirito divino che rendeva possibile il suo carattere religioso totale e insieme singolare, inibito a ogni settoriale prospettiva immanentistica fondata su un insuperabile criterio oppositivo e dualistico. Se è vero che “l’esperienza religiosa coglie una connessione che oltrepassa il nesso sensibile e intelligibile delle cose”, e che “il contenuto di questa esperienza è inaccessibile per l’intelligenza e non può essere rappresentato sotto forma di concetti”,920 è altresì vero quanto notato da Max Scheler circa l’impraticabilità di un pensiero precipuamente cristiano che fosse riuscito a emanciparsi dai debiti teoretici del sapere antico, che non era pervenuto alla visione trascendente l’ontologia naturalistica della sua metafisica del Logos, e perciò incapace di considerare la realtà del Nulla come l’orizzonte della stessa coscienza religiosa, che avvertiva l’angoscia della limitante finitezza dell’Essere quale spazio metafisico dell’unica realtà spirituale. Lo “sforzo apologetico di Schleiermacher”, quale “filosofo dell’identità di essere e sapere”, in ciò simile all’unità di ideale e reale di Schelling e alla sintesi di logica e filosofia della natura di Hegel, 921 fu quello infatti di mantenersi all’interno dell’ontologia tradizionale, “deciso a non interpretare a nessun costo il cristianesimo in modo che le sue proposizioni interpretate potessero entrare in contraddizione con i princìpi e i metodi della filosofia, della ricerca storica e naturale del suo tempo”, facendo sì che la sua stessa dogmatica apparisse “come una struttura di pensiero logicamente possibile”,922 secondando così la tradizione patristica intenta a rivolgersi a interlocutori esterni alla fede cristiana, adottando la loro 920
Così W. Dilthey, in PR, pag. 136. K. Barth, PTh, vol. II, pag. 25. 922 Ivi, pag. 22. 921
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lingua e struttura di pensiero. Sicché “il cristianesimo è interpretato in modo che in questa forma di interpretazione trovi spazio nel pensiero contemporaneo presupposto come normativo, senza scontarsi con qualche spigolo”, ossia un cristianesimo “privo di scandali” e di cui si può disporre per fini pratici 923. Ciò non vuole significare che Schleiermacher intendesse perseguire una teologia speculativa o ridurre la teologia a filosofia, ma la sua sintesi di sentimento religioso e di autocoscienza della dipendenza da Dio non sono peculiari al cristianesimo ma generalmente e tipologicamente alla “religione come necessaria manifestazione della vita spirituale umana”, oggetto di una “conoscenza speculativa a priori”.924 L’unità perseguita da Schleiermacher, che è “principio formale e materiale anche della sua dottrina filosofica”, è la Pace quale “essenza della religione”, in cui intuizione (azione recettiva) e sentimento (atto spontaneo di cosciente partecipazione all’Infinito da cui si dipende) si unificano nell’autocoscienza, quale centro mediano tra sapere e fare, consapevole sentimento di dipendenza assoluta che, in quanto “rappresentante soggettivo della verità”, definisce la sua “teologia del sentimento o dell’autocoscienza pia”.925 Porre il sentimento di dipendenza (Abhangigkeit) al centro della religione, equivale ad anteporre la fede, quale “stato d’animo cristianamente pio”, alla dottrina, i cui asserti sono solo “concettualizzazioni dei vissuti religiosi cristiani articolati nel discorso”. 926 All’origine di ogni affabulazione e dello stesso annuncio (kérigma) risiede dunque il sentimento pio, che la parola annuncia come verità provvisoria in forma filosofica, o in senso ultimo, escatologico, intellettualmente inesprimibile in forme oggettive e perciò propria del sentimento muto. 927 Ciò non soltanto relativizza la tradizione dogmatica in termini di mera “opinione ecclesiale”, omologa a ogni altra privata,928 ma concentra l’interesse 923
Ivi, pag. 24. Ivi, pag. 26. 925 Ivi, pag. 31. 926 F. Schleiermacher, DF, § 15, pagg. 240-241. 927 K. Barth, PTh, vol. II, pag. 32. 928 F. Schleiermacher, DF, § 19, spr. pagg. 260-261. Ved. K. Barth, PTh, vol. II, pag. 32. 924
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religioso nel fondamento di fede, in quel sentimento pietoso che conferisce alla verità religiosa un carattere propriamente singolare. Ma il concetto stesso di Dipendenza (Abhangigkeit) da Dio è tale da costituire un vincolo del tutto diverso da quello della dipendenza dal mondo, ossia dal Potere. La dipendenza, afferma Schleiermacher, è sentimento di “passività”, laddove la “spontaneità” è il “sentimento di libertà”. La passività consiste nell’azione altrui e nella consapevolezza che “non avremmo potuto diventare tali altrimenti che tramite un altro”, mentre la libertà consiste nella circostanza per cui “l’altro viene determinato da noi” in quel suo “preciso modo”.929 Senza l’azione riferita all’altro, non si ha propriamente né dipendenza e neppure libertà, mentre la presenza dell’altro nei due casi determina una “coscienza dell’azione reciproca del soggetto e dell’altro posto insieme al soggetto” che va a costituire una “totalità” in cui consiste la nostra “autocoscienza in generale” della nostra libertà e della nostra passività, legata al nostro “coesistere con il tutto” inteso come “mondo”, nel quale “la nostra autocoscienza, come coscienza del nostro essere nel mondo”, coesistono il sentimento della dipendenza con quello della libertà, che rende entrambi relativi, e tali che “uno dei due termini si può ridurre a una grandezza minima trascurabile, ma mai può scomparire del tutto uno dei due” 930 L’orizzonte dell’autocoscienza umana “racchiusa tra questi confini”, riflette una sfera esistenziale che esclude per costituzione ontologica dell’uomo sia l’assolutismo della libertà che quello della dipendenza, sicché ogni ipotesi ideologico-politica che li proponesse, sarebbe solo una “illusione”. 931 La doppia polarità, riflettendo la duplice fisionomia umana, legata sia alla che al divino, rende funzionali i due termini, dissolvendo la loro reciproca estraneità metafisica nella comune appartenenza all’uomo, che diventa così il simbolico di quella unità complessa adombrata dalla filosofia (synolon). Quale luogo della totalità vivente, l’uomo si costituisce come un evento storico-spirituale che ha in Cristo il suo modello, e non nella Natura. Questa infatti può sempre essere oggetto 929
F. Schleiermacher, DF, vol. I, § 4, pag. 157. Ivi, pag. 158. 931 Ivi, pag. 159. 930
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del pensiero e dell’azione umana, e pertanto ridimensionata nelle sue pretese di dipendenza, mentre Dio, col quale si stabilisce una relazione solo di sentimento, non può essere oggettivato, sicché “Dio è dato come causa solo nel sentimento di efficacia in noi, non altrimenti”. Se infatti Egli fosse “in qualche modo oggettivato,allora si darebbe anche un controefficacia da parte nostra nei suoi confronti, e dunque libertà e dunque non dipendenza assoluta”.932 La impossibilità di rappresentare Dio indica il Limite del potere umano di controllo sull’Essere, cioè sul mondo, e con esso “l’origine (Woher) del nostro esserci passivo e spontaneo”.933 Questa tesi onto-teo-logica si riverbera immediatamente sia in termini politici che in termini cristologici. Per il primo riguardo, si appalesa la impercorribilità di una ipotesi politicistica di assoluto controllo del destino umano con mezzi formali e giuridici, secondo la pretesa razionalistica antica e moderna; la seconda deduzione è che la stessa figura divino-umana di Cristo, offrendo la intuizione della realtà dello Spirito incarnato, smentisce la possibilità di una “religione in sé”, di carattere assolutamente “naturale”, per cui “quell’originario esser pio, che coincide con quella originaria rivelazione di Dio, è di volta in volta reale solo in modo determinato, concreto, temporale”, nel senso che “nel finito, in questa e quest’altra intuizione temporale, si rivela di volta in volta l’infinito”. La fattualità dell’evento cristico conferma che “non si dà alcuna rivelazione divina originaria senza espressioni temporali della rivelazione storica”.934 La positività della religione cristiana non va però interpretata nel senso che la sua “origine” sia “il mondo, nel senso della totalità dell’essere temporale, e tanto meno una singola parte qualsiasi di esso”. Né d’altronde che “questo stesso sentimento di dipendenza sarebbe condizionato da un qualsiasi sapere intorno a Dio che lo preceda”, 935 ossia da un apparato dogmatico e farisaico che offrisse l’interpretazione autentica del Verbo divino e si costituisse come monopolio esegetico delle sacre fonti, non avendo “immediatamente niente a che fare con la 932
K. Barth, PTh, vol. II, pag. 45. F. Schleiermacher, DF, vol. I, § 4, pag. 160. 934 K. Barth, PTh, vol. II, pag. 47. 935 F. Schleiermacher, DF, vol. I, § 4, pagg. 160 e 161. 933
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religiosità”, la cui rappresentazione come sentimento di dipendenza divina deve partire da questo “contenuto fondamentale dato”. 936 La fede, come dato di coscienza religioso, si collega dunque immediatamente con una esperienza vissuta (Erlebnis), che coincide con la stessa conoscenza di Cristo, con l’incontro con Lui, il Mediatore, che rappresenta perciò la cifra della trascendenza, poiché “tutto ciò che abbiamo nella vita superiore lo abbiamo da lui”.937 Storicità del cristianesimo, legata alla Rivelazione di Cristo nel tempo, e mondanità della Chiesa, legata alla particolare determinazione della verità eterna, sono i caratteri del suo anti-illuminismo. Confutata la pretesa idealistica del Dio dei filosofi, è difficile condividere la tesi di Barth, secondo il quale la rivelazione cristiana “si esaurirebbe nella sua individualità data con l’apparizione e la efficacia di Cristo” quale “origine storica”, senza che nel contempo “si dia un significato eterno di Cristo, una assolutezza dl cristianesimo”. 938 Infatti sono due aspetti diversi il “significato eterno di Cristo”, ribadito più volte da Schleiermacher, e “l’assolutezza” della trascrizione in termini oggettivati della esperienza storica del cristianesimo umanamente vissuto e recepito. Proprio il carattere storico della sua ricezione umana garantisce che la dipendenza da Dio resti assoluta, ossia a sua volta indipendente da ogni vincolo razionalistico e formale di mediazione istituzionale di una burocrazia dello spirito. Tale assolutezza va perciò intesa non in senso dottrinario, ossia dogmatico e legato a formule di sapere, ma in senso della sua trascendenza da ogni determinazione razionale. Infatti, il “dato” della fede, oggettivo per il pensiero e l’autocoscienza religiosa, è all’origine di ogni discorso sulla fede. Non è un prodotto razionale, ma un ragionamento intorno a un dato originario. Fides quaerens intellectum. Ed è la strumentalità della ratio a rendere impropria ogni pretesa assolutizzazione del discorso religioso. Tale assunto diventa particolarmente rilevante e pregno di conseguenze in ambito politico, dove la rimozione del dato di fede dall’ambito del discorso di senso comune tende a rendere cogente la dipendenza 936
Ivi, pag. 161. K. Barth, PTh, vol. II, pag. 49. 938 Ivi, pagg. 48-49. 937
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mondana, affrancata dalla sfera spirituale e consegnata alla sola “vita sensibile dell’uomo”, ossia alla simbiosi col mondo naturale, in cui regna Eros. Col termine “sensibile” Schleiermacher intende infatti “anche i sentimenti sociali e morali, non meno che quelli egoistici, avendo essi nell’insieme la loro collocazione nel campo dell’essere diviso e dell’opposizione”,939 quello proprio del polemos. In questo ambito pratico, o “campo dell’azione reciproca”, in gioco è la nostra singolarità di fronte ad un’altra singolarità, anche di carattere collettivo, come l’appartenenza nazionale. Occorre prescindere da questo stadio esistenziale singolare, eliminando “qualunque opposizione tra un singolo e un altro”, per raggiungere il livello di coscienza della nostra dipendenza assoluta. D’altro canto, il livello sensibile, diciamo polemico, è intermedio tra quello superiore, o del “sentimento di dipendenza assoluta”, e quello primitivo dell’ “autocoscienza confusa dell’animale”, privo di coscienza polemica.940 Ogni singolo sapere, fondato sulla relazione soggetto-oggetto, ha un carattere polemico, così come ogni autocoscienza che accompagni il relativo agire; “ne consegue che non c’è altra autocoscienza che si sollevi al di sopra di quell’opposizione, che anzi questo carattere è di spettanza esclusiva del sentimento di dipendenza assoluta”. 941 La coscienza suprema, “se non si vuole che l’Io venga scisso”, non è disgiungibile da quella polemica, ma “include in sé un rapportarsi reciproco dei due piani”, per cui “nel campo dell’opposizione” nessuno è completamente assorbito dal rapporto oppositivo, ma “ognuno è [anche] cosciente della propria dipendenza assoluta”. Raggiunto tale “punto di saturazione dell’autocoscienza”, la coscienza puramente sensibile “rappresenta uno stadio carente e imperfetto”. Ma sarebbe tale anche il livello di coscienza supremo se venisse a mancargli il “rapporto con la determinatezza dell’autocoscienza sensibile”.942 L’articolazione tra il livello di coscienza teoretico e quello esistenziale, consente quel riverbero non scorto da Barth tra le molteplici 939
F. Schleiermacher, DF, vol. I, § 5, pag. 164. Ibidem. 941 Ivi, pag. 166. 942 Ivi, pag. 167. 940
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manifestazioni della determinazione storico-empirica della fede, segnate dai diversi livelli di coscienza, e l’assolutezza trascendente, o trascendenza tout-court, della Verità (e coscienza) di Dio. Tale coscienza del trascendente stabilisce pertanto una gradualità ascensionale dal meno al più di autocoscienza (e di verità) che pone la dimensione religiosa al vertice della coscienza umana, anziché allo stadio elementare e infimo in cui l’aveva relegata da sempre il razionalismo, a partire dall’Eutifrone platonico, sicché “quanto più il soggetto, in ciascun momento dell’autocoscienza sensibile, pone se stesso, con la sua libertà parziale e insieme dipendenza parziale, in dipendenza assoluta, tanto più è religioso”.943 Spostata sul piano della coscienza, il fondamento di realtà è allocato in interiore homine e quindi emancipato da ogni esterna determinazione formale, realizzando perciò quella condizione di libertà che Schleiermacher aveva indicato come consustanziale allo stesso rapporto di religiosa convivenza sociale. Ora è chiaro che la libertà fondata sul dato di fede, è la libertà religiosa, senza la quale non è possibile determinare le condizioni di compatibilità da parte di quella sensibile. Se rispetto alla visione hegeliana della libertà moderna come un portato della fede cristiana riformata è possibile ravvisare una certa analogia, il rapporto dialettico tra i due livelli di coscienza in Schleiermacher è più orientato, rispetto a quello tipizzato servo / padrone, verso una compartecipazione interna alla stessa coscienza personale, tale da introiettare l’ordine funzionale all’equilibrio etico complessivo nell’ambito dell’economia spirituale, anziché istituzionale, e comunque tale che quest’ultimo non lo determini imperativamente dall’esterno, ma lo riconosca come elemento originario. Il rapporto tra autorità-dipendenza e libertà-spontaneità non ha una modalità normativa ma è di tipo empirico e legato alla reciproca “unità del momento”. 944 Questa unità, d’altro canto, non è un concetto superiore, un tertium quid, ma è il sentimento religioso di vita superiore che si rappresenta secondo determinazioni sensibili, la cui forma non va però confusa con la “pienezza del sentimento”, senza il quale “non sussiste alcuna sicurezza per la coscienza oggettiva e per
943 944
Ibidem. F. Schleiermacher, DF, vol. I, § 5, pag. 169.
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l’agire”, che, in mancanza, “si dovrebbero limitare totalmente al livello di vita inferiore”.945 In altri termini, se il fondamento di coscienza religioso non potrebbe manifestarsi storicamente senza una relazione con le forme inferiori di realtà sensibile, queste ultime, a loro volta, non potrebbero assurgere a un livello di coscienza e di vita superiore senza il riconoscimento quel fondamento di fede, con la conseguenza di un ristagno nella condizione di inferiorità spirituale e di permanenza nei modi di socialità sensistici. Se noi consideriamo la parabola spirituale della civiltà moderna, possiamo trascrivere in termini sociologici e culturali le manifestazioni di tale regressione come graduale processo di razionalizzazione strutturale delle forme di vita e corrispettiva perdita di significato pubblico dei risultati di autocoscienza religiosa. Il monopolio esegetico della Chiesa, trasferito nel dominio esclusivo della forza legittima dello Stato, esautora di ogni rilevanza sociale la superiore consapevolezza dei fondamenti di fede dello spazio politico, creando le premesse istituzionali dell’assolutizzazione della coscienza sensibile come l’unico ambito culturalmente riconosciuto dal Potere. Questa condizione ha inciso profondamente nella formazione delle classi dirigenti europee, le quali, a partire dalla Rivoluzione francese, interrompono una tradizione bimillenaria di educazione intellettuale.946 Ma questa stessa possibilità è inscritta implicitamente nel presupposto che “l’espressione del sentimento” si manifesti in un “dato esteriore percepibile da parte degli altri” sotto forma di gesto, di tono di 945
Ivi, pag. 173. O. Brunner, Adeliges Landleben und Europaeischer Geist (1949), tr. it., Bologna, 1972, pag. 129. In Inghilterra, in verità, la tradizione educativa classico-umanistica permane viva sino alla prima Guerra mondiale; ved. le “Note autobiografiche” (1941) di A.N. Whitehead contenute in Science and Philosophy (1947), tr. it., Milano, 1966, pagg. 14 sgg. e 38-48. Vi si afferma che “il modo in cui Cambridge educava i suoi figli era una riproduzione del metodo platonico”, che costituiva la “formazione prevista per i professionisti inglesi. Il prevalere di questa classe sociale, capace di influenzare gli aristocratici, che le sono socialmente superiori, e di guidare le masse, che le sono inferiori, è uno dei motivi per cui l’Inghilterra del XIX secolo ha messo in mostra i suoi errori e i suoi successi”: Ivi, pagg. 16 e 17. E ancora: “Per noi andavano bene i termini in cui avevano pensato i greci e i romani: ciò che non era stato detto in greco sulla filosofia non era stato detto affatto. I greci regnavano senza rivali nei nostri animi”: Ivi, pag. 44. 946
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voce o di parola, attraverso i quali noi riveliamo il nostro “vissuto interiore”, che viene interpretato conformemente alla coscienza interna a “una multiforme comunità di sentimento”, in cui il “soggetto che si esprime” e “il soggetto percipiente” si trovano “come in uno stato conforme alla natura”. 947 Il limite di questa considerazione risiede non tanto, come si esprime Barth, nella premessa che “la parola non sia garantita nella sua autonomia rispetto alla fede”,948 in quanto, come abbiamo chiarito supra, Schleiermacher ha cercato di mantenere la distinzione del piano della verità a quello delle possibili espressioni storiche, ma nell’esaustività della fede stessa nella semiotica della manifestazione, ossia nella attualità della sua rappresentazione fenomenica, e quindi nel suo carattere liturgico, senza nulla lasciare alla intenzionalità repressa e non manifesta, che si differenzia dal piano di realtà della effettiva volizione. La identificazione del piano espressivo con la totalità dell’essere storico, vanifica quella conquista di interiorità della Verità che costituisce per il cristianesimo un avanzamento rispetto al piano di coscienza sensibile della filosofia greca. Questo impone al teologo tedesco di consegnare lo stesso sentimento di dipendenza divina alla “forza comunicante e sollecitante dell’espressione”, che lascia adito alla critica di Barth, per la quale “Schleiermacher non ritiene un rapporto privo di opposizioni, assoluto con Dio, in senso positivo o negativo, come una possibilità con la quale si debba fare seriamente i conti”. 949 La gradazione di intensità della coscienza individuale, in senso religioso o sensibile, destina al dato empirico “l’elemento mutevole della comunità”, senza che l’autenticità dell’uno o l’inautenticità dell’altro possano trovare, al di fuori della coscienza corrispettiva, alcun riferimento assoluto, 950 ma, sulla falsariga della costituzione politica aristotelica, soltanto uno relativo alla discriminante appartenenza ecclesiale,951 tanto che la chiesa viene ad assumere un significato storico di fede collettiva. Non è un caso pertanto 947
F. Schleiermacher, DF, vol. I, § 6, pagg. 174-175. K. Barth, PTh, vol. II, pag. 50. 949 Ivi, pag. 51. 950 F. Schleiermacher, DF, vol. I, § 6, pag. 176. 951 Ved. Ivi, pag. 177. 948
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che l’ammissione di un residuo di vissuto di fede personale “non riconosciuto come omogeneo nella comunità”, sia relegato nell’ambito della “religiosità soggettiva”, diverso da quello comune della “religiosità oggettiva”,952 secondo una distinzione che verrà ripresa da Hegel, ma che qui, nonostante le cautele semantiche,953 inevitabilmente sposta il piano di coscienza dal livello del sentimento a quello istituzionale. 3. A discapito di quanto previsto dalla conversione (metanoia), il passaggio dal livello di coscienza sensibile al livello superiore è storicamente avvenuto attraverso un progresso che ha mantenuto la verità del livello inferiore, all’interno di un “contesto di continuità” delineato “attraverso una serie evolutiva dallo stadio imperfetto a quello più perfetto”, che però non si è manifestato in riguardo al corrispondente livello religioso, dove invece era attendibile, posto che “se le religioni che si collocano ai livelli inferiori contenessero errori palesi” non potrebbero “trapassare nel cristianesimo, dato che solo sul vero, e non sul falso, può essere fondato lo spazio di recettività per la superiore verità del cristianesimo”.954 Ma che cosa poteva essere mantenuto della cultura pagana, i cui filosofi, “pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato come Dio, né lo hanno ringraziato, ma si sono dati a vani ragionamenti”? (Rom 1, 21). Il “livello più alto” di religiosità è occupato, sostiene Schleiermacher, da “quelle formazioni nelle quali tutti i vissuti religiosi esprimono la dipendenza di tutto il finito da un Essere supremo e infinito, ossia quelle monoteistiche”, sicché dai livelli più bassi, costituiti dal “feticismo” e dalla “idolatria”, “l’uomo è destinato a trapassare a quelli più elevati”. 955 La differenza tra la monolatria idolatrica e il monoteismo risiede nel fatto che la prima “attribuisce all’idolo solo un influsso su un’area limitata di oggetti o di mutamenti, oltre la quale non si estende il suo proprio interesse e la propria simpatia”, legato alla circostanza che “in questo stadio […] ancora non si è sviluppato il senso per una totalità”. Il 952
Ivi, pag. 178. Ved. Ivi, pag. 179. 954 F. Schleiermacher, DF, vol. I, § 8, pagg. 181 e 183. 955 Ivi, pag. 183.] 953
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politeismo sorse dall’unificazione dei diversi culti idolatrici particolari, definendosi come tale solo allorquando “i rapporti locali scompaiono del tutto, e gli dèi, configurati spiritualmente, formano una pluralità articolata e organica, la quale, anche se non è ancora indicata come una totalità, è tuttavia presupposta e intesa in quanto tale”.956 Da queste lucide e sintetiche frasi emerge inequivocabilmente sia il senso della progressione della coscienza religiosa che il contenuto culturale che nel processo evolutivo ha costituito il “contesto di continuità”. Il progresso religioso è visto infatti come il passaggio dalla determinazione molteplice degli enti religiosi, gli idoli, all’unità totale dell’unico Dio; mentre la conquista della coscienza della totalità costituisce il contenuto teoretico del processo progressivo del sapere religioso. Come ricorda Hoffmann, i massimi pensatori cristiani del Medioevo hanno tutti operato dal punto di vista della fede e servendosi dei mezzi offerti dall’antica filosofia; hanno congiunto sapere antico e fede su fondamenti storici positivi, ritenendoli anzi divinamente permessi; vi hanno scorto la missione imposta al cristiano di accertare personalmente la verità e di far proseliti presso i non cristiani; vi hanno trovato infine lo scopo della cristianizzazione, dell’incivilimento e della pacificazione dell’umanità. Di massima, anche prima della fioritura dell’alto Medioevo, da Agostino in poi, la maggior parte dei pensatori cristiani ha visto la questione proprio in questi termini. Vere e proprie antitesi all’antica filosofia erano rare come tali; costituivano norma invece i tentativi di accogliere l’antico patrimonio di pensiero, di convertirlo al nuovo spirito e di raggiungere in ogni caso una nuova sintesi. E’ possibile dunque dire che la storia della filosofia cristiana , dai suoi inizi, coi Padri della Chiesa, fino all’Umanesimo del quindicesimo secolo, fu sempre in pari tempo una sorta di renasci: una rinascita di antica saggezza in un animus non più antico.957
Ciò vuol dire che il pensiero cristiano si costituì in continuità metafisica col pensiero greco nella ricerca di quella “totalità” da cui dipendeva il senso, cioè il valore significativo (gnosi) e il fine tendenziale (tèlos), 956
Ivi, pag. 184.] E. Hoffmann, Platonismus und christliche Philosophie (1960), tr. it., Bologna, 1967, pag. 137. 957
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dell’esistenza cosmica e umana, sicché fu la nuova spiritualità religiosa che si inscrisse nell’orizzonte di senso pagano, e non viceversa, come pure hanno creduto si compisse teologicamente gli autori cristiani. Un orizzonte di senso razionalistico, la cui verità comune era appunto costitutivo dello “spazio di recettività”, all’interno del quale sarebbe stato possibile accogliere la “superiore verità del Cristianesimo”, che rappresentò pertanto l’inveramento, in termini teologico-politici, della filosofia greca, la quale così, dopo l’inglobamento delle antiche poleis nell’Impero romano e la perdita delle loro tradizionali libertà, “visse la sua prima rinascita nella forma in cui i padri e gli apologeti trasposero, per gli scopi del Cristianesimo, lo scibile greco”. 958 Il terreno privilegiato sul quale consumare la tradizione dall’antico al nuovo spirito culturale fu la retorica e la filosofia, le quali discipline, dopo essersi contese il primato culturale e pedagogico a partire dal IV sec. a. C., entrarono in servizio del Cristianesimo, 959 che divenne religione ufficiale dell’Impero sotto Teodosio, ossia alla fine del IV sec. dopo Cristo. Soprattutto dopo la ricaduta paganeggiante di Giuliano l’Apostata, appena una generazione dopo l’Editto di Costantino, fu chiaro che la questione cristiana non era inerente al solo campo religioso e di una fede positiva, ma a quello della complessiva cultura e formazione intellettuale della classe dirigente di Roma. 960 La strategia adottata dai pensatori cristiani più consapevoli non fu di rigettare in toto la cultura ellenistica, comprensiva di culti e dottrine incompatibili con la Rivelazione cristiana, ma di distinguere ciò che dell’ellenismo “era morto” e non più richiamabile in vita, da ciò che invece “costituiva l’energia duratura e vitale di cui il cristianesimo stesso doveva appropriarsi”, nella consapevolezza che “se il cristianesimo si rivelava incapace di conquistare la supremazia culturale, anche la sua vittoria sul piano politico, che a lungo andare appariva sicura, sarebbe stata vana”. 961 ciò implicava la definizione di una novella paideia di segno cristiano, 958
E. Hoffmann, Op. cit., pag. 138. Ved. W. Jaeger, Early Christianity and Greek Paideia (1960), tr. it., Milano, 2013, pag. 123. 960 Ivi, pag. 113. 961 Ivi, pag. 115. 959
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finalizzata al disegno, coltivato dai Padri cappadoci Basilio e i due Gregori, di una “civiltà cristiana totale”, basata su una teologia intesa “come una grande scienza fondata su un’altissima filologia e su un’indagine filosofica”; scienza nuova ma che era “parte della civiltà che era la loro e nella quale si sentivano di casa”.962 Ciò che per i Greci, almeno fino al Socrate platonico, era stata parte integrante della loro identità spirituale, ossia la mitologia e la cosmologia religiosa, fu dai cristiani del IV sec., anticipati in ciò da Origene, distinta da una “netta linea di demarcazione fra religione greca e cultura greca”, che consentì al connubio di religiosità cristiana e cultura greca che diede vita a “una specie di neoclassicismo cristiano, che fu più di un fatto puramente formale [in quanto] per opera sua il cristianesimo si erge ora come l’erede di tutto quanto nella tradizione greca sembrava degno di sopravvivere”.963 Il modello educativo dell’ “ideale greco della paideia”, a partire da Origene, “adempì la funzione di cornice ideologica per lo sviluppo sistematico di una teologia cristiana, nella quale la congiunzione di religione cristiana e di pensiero filosofico greco toccava il punto più alto”964 e del quale “l’elemento ellenistico costituisce il sostrato culturale” di una stessa “architettura logica”.965 La religione del sentimento, della fides nell’agape e della charitas, quale fu predicata da Gesù di Nazareth e dai suoi apostoli diretti e dai primi tre Evangeli, era però quanto di più lontano dalla tradizione metafisica greca; anzi, “non ebbe nulla a che fare colla filosofia”, essendo “il carattere religioso della nuova credenza, che non vuol essere altro che pura religione dell’intenzione, lontana da ogni fede legalitaria e formalismi culturali”, nascondendosi nella sua “semplicità […] il segreto di una fede che per la prima volta vuole proclamare una religione che è solo religione, nient’altro, non riflessione, non etica, non sistema, non culto, ma pura e semplice religione […] indipendente da ogni altro complesso di
962
Ivi, pag. 117. Ivi, pag. 119. 964 Ivi, pag. 131. 965 Ivi, pag. 135. Sull’ambiente filosofico del sec. II, ved. J. Daniélou, Origène (1948), tr. it., Roma, 1991, pagg. 101-129. 963
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valori”.966 Invece, “la speculazione cristiana, in tutte le epoche della tarda antichità e del Medioevo, è stata sempre, e contemporaneamente, una forma di recezione della filosofia greco-romana”, la cui recezione “trovava già il suo fondamento nel fatto che la fede cristiana, in Paolo e Giovanni, fosse accolta e interpretata da una coscienza istruita alla greca”.967 Il “fondo di vero” che costituisce lo “spazio della recettività” del pensiero greco nella religione cristiana consiste nel comune razionalismo, attraverso il quale la fede in Cristo fu “compresa” nel suo “significato”, tradotta cioè in concetti razionali, fruibili erga omnes, a prescindere cioè dal loro fondamento di fede. Questa esigenza di razionalità, ossia di obiettività, motivata dalla locuzione per cui la fides quaerens intellectum, in realtà nasceva da quella istanza totalitaria che di necessità implicava il coinvolgimento delle strutture giuridicoistituzionali dell’Impero e con esse dell’adozione, sia pure finalizzata ad fidem, della logica politica che vi sottostava. E poiché la riflessione eticofilosofica greca si era posta il problema della valenza universale dei concetti, era spontaneo riferirsi tecnicamente a quella tradizione per rappresentare in chiave ecumenica e cattolica il messaggio della fede. La nuova cristiana partiva dall’assunto che “vera filosofia” non fosse un generico insegnamento proposto da una “setta, ma una sapienza rettamente pratica, che procuri l’esperienza della vita”. 968 Clemente condivideva la critica platonica alla sofistica e alla mutevolezza del ragionamento, ma l’estendeva a tutto il pensiero filosofico tradizionale, “utile solo nel tempo” ma non fondato sulla verità eterna insegnata da Dio e “conosciuta attraverso il Figlio”. Da qui la differenza tra filosofia pagana e “sapienza” cristiana, definita come “una solida conoscenza delle cose divine e umane, una comprensione sicura e non mutabile, che abbraccia presente, passato e futuro”. 969 La differenza sostanziale tra le due gnosi è che quella del Figlio di Dio interessa “la sapienza artefice di tutte le cose”, laddove la gnosi greca è di coloro che 966
E. Hoffmann, Op. cit., pagg. 138-139. Ivi, pag. 145. 968 Clemente Alessandrino, Stromati. Note di vera filosofia, VI/7, 54. 1; tr. it. a cura di G. Pini, Milano, 1985, pag. 695. 969 Ibidem. 967
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“si occupano delle discussioni sulla virtù” e “soggiaciono soltanto alle passioni che sono in funzione del mantenimento del corpo”. I filosofi pagani “s’illudono di raggiungere la verità in modo completo”, ma in realtà “la raggiungono solo parzialmente” (), poiché “non sanno nulla che sia oltre questo mondo”.970 Perciò Paolo, come ricorda Clemente, pur non accusando la filosofia, rimprovera i Galati di voler tornare alle “questioni elementari del mondo” () trattati dalla filosofia greca, che è solo “propedeutica della verità”.971 stazionare nell’infanzia del pensiero sarebbe far proprio un pensiero anacronistico e incompleto, essendo “l’errore dei filosofi [quello] di credere di possedere la totalità, mentre essi non hanno che la parte”. 972 Ciò che mancava ai sapienti greci perché fosse totale la loro gnosi era dunque la conoscenza della realtà trascendente la sfera mondana, oggetto della scienza naturale, il cui carattere fondamentale, come spiegava Eraclito, è il Divenire, il quale “è come la lotta perpetua di due partiti nessuno dei quali vince definitivamente: il dominio sta in potere della legge del mondo e in potere del logos, che provvede a che il grande gioco del tutto rimanga tale e quale: tesi e antitesi debbono cozzare l’una contro l’altra. Il bilancio dà risultato nullo”.973 Ciò che la filo-sofia greca non era in grado di conseguire, non avendo ricevuto la grazia della Rivelazione, fu possibile alla sapienza cristiana, i cui interpreti erano tutti mossi dal convincimento che “la ricerca della verità esercitata dai Greci fosse stata portata a compimento nel Cristianesimo”.974 Il “risultato nullo” è l’intrascendibilità della “realtà” nel senso di Barth, ossia della realtà mondana della physis, che era l’ambito della riflessine del razionalismo greco. Un sapere che non sa “nulla che sia oltre questo mondo” finito, come può conseguire la vera universalità, ossia la totalità? Il filosofo pagano era “conoscitore della verità: anche se non in modo da comprenderla appieno, per lo meno non ne era ignaro. Dunque non è falsa la filosofia”, conclude Clemente. 970
Ivi, VI/7, 55. 2 – 56. 1, pag. 696; VI/9, 71. 1, pag. 706. Ivi, VI/8, 62. 1-2, pag. 700. 972 J. Daniélou, Message évangelique et Culture hellénistique aux II e et IIIe siécle, (1961), tr. it., Bologna, 1975, pagg. 84-85. Da ora MetC. 973 E. Hoffmann, Op. cit., pag. 148. 974 Ivi, pag. 146. 971
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Essa infatti “è stata data ai Greci come un testamento loro proprio, che servisse di base alla filosofia cristiana”.975 Viene dunque delineata già nel IV sec. quel “contesto di continuità” di cui parlava Schleiermacher, incentrato sulla conoscenza per mezzo della ragione sia della “sapienza di questo mondo” (1 Cor 2, 6), ossia alla “gnosi”, quale “principio creatore di ogni azione razionale” e perciò “moto che si attua sulle cose che sono”, da cui discende la relativa “visione dell’anima relativa alle cose che sono”; e sia relativa alle “cose che paiono incomprensibili agli altri [ma non] al Figlio di Dio”, il Quale, “avendo subito la passione per amore verso di noi non può aver nascosto nulla che giovi all’insegnamento della gnosi. Questa fede diventa quindi una dimostrazione sicura, perché alle cose tramandate da Dio è congiunta la verità”.976 Lo scopo della vera gnosi, perseguita come un “viaggio verso il Signore”, è di congiungere il nostro al Suo amore, al fine di addivenire a una “completa reintegrazione ()”.977 Dunque, la gnosi totale e completa avviene in Dio, cioè al di là del mondo, ma non attraverso la sola ragione umana, alla maniera dei Farisei, ma attraverso la fede, ossia l’imitazione di Cristo, “per quanto è dato ad un uomo”. 978 L’immagine umana di Dio infatti, non riguarda “la forma della sua struttura”, ma lo spirito come Logos; e pertanto, “se Dio crea tutto con Logos, l’uomo che diventa gnostico compie il bene con quello che ha in lui la caratteristica del Logos”. 979 E mentre “la dottrina dei Greci è elementare”, in quanto circoscritta alla sola immagine del mondo, “perfetta [è] invece quella secondo Cristo”. 980 Ecco dunque delineato “l’innesto”, presagito dalla metafora di Rm 11, 17-24. Ma qual è la “radice” della conoscenza? Se il percorso ad Deum è progressivo, dalla gnosi elementare a quella totale, il viatico razionale è la bussola. “L’innesto di cui parla l’apostolo”, asserisce Clemente, si fa “sull’ulivo buono, cioè sul Cristo stesso: la natura selvaggia e incredula è 975
Clemente Alessandrino, Stromati, cit., VI/8, 66. 4-67.1, pag. 703. Ivi, VI/8, 69. 2-3 - 70. 1-3, pag. 705. 977 Ivi, VI/9, 75. 2, pag. 709. 978 Ivi, VI/17, 150. 3, pag. 764. 979 Ivi, VI/16, 136. 1-3, pag. 753. 980 Ivi, VI/15, 117. 1, pag. 740. 976
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trapiantata in Cristo, cioè nella natura di quelli che in Cristo credono”. 981 Ciò porterebbe a credere che la pianta selvatica, cioè la gnosi pagana, viene bonificata dalla vera gnosi, testimoniata da Cristo. ma se entrambe le gnosi hanno qualcosa in comune nel Logos, in cosa consisterebbe la bontà della gnosi cristiana se non nella sua origine divina, ossia nella fede stessa in Cristo, quale vero Logos? Ciò vuol dire che la gnosi meramente razionale, che abbia ad oggetto la realtà del mondo, è imperfetta e propedeutica alla Verità, ma non è vera. Essa, nondimeno, non è neppure falsa, in quanto pur sempre Logos divino, ma “parziale” () ed “elementare”() rispetto alla “scienza perfetta” ( ), rivelata da Cristo. In questo senso quella dei Greci è “la sapienza di questo mondo” di cui parla l’apostolo [1 Cor 2, 6]: voluttuaria ed egoistica sapienza, che insegna solo ciò che è di questo mondo e riguarda questo mondo, e deferita, coerentemente,alle gerarchie di coloro che qui dominano. Perciò questa filosofia parziale è filosofia di elementi primi, mentre la scienza veramente perfetta va oltre il mondo ed è versata nelle realtà intelligibili e ancor più spirituali di queste: quelle che “né occhio vide mai né orecchio udì, né entrò in cuore d’uomo”, finché non ce ne illuminò la ragione il Maestro. 982
Qual è il vizio teoretico di tale sapere mondano? Esso è viziato dal suo stesso oggetto, circoscritto all’orizzonte della finitezza mondana, e dunque dall’assenza delle fonti prime della verità, riposte nella Rivelazione divina, alle quali tale sapere imperfetto ha sostituito la sola “intelligenza umana”. Ed è proprio tale sospensione della conoscenza al suo strumento razionale, cioè appunto all’intelligenza, a dare alla gnosi filosofica il suo “carattere congetturale”, privo della “certezza della fede”.983 Un sapere senza fondamenti, orbato delle sue radici meta-fisiche, conosce la realtà del mondo finito ma gli è preclusa la dimensione infinta dello spirito, che è parte consustanziale e precipua dell’uomo. Inutile aggiungere che tale carattere è proprio della scienza, formata appunto sullo studio dei fenomeni empirici e tesa a individuarne i nessi costanti o 981
Ivi, VI/15, 120. 1, pag. 742. Ivi, VI/8, 68. 1, pag. 704. 983 J. Daniélou, MetC, pag. 86. 982
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leggi naturali. L’idea che “il pensiero, come la ragione, è universale perché leggi universali governano la sua attività”, 984 è propriamente greco-cristiano e occidentale, e deriva dalla osservazione naturalistica, per la quale esiste una corrispondenza psicologica e teoretica tra struttura biologica e mentale. Che tutti gli esseri umani abbiano la stessa forma fisica e anatomica non inferisce che ogni uomo abbia la stessa struttura mentale essenziale, altrimenti non si esprimerebbe culturalmente in distinte forme simboliche, la cui funzione istituzionale è il corrispettivo della mediazione religiosa necessaria alla relazione tra dimensione della finitezza della vita biologica e destinazione soteriologica della vita spirituale. L’unidimensionamento dell’esistenza umana alla realtà finita, corrisponde alla rappresentazione del mondo determinato dalla logica dell’identità, che riporta alla de-finizione del positivo la totalità dell’essenza ontica. Ciò che era il concetto universale, l’idea di Essere, per la filosofia teoretica greca, era l’imperium per i diritto romano, inteso come autorità potestativa valevole erga omnes e finalizzata alla riduzione in obbedienza di tutti i comportamenti all’unico modello di prassi ritenuto legittimo, ossia razionalmente valido. All’autorità del Logos faceva riscontro l’autorità legale, ma entrambi tendevano alla reductio ad unum del molteplice, ossia alla totalità ed assolutezza del positum. 985 Ma proprio in quanto “scienza dell’essere”, e cioè dell’ “universale”, 986 la filosofia importa una pretesa di assolutezza che sin dalla sua costituzione scientifica ha conteso alla religione la sua funzione mediatrice con l’eterno. Ma la sua destinazione politica ha costantemente 984
M.F. Sciacca, Filosofia e Metafisica (1949), Milano, 19623, vol. I, pag. 28. Da ora FeM. 985 Secondo Aristotile, “tutte le cose la cui essenza si coglie con un atto dell’intelletto indivisibile e non separabile né in ordine al tempo, né in ordine al luogo, né in ordine alla nozione, queste sono una unità per eccellenza, e, fra queste, soprattutto le sostanze. In generale, tutto ciò che è indivisibile, e appunto in quanto indivisibile, vien detto unità. […] L’essenza del’uno consiste nell’essere un principio numerico: infatti la misura prima è un principio. In effetti,ciò che è principio della nostra conoscenza per ciascun genere di cose, è misura prima di questo genere di cose. Dunque, l’uno è il principio del conoscibile, per ciascun genere di cose”: Met., b 1-22; ed. it. a cura di G. Reale, Milano, 2014, pag. 209. 986 “Ab antiquo la filosofia è definita scienza dell’essere, dell’universale”: M.F. Sciacca, FeM, pag. 33.
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tradotto la sua opera razionalizzatrice in istanza d’ordine sociale, riducendone la pretesa di “verità” a mera “opinione”, 987 sicché l’universalismo teoretico-concettuale è in realtà una posizione ideologica che funge da criterio di legittimazione veritativa dei sistemi logicoformali sui quali è fondata la scienza del potere, la politica, la cui ragionevolezza funzionale elimina dal suo orizzonte normativo ogni apporto moralmente delimitante, ritenuto allotrio, assorbendo, in virtù del suo assolutismo, nella prassi amministrativa del contingente la funzione eticamente correttiva dell’autorità governamentale di origine trascendente. La rimozione della sfera trascendente costituisce come limite del pensiero l’azione, sicché ciò che limita il Potere, cioè la legittimità morale, diventa la sua giustificazione.988 La posizione assoluta del Potere, sposta il suo limite alla sua concreta possibilità di esercizio, cioè all’economia della forza, la quale non può che essere di natura sociale, e non politica, poiché l’esercizio è condizionato dall’ubbidienza dei destinatari, ossia dal loro consenso. In questo consiste la “metabasi” di cui parlava la Arendt a proposito della conversione della “verità” filosofica in “opinione” politica. Se è vero, come sostiene Duso, che il potere politico (Herrschaft) quale “rapporto sociale garantito dalla forza legittima”, è “l’aspetto [formale] per cui il politico si identifica con lo statuale e con il suo nucleo centrale, cioè il Potere inteso come sovranità”, 989 è altresì vero che la sua espressione reale è la potenza (Macht), che pone la volontà come elemento essenziale della sua manifestazione, tale che la sua essenza si identifica con la sua dimensione volitiva, che ne diviene la caratteristica razionale, che lo distingue dal Potere tradizionale e carismatico, che hanno vincoli non-formali e trascendenti, legati a una concezione di relazione sociale fondata sulla fedeltà personale al dominus e non su norme imperative di carattere legale. La fedeltà personale (riverenza), diversamente dall’obbligo impersonale istituzionale, è dovuta non in relazione a un calcolo razionale di utilità economica o di 987
Ved. H. Arendt, Truth and Poitics (1967), tr. it., Torino, 1995, pag. 43. “I principi di legittimità sono giustificazioni del potere, cioè del diritto di comandare”: G. Ferrero, Potere. I Geni invisibili della città, Lungro di Cosenza, 2005, pag. 23. 989 G. Duso, La logica del potere, Milano, 2007, pag. 62. 988
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soggezione politica, ma a seguito di un comune vincolo morale di convivenza, conseguente a una comune educazione e visione del mondo. 990 Tale vincolo, non derivato dal Potere, costituisce l’ordine sociale come una realtà originaria, e dunque naturale rispetto all’ordine civile stabilito dalla politica. Ciò significa che la positività assoluta del Potere, fondativo dell’ordine civile, è fondato sulla premessa razionale che quanto fuoriesca dalla sua totalità immanente sia dis-ordine, ovvero una originarietà negativa dalla quale l’ordine emergerebbe, e che corrisponde alla negazione ontologica che il Logos filosofico ha perpetrato in riferimento al Mythos arcaico. La condizione naturale della società pre-politica sarebbe, nella prospettiva razionalistica moderna, una condizione ferina e pre-razionale. La volontà politica, portando in essere ciò che non-è esistente, non porta alla luce ciò che è nascosto, ma il factum formale che è oggetto di pensiero, cioè il volutum della rappresentazione razionale. La volizione politica, cioè la volontà del Potere, si costituisce come un desideratum, confliggente verso ogni altra molteplice rappresentazione, per cui l’unità razionalmente da esso conseguita non “contiene” la molteplicità ma la “con-prende”, nel senso etimologico di limitarne lo sviluppo spontaneo, cosicché l’istanza d’ordine del Potere si giustifica con la negazione ed esclusione del Molteplice. In tal senso, lo Stato razionale pensato da Hobbes non si costituisce sul governo del dis-ordine sociale ma sulla sua negazione, ossia sul conflitto contro l’Altro, identificato con l’eversore, il nemico schmittiano. La pretesa identità di sovranità e Potere si può realizzare razionalmente soltanto annullando la molteplicità naturale della società nell’unità politica esclusiva e totalizzante. Questa consapevolezza spinse Platone a fondare un ordine ideale stabilito sulla ragione, e non sulla politica, cioè sull’unità essenziale e non sul conflitto. E ciò importava appunto la negazione radicale della società, che è l’origine della politica. L’oggettivazione dell’Idea unitaria come Stato è possibile solo attraverso l’eliminazione del conflitto politico, ossia della stessa ragion d’essere dell’ordine statuale. La realtà dello Stato è dunque la sua auto-negazione. Realizzando la sua Idea, lo Stato razionale nega la sua stessa ragion d’essere, il conflitto sociale, la politica, poiché il principio della rappresentanza della sovranità 990
M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft (1922), tr. it. Milano 1968, vol. I, pag. 221.
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che lo sorregge, volendo “rendere presente ciò che per sua natura è assente”, potrebbe rappresentare tautologicamente solo se stesso, poiché l’ “assente” formalmente rappresentato, cioè il popolo sovrano, è logicamente il niente della polarità dialettica, ed esistenzialmente è inesistente in quanto astratta unità ideale. La prospettiva correttiva di questa contraddittoria posizione razionalistica non può vertere su questioni di ingegneria costituzionale, ossia su una prospettiva di mere riforme istituzionali, ma deve investire il senso della prassi politica, non più determinata dallo scontro oppositivo, tendente, nell’orizzonte esclusivo della ragione, a negare l’Altro come “nemico”, ma sulla relazione tra le parti, secondo il loro ruolo sociale legato all’ordine naturale (Rep., 369b) conseguente al consensus morale comunitario. Il fondamento (archein) comunitario dell’ordine sociale non è etico-politico, incentrato su un’idea di Stato razionale, ma mitico-religioso, incentrato sul sentimento morale del Bene, unitivo la communitas in senso spirituale. Da qui l’importanza della “cura di sé” (epimeleia heatou), oggetto di vasta attenzione da parte di Foucault, 991 quale formazione morale predisposta al passaggio dalla dimensione privata dell’oikos, incentrata sul valore economico della convivenza, a quella pubblica del governo, incentrata sulla libertà comune o politeia. 992 Il Governo implica il problema del Bene e quindi del Giusto nell’agire umano, ossia del fare ciò che è proprio () che perciò non è garantito da conoscenze scientifiche o da norme da applicare al caso particolare, riferibili cioè a una razionalità formale, ma dalla phronesis del caso concreto, poiché “è solo nella situazione concreta che l’atto noetico e la virtù indicano la direzione da percorrere. La funzione di guida e di governo, che si pone in questo contesto, non equivale né ad una espressione di volontà e di comando, né ad una subordinazione dei governati alla volontà dei governanti. È infatti agire politico tanto il governare, quanto l’essere governati”,993 per cui la ratio del Governo è 991
Ved. l’articolato commento di M. Foucault all’Alcibiade platonico in L’herméneutique du sujet (1981-82), tr. it., Milano, 2003. 992 Ved. G. Duso, Ripensare la rappresentanza alla luce della teologia politica, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 41 (2012), Milano, 2012, pag. 36. 993 G. Duso, La logica del potere, cit., pagg. 89-90.
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relazionale e presuppone la compartecipazione (koinonìa) degli attori sociali, ossia il consensus morale in cui si fonda ogni rapporto fiduciario stabilito dai rispettivi ruoli esistenziali. In tale ambito governamentale la relazione governanti / governati è stabilito nei termini della differenza di status auctoritatis interno al comune orizzonte consensuale, nel senso non più della alterità aristotelica tra affari privati o dell’oikos e affari pubblici o del Governo politico, poiché la dicotomia rischierebbe di tenere irrelati i “due lati, della contingenza e concretezza della situazione e dell’orizzonte di pensabilità della prassi”, i quali invece “devono stare necessariamente insieme” se non si vuole fare del Governo “un paradigma” razionale simmetrico a quello di Potere sovrano. 994 La pensabilità della funzione del Governo deve dunque assestarsi su un piano non formale e dunque esistenziale della politica, in cui la relazione tra privato e pubblico si stabilisca su una polarità non dialettizzabile in quanto interna alla stessa forma statuale, ma afferente a piani ontologicamente differenti, assegnando a quello del Potere gli affari economici dello Stato, liberando la techne politiké strumentale agli interessi particolari da ogni tradizionale ipoteca privatistica, facendo ricadere anch’essi nella sfera pubblica, e a quello del Governo gli affari inerenti alla funzione katechontica, inerenti ai limiti del Potere e dunque della stessa politica in relazione ai fini soteriologici e trascendenti della Giustizia. La questione del Governo non si risolve dunque pensando solo a un criterio di partecipazione politica diverso da quello moderno fondato sulla sovranità, poiché la “funzione unitaria di guida e di decisione” 995 potrebbe anche non implicare necessariamente la “partecipazione” democratica e costituirsi invece proprio sulla sua esclusione di principio. Infatti, il senso politico della communitas non risiede nella funzione pubblica dei suoi membri, ma nella rilevanza pubblica dei suoi atti esistenziali. Caso tipico è il ruolo educativo delle istituzioni scolastiche, che sono i luoghi più strutturalmente predisposti alla formazione culturale e civica dei cittadini. Se il lungo periodo di permanenza scolastica dei giovani non è funzionale né alla formazione intellettuale in senso predisposto dallo Stato etico, e 994 995
G. Duso, Ripensare la rappresentanza, cit., pag. 38. Ivi, cit., pag. 41.
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neppure alla educazione spirituale dei singoli, ma diventa l’apprendistato tecnico all’inserimento nel mondo del lavoro, è il contesto lavorativo che viene implicitamente assunto come il fine dell’istruzione scolastica. Se questo fine ha una destinazione privata, è la struttura politica che assume un risvolto privatistico; se, invece, il mondo del lavoro, e per esso l’economia, è coinvolto in una funzione pubblica, allora il Governo politico non potrà non esercitarsi anche sul mondo della scuola e su quello del lavoro, arginando lo spazio di espansione ( ) dell’economia in ambiti politicamente non adeguati, secondo una accezione però non di mera congruenza coi fini di potenza dello Stato, come nelle realtà olistiche del passato e totalitarie recenti, ma entro un orizzonte di senso non più segnato dall’ “ontologia da discorso sull’essere rivelativo dell’essere o della verità di ogni ente”, poiché esattamente questa impostazione, perdendo di vista la prospettiva morale del Bene e del Giusto, ha risolto il pensiero “nella gnoseologia intesa come rappresentazione dell’ente per esprimerlo”, 996 che costituisce la trama sottostante al discorso della rappresentanza della sovranità e alla riduzione dello spazio pubblico a quello politico, declinato come tecnica di conseguire fini economici. La perdita della coscienza morale equivale alla perdita della capacità di distinguere il Bene, ossia la costituzione integrale e non settoriale e astratta dell’uomo, riducendo il benessere a ciò che piace, cioè alla soddisfazione di desideri e appetiti privati, indicati come “felicità” e “libertà”, il cui contrasto morale con la virtù appare il male.997 È evidente che in una prospettiva morale, cioè trascendente l’etica del Potere, la funzione educativa dell’ uomo coincide con la stessa cultura di Governo, del Governo “giusto”, fondato sul Bene inteso come “buon governo”, e volta non già alla legittimazione ideologica della rappresentanza democratica, come la “coscienza governamentale” di Durkheim, 998 ma alla formazione dell’uomo aperto alla trascendenza, integrale () e non ridotto all’uni-dimensionalità dello homo oeconomicus. 996
M.F. Sciacca, L’oscuramento dell’intelligenza, Milano, 1970, pag. 119. Da ora OdI Ivi, pag. 53. 998 Ved. Duso, Ripensare la rappresentanza, cit., pag. 45. 997
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Compito della vera cultura in quanto formativa dell’uomo integrale – e in questo senso cultura è libertà – è di opporsi alla riduzione di tutto alla funzionalità, di rifiutare l’invasione e la violenza del meccanismo, di non entrare nell’ingranaggio, di essere se stessa: un prodotto dello spirito che, come tale, non può e non deve sottomettersi a quanto è ad esso estraneo, meno di tutto alla strapotenza e all’onnipresenza della commercializzazione; e proprio in questa opposizione sono la sua autonomia e insieme il suo impegno sociale. Non si tratta neanche di anticonformismo, posizione di comodo come il conformismo che fa vivere bene e poetare male: il vero uomo di cultura non si dirige mai di proposito a questa o a quella situazione, a questo o quello schieramento, alla massa o alla élite, anche se di questo e altro tiene conto, ma è tutto nell’opera sua creativa e gli è estranea la meschina preoccupazione di andare al passo con la realtà che lo circonda. Nessuna opera di cultura, se tale, si può risolvere nella pratica o può accettarne la censura; se l’accetta è nata morta.999
Il personalismo cristiano, correggendo l’astrattezza della posizione razionalistica moderna, fa assumere al filosofare post-moderno una accezione volta al trascendente, sostenendo perciò che il pensiero e la ragione non esistono come enti impersonali ed astratti, bensì come pensiero e ragione degli uomini, di ogni singolo uomo. Il panlogismo astratto ed impersonale è la negazione dell’umanità della ragione e perciò è inumanità e negazione della filosofia, che l’umanità dell’uomo è chiamata ad esprimere. Chi filosofa veramente impegna non la sola ragione, quasi staccata dal resto di sé, ma tutto se stesso; perciò la filosofia, a parte la religione, è il momento più ricco e fecondo della vita spirituale, la vita stessa dello spirito.1000
La gnosi scientifica dunque non è in sé erronea, ma lo diventa nel momento in cui assume la propria imperfezione come valore della sua assolutezza obiettivante in senso unitariamente immanentistico, inibendosi così la conoscenza di quella totalità che, invano perseguita da 999
M.F. Sciacca, OdI, pag. 173. M.F. Sciacca, FeM, pagg. 28-29.
1000
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Platone,1001 soltanto la conoscenza radicale offerta dalla Rivelazione cristiana poteva offrirle a integrazione dell’umana intelligenza. Ecco dunque che il senso dello stigma religioso verso la conoscenza mondana, non riposa nella sua pretesa di certezza, ossia nella sua capacità tecnica di offrire strumenti razionali di conoscenza, ma nella sua studiata permanenza entro i confini di quella precaria certezza finita, soggetta a confutazioni correlate alle sue tesi congetturali. Un mondo relegato a questa imperfetta conoscenza di sé, era plausibile se pensato con le categorie della elementare filosofia greca; diventa decaduto se relegato entro tale orizzonte di “coscienza sensibile”, dominato dalle sole dinamiche relative alla vita biologica, della : quelle polemiche della lotta per la sopravvivenza e per il governo del mondo. Questa situazione, per un verso, stabilisce una incongruità formale tra le ragioni della storia e la sua comprensione nella verità, e per l’altro una invarianza ermeneutica della Verità e le determinazioni concettuali che derivano dai continui innesti della “coscienza sensibile” in quella “religiosa”, per restare nella nomenclatura di schleiermacheriana. Ma, ed è probabilmente la conseguenza più rilevante, soprattutto comporta che nessuna interpretazione puramente scientifica, derivata quindi dal sapere filosofico, è in sé in grado di comprendere il senso vero e cioè totale della stessa realtà del mondo oggetto del sapere razionale in quanto abitato dall’uomo, essere spirituale. Ciò fa dell’uomo la componente veritativa della storia naturale, e della sua coscienza spirituale la condizione dell’autentico sapere. Le innegabili corrispondenze tra queste posizioni 1001
“La polis nei logoi, non è il prodotto della scienza, cioè di un modello normativo che si basa su un sapere che determina in modo univoco l’idea di giustizia, ma – come mostra l’immagine del filosofo che, come un pittore traccia la figura, cancella e corregge – è piuttosto il tentativo di disegnare qualcosa che sempre più somigli al divino, ispirandosi a quell’idea di giustizia che appare nello stesso tempo innegabile ma anche non posseduta. Non c’è qui [nella Repubblica] affermazione di un trascendente, ma superamento del dualismo di una soluzione di trascendenza o di immanenza nei confronti dell’esperienza umana. È sempre nell’ambito dell’esperienza e della contingenza che si dà politica, ma questa comporta una tensione verso l’idea, proprio a causa dell’essenza stessa dell’agire”: G. Duso, Ripensare la rappresentanza, cit., pagg. 33-34. Ma proprio il riconoscimento della irriducibilità di tale tensione alla forma razionale, condanna l’idea alla sua funzione ideo-logica, l’ontologia alla deontologia.
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teologiche originarie e quelle di Schleiermacher pongono questi pertanto all’interno della tradizione gnostica cristiana con un rilevante margine di consapevolezza esegetica delle fonti ellenistiche e di fondamentale continuità dottrinale con esse. L’apporto specificamente romantico-protestante a codeste fonti classiche accentua un motivo latente in esse, ossia la destinazione del messaggio cristiano a ogni uomo, e conseguente rilevanza della persona in quanto tale, cioè al di là della sua appartenenza socio-politica e storico-culturale alla sua comunità mondana. Il messaggio evangelico libera il singolo dal suo destino sociale, rivalutando la sua posizione politicamente infelice nella cultura organica antica in termini di riscatto spirituale. La “lieta novella” ai miseri, ai cuori spezzati agli schiavi e ai prigionieri (Is 61, 1 segg,) non precisa una indicazione sociologica, ma esistenziale, relativa a coloro che si trovino al di fuori dei contesti positivi della vita mondana accreditata, i reietti. La fede che opera nei singoli, non può essere oggettivata in una struttura istituzionale o dottrinale, ma soltanto stabilire un incontro libero tra liberati dal destino. Questo luogo di incontro è la chiesa. Il rapporto della Chiesa con il mondo è simmetrico a quello della verità cristiana e la scienza mondana, la cui relativa autonomia è quella stessa della esistenza biologico-sociale dell’uomo. nei due casi, l’esistenza e la conoscenza, trovano il loro rispettivo senso primo e finale nella comunità e nella coscienza religiose. Da ciò consegue che se la comunità di fede (ekklesìa) ha una sua autonomia spirituale dalla società politica, come questa da quella, la funzione della coscienza religiosa deve potersi esplicare nel rapporto con la comunità politica, diventando quindi inevitabilmente una “religione comunitaria” (Gemeinschaftreligion), e in quanto tale provvista di una sua organizzazione e di una sua dottrina. Pertanto, se la Chiesa, come comunità di fede in Cristo, è una e cattolica, le comunità religiose sono pari alle organizzazioni socio-politiche storiche. In conseguenza all’evoluzione storica dello stadio di organizzazione socio-politica verso sempre più strutturate Gesellschaften, anche le rispettive comunità religiose hanno subito una loro inevitabile mutazione mimetica. Non è un caso che la Chiesa romana ponesse a fondamento sociologico della sua unità cattolica l’Impero, ossia l’unità politica dei popoli
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cristiani; né casuale è la costituzione delle varie chiese nazionali a seguito della frantumazione dell’antica unità politica imperiale. La duplice articolazione del rapporto di fede del singolo con Dio, e del rapporto infra-comunitario tra chiesa e società politica, interessano aspetti non storicamente ma strutturalmente diversi, derivati rispettivamente da un fondamento veritativo di tipo singolare e intimo, non formalizzabile in un comune statuto normativo, e da un rapporto etico-valoriale e quindi in senso lato religioso, tra l’auctoritas ecclesiale e la potestas politica. Ed è propriamente all’interno di questa relazione religiosa che è possibile far corrispondere al referente sapienziale dell’archetipo fideistico il fondamento autoritativo ecclesiastico, sul presupposto insuperabile, però, che si ammetta la coincidenza esistenziale della comunità di fede con la comunità socio-politica, entrambe confluenti nel comune riconoscimento di fede evangelica che omnia potestas a Deo. Il ripiegamento da questa comune identità religiosa originaria nel referente rispettivo della autorità scritturale della Chiesa, e della autonoma legittimazione giuridico-politica dello Stato, ha dissolto anche il rapporto sapienziale tra fides et ratio. Se la gnosi scientifica diventa la fonte di legittimazione culturale dello Stato superiorem non recognoscentem, anche il rapporto organico tra auctritas ecclesiale e potestas politica finisce per perdere il suo scopo funzionale. Infatti, “la fede deriva dall’annuncio, e l’annuncio si fa attraverso la parola di Dio”, secondo Paolo (Rm 10, 16), ma, aggiunge Clemente, “l’insegnamento è degno di fede quando all’apprendimento contribuisce la fede degli ascoltatori, [mentre] non v’è giovamento alcuno nella educazione anche ottima senza la disponibilità del discepolo; e non v’è nella profezia, quando manchi la docilità degli uditori”. 1002 La “docilità” di cui parla Clemente è la predisposizione a ricevere la verità evangelica come premessa di ogni argomento razionale, e dunque come fulcro di ogni architettura filosofico-dottrinaria. Già Tertulliano accusava gli eretici di interpretare il cristianesimo in chiave filosofica, 1003 criticando la tendenza a discostarsi dal nucleo originario della predicazione di Cristo, che è quello scritturale. Ma il rischio di un 1002
Clemente Alessandrino, Stromati, cit., II/6, 25. 1 – 26. 1, pag. 250. Tertulliano, De Praescriptione, PL 2, 20; cit. da G. Ruggieri, Cristianesimo, chiese e vangelo, Bologna, 2002, pag. 29. 1003
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travisamento ideologico del messaggio evangelico si corre soltanto perdendo di vista la funzione integrata del fondamento simbolico col suo commento esegetico, il quale, per doversi rifare al contesto attuale della valenza simbolica del dettato originario, deve assumerlo, il contesto, nella sua relazione analogica col modello significativo, quello appunto evangelico. Solo a queste condizioni è possibile ammettere la indefinibile varietà delle situazioni storico-fenomeniche con la determinata fissità degli eventi spiritualmente significativi della vita di Gesù tramandati dai Vangeli. E’ pertanto il significato spirituale quello che consente alla fenomenologia storico-avvenimenziale di acquisire un significato ultroneo rispetto a quello meramente accidentale e contingente, transeunte per condizione ontologica della realtà in divenire. Ed è esattamente questa ignoranza del significato spirituale inverante, ossia del rapporto degli eventi con la verità eterna, che viene stigmatizzato dai pensatori cristiani in merito alle ricostruzioni razionalistiche operate dalla gnosi pagana. Se il nucleo della Verità cristiana è l’evento crstico stesso, il punto cruciale che fa insorgere la questione ermeneutica circa l’ortodossia o eresia dei commenti ai Vangeli, è l’annuncio universale della Verità “con la potenza dello Spirito” (Rm 15,19), che è Cristo stesso come libertà (2 Cor 3,17). Questo Spirito che si effonde come potenza liberatrice (dalla Necessità della condizione naturale) ha il linguaggio del suo tempo, mutevole quanto la cultura stessa che l’ha prodotto, di contro alla costanza eterna del “linguaggio di Dio”, che è quello della fede. Fede e ragione storica, pertanto, non possono porsi su uno stesso piano temporale. Il piano spirituale ha una movenza “lineare”, nel senso chiarito da Cullman, che ha un inizio e una fine in cui l’uomo può trovare tutto il senso della sua esistenza, mentre il piano mondano ha un processo ciclico, legato alla dipendenza della vita umana da fattori impersonali, biologici e collettivi. Nell’ambito dell’esistenza spirituale, la relazione fondante il senso autentico della vita umana è il rapporto con Dio, che custodisce l’ambito della libertà in cui si manifesta la Verità. Il piano della vita mondana, invece, è caratterizzato dalla relazione che la libertà dell’uomo stabilisce coi poteri mondani (), la cui “dialettica”, è vero, non consiste in una “contestazione o rivoluzione, ma [nella] testimonianza di un altro potere, di un’altra signoria, di un’altra
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logica”. 1004 Ciò, nondimeno, non implica che “la testimonianza del vangelo si abbia sempre davanti ai poteri di questo mondo, mai tramite essi […] senza alcuna possibilità di combinazione”, 1005 poiché l’alterità dei due piani ontologici, quello spirituale e quello mondano, coesiste nell’esperienza singolare dell’uomo, il cui riferimento al modello storico del Cristo ha la sua intima ragione divina proprio nel superamento dei due piani, in senso lato, della morale e del politico. La questione essenziale che sottostà alla testimonianza cristiana, non inerisce soltanto al rischio della loro confusione, contro la quale il cristianesimo delle origini si è adoperato per erodere l’organicismo religioso imperiale, ma anche della loro dissociazione formale, la quale fa perdere alla Verità rivelata il suo carattere di totalità, la quale per definizione e vocazione deve essere inclusiva di senso, e non, come il sapere filosofico, esclusiva. La questione essenziale inerisce dunque al rapporto della Verità con la scienza profana, che non è punto “dialettico”, interno cioè alla sfera della ratio e dell’Eros, non potendo includere la Verità nel movimento del tempo; ma non è neppure “alternativo”, essendo quella di Cristo la figura del Mediatore divino-umano per antonomasia. Il problema nasce allorquando i Padri della Chiesa assumono che, dato che intelligente è il Logos di Dio, per cui la rappresentazione dell’intelletto si ha solo nell’uomo: onde l’uomo retto ha forma e aspetto di Dio nell’anima e a sua volta Dio ha forma umana, poiché l’essere di ciascuno è l’intelletto, da cui siamo [come uomini] caratterizzati.1006 Se il Logos divino è “intelletto”, e ciò che caratterizza l’uomo è la razionalità, il cristianesimo, confermando l’antropologia greca, si inscrive nella tradizione razionalistica, portandola a compimento. Essendo la qualità propria dell’intelletto la formulazione di concetti universali, il compimento della cultura razionalistica consiste nell’assumere i valori universali elaborato nel piano teoretico a criteri di valore comune anche sul piano pratico e socio-politico, realizzando perciò storicamente la Repubblica ideale platonica. 1004
G. Ruggieri, Loc.cit., pag. 39. Ivi, pag. 38. 1006 Clemente Alessandrino, Stromati, cit., VI/9, 72. 2, pag. 707. 1005
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In verità, il “linguaggio del Signore”, non è lo stesso del filosofo, ma quello “di un profeta” (), il quale non è soltanto l’ispirato ma colui che “sonda il mistero” 1007 racchiuso nella parola, evidentemente simbolica. Parlare in modo profetico () significa dunque chiarire, portare alla luce, il senso della realtà, che indica non solo il significato evidente ma anche la direzione recondita, della rappresentazione espressa in parole, cioè della conoscenza ( ). Questa seconda lettura della realtà fenomenica, evidente, non è la dimostrazione () stabilita dal filosofico, che astrae dal divenire della realtà concreta, ma tende a ordinare la conoscenza razionale della realtà con il comportamento pratico finalizzato alla salvezza spirituale. Rispetto alla mera razionale, concernente i nessi tra i fenomeni, la parola profetica esprime un livello di coscienza superiore, che Schleiermacher ha indicato come quello della “coscienza di Dio”, e che Clemente col termine di , che allude appunto al “riconoscimento” della Verità racchiusa simbolicamente nel linguaggio, e che la gnosi profana può solo parzialmente attingere, priva com’è della relazione alla verità. Ma perché non basta la sapienza mondana a decifrare la realtà del mondo? Perché, insomma, essa è inferior e simplicior, e rispetto alla gnosi cristiana? Perché la realtà dello Spirito non è un “libro aperto” come potrebbe apparire all’ottimismo scientifico quello della Natura, ma racchiude il Mystero, che non può essere de-finito concettualmente, né può essere intuito allo stesso modo da ognuno. Solo chi è “forte nella grazia in Cristo Gesù”, ossia ha compreso l’unità del vero nella sua relazione con le molteplici manifestazioni parziali della gnosi profana, è in grado di “dispensare rettamente la parola della verità” (2 Tm 2, 1 e 15) può definirsi fedele a Dio. Anche il sapere filosofico può contenere barlumi di verità ma essi, poiché non erano stati ordinati nel senso della verità eterna, “non si potrebbe accogliere tutta la filosofia in blocco, ma bisognerà discernere […] ciò che è buono e ciò che è cattivo”.1008 Ciò comporta che la varietà delle interpretazioni filosofiche del mondo appartiene al grado inferiore della coscienza, quello 1007 1008
Ved. il commento di G. Pini a Clemente Alessandrino, Stromati cit., pag. 62 n. 12. J. Daniélou, MetC, pagg. 89-90.
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“sensibile”, nel quale la molteplicità è consustanziale al divenire degli enti fenomenici. Questo orizzonte di coscienza comprende dunque le diverse opinioni sul mondo, a un livello di plausibilità variabile a seconda della articolazione razionale della specifica opinione ( ), le quali tutte però, mancando di un fondamento veritativo sono tutte relativamente false rispetto all’unica verità, quella rivelata. Anzi la stessa “presunzione” () 1009 di fondare la conoscenza sulla sola riflessione razionale, è vana e fallace, perché parziale, ossia confonde la parte per il Tutto. Se noi trasferiamo nell’ordine della convivenza sociale la relazione tra la gnosi profana e l’epìgnosi teologica, ebbene possiamo stabilire un rapporto simmetrico e corrispondente tra le diverse potenze mondane (), tra esse conflittuali e concorrenti, e la fonte della loro legittimazione morale, l’autorità ecclesiale. Se il compito proprio alle prime è di fornire gli strumenti politici utili alla costituzione e al mantenimento dell’ordine sociale, compito precipuo della seconda è di approntare il Governo di quelle stesse forze, giudicando della loro compatibilità col fine della salvezza comune, poiché da sole non vi perverrebbero, al pari di una dottrina filosofica, la quale “di per sé non può procurare l’effetto della verità”. 1010 Ciò che compie l’ nei confronti della , lo assolve il Governo nei confronti del Potere politico: offre una visione d’insieme entro la quale stabilire la giustezza, ossia compatibilità, della prospettiva parziale. Senza la Verità totale, così come senza la visione d’insieme, le singole opinioni e le singole potenze politiche di parte, trasmoderanno fallacemente nella presunzione di voler rappresentare il Tutto. È appena il caso di aggiungere che questo il senso originario della “cattiva infinità” dell’intelletto che sarà oggetto della riflessione fenomenologica hegeliana. Ma è soprattutto l’apertura di un orizzonte di senso meta-politico in cui risolvere le antinomie tipiche della dialettica del Logos apollineo attraverso il superamento dell’alterità esclusiva dell’Altro nella sua con-prensione attraverso lo spirito agapico. La filosofia, nei suoi molteplici indirizzi, poteva “ talvolta giustificare” il sapere profano rappresentato dai Greci, ma non nel senso di una “giustificazione totale, per la quale essa risulta un aiuto, come il primo e 1009 1010
Clemente Alessandrino, Stromati, cit., II/1, 2. 3, pag. 228. Clemente Alessandrino, Stromati, cit., I/20, 99. 2-3, pag. 161.
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il secondo gradino per chi sale al piano superiore”, senza peraltro potersi dire che “sopprimendola, si risentano manchevolezze per il Logos universale o si sopprima la verità”, la quale “è lo spirito che la conosce e per natura vi aderisce”. 1011 E dunque caratteristica della gnosi imperfetta è la sua perfettibilità, il suo cioè carattere approssimativo e contingente, tale che la sua confutazione o obsolescenza non inficino il nucleo essenziale della Verità, che rimane trascendente a ogni indirizzo teoretico particolare come il piano superiore ai gradini della scala di accesso. Invece, “la dottrina del Salvatore è esauriente e sufficiente a se stessa”, anche se “la dialettica aiuta a non soccombere agli assalti delle eresie”, sicché la filosofia, “se vi si accompagna, non perciò rende più valida la verità, ma rende inefficaci gli attacchi della sofistica contro di essa e respinge le ingannevoli insidie tese alla verità”. 1012 L’autosufficienza della Verità produce dalla sua unità le insidie ermeneutiche delle molteplici interpretazioni tendenziose e sofistiche tese a screditarla. Essa non perde perciò la sua qualità trascendente ma mostra la sua indisponibilità a doversi confrontare con le tesi di parte, per la ragione che ognuna di esse può sorgere dalla fede comune: esattamente come succede in un conflitto tra opinioni religiose o fra Stati cristiani. La Verità, che comprende ogni parte, non può diventare a sua volta parte per contrastare l’eresia, ma si affida a tesi antagoniste per neutralizzare le antitesi. Così funzioneranno i concilii, nel cui ambito la fede comune non era in commercio, ma solo la sua giustificazione razionale. Ecco dunque delinearsi la differenza tra la posizione che perora la sua causa parziale, ricercando la propria gloria, con la verità di ragione, e chi invece cerca la gloria di Cristo, restando nella verità della fede (Gv 7, 18). 1013 Nella Verità confluiscono tutte le strade della sapienza, e “questa via è la fede”.1014 La ricerca mostra i suoi limiti quando non incontra il timore di Dio, che è il modo di deviare dal male”; premesso ciò, anche la “filosofia barbara è realmente perfetta e vera” relativamente alle “cose del mondo”,
1011
Ivi, I/20, 98. 3-4, pag. 161. Ivi, I/20, 100. 1, pagg. 161-162. 1013 Ivi, I/20, 100. 2-4, pag. 162. 1014 Ivi, II/2, 4. 2, pag. 230. 1012
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ossia a “tutte le cose che si sono formate nel mondo sensibile”. 1015 Ciò non implica che ogni dottrina filosofica particolare lo sia, tenuto conto che “la verità ci è nascosta”.1016 A questo punto, Clemente passa in rassegna i diversi significati della fede: una “prolessi” ( ), ovvero una “condivisione” () cioè un “assenso dato con chiarezza razionale a una realtà che si ignorava”, in ogni caso è una “scelta cosciente” che “tende verso qualcosa […] di natura intellettiva”, e dunque utile alla gnosi. Ed ecco il punto cruciale: la fede è “fondamento sicuro” della “scienza” ().1017 È la condizione spirituale per accedere alla Verità, in quanto assenso preventivo, che non è qualcosa di meramente psichico, quale “dato naturale” e “privilegio di natura”, ma un assenso cosciente, “effetto di libera scelta ( )”. Se noi fossimo determinati per necessità naturale, “diventano concetti superflui il volontario e l’involontario” e “per chi ragiona bene, non sarà oggetto né a lode né a biasimo”. Ma poiché la fede è un atto di volontaria adesione, consapevole e perciò responsabile, essa è “libera”. E in quanto “fede libera” essa è “fondamento della salvezza”.1018 Un capitolo essenziale degli Stromati, il più breve e interamente dedicato alla natura della fede, illumina il carattere volontario della conoscenza quale assenso alla Verità, e il carattere libero della fede, quale adesione responsabile alla realtà divina. La fede () in senso cristiano pertanto si costituisce come atto di libertà di coscienza (), di consapevolezza intellettuale quale fondamento della Verità, e di responsabilità morale quale atteggiamento d’amore verso il prossimo. Questi tre aspetti: ontologico, pratico e dogmatico, coesistono all’interno della stessa definizione onnicomprensiva della nuova fede totalizzante cristiana. La fede, asserisce pertanto Clemente, è tutt’altro che incompatibile con la scienza; se questa infatti è considerata dai filosofi come “un abito non mutabile ad opera del ragionamento”, ebbene soltanto “l’atteggiamento
1015
Ivi, II/2, 4. 4 – 5. 1, pagg. 230-231. Ivi, II/2, 6. 4 – 7. 1-2, pag. 233. 1017 Ivi, II/2, 8. 4 – 9. 4, pag. 235. 1018 Ivi, II/3, 10 - 11, pagg. 237-238. 1016
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della religione, che ha per sé come solo maestro il Logos”, 1019 può soddisfare questa esigenza teoretica. Qui viene chiaramente a giustapporsi la figura del Figlio, cioè del Logos-Mediatore, con l’idea di e . Presentando Cristo come Clemente afferma che “Colui che ci ha fatto partecipi dell’esistenza e della vita, ci ha fatto partecipi anche della ragione, perché vuole che noi conduciamo una vita razionale () e insieme onesta”,1020 lasciando intendere chiaramente che altra via umana al Bene non esista. Precisando subito dopo che “il Logos del Padre dell’universo non è questa nostra ragione che si esprime in parole ( ), ma è sapienza e bontà assolutamente manifesta di Dio”, dichiara il carattere oggettivo della potenza divina “dominatrice di tutto”, e come tale “comprensibile anche a chi non lo confessa”, 1021 facendo della presenza di Dio nel mondo una potenza cosmica, una volontà divina che dominando tutto si costituisce come una superiore e personale Necessità che conduce anche i refrattari alla fede. Come spiega infatti Clemente, siccome alcuni sono increduli, altri smaniosi di polemiche, non tutti conseguono la perfezione nel bene. Non è possibile infatti raggiungerla senza libera scelta, ma nemmeno dipende tutto dalla nostra volontà, […] bisogna anche che possediamo sana intenzione, che non si penta nella ricerca del bene (): soprattutto in questo ci occorre la grazia divina [oltre che] una retta dottrina. 1022
L’abbinamento di “onestà”, ossia di rettitudine morale e di comportamento virtuoso, e di Verità, cioè di recta ratio e “puro spirito di ubbidienza” a Dio, costituisce il Cristianesimo come religione di fede che si presenta al mondo come inveramento della sapienza classica pagana ed erede della sua antropologia razionalistica, propedeutica perciò all’avvento della Verità rivelata da Cristo, ed erede storica della sua missione teoretica di razionalizzazione del mondo come “civiltà”, sotto 1019
Ivi, II/2, 9. 4-5, pagg. 235-236. Ivi, V/1, 6. 3 e 7. 8, pagg. 546 e 548. 1021 Ivi, V/1, 6. 3, pag. 546-547. 1022 Ivi, V/1, 7. 1-3, pag. 547. 1020
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forma di religione universale, di comunità ecclesiale cosmica o Chiesa cattolica. Che tale religione universale fosse nel segno della ragione o in quello dell’Amore non costituiva esattamente la stessa missione. Sin dalle origini, il carattere missionario di “apertura alle genti”, se realizzava la consegna di Cristo, metteva nel contempo “a rischio la fedeltà all’eredità apostolica” per la presenza di “due tendenze contrastanti”: da un lato, “la chiusura al nuovo che avanzava”, e dall’altro l’ “assorbimento, in funzione subalterna, della stessa esperienza di fede dentro la cultura dei nuovi soggetti”. 1023 Ciò che rileva è però che i due poli della tensione religiosa, quello escatologico e quello mondano, coesistano all’interno dello stesso orizzonte cristiano, in modo tale che la prevalenza dell’uno sull’altro siano frutti culturali maturati sullo stesso terreno teologicopolitico, sicché i grandi processi intellettuali e civili che caratterizzano la cristianità, a partire dall’epoca di Agostino fino al periodo della secolarizzazione tardo-moderna, sono tutti inscritti e latenti nelle rappresentazioni originarie dei primi secoli, segnatamente il III e il IV, che insieme a quello di Gregorio Magno, il VI sec., costituiscono l’architrave teologica che formerà o sosterrà il Sistema ecclesiale cristiano-europeo, o della Cristianità (Christlichkeit), comprensivo sia della Chiesa che dello Stato quale respublica fidelium, le cui rispettive posizioni dialettiche sono le proiezioni storiche delle strutture dottrinarie di quel sistema, tant’è che “nelle fonti, sia medievali, ma anche moderne, soprattutto dopo la Rivoluzione francese, il termine ‘cristianità’ indica quella condizione dei rapporti tra chiesa cristiana e società in cui l’alterità originaria dell’esperienza cristiana rispetto agli ordinamenti di ‘questo mondo’ si è trascolorata in un amalgama delle due realtà”, pure conflittuali. Nondimeno, “la cristianità annulla la differenza con le strutture del mondo civile in forza della loro supposta integrazione coerente dentro l’orizzonte cristiano”.1024 E dunque, nell’assumere una sua riconosciuta funzione missionaria, secondo la stessa costituzione ecclesiale (Mt 28, 16-18), la fede cristiana si proietta dalla sfera interiore del rapporto personale con Dio alla sua socializzazione attraverso il 1023 1024
G. Ruggieri, Loc.cit., pag. 41. G. Ruggieri, Loc. cit., pagg. 45 e 46.
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Potere secolare, che diventa parte integrante dell’orizzonte ecumenico cristiano. Sia la tensione con il Potere secolare che la stessa tensione interna alla Chiesa, vertente questa sulle diverse interpretazioni del messaggio evangelico e le conseguenti distinte elaborazioni dottrinali e formazioni strutturali, sono un portato storico della originaria assunzione del metodo razionale mutuato dalla filosofia antica per giustificare in senso universale le dottrine e per derimere conflitti di interpretazione teologica. Infatti, è il metodo stesso che necessariamente esclude dal senso dialetticamente prevalente la componente antitetica, la quale, se professante una fede veritiera e convinta, non può in coscienza riconoscersi nella decisione autoritaria. È vero che “delle varie rotture, molteplici e ogni volta specifiche sono le cause”, 1025 ma ciò che le unisce è appunto i criteri, punto cristiani, per farle insorgere e per affrontarle, ossia la riduzione del Cristianesimo a una ideologia religiosa totalitaria, politicamente espressiva e giuridicamente garantita da una istituzione storica, da essa stessa moralmente legittimata a esercitare le sue funzioni di potere. In altri termini, nell’atto stesso in cui la Chiesa ha creduto di costituirsi come una dottrina di ragione universale veicolata attraverso un potere secolare, non poteva non risentire di “un dinamismo di esclusione” 1026 sottostante alla regola della distinzione logica e della pratica divisione tra gli uomini, cioè della discriminazione fra gli stessi figli di Dio, che è esattamente quanto il messaggio evangelico aveva voluto superare nel senso della fraternità umana in nome della comune fede in Cristo. Codesto vizio di origine ha condizionato tutte le vicende storiche della Chiesa e del Cristianesimo nel suo insieme, fino ala riduzione moderna della religione entro i limiti della sola ragione e quindi della secolarizzazione della cultura occidentale. L’autonomia della ratio dalla fides non è un fenomeno moralmente aberrante se non dal punto di vista della fede, mentre dal punto di vista teologico essa è un errore, ossia interna all’orizzonte della rappresentazione razionale della religione cristiana, la quale, per quanto originariamente proclamatasi come religione assoluta, “indipendente da 1025 1026
Ivi., pag. 49. Ibidem.
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ogni altro complesso di valori”, acquisì dal paganesimo antico il valore fondamentale della sua cultura, ossia il senso “razionale” della “verità”, con tutto ciò che teoreticamente vi implicava. Sicché, allorquando si giunse in età moderna a definirne la “essenza”, fuori di ogni sovrastruttura confessionale e liturgica, essa fu facilmente indicata nella stessa ratio, cioè nella stessa metodica razionale adottata per costruire le sue strutture dottrinali formali. Queste infatti, emendate del loro fondamento fideistico, apparivano nient’altro che strumenti tecnici di un esercizio intellettuale che, purificato della sua teleologia, avrebbe riconsegnato il senso autentico della verità, quello appunto della nuda e assoluta ragione universale. Si fa notare che pressocché tutti i fermenti critici moderni riscontrati nella cultura secolare verso la pretesa confessionalistica del cattolicesimo tridentino di mantenere un primato di formulazione delle espressioni razionali della fede in ossequio al suo tradizionale monopolio esegetico delle fonti scritturali, hanno la loro più o meno velata nascita entro della cultura teologica e del mondo ecclesiale romano, il quale, come nel caso più eclatante del Protestantesimo, finirà per recepirli de facto dall’esterno dopo averli rifiutati de jure all’interno. Questo perché l’esistenza dell’area culturalmente articolata ma essenzialmente omogenea della cristianità ha dapprima formato e messo in relazione dialettica e poi neutralizzato sfere autonome di conoscenza e di relative proiezioni esistenziali, sorte dallo sviluppo dottrinario delle medesime premesse metafisiche, secondo un moto inverso a quello che aveva condotto le scienze profane particolari alle grandi sintesi teologiche della tradizione patristica e medievale. Infatti, la questione della “essenza” del Cristianesimo presuppone già la sua riduzione a un’Idea, laddove secondo il messaggio originario la fede è una esperienza di vita che trasforma il modo di pensare la realtà, sub specie spiritualis, e le relazioni umane. Ed è esperienza esistenziale in quanto coinvolge l’intero essere umano,e non solo il suo atteggiamento noetico. La differenza tra lo spirituale e il logico riposa esattamente nella diversa prospettiva della coscienza, come abbiamo visto supra trattando di Schleiermacher: lo spirituale è inclusivo del razionale, ma non è traducibile in essenza logica, in un ente di pensiero concettuale, in “scienza della religione”, la quale, come già notato a suo tempo da Dilthey, “può risolvere il suo problema
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specifico solo in connessione con il problema della filosofia”. 1027 In tal senso si è nel giusto quando si afferma che “il problema della ‘verità’ del cristianesimo, in questa accezione, non è concettualmente o istituzionalmente risolvibile in maniera adeguata”, per cui ogni “pretesa di realizzare la verità del cristianesimo [produce] una dialettica cristianesimo / chiese [che] è un segno della irriducibilità del cristianesimo alle chiese”. Con l’avvertenza opportuna che la “differenza è interna [all’esperienza cristiana], e non è quella tra una essenza o definizione astratta e la sua realtà concreta”. 1028 Ma tale “differenza, a sua volta, non è legata tanto alla storicità della ricezione del messaggio evangelico, che pure è aspetto rilevante, quanto alla modalità della sua effettualità esistenziale, differita al tempo inattuale della speranza, che non si risolve mai in una evenienza determinata in un presente che passa, ma in un travaglio dove la certezza richiede nuove conferme, bilanciate a sua volte dalla fede di ricevere la Grazia. Per cui la “corruzione della verità cristiana”, che per Tertulliano era dovuta alla “aggiunta, al nucleo evangelico originario, delle varie saggezze umane”, non consisteva nel “mescolare al cristianesimo elementi estranei delle altre religioni e delle culture”,1029 ma bensì nel concepire tale verità in termini universalmente oggettivabili, e non già appunto in termini analogici e tali da mantenere, all’interno di ogni esperienza di fede, il dell’ineguagliabile evento singolare, in virtù del quale alcuna coscienza di Dio è uguale ad altra, come invece si presume sussumendo tutte le esperienze sotto un astratto paradigma dogmatico, sostitutivo dell’unico e vero modello, quello escatologico professato nella testimonianza (dynamis) di Cristo. E’ pertanto “nella capacità di vivere la relazione che Cristo ha stabilito con l’uomo, mediante la sua croce e risurrezione, che noi possiamo cogliere la sua verità”, non concettuale e rappresentata secondo schemi razionali di corrispondenza strutturale, ma riportandola alle sue origini diegetiche e simboliche, ossia “narrandola,
1027
W. Dilthey, PR, pag. 139. G. Ruggieri, Loc.cit., pagg. 65 e 66. 1029 Ivi, pag. 67. 1028
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attualizzandola cioè nel racconto efficace (giacché dà origine alla imitazione e sorge dalla prassi dell’imitazione) della sua vita”.1030 L’analogia, che è il contenuto della rappresentazione della coscienza intenzionale, si articola nel discorso simbolico, il quale riguarda l’Altro come referente molteplice e in-determinato, senza il quale la de-finizione di sé resterebbe in-possibile. Il Sé che si definisce nel riportamento continuo agli altri, si determina attraverso una simbologia che trascende l’ipseità del soggetto predicativo; ed è esattamente questo riportarsi all’Altro che stabilisce la relazione agapica al “prossimo”. Il discorso logico, invece, riguarda l’Altro elettivamente, e dunque univocamente, poiché soltanto l’opposto è scelto come alterità significativa ai fini della definizione del Sé. Distratto dal proprio opposto, il Sé muta posizione, diventa a sua volta altro-da-sé, alteron. La logica si determina come lotta contro l’alterità dell’opposto dialettico. Il discorso filosofico espunge dal caos delle interpretazioni il senso univoco della realtà, de-finita in opposizione al Molteplice avvertito come alterità irrazionale. La realtà molteplice e contraddittoria, diventa l’Altro da negare per affermare l’univocità del Soggetto logico, sicché la Molteplicità empirica, ridotta a negazione logica, cioè a irrazionale, acquista valore di limite alla Necessità. Infatti, il Molteplice è rimosso dalla verità a favore dell’univoco concetto del Sé, che si rappresenta come l’uni-versale reale, ossia l’Assoluto che non ammette alcun Altro da sé. La critica di Tertulliano ai filosofi e alla gnosi docetista e marcionita verteva sulla impossibilità di trovare una ragione al principio divino, in quanto “il principio e ciò che da lui viene non hanno perché, non hanno ‘ragione’, [poiché ]scaturiscono cioè non da una necessità, ma da un atto di libertà, di volontà assoluta, appunto perciò irriducibile al metro della ragione intesa come definitoria e giudicante”.1031 La sua distinzione tra Ratio e Sermo di Dio, antepone il Verbo alla ragione e alla sapienza, intendendo per esso l’intenzione divina, che chiama sensus, identificandolo con il dei Greci, la cui trascrizione latina è sermonem, cioè Verbo:1032 da qui la confusione dei teologi allessandrini di 1030
Ivi, pag. 74. F. Adorno, La filosofia antica, vol. 2, cit., pag. 537. 1032 Tertulliano, Adversus Praxeam 5, 3. 1031
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con Verbum, che è identificato con Dio stesso, che diventa il platonico. 1033 Ma la mens divina è quella che Boezio chiama “cernens omnia notio” che è il grado più elevato di sapere (“summae intelligentiae cucumen”),1034 la quale “regola e governa, sopra ogni altro principio, la sfera psicologica [fino a] identificarsi con lo sguardo sommo e totalizzante, quasi divino, di cui dovrebbe essere capace, quando giunge a contemplare l’insieme di tutte le cose, la medesima Filosofia”. 1035 Il Logos promana dal Verbo divino, che governa il tutto, ma non è la ragione idealistica assolutizzata che non ammette alcun altro da sé. È indubbio che il monoteismo si presti al discorso filosofico in senso universalistico, ma solo a costo di negare la creazione divina, l’Altro appunto, che si dispiega come natura entificata solo in quanto oggetto di giudizio. Sennonché, tale alterità logica, sula piano ontologicoesistenziale è ciò che Gesù indica come il prossimo da amare, il diverso in quanto creatura dal Creatore, ma non opposto a Lui. Ma perché l’Altro non sia considerato opposto – e “nemico” – occorre che rientri nel discorso simbolico, ossia che si emancipi dalla esclusività del discorso logico. Ciò farebbe cadere assieme a ogni theo-crazia unitaria, anche ogni theo-logia, cioè ogni discorso logico su Dio, la cui realtà non andrebbe quindi più giustificata con la ragione, ma con la charitas. Questo cambiamento di paradigma sposterebbe il senso del Limite dalla sfera mondana, in cui il Logos-polemos domina sulla realtà sensibile, alla sfera celeste, dove regna Amore. In tal caso, la Persona unica del Pantokrator sarebbe trasvalutata evangelicamente nell’unione spirituale mistica, che non si afferma per negazione dell’Altro ma per la sua inclusione.
1033
Come scrive il Wolfson, “mentre in Tertulliano e in Ireneo c’è una distinzione fra quella che ritenevano essere l’errata teoria platonica delle idee e quella che giudicavano esser l’esatta teoria delle idee, in Clemente di Alessandria non si trova una tale distinzione. Egli interpreta Platone nei termini di Filone e adotta la loro comune opinione circa le idee quale sua credenza cristiana”: Op. cit., pag. 239. 1034 Boezio, Consolatio Philosophiae, V, pr. 5, 12, 856. 1035 G. d’Onofrio, Vera philosophia (2008), tr. it., Roma, 2013, pag. 102.
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