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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione diretta da
Costantino Marco
MARCO EDITORE
Segretario di redazione: Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.
In copertina: Johan Huizinga (1872-1945) Coscienza Storica
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Coscienza Storica Nuova Serie 8
L’ordine politico-religioso II
I. La questione del potere
pag. 5
II. Moralità e socialità
pag. 281
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I La questione del Potere
1. La questione della definizione del Potere parte solitamente dal concetto di “forza” sociale o di “violenza” politica e militare. Parte cioè dal fatto sociologico, dal fenomeno storico, e non dal presupposto ideale che l‟origina. Il Potere è dunque inteso solitamente come la possibilità di “dare origine ad azioni altrui” (B. de Jouvenelle), ossia di indirizzare la volontà umana, suppostamente libera di determinarsi, verso fini e scopi pre-scritti e pre-determinati. Ma come sarebbe possibile tale azione di indirizzo senza una qualche coercizione? Da qui la coesistenza dell‟autorità con la violenza. Potere dunque come autorità violenta. Questa ricostruzione, però, seppure realistica apparentemente, nasconde quel “presupposto ideale” di cui sopra, nel senso che non chiarisce come la forza del Potere detenuta da una minoranza, sia pure organizzata, possa imporsi a un gruppo maggioritario e soggiogarne la volontà. A questo punto, il concetto di Autorità deve allargarsi rispetto all‟accezione realistica e comprendere un altro essenziale elemento, che è quello della “convinzione etica”, che costituisce la forma di partecipazione del gruppo alla volontà autorevole del dux, prima, e poi del rex, secondo la nomenclatura del de Jouvenelle.1 Tale “convinzione etica” ha per contenuto un principio di socialità, che è la “ragione” stessa della convivenza, che motiva, con la necessità dello stare insieme, anche le forme e le regole della convivenza, e quindi di accettare l‟autorità del Potere come legittima. La forza politica, con la annessa sua violenza, può confermare la scelta originaria, stabilizzandola in istituzioni storicamente allestite a difenderla, ma non può originariamente costituirla, per cui l‟elemento costitutivo del gruppo sociale è di carattere “etico”, ossia 1
B. de Jouvnelle, De la Souveraneité (1955), tr. it. Milano 1971, pagg. 29-30. 5
ideale. Ogni altro presupposto, di tipo per es. economico, legato alla diversa partizione dei beni naturali e dunque sul potere del loro possesso verso i meno abbienti, deve comunque riferirsi all‟accettazione della discriminazione sociale, ossia al “riconoscimento” reciproco delle posizioni sociali. Infatti, in mancanza di tale riconoscimento reciproco, anche ciò che si estende al patrimonio fisico dell‟antagonista viene incluso nel misconoscimento del suo ruolo sociale, diventando oggetto annesso di contesa politica. la differenza tra ciò che ha una titolarità di possesso e la res nullius non è la legittimità formale, ma il riconoscimento sostanziale di tale legittimità da parte di coloro verso i quali viene vantata. Nella situazione di conflitto, la legalità dei beni viene sospesa dalla indeterminatezza del ruolo dei contendenti, e decisa dal suo esito. Il nemico è colui la cui personalità giuridica non viene riconosciuta e va definita dalla lotta. L‟elemento ideale, per sua natura, è inclusivo verso l‟interno ed esclusivo verso l‟esterno, cioè discrimina tra chi “è” nel gruppo da chi “non-è” del gruppo. Questa scelta ideale è una “decisione” politica che sostanzia l‟attività di governo dell‟autorità, ossia è il nucleo essenziale del Potere. In tal senso, il Potere indica idealmente la possibilità soggettiva e la facoltà oggettiva dell‟autorità di decidere l‟essere ovvero il non-essere di un evento come interno al gruppo sociale. Questa attività decisoria consiste nel “riconoscimento” pubblico dell‟evento privato, ossia la sua ammissibilità entro la ragione comune: la sua socializzazione come evento razionale secondo i fini sociali. “Pubblico” e “socialmente razionale” sono sinonimi di “ammessi all‟ordine sociale”, “omologati ai valori comuni”, insomma “riconosciuti”. L‟appartenenza all‟ordine ideale è dunque il pre-requisito dell‟appartenenza all‟ordine sociale, per cui ogni costituzione sociale ha un fondamento etico-religioso, che costituisce anche il suo principio razionale discriminante, normativamente fondamentale dell‟essere sociale. Il motivo religioso, tradizionalmente circoscritto all‟ambito del gruppo sociale storico (clan, nazione, città, Stato), col Cristianesimo viene razionalmente universalizzato e concepito come principio astratto dal suo particolare contesto valoriale, inteso quindi come valore trans-sociale e trans-politico, proprio di una comunità ideale solo religiosa. Col Cristianesimo, la religione diventa fede in “ciò che è di Dio”, e distinta perciò dalla sua immanente ragione politica, concepita come propria a “ciò che è di Cesare”. Di conseguenza, il fondamento religioso della 6
socialità viene rimosso dal piano pubblico e politico e consegnato a una considerazione soggettiva e personale emancipata da ogni normatività oggettiva e connessione etica col gruppo sociale storico, che costituisce il presupposto dell‟autoreferenzialità dell‟orizzonte di senso politico, emancipato dal suo originario valore etico. La storia culturale dell‟Occidente cristiano può essere riassunta in una generale tendenza dell‟autorità religiosa a distinguersi da quella politica, e viceversa, col relativo proposito di con-vertire l‟ altro-da-sé, il distinto, al sé, al proprio, del rispettivo principio. In questo movimento di distinzione e di assimilazione dei due imperi – sacro e profano - si compendia l‟intiera storia ideale della civiltà cristiana, liberale nella fase della distinzione, totalitaria nella fase assimilatoria. Così, il Potere religioso tende a trasformare in “sacro” l‟universo profano, e di contro il Potere politico a ridurre il sacro a strumento funzionale alla sussistenza del gruppo “profano”. Il Potere, comunque giustificato, sia in senso sacro che in senso profano, costituisce la facoltà di decidere l‟essere e il nonessere delle cose. Esso è dunque essenzialmente, in senso sacro, un giudizio logico; in senso profano, una decisione politica. Il giudizio logico si esprime col concetto, il giudizio politico con l‟atto di governo. La logica, come governo della ragione, e il Potere, come governo della società, sono dunque attività analoghe che si “rispecchiano” nella stessa funzione decisionale di esercizio dell‟autorità riconosciuta. Il principio universale del Cristianesimo, perdendo l‟originario rapporto naturalistico che ogni religione storica aveva con il suo particolare contesto socio-politico, si costituiva come un universo di senso spirituale che si rivolgeva alla coscienza morale degli uomini come persone singolari, e non come membri di organismi politici o di gruppi sociali. Nell‟età moderna, tale principio universalistico, perdendo il suo originario senso fideistico, si è costituito come l‟elemento spirituale unitivo di ogni evento umano comprensibile entro un universo di senso razionale. Tale principio, dunque, de-sacralizzato, si è trasformato in una razionalistica religione secolare che ha, dell‟antico senso cristiano, la sua vocazione universale, e del naturalismo pagano la sua mondanità politica. Come logica del mondo secolarizzato, la religione razionalistica tende a con-vertire al suo principio ideale ogni alterità, seducendo quelle assimilabili, e combattendo quelle refrattarie. Questo universale movimento unitario di ri-conversione profana delle molteplici civiltà umane fondate sulla loro particolare sacralità religiosa, costituisce la 7
tendenza di ritorno dell‟inverso processo di sacralizzazione universale intentato dal Cristianesimo di ogni realtà storica profana, quale inevitabile esito della loro astratta e opposta de-storicizzazione dell‟Essere, logicamente pensato, dalla sua possibilità ontologica. L‟opposta tendenza, mistica e razionalistica, in cui si è dissolto il cosmo teologico-politico cristiano del Medio Evo, ha contrapposto, dopo averli assimilati, l‟universalismo religioso a quello politico, facendo della politica in senso moderno una forza sociale senza fondamenti religiosi, e quindi oggetto di analisi scientifica di efficienza e non teologica di virtù. Il concetto politico moderno non è più dunque etico-politico, ma bensì economico-politico, e identico perciò ai contenuti tecnici di una scienza economica. In tal senso la politica nell‟accezione profana moderna coincide con l‟economia. D‟altronde, l‟economia moderna, riguardante la società e gli Stati, si distingue da quella tradizionale dei privati gruppi sociali minori, acquistando un valore pubblico in virtù della sua astratta universalità, e non per la concreta funzione etica, per cui la sua natura politica le deriva non dai suoi principi socialitari ma dall‟ordine di grandezza della sua applicazione. Da questa fondamentale caratteristica della politica moderna come scienza economica delle società e degli Stati, discende l‟impossibilità logica di giudicare eticamente l‟attività economica in quanto questa stessa attività costituisce il criterio di valutazione della vita politica, che dunque non può essere razionalmente trasceso ma solo politicamente negato da un‟altra politica economica, tecnicamente più efficace. Dal canto suo, l‟universalismo religioso, divenendo viepiù una forza sociale senza potere politico, non può essere oggetto di valutazione sociologica se non traducendosi in potere economico, ossia convertendo la sua natura spirituale in realtà profana, per cui, anche in questo caso, la sua unità di valore soggettivo deve potersi riferire all‟unico universo di senso oggettivamente storico dell‟età presente, quello appunto politicoeconomico, o bio-politico, come si dice comunemente. Da qui discende la tendenza delle religioni storiche a resistere congiuntamente contro tale metabasi essenziale, ma il loro stesso ecumenismo è il risvolto dell‟astratto universalismo razionalistico che ha de-storicizzato il messaggio della salvezza spirituale dalla realtà del Potere. D‟altra parte, lo “abbandono del mondo” profano da parte della religione cristiana ha in qualche modo legittimato l‟uso politico della violenza come criterio scientifico do governo (Machiavelli, Hobbes). Un modo 8
certo indiretto, ma consequenziale, poiché ha esautorato i princìpi laici dal fondare il loro potere sul trascendente, dal momento in cui ha stabilito il regno di Dio in un “altro mondo”. Seppure il mondo della coscienza e della soggettività morale di ciascuno, in ogni caso non il mondo sociale. La dimensione della socialità è stata abbandonata dal Cristianesimo a Cesare, quasi che la dimensione politica della convivenza fosse intrascendibile, salvo periodiche aspirazioni integralistiche di segno palingenetico. Nello stesso tempo della loro convivenza, tra i due cosmi religioso e politico nasce il contenzioso circa l‟estensione della rispettiva (“falsa”) universalità del Potere, così che ognuno ha inteso la propria sovranità come “universale” nel senso di inclusiva dell‟altra. Le distinte universalità regionali, quella del potere della fede e quella del potere politico, diventano storicamente opposte e si contendono il primato, tendendo ognuna a “convertire” il mondo al proprio essere. L‟imperialismo economico moderno, emancipandosi da ogni finalità etica, incarna la versione secolaristica del provvidenzialismo teologico, cioè la logica universalistica cristiana di segno rovesciato, che pone l‟essere profano – e quindi la logica economica – quale referente ideale di ogni conversione razionale, sacralizzando il principio dell‟utile al posto di quello della santità. Il principio utilitaristico, già nella sua versione teologica, risalente a Sebastian Franck, ubbidisce a una logica esclusivistica, che distingue entro il disegno provvidenziale i salvati dai dannati, in continuità logica dunque con la ragione dialettica, che costituisce il metodo decisivo di ogni violenza. Abbiamo visto, a proposito della teoria dell‟ordine sociale di A. d‟Ors, come la stessa prospettiva cristiana possa rimanerne incagliata, a smentita di ogni principio di carità, per definizione inclusivo. Prendiamo ora in esame una prospettiva opposta a quella di d‟Ors, anche se interna all‟universo cristiano, quella di un altro pensatore, P. Ricoeur, che è incentrata sul principio della non-violenza, quale predicato nel sermone della Montagna. Ricoeur afferma che “la violenza esiste da sempre e ovunque”, e per tracciare una “fisiologia della violenza […] bisognerebbe andare a cercare ad ogni livello la complicità di una affettività umana accordata al terribile nella storia”,2 che è la “violenza storica [che] spinge in tutti gli strati 2
P. Ricoeur, La questione del potere (1955), tr. it. Lungro di Cosenza, 1992, pag. 24.
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della coscienza”.3 Ma il livello psicologico non è ancora quello in cui “la violenza si organizza in struttura. Ecco perché bisognerebbe nominare la „forme‟ sociali in cui si ordinano le forze convocate, nominare le strutture del terribile”.4 Esiste una “violenza del diritto e dell‟ordine” che non coincide con quella superficiale della guerra, per cui “ciò che una fisiologia della violenza nn può trascurare è che lo Stato è il focolaio di una concentrazione e di una trasmutazione della violenza”, la quale “penetra nella zona del potere […] come fenomeno politico”.5 La posta in gioco del politico, propriamente, è il potere; sul piano dello Stato, si tratta in effetti di sapere chi comanda, chi è subordinato, e, in breve, chi detiene la sovranità, a profitto di chi, in che limiti, etc… Tramite lo Stato, il governo delle persone è sempre qualcosa in più dell‟amministrazione delle cose. Questo è il momento in cui la violenza assume l‟immagine della guerra: quando due sovrani di uguali pretese si affrontano su un terreno sul quale non possono convivere contemporaneamente.6
Questa rappresentazione drammatica del Potere come “posta in gioco del politico” assume la guerra come la condizione fisiologica dello Stato, laddove ne costituisce l‟eccezione che lo nega, contraddicendo la sua ragione di governo, ossia la pace. Lo Stato, infatti, sorge sulla politica per negarla, in quanto la sua costituzione coincide col governo della città, cioè con la condizione di pace sociale conseguente al riconoscimento della sovranità come legittima, e cioè razionale secondo il principio socialitario. La guerra politica interviene quando manca tale riconoscimento di sovranità, cioè quando manca il Governo. Ciò che dunque descrive Ricoeur è lo stato di eccezione, la fase pre-statuale, in cui la politica coincide con la ricerca del governo. In questo stadio precivile, manca il riconoscimento del Governo, cioè l‟affermazione del ruolo sovrano, e tutte le parti in lotta sono private e ne rivendicano l‟appartenenza. Questo stadio è quello della uguaglianza politica delle parti in contesa, restando aperto l‟esito sul primato, cioè appunto l‟esercizio del ruolo sovrano di Governo. Appena lo Stato si costituisce, i ruoli gerarchici (“chi comanda e chi è subordinato”) sono stati definiti, il 3 4 5 6
Ivi, pag. 25. Ibidem. Ivi, pag. 26. Ibidem.
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Potere già riconosciuto. Altrimenti non esiste Stato. Lo Stato è il Potere costituito. Dal punto di vista infra-statuale, l‟immagine dello Stato come violenza e come guerra è in fondo impropria. E non perché lo Stato non detenga la forza pubblica e non possa esercitarla contro altri Stati, ma in quanto la sua forza non è più “violenza” ma appunto Potere. La forza del Potere è socializzata, cioè riconosciuta come legittima forza pubblica, e perciò nn “viola” nessun principio di legittimità. La forza eslege, che “viola”, è quella della “violenza”, non già quella dello Stato, che è regolata da norme di condotta razionali secondo il loro fine. Per Ricoeur, lo Stato, attraverso la guerra, “introduce una dimensione nuova nella violenza collettiva”, la quale “prende possesso di un individuo” facendogli rivivere in chiave lirica e patetica il “terribile della psiche” custodito “negli strati più profondi del suo inconscio”.7 Come se l‟individuo socializzato e quello della coscienza morale fossero un unico soggetto, mentre in realtà non è così. Infatti, l‟idea di una personalità di coscienza è il portato teologico dell‟antropologia a-sociale cristiana. Il principio dell‟a-more cristiano è fondamentalmente a-sociale, fuori del costume socializzato. Il che non significa che l‟uomo, in quanto persona fisica, non sia investito di doveri sociali e civili, ma la sua personalità spirituale non si esaurisce in questo dovere politico, in quanto la sua socialità non è confinabile, alla maniera antica, alla koinonìa topou, alla vera convivenza sociale quale zoòn politikòn, ma coinvolge l‟appartenenza a una più ampia comunità morale costitutiva di un corpo mistico altro da quello sociale. Non è l‟individuo morale che si mobilita in guerra, bensì il membro del gruppo sociale unito agli altri membri dal riconoscimento della sovranità statuale e quindi dalla legittimità dell‟esercizio militare della sua potenza politica. La rappresentazione che ne dà Ricoeur suppone la frattura tra l‟uomo di coscienza e il cittadino, tra la “canna pensante” e “l‟animale sociale”, che è la premessa anti-politica della sfera religiosa, ma non è la condizione normale dell‟essere sociale. La rappresentazione personalistica dell‟uomo è a-normale, ossia configura uno stato di privatività che è di trascendimento dello status sociale, proprio della coscienza teoretica, la quale astrae dalla condizione normale di socialità dell‟uomo per pensarlo come essere di coscienza. Il conflitto tra i due 7
Ivi, pag. 27.
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piani di coscienza, esistenziale e coscienziale, non è evocato dalla Stato ma dal pensiero filosofico e religioso. L‟idealismo socratico-platonico introduce il conflitto della coscienza razionale entro la socialità etico-religiosa antica, come suo momento critico, affermando il carattere pubblico della coscienza ideale, mentre è il Cristianesimo che introduce il conflitto religioso nella condizione sociale, stabilendo il primato della coscienza morale sul dovere sociale. Se la concezione etica pagana non superava la dimensione politica della vertenza tra coscienza privata e coscienza pubblica, la concezione etica cristiana trascende la dimensione sociale della “vita in comune”, regolata dal diritto e dagli interessi, in considerazione della comunione spirituale della vita “vita comune”, regolata dallo “spirito dell‟amore”.8 La dialettica spirituale non riguarda l‟Io e il mondo, inteso come negazione del soggetto teoretico, ma la persona in relazione con altre persone; relazione che non è il contenuto di rapporti formali materiali, di interessi, ma di affettività, e quindi non considerabili secondo un principio politico di convivenza, ma un principio di comunione nella carità, dove l‟altro non è un negatività rispetto al potere della volontà soggettiva, ma un‟altra positività. In virtù della carità, la relazione spirituale fra gli uomini acquista un valore trascendente ogni rapporto giuridico e politico, collegandosi all‟unità divina, nella cui comunione la comunità spirituale realizza una forma di unità superiore a ogni storica socialità etico-politica, quella appunto mistica della Chiesa9 La anormalità della pretesa coscienzialistica su quella sociale è confermata dalla decisione popolare in favore di Barabba, il cui reato, a differenza di quello di Gesù, è normativizzato, per cui anche la decisione del Potere può esprimersi in merito, mentre tace sul caso a-normale del Messia, che viene accusato dal Sinedrio, cioè da una autorità relgiosa extra-statuale, la cui potestà viene tollerata ma non riconosciuta come religione di Stato. Il caso di Gesù è extra-giuridico, sul quale il Potere non può esprimersi. La sua natura religiosa non può assumere contorni politici 8
Ved. a riguardo A. Carlini, Cattolicesimo e pensiero moderno, Brescia, 1953, pag. 56. 9 L‟universalizzazione, del Lògos, così come quella della persona spirituale, sfocia in un misticismo panteistico, per cui il corpo mistico della Chiesa si allarga sino a comprendere l‟intera umanità, nella quale sfuma la stessa personalità storica di Cristo e quella dei singoli cristiani nella generale umanità.
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nel momento in cui Pilato riconosce l‟innocuità dell‟ Ecce Homo, la sua inoffensività politica. nel silenzio della legge, la decisione del Potere non può essere positivamente politica, cioè giudiziaria, ma negativamente agnostica, politicamente neutrale. Il Potere si astiene e affida il caso alla volontà del popolo, la cui unità sociale non è di carattere politico ma religioso, ed esso non decide in vece del Potere ma secondo la convenzione stabilita nel giorno di ricorrenza per la grazia. Il popolo è chiamato a decidere se il caso religioso sia prioritario rispetto al caso giudiziario, cioè politico. A delegarlo alla decisione è però il Potere politico, che demanda ad altro organo quella decisione che in proprio non ha creduto di prendere direttamente. Soltanto l‟esito di quella decisione popolare sarà infatti oggetto di esecuzione politico-giudiziaria, i cui contenuti dunque sono di altra natura rispetto a quella politica. Il Potere delegante mantiene la sua funzione esecutiva, ma senza entrare in merito alle ragioni intrinseche della scelta del delegato. Si tratta di una forma di riconoscimento della diversità della sfera religiosa da parte del Potere politico rispetto alla stessa politica, la quale può assumere – come nel caso in questione – una funzione remissiva delegando la propria competenza decisionale a un organo diverso riconosciuto come idoneo ad assumerla in considerazione della propria funzione. Il trasferimento decisionale non è pertanto di competenza, che rimane politica, ma di funzione, per cui il Potere opera uno sdoppiamento tra l‟elemento ordinamentale della competenza (non remissibile senza perdere le prerogative del Potere) e quello tecnico della funzione (delegabile in quanto soggetto alla legittimità del riconoscimento politico e alla esecutività da parte del Potere delegante). Ciò comporta che il riconoscimento, da parte del Potere, della diversità, e per essa di una determinata funzione, può rimanere circoscritto al suo elemento tecnico, che viene ad assumere quindi nella economia della decisione politica, che il Potere riserva a sé, una funzione meramente procedurale che prescinde da ogni considerazione di merito. In questi casi il riconoscimento di diversità acquista il senso politico della Tolleranza. La tolleranza politica della diversità prescinde pertanto dai suoi contenuti simbolici. Ed essa viene concessa all‟ente diverso in corrispondenza del suo riconoscimento del Potere politico. Siamo in presenza di un tipico schema concordatario, per il quale l‟organo politico si astiene dall‟esercizio della sua sovranità in considerazione di determinate fattispecie tipo logicamente previste e riconosciute. 13
La caratteristica etica della tolleranza politica è che il riconoscimento della Diversità di un corpo sociale intermedio non elimina da questo la Discriminazione tra la valutazione del caso di specie e quello generale, che viene determinata proprio a seguito del riconoscimento della suddetta Diversità. La decisione popolare a favore di Barabba stabilisce nei confronti del Potere politico romano che la grazia prevista vada accordata in relazione ai reati comuni, non a quelli religiosi, per i quali non c‟è clemenza. Ma non in quanto la loro natura venga considerata dal popolo più grave e non perciò emendabile rispetto alla gravità dei reati civili, bensì in quanto la decisione popolare non era afferente al caso religioso, specifico, di significato religioso, ma appunto a quello civile e comune, e cioè politico. In tal senso, l‟investitura da parte del Potere di una funzione di sua competenza politica, ha sempre valore politico, anche quando inerente ad altri ambiti contenutistici, in quanto la rilevanza, appunto politica, va accordata all‟esercizio della competenza, e non ai contenuti intrinseci della funzione. La funzione acquista una rilevanza politica in virtù del suo riconoscimento, e pertanto anche il suo esercizio acquista valore politico. Ciò significa che il riconoscimento da parte del Potere politico di una qualunque funzione interna a un organo sociale, acquista un valore pubblico di natura anch‟essa politica, a prescindere dai contenuti specifici di quella stessa riconosciuta funzione, per cui è la natura dell‟organo riconoscente a costituire il valore corrispettivo dell‟organo riconosciuto. Nel caso in questione, i contenuti religiosi della condanna di Gesù erano relativi al contesto religioso di cui era riconosciuta la competenza del Sinedrio, ma la condanna religiosa, nel momento in cui veniva riconosciuta dal Potere politico, diventava di carattere politico. Solo nei confronti del Sinedrio, che fomenta il rancore religioso nel popolo contro l‟Apostata, la decisione popolare si realizza come atto di significato religioso, inerente la condanna del ritenuto falso Profeta. La duplice valenza simbolica, politica e religiosa, della condanna di Gesù, le attribuisce un carattere meta-giuridico che però non viene sempre esattamente colto nella sua stretta correlazione con la sfera del Potere. Si è tentati di dire che il motivo per il procedere contro Gesù sia stato una preoccupazione politica in cui, da punti di partenza diversi, si sono incontrati l‟aristocrazia sacerdotale e i farisei; che però con questo modo di vedere in un‟ottica politica la figura e l‟operato di Gesù sia stato misconosciuto proprio ciò che in Lui era essenziale e nuovo. E di fatto: con il suo annuncio Gesù ha realizzato un distacco
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della dimensione religiosa da quella politica, un distacco che ha cambiato il mondo e che veramente appartiene all‟essenza della sua nuova via. […] Nell‟ordine fino ad allora in vigore, infatti, le due dimensioni – quella politica e quella religiosa – erano, appunto, assolutamente inseparabili l‟una dall‟altra. Non esisteva né il solo politico né il solo religioso. Il tempio, la città santa e la terra santa con il suo popolo non erano realtà puramente politiche, ma non erano neppure realtà soltanto religiose. Dove si trattava del tempio, del popolo e della Terra, erano in gioco il fondamento religioso della politica e le conseguenze religiose di essa.10
Orbene, è senza dubbio vera la commistione tra politica e religione, che è presente in ogni organismo religioso che abbia un carattere istituzionale, e che quindi è chiamato a provvedere alla sua sussistenza storico-sociale. Essa è soprattutto vera in relazione alle istituzioni statuali, soprattutto se imperiali e multiculturali come quella della Roma del tempo, e ancor più in riferimento alla condizione del tutto particolare in cui si trovava il Popolo di Dio. ma non è questo il punto qui rilevante. Ciò che infatti rileva è che il Potere di Roma riconoscesse la religione ebraica non come la religione romana ma come la religione del popolo ebraico, che era politicamente e non religiosamente soggetto all‟Impero romano. In tal caso non è in gioco la distinzione tra religione e politica, ma tra politica religiosa ebraica, ovvero tra la religione del popolo ebraico e la sua politica, e Potere di Roma. Qui ci troviamo di fronte a due indirizzi politici: uno riferibile al popolo ebraico e alla sua identità religiosa, custodita dalla casta sacerdotale del Sinedrio, preoccupata di garantire il monoteismo dell‟Antico Testamento e le proprie prerogative politicoteologiche di detentori del monopolio ermeneutico; e l‟altro riferibile al Potere imperiale, rappresentato storicamente dal governatore pro-tempore Pilato, preoccupato di salvaguardare la pax romana. Il connubio politicareligione cui si riferisce Ratzinger vale all‟interno della dimensione nazionale ebraica, ma non nei confronti di Roma, la quale “comunque rispettava i fondamenti religiosi di Israele”,11 anche cioè se non erano gli stessi fondamenti religiosi dello Stato romano. Da qui la tolleranza religiosa offerta da Roma, sia verso la religione ebraica che verso la predicazione di Gesù, ma non da Israele, la cui intolleranza religiosa fu all‟origine della discriminazione anche politica subita dal Cristo. Si comprende meglio la differenza tra la prospettiva romana e quella ebraica ponendosi dal punto di visuale della predicazione di Cristo, 10 11
J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, cit., pag. 191. Ivi, pag. 200.
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considerando perciò che quella cristiana non è una religione ma una fede. Rispetto alla fede ontologica delle cosmologie pagane, la fede nel Dio creatore importa che il dato sensibile della fede naturalistica nell‟Essere del mondo è sostituito con una verità invisibile e intangibile, non esperibile sensitivamente e perciò misteriosa. La fede in Dio, diversamente che nell‟Essere naturalistico, è fede nel suo invisibile ed insondabile Mistero, la quale sposta la valutazione della realtà mondana dal piano fenomenico a quello spirituale. Col Cristianesimo la stessa incarnazione divina acquista un significato simbolico trascendente la dimensione naturalistica e, per l‟uomo, sociologica, per cui ogni contestuale riferimento dell‟esperienza umana del Cristo a un orizzonte di valori immanentistici, quale quelli politici, finisce inevitabilmente per non cogliere il senso simbolicamente proprio all‟orizzonte fideistico, e cioè il senso escatologico. Pertanto la domanda di Pilato sulla presunta regalità di Gesù aveva un significato politico diverso da quello teologico che intendeva dargli il Sinedrio, anche se l‟acquisizione del senso giuridico era quello funzionale al procedimento legale previsto per lo stato d‟accusa e la conseguente condanna capitale, e quindi anche allo scopo che i sacerdoti ebrei si erano proposti adendo alla corte di giustizia romana in qualità di braccio secolare. I sacerdoti hanno contato su questa polisemia per far confessare a Gesù e attribuire alla sua “bestemmia” (Mt, 26, 65) religiosa una valenza politica che era l‟unica giuridicamente rilevante ai fini procedurali. Pare che la confessione di Gesù al sinedrio si sia prestata a questa “comprensione politica” del titolo di Messia,12 ]quella che poteva avere rilevanza pubblica di carattere giuridico, anche se non l‟unica. E proprio alla dislocazione del senso, da quello teologico a quello politico, va riferito l‟accenno di Gesù alla “verità” quale luogo simbolico del Suo “regno” ultra-mondano. La “verità” di Gesù coincide con l‟accezione esclusivamente teologica della sua signoria, che perciò non poteva confliggere con la dimensione politica insita nell‟accezione teocratica pre-cristiana, soprattutto, per il contesto religioso, ebraica. Il vero distacco dalla tradizione teocratica ebraica avviene proprio su questo terreno teologico di tipo a-religioso della fede in un Dio che non è degli eserciti o di popolo, ma spirituale. L‟ecce homo che sta di fronte a Pilato, 12
Ivi, pagg. 203-204. Più sfumata la interpretazione proposte da O. Cullmann e da A. Omodeo; ved. Cap. IX.
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non è “l‟essere umano come tale” di fronte alla “disumanità del potere umano, che schiaccia così l‟impotente”,13 ma quanto dell‟uomo naturale, in carne e sangue, può manipolarsi a opera del Potere, il quale non può giungere a intaccare la profondità dell‟essere spirituale in quanto non la conosce, perché gli è ignota. L‟invocazione del Golgota per il perdono divino a coloro che “non sanno quello che fanno”, trova in questa ignoranza ontologica dei pagani il senso autentico della sua pregnanza spirituale. La “grande verità, di cui aveva parlato Gesù”, a Pilato, “è rimasta inaccessibile”, essendo la sua natura ignota, perché appunto spirituale. Pilato poteva “conoscere bene” la sola “verità concreta di questo caso”, inerente alla dimensione politica. E su questo piano politico, che è quello dell‟unica “verità concreta” che ha rilevanza per Pilato, l‟unica che egli conosce ed è quindi in grado di riconoscere e giudicare, Gesù è innocente. Pilato dunque “sapeva che questo Gesù”, ossia l‟uomo politicamente conoscibile, “non era un delinquente politico e che la regalità rivendicata da Lui non costituiva alcun pericolo politico”, e pertanto, commenta il teologo, “sapeva quindi che era da prosciogliere”.14 Ma Ratzinger mostra anche qui di non cogliere il senso autentico della questione della doppia verità. Infatti, Pilato, pur giudicando Gesù giuridicamente innocente, non poteva perciò assolverlo, in quanto la questione politica includeva la questione procedurale ma non si risolveva nella sua forma legale. Era il legalismo romano a dover garantire giuridicamente la politica di Roma, per cui lo scopo del diritto era squisitamente politico, sicché la giustizia ricercata per suo tramite era anch‟essa politica, e la giustizia politica propugnata da Roma attraverso lo strumento del suo diritto era la pax romana, la pace come garanzia di dominio imperiale di Roma, in questo caso, su Israele. Questa pace, da una parte, era assicurata mediante la potenza militare di Roma. Ma con la potenza militare, da sola, non si può stabilire nessuna pace. La pace si fonda sulla giustizia. La forza di Roma era il suo sistema giuridico, l‟ordine giuridico, sul quale gli uomini potevano contare. Pilato – lo ripetiamo – conosceva la verità di cui si trattava in questo caso e sapeva quindi che cosa la giustizia richiedeva da lui.15 13 14 15
Ivi, pag. 224. Corsivo nostro. Ibidem. Ivi, pag. 225.
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La “giustizia” ricercata da Pilato attraverso il “sistema giuridico” romano, coincideva con la “pace”, che certamente non poteva essere garantita dal solo potere militare, ma bensì da una politica di pace, al cui fine veniva riconosciuta l‟autonomia religiosa del popolo militarmente sottomesso e da pacificare politicamente. La forza giuridica di Roma era dunque la stessa forza militare politicamente guidata. Sul piano dei rapporti sociali, la “verità concreta” era propriamente la superiorità del fine politico (la pax romana) su ogni altro, compreso quello religioso, inerente alla “verità”, oggetto della diatriba tra cristiani ed ebrei. La verità era, dal punto di vista di Pilato, quella di Roma; e la politica di Roma aveva stabilito che le questioni religiose venissero affrontate in sede religiosa, appunto perché non avessero rilevanza politica pubblica. La politica religiosa di Roma era di confinare le questioni teologiche nell‟ambito privato, negando loro quella rilevanza pubblica, e perciò politicamente significativa, che invece invocavano i sacerdoti ebrei al fine nella fattispecie di redimerle, non già sul piano propriamente teologico e quindi veritativo nell‟accezione di Gesù, ma appunto politicamente. La soluzione politica invocata dal Sinedrio rimetteva al Potere di Roma quella decisione religiosa di cui esso, pur essendo stato delegato dal Potere, non riusciva a venire a capo. Da qui l‟evento rivelativo della commistione perversa tra politica e religione, denunciato dal caso di Gesù, e che la sua predicazione teologica stigmatizzava. Pilato non era favorevole a Gesù, come non gli era avverso, e pertanto rimanda la delega ricusata dal Sinedrio ad altra competenza, questa volta popolare. Ciò che non intendeva espletare il Sinedrio per ossequiare le procedure legali previste per il giudizio penale, lo facesse il popolo, chiamato in ruolo vicario. E il popolo, da parte sua, ottenuta la delega, sceglie Barabba, individuando nei suoi reati il presupposto logico della grazia rituale. Una grazia che andava elargita a reati comuni, non certo a quelli di natura religiosa. Lo spostamento ulteriore di competenza procedurale, comportava un esito coerente al criterio di scelta, per cui l‟appello all‟ochlos non poteva che sortire una riposta logicamente adeguata, che con le questioni religiose circa la “verità” teologica, non avevano ovviamente niente a che vedere. Ci si appella all‟autorità religiosa per ottenere una risposta di competenza religiosa, anche se di rilevanza politica sul piano pubblico; e parimenti, ci si appella all‟autorità popolare per ottenere un verdetto relativo al livello di coscienza 18
dell‟interpellato. L‟articolazione procedurale della sentenza non inficiava la natura politica di questa, né per Pilato poteva essere altrimenti, come ammette, pur non senza titubanze, lo stesso teologo. Alla fine vinse in lui l‟interpretazione pragmatica del diritto: più importante della verità del caso è la forza pacificante del diritto, questo fu forse il suo pensiero e così si giustificò davanti a se stesso. Un‟assoluzione dell‟innocente poteva recare danno non solo a lui personalmente – il timore per questo fu certamente un motivo determinante per il suo agire -, ma poteva anche provocare ulteriori dispiaceri e disordini che, proprio nei giorni della Pasqua, erano da evitare. La pace fu in questo caso per lui più importante della giustizia. Doveva passare in seconda linea non soltanto la grande ed inaccessibile verità, ma anche quella concreta del caso: credette di adempiere in questo modo il vero senso del diritto – la sua funzione pacificatrice.16
La pace non fu “in questo caso” il criterio decisivo delle deliberazioni di Pilato, ma costituì sempre il criterio della “giustizia” romana, quello appunto politico. L‟inserzione di una predicazione così unicamente originale come quella cristiana nel panorama culturale e politico del tempo, non è stata né facilmente compresa né indolore per gli stessi testimoni della fede, a partire da Gesù, il cui martirio sacrificale è conseguenza della stessa difficoltà ermeneutica del Suo messaggio escatologico tertium tra teocrazia giudaica e totalitarismo politico romano. E proprio il rapporto conflittuale col Potere politico è all‟origine del rapporto problematico della Chiesa con lo Stato, il cui problema “non è tra quelli la cui soluzione cristiana debba essere dedotta dai princìpi dell‟Evangelo in via secondaria e in modo indiretto”, ma nasce insieme con esso e perciò va desunto dai princìpi stessi contenuti nel Vangelo, che “pone la domanda e fornisce la risposta”.17 L‟atteggiamento escatologico cristiano non è né di indifferenza verso lo Stato, ossia di accettazione passiva dei suoi valori, e neppure di radicale negazione, alla maniera gnostica, per cui nel Nuovo Testamento non si trova né “un rifiuto per principio dello Stato come tale”, né “un‟accettazione senza critica, come se lo Stato comportasse un carattere di assolutezza e definitività”.18 Questa idea del “provvisorio” è 16
Ibidem. Corsivo nostro. O. Cullmann, Dieu et Caesar, in Etudes de théologie biblique (1968), tr. it. del cap. Dio e Cesare, Roma, 1996, pagg. 9-10. 18 Ivi, pag. 11. 17
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estremamente importante per comprendere l‟atteggiamento non sempre apparentemente coerente dei cristiani verso lo Stato, all‟origine di quella Spannung escatologica che attraversa tutta la nuova alleanza, e che trova nella passione di Gesù il suo acme morale e dottrinale. Il titulus inscritto alla croce di “Re dei Giudei”, non è casuale ai fini della condanna, per quanto non possa essere veridico nell‟accezione giuridica di zelote sedizioso attribuita falsamente a Gesù, ma ne giustifica la condanna dal punto di vista formale. Occorre a questo punto chiarire quale fosse il suo senso religioso. Anche dal punto di vista dei rapporti con lo Stato, e non soltanto in riguardo del legalismo religioso, il cristianesimo determina una rottura dalla tradizione giudaica, il cui ideale teocratico è considerata da Cristo come una tentazione diabolica paragonabile a quella totalitaria romana. Se il giudaismo, quindi, viene perseguitato da Roma è proprio in conseguenza della sua teocrazia, che è un ideale assente nel cristianesimo nascente, il quale “deve combattere su due fronti: il fronte sadduceo e quello zelote”; l‟uno laicamente favorevole a Roma, l‟altro decisamente opposto a ogni collaborazione con gli invasori pagani.19 La visione teocratica, che identificava lo Stato con la comunità religiosa, era quella propria dei Farisei, nel cui seno fioriva l‟ala estrema degli Zeloti, che predicavano la guerra santa e a volte la praticavano. La reazione sanguinosa perpetrata sotto Adriano al tempo di Marcione, che produsse la fine dello Stato giudaico, va riferita appunto a una guerra religiosa antiromana, in cui Bar Koseba, capo della resistenza degli Zeloti, si fece proclamare Messia e Re politico di Israele.20 Non era illogico stabilire dunque, sia da parte giudaica che da parte romana, una reviviscenza di motivi zelotici nella predicazione di Gesù, anche in considerazione dei moti contemporanei riferiti da Giuseppe e ripresi negli Atti degli Apostoli (At 21, 38), secondo cui Gesù viene confuso con un capo egiziano degli Zeloti, ovvero, in latino, “sicarii”, cioè “uomini col coltello.21 Inoltre, va detto che Gesù aveva raccolto attorno a sé diversi galilei zeloti, come Simone, detto appunto lo Zelote o il Cananeo. Ma “Kananaios” non indica l‟origine da Canaan, ma è la trascrizione aramaica di zelote. Kana infatti equivale a “zelo”, e “zelote” sta dunque per zelante: kanana, in 19 20 21
Ivi, pag. 16. Ivi, pag. 17. Ivi, pag. 20.
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aramaico, e sicarius in latino. Un altro discepolo zelote è Giuda, detto Iscariote. Ma, anche qui, Iscariote non va inteso come “isch Kariot”, ovvero “uomo di Kariot”, ma come una trascrizione semitica di zelote. Le attese politiche di Giuda, deluse dal pacifismo di Gesù, l‟avrebbero determinato al tradimento.22 Ma, pur non ignorando i figli di Zebedeo evocati dal libro di Marco e da quello di Luca e soprannominati da Gesù come “figli del tuono” (), la figura più significativa di (potenziale) zelote è quella di Pietro, designato come “Barjona” (Mt, 16, 17), che sarebbe il termine accadico di “terrorista”: zelote, appunto.23 La reazione decisa al Getsemani alla tentazione che Gesù intuisce satanica di Pietro, allude alla possibilità di trasformare l‟opposizione morale dei cristiani in resistenza politica, che rimane latente nei discepoli e che Gesù paventa come deriva impropria e snaturante la vera predicazione escatologica. Di fronte a questa deriva ribellistica, la questione dello sciopero fiscale, di cui la narrazione del Vangelo di Marco (Mc., 12, 13 sgg.), costituisce un pretesto superficiale ed effimero di persecuzione da parte delle autorità romane. Ciò che in ogni caso rileva, è la posizione equidistante di Gesù di fronte allo Stato e agli zeloti, espressa nella ben nota consegna di “dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mc., 12, 17), che vuole indicare la via messianica alla “ futura” attraverso la storia politica dell‟uomo, e non già contro di essa, come invocato dai “falsi profeti”, che sono “lupi in veste di pecora” (Mt., 7, 15). Se Gesù avesse accondisceso alla resistenza armata ai soprusi dei Romani, il suo sangue si sarebbe mischiato a quello delle vittime politiche, come in occasione dell‟eccidio perpetrato da Pilato (Lc., 13,1). L‟allusione non può non riferirsi ai capi zeloti, che toglievano la vita che Dio aveva dato, ferendo e perendo di spada.24 Cullmann sottolinea opportunamente la differenza, non solo terminologica ma essenzialmente teologica, tra il “Messia” giudaico, inteso politicamente come “capo militare nazionale, vittorioso, che sottomette tutti i popoli pagani e regna sul mondo”, e il “Figlio dell‟uomo”, che secondo Daniele “viene dal cielo e fonda un regno che 22
Ivi, pag. 22. Ved. G.G.F. Hegel, La vita di Gesù (1795), tr. it. in Scritti teologici giovanili, Napoli, 1972, pag. 175. 23 Ivi, pagg. 23-24. 24 Ivi, pagg. 29 e 38.
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non è di questo mondo”.25 La coscienza messianica di Gesù non è orientata in senso politico, per cui la sua strategia comunicativa non doveva indurre ad equivoci soprattutto i suoi più intimi discepoli, e quando chi, come Pietro, lo apostrofava come “Messia”, Egli se ne schermiva come da una tentazione diabolica di ridurre il suo messaggio soteriologico nei termini della contingente lotta politica contro i Romani. Quando fu il sommo sacerdote a chiedergli se si considerasse il Messia giudaico, Gesù non confermò, come parrebbe dal Vangelo di Marco. La versione più corretta è riportata in Matteo, dove il “tu lo dici” attribuisce all‟enfasi della pronuncia del pronome un significato che rimanda al destinatario la infondatezza della falsa credenza, a un di presso corretta con un “al contrario () io vi dico che d‟ora in poi voi vedrete il Figlio dell‟uomo”,26 dove si chiarisce l‟intenzione impolitica di Gesù. La stessa situazione troviamo nell‟episodio con Pilato riportato da Giovanni, dove alla domanda: “sei tu il re dei Giudei?”, si trova la medesima risposta: “Sei tu che lo dici!”, che neutralizza, con la propria presunta minaccia, anche l‟accusa del Romano, rendendolo partecipe dell‟impegno di Gesù per un regno “che non è di questo mondo” (Gv., 18, 33). Ovviamente, il valore simbolico della morte di Gesù non poteva estendersi, in quel contesto, ai suoi discepoli, che perciò vengono allarmati dal Maestro a fronteggiare il pericolo della immaginabile persecuzione che sarebbe seguita alla sua cattura e al presagito martirio (Lc,.22, 35; Mt., 10, 34). A Cesare si doveva dare il soldo, il tributo d‟imposta della condizione politica di occupati, ma niente in più, e sicuramente non la personalità spirituale, che era di Dio (Mc., 12, 7). In questo atteggiamento di “dualità perfettamente coerente”, Cullmann individua “tutta la posizione di Gesù nei confronti dello Stato”, ossia, da una parte, la sua non assolutezza e conseguente resistenza a ogni sua pretesa totalitaria, e dall‟altra la desistenza da ogni forma di compromissione politica con l‟estremismo dei Maccabei o degli Zeloti.27 Ma questo atteggiamento moderato di Gesù era già una posizione politica, che aveva infine deluso sia gli Zeloti, che, giudicandolo remissivo, “lo abbandonarono e fuggirono” (Mc., 14, 50), che i Romani, i quali infine lo condannarono. Non del tutto convincente è qui la 25 26 27
Ivi, pag. 31. Ivi, pag. 35. Ivi, pag. 43.
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interpretazione proposta da Cullmann, il quale pur distinguendo giustamente una “responsabilità giuridica [che] si trova dalla parte dei Romani, non dei Giudei”, da una “responsabilità morale [che,] per contro, si trova dalla parte dei Giudei”, anche se “non di tutto il popolo” ma solo di “un gruppo particolare che aveva interesse alla sua condanna e che, in mala fede, denunciò per questa ragione Gesù ai Romani come zelote”,28 non rileva che la portata immensa della predicazione di Gesù verteva, non sulla distinzione tra religione e politica, già consapevolmente concepita dalla logica politicistica romana, che finalizzava la prima alla seconda, ma sulla diversità tra l‟universo di senso politico e quello religioso; diversità che, dal punto di visuale in cui si poneva la posizione di Gesù, implicava una revisione della religione, a partire dal suo linguaggio, e non della politica; da qui la “innocenza” della Sua predicazione di fronte alla logica del Potere romano rappresentato da Pilato, ma altresì l‟origine dell‟incomprensione dei contenuti della Sua predicazione, il cui valore simbolico si prestava a opposte esegesi emotive. In tal senso, la minaccia che Gesù poteva costituire era nei confronti dei custodi della tradizione religiosa, non certo da quelli del Potere politico. E non a caso, polemizzando con l‟intelligentzja farisea, è contro l‟élite sacerdotale che Gesù punta il suo dito accusatore. Sull‟argomento si è soffermato a suo tempo Florenskij in una delle sue lezioni tenute nel 1921 all‟Accademia teologica di Mosca, dove ricorda che “i farisei rappresentavano la parte migliore della società giudaica, i più intelligenti e devoti agli interessi dell‟istruzione”, costituendo anche in campo religioso un “modello di rettitudine”, per cui “essi avrebbero voluto trarre dalle leggi conclusioni tali da regolare la vita intera”.29 La lotta di Gesù contro il fariseismo nasceva dall‟ “urto di due rettitudini: la legge del fare e la legge della Grazia divina”, 30 che denunciava come idolatrico l‟ossequio puramente formale ai Comandamenti, per cui, senza il “soffio della Forza divina […]ogni regola morale e tutto il loro insieme acquisiscono valore in sé, in virtù e a causa del fatto che proprio io li ho riconosciuti tali”, sicché “l‟uomo dalla via del culto di Dio si sposta sulla via dell‟idolatria, del culto di sé stesso”, che gli impedisce di riconoscere Dio stesso quando gli appare. Da qui nasce l‟odio verso Cristo da parte 28
Ivi, pag. 50. P. A. Florenskij, Orientarsi in Cristo (4/17 nov. 1921), tr. it. in La concezione cristiana del mondo, Bologna, 2011, pag. 161. 30 Ivi, pag. 162. 29
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dei farisei idolatri, i quali, “accecati dalle immagini degli idoli, non Lo compresero, e Lo odiarono in quanto distruttore del loro regno di lustrini”.31 Il giuridicismo religioso, come ossequio formale alle leggi divine, costituendosi come autonomo criterio di giudizio morale, al di là di ogni autentica ispirazione di fede, si faceva interprete di una sua politica che era patrocinata dal ceto dirigente ecclesiastico, appunto dai farisei, i quali, all‟interno dell‟orizzonte religioso, agivano come una autentica classe politica. La politica farisaica aveva come suo oggetto la nazione ebraica, e come interlocutore istituzionale la politica di Roma, rappresentata dal governatore Pilato. Questi, in virtù del suo mandato imperiale, agiva in funzione di Governo, e non rappresentava una delle possibili istanze politiche della società locale su cui quel governo veniva esercitato. Infatti, ciò che pertiene propriamente al Governo, e che lo contraddistingue dalla semplice petizione politica, è il suo potere decisorio in merito alla liceità delle istanze politiche in conflitto, per cui è esso a stabilirne la rilevanza pubblica. Nel nostro caso, lo scontro religioso interno alla comunità israelita, portato all‟attenzione del Potere pubblico romano, acquistava di conseguenza una rilevanza politica, tale che le due vertenze, anche se inerenti posizioni teologiche, divenute per volontà del Sinedrio di rilevanza pubblica, richiedevano una soluzione politica, demandata al Potere rappresentato dal governatore romano. E infatti solo un Governo ha il potere di derimere opposte vertenze politiche, ognuna provvista di una intrinseca legittimità razionale di natura, nel nostro caso, teologica. E inoltre, tra le due, soltanto una, quella farisea, ha un rilievo propriamente religioso, inerente cioè ai destini politici del popolo d‟Israele, di cui la casta sacerdotale si poneva come rappresentante e palladio. L‟altra posizione, quella di Gesù, che Suo malgrado aveva acquistato una contingente rilevanza politica, non aveva in alcun modo alcuna implicazione propriamente religiosa, dal momento che essa intendeva costituirsi come fondativa di una dimensione di fede esclusivamente spirituale, e pertanto non implicante alcuna politica nazionale, interna a Israele, né tampoco imperiale, nei confronti del Potere di Roma. Il senso della diversità della posizione cristiana, rispetto a quella politicistica romana e a quella religiosa farisea, era indicata da Gesù simbolicamente come una “regalità”, che però era relativa a una 31
Ivi, pagg. 163-164.
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signoria la cui dimensione di senso era puramente teologica e veritativa. Era questa dimensione originale la “verità” professata da Gesù, e che non venne, né poteva essere, intesa da Pilato e dai farisei. Il caso di Gesù è a riguardo ancora più significativo di quello che aveva coinvolto a suo tempo e luogo Socrate, poiché l‟idealismo socratico, per sua natura politico, implicava inevitabilmente quella ricaduta pubblica del suo filosofare che invece la predicazione di Gesù ebbe in conseguenza del nesso politico-religioso costitutivo della fede nazionale ebraica, ma che il Cristianesimo, per statuto teologico, non aveva in sé. Questa diversità cristiana, troverà non a caso nel giuridicismo politico romano, e non in quello religioso ebraico, la sua struttura mondana di espansione universale trans-nazionale. La vicenda di Gesù, come martirio del Cristo, è significativa anche per un altro verso, relativo alla rappresentatività sociale di una posizione teologica originale che storicamente assume la definizione formale di evento la cui significatività pubblica dipende dalla sua sussumibilità entro le categorie culturali dominanti, riconosciute dal Potere. La frattura teologica rappresentata da Gesù entro la tradizione religiosa ebraica, al di là delle congetture eversive del Reimarus, secondo il quale “lo scopo del vero Gesù era stato di tipo politico, precisamente la liberazione dalla dominazione romana e la restaurazione del regno di Israele, mentre lo scopo dei discepoli era di tipo religioso, rimedio inevitabile al fallimento politico del maestro”, 32 consisteva nella trascrizione dell‟antica fede giudaica nel “Dio della storia”, interpretato secondo la categoria della assoluta Giustizia, nei termini dlla novella fede nel Dio coma “Padre di misericordia”, interpretato secondo la categoria del sommo Bene. 33 La polemica condotta da Gesù verso i sacerdoti e i farisei del tempo, che “tenevano il popolo in loro potere e ne uccidevano l‟anima”, secondo le parole di Harnack, 34 era conseguente alla sua dottrina teologica di separatezza ontologica della dimensione spirituale eterna da quella politico-sociale storica. Che la questione assumesse, entro l‟orizzonte di senso religioso del tempo, una rilevanza oggettivamente politica, è pacifica altrettanto quanto la appartenenza della 32
V. Mancuso, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Milano, 2011, pag. 284. Ved. J. Klausner, Jesus of Nazareth. His Life, Times and Teaching (1922), New York, 19129, pag. 379; cit. da V. Mancuso, Op. cit., pag. 294. 34 34. A. von Harnack, L’essenza del cristianesimo (1900), cit. da V. Mancuso, Op. cit., pag. 292. 33
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figura di Gesù al contesto religioso ebraico. Ciò che rileva, infatti, non è l‟aspetto contestuale tradizionale – evidentemente né romano né di altra ascendenza culturale e religiosa -, ma l‟aspetto eversivo della tradizione nella quale pur era inscritto l‟evento cristiano. E‟ certo che la diversa articolazione teologica della fede cristiana non poteva non avere conseguenze sul piano pratico. Ma, ciò considerato, l‟aspetto problematico della posizione cristiana non si esauriva, diversamente da come ritenevano i farisei, sul piano politico della religione com‟era intesa dai rabbini. In altri termini, la critica politica alla religione della Torà derivava dalla posizione impolitica di Gesù, la cui teologia si proponeva di liberare la fede dalla dimensione sociologica, e quindi dalla sua inevitabile commistione politica. Tale liberazione della fede dalla religione, avrebbe consentito di dislocare i termini della potenza divina dalla rappresentazione politica alla dimensione spirituale, l‟unica nella quale il potere di Roma, che aveva sottomesso Israele, non avrebbe potuto dominare. Dal punto di vista religioso tradizionale, gli dèi di Roma avevano sconfitto il Dio della nazione ebraica, non potendo competere la generosità alla causa giudaica con la forza imperiale romana. Non era quello politico il piano della possibile supremazia ebraica, ma quello appunto spirituale, sul quale occorreva dunque spostare la fede, non solo della nazione giudaica, ma di tutte le nazioni terrene sottoposte all‟imperio di Roma. Il dato eversivo che sfuggiva, per la sua precocità politica, al governatore Pilato, divenne oggetto di riflessione storica da parte della cultura romana della decadenza, alla quale rispose, com‟è noto, Agostino con la sua Civitas Dei per ribadire il carattere impolitico del messaggio cristiano. Ma se queste erano le intenzioni di Gesù, perché, allora, il Cristianesimo assunse, sin dalle origini, un carattere oggettivamente politico? La risposta è implicata dalla stessa domanda di liberazione spirituale avanzata sull’uomo nella sua dimensione esistenziale, inclusiva della esperienza socio-politica. Il nuovo senso escatologico della fede cristiana, non poteva che esplicarsi a partire dalla dimensione immanentistica dell‟esistenza umana tradizionale, di tipo religioso, per cui solo negando questa dimensione religiosa si sarebbe potuto liberare il potere spirituale dell‟uomo, annichilito dalla considerazione esclusivamente politica della sua esistenza terrena. In questa concezione immanentistica, concorreva sia il pensiero pagano che quello giudaico, divisi sui contenuti della loro 26
rispettiva religiosità, ma non sulla sua essenza politica. Ora, esattamente questa concezione veniva contestata dalla predicazione di Gesù, il quale intendeva bensì liberare il popolo israelita dalla soggezione al potere di Roma, ma non attraverso lo strumento politico, omogeneo a quello romano e infinitamente a esso inferiore, ma attraverso lo strumento impolitico della desistenza spirituale, la quale avrebbe offerto una resistenza al potere di Roma che, per il suo carattere insensibile e intimistico, sarebbe risultata insuperabile con gli strumenti di offesa tradizionali. Era dunque la fede a poter muovere le montagne, e non la forza politica degli uomini. Soltanto sul piano della fede la debolezza politica avrebbe potuto trovare un suo invincibile riscatto spirituale. E poiché la dimensione spirituale si sarebbe imposta su quella naturalistica dell‟uomo biologico, la forza dello spirito avrebbe avuto la meglio su ogni possibile forza fisica, di tipo politico o militare. Gesù sceglie il terreno meta-politico per ridimensionare la forza politica soverchiante, e su quel terreno Egli vince la Potenza di Roma, la quale annienta la Sua fisicità infierendo sull‟elemento corporeo dell‟uomo, ma senza poter incidere sull‟elemento spirituale, che essa neppure vede e di cui quindi ignora la potenza. Di fronte all‟appello che Gesù fa alla verità, quale regno altro da quello politico di Cesare, Pilato vagola, perde la sua determinatezza imperiale, delega ad altri la decifrazione di ciò che le sue categorie politologiche non riescono a tradurre in senso razionale, e arretra nel dubbio di fronte alla fede inconcussa dell‟ecce Homo. Pilato non pare sospettare che quell‟Uomo, deturpato dalla potenza fisica di Roma, non era tutto l‟uomo creato da Dio, ma soltanto quello che di lui Roma avrebbe potuto dominare: la sua carne e il suo sangue, che Gesù versò in ragione dell‟altra parte di Sé, custodita nella fede invisibile nel Dio Padre, spiritualmente onnipotente ma politicamente così distante e inappellabile. Con la flagellazione dell‟uomo finito, dell‟uomo sociale della storia politica del mondo, viene a maturazione l‟essenza ontologica dell‟Uomo eterno, che risorge dalla morte delle carni per inaugurare una nuova rappresentazione dell‟esistenza umana, non più ripiegata sui valori immanentistici della sua dimensione sociale, ma spiegata invece all‟infinito potere spirituale che unisce la creatura terrena al suo celeste Creatore, partecipando della Sua eternità, non già nel luogo della tensione polemica, la città, ma nel luogo della verità, ossia in interiore homine. Il nous greco, circoscritto a riflettere idealmente il senso della 27
fenomenologia storica del zoòn politikòn, dell‟homo politicus, viene soppiantato dallo Spirito cristiano, in grado di cogliere l‟eterno, non relativo al fenomeno apparente dell‟ente naturale, controllata ma non creata dal potere di Cesare, ma dell‟eternità della realtà veramente infinita, soggetta alla maestà creatrice di Dio. All‟interno dell‟universo ontologico spiritualistico, il potere di Cesare è niente, ben più di quanto lo sia la forza fisica del singolo cittadino, o a quella politica di una nazione particolare, di fronte alla forza giuridica dell‟istituzione imperiale. Ed è sulla consapevolezza di quel niente che va misurata la forza spirituale della fede, su cui edificare la roccaforte della Chiesa cristiana. La duplicità del responso dell‟ochlos, proceduralmente inscritto nel senso giuridico, e politicamente valevole in senso religioso, nasceva dalla distinzione classica tra religione nazionale o politica, e religione extranazionale e indifferente allo Stato politico. La religione giudaica non era quella romana, e poteva avere una vigenza localizzata alla nazione ebraica, entro la quale era circoscritta quando non interferiva con la politica di Roma. Ma questa divisione di competenze tra sovranità politica e autorità religiosa era possibile in quanto presumeva comunque la priorità dell‟ordine politico su quello religioso, il quale, nel caso di specie, era funzionale allo stesso ordine romano, e perciò tollerato. Diverso è il caso del Cristianesimo. Infatti la proiezione universale della fede cristiana superava il nazionalismo religioso introducendo una distinzione tra religione e politica di tipo non più spaziale e topico ma di “regni” ontologicamente differenti, e quindi di conseguenza essa riprovava lo status quo della società religiosa giudaica salvaguardato dal ceto egemone sacerdotale. Il “regno dei cieli” era il diverso rispetto al Potere terreno dei sovrani politici. Era di un altro genere, non concorrente sul piano politico della potenza militare fra Stati, e perciò non assimilabile a una religione di Stato, ma inerente a una sfera di esistenza parallela a quella meramente sociale. La concorrenza dei due piani esistenziali perdeva col Cristianesimo il carattere politico, che si trasferì in altre forme ideologiche nel contenzioso metafisico sulla priorità della coscienza sulla politica, il quale doveva comunque presumere una omogeneità di senso comune, offerta storicamente dalla Cristianità quale società neo-imperiale cristiana. Infatti, dopo la conversione dell‟Impero alla fede cristiana come religione romana, il problema della concorrenza non sussisteva più, essendo la stessa potestà politica di origine divina, cioè legittimata dalla religione di Stato. In questo caso, l‟universalismo 28
religioso si abbinava all‟universalismo politico, senza di principio identificarsi, per cui, dopo la caduta dell‟Impero occidentale e la frantumazione politica dello Stato in tanto Stati nazionali, la religione cristiana cattolica continuò a concepirsi e ad essere di fatto la religione della Cristianità morale, la cui unità di fede trascendeva le divisioni politiche nazionali. Il primato della coscienza religiosa si manifestava dunque come primato morale, unitivo dei cristiani, sulla logica politica, divisiva fra i gruppi nazionali cristiani, non già come primato ontologico del trascendente sull‟immanente. Nel primo caso, il carattere metafisico della questione rispecchiava sul piano logico quello che era il carattere politico sul piano sociologico: una questione di Potere, che dal piano teologico si rispecchiava specularmente su quello ideologico, senza trascendere il piano esistenziale della socialità, quello cioè che Gesù aveva inteso non considerare come assoluto. La concorrenza dello spirituale col materiale non poteva ridursi al contenzioso di un conflitto religioso, risolvibile con lo strumento tradizionale della guerra, che avrebbe sancito, con la vittoria di una parte, anche la questione della priorità della sua sovranità morale sull‟altra parte concorrente, ma la sua soluzione si sarebbe ottenuta soltanto con la conversione di una alle ragioni di fede dell‟altra, la quale avrebbe costituito l‟unico e unitario orizzonte di fede comune. Ma la costituzione di una parte come Tutto avrebbe comportato, in conformità di questa logica assimilatrice, la fine dell‟Impero politico e la sua confluenza nella Chiesa cristiana. In pratica, il sacerdozio universale, propugnato da ogni riforma escatologica infra-mondana, di segno religioso o politico. Ma era questo il senso della predicazione cristiana circa l‟esistenza storica dei due regni umani, quello di Cesare e quello di Dio? Sono essi ugualmente umani e ugualmente storici? O non richiamano simbolicamente piuttosto una irriducibile differenza ontologica tra l‟Unità spirituale e il Molteplice naturale? In altri termini, la predicazione di Gesù non intendeva portare alla coscienza dell‟uomo che l‟unità universale non era conseguibile sul piano politico, come si era prodigata fino ad allora l‟umanità pagana con la fondazione dei vari imperi multinazionai, ma solo su quello spirituale, per cui era inutile combattere Roma sul terreno della politica, di per sé divisivo anche religiosamente? A noi pare che questa fosse e resti la questione essenziale del Cristianesimo nella cultura umana.
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Il conflitto tra trascendenza morale e socialità politica che aveva attraversato la Cristianità nell‟età di mezzo, si è riaperto nella modernità con la secolarizzazione, allorquando la distinzione che rimaneva solo di principio tra le due sfere ideo-logiche dell‟uomo consegnò alla politica scientifica il campo mondano, che, in virtù dell‟emancipazione teoretica dalla fede, divenne quello sovranamente assoluto, superiorem non recognoscentem. Le due dimensioni socio-culturali tendevano ad affermare ognuna la superiorità politica sull‟altra, perseguita con gli strumenti giuridici tipici della civiltà del diritto romana, che presupponevano la costituzione della Chiesa come una istituzione politica concorrente a quella statuale laica, che si batteva mondanamente, sia pure come Stato religioso, con gli strumenti politici secolari, dei quali quindi adottava la relativa logica. Se la forma temporale della Chiesa, istituzionalizzando il conflitto della sovranità, ne ha consentito una soluzione giuridica, dislocando sul piano dei rapporti politici la diatriba metafisica tra ente ed essenza, tra fenomeni e valori, ha pure riportato sul terreno religioso quanto Gesù aveva cercato di evitare rispondendo a Pilato a proposito del regno della “verità” come quello di un “altro mondo”, e mantenendo perciò aperto il conflitto sul piano dell‟esistenza di ogni uomo in quanto essere sia naturale che spirituale, e pertanto affermando come irresolubile il conflitto sul piano politico, perché di natura non socio-logica o teo-logica, ma onto-logica. La risposta di Gesù mette in crisi la potenza politica di Roma in quanto non consente al Potere rappresentato da Pilato di “decidere” in merito alla vertenza teologica, e quindi di affermare la sua universale autorità politica. Il Potere, afferma in altri termini Gesù, non può giudicarmi in quanto il conflitto non è derimibile sul piano di diritto, e quindi politico, ma solo sul piano della fede, ossia su quello della “verità”. Nell‟atteggiamento di Pilato, di non offrire risposte di fede, ammettendo quindi implicitamente la possibilità che la “verità” professata da Gesù sia quella “giusta”, il Potere di Roma dimostra di non possederne una, limitandosi ad affermare come propria “verità” la sola statuizione di fatto, derivata dalla sua potenza politico-militare. Ora, questa indifferente indeterminatezza verso le questioni trascendenti la ragione politica, è l‟atteggiamento proprio della scienza della politica, il cui orizzonte di senso sociologico è del tutto immanentistico. La forza del Potere di Roma è dunque esclusivamente di “questo mondo”, senza alcun fondamento di
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verità meta-fisica, e perciò esso è del tutto impotente sull‟altro piano, quello trascendente su cui si pone Gesù. Lo stesso appello all‟ochlos in funzione di “opinione pubblica” attesta l‟agnosticismo religioso del Potere, che sospende la sovranità nella indecisione, consegnando il piano veritativo su cui non ha opinione, alla dimensione politica della religione, ossia al giudizio contingente ed emotivo, proceduralmente neutro e politicamente indolore, che rappresenta il “male minore”, sul cui concetto si impantanerà il principio della “doppia verità” cattolica, nata appunto dal compromesso pratico tra i due Regni, reso possibile dalla circostanza che l‟Impero romano diventasse, con Costantino, l‟universum cristiano, nel quale coincidevano teocraticamente universalità politica e universalismo religioso, il quale entrerà in crisi con la Riforma protestante, che rivendicherà la sola fides contro il millenario connubio etico-politico cattolico. La messa in discussione del secolarismo cattolico-romano in età moderna da parte di settori cristiani puristi o riformati, interrompe la tregua metafisica segnata dal “compromesso etico-politico”, e apre anche sul versante filosofico la questione del rapporto tra fides et ratio, che segnerà l‟inizio del razionalismo umanistico, la sola ratio corrispettiva alla sola fides luterana. 2. La morte di Gesù segna l‟impossibilità della convivenza storica di “due” verità in conflitto, e la preminenza della verità politica nel regno di Cesare. La tregua compromissoria snatura il confitto neutralizzandolo e facendo della “pace” politica, cioè dell‟ “ordine”, il “male minore” della religione, ossia il “bene” della Chiesa. Introducendo il concetto di “male minore”, si avalla moralmente il compromesso etico-politico col Potere mondano, trasformandolo in “bene”, ossia acquisendo in campo religioso la prospettiva della finalità politica, che è appunto la “pace”. Ma il “male” non può essere “minore” se non rispetto a uno “maggiore”. Ora, il “male” per la fede politica è l‟infedeltà ai doveri civili, mentre per la fede religiosa è la miscredenza. In senso religioso, il “male minore” è una politica economica, cioè l‟uso della forza priva di indirizzo morale ma non contraria alla fede. E quest‟ultimo è il caso di Pilato. Il “male” maggiore per il Potere è il disordine, l‟anarchia, la guerra civile, ossia quanto rappresentato dal messaggio cristiano nei confronti dell‟ordine religioso costituito in Giudea. Da qui l‟avversione reciproca 31
tra Gesù e i farisei, custodi di quell‟ordine religioso, i quali interpretano la predicazione cristiana in un senso politico diverso da quello romano. Per Pilato, la minaccia politica era costituita dal disordine civile, e non da quello religioso, sicché la dimensione politica interna all‟unità religiosa ebraica restava indifferente al Potere romano finquando non ne comprometteva la pace. Nel momento in cui la sovranità di Cesare non viene messa in discussione da una sovranità ultra-terrena, il riferimento a un altro regno acquistava un valore precipuamente religioso che non afferiva al senso politico della questione del Potere romano. Politico, in senso romano, era infatti l‟ordine civile, mentre per i farisei si trattava dell‟ordine religioso. L‟implicanza politica nell‟ordine religioso era dunque ciò che Gesù contestava al concetto d‟ordine farisaico, alla religione intesa come vincolo sociale nazionale, e non appunto di sola fede in Dio. In questo senso, si può dire che la protesta di Gesù verso l‟idolatria farisaica – consistente appunto nella riduzione della fede in religione – rappresenti il modello teologico del Protestantesimo storico e di ogni riforma cristiana del mondo religioso. Questo scivolamento della fede nel religioso, anche da parte del Cristianesimo storico, è dovuto alla commistione del principio di socialità, che è principio politico, con il fine della salvezza dell‟anima, che è motivo spirituale e perciò personalistico. Quando il motivo spirituale viene frammisto al principio politico, la fede diventa religione, e da legame teo-logico diventa legame socio-logico, come appunto quello che caratterizza lo zelotismo e per esso il nazionalismo religioso ebraico. Il “dare a Cesare” acquista certamente il significato di riconoscerne l‟autorità civile, ma anche e soprattutto quello di preservare la verità di fede da ogni ingerenza politica, e quindi di segnare il limite invalicabile al Potere. La distinzione cristiana tra Cesare e Dio sposta i termini della “pace” dalla semantica politica, nella quale periste l‟accezione religiosa, alla semantica teologica, per cui essa si realizza solo quando viene meno la pretesa di Cesare di essere Dio, e non già quando il Potere intende estendersi anche nel regno della fede, riducendola a religione, cioè a funzione della pace politica. Se tale pretesa assolutistica viene avanzata dal Potere, sia pure quello di Roma, anche il cittadino romano è tenuto a negarla a favore della “vera” fede, ossia di quella “verità” che Gesù deteneva, rientrando nella sua sovranità, e che Pilato ignorava. Il riconoscimento del Potere di Cesare pare portarlo su un piano paritetico a quello di Dio, ma in realtà è il contrario, in quanto stabilisce alle 32
rivendicazioni di Cesare, e quindi alle sue prerogative religiose, un limite invalicabile, costituito dal primato spirituale della fede nel suo ambito (“regno”) valoriale. Che non è quello sociale, soggetto alla logica politica, ma quello personale. La prospettiva personalistica decostruisce l‟universo di senso politico a partire dal suo fondamento sociologico, dal suo originario principio di socialità politica, fondata su un‟ontologia naturalistica, che la religiosità giudaica aveva acquisito in conseguenza del suo carattere etnico-nazionalistico, dal quale il Cristianesimo intende emanciparsi radicalmente. Simbolicamente questa condizione viene rappresentata dalla richiesta avanzata da Gesù agli apostoli di seguirlo solo dopo aver abbandonato le loro famiglie, ossia dopo aver reciso il legame naturalistico con le proprie origini tribali. Gesù, stabilendo la differenza con il regno di Cesare, non intende affermare una condizione paritetica tra i due “regni” mondano e celeste. Egli invece sposta il terreno del conflitto da quello civile a quello religioso. In senso religioso, la “pace” sociale non costituisce quel valore che gli attribuisce il suo senso politico, da preservare a ogni costo – come vorrebbe Ricoeur -, né tantomeno costituisce il valore finale, come vorrebbe d‟Ors. Il valore cristiano della “pace” è relativo al rapporto che la coscienza personale stabilisce in interiore homine con la “verità” della fede. La “pace” in senso cristiano è l‟acquisizione della “verità” come valore esistenziale, primario rispetto a ogni valore mondano-sociale. Ed è il primato della esistenza nella verità sulla vita politica a portare il fedele alla sconfessione di ogni idolatria sociologica, compresa l‟unità nazionale israelita, che diventa agli occhi di Gesù un inaccettabile idolum tribus. Il Cristianesimo delle origini, non riconoscendo gli dèi pagani, custodi metafisici dell‟ordine politico, contesta indirettamente quest‟ordine politicamente costituito, contestando la sua legittimità sul piano veritativo. Tutta la dissacrante disamina condotta da Agostino nella Civitas Dei 35 contro le assurde superstizioni della religione romana, è tesa appunto a screditarne indirettamente la pretesa di poter costituire il fondamento spirituale del potere di Roma, e quindi la ragione della sua potenza imperiale. Attraverso la critica razionale ai fondamenti religiosi romani, il Cristianesimo, analogamente alla filosofia in Grecia nel suo contesto culturale, intraprende un processo di rielaborazione della
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Ved. soprattutto il Lib. IV.
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mitologia romana che coincide con un‟opera di razionalizzazione della cultura occidentale nel senso del sapere filosofico greco. La fine del mondo antico, nella prospettiva cristiana, coincide con la crisi del suo sistema religioso; con la crisi, cioè, del connubio tra fede e politica, che i teologi cristiani intendono sostituire con un‟organica relazione tra fede e ragione, in direzione, non già della antica “pace” politica, ma dell‟éskaton cristiano. Solo all‟interno di un mondo cristianizzato, e quindi razionalizzato i senso filosofico, il cosmo politico acquista anch‟esso un valore funzionale alle ragioni della fede. ma perché si giunga al mundus cristiano, bisogna convertire i cuori degli uomini con lo strumento della ragione, trasvalutando il senso della vita sociale in direzione appunto dell‟éskaton liberatore. Da qui l‟opera missionaria degli apostoli della fede, consistente nel convertire in “sacro” il mondo “profano”. Il fine dell‟apostolato non di convivere in “pace” col mondo “profano”, ma di convertirlo in mondo “sacro”, e quindi di destrutturare per fede ma con gli strumenti della ragione ogni realtà “profana” costituita, che non sia cioè cristianamente fondata. Queste sono le radici teologiche dell‟universalismo cattolico e del suo imperialismo missionario, paradigma dell‟universalismo razionalistico dell‟Illuminismo moderno, democratico e socialista. L‟apostolato cristiano, per il suo carattere oggettivamente acosmico e polemico verso il mondo profano, presenta uno sfondo gnostico, originato dalla stessa spiritualizzazione del processo coscienziale, che volge entro il soggetto personale la tensione escatologica trascendente, nel senso dell‟immanenza storica dell‟esperienza della fede praticamente vissuta.36 L‟elemento sensibile di questa operazione fideistica, è l‟uso bivalente della ragione, per un verso tesa a giustificare la fede escatologica, e per l‟altro a confutare il sistema cosmico pagano. Da un lato, quello interno all‟universo di senso cristiano, la ratio è ancilla fidei, ermeneutica della tradizione (propria); per altro lato, nei confronti delle cosmologie religiose concorrenti, la ratio è tékne logiké, ermeneutica contro la tradizione (altrui), cioè “filosofia” in senso della logica dialettica. In un contesto di ragion logica, il deuteragonista dialettico rappresenta ciò che è il nemico nel contesto socio-politico, ossia il diverso, l‟altro. Infatti, la tradizione propria è la fede che si nega alla tradizione altrui, chiamando “verità” la propria fede ed “errore” la fede altrui. 36
Ved. H. Jonas, The gnostic religion (1953), tr. it., Torino, 1973, pag. 182.
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La funzione filosofica della ragione e quella politica si incrociano sul piano dell‟uso strumentale e tecnico del lògos, il quale, servendo, per così dire, due padroni, li mette in comunione d‟interesse, che è quello per entrambi di eliminare l‟altro-da-sé. A questo punto è chiaro che la polemica, condotta in nome della “verità”, sia dai filosofi contro i sofisti, che dai cristiani contro la sapienza pagana, ha una implicita, e cioè indiretta, valenza politica, conferitale dall‟uso strumentale della ragione come logica affermativa del sé ed esclusiva dell’altro. Una ragione dialettica, che afferma e nel contempo nega la realtà, è una ragione politica. Pertanto, nel momento in cui la fede si serve della ragione umana per giustificarsi agli occhi degli uomini, essa diventa religione, ossia ratio mundi; la ragione per cui il mondo sussista, una ragione immanentistica, sociologica, confermativa di ciò-che-è. Una ragione, dunque, ontica, la cui versatilità tecnica è motivo di contenzioso politico tra diverse destinazioni finali reciprocamente concorrenti. Sappiamo che l‟essenza del fondamento del pensiero greco è che l‟Essere sia un‟Idea. Il lògos idealistico della metafisica greca viene acquisito dalla teologia cristiana sia per giustificare la fede ontologica in Dio creatore del mondo, che per confutare la mitologia della civiltà pagana. Ma la natura simbolica della ragione mitologica è incompatibile con la natura dialettica della logica filosofica, per cui la ratio ascritta nell‟orizzonte di fede teologica come ancilla fidei, sviluppando la sua tensione idealistica insita nel suo universalismo, ha finito per oggettivare il suo stesso fondamento ontologico, non riconoscendolo come quello proprio e originario, e attraverso un processo di anamnesi metafisica, in cui viene rielaborato la cosmologia cristiana in chiave de-mitizzante, l‟ha infine trovato nel senso greco dell‟Essere, un senso essenzialmente naturalistico. Il razionalismo moderno, assumendo la stessa verità di fede cristiana come il proprio Mito ontologicamente fondativo, ne critica l‟impianto metafisico, eliminando lo stesso postulato veritativo, sostituito con un assunto ipotetico di conoscenza, il cui consapevole carattere probabilistico viene corretto dallo stesso processo sistematico aperto alla verifica empirica. Alla fine della metafisica greca, solo temporaneamente occultata dalla teologia cristiana, ritroviamo pertanto la sua negazione dialettica, determinata dal lògos, ossia la dòxa, contro la quale si era affermato il principio veritativo della filosofia. Il principio negativo 35
rispetto a quello positivamente affermato dalla logica dialettica, e attraverso di essa anche dal pensiero cristiano, è la credenza sociologica, quella “opinione pubblica” religiosamente orientata che la politica si era ingegnata a governare ai fini della “pace” sociale. Il compromesso religioso che il cattolicesimo aveva stabilito con l‟universalismo politico, il cristianesimo riformato ha stabilito con l‟universalismo razionalistico, portando sul piano teorico quanto il veterocristianesimo aveva mantenuto sul piano pratico. Ma, per il rovesciamento dialettico che sappiamo, se l‟accordo religioso tra trono e altare provocò la remissione delle ragioni della fede alla logica politica, provocando la reazione fideistica protestante, il moderno accordo tra fede e scienza ha provocato la completa secolarizzazione dell‟universo di senso cristiano, la cui ratio scientistica ha assunto un valore autofondativo del tutto emancipato, non solo dal fondamento teologico cristiano, ma dall‟idea stessa di verità, che ha finito per essere idoleggiato come valore assoluto, di fede appunto, anche se negativa. Tale principio negativo non-veritativo ha il valore di una credenza religiosa, senza averne i caratteri simbolici, soppressi dal processo di razionalizzazione condotto dalla esclusiva logica dialettica. L‟ipotesi che la Ragione sia valida in sé, etsi Deus non daretur, è ben più che un‟eresia religiosa, e va ben oltre l‟infrazione semantica di una “bestemmia” teologica; è invece il segno della totale eclissi del sacro, perpetrato filosoficamente dallo stesso Cristianesimo storico, il contraddittorio portato ateistico della religiosità della sua teologia logico-politica, di cui la moderna scristianizzazione della cultura è l‟esito scientifico. La ragione di questi esiti contraddittorii è semplice quanto essenziale: non si può costituire una comunità di fede che sia anche sociale senza condividere la logica politica della socialità, che impone che la ragione della fede sia la stessa ragione sociale, ossia una ragione religiosa. La fede “della coscienza” non può convivere con la fede sociale, se non è la stessa fede. In tal caso, la fede coscienziale è opposta a quella sociale, ma non contraria, per cui l‟una deve perdere sé per riconoscersi specularmente nell‟altra. La doppia cittadinanza spirituale è una condizione provvisoria, che, nella logica religiosa, deve essere superata, in vista della universale pacificazione in cui Stato e Chiesa coincidano, ma che nella prospettiva cristiana deve costituire lo scandalo dell‟esistenza umana.
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Nella costruzione del suo mundus, il cristiano cattolico ha confinato la redenzione alla fine dei tempi, mentre il cristiano riformato ha rimosso la questione irenica collettiva, identificando la presenza sensibile della grazia con la sua testimonianza di fede, ossia con quel benessere privato che è il risvolto economico di quello che è il bene pubblico garantito dalla politica. In entrambi i casi, il personale afflato fideistico, nel rapporto con la realtà mondana della socialità storica politicamente strutturata, sviluppa una sintesi religiosa che, destinando il differimento della salvezza del mondo alla volontà provvidenziale, ha riabilitato, entro il tempo dell‟attesa escatologica, le forme istituzionali di quella socialità politica, prodigandosi nella direzione di un loro adattamento alle riconosciute esigenze della testimonianza di fede dei credenti e dei gruppi etici che li rappresentano, le chiese. In questa attesa dai tempi indefiniti, la “verità” del messaggio evangelico è divenuto anch‟essa un‟attesa di verità, che nelle more dell‟avvento risolutore ha lasciato agli affari mondani il sentimento di partecipazione ai destini del creato. In altri termini, proprio perché la metanoia spirituale doveva intervenire in interiore homine, lasciando impregiudicati i rapporti sociali tradizionalmente lasciati alla cura di Cesare, la parusìa universale doveva presupporre l‟universalità della fede cristiana, senza la quale il mondo profano resta ancora una realtà impura da convertire. Ma poiché il mondo sociale, come ordinamento politico, non è una persona collettiva, dotata di un’anima intellettiva propria, come invece la persona individuale, la missione evangelizzatrice collettiva poteva e doveva essere assegnata al Potere secolare cristianamente orientato in maniera da costituirlo e riconoscerlo come servizio prestato alla Chiesa universale. In questa logica del cuius regio eius religio, la “religio” diventa a sua volta funzione politica di contenimento sociale, compensatrice pertanto del servizio ecclesiale. Questa condizione di equilibrio funzionale alle due sfere autoritative, laica e religiosa, s‟infrange con la privatizzazione della fede, la quale, dai tempi di Gesù, caratterizza la tensione spirituale del cristiano, portando con sé la privatizzazione anche della posizione politica dei fedeli. Nella transizione alterna da una posizione religiosa a una personalistica e viceversa, si consuma ogni riforma culturale cristiana, riverberandosi corrispondentemente sul piano sociologico nei termini di un connubio ovvero di una opposizione al Potere e alle ragioni politiche storiche degli Stati. 37
Solo gli dèi dello Stato assolvono ai loro compiti mondani, mentre il Dio del cielo può anche “nascondersi” agli occhi dei mortali terrestri. La scommessa del Cristianesimo è di riuscire a fondere in una sintesi storica la fede escatologica con le esigenze della vita sociale, mantenendo sul piano della relazionalità politica quanto basti a non dimenticare il principio della trascendenza. All‟uopo la teologia cristiana ha dovuto concepire le due figure divine di Dio e di Cristo come un‟unica “sostanza”, replicando così in sede dogmatica il compenetrato dualismo di fede e socialità, per principio ontologicamente diversi e resi all‟occasione solo logicamente antitetici. Cristo, Dio incarnato e fattosi uomo, diventa la realtà storica della nuova antropologia teandrica della religione cristiana, la sintesi vivente di natura e spirito, di mortalità ed eternità, e quella simbolica di socialità politica e personalità di fede. Per realizzare la sua socializzazione religiosa, il Cristianesimo è costretto a ritagliare anche alla morte di Gesù una contestualità mondana, e per così dire ideologica, riferendola al solo aspetto “politico” della vicenda dei rapporti con l‟ebraismo e con il Potere di Roma, e rimuovendo pertanto l‟aspetto escatologico della sua avvenimenzialità, consegnandola alla gratuità della mitologia della fede privata. In tempi recenti, significativamente, dopo la conciliazione religiosa tra Chiesa e Stato, si è pervenuti a quella tra Chiesa e Sinagoga, quasi che la differenza tra il senso storicamente retrospettivo della morte di Cristo come evento trascendente liberatore da una storicità immanente, e una teologia cristica di liberazione sociologica della Storia, potesse risolversi nell‟ecumenismo di una teologia della pacificazione universale di segno chiaramente politico, la quale semplicemente rimuove o skandalon cristiano di una Morte fisica depositaria del senso eterno della Vita. Soltanto la Morte cristica poteva infatti trasvalutare la Vita storica in senso spirituale, superando la fase religiosa del culto giudaico di Dio, segnando la differenza della nuova fede escatologica, congiuntamente, sia verso l‟istituzionalizzazione farisaica che quella giuridicistica romana. Sceglierne una di esse, avrebbe comportato inevitabilmente scegliere anche l‟altra. Era solo questione di tempo la trasformazione della pax romana in pax cristiana, nella previsione razionalistica dell‟universalismo riformato kantiano, il moderno orizzonte metafisico privatizzato alla misura della persona universale o Soggetto trascendentale.
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La Morte di Gesù ha rappresentato simbolicamente l‟esito della natura fisica dell‟uomo, destinato a soccombere e a soffrire la sua condizione ontologica di finitezza. Far giungere a quell‟estremo, anche in maniera cruenta, è tutto ciò che è in potere del Potere, che può incidere e infierire sulla carne, ma niente di più. Esso è impotente verso lo spirito, verso la realtà invisibile che anima l‟interiorità dell‟uomo, perché è anch‟esso finito, e come tale limitato rispetto all‟infinità dello spirito e all‟eternità di Dio, creatore di ogni finitezza. Con la Morte della carne dell’uomo, muore anche il Mito dell‟onnipotenza di Cesare, il dominus assoluto delle sorti fisiche degli uomini sottoposti all‟imperium di Roma. Lo spiritualismo cristiano, attraverso la rassegnata sottomissione al Potere di Roma, smentisce con la testimonianza del martirio della Croce la mitologia politicistica che lo sostanzia, opponendogli ciò a cui esso, con tutta la sua forza, non può arrivare, la “verità”, che rende liberi coloro che la riconoscono. Liberi, appunto, da ogni sottomissione al Potere della carne. Il martirio di Gesù il Cristo riafferma, con la Sua morte, anche il limite di ogni approccio religioso alla fede, quale quello tenuto dall‟ebraismo, la cui concezione teistica ha secondato la mitologia pagana di Roma, la narrazione dell‟insuperabile volontà del suo Potere politico. La critica di Gesù alla religiosità giudaica era la critica della fede verso ogni forma di compromesso mondano della fede in Dio con le esigenze politiche della socialità pagana. E poiché quella fede era dettata da una interpretazione teologica, bisognava rivederla in senso di una nuova versione ermeneutica, coerente ai presupposti della fede cristiana. La differenza tra la versione teologica rabbinica e quella cristiana non doveva dunque determinarsi sul piano dei rapporti religiosi, cioè sul piano di una verifica politica delle rispettive posizioni di forza, ma sul piano della “verità”, che non poteva essere contrastata dall‟autorevolezza degli esegeti farisei, dal momento che essa veniva testimoniata dal Cristo, ossia da Dio stesso. In questo senso, la theonomìa farisaica doveva essere soppiantata dalla christonomìa apostolica, che non costituiva una nuova mitologia religiosa fra le altre, ma la Storia della Verità, il Vangelo dell‟uomo spirituale, partecipe della stessa sostanza spirituale di Dio. Il nuovo Adamo non conosce la sola realtà finita e sensibile della carne, che conduce alla logica di Caino, ma la realtà infinita e invisibile dello spirito, che è la stessa sostanza di Dio. Con l‟avvento di terreno di Cristo, l‟uomo ora conosce anche la realtà altra da quella naturale che conduce alla morte 39
fisica, la realtà eterna dello Spirito, nei cui confronti la dimensione terrena, anche quella stessa del potere di Roma, comunque destinato a finire, è niente. L‟alterità spirituale, di origine divina, non è dialettizzabile in termini di opposizione alla realtà sociologica, tale che possa trovarsi una sintesi religiosa accomodante e pacifica. La logica religiosa israelita conduce, come si è visto, alla sottomissione al Potere di Roma, adottandone lo stesso criterio politico che porta al sacrificio di Gesù, e che sarà riesumato dalla Chiesa cattolica per fondare religiosamente il suo impero teocratico post-romano. Il Mistero del Dio cristiano era tutto in questa alterità ontologica, fondativa di un ordo amoris che non doveva essere una Chiesa religiosa, più forte politicamente di quanto lo fosse stato il Tempio, ma una comunità fondata sulla carità, criterio inclusivo altro da quello esclusivo politico. Il cambio di prospettiva doveva comportare, non una metabasis religiosa, ma una metanoia spirituale: ciò cui storicamente non si pervenne con la Cristianità. Se Gesù muore per rivivere in ispirito, testimoniando che il Suo regno non è di questo mondo, i cristiani per viverci nel mondo credendo a Lui, sono stati costretti a scegliere tra conversione e convivenza, tra guerra e pace. La scelta della pace e il compromesso col mondo profano, che era stata già quella dell‟ebraismo farisaico, sono segni di una rassegnata resa al mondo, e non di “ordine”. La prima Guerra mondiale, come conflitto totale fra popoli cristiani, segna la fine dell‟idea di un “ordine cristiano”, che va oltre la responsabilità morale degli Stati belligeranti, coinvolgendo, come già notato da Scheler, la coscienza di tutti i cristiani in quanto tali. A quel punto non era più sostenibile asserire che la guerra fra le nazioni cristiane fosse un portato del razionalismo illuministico, come si sostenne per le campagne imperialistiche napoleoniche; ora era la stessa civiltà cristiana ad auto-dissolversi per ragioni del tutto mondane ed utilitaristiche, economiche anziché politiche. Il confino della fede al privato, e la sua esclusione da ogni dimensione di vita pubblica, operato dalla distinzione dialettica tra politica e morale, ha inciso sulla socialità nel senso della sua rateizzazione, essendo privatizzata la dimensione coscienziale a favore della pubblicità esclusiva della dimensione politica. L‟interiorità spirituale, anche quando riconosciuta dal Potere, tornava alla sua privatezza personale ogni volta 40
che le ragioni politiche della socialità s‟imponevano nei rapporti tra gruppi e fra Stati, lasciando ogni volta impregiudicata la questione della opportunità di ripensare la vita sociale in termini altri da quelli politici, e appunto cristiani. Dialettizzata la alterità di coscienza e società, la sua distinzione, che in origine doveva preludere a una diversa modalità di convivenza umana, sul fondamento cristiano della carità, condusse a una sintesi religiosa, la Cristianità appunto, il cui sfaldamento interno poté essere restaurato con periodiche operazioni teologico-politiche, promosse da una Chiesa istituzionale rivale nel potere mondano al Potere secolare, anziché diversamente comunitaria rispetto alla società politica. La prospettiva di una nuova sintesi teocratica interpretò l‟esito religioso del Cristianesimo storico nel senso di una plausibile giustificazione razionale del suo potere mondano e della storica ragionevolezza del suo imperium. Ma l‟esito teocratico della Cristianità era inscritto solo all‟interno di un universo di senso religioso del Cristianesimo, che esso non aveva alle origini, e che ne segna l‟esperienza razionalistica della sua versione cattolico-romana, rielaborata, ma senza esito spiritualistico, da quella protestante, che la portò a implodere e a omologarsi viepiù in senso politicistico agli altri poteri statuali ideologicamente rivali. Con la cristianizzazione dell‟Impero, la sintesi pare realizzata, e dura fino all‟implosione della Riforma. Con la costituzione degli Stati nazionali, torna la questione del rapporto tra sovranità religiosa, ridotta ormai a virtuale autorevolezza morale, e sovranità politica, ormai autoreferenziale. La Chiesa continua il suo rapporto con le ragioni di Stato applicandosi a due registri normativi, quello dei principii, rivolto alle singole coscienze, e quello giuridico, tra Stati sovrani. La Chiesa istituzionale diventa un ente giuridico che è corpo politico separato dal corpo mistico, e una persona giuridica distinta dalla singolarità dei fedeli battezzati, comprensiva dei chierici sottoposti al codice canonico, non estensibile a tutti i cristiani, che rispondono obbligatoriamente al solo codice statuale di appartenenza politica. Una Chiesa solamente apostolica perde, prima di diritto e poi di fatto, il suo gregge, comportandosi come uno Stato fra Stati. E‟ il trionfo della logica politica, quella di Cesare, che Gesù aveva contestato ai farisei e che destina definitivamente all‟ “altro mondo” le conseguenze escatologiche della fede e le sue istanze conversive, per cui la “verità” diventa “confessione”, la “fede” mera “speranza” e l‟amore verso il “prossimo” diventa “rapporto giuridico”. La verità torna ad essere dottrina religiosa, e religiosità sinonimo di vita 41
giusta e buona. Ma la giustizia non è la carità cristiana. In attesa della parousìa, la “pace” sociale col Male diventa “male minore”, per cui l‟opportunismo politico teso ad evitare la “violenza” viene chiamato “prudenza”. La virtù prudenziale è strettamente collegata all‟attesa del Regno, durante la quale i cristiani devono attenersi alla condizione storica dell‟eone politico, accettando lo Stato, che fa parte di ciò che Paolo chiama lo “schema del mondo presente” (1 Cor., 7, 31), senza però cedere alle sue eventuali vocazioni totalitarie. L‟accenno a Mammona, al denaro, dovuto a Cesare, come a colui che l‟ha coniato, è per più versi significativo, in quanto stabilisce un elittico parallelismo tra la koinonia ecclesiale, di carattere personale,che trova nella comunione mistica il suo momento di riconoscimento spirituale, e quella politica, di tipo astrattamente sociale, che nel simbolo finanziario rimette l‟intero raggio pervasivo del Potere secolare. Quanto più intimo e personale è il rapporto spirituale con Dio, tanto più è astrattamente impersonale il rapporto con Cesare. Ma al Potere politico spetta, oltre al conio monetario, anche l‟altra sua prerogativa, la guerra. Gesù concorda con lo zelotismo nella misura in cui questo prende sul serio l‟attesa del Regno di Dio e rifiuta, per questa ragione, di considerare lo Stato romano come un‟istituzione divina definitiva. Per contro Gesù si separa radicalmente dagli zeloti nella misura in cui questi vogliono instaurare da sé, e con la forza, il Regno di Dio, e rifiutano di riconoscere che questo eone, e con esso l‟istituzione dello Stato che ne è parte, sono ancora voluti da Dio. la loro attesa del regno è falsa, secondo Gesù, poiché essi vogliono realizzare da sé, con una guerra santa e su un piano umano, un Regno di Dio che sarà al tempo stesso un regno politico terreno, destinato a sostituire l‟Impero romano [e quindi non] Regno di Dio [ma] degli uomini.37
E quindi né totalitarismo politico, né teocrazia religiosa. Entro questi termini è legittimo e giusto opporre una resistenza al Male estremistico di chi (lo zelote) voglia santificare la guerra, ovvero di chi (il Romano) voglia idolatrare il Potere. Il pacifista Ricoeur definisce “il bersaglio della violenza, il fine che [la politica] persegue esplicitamente o implicitamente, direttamente o
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O. Cullmann Dieu et Caesar, tr. it. cit., pag. 60.
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indirettamente” nella “morte dell‟altro”.38 Questo scopo “terribile” viene esteso erroneamente alla forza politica, la quale mira esattamente al contrario, come ha insegnato Hegel, cioè al controllo dell‟altro quale condizione del riconoscimento che schiude alla socialità organica e alla civilizzazione storica. Per Ricoeur, invece, “è questo terribile che fa la storia: la violenza appare proprio come il modo privilegiato secondo il quale il volto della storia cambia, come un ritmo del tempo degli uomini e come una struttura della pluralità delle coscienze”. La storia, anziché il luogo fenomenologico dell‟incontro della Verità divina con il destino umano, diventa l‟orizzonte della “violenza”, contro la quale si ergerebbe la “cattiva coscienza della storia” del pacifista, che “trascende” la violenza costituendosi come posizione “etica” che “si oppone al corso storico”.39 Siamo dunque al di qua della sintesi cristologica del .kairòs, dove la “meraviglia” del filosofo diventa “l‟indignazione” del credente, che “denuncia” il “male”, ma non “converte” al bene. Se la Storia è il luogo fenomenologico della dialettica della socialità politica degli uomini, l‟orizzonte di senso entro il quale si sviluppano e si determinano i suoi processi reali è quella della opposizione dei suoi relativi movimenti costitutivi, per cui l‟antitesi a uno di essi è già inscritta nella possibilità della sua tesi. Ciò comporta che nella dinamica politica la risoluzione verso l‟amicus sia già inscritta, come antitesi, nella possibilità della scelta dell‟hostis, così come la determinazione a favore della “nonviolenza” sia iscritta nella possibilità di opporsi alla “violenza”, sicché la stessa negazione dialettica si configuri come una possibilità d‟essere della stessa tesi nei termini di una sua variazione relativa alla sua maggiore o minore presenza graduale. In questo senso la definizione scolastica del Male come assenza di Bene viene corretta dalla dialettica del minor Bene relativo al Male maggiore, ovvero del Male minore relativo al Bene maggiore. In tal modo, la sintesi contiene l‟antitesi come sua parte costitutiva e imprescindibile, per cui ogni interna dialettica tra opposti comunque contiene ciò contro cui si oppone. Rispetto alla soluzione classica, la moderna dialettica storicistica è pensata come interna al divenire, le cui dinamiche sono appunto logicamente giustificate dalla insopprimibilità di ogni antitesi da parte della sua tesi. Ma questa concezione della Storia come movimento 38 39
P. Ricoeur, La questione del potere, tr. it. cit., pag. 27. Ivi, pag. 28.
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infinito di opposti relativi e speculari, presuppone l‟omogeneità dell‟essenza tra gli elementi dialettici, sicché, non potendola riscontrare nella molteplicità della realtà fenomenica, l‟ha indicata nella coscienza del soggetto trascendentale, il cui movimento ideale opera attraverso la riduzione appunto di ogni diverso a sé, facendo di ogni dato di realtà un dato di coscienza. A quel punto, solo la identità della coscienza trascendentale con la Storia può trasferire il movimento ideale nel processo fenomenologico reale, ovvero specularmente conferire al processo fenomenologico reale un movimento ideale. Ma questa supposta identità ontologica, in verità è solo logica, per cui la stessa identità è una credenza metafisica, a partire dalla quale si diparte una mito-logia della Storia logicamente pensata come una onto-logia. La riforma moderna della logica antica, quindi, non elimina la questione della negatività del Male ma lo trascrive nei termini dell‟alterità rispetto al Bene, rendendo le due opposizioni logiche entrambe reali, e quindi reciprocamente convertibili, assegnando pertanto a ciascuna di esse la possibilità della posizione tetica sulla rispettiva posizione antitetica, in base a un fondamento ontologico non-razionale ma di fede, mitico, interno perciò all‟orizzonte di senso del Mito idealistico. Come scrive Ricoeur, se la non-violenza deve avere un senso, deve compierlo all’interno della storia che all‟inizio essa trascende; deve avere un‟efficacia seconda, da mettere in conto con l‟efficacia della violenza nel mondo, un‟efficacia che cambia i rapporti fra gli uomini.40
Il credente rifiuta di obbedire al potere violento in nome della “amicizia degli uomini”, al fine di mantenere “la linea dei valori e la tensione della storia in direzione del riconoscimento dell‟uomo dall‟uomo”.41 Si noti la funzione dialettica della “amicizia” quale “riconoscimento” identitario alternativo a quello politico. Ciò vuol dire che l‟uomo dell‟amicizia si incontra con l‟altro uomo fuori della storicità del legame sociale, e quindi trascendente, instaurando un rapporto ad personam tra esseri spirituali, e non tra soggetti politici. Ma questo stesso rapporto personale non può essere nella storia se non a condizione che l‟altro vi si trovi ancora dentro, per cui il rapporto amicale, perché non sia atto 40 41
Ivi, pag. 30. Ivi, pag. 31.
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unilaterale del credente ma riconoscimento reciproco, presuppone la conversione dell‟altro alla fede del credente, per cui entrambi siano l‟uno come l‟altro, ossia lo stesso. A quel punto, il “riconoscimento” reciproco avviene non più in nome della “amicizia”, ma in quello di Cristo, per cui essa non è che il risultato dell‟unità spirituale personale. Ciò significa che vivere nella storia un rapporto che la trascende implica che la storicità di quel rapporto consista nella sua determinazione modale, ossia nella sua esperienza esistenziale, la quale non ne esaurisce il senso spirituale, che permane nella trascendenza della sua storica finitezza fenomenica. L‟elemento della storicità dell‟esperienza che trascende la sua storica fatticità, consente di essere re-interpretato diacronicamente in modi e forme storicamente contingenti, nessuna delle quali identifica la sua particolare fenomenicità con il suo contenuto spirituale trascendente. Il carattere, a un tempo storico e meta-storico, della esperienza spirituale consente al suo paradigma ontologico, che è la vita e la morte di Gesù, di costituirsi come l‟eterno altro di ogni sé, e quindi la mediazione tra ogni altro e ogni sé che intendano giungere al reciproco riconoscimento spirituale, costitutivo dell‟ordo amoris cristiano. La mera “testimonianza” privata di un rapporto spirituale del tutto destoricizzato dall‟universo di senso comune socializzato, suppone che la fede agisca in un mondo desacralizzato, e poiché i martiri odierni non operano in un cosmo pagano, bisogna prioritariamente chiedersi le ragioni della preponderante “violenza” nella storia abitata da cristiani. A riguardo, le riflessioni di Scheler del primo dopo-Guerra mondiale sono ben più profonde e incisive di quelle di Ricoeur del secondo periodo postbellico. Ciò che infatti Ricoeur imputa generalmente alla “Storia”, Scheler lo imputa alla responsabilità delle nazioni cristiane. Nondimeno, anche le colpe collettive rischiano di sembrare generiche se non collegate alla possibilità che ha prioritariamente il Cristianesimo, e solo conseguentemente le nazioni cristiane, di incidere – e in quale senso e misura – sulla vita storica dei popoli e dei relativi Stati. La questione è meno astratta di quanto apparentemente sia, poiché inerisce al vivo della “questione del potere”. Ciò non sfugge a Ricoeur quando, interrogandosi sul senso dell‟atto “puro” del “profeta” nella storia, afferma che “se dunque la non-violenza deve avere un senso, deve compierlo all’interno della storia che all‟inizio essa trascende”, ossia deve avere “un‟efficacia
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che cambia i rapporti fra gli uomini”.42 Quella che era la “verità” di Gesù, ossia il predominio del Bene sul Male, e che costituisce la “speranza” dei cristiani dopo la sua morte, diventa alla coscienza del profeta contemporaneo un problema di “efficacia”, segno evidente che la questione teologica e antropologica si muove ora sul piano sociale del politico, interente il rapporto fra uomini declinato in un senso diverso da quello spirituale evangelico, riguardante ora l’economia religiosa degli sforzi della fede. La fede del non-violento […] è dunque nel fatto che questa testimonianza concreta e attuale, resa alla possibile amicizia degli uomini, non veda la propria efficacia ridotta ai suoi inevitabili effetti nel bilancio delle violenze contrarie; egli spera che oltre alla impurità che divide con tutti gli atti che ricadono sulla storia, il suo atto insolito, sempre discutibile sulla base dei suoi effetti a breve termine, abbia un doppio senso; e che esso mantenga la linea dei valori e la tensione della storia in direzione del riconoscimento dell‟uomo dall‟uomo. 43
A noi pare che, in questi termini, la questione diventi irresolubile, spostandoli a una resa dei conti procrastinata alla fine della Storia, e pur sempre esterna a questa. Ancora una volta, l‟atteggiamento di Gesù davanti a Pilato resta paradigmatico, e va ora messo a confronto con l‟atteggiamento di Pietro. Gesù muore per non rinnegare la sua appartenenza all‟ “altro Regno”, quello di Dio, mentre Pietro rinnega Gesù per salvarsi in “questo regno”. Sono i due atteggiamenti possibili del martire: quello che testimonia la realtà dello Spirito, e quello che stabilisce un rapporto politico con la realtà del Potere. la prima opzione, comporta l‟indifferenza verso le sorti mondane in nome della santità; la seconda, prevede il calcolo di opportunità, la prudenza che induce a preferire il “male minore”.Sono due atteggiamenti estremi quanto diversi, che caratterizzano il “doppio senso” della Stria pensata alla luce della verità evangelica. Ma non sono, propriamente, atteggiamenti “opposti”, inscritti cioè nello stesso universo di senso, poiché ubbidiscono a due ordini valoriali non commensurabili sul piano dell‟esperienza umana. L‟ordine della santità mira infatti a trascendere i rapporti politici, trascurando la realtà dei rapporti sociali, ritenendola inferiore rispetto alla vita spirituale, in quanto rientrante in quella che Tommaso indicava come 42 43
Ivi, pag. 30. Ivi, pag. 31.
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“l‟anima sensitiva” dell‟uomo. Questa sfera esistenziale è compresa nella sua vita personale, ma al livello naturalistico delle necessità biopsichiche, immanenti alla realtà temporale finita. Il Cristianesimo ha collocato la spiritualità personale nella dimensione “intellettiva” dell‟uomo, facendo della sua coscienza razionale il luogo della sublimazione della finitezza naturale. Questo spostamento dell‟orizzonte razionale, dal piano naturale a quello spirituale, implica che la dimensione sensitiva dell‟uomo sia considerata priva della dignità propria dell‟essenza spirituale, che è la libertà, intesa come volizione razionale secondo lo spirito di verità (recta ratio). La ratio spirituale è la verità evangelica, cheè diversa da quella sistemica del lògos naturalistico. Ciò che è incognito secondo il processo maieutico dialettico, che il filosofare tende perciò a conseguire come esito dell‟argomentazione logica, è invece presupposto fideistico della narrazione evangelica, che tende a istruire sulla verità spirituale eterna, e non già a far conoscere la realtà naturalistica finita. La verità eterna, che non appartiene ontologicamente al piano della realtà finita, non si può comprendere dall‟intelligenza umana, ma partecipare attraverso l‟intelletto guidato dalla fede. Sono due piani di realtà diversi, non semplicemente opposti entro uno stesso orizzonte di senso. Lo spirituale convive con il corporeo, ma lo trascende. Non si tratta di negarlo, alla maniera della logica dialettica, o di non considerarlo, alla maniera manichea di una unilateralità oltraggiosa verso la realtà fisica, ma di considerare il piano della socialità politica come immanente ai rapporti naturali e quindi non trascendibile. Sta qui il senso dell‟abbandono simbolico di Gesù e dei suoi apostoli delle famiglie d‟origine per aderire alla nuova comunità di fede, stabilita in nome della fratellanza spirituale. La famiglia spirituale non rescinde i rapporti con la famiglia naturale ma li trascende. La famiglia naturale non rappresenta il legame costituito dalla realtà dello Stato, ma è il modello socialitario della società. Il vero ostacolo, dunque, all‟unità spirituale non è il rapporto familiare, cioè il rapporto sociale, che può essere superato da altre forme di socialità, ma il Potere politico, garante dell‟ordine sociale. L‟obbligo di obbedire a Cesare non è paragonabile a quello di ossequiare la volontà paterna. Il carattere sanzionatorio dell‟obbligo politico non ammette deroghe; il potere che ne è all‟origine è assoluto e non riconosce obblighi superiori a quello di servirlo. E‟ a seguito di questa pretesa esclusiva che sorge il conflitto col
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potere celeste, con l‟obbligo relativo all‟appartenenza a un “altro Regno”, che non è di “questo mondo”, cioè del mondo di Cesare. La paternità familiare è soggetta alla temperanza dell‟amore che lega padre e figlio, per cui l‟infrazione formale può essere condonata in virtù del legame sostanziale, come insegna la parabola del Figliol prodigo). Rispetto al legame giuridico, in quello familiare vige una regola di temperanza non scritta dettata dal sentimento, il quale, eccependo o piegando ai suoi bisogni la regola astratta dell‟ortoprassi, viola un principio di giustizia che invece è alla base della credibilità della legge dello Stato e quindi della legittimità del Potere che lo rappresenta. Nel caso della condanna di Gesù, essa deve essere giustificata davanti alla legge di Roma per essere validamente comminata, facendo rientrare il suo caso particolare nella astratta fattispecie normativa che ne prevede la sanzione auspicata dai farisei. Di contro, il tradimento di Giuda,così come il rinnegamento di Pietro, costituiscono ciascuno un unicum la cui esperienza coinvolge un significato simbolico che trascende l‟avvenimento in sé, che è l‟oggetto della considerazione giuridica, e quindi della sua rilevanza politica, e che lo investe di una portata spirituale esistenzialmente superiore a quella meramente sociale. Tale “unicità” è storica nella stessa misura in cui è spirituale, per cui i termini della sua semantica valoriale non sono gli stessi dell‟universo di senso giuridico-politico, la cui astrattezza formale non è opposta alla concretezza storico-spirituale, ma appartenente a un piano assiologico diverso. La riduzione del senso simbolico proprio al senso giuridicopolitico astratto, non è un‟operazione dialettica inerente alla sua trascrizione logica analoga a un‟operazione de-mitizzante, ma una transvalutazione del senso allotrio in un orizzonte semantico che non ne può tradurre l‟intrinseco valore spirituale, e che perciò è all‟origine della “violenza” metafisica del Potere. La violenza del Potere nasce da una condizione di impossibilità ontologica, e non da una contraddizione logica, dialetticamente risolubile. Non si tratta di un ingorgo aporetico suscettivo di sbroglio teoretico in virtù di più sottili trattamenti dialettici, ma di una dislocazione da un piano di realtà a un altro, pur coesistente nella stessa esperienza personale dell‟uomo, gettato nella sua condizione socio-politica, da cui può emergere spiritualmente convertendo il senso immanente alla sua vita fisica in quello che la trascende. La conversione, possibile alla natura spirituale grazie alla sua virtù intellettiva, è inibita alla natura sensitiva, la 48
quale, nel tentarla, opera una riduzione dello spirituale al naturale che fa appunto “violenza” alla coscienza dell‟uomo, che la riconosce come Male, ovvero come “peccato” contro Dio, che è la Verità. Tra il piano del Bene e quello del Male non c‟è mediazione logica possibile, ma solo conversione di senso, cioè passaggio ontologico, consentito dall‟intervento della Grazia divina. L‟incursione della Grazia nelle vicende umane toglie a queste il loro supposto autonomo carattere autoctico, ossia la loro autonomia poietica e assiologia, propugnata dai sistemi razionali chiusi e logicamente autoreferenziale puramente umanistici e convenzionali. Il modello di tale pretesa trasvalutativa della logica umanistica è la trascrizione in termini naturalistici della Storia spirituale dell‟uomo, che diventa razionalisticamente Storia sociologica e politica delle culture umane, in cui ogni singolare evento simbolico è annullato spiritualmente nel processo della astratta legalità formale degli enti logico-naturali, metodologicamente privati della loro originaria coscienza ontologica, ossia della loro concretezza esistenziale. Come interpretare l‟atteggiamento di Pietro? Egli non si fa catturare: mente, rinnega e fugge per far salva la vita. Lo scopo della sua libertà politica è nobile: da vivo può dedicarsi all‟apostolato, al servizio divino. Non cerca la salvezza per tornare a vita privata, alla sua famiglia, per chiudere con la cattura di Gesù la sua esperienza e la sua speranza di fede. No. Pietro vuole salvarsi per dedicare la vita alla testimonianza di Dio. non c‟è dubbio. In ogni caso, la sua scelta non è stata quella di Gesù. E‟ questo ciò che più conta al nostro proposito. La scelta di Pietro è “politica”: commisurare i mezzi ai fini e i fini ai mezzi. La “verità” della fede diventa “speranza”, cioè attesa di verità, intermezzo tra la certezza del cuore e l‟esaudizione dei sensi. Nel frattempo, il discepolo di Cristo abbraccia la logica del dialogo, non la soluzione della croce. Il martirio degli apostoli diventa testimonianza di speranza, e non di verità. La speranza è una verità differita al tempo del Giudizio, meta-storica ma al contempo storica. Ed è questa contemporaneità l‟essenza dell‟unità divino-umana di Gesù Cristo che si riflette nell‟esperienza esistenziale dell‟uomo storico-spirituale. La centralità della testimonianza della fede si sposta con Pietro dalla Morte alla Vita. Se la vita è legata alla realtà politica dell‟esistenza mondana, tesa alla sua conservazione, la morte ne è la sua negazione; che non è dialettica, legata alla dinamica dell‟opposizione con la relativa vita 49
fisica, ma ontologica, quale dimensione spirituale dell‟amore, propria dell‟uomo di fede. Se, infatti, la negazione logica destina il non-essere all‟alterità interna allo stesso piano di realtà esistenziale, la negazione ontologica dell‟Essere mondano rimanda a un altro piano di realtà, quello spirituale, non dialettizzabile entro uno stesso orizzonte di senso razionale. Sta qui la “follia” che, al confronto coi valori eterni, assume il lògos immanente alla realtà mondana finita. La “follia” della Croce è la fede nei valori eterni e ultra-mondani. I contenuti di tale fede si distinguono sul fondamento della scelta essenziale tra la logica della Vita, che fa permanere ogni posizione e relativa sua negazione allo stesso piano di realtà esistenziale, e la follia della Morte, che rimanda a un altro piano di realtà rispetto a quello fisico e mondano. La croce cristiana è il simbolo della Morte dell‟uomo sociale della storia politica, ma la scelta apostolica dei cristiani è stata quella di coltivare la speranza restando nella dimensione assiologica della Vita. In tal senso, la non-violenza, quale rifiuto della logica politica – cioè della ragione storica fondata sulla violenza, quale ubbidienza forzata al Potere -, è la scelta per la Morte, non già per il dialogo della sopravvivenza. E se è così, il problema della “efficacia” non ha senso di fede, in quanto il senso della ”efficacia” è interno a “questo mondo”, non pertinente all‟ “altro”, il mondo della “verità”, il quale è tutto ciò che può essere, e non attende a nessun completamento di senso, a nessuna evoluzione finale e risolutiva. Da qui l‟unicità dell‟evento veritativo, il cui essere comprende il suo stesso divenire, tale che la sua fine sia inscritta nel suo principio. Questa compiuta concretezza esistenziale è propria della sola esperienza spirituale dell‟uomo eterno, non già di quello naturale e sociale, soggetto alle leggi della necessità fisica della sua vita corporea, priva affatto della libertà riservata divinamente allo spirito. Rispetto alla compiutezza della verità, il “non ancora” non ha senso, e così l‟attesa della speranza. L‟attesa apostolica, diventata speranza collettiva, ha dato vita alla Chiesa, l‟istituzione storica dei tempi dell‟attesa che guida il cammino della speranza. La Chiesa rappresenta il Cristianesimo della speranza, non quello della Verità. La religione dei tempi storici, della testimonianza in vita, non la fede nella realtà altra della Morte. Il Cristo dei miracoli e del perdono si astiene dalla violenza, dalla reazione, da ogni compromesso religioso col Potere, per testimoniare la trascendenza del Regno spirituale, operando in questo mondo la scelta per 50
la Morte; scelta che è “follia” per la logica mondana, che domina nel regno di Cesare e che è la stessa del regno di Satana. La remissione a Cesare, con la testimonianza a favore della verità di fronte a Pilato, è stata già anticipata dal rifiuto opposto a Satana del potere su “questo mondo”. La non-violenza è pertanto il coerente atteggiamento del cristiano che ha scelto la verità dell‟ “altro Regno”, e quindi il martirio della Croce, alle certezza della sussistenza mondana con la sua logica politica. La nonviolenza non è pertanto la scelta politica per la pace, quale condizione amicale dialettica a quella opposta ostile della guerra. Guerra e pace sono condizioni umane speculari della stessa realtà finita, quella della socialità politica, reciprocamente relative e necessarie alla rispettiva definizione logica. La non-violenza, invece, rappresenta simbolicamente il trascendimento della violenza immanente alla condizione socio-politica, verso un altro piano di realtà, quello appunto veritativo ed eterno della compiutezza divina. Di questo passaggio è simbolo la Croce, che della vita ne rappresenta il tramite per la Morte. L‟opzione di Gesù e quella di Pietro sono equivalenti ai fini del Regno di Dio? la domanda è ineludibile, e la risposta non può essere ambigua, ed è “no”. Infatti, mentre la Croce, ossia la scelta per la Morte, ha convertito l‟Impero alla fede cristiana, la attività della Chiesa, ossia la scelta per la Vita del mondo cristiano, ha condotto ala secolarizzazione e alla scristianizzazione di quel mondo. Ciò vuol dire che la “efficacia” della Croce è oltre il calcolo mondano della prudenza politica come ragione di “questo mondo”, del regno di Cesare e di Satana, nel cui ambito l‟ “attesa” assume il significato di una “verifica” empirica dell‟ipotesi fideistica. Ma è esattamente di queste “certezze” empiriche che non ha bisogno la verità, e che invece sono il correlativo oggettivo di ogni ipotesi mitica e scientifica. Così come l‟atteggiamento caritatevole del fedele non equivale alla “pace” politica ma all‟amore spirituale, che è atteggiamento ontologicamente impolitico. Infatti, l‟ “ordine” sociale della “pace”, garantito da Cesare e regolato giuridicamente dalla logica politica, è informato alla “violenza” del Potere. Pace e Potere sono politicamente sinonimi, come si è detto, per cui lo sono anche l‟ordine e la violenza politica, come voleva Alvaro d‟Ors.44 Se l‟ordine e la pace di “questo mondo”, regolato dalla amministrazione giuridica della violenza politica, sono i fini del regno di Cesare, come 44
Ved. il commento nel Cap. III, “Scienza e fede”.
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possono conciliarsi con i fini del regno di Dio? Come è possibile, in altri termini, che “ogni potere derivi da Dio” ? Il senso della scelta per la nonviolenza può coincidere soltanto con la negazione di questo postulato teologico, che fonda e giustifica l‟esperienza del rapporto della Chiesa con lo Stato. Il Potere che condanna Gesù non può venire da Dio, ma solo dalla potenza del Male, da Satana, con cui non si può trattare ma solo testimoniare il Bene, cioè la Verità, per la sua conversione. La Croce fa trionfare il Bene negando il Male che la erge. Questa è la “follia” della Croce e la sua “efficacia” meta-storica, il suo “doppio senso” simbolico. Come afferma Ricoeur, “non si sa ciò che [l‟atto non-violento] creerà, non lo si può sapere perché questa efficacia è, nel senso stretto del metodo storico, inverificabile; è il piano in cui il legame di un atto con la storia è oggetto di fede”. E‟ il piano del kairòs. Ma proprio in virtù di tale sua compiutezza non può costituire, come invece vorrebbe Ricoeur, “la contropartita di speranza della contingenza della storia, di una storia non garantita”,45 ma bensì la verifica in vita della fede nella verità come “morte” mondana. La speranza giunge sino alla verità, ma quando la verità si compie, non c‟è più “speranza” di fede, ma solo il segno dell‟eterno, la verità stessa che annulla la storia e ogni processo mondano verso una meta. A quel punto non sussiste neppure la fede, che infatti abbandona Pietro al compimento del destino divino di Gesù. La verità si compie appunto con la Morte di Gesù, che segna la fine della speranza della fede in quanto è anche il suo fine. La speranza muore con l‟evento del compimento della verità. L‟avvento della verità meta-storica di Dio con Cristo si fa evento storico, che diventa a sua volta meta-temporale per i cristiani che ne ripetono il martirio. La memoria dell‟evento cristico è pertanto anche la sua durata, nella cui unità coscienziale si dipana il personale processo spirituale, storicamente diverso per ogni fedele, che lo richiama in riferimento alla sua esistenza individua. Nel movimento della interna coscienza unitaria in relazione alla molteplice esperienza storica esterna, di compendia l‟intera vicenda esistenziale dell‟uomo, il cui senso spiritualmente unitario avviene appunto con la morte, che dunque costituisce il tramite ermeneutico della sua verità. Ricoeur ricorda il termine di satyagraha coniato da Gesù per esprimere il concetto di
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P. Ricoeur, Op. cit., pag. 32.
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“stretta indefettibile della verità”,46 indicante la “forza” della nonviolenza di fronte alla resa e alla desistenza al Potere, alla sua “astuzia”. La forza della non-violenza pone la sua “efficacia” nella rinuncia all‟ “arte della deviazione”, intesa come pratica “dell‟astuzia, della menzogna, della violenza”,47 che sono le espressioni dell‟arte politica garante dell‟ordine sociale. Ricoeur si chiede se la non-violenza “può costituire il cambio totale della violenza, [se] può fare la storia”, essendo essa “una carriera del rifiuto”.48 Il carattere “negativo” della non-violenza si costituisce già come una contrapposizione a valori positivi, storicamente dominanti. Ma la trascrizione positiva di condotte d‟astensione dalla violenza deve potersi definire sulla base del rovesciamento dei valori dominanti, tale che ciò che era la regola del mondo, divenga un non-senso, un disvalore. In altri termini, la positività cristiana si definisce con la conversione, ossia con l‟affermazione di un “ordo amoris” sostitutivo dell‟ “ordine violento” finora sociologicamente dominante nella storia. Il limite dell‟argomentazione negativista è nel presupposto che la Storia sia ciò che è sempre stata, cioè ontologicamente caratterizzata dalla violenza, contro la quale si può solo opporre un “gesto” di dissenso morale. Da questa prospettiva, la alterità del Cristianesimo si viene a concepire come condizione ultra-mondana, celeste, anziché come alternativa alla storia della violenza. La radicalità dell‟utopia pacifista si stempera nella prospettiva post-istorica, che abbandona il mondo alla logica di Cesare, che è la natura di Satana. Il messaggio di Gesù, invece, abbandonando la Storia al suo destino di violenza, la riscatta, cioè la redime, nell‟ordine dell‟amore-verità, che è Morte rispetto alla regola della Vita naturale, ma che diventa essa stessa Vita spirituale eterna quando ne converte la ratio. La sostituzione dell‟amore alla violenza realizza la verità dell‟ “altro mondo” in terra. E l‟abbandono di questa prospettiva alla fine dei tempi storici, consegna invece la possibilità di un nuovo ordine mondano alle utopie palingenetiche delle ideologie rivoluzionarie. Il piano di realtà delle attività spirituali non è quello naturalistico della empirica verifica sperimentale ma quello della parola che articola 46 47 48
Ivi, pag. 33. Ivi, pag. 34. Ivi, pag. 35.
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attraverso l‟argomentazione i suoi movimenti razionali. L‟articolazione argomentativa metodica dei movimenti razionali della parola, secondo la cultura filosofica e scientifica greca, avviene attraverso la tecnica logica, la cui applicazione consente di distinguere, entro la generica argomentazione verbale, quella rigorosamente sistematica da quella puramente simbolica. L‟argomentazione simbolica esprime quella che Bergson chiamava la “immagine” della realtà, la quale, non ancora attraversata dal pensiero critico, contiene inclusivamente le possibili determinazioni dialettiche della logica. Possibili nel senso che la loro applicazione metodica non è necessaria ai fini della rappresentazione cognitiva della realtà, che dunque sussiste anche nel pensiero non-logico, e appunto simbolico. La rappresentazione simbolica della realtà è quella che si argomenta nel Mito, ossia quella del racconto mitico. Noi abbiamo preferito usare, al posto di “immagine”, il termine di “intuizione”, poiché il primo termine, coniato sul chiaro calco semantico dell‟idea greca, nasconde proprio quel concetto spazializzato della “visione” ideale della coscienza di cui la logica traccia i confini razionali, distinguendo sistematicamente ciò che va incluso entro il suo orizzonte di senso, da ciò che invece va escluso, similmente a quanto va determinando la politica sul piano della riconoscibilità sociologica dell‟amico, che ne fa parte del suo perimetro, dal discriminato nemico, che ne è fuori. Intuire la realtà significa coglierla nel suo insieme, senza però individuarne i confini. Proprio questa conoscenza simbolica consente a ogni elemento dell‟insieme di corrispondere con ogni altro, senza perciò determinarlo ai fini della sua astratta riconoscibilità. Per questa sua natura non astratta, il pensiero simbolico è concreto, per cui la rappresentazione simbolica della realtà esprime di essa una cognizione concreta. La concretezza è pertanto il dato essenziale della narrazione mitica, che simbolicamente esprime tutta la realtà possibile. Ora, proprio perché le dinamiche della coscienza intuitiva non sono spaziali, non è possibile alcuna determinazione quantitativa del Male come “minore” o “maggiore” rispetto all‟astratto parametro del Bene, la cui alterità deve potersi considerare intuitivamente come dis-formità unitaria rispetto all‟unità malvagia, e non assegnare come un valore
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determinato da un “punto di vista”49 funzionale alla conservazione di una condizione di potere entro il processo del divenire. Se la coscienza intuitiva è conoscenza concreta dell‟Essere, più comprensiva di ogni conoscenza astratta e particolare, il fine di ogni possibile conoscenza coincide con il suo principio comune a tutte le sue forme, ossia con l‟originaria intuizione concreta. ciò sarebbe plausibile se la concretezza fosse la sommatoria delle singole conoscenze astratte, in un rapporto di insieme e sue parti costitutive. Ma la concretezza dell‟intuizione non è comprensiva di ogni possibile conoscenza settoriale, bensì una qualità della conoscenza vera, che è sempre riferita a una situazione singolare e unica, di contro alla conoscenza certa, che è riferita a una situazione universale e astratta; astratta appunto dalla sua unicità singolarità e concretezza situazionale. Il problema gnoseologico della “verità” sorge allorquando si intende riportare la qualità della conoscenza intuitiva, ossia la concretezza, nella dimensione universale della conoscenza astratta, convertendo appunto la reciproca diversità qualitativa in gradazione quantitativa. Questa pretesa gnoseologica diventa viepiù indebita in riferimento all‟uomo, per il quale la singolarità situazionale non va riferita solamente alle particolari condizioni fisiche e temporali oggettive, ossia indipendenti da ogni determinazione del suo essere personale, ma soprattutto va riferita alle sue soggettive condizioni spirituali, le quali sono tali proprio in quanto non oggettivabili e pertanto soggette ad astratta considerazione universalizzante. Ogni tentativo di pervenire a una conoscenza al contempo concreta e universale è destinato a infrangersi contro la diversità ontologica tra l‟Essere della conoscenza universale, la cui unità è ottenuta attraverso l‟ideale determinazione di un modello ontico astratto dal suo concreto divenire, e l‟Essere della conoscenza concreta, la cui molteplicità delle determinazioni particolari è legata alla sua stessa insuperabile condizione di finitezza. La preferenza accordata alla conoscenza universale su quella singolare da parte del pensiero filosofico, al fine di pervenire a un mutamento di condizioni di fatto attraverso un mutamento di cognizioni di senso, spostando la rilevanza assiologia della realtà dal campo della potenza 49
Qui “punto di vista” è inteso nel senso del Nietzsche della Volontà di potenza, su cui Heidegger, Il nichilismo europeo, Milano, 2003, pagg. 115 sgg.
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fisica a quello della potenza noetica, assegnando il primato alla creazione poietica anziché all‟artificio politico; tale preferenza, ha comportato la ricerca teorica di un metodo razionalmente coerente, e cioè di un sistema, in grado di assolvere a tale compito gnoseologico, tentato nei secoli da tutti i grandi filosofi, i quali, per raggiungere lo scopo impossibile di superare logicamente la diversità ontologica, hanno proceduto a ricondurre o la molteplicità fenomenica all‟unità ideale del concetto, negando la realtà ideale della molteplicità, ovvero l‟unità ideale alla molteplicità fenomenica, negando la realtà dell‟idea. Sia nell‟un caso che nell‟altro, la conoscenza ottenuta garantiva della sua sistematicità, ma non della sua veridicità, la quale non può nascondersi dietro le convenzioni semantiche dei sistemi di pensiero, ma deve rifulgere universalmente della sua concretezza intuitiva. Il fallimento di ogni tentativo metafisico è dunque legato a questo impossibile progetto teorico intrapreso dalla filosofia a partire da Socrate e da Platone in poi, di convertire la quantità in qualità, e perciò trasformando la realtà ontologica in essenza logica. La crisi della metafisica greca si consuma con la predicazione della “verità” professata da Gesù, il quale riporta i suoi termini alla concretezza dell‟esperienza esistenziale dell‟uomo spirituale, la cui condizione personale non è universalizzabile nel senso della conoscenza filosofica greca, in quanto è impossibile ridurre la sua essenza divina in una dimensione ontica, negando pertanto la possibilità logica di convertire l‟eterno che è in lui alla dimensione fenomenica dell‟ente naturale, che è ciò che mostra di essere, ossia realtà fisica. Lo spiritualismo cristico rappresenta l‟opzione ontologica alla conoscenza greca dell‟Essere come physis, la quale non poteva pervenire alla “verità” dell‟uomo in quanto prescindeva dall‟elemento costitutivo della sua esistenza personale, quello spirituale, la cui ignoranza determinava l‟impossibilità della sua conoscenza filosofica. La “verità” dell’uomo è l‟uomo stesso. Ma la conoscenza greca del Sé non poteva pervenire alla “verità” a seguito del suo fisicalismo idealistico, in grado soltanto di costituire l‟orizzonte del sapere entro l‟opposta polarità dell‟ente e della sua astratta idealizzazione, nella cui dialettica si dibatteva ogni argomentazione filosofica. La “verità” dell‟uomo è ciò che non è fisico, ossia l‟elemento trascendente la sua entità naturalistica, il suo spirito. Il quale è uno non perché lo stesso in tutti, ma in quanto personalmente unico, come appunto la “verità”. E pertanto, la pretesa filosofica di costituire un sapere vero 56
che fosse anche universale era “stoltezza” di fronte alla irriducibile “verità” ontologica professata da Gesù sull‟uomo. In tal senso, alla luminosità della sapienza greca, costruita sulla sua cognizione universalistica dell‟Essere ideale, Gesù oppone la “verità” come Mistero della diversità ontologica dell‟uomo spirituale, divino anziché naturale, eterno anziché finito. E‟ lo stesso Mistero che circonda la Morte fisica di Cristo per la Resurrezione spirituale dell‟uomo. Gesù introduce, con la sua professione di “verità”, una contraddizione nel cosmo greco, che non è logica, e perciò dialettizzabile nel senso della alterità irrazionale, ma è una contraddizione ontologica, la quale segna i confini dell‟universalismo fisicalistico trascrivendosi nell‟orizzonte filosofico greco come l‟assolutamente altro, e quindi come il logicamente inconoscibile: il Mistero, appunto. In questo confine teoretico finisce la sapienza greca, la sua teoresi filosofica, concentrata sulla finitezza della realtà fisica, rispetto alla quale la “verità” dell‟uomo spirituale resta sempre incomprensibile. La prospettiva noetica di Gesù comportava una conversione di senso ben più radicale di una mera trasformazione etico-politica quale quella propugnata dalla sociologia filosofica greca, ripresa poi dalle moderne ideologie razionalistiche. Essa infatti implicava l‟affermazione del primato dell‟eterno sul temporale non già nella Storia, trasformandola nel luogo della sacralizzazione del finito; ma l‟affermazione dell‟eterno come Storia, facendo dell‟esistenza umana finita il percorso della coscienza spirituale eterna. Non c‟è Storia che non sia dello Spirito. La natura non ha storia, in quanto il suo processo è solo trasformazione morfologica, non già conversione spirituale, sicché la conoscenza naturalistica riguarda i cambiamenti formali di quanto non potrà mai essere altro che ciò-che-è, dello stesso mondo finito, il quale, considerato sia nel suo aspetto empirico molteplice, che nel suo aspetto ideale unitario, non può trascendere la sua ontologica finitezza. L‟aporia insuperabile di ogni conoscenza naturalistica è la sua tautologica trascrizione dell‟altro nel sé stesso, in un sistema in cui ogni ente è (uguale all‟) altro. Ma ciò che nel suo divenire non è altro che ciò che è, non ha storia, ma solo processo necessario di adattamento fisico. Ma la versatilità dell‟adattamento naturale non è la libertà, che è scelta di essere altro-da-sé nonostante ciòche-si-è. Su quell‟avverbio “nonostante” la teologia cristiana avrebbe dovuto edificare il Regno di Dio, l‟altro mondo rispetto a quello politico di Cesare, destinato a finire, e perciò senza redenzione. 57
Ma ciò non fu la strada del Cristianesimo, che credette di convertire Cesare convertendosi alla sua logica mondana, con la conseguenza riferita di ispirare il desiderio filosofico di convertire la natura in spirito, assegnandole una Storia, ossia un fine escatologico. Non aver inteso questa importante conseguenza ideale e pratica, porta Ricoeur ad affermare che “i non-violenti debbano essere il nucleo profetico di movimenti propriamente politici, cioè basati su una tecnica della rivoluzione, della riforma o del potere”, altrimenti “la mistica nonviolenta rischia di rivolgersi ad un catastrofismo senza speranze, come se il tempo del disastro e della persecuzione fosse l‟ultima possibilità della storia”. 50 Esisterebbe infatti “un compito politico e questo compito sarebbe in amalgama con la storia”.51 L‟equivoco è evidente. L‟istanza profetica, convertita in petizione politica, trasforma il messaggio trascendente in confronto sociale, svilendolo moralmente perché travisandolo ontologicamente, in quanto l‟essenza dell‟amore cristiano non chiede asilo politico alla struttura pacificata del Potere, ma propone la sua conversione in una ragione antiviolenta, ossia in una modalità di convivenza non fondata sulla pacificazione della violenza, sulla neutralizzazione hobbesiana da parte di un Potere monopolista della forza, ma fondata invece su una intuizione della vita che è diversa da quella che produce la politica, e dalla convivenza sulla politica basata. L‟accettazione delle regole della convivenza informata ai rapporti politici, è già una resa morale al mondo. Ed è questa resa la scelta di Pietro e della sua Chiesa, ma non la scelta di Gesù. Il messaggio cristiano è effettivamente “senza speranze”, perché si fnda sulla Verità, non sulla sua attesa. La “persecuzione” dei cristiani, a partire dal martirio divino del Cristo, non è l‟azione della fede, ma la risposta violenta del Potere al‟atto testimoniale della fede. Riguarda, cioè, il Potere stesso, non la deliberata volontà dei martiri cristiani di immolarsi a esso. l‟ “altro mondo” di Gesù è una Storia altra da quella sociologica scandita dagli eventi politici, e fondata su una intuizione della vita diversa da quella che ha sostenuto l‟etica pagana. Di fronte al martirio di Cristo, la pavidità di Pietro è salvezza dalla fede, cioè dalle sue conseguenze mondane. E‟ lo stesso atteggiamento religioso di Pio XI di fronte al neo-pagano Cesare 50 51
P. Ricoeur, Op. cit., pag. 36. Ivi, pag. 37.
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teutonico, con cui la Chiesa apostolica entrò in commercio politico per salvarsi dal martirio della sua potenza mondana, abbandonando, in nome della propria idolatria istituzionale, il popolo di Dio alla sua mercé, ricambiando così con gesto simmetrico agli Ebrei l‟olocausto di Cristo. Che sia stata santificata l‟idolatria di un tale apostata, è comprensibile solo entro la logica religiosa della Chiesa cattolica, ma è bestemmia di fronte al sacrificio di Cristo. La “efficacia” del messaggio evangelico – e per esso della predicazione della non-violenza – riguarda la possibilità del trionfo persistente del Potere. Affermare che tale “possibilità” appartiene alla logica del politico, equivale ad affermare che l‟ “altro mondo” non potrà mai coincidere con “questo”. E inoltre, che “questo” stesso mondo, quello della storia sociale, non potrebbe mai essere convertito con gli stessi metodi che lo guidano e lo sostengono, ossia attraverso la stessa regola della violenza. Questa è la fondamentale ragione per la quale le ideologie chiliastiche, pur fornite di buone intenzioni escatologiche, siano approdate a un bagno di sangue innocente. Dalla occupazione spagnola del Nuovo mondo, all‟islamizzazione forzata del Medio Oriente e alle crociate, dalla Rivoluzione francese al comunismo, la “verità” nella Storia, diventata ideologia religiosa, si è trasformata sempre in terrore e stragi, con finale capitolazione delle originarie intuizioni. La verità rende liberi solo in senso spirituale, giammai in senso politico, poiché essa è libertà, non politica, ma dalla politica. Una libertà che sia politica è una contraddizione pari alla concretezza universale. La politica è infatti costrizione quanto l‟universalità è astrazione. L‟astrazione è la condizione metodo-logica della “oggettività” della conoscenza scientifica, che viene imputata postulatoriamente, a partire da Galileo, alla stessa natura, e consiste nel “rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza vera mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di progetto”.52 Ma esattamente il “progetto” è costitutivo dell‟esperienza esistenziale dell‟uomo spirituale, il cui finalismo è inscritto nell‟orizzonte di senso della sua coscienza razionale. Il carattere teleologico dell‟esistenza umana la distingue dal semplice processo della vita naturale. Mentre infatti questa tende a perseverare nell‟invarianza delle caratteristiche sue fondamentali strutture biologiche al fine di conservarsi 52
J. Monod, Le hazard et la nécessité (1970), tr. it., Milano, 1997, pag. 25.
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e perpetuarsi, l‟esistenza umana investe il suo bagaglio energetico vitale per la realizzazione di modelli immaginativi funzionali all‟emancipazione dalla sua dipendenza dalla necessità naturale, il cui carattere volontaristico è espressivo di convincimenti fideistici non derivabili da alcuna oggettiva predeterminazione causale, e perciò definibili in termini di libera determinazione soggettiva. Tale “libera determinazione soggettiva” conferire alla volontà umana il suo essenziale carattere spirituale, la cui destinazione teleologica è rappresentabile simbolicamente come il percorso razionale della sua personale Storia. Nella prospettiva spiritualistica, “vera” è soltanto la conoscenza della Storia spirituale dell‟uomo, non già la sua astratta rappresentazione oggettiva, che è appunto astratta dal suo télos esistenziale. E se la conoscenza oggettiva mira a includere il solo dato naturalistico entro un sistema di connessioni causali astrattamente predeterminabili, escludendo da esse ogni contingente apporto accidentale, la conoscenza veritativa o intuitiva tende all‟inverso a delineare attraverso le comuni necessità della vita naturale un percorso di libertà spirituale in cui consiste la Storia dell‟uomo. Per il suo carattere di imponderabilità, lo sviamento spirituale della libertà umana dalle necessità della vita bio-fisica è essenzialmente imputabile alla sua personale soggettività, la quale, d‟altro canto, non può essere assunta come criterio di valore universale allo scopo di caratterizzare per suo tramite la storia oggettiva dell‟umanità. Oggettivare la libertà umana è come naturalizzare lo spirito: un‟incongruenza ontologica, periodicamente tentata inutilmente dalle filosofie monistiche, che provocano ogni volta unilaterali reazioni teoretiche opposte. Anche le antitesi reattive, tese a spiritualizzare la vita sociale e pratica, idealizzando la natura e dialettizzando i processi collettivi, sono forme di “proiezione animistica”, che attribuiscono ai fenomeni fisici “l‟esperienza soggettiva del movimento del pensiero”, il quale diviene pertanto “l‟espressione più immediata delle leggi universali”.53 Beninteso, è sempre possibile immaginativamente separare dalla esistenza concreta dell‟uomo gli elementi coerenti a una struttura di senso razionalmente predisposta a comprenderli e a valutarli, sussumendoli sotto categorie di pensiero funzionali alle domande della coscienza storica che le pone, ma la conoscenza razionale che di essi ne proviene, per quanto moralmente o logicamente soddisfacente, non è veritativa. La 53
Ivi, pag. 35.
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“verità” è infatti legata indissolubilmente alla concretezza dell‟esistenza vissuta, ossia ai suoi personali processi spirituali, inerenti alla singolarità della sua storia. Il che misura la distanza tra essa e la conoscenza razionale della realtà. In Guerra e pace Tolstoj dichiara il suo disprezzo morale per la superstiziosa credenza occidentale nelle virtù eroiche degli uomini della Storia, che avevano preso nell‟immaginario storico il posto demiurgico che era stato in passato degli dèi. L‟esordio della descrizione della avanzata da Mosca di Napoleone, conclusasi con la disordinata tragica ritirata del suo esercito sbandato, contrappone ciò che Tolstoj chiama “la sostanza di ogni avvenimento storico, cioè l‟attività di tutta la massa di uomini che hanno partecipato all‟avvenimento”, alla “volontà d‟un sol uomo”, cioè alla “volontà dell‟eroe storico”, il quale a suo dire “non solo non guida le azioni delle masse, ma è essa stessa continuamente guidata”. Tale “sostanza” sta alla presunta “volontà d‟un sol uomo”, lo “eroe storico”, come l‟idea sta ai singoli fenomeni, nella cui singolarità può indicarsi una “causa” che in realtà non chiarisce la “infinità e complessità delle condizioni dei fenomeni” stessi.54 La rappresentazione anti-storica proposta da Tolstoj, per la sua convinta adesione allo spontaneo sviluppo provvidenziale del corso degli avvenimenti umani, ne costituisce la sua chiave di lettura intuitiva, del tutto alternativa a quella elaborata dal razionalismo occidentale, antitetica alla stessa visione storicisticocristiana di Berdjaev, il quale considerava un regresso culturale la massificazione moderna rispetto alla visione eroica dell‟uomo di origine rinascimentale. Tolstoj tende a proporre una lettura provvidenzialistica del corso degli avvenimenti umani, ma distante e polemica rispetto a ogni prospettiva storicistica, sia pure di segno cristiano. La ragione di questa impostazione viene chiarita in Anna Karenina, che sviluppa in dettaglio l‟assurda fenomenologia della volontà umana emancipata dall‟unità intuitiva del mondo e della vita spirituale, contrapponendo la civiltà aristocratica alla genuinità dell‟esistenza contadina. La Storia, come dimensione dell‟individualità aristocratica, è per Tolstoj la narrazione mistificata di un‟immagine dell‟uomo del tutto fuorviata dalla sua verace realtà, e perciò contraddittoria sia nell‟esaltazione dei protagonisti che negli esiti esistenziali.
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L. Tolstoj, Guerra e pace, tr. it., Milano, 1951, vol. IV, pag. 81.
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“Se si ammette che la vita umana possa essere governata dalla ragione, si annienta la possibilità della vita stessa”.55 Infatti, la domanda cruciale è : “qual è la forza che muove i popoli?”56 Gli storici antichi l‟attribuivano alle divinità, che usavano gli eroi per i loro fini. Gli storici moderni, invece, hanno rinnegato le credenze degli antichi, senza aver messo al posto di quelle credenze nuove concezioni, e la logica della tesi ha costretto gli storici, che apparentemente avevano rinnegato l‟autorità per diritto divino dei re e la fatalità degli antichi, a giungere per altra via allo stesso punto: al riconoscimento che: 1) i popoli sono diretti da singoli uomini, e 2) che esiste uno scopo determinato, verso il quale muovono i popoli e il genere umano.57
Ma qual è “il legame essenziale esistente tra questi personaggi e il movimento dei popoli” ? Scartato il valore divino, tutto va compreso all‟interno dei rapporti umani. “Gli scrittori di biografie e gli storici dei singoli popoli intendono questa forza come un potere inerente agli eroi e ai dominatori”, ma la loro interpretazione di uno stesso avvenimento varia a seconda dei rispettivi punti di vista singolari, per cui “si contraddicono l‟un l‟altro anche nelle spiegazioni che danno intorno a quella forza, su cui è fondata la potenza d‟un solo e medesimo personaggio”.58 Quanto agli storici di storie universali […] essi non ammettono questa forza come un potere inerente agli eroi e ai dominatori, ma la riconoscono come il risultato di molte forze diversamente dirette [ossia] nell‟influenza reciproca di molte persone collegate con l‟avvenimento, [adoperando] il concetto della potenza, di nuovo, come una forza che produce per se stessa gli avvenimenti e si riferisce ad essi come causa. 59
La contraddizione di queste tesi nasce dal fatto che, “essendosi posti sul terreno delle analisi, questi storici si fermano a metà cammino”. Nel senso che “per trovare le forze componenti, eguali alla risultante, è necessario che la somma delle forze componenti sia eguale alla risultante”; ma, poiché “questa condizione non è mai osservata dagli 55 56 57 58 59
Ivi, Epilogo, I, tr. it. cit., pag. 283. Ivi, II, pag. 355. Ivi, pag. 352. Ivi, pag. 356. Ivi, pag. 357.
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storici generali”, essi per “spiegare la forza della risultante, debbono necessariamente ammettere – oltre alle forze componenti insufficienti – anche una forza inesplicata, che agisce sulla risultante”, sicché “qualche volta, quando a loro piace, quando questo si conforma alle loro teorie, dicono che il potere è il risultato degli eventi, e qualche volta, quando occorre dimostrare qualcos‟altro, dicono che il potere ha prodotto gli eventi”. [ Ivi, pagg. 358-359.] Analogamente, gli “storici della cultura” rimettono questa forza alla “attività intellettuale”, trascegliendo tra tutte le relazioni umane quella più confacente alla loro sensibilità di dotti. Ma, nonostante tutti i loro sforzi per dimostrare che la causa d‟un dato avvenimento sta nell‟attività intellettuale, solo con una grande condiscendenza si può ammettere che fra l‟attività intellettuale e il movimento dei popoli sia qualcosa di comune; ma non si potrà ammettere in nessun modo che l‟attività intellettuale diriga le azioni degli uomini; poiché tali fenomeni come le più crudeli stragi della rivoluzione francese, derivanti, secondo questi storici, dalla predicazione delle idee che affermano la eguaglianza degli uomini, e le più spietate guerre e i più atroci supplizi, considerati come conseguenza della predicazione dell‟amore fra gli uomini, non confermano questa supposizione. 60
Quale legame si interpone infatti tra “la nuova forza dell‟idea” e “le masse”, cioè “l‟evento storico” di cui sono protagoniste? “L‟unico concetto mediante il quale può essere spiegato il movimento dei popoli, è il concetto d‟una forza eguale a tutto il movimento del genere umano” indicando “il concetto d‟una forza che induce gli uomini a volgere la loro attività verso un dato scopo. E l‟unico concetto di questo genere noto agli storici è il potere”, che costituisce “l‟unica manovella per mezzo della quale si può dominare il materiale storico nella sua attuale trattazione”.61 L‟unica condizione di cui gode la credibilità della “scienza storica” è la rimozione della “quistione in che modo la volontà degli eroi sia causa degli eventi”, ma appena sorge il problema “che cosa è il potere?”, allora solo e convenzioni intellettuali possono ancora supplire “alle domande essenziali del genere umano” con risposte utili solo “per le università e la folla dei lettori di libri seri”. Rinnegata la versione antica della volontà
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Ivi, pag. 359. Ivi, pag. 362.
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divina, e non potendo tornare alla fede distrutta, “è necessario spiegare il valore del potere”.62 Per la scienza del diritto, il potere è “la somma delle volontà delle masse, trasferita per consenso tacito o espresso sui governanti eletti dalle masse”.63 Ma tale scienza “considera lo Stato e il potere, così come gli antichi consideravano i fuoco, come un che di esistente in modo assoluto. Ma per la Storia lo Stato e il potere sono soltanto fenomeni”, non “elementi”. Ne consegue che la scienza del diritto “può dire minutamente come, secondo il suo parere, bisognerebbe costituire il potere e che cosa è un potere esistente immobilmente al di fuori del tempo; ma ai problemi storici sul valore di un potere che si trasforma nel tempo non può rispondere nulla”64 Tolstoj contesta “l‟atto della trasmissione della volontà collettiva” 65 e il conseguente rapporto fra gli “eroi” e i popoli, la cui vita “non si compendia nella vita di alcuni uomini”.66 “La teoria della trasmissione della volontà delle masse ai personaggi storici è soltanto una perifrasi, - la ripetizione con altre parole del senso della domanda [quale sia] la causa degli avvenimenti storici?”. In altri termini, cosa sia il potere. Se dovessimo affidarci alla definizione di potere offerta dalla scienza, “il genere umano sarebbe giunto alla conclusione che il potere è soltanto una parola e non esiste nella realtà”. Ma per fortuna, “oltre al pensiero astratto, l‟uomo possiede lo strumento dell‟esperienza, su cui verifica i risultati della meditazione”, giungendo alla conclusione che “il potere non è una parola, ma un fenomeno realmente esistente”, sicché “l‟esperienza ci dimostra che qualunque sia l‟avvenimento che accade, esso è sempre legato con la volontà di uno o di alcuni uomini che lo hanno ordinato”.67 Dal punto di vista dell‟esperienza, il potere appare come un mero “rapporto di dipendenza esistente fra l‟espressione della volontà di un individuo e l‟esecuzione della volontà stesa da parte degli altri uomini”. Ma per comprendere tale rapporto dobbiamo chiarire il “concetto della espressione della volontà” riferendoci all‟uomo, alle condizioni del tempo e alla natura del legame che intercorre tra “il personaggio che ordina rispetto a quegli uomini che eseguiscono il suo 62 63 64 65 66 67
Ivi, pag. 363. Ivi, pag. 364. Ivi, pag. 365. Ivi, pag. 371. Ivi, pag. 370. Ivi, pag. 372.
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ordine”.68 Tale legame è appunto costitutivo del “potere”, la cui “sostanza del concetto” è perciò il “rapporto fra le persone che comandano e coloro che obbediscono”.69 Questo rapporto di dipendenza inter-personale non è conseguente alla forza carismatica di persuasione, come quello che intercorre tra un discepolo e il suo maestro, e perciò non è un rapporto elettivo ma necessario, legato a vincoli impersonali che determinano razionalmente all‟interno di una struttura istituzionale i ruoli dei suoi membri. In questo senso, il rapporto politico è, nel suo ambito sociale, un rapporto di necessità analogo a quello naturale. A contrario, la libertà di un uomo è l‟emancipazione dalla necessità, che è sia la legge di natura che della ragione. Guardando l‟uomo come un oggetto di osservazione, da qualsiasi punto di vista – teologico, storico, etico, filosofico, - noi troviamo la legge generale della necessità a cui egli è soggetto, come tutto ciò che esiste. Guardandolo dal nostro intimo, come ciò di cui abbiamo coscienza, noi ci sentiamo liberi. Questa coscienza è una sorgente della conoscenza di sé del tutto separata e indipendente dalla ragione. Mediante la ragione l‟uomo osserva se stesso; ma conosce se stesso solo mediante la coscienza. Senza la coscienza di sé nessuna osservazione e applicazione della ragione è concepibile.70
La “volontà” è per l‟uomo l‟organo della vita, la sua “sostanza”, che egli non può che conoscerla come “libera”, e perciò “gli si presenta limitata” da ogni legge che la diriga in qualche senso necessario, e cioè razionale. Se la coscienza della libertà non fosse una sorgente della conoscenza di sé separata e indipendente dalla ragione, sarebbe sottoposta al ragionamento e all‟esperimento; ma nella realtà una simile soggezione non esiste mai ed è inconcepibile. 71
L‟uomo può credere alla dipendenza di una legge fisica, ma non alla ragione della necessità, e persino dell‟esperienza, immagina la possibilità di un‟alternativa a fronte delle stesse immutate condizioni, e “sente che senza di questa assurda rappresentazione (che costituisce la essenza della libertà) non può immaginarsi la vita [né] potrebbe vivere nemmeno un istante”.
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Ivi, pag. 373. Ivi, pag. 377. Ivi, pag. 382. Ivi, pag. 383.
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La ricchezza e la povertà, la gloria e l‟oscurità, la potenza e la soggezione, la forza e la debolezza, la salute e la malattia, l‟istruzione e l‟ignoranza, il lavoro e l‟ozio, la sazietà e la fame, la virtù e il vizio sono soltanto maggiori o minori gradi della libertà.72
Tutti gli sforzi umani tendono all‟accrescimento della libertà, ossia alla realizzazione della sua rappresentazione della vita. Ma questa “rappresentazione”, poiché inerisce l‟ambito personale della realtà della coscienza, appare alla ragione oggettivante come l‟orizzonte intimistico della “immaginazione”, inteso come quello dove la volontà crea i suoi desideri proiettivi, fondando la loro credibilità valoriale su una fede ontologica, senza la quale essi potrebbero essere razionali ma non sarebbero “veri”. Orbene, questo ambito, in cui il senso della vita coincide con il senso stesso dell‟esperienza esistenziale di chi la vive, è l‟orizzonte spirituale non soggetto alla necessità della ragione e perciò della libertà dell‟uomo, solo in rapporto al quale è possibile pervenire alla intuizione della “verità”. Ma proprio quest‟ambito veritativo di libertà il pensiero razionalistico l‟ha consegnato alla gratuita fantasia dell‟arte, facendo assumere alla sua essenziale simbologia una semantica meramente estetica, priva di contenuti ontologici. Eppure, rispetto alle sue essenziali intuizioni, sono le astratte rappresentazioni razionalistiche la conoscenza meno vera, legata ai formalismi di una struttura gnoseologica assiologicamente neutra, cioè priva appunto di concreti contenuti esistenziali. La prospettiva esistenziale in cui si pone la persona spirituale di fronte al Potere è quella morale. Dal punto di vista morale causa d‟un avvenimento appare il potere: dal punto di vista fisico, coloro che si assoggettano al potere. ma poiché l‟attività morale è inconcepibile senza l‟attività fisica, la causa d‟un evento non si trova né nell‟una né nell‟altra, ma nell‟unione di ambedue.73
Nella concreta esperienza morale, la volontà egemone e quella soggetta rivestono un imprescindibile carattere di fisicità, senza il quale non si realizzerebbe l‟ “evento”. Nel caso paradigmatico di Gesù, non è il giudizio o il desiderio di condanna la fonte dell‟evento simbolicamente significativo per la posizione morale dei cristiani, bensì la Morte, ossia la 72 73
Ivi, pag. 384. Ivi, pag. 381.
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sua consumazione fisica, attraverso la quale l‟evento spirituale si è compiuto. Il piano morale è dunque quello in cui la necessità fisica appare nella sua nudità, che è quella della volontà del Potere. Ed entro l‟orizzonte della coscienza morale, la volontà del Potere perde la il suo carattere razionale di necessità per assumere quello della possibilità, ossia della scelta di libertà. In questo senso, il piano morale è antipodico a quello politico, nel senso chiarito della diversità, e non è antitetico nel senso della opposizione logica. Ma soprattutto, quello morale, per la sua concretezza esistenziale, è il piano della “verità” spirituale. La verità morale comprende l‟unità dell‟esistenza spirituale, la ragione logica l‟esclude. Come aveva ben visto Pascal, la fede non è “un dono del ragionamento”, cioè non deriva da esso, ma ne è il presupposto, sicché gli atti della ragione, le dimostrazioni, sono “lo strumento della fede”.74 Quando la ragione si libera della fede, fa della volontà la ragione di se stessa, assegnando al suo arbitrio il posto principale che in origine aveva la fede. La volontà priva di comprensione morale diventa potenza, che deflette in senso passivo il servizio attivo dovuto alla fede in senso attivo, esplicandosi come volontà di essere servita. Questa attività di assoggettamento della realtà alla volontà di potenza consiste nella esclusione dal comportamento umano di ogni scelta contraria o diversa da quella esclusivamente prescritta. Tale esercizio prescrittivo, divenuto attività sistematica delle istituzioni politiche, definisce la funzione sociale del Potere, che è quella di escludere la libertà da ogni riconoscimento di valore pubblico. Le istituzioni politiche, formalizzando il comportamento umano, tendono a ridurre lo spazio della libertà di coscienza a favore di azioni regolate secondo la ragione sistemica, ovvero il criterio d‟ordine comune a un certo consorzio sociale. Con le parole di Tolstoj, “l‟uomo, in relazione con la vita generale dell‟umanità, appare sottoposto a leggi che determinano questa vita. Ma quello stesso uomo, indipendentemente da questo legame [ossia dal rapporto sociale], appare libero”.75 Il “problema della storia” consiste nel sapere se la vita del genere umano sia informata al principio di libertà, ovvero a quello di necessità. La storia ha per oggetto non la volontà stessa dell‟uomo, ma la rappresentazione che noi ci facciamo di essa. E perciò per la storia non esiste, come per la teologia, l‟etica e la filosofia, un mistero insolubile sulla unione di due concetti contraddittorii del libero 74 75
Pensieri, n. 143. L. Tolstoj, Loc. cit., pag. 385.
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arbitrio e della necessità. La storia considera una rappresentazione della vita dell‟uomo nella quale l‟unione di queste due contraddizioni si è già compiuta. Nella vita reale ogni fatto storico, come ogni azione umana, viene compreso in modo molto chiaro e definito, senza che si abbia la sensazione della minima contraddizione, sebbene ogni evento si rappresenti in parte come libero, in parte come necessario, 76
in rapporto inversamente proporzionale a seconda del nostro punto di considerazione.77 Il “problema della storia” è che la libertà e la necessità vengano assunte come polarità dialettiche, la cui contraddittoria “unione” concettuale è pensata come “sintesi” di ragione, cioè in termini logici funzionali a una coerenza sistemica quale l‟esistenza umana non è. Infatti, la libertà e la necessità non sono propriamente dei “concetti”, ma delle condizioni esistenziali relative alla duplice natura ontologica dell‟uomo, essere spirituale e naturale. a seconda del riferimento ad una o altra condizione umana, le vicende storiche appaiono determinate dalla necessità, ovvero caratterizzate dalla libertà. Ma la contraddizione dei due punti di vista non è risolubile in alcuna sintesi fattuale, poiché non vi è tra la condizione naturale e quella spirituale nessuna possibile coerenza razionale che ne elimini la rispettiva differenza ontologica, che fa dell‟esistenza umana un mistero divino. Ciò che la ragione può fare è di escludere il mistero umano dalla considerazione razionale dei processi storici, concependoli come un processo logico di eventi esclusivi, appunto, di ogni personalità spirituale, assumendo naturalisticamente l‟uomo come un astratto ente di ragione, e pervenendo così a una conoscenza dei processi umani sistemicamente coerente alle premesse metodiche, ma privo affatto di “verità”. La distanza, dunque, tra la scienza e la verità è la stessa che tra la conoscenza astrattamente naturalistica dell‟esperienza umana collettiva e l‟intuizione della sua concreta esistenza spirituale personale. 3. Ricoeur è convinto che “l‟esistenza politica dell‟uomo sviluppi un tipo di razionalità specifica, irriducibile alle dialettiche a base economica”, la quale politica, a suo dire, “sviluppa dei mali specifici, che sono precisamente mali politici, mali del potere politico”. Da qui la necessità per lui di “controlli democratici stretti”, che non potrebbero essere
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Ivi, pag. 387. Ivi, pag. 388.
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esercitati sulle dinamiche economiche.78 Riferendoci sopra ai mali storici del razionalismo politico, abbiamo visto pure che, in tutti quei casi, la ragione è la stessa: l‟accettazione della logica politica come metodo di rapporto esclusivo fra gli uomini. La stessa politica, come tecnica al servizio dell‟etica pubblica, non è altro che l‟attività economica, cioè il calcolo di sopraffazione dell‟altro a scopo di sopravvivenza, e quindi di preservazione della propria vita. Questo concetto è stato indicato da Foucault col termine di “bio-politica”, con cui si indica il calcolo razionale della conservazione della vita del gruppo umano di riferimento come contenuto della politica come tecnica di controllo sociale. Dal punto prospettico del fine politico, la sua giustificazione etica deriva dalla razionalità di quel fine, sicché la bontà tecnica del metodo politico costituisce la misura della sua stessa plausibilità etica. La trasformazione della “efficacia” in criterio di valore etico, significa assegnare alla politica una dimensione di potenza astratta da ogni umano servizio teleologico, consentendo quindi di designarla come scienza oggettiva in senso naturalistico. Il suo metodo, universalizzato e razionalmente giustificato come criterio assoluto di validità sociale, ha dato vita alla “scienza dell‟economia”, che oggi costituisce il principio direttivo di ogni relazione umana dotata di senso razionale, sia essa privata o pubblica, personale o collettiva. Ciò vuol dire che la stessa metodica politica, astratta dalla sua funzionalità sociale, cioè dal suo fine etico, diventa tecnica, la cui logica consiste nella sistematica esclusione di ogni concreta ragione sociale diversa dall‟astratto scopo della sua stessa efficacia. Ora, il fine intrinseco alla razionale affermazione di sé è esattamente il contenuto di ogni volontà di potenza, che diventa causa sui di ogni esercizio di Potere. La progressiva astrazione della volontà, prima dal fine morale, poi da quello etico, e infine da quello stesso del suo servizio sociale, fa della razionalità politica una tecnica di sopravvivenza biologica del gruppo umano, assimilabile a un complesso molecolare, entro il quale le relazioni umane variano tra il “legame covalente” di una dimensione più comunitaria, e il “legame non covalente” di una struttura sociale più individualistica.79 L‟esito connesso a questa riduzione logica della volontà umana è inscritto nel suo processo di universalizzazione della sua 78
P. Ricoeur, La questione del potere, cit., pagg. 69-70. Per la differenza tra “legami covalenti” e “non covalenti”, ved. J. Monod, Op. cit., pagg. 53 sgg. 79
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ragione originaria, ottenuta attraverso la sua astrazione da ogni fine teleologico di servizio. Non è possibile universalizzare logicamente la volontà senza astrarla dalla sua concreta azione esistenziale, cioè dalla sua ragione finale di senso spirituale. Pertanto, l‟espressione logica di un‟azione umana equivale a una volontà privata del suo fine razionale, che è esistenziale, e non astrattamente sistemico. Il fine umanamente razionale è quello morale della libertà spirituale, che è l‟unico a poter disegnare esistenzialmente una storia, che è sempre personale. Diversamente, ogni rappresentazione collettiva dei processi umani, astratti dalla loro verità personale, cioè dalla loro concretezza esistenziale, ne coglie la loro esclusiva dimensione naturalistica, logicamente necessaria, perché legata alla finitezza corporea della loro costituzione biologica. Ma l’uomo non è riducibile a un astratto ente fisico, per cui ogni sua rappresentazione esclusivamente naturalistica può essere logica ma sicuramente non è vera, essendo essa astratta dal fine spirituale che sostanzia l‟esistenza umana e di cui costituisce la ragione morale. L‟invenzione greca della logica della conoscenza scientifica del mondo, è interna a un universo di senso naturalistico, in cui le forme del pensiero si sovrappongono a quelle dell‟azione, sicché la sua adozione tecnica in ambito spiritualistico da parte della metafisica cristiana ha ingenerato una insanabile contraddizione epistemologica che ha fatto implodere il cosmo religioso della teologia cattolica in tutte le sue dimensioni, teoretiche ed esistenziali, determinando la crisi della civiltà liberale cristiana. Tornando ai “controlli” auspicati da Ricoeur, l‟equivoco è evidente che pensiamo che quelli “democratici” esercitati dall‟opinione pubblica riguardano le idee e i principi che guidano l‟azione politica, ma non possono attenere alla sua prassi, poiché questa non è regolata dall‟opinione ma dalle istituzioni del Potere. Contestare la prassi politica significa contestare il Potere. “Controllare” il Potere democratico “democraticamente” è l‟esercizio stesso della prassi politica. Controllare il Potere significa controllare la sua prassi, e questo non può avvenire “democraticamente” se non ammettendo un controllo esterno alla prassi politica, che non può essere perciò “politico”, ma semmai “pubblico”, cioè riconosciuto come legittimo anche da parte della politica. La dialettica politica consiste esattamente in un controllo della sua prassi da parte delle forze concorrenti. Tale controllo politico è dunque pertinente alla stessa prassi politica. Il “controllo” di cui parla Ricoeur, se è “politico”, deve entrare nel processo politico del controllo 70
reciproco delle forze concorrenti; se invece è di altra natura, deve potersi esercitare pubblicamente ma all‟esterno delle dinamiche politiche. Ciò vuol dire che, a prescindere dell‟identità di tale controllo, la circostanza del suo esercizio esterno alla logica politica, lo pone come “giudice” della prassi politica, in termini di giudizio, non di efficienza, ma di valore discriminante il suo bene dal suo male. Un giudizio dunque diverso da quello di efficacia, espresso da un organo di governo, ma non di potere, decisionale ma non di merito nelle decisioni politiche, moralmente autorevole ma privo di autorità politica. Una autorevolezza morale che sia riconosciuta anche dal Potere, e perciò “pubblica”. Il “controllo democratico”, cioè una funzione di controllo “pubblico” della prassi politica, è relativo ai moventi della politica, alle sue ragioni ideali e ai suoi interessi pratici, ma non può sostituirsi al controllo istituzionale della sua prassi, che si esercita con strumenti coercitivi che non possono essere dell‟opinione pubblica ma di appannaggio del Potere. Lo stesso “controllo democratico” è contiguo alla politica, non solo in quanto è funzionale all‟equilibrio sociale che garantisce la “pace” tra i gruppi, ma anche nel senso della necessità di fiancheggiare il Potere per servirsene a scopo di conservazione dei propri fini particolari. Ciò vuol dire che la sua posizione politica è sempre relativa a quella del Potere, ossia alla reciproca compatibilità. Da qui la sua contingente mobilità e parzialità. Tale controllo democratica rientra nel tipo di quello esercitato dai gruppi religiosi, i quali, come nel caso antonomastico della Chiesa, indirizzano l‟opinione pubblica a fini di pressione politica sul Potere. caso analogo fu quello dei farisei per contrastare l‟azione predicatoria di Gesù, che minacciava di privarli del controllo del consenso di una parte considerevole dell‟opinione pubblica israelita. L‟autorevolezza morale di Gesù, per quanto influente, era pur sempre “privata”, rispetto a quella della casta farisaica, la quale era riconosciuta dal Potere romano, e perciò di valenza “pubblica”. Solo l‟opinione dotata di valenza pubblica può svolgere una funzione politica di “controllo” del Potere, il quale, proprio perché controllato, non può esercitare le sue prerogative sul controllore, reprimendone la funzione “pubblica”; come invece successe nel caso di Gesù, e ancor prima in quello di Socrate. Ma mentre la predicazione privata di Socrate si muoveva comunque nell‟ambito dell‟orizzonte etico-politico, quella di Gesù lo trascendeva, limitando il Potere non politicamente, ma su un piano di realtà decisamente extra-politico. Pertanto, la dialettica tra valori etici e prassi 71
politica non può applicarsi che all‟interno di uno stesso orizzonte di senso politico, in cui il ruolo privato e quello pubblico ripropongono in chiave sociologica ciò che è la dialettica tra doxa e filosofia sul piano teoretico: un processo di razionalizzazione del sistema, rispettivamente sociale e ideale. Ma la predicazione di Gesù non è volta a tal fine. L‟orizzonte della carità cristiana, infatti, non è né politico né ideale, ma spirituale. E spirituale è quel piano esistenziale dove la politica è esclusa come modalità di relazione inter-personale, stabilita non su un generico ed astratto livello di socialità, ma su quello concretamente esistenziale della prossimità elettiva. Il “prossimo” destinatario dell‟amore cristiano, non è il generico ed occasionale altro, ma il con-fratello con-partecipe della stessa scelta esistenziale, non basata su criteri naturalistici come l‟affinità etnica e politica. Ciò implica che il senso cristiano di comune appartenenza spirituale sia conseguente a un preventivo riconoscimento reciproco, del tutto diverso dal rapporto giuridico sinallagmatico, perché non basato sull‟interesse relativo alla vita fisica dell‟uomo, cioè su moventi necessarii, ma sul sentimento di partecipazione spirituale all‟esistenza dell‟altro proprio della libera relazione amorosa. Mentre la condotta della prima tipologia relazionale è impersonalmente astratta, e perciò socialmente sanzionabile e prescrittibile da parte del Potere pubblico, il sentimento simpatetico, spiritualmente elettivo, è del tutto gratuito e di indeterminabile rilevanza morale, perché unico e personale. Non a caso l‟a-more è un legame inter-personale che trascende i costumi sociali (mores). Chi, come Freud e Schpenhauer, ha visto nel suo desiderio erotico dell‟altro solo una pulsione vitalistica, non ne ha colto l‟essenza spirituale, essenzialmente diversa da quella biologica, perché supportata da un‟intuizione dell‟altro che trascende ogni dimensione di conoscenza finita e mira al Tutto, esattamente come nella rappresentazione artistica della realtà e nel rapporto di carità cristiano, ossia una “immagine” intuitiva dell‟esistenza concreta che la coscienza percepisce come reale, e quindi spiritualmente vera. Su questa “immagine” intuitiva della realtà si fonda la verità dell‟Essere, la fonte dei valori simbolici che la ragione umana elabora di trame giustificative che la rendano oggettivamente rappresentabile. Ed è sulla rappresentazione della verità che si esercita infatti la ragione allo scopo di renderla il più possibile oggettiva, cioè astratta da ogni processo in divenire, da ogni finitezza contingente, e perciò eterna e inviolabile, sacra. In questo servizio alla verità, la ragione esaurisce ogni sua 72
funzione entro i limiti che l‟intuizione ha tracciato alla coscienza umana. Ed è allorquando la ragione perde il suo scopo di servire la verità, per dedicarsi a costruire una rappresentazione di universale oggettività (Entaesserung) della coscienza, sciolta da ogni vincolo intuitivo e scientificamente assoluta, nel tentativo di trasformare la sua realtà spirituale in realtà naturale, indipendente dalla coscienza intuitiva dell‟uomo; è allora che la ragione fallisce, col suo scopo, anche la sua funzione elaborativa di senso, divenendo mera tecnica razionalistica di pensiero, dialettica. La dialettica concepiva i suoi rapporti con la sofistica in termini metodici di compiutezza sistemica, ossia di perfezione della tecnica dialogica, atta a confutare gli errori del pensiero non metodicamente guidato, non avvedendosi che la sofistica nasceva sul terreno di un pensiero emancipato dal servizio alla sua verità intuitiva, privato di ogni fondamento epistemico, che era ontologico, e non logico, riguardante cioè quella fede intuitiva nella realtà dell‟Essere che con la dialettica il razionalismo socratico aveva inteso confutare. Questo equivoco epistemologico condurrà la polemica filosofica contro la sofistica entro lo spazio semantico della politica, lo stesso nel quale i farisei intesero portare il messaggio di Gesù, che infatti subì la stessa condanna già inflitta a Socrate. Sia l‟istanza noetica socratica che quella morale cristiana, astratte dalla loro contestuale esperienza spirituale, furono oggettivate da una rielaborazione filosofica che li rappresentò come modelli universali di verità, ossia come Miti, fondativi di rispettive mito-logie. Autore della mitogenesi socratica fu Platone, sul cui pensiero mitologico intervenne in senso rielaborativo Aristotile, mentre di quella cristiana fu Paolo, sulla cui cristologia filosofica si sviluppò la mitologia storicistica di Agostino. Ma la tendenza platonica di rappresentare il dramma socratico come paradigmatico di un‟esperienza politica universale, che vedeva contrapposti il filosofo critico delle certezze comuni e il Potere custode dei valori che eticamente lo giustificano, non poteva costituire il modello metafisico da adottare per un‟analoga operazione cristiana, in quanto la testimonianza morale di Gesù non era riducibile a un piano filosofico di scontro dialettico tra opinioni logicamente fondate. E ciò per la essenziale ragione che l‟esperienza spirituale del Cristo non era universalizzabile nel senso dell‟ordine metafisico classico, avendone respinto la sua ontologia naturalistica.
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Sul fondamento naturalistico della concezione greca dell‟Essere era stabilito anche il senso delle azioni umane, il cui fine coincideva intrinsecamente con la logica della stessa “natura”, alla quale dunque esse andavano uniformate. L‟attività noetica consisteva dunque nel conseguimento della coscienza dell‟armonia cosmica, di cui il theorein del saggio era la serena contemplazione. Conseguire tale coscienza significava riportare a sistema il caos delle apparenze fenomeniche, ossia razionalizzare il divenire reale secondo la compiutezza delle forme ideali La logica razionalizzatrice del caos procede per negazione di ciò che degli enti è contingente e non universale, eliminando quindi, nel caso dell‟uomo, dal suo processo vitale gli elementi non naturalizzabili, precipui alla sua esperienza esistenziale. Quelli, cioè, che la visione cristiana dell‟uomo considera essenziali per la costituzione della sua personalità spirituale, e che pertanto non sono astrattamente oggettivabili in termini logico-naturalistici. Se, dunque, nella prospettiva naturalistica greca, la “verità” coincide con l‟oggettività della coscienza razionale, nella prospettiva cristiana la “verità” coincide con ciò che è irriducibilmente altro e diverso dall‟astratta entità naturalistica, legata alla necessità cosmica a cui non può essere assoggettato lo Spirito che l‟ha voluta. Ed è esattamente tale volontà spirituale, libera dalla necessità della natura, a costituire l‟essenza irriducibile dell‟uomo, creatura divina che è l‟immagine spirituale di Dio. E dunque ciò che per la logica greca e la scoria del mondo, la contingente esistenza individuale dell‟uomo, a costituire nella prospettiva cristiana la traccia simbolica della verità spirituale. Verità esistenzialmente personale e soggettiva, e non astrattamente universale e oggettiva. E‟ evidente che, entro lo spiritualistico universo di senso cristiano, le azioni umane acquistano valore non in virtù della loro conformità sociologica ai canoni istituzionali stabiliti dal Potere, ma in considerazione del loro valore spiritualmente simbolico, informato al principio della carità, e non quindi del rapporto politico. La semantica dell‟azione è relativa al suo modello assiologico, che ne determina il senso razionale. Il principio caritativo, inclusivo dell‟esperienza del prossimo nella propria esperienza esistenziale, è l‟opposto ontologico del principio esclusivo della logica e della politica greche, protese a negare l‟altro-da-sé, come insignificante realtà finita, anziché a comprenderlo nel Sé infinito come sua traccia simbolica personale. 74
Le due prospettive, greca e cristiana, sono ontologicamente diverse e non dialettizzabili entro un comune percorso metafisico e storico che li possa armonizzare in una sintesi superiore. L‟idea che questa sintesi potesse conseguirsi ha animato l‟intiera cristologia post-paolina, la quale ha elaborato un poderoso edificio metafisico che ha sorretto per un millennio la teologia cattolica, ma che alla fine della sua parabola mitopoietica è progressivamente crollato sotto il peso delle incessanti rielaborazioni critiche e giustificatrici, facendo riemergere dalle sue rovine gli elementi irriducibili della fondamentale diversità ontologica tra l‟Essere naturalistico greco e l‟Essere spirituale cristiano, che ha impedito di ridurre Dio, e per esso l‟uomo spirituale, a un ente logico e naturale. Questa elementare ed essenziale verità andava predicando Gesù, incontrando l‟ammirazione degli umili, emarginati dalla storia politica, e la diffidenza dei potenti, gli integrati del sistema sociale, che nella libertà spirituale scorgevano la minaccia alla “pace” politica. Una verità non tramutabile a sua volta in sistema politico, come pure avvenne con la Cristianità, la cui fragile grandiosità era l‟opposto della grandiosa debolezza dello spirito personale cristiano, che nei tempi della sua storia mondana cerca di districarsi dalle maglie tenaci della necessità biologica e sociale della sua natura finita. E dunque una verità fragile quanto l‟uomo, ma trascendente la sua finitezza, e perciò ricomponibile attraverso l‟esperienza di altri uomini, fino a disegnare una trama spirituale che diacronicamente percorre tempi e luoghi diversi, epoche e situazioni non altrimenti collegati che dall‟ invisibile filo della memoria della illuminante parola di Cristo, in cui ogni esperienza umana particolare può, al di là di ogni contingenza, ritrovarsi come il figliol prodigo nella casa del padre. La parola come sintesi della vita spirituale, costituiva il luogo simbolico della diversità rispetto a quello naturalistico della logica politica. Luogo interiore, non sociale; orizzonte personale, non politico; condizione esistenziale, non naturale; vissuto eterno, non mortale. Vivere per l‟oltre la morte nell‟amore di Dio, è l‟opposto che vivere per la vita nel timore di Cesare. Il giudizio di Dio, diversamente da quello di Cesare, non condanna, e perciò perdona. Il perdono è l‟atteggiamento di carità inclusivo, così come la condanna lo è esclusivo. Il giudizio che condanna afferma negando, mentre il perdono si astiene giudicando, lasciando perciò libera nella sua responsabilità morale la decisione dell‟attore. “Non giudicare” e 75
“offrire l‟altra guancia” sono i segni del perdono, cioè del giudizio morale che si astiene da ogni conseguenza politica, che rimane interno alla coscienza personale come tensione spirituale non esternamente costrittiva, non eteronoma al pari della prescrizione legale del Potere, ma interiormente libera di determinarsi secondo il suo senso morale, non sociale. Ma se l‟uomo può essere libero di determinare la sua esistenza secondo la sua responsabilità morale, libero dalle necessità politiche della sua natura sociale, allora tutti gli uomini possono essere liberi nella loro personale ed eterna verità. “Tutti”, nel senso di “ognuno”, nel senso della esperienza paradigmatica dell‟uomo Gesù che per tutti è il Cristo, non già nel senso di un modello universale, proprio della filosofia idealistica greca. L‟atteggiamento di Gesù, diversamente da quello religioso dei farisei, non tendeva a limitare il Potere nel suo ambito politico, privandolo delle sue prerogative di governo e trasformandolo in forza politica fra le altre, ma ne giudicava la legittimità morale da un piano di realtà che non era sociologico ma teologico. Questa posizione allontana Gesù dalla tradizionale funzione di controllo esercitata, nelle società arcaiche, dallo sciamano, o da quella del filosofo nella pòlis. La distinzione fondamentale tra queste figure di controllo, e quella rappresentata da Gesù di Nazareth, consiste nel riconoscimento pubblico da parte dei primi delle regole politiche direttive della società cui appartenevano, e nel misconoscimento privato della loro pretesa onnipervasiva da parte del secondo. Il “date a Cesare” non equivale al gesto di Socrate di accettare la legittimità del verdetto di morte anziché evadere, come gli suggerivano i suoi sodali. Alla luce del sacrificio in croce, “dare a Cesare” significa liberarsi di quanto appartenga al Potere e considerare vera la sola vita dello Spirito, la cui resistenza privata allo Stato è “follia” foriera di morte al cospetto della fisiologia politica. Folle è ciò che esorbita dal controllo pubblico del Potere, ossia la stessa coscienza spirituale dell‟uomo, che non ha realtà fuori del riconosciuto ordinamento religioso. Gesù, raccogliendo un consenso sociale sulla base di convincimenti personali, stabilisce una relazione concorrenziale col Potere in quanto evita di filtrare la sua predicazione, e le conseguenti adesioni, attraverso i canali pubblici stabiliti dall‟ordinamento statuale. Sia Gesù che Socrate conducono una battaglia ideologica contro la credenza socializzata e le sue fonti pubbliche. Ma mentre Socrate sposta il piano di riferimento 76
dialettico dalla prassi consolidata ai suoi presupposti etici, stabilendo tra la condotta sociale e la sua legittimazione razionale una mediazione filosofica, della quale egli stesso è l‟incarnazione rappresentativa, Gesù ignora il livello politico per concentrarsi sulla dimensione spirituale dei rapporti personali. Proprio questa ignoranza del filtro istituzionale induce la concentrata opposizione di tutte le forze sociali che avevano una rilevanza pubblica riconosciuta. Se Socrate fu accompagnato alla morte dai suoi più fedeli discepoli, Gesù fu rinnegato persino da Pietro, che non a caso fonderà la Chiesa che si farà promotrice della versione religiosa della predicazione cristiana. Paradossalmente, l‟unico dei suoi discepoli che scelse la morte anziché la resa politica al Potere, fu Giuda, che rimediò al suo tradimento sopprimendo le condizioni stesse del controllo politico romano, il suo corpo. Gli altri scelsero la vita, il dialogo politico col Potere, alla cui forza sociale pubblicamente si arresero, adottandone i suoi metodi. E poiché tali metodi politici sono incompatibili con i fini impolitici evangelici, la forza della ragione asservita religiosamente alla teologia non è servita a confutarli ma ad accreditarli moralmente come metodi universali, al servizio di ogni causa conoscitiva, necessariamente extrasistemica, e perciò di irrilevante gratuità fideistica. Esautorata dal metodo la stessa metafisica, la tecnica distinguente ed escludente si concentra sul terreno dei rapporti sociali, divenendo logica politica, tecnica di conquista e di mantenimento del Potere, asservita al suo esercizio. Il riconoscimento cristiano della ragion di Stato, che risale simbolicamente a Pietro, fa del Cristianesimo un surrogato teologico della filosofia politica classica, e un complemento del Potere, anziché, sulla falsariga della predicazione di Gesù, l‟universo di pensiero di un “altro mondo”. La dottrina di Gesù, diventando “cristianesimo”, subisce tutta l‟evoluzione teoretica e pratica di una ideologia mondana, soggetta a giudizio critico, razionale e politico. La fine del Cristianesimo come ideologia della speranza coincide con la fine della fede nella speranza di redimere il Potere, convertendolo ai propri fini meta-politici, come già l‟esito platonico aveva preconizzato. Sul terreno della fede evangelica, Satana non poté su Gesù ciò che invece riuscì il potere di Cesare su Pietro: fargli accettare le regole del mondo, quelle stesse che lo portarono a morte. Se Gesù avesse ceduto alle lusinghe di Satana, avrebbe Lui fondato la Chiesa universale, ereditando l‟imperium romano. Dal Suo
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punto di vista, fu Pietro a tradire la causa cristiana, non Giuda, che invece la compì. Il “male politico”, afferma Ricoeur, “può nascere solo sulla razionalità specifica del politico”, per cui “esiste un‟alienazione politica perché il politico è relativamente autonomo”. Egli rifiuta di dissociare il giudizio esaltante della politica secondo Aristotile, Rousseau e Hegel, dal giudizio crudamente riduttivo che di essa ebbero Platone, Machiavelli e Marx, in favore della necessità di considerare il “paradosso” che si cela nella politica, “e cioè che il male più grande aderisce alla razionalità più grande”.80 La razionalità “più grande” sarebbe quindi la logica della violenza? Oppure questa logica è strumentale a un fine che la trascende? Nessun filosofo antico, asserisce Ricoeur, si è mai rassegnato ad escludere la politica dal campo del ragionevole da egli esplorato; tutti o quasi tutti i filosofi hanno saputo che se il politico venisse proclamato malvagio, estraneo, “altro” nei confronti della ragione e del discorso filosofico […]la ragione stessa ne sarebbe sconvolta. Poiché allora essa non sarebbe più la ragione della realtà e nella realtà, tanto la realtà umana è politica. Se nulla è ragionevole nell‟esistenza politica degli uomini, la ragione non è reale, vaga in aria, e la filosofia si esilia nei sottomondi dell‟Ideale e del Dovere.81
Infatti, la ragione politica e la ragione del mondo coincidono, sono consustanziali. Ma proprio per questo la politica e la ragione del mondo non possono conciliarsi con la “follia” evangelica, con la ragione di “un altro mondo” di cui essa si fa portatrice. Ciò vuol dire che nel momento in cui il Cristianesimo acquisisce al suo servizio la logica antica, esso incorpora nel suo universo di senso, con la sua ratio essendi, anche la logica politica, la ratio esclusiva che domina i rapporti sociali del mondo pagano. Con l‟universalismo razionalistico paolino, questa operazione perfeziona quella petrina, dando vita all‟apostolato ecclesiastico e alla fase bi millenaria di compromesso teologico-politico con le regole del mondo di Cesare che Gesù voleva soppiantare con quelle della carità fraterna. Il “senso” della politica è il fine stesso della filosofia pagana: il Bene dello Stato. Il valore “etico” del bene dello Stato è il fine razionale della politica, poiché bene teoretico e bene politico convertuntur, perché coincidono idealmente. Secondo Aristotile, infatti, ricorda Ricoeur, 80 81
P. Ricoeur, La questione del potere, cit.., pag. 70. Ivi, pag. 71.
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ogni Stato, come sappiamo, è una società, e la speranza di un bene è il suo principio come lo è per ogni associazione, poiché tutte le azioni degli uomini hanno per fine ciò che essi ritengono un bene. Ogni società ha dunque per scopo qualche vantaggio e quella che è la principale e racchiude in sé tutte le altre si propone il più grande vantaggio possibile. Viene chiamata Stato o società.82
Il Bene dello Stato non è essenzialmente diverso da quello di ogni altro gruppo umano, e coincide “col più grande vantaggio possibile”, ossia con la propria sussistenza. Non c‟è chi non veda che questo fine o Bene è uno scopo economico: la salvaguardia di sé come società. “Da questo momento”, aggiunge Ricoeur, riflettere sull‟autonomia del politico significa ritrovare nella teleologia dello Stato il suo modo irriducibile di contribuire all‟umanità dell‟uomo. La specificità del politico può apparire solo per mezzo di questa teleologia; è la specificità di un obiettivo, di una intenzione. Tramite il bene politico gli uomini perseguono un bene che non riuscirebbero a raggiungere e questo bene costituisce una parte della ragione e della felicità. Questo perseguimento è questo télos creano la “natura” della Città; la natura della Città è il suo fine.83
E il fine della Città è appunto la sopravvivenza di sé, di cui si fa strumento e garante la politica. Nella sua funzione strumentale e tecnica,la politica è economia pubblica; nella sua ragione di garanzia, l‟attività politica è etica dello Stato. Nel primo caso, abbiamo il lato oscuro della virtù politica descritto da Platone, Machiavelli e Marx; nel secondo caso, abbiamo il fine luminoso della sua potenza formale, considerata da Aristotile, Rousseau e Hegel. Ma ciò che conta è che l‟attività politica, fuori della logica del fine dello Stato, non ha senso razionale. Lo Stato, il suo Bene, è il “senso” della politica, ma non è la politica in sé, come tecnica nuda e pura. La politica mondata di ogni “senso” etico, di ogni fine pubblico, è l‟economica, cioè l‟attività (privata) tesa alla salvaguardia del gruppo privato. Ma il concetto etico e pubblico della politica è tale solo all‟interno del gruppo sociale di riferimento, cioè dello Stato, mentre dal punto di vista esterno, proprio di altro gruppo sociale e di altro Stato, quel concetto di politica è economico. Ciò vuol dire che l‟essenza universale della politica, valevole sia all‟interno che all‟esterno del gruppo sociale e dello Stato, è la sua natura economica, di strumento funzionale a ogni fine di sopravvivenza 82 83
Aristotile, Politica, cit. da Ricoeur, Ivi, pag. 71. Ivi, pag. 72.
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umana, che acquista valore etico in quanto costitutivo della propria ragione di vita. In tal caso, la verità dello Stato in quanto gruppo sociale particolare distinto da ogni altro, è la sua ragione etica, la sua “ragion di Stato”. la verità etica è una verità relativa allo Stato, non una verità “universale”, valevole per ogni Stato. La politica come ragion di Stato può servire solo lo Stato che se ne serve, e quindi è anch‟essa di valore eticamente relativo. Diverso il caso della morale cristiana, che è universale non in quanto “cattolica” e comune a tutti gli Stati, ma perché trascendente ogni etica di Stato. Seppure la politica si pone al servizio della religione, questa religione non può che riflettere un‟etica di Stato, cioè una ragione pubblica che la garantisca politicamente. La politica, secondo Platone, è un‟arte virtuosa, alla quale vanno preparati adeguatamente i custodi delle leggi. Al fine di “preparare i custodi più perfetti”, consideriamo lo Stato come “il tronco del corpo” e poniamo “i più giovani dei custodi” alla “estrema sommità” perché vigilino dappertutto “per portare le notizie di tutta la vita dello Stato ai più anziani custodi”, i quali, “assimilati all‟intelletto poiché pensano molte cose degne di considerazione in modo superiore agli altri […] prenderanno le decisioni”, salvando così, unitamente ai giovani, lo Stato. Così come “l‟artigiano ottimo in ciascuna cosa particolare, e così il custode, non solo deve essere capace di guardare alle molte cose del suo ufficio, ma anche deve saper perseguire con slancio incalzante quell‟uno e conoscerlo e, conosciutolo, ordinarvi ogni cosa, considerando tutto con uno sguardo generale”, altrettanto “bisogna costringere, pare, anche i custodi della nostra divina costituzione a vedere rigorosamente innanzi tutto che cosa mai attraverso tutte le quattro virtù è presente come una cosa identica – ciò che diciamo che nel coraggio, nella saggia temperanza, nella giustizia e nella intelligenza è una unità esistente – che con un solo nome si potrebbe chiamare correttamente virtù”. Infatti, “quelli che saranno veramente custodi delle leggi devono veramente conoscere ciò che riguarda la verità di quelle cose, e col discorso devono essere in grado di darne una spiegazione e nelle opere di operare coerentemente alla conoscenza acquisita, sapendo giudicare ciò che per natura è ben fatto e ciò che non lo è”. Per cui “bisogna perdonare alla maggior parte di quelli che vivono nello Stato se soltanto seguono la parola delle leggi, ma non si potrà neppure affidare questo incarico a 80
quelli che parteciperanno della custodia dello Stato, se uno di loro non risparmi i suoi sforzi per conoscere tutte le prove esistenti sugli dei”, subordinando pertanto a questa conoscenza la “concessione dell‟incarico”, sicché “mai sia eletto custode delle leggi chi non ha una natura divina e non si è affaticato nello studio delle cose divine, né potrà mai essere incluso nel numero dei cittadini scelti per il premio della virtù”.84 Ma la “virtù”, che dai filosofi pagani era considerato “il bene supremo dell‟uomo”, non va cristianamente intesa come il sapiente dominio della “voluttà”, altrimenti, afferma Agostino, ne conseguirebbe che la prudenza non provvede, la giustizia non distribuisce, la fortezza non sopporta, la temperanza non modera se non per piacere agli uomini e sottomettersi alla gloria volubile. Non sarebbero immuni da questa bruttura neanche coloro che, sebbene col pretesto dello sprezzo della gloria disdegnino i giudizi altrui, tuttavia si riconoscono sapienti da soli e si compiacciono di se stessi. La loro virtù, se pur lo è, si assoggetta per un altro verso alla lode umana, perché chi si compiace di se stesso è pur sempre un uomo. Chi al contrario con vero sentimento religioso crede e spera nel Dio che ama si preoccupa più dei difetti per cui si dispiace che delle virtù, se in lui ve ne sono, che non piacciono tanto a lui quanto alla verità.85
Cambia il concetto stesso di “virtù”, che dall‟originaria accezione politica trapassa a un senso trascendente, che coinvolge la stessa considerazione dell‟ispirazione divina, la quale, nel caso della civiltà pagana, era in funzione della vita dello Stato, cioè della sua potenza e della sua grandezza, che di quella virtù erano l‟espressione mondana evidente. All‟opposto, nella prospettiva cristiana, era la potenza dello Stato a dover servire la gloria di Dio, pertanto, secondo Agostino, la felicità degli imperatori cristiani non va attribuita in considerazione della loro gloria mondana, quale la longevità nel regnare, o la capacità di reggere il potere senza finire in modo cruento, o le conquiste e le sottomissioni dei nemici dello Stato, poiché “anche gli adoratori dei demoni hanno ottenuto [da Dio] di ricevere questi ed altri favori e conforti della travagliata vita presente”, a ragione del fatto che tali beni non siano da considerare “come i più grandi” da coloro che Lo adorano. Li consideriamo felici al contrario se esercitano il potere con giustizia, se in mezzo agli encomi degli adulatori e agli inchini servili dei cortigiani non s‟insuperbiscono e 84
Platone, Leggi, XII, 965-966 a-d., tr. it. di A. Zadro, Opere, vol. II, Roma-Bari, 1974, pagg. 990-992. 85 Agostino, Civitas Dei, V, 20, tr. it. cit., pagg. 257-258.
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se si ricordano di essere uomini; se pongono il potere al servizio della maestà di Dio per estendere il suo culto; se temono amano e onorano Dio; se amano di più il suo regno in cui non temono di avere rivali; se sono ponderati nell‟applicazione della pena e inclini all‟indulgenza; se usano la pena soltanto per l‟esigenza di amministrare e difendere lo Stato e non per sfogare gli odi delle rivalità; se usano l‟indulgenza non per lasciare impunita la violazione della legge ma nella speranza della correzione; se compensano una decisione severa che spesso sono costretti a prendere con la mitezza della compassione e con la munificenza; se in essi la lussuria è tanto più contenuta quante maggiori possibilità ha di essere incontrollata; se preferiscono dominare più le brutte passioni che molti popoli e se si comportano così non per la brama di una futile gloria ma per amore della felicità eterna; se non trascurano di offrire al vero Dio il sacrificio dell‟umiltà, della clemenza e della preghiera per i propri peccati. 86
Il discrimine tra la gloria terrena, “futile”, legata alla considerazione degli uomini (eùkleia), e la gloria “eterna”, quale tributo salvifico a Dio (dòxa). Il principe cristiano non può contentarsi degli onori terreni, che la Provvidenza divina dispensa anche agli infedeli, ma deve mirare a qualcosa che è più duraturo della memoria umana, che trascende quindi la finitezza della storia, e che è la considerazione di Dio, la quale soltanto può dispensare una “felicità” che sia condizione superiore al mero godimento terreno, avendo il crisma della “verità”. Per meglio comprendere la differenza rispetto alla concezione classica, occorre confrontare la concezione cristiana espressa da Agostino con quella del politico e del filosofo espressa da Platone nel Politico. Il “sentiero della politica” è quello di una scienza che, secondo la fondamentale distinzione platonica, deve essere attribuita alla sfera pratica, relativa all‟azione, ovvero a quella teoretica, relativa alla conoscenza pura. Le arti manuali, dedite alla costruzione, sono le stesse di quelle dell‟azione, contribuendo insieme “nel dare compiutezza di essere ai corpi che esse producono e che prima non erano”.87 Rilevante è la perfetta simmetria stabilita tra il concetto, che dà essere al pensiero cavandolo dal niente, e l‟azione, che realizza ciò che prima non era. Ma cosa produce l‟arte politica? Stabilita l‟omogeneità tra chi esercita una funzione pubblica e chi, anche da privato cittadino, sia in grado per propria scienza di consigliarlo, viene affermato che “una unica scienza” che vale sia per la politica che per
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Agostino, Civitas Dei, V, 24, tr. it. cit., pagg. 263-264. Platone, Politico, 258 e, tr. it. di A. Zadro, Opere, cit., vol. I, pag. 445.
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l‟economia domestica.88 Nonostante ciò, ossia la necessità di provvedere alle incombenze economiche, “ogni re in relazione al mantenimento del suo potere trova nelle sue mani e in tutto il suo fisico ben poco aiuto in confronto a ciò che gli possono dare l‟acutezza e la forza dell‟animo suo”, sicché per la sua attività egli “è più legato al conoscere che alle arti della mano e alla pratica in generale”.89 In seno all‟arte conoscitiva, si distingue a sua volta “l‟arte del comandare” dall‟arte di “enunciare giudizi”,90 “ponendo il genere regio nell‟arte di comandare direttamente”,91] ossia per sé e non per altri. Orbene, l‟arte del conoscere relativa al comando diretto, si divide tra quella che conduce all‟essere enti inanimati e quella relativa ad esseri animati, assumendo per certo che “non apparterrà mai alla scienza regia il sovraintendere alle cose inanimate, come è per l‟arte del costruire”, avendo il suo potere “nel campo degli animali viventi”, segnatamente, tra quelli “in gruppo”, “l‟arte di guidare al pascolo gli uomini”.92 Quest‟arte, che oggi, nell‟età di Zeus, è riservata ai re, secondo il mito era un tempo proprio degli dèi. Allora, al tempo di Crono, “sotto la guida del dio non v‟era bisogno né di costituzioni di Stati né dell‟acquisto di donne o di figli”, poiché frutta senza limite avevano dagli alberi e dalle altre numerosissime piante, non certo prodotto di opere agricole, ma spontaneamente producendoli il suolo. Senza vesti, senza letto, vivevano all‟aria aperta la maggior parte del tempo loro, infatti le stagioni erano tutte ben temperate in modo che essi non ne subivano noia alcuna, ed avevano teneri giacigli fatti con l‟erba che cresceva dalla terra senza limitazione..93
Allorquando il cosmo “invertì il suo cammino […] anche tutte le altre cose mutavano ad imitazione e per adeguamento a quanto subiva il tutto”, per cui, mentre gli animali inselvatichivano, gli uomini, privati della sorveglianza del demone che li teneva come un pastore [e] rimasti deboli e senza custode, venivano fatti a brani da quelli ed erano nei primi tempi ancora privi di mezzi e di arte: essendo venuti a mancare loro l‟alimentazione che si offriva spontanea, non sapevano come procurarsela per il fatto che prima non v‟erano stati 88 89 90 91 92 93
Ivi, 259 a-c. Ivi, 259 d, tr. cit., pag. 446. Ivi, 260 b, tr. cit., pag. 447. Ivi, 260 e, tr. cit., pag. 448 Ivi, 261 b-e, 266 e, tr. cit., pagg. 448-449 e 457. Ivi, 272 a, tr. cit., pag. 464.
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per nulla costretti dal bisogno. Per tutto ciò erano in difficoltà gravissime ed è di qui che ci sono stati donati i doni, come si dice nelle antiche leggende, da parte degli dèi, insieme al necessario insegnamento ed educazione ad usarli. […] E tutto che è stato d‟aiuto nell‟organizzare la vita umani da questi doni è disceso, poiché la sorveglianza diretta degli dèi abbandonò gli uomini e bisognava che essi stessi da sé dirigessero se stessi e badassero a sé, così come fa l‟intero universo, imitando il quale, e seguendolo, noi sempre viviamo e veniamo al mondo […].94
L‟arte politica, nell‟eone di Zeus, è anch‟essa cambiata, sicché è da ritenere che la figura del pastore divino sia ancora troppo grande in paragone ad un re, mentre i politici di qui e del nostro tempo hanno invece natura molto più simile a quella dei loro soggetti, e molto più si accostano ad essi per l‟educazione di cui sono partecipi e così per il modo in cui vengono allevati.95
Ciò non toglie, però, che proprio la attuale condizione umana costituisce la premessa della costituzione di una “arte politica” come mai prima s‟era concepita. E è in riferimento a questa arte umana e non divina che va distinta nel suo ambito la “costrizione violenta” esercitata dal tiranno, dalla “libera accettazione” del governo regio, “chiamando tirannica quell‟arte che, comunque, viene esercitata per forza di costrizione e arte politica invece quell‟arte che si esercita liberamente su animali bipedi che liberamente l‟accettano”.96 “Il modello nasce quando ciò che è identico si trova nei diversi, e quell‟identico riconosciuto nella sua vera natura e colto sia nell‟uno che nell‟altro diverso produce una sola opinione vera che si riferisce sia all‟uno che all‟altro e ad ambedue insieme”.97 Ma qual è, fra i tanti, il modello ideale del governo degli uomini? E‟ importante stabilirlo in quanto se le grandezze di valore o di merito fossero solo relative al confronto reciproco del più e del meno, senza confrontarle con la “giusta misura”, come faremmo a distinguere ciò che è buono da ciò che è male? 98 A tal fine si deve col ragionamento “costringere il più e il meno a divenire commensurabili non solo l‟uno all‟altro, ma anche in relazione alla produzione della giusta misura”. Ciò è tanto più necessario 94 95 96 97 98
Ivi, 274 b-d, tr. cit., pag. 467. Ivi, 275 c 1-5, tr. cit., pag. 468. Ivi, 476 e, tr. cit., pag. 470. Ivi, 278 c, tr. cit., pag. 472. Ivi, 283 e, tr. cit., pag. 479.
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in quanto se c‟è il giusto modello, anche le arti sono, “e qualora invece uno o l‟altro di questi due termini non sia, nessuno di essi due avrà mai modo di essere”.99 Infatti, “l‟arte di misurare si riferisce a tutto ciò che viene ad essere”, sicché “tutto ciò che appartiene all‟arte in certo modo partecipa del misurare”100 Significando con ciò che la misura, riferita al modello ideale, è pur sempre relativa al contesto ontico da cui è tratta la sua astratta giustezza. Ma esattamente questa contestualità ontica, che storicamente inerisce alla realtà socio-politica, rende problematica l‟asserzione secondo la quale “le cose incorporee, bellissime ed altissime, solo col discorso vengono mostrate chiaramente, in altro modo mai”,101 dal momento che la correlazione ideale non trascende mai la “natura” di ciò che è identico fra gli enti, ossia la loro finitezza e relatività. In tal senso il discorso dialettico, anche metodicamente più scrupoloso, non potrà mai altro che illuminare logicamente ciò che è. Partendo dalle arti strumentali alla vita dello Stato, dobbiamo considerarle come concause .102 politiche, non afferenti al diretto governo della città. In esse Platone enumera anche le attività commerciali ed economiche in genere, le quali a suo dire “[non] potranno [mai] contestare qualche diritto all‟arte politica” o “avere pretese sull‟arte regia”. Ivi, 290 a, tr. cit., pag. 487.] Entrando nel merito di ciò che è proprio dunque al governo, Platone, dopo aver passato in rassegna le forme costituzionali e le sue varianti degenerate, afferma che “l‟esercizio del potere regio appartiene alle scienze”, tra le quali la prescelta è quella che è insieme “scienza di giudicare e scienza di comandare”, per cui “non devono servire a definire il valore delle costituzioni i pochi e i molti, né la libera accettazione, né la violenta costrizione, né la povertà, né la ricchezza, ma la presenza di una scienza”. La “giusta misura” dell‟arte politica, pertanto, è quella stabilita dalla conoscenza della “scienza dell‟esercizio del potere sugli uomini”, 99
Ivi, 284 b-d, tr. cit., pag. 480. Ivi, 285 a, tr. cit., pag. 481. 101 Ivi, 286 a, tr. cit., pag. 482. 102 “Tutte le arti che non fabbricano la cosa stessa, ma preparano invece gli strumenti per quelle che la fabbricano, strumenti senza di cui non verrebbe mai elaborato ciò che ciascuna delle arti ha il compito di elaborare, queste arti sono concause, sono invece cause le arti che producono la cosa ed operano su di essa”: Ivi, 281 e, tr. cit., pag. 476. 100
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che è “la più difficile da possedersi e pure la più importante”, in quanto consente di discernere il “re intelligente” dagli “uomini che presumono d‟essere uomini politici, e ne persuadono molti altri, ma non lo sono per nulla”.103 Ciò consente a Platone di spostare l‟accento della valutazione politica dalla detenzione formale e dall‟esercizio concreto del Potere, alla conoscenza della “scienza regia”, e conseguentemente di considerare “re” verace soltanto colui che la possegga, “sia che abbia, sia che non abbia il potere”.104 La legittimazione al Potere passa perciò dal piano di fatto, istituzionale, al piano di diritto, razionale, per cui il diaframma che distingueva la sfera pubblica da quella privata veniva a cadere in conseguenza di quanto era stabilito essere essenziale alla realtà politica, che non era la forza sociale ma la conoscenza teoretica. Quindi è necessario, a quanto appare, che fra le costituzioni sia retta costituzione in modo eminente, e anzi sia essa sola veramente costituzione, quella in cui si potranno trovare i magistrati realmente periti nell‟arte loro e non solo presuntuosi di esserlo, e sia che governino fondandosi sulle leggi sia senza leggi, su cittadini che li accettano o li subiscono, in povertà o in ricchezza, nulla di tutto ciò si può far conto che abbia la minima relazione con il retto potere in quanto tale.105
Da questa premessa epistemologica nasce l‟esigenza razionalistica di stabilire la preminenza della sofocrazia su ogni altra versione storica di costituzione politica. Ed è qui che si annida il germe idealistico della rivoluzione anti-tradizionalistica. Platone, infatti, afferma la realtà necessaria di un modello che non esiste, e proprio perché non è rinvenibile in alcuna esperienza storica, è. L‟essere necessario, dunque, che è misura di tutte le cose a lui idealmente riportabili e per sua misura sussistenti, non esiste. La sua realtà è pertanto affermata per fede, ossia per volontà d‟essere. La potenza del lògos risiede nella consapevole prescissione da ogni condizione d‟esistenza, cioè dalla rimozione di ogni contestualità fenomenica, dall‟ignoranza di ogni vincolo storico-sociale, per l‟affermazione della sola forma ideale, che costituisce la “giusta misura” di ogni cosa. Il “retto potere” è quello che scientemente ignora la realtà. Questa docta ignorantia è la precondizione di ogni affermazione scientifica della realtà ideale. Si può cogliere a pieno il significato 103 104 105
Ivi, 292 b-d, tr. cit. pagg. 490-491. Ivi, 293 a, tr. cit., pag. 491. Ivi, 293 c-d, tr. cit., pagg. 491-492.
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idealistico del “portare all‟essere” del processo maieutico, ovvero tutta la portata esistenziale e sociologica del fideismo di una tale epistemologia, che pone al sommo della realtà condenda una in-esistenza, che la forza della ragione deve tradurre in realtà fenomenica. La potenza dell‟essere non è più nell‟esistente, ma nella coscienza demiurgica del sapiente, e va attinta non dalle condizioni reali della società politica, ma dalle condizioni ideali della sapienza riposta. Nel modello soteriologico del rex absconditus platonico viene preconizzata la figura del Deus absconditus cristiano, che vigila in qualità di “pastore dell‟essere” sugli enti mondani. Significativa la giustificazione platonica delle leggi, considerata la loro irrilevanza in riferimento alla giustizia ideale, e la cui astrattezza e generalità vien fatta derivare dall‟impossibilità di “attribuire a ciascun individuo con rigore ciò che gli conviene”.106 Infatti, dirigere ogni suddito secondo la concreta necessità del momento comporterebbe sostituirsi alla sua volontà. Così come restare fedeli alle leggi scritte o consuetudinarie significa non considerare la loro contingente opportunità e giustezza. All‟uopo, dunque, va ricercato non l‟aggiornamento continuo delle leggi, che renderebbe insopportabile la vita dei cittadini, ma “quell‟unica costituzione che è la retta costituzione”.107 Platone contrappone così allo Stato legislativo, l‟arte del governo, mettendo alla stessa stregua “il vero uomo politico”, che “nella sua attività, seguendo l‟arte, non baderà per nulla alle regole scritte”, e l‟ “uomo qualunque o una qualsiasi folla di popolo, cui siano state comunque statuite e fissate delle leggi”, che “tentino di operare contro di queste nell‟intenzione di fare cosa nuova e migliore”, la cui bontà dipenderebbe soltanto dalla conoscenza dell‟arte politica.108 Il valore viene supposto; ad esso viene anteposta la stessa realtà politica; per la prima volta, la dimensione sociologica della pòlis veniva trascesa in senso meta-economico; ma non la dimensione politica; il valore ideale infatti rimaneva circoscritto all‟universo di senso politico. Il “giusto valore” era pur sempre politico, dal momento che nell‟età di Zeus gli uomini non avevano la capacità di auto-governarsi, e costretti perciò a conformarsi a un modello sapienziale che trascendeva idealmente l‟esperienza sociologica tradizionale, e che fungeva da criterio 106 107 108
Ivi, 295 a, tr. cit., pag. 493. Ivi, 297 c, tr. cit., pag. 496. Ivi, 300 c-d, tr. cit., pagg. 500-501.
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discriminante tra “ciò che è giusto e ciò che è sacro attribuire”,109 ossia tra il retto e il corrotto regime istituzionale. Ma in che consiste questa rettitudine? Come vi si perviene? La “capacità e la funzione del politico” consiste per Platone nel discernimento dell‟opportunità di usare la persuasione e il bisogno di usare la forza, se “si deve per qualche ragione agire nei confronti di qualcuno”.110 La vera scienza del re infatti non deve agire direttamente, ma dirigere quelle che hanno capacità di agire, avendo essa conoscenza di quando è opportuno o inopportuno iniziare e prendere le mosse per le grandi imprese negli stati, mentre le altre debbono eseguire i suoi ordini. […] E quella che su tutte queste governa e cura le leggi e tutte le cose dello Stato e tutto contesse in modo perfetto, raccogliendo, colla denominazione di ciò che v‟ha di comune in tutto questo, tutta la sua capacità, sarebbe giustissimo come pare, che noi la chiamassimo “politica”. 111
La politica non è una scienza tra le tante, di quelle che non hanno “potere su se stesse, né ciascuna sulle altre” 112, ma quella che presiede alla direzione generale di ciascuna di esse e di tutte, essendo l‟arte di governare i popoli, ossia le loro virtù. La riduzione platonica della scienza politica a metodologia del governo è legata alla natura dialettica dei caratteri della realtà, che necessita di una mediazione di governo delle sue contraddizioni. Infatti gli uomini sulla base, credo, di ciò che in loro è congenere all‟uno o all‟altro carattere lodano determinate cose come a loro familiari, ne biasimano invece come a loro estranee altre che appartengono a ciò che differisce dalle prime, e così essi pongono fra loro molte ragioni di inimicizia e su molte questioni.113
Le stesse virtù umane “sono non poco discordi fra loro per natura e fanno differire allo stesso modo chi le possiede”. Chi governa con arte politica, non “vorrà mai spontaneamente mettere insieme uno Stato di uomini buoni e malvagi” ma “li affiderà a chi sappia educarli e possa prestarsi espressamente a questo servizio, dando gli ordini e mantenendo di ciò la
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Ivi, 301 d, tr. cit., pag. 502. Ivi, 304 d, tr. cit., pag. 506. Ivi, 305 e, tr. cit., pag. 507. Ibidem. Ivi, 307 d, tr. cit., pagg. 509-510.
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diretta responsabilità”.114 La “arte regia” consisterà nell‟evitare che l‟educazione dei giovani, pur mantenuta nell‟ambito della legalità, produca costumi contrari all‟arte stessa del governo, punendo “quelli che non sono in grado di partecipare di un costume di vita valoroso e saggiamente temperante e di quant‟altro c‟è che tenda alla virtù”, fino a scacciarli dallo Stato.115 Con tutta evidenza, Platone considera il governo regio, non già quello teso alla temperanza delle opposte tensioni sociali, che mantenga un equilibrio tra le sue virtuose contraddizioni, ma quello che, in analogia al procedimento dialettico, uniformi in senso sistemico prescelto le difformità interne alla società, sì che l‟omogeneità ottenuta consista appunto nell‟espungere dallo Stato ciò che non si conformi al suo modello ideale. L‟arte politica, dunque, è una sorta di dialettica sociale, ossia il rispecchiamento pratico dell‟analoga operazione teoretica. E‟ questo il senso peculiare del suo carattere scientifico, ma anche nel contempo la natura divina dell‟arte politica, che trasceglie dei caratteri umani le sole virtù idonee al buon governo, traducendole in realtà sociale.116 La natura politica della filosofia platonica conferma l‟intrascendibile orizzonte sociologico del pensiero greco. Infatti la svolta dell‟idealismo platonico è costituita dall‟affermazione decisa del carattere pubblico della filosofia, da pensiero privato qual‟era stato fino alla tragedia di Socrate, la quale, depositaria della scienza politica, si costituiva come l‟arte regia per antonomasia. Il pensiero greco ha pensato gli immutabili come Idee, ossia come enti privi di divenire, eleggendo alcune forme empiriche, mondate delle contingenti accidentalità, in forme ideali, similmente a come ha concepito antropomorficamente gli dèi come eroi immortali privi dei difetti della finitezza umana. La perfezione di tali enti ideali astratti era garantita dalla loro conlaborazione, ossia dall‟unione funzionale delle singole proprietà virtuose nel concerto della vita organica. E così, ogni dio con-laborava all‟Olimpo, come ogni uomo al funzionamento della vita collettiva, la società politica. La necessità della loro con-labotazione costituiva la modalità politica
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Ivi, 308 b-d, tr. cit. pagg. 510-511. Ivi, 308 e-309 a, tr. cit., pag. 511. Ivi, 310 a-b, tr. cit., pag. 513.
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della convivenza sociale, quale relazionalità finalizzata razionalmente al bene comune, che coincideva con la vita stessa dell‟organismo collettivo. Il pensiero cristiano, personalizzando l‟esistenza spirituale, concepisce, anziché la complementarità funzionale dei singoli nell‟organismo comune, ha “compiutezza singolare” di ogni irripetibile esistenza, tale che essa, fuori del rapporto sociale, costituisce un‟esistenza in se stessa significativa in quanto espressiva di una “storia” spirituale personale. Dicendo “storia” diciamo “memoria”, che, come aveva ben visto Bergson, è quanto la soggettività aggiunge alla percezione presente.117 La memoria è dunque “il fondamento della storia”, senza la quale “presente, passato e futuro sarebbero definitivamente separati”. Essa “strappa un evento al flusso del tempo”, e lo fissa “al di là del tempo”nella storia, dove grazie ad essa l‟uomo viene radicato. In tal senso “la memoria è una grandezza escatologica”. “Nell‟escatologia la memoria rappresenta quel principio che combatte il tempo in nome dell‟eternità”. Infatti “la memoria supera i limiti della natura, che è votata alla morte”. Memoria e immortalità sono strettamente connessi, poiché “attraverso la memoria noi diventiamo consapevoli del fatto che non esiste un termine (Ablauf) del tempo, e questo è possibile solo perché nella memoria il tempo viene superato”.118 L‟eternità in senso greco è un presente ritagliato dal flusso del divenire e infinitamente dilatato nell‟immagine ideale. Il presente del tempo è lo stesso del verbo del giudizio concettuale, che dilata la percezione fissandola entro il modello categoriale. Il pensiero del lògos greco è la visione ideale di un presente astratto dal tempo. Se il pensiero logico è percettivo, il pensiero simbolico è invece un pensiero intuitivo. L‟intuizione della realtà, rispetto alla percezione, è una visione della memoria che alla realtà attuale aggiunge la realtà significativa per la coscienza storica, che appunto è la realtà simbolica. Come scrive Bergson, “è incontestabile che il fondo d‟intuizione reale, e per così dire istantaneo, sul quale si schiude la nostra percezione del mondo esterno, è poca cosa rispetto a tutto quanto la nostra memoria vi aggiunge”, per cui la funzione dell‟intuizione reale “è unicamente quella di richiamare il ricordo, di dargli un corpo, di renderlo attivo e, per questo, attuale”.119 La percezione, nondimeno, se è, come ritiene 117 118 119
H. Bergson, Matière et mémoire (1896), tr. it., Roma-Bari, 1996, pag. 27. J. Taubes, Escatologia occidentale (1947), tr. it., Milano, 1997, pagg. 34-35. H. Bergson, Matière et mémoire, tr. cit., pag. 53.
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Bergson, “soltanto un‟occasione per ricordare”, è pur vero che i “segni del reale” si collegano con la memoria ai ricordi in quanto legati da un significato simbolico, ossia da una trama avvenimenziale dotata di senso in cui consiste l‟intuizione. Il senso razionale di questa trama intuitiva della coscienza simbolica è ciò che abbiamo indicato come “l‟orizzonte situazionale di senso”, nel quale la coscienza si situa per legarsi al processo spirituale in cui si riconosce come soggetto, erede e interprete storico. In questa situazione la coscienza simbolica trascende l‟attualità e diviene storica. Il senso simbolico cristiano della “storia” non è quello greco delle cronache politiche, ma “è il piano su cui Dio e mondo si incrociano”. Non è il narrato delle vicende degli eroi e dei popoli, ma “il cammino di Dio, [dove] si manifesta il suo operato”, sicché “rivelazione del mondo e rivelazione di Dio sono, nella loro stretta correlazione, soltanto una storia”, .120 la cui unità trascendente si ritrova in Dio, e non nella realtà immanente dei valori etico-politici. Tra le due dimensioni storiche, quella cristiana è sacra, mentre la greca è profana. Il discrimine sacro-profano è diverso da quello dialettico tra ciò che “è” e ciò che “non-è” logico. Infatti, il sacro non necessariamente è, ma può anche non essere, mentre l‟Idea necessariamente è. Sappiamo che logicamente anche l‟altro da ciò che logicamente è, pur essendo negativo “è” comunque qualcosa di reale. La distinzione logica è sempre tra enti mondani, e cioè politica. Diversamente, la distinzione ontologica è tra piani di realtà, cioè tra universi di senso, entro i quali vige un criterio di esistenza pre-determinato dalla fede nel proprio Essere. Il sacro è un universo di senso, non già un discrimine logico dove l‟Essere è opposto al non-Essere. All‟interno dell‟universo di senso del sacro, l‟Essere e il non-Essere sono perfettamente interscambiabili, in quanto non dialettici ma relativi al mondo profano, rispetto al quale – comunque esso si determini – sono l‟ontologicamente altro. A differenza dell‟alterità logica, quella ontologica non si può dialetticamente convertire nell‟opposto al sé, ma resta sempre diverso dal sé. Tale diversità assoluta, priva il valore sacro di quella relatività storica propria della coscienza profana. Infatti, all‟interno dell‟universo di senso profano, l‟Essere positivo che afferma la realtà dipende, per la sua affermazione, dalla negazione contro cui si afferma, ossia dipende dalla 120
Taubes, Op. cit., pag. 36.
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potenza del suo volere, cioè dal suo potere affermativo. Ed è questo “potere” dell‟affermazione l‟elemento “politico” della decisione logica, il cui Essere potenziale lo impegna sempre contro il potere negativo che gli si oppone negandolo. Un “potere” affermativo, che per il suo Essere dipende dal suo opposto, ossia dalla sua relativa debolezza, non è un Essere “vero”, assolutamente incontrovertibile, ma solo un Essere reale, cioè attualmente possibile, e quindi contingente e non necessario. Il sacro, invece, non è “reale” più di quanto non lo sia, poiché la sua essenza, non essendo ideale, non viene accertata dalla sua attualità ontica, ma la sua essenza spirituale può essere confermata solo dall‟esperienza esistenziale. In questo senso, l‟esperienza del sacro si realizza sempre come possibilità rispetto all‟attualità del profano, cioè dell‟ente, di ciòche-è. L‟ente è “profano” in quanto “è” attuale. Il destino dell‟Essere è di profanarsi determinandosi nell‟attualità, cioè definendosi ed escludendo da sé il possibile, e cioè il sacro. Escludere la possibilità di essere altro da ciò che si è attualmente, significa determinarsi come realtà finita. Questa determinazione d‟essere è propria dell‟affermazione logica, la quale stabilisce che l‟essere “è” e il non-essere “non-è”. E questa affermazione decisiva coincide con l‟atto di fede ontologica, che costituisce il principio di realtà di ciò che rientra nel suo universo di senso razionale, che dunque è un universo di senso logico. La fede profana è quella che afferma che l‟Essere “è”. Tale affermazione, escludendo la negazione, esclude la possibilità, ossia la contingenza dell‟Essere attuale, e quindi il divenire dal tempo. E poiché tempo e divenire sono sinonimi, l‟affermazione esclusiva è in sé contraddittoria, e si ribalta nel suo opposto dialettico. E‟ questo il destino “dialettico” di ogni realtà contingente e non necessaria, ossia di ogni realtà finita, che può volgersi nel suo opposto inattuale. Solo ciò che è sacro dura oltre la contingenza e la determinazione possibile dell‟Essere attuale, ossia dell‟ente. Sacro pertanto è ciò che va oltre ciò-che-è, ed è il possibile, non già il negativo. La possibilità trascende l‟attualità, non la nega, ponendosi su un altro piano di realtà. Possibile è ciò che trascende ogni determinazione finita, che sia o non sia, poiché la negazione fa parte dell‟affermazione dialettica della realtà profana, nella quale gli opposti si convertono e sono perciò, nella loro determinazione, relativi a se stessi. La possibilità, indicando l‟alterità rispetto alla determinazione logica, la indica anche rispetto alla sua 92
negazione, di cui l‟affermazione è relativa. Una alterità che sia tale rispetto sia all‟affermazione che alla negazione, indica che essa è inclusiva di ogni determinazione, ossia appunto la stessa Possibilità d‟essere, che permane oltre ogni determinazione possibile. Ciò che permane oltre ogni determinazione possibile è la verità. Vero è infatti ciò che non può essere negato, in quanto va oltre ogni affermazione di realtà. In tal senso la verità è una realtà assoluta, svincolata da ogni determinazione logica. La realtà vera, che non si può né negare né affermare, è quella della esistenza di Dio, la quale si può solo intuire. L‟intuizione della realtà di Dio è la conoscenza propria dell‟universo di senso sacro. Ciò che è altro rispetto a ciò-che-è e a ciò-che-non-è, include gli opposti, e perciò è Tutto, quale possibilità indeterminata. Dio è tutto ciò che può essere e non-essere, e in quanto è Altro da ciò che può essere e nonessere, Egli non diviene. L‟eternità di Dio è l‟infinita possibilità di ciò che è eterno, ossia che oltre il tempo. Ciò che è oltre il tempo e la finitezza del divenire è appunto la Verità. Dio è la Verità. La verità di Dio è la possibilità di un “altro mondo” rispetto a quello finito dell‟uomo e della sua conoscenza logica. La filosofia, in quanto scienza logica, ossia delle determinazioni esclusive, non può conoscere Dio. la filosofia è sapere finito, di ciò che diviene. Ogni pensiero filosofico che intenda pensare l‟infinito, lo pensa come un finito privo di divenire, cioè di determinazioni finite, come un Essere che non-è, e perciò contraddittorio. La contraddittorietà è la precondizione di ogni pensare filosofico, il quale la nega distinguendola dalla coerenza logica. L‟oggetto del pensiero filosofico è il Mito, il cui pensiero simbolico viene criticato dal pensiero logico. Da qui la rielaborazione di ogni credenza che afferma l‟Essere di ciò che non-è, ossia il Mito. La filosofia rielaborando il Mito, rielabora infinitamente se stessa pensandosi come pensiero dell‟affermazione dell‟Essere che non-è, ossia come falsa credenza. Ma il pensiero filosofico, affermando col giudizio l‟ente come Essere, è intimamente contraddittorio e perciò sempre insieme affermativo e negativo. Diventa mitico, quando afferma, e critico quando nega la verità di ciò che aveva affermato, ossia quando nega la realtà della sua credenza. Criticando il Mito, la filosofia non nega la sua verità ma solo la sua realtà, ossia la realtà di ciò che credeva fosse l‟Essere. In tal senso, la filosofia nega sempre e solo la credenza che ciò che è sia l‟Essere, 93
affermando che non-è. Chiama fede l‟affermazione dell‟Essere, e ragione la sua negazione. Il rapporto tra fede e ragione comprende l‟intera attività teoretica del lògos. La logica greca non esce da questo orizzonte di senso, ossia dal pensiero della finitezza che rielabora se stesso, che è l‟orizzonte del pensiero dialettico profano. La realtà pensata dal pensiero profano, quella cioè dell‟universo di senso logico, è la realtà politica, la realtà della pòlis. La filosofia greca è dunque pensiero politico, ossia sociologia del Potere. L‟essenza dl Potere è la riduzione della realtà alla sola affermazione, per cui il suo pensiero è esclusivo di ogni negazione, ossia di ogni altra possibilità da quella affermata attuale. L‟esclusività è la modalità razionale del pensiero logico. Il pensiero logico, escludendo dalla realtà affermata la negazione, ossia la possibilità che ciò che non è attuale possa esserlo, riduce il Tutto alla sola parte attualmente affermata, negando che l‟Essere possa divenire altro da ciò che attualmente è. E ciò facendo, riduce il tempo al solo presente. L‟eterno presente è quello della natura. L‟unità ottenuta attraverso l‟esclusione di ogni altra possibilità d‟essere ciò che è, non è l‟unità del Tutto, inclusiva di ogni opposizione, ma l‟unità logica, concepita come un sistema razionale in cui soltanto la realtà che è, può essere, a esclusione di ogni altra possibilità d‟essere. Questo pensiero sistematico è del tutto profano, in quanto radicalmente diverso dal pensiero di Dio, che è il “cammino” di un processo escatologico in fieri, dove il divenire dell‟Essere coincide con la stessa possibilità della libertà. Solo il principio della libertà può far sì che il mondo si riveli come una limitazione di Dio. Il mondo è stato creato per la manifestazione della libertà. Il tutto di Dio deve trasformarsi in mondo, affinché Dio in libertà sia tutto in tutti. Soltanto nella redenzione Dio sarà ciò che da sempre l‟aspirazione umana ha cercato e immaginato ovunque, e che tuttavia non ha mai potuto provare in alcun modo, perché non poteva essere trovato, visto che non era ancora tutto e uno. […]
Per la dialettica della finitezza, l‟affermazione del Potere richiama ogni volta la potenza della negazione, la quale, ribaltando la polarità attuale, trasforma in relativo quanto affermato come esclusivo, facendo del tempo lo scenario mutevole dell‟Essere contingente. La potenza del negativo costringe all‟accettazione dell‟antitesi e spiega perché il regno di Dio non si realizza al momento della tesi. La differenza tra la tesi in cui Dio è tutto – deus sive natura – e la sintesi – che fa sì che Dio sia tutto in tutti – è il
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principio della libertà. Il “fra” tra tesi e sintesi, l‟antitesi, rivela in quanto storia il principio della libertà. La tesi è il tutto, Dio e mondo, qui, non sono ancora differenti. L‟antitesi è la separazione tra Dio e mondo: la sintesi è l‟unione di Dio e mondo attraverso l‟uomo, affinché Dio in libertà sia tutto in tutti.121
Rispetto al “pathos della rivoluzione”, che secondo Weber caratterizzerebbe la concezione religiosa degli Ebrei,122 la tensione escatologica cristiana mira più propriamente alla “conversione” spirituale degli uomini, che non al potere di Dio sul mondo intero. A partire da Paolo, ma soprattutto con Agostino, la “conversione” spirituale si è ritenuta coincidente con un processo di universale razionalizzazione del Mito cosmologico pagano, perseguito con gli strumenti del lògos filosofico greco, adottati come grimaldello teoretico dalla metafisica cristiana in polemica con l‟intuizione del mondo antico. Ma è questa adozione strumentale dell‟antico pensiero mondano a costituire il processo di liberazione filosofica del mondo dal Mito pagano come un intermezzo “fra” l‟affermazione fideistica di Dio e l‟avvento escatologico del Suo regno totale. Un inter-regno negativo dominato dalla ragione umana, ossia dalla logica politica, interprete della quale è l‟erede sia dell‟imperium romano che del lògos greco, la Chiesa cattolica, la cui versione moderna riformata ripropone in scala universale la “rivoluzione” liberale del messianismo vetero-testamentale di Israele, traducendo in termini mondanamente economici e politici l‟antico “tutto in tutti” nel moderno “tutto a tutti”, riferito a libertà e benessere. Questo passaggio dal principio spiritualistico all‟universalismo sociologico è stato reso possibile alla metafisica cristiana grazie alla mediazione della logica platonica, portando alle estreme conseguenze “cattoliche” il suo precipuo riferimento originario alla realtà sociopolitica dello Stato. Come infatti afferma Platone nella Repubblica, l‟ “ambito più largo” ove “cercare la giustizia” è “lo Stato”, mentre il corrispondente minore è l‟individuo, da cui provengono “i medesimi aspetti e caratteri che esistono nello Stato”.123 Giustizia è “possesso di ciò che è proprio e l‟esplicazione del proprio compito”.124 121
J. Taubes, Op. cit., pagg. 36-37. M. Weber, Gessamelte aufsaetze zur Religionss (1920-21), trad .it., Torino, 1988 pagg.661 sgg. 123 Rep., IV, 434 d-e. 124 Rep., IV, 433 e-434 a. 122
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Essa “consiste nell‟adempiere i propri compiti non esteriormente, ma interiormente, in un‟azione che coinvolge veramente la propria personalità e carattere, per cui l‟individuo non permette che ciascuno dei suoi elementi esplichi compiti propri di altri né che le parti dell‟anima s‟ingeriscano le une nelle funzioni delle altre; ma, instaurando un reale ordine nel suo intimo, diventa signore di se stesso e disciplinato e amico di se medesimo e armonizza le tre parti della sua anima, come perfettamente sintonizzano le tre armonie di una nota fondamentale […]”,125 sicché “buono e retto chiamo dunque un simile Stato e così una simile costituzione politica e un tale individuo; e, se questo è lo Stato retto, cattivi ed errati gli altri, sia nell‟amministrazione pubblica sia nella configurazione dell‟anima dei singoli”.126 Il “massimo bene” e il “massimo male” per uno Stato è, rispettivamente, “quello che lo lega e lo fa uno” e quello “lo divide e lo fa di uno molteplice”. “Elemento di coesione” è “la comunanza di piacere e dolore, quando tutti i cittadini si rallegrano e si addolorano, per quanto è possibile, in eguale misura per i medesimi successi e per le medesime disgrazie”, mentre sono “un fattore dissolvente i piaceri e i dolori particolari quando, pur essendo identici i casi che toccano sia allo Stato sia ai privati cittadini, gli uni provano massimo dispiacere, gli altri massima gioia”. 127 Per Platone, “bello e brutto, essendo opposti, sono cose distinte”, e ciascuna di esse è “una”. E questo vale “per ogni altra idea”, ossia per il bene e il male, per il giusto e l‟ingiusto, etc. Ogni idea, però, “si manifesta in comunione l‟una con l‟altra” e quindi “come molteplice”.128 I “filosofi” sono coloro che sono capaci di vedere le idee “in sé”, contemplando sia esse sia gli enti che ne partecipano, ed è questa la vera “conoscenza”. I “filodossi”, invece, sono coloro che riescono a riconoscere l‟esistenza delle cose belle, ma non sono capaci di giungere a credere nella bellezza, per cui “opinano”, cioè esprimono opinioni, e non conoscenza.129 Orbene, “chi conosce, conosce qualcosa o niente?” E conosce “una cosa che è o una cosa che non è?”. Poiché la conoscenza si riferisce a qualcosa che è, mentre la non conoscenza a qualcosa che non è, si può dire che “ciò che è in maniera perfetta è perfettamente conoscibile, ma ciò che 125 126 127 128 129
Rep., IV, 443 c-d. Rep., V, 449 a. Rep., V, 462 a-c. Rep., V, 475 e-476 a. Ivi, V, 476 b-e.
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assolutamente non è, è completamente inconoscibile”. L‟opinione, che è pur qualcosa, si pone “tra l‟ignoranza e la scienza” per cui “a una cosa è ordinata l‟opinione e a un‟altra la scienza: secondo la facoltà sua propria”. Per concludere, dicendo che “la scienza ha per oggetto ciò che è”, equivale a dire che essa “conosce come è ciò che è”. 130 “Tra tutte le facoltà, la scienza è la più potente”, e ha un oggetto diverso da quello dell‟opinione. L‟opinare, che è facoltà diversa dal conoscere, non ha per oggetto ciò che non è, altrimenti sarebbe ignoranza, ma qualcosa di “intermedio tra l‟ignoranza e la scienza […] che partecipa insieme dell‟essere e del non essere”.131 Questo qualcosa è “la molteplicità delle cose”, oggetto dell‟opinione della maggioranza, che “vagano, in certo modo, nella zona intermedia tra ciò che assolutamente non è e ciò che assolutamente è”. E pertanto in conclusione diremo per i filosofi “che amano ciascuna cosa che è, essa per se stessa”, mentre per i “filodossi”, ossia “coloro che contemplano la molteplicità delle cose belle, ma non vedono il bello in sé e non sono capaci di seguire chi colà li guidi, e che contemplano la molteplicità delle cose giuste, ma non il giusto in sé, e così via, diremo che su tutto hanno opinioni, senza però conoscere niente di quello che opinano”.132 Dal punto di vista della conoscenza filosofica, l‟opinione non è una scienza. L‟opinare è una facoltà che ha per oggetto il molteplice, ossia ciò che diviene. Ciò che diviene è il movimento della storia, sicché l‟opinione è la facoltà propria di chi conosce storicamente. La storiografia è dunque l’opinare sul molteplice divenire. Una storiografia che volesse essere scientifica, ossia si proponesse di conoscere in senso filosofico, dovrebbe affermare l‟identità (e non la semplice partecipazione) fra enti fenomenici ed essenze ideali, ossia affermare che ciò che diviene è lo stesso di ciò che è. Ma l‟identità di essere e divenire è esattamente quanto viene confutato dalla scienza, consistendo la conoscenza dell‟Essere esattamente stabilire la differenza tra ciò che permane (l‟Uno) e ciò che diviene (il Molteplice). […] Ogni eccesso suole comportare una grande trasformazione nel senso opposto: così nelle stagioni come nelle piante e nei corpi e anche, in sommo grado, nelle costituzioni, [per cui] l‟eccessiva libertà, sembra, non può trasformarsi che in 130 131 132
Ivi, V, 476 e-477 a-b. Ivi, 477 e-478 a-e. Ivi, V, 479 a-e.
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eccessiva schiavitù, per un privato come per uno Stato […]. E‟ naturale quindi, che la tirannide non si formi da altra costituzione che la democrazia; cioè, a mio avviso, 133 dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce. – E‟ logico.
Si noti come, una volta si dica che è “naturale” che la democrazia degeneri i tirannide, altra che è “logico” che la schiavitù origini dagli eccessi della libertà. Sono più che espressioni retoriche, e indicano la equivalenza della legge naturale con quella logica, ossia l‟idea che i processi naturali perseguano un disegno logico, ovvero, che la natura si sviluppi logicamente. Questa fede razionalistica costituisce il presupposto metafisico di ogni veridicità del ragionamento logico, e quindi del conseguimento della verità attraverso il metodo dialettico. Essa spiega anche come l‟evidenza fenomenica sia l‟equivalenza estetica della verità recondita ricavabile maieuticamente dal parto filosofico, e come dunque la realtà visibile sia il riflesso, per quanto mobile e imperfetto, da interpretare, della immobile realtà ideale. Basta perciò sapere vedere la realtà per rendersi conto della sua intrinseca consequenzialità logica. Esperienza e ragione sono dunque elementi strettamente connessi al sapere.134 La ricerca del Bene è un percorso razionale che, attraverso l‟esperienza, risalga dal piano passivo fenomenico a quello attivo della sistemazione logica. Lo Stato ideale è il regime politico della ragione, sia ideale che sociale, sia privata che pubblica. La specularità tra condizione soggettiva e condizione sociale, più volte ribadita nel dialogo, consente all‟uomo saggio di pervenire sia alla verità che all‟ideale di vita sociale attraverso un‟unica ricerca. La sofocrazia non è pertanto il potere dei filosofi, come spesso impropriamente si afferma, ma il governo della ragione. E‟ il presupposto che la ragione sia lo strumento per pervenire alla verità e all‟ottimo Stato a inferire che chi padroneggi la ragione sia anche fornito del sapere adeguato al governo della città. Non a caso, i ruoli tra filosofi e custodi sia interscambiabile, designando la conoscenza il criterio di merito personale e di valore sociale. E il governo della ragione richiede una società logicamente pianificata, nella quale l‟elemento ferino e istintuale della condizione ctonia, propria all‟animale passionale, venga consapevolmente addomesticato sotto la padronanza del vigile potere intellettuale, proprio all‟uomo razionale. Ecco dunque che il metodo dialettico, socializzando la sua tecnica 133 134
Rep., VIII, 563 e-564 a; tr. cit., pag. 392. Rep., IX, 583 e, tr. cit., pag. 414.
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razionalistica, trasferisce su un piano di fruizione universale la sapienza esclusiva del filosofo, liberando la sua scienza esoterica di tutto il potenziale etico-politico implicito alla sua correlazione sociologica. In questo senso, l‟auto-coscienza politica è parte integrante dell‟autocoscienza filosofica, per cui la formazione teoretica del‟uomo spirituale coincide con quella morale del cittadino. Questa fondamentale simmetria tra ragione noetica e ragione pratica, al di là di ogni distinguo e predicazione elitaria, costituisce la premessa teoretica della universalizzazione storica di ogni realtà ideale, ossia della conversione pratica del sistema concettuale. Universalizzare sta per razionalizzare, e la razionalizzazione della realtà attraverso il metodo dialettico equivale all‟affermazione politica del criterio proprio della conoscenza logica del mondo, fondata sulla distinzione di ciò che è in senso ideale, da ciò non-è. Dialettica e politica sono dunque i risvolti, teoretico e pratico, di uno stesso processo di conoscenza della realtà e di governo della società. Da qui la coincidenza concettuale e politica di conoscenza e governo. Razionalizzare il reale significa idealizzarlo, e idealizzare equivale ad astrarre dal divenire il contingente per assumerlo come entità in-finita. Dalla determinazione, idealizzando, si passa alla indeterminazione attraverso una sottrazione di realtà. La realtà che viene sottratta dall‟operazione di idealizzazione è l‟esistenza, la realtà esistenziale, ovvero quel “mondo-della-vita” in cui trova determinazione storica ogni ente temporale. Passare dal ciò-che-esiste al ciò-che-è, significa quindi sottrarre all‟Essere la sua esistenza, rendendolo astratto. E rendere astratto l‟Essere sottraendogli l‟esistenza, equivale a idealizzarlo, privarlo cioè delle sue determinazioni esistenziali. Orbene, privare qualcosa delle sue determinazioni esistenziali significa conoscerla?, oppure semplicemente astrarla dalle sue contraddizioni reali? Il punto è fondamentale, in quanto Platone afferma che non è il “fabbricatore” di un utensile a possedere la scienza, ma “chi l‟usa”,135 ossia colui che ne dispone in vista di uno scopo o di un fine razionale. Ciò vuol dire che la vera conoscenza non deriva dalla tecnica di fare alcunché portandolo all‟esistenza, ma bensì dal suo governo strumentale, per cui è chi suona lo strumento a conoscerlo veramente, e non già chi lo fabbrica; il cavaliere che usa le briglie, e non il cuoiaio che le foggia. Ma come può 135
Rep., X, 601 e-602 a; tr. cit., pag. 433.
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l‟uso di alcunché prescindere dalle contraddizioni della realtà esistenziale in cui esso è immerso? In altri termini, come può l‟azione astrarre dalle condizioni storiche in cui si manifesta la volontà? Solo la conoscenza potrebbe farlo, ma conoscere non è agire. La conoscenza, pertanto, come arte del governo delle cose, cui allude Platone, non è la propria consapevolezza della realtà, ma è la messa in opera di quanto prescritto da un sapere oggettivo, che egli indica con “la legge”,136 la quale altro non è che la ragione stessa codificata in tradizione sapienziale, ossia la stessa ragione socializzata in costume e istituzione. La “conversione” della vita sociale alla ragione attraverso la politica dialettica disegna la parabola cosmica da un eone originario (Urzeit), preda del caos delle passioni ctonie, a uno finale (Endzeit), conseguente alla fuoriuscita dalla caverna umbratile dei pregiudizi arcaici, ossia il movimento stesso della rivoluzione, la cui immanente apocalissi coincide con l‟instaurazione del “vero” Stato degli uomini “sapienti”. Ma al vero si perviene a seguito di un‟ardua fatica, di cui niente e nessuno assicura il successo, quella di negare l‟antico e affermare il nuovo, l‟uno preda del molteplice divenire, l‟altro assiso sull‟eterno essere ciò che è. E dunque lo stesso regime vero, pur affermando il bene, che “è tutto ciò che salva e giova”, è stabilito sul male, se questo, stante a quanto lo stesso Platone afferma, “è tutto ciò che dissolve e guasta”, 137 poiché infatti per affermare il bene occorre scacciare il male, ossia combatterlo, e pertanto portare scompiglio sociale e dissoluzione culturale, come appunto oggettivamente fa il filosofo criticando il mito e la dòxa dominante. Platone introduce il concetto del male necessario; necessario a liberare il corpo sociale dalla patologica instabilità dei regimi privi di verità, ossia di quella stabilità che è propria di ciò che è immortale. In questo senso, possiamo indicare lo Stato ideale di Platone come lo Stato dell’anima, il quale, come appunto l‟anima, “non perisce per male alcuno, né suo né non suo”.138 La ipotesi della realizzabilità dello Stato ideale, la fattibilità della sua – pur difficile – statuizione, è di per sé contraddittoria, in quanto non risolve una fondamentale aporia che attraversa l‟intero discorso platonico, consistente nella duplice fisionomia antropologica che lo sorregge. Da un 136 137 138
Rep., X, 604 a-b; tr. cit., pag. 436. Rep., X, 608 e; tr. cit., pag. 441. Ivi, 610 e-611 a; tr. cit., pag. 443.
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lato, cioè, viene distinto il posto sociale dell‟uomo in virtù della sua innata attitudine naturale, 139 e dall‟altro si afferma la necessità di addivenire a una costituzione che garantisca la felicità universale di tutti i cittadini, 140 lasciando supporre dunque una loro sostanziale omogeneità, conseguibile attraverso una adeguata educazione al bene.141 Da un lato, le classi riflettono i tre elementi dell‟anima umana, razionale, animoso e concupiscibile, 142 e non possono scambiarsi di ruolo sociale senza commettere ingiustizia,143 dall‟altro si afferma la possibilità di persuadere la moltitudine alla retta virtù del “divino ideale” filosofico.144 Tra i due livelli di coscienza, antropologico e sociale, esiste una difformità non originaria ma derivata dall‟ignoranza umana, e che perciò è sanabile attraverso un correttivo pedagogico conseguente alla determinazione logica dell‟essenza immutabile di “ciò che è”, la quale si nasconde dietro ogni apparenza fenomenica. La “conversione” al bene, operabile attraverso l‟educazione, consiste dunque nel discoprire la fondamentale identità di ciò che è logico con ciò che è ontologico, e di affermarla politicamente come verità sociale costruendo lo Stato ideale. La conversione è dunque un ritorno alle vere origini della condizione umana, una rivoluzione dunque, dopo un periodo di estraneamento della coscienza nella precaria condizione sociale sorretta da false credenze culturali. In questo movimento di purificazione teoretica attraverso il metodo dialettico, consiste il processo di rielaborazione filosofica del Mito, il cui modello noetico viene universalizzato attraverso la sua socializzazione pedagogica, che gli fa perdere il carattere di esoterica esclusività a favore di una indiscriminata fruizione politica conseguita con l‟opera di governo dello Stato. La filosofia, attraverso l‟arte politica, si converte in governo. Si comprende a questo punto come la politica sia la stessa pedagogia sociale, ovvero un‟arte di persuadere le folle, segnando quel primato dell‟ “uso” della verità, che inaugura nella cultura occidentale il dominio ideologico della manipolazione razionale dell‟ente idealizzato. Il carattere ideologico del pensiero platonico si evince dalla riduzione del sapere a ente strumentale, funzionale alla sua utilizzabilità 139 140 141 142 143 144
Rep., XI, 369 b-371 b; XXI, 414 b-415 d. Rep., I, 419 a-421 c. Rep., IV, 518 b-519 d. Rep., XIV, 438 d-440 a. Rep., X, 433 a-434 c. Rep., XII, 498 c-500 b; XIII, 500 b-502 a.
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ai fini del controllo sociale. A partire da Platone, il sapere diventa strumento del potere, essendo il governo della città il fine razionale cui quel sapere tende. Dal lògos dialettico al lògos politico si consuma l‟intera esperienza teoretica della filosofia platonica. 4. Il carattere strumentale del sapere fa sì che esso venga considerato come prodotto utilizzabile all‟uso funzionale desiderato. Ora, il sapere di cui si tratta non coincide con la conoscenza della realtà quale si dà entro un determinato orizzonte di senso, ma del sapere filosofico, che della realtà è la astratta rappresentazione logica. Astrarre dalla realtà una rappresentazione, significa utilizzarla fuori del suo orizzonte di senso originario, che Heidegger chiamava la “struttura dell‟in quanto”, che è “la struttura fondamentale della comprensione.145 All‟interno del suo orizzonte di senso, è possibile cogliere l‟ente per “ciò che è” in quanto il suo senso è inscritto in quell‟orizzonte. Fuori di esso, il senso dell‟ente diventa disponibile ad altra comprensione. Tale passaggio dall‟in quanto originario a un altro orizzonte di senso, comporta una trasformazione che non è circoscritta al significare ma coinvolge il comportamento, l‟averea-che-fare, sicché la comprensione del senso di qualcosa è un‟esperienza non solo teoretica ma esistenziale, tale che “il mio essere nel mondo non è nient‟altro che questo muovermi già comprendente in questi modi dell‟essere”.146 Essendo la comprensione dell‟ente un rapporto ermeneutico col suo senso originario, questo precede lo stesso atto comprendente attuale, per cui la comprensione del senso dell‟ente implica un retrocedere al suo senso originario, che è simbolico, inclusivo del senso logico ma non esauribile in questa , e in quanto inclusivo comprendente la sua . In tal senso, “la struttura dell‟in-quanto” non rappresenta noeticamente le determinazioni logicorazionali della realtà, ma “determina il nostro essere in rapporto al mondo e in larga misura anche il nostro essere in rapporto a noi stessi”. Pertanto, la conoscenza delle forme ideali degli enti non coincide con la loro vera comprensione, in quanto “il significare comprendente non si rivolge primariamente né a singole cose né a concetti generali, ma vive nel mondo circostante più vicino e nel mondo inteso nella sua totalità”. 147 145
M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit (1925-1926), tr. it., Milano,1986, pag. 103. 146 M. Heidegger, Op. cit., pag. 98. 147 Ivi, pag. 100.
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La totalità di senso di alcunché è costituita dalla sua unità d‟orizzonte, ossia dall‟orizzonte di senso compreso nella sua unità razionale, la quale unità costituisce dunque il risultato del pensare come conoscere, e dell‟atto della conoscenza come relazione di senso unitario tra l‟ente determinato e la struttura dell‟in-quanto in cui si pone il suo significato simbolico. Esattamente questo “rapporto”, a un tempo ermeneutico ed esistenziale, degli enti col loro significato originario viene a essere interrotto da parte della filosofia dialettica, la quale stabilisce tra gli enti dell‟esperienza comune e il loro contesto di senso un esclusivo significato logicamente derivato, che rappresenta un altro modo di essere insieme rispetto a quello storico tradizionale, e che modifica perciò la originaria struttura ermeneutica dell‟in-quanto. Questa giustapposizione di senso ultroneo al senso originario è implicita nella critica intrapresa dalla filosofia all‟unità di senso mitica, così come la sua affermazione culturale nei confronti del senso tradizionale implica il suo inevitabile risvolto politico. Il che rende chiara l‟affermazione platonica per cui è l‟ “uso” delle parole a determinarne il senso razionale. Ma si rende altresì chiaro l‟atto teoretico di “rendere presente” l‟ente astraendolo dal suo contesto di senso, rimuovendo la struttura originaria dell‟in-quanto per determinarlo come oggetto di pensiero. “Di conseguenza”, diciamo con Heidegger, “il determinare enunciativo non è mai uno scoprire primario, il determinare enunciativo non determina mai una relazione primaria e originaria con l‟ente, e quindi non può questo logos, diventare la guida per il problema dell‟essere dell‟ente”.148 Queste considerazioni sono importanti per comprendere la portata innovativa della concezione cristiana della verità e della sua conoscenza. Infatti, il senso greco della verità si manifesta come attualità dell‟Essere, che Heidegger chiama “presenza essenziale” (Anwessenheit o Praesenz), in cui si attua la conoscenza come un “presentare” o “rendere presente” (Gegenwaertigen) la “cosa presente” (Anwesendes).149 Questo render-presente in cui vivo costantemente, ossia nella presentazione del render presente, dà la possibilità che qualcosa possa farsi incontro, che cioè le cose essenzialmente presenti siano scopribili, possano essere presenti nella loro essenza. Render-presente non significa nient‟altro che “far sì che qualcosa di essenzialmente presente sia incontrato in un presente”. Quel che è aperto in un tale render-presente 148 149
Ivi, pag. 107. Ivi, pag. 128.
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viene compreso in questo modo come qualcosa che in tal presente può mostrarsi nella sua presenza essenziale. Ma […] interamente presente è solo ciò che si incontra nel puro farsi presente e che quindi in se stesso, nella sua essenziale presenza, non può dare nient‟altro all‟infuori di ciò per il quale è essenzialmente presente. Il puro renderpresente, dunque, è fatto in modo che esso, relativamente a quel che dev‟essere scoperto, non dà più alcuna non-presenza. […] L‟esser-scoperto [, in cui consiste la verità come a-letheia], ossia qui il puro presente, è in quanto presente il modo supremo della presenza essenziale [come] determinazione fondamentale dell‟essere. […] Quel che viene dunque procurato nel render-presente qualcosa, ossia nello scoprirlo, è l‟esser-scoperto o l‟esser-presente della presenza essenziale, e quest‟ultima è il carattere dell‟ente stesso in quanto esso è.150
Il “ciò che è” della conoscenza platonica è dunque il suo esser-presente nella sua presenza d‟essere essenziale. La , che tradizionalmente è stata interpretata come “sostanza”, non è altro che “l‟Essere come presente”. La conoscenza, che avviene nella “presentazione del render-presente”, è una relazione pragmatica in cui l‟esserci ha-a-che-fare-con l‟ente. Tale rapporto (Aufschluss), come sappiamo, non è esclusivamente teoretico ma esistenziale, e dunque socialitario, inerendo quell‟ “uso” degli enti proprio dell‟essere nel mondo che Heidegger chiama “prendersi cura” (Besorgen), e che è proprio di quel carattere politico della gnosi greca di cui dicevamo. L‟orizzonte di senso di ogni conoscenza è, per i Greci, quello della socialità, le cui leggi sono quelle etiche. Diverso è il caso della morale cristiana, universale perché trascendente ogni etica dello Stato. Se il sapere si mette al servizio dello Stato, esso non può attingere alla vera conoscenza, che è divina in senso trascendente l‟opinione sociale e filosofica. Ma anche, parimenti, se la religione si mette al servizio della politica dello Stato, essa non può servire la verità. Ciò che in senso greco si intendeva per “verità” era il senso esplicito del valore razionale legittimante l‟unità del gruppo sociale, ossia la socialità quale principio ideale unificante la molteplicità delle esperienze sociali particolari. La socialità è l‟elemento razionale unificante che fa del gruppo sociale una unità ideale. Solo dal punto di vista di questa unità ideale si può giudicare e “controllare” la politica come prassi giusta. L‟orizzonte temporale in cui opera la conoscenza in senso greco è quello naturalistico del mondo oggettivo, ossia dello schema d‟ordine dei 150
Ivi, pag. 129.
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processi naturali determinati per la prima volta dalla Fisica di Aristotile e che verrà ereditato dalla tradizione filosofica fino a Heidegger.151 La legittimità filosofica di questo concetto tradizionale di tempo è legata ai suoi fondamenti ontologici naturalistici, per liberarsi dei quali occorre addivenire a una diversa fondazione intuitiva dell‟Essere, di tipo spiritualistico, quale quella offerta dalla concezione del mondo cristiana, che la filosofia moderna ha ricusato rimuovendo la metafisica creazionistica dal suo orizzonte scientistico, che proprio all‟intuizione greca dell‟Essere si rifà originariamente. L‟apporto del Cristianesimo al pensiero occidentale è consistito nell‟aver sottratto l‟ orizzonte del conoscere alla dimensione oggettiva, e quindi sociologica, dell‟Essere, riferendola all‟esperienza soggettiva della coscienza personale, e dislocando la temporalità del presente storico nell‟atemporalità dell‟eterno, che abita in interiore homine. Il pensiero moderno riabilita la condizione sociologica della conoscenza riformando la temporalità dell‟Essere nel movimento del presente, logicamente attualizzato nel giudizio storico, nella cui oggettività fenomenica si condensa l‟intera esistenzialità dell‟evento conoscibile. Ma se la scansione della frequenza temporale classica, circoscritta al movimento della natura umana socializzata, consentiva una corrispondenza tra ciclo cosmico e ciclo sociologico, l‟atemporalità spiritualistica, sottraendo l‟esistenza personale al moto omogeneizzante dei processi meramente naturali e collettivi, rendeva l‟esperienza umana un unicum in cui si rispecchiava l‟immagine stessa di Dio. Questa traslazione ontologica dallo speculum civitatis all‟imago Dei ha rappresentato l‟autentica grande trasformazione culturale della civiltà europea operata dallo spiritualismo cristiano. Rispetto a questo essenziale rinnovamento culturale promosso dal Cristianesimo, la sua riduzione religiosa nei termini storici della cristianità interpretata dalla Chiesa cattolica rappresenta una sminuente degenerazione della sua portata universale, perpetrata attraverso il monopolio ermeneutico del Verbo di Gesù da parte dell‟istituzione ecclesiastica, erede del lògos greco e dell‟imperium romano. L‟eredità della cultura classica ha occultato la condizione stessa del rinnovamento spirituale cristiano, poiché questo era possibile solo nei termini n cui quel retaggio era rimuovibile, sostituito dalla rivelazione, 151
Ved. M. Heidegger, Op. cit., pag. 135.
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cioè da un cominciamento assoluto e divino, non rapportabile ad alcuna esperienza culturale storica, e quindi a nessun orizzonte di senso pregiudiziale, il quale, in quanto “preventivo lasciar-venire-incontro e avergià qualcosa, fonda la tendenza a scoprire quel che già si ha”.152 Invece, nella prospettiva cristiana, fondandosi la verità sul Verbo divino originario, veniva sottratta alla temporalità storica finita sottraendosi così il suo Mistero a ogni possibile de-finizione umano-razionale, la cui sapienza risultava pertanto “follia” a confronto di quel Verbo. La portata liberatoria per l‟uomo dello spiritualismo cristiano si può comprendere a partire dalla sua condizione sociale di deiezione (Verfallen). Infatti, come efficacemente scrive Heidegger nella sua prosa simbolica, Il mondo non si fa incontro come un in-cui indifferente, dove l‟esserci si muove, ma l‟essere per esso adeguato all‟esserci è un esser-costretti-a-riferirsi ad esso e quindi un esser-già-sempre-deietti in esso. L‟esser-già-sempre presso il modo non è né un indifferente essere per esso né un puro trattenersi presso di esso nel senso dell‟osservazione e della contemplazione, ma il presso-il-mondo significa un esser-costretti-a-riferirsi ad esso, essere da esso assorbiti, muoversi in quanto consegnati ad esso.153
La mondanità dell‟esperienza umana è per la coscienza spirituale un orizzonte occluso che cinge da ogni parte la sua ambizione, o necessità, di assoluto e di eternità, ossia di autonoma costituzione trascendentale. Tale gabbia esistenziale è ben più della platonica “caverna”, in quanto l‟uomo non può sortirvi attraverso il mero pensamento dell‟Essere come Idea dell‟ente, ma solo trascendendo la dimensione finita della temporalità presente e della socialità, ponendosi sul piano dell‟atemporalità. L‟esperienza di Gesù ha mostrato come il rapporto col mondo, anziché agevolare l‟essere dell‟esserci, ha costituito un ostacolo al dispiegamento delle sue possibilità spirituali. La gabbia politica, in quanto cosmo formalizzato esigente comportamenti prevedibilmente conservativi della sua struttura formale, rimane pur sempre natura, vincolo e necessità, rispetto alla libertà del volere e dell‟immaginazione, sicché nella stessa sicurezza legislativa della vita sociale è inscritto l‟esito infausto di ogni esistenza socializzata, di cui la morte cruenta è solo il risvolto tragico 152 153
Ivi, pag. 138. Ivi, pag. 141.
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della sua mancata eversione. In questa luce impolitica è da scorgere la critica radicale del Cristianesimo alla divinizzazione del mondo sociale, che rappresenta la maggior opera di desacralizzazione dei fondamenti religiosi della civiltà politica pagana.154 Allorquando il principio di socialità proprio della predicazione di Gesù pone l‟amore come fine, anziché il Potere, la comunità informata al suo principio non può essere la società pensata nella logica politica di Platone e di Aristotile, in quanto l‟ordo amoris cristiano non ha per fine il Bene del gruppo sociale, ma il Bene di Dio. se questo è chiaro, ci si rende conto come la posizione della Chiesa, che ha posto la propria vita istituzionale quale fine dell‟attività cristiana, abbia operato una sostituzione di uno scopo etico-politico particolare, non diverso da quello di ogni gruppo sociale storico informato ai princìpi pagani di socialità, al vero fine trascendente predicato come verità eterna da Gesù di Nazareth. La sostituzione del bene della Chiesa al bene di Dio segna la nascita di un nuovo ordine statuale, di un nuovo Stato, ma non corrisponde all‟essenza della predicazione evangelica, superatrice dell‟ordine di questo mondo poggiato sul principio esclusivo della politica in vista di un “altro mondo”, informato sul principio inclusivo dell‟amore. Inclusivo di che cosa? Del “nemico” e della “falsità”, cioè di quegli elementi esclusi dal giudizio logico e dalla considerazione politica della vita sociale, che per visione antica del mondo rappresentavano il “tutto” dell‟esperienza umana. Il cosmo politico della Città è impregnato del fine etico edificante di costituire, per mezzo della società razionalmente ordinata, il fine stesso della natura umana, che è una natura sociale. L‟uomo ha per fine il suo essere sociale, per cui lo Stato, cioè la società politicamente strutturata, ha il compito di realizzarlo e di difenderlo. Ricoeur ricorda con Popper il carattere olistico dello Stato antico, pensato come un “tutto”.155 L‟equivoco di questa impostazione sta nell‟identificare il “fine” con il “tutto”. Il “fine” dello Stato classico è di far maturare l‟essenza naturale 154
Si consideri a riguardo solo la sistematica demolizione della tradizione religiosa romana condotta da Agostino nella Civitas Dei per avere un‟idea di quanto il Cristianesimo abbia infierito sul sentimento del sacro molto più di ogni dottrina filosofica scopertamente atea, andando ben oltre la predicazione evangelica dei due regni, sconvolgendola anzi in senso radicalmente ideologico e opposto a quello originariamente impolitico della predicazione profetica di Gesù. 155 P. Ricoeur, Op. cit., pag. 72.
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dell‟uomo, la sua “natura”, per cui è in tal senso al suo servizio. Lo Stato è dunque un “fine” in quanto ideale di socialità, non perché potenza che asservisca l‟uomo. Che poi il servizio che l‟uomo rende allo Stato sia il tributo personale della sua socializzazione, è un altro aspetto del problema politico della sua personalità etica, ma il carattere totalitario dello Stato antico che noi rinveniamo anche nella sua forma moderna, è legato alla nostra coscienza cristiana, che non può essere trasferita sic et simpliciter all‟ideologia pagana. Anzitutto perché la forma antica di Stato è fondata sulla religione, cioè su una legittimazione socialitaria non meramente razionalistica e funzionalistica, ma mitica. Inoltre, perché la società antica era strutturalmente gerarchica e anti-egalitaria. Solo l‟egalitarismo razionalistico, originato dalla secolarizzazione del personalismo cristiano, può concepire una “cittadinanza” che si “opponga” allo Stato come il valore al fatto, mentre nel cosmo antico “la soglia dell‟umanità è la soglia della cittadinanza, e il cittadino è tale solo nella Città”.156 In quale altro luogo potrebbe esserlo? Ricoeur asserisce che “i movimento di pensiero propriamente politico va dalla Città al cittadino e non il contrario”, tale che “il cittadino è caratterizzato dall‟attributo del potere”.157 Ma egli parte dalla dicotomia tra l‟uno e il tutto, cioè tra il singolo cittadino e lo Stato, che è un portato della nostra moderna visione sociale, non già di quella antica, la quale com‟è noto concepiva la natura umana come “sociale”, non come “personale”. Né lo Stato era quel “tutto” di cui si parla, esistendo i ceti sociali e i gruppi familiari costitutivi di una realtà federativa inferiore allo Stato ma non per questo meno “sociali” dello Stato. una socialità inferiore in potenza, in quanto privata, ma più originaria di quella pubblica, perché non derivata da alcun foedus politico. Il livello pubblico, propriamente politico in quanto relativo alla vita non dell‟oikos ma della pòlis, è un livello di condotta sociale superiore, ma non l‟unico, e perciò non poteva costituire la totalità dei rapporti sociali. Totalitario è invece lo Stato che annulla la rilevanza pubblica degli organismi sociali intermedi, stabilendo un rapporto diretto e formale tra Potere e singoli membri sociali. E tale Stato è quello moderno, sorto dall‟individualismo etico, e non quello antico, strutturato sui gruppi etici originari (famiglia, gente, clan, tribù, etc.). Occorre tener presente che la vita pubblica era un servizio che 156 157
Ivi, pag. 72. Ivi, pag. 73.
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certamente era oneroso per chi vi prendesse parte, ma anche e soprattutto onorevole per il cittadino virtuoso, in quanto rappresentava il coronamento della sua compiuta socializzazione, la forma più elevata di vita sociale, anziché l‟annichilimento della sua personalità. La Città, infatti, non è un transito oneroso per il cittadino virtuoso (spoudàios), ma il luogo onorifico della sua realizzazione etica, dalla quale gli idiotes erano esclusi. La stessa connotazione aristocratica consisteva in questa attitudine virtuosa a occuparsi della vita pubblica dello Stato, i cui affari non potevano essere alla portata comune. La distinzione tra impegni privati e affari pubblici era essenziale, e non occasionale come modernamente, quando la dimensione politica occupa l‟intera definizione dell‟area pubblica, e verteva sulla differenza tra interesse particolare, sostenuto da ogni gruppo economico in quanto tale, e interesse generale, proprio dell‟attività di governo. Allorquando modernamente la rappresentanza sociologica degli interessi economici particolari dei gruppi sociali è stata soppiantata da quella esclusivamente politica e paritaria dei cittadini singolari, la definizione rousseauiana di una “volontà generale” come interesse superiore perde la sua antica valenza qualitativa perché non riconducibile ad alcuna funzione di governo superiore a quella della stessa attività politica, di natura meramente economica. Lo Stato totalitario, dunque, è un prodotto della modernità, della filosofia politica moderna, la quale non a caso concepisce l‟attività politica come realtà sinteticamente assoluta, evitando di distinguere all‟interno delle forme tipologiche storiche la rispettiva versione degenerata, coincidente per ognuna con l‟affermazione dell‟interesse economico-politico su quello etico-governamentale, l‟unico ritenuto razionale. Nel momento in cui, machiavellianamente, “il fine giustifica i mezzi”, si stabilisce un‟equazione omologante tra qualità finale e azione economica strumentale che ne consente la reciproca legittimazione funzionale, a esclusione di ogni superiore appello etico-religioso o morale-universale. Dislocando pertanto il lògos politico dal contesto pubblico a quello privato, la cultura politica razionalistica moderna si è privata della essenziale distinzione tra ragione pubblica e interesse privato, che invece costituiva l‟essenza etica della vita politica antica razionalmente ispirata. E‟ quindi il fine pubblico a caratterizzare la politica dello Stato classico, distinguendola dall‟orizzonte economico in cui si muove la moderna concezione politica, fondata sulla rappresentanza degli interessi privati 109
politicamente organizzata. I moderni partiti politici, infatti, non sono realtà sociologicamente originarie, ma prodotti politici dell‟aggregazione degli interessi privati, il cui scopo economico coincide con la loro salvaguardia. Il fine pubblico è invece la ragione d‟essere stessa dello Stato, tanto che bene comune e Stato sono concetti equivalenti. Rispetto allo Stato moderno, quello antico non nasce da un “atto virtuale”, da un “contratto sociale” puramente simbolico e ipotetico, ma costituisce la realtà storica della stessa umanità, intesa come rapporto sociale, come mondo-della-vita. Lo Stato antico è la condizione naturale dell‟uomo, niente affatto artificiale, entro il cui orizzonte di senso egli si muove, pensa e agisce. Non c‟è passaggio a un rapporto pattizio, ma soltanto esistenza razionale rispetto a una bruta e “barbara”. Opposta è l‟ipotesi di Rousseau evocata da Ricoeur. Il “contratto” di società parte dagli individui quali enti originari, che danno vita alla “nazione” politica. In questa ipotesi, lo Stato è un‟invenzione, anzi una convenzione, e non la realtà naturale dell‟uomo inteso come “animale razionale”, cioè ente politico. La politica secondo Rousseau ha un fine di perfezione indotto dalla degenerazione della vita sociale, una triste necessità legata alla convivenza umana. Si suppone che senza tale convivenza, anche lo Stato non avrebbe ragion d‟essere. Il valore per Rousseau non è la socialità ma la coscienza soggettiva della personalità. E‟ questa natura personale dell‟uomo che per realizzare la comunità sociale abbisogna di un patto consensuale, ed è il “consenso politico che crea l‟unità della comunità umana organizzata e orientata verso lo Stato”,158 e non lo Stato a dare realtà politica alla comunità umana originaria. La differenza tra le due prospettive, classica e moderna, è che, per il cristiano Rousseau, la ragione umana preesiste a quella sociale quale patrimonio personale che, attraverso l‟atto pattizio consensuale, si trasferisce alla struttura politico-istituzionale dello Stato. Dal punto di vista aristotelico, invece, la razionalità umana coincide con la sua stessa condizione sociale, e non preesiste come un dato naturale autonomo dalla condizione sociale. Ora, la prospettiva di Heidegger si inscrive nell‟orizzonte di senso classico dell‟esistenza umana come condizione socializzata, ma riguardata secondo una prospettiva individualistica moderna di derivazione esistenzialistica cristiana, per cui il protagonista della storia non è l‟animale politico ma l‟essere spirituale. 158
P. Ricoeur, Op. cit., pag. 75.
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5. A proposito di Nechljùdov, il protagonista maschile di Resurrezione, Tolstoj scrive, con la consueta perspicacia e profondità, che se originariamente quell‟uomo “considerava il suo essere spirituale come il suo vero io”, in seguito prese a considerare “tale il suo sano, robusto , animalesco io”. Tale “strano mutamento si era compiuto in lui soltanto perché aveva cessato di aver fede in sé e aveva cominciato ad aver fede negli altri”, e per la ragione che gli “era troppo difficile vivere avendo fede in sé”, poiché questo “non poteva risolvere ogni problema a vantaggio del proprio io animalesco, sempre in cerca di facili gioie, ma quasi sempre doveva risolverlo a suo danno”. Invece, “avendo fede negli altri, non c‟era più da decidere, tutto era già deciso, ed era sempre deciso a danno dell‟io spirituale e a vantaggio dell‟animalesco. Inoltre avendo fede in sé, si esponeva sempre a essere condannato dagli uomini; avendo fede negli altri riscuoteva l‟approvazione di coloro che lo circondavano”.159 La esperienza del singolo personaggio rappresenta, all‟interno del proprio universo di coscienza, la dinamica polare in cui si articola la stessa esistenza umana, sospesa tra paradigmi ideali socializzati in opinione comune e credenze soggettive, la cui fede personale costituisce l‟orizzonte di pensiero filosofico in senso greco. Tutti gli uomini vivono e agiscono in parte secondo le proprie idee e in parte secondo le idee altrui […]. In ciò consiste per l‟appunto la differenza essenziale fra gli uomini: gli uni si servono quasi sempre delle loro idee come di un gioco intellettuale, trattano la loro ragione come il volante d‟una macchina al quale sia stata tolta la cinghia di trasmissione e subordinano le loro azioni alle idee altrui, vale a dire alla consuetudine, alla tradizione, alla legge. Gli altri, invece, considerano le loro idee come il motore precipuo della propria attività, obbediscono quasi sempre ai dettami della ragione e le si sottomettono, seguendo soltanto di rado, e soltanto dopo una valutazione critica, ciò che altri hanno deciso. 160
La distanza tra modelli ideali e pratiche sociali, colmata empiricamente a opera di istituzioni di controllo del comportamento umano, rimane irrisolta dal punto di vista della coscienza personale, costretta a misurare la propria fede interiore con la funzione ascritta al suo ruolo istituzionale,
159
L. Tolstoj, Resurrezione (1889-1899), tr. it. di C. Coisson, Torino (1952), 1974, pag. 49. 160 Ivi, pagg. 363-364.
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particolarmente incongruo in materia religiosa, campo in cui la verità di fede e quella sociale sono maggiormente stridenti. La carica [istituzionale] rivestita da[ll‟amico di Nechljùdov] Toporòv implicava una contraddizione che poteva sfuggire soltanto a un uomo ottuso e privo di senso morale [in quanto] lo scopo della sua carica era di sostenere e di difendere con ogni mezzo esteriore, non esclusa la violenza, quella chiesa che per definizione è stata fondata da Dio e non può essere minacciata né dalle porte dell‟inferno, né da alcuno sforzo umano. E invece questa istituzione religiosa e di origine divina che nulla poteva indebolire, doveva essere sostenuta dall‟istituzione umana affidata a Toporòv e ai suoi funzionari. […] Come tutti gli individui privi di un vero sentimento religioso, il quale ha per legge fondamentale l‟uguaglianza e la fratellanza fra gli uomini, Toporòv era convinto che il popolo fosse composto di esseri totalmente diversi da lui e che la cosa di cui egli poteva benissimo fare a meno fosse invece indispensabile al popolo. Personalmente, in fondo all‟anima non credeva a nulla, e giudicava questo suo stato d‟animo molto comodo e piacevole, mentre lo paventava per il popolo e reputava quindi „suo sacrosanto dovere‟ di preservarlo da questo pericolo. […] Toporòv era assolutamente convinto che il popolo ama la superstizione […] per cui bisognava conservare queste superstizioni. E non rifletteva che se, come pareva a lui, il popolo amava le superstizioni era soltanto perché in ogni tempo erano esistiti ed esistevano tuttora uomini crudeli come lui, i quali, benché illuminati, adoperavano la loro luce non già come avrebbero dovuto, per aiutare il popolo ad affrancarsi dalle tenebre dell‟ignoranza, ma per incatenarvelo sempre più.161
L‟esigenza politica di mantenere l‟ordine sociale impone la razionalizzazione dei motivi che legittimano il potere dell‟uomo sugli altri uomini, ossia quell‟atteggiamento che appare “bestiale” alla coscienza spirituale, perché esso non la contempla come essenza propria della dimensione divinamente umana. E‟ ripugnante la bestialità nell‟uomo. Ma quando si presenta col suo aspetto genuino, dall‟alto della tua vita spirituale tu la vedi e la disprezzi; sia che tu cada, sia che tu resista rimani qual eri. Ma quando la bestialità si cela sotto un involucro apparentemente estetico e poetico ed esige che le si renda omaggio, ti ci perdi tutto, non distingui più il bene dal male. Ed è una cosa terribile. Ivi, pag. 299.]
La critica tolstojana è rivolta alla stessa civiltà, quale “involucro” che avvolge la logica naturalistica della soppressione del debole a opera del più forte, la quale ammanta di forme raffinate una natura che permane
161
Ivi, pagg. 292-293.
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“bestiale”, cioè legata alla sopraffazione, al di sotto di ogni ruolo socialmente stabilito. […] Governatori, direttori di carceri, delegati di pubblica sicurezza, guardie, eccetera, credono che esistano al mondo delle situazioni in cui si può esser dispensati dal trattare con umanità. [Tutti loro] se non fossero stati governatori, direttori delle carceri, ufficiali, ci avrebbero ripensato venti volte prima di far marciare delle creature umane con un caldo simile e per giunta in massa […], e una volta accaduta la disgrazia si sarebbero mostrati dispiacenti. Invece non l‟hanno fatto e hanno persino impedito che altri lo facessero, perché non vedevano davanti a sé i doveri che hanno verso gli uomini, ma soltanto le esigenze del servizio che essi pongono più in alto delle esigenze dei rapporti umani. Tutto sta qui – pensava Nechliùdov. – Se si giunge ad ammettere, e sia pure un‟ora sola e per qualche caso eccezionale, che una cosa al mondo sia più importante dell‟amore per il prossimo, non esiste delitto che non si possa compiere contro gli uomini pur ritenendosene innocenti.162
L‟ordine sociale, la sua esigenza di controllo della fragile natura umana, posto a riparo della sua rovinosa violenza, non ne giustifica i mezzi coercitivi, i quali anzi generano a loro volta violenza e soprusi in quanto non neutralizzano gli istinti malvagi che riaffiorano nell‟uomo delle istituzioni che li vorrebbe giustificare per reprimere la violenza illegale. Ma è la violenza contro l‟uomo in quanto tale a dover essere screditata, con l‟opposto sentimento avverso a ogni sua manifestazione, che è la “compassione” verso le sorti del proprio simile. Tale sentimento cristiano viene rimosso dalle leggi sociali, le quali pretendono di imporsi sull‟ordine eterno divino e quindi sullo stesso “cuore degli uomini”, stravolgendo anche l‟innata bontà umana. Tutti questi individui erano evidentemente invulnerabili e refrattari al più elementare sentimento di compassione soltanto perché si trovavano in servizio. Per il fatto di essere funzionari erano impenetrabili al sentimento dell‟amore del prossimo […]. Tutto sta qui: questi uomini riconoscono come legge ciò che non è legge, e non riconoscono come legge ciò che è legge eterna, immutabile, essenziale, scritta da Dio medesimo nel cuore degli uomini […]. Se si pone il problema psicologico: come far sì che gli uomini del nostro tempo, cristiani, umani o semplicemente buoni, compiano i più orribili misfatti pur sentendosene innocenti, un‟unica soluzione appare possibile: basta che questi uomini siano governatori, direttori di carceri, ufficiali, poliziotti, basta, cioè, che in primo luogo siano convinti della esistenza di una cosa chiamata il servizio dello Stato in cui è lecito trattare gli uomini come cose, senza rapporti di umanità e di fratellanza, e in secondo luogo che essi siano vincolati da questo servizio 162
Ivi, pag. 343.
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in modo che la responsabilità dei loro atti non ricada su nessuno di essi singolarmente.. 163
E‟ chiaro che il presupposto antropologico da cui parte Tolstoj è l‟originaria bontà umana, che la civiltà avrebbe abraso dai cuori per esigenze di legalità, moralmente intollerabili, attraverso la seduzione del potere, cioè quel “servizio di Stato” la cui formale adempienza assicura ai funzionari, anche quando carnefici, una ipocrita “innocenza” nel ridurre gli uomini a “cose” fruibili a piacimento della propria balìa. Eppure, è proprio il principio dell‟ innata bontà umana naturale, avanzato dalle dottrine sociali di Rousseau, a rendere superflua l‟opera della divina Provvidenza e la necessità spirituale di una conversione dei cuori; è quel principio di auto-sufficienza antropologica a costituire la premessa teorica e morale di ogni assoluta determinazione umana, funzionale ad esautorare esattamente quella “legge eterna, immutabile, essenziale” di Dio, ossequiando la quale è possibile redimersi dal male originario e pervenire a quella auspicata “fratellanza” che gli istinti naturali escludono in ragione dell‟innata volontà sopraffattrice dell‟uomo verso il suo simile. Questa positiva teoria antropologica, che assegna a tutti gli uomini una medesima struttura psicologica benigna, universalizzata a “principio metafisico unitario”, costituisce, a partire da Aristotile,164 la “predeterminazione aprioristica” che è al fondamento teoretico di tutte le scienze sociali razionalistiche, rappresentando quindi la giustificazione razionale delle forme di conoscenza e dei modi di rappresentazione della stessa natura dell‟uomo e delle sue azioni. Ma la sua natura positiva, assegnando a ogni uomo una innata e originaria costituzione naturale benigna, non soltanto delegittima l‟intervento della grazia nella redenzione personale, ma lo stesso fondamento antropologico cristiano, che, di natura negativa, indicando in ogni creatura umana la mancanza originaria di perfezione (natura lapsa), assegna a ogni uomo la responsabilità di emendarsene attraverso appunto la singola conversione spirituale. La astrattezza razionalistica dell‟antropologia naturalistica greca viene confutata dalla concreta visione spiritualistica dell‟antropologia cristiana, che assegna al genere umano soltanto il peccato originale, mentre a ogni singolo uomo la responsabilità e il merito di emendarsene attraverso una condotta evangelicamente ispirata. 163 164
Ivi, pagg. 344-345. Aristotile, Metafisica, IV, 1 e 4.
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La conseguenza della visione spiritualistica cristiana è la concretezza dell‟approccio gnoseologico, la cui validità è circoscritta al caso personale, singolo, non astrattamente universalizzabile se non per imitatio, la quale lascia comunque impregiudicata la responsabilità dell‟esperienza individuale, e dunque la singolarità e unicità della sua realtà esistenziale, radicalmente opposta a ogni uniformità di condotta legata alla ripetibilità della necessità di una legge naturalistica. Ma proprio questa radicale difformità ontologica dell‟esperienza spirituale dalla condotta dell‟essere naturale richiede un approccio teoretico non scientifico, ossia non di mera intelligenza razionale dei fenomeni umani. Come ha chiarito a suo tempo Bergson, La nostra intelligenza, così come l‟ha modellata l‟evoluzione della vita, ha come funzione essenziale quella di chiarire la nostra condotta, preparare la nostra azione sulle cose, prevedere, per una situazione data, gli avvenimenti favorevoli o sfavorevoli che potranno seguirne. Essa, dunque, isola istintivamente, in una situazione, ciò che assomiglia al già noto; cerca l‟uguale, per poter applicare il suo principio secondo cui “l‟uguale produce l‟uguale”. Consiste in questo la previsione del futuro da parte del senso comune. La scienza porta questa operazione al più alto grado possibile di esattezza e precisione, ma non ne altera il carattere essenziale. Come la conoscenza comune, la scienza conserva delle cose solo l‟aspetto della ripetizione. Se il tutto è originale, essa cerca di analizzarlo in elementi o n aspetti che siano pressappoco la riproduzione del passato. Può operare solo su quello che si presume possa ripetersi, cioè su quello che si sottrae, per ipotesi, all‟azione della durata. Ciò che vi è di irriducibile e irreversibile nei momenti successivi di una storie le sfugge. Per rappresentarsi questa irriducibilità e questa irreversibilità, è necessario abbandonare abitudini scientifiche che rispondono alle esigenze fondamentali del pensiero, fare violenza allo spirito, risalire la china naturale dell‟intelligenza. Ma è 165 appunto questo il ruolo della filosofia.
In realtà la “filosofia”, così come sapere dell‟Essere che si è tramandato in Occidente dalla cultura greca, non può assolvere al compito di pervenire alla “verità”, che è conoscenza non dell‟astratto ma del concreto, conseguibile non scientificamente, cioè naturalisticamente, bensì solo attraverso un approccio intuitivo di carattere spirituale, molto diverso dalla mera e astratta “intelligenza” logica dei fenomeni naturali. Infatti, il pensiero logico non può comprendere cose, cioè fatti, ma solo l‟oggetto dello stesso pensiero, per cui il senso unitario delle cose è in 165
H. Bergson, L’évolution créatrice (1907), tr. it., Milano, 2012, pagg. 36-37.
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realtà il senso unitario della visione ideale che le ha poste in essere. Tale unità di senso è alla fine della comprensione in quanto è all‟inizio del processo ideale, sicché il procedimento ermeneutico della conoscenza logica può cogliere, del movimento ideale, solo gli elementi simbolici che testimoniano la realtà ideale originaria che lo ha attivato storicamente, ricomponendo ad unità razionale ciò che era originariamente unito in quanto progetto d‟essere ideale. In tal senso, l‟intelligenza delle cose umane altro non è che la definizione di ciò che le ha realizzate, ossia la rappresentazione del loro progetto d‟essere ideale. Questo progetto, essendo astratto dalla sua concreta realizzazione, in quanto apriori e appunto ideale, prodotto immaginario della coscienza razionale, può realizzarsi in tutto o in parte, in tempi brevi o lunghi, secondo condizioni di possibilità che sono riferibili alle contestuali circostanze storiche, di carattere naturalistico (oggettive) o umano (soggettive). Un pensiero che intenda conoscere l‟essere delle cose, ne coglie in realtà il solo lato ideale di esse, non le comprende nella loro dinamica realtà effettuale, la quale non consiste nel loro pensamento razionale ma nella loro esistenza, ossia nel loro svolgimento esistenziale. Che questo svolgimento sia razionale, non significa che esso sia ideale, poiché ideale è la visione che noi abbiamo di esse, e non già la loro concreta realtà ontologica. Ed è tale concretezza ontologica a costituire l‟orizzonte esistenziale della storicità, e non già l‟attualità ontica dell‟Essere logicamente pensato. Razionale, in sé, equivale a vitale, ossia all‟esistenza stessa come possibilità d‟essere di ciò che esiste. La ragion d‟essere delle cose coincide con la loro stessa persistenza. Se noi concepiamo la verità come la idea della realtà, crediamo che la realtà coincida con l‟idea stessa che noi ci facciamo di essa, ma non perciò la conosciamo veramente, poiché ciò che conosciamo non è altro appunto che l’immagine ideale della realtà. Questa verità creduta cambia col mutare della coscienza umana, ossia con le sue diverse conoscenze. La fenomenologia di questa mutevole rappresentazione umana della realtà costituisce la storia della coscienza dell‟uomo, ovvero delle sue forme culturali. La verità intesa come coscienza storica dell‟uomo coincide con le sue fondamentali credenze culturali, costitutive della sua fede ontologica. Se invece per verità noi intendiamo l‟essere in sé delle cose, che Kant chiamava “noumenon”, esso coincide con la realtà dell‟essere stesso di cui sono parte. Se l‟Essere è quello ideale, la verità delle cose coincide con la verità ideale delle storiche culture umane; se 116
invece per essere delle cose si intende la loro natura, la verità dell‟essere è lo stesso processo della natura, ossia la sua costituzione ed evoluzione cosmica, di cui l‟uomo fa parte come elemento bio-psichico. Ma se noi indichiamo come verità delle cose la loro realtà concreta, consideriamo della loro evoluzione cosmica solo quanto ha a che fare con l‟esperienza umana, cioè con il rapporto dell‟uomo con esse. In tal caso, la loro verità consiste nella loro stessa partecipazione alla vita storica umana, dalla quale traggono il loro significato simbolico. In questo senso tutto umano la storia delle cose entra a far parte della storia dell‟uomo, cioè della sua condotta esistenziale, essa sola razionale. La ragione delle cose è dunque la partecipazione delle cose alla vita razionale dell‟uomo storico, ed esse partecipano della sua storia ideale come prodotti della sua coscienza simbolica. E solo a questo titolo la loro realtà storica è razionale, cioè lo sviluppo fattuale della loro esistenza simbolica è legato alla realtà storica del processo della coscienza ideale dell‟uomo. Il maggiore contrasto che viene ai progetti umani in generale è il contrasto di altri progetti umani, rispecchianti diverse e configgenti visioni ideali della realtà, che generano quella che possiamo chiamare la lotta delle immaginazioni produttive. Il bisogno umano di completare la propria finitezza antropologica attraverso rappresentazioni ideali della realtà fanno di questa un mondo compiuto, un cosmo ordinato, prevedibile e quindi abitabile perché liberato miticamente della paura dell‟ignoto a opera della sua narrazione razionale. All‟interno dell‟universo di senso miticamente rappresentato, il processo esistenziale dell‟uomo viene giustificato razionalmente dal suo significato simbolico, coerente alla visione del mondo che lo ispira e lo legittima collettivamente. Nel corso del processo storico, i prodotti sociali reali sono molteplici e variamente disposti, e spesso individualmente molto distanti da come l‟immaginazione originaria li aveva concepiti. A volte capita storicamente che un‟idea venga completamente trasfigurata, tanto che la sua realtà concreta non rappresenti di essa che una pallida e incerta immagine sbiadita. Ciò dipende dalle difformità strutturali che l‟idea originaria incontra nella sua traduzione esistenziale, ma ciò che tuttavia conta ai fini del suo valore simbolico è la resistenza che l‟idea originaria oppone a ogni sua deformazione storica e a ogni traviamento umano, ossia, l‟aspetto più rilevante del suo significato culturale è la sua persistenza storica, il segno cioè della qualità e veridicità dell‟intuizione che l‟ha 117
generata per la vita dell‟uomo. In questo senso, i grandi motivi ideali dell‟umanità, che persistono nel tempo, al di là della difficoltà di realizzarle, senza perdere la loro valenza paradigmatica originaria, che motiva incessantemente l‟attività dell‟uomo singolo o di interi popoli e civiltà, sono relativamente pochi, e riferibili pertanto ad aspetti essenziali dell‟esperienza esistenziale dell‟umanità. Essi sono, al di là delle civiltà storiche che l‟hanno interpretate, essenzialmente tre: 1. L‟idea di poter dominare la natura, ossia di vincere la fame e gli altri bisogni naturali. 2. L‟idea di sconfiggere la morte, ossia di dominare la vita. 3. L‟idea di dominare gli altri uomini, ossia di governare il gruppo sociale di appartenenza. Dalla prima esigenza, nasce la tecnologia; dalla seconda, la religione; dalla terza, la politica. Tecnologia, religione e politica sono i contenuti essenziali di ogni cultura umana, diversa per tempi e luoghi nelle sue forme particolari. Queste tre idee essenziali danno vita alle varie forme culturali storiche e alle loro relative testimonianze documentali. La loro comune caratteristica, che connota l‟intera cultura umana come costante contrassegno antropologico, è il bisogno di dominio, a sua volta indicativo dell‟esigenza di superare culturalmente le strutturali debolezze dell‟esistenza umana, tutte compendiabili nel concetto di finitezza. Al fondo di ognuna di esse, e di loro tutte, c‟è la coscienza storica della finitezza dell‟uomo, e quindi la paura di soccombere di fronte a ciò che non è finito, ossia la paura della morte, la quale è il movente implicito di ogni forma cultuale umana di ogni tempo. Dal sentimento della paura della morte nasce il progetto umano di dominare la propria finitezza antropologica attraverso le opere artificiali del suo ingegno immaginativo. Da qui il senso dialettico dell‟attività umana, per un verso dedita a costruire qualcosa di duraturo per la vita, e per l‟altro a negare l‟essenza negativa dell‟esistenza, operando contro la morte. La distinzione di ciò che è vitale da ciò che non lo è contraddistingue ogni forma di pensiero umano, che indica con sacro i valori eterni per la vita, e con profano ciò che è destinato a finire. La sacralità pagana della vita genera, con la paura della morte, il potere di garantirla e, rispettivamente, di comminarla. La paura umana di perde la vita coincide con la paura stessa legata alla sua finitezza, cioè con la condizione naturale che egli si trova a vivere. L‟uomo teme ciò che gli 118
altri esseri viventi subiscono come la propria condizione di vita. E proprio tale tensione contro il destino caratterizza la vita umana facendo di essa una esistenza, ossia una vita intelligente, capace di rappresentare razionalmente la propria condizione esistenziale. Tutta l‟esistenza umana è dunque impostata sulla paura di finire di vivere, per approntare la quale l‟uomo si adopera escogitando i rimedi culturali suggeriti dalla sua capacità di pensiero atta a sconfiggere la morte. Vincere la paura della morte, esistere razionalmente e allontanarsi dalla condizione naturale e finita della vita umana costituiscono un unico scopo antropologico, l‟essenza stessa dell‟esistenza umana. Ma contrastare la condizione naturale significa altresì allontanarsi dalle leggi costitutive della vita naturale, ossia superare la lotta per la sopravvivenza, per cui ogni azione umana che tenda a emanciparsi dalla necessità naturale ricorrendo a strumenti propri della condizione naturale, la lotta per la sopravvivenza anzitutto, determina una contraddizione insanabile tra ciò che è il bisogno antropologico dell‟uomo e i criteri ideali in base ai quali egli organizza le sue forme di vita. Da qui la contraddizione tra gli astratti fini ideali, che legittimano razionalmente le strutture sociali storiche, e le concrete azioni determinate che caratterizzano i reali comportamenti umani; contraddizione che richiede una struttura istituzionale preposta alla direzione socializzata dei comportamenti umani, e il conseguente intervento sociale riparatore funzionale alla messa in ordine del sistema, cioè un sistema giudiziario per la comminazione inflittiva delle pene. Nella storia culturale dell‟umanità, la predicazione di Gesù tese a convertire in senso anti-naturalistico l‟immagine razionale dell‟uomo, incontrando sulla sua essenza spirituale il fondamento della convivenza già politicamente socializzata. Il senso della conversione (metànoia) cristiana è riposto nella assunzione della morte, anziché della vita, come fondamento ontologico dell‟essenza spirituale dell‟uomo. Fondamento negativo rispetto alla positività della vita, in quanto dimensione dell‟eternità rispetto alla finitezza dell‟esistenza naturalistica. La dimensione dell‟eterno traspone il senso dell‟esistenza umana dal piano della lotta biologica per la sopravvivenza, al piano delle relazioni spirituali, concepite come rapporto inter-personale fondato sulla carità fraterna, anziché sulla lotta politica per il reciproco riconoscimento del rispettivo ruolo sociale. Il valore antropologico cristiano non è più dunque il potere sulla vita propria e degli altri, ma la santità intesa come competa
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spiritualizzazione dell‟esistenza e relativo superamento della cultura del potere legata alla propria finitezza naturale. Nella dimensione della santità, la verità non risiede nella forma rappresentativa dell‟Essere che unisce idealmente gli uomini, escludendo da quella rappresentazione l‟umanità difforme, che non-è razionale secondo la relativa immagine ideale, e quindi politicamente discriminata in conseguenza di quella logica difformità; ma risiede bensì, la verità cristiana, nella consapevolezza che l‟unità spirituale degli uomini trascende ogni empirica finitezza, ossia ogni forma sociale naturalisticamente rappresentabile, e pertanto non conseguibile attraverso gli strumenti esclusivi della politica, fondati sulla giustizia, ma solo con quelli inclusivi della carità, fondata sul perdono. Il superamento del mito sociale unitario, politicamente conseguibile, diventa il senso stesso della conversione spirituale alla verità cristiana, fondata sulla coscienza personale di ognuno, anziché sulla condivisione razionale del racconto collettivo. Lo spostamento del baricentro teoretico dalla dimensione sociologica dell‟uomo politico alla dimensione coscienziale dell‟uomo divinizzato, segna la svolta antropologica della cultura umana dal piano dell‟Essere ideale al piano dell‟Essere spirituale, e dalla dimensione religiosa collettiva della sacertà a quella della fede individuale della santità. All‟interno dell‟universo di senso cristiano, predomina la dimensione umanistica della Storia, intesa come percorso escatologico il cui valore e significato irenico attraverso ogni forma particolare di cultura umana. Secondo Maritain, la “disgrazia dell‟età moderna” non è il suo “umanesimo”, ma è il suo “spirito antropocentrico”, derivante da una “concezione naturalistica dell‟uomo”, che si accompagna a “una concezione sia calvinista, che molinista della grazia e della libertà”, il tutto compiuto “sotto il segno della divisione”. L‟uomo, dimenticando che nell‟ordine dell‟essere e del bene, è Dio che ha „iniziativa primaria e vivifica la nostra libertà, ha voluto fare del movimento suo proprio di creatura il movimento assolutamente primario, dare alla sua libertà di creatura l‟iniziatva primaria del proprio bene. Era quindi necessario che il suo movimento d‟ascensione fosse da allora separato dal movimento della grazia, ed è perciò che l‟età in argomento è stata un‟età di dualismo, di dissociazione, di sdoppiamento, un‟età
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d‟umanesimo separato dall‟Incarnazione, nella quale lo sforzo del progresso doveva prendere un carattere fatale e contribuire esso stesso ala distruzione dell‟umano.166
Il primo colpo contro l‟immagine antropocentrica giunse al razionalismo dal darwinismo, che intaccò non tanto il dogma cristiano della rivelazione quanto l‟idea di una discontinuità metafisica tra l‟uomo animale e l‟uomo spirituale. Il secondo colpo lo portò la metafisica psicanalitica di Freud, per la quale l‟uomo, da mistero divino, diventa“il luogo d‟incrocio e di confitti d‟una libidine anzitutto sessuale e d‟un istinto di morte”, e da “figura eroica”, un “mostro”. Il terzo momento della “decomposizione” della personalità umana consiste nella abdicazione dell‟uomo personale all‟uomo collettivo, di cui Hegel ha tratteggiato la “perfetta struttura giuridica” nello Stato, e Marx il suo “dinamismo immanente” nella società.167 Il Dio trascendente, anche quando ammesso, diventa o inconoscibile da una “ragione geometrica, nemica del mistero”, negandolo per affermarsi o riconoscendolo annullandosi, ovvero diventa un‟idea, come nei metafisici idealisti, per i quali “Dio apparirà come il limite ideale dello sviluppo del mondo e dell‟umanità”.168 Definendo la sua nozione di “ideale storico concreto” quale “tipo particolare e specifico di civiltà al quale tende una data età storica”, distinguendolo, quale “essenza ideale realizzabile”, dalla “utopia”, che invece è puramente “un essere di ragione”,169 Maritain afferma che la storia umana “ ha un senso determinato, per certi caratteri fondamentali”, ma anche “indeterminato per i suoi orientamenti specifici che si attualizzano in essa a misura che trascorre il presente e che traducono l‟attrazione esercitata su di essa da tali o tal‟altre forme d‟avvenire concreto, e dei suoi desideri ne fa dei focolai più o meno efficaci”. Ciò che Marx non avrebbe inteso dell‟uomo è che egli “è dotato di una libertà mediante la quale, in quanto persona, può, più o meno difficilmente ma realmente, trionfare sulle necessità nel suo cuore”, e che senza avere il
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J. Maritain, Humanisme Intégral. Problèmes temporels et spirituels d’une nuovelle Chrétienté (1936), tr. it., Torino, 1964, pag. 80. 167 Ivi, pagg. 82 e 83. 168 Ivi, pagg. 85 e 86. 169 Ivi, pag. 168.
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potere di “piegare arbitrariamente la storia a piacer suo e secondo la sua fantasia”, può nondimeno far sorgere nella storia correnti nuove, le quali si compongono con le correnti, le forze e le condizioni preesistenti per completare la determinazione del senso della storia, il quale non è fissato in precedenza dall‟evoluzione [ma] dipende da una massa enorme di necessità e di fatalità accumulate, ma ove gli interventi della libertà possono farsi luce; è stabilito in precedenza solo nella misura (molto grande, è vero) in cui l‟uomo rinunzia alla sua libertà. Se, di fatto, la libertà agisce così poco nella storia del mondo, lo si deve a ciò che l‟uomo considerato collettivamente vive poco della vita propriamente umana della ragione e della libertà”, anche se, nella considerazione generale dell‟esperienza dell‟uomo, “appare che una delle esigenze della storia umana è ben quella di sfuggire sempre più al fatum. Mentre, frammezzo alle cadute e ai disastri arrecati periodicamente dalla crescente estensione del campo della coscienza e della ragione (troppo deboli per non turbare inizialmente ciò che tentano di regolare) il progresso normale si persegue cl manifestarsi e realizzarsi della natura umana, la storia scuote il giogo della fatalità e nello stesso tempo lo sente pesare tanto più crudelmente su di sé e gli appare duramente sottoposta; avanza tuttavia misteriosamente verso la liberazione. Liberazione dal fato, sì! Ma che sarà effettiva solo per quel tanto per cui la vita della ragione crescerà veramente e effettivamente nell‟esistenza; per quel tanto dunque per cui la grazia e l‟influsso della Libertà creatrice la nutriranno segretamente. Il terribile errore di Marx, è d‟aver creduto che per sfuggire al fato, era necessario sfuggire a Dio.170
Dal contrasto e dalla correlazione del movimento reale, oggettivo e sociale, e del movimento ideale, soggettivo e personale, nasce dunque un “ideale storico concreto”, la cui nozione corrisponde a una filosofia realistica, la quale comprende che lo spirito umano presuppone le cose e lavora sulle cose, ma le conosce solo impadronendosene per trasferirle nella propria vita e attività immateriale, e che le trascende per trarre da esse sia nature intelligibili oggetto di conoscenza speculativa, sia temi intelligibili pratici e direttivi dell‟azione, alla categoria dei quali appartiene ciò che chiamiamo un ideale storico concreto.171
Se pure esiste, a dire di Maritain, “una sola verità religiosa integrale”, e quindi se esiste “una sola Chiesa cattolica, possono aversi, alcune civiltà cristiane, alcune cristianità diverse”, corrispondenti alle diverse civiltà
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Ivi, pagg. 169-170. Ivi, pag. 171.
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ispirate dal messaggio cristiano.172 Maritain sembra non rendersi ben conto che l‟unicità della Chiesa trascendente le singole espressioni storiche della cristianità deve necessariamente comprenderle e includerle nella sua “storia” in cammino, e non già costituirsi come di contro ad esse quale storia speciale, sacra o altrimenti veritativa, ossia quale realtà nonstorica e in definitiva non-umana. Esattamente ciò che invece è avvenuto, allorquando la Chiesa, pur professandosi cattolica, ha operato esclusivamente nei confronti delle esperienze cristiane ritenute irregolari ed eretiche, e costituendosi quindi come istituzione storica fra altre, in lotta e competizione secolare con queste per la propria sopravvivenza ed affermazione della propria potenza mondana. E‟ appunto da questa pretesa egemonia esclusiva, legata a un supposto monopolio ermeneutico della interpretazione del messaggio evangelico, che le espressioni particolari della cultura e della spiritualità cristiane hanno preteso emanciparsi storicamente la fine di affermare la loro legittima proposta testimoniale, della cui veridicità, in mancanza di riconoscimento ecclesiastico, hanno chiamato a testimone la Provvidenza divina. Non a caso l‟intera produzione culturale più significativa della cristianità moderna sia sortita dalla cristianità protestante, espulsa dalla Chiesa universale in virtù della sua testimonianza particolare, quasi non fosse essa stessa parte di essa e del comune patrimonio morale cristiano. La confusione dunque tra Chiesa ideale e Chiesa storica, a favore della sua riduzione istituzionalistica e sostanzialmente farisaica, costituisce il maggior peccato umanistico del cattolicesimo, senza la cui emendazione non potrà nascere alcun vero rinnovamento spirituale di segno realmente ecumenico e fraternamente cristiano. Maritain, avendo affermato che “nei confronti di una realizzazione o di una effettiva rifrazione del Vangelo sul sociale-temporale, noi siamo ancora a una età preistorica”, per procedere alla “liquidazione generale dell‟umanesimo post-medievale” e per far “sbocciare l‟umanesimo integrale, l‟umanesimo dell‟Incarnazione”,173 sostiene la necessità di “un‟attività politica cristiana” da parte di cives praeclari, i quali, per realizzare il loro ideale storico concreto, “non deve essere assente da alcun campo dell‟agire umano”, dispiegata quindi sia, in quanto cristiani, 172 173
Ibidem. Ivi, pagg. 262-263.
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“sul piano dell‟azione religiosa (indirettamente politica) e – in quanto membri della comunità spirituale – sul piano dell‟azione propriamente e direttamente temporale e politica”.174 Le città politiche, le comunità nazionali esistenti sono altra cosa dal regime di civiltà nel quale sono collocate in tale o tal‟altra epoca, è qui una distinzione essenziale; e i nostri elementi politici illuminati non saprebbero né sacrificarle all‟abolizione del regime attuale di civiltà, né sacrificar oro l‟instaurazione d‟un regime di civiltà meno indegno dell‟essere umano. Il problema che si pone davanti a loro, e che è insolubile per ogni politica a obiettivo ravvicinato, è di condurre – mediante i profondi mutamenti, i rimaneggiamenti di struttura a ciò richiesti, e anche le diminuzioni di sovranità necessarie allo stabilirsi d‟una vera comunità temporale internazionale – le città politiche esistenti, attraverso le vicissitudini e la dissoluzione dell‟attuale regime, sino a un regime nuovo di civiltà, fondamentalmente diverso dal regime attuale perché tale da rifrangere effettivamente nel sociale-terreno le esigenze evangeliche [al fine di far maturare a lunga scadenza] un rinnovamento umanistico integrale dell‟ordine temporale.175
Come procedere in questa politica “cristianamente ispirata”? Con “formazioni politiche autonome”, accettando di “collaborare col regime stabilito” e “con le altre formazioni politiche”,176 “avanzando per gradi, proponendo e, nella misura in cui riuscirebbe a dirigere gli avvenimenti, eseguendo i suoi „piani‟ di avvicinamento e i suoi programmi, specificati dal fine proprio al quale sono ordinati”, 177 ossia procedendo sostanzialmente al pari dei rivali partiti politici fautori della moderna secolarizzazione, e con metodi machiavellici simili a quelli seguiti dalla Chiesa storicamente. La differenza sta nell‟ “atteggiamento rivoluzionario”, anziché conservatore, dispiegato dai nuovi cristiani postmoderni, fautori di una “rottura essenziale” con “i princìpi essenziali dello stato presente”, Infatti “non c‟è nulla di più scandaloso e, in un certo senso, di più rivoluzionario (perché è rivoluzionario anche nei confronti della rivoluzione) del credere in una politica intrinsecamente cristiana per i suoi princìpi, il suo spirito, le sue modalità e della pretesa di procedere in questo mondo a un‟azione politica in modo vitale cristiana”.178 Ora, una “politica” che intenda essere “cristiana”, può risolvere l‟ossimoro 174 175 176 177 178
Ivi, pagg. 276-277. Ivi, pag. 278. Ivi, pag. 281. Ivi, pag. 279. Ivi, pag. 282.
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riducendo l‟un termine all‟altro, per cui o è un‟adesione tattica alla vita del regime politico storico, il cui riconoscimento è condizionato alla salvaguardia della Chiesa quale istituzione religiosa, ovvero è inevitabilmente rivoluzionaria in senso sociale, in quanto proponente con mezzi secolari, e cioè politici, uno spirito di carità nettamente contrario in principio a ogni forma di violenza politica. In entrambi i casi, comporterebbe una riduzione mondana della fede personale a una forma di religione sociale, ossia uno snaturamento dello spirito evangelico. Ed è stata questa via a segnare il processo storico-culturale della cristianità dei due millenni dalla predicazione di Cristo; processo che ha condotto alla presente secolarizzazione e scristianizzazione della civiltà liberale. Nello stesso tempo, auspicando un “terzo partito”, inteso come “una grande adunata di uomini di buona volontà i quali sgombrano il terreno dai giudizi e le ideologie convenzionali e sono intenti a un lavoro positivo di giustizia sociale e internazionale” in collaborazione con gli altri gruppi politici per affermare il “bene comune […] appoggiando e suscitando le misure riformatrici realizzabili”, al fine di assicurare “quanto serve veramente la giustizia e la pace”, Maritain afferma che “il lavoro stesso di trasformazione e di profonda rivoluzione del nostro regime di cultura richiede, per essere condotto in porto, che una dilazione sufficiente, durate la quale il mondo possa riprendere lena [dopo la Grande Guerra] permetta a squadre nuove di formarsi e alla giovinezza di tentare le sue probabilità”. Ricordando quindi che “il generamento di un mondo in fieri segna la morte del mondo antico”, egli aggiunge significativamente che responsabile dei ritardi della formazione del terzo partito è “l‟assenza di educazione politica in certi strati della popolazione”,179 non sospettando che proprio la distanza culturale delle masse dalla logica politica dei gruppi élitari tradizionali costituiva la forza morale resistente all‟organizzazione politica massificata, che l‟intervento sistematico e organico degli Stati totalitari piegò progressivamente in direzione delle nuove religioni civili. Infatti, il coinvolgimento delle masse cattoliche alla vita politica nazionale, procedeva alla loro “nazionalizzazione” in rapporto inversamente proporzionale a quanto esse si allontanassero dalla loro originaria identità religiosa meta-politica e soprattutto supernazionale, sicché il loro coinvolgimento politico, al di là delle distinte e anche contrapposte ideologie di appartenenza, agevolava oggettivamente 179
Ivi, pag. 284.
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la secolarizzazione della loro cultura tradizionale, facendo regredire la loro coscienza morale nel senso dell‟affermazione appunto di una visione politica a-morale, propria della prospettiva machiavellica moderna, che concepisce l‟azione politica come tecnica emancipata da ogni finalità morale. Infatti l‟accettazione di una comune piattaforma di azione politica, a partire da paesi come l‟Italia, dove il “dialogo” politico tra partiti di ispirazione laica e il movimento cattolico si è realizzato a partire dalla stesura della Costituzione repubblicana, ha comportato storicamente l‟esautorazione di ogni prospettiva morale e l‟affermazione di una cultura secolaristica molto distante dalle indicazioni delle guide religiose. Il problema epocale, che si rivelerà in tutta la sua portata lacerante con la seconda Guerra mondiale, non era quello di “ingentilire la politica”, ma di rifondare un ordine nuovo dal moderno caos cui era giunta la civiltà cristiana instaurata dalla Chiesa medievale. Il problema, in altri termini, non era, come invece credeva Maritain, quello di “reintegrare le masse in una civiltà di spirito cristiano”, strappandole a una integrazione comunistica di “spirito ateo”,180 ma di lasciar sussistere quelle masse religiose non intaccate significativamente dalla cultura moderna alla loro dimensione sacrale tradizionale, che nella fede cristiana, e non nella identità politica, trovava il suo orizzonte di senso comune. Non a caso, anche l‟ispirazione cristiana, diventata ideologia politica di uno Stato, poté fornire la base di legittimazione ideale del totalitarismo, come Maritain stesso ricorda a proposito del Portogallo di Salazar.181 Ciò che la prospettiva cattolica di Maritain non scorge è che lo stesso principio democratico, comunque ideologicamente e giuridicamente definito, scaturisce da una premessa propriamente tomista, secondo la quale nel popolo risiederebbe il “potere costituente” degli Stati, del quale i re sarebbero solo reggenti (vices gerens multitudinis), diversamente dal potere spirituale dei papi, vicari di Cristo e non della Chiesa, che discenderebbe direttamente da Dio.182 Questa dottrina cattolica, congiunta a quella della libertà di autonomia della persona spirituale, è all‟origine di ogni teoria democraticistica del potere statuale, la quale, reinterpretata in senso secolaristico dalla cultura razionalistica, produce nel campo profano lo humus di coltura del totalitarismo pan-politicistico. In tal 180
Ivi, pag. 289. Ivi, pag. 292, n. 14. 182 S. Tommaso, Summa Theologiae, I-II, 90, 3. Ved. J. Maritain, Op. cit., pag. 190, n. 10. 181
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senso, optare per una versione “cristiana” della democrazia, concorrente a quelle fascista e comunista, significa persistere nello stesso ambito ideologico definito dalla dottrina cattolica di S. Tommaso, per cui la supposta “necessità primordiale” di una “partecipazione reale alla gestione economica e politica” da parte delle masse,183 è soltanto la petitio principii di una istanza ideologica sorta da una dottrina della regalità funzionale alle posizioni politiche della Chiesa medievale concorrenti con quelle del potere secolare. E proprio questa mancata storicizzazione della teoria medievale mostra quanto fosse inane la riproposta del tomismo come filosofia perenne in un tempo che imponeva invece un radicale ripensamento delle categorie di pensiero classiche e moderne.184 Inanità che è stata causa non ultima della sostanziale assenza del pensiero cattolico dal dibattito intellettuale anche contemporaneo, nonostante le pur significative conversioni di molte personalità culturali del tempo, compresa quella stessa del Maritain. L‟idea stessa di una rappresentazione eterna del pensiero cristiano contrasta con la teologia della “Chiesa itinerante”, la storia della quale coincide, secondo il detto di Pascal, con la stessa storia della verità, per cui la determinazione ne varietur dei termini della sua realtà in una forma ideale la costituisce, dal punto di vista secolare, come l‟espressione ideologica di una istituzione storica, e dal punto di vista religioso come una vera e propria idolatria. Questa posizione dottrinale dogmatica contrasta con la tradizione stessa del Cristianesimo come pensiero razionalizzatore delle culture pagane, il quale rielabora i miti storici delle civiltà religiose pre-cristiane in termini razionali superiori, mostrandone la loro logica insostenibilità. Ora, nel momento in cui il pensiero viene definito e fissato dogmaticamente come pensiero della Chiesa istituzionale, e non più considerato pensiero comunitario e dialogico della Chiesa professante, la struttura ecclesiastica prende il posto del popolo di Dio, e il suo primato morale sostituito con un preteso monopolio ermeneutico della forma umana di pensamento 183
Ivi, pag. 288. Si potrebbe a proposito riferire a S. Tommaso quanto Malebranche affermò a proposito di Aristotile e di Platone, ovvero che “si l‟on croyait qu‟ [ils] fussent infaillibles, il ne faudrait peut-etre s‟appliquer qu‟à les entendre; mais le raison ne permet pas qu‟on le croie, la raison veut au contraire que nous les jugions plus ignorants que les nouveaux philosophes, piusque dans le temps où nous vivons, le monde est plus vieux […]”: N. Malebranche, De la recherche de la vérité, a cura di F. Bouillier, Paris, 1879, vol. I, pag. 212. 184
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della Verità, attraverso il quale monopolio la Chiesa ha inteso garantire all‟istituzione clericale il suo primato secolare sul corpo mistico cristiano e sulle sue forme storiche di organizzazione sociale. La distinzione dei due poteri, religioso e politico, in realtà esprimeva solo la distanza ideologica tra la Chiesa clericale, ritenuta erede del processo divino di salvezza, e la Chiesa dei credenti, abbandonata alle vicissitudini della storia. Ma è stata esattamente questa arbitraria posizione dottrinale a provocare, sul piano del pensiero naturale, le correnti ideali di emancipazione dal dogma clericale, e sul piano religioso la reazione riformatrice anti-ecclesiastica, in modo tale che, da un lato, il processo di razionalizzazione della realtà storica è proseguito da un pensiero razionalistico non più confermato dalla fede escatologica, e dall‟altro la fede cristiana è stata affidata alla sola coscienza religiosa dei credenti. Dopo di ciò, ossia dopo secoli di separato travaglio teoretico e religioso, con le sue immediate e mediate ricadute sul piano socio-politico, di fronte alla disgregazione morale e materiale della Cristianità storica, voler tornare a guardare le sorti del mondo dalla feritoia del fortilizio clericotomista, ritenuto indomito, è palesemente una persistenza ideologica che, senza nulla togliere alla saggezza e alla buona fede di Maritain, per le sue conseguenze spirituali ed esistenziali sui popoli cristiani, non può non definirsi diabolica. Nel suo complesso, sia nella versione razionalistica che in quella fideistica, essa rappresenta una recrudescenza teoretica di stampo idealistico antico consistente nel soggettivismo. Il soggettivismo filosofico, per la sua innata esigenza di differenziarsi dal dominio dell‟opinione comune (dòxa), rappresenta l‟oggettività del reale come pensiero individuale, contrapposto appunto al pensiero collettivo dominante, che Marx chiamò “ideologia”. La rappresentazione della realtà ideale come oggetto del pensiero, ingenerando la teoria della conoscenza idealistica, finisce per costituirsi non come la critica provvisoria alla verità comune confutata, ma bensì come la verità stessa dell‟Essere quale prodotto del pensiero del soggetto trascendentale, sicché l‟ipostasi di una realtà ideale del tutto soggettivamente oggettiva, rimuove la dimensione comunitaria dell‟esperienza esistenziale dell‟uomo, ossia la stessa processualità storica delle forme culturali, le quali, rispetto alla dimensione idealistica della astratta soggettività, appaiono informate al solo livello strutturale del movimento economico. E proprio questa realtà, a un tempo comunitario-collettiva ed economico-strutturale, verrà ricuperato dal 128
marxismo come il fondamento materiale della vita ideale stessa e delle sue forme culturali storiche, a queste dialetticamente opposto come il loro occultato fondamento reale. Il “dramma” del personalismo spiritualistico è simmetrico a quello dell‟umanesimo ateistico, poiché entrambi negano l‟elemento dialettico contro cui si affermano, assolutizzando la propria polarità ontologica che inevitabilmente, per la sua astrattezza, tende a convertirsi nell‟opposta rispettiva determinazione reale, così che la Chiesa si converte dialetticamente in comunità politica, e lo Stato in società religiosa, cercando di negare il proprio opposto reale da cui dipende la loro astratta determinazione logica. Sia la società cristiana che la comunità politica sono sine nomina monstra che hanno provocato, per la loro astratta costituzione metafisica, tanta violenza concreta all‟uomo storico. Alla radice di questa ipostatizzazione dell‟astratto c‟è la filosofia idealistica di Platone e il suo metodo dialettico fondato da Socrate, il quale, ben prima di Cartesio, ha tracciato il percorso teoretico della civiltà occidentale. In Aristotile lo Stato e la società coincidono organicamente, così come nella Chiesa virtù ecclesiali e religiosità sono sinonimi. In Rousseau, invece, lo Stato nasce come patto di volontà, come consenso ideale generato da un idem sentire. Se Aristotile non considera l‟elemento culturale della socialità, da lui confuso con la naturale socievolezza, Rousseau l‟adombra appena quando concepisce la comune intuizione della vita sottostante al “patto” come una originaria “volontà” che chiama “generale” per distinguerla dalla occasionale volontà maggioritari, ma che in realtà è pre-ordinata come originaria Grund-norm trascendente la concreta deliberazione ordinamentale. Tale trascendente “volontà”, diversamente da ciò che pensa Ricoeur, non è la “natura” di Aristotile. Infatti, la “volontà generale” presume la volontà soggettiva e individuale che si riconosce in quella similare degli altri membri sociali, mentre in Aristotile la volontà razionale è quella che si realizza nella società politica, che si manifesta nella vita pubblica dello Stato. Cioè, è un atto pubblico, un‟azione formalmente socializzata, e quindi istituzionale. “In fondo Rousseau è Aristotile”, afferma Ricoeur.185 No: Rousseau è Platone. Il télos della città di Aristotile è già inscritta nella “natura” sociale dell‟uomo, non è un ideale da conseguire che preesista allo Stato. 185
P. Ricoeur, La questione del potere, tr. it. cit., pag. 77.
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Lo Stato per lo Stagirita non è lo strumento politico per realizzare ciò che la mera convivenza umana non potrebbe, ma è la ragione stessa della convivenza civile, che è di per sé convivenza razionale, e non, come in Rousseau, condizione generativa di razionalità mercé la politica. In entrambi i pensatori, la convivenza umana è legata all‟amministrazione dell‟oikos; ma se nello Stato di Aristotile la prassi economica, come attività idiotica, sussiste accanto a quella etico-politica, spoudaica, in Rousseau non esiste altra forma di convivenza razionale che non sia quella politico-statuale, per cui nel Francese la politica non è un‟attività superiore giustapposta a quella inferiore delle masse inconsapevoli, ma è l‟unica attività possibile nello Stato razionale, nella “nazione” politica. da qui la necessità logica di universalizzare la condizione politica per razionalizzare la vita sociale umana, altrimenti degenere. Il compiuto Stato totalitario è dunque quello ideale moderno, politicamente egalitario, non quello organico classico, gerarchico e pluralistico. E il modello idealistico dello Stato quale “riflesso” del suo modello eterno è appunto quello platonico, la cui realtà non è più storica, e perciò suscettibile di ogni progresso e indefinito superamento dei limiti umani, ma è la stessa realtà dell‟ideale, ossia una forma sociale avente tutti gli attributi dell‟Idea. Da questa premessa deriva il compito di conformare al modello eterno i suoi membri, naturalmente imperfetti. L‟antropologia platonica, come quella cristiana e rousseauiana, pensa l‟uomo come essere imperfetto, suscettibile di correzione. Se tale correzione avviene attraverso lo strumento della ragione umana, allora l‟ordine ideale coincide con quello stesso ordine formale, Stato o Chiesa che sia. Se, invece, la correzione non è meramente razionale, ossia legata alle possibilità naturali dell‟uomo, ma necessita dell‟intervento della Grazia divina, allora non c‟è forma istituzionale storica che possa assolvere al compito, trattandosi di una metanoia personale e graziosamente imponderabile a priori. Ed è questa considerazione irenica a esautorare lo Stato da ogni supposta funzione etico-pedagogica, assegnando alla libera responsabilità di ogni personale coscienza morale il conseguimento del suo obiettivo ultra-naturale, spirituale e non già politico. Ma il cattolicesimo, muovendosi all‟interno dell‟ordine di senso metafisico greco, idealizza i contenuti irenici della fede cristiana attraverso i modelli istituzionali della Chiesa e quelli ideal-tipici dei santi, che costituiranno i paradigmi religiosi di quelli secolari dello Stato assolutista e dei suoi eroi politici. 130
La paideia aristotelica asseconda e porta a compimento la “natura” umana, in sé razionale, mentre quella platonica la cambia. La “natura” di Aristotile non nasce da un “patto” convenzionale, non è artificiale, ma è l‟essenza dell‟uomo razionale. La società, di conseguenza, non è un artificio politico che subentri a una originaria condizione di natura prepolitica, ma la condizione naturale dell‟uomo originariamente politico. L‟uomo platonico è razionale solo se realizza la società ideale, per cui non ogni società lo è in sé razionale. La vera condizione umana comincia con il superamento della pre-istoria della socialità non idealmente razionale. Per Aristotile, invece, non concepisce altra essenza umana che non sia quella sociale, in sé razionale senza bisogno di dover essere ideale. “Ideale” infatti è una condizione assoluta, universale e astratta dal divenire che comporta l‟esclusione di ogni concreta determinazione particolare, ossia ogni distintivo dato esistenziale, proprio invece della vita individuale. La proiezione sociologica dell‟universalità ideale è una condizione di oggettiva conformità che annulla ogni soggettiva determinazione esistenziale a favore del modello politico. Ed è qui che risiede il germe totalitario del razionalismo idealistico, che concepisce lo Stato come universale soggettività sociale, costituitosi sulle ceneri della società liberale e del relativo Stato organico, ossia sul pluralismo dei ceti tradizionali. Rousseau ha riconosciuto l’atto artificiale di una soggettività ideale, di una “persona pubblica” laddove Aristotile discerneva una natura oggettiva; ma la volontà generale di Rousseau è obiettiva e la natura obiettiva di Aristotile è quella dell‟uomo che cerca la felicità. L‟accordo fondamentale di queste formule appare nella loro stessa reciprocità. Nei due casi, attraverso il tèlos della Città e il patto generatore della volontà generale, si tratta di far apparire la coincidenza di una volontà individuale e passionale con la volontà e la costruzione civile.186
Ricoeur non coglie l‟essenziale differenza tra l‟ideale “naturale” e l‟ideale “artificiale”. La natura di Aristotile è “oggettiva” perché non disponibile alla manipolazione umana attraverso la politica, la quale perciò, se non rivolta al bene naturale, può sbagliare e volgersi in tirannide. L‟oggettività del patto di Rousseau è derivata dal modello di socialità ideale con il quale la volontà deve coincidere per essere “generale”. Dove “generale” sta appunto per “ideale”. In Aristotile non c‟è una socialità 186
P. Ricoeur, Op. cit., tr. it. cit., pagg. 77-78.
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“ideale” e una “reale”, ma solo una prassi sociale razionale che può degradarsi in casi eccezionali. Per Rousseau, come per Platone, l‟eccezione aristotelica costituisce invece la regola, perché di norma antropologicamente l‟uomo è un essere imperfetto, mentre perfetta è soltanto l‟Idea. L‟educazione aristotelica mira a secondare lo sviluppo di ciò che è potenziale nella natura umana; l‟educazione platonica tende invece a plasmare l‟uomo secondo un modello ideale che gli preesiste e che è indipendente da ogni concreta esistenza umana e sociale. Il Cristianesimo storico, e con esso Rousseau, si rifanno al modello platonico, che dissolve l‟organicità sociale aristotelica, recuperata inseguito da Hegel sul piano dialettico. La dialettica tra Spirito oggettivo e fenomenologia storica è la riconciliazione di ciò che in Platone e in Rousseau rimangono distinti e in Aristotile confusi. Ciò che conta per Ricoeur, come per tutta la modernità cristiana e razionalista fino a Hegel, è che l‟uomo ha “due nature”: una spirituale-ideale e l‟altra pratico-politica. l‟una essenzialmente benigna, l‟altra maligna. La politica viene attribuita a quest‟ultima. “Il politico è autonomo”, dice Ricoeur, aggiungendo che “il centro del problema è che o Stato è volontà”.187 Ma l‟autonomia politica è il prodotto di una riduzione della vita etica dello Stato sociale a mera “volontà”, appunto “politica”. Lo Stato politico, considerato fuori della concreta vita etica della società, appare una struttura istituzionale fondata sulla pura volontà demiurgica di un architetto legislatore che realizza il modello razionale di socialità. In questo sforzo sistematico di “organizzazione razionale” della vita sociale, la volontà politica diventa un principio di economia, sia pure “pubblica”, la cui realtà storica è lo Stato. Ma se “il politico” è l‟orizzonte di senso razionale in cui si muove il potere dello Stato, “la politica”, intesa come “progetto” decisivo nei momenti di “crisi” della Storia, “esiste solo nei grandi momenti”. I due momenti si distinguono come “la Ragione storica” e il “Potere”, lo “Stato” e il “governo”. Questa scissione avviene in conseguenza della frantumazione della società organica in società ideale (Stato razionale) e società reale (la politica come prassi esistenziale). a questo punto, lo Stato razionale, “il politico”, “si manifesta nella specificità dei suoi mezzi”, 187
Ivi, pag. 79.
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acquistando realtà storica attraverso gli strumenti tecnici (de “la politica”) usati per i suoi fini. Questo stesso Stato, “considerato dal punto di vista della politica, è l‟istanza che detiene il monopolio della costrizione fisica legittima”, da cui deriva la conseguente definizione della politica come “l‟insieme delle attività che hanno per oggetto l‟esercizio del potere, quindi anche la conquista e il mantenimento del potere”. Ciò comporta che “sarà politica ogni attività che avrà per scopo o anche semplicemente per effetto quello di influenzare la ripartizione del potere”.188 Le conclusioni, mutuate da M. Weber, non derivano però dalle premesse. Infatti, la caratteristica del “politico” come Ragion storica è di dare carattere razionale al Potere. E‟ questo Potere che monopolizza la forza e che incarna lo Stato. Il politico, invece, è il principio di legittimazione dello Stato monopolista della “costrizione”. La politica, come “esercizio del potere”, considerata nel complesso delle sue “attività”, appartiene sia alla sfera dei principi razionali, e sia alla sfera del Potere. in ogni caso, questa possibile coincidenza si realizza solo allorquando essa incarna “il politico”, ossia quando Ragione e Potere coincidano. Se questi invece divergono, la politica, come “esercizio del potere”, segue le sorti del Potere, e non della Ragione, cioè del “politico” inteso come Stato razionale o ideale. Aggiunge significativamente Ricoeur che “è la politica – definita in riferimento al potere – che pone il problema del male politico”, nel senso che “esiste un problema del male politico perché sussiste un problema specifico del potere”.189 Ma il “problema” esiste solo per chi scinde “politico” da “politica”, Ragione da Storia. Non è dunque “la politica” di potere a crearlo, ma la teoria dello Stato razionale meta-politico a fare della politica di potere un‟esigenza di “rispecchiamento” reale del modello ideale. La demonizzazione della politica comincia col concepire il Potere distinto dalla Ragione del politico, cioè dallo Stato ideale, e di fare del Potere un esercizio di pura “volontà” politica, e cioè economica. Infatti, il prodotto politico, sogguardato dal piano dei valori che lo giustifica razionalmente, è un atto etico; ma riferito all‟attività del suo autore concreto, è un atto economico, ossia una mera tecnica di esercizio del potere, quale appare in una considerazione non conforme al suo rapporto simbolico col valore che l‟ispira. 188 189
Ivi, pag. 80. Ivi, pag. 81.
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Se l‟istanza razionale fosse, come in Aristotile, l‟attività stessa dello Stato quale concreta volontà etica, Ragione e Potere coinciderebbero attualmente in quanto l‟attività politica sarebbe di per sé, quale prodotto della condizione sociale, pregna di contenuto etico. Poiché, però, l‟istanza razionale viene distinta dalla realtà del Potere, quale istanza meta-politica, l‟attività politica definita come servizio al Potere, ne segue le sorti, divenendo prassi malefica. Si giunge per tale via al capovolgimento dell‟antropologia e della cosmologia aristoteliche. Non è più infatti lo Stato il luogo della ragione sociale dell‟uomo, ma il luogo dell‟esercizio del Potere, dell‟attività politica come funzione del Potere, asservita ai suoi fini economici performativi e di controllo sociale. Rispetto al modello ideale, la realtà storica del Potere è sempre malvagia, e perciò lo Stato storico una struttura maligna di costrizione, il luogo antonomastico del “Male”. Il regno di Cesare è dunque il regno di Satana, che segna la distanza dia-bolica tra la realtà concreta della prassi e il modello ideale ispirativo. La “vera” natura razionale dell‟uomo, nella prospettiva esistenziale rovesciata rispetto a quella pubblica, non è quella “sociale” ovvero “politica”, ma quella spirituale e morale, privata per definizione. Non che il potere sia il male – chiosa Ricoeur -, ma il potere è una grandezza dell‟uomo eminentemente soggetta al male; forse è nella storia la più grande occasione del male e la più grande dimostrazione del male. E ciò perché il potere è una cosa grandissima; perché il potere è lo strumento della razionalità storica dello Stato.190
Si noti l‟incertezza : da un lato, il Potere è “strumento della razionalità storica dello Stato”, mentre dall‟altro è una “occasione” del male. Ciò vuol dire che il Potere, e per esso la “razionalità dello Stato”, sono soggetti alla caduta nel male in quanto strumenti umani. Ne consegue che la stessa ragione storica, come valore profano, è esposta al male, lo annida, lo suppone. Siamo all‟interno della logica paolina della “follia” della sapienza profana e all‟interno dello spirito evangelico. Chiarisce a proposito Ricoeur che “è l‟esistenza politica dell‟uomo che conferisce al peccato la sua dimensione storica”.191 Infatti, “la morte di Gesù, come quella di Socrate, passa da un atto politico, attraverso un processo politico 190 191
Ibidem. Ibidem.
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[…]; è il potere politico romano che piantò la croce”.192 Siamo al punto decisivo da cui si è mosso il nostro ragionamento. Il Potere mostra il suo vero aspetto, “la vera natura”, che non è quel “piacere” aristotelico di portare ad effetto la potenza razionale dell‟uomo, ma è “orgoglio della potenza, male di avere e di potere”.193 Sganciato dalle sue umane, troppo umane, ragioni sociali, il Potere, visto dalla distanza dello Spirito celeste, non è che vano esercizio di orgoglio, destinato per sua natura a provocare violenza e soprusi, come denunciato da Tolstoj. “Il Gorgia non dice diversamente”, ricorda Ricoeur. Appunto. Ma allora, cosa c‟entra Aristotile? L‟organicità dello Stato razionale classico viene frantumata dalla coscienza idealistica, che parteggia per Socrate, e non per il Potere, per l‟Idea e non per la Ragion di Stato. se la coscienza individuale può rappresentare il Lògos fuori della dimensione socio-politica, la ragione del mondo non abita più necessariamente la Città, ma l‟iperuraneo, il topos originario della cristiana Città di Dio. nella prospettiva cristiana, il mondo profano diventa il mondo fino ad allora “razionale”, quello sociale, in cui i ruoli funzionali alla struttura d‟ordine politico sono legati alla necessità della sua conservazione cosmica, condizione che eguagliava il razionale mondo sociale a quello spontaneamente naturale. Mentre, pertanto, “razionale” secondo la logica antica era la conformità del cosmo civile alla necessità naturale, nella prospettiva platonico-cristiana razionale era soltanto la corrispondenza all‟ordine ideale, rispetto al quale la ratio inferior dell‟ordine sociale acquistava il valore di una costituzione precaria, destinata alla storica decomposizione, e quindi normativamente non significativa per la compiutezza della coscienza umana. Il giudizio critico di Ricoeur non s‟appunta sullo “Stato cattivo” o “totalitario”, ma semplicemente tratta “dello Stato, di ciò che fa sì che lo Stato sia Stato, attraverso regimi e forme diversi e magari contrapposti”.194 Si tratti di violenza “legittima” o “illegittima”, lo Stato è l‟esercizio del Potere, che, come tale, è violento. La violenza nasce dalla consapevolezza filosofica che la politica non può essere “il compimento della morale”, né lo Stato “può estinguere tutta la sete di perfezione”, e pertanto l‟atto politico si è trovato di fronte al giudizio del filosofo, così 192 193 194
Ivi, pag. 82. Ibidem. Ivi, pag. 42.
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che “la loro morale si spezzava in due”.195 Il mondo teoretico, nondimeno, non suppone che la distanza dal mondo pratico non possa essere colmato. Anzi, il filosofo politico partecipa da cittadino alla vita sociale operando quella “critica” privata al Potere che se riconosciuta diventa servizio “pubblico”. Il filosofo politico non vive per la Città di Dio, ma per garantire, con la sua critica, la perfettibilità della città dell‟uomo. La filosofia, nella prospettiva laica socratico-platonica, diventa il luogo della verifica razionale della correttezza ideale dell‟agire politico, il tribunale etico della Città. Ma proprio questa funzione magistrale della filosofia verso la vita socio-politica, la predispone a un compito pedagogico antitetico a quello religioso tradizionale, meramente legittimativo del Potere, e, per la stessa ragione, impossibile a piegare in senso teologicamente ancillare. Religiosa, infatti, è la custodia dei valori sociali, non la loro critica, la quale deve necessariamente presupporli. Il rapporto, dunque, tra religione e filosofia è antagonistico e non derimibile sul piano della coscienza teoretica, e l‟opposizione delle due prospettive si manifesta proprio sul campo sociale, e precisamente sul significato dell‟azione politica. Non a caso, dalla dimensione metafisica della realtà ideale, la politica appare – a Socrate come a Tolstoj - un assurdo esercizio della violenza. Perché questo? Perché mentre la politica, nel suo tentativo di garantire la stessa stabilità naturale al cosmo sociale, mostra tutti i suoi limiti legati alla contingenza e finitezza delle virtù umane, la contemplazione ideale costituisce il superamento della dimensione temporale finita, ponendosi direttamente sul piano meta-empirico dell‟eterno. Già in Platone la tensione metafisica della coscienza filosofica trasvaluta l‟esperienza sociale in senso in temporale, ma è col Sermone della montagna che il rapporto politico viene a cadere come principio di socialità, a favore dell‟amore verso il prossimo, ossia di una dimensione non solo affettiva ma morale alternativa a quella dialetticopolitica. Come giustamente sottolinea Ricoeur, un comandamento simile introduce una rottura più radicale dell‟opposizione fra la contemplazione e l‟azione; è proprio la “pratica” che si trova divisa in sé stessa; poiché il politico, in quanto tale, non può essere pensato nel quadro di questa etica della non-resistenza e del sacrificio.196 195 196
Ivi, pag. 43. Ivi, pag. 44.
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Come infatti afferma Paolo ai Corinzi, “nessun principe di questo mondo ha conosciuto la saggezza che noi predichiamo agli uomini maturi”. 197 Qual è questa “saggezza”? Non già quella inscritta nella prassi politica in quanto tale, come pare suggerire il riferimento al sovrano secolare, e neppure consiste nella “decisione” che scaturisce dalla “saggezza” profana, ossia dalla virtù politica espressa nel consiglio del filosofo interpellato a dare un responso a una vertenza incerta. Il “principe di questo mondo, ha potuto fino ad allora contare su una saggezza filosofica fondata sull‟esperienza politica stessa, sulla sapienza mondana, e quindi interna all‟universo etico-plitico profano. La saggezza cristiana, invece, è di un “altro mondo”, riflette cioè princìpi meta-storici, che la dimensione socio-politica non può contemplare. Quanto al rapporto tra l‟etica cristiane la logica politica, ne abbiamo già parlato. La decisione politica della sovranità, cioè l‟azione del Potere, non distingue il Bene dal Male, ciò che è etico da ciò che non lo è, al fine di accogliere l‟altro nella carità del principio superiore, ma per negare l‟opposto e far trionfare con la violenza il valore positivo, la Ragion di Stato. Viceversa, la carità solidarizza con il portatore del Male, non per giustificarlo in ciò che sbaglia, ma per accoglierlo nella speranza della sua conversione al Bene. La carità sostituisce la giustizia nelle relazioni interpersonali, sicché, come afferma Ricoeur, “la punizione nella sua essenza consuma la principale rottura nell‟etica dell‟amore”.198 E allora perché Paolo nell‟Epistola ai Romani (XIII), “rivolgendosi ai cristiani della capitale […] consiglia loro di sottomettersi alle autorità per motivi di coscienza e non solo per timore” ?199 L‟amore verso il carnefice trasforma in rapporto umano il confitto di principio. Se il magistrato rappresenta il Potere, rimettersi a lui non equivale a una resa a Cesare, ma è “sottomissione”, cioè riconoscimento che anche il Male ha un‟origine divina se è possibile la sua esistenza, per cui l‟autorità è “istituita da Dio” per il bene degli uomini.200 Come a dire che il potere di Satana serve a chiarire la volontà della Provvidenza, imperscrutabile alla ragione umana. In realtà, come abbiamo visto a proposito dell‟atteggiamento di Pietro, la 197 198 199 200
S. Paolo, I Cor., 8, 12. Ivi, pag. 46. Ivi, pag. 44. Ivi, pag. 46.
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posizione di Paolo ha anch‟essa un risvolto politico, prudenziale, teso a contemperare i mezzi ai fini. Il fine qui non è il martirio testimoniale della verità, ma l‟incolumità dei cristiani. La croce rimane un simbolo ma non un modello esclusivo: si può scegliere anche la coesistenza passiva col Potere, in attesa di tempi testimoniali più opportuni. Ma questo atteggiamento prudenziale, come pure si è detto, ricalca la “saggezza” mondana della logica politica, del calcolo utilitaristico, sia pure sublime, che prende a caratterizzare l‟azione apostolica ma che non è caratteristico del paradigma cristico, costituito dal martirio sulla croce. Paolo, dice Ricoeur, “rivendica la propria qualità di cittadino romano; sa che la tranquillità dell‟ordine è la condizione della predicazione cristiana”. Egli intravede la convergenza delle due pedagogie del genere umano, quella dell‟amore e quella della giustizia, quella della non-violenza e quella della punizione […] ma non vede la loro unità […] : proprio per questo utilizza una parola, la parola istituzione, che non ha radici nella predicazione della croce e dell‟imitazione di Gesù Cristo. 201
Eppure è questa la strada impervia intrapresa dall‟opera apostolica storicamente cristiana della Chiesa, tendente a una impossibile conciliazione tra amore e giustizia sul piano della pacificazione garante della non insorgenza del conflitto tra gli opposti princìpi. Tutto il conflitto storico viene trasferito a Dio, alla sua “collera”. Ma ciò ingrandisce il conflitto morale, come la portata storico-teologica della sua rimozione, poiché se la collera è stata soddisfatta sulla Croce, bisogna confessare che la storia dello Stato non è la storia riscattata dalla Croce ma una storia irriducibile a quella della salvezza, una storia che conserva il genere umano senza salvarlo, che lo educa senza rigenerarlo, che lo corregge senza santificarlo.202
Ora per i cristiani lo Stato diventa un “enigma” , quello di una potenza che è stata “già” vinta dalla croce ma “non ancora” soppressa.203 Si delinea cioè quella che possiamo chiamare “la strategia dell‟attesa” dell‟éskaton, che impegna i cristiani in una via di mezzo tra perdizione antica e futura redenzione. 201 202 203
Ivi, pag. 47. Ivi, pag. 48. Ivi, pag. 49.
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Il significato ontologico dello Stato, e la relativa antropologia e cosmologia che lo sostenevano, vengono consegnati al passato dell‟umanità e della sua sapienza pagana, svuotandoli del senso epistemico legato alla “natura” ed esponendoli perciò a un vuoto nichilistico che la nuova metafisica cristiana è chiamata a colmare attraverso la sua teologia. La vicenda umana, inscritta entro l‟orizzonte di una teodicea a tratti imperscrutabile, si avvolge di un alone di mistero, non meno opaco di quello che avvolge lo Stato, la sua forma di esistenza più razionale. Alla luce del messaggio irenico cristiano,, la stessa figura del teoreta dedito all‟attività noetica, perde il suo ruolo privilegiato e funzionale alla sanità morale della Città, precedendo la considerazione che sarà riservata in età moderna al metafisico. Entrambi, a loro modo e tempo, sono portatori di saperi “superati”, non più “validi”. La critica cristiana al sapere antico frantuma l‟esperienza culturale del kòsmos tradizionale, interponendo entro la temporalità fisiologica il percorso alternativo ad quem, lineare, della redenzione mistica. Questa frattura cosmica isola l‟uomo dalla natura e dal senso stesso della sua naturale esistenza mondana, costituendo la premessa rivoluzionaria del “rispecchiamento” della res cogitans con la res extensa, preconizzata da Platone. Il fine cristiano astrae dalla questione socio-politica platonica, e universalizzandosi trascende la dimensione religiosa nazionale e la stessa sociologia politica antica, incentrata sul rapporto dialettico tra religione e filosofia, diventando “missione” irenica “cattolica”. Questa operazione universalizzatrice dei motivi della fede si è potuta ottenere trascrivendo in termini metafisici unitari i suoi simboli razionalizzati, fondandoli ontologicamente sul Mito escatologico della tradizione testa mentale. Al razionalismo moderno è bastato pertanto emancipare la ratio universale dai suoi fondamenti teologici per acquisire uno statuto autonomo dalla originaria “missione redentrice” poi secolarizzata. La rottura cosmica della nuova antropologia che Ricoeur definisce uno “shock” che fa “scoppiare il quadro propriamente politico della vita umana”, è costituito dall‟ “Agapé”, la fratellanza spirituale, la quale fa “apparire lo Stato come un‟istanza incapace di mantenersi al livello della nuova etica”. Alla luce del nuovo sapere, “lo Stato non è più la sostanza della storia ragionevole; la sua pedagogia coercitiva mantiene il genere
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umano ma non lo salva”.204 Il problema speculare che si apre alla cultura nuova è di proporre un piano di salvezza ultra-mondano, ma di non avere risposte alla questione sociale, che presuppone l‟esistenza di quel Potere idealmente superato e moralmente ripudiato. La “questione del potere” nasce, nella prospettiva cristiana, come necessità di mantenere l‟ordine sociale nel tempo dell‟attesa, come elemento dialettico della “speranza”. L‟esigenza del “compromesso” nasce dalla condizione legata al‟attesa, alla temporalità storica in cui si alimenta la speranza irenica. La giustizia mondana diventa “violenza” se sogguardata dalla prospettiva dell‟Amore caritativo; ma senza la conversione della Croce, la trasmutazione morale della logica pagana, la giustizia-violenza conserva intatta la sua funzione d‟ordine civile, e lo stesso cristiano deve all‟uopo appellarvisi come cittadino. Da qui sorge la questione esistenziale di “come vivrà sotto due regni spirituali, quello dell‟amore e quello della violenza istituzionalmente, e sotto due pedagogie, quella del sacrificio e quella della coercizione”.205 A noi pare che la domanda stessa nasconda la retrocessione politica rispetto alla scelta di Gesù, di cui si è detto, e inoltre rende problematico il senso stesso della “conversione” come “rinuncia a Satana”. Nella prospettiva conciliaristica, il “dare a Cesare” di declina come “convivi con Cesare”, cioè col suo Potere, scindendo la verità dello Spirito dalla certezza del diritto. Nasce la logica della “doppia verità”, riedizione aggiornata di quella farisaica, che genera una prudenza nicodemitica e una diplomazia cinica, che sostanzierà l‟etica ecclesiastica nei secoli cristiani, la quale esploderà in età moderna assolutizzando i due elementi irriducibili della fede e del Potere, a lungo mediati dalla filosofia della prassi della Chiesa, sospesa tra missione apostolica e vocazione istituzionale. Denudata del suo fondamento trascendente, quella prassi si riduce a mera tecnica politica, a economica del Potere. Machiavelli è un figlio eretico della Chiesa, un chierico senza Dio che alla Chiesa sostituisce lo Stato. L‟idea di Stato moderno, informato a un concetto di politica mondato di ogni funzionalità teologica, è radicalmente diversa dall‟idea aristotelica (che Hegel riproporrà in chiave neo-metafisica) e caratterizzata dal principio universalistico dell‟astratta ragione, applicato a tutto il sapere 204 205
Ivi, pag. 52. Ivi, pag. 53.
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secolarizzato. La decostruzione cristiana del cosmo antico non ha prodotto una nuova sintesi ideale ma soltanto un sincretismo teologicopolitico fondato su un ordinamento gerarchico del mondo razionalizzato, che pone Dio a ente supremo e causa prima di ogni realtà mondana, compreso il Potere secolare, e l‟esperienza spirituale del Cristo come modello ideale cui conformarsi antropologicamente. Lasciando impregiudicati gli assetti politici tradizionali, la Chiesa ha universalizzato il tòpos religioso in senso spaziale, senza però incidere sostanzialmente sulla loro cultura sociale storica, mitigando pertanto con la sua funzione pastorale solo gli eccessi, giudicandoli sul fondamento del proprio modello canonico. La teoria ecclesiastica per cui omnia potestas a Deo, rimuove il conflitto morale tra le “due verità” (che Hegel riprenderà negando la possibilità di “due universali”), ma a prezzo di una falsa e precaria organicità che avrà la stessa estensione e durata dell‟Urbs Christianorum. Tale teoria sincretistica e compromissoria non elimina il Male ma vi convive, trascrivendo nella logica dell‟attesa escatologica il senso di una conversione che viene circoscritta allo spirituale, all‟intimo, insomma al silenzio della coscienza, lasciando perciò alla dimensione dell‟ordine mondano l‟esistenza dell‟uomo sociale, esposto alla violenza politica, ridotta a tecnica economicistica de-eticizzata perché non più pensata come funzionale alla antica virtù civica. Nella nuova prospettiva teologica, il martirio della fede rappresenta non già il momento risolutivo del conflitto con la politica, ma la sua variante accidentale, per così dire eroica, esaltata per il suo carattere emendativo anziché per la sua valenza carismatica alternativa rispetto alla socialità garantita dal Potere. E così, mentre la Chiesa mistica si costituiva di fronte all‟invadenza del Potere come società spirituale rivendicante un proprio e indipendente statuto morale di carità, la Chiesa istituzionale si definiva nella relazione politica con il regno di Cesare, accettandone la logica del conflitto, la violenza. La “violenza cristiana” è l‟ossimoro che sorregge il principio di socialità della Chiesa intesa come Stato cristiano, la cui missione apostolica ripiega, dalla risurrezione spirituale attraverso la Morte alla storia, alla virtù prudenziale di sussistere nella durata della vita storica. L‟irriducibilità reciproca tra violenza e amore fa, nel compromesso religioso, della Chiesa l‟istituzione dell‟Ipocrisia morale, e dello Stato la realtà insuperabile del Potere. Il prodotto intellettuale di tale cultura è, dal punto di vista religioso, il formalismo moralistico, incapace di convertire 141
il mondo storico, e dal punto di vista politico il razionalismo della coscienza assoluta, convinta dell‟inutilità tecnica di ogni remora morale al Potere. Nella logica del Potere assolutizzato, “la violenza appare come il motore della storia [che] fa salire sulla scena forze e Stati nuovi, civiltà dominanti e classi dirigenti. La storia dell‟uomo sembra allora identificarsi con la storia del potere violento”.206 I nuovi Stati moderni nascono come potenze “cristiane”, tributarie a Dio del loro potere legittimo e a Cesare della loro violenza politica, ma poiché ogni potere emana da Dio, la differenza viene affidata all‟esercizio politico, all‟arte di Cesare, del Principe formalmente cristiano e praticamente machiavellico. Ricoeur ricorda il comandamento di “non uccidere” come “limite” opposto dall‟Amore alla giustizia politica, per cui “la funzione punitiva dello Stato resta [sì] estranea al regno dell‟amore, [ma] compatibile con esso finché resta nei limiti della proibizione dell‟omicidio”, sicché l‟accordo può essere rinvenuto “nell‟ordine dei mezzi”, tale che “ciò che riunisce, in ultima analisi, il politico all‟etico, l‟ordine alla carità, è il rispetto della persona nella sua vita e nella sua dignità; la violenza del magistrato viene così commisurata da un‟etica dei mezzi”, 207 ossia da un principio negativo, che però non risolve la questione del potere, perché si arresta alla violenza del Golgota, prima della Morte, cioè al martirio fine a se stesso. E‟ questa condizione di coma morale, questa sorta di premorienza, che caratterizza simbolicamente l‟ “attesa” della Chiesa, il suo status storico limbale, che di fatto stempera la tensione della fede nel compromesso esistenziale, che alla luce della Croce appare più scandaloso della remissione di Pilato, modello antonomastico di scrupolo prudenziale e di ignavia morale. Tale spirito degenerativo della Cristianità storica ha inorridito la limpida coscienza sia di Tolstoj che di Kierkegaard dopo aver a sua volta turbato la buona fede di Francesco e di Lutero. La questione ripresa da Ricoeur circa la possibilità della instaurazione di uno Stato nuovo, formulata a suo tempo da Machiavelli, non può essere risolta, all‟interno della logica cristiana originaria, se non rigettando ogni idea di Stato a favore di un ordo amoris anti-politico. Viceversa, entro l‟orizzonte di senso politico, la risposta di Machiavelli è coerente alla “violenza e male” fatti emergere dal cristianesimo con la 206 207
Ivi, pag. 54. Ivi, pagg. 54-55.
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distruzione morale del cosmo classico e la scissione tra etica e politica, ma non è l‟unica risposta storica, bensì solo quella “moderna”. Affermare, alla maniera del‟obiettore, che “lo Stato non può avere altra etica che quella dell‟individuo e l‟omicidio è proibito all‟uno come al‟altro”,208 non significa, come pare suggerire Ricoeur, opporre la coscienza alla violenza, pareggiando quella del “magistrato” a quella della “guerra”. Infatti la giustizia e la forza militare sono gli strumenti razionali dello Stato politico, cioè del potere ordinatore della società. Solo rigettando l‟essenza dello Stato si può opporre alla sua etica la coscienza morale,non dell‟individuo quale membro singolare del gruppo civile, cioè del cittadino, ma bensì del credente, il cui principio di socialità è la carità cristiana, non la violenza, quale è per lui la politica profana. La guerra è “irragionevolezza” solo dalla visuale della fede, ma è strumento del tutto razionale nell‟ottica politica, in quanto strumento di conversione della volontà dallo stato di libertà a quello di necessità. Definire “omicidio istituzionalizzato”,209 significa eludere la questione del potere, non ragionare sull‟anti-potere. fuori dello Stato c‟è “l‟altro” come “diverso”; entro la fratellanza cristiana, “l‟altro” è il “gentile” da convertire, un potenziale cristiano da trattare come se lo fosse. Questa finzione caritatevole non costituisce un rapporto politico, ma una apertura di credito alla umanità e una missione religiosa. I piani sono distinti, la logica che li sostiene diversa. Quanto all‟omicidio, esso assume il valore della violenza perché atto profano dello Stato. se ogni potere promana da Dio, è sua la forza che ha eretto la croce? C‟è la Sua volontà dietro l‟omicidio di Gesù da parte di Cesare? Il segno della Morte redentrice non può spaventare il cristiano, perché attraverso di essa si è purificata l‟umanità, riscattandosi di eternità. Fuori del rapporto di conversione (potenzialmente reciproco), non c‟è convivenza possibile tra cittadino politico e coscienza etica. Non a caso lo Stato moderno, per fondare la sua assolutezza sul rapporto politico, lo ha de-eticizzato con Bodin e Machiavelli, ponendo quale fine della politica, non più il servizio alla volontà etica, cioè al governo, ma la forza come esercizio tecnico di potenza, come economia del Potere. Ma ciò è stato possibile solo a seguito della rimozione cristiana dell‟etica, quale valore immanente al governo degli uomini, a favore del servizio divino 208 209
Ivi, pag. 56. Ivi, pag. 57.
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trascendente l‟esercizio del Potere. La trascendenza di Dio ha consentito quindi allo Stato razionalistico moderno di riporre il valore morale nella interiore coscienza dell‟uomo, in un luogo più lontano dalla ragion di Stato di quanto l‟iperuraneo platonico non fosse dal regno celeste. Il “sacrificio dello Stato” come “dovere politico”.210 è pensabile non dalla logica della fede, che non ha obblighi “politici” ma solo doveri morali, ma da una diversa politica di Stato. la logica della fede è il martirio, l‟offerta sacrificale dell‟irriducibile alterità dell‟Agapé rispetto alla politica, non una politica “diversa” e soggettivamente migliore. L‟uso moderato del machiavellismo è comunque partecipe della stessa logica politicistica che sorregge la ragion di Stato, la quale acquista valore etico proprio al cospetto della forza che ne mina l‟autorità. Per quanto inumano e sacrilego, il sacrificio di Gesù è un atto “razionale” dal punto di vista politico, e come tale non può essere oggetto di negoziazione che non sia politica. Gesù non esigette la morte dello Stato, cioè la sua sconfitta politica, ma pretese la conversione dei cuori, la metànoia, che avrebbe reso inutile lo Stato perché inesistente la politica dei rapporti impersonali, sostituita dalla carità dei rapporti personali. La conversione all‟amore non è un “tradimento” dello Stato, ma il superamento della sua logica della violenza. Assumere la testimonianza di fede cristiana come “tradimento” significa permanere nella prospettiva della logica politica, che pone lo Stato come fine. Un fine che per i pagani classici era etico, mentre per i moderni razionalisti meramente economico. La vilenza, infatti, “può essere cercata solo nel regno dei mezzi e non in quello dei fini”.211 6. La violenza come prodotto “naturale” o “materia prima” della forza, diventa legittima quando non è strumento di abusi, cioè perpetrata “a fini ingiusti”.212 Il fondamento naturale della violenza consente di collocarla all‟origine dei rapporti umani, ben prima dunque della costituzione dello Stato, quale prerogativa dei singoli, che in seguito al patto sociale se ne priverebbero devolvendola al Potere legale. Il legame inter-personale è dunque fondato sull‟esercizio della violenza, prima di essere acquisita questa entro i rapporti politici. All‟opposto della teoria giusnaturalistica, 210
Ivi, pag. 60. W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, tr. it., Torino, 1995, pag. 5. 212 W. Benjamin, Op. cit., pag. 6. 211
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che critica il diritto esistente per il riguardo dei suoi fini, quella del diritto positivo giudica la legittimità dell‟azione solo criticandone i mezzi usati. Ma, a prescindere da questo contrasto, le due scuole s‟incontrano nel comune dogma fondamentale: fini giusti possono essere raggiunti con mezzi legittimi, mezzi legittimi possono essere impiegati a fini giusti. Il diritto naturale tende a “giustificare” i mezzi con la giustizia dei fini, il diritto positivo a “garantire” la giustizia dei fini con la legittimità dei mezzi.213
Quanto al rapporto tra mezzi e fini, basterebbe dimostrare che “mezzi legittimi” e “fini giusti” sono “fra loro incompatibili” per rivelare una “antinomia insolubile” e il loro “contrasto irriducibile”. All‟uopo occorre stabilire dei “criteri indipendenti” di giudizio tra i due elementi antinomici. Tralasciando il problema di stabilire un criterio di giustizia oggettivo, e concentrandoci sulla “legittimità” dei mezzi che prevedono la violenza, diciamo subito che i “principi giusnaturalistici non possono decidere questo problema, ma solo portarlo a una consistenza senza fine”, non considerando il fattore del “condizionamento dei mezzi”.214 Il diritto positivo distingue tra “la violenza storicamente riconosciuta” e “sancita come potere”, e la violenza “non sanzionata”. Qual è il criterio di tale distinzione teorica? “Se il criterio stabilito dal diritto positivo per la legittimità della violenza può essere analizzato solo secondo il suo significato, la sfera della sua applicazione deve essere criticata secondo il suo valore”. In altri termini, la corrispondenza tra il fatto (la violenza) e il diritto positivo, anche se sussiste indubitabilmente, non costituisce criterio di valore oggettivo, che perciò va ricercato “al di fuori del diritto naturale”,215 che giudica solo in riferimento ai fini. Ma cosa c‟è oltre l‟etica dello Stato?, ossia sopra o prima dell‟intuizione del mondo che sostiene e sostanzia i valori di socialità del gruppo storico? Cosa può distinguere gli “scopi giusti” da quelli “ingiusti”, al di là del loro riconoscimento storico-positivo? Solo un riconoscimento di validità “universale”. Ma questo presupposto sta alla base anche del diritto positivo, in virtù del quale esso appare fondato eticamente. Ciò vuol dire che occorre distinguere tra una universalità “vera”, ma non necessariamente vigente, da una “falsa”, anche positivamente vigente, 213 214 215
W. Benjamin, Op. cit., pagg. 6-7 Ibidem. W. Benjamin, Op. cit., pagg. 7-8.
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tale che quest‟ultima sia una credenza, cioè una “opinione sociale” (dòxa) che non ha valore di verità. La questione della verità, posta dal punto di vista del diritto, non può che essere la vigenza normativa stessa, ossia la sua positività. Solo dal punto di vista privato e non sociale la verità diventa valore meta-giuridico. Ma questa dimensione valoriale non necessariamente dev‟essere “universale”, ossia razionalisticamente ideale, ma può anche costituirsi come l‟orizzonte della tradizione esegetica, analogamente a quanto avviene in campo teologico rispetto al testo magistrale delle Scritture. In quel caso, il valore etico involge sia il diritto positivo che la tradizione giuridica attraverso la quale si legittima la realtà stessa dello Stato storico e la sua funzione di potere. Il carattere normativo, se non concretamente sanzionatorio, di qualunque prescrizione nasce dalla condizione di socialità, ossia di pubblicità, senza la quale anche una verità universale ha un ambito di validità privato, normativamente non vigente. Ciò comporta che un principio veritativo può giudicare l‟etica dello Stato come una credenza soggetta a verifica razionale meta-giuridica, solo se si pone al di fuori del suo orizzonte di senso valoriale, cioè fuori del diritto storico, ossia nella dimensione teoreticamente privata della filosofia. La ragione dello Stato può essere solo quella pubblica, ma proprio perciò l‟orizzonte tradizionale, per scongiurare due ragioni, una pubblica e una privata, deve poter includere nel concetto di eticità comune anche le esperienze teoretiche ermeneuticamente non canonizzate, attribuendole una potenziale rilevanza di valore normativo. In tal caso, il valore etico si desumerebbe dalla interpretazione storica del diritto, che estende l‟ordinamento oltre i limiti letterali del testo positivo, in direzione della sua giustificazione sistematica, e perciò filosofica. La filosofia nasce per confutare, del diritto, la credenza che lo sostiene, la quale ha a sua volta legittimato razionalmente la validità della normativa positiva dello Stato nell‟esercizio delle sue prerogative anche violente, costituendosi come Ragion di Stato che eticamente sostiene la struttura di violenza dell‟ordine costituito. Solo includendo nel suo concetto l‟aspetto ermeneuticamente dinamico dell‟interpretazione storica del diritto si può scongiurare l‟identificazione del valore etico col solo diritto positivo, ossia la validità (assoluta) con la (attuale) vigenza, costituendo la tradizione come un mero repertorio dogmatico, anziché come un processo ermeneutico aperto.
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Nella logica antica, la filosofia politica rifletteva la ragione universale, la cosmologia oggetto della riflessione filosofica, per cui l‟etica della pòlis ne dipendeva organicamente. La Ragion di Stato, dal punto di vista filosofico, defletteva dai suoi cardini razionali quando degenerava in violenza illecita (anche legittima), ma considerare l‟etica di Stato una “credenza”, equivale ad inficiare il senso stesso della struttura razionale della società, che non è ideale in senso platonico, ma religiosa in senso mitico. La critica platonica del Mito, sulla base della logica dialettica dell‟Eutifrone, delegittima la stessa tradizione religiosa, e con essa i fondamenti etici che sorreggono la prassi sociale legalizzata, cioè l‟ordine normativo positivo. Socrate, per evitare l‟esito giuridicamente eversivo delle sue posizioni critiche, accetta la sentenza di condanna a morte, ma la logica idealistica che sostiene l‟impianto dialettico platonico è conseguentemente rivoluzionaria. Ed è esattamente questa posizione idealisticamente esclusiva che fu mutuata dal Cristianesimo originario con la sua etica dell‟altro mondo, più lontano dell‟iperuraneo platonico perché regno di Dio e non umano. Dissolto moralmente ogni fondamento etico di tipo mitico-razionale della socialità, la convivenza politica apparve essa stessa come un mero fatto, cioè una condizione tutt‟altro che “naturale” in senso antropologico aristotelico, ma solo contingente e dovuta al peccato originale dell‟uomo decaduto nello spazio storico profano. La natura razionale classica divenne pertanto natura “lapsa” per i cristiani, e perciò da redimere attraverso l‟intervento della grazia e del martirio di Cristo, e per Esso della Sua chiesa. Ora, nella prospettiva cristiana, i fini dello Stato non riconosciuti secondo il valore universale, diventano “naturali”, mentre la prospettiva secolare statalistica li definisce “fini giuridici”.216 La legittimazione giuridica dello Stato moderno tende a riappropriarsi della sfera del diritto come orizzonte di valore in trascendibile, ma legandola a un criterio di universalità desacralizzato e puramente razionale. Ma poiché gli strumenti atti a perseguire i fini statuali, anche quelli assunti come “universali”, sono di natura politica, e quindi violenti, la giuridicizzazione della sfera dei fini socialmente perseguibili coincide con l‟universalizzazione della violenza. La discriminante è dunque non tra “violenza” e “Agapé”, ma appunto tra violenza “sanzionata” e violenza eslege, “naturale”. Da ciò consegue che 216
W. Benjamin, Op. cit., pag. 8.
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“il diritto considera la violenza nelle mani della persona singola come un rischio o una minaccia di scalzare l‟ordinamento”,217 ridimensionando il suo potere di intervento, che lo Stato pretende assolutamente unico e perciò non derogabile né ammettente concorrenza. Se questo è il presupposto, la non-violenza dei mezzi non equivale alla desistenza dal perseguire i fini incompatibili con quelli dello Stato, anche se pacificamente perseguiti. Nel campo dei fini, dunque, la natura dei mezzi non è decisiva. Ciò comporta che, da parte dello Stato, l‟uso dei mezzi pacifici sia ammissibile per ogni fine?, ovvero la violenza negata riguarda solo quella rivolta a fini anti-giuridici? Con l‟assolutizzazione del potere politico, ossia con la de-eticizzazione dei suoi fondamenti razionali attraverso la de-mitologizzazione filosofica, ciò che diventa giuridicamente rilevante, e perciò sanzionabile in quanto pericoloso per l‟ordine costituito, non è la finalità delle azioni, e neppure la strumentalità violenta dei modi di perseguirla, ma la circostanza che il comportamento non sia normativamente previsto e regolato. Ciò che motiva la reazione sanzionatoria dello Stato e del suo Potere è dunque l‟estraneità del comportamento all‟orizzonte giuridico. E‟ questa circostanza che costituisce un limite soggettivo del diritto universale dello Stato, a trasferire nel comportamento abnorme una responsabilità oggettiva, assunta come “violenza” che minaccia l‟esistenza del Potere. Dalla prospettiva statalistica, Gesù rappresentava una minaccia “oggettiva” per il potere costituito, che andava perciò sanzionata. Invece, la remissione di Pilato al verdetto popolare si motiva sulla natura soggettiva della minaccia, che l‟Ecce Homo non poteva costituire per Roma. La rilevanza pubblica dell‟affare veniva acquisita attraverso la questione religiosa, interna al giudaismo quale credo nazionale riconosciuto dallo Stato romano. Senza questa mediazione politica, Pilato, col suo atteggiamento, avrebbe sbagliato il criterio di giudizio, sostituendo a una corretta considerazione giuridica una scorretta considerazione di opportunità. Pietro può essere “prudente”, ma il Potere può essere solo eticamente “giusto”, cioè formalmente legale. Chiarito questo aspetto, dobbiamo allargare la nozione di “violenza” giuridica dal comportamento non-pacifico, di natura soggettiva, relativa ai mezzi, al comportamento oggettivamente anti-giuridico, relativo inevitabilmente ai fini dell‟azione. La questione essenziale qui è che tali 217
Ivi, pag. 9.
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“fini” sono quelli stabiliti dal diritto, e non quelli prefissati dall‟attore. In questo risiede la natura oggettiva del diritto, che giustappone al piano di realtà storico il piano di realtà giuridico, determinato non dalla “verità” dei fatti, ma dalla astratta fattispecie legale, che costituisce l‟unico piano di validità giuridicamente rilevante.218 Le conseguenze sono tanto paradossali quanto gravide di violenza, sia pure “giuridica”. Infatti, l‟esautorazione della dimensione etica del diritto (commisurata come sappiamo alla Ragion di Stato, cioè al principio di socialità legittimante il Potere), lasciata positivamente aperta a una indeterminata norma di valore universale (la kelseniana Grundnorm), ha trasformato la positività del potere statuale in valore immanente e criterio di legittimazione del diritto storico, il quale esercita la sua funzione d‟ordine sul presupposto della sua efficacia funzionale. E poiché questo scopo, in quanto universale, è immanente a ogni struttura giuridica, esso è indipendente dai fini etici rispetto ai quali è razionalmente funzionale, e come tale indifferente a ogni fine meta-giuridico. Da questo carattere universale della prospettiva scientificamente neutrale del diritto discende la possibilità che “ogni” potere promani – indifferentemente – da un‟Idea ovvero da Dio, e la conseguente valutazione religiosamente positiva di d‟Ors circa il valore di “ogni” ordine sociale costituito come ordinamento a suo modo divino. L‟universalizzazione del fondamento etico del diritto, svincolato dalla sua dimensione storico-sacrale relativa alla sua sfera mitico-religiosa, produce una scientifica indifferenza morale verso la giustizia del caso concreto, la cui rilevanza valoriale è opponibile solamente nei termini della sua sussunzione razionale entro il sistema legale, la cui affermazione diventa dunque il fine stesso del diritto positivo, identificato con la sua confermata vigenza. E così, partendo dalla dissociazione di forza e valore, che ha frantumato l‟organicità dello Stato classico pagano, si giunge all‟idolatria dello Stato attraverso l‟assunzione del suo diritto
218
Bisogna “prendere in considerazione la sorprendente possibilità che l‟interesse del diritto a monopolizzare la violenza rispetto alla persona singola non si spieghi con l‟intenzione di salvaguardare i fini giuridici, ma piuttosto con quella di salvaguardare il diritto stesso”: W. Benjamin, Op. cit., pag. 9. La forma dubitativa di Benjamin è per noi una necessità inevitabile, essendo chiaro che il sistema giuridico coincide con lo stesso sistema logico entro il quale viene giustificata razionalmente la violenza, tale che ogni suo elemento acquista rilevanza sistemica in considerazione della sua conferma razionale del sistema stesso, di cui è funzione significativa.
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positivo come il luogo della validità dei fatti, ossia della loro verità giuridica. Ma la sostituzione razionalistica della verità con la validità è stato anche l‟intento della fede cristiana e la ragione della sua critica allo Stato profano, per cui tale dialettica della fede che trasforma lo Stato razionale in idolo politico-giuridico, fa pendant speculare con la dialettica del razionalismo moderno, che trasforma in tirannide pratica ogni anelito di liberazione ideale dai vincoli etici della religione. All‟esito paradossale della teoria del diritto positivo, va aggiunta la correlativa universalizzazione della violenza giuridica, la cui portata politica giunge con lo Stato legale ideologizzato a trasformare la validità in verità, sostituendo alla fede trascendente, che aveva confutato la ragion di Stato classica, una religione civile tutta immanente al Potere, declinata non più come “giustizia” etica ma come “efficacia” politica, segnando l‟apoteosi della violenza razionalizzata e la conseguente “ammirazione” universale.219 La violenza come azione anti-giuridica si discosta a tal punto dalla sua accezione materiale che questa può essere ammessa da parte di soggetti privati, non statali quindi, come espressione lecita sol perché giuridicamente prevista, e perciò legale. Si prenda il caso dello sciopero. “La classe operaia organizzata è oggi, accanto agli Stati, il solo soggetto giuridico a cui spetti un diritto alla violenza”, scrive Benjamin.220 Perché questa tolleranza? E perché questo atteggiamento anti-normativo viene omologato giuridicamente, mentre quello dei cristiani viene da essi stessi neutralizzato? La ragione fornita da Benjamin è che lo sciopero viene concepito come una difesa dalla violenza del datore di lavoro, difesa legittimata dallo Stato. Ma la violenza esercitata del datore, per originare una reazione legittima, dev‟ essere a sua volta illecita, e perciò come tale punibile dallo Stato, a prescindere dalla reazione degli operai. Ne consegue che la neutralità dello Stato presume un atteggiamento conforme al diritto positivo da entrambe le parti. In questo caso, invece, la liceità giuridica, cioè la legittimità, riconosce come socialmente rilevante una illiceità extra-giuridica (la violenza del datore, per altri versi legale), riconoscendo come legittima la reazione operaia, ossia delle sue vittime, senza però farsene interprete, senza cioè reagire in proprio. La 219 220
W. Benjamin, Op. cit., pag. 9. W. Benjamin, Op. cit., pag. 10.
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sfera giuridica, dunque, può riconoscere la rilevanza pubblica di atteggiamenti extra-giuridici, che nel caso di Gesù erano di tipo religioso, e nel caso dello sciopero di tipo economico. E non a caso, le stesse teorie sociali che patrocinano la causa della libertà religiosa, si battono anche per la libertà economica, ma per ragioni inverse, ossia chiedendo allo Stato, nel primo caso, di non riconoscere la rilevanza pubblica della religione, mentre invece di riconoscerla nel caso della economia. Nel caso della libertà religiosa, si chiede allo Stato di non riconoscere il carattere pubblico delle questioni religiose, e quindi di non prendere posizione in merito ad alcuna vertenza teologica, considerata di natura privata. Nel caso della libertà economica, invece, l‟astensione dello Stato implica il riconoscimento della rilevanza sociale delle questioni economiche, che vengono delegate alla loro risoluzione privata. In questo caso lo Stato, pur riconoscendo la rilevanza pubblica delle vertenze economiche, dovrebbe eccepire, non intervenendo, in merito alle sue prerogative di monopolio della violenza, lasciando che questa si eserciti privatamente, sia pure sotto la garanzia superiore dello Stato. L‟autentica posta in gioco, non è, come potrebbe apparire, la libertà dei soggetti sociali a esprimere le loro istanze, rispettivamente religiose o economiche, sul piano politico, chiedendo al Potere il loro riconoscimento pubblico, ma bensì la loro afferenza al campo pubblico ovvero privato. Se nello Stato antico il riconoscimento della rilevanza pubblica alle questioni private era circoscritto al campo religioso, nello Stato moderno tale rilevanza va attribuita al campo economico, che costituisce la nuova forma di religiosità giuridicamente riconosciuta nel suo valore sociale. In che cosa consiste il riconoscimento del carattere pubblico dell‟economia da parte dello Stato di diritto? Esattamente nella sussumibilità dell‟azione economica entro la sfera significativa della ragion di Stato, quale suo elemento funzionale alla sussistenza del sistema. L‟azione funzionale dell‟economia alla politica è l‟equivalente, nel nuovo linguaggio sociologico, dell‟antica funzione ancillare della filosofia nel linguaggio teologico. Entrambe le funzioni presuppongono il servizio al un ente di potere – Dio o lo Stato – che è extra-sistemico e fondamentale. Nel caso dello Stato, essendo la sovranità riposta nella stessa sfera sociale coincidente con quella civile, si è sviluppato un conflitto immanente tra il potere statuale e quello civile da cui emanerebbe, per cui la stessa fonte della sovranità può in teoria 151
assegnarla al campo del governo, ossia a quello pubblico, ovvero al campo privato degli interessi economici. Infatti, la antica preminenza sociale del religioso era legata alla legittimazione divina del Potere, per cui ogni istanza o vertenza religiosa acquistava in sé un valore pubblico e quindi politico e giuridico. Ma stabilito modernamente, secondo la teoria tomista, che la fonte del Potere sovrano non sia Dio ma il popolo, ossia la stessa realtà civile degli interessi privati per antonomasia, quelli economici, la dimensione economica diventa la ragione sociale della stessa legittimazione politica del Potere, con una simmetrica inversione del rapporto servile che sposta l‟asse del Potere dal governo, depositario del criterio politico della sovranità, alla società, depositaria del criterio economico della sovranità. Nella prospettiva moderna, la ragion di Stato coincide con la stessa ragione economica, sicché non è più il Governo a legittimare la sfera del politico, trascegliendo quali istanze private meritino la rilevanza pubblica, ma è la società civile a legittimare politicamente il Potere di governo, il quale pertanto da etico-religioso diventa economico-politico. Ma poiché è l‟economia a fungere da criterio di legittimazione del politico, l‟attività politica stessa acquista rilevanza pubblica solo a seguito della sua costituzione economica, secondo una modalità analoga a quella del rapporto tra teologia e filosofia. E così come, all‟interno della sfera religioso, la tensione dialettica tra il momento mitico e quello filosofico sviluppa una potenziale condizione conflittuale, anche all‟interno della sfera politica la polarità tra economia e governo sviluppa una tensione rivoluzionaria potenzialmente eversiva dell‟ordine pubblico costituito. Infatti, il riconoscimento giuridico della violenza privata dello sciopero viene meno nel caso della violenza rivoluzionaria, motivata da uno sciopero generale che reclama un diritto degli operai “di usare la violenza per imporre determinati scopi”. Contro tale reclamato diritto di sciopero, “lo Stato dirà che [esso] è un abuso, poiché – dirà – il diritto di sciopero non era stato inteso in questo senso, e prenderà le sue misure straordinarie”.221 Si noti il carattere ermeneutico della disputa. Non più il nudo fatto sociale dello sciopero è in gioco, ma la sua interpretazione finale, legata alle convinzioni private degli attori. In tal senso, lo sciopero rivoluzionario diventa un reato d‟intenzione, un comportamento ideologico stigmatizzato per i suoi intenti ritenuti eversivi. Non, dunque, lo “sciopero” provoca il casus belli, la minaccia 221
W. Benjamin, Op. cit., pag. 10.
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allo Stato, ma solo lo sciopero che sia diverso da quello normativamente previsto come legittimo. La “violenza” anti-giuridica è l‟ipotesi nongiuridica. Ma l‟ipotesi non-giuridica è la stessa prerogativa del potere sovrano di costituirsi politicamente, concedendo o ritirando il mandato di governo al Potere legittimo. In altri termini, il fine privato non-giuridico e perciò potenzialmente rivoluzionario è la stessa libertà sovrana del potere costituente della società civile e della sua sfera economico-politica. La vertenza concerne pertanto sulla fonte del Potere, cioè sulla sovranità, e quindi su chi decide sull‟essere o non-essere giuridicamente rilevate della fattispecie sociale. Insomma, chi garantisce chi? E‟ lo Stato a garantire la società, o il contrario, cioè l‟economia a garantire la politica? A decidere è sempre il Potere sovrano e non già, come vorrebbe Schmitt, il potere politico, poiché questo è un prodotto della legittimazione ideologica, extra-giuridica del principio di socialità, che è il fondamento mitico su cui si basa la stessa struttura sociale, e quindi la legittimità della violenza. La sovranità del Potere ha pertanto sempre un carattere religioso, costituendo il collante etico-politico della società, tale che la sua declinazione in termini teologici ovvero economici si proietta sulla stessa struttura istituzionale come l‟orizzonte di senso pubblico dell‟azione politica privata, ossia come il suo significato sociale. Il significato religioso ovvero economico dell‟azione politica, fornisce a quest‟ultima il senso finale che la fattispecie giuridica può soltanto originariamente presupporre come dato ideologico extra-sistemico, ovvero presumere positivamente inesistente. Ma proprio ciò che non è giuridicamente esistente è politicamente decisivo, per cui il fine dell‟azione sociale è lo stesso fondamento ideale che la legittima politicamente e che legittima a sua volta il Potere. Il conflitto politico dunque da giuridico si trasforma in ermeneutico, e da pratico in teoretico. Per difendere il primato formale, il Potere dello Stato di diritto garantisce un diritto di difesa all‟avente causa (gli scioperanti), creando la figura terza del giudice e sdoppiandosi in potere inquisitorio e potere giudicante. Ma la terzietà del giudice, perché sia credibile, deve trasformare il potere giudicante in “parte” del contenzioso, fingendo che lo Stato si ponga allo stesso piano giuridico dei cittadini. Ma questa è una finzione giuridica meramente logica, dal momento che la stessa terzietà del giudice viene garantita dal Potere statale, che è parte in causa. Si può però raggiungere lo stesso risultato attraverso un diverso procedimento logico, meno contorto di quella fictio juris che, in nome 153
della isonomia, pareggerebbe Stato e cittadini. Si potrebbe, cioè, pensare il dibattimento non come formalmente paritetico, falsando le condizioni giuridiche tra Stato e privati, ma come diritto accordato all‟imputato di difendersi dalla violenza legale dello Stato attraverso la rilevanza pubblica di una disputa ermeneutica, che contesti l‟interpretazione circa la sussistenza del caso di specie come tipo normativamente sanzionabile. Il potere sanzionatorio dello Stato non verrebbe messo in discussione, come pure resterebbe salva la sua alterità formale, ma resterebbe da decidere il suo esercizio legittimo, subordinato alla dimostrazione della legittimità dell‟azione penale. In altri termini, infrangendo il dogma giuridico della completezza sistemica dell‟ordinamento positivo, lo Stato dovrebbe ammettere che determinati settori della vita civile restassero estranei alla sua potestà politica, in modo da garantire ad essi un‟autonomia di esistenza fondata sulla loro auto-regolamentazione privata. Entro il loro ambito normativo, quei settori sociali svilupperebbero regole deontologiche particolari che la tradizione consoliderebbe o muterebbe, ma in ogni caso restando svincolate dalle astratte e universali statuizioni legali del Potere politico. In questo caso, il rapporto pattizio non sussisterebbe tra singoli cittadini e Stato leviatanico, ma tra società civile e società politica, cioè tra elementi sociali omogenei per consistenza ed eterogenei per funzione. Questo consentirebbe, da un canto, alle formazioni sociali particolari il riconoscimento pubblico del loro carattere etico, e dall‟altro allo Stato di non usurpare alla vita civile la loro identità storica e culturale, imponendo alla sua tradizione concreta una astratta rappresentazione ideologica. Inoltre, questa situazione di concreta libertà dei gruppi etici storici consentirebbe al loro interno l‟affermazione di quei principi di socialità che la struttura giuridicistica e pan-politicistica relega ideologicamente ai confini della vita normativa dell‟uomo, e che invece ne costituiscono il fondamento etico e religioso. Per limitare l‟ingerenza indebita del potere dello Stato, non basta contendere alla ricostruzione dell‟accusa quella della difesa entro il medesimo orizzonte di senso giuridico dogmaticamente affermato come unicamente valido, ma occorrerebbe contestare, con l‟impianto accusatorio, l‟interpretazione storica dei fatti oggetto di giudizio, riportandoli, dalla loro astratta rappresentazione di specie, alla loro concretezza esistenziale. Solo infatti in tal modo si potrebbe congiungere il senso della verità storica col senso di giustizia del diritto, facendo della libertà una condizione esistenziale, e non meramente formale, 154
relativizzando il piano politico-economico della vita sociale nel confronto col piano etico-religioso della vita culturale dei concreti gruppi umani. L‟interpretazione giuridica dei fatti oggetto di giudizio sanzionatorio, mostrandosi non-vera in riferimento alla sua concreta dimensione valoriale, contesta l‟inclusività dell‟evento sociale nella dimensione politica entro la quale è possibile giustificare l‟intervento potestativo dello Stato, il quale dovrebbe astenersi dall‟esercitarlo in quanto non pertinente, e cioè indebita. Nello Stato legale, il piano del diritto può dunque essere ri-definito attraverso un continuo processo ermeneutico, ma non può essere trasceso, poiché anche la “verità” dell‟altra parte rispetto allo Stato, è una verità di Stato, giuridicamente prevista e regolata. Una verità di diritto. Il diritto come verità è esattamente il feticcio rinnegato dalla verità trascendente del cristiano, che oppone alla verità giuridica la verità di Dio, la verità di fede. Mantenendo la verità giudiziaria sul piano esclusivamente giuridico, l‟alterità dialettica rimane interna al piano normativo pre-costituito dal Potere. All‟opposto, la verità di fede è assoluta, perché non ha bisogno di essere dimostrata, e perciò inconfutabile, e socialmente non equiparabile sullo stesso piano giuridico. Attraverso la confutazione religiosa dell‟etica dello Stato da parte del Cristianesimo si giunge in età moderna all‟etica di Stato come diritto positivo. Solo contestando al diritto statuale il criterio di verità con un criterio normativo di carattere etico, l‟opposizione al diritto positivo può permanere all‟interno di un criterio di giustizia storicamente vigente, e quindi socialmente valido. Il valore etico della giustizia positiva dello Stato di diritto moderno non deriva dalla sua corrispondenza al principio di giustizia fondativo dello Stato e legittimante il suo Potere, ma bensì dalla coerenza razionale del sistema normativo, dalla sua metodica e strutturale auto-referenzialità. In tale sistema normativo, la “lettera” della legge ha valore di testo della verità. La trasposizione del concetto di verità, dal campo religioso trascendente e irrefutabile, al campo giuridico di logica del sistema normativo, è in entrambi i casi una trascrizione dell‟idealismo platonico, dal quale proviene, specularmente, sia l‟idolatria della Chiesa depositaria dogmatica del monopolio ermeneutico delle Sacre Scritture, che l‟idolatria dello Stato assolutistico, che risponde alla interpretazione teologica della verità divina con la superstizione razionalistica della certezza del metodo scientifico. Dalla “dialettica” della fede monoteistica
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si origina il pluralismo relativistico delle fedi scientifiche dei diversi sistemi normativi. La conseguenza, nel caso dello sciopero, è che lo Stato legislatore può presupporre la sua illegittimità sulla sola base del proprio criterio di valutazione, per cui la difesa sociale a una supposta violenza privata deve legittimarsi sul fondamento di ragioni sociali. Infatti, se la violenza privata scatenante la reazione dello sciopero è “privata” in ogni caso, poiché non può nascere da una previsione normativa (altrimenti non sarebbe sentita come “violenza”, ma come “diritto”), la reazione, sia che provenga dallo Stato che dai lavoratori in sciopero, è necessariamente di natura “pubblica”, perché la sua legittimità nasce dalla sua previsione normativa o dal suo riconosciuto valore sociale da parte dello Stato. non è dunque il fine dello sciopero, e neppure i mezzi violenti, a determinarne il giudizio di legittimità, cioè di giuridica liceità, ma l‟interpretazione che di esso sciopero e di esso fine viene offerta dallo Stato a ragione dell‟intervento potestativo di repressione politica. La contraddizione “oggettiva” di uno Stato che a volte riconosce legittima una stessa situazione che altre volte giudica illegittima, non testimonia di una contraddizione “logica” nel diritto,222 ma della possibilità riservata alla sfera giuridica di auto-determinare la sua ragionevolezza e plausibilità politica, indipendentemente da ogni riferimento, sia etico che trascendente. Questa auto-determinazione della violenza del Potere non ha un appello superno, non ha gradi ulteriori di giudizio che non siano quelli che esso stesso riconosce come suoi prodotti normativi. Non soltanto viene espunto dal novero della validità ogni riferimento a principi extra-normativi di carattere religioso, ma si esclude lo stesso intervento correttivo del giudizio filosofico, che nella sua originaria funzione sociale fungeva da autorevole appello interpretativo dei casi contraddittori. La “scienza” giuridica espelle come extra-sistemico ogni principio di “verità” che non sia giuridico, cioè normativamente rilevante, poiché il riconoscimento pubblico di una autorità extra-giuridica equivarrebbe a una riconosciuta limitazione del potere coercitivo dello Stato (legislativamente assolutista). Lo Stato non può, in altri termini, giudicare “per delega”. Demandare ad altra autorità la decisione oggetto di una sua prerogativa comporterebbe auto-limitarsi.
222
W. Benjamin, Op. cit., pag. 11.
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Questa kénosi del Potere non viene negata soltanto dall‟ordinamento giuridico statuale, ma dalla stessa logica del concetto, la cui universalità implica la stessa possibilità d‟essere di ciò che ancora non è, ossia del futuro. E poiché la sconoscenza del futuro genera il timore dell‟ignoto, la previsione legislativa (logica come giuridica) previene e neutralizza il sentimento stesso del mistero, sul quale si costituisce la libertà umana e la fede religiosa. La comprensione logica del mondo, premessa di quella scientifica e giuridica, si afferma nei termini della confutazione del Mistero, ossia della esclusiva opposizione alla visione religiosa del mondo, la quale deve ammettere il valore simbolico della verità, sospesa tra la dimensione del sacro e quella del profano. Questa sospensione di senso, in termini esistenziali, è la condizione della libertà umana, della possibilità stessa della mondanità satanica del regno profano di Cesare, consentito appunto dalla kénosi di Dio, su cui si fonda il responsabile arbitrio dell‟uomo. Ma così non avviene nel caso del giudizio del‟organo “terzo” della magistratura, poiché come organo dello Stato comunque giudica in nome dello Stato e per suo conto una azione ritenuta anti-statale, cioè fuori della liceità ordina mentale. Quando lo Stato diventa “di diritto”, il suo potere si esercita come diritto. Lo Stato di diritto è il Potere del diritto. Al posto della volontà politica si ha il criterio sistemico. Se la volontà può sbagliare o correggersi senza incidere sulla legittimità etica del Potere, il sistema giuridico non può fallire come struttura normativa, per cui esso è da considerare una realtà perfetta in quanto vigente, cioè valida in relazione alla sua efficacia storica, il cui valore assiologico è analogo a quello di una verità di fede, senza la quale crollerebbe la legittimità del sistema. L‟opera di Gesù ha attivato la sua delegittimazione in conseguenza del misconoscimento dell‟assolutezza dell‟autorità dello Stato, affermata da Pilato e stoltamente confermata invece dai farisei. La esistenza di un Regno extra-statuale ha reso, non già vana ma limitata, l‟efficacia del Potere terreno di Cesare, al quale Gesù ha consegnato solo il suo corpo per la morte, cioè soltanto la sua finita e storica dimensione politico-sociale. Nel caso dello sciopero rivoluzionario, gli scioperanti non riconoscono la giurisdizione dello Stato, che vorrebbero rovesciare, attivandosi a contrastarne l‟autorità, con o senza violenza, negando che quell‟autorità possa estendersi al loro ideale di società futura, ossia alla loro immaginazione, che, in mancanza di realtà attuale, consiste nella fede in 157
un altro regno. In questo caso, la rivoluzione nega la legittimità della violenza del Potere dello Stato, sentito come iniquo nelle sue pretese assolutistiche. Nel caso di Gesù, invece, veniva negata la competenza dello Stato a esercitare una sua giurisdizione politica in materia spirituale. Nel primo caso, il successo della rivoluzione prelude a un nuovo Stato politico, sortito da essa, per cui la rivoluzione sostituisce uno Stato “giusto” a uno “ingiusto”; nel secondo caso, la posizione spiritualistica di Gesù intese sostituire semplicemente lo Stato con un‟altra forma di socialità, a-politica e basata sulla relazione fraterna dell‟agapé. Nella circostanza rivoluzionaria, la violenza cambia fine, e da statale diventa privata, con relativa transizione di conseguente legittimazione pubblica della sua validità. Nel caso cristiano, il fine spirituale cambia la plausibilità del mezzo violento, cioè la legittimità della violenza politica, il senso stesso della razionalità del suo uso strumentale. Solo in questo caso il giudizio sul fine dello Stato ha interessato anche la plausibilità dei mezzi, in perfetta corrispondenza, logica e di fatto. Il superamento dell‟antinomia tra mezzi e fini, ossia tra mezzi violenti e fini giusti, è legato all‟esautorazione della violenza a seguito della sua incongruità razionale e funzionale per il conseguimento del fine caritatevole. Solo conservando la logica politica sorgerà la questione dei mezzi relativi al conseguimento e legittimo mantenimento dell‟ordine giuridico della pòlis, ma sul piano comunitario dell‟ordo amoris, la questione del potere come ordine politico viene a perdere ogni sua ragion d‟essere, e la stessa politica, come criterio razionale di governo sociale, ogni sua ragionevole necessità. Ma anche la non-violenza, perduto il suo referente dialettico nello Stato, cessa di essere l‟atteggiamento della rinuncia o della passività, che comunque rimane soggetto, entro di esso, a essere normativizzato giuridicamente come illecito o illecito, per trasformarsi, fuori di esso, in valore presupposto di natura positiva, e non più solo negativa e relativa a Cesare. In tal senso, se la singola persona spirituale può porsi in relazione allo Stato – ossia al Potere – come soggetto politico e socialmente dipendente da Cesare, la comunità spirituale – ossia la Chiesa cristiana – non può sussistere affermando al suo interno la stessa logica politica che sostiene la vita dello Stato, ma deve costituirsi come alterità dell‟ ordo amoris. La differenza tra lo Stato e la Chiesa non è di ordine legale ma normativo, nel senso che, a differenza della tipologia esclusivistica della legalità statuale, legata alla logica dialettica del politico, la regolamentazione normativa della eclesia spiritualis include 158
nella sua ragion d‟ordine il perdono amorevole come criterio divino alternativo alla giustizia umana. Il carattere anti-giuridico del perdono è dunque dovuto alla sua essenza ingiusta e politicamente irrazionale (ovvero “folle”) nella prospettiva della logica dialettica. Lo sforzo giuridico di regolamentare la violenza, assumendone la legittimazione, dal piano dei rapporti etico-religiosi a quello della coerenza normativa tra mezzi e fini ugualmente giuridicizzati, trova sempre il suo limite insuperabile nella possibilità dell‟eccezione riabilitativa della sua liceità nei casi estremi, nei quali viene sospesa la ratio del sistema giuridico e perciò dimostrata nei fatti, ossia nella concreta vigenza, l‟infondatezza della pretesa universalità dei suoi criteri razionali. Alla stregua di ogni sistema auto-legittimato dall‟assunzione dogmatica del suo fondamento razionale come criterio veritativo, anche il sistema giuridico positivo costituito logicamente sulla coerente applicazione di quel fondamento normativo, giunge fatalmente, per sua premessa epistemologica, al “momento della verità” empiricamente confutativo della legge razionale d‟ordine che lo fonda e lo legittima. Lo “stato d‟eccezione” in cui vene a trovarsi il sistema giuridico, coincide con il “momento della verità” quale svelamento della possibilità – esclusa per principio dal sistema dogmatico – che il valore sistematico universale della sua effettualità, cioè della sua insuperabile efficacia infra-sistemica, sia in realtà un mero presupposto fideistico che affida alla capacità umana di stabilire l‟ordine sociale e di conservarlo entro le coordinate razionali del diritto, rimuovendo il caos politico prodotto dalla eversione della sua infrazione. Il “momento della verità”, che l‟ordine costituito assume come “stato d‟eccezione” in confronto alla condizione “normale”, rivela che a) il fondamento valoriale del sistema giuridico-politico è universale solo entro il sistema, e quindi ha la stessa estensione della durata della sua effettualità spazio-temporale; b) l‟ordine giuridico non corrisponde all‟ordine cosmico, che si rileva quindi come un ordine extra-normativo o “naturale”. Le reazioni logiche di fronte all‟eccezione sono anch‟esse duplici. Rispetto ad a), il sistema reagisce o sussumendo la eccezione come inscritta in un criterio procedurale di sospensione dell‟efficacia al fine della stessa garanzia della sua normalizzazione, attraverso l‟investimento di fede che sosteneva il fondamento di valore del sistema, trasformando in “garanzia” ciò che la realtà della eccezione ha mostrato essere solo una 159
“speranza”; ovvero il sistema ammette il limite insuperabile della sua efficacia e aggiorna i suoi fondamenti di validità in senso di una più comprensiva universalità ipotetica, allargando l‟astratta area d‟efficacia normativa. La prima reazione è propria del sistema razionalistico “chiuso”, che concepisce la verità come assimilazione del diverso reale allo stesso modello ideale. La seconda reazione è propria del metodo empiristico di concepire la scienza come azzardo ontologico. entrambi i metodi sono comunque espressivi di una stessa credenza dogmatica nella possibilità accreditata alla sola ragione di fondare un ordine cosmico alternativo, e quindi implicitamente migliore, a quello “naturale”, fondato sulla “violenza” non “regolata” delle forze spontanee della natura. In tal senso, la ragione umana viene identificata con la possibilità, antropologicamente necessaria, di neutralizzare la “violenza” naturale e asservirla ai fini razionali umani. Se ciò è chiaro, lo è altresì il senso recondito dell‟accusa di “follia” avanzata da Paolo alla sapienza umana che accreditava la logica della natura anche come fondamento della ragione umana,, concependo il kosmos sociale come analogo a quello naturale, e perciò universale. La fede nella ragione umanistica nega appunto l‟universalità delle leggi naturali, facendo dell‟uomo un artifex mundi anziché un “custode dell‟essere”, capace di prendere coscienza oggettiva di ciò che per il resto della natura è processo spontaneo ed etero-diretto dall‟istinto biologico di conservazione, che costituisce l‟equivalente biologico per il mondo organico di ciò che è il principio di gravitazione per il mondo fisico. La ragione umana come “altra natura” rispetto a quella fisica, definisce un mondo razionale parallelo a quello naturalistico, un mondo spirituale e storico costruito su un fondamento di esistenza razionale, cioè prevedibile e perfettibile secondo il modello costitutivo, di tipo scientifico. Ma proprio per la sua premessa fideistica, il cosmo scientificamente strutturato attesa che il sistema razionalistico, se riesce ad eludere il mistero dall‟orizzonte epistemologico, sostituendolo con l‟enigma in attesa di svelamento, non può però escluderlo dal suo fondamento ontologico, sulla cui indeterminatezza basa la stessa certezza razionale delle sue ipotesi gnoseologiche. Tale fondamento extra-sistemico e fondativo di ogni sapere scientifico è dunque di natura meta-fisica, riguardante l‟ordine della vita umana, ossia l‟esperienza storica dell‟esistenza. 160
Il Cristianesimo, ponendo al fondamento della vita umana lo Spirito, che è ragione alternativa a quella naturale, pone come modello antropologico universale l‟esperienza esistenziale di Gesù il Cristo divino-umano che ha vinto la Morte, cioè la legge del mondo finito e accidentale di ciò-che-è, ossia l‟ente, testimoniando l‟Eternità di ciò-chenon-diviene, ossia Dio. Rispetto alla metafisica idealistica greca, la concezione cristiana nega la simmetria speculare tra il modello divino e l‟esperienza umana, facendo del primo il Mistero infinito insuperabile dalla finitezza della ragione umana, e dell‟esistenza storica un processo di salvezza affidato da Dio alla libertà umana. Rispetto alla necessità naturalistica del cosmo fisico, la libertà spiritualistica cristiana non accoglie l‟evento di verità come l‟eccezione alla regola universale, ma come il significato stesso dell‟esistenza umana come Storia. Lo Spirito non è res cogitans opposta alla res extensa, tale che l‟una sia il riflesso speculare dell‟altro dialettico, ma è il diverso rispetto al finito, cioè l‟infinità stessa di Dio, non commutabile ad alcuna grandezza umana. Contrariamente a quanto comunemente si creda, la coesistenza in Gesù del divino e dell‟umano non stabilisce per il cristianesimo alcuna reciproca convertibilità delle due nature, ma soltanto rappresenta la possibilità riservata all‟uomo di trascendere la sua finitezza naturale inscrivendo la sua esperienza nell‟ordine dell‟esistenza spirituale. La prospettiva cristiana introduce il criterio della differenza ontologica tra l‟ente naturale, che è il fenomeno, e l‟Essere invisibile, il quale non è tale perché, alla maniera idealistica greca, non-diviene, ma in quanto trascende la finitezza di ciò-che-è, ossia l‟attualità logica dell‟ente di ragione. E proprio tale trascendenza dell‟Essere afferma l‟irriducibile diversità della sua infinitezza dalla finitezza dell‟ente di natura, escludendo ogni possibilità di conversione ontologica, e con essa l‟inanità e impraticabilità di ogni anelito rivoluzionario in senso politico. La stessa metabasi spirituale non è un passaggio dall‟una all‟altra natura, da quella umana a quella divina, ma costituisce il luogo interiore dell‟ascolto della parola di Dio, l‟orizzonte simbolico della coscienza spirituale, in cui è possibile all‟uomo di incontrare l‟Infinito e l‟Eterno come esperienza esistenziale, cioè entro la Storia.223 L‟esperienza storica di Dio consiste 223
Ved. qui di seguito il Cap. IX nella parte dedicata in proposito alle tesi di K. Rahner.
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appunto per l‟uomo nella dimensione spirituale della sua esistenza, di cui Gesù è la rappresentazione quale nuovo Adamo, che mostra la via della verità non-politica dell‟esistenza storica. L‟agape nasce dal sentimento di appartenenza all‟Essere spirituale trascendente l‟ecclesia politica, la società razionale. Questa è stata pensata dal razionalismo greco come l‟immagine politica dell‟Uno ideale cui si oppone l‟empirico Molteplice. Invece, la ecclesia mistica è la città di Dio, il luogo della verità a cui l‟uomo perviene all‟interno della propria esperienza spirituale, l‟unica a fare dell‟esistenza umana un unicum concreto, fuori della condizione di socievolezza naturale e di socialità politica. In questo senso spiritualistico l‟imitatio Christi diventa il principio regolativo della condotta dell‟uomo consapevole che il mondo politico della società razionalizzata non è quel mondo di verità ritenuto dalla sapienza pagana, ma un cosmo illusorio, mitico, sul quale agisce criticamente l‟azione correttiva della filosofia. 7. Se la ragione naturale si ferma alla constatazione della realtà fisica del Molteplice, senza risalire all‟unità dell‟Essere originario da cui promana ogni fenomeno, umano e naturale, essa si ferma alla “meraviglia” apparente, ma non valica il mondo dei sensi e appunto dell‟apparenza, ma costruisce il suo mondo razionale sul fondamento di quella stessa apparenza, che è il dato empirico destinato a costituire l‟ “idea” che lo sostanzia. La “visione” fenomenica, trasformata in immagine ideale, fa dell‟esperienza sensibile (anzitutto della vista) l‟origine dell‟esperienza, non solo empirica ma anche trascendentale, in quanto la ricercata unità razionale o metafisica della realtà molteplice pone questa come il suo intrascendibile orizzonte di senso, cioè come il suo fondamento ontologico originario. Orbene, l‟unità ideale di tutti i fenomeni naturali, che ne costituisce il loro immanente principio regolativo, è la “violenza”, cioè il predominio del più forte. La legge del più forte vige anche nella pòlis il cui correttivo razionale consiste nel regolamentare le forze naturali dell‟uomo portandole a pacifica perfezione. Regola (giuridica) – pace (sociale) – perfezione (morale) sono gli attributi della virtù politica classica, il cui senso ideale è radicalmente diverso da quello cristiano. La non-violenza, come regolamentazione pacifica dei rapporti sociali, si muove ancora all‟interno della logica politica classica, sia pure nella versione giuridicizzata del razionalismo politico moderno. La sua istanza di pace, infatti, non è disgiunta da un criterio di efficacia politica, come nel caso di Gandhi per l‟indipendenza dell‟India e di Mandela per la fine 162
dell‟apartheid della popolazione nera del Sudafrica. Ma il senso dell‟agapé cristiana è tutt‟altro che politico, anche se l‟interpretazione ecclesiastica l‟ha storicamente stravolto trasformandolo in fondamento religioso, e quindi in principio di socialità politica. Il suo senso religioso, assumendo la ragione umana al servizio della fede, ha sostituito al principio naturalistico classico il principio creazionistico divino, facendo della Verità, anziché il fine della filosofia, il suo principio e fondamento, assimilando il “principio” naturalistico della causa () al “fondamento” veritativo della Causa Prima. Sostituire Dio alla Natura, la sapienza politica alla regola fraterna, ha permesso l‟arbitraria inferenza logica di stabilire un‟analogia strutturale tra ordinamento divino e ordinamento sociale, tale che il finalismo cosmico e quello storico potessero fruire degli stessi strumenti razionali. Ma fruire della politica come strumento razionale del Bene morale, sconvolgeva il rapporto logico e funzionale tra mezzi politici e fini etici, ritenendo che la qualità dei fini potesse estendersi logicamente (e pertanto anche socialmente) a quella dei mezzi, considerati funzionalmente neutri. Da questa forzatura dialettica, che estende per analogia il costrutto logico alla realtà sociale concreta, nasce la teoria della politica come neutra “tecnica” del Potere sociale e della sua conservazione, della cui neutralità fruiscono anche le forze del Bene per costruire la città di Dio. La ragione già naturale, asservita alla logica politica, diventa scienza economica, che viene impiegata come tecnica filosofica al servizio della Verità trascendente, della quale, come economia di salvezza, essa è strumento dialettico, analogamente al corpo fisico e sociale che è sottomesso al servizio di quello spirituale personale e istituzionale della Chiesa. La “non-violenza” politica rientra nella teoria dell‟ibrido sintagma di una ragione economica valida strumentalmente sia per la logica della pòlis che per la salvezza spirituale. Nello stesso ordine sincretistico rientra anche il concetto di “pace perpetua” di Kant, che intende affermare la vigenza senza eccezioni dell‟ordine giuridico. Riguardo invece alla “pace” come sanzione comminata a una “guerra” naturale, a una violenza extra-giuridica e originaria, essa può anche essere intesa come l‟esito giuridico di un processo formativo di diritto, anche se non regolamentato. Ma anche in questo caso la “violenza” acquista valore di senso teleologico solo in riferimento al diritto, di cui pure è contraddizione logica. La violenza “creatrice di diritto” è violenza giuridica, legittimata ex post ma fatta valere ex ante come fonte efficace. 163
Su questo presupposto il sistema ritiene di poter dominare giuridicamente l‟eccezione extra-sistemica prevedendola a priori, cioè anticipandone gli effetti nel senso della normalizzazione e sussumendola come mezzo irregolare per il buon fine. La violenza, come categoria di pensiero comprensiva di ogni atteggiamento pre-giuridico valutato secondo la logica giuridica, e quindi attraverso una normativa metodica razionalmente coerente, è l‟essenza della vita economica, cioè dell‟azione umana mondata di ogni finalità etico-religiosa trascendente il suo immanente criterio di efficacia. La neutralità tecnica di una politica ridotta ad economia di violenza, è la premessa logica di una successiva dazione di senso conforme al fine razionale della sua funzione sistemica. Questa operazione logica, di neutralizzazione del suo senso finale, è propria di ogni opera di “razionalizzazione” dell‟azione politica, che interviene a normalizzare l‟eccezione teleologica extra-sistemica omologandone la funzione economica a posteriori. Ed essa si realizza privando la politica del suo fine immanente e, avendola ridotta ad economia di violenza, destinandola quindi al senso razionalmente indotto dalla sua contingente funzione sistemica. Analogamente a un oggetto di giudizio logico, l‟azione politica viene astratta dal suo fine immanente alla concreta realtà storica, sostituendole a quello etico originario il senso categoriale. Questa visione della politica ridotta a violenza attraverso il misconoscimento del valore etico-teleologico della sua funzione d‟ordine sociale, viene confermata dalla prospettiva religiosa, che strumentalmente la inscrive nel disegno divino, che presiederebbe a ogni potere mondano, e cioè a ogni politica. In conseguenza dell‟assimilazione logica del mezzo al fine, la consegna categorica kantiana deve applicarsi al soggetto-fine dell‟umanità come astratto concetto ideale, ma non può applicarsi ai concreti singoli uomini, i quali sono per definizione soggetti giuridici in quanto titolari di diritti, e perciò strumenti della impersonale volontà d‟ordine del sistema politico. ciò che può ammettersi per i singoli, non vale per l‟insieme sociale, che è la totalità ideale. E poiché il diritto, quale forza legittima dello Stato, stabilisce i termini della totalità definendone i confini di validità giuridicamente garantita, diritto e totalità si confondono, per cui il concetto di umanità storica è lo stesso del sistema di diritto positivo, il quale ingiunge agli uomini di non trascenderlo con alcun altro valore concorrente che possa qualificarsi come fine extra-giuridico. In altri termini, il sistema normativo non ammette di trattare il soggetto giuridico 164
come mezzo di un fine extra-giuridico, ma solo come mezzo del fine proprio, appunto giuridico. In questo senso traslato, “il diritto positivo, dove è consapevole delle proprie radici, pretenderà senz‟altro di riconoscere e di promuovere l‟interesse dell‟umanità nella persona di ogni singolo”.224 Tale “interesse” coincide con la “conservazione dell‟ordine stabilito”, ossia con il principio economico assurto a fine politico della ragion di Stato. Rispetto all‟etica dello Stato classico, l‟ordine dello Stato di diritto non coincide con quello cosmico della natura, ma con l‟ordinamento giuridico, per cui l‟etica dello Stato coincide con l‟economia del sistema politico, e non con la ragione del mondo sub speciae humanitatis. L‟unico mezzo lecito è quello ammesso dal diritto per la sua conservazione, che in quanto funzionale a tal fine si qualifica come “razionale” nel senso dell‟utilità. La potenza dello Stato di diritto è quella di stabilire i fini, cioè di definire i valori, sociali. Rispetto al potere giudicante di origine religiosa, il nuovo potere giuridico è assoluto, dipendendo la sua stessa legittimazione razionale dalla coerenza sistematica. Con lo Stato di diritto, l‟uomo moderno costruisce un cosmo razionale che la società politica classica riferiva alla natura, legando la forza politica a un‟etica universale che la coscienza moderna non riconosce nello Stato ma come Stato. Modernamente, l‟etica dello Stato non è impersonata dalla potenza politica come ragione della forza e forza della ragione, ma dalla “polizia”, dai guardiani dell‟ordine, il braccio armato del diritto, il quale “è potere che pone – poiché la funzione specifica di quest‟ultimo non è di promulgare le leggi, ma qualunque decreto emanato con forza di legge -, ed è potere che conserva il diritto, poiché si pone a disposizione di quegli scopi”.225 Lo stato di eccezione è risolto con lo strumento poliziesco. Il “diritto” della polizia segna proprio il punto in cui lo Stato, vuoi per importanza, vuoi per le connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico, non è più in grado di garantirsi – con l‟ordinamento giuridico – gli scopi empirici che intende raggiungere a ogni costo. Perciò la politica interviene, “per ragioni di sicurezza”, in casi innumerevoli in cui non sussiste una chiara situazione giuridica […].226
224 225 226
W. Benjamin, Op. cit., pag. 13. W. Benjamin, Op. cit., pag. 15. W. Benjamin, Op. cit., pag. 16.
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Nei casi eccezionali, il diritto del Potere, non si astiene, come aveva fatto Pilato, ma reagisce con la violenza legittimata dalla necessità della difesa del sistema. La difesa di sé è dunque la “ragione” che assolve il diritto da ogni incongruenza etica, che elimina elitticamente ogni sua falla sistematica, creandolo quando la sua immaginazione non giunge in anticipo. La difesa di sé, come valore di diritto pre-giuridico, ossia “naturale”, legittimato giuridicamente ex post, è la “violenza”. Ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto. Se non pretende a nessuno di questi due attributi, rinuncia da sé ad ogni validità, [per cui,] il diritto [che se ne serve appare] in una luce morale così equivoca, che si affaccia spontaneamente la domanda se per comporre interessi umani in contrasto non vi siano altri mezzi che violenti.227
La finalità politica, la “pace” sociale, diventata esercizio di diritto anziché condizione naturale iscritta nella ragione sociale stessa della convivenza etica dell‟uomo, richiama come sue condizioni di esistenza, la violenza verso cui la pace giuridica si afferma. L‟ordine giuridico, derimendo un conflitto sociale, lo presuppone. Ma la pace sociale stessa come giustizia, è a sua volta stabilita attraverso la violenza riparatrice dell‟ordine infranto. E questo ci induce a constatare che un regolamento di conflitti privo affatto di violenza non può mai sfociare in un contratto giuridico. Poiché questo, per quanto sia stato concluso pacificamente dai contraenti, conduce sempre, in ultima istanza, a una possibile violenza. Poiché esso conferisce a ogni parte di diritto di ricorrere, in qualche forma, alla violenza contro l‟altra, nel caso che questa dovesse violare il contratto. E non solo: come il risultato, anche l‟origine di ogni contratto rinvia alla violenza. Anche se non è necessario che essa sia immediatamente presente nel contratto come violenza creatrice di diritto, vi è tuttavia pur sempre rappresentata, in quanto il potere che garantisce il contratto è a sua volta di origine violenta, quando non è insediato giuridicamente con la violenza in quello stesso contratto. Se vien meno la consapevolezza della presenza latente della violenza in un istituto giuridico, esso decade.228
Ciò significa che la giuridicizzazione dei rapporti pattizii estende l‟evento potenziale della violenza fin dove arriva il potere sanzionatorio dello Stato che se ne fa garante. La violenza privata, “naturale”, viene 227 228
Ibidem. W. Benjamin, Op. cit., pag. 17.
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legittimata nella sfera pubblica come ragione del patto: sia della sua costituzione che della sua efficacia. A questo punto sorge la domanda: “è, in generale, possibile il regolamento non violento di conflitti?” Benjamin non ha dubbi; ma lo circoscrive ai “rapporti fra persone private”. L‟accordo non violento ha luogo ovunque la cultura dei sentimenti ha messo a disposizione degli uomini mezzi puri di intesa. Ai mezzi legali e illegali di ogni genere, che sono pur sempre tutti insieme violenza, è lecito quindi opporre, come puri, i mezzi non violenti.229
Il diritto stabilisce i criteri per i quali la violenza non sanzionabile, non la abolisce, ossia la assume come strumento di legittimità, ammettendolo come elemento della sua razionalità. A questo punto, constatata la sua presenza nella realtà politica e giuridica, in quella sociale e privata, è d‟uopo chiedersi che cosa sia la violenza, che Gesù voleva bandire e sostituire con la carità, con l‟agapè. Da quanto detto, emerge chiaramente l‟essenza della violenza come il prodotto della semplificazione ontologica, ossia della riduzione di un ente a fenomeno, a strumento di un fine improprio, diverso da quello originario, sia esso naturale che culturale. Vi sono due tipi di violenza: quella che riguarda la diversa destinazione di un ente non umano, e la violenza che inerisce a una fruizione di un prodotto umano diversa da quella prescritta dal suo senso culturale, di natura essenzialmente sociale. Quest‟ultimo tipo di violenza riguarda l‟assunzione di una realtà concreta, cioè originariamente altra da sé, a prodotto del sé, ossia a oggetto ideale. Nel primo caso di violenza rientra il furto, quale paradigma di ogni destinazione impropria di un ente per sua indebita acquisizione strumentale. Nel secondo tipo di violenza rientra la menzogna, come alterazione del senso proprio in un senso altro dal proprio. La violenza di tipo naturale riguarda la trasformazione dell‟ente in strumento di destinazione umana. La violenza di tipo culturale riguarda la tra svalutazione del valore finale dell‟opera umana in valore strumentale. Naturalmente i due tipi di violenza possono intrecciarsi o anche coincidere. In ogni caso, l‟essenza della violenza, di ogni suo tipo, è logicamente contraddittoria e ontologicamente instabile, tale che la sua realtà di fatto riveli sempre la sua origine ideale, e viceversa la sua realtà 229
W. Benjamin, Op. cit., pag. 18.
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ideale sempre la sua origine di fatto. Ciò significa che la violenza produce il suo effetto quando il fine di un fenomeno contraddice la sua origine naturale, per cui la sua alterata destinazione produce effetti non previsti, ovvero quando una condizione concreta viene smentita dalla sua destinazione ideale, e in tal caso la violenza è l‟effetto pratico di un errore teoretico. Di conseguenza, la possibilità di legittimare razionalmente la violenza nasce dalla separazione degli effetti pratici dalle cause teoretiche, e l‟assunzione della realtà pratica come generazione di una logica a essa immanente, e pertanto controllabile e manipolabile. L‟idea, che risale a Vico, di una Storia come processo dell’opera umana nasce dal presupposto che sia possibile scindere dalla concreta realtà esistenziale dell‟uomo una realtà fenomenica, la quale rimanda a sua volta alla sua idealità trascendente, originale e finale, e finale perché originale. In tal modo, scissa dalla sua concretezza esistenziale, la realtà umana resta priva di ogni sua verità e diviene puro fenomeno indeterminato alla ricerca una sua razionale finalità, e perciò disponibile a una fruizione strumentale a ogni uso finale. La teoria della funzionalità universale dei puri enti di ragione è la “scienza”, ossia quel metodo di auto-fondazione della validità della conoscenza degli enti basata sulla loro supposta neutralità ontologica, la cui negazione assiologica invalida ogni teoria gnoseologica non compatibile con quel criterio cognitivo. Ogni disciplina scientifica, per affermare la sua validità epistemologica, procede a neutralizzare ogni ente oggetto della sua metodica sussunzione entro l‟universalità del suo principio di coerenza razionale, separandolo dal suo fine ideale, cioè dalla sua essenza. In tal senso, la logica scientifica è deontologica ma non ontologica, per cui l‟essenza razionale degli enti è ciò che dev’essere secondo il criterio, ma non secondo la loro originaria destinazione d‟essere. Non a caso, la gnoseologia kantiana, che lascia sospesa la questione della verità “in sé”, recupera la certezza metafisica del mondo, soggettivamente conosciuto, nell‟etica. Infatti, l‟ “in sé” rimanda a una realtà non disponibile, “sacra”, meta-sistemica e perciò non soggetta alla perfettibilità della sua strumentale manipolazione umana. Il pluralismo delle discipline scientifiche moderno è una riedizione razionalistica del politeismo antico, col suo “culto idolatrico”230 delle 230
L‟assimilazione tra “politeismo” e “culto idolatrico” è di D. Hume, Natural History of Religion in Four dissertations (1757), tr. it., Roma-Bari, 1999, pag. 99.
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molteplici verità parziali, contrapposto al monoteismo della metafisica monistica. L‟idolatria scientificistica deriva dalla credenza nella verità settoriale, circoscritta metodicamente a distinti ambiti disciplinari, ognuno dei quali basato su un fondamento fideistico di legittimazione razionale. Non a caso questa tendenza gnoseologica è il portato di una cultura epocale dove predomina intellettualmente una visione critica verso il tradizionale teismo della civiltà cristiana, che ha sviluppato come contraccolpo dialettico l‟insorgenza di forme molteplici di idolatria, delle quali quella scientifica è la forma intellettualmente più raffinata e costitutiva della ideologia delle coeve classi dirigenti. Il “vantaggio” teoretico dello scientismo è quello stesso di ogni idolatria. Infatti, come questa “ammette gli dèi delle altre sette e degli altri popoli a godersi una porzione di divinità, e li concilia tutti”,231 anche quella scientifica “concilia” tutti i saperi particolari entro una rappresentazione relativistica della conoscenza che esclude di fatto, se non per principio, l‟esistenza di un‟unica verità metafisica, fondativa di tutti i saperi particolari. Ma il supposto rapporto tra “l‟intolleranza monoteistica” e la “tolleranza politeistica”,232 non include il reciproco riconoscimento tra saperi scientifici e altri saperi, per cui il fondamento metodico della scienza, proprio per il suo carattere fideistico, afferma la sua validità a esclusione di ogni altro modello di sapere extra-metodico, facendo pertanto del proprio metodo cognitivo un feticcio. Ogni disciplina scientifica, conformemente al metodo della logica dialettica, afferma la razionalità dell‟essere e l‟irrazionalità del non-essere comprensibile nel proprio universo di senso, ossia sussumibile nel proprio concetto universale. Ora, esattamente questa assunzione di senso come “universale” costituisce la credenza fideistica di ogni scienza, la cui convenzionalità epistemologica non smentisce la circostanza che essa sia una superstizione politeistica, dal momento che il pluralismo degli universali è una contradictio in adjecto, resa più evidente dalla pretesa della gnoseologia scientifica di essere l‟unica forma di sapere razionale. In realtà ogni metodo cognitivo è razionale entro il suo orizzonte di senso, a condizione appunto che venga accolto come vero il suo principio extra-metodico, il suo fondamento fideistico. Il principio di “verità” 231 232
D. Hume, Ibidem. D. Hume, Op. cit., pag. 101.
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coltivato da ogni disciplina che si avvale del metodo scientifico è che ogni altro criterio che non sia empiricamente confutabile non è scientifico, assumendo ubiquamente per “scientifico” tanto “vero” che “razionale”. Tale esclusione di senso si esercita essenzialmente a scapito dei saperi sapienziali che esplicitamente ammettono il proprio fondamento fideistico, come quelli religiosi e artistici, i quali fanno della loro intuizione del mondo la premessa della credibilità del loro discorso cognitivo, premessa fideistica che invece i saperi scientifici occultano a favore del solo metodo. L‟emancipazione del sapere razionalistico dal sapere religioso, e la distinzione cartesiana tra l‟oggetto fisico e l‟oggetto di pensiero, sono espressioni di uno stesso processo definitorio della realtà in termini scientifici che astraggono gli enti di ragione dal loro contesto esistenziale o di senso concreto. Se noi indichiamo questo processo di razionalizzazione – logicamente cognitivo ma ontologicamente destrutturante – come “violenza”, allora notiamo che essa costituisce la caratteristica culturale dell‟intero fenomeno della modernizzazione del mondo scientificamente pensato, per cui è possibile rinvenirla in ogni realtà esistenziale intaccata da esso. fin dentro la più esigente formalizzazione dei comportamenti socializzati, il diritto appunto, dove la tecnica della giustizia efficace sostituisce ogni valore di giustizia. L‟idea di Giusto suppone infatti la relazione consustanziale tra mezzi e fini, che la giustizia formale deve rimuovere allo scopo di rendere “oggettivi” i rapporti giuridici tra soggetti titolari di diritti, che non sono “persone” reali ma appunto persone “giuridiche”, cioè tipi ideali astratti. La forma astratta del conflitto giuridico è la “pubblicità”. Il conflitto privato, diventando pubblico, cioè investito dell‟autorità decisoria del Potere, smette di essere tra uomo e uomo, per assumere un carattere contenzioso relativo a “cose”, nel quale il risalto viene assunto dai mezzi formali, anziché dai fini, com‟era in origine. E, come asserisce Benjamin, “nel riferimento più concreto dei conflitti umani a beni oggettivi si dischiude la sfera dei mezzi puri. Perciò la tecnica, nel senso più ampio della parola, è il loro campo proprio e adeguato”.233 Lo stesso Benjamin esclude che l‟ampiezza della violenza possa raggiungere la parola, come logos, la “conversazione”, ovvero il dialogo, in cui
233
W. Benjamin, Op. cit., pag. 18.
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l‟accordo non violento non solo è possibile, ma l‟esclusione di principio della violenza è espressamente attestata da una circostanza significativa: l‟impunità della menzogna […]. Ciò significa che c‟è una sfera a tal punto non violenta di intesa umana da essere affatto inaccessibile alla violenza: la vera e propria sfera dell‟ “intendersi”, la lingua.234
In altri termini, l‟inganno, per Benjamin, non avrebbe in se stesso nulla di violento [per cui il diritto più tardo] si rivolge contro l‟inganno non già per considerazioni di ordine morale, ma per paura della violenza che potrebbe scatenare nell‟ingannato […]. Vietando l‟inganno, il diritto limita l‟uso di mezzi interamente non violenti, poiché essi, per reazione, potrebbero ingenerare violenza. 235
Tesi singolare, in verità, e poco plausibile. Infatti, poiché la “intesa” fra dialoganti esclude la violenza, la quale insorge quando c‟è “inganno”, cioè falsa intesa. Il diritto, per garantire la sua oggettività formale e impersonale, deve assumere la differenza tra verità e menzogna come presupposto discriminante, rispetto al quale la soggettiva convinzione di realtà perde ogni valore probante. Anche il factum scieleris è una “intesa” non violenta tra privati, che si trasforma in realtà anti-giuridica a livello di valutazione pubblica, a prescindere dalla bona fides delle parti. L‟ “inganno” giuridicamente saliente è quello che ha rilevanza pubblica, non la privata “opinione” in quanto tale. Sono pertanto le sue conseguenze sociali a diventare oggetto di valutazione giuridica, e di sanzione. Ma la stessa “oggettività” dell‟intesa ne trasforma la natura “privata” in “pubblica”, diventando oggetto di giudizio sociale. Quando il diritto non sanzionava la menzogna, era perché le sue conseguenze private venivano tollerate come risolutive del conflitto tra le parti. E questa riserva di valore privata era dovuta alla rilevanza dell‟ordine morale della menzogna, superiore a ogni rilevanza giuridica pubblicamente riconosciuta, ossia alla deminutio del Potere politico rispetto a quello morale-religioso, e quindi alla sua pretesa di competenza universale. L‟ “intesa” fra le parti presuppone la loro comune capacità di riconoscere alle stesse “cose” lo stesso “valore”, e quindi un comune fondamento ontologico sul quale basare la comunità morale degli uomini, premessa alla condizione sociale. In tal senso, il conflitto tra le parti costituisce una rottura dell‟intesa morale, che non può essere sanata giuridicamente se non a condizione di trasferire il loro senso originario – appunto 234 235
W. Benjamin, Ibidem. W. Benjamin, Op. cit., pag. 19.
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ontologico – dal piano privato e morale al piano pubblico e politico, nel quale la vertenza acquista valore razionalmente paradigmatico, ossia tipologico. In un contesto normativo sistematicamente giuridicizzato, ogni conflitto privato assume un significato politico, in quanto, essendo espressivo di una tipicità asserita come universale, acquista una rilevanza pubblica. Di conseguenza, l‟eclissi scientifica del fondamento ontologico esclude ogni rilevanza etica al conflitto sociale, la cui trasvalutazione politica priva l‟intesa forzosa tra le parti di ogni pubblica risonanza morale. La stessa pena edittale, per quanto si voglia compensativa del male arrecato alla parte lesa, in realtà non produce emendazione che sul piano formale, ristabilendo l‟ordine giuridico infranto ma non quello morale, che resta impregiudicato dall‟intervento del potere sanzionatorio dello Stato. Per l‟esistenza del diritto, l‟etica pubblica deve potersi affermare come lo scopo stesso della sua salvaguardia dell‟ordine sociale. Come per ogni costrutto scientifico, anche il diritto fonda la sua legittimazione razionale sul criterio della universale possibilità di oggettivare ogni fenomeno sociale grazie al suo principio costitutivo, trasformandolo in prodotto giuridico. Solo la questione della verità non commensurabile a quel principio ne può provocare la crisi. L‟interrogativo di Pilato a proposito rivela una crepa giuridica che per il cristiano è coscienziale, e nella quale la giustezza della pena giudiziaria si tramuta in “violenza” arbitraria della volontà popolare, la quale in sé, quale “intesa” privata di valore pubblico, non ebbe niente di violento. La violenza nasce come giudizio di validità, che è “morale” rispetto alla valutazione giuridica che la omologa in senso politico. “Morale” è dunque quanto il sistema giuridico tralascia di inglobare entro la sua logica performativa, sia in senso della irrilevanza politica, e sia in senso cognitivamente riduttivo. Se la forza exra-sistemica è “violenza naturale”, la giustizia extra-giuridica è “morale soggettiva”. Per la struttura razionale, la soggettività è il campo residuale dell‟irrazionale, del “naturale” pre-sistemico, dove vige il criterio fideistico esplicito del valore morale, anziché quello razionalistico del diritto. Violenza, naturalità, soggettività e moralità sono qualità della realtà non omologata dal sistema. Non è difficile innescare un controprocesso anti-sistemico di legittima difesa alla pervasività dell‟ordine razionalizzato, appena si riassume il carattere complessivo di quella tensione eversiva con l‟accezione di “libertà” data al pensiero non sistematizzato, ossia non pubblicizzato e socializzato: “privato”, per così 172
dire. Sulla dicotomia tra pubblico e privato si articola la dialettica storica di Potere e filosofia, espressiva della lotta in cui il “fatto” fronteggia il “valore”, l‟esistente l‟ideale. Benjamin ricorda la diversa finalità dello “sciopero generale politico” rispetto a quello “proletario” teorizzato da Sorel. Per “politica” va intesa la protesta infra-sistemica, tendente a rafforzare o perfezionare le istituzioni politiche dello Stato, laddove la protesta “proletaria” sta a indicare la volontà eversiva dell‟ordine statale costituito, quello “borghese”. “Ne consegue che la prima di queste imprese pose in essere un diritto, mentre la seconda anarchica”, intendendo mutare il lavoro socializzato in “un lavoro non imposto dallo Stato”.236 Alla “rivolta” radicale, che Benjamin definisce il prodotto di una “concezione morale e schiettamente rivoluzionaria, non si può opporre un ragionamento inteso a bollare come violenza questo sciopero generale per via delle sue eventuali conseguenze catastrofiche”, dal momento che, a suo dire, “si può giudicare, della violenza di un‟azione, altrettanto poco dai suoi effetti che dai suoi fini, ma solo dalla legge dei suoi mezzi”.237 Benjamin non si avvede che il giudizio sui mezzi, separato da quello sui fini, si avvale della sostituzione dei fini propri, dei rivoluzionari, a quelli dello Stato, il quale, come abbiamo visto, basa il suo giudizio giuridico-politico astraendo a sua volta dai fini rivoluzionari e considerando “solo le conseguenze” oggettive dei suoi mezzi sull‟ordine costituito. La valutazione “soggettiva” e “privata” dello sciopero rivoluzionario funziona da neutralizzatore del giudizio dello Stato vertente sugli stessi fenomeni reali, agendo alla stregua di un giudizio metodico teso a interpretare nella logica del sistema un fenomeno fino ad allora giudicato sulla base di diversi criteri sistematici. Ecco allora che la “oggettività” del fenomeno viene contesa da due contrastanti “soggettività”, ciascuna delle quali ambisce a omologare il fatto oggetto della disputa al proprio criteri odi validità teorica. Ma perché tale validità “soggettiva” dell‟interprete venga considerata “oggettiva”, e quindi valida anche dalla parte avversa, la teoria che se ne fa portatrice dev‟essere riconosciuta, ossia ammessa nel suo valore “pubblico”. Dev‟essere, cioè, socializzata da un Potere istituzionale. Ciò comporta che la rivoluzione deve riuscire a imporsi e
236 237
W. Benjamin, Op. cit., pag. 21. Ibidem. Corsivo nostro.
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trasformare le sue originarie istanze “private” in affermati criteri “pubblici”. Affermati, va sans dire, dal suo Potere. La violenza “rivoluzionaria” nasce dalla trasformazione delle ragioni pubbliche dello Stato in ragioni private del potere dominante, e la conseguente affermazione delle proprie ragioni di parte come ragioni comuni e “pubbliche”. Fin quando l‟azione rivoluzionaria, cioè il fenomeno “sciopero generale”, rimane contesa tra due opposte valutazioni finali, essa è “in sé” una realtà impregiudicata, e in questo senso “priva di violenza”. Solo il giudizio finale del suo esito pratico può valutare l‟azione come “violenza” oppure, all‟opposto, come “liberazione” rispetto alle sue “conseguenze”. Ma l‟azione “in sé”, considerata come “puro mezzo” non è suscettibile di giudizio di valore “morale”, come recita la nota teoria gnoseologica weberiana, fautrice della scienza wertfreiheit, ma solo dal giudizio “pubblico” accreditato dal riconoscimento della razionalità metodologica dell‟atto cognitivo. Il punto di vista di Benjamin è chiaramente interno alla logica del metodo scientifico, affermando egli che “ogni modo di concepire una soluzione di compiti umani […] rimane irrealizzabile se si esclude assolutamente e in linea di principio ogni e qualsiasi violenza”, per cui l‟unico problema che resiste all‟analisi è quello “dell‟esistenza di altre forme di violenza da quella presa in considerazione da ogni teoria giuridica”, la quale poggia comunemente sul “dogma fondamentale” secondo cui “fini giusti possono essere raggiunti con mezzi legittimi e mezzi legittimi possono essere adoperati a fini giusti”.238 L‟equivoco, come ormai è chiaro, della correlazione tra mezzi e fini, è nell‟omologia tra “legittimità” sistemica e “giustizia” ideale. I fini “giusti” sono infatti stabiliti dal criterio di legittimità dei mezzi, fissato dal sistema referenziale in base al quale viene formulato il giudizio relativo. La violenza extra-sistemica o “naturale” è, per definizione, pre-giudiziale, oggetto di fede “dogmatica” e non “razionale” in base al sistema. E‟ irrazionale, in quanto non finalizzata agli scopi sistemici, inclusivi di ciò che è secondo l‟essere del fondamento razionale del sistema. Ed è esattamente questa violenza extra-sistemica che, in quanto non soggetta a una valutazione positiva del sistema secondo la sua logica, che si intende quando si parla di “non-violenza”, cioè di una violenza di valore negativo, non positivamente acquisibile nel sistema positivo. Si 238
W. Benjamin, Op. cit., pag. 22.
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comprende quindi come la pretesa neutralità della non-violenza sia in realtà una violenza in attesa di giudizio, esattamente come lo “sciopero generale” di Sorel. Ancora una volta torna paradigmatica la situazione inquisitoria di Gesù, la cui azione predicativa, non inquadrabile entro una accreditata verità comune, restava esposta a un giudizio di “non-violenza”. Ma la stessa situazione critica, sogguardata dal punto di vista sistemico del diritto vigente, non poteva apparire che come “violenta”, poiché la sua finalità inficiava quella dell‟Impero. Quale azione impolitica più “violenta” della invalidazione dello Stato sociale? In questo caso, i mezzi “non-violenti” della predicazione non andavano commisurati alle “parole” del Profeta, ma ai suoi effetti pubblici, sociali, al momento della loro verifica, constatata, la risonanza pubblica nel popolo acclamante, l‟atto giudiziale non poteva essere assolutorio. Ciò vuol dire che l‟ “accordo” tra Stato e opinione pubblica era generatore di violenza, anche se non di disordine sociale. Ed è questa violenza sociale di difesa dell‟ordine pubblico costituito che il diritto chiama “pace” politica. La ragione politica, la pace sociale garantita dal diritto, sganciata dal suo fondamento fideistico e finale considerato variabile e “tecnico”, cioè razionalmente indifferente alla funzionalità auto-referenziale del sistema, valido in sé etsi Deus non daretur, rimuove del tutto dalla sfera pubblica la questione della sua legittimità etica, collegata politicamente alla coerenza logica coi princìpi di socialità dello Stato, destinando di conseguenza alla sfera privata delle valutazioni filosofiche la questione della giustizia del diritto e della legittimità della sfera politica. la “scienza” della politica e del diritto diventano, quali tecniche di amministrazione dell‟ordine sociale, in giudicabili da una coscienza pubblica che non sia prodotta dal sistema di giudizio dominante. Da qui l‟esaltazione della “violenza” come mezzo impregiudicato perché essenziale alla costituzione di ogni politica e di ogni diritto che l‟assuma come suo strumento legittimo, ossia razionalmente efficace. La violenza dell‟ordine sociale è l‟ordine stesso, per cui l‟ordine e la violenza presuppongono un Potere che li garantisca. Un Potere tale che la sua efficacia sia proporzionata alla capacità di violenza esercitabile ai fini dell‟ordine. Nell‟ottica del Potere, l‟ordinamento politico della società significa ed implica l‟efficacia della violenza come metodo di garanzia della pace come valore della convivenza fra gli uomini. La “efficacia” della violenza legittimata dal suo fine d‟ordine, è la sua tecnicalità, cioè 175
razionale congruità dei mezzi ai fini. Dal punto di vista dell‟analisi scientifica, come si è visto, ogni prospettiva extra-sistemica è “irrazionale”. Il giudizio morale stesso è “irrazionale”, in quanto criterio di valore “soggettivo”. Rispetto alla razionalità del sistema cognitivo, “irrazionale” per definizione è il Mito, la sua incoerente rappresentazione della realtà fuori di ogni logica sistemica. Fuori della logica dell‟ordine scientifico c‟è l‟opinione sacrale degli dèi, la cui volontà irrazionale è violenza alla stato puro, non razionalmente preventivabile e sistemicamente finalizzabile, cioè controllabile. “La violenza mitica nella sua forma esemplare è semplice manifestazione degli dèi. Non mezzo ai loro scopi, appena manifestazione della loro volontà, essa è soprattutto manifestazione del loro essere”.239 La volontà degli dèi sfugge al controllo umano e disegna un ambito di impraticabilità della volontà umana che è “sacro” e inviolabile, perciò limitante il Potere d‟ordine socialmente costituito. O il Potere sociale si concepisce come l‟emanazione dello stesso potere divino, oppure la sua sussistenza deve presumere la rimozione del sacro, la cui sfera diventa l‟irrazionale rispetto alla razionalità sistemica del Potere profano. La violenza degli dèi non punisce infatti “per l‟infrazione di un diritto esistente”, essa “non offende il diritto”, ma consegue come reazione a una “sfida” al “destino”, cioè all‟ordine cosmico universale e naturale, non creato dall‟uomo. Ciò che la sfida rende intollerabile è la volontà umana di stabilire un “diritto”, ossia un ordine regolato da una volontà impersonale che chiama al rispetto anche gli dèi. Questa sfida paradigmatica rivive, secondo Benjamin, nella “ammirazione del delinquente”, eroe negativo che ricerca una legittimazione di diritto. Ma quella stessa figura delinquenziale, estesa all‟ambito della vita politica, coincide con quella del rivoluzionario, di cui è la trasposizione ideologica. La violenza del destino non è metodica, prevedibile, certa, coerente, ma “incerta” e “ambigua” come il destino stesso, lasciato alla libera volontà di ciò che sovrasta l‟umanità. Essa, afferma Benjamin, “non è propriamente distruttiva” e la sua imperscrutabile esecuzione pone “una pietra di confine fra gli uomini e gli dèi. Se questa violenza immediata nelle manifestazioni mitiche si potesse dimostrare strettamente affine, o addirittura identica, a quella che pone il diritto, la sua problematicità si 239
W. Benjamin, Op. cit., pag. 23.
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rifletterebbe sulla violenza creatrice di diritto”. Ma se “il principio di ogni finalità divina” è la “Giustizia”, “il principio di ogni diritto mitico” è il “potere”. Il diritto attraverso la violenza crea se stesso, mantenendo la violenza come mezzo per il suo scopo giuridico, che è il Potere, il cui conseguimento “non depone affatto la violenza” che l‟ha originato, ma la insedia come diritto. Il Potere è la violenza del diritto. “Creazione di diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata manifestazione di violenza”.240 Nondimeno, Benjamin sbaglia a indicare la violenza del diritto come atto di “immediata manifestazione”. In realtà, sappiamo che la violenza giuridica è sempre oggettiva e perciò mediata dalla sua legittimazione razionale. Tale legittimazione proviene al sistema razionale del suo potere di affermarsi come criterio di valore riconosciuto pubblicamente, anche cioè dalle parti avverse piegate dalla sua violenza o volontà creatrice di diritto. Il Potere consiste dunque essenzialmente nella possibilità di assumere la volontà pubblica (che è di carattere politico) come volontà sociale (di carattere etico), ossia di identificare la sua violenza con l‟unica forza legittima. Il riconoscimento presuppone, come ha spiegato Hegel, che “l‟avversario non venga semplicemente distrutto; anzi, anche se il vincitore dispone della massima superiorità, gli vengono riconosciuti certi diritti”.241 Il diritto è dunque, in origine, un privilegio condiviso. La condivisione è la condizione ideale del riconoscimento pratico,della sottomissione al Potere. La violenza del Potere sta dunque nel delimitare i confini della condivisione, che segnano uno stato di definitiva imparità. Infatti, “dal punto di vista della violenza, che sola può garantire il diritto, non c‟è eguaglianza, ma, nella migliore delle ipotesi, poteri egualmente grandi”.242 La conseguenza strutturale di ogni ordine sociale giuridicamente normativo è che la sua persistenza, confermando la violenza originaria, stabilisce anche i termini del suo esercizio politico, le cui modalità stabilite escludono la necessità razionale, e cioè sistemica, di ripetere la contesa originaria precedente il riconoscimento delle parti in conflitto dei rispettivi ruoli sociali. Solo quindi una necessità extra-sistemica, ideologicamente privata, può rimettere in discussione i termini del 240 241 242
W. Benjamin, Op. cit., pag. 24. W. Benjamin, Op. cit., pag. 25. Ibidem.
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riconoscimento sociale originario, attraverso l‟atto idealmente filosofico e politicamente rivoluzionario. Nell‟ordine cosmico universale, invece, al quale l‟uomo è soggetto anche inconsapevolmente, i “confini” non sono “stabiliti”, ma sussistono per imponderabile costituzione fatale, per cui la loro violazione, anche se involontaria, genera un “castigo” che ristabilisce l‟ordine infranto, non nei termini correttivi della “pena” giuridica, ma nel senso di manifestare all‟uomo il suo destino, cioè in termini esemplari. La pedagogia del Potere giuridico è “ricordati chi comanda”, mentre la pedagogia del Potere mitico è “riconosci chi sei, o uomo”. La consegna del Partenone era anche un ammonimento morale, non solo un imperativo pedagogico e teoretico, rivolto all‟uomo concreto, chiamato alla sua responsabilità etica. L‟ignoranza della universale norma della legge umana, non frena l‟esercizio della pena giuridica ma vulnera l‟astratto equilibrio del sistema, che reagisce con indiscriminata violenza sanzionatoria. L‟ignoranza, invece, del destino non intacca l‟equilibrio cosmico, ma compromette lo sviluppo della natura dell‟uomo, il raggiungimento del suo proprio destino. Questo destino, era esistenzialmente concreto, e quindi individuale, ma non era soggettivo se non quando debordava dai suoi limiti naturali. Esso infatti era essenzialmente sociale e perciò comune, dalla cui condizione derivava il fine etico dello Stato educatore della comunità politica. I limiti dello Stato, del suo potere, non erano giuridici, cioè razionali, ma erano dettati dalla stessa natura umana, la quale non era un prodotto dell‟uomo, se non nella misura della coscienza che egli ne aveva, ma costituiva la struttura ontologica della sua esistenza terrena, a partire dalla sua socialità politica. Sulla misura della “natura” umana, che era riferimento ontologico e non ideologico, il comportamento dell‟uomo trovava una sua regolamentazione normativa, la quale, prima di essere giuridica, cioè razionale, era etica, cioè sacrale. Nel momento in cui la vita sociale si concepisce come un prodotto razionale della volontà umana, e non più il riflesso del sostrato ontologico della sua costituzione naturale, le forme della costruzione sociale si legano al carattere arbitrario del pensiero strutturate, ossia a quella “coscienza” che segna i limiti della stessa razionalità antropologica, caratterizzata ideologicamente in ragione della sua funzionalità coerente al Potere che l‟esprime, anziché in ragione della sua conformità ai princìpi cosmici cui aderisce l‟uomo come essere naturale. La caratteristica della condizione naturale, rispetto a quella razionale, consiste nella sua originarietà e intrascendibilità, per cui se la 178
naturalità si può esperire vivendo, il livello di coscienza razionale no, poiché ciò implica una coscienza superiore, ossia una astrazione dalla vita concreta, impossibile nell‟esistenza naturale. questa è la ragione per cui le civiltà pagane divinizzavano i concetti astratti, la cui non concretezza era rappresentata come condizione divina e non umana. L‟inumano era l‟astratto, il non-concreto, l‟ideale, appunto. Nell‟orizzonte naturalistico, gli dèi vivevano ciò che gli uomini pensavano, che solo immaginavano. E‟ con l‟idealismo platonico che la dimensione già divina acquista valore di rappresentazione razionale di un cosmo coerente e adattato alle esigenze dell‟uomo, alla sua condizione finita, per superarla. In questo senso, facendo della coscienza razionale la natura propriamente umana, l‟uomo riesce a travalicarne i limiti che naturalisticamente erano insuperabili, emancipandosi a un tempo sia degli dèi che della necessità cosmica, facendo dell‟eroismo anti-fatalistico il valore precipuo dell‟esistenza umana idealizzata. Il carattere della razionalità cambia nei due casi. Nel caso della cultura naturalistica, razionale era conforme in senso ontologico; nel caso idealistico, razionale significa conforme al valore metafisico, alla logica sistemica che lo sostiene. Ciò che un tempo era l‟etica, ora diventa il sistema; ciò che era valore divino, diventa ora coerenza razionale. In senso filosofico, era molto più “aperto” il sistema culturale sacrale di Stato classico che quello razionalistico moderno, poiché il primo riservava alla istanza teoretica un riservato carattere trascendente, politicamente non disponibile, la cui infrazione pratica avrebbe provocato la reazione divina, la cui oggettività garantiva della stessa legittimità razionale di quell‟istanza. La indisponibilità della legge cosmica dava credibilità pubblica all‟appello filosofico, il quale, in virtù della sua imparziale referenzialità trascendente, costituiva la riserva decisiva nei casi di crisi della ragione politica, in alternativa al responso degli aruspici. Allorquando alla struttura ontologica del cosmo sociale sacralizzato viene sostituita la logica sistemica dell‟ordine sociale di una ragione auto-referenziale, il valore legittimante diventa la coerenza interna di un procedimento normativamente consequenziale, razionalmente previsto perché collegato alle sue premesse normative, volute dall‟uomo e subite dagli uomini in quanto soggetti al diritto, cioè alle sue regole. Nello Stato di diritto, l‟intervento eslege di un poter decisivo viene contemplato nello stato d‟eccezione, e non come la norma fatale del 179
potere mitico. I guardiani metafisici, gli dèi, vengono sloggiati dal loro presidio celeste, e tutta la sfera del Potere viene occupata dall‟uomo, artifex mundi e giudice di se stesso. Il fortilizio giuridico interamente umanizzato è “chiuso” a ogni incursione extra-sistemica, dalla quale ci si difende in nome di una “giustizia” costituita, e non solo rappresentata, dal diritto. La “giustizia” interna al sistema di diritto può dall‟esterno apparire anche “ingiusta”, poiché a decidere della sua qualità non è più la conformità alla verità trascendente e naturale, ma la sua coerenza immanente al sistema di ragione dominante, alla sua logica prevalente mercé la violenza della forza legalizzata. Si compre come, al cospetto di un ordinamento strutturato come un sistema di necessità razionale, ogni istanza extra-sistemica appaia rivestita di un valore relativo di libertà, comunque definito ideologicamente o metafisicamente. La logica del diritto come sistema normativo razionale tende sistematicamente a espungere e stigmatizzare come eversivo ogni elemento esterno non sussumibile né omologabile che si costituisca come elemento di verità, anziché di razionalità. La dicotomizzazione di una razionalità interna, intesa come criterio di compatibilità sistemica, distinta da una verità esterna, intesa come giudizio di incompatibilità sistemica, e quindi di indifferenza o di minaccia, isola il sistema giuridico all‟interno di una coerenza logiconormativa di carattere dogmatico che esclude dal diritto ogni “questione della verità”, cioè del senso e del valore del Giusto, traducendola nei termini positivi della “questione del potere”, cioè della fonte della legittimazione della legalità. Il problema relativo alla conoscenza della Verità e della connessa Giustizia, numi un tempo divini e quindi oggetto della riflessione filosofica, si traduce modernamente nel problema della “sovranità” del Potere. Stabilito “chi comanda”, se ne deduce la natura e i fini del Potere. La lettura razionalistica delle forme politiche, spaiato da un fondamento ontologico da cui derivare un criterio universale di Giustizia, riduce la questione del Potere a ingegneria costituzionale, a contenimento reciproco e bilanciato dei suoi segmenti giuridicizzati, inevitabilmente relativi alla sua immagine ideale. La pervasività del diritto è tanto più accentuata e insidiosa quanto più il Potere ripone nel suo sistema giuridico la sua legittimità immanente. Giuridicizzata, la violenza del potere diventa forza legittima, cioè coerente al sistema e, in quanto omologata, razionalmente necessaria. L‟aspetto magistico di questa conversione omologante dell‟altro al sé, è la 180
forma tipica di riconoscimento sociale della legalità giuridica, che coi suoi riti procedurali e le sue formule sistematiche perviene al suo scopo mistico, di eliminare l‟aleatorietà del potere mitico degli dèi. Il diritto, infatti, con la sua logica applicativa, elimina dalla sanzione divina quella discrezionalità punitiva che le conferiva una sfumatura pietosa e circostanziale, del tutto esclusa dal meccanismo sanzionatorio razionalizzato e impersonale. Il giudice “applica” la norma, e la sua interpretazione è vincolante perché a sua volta dogmaticamente vincolata dalla legge. Gli dèi sono terzi tra l‟uomo colpevole e il destino, la cui fatalità si adatta al loro carattere soggettivo e di quello dell‟eroe. Se la punizione interviene adattandosi alle opposte soggettività, se ne può costruire una “storia”, un racconto degli avvenimenti in sequenza originale e personalizzata. Il castigo mitico tiene conto delle circostanze umane, non le trasvaluta nei termini di una causalità astratta e uniforme tra maschere tipologiche. Ulisse non è Priamo; Menelao non è Achille. A essi non si applica una norma astratta e impersonale, valida erga omnes con la stessa necessità. Tra i correi, i compagni periscono e Ulisse sopravvive. Patroclo si immola all‟amicizia ma Achille non sfugge all‟incidente imprevisto e casuale. Ognuno, ogni eroe, “ha” una sua storia perché “è” una storia. Anche nel corso della fine prematura delle res gestae, come appunto la morte dell‟eroe, essa stessa carismatica. Perseo vince il destino e la sua storia eroica è intessuta di vicende che vedono la sfida come al centro della tensione narrativa. Socrate, invece, muore. Gesù, parimenti, muore. Il loro eroismo è costruito sulla sconfitta da parte del destino. Essi soccombono, ma non sono meno eroici di Ulisse vittorioso o di Perseo. La loro morte non è meno carismatica della vita dei loro amici e sodali, ma di più, perché la loro “storia” si proietta oltre la dimensione della memoria sociale, entro il cui orizzonte l‟eroismo misura la sua virtù evocativa. Non a caso i racconti platonici rappresentano una socialità non politica, come se la de-contestualizzazione del dialogo ne sublimasse i contenuti, proiettandoli nello spazio “altro” della metafisica rispetto alla circostanzialità fisica del loro carattere politico-sociale. Nei dialoghi platonici l‟eroismo epico viene riesumato come paradigma allegorico di un racconto puramente idealizzato, e perciò mondato di ogni sfumatura fisica e sociale, cioè mortale. Il dialogo teoretico abita un “altro mondo”, il regno delle anime senza corpo, cioè il mondo eterno dei morti. Il precedente culturale e letterario dei Vangeli, nel senso della storia soggettivizzata e personalizzata dei personaggi idealizzati, non va 181
rintracciato tanto nella Bibbia, dove il Personaggio dominante non ha storia né è storia, perché non ha antagonisti sullo stesso piano avvenimenziale, e neppure va rintracciata nei grandi racconti epici classici della letteratura greca., quanto piuttosto, appunto, nei dialoghi platonici, in cui i personaggi si stagliano dal loro contesto concreto per assumere una fisionomia del tutto simbolica, iconica. La “storia” tragica di Gesù è il racconto di un “eroe” solitario che lotta contro gli stessi uomini che vuole redimere dal male che infine lo sconfigge. Non è la vita di Gesù a vincere il Male – che è di vivere -, ma la Sua morte. Ciò vuol dire che il senso della vicenda esistenziale dell‟Eroe non è dato dal significato immanente al contesto rappresentativo, ma dal valore simbolico che trascende le sue stesse azioni, il cui significato autentico è perciò ri-costruito a posteriori, post mortem. E‟ nella morte la radice rappresentativa della fenomenologia hegeliana del “sapere” di verità, come “logica della morte”. Con la Morte di Gesù, le res gestae acquistano valore simbolico, ultra-rappresentativo, ermeneuticamente aperto a quella universalità di senso trascendente la circostanzialità culturale della sociologia politica, che l‟idealismo platonico ha preconizzato senza riuscire a farle diventare historia rerum gestarum. In questo preciso senso, la cultura greca era sprovvista di senso storico, pur costituendo il paradigma più raffinato di historiae simboliche di eroi mitici. E‟ la morte di Gesù a costituire il valore di senso simbolico della sua vita, e su quel modllo auto-veritativo si delinea una nuova coscienza storica rispetto a quella eroica tradizionali, i cui avvenimenti sono pregni di un significato ultra-rappresentativo ma non metaforicamente ideale, quale quello che i dialoghi platonici lasciavano sussistere come cifra dialettica del lògos. La vicenda di Gesù è tanto poco eroica in senso letterario classico quanto più è simbolica di una condizione umana universale e punto eccezionale, che però è altrettanto poco naturale, proprio perché mette in risalto l‟epica spirituale della morte, anziché quella biologica della vita. Il Mito, in Gesù, diventa storico. Il Lògos s‟incarna, e in quanto Verbum caro factum est non si limita a confermare un mitico inizio delle vicende dell‟umanità, ma le provvede di una fine, cioè di un percorso razionale, controllabile, accertabile dai segni della lettura provvidenziale; un percorso intelligibile, e perciò umano. L‟umanesimo cristiano coincide con l‟orizzonte storicistico della sua escatologia, mancante alla mitologia greca. 182
La storia di Gesù, come vicenda di Morte, ha un senso contrario a quello sociale, informato a una logica vitale, incentrata sulla fisica sopravvivenza e le arti umane per conseguirla o negarla ai nemici. L‟antropologia proposta dal racconto evangelico è una storia à rebours, non incentrata appunto sulla resistenza umana all‟edacità del suo destino mortale, ma al contrario fondata sulla deliberata accettazione della morte, di cui quella socializzata riflette il solo aspetto naturalistico, negativo rispetto alla positività della vita. La Morte del Vangelo è intesa come il riscatto simbolico dell‟uomo spirituale dai confini della mortalità fisica, limitanti l‟orizzonte esistenziale di una vita incapace di trascendere la sua dimensione socialitaria. L‟altro mondo, quello appunto dello Spirito, non prefigura un altro modo di vivere il sociale, ossia una rivoluzione politica, ma configura un piano che trascende la dimensione politica della vita umana, proponendo una socialità fondata sull‟agapè e non sulla politeia, sulla charitas anziché sull‟imperium. La vita eroica in Gesù diventa morte emblematica, sicché la vita di Gesù è la Sua morte. Solo la Morte trasforma il Mito da politico-religioso in storia universale. La vicenda della morte di Cristo diventa centrale nella storia dell‟uomo in quanto la ri-definisce come racconto dotato di senso, come “storia” appunto di vicende correlate al loro senso finale, che è un senso di morte, e non, come quello iniziale, di vita. Per la cultura classica, la vicenda umana riusciva a sublimare la morte solo consegnandola al ricordo. La “bella morte” era la morte memorabile, che liberava la vita passata da ogni ostacolo fatale. Ma la certezza fatale della morte non coincideva col suo senso umano. La morte era inscritta nella fatalità, ma non veniva spiegata come condizione risolutiva di senso retrospettivo. Si moriva come si viveva, con la stessa inevitabile fatalità biologica. A partire da Socrate, la morte diventa uno scandalo sociale perché metafisico, ma con Gesù diventa ontologico. Condannando Socrate la città politica colpiva a morte la filosofia. Con la morte di Gesù il Potere compiva la follia del deicidio. Come può morire un immortale? Come può il tempo porre fine all‟eternità? La città senza pensiero di verità è pura logica di potenza, che si converte in estrema follia. Lo sforzo di Platone è di ripristinare un senso metafisico esplicito, perduto con lo scandalo filosofico della morte di Socrate provocata da un Potere arrogante e cieco alla critica, che sopprime la voce della ragione della sua stessa legittimità razionale. Pensare il senso metafisico del Potere era l‟unica risposta emendatrice che l‟antropologia sociale antica potesse 183
razionalmente elaborare dopo lo scandalo socratico. Con la morte di Gesù, lo scenario si allarga allo stesso destino umano in quanto condizione naturale, in sé stessa non redimibile da una metafisica che non trascendeva la socialità politica. Solo in quanto persona spirituale, metasociale, l‟uomo poteva trascendere il suo orizzonte finito, naturale, politico e violento. L‟uomo di Gesù non è l‟uomo greco, il soggetto platonico, e neppure l‟uomo mitico, l‟eroe memorabile.l‟uomo cristiano è quello della Storia, che custodisce con la sua semplice esistenza un senso che non è fornito dai valori sociali e mondani, ma originario ed eterno. L‟uomo mortale diventa con Gesù depositario di un destino immortale. Da qui il valore simbolicamente liberatorio della morte di Gesù come “prova” testimoniale della verità della vita. Liberata dal significato naturalistico della sua condizione sociale, la vita umana perde l‟antico primato sulla morte, che diventa con Gesù il “vero” destino dell‟uomo, cioè il suo fine escatologico. La “vera” morte si sostituisce alla “bella morte”, ed è nella verità che la morte, e solo lei, è destinata a dare significato trascendente alla vita. Paradossalmente, nella prospettiva cristiana, non c‟è (vera) vita senza morte, per cui la sapienza profana diventa inutile ricerca del Bene nella vita, che con la morte “vera” ha perduto ogni senso immanente, ogni valore metafisico e persino esistenziale. Il Potere colpisce la vita, la carne, la finitezza dell‟uomo, anticipando la fatalità della sua condizione mortale, ma esso è impotente di fronte alla verità, che “non è di questo mondo” politico-sociale, in quanto riguarda appunto la dimensione eterna della Morte. La violenza, razionale nel mondo politico-sociale, diventa insensata nel regno spirituale, che prescinde dai corpi e dalla necessità di provvedervi. Nel Regno di Dio è l‟Amore il legame dell‟eternità tra gli spiriti senza vita fisica, le anime. E l‟Amore è un valore positivo in quel Regno, mentre resta in-definito in questo, dominato dalla logica della violenza. La non-violenza politica, nella prospettiva cristiana, non è resa al Potere, o astensione tattica, ma disimpegno dalla riduzione politica dell‟uomo a soggetto od oggetto di violenza. L‟altro regno, rispetto a quello politico, non pone la morte come deterrente nei rapporti sociali, ma lo pone come fine consapevole, che esclude quindi ogni dialogo umano fondato sulla minaccia del suo evento. Eliminando dai rapporti sociali la paura umana e naturalistica della morte, il cristianesimo ne trascende il piano politico che fonda l‟esistenza dello Stato e dei suoi apparati coercitivi, le sue istituzioni 184
giuridiche della violenza legalizzata, che scandalizzano la coscienza spirituale di Tolstoj. Nondimeno, la critica cristiana al regno politico condotta in nome, non della alterità logica dell‟idealismo dialettico, ma in nome della verità ontologica dell‟Essere spirituale, conserva la critica filosofica alla religione antica, e quindi ai fondamenti mitici della vita umana, lasciando, per così dire, scoperto il versante irrazionale dell‟esperienza sociale, dominato appunto da quei rapporti naturali che lo spiritualismo cristiano ritiene privi di valore assiologico, e quindi culturalmente inattendibili, mentre avevano costituito fino ad allora l‟orizzonte normativo sia privato che pubblico, ossia della stessa civiltà pagana. Screditato il Mito come fonte della razionalizzazione del cosmo naturale e antropologico, e assunta la filosofia come strumento di legittimazione razionale della Verità, l‟intera esperienza sapienziale della civiltà antica veniva trasvalutata in senso spiritualistico, rappresentandola, alla nuova luce veritativa, essa stessa complessivamente come un Mito. Solo privando, quindi, la vita umana del suo tradizionale valore mitico si poteva far trionfare la vera Storia dell‟uomo, la sua libertà spirituale, emancipandola dalla finitezza e dalle ambasce dell‟esistenza naturale. solo chi non dà valore alla vita, non teme di perderla abbracciando il destino di morte, che il martirio di Cristo rende politicamente scandaloso. Quando la logica immanente al diritto, la violenza, si tramuta in scandalo, il diritto ha perduto il suo potere legittimante, diventando mero esercizio formale di forza “naturale”, cioè irrazionale di fronte alla coscienza spirituale. L‟impotenza di Pilato viene confermata della violenza scandalosa della passione di Cristo, tanto più legittima quanto più cruenta. La Storia di Gesù comincia con la sua morte fisica sul Golgota, dive l‟ultimo colpo di lancia che la accerta chiude il rito giuridico del Potere politico. A partire da quel momento si inaugura la vera Storia, quella dello Spirito incarnato del secondo Adamo, che ha per protagonista non le nazioni politiche o culturali ma il “corpo mistico” di Cristo, la cui vicenda di amore e di passione, di fede e di martirio, sostituisce la costellazione delle vicende politiche delle culture spiritualmente pre-istoriche. La vera Storia dell‟Uomo non è più soltanto una vicenda memorabile per la sua eccezionalità, ma una esperienza vissuta per essere imitata, e non solo raccontata. Col Cristianesimo l‟epica eroica diventa storia comune, di ogni uomo, e ciò che era racconto mitico diventa la Storia dell‟umanità. 185
Nella nuova dimensione spiritualizzata, il rapporto tra gli uomini non è più discriminato attraverso la nozione di giustizia, ma di verità. ora la vita “giusta” può essere lontana dalla verità, per cui occorre non un percorso pedagogico di perfezionamento, ma un atto di “conversione”; non la classica paideia ma la novella metànoia.è ciò che rende il senso veritativo della Storia umana, a partire da quella dei singoli uomini, dalle storie singolari di ogni persona spirituale. Fuori della giustizia, cioè fuori del regno della violenza, l‟uccisione dell‟altro uomo non ha più alcun significato plausibile, per cui il relativo comandamento divino ha il significato di non voler costruire con la violenza il suo valore razionale, il diritto. “Non uccidendo, non instaurerò mai il regno della giustizia”.243 La giustizia salvaguarda l‟uomo fisico, la sua incolumità sociale, la sua vulnerabilità politica, ma non può intervenire a sanzionare la sacralità dell‟uomo spirituale, la cui differenza dal resto dei viventi non risiede più nella sua razionale socialità, poiché la nuova e cristiana sacertà non è la vita, come per l‟antropologia classica, ma la morte. La cola antica, e cioè la finitezza mortale, diventa ora motivo di riscatto, valore trascendente ogni criterio economico di socialità politica. Come scrive Benjamin, la critica della violenza è la filosofia della sua storia, [intesa come ricerca di un fondamento di legittimità] nell‟ambito delle forme mitiche del diritto, [e] sullo spodestamento del diritto insieme alle forze a cui esso si appoggia (come esse ad esso), e cioè in definitiva dello Stato, si basa una nuova epoca storica. 244
“Nuova” rispetto al mito giuridico dello Stato, la cui violenza si lascia riconoscere come tale, diversamente da quella divina, ma pur sempre stagione violenta, anche se di una violenza “pura”, e cioè purificata dalle antiche legittimazioni. Questa è la violenza rivoluzionaria, costituente un nuovo potere, cioè altra violenza legittimata giuridicamente a posteriori. Riprovevole è ogni violenza mitica , che pone il diritto, e che si può chiamare dominante. Riprovevole è pure la violenza che conserva il diritto, la violenza amministrata, che la serve. La violenza divina, che è insegna e sigillo, mai strumento di sacra esecuzione, è la violenza che governa.245
243 244 245
W. Benjamin, Op. cit., pag. 28. W. Benjamin, Op. cit., pag. 29. W. Benjamin, Op. cit., pag. 30.
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Ma se governa è violenza, e cioè Potere, come può il Potere stesso avere un‟origine divina da parte del Dio dell‟Amore? Non era questo unico Dio i solo dio che non governava il regno degli uomini ma li lasciava alla grazia dell‟Amore, liberi di edificare un altro regno, senza governo e senza quindi violenza?
8. La modernità si caratterizza dal superamento della concezione ontologica dualistica e l‟affermazione di una concezione monistica dell‟Essere, del tutto immanente al piano di esistenza, talché l‟essenza va a coincidere con essa quale “esse proprium” di “omne ens”246 La rimozione della trascendenza risolveva la possibilità che ogni ente giungesse al suo fine immanente senza l‟intervento divino, senza la mediazione celeste, ma per intima disposizione delle cose. Si indicò come fine degli enti non la loro destinazione etica, legata al “quia est” della loro essenza ideale, ma la loro potenzialità reale, legata al “quid est” della loro potenza fisica. Questo passaggio all‟essere proprio delle cose esautora l‟uomo da ogni ricorso trascendente la sua capacità speculativa, il potere cioè del suo “intelletto”. L‟antico uomo naturale, divenuto cristianamente uomo-dio, diventa modernamente “homo-homo” (Ch. de Bouvelle), sicché “alle origini della modernità, l‟asse della conoscenza passò dal piano della trascendenza a quello dell‟immanenza e, di conseguenza, la conoscenza stessa divenne un fare, una pratica che trasforma la natura”.247 La pienezza del piano d‟immanenza non solo eguaglia negli uomini la conoscenza perfetta di Dio, come voleva Galileo, ma lo stesso potere creativo. Va detto che, essendo il potere umano applicato alla natura metodicamente, esso è essenzialmente trasformativo. L‟uomo trasforma l‟essere della natura nell‟atto di cambiarne la destinazione da divina a umana. Intervenendo sull‟ente fenomenico, l‟uomo crede di modificarne l‟essenza immanente. Tale “passaggio” dall‟essere sacro all‟essere profano del mondo, costituisce il movimento ontologico tipico della cultura moderna laica. Ciò che appare rivoluzionario in questa serie di disposizioni filosofiche che vanno dal XIII al XVII secolo, è che i poteri della creazione, che erano stati in precedenza 246
Duns Scoto: “omne ens habet aliquod esse proprium”. M. Hardt – A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, 2001, pag. 81. 247
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riservati esclusivamente al cielo, vengono riportati sulla terra. Questa è la scoperta della pienezza del piano di immanenza. In questa prima fase della modernità, come nella filosofia e nella scienza, anche nella politica l‟umanità si riprende ciò di cui era stata espropriata dalla trascendenza medievale. Nello spazio di tre o quattro secoli il processo di rifondazione dell‟autorità sulla base della natura universale dell‟uomo e tramite l‟azione di una moltitudine di singolarità fu portato a termine con grande energia in mezzo a tragedie spaventose e con conquiste eroiche.248
Ma questo aspetto della modernità non fu l‟unico. Accanto al processo rivoluzionario immanentistico si sviluppò una reazione al potere costituente di tipo trascendente che in nome dell‟ordine tese a reprimere il desiderio di trasformazione del mondo storico-sociale. L‟apoteosi del pensiero della vita fu l‟Etica di Spinoza, che ribadì la mediazione come filosofia della vita, e non come sapienza di morte. Il legame sociale fu indicato nell‟amore, ma in senso alternativo al potere politico gestore di morte. Un “amore intellettuale”. Non ci si avvede che la contrapposizione tra le due istanze – d‟ordine e di libertà –nasce dalla forzata riduzione del molteplice all‟unità ideale e alla identificazione di questa unità con l‟unità politica della moltitudine (nazione, classe, popolo, etc.), che provoca la reazione dialettica delle forze morali storiche assimilate alla logica dominante. La reazione religiosa o politica, a seconda dei casi, consegue esattamente all‟ipotesi immanentistica che ha sconvolto l‟equilibrio europeo (post) cristiano, la quale, assunta dogmaticamente in origine come conquista teoretica di “verità”, è stata in seguito derubricata epistemologicamente come teoria scientifica di conoscenza della realtà destinata, come ogni analoga ipotesi di scienza, a essere confutata empiricamente nel futuro. La persistenza di una situazione “rivoluzionaria” accanto a una “giuridica” attesta nei fatti, cioè storicamente, l‟inconsistenza del riduzionismo ontologico, interpretato dai suoi apologeti come processo incompiuto o sabotato, da riprendere incessantemente. Ma i limiti della persistenza di tale situazione moderna, se si definiscono con la diffusione della logica scientifica oggettivistica anche in campo metafisico, rimontano e sono attribuibili alla strutturazione del mondo cristiano-imperiale come cosmo teologicopolitico fondato sulla giustapposizione della logica d‟ordine sociopolitico, contro la quale si era simbolicamente opposta la predicazione carismatica di Gesù, fautore di una relazionalità comunitaria di tipo 248
Ivi, pag. 82.
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fraterno e non politico, e la istanza di liberazione spirituale, oggetto di quella predicazione, la cui aspirazione veniva repressa dall‟opposto principio d‟ordine giuridico-statuale di cui la Chiesa istituzionale si faceva garante morale e socio-culturale. Nell‟ambito della strutturazione imperiale del Cristianesimo romano, l‟ordine gerarchico di valori eterogenei e opposti poteva convivere e confondere l‟ordine cosmologico della teologia dogmatica con l‟ordine giuridico-politico della società cristianizzata. Ma appena il sistema imperiale s‟incrinò dando vita al movimento centrifugo nazionalitario, a seguito della Riforma protestante, anche la logica sistemica che lo sosteneva culturalmente, e cioè l‟oggettivismo ontologico-metafisico tomista, si rivelò inadatta a legittimare teoricamente il nuovo ordine storico. Da qui la genesi della tipica “crisi” del pensiero e della sovranità dell‟età moderna, lacerata culturalmente dalle opposte istanze ideali che la mediazione istituzionale ecclesiastica aveva sincretisticamente composto. Se non si collega il fenomeno della modernità con le sue origini ideali, la “rivoluzione” immanentistica e monistica finisce per essere la manifestazione di una illuminazione teoretica sorta ex abrupto, fuori di una processualità dialettica che, prima della posizione antagonista, deve presumere quella antitetica ad essa, rispetto alla quale si è sviluppata la tesi modernista. Lo stesso affermarsi del capitalismo come logica economicistica universale, va compreso all‟interno del processo di secolarizzazione dei valori socio-politici e della riduzione della funzione etico-politica del Potere a tecnica di ordine giuridico-formale autofondata e legittimata dalla sua sola efficacia sistemica. La conseguente riduzione della politica a funzione economica di garanzia dell‟ordine sociale come movente teleologico immanente al Potere, genera la sua qualità razionale primaria, che diventa esclusiva con la globalizzazione capitalistica contemporanea, a seguito della fine degli Stati nazionali moderni, la quale afferma in termini coerenti la nuova definizione del Potere come “bio-potere”. La bio-politica è l‟assolutizzazione del principio di riduzione della politica da forza etica a movente economico, che segna il dominio della cultura razionalistica e secolaristica su quella mitologica e teologica della tradizione. La mediazione metafisica della logica trascendentale va considerata in parallelo alla mediazione sociopolitica della teoria giuspubblicistica della istituzione giuridica, prodotti entrambi del pensiero razionalistico moderno.
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Soltanto con la logica dialettica di Hegel si perviene, con la consapevolezza della natura del pensiero moderno e della sua crisi, al cosciente tentativo teoretico di un suo superamento e conseguente fuoriuscita dalla modernità. Ma la grandiosa sintesi di pensiero classico e di pensiero moderno avanzata da Hegel, fu osteggiata e respinta dalla logica istituzionalistica della Chiesa e dello Stato secolarizzato, riaprendo i termini della crisi moderna tra opposto fautori dell‟ordine trascendentemondano e della libertà messianico-sociale, ognuno convinto interprete di una mitologia avente in sé la sua dialettica ideale e quindi integralisticamente totalitaria, le cui opposte pretese egemoniche riaprirono antiche ferite morali e culturali di portata bellica ancora più devastante perché ormai mondiali e condotte con strumenti offensivi ben più forti dei vetusti anatemi. La “crisi” dell‟umanesimo moderno segna infatti implicitamente anche la fine della teologia, di cui era la risposta antitetica e il polo teoretico dialettico, per cui la pretesa affermazione dell‟uno contro l‟altro universo di pensiero, generando per reazione negativa il reciproco opposto, dimostrava storicamente l‟impraticabilità ormai di entrambi i percorsi, legati all‟arcaico paradigma antagonistico del Mito e della Filosofia, aggiornato in moderna tensione tra teologia e razionalismo, che la sintesi cristiana aveva composto con la sintesi ideale del Dio-Uomo. Hegel intese partire dall‟esigenza di ricomporre quella sintesi in una nuova rappresentazione universale delle polarità dialettiche, laddove le opposte tesi liquidatorie della “morte di Dio” e della “morte dell‟uomo” non apparivano risolutive, perché negavano il problema stesso del fondamento ontologico del sapere. Mentre il (neo) naturalismo di Spinoza liquidava il pensiero di Dio, che invece era connaturato all‟idea classica di Natura, anche se in chiave non umanistica, propria invece della teologia cristiana; il più recente naturalismo ateo inevitabilmente finiva per negare lo stesso pensiero dell‟uomo, cioè la sua civiltà storica e spirituale, il cui sovvertimento, politicamente più o meno rivoluzionario, se destruttura il vecchio mondo, nulla dice sulla possibilità dell‟uomo “liberato” dalle catene del sacro di costruire un regno terreno “libero” dalla stessa necessità della Natura. In questo silenzio della ragione, l‟anelito razionalistico si converte nel suo opposto dialettico, nell‟irrazionalismo di chi pensa che l‟intera esperienza storica dell‟uomo, la sua civiltà in ogni sua espressione locale-temporale, sia priva di senso razionale e di sentimento morale. Come ben riassumono Hardt e Negri, 190
c‟è una stretta continuità tra il pensiero religioso che concede a Dio il potere sulla natura e il moderno pensiero “secolare” che concede il medesimo potere all‟uomo. Come Dio prima di lui, anche questo uomo che se ne sta separato [si noti!], al di sopra della natura, non trova posto in una filosofia dell‟immanenza. Come Dio, anche questa rappresentazione trascendente dell‟uomo implica direttamente l‟imposizione [si noti!] delle gerarchie sociali e il dominio. Così concepito, l‟antiumanesimo, che è il rifiuto [si noti!] di qualsiasi trascendenza, in nessun modo dev‟essere confuso con una negazione della vis viva, la vivente forza creativa [si noti!] che anima la corrente rivoluzionaria della modernità. Al contrario, il rifiuto [si noti!] della trascendenza è la condizione di possibilità per pensare la potenza; il fondamento anarchico della filosofia [si noti l’ossimoro!]: “Ni Dieu, ni maistre, ni l‟homme”.249
Partendo dall‟identità di Dio e Uomo, e dal capovolgimento dell‟ordine gerarchico che dalla teologia della creazione porta all‟umanesimo di Feuerbach, si giunge alla teoria dell‟immanenza umanistica e antiteologica del secolarismo moderno. Questa teoria, sostituendo alla potenza di Dio il Potere dell‟Uomo, ha divinizzato la sua creazione, massimamente rappresentata dallo Stato, ente potente per antonomasia. Ma, anziché ripensare le ragioni della doppia implosione ideologica del neologismo e dell‟umanesimo ateo, la teoria della “rivoluzione”, cioè della reazione violenta a ogni struttura di Potere, ipostatizza la tensione negativa dell‟opposizione a ogni positività, facendo della “vis viva”, cioè appunto del Negativo, il feticcio divinizzato di una impossibile positività o stabilizzazione della tensione vitale, riportando l‟esperienza umana a quel bios indistinto che annulla ogni ragione di esistenza distinta da quella meramente naturalistica, dalla quale si è emancipato l‟uomo razionalizzando appunto quella originaria vis. Il ritorno alla natura attraverso la sovversione di ogni creazione storica, è il ritorno al caos primordiale. Ma la tesi che lo propugna mostra la sua natura puramente desiderativa e irrazionale allorquando rimuove la questione essenziale della sua realizzabilità, ossia la previsione di un Potere che operi il “passaggio” dallo stato storico-civile dell‟uomo a quello naturale-caotico. In altri termini, la teoria negazionista della razionalità della civiltà omette di considerare la fondamentale “questione del Potere”, coincidente con la necessità di creare un ordine, ossia appunto una “civiltà” umana. Ritenere che il regno della Natura non abbia la sua logica del Potere, oppressiva per l‟uomo, equivale a negare il suo 249
M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., pag. 98.
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stesso processo di emancipazione storica, e quindi la stessa realtà in opposizione alla quale si pone lo spirito rivoluzionario. Ma è proprio questo “sonno della ragione” a consentire la permanenza dell‟uomo nella caverna popolata di “mostri”, e cioè di falsi feticci e di superstiziosi poteri. Questa posizione naturalistica, o biologistica, come più piace, fatta risalire a Foucault, è in verità proposta primieramente da Freud, ai citato dai due co-autori rivoluzionari, il quale Freud, proponendo la liberazione dalla prigione della civiltà oppressiva, dimenticava di considerarla come il presupposto di quella agognata libertà dei sensi e dei sentimenti, senza il quale presupposto la stessa liberazione veniva a mancare del suo senso relativo e oppositivo. Dimenticare Dio e la civiltà dell‟uomo, significa abitare il Nulla, entro il quale non c‟è niente di oppressivo ma neppure nessuna libertà dall‟oppressione. Il rapporto tra il princpe e il suo popolo, nella logica nazionale della fondazione politica e non più patrimonialistica dello Stato, venne visto da Bodin nei termini di una riduzione dell‟uno al‟altro come superiorità di forza politica, dalla quale far scaturire la sovranità. Spostando la questione del Potere dal criterio di legittimità alla sovranità intesa appunto come potenza politica, Bodin trasforma il valore ideale della socialità nel valore oggettivo della sovranità, caratterizzato dalla fisicità del potere come “plenitudo potestatis”, ossia come condensato unitario di tutti i molteplici poteri statali. La “unità” del potere non è più intesa come identità ideale di valori etici e di forza rappresentativa nell‟azione di governo, ma come riferimento potestativo unitario nel principe di ogni singola determinazione infra-statuale. La strutturazione gerarchica interna non avviene più per progressiva partecipazione al valore superiore alle parti attraverso la mediazione del maggiore al minore in ordine alla relativa posizione sociale, ma per delega sovrana, ossia in virtù di un frazionamento funzionale dell‟unico Potere sovrano che tutti li incorpora e li costituisce presso di sé da cui dipendono. Questo criterio specializzato del Potere annulla le libertà locali relative alla maggiore o minore distanza dal centro da cui dipendono, poiché ogni potere minore è un effetto della disposizione sovrana, per cui ogni sua articolazione è egualmente subordinata alla forza che la determina e da cui origina. Sicché, l‟uguaglianza periferica dal centro emanatore sovrano fa di questo la fonte della sovranità, non più proveniente da Dio o da un principio di legittimazione etico. Questo il senso dell‟ “assolutismo” del Potere, ossia della sua auto-fondazione nella forza soverchiante su ogni altro potere 192
minore. Ora, che tale Potere sia delegato dai sudditi convenuti in un patto civile, o sia creato dalla volontà autonoma di un demiurgo politico, ciò che conta è che esso sia l‟inizio e la fine della sovranità, la fonte della sua stessa sussistenza sociale, che non ha niente e nessuno sopra di sé. in questa sorta di neutralità etica del Potere efficace, il principio per cui “omnia potestas a Deo”, per la sua indistinta applicazione a ogni potere, dal più crudele al più cristiano, finisce per avallare ideologicamente e moralmente l‟esercizio assolutistico e razionale, cioè funzionalmente commisurato al rapporto tra mezzi e fini, che vuol dire tra forza e scopo di sopravvivenza. Il principio democratico si basa sul rovesciato rapporto di trasferimento del Potere, dalla periferia al vertice, anziché l‟opposto, ma sullo stesso principio emanatistico della sovranità. La teoria contrattualistica rendeva il movimento del Potere nel senso biunivoco della emanazione e della ricezione attraverso un sistema di amministrazione delegata funzionale al mantenimento dell‟apparato complessivo. Il circuito tra sovranità e obbedienza si chiudeva su se stesso, duplicandosi, moltiplicandosi ed estendendosi attraverso il sociale. La sovranità non veniva più analizzata dal punto di vista degli antagonismi prodotti dalla crisi della modernità ma, piuttosto, come un processo amministrativo che articola gli antagonismi e che mira alla creazione di una sintesi unitaria nella dialettica del potere, astratta e reificata attraverso le dinamiche della storia. Un segmento importante della scuola giusnaturalistica elaborò allora l‟idea di distribuire e articolare la trascendenza della sovranità nelle forme effettive dell‟amministrazione. La sintesi, che rimase implicita nel giusnaturalismo, fu esplicitata dallo storicismo.250
La soggettività del Potere può articolarsi storicamente in forme istituzionali diverse ma resta concettualmente unica e unitaria. La costituzione politica dello Stato nazione deriva la sua legittimità etica dal suo stesso prodotto, la nazione appunto, che in seguito ai processi rivoluzionari prese a identificarsi a sua volta col popolo. Il concetto di “popolo” come ente politico unitario era presente già in Hobbes, il quale lo distingueva dalla “moltitudine”, cioè dall‟aggregato informe e non unificato dal principio politico. il “popolo” possiede una volontà unitaria, esso si identifica con la sovranità e quindi col re, con colui che comanda. La moltitudine, invece, non è unificata da un concetto unitario-identitario, ossia da un principio di socialità che, nello Stato moderno, è puramente 250
M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., pag. 104.
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ed esclusivamente politico-giuridico. Se classicamente la condizione naturale di socialità umana era quella politica, con la traduzione in termini secolaristici della personalizzazione spiritualistica cristiana quello della costituzione sociale diventa una questione storica, non più un connotato antropologico, per cui sia gli aggregati di tipo naturalistico che di tipo etico vengono a perdere sociologicamente la loro funzione coesiva in quanto non pre-disposta secondo un criterio razionale di scopo, di tipo precipuamente politico. Ora, questo principio unitario di tipo politico viene inteso come originariamente costitutivo sulla sola potenza di comando e di amministrazione dello Stato apparato, per cui ogni ideale socialitario diventa extra-razionale perché meta-sistemico, ingenerando la convinzione che la definizione etica dell‟unità politica fosse un posterius ideologico rispetto alla formazione storica dell‟atto costitutivo originario dello Stato. Tale supposizione provoca, dapprima, la possibilità di costituire tanti aggregati statali quanti ne consente il potere dei sovrani regionali, ormai auto-sussistenti e sganciati dalla dipendenza anche formale dalla sovranità dell‟imperium universale, e quindi, la “nazionalizzazione” ideologica delle masse sottoposte al potere politico statuale, tale da sostituire metodicamente ogni forma residuale di socialità etica con la sola forma politica, l‟unica razionalmente legittima. Le ideologie nazionalistiche storicizzano i valori astratti dell‟identità politica dell‟universalismo razionalistico, identificandoli con la realtà esistenziale degli Stati nazionali. Questa dialettica della reificazione dei valori non ne elimina l‟originaria astrattezza razionalistica, ma semplicemente la determina politicamente facendo di essi degli idola tribus. Al livello pre-civile, “fuori” dell‟ordine politico, e cioè della razionalizzazione dei rapporti sociali attraverso la creazione del sistema giuridico-istituzionale di formalizzazione dei comportamenti sociali; al livello dove la “moltitudine” non è composta in “popolo”, la resistenza all‟”ordine” inteso come “volontà di essere contro”, non prospetta necessariamente una “disobbedienza all‟autorità”,251 quanto una esclusione dalle ragioni della socialità. Ripensare i termini della socialità significa riabilitare quel trascendente che la visione immanentistica e monistica aveva identificato con il sistema del Potere vigente, efficace. E nello stesso tempo, ri-definire le condizioni di con-vivenza fuori di una 251
M. Hardt–A. Negri, Impero, cit., pag. 201.
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logica spazializzata del territorio giuridico. La questione fondamentale è se la logica del Non possa trasformare l‟opposizione esclusiva al sistema in con-struzione di un altro modo di co-esistenza. la differenza tra il modo rivoluzionario e quello (vetero) cristiano di pensare l‟opposizione è l‟accettazione o meno della logica politica come strumento funzionale al fine edificatorio dell‟alternativa al sistema attuale di Potere. la “liberazione” del messianismo marxista è una modalità politica di alternativa, laddove l‟opposizione di Gesù è anti-politica, e perciò stessa anti-sistemica e anti-statale. L‟esito delle rivoluzioni comuniste ha mostrato che l‟adozione del metodo politico come liberazione dal Potere porta alla ricostituzione di un Potere altro rispetto al precedente, ma stesso per metodi oppressivi di costituzione del sociale. Il Potere bio-politico ha già portato il livello di astrazione economicistica del suo presupposto ontologico-sociale negativo a livello meta-statuale, globale, per cui ha superato il problema di “disciplinare la potenza della moltitudine”.252 semplicemente rivolgendosi all‟unità individuale concreta del suo oggetto di Potere: l‟uomo-consumatore, particella legale indivisibile della sovranità politico-consumistica. Il riferimento diretto, non mediato politicamente, al‟atomo sociale lo trasforma in atomo biologico, facendo della socialità (societaria o comunitaria che sia) una variabile indipendente ed essenzialmente irrilevante ai fini della sussistenza del rapporto col Potere astratto. Ciò comporta che il problema di “identificare il nemico contro cui ribellarsi” si disloca dal piano giuridico-formale a quello personale-coscienziale, facendo del singolo soggetto personale il luogo della competizione dialettica, della “lotta” pro o contra il sistema normativo. Non è la lotta rivoluzionaria che ha scardinato il sistema di Potere statuale, ma la sua stessa tecnicalità neutra ha consentito di approfondire la soglia dell‟astrazione sociologica attraverso il passaggio dal normativo all‟informale, dal politico e giuridico alla “vis viva” della prassi autonormativa o “creativa” del consumo fine a se stesso, funzionale all‟ordine anarchico capitalistico. Il “non luogo” imperiale è appunto la rimozione della forma giuridico-statuale del soggetto atomico assoluto, attraverso la coerente applicazione teorica del principio soggettivistico e anti-sciale di origine cristiana e quindi razionalistico-liberale. Il monismo ontologico, “reificato” in monismo sociologico, riporta in scala esistenziale il 252
M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., pag. 202.
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riduzionismo metafisico moderno come realtà estrema del principio d‟immanenza, che vede nell‟ “uomo singolare” la concreta realtà analitica di ogni sapere razionale e di ogni azione di Potere razionalizzata. Dalla soggettività divinizzata alla soggettività del consumatore, si dispiega l‟intera parabola della cultura anti-socialitaria cristiana e moderna, fino all‟estrema negazione dell‟umano nel naturale e nel biologico, cioè nell‟anti-civile. La lotta “contro” l‟ordinamento storico-sociale custodisce in nuce il suo fine di negazione della civiltà umana per la costruzione di un altro mondo, di un altro Regno. Ogni movimento di “liberazione” si infrange nei limiti del proprio successo, nel dopo emancipazione dal Potere. a partire dalla rivoluzione cristiana, la destrutturazione del sistema sociopolitico ha interessato i fondamenti di legittimità, rimossi i quali la questione dei mezzi politico-tecnici del Potere è rimasta impregiudicata attraverso l‟assunzione del loro presunto valore neutrale, funzionalizzato ai nuovi fini rivoluzionari. Ma il percorso storico di questa neutralizzazione-conservazione degli strumenti del Potere per fini di contro-potere, si è rivelato contraddittorio e auto-confutativo, rendendo il Potere anonimo e astratto, spesso non riconoscibile ma comunque sempre più efficace e subdolo. E „origine di questo processo coincide con il sincretismo paolino della Verità dell‟altro mondo tradotta nei termini umani della sapienza razionalistica pagana, essenzialmente monistica e socialitaria. L‟ipotesi di poter fruire della ragione e della politica a fini edificatorii di un modello comunitario veritativo-intuitivo e a-politico, si è storicamente rivelata inconsistente e violentemente contraddittoria. Ma era questo il senso dell‟offerta spiritualistica di Gesù? In altri termini, il “dare a Cesare” era un invito alla quiescente conservazione dell‟ordine politico, o piuttosto un‟esortazione a dismettere l‟uso degli strumenti politici al fine di rendere inservibile la struttura di Potere statuale che li utilizzava per la sua sussistenza? Non già, dunque, negare l‟Impero per conservarne gli strumenti del Potere, ma negare l‟uso degli strumenti per abolire lo Stato imperial-sociale. Il percorso della Chiesa romanizzata e cattolica è stato diverso. Un percorso compromissorio, che ha utilizzato gli strumenti politici della ragione del Potere per convertirli ai propri fini, rivelatisi terribilmente e inevitabilmente mondani. Così, dall‟Impero politico alla Chiesa politicizzata, il cristianesimo storico si è limitato a sostituire gli antichi numi della città pagana con l‟unico Dio dell‟universo, e a convertire i 196
mezzi antichi al nuovo uso finale, contraendo un ibrido connubio che ha distrutto la città degli uomini senza costruire la città di Dio in terra L‟esito di questa ibridazione metafisica di ragione e verità è la dissoluzione del fondamento sociale dell‟ontologia naturalistica classica e la conseguente estinzione del rapporto naturale originario dell‟uomo, la famiglia, modello ideal-tipico di ogni costituzione sociale. La reinvenzione del patto sociale attraverso il nuovo principio socialitario del‟Agapé si è limitato alla costituzione virtuale di un “ordo amoris” trascendente l‟ordinamento sociale storico, per cui la coesistenza di due princìpi di convivenza – l‟uno politico e l‟altro fraterno – ha reso possibile la duplice dislocazione del cristiano ecclesiastico e del cristiano civile, alla cui mediazione si è posta la Chiesa, istituzione ibrida tra Stato e Comunità di fede, resa possibile da una sorta di specializzazione del lavoro all‟interno della società cristiana, per cui i chierici assumevano in proprio la funzione ermeneutica di custodi del Verbo. All‟origine di questa duplice possibilità c‟è la definizione della figura di Gesù. Così come la sua morte è l‟ante-fatto della sua divinizzazione e del suo culto divino, così parimenti la morte dello Stato nella coscienza di Socrate e la crisi del IV secolo a. C. della polis segnano l‟ante-fatto della sua teorizzazione idealistica da parte di Platone e di Aristotile. Si vuol dire che la trasfigurazione in termini idealistici della realtà si realizza come coscienza dell‟evento di morte, e non come partecipazione critica all‟evento vitale, alla prassi politica. in ogni caso, sia in ambito sacro che profano, la definizione razionale del processo vitale si costituisce in ragione della fine di quel processo, per cui l‟essenza ideale di un processo vitale è sempre una essenza-di-morte, giusto l‟insegnamento di Hegel. A questo proposito, parlare di un cristianesimo durante la vita di Gesù è parlare di uno statalismo immanente allo spirito sociologico pagano, è incongruo e fuorviante, poiché la divinizzazione del “fatto” come “valore” ideale trascendente la sua storica fenomenicità presuppone la sua “fatticità”, la sua dimensione di evento mortale. Se l‟idealismo platonico sorge dalla morte della città antica, il Cristianesimo nasce dalla morte di Gesù, come sua idealizzazione e mitizzazione. La trascendenza della vita in idea, cioè in ragione della morte dell‟evento fenomenico, è una sua mitizzazione, ossia trasposizione nel regno dei fini. Il “passaggio” dal reale all‟ideale è l‟assunzione del fenomeno alla sua essenza, al suo essere. L‟ “essere” di un fenomeno equivale al trascendimento della sua realtà mortale, finita. Ciò che finisce 197
è ciò che prelude a quanto segue, è ciò che è “mezzo” per un fine ulteriore, per cui trascendere la finitezza fenomenica significa consegnare il “mezzo” mortale della sua condizione finita al “fine” della sua natura ideale. Idealizzare un fenomeno significa dunque trascenderne la morte, la sua finitezza, trasponendolo, passandolo, al regno dei fini, al suo “essere”, oltre il quale c‟è il niente. Ciò che passa è il fenomeno, mentre ciò che è è il noumeno, l‟essenza del fenomeno, la sua “idea”. Il “passaggio” dall‟uno all‟altro “regno” segna la morte di ciò che trapassa e insieme la sua risurrezione. In questo senso, la morte di Gesù e la sua resurrezione segnano il processo di idealizzazione della sua vita in mito di morte. La morte-resurrezione come mediazione tra l‟ente e l‟essere costituisce l‟unico luogo simbolico e metafisico dove si incontrano le due nature dell‟Essere quale fenomeno molteplice, e dell‟Essere come unità ideale. Ciò vuol dire che la vita di Gesù diventa Mito cristiano solo attraverso la morte dell‟Uomo che rinasce come Dio. prima di questo evento di morte, la divinizzazione di Gesù è atto blasfemo e idolatrico. Il “figlio dell‟Uomo” è uomo, profeta, e non dio. Diventa Dio solo a seguito della morte come uomo. Nel suo valore simbolicamente paradigmatico, anche il cristianesimo storico, come Chiesa, può passare al suo valore essenziale solo morendo al mondo come potenza umana, come Potere politico, per diventare realtà ideale, Mito. D‟altronde, anche nel giudaismo arcaico l‟affermazione del monoteismo consegue all‟esodo babilonese dopo la distruzione di Gerusalemme. Il mito fondativo del Cristianesimo sostiene la sua etica dell‟amore, che diventa il principio di socialità della comunità dei credenti e il fondamento stesso del sistema simbolico innovativo rispetto a quello giudaico, dal quale si produce il nuovo linguaggio rituale e la annessa ermeneutica del senso significativo della liturgia. La divinizzazione di Gesù realizza la sintesi storico-escatologica del divino trascendente e dell‟umano immanente. La nuova religione nasce con il sacrificio della vita umana, cioè come promessa di vita eterna attraverso la morte simbolica dei valori mondani. A quel punto la testimonianza cristiana poteva interpretarsi come attesa escatologica della resurrezione dalla morte terrena, ovvero come realizzazione del Regno spirituale in questo mondo. Sia il mito escatologico che il mito rivoluzionario sono compresenti nel Mito cristiano originario e costituiscono le possibili esegesi radicali dell‟evento fondativo. La dialettica del moderno nasce
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dalla dissoluzione del sincretismo cattolico, e non è punto un dato peculiare originario del pensiero secolaristico. La crisi moderna si manifesta come eresia dal “canone”, cioè come presa di posizione ermeneutica rispetto all‟esegesi canonica istituzionalizzata. Il “canone” è la sintesi teologica stabilita e imposta come precetto giuridico, cioè verità di diritto. La “rivoluzione” moderna costituisce la rottura del monopolio ermeneutico ecclesiastico, a partire dalla Riforma e continuata col razionalismo. Il razionalismo moderno persegue col Cristianesimo divenuto religione imperiale ciò che il platonismo fece con la mitologia classica e lo stesso cristianesimo con la mitologia romana, ossia la razionalizzazione del mondo attraverso la rielaborazione del Mito. Il cristianesimo nasce come rielaborazione della Thorà, cioè della dogmatica ebraica. La rielaborazione cristiana della Parola divina in nome della Verità costituisce non solo una critica della religione, cioè del Mito religioso, che tradizionalmente la costituisce, ma anche del ceto religioso che se ne fa interprete e custode. In altri termini, la stessa predicazione di Gesù è stata, nei confronti della religiosità ebraica, a suo modo una riforma ermeneutica, e quindi filosofica. Nondimeno, sulla “regola del canone” si basa la stessa vita comunitaria cristiana, il cui statuto giuridico, la “regola della comunità”, coincide con la modalità della mistica unione con Dio. ciò significa che all‟interno della comunità di fede si realizza già quel rapporto mistico di socialità d‟amore annunciato da Gesù e non ancora realizzato nel mondo profano. Da qui l‟opera di evangelizzazione universale e l‟inclusione nel corpo mistico cristiano di tutte le genti intese come “moltitudini”, cioè come unità di individui e non come nazioni politiche. La nazione politica era l‟unità imperiale, retta dai princìpi del diritto romano. La nuova comunità era una unità mistica, unificata sul fondamento del Mito escatologico cristiano. Due distinti princìpi di socialità per due diverse unità mondiali: l‟Impero politico e il Regno spirituale. L‟idea agostiniana di comunità cattolica dei fedeli non entra in concorrenza politica con la società romana, ma con i suoi fondamenti sociali tari. L‟ “altro” Regno era fondato su presupposti social tari diversi da quelli politici, per cui si andava costituendo su un “altro” piano fenomenologico, trascendente quello sociologico di tipo politico. Sul fondamento veritativo – e non su quello d‟ordine – si costituiva un‟ “altro” città, quella cristiana, non controllabile dal diritto perché spirituale e trascendente. La forza di penetrazione del Cristianesimo nel tessuto sociale imperiale era legata a 199
questa incommensurabilità del fine trascendente con quello immanente del Potere imperiale, che consentiva di sorvolare il divario dei “mezzi”, e quindi di aggirare gli ostacoli giuridici, per concentrarsi sulla questione dei fini della esistenza umana. Diversamente da altre forme di opposizione al Potere, che abbracciarono il metodo dell‟immanenza dei fini ai mezzi legali / illegali, l‟idea agostiniana dell‟anti-Potere non si tradusse coscientemente in contropotere, il politica alternativa, ma si costituì sempre come alternativa alla politica. Questa strategia di proselitismo consentì al Cristianesimo di ripensare le categorie teoretiche della cultura pagana in termini nuovi e compatibili – adattati – coi fini spirituali escatologici, in modo tale da neutralizzarne il senso immanente. L‟innesto della cultura pagana nei fini cristiani l‟ha assunta come proprio “mezzo”, trasponendo l‟originario rapporto che essa aveva coi suoi fini all‟interno dei propri fini escatologici. L‟inserzione del sapere antico, segnatamente della filosofia greca, nel finalismo cristiano, ha interrotto il rapporto razionale tra premesse epistemiche e sequenze logiche dello sviluppo filosofico e politico, facendo della tradizione classica un sapere “senza fondamenti”, astratto e puramente “tecnico” rispetto alla originaria funzionalità sistemica, e della tradizione cristiana un Verbo divino del tutto dipendente dall‟espressione umana, lasciando pertanto incolmabile quel divario tra l‟Infinito senso divino e la finitezza esegetica umana su cui l‟idealismo filosofico basava la sua metafisica. Nel contesto universalistico cristiano, il piano di mediazione non era più, come per l‟idealismo classico, la società politica, ma la Storia, rispetto alla quale, diversamente dallo Stato ideale platonico, la città di Dio rimaneva su un piano di trascendenza non attingibile umanamente. La differenza ontologica tra la realtà divina e quella umana non era dunque rappresentabile in termini idealistici, per i quali la realtà umana era una copia, sia pure imperfetta, del consustanziale mondo ideale, sicché il servizio ancillare della filosofia, per quanto razionalmente elaborato, non riusciva a contenere quella differenza con gli strumenti logici, adatti originariamente alla dimensione delle verità sociali. La stessa ammissione di una “doppia verità”, una di fede e una storica, minava alle fondamenta il costrutto religioso del razionalismo teologico, il cui apparato dogmatico divenne molto simile a un sistema giuridico funzionale all‟ordine politico di quello Stato sui generis che era la Chiesa, quel sine nomine monstrum
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nato per essere una libera comunità di fede e che divenne viepiù un‟istituzione di Potere. Il capovolgimento dialettico della Chiesa era inscritto nella stessa logica idealistica, che trasferì nelle strutture istituzionali del Potere politico la stessa esigenza metafisica di rispecchiamento logico tra reale e ideale, ontologicamente impossibile e quindi foriero di incessante violenza, in sé irrazionale e sempre “banale”, perché tesa a colmare l‟incolmabile divario tra l‟unità ideale e i concreti enti molteplici. La stessa operazione logico-politica fu tentata dal marxismo con l‟economia classica e la logica hegeliana, finendo anch‟essa, mercé il trionfo di una ragione neutralizzata immanente ai “mezzi” dirottati ad altri fini rispetto a quelli originari, con un clamoroso e violento capovolgimento pratico in senso totalitario della sua teoria liberatrice. Con la fine dell‟ordine cristiano-cattolico, i due elementi sincretistici si sono emancipati dalla sintesi idealistica della teo-logia tomista, percorrendo ognuno la sua strada teoretica, senza peraltro riuscire, dopo la neutralizzazione dei fondamenti epistemici, a riconquistare l‟originaria funzionalità logica, rimanendo pertanto sospesi in una precaria autoreferenzialità fideistica. Con l‟implosione sistemica dell‟universo di senso teologico, la cristianizzazione della cultura antica si presenta agli occhi disincantati dello storico razionalista secolarizzato come la prima forma sistematica di ideologizzazione del sapere, ossia di utilizzo dei “mezzi” razionali di una cultura “altra” da quella che li destina per “fini” razionali alla propria cultura. Il tentativo sincretistico cattolico, durato culturalmente sino al Concilio Vaticano II, ha avuto un esito fallimentare anche sul piano religioso, considerata la progressiva scristianizzazione, dopo quella delle istituzioni statali, anche della vita morale delle società cristiane, preda di un materialismo edonistico di stampo neo-pagano, privo dei classici correttivi etico-sociali, screditati dalla incidenza critica della cultura spiritualistica cristiana. Di conseguenza, ogni succedaneo “ricorso” culturale, di segno razionalistico o fideistico - mancando, rispettivamente, il primo di un supporto teologico, e l‟altro di una struttura di pensiero in grado, nonostante i poderosi sforzi teoretici, di sostituirsi alla tradizione filosofica classica, - si è risolto in una disfatta tanto metafisica quanto politica, che ha lasciato la civiltà post-cristiana in una sorta di sospensione assiologia, in cui scettica miscredenza e superstizione mitologica si combinano variamente in un relativismo
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morale e gnoseologico il cui unico antidoto oppiaceo è lo scentismo tecnologico. In riferimento al mondo protestante, che ha preceduto quello cattolico nel processo di secolarizzazione culturale, il suo iniziale spiritualismo fideistico, privato del tradizionale supporto istituzionale ecclesiastico, si è convertito in una opposta logica materialistica, ossia nel mito immanentistico dell‟eroismo produttivistico, che alla imperscrutabile volontà provvidenziale ha sostituito la volontà manipolabile delle masse consumistiche e delle maggioranze democratiche, la nuova fonte idolatrica di una irrazionale certezza priva di fondamento di verità.. D‟altro canto, l‟universo cattolico, screditato intellettualmente dalla perdita del supporto filosofico del razionalismo critico, dominato dalla deriva atea scientistica, ha cercato invano di difendere le sue vetuste posizioni dogmatiche con gli strumenti residuali del suo potere mondano, screditandole ancor più di fronte alla coscienza degli stessi cristiani, abbandonati senza intellettuale consapevolezza, e a volte anche senza morale ritegno, ai destini di un machiavellico Potere secolare, ormai impazzito senza più alcuna assistenza divina. Il nuovo sistema “aperto” del capitalismo globale, sempre più inclusivo di differenti culture umane, procede attraverso la già sperimentata neutralizzazione razionalistica dei mezzi strumentali dai loro fini originari, e il loro innesto strumentale negli astratti fini della logica tecnologica, ripropone in chiave economicistica il paradigma ideo-logico cattolico, le cui movenze religiose tendono a riunificare in un unico alveo escatologico le diverse esperienze culturali locali, rappresentate come mitiche rispetto alla nuova razionalizzazione capitalistica. L‟universalismo astratto del razionalismo capitalistico assimila ogni esperienza storica particolare come fosse una variante strumentale al fine unico produttivistico, che si afferma procedendo al rovesciamento speculare dell‟opera di sacralizzazione dei mezzi profani da parte del Cristianesimo, consistente nella trasformazione degli originali valori finali delle singole culture storiche in valori strumentali al proprio fine escatologico. L‟attuale desacralizzazione capitalistica dei valori culturali tradizionali, consiste nel disgiungerli da ogni fondamento e fine di verità, rendendoli razionalmente astratti e tecnicamente fruibili al loro uso strumentale “aperto” alle esigenze della logica produttivisticoconsumistica. La “società aperta” delle democrazie capitalistiche odierne è una convivenza senza fini etici perché informata a una cultura 202
socialitaria senza fondamenti ontologici, dove l‟ordine sstemico garantito dal diritto si fonda sulla sua sola efficacia repressiva, ossia sulla capacità di resistenza alle spinte centrifughe interne e alle minacce eversive esterne. Rispetto al disordine feudale, la società democratica postcristiana è pervasa da una anarchia strutturale, non di natura politicoistituzionale ma etico-ontologica, in cui il Potere dominante non è fondato su criteri veritativi socialmente riconosciuti, ma sulla sola legittimazione razionale della sua efficacia tecnica, funzionale a un ordine meramente religioso, dogmatico-giuridico. Lo Stato di diritto, fondato su una auto-garanzia ideologica che lo affranca da ogni remora etico-sapienziale, rilascia di conseguenza alla vita spontanea dei singoli e dei gruppi sociali un campo discrezionale immenso di auto-regolamentazione etica, indifferente al Potere, all‟unica condizione essenziale di non entrare in conflitto con l‟ordine sistemico, di cui l‟ordinamento giuridico è il garante formale del suo funzionamento. Rispetto alla struttura legale di un sistema filosofico, quella normativa di un sistema giuridico garantisce al Potere una maggiore “certezza” esegetica nella comprensione delle sue statuizioni erga omnes, che un processo puramente ermeneutico della volontà oggettivata renderebbe più labile ed aleatoria. Rispetto allo Stato etico classico, quello giuridico non garantisce identità sociali, non possedendole, ma neppure percorsi ideologicamente irenici, offrendo solo strutture procedurali, per cui i “nuovi barbari” , interni ed esterni all‟universo produttivistico, non sono colonizzabili come quelli antichi. E proprio la mancanza di referenti culturalmente identitari provoca nelle odierne società democratiche una latente tendenza eticamente eversiva che la mera convivenza infra-sistemica non riesce compiutamente a neutralizzare in ragione della sua stessa scientifica neutralità assiologia, che destina all‟irrilevanza culturale ogni concreto motivo esistenziale extra-sistemico. Ne consegue che ogni tendenza ideale non sussumibile entro la struttura d‟ordine formale dell‟universo di senso del sistema sociale capitalistico acquista rispetto alla sua esigenza neutralizzante un valore razionalmente negativo, che però, sogguardato da un punto di visuale assiologica interno, è eticamente positivo, per cui la sua residua positività, compressa dal sistema ideologico vigente, ma non compresa in esso, risulta contraddittoria alle sue agnostiche esigenze neutralizzanti, e potenzialmente eversiva dell‟ordine legale se politicamente organizzata. 203
Il sofisma teorico democratico, per cui la maggioranza dei cittadini elettori costituisca una unità politica, si fonda sull‟implicita credenza metafisica che l‟Uno sia la sommatoria degli enti molteplici, per cui la dimensione politica della rappresentanza degli interessi sociali racchiuda in sé anche la funzione di governo. In virtù di tale logica politicistica, si è indotti a considerare di conseguenza, dalle sue premesse, che l‟unico Potere legittimato a governare lo Stato sia quello espresso dalla maggioranza elettorale, e di converso che ogni altra forma di Governo sia illegittima. Ma questa supposizione ideologica, smentita dall‟esperienza storica, concepisce il Governo in termini di Potere appunto politico, e non etico, ossia in termini di violenza dialetticamente esclusiva dell‟altro, proiettando sul piano dei rapporti sociali la modalità cognitiva propria della logica dialettica dell‟idealismo greco riformato in senso realistico da Aristotile. Tale realismo, rimuovendo il modello ideale della teoresi platonica, ha nondimeno conservato come logicamente acquisito il suo riflesso speculare, facendo della fenomenologia sociale del movimento ideale l‟unica realtà scientificamente conoscibile e perciò “vera”. Lo stesso avvenne con l‟idealista Hegel da parte dello scientifico Marx, il quale appunto, analogamente alla riforma aristotelica della dialettica platonica, ha considerato l‟orizzonte sociologico come l‟unico piano di realtà del movimento dialettico. La proiezione sociologico-realistica di tale visione filosofico-idealistica, traspone la dinamica dialettica in dinamica politica, facendo dell‟esclusione logica del non-essere ideale una esclusione sociale dell‟opposizione politica del nemico, con conseguenze devastanti per l‟ordine etico della società, basato sulla corrispondenza tra la gerarchia sociale e la gerarchia dei valori morali, fondati sui fondamenti ontologici del Mito religioso. In questo senso, la de-eticizzazione della vita sociale e la conseguente politicizzazione della stessa funzione di Governo, è un portato della demitizzazione razionalistica fondata sulla credenza ontologica monistica dell‟Essere come rispecchiamento ideale del Molteplice. Tale Molteplice, sul piano sociale, è la moltitudine, la quale costituisce la sua unità politico-ideale attraverso il “patto civile”, la cui veridicità temporanea viene periodicamente confermata da un responso elettorale alla stregua di una verifica empirica di un‟ipotesi scientifica. Il monopolio della forza pubblica da parte del Potere democratico, rispetto a quello dello Stato classico, non è fondato su nessuna verità ontologica eticamente vincolante, ma solo sulla opinione 204
(periodicamente) dominante, come tale smentibile empiricamente. Ciò che è la “opinione pubblica” che sostiene il Potere politico democratico è l‟analogon di quella che sostiene una teoria scientifica, entrambe sostitute di una verità assente. Ma come un‟ipotesi gnoseologica, senza fondamenti veritativi, non è altro che un azzardo dell‟immaginazione creativa, cioè un‟illusione razionalizzata, così un Potere sociale senza fondamenti etici trascendenti la sua forza politica non è altro che violenza legalizzata, ossia un‟illusione di Governo. E sia l‟illusione teoretica che l‟illusione politica sono il prodotto della superstizione dialettica della rielaborazione logica del Mito. 9. Una considerazione indispensabile alla comprensione del fenomeno sociale come accadimento politico, e il suo radicale contrasto con l‟atteggiamento caritativo, è costituito dal tempo, ovvero dalle diverse scansioni caratterizzanti i due rispettivi moventi. Nella prospettiva escatologica, la Storia è “l‟operato di Dio” nel mondo, il piano del Molteplice in cui il divenire del tempo incontra l‟eterno. L‟accadimento storico è dunque evento escatologico, la cui memoria “rappresenta quel principio che combatte il tempo in nome dell‟eternità”.253 La temporalità propriamente storica è dunque quella relativa all‟evento che trascende il tempo meramente fenomenico, che trascende cioè la sequenza degli attimi in divenire e privi di una destinazione teleologica. Il razionalismo, rimuovendo dalla Storia questa destinazione del disegno divino e rendendo profano il piano avvenimenziale, ha considerato come storicamente significativa la sola finalità razionale dell‟intenzione umana, circoscrivendola necessariamente al contesto rappresentativo della sua spiegazione causale, metodologicamente propria di ogni altro costrutto scientifico inerente la conoscenza di enti fenomenici. Il senso dell‟avvenimento storico si è pertanto ravvisato nel particolare disegno umano, e non in quello universale divino, per cui la rimozione di ogni metafisica della Storia è stata intesa come la pre-condizione metodologica di un corretto approccio gnoseologico alla conoscenza scientifica, non più della Storia come processo teleologico unitario, ma dei singoli ed irripetibili eventi umani, colti nel loro divenire temporale.
253
J. Taubes, Escatologia occidentale, tr. it. cit., pagg. 35-36.
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Eliminando, con la Storia escatologica, anche il Mistero di Dio, la rappresentazione simbolica dei suoi contenuti fenomenici ha lasciato il posto alla ricognizione puramente fenomenologica degli eventi nel loro contesto rappresentativo, quello sociologico, in cui dominante è il rapporto politico fra gli uomini in lotta per il Potere, che si contendono i mezzi economici utili alla loro sopravvivenza. Sostituendo, come senso storico, al senso del Mistero il senso della vita, il razionalismo ha trasposto in senso naturalistico l‟originario senso escatologico della Storia, convertendo con ciò anche la sua positività teleologica in una ontologica negatività dalla quale gli eventi spirituali della ragione umana emergerebbero come Minerva dalla testa di Giove. Una Storia privata del suo senso escatologico, diventa così, nella prospettiva razionalistica, la fenomenologia di una ragione umana che in guise particolari sempre diverse agisce sospinta da eterni moventi naturalistici legati alla sua caratteristica condizione antropologica, dalla cui visuale bio-psichica sfumano tutte le contestuali diversità dei modelli culturali. Questi modelli culturali sono rappresentati dalla profana prospettiva razionalistica come “visioni del mondo” (Weltanschauungen), ossia come astratti referenti ideal-tipici sui quali si rispecchiano le concrete determinazioni storiche delle forme istituzionale della vita sociale degli uomini. Rispetto ai paradigmi ideali, le forme storiche concrete della vita sociale sono sempre lontane dai modelli, i quali appaiono a un‟analisi filosoficamente disincantata come “ideologie” con cui le classi dominanti rivestono il loro potere sociale sulle masse. In tale prospettiva, pertanto, l‟esperienza umana diventa lo scenario esistenziale dove gli uomini, politicamente organizzati, si contendono il controllo economico delle “sorgenti della vita”, finalizzando tutta la loro capacità inventiva, emozionale e razionale a conseguire gli stessi obiettivi per i quali è impegnato l‟istinto biologico di tutte le altre specie viventi. L‟unica autentica differenza riconosciuta all‟uomo è la sua attitudine culturale a modellare le sue rappresentazioni istituzionali ed esistenziali secondo piani ideali di realtà che ne costituiscono i fondamenti razionali e morali. Come si può constatare, l‟antropologia razionalistica permane all‟interno di una concezione idealistica del mondo che assegna alla logica dialettica e alla politica, quale sua proiezione sociologica, la determinazione di senso, rispettivamente teoretico e pratico, dell‟esperienza umana universale.
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Il tempo della politica è legato alla previsione razionale di una sequenza fenomenica il cui valore significativo è dato dall‟esito coerente alla sua previa rappresentazione. Il rapporto qui tra cause ed effetti è necessariamente legato alla capacità delle forze agenti di approntare i mezzi utili alla ideale bisogna. Ma i contingenti bisogni umani sono sempre diversi dai bisogni ideali, per cui l‟esperienza concreta dell‟uomo rivela una dimensione complessiva della realtà che manca alla sua visione astratta, sicché la vicenda personale e quella sociale dell‟uomo assumono aspetti che non riflettono mai una stessa immagine del mondo comune, inducendo a credere che l‟una o l‟altra rappresentazione della realtà sia falsa o inesistente. Per le concezioni individualistiche, priva di realtà è la società ovvero ogni rappresentazione collettiva dell‟esistenza umana; per le concezioni sociologistiche, al contrario, sono le visioni individualistiche viziate di soggettivismo teoretico e di astratto idealismo, incapaci di interpretare i processi umani collettivi, gli unici veramente concreti e reali. Ma entrambe esse sono assunzioni unilaterali del narcisismo teoretico idealistico, amante del sé e nemico dell‟altro, assumendo il proprio come l‟autentico vero e l‟altrui come il distorto prodotto rovesciato. Infatti, la capacità razionale dell‟uomo è da entrambe misurata sulla attitudine di predisporre i mezzi in relazione alla prossimità della prevista sequenza. Gli stessi effetti, ottenuti in un lasso di tempo non prevedibile, annullano il rapporto consequenziale di un razionale processo causale, attribuibile al caso. La casualità, dunque, è la stessa imprevedibilità razionale degli eventi non prossimi, per cui ogni evento concreto è suppostamente legato a un processo causale, ma non tutti gli eventi sono razionalmente prevedibili. E ciò per la ragione fondamentale che l‟astrazione della sequenza razionale dalla imponderabile concreta sequenza universale è possibile solo entro la ristretta misura della umana prevedibilità, cioè della verificabile calcolabilità che si dice certezza. Il sapere scientifico ha creduto di espandere la prevedibilità della concreta sequenza in termini di astratta ripetibilità universale dell‟evento, astraendo appunto dalla prossimità del rapporto contestuale. Ma la conoscenza razionale del rapporto di sequenza tra eventi attraverso una rappresentazione universale entro cui sussumere tutti i casi simili, non è vera conoscenza dei concreti fenomeni, ma solo del loro astratto schema rappresentativo, il quale, considerato nella sua astratta universalità è nonrazionale, epistemologicamente congetturale e quindi razionalmente falso, e come tale riscontrabile nella verifica empirica, che ne accerta la 207
sua irrazionalità. Un sapere che è razionale nella sequenza ravvicinata, e irrazionale nella relativa forma universale, o viceversa, razionalmente sostenibile in teoria e invalidato dalla pratica, attesta soltanto l‟infondatezza ontologica della visione idealistica della realtà, il cui monismo esclusivo richiama per contrappasso logico l‟opposto negativo della storica determinazione positiva, in un incessante divenire fenomenologico che non giunge mai all‟unità della sua fine, che perciò appare ignota. E così, il divino Mistero escatologico rimosso torna nella visione razionalistica della Storia profana come enigma, ossia come futuro ignoto di un presente non ancora attuale. Il tempo storico concreto, invece, quello cioè escatologico, non calcola la prevedibilità razionale della sequenza fenomenica in misura della sua dinamica effettualità prossima, ma affida il senso logico degli eventi al loro valore simbolico trascendente, per cui i tempi utili al prevedibile risultato politico lasciano il posto alla imprevedibile possibilità storica di un disegno misterioso relativamente ai mezzi, ma non ignoto circa i suoi fini provvidenziali. Il senso unitario della Storia umana, dunque, può assumersi solo attraverso la rappresentazione simbolica del suo misterioso fine trascendente, voluto da Dio, il cui Potere governa la Storia. Nell‟universo storico di senso escatologico, anche il Governo umano acquisisce il suo senso teleologico unitario in relazione alla trascendenza del referente Potere divino, da cui emana per analogia o partecipazione di senso. Di conseguenza, il Governo sociale delle comunità umane deve ispirarsi ai fondamenti trascendenti della Storia, cioè ai suoi fini escatologici, costituendosi in conformità alle sue trascrizioni assiologiche di natura etica. In tal senso, il Governo sociale degli uomini deve rivestire un carattere etico che rappresenta il valore unitariamente trascendente della sua destinazione che non può non riferirsi anche alla sua costituzione, la quale pertanto di conseguenza non può essere considerata di natura politica, relativa cioè agli interessi economici delle parti sociali in conflitto politico per il loro riconoscimento pubblico, né tantomeno derivare come risultato formale sancito da quella lotta. La teoria tomistica del Potere, assegnando al Papa il Governo di derivazione divina e al Principe la sovranità politica, stabilisce che questa sia proveniente dal popolo, e quindi il suo esercizio storico reversibile dal gerente al legittimo detentore. L‟errore, fatale per la storia europea, di tale dottrina risiede nella storicizzazione sociologica della distinzione ideale dei due 208
poteri, spirituale del Papa e politico del Principe, entrambi per principio universali e di fatto concorrenti nell‟affermazione sociale di tale universalità. Questa dottrina, privando il Potere temporale di ogni crisma di sacralità, riservata al solo esercizio spirituale, ha sì rivestito la funzione ecclesiastica di un carisma divino, ma soprattutto ha profanato, assolutizzandolo, l‟esercizio secolare del Governo politico, destinandolo alla deriva amorale machiavellica che, originariamente solo pratica, il razionalismo moderno ha ideologicamente universalizzato in senso scientifico. Proprio l‟esclusione della trascendenza del valore etico dall‟esercizio del Potere politico ha consentito l‟affermazione del suo carattere potenzialmente assolutistico, di fatto ostacolato da quello dichiaratamente totalitario della Chiesa, custode della verità divina e quindi aspirante anche a garantire delle regole della civile convivenza. La dialettica storica tra i due poteri formali ha rappresentato sul piano sociologico la tensione interna all‟universo teologico cristiano tra Mito religioso e sua trascrizione filosofica, costituendosi come la polarità dialettica immanente alla civiltà liberale europea. La distinzione tra custodi delle regole e partecipanti al gioco è una trasfigurazione razionalistica delle azioni rituali relative all‟agonalità arcaica di carattere sacro. Infatti, “l‟essenza del gioco sta nel rispetto alle regole”,254 per cui una rappresentazione ludica perché sia valida, cioè socialmente significativa, deve essere formalizzata, regolamentata, condizionata da norme, sicché “quasi tutte le azioni rituali acquistarono le forme di una gara cerimoniale”.255 Nella cultura greca “il carattere sacrale dell‟agone si rivela dappertutto”,256 tanto che si può dire che “la funzione innata, mediante la quale l‟uomo esterna [la] ispirazione [“ad un fine più alto”, “oppure una vittoria sull‟esistenza terrena”] è il gioco”,257 anche se in seguito il “periodo agonale” viene a stemperarsi in forme più astratte e settoriali di rappresentazione simbolica dei valori originariamente veicolati dalle esibizioni ludiche”. Pertanto, a mano a mano che il materiale culturale si fa più composto, più vario e più esteso, e che la tecnica della vita produttiva e sociale, della vita individuale e di quella collettiva s‟affinano maggiormente, il fondo di una cultura viene sopraffatta da idee, 254 255 256 257
J. Huizinga, Homo ludens (1939), tr. it., Torino (1946), 1973, pag. 62. Ivi, pag. 66. Ivi, pag. 85. Ivi, pag. 89.
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da sistemi, da concetti, da dogmi e norme, da abilità e da usanze che paiono aver perso completamente il loro contatto col gioco. La cultura si fa sempre più seria, e 258 ormai cede solo un posto secondario al gioco. Il periodo agonale è trascorso ”.
Ciò vuol dire che il carattere ludico dell‟originario “gioco sociale” perde il suo carattere privato. Così l‟ (riunione), come rito, cerimonia rappresentativa inclusiva del “gioco”, viene separato dai suoi contenuti rappresentativi e considerato come astratto elemento scenico-formale, estetico e meramente ludico. Dalla stessa radice di deriva , così come “religione” viene, secondo l‟etimologia suggerita da Cicerone, dal latino religare, riunire. La riunione sacra dei convenuti, attraverso l‟azione rituale, la rappresentazione, realizza il valore. Rappresentare equivale dunque a realizzare i valore socializzato. La cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata, [nel senso che] nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forme soprabiologiche che le conferiscono maggiore valore, [sicché] con quei giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo.259
In altri termini, il “gioco” è una forma rappresentativa, un rito, la cui sacralità solo in seguito alla distinzione dal suo contenuto ideale verrà in secondo piano rispetto al suo valore mistico-religioso. a questo punto l‟elemento ludico, in origine funzionale al senso sacro della rappresentazione, viene assolutizzato come forma rappresentativa in sé, come esercizio estetico, e insomma come “gioco”. Le forme ludiche socializzate sono espressive di senso culturale, per cui “la relazione fra cultura e gioco è da ricercarsi soprattutto nelle forme superiori di gioco sociale”, il quale, in quanto “gioco collettivo, ha in massima parte un carattere antitetico”, anche se non “necessariamente un carattere di lotta”. Si può dire in generale che quanto più il gioco è atto ad elevare il clima vitale dell‟individuo o del gruppo, tanto più intensamente si risolve in cultura. La sacra rappresentazione e l‟agone festivo sono dappertutto le due forme in cui la cultura cresce “come gioco” e “in gioco”.260
258 259 260
Ivi, pag. 88. Ivi, pag. 55. Ivi, pagg. 56 e 57.
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Ma che cos‟è il gioco? “Il gioco in sé, benché attività dello spirito, non contiene una funzione morale, né virtù, né peccato”.261 Il gioco è regola di comunicazione, cioè formalizza la volontà; socializza la volontà (individualmente libera) costringendola a sottostare a regole comuni, cioè sociali, e come tali razionali, cioè comprensibili e ripetibili. Formalizzare in senso sociale equivale a costringere a una regola la volontà, che diventa significante. Secondo Huizinga la “prima caratteristica del gioco […] è la libertà”, e la seconda è che il “gioco non è la vita ordinaria o vera”, ma “è un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria”.262 Il carattere “libero” del gioco va inteso nel senso che esso vuole dimostrare, sfidando l‟ostacolo delle regole imposte, che la volontà (appunto la libertà) può trascendere la necessità, cioè vincere quel “fato” umanamente razionalizzato che sono le regole sociali. Quanto la carattere eccezionale del gioco, va inteso nel senso che il mondo-della-vita ordinario include, come totalità esistenziale, anche l‟elemento che si oppone a ogni regolamentazione razionale, cioè il negativo, laddove il gioco, quale universo regolato e chiuso a ogni infrazione, è una totalità astratta dal divenire, e perciò costitutivo di un uni-verso razionalizzato e sospeso idealmente dall‟influsso delle ordinarie contraddizioni della vita reale. Da qui il suo carattere originariamente “sacro”, che, nella cultura secolarizzata, si svolge in “forma razionale”, in Spirito. Ed è proprio il carattere di parzialità dell‟universo ludico, ovvero dello Spirito razionale, che considera valido il solo momento “positivo”, fa sì che la sua affermazione come valore regolamentare comporti la lotta contro il suo opposto “negativo”, sentito come una minaccia al suo essere valoriale, regolamentato contro il caotico disvalore dirompente. Ma il gioco () ha soprattutto un valore di neutralizzazione della violenza insita in ogni fondazione politica della sfera delle libertà umane in quanto rottura emancipativa dalle origini sacrali. Il gioco, reiterando l‟originaria violenza della competizione bellica entro regole stabilite erga omnes, e dunque astraendo dall‟originario rapporto polemico che caratterizza ogni fondazione politica a partire da quella dell‟identità greca con la guerra di Troia, neutralizza la carica distruttiva del contenzioso in
261 262
Ivi, pag. 9. Ivi, pag. 11.
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un cimento ludico che ha per palio la gloria del vincitore anziché il sangue del perdente. Rispetto all‟evento polemico originario, il cimento ludico ripropone lorigie della competizione astratta dalle sue ragioni contingenti e storiche, facendone una tecnica agonistica, come tale controllabile sia nella sua posizione a quo che nella sua destinazione ad quem. La possibilità di riproposizione dell‟evento accaduto, e come tale originariamente accolto come necessario, rende gli autori-agonisti liberi dalla necessità, e dunque dal destino polemico di violenza. E proprio tale libertà interna all‟agone () regolamentato dall‟uomo costituisce la condizione esistenziale tanto del gioco che della politeia, della vita politica. Ciò che è la tecnica agonistica del cimento ludico è la dialettica del cimento oratorio del ragionamento politico. In tal senso, la regolamentazione normativa del diritto rappresenta il più sistematico tentativo dell‟uomo politico di neutralizzare la violenza del Potere entro l‟astratta determinazione previsionale di fattispecie atte a proporre e imporre modelli di comportamento reiterati e perciò previsti, e come tali sottratti all‟imponderabile violenza insita in ogni rapporto inter-personale tra uomini privo di una mediazione normativa.263 L‟unità dell‟universo ludico – e per analogia anche quella dell‟universo dello Spirito razionale , astratto dal processo storico in divenire, cioè dall‟esistenziale mondodella-vita, costituisce una “totalità” astratta, in cui i suoi elementi distinti conseguono la loro unità in senso puramente logico, interno alla sua astratta razionalità. La “dialettica” interna a questa astratta unità è inerente a elementi anch‟essi razionalizzati, cioè resi omogenei a quella unità ideale. Diverso è il caso della dialettica interna alla totalità del mondo-della-vita, in cui le differenze sono ontologiche e perciò irriducibili a unità logica, e costitutive di una realtà aperta al divenire delle contraddizioni, cioè al processo indefinito del negativo, non assimilabile logicamente a nessun distinto elemento razionale dell‟unità 263
H. Arendt aveva visto nella civiltà giuridica di Roma il punto di mediazione ideale tra la fondazione cruenta della civiltà greca nel segno del polemos, simbolizzata dalla guerra di Troia e dall‟epopea omerica dell‟Iliade, e la fondazione della libertà politica rappresentata dalla polis di Atene. Il terzo archetipo dell‟urbs romana all‟insegna dell‟auctoritas riunisce in “un unico fenomeno […] due facce in origine disgiunte”, trasformando l‟esito cruento della guerra, con l‟annessa “distruzione dei vinti”, in “un‟alleanza e un contratto”: Id., Was ist Politik? Fragmente aus dem Nachlass (1993), tr. it., Milano, 1995, pagg. 82 e 84.
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sintetica. Nell‟uni-verso razionale, l‟unità logica è assicurata dalla definizione dell‟essere dell‟ente astratto dal suo divenire, cioè dalla sua differenza ontologica. L‟ente razionale è assunto come Essere, e come tale oggetto del giudizio logico. La funzione del come se (als ob) è il correlativo logico dell‟aspetto ludico del trameno, della rappresentazione “sacra”, la quale “realizza nel mondo imperfetto e nella vita confusa una perfezione temporanea, limitata”;264 insomma un cosmo, un ordine sacro, trascendente e distinto dall‟ordine profano naturale. da qui il suo carattere di eccezionalità, di valore alternativo all‟ordine comune. Il ludens implica la partecipazione all‟ordine sacro, per cui il gioco comunica una azione congiunta.265 Sacra è l‟unità mistica dei distinti nell‟identico, una “sacra identità nell‟essere” 266 di enti di natura diversa. La “funzione ludica” consiste appunto nella fusione mistica dei più nell‟uno, del diverso nello stesso. L‟ “essere” trasformato diventa “gioco” quando il processo ludico rituale (= metodico in senso razionalistico) diventa esterno alla coscienza rappresentativa, quando cioè si smette di credere nella verità trasformatrice del processo stesso, che perciò decade a “rappresentazione” dell‟essere, a mimesi ludica, a forma estetica, a rituale giocoso. In questo senso, “nel concetto stesso di gioco è espressa meglio che ovunque l‟unità e indivisibilità del credere e del non credere, l‟unione di sacrosanta serietà con ostentazione e scherzo”.267 Il “credere” concerne l‟unità o non-distnzione degli enti che originariamente, cioè fuori del “gioco”, erano differenti. L‟atto spirituale della fede nell‟unità dell‟essere degli enti non è il giudizio logico ma è l‟intuizione. Il “non credere” nell‟unità costituisce l‟affermazione della differenza, ossia la distinzione logica. La distinzione isola dell‟intuizione la forma estetica della rappresentazione dal senso o contenuto razionale di essa, stabilendo tra essi un rapporto di corrispondenza esclusiva, che da simbolica diventa appunto logica. Ma questa “dialettica” di forma e contenuto è tutta interna all‟originaria intuizione unitaria dell‟Essere, la quale nel giudizio logico viene assunta come “fatto” distinto dal “fare” intuitivo, e perciò come oggetto esterno alla coscienza attuale. Ed è 264 265 266 267
Ivi, pag. 14. Ivi, pag. 19.] Ivi, pag. 32 Ivi, pag. 31.
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questo”oggetto” puramente formale che lo storicismo idealistico assume come “fatto storico” distinto dal fare spirituale del Soggetto trascendentale. Ma l‟unità intuitiva dell‟Essere precede la distinzione logica e ne costituisce la sintesi immanente a ogni astratto giudizio di differenza o scientifico, che deve quindi necessariamente presumerlo. La determinazione di una espressione puramente estetica è una conseguenza della distinzione logica della rappresentazione formale dal suo contenuto razionale. Deriva dunque da una astrazione della forma rappresentativa dall‟intuizione unitaria della totalità ontologica. L‟estetica, come conoscenza della forma dell‟Essere, è una scienza astratta, ossia una conoscenza astratta dell‟Essere, e astratta appunto dal suo valore simbolico. L‟unità dell‟Essere è il valore sacro dell‟identità, così come la distinzione logica della forma rappresentativa dal valore simbolico ne definisce il valore profano, per cui il valore sacro definisce il senso profano della differenza di tutte le cose dal loro sacro Essere unitario. La differenza logica stabilisce la scissione profana dall‟unità sacra in cui si riconoscono misticamente tutte le cose molteplici che – fuori del gioco – restano distinte. Il gioco imita la realtà nel senso che ne ri-produce il senso simbolico unitario. la ri-produzione mimetica della realtà la trasforma in ciò che logicamente non-è, e che dovrebbe essere in una rappresentazione ideale. Il gioco trasforma la realtà in immagine ideale. esso è perciò fondamentalmente un rito di trasformazione, una cerimonia sacra simbolizzata, una liturgia. Il gioco è dunque una rappresentazione religiosa quando implica il “credere”; è invece un esercizio puramente ludico quando viene desacralizzato e logicamente astratto dal suo senso misticamente unitario e intuitivo dell‟Essere. Il gioco religioso è il rito liturgico; il gioco desacralizzato è il profano ludus, l‟astratto game, in cui la tensione rappresentativa perde tutto il suo valore simbolico trascendente. L‟unità si ottiene abolendo le differenze (logiche) della realtà del mondodella-vita. Il conseguimento dell‟unità a-logica è un rito di trasformazione del differente nel simile che consiste in un‟operazione di astrazione dalle reali differenze. L‟astrazione ideale, o idealizzazione della realtà, è un atto di razionalizzazione in base al quale gli enti logicamente differenti vengono privati della loro singolarità ontica e considerati nella loro assoluta presenza o attualità contestuale. La contestualità è l‟orizzonte di senso razionale entro il quale gli enti logicamente differenti sono considerati idealmente simili: come se fossero razionalmente uguali 214
anziché realmente differenti. Ossia fossero idealmente Uno anziché realmente molteplici. In tale idealistica finzione contestuale consiste il “gioco”, la rappresentazione ludico-sacra. Questa rappresentazione idealizzata dell‟Essere non è inerente alla sola esperienza del gioco, ma investe ogni forma rappresentativa della realtà di tipo razionale. La ragione astratta, infatti, non conosce la “realtà” molteplice, ma solo gli enti idealizzati e assimilati logicamente all‟unità razionale omologante, la categoria. La ragione astrae dal molteplice mondo-della-vita il suo dato, oggetto di pensiero, universalizzando la sua datità, la sua astratta unità razionale, come se di esso fosse la essenza, cioè la vera natura. Questo come è la finzione del “gioco” astrattivo, che consiste nel credere che l‟unità razionale degli enti idealizzati sia vera. Ma l‟unità razionale, l‟uni-verso ideale, non è “vera” unità, cioè totalità, perché il Tutto include il negativo escluso dall‟unità ideale, cioè il Molteplice escluso dalla rappresentazione razionalistica dell‟Essere, per cui l‟unità ideale è una finzione ludica, un “gioco” astrattivo che finge che la realtà sia quella rappresentata razionalisticamente come una unità di senso appunto ideale. La credenza che questa unità di senso sia vera è la fede religiosa o scientifica del gioco idealistico. Il rito di trasformazione è la con-sacrazione del Molteplice nell‟unità di senso ideale dell‟universo di fede, entro il cui orizzonte le cose realmente distinte sono idealmente le stesse. La liturgia del rito idealizzante è modernamente il “metodo” scientifico attraverso il quale il mondo-della-vita viene rappresentata come una realtà ideale. Il come, ossia la forma estetica della rappresentazione, costituisce il gioco ludico, la finzione simbolica insita in quella fede. In comune il rito religioso e l‟operazione metodica hanno la credenza che la conversione del Molteplice reale in Unità ideale sia possibile. Sia la religione che la scienza sono pervase da questa fede pseudo-morfica. Perduta la quale, il rito si riduce in cerimoniale ludico, in una rappresentazione puramente estetica, in tecnica formale. Il rito in sé è la rappresentazione del “passaggio” delle cose profane al cosmo sacro in cui esse acquistano significato ideale unitario, sono cioè misticamente unite. Nelle varie tecniche di rappresentazione di tale trasformazione ontologica consiste la diversità storica delle culture umane, dei loro universi religiosi e di pensiero, intesi come sistemi di passaggio. Ogni rito di passaggio include un momento ludico, che diventa “gioco” se considerato da una prospettiva disincantata, priva cioè di quella fede 215
ontologica che crede nella sua verità, e che lo valuta come un mero “dato” spirituale, oggetto di scienza. La scienza ha per oggetto realtà astratte dal loro processo reale, cioè dal loro molteplice divenire, e considerate come assoluti fenomeni, come apparenze. La “apparenza”, sia nel senso di ciò-che-appare, e sia nel senso di finzione, è parte costitutiva del “gioco”, il quale perciò resta sospeso tra il “credere” e il “non credere”. Il credere è l‟essere della fede ontologica; il non credere è la sua apparenza estetica. Credere che l‟apparire dell‟ente coincida con l‟essere è il contenuto religioso della fede ontologica che la realtà sia anziché non. Questa fede ontologica sostiene anche il “gioco” scientifico. La filosofia sorge col dubbio scettico che l‟apparenza non coincida con l‟essere delle cose. Il dubbio è l‟esercizio della distinzione dialettica tra l‟essere e l‟apparire. Il dubbio è la premessa del rapporto che la filosofia definisce tra l‟essere e l‟apparire degli enti. Questa definizione è dialettica, perché non riduce il molteplice apparire degli enti all‟unità dell‟essere ideale, né l‟essere unitario nelle molteplici determinazioni apparenti. La filosofia mantiene infatti la distinzione ontologica nell‟atto di definire il rapporto logico tra l‟essere e l‟apparire degli enti. Rapporto che è appunto dia-lettico, duale. La mediazione logica suppone il dualismo ontologico, così come l‟astrazione razionalistica suppone il monismo. L‟essere Uno è la realtà ideale della ragione, che unifica il diverso molteplice nell‟astratta universalità razionalistica. Nell‟universo idealistico, l‟essere dell‟ente coincide con il suo apparire. Tale coincidenza è possibile astraendo gli enti dal loro divenire, ossia rimuovendo la differenza ontologica tra l‟Essere (Uno) e il Divenire (Molteplice), credendo che l‟unità ideale sia lo stesso Essere delle cose, la loro comune essenza razionale. Tale fede ontologica consiste nella credenza che l‟Essere sia un‟Idea, e che questa sia la rappresentazione razionalmente unitaria del Molteplice. La creduta corrispondenza ideale tra la rappresentazione razionale e la manifestazione reale degli enti costituisce il fondamento ontologico dell‟idealismo greco, del razionalismo cristiano e della moderna conoscenza scientifica del mondo, tutti pervasi dalla stessa fede pseudomorfica. Il pseudo-morfismo del razionalismo idealistico fonda su quella corrispondenza ontologica la stessa deontologia dei comportamenti etici, facendo delle azioni dell‟uomo il corrispondente dover-essere di ciò che idealmente è. Si comprende bene come il crollo della fede ontologica idealistica porti con sé anche la morale comune, privando il 216
comportamento etico del suo fondamento ontologico. Ma comporta altresì la fine della fede nella Storia intesa come apparizione dell‟essere spirituale, prima di Dio e quindi dell‟uomo secolarizzato. Infatti, la conoscenza razionale dell‟evento dell‟ente storico, ossia relativa al fenomeno di ciò-che-è, dipende dal fondamento ontologico idealistico per cui ciò che appare coincida (onto-) logicamente con ciò che è, ossia dalla credenza nell‟identità del logico con l‟ontologico. La fine di tale credenza comporta conseguentemente la fine della “serietà” del “gioco” dialettico, ossia dello stesso fondamento di verità di ogni conoscenza razionale, ridotta a immaginazione epistemologica. Come ha giustamente notato Huizinga, “il carattere sacro e serio di un‟azione non esclude affatto la qualità ludica”, cioè l‟aspetto tecnico della sua rappresentazione pratica. Questa tecnica rappresentativa inerisce all‟aspetto “agonale”268 del ludus, all‟elemento competitivo. Essa infatti è un esercizio di affermazione regolamentata contro tendenze opposte che lo contrastino. Il gioco rappresenta la dinamica della vita che, con la sua negatività, si oppone all‟esito del passaggio ontologico delle cose profane al cosmo sacro. La contesa ludica rappresenta la lotta tra le opposte tendenze: l‟una verso l‟esito sacro, l‟altra in direzione della opposta resistenza e quindi della persistenza nella dimensione profana. Il gioco è la rappresentazione simbolica di questa tensione logicamente antitetica ed economicamente competitiva. L‟aspetto decisionale del cimento agonistico attesta che il “passaggio” ontologico, è privo di una qualche necessità metafisica, e legato alla aleatorietà della sola abilità nell‟esercizio del rito trasformatore, cioè nella efficacia della sua tecnica metodica. Il carattere ipotetico della scienza moderna trova in questo paradigma ludico il suo sacro precedente epistemologico, sicché il rito metodicamente stabilito, la sua liturgia regolamentata, costituisce la forma originaria del metodo scientifico di pervenire alla definizione razionale di una unità ideale del mondo, ossia a una “legge” universale che riduca tutte le molteplici manifestazioni apparenti all‟unità mistica del loro comune Essere razionale. Anche la “legge” scientifica è a suo modo un “cimento agonistico” in quanto ipotesi soggetta a verifiche empiriche, ossia a quell‟alea tipica dell‟esito agonistico. Il rito (ovvero il metodo) che funziona, viene regolamentato, 268
A = “lotta impegnata con regole fisse, in forme consacrate, per la quale le [in competizione] invocano la decisione di un arbitro”: J. Huizinga, Op. cit., pag. 90.
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ossia stabilito come valido, sino a prova contraria, e cioè fino a quando la sua formula di gioco riesce a sopravanzare e a contenere idealmente le forze oppositive, le sue verifiche reali. Solo allorquando le opposte resistenze reali, sopravanzando, rendono inutilizzabile la formula del gioco, lo “confutano”, esso è da cambiare con una formula dalla credenza più convincente. Prima del cimento, la tesi “nobile”, quella sacra, e quella “vile”, cioè profana, stanno a fronteggiarsi sullo stesso piano agonistico entro lo , il recinto sacro della “vita pubblica”, apprestato da Dike, che “è un vero cerchio magico, un luogo di gioco, entro il quale la solita differenza sociale fra gli uomini è sospesa”.Entro l‟ambito del temenos, il luogo isolato dal mondo profano, si “gioca” un ruolo formale diverso da quello comune, per cui la “la parrucca del magistrato è più che il residuo di una moda antica. Per la sua funzione è da considerarsi molto affine alle maschere dei popoli primitivi. Trasforma colui che la porta facendone un altro essere”.269 I distinti elementi del “gioco” metafisico, che secondo il Mito arcaico sono la “volontà divina”, il “destino” e l‟ “esito della fortuna”, nella rappresentazione che Omero ne dà nell‟Iliade “sono fusi completamente” nella “giurisdizione di Giove” (), il cui sacro Potere in origine compendiava in sintesi ciò che l‟analisi razionale ha in seguito idealmente sezionato e concettualmente isolato in altrettante forme istituzionali, la cui perfettibile funzionalità sistemica ha costituito sempre il movente deontologico dell‟ordine (cosmico e sociale) giuridicizzato. In ogni gioco c‟è un margine di incertezza, un‟alea che rende precaria la condizione dei contendenti. Questo margine di sospensione, di incertezza, comunica il senso di impotenza proprio della condizione umana. E in virtù della consapevolezza della distanza tra l‟astratto ordine razionale e le concrete dinamiche accidentali del divenire, gli uomini si affidano alle potenze superne, che possono leggere il futuro,, cioè decidere il destino. Potenza è dunque decisione, e il potere consiste nella decisione anticipata, nel pre-ordinamento del disegno fatale. Il giudice ha il potere di decidere, di attribuire il giusto, di amministrare le sorti umane. Ma non ha il potere di stabilirle, perché la giustizia pre-esiste a ogni giudizio, come l‟Essere agli enti fenomenici. E‟ cioè trascendente. Far coincidere giustizia con sentenza, significa rendere questa un verdetto assoluto, divino, 269
J. Huizinga, Op. cit., pagg. 91-92. La cit. di W. Jaeger, Paideia, è a pag. 91.
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inappellabile. Da qui il bisogno di un giudice extra-umano, il ricorso all‟ordalia quale verdetto irrefutabile emesso da forze superiori all‟immaginazione dell‟uomo e alle sue capacità previsionali, circoscritte al presente apparire degli enti. Il giudice, nella sua funzione giudicante, è “un altro essere”, nel senso appunto che si spoglia simbolicamente della fallacità della natura umana finita, per diventare la “maschera” della Giustizia, il rappresentante del dio che può decidere sulle contese umane. La credenza nella sua funzione suppletiva è la stessa fede nella Giustizia, il cui culto rituale legittima formalmente l‟esercizio del Potere decisionale esercitato in suo nome e per suo conto. Questa rappresentazione liturgica del gioco metafisico mima una contesa tra princìpi opposti, rappresentati dalle parti. Proprio in quanto rappresentazione mimetica, il processo assume le caratteristica di una scena teatrale, in cui le parti giocano il loro ruolo simbolico, recitabile da indeterminati soggetti-attori. Da qui l‟origine della rappresentanza legale, che consiste nell‟attribuzione di ruolo a un attore che va le veci, cioè gioca la parte, del protagonista reale, del soggetto esistenziale. questa finzione ludica è l‟elemento tecnico del processo, con le sue regole di scena, il suo ambiente scenografico, i suoi spettatori e l‟attesa del risultato paventato o sperato, a seconda dei ruoli giocati nel dramenon estetico della contesa. Più la decisione è sottratta al potere umano, più il verdetto è “sacro”. Sacro è ciò che appartiene alla sfera divina, e perciò è umanamente indisponibile, sicché la remissione al giudizio divino presuppone la fede nella sua giustizia, ossia che la Giustizia stessa sia divina. Solo questa creduta identità delle parti in gioco può consentire l‟accettazione del verdetto, altrimenti sempre impugnabile e indefinitamente rivedibile, come quello delle faide. Da questa sacra fede discende lo stesso riconoscimento del giudizio decisionale formulato da un uomo investito del potere rappresentativo della Giustizia divina. La rappresentanza del Potere superno presuppone la rappresentatività del ruolo fungente, ossia la fede nel loro rapporto simbolico. Orbene, il disegno idealistico di sostituire l‟aleatorietà del Potere divino con la previsione razionale interna a un cosmo interamente umanizzato e reso indisponibile alla capricciosa volontà degli dèi, che giocano con i destini umani, rappresenta il prototipo filosofico di ogni secolarizzazione razionalistica del Mito. La rappresentanza legale in senso razionalistico, astraendo dalla fede nella sacra rappresentatività dei ruoli, fa di essa una tecnica puramente formale, determinata da un ludus del tutto deprivato di 219
valore simbolico trascendente, condotto con criteri meramente economici, tendenti a collegare l‟esito del gioco competitivo tra le parti in lizza a rappresentazioni estetico-scenografiche, politicamente decisive se foriere di consenso sociale, ma prive affatto di ogni ragionevolezza simbolica, non richiesta, e quindi esclusa di norma dalla competizione. All‟esito di questa dinamica ludico-politica la teoria democratica del Potere affida le decisioni del Governo della società umana. Ma poiché il giudice la rappresenta, ma non è la Giustizia, egli opera come se fosse essa stessa. E proprio nello spazio fideistico di questa finzione rappresentativa si annida la possibilità che il giudice sbagli la sua decisione, e cioè non rappresenti adeguatamente la Giustizia, che trascende ogni concreto verdetto umano. Soltanto un sistema normativamente compiuto nella sua razionale interconnessione procedurale può escludere, con l‟imponderabilità della fede trascendente, anche l‟imperfezione metafisica, che diventa tecnica, cioè logica, da ontologica che era. “Giusta” è la decisione morale che consideri tutti gli aspetti del problema, e non quella che si affidi a un criterio – ad es. quello legale – a preferenza di altri. Morale è il Tutto, non la parte, in quanto ogni parte in questione ha un suo criterio di legittimità razionale. E il Tutto trascende le parti, non corrispondendo alla loro semplice somma, per cui la decisione derimente nel conflitto fra le parti e i loro relativi criteri dev‟essere anch‟essa super partes. La dimensione decisionale trascendente il conflitto politico è quella etica del Governo, che non può essere confuso con alcun criterio parziale affidato a maggioranze di decisores. In questo senso il Governo è decisione di origine divina mentre l‟azione politica è attività di parte, partitica. Huizinga contesta l‟affermazione di Ehremberg che “dal giudizio di Dio nasce la giustizia terrena”, sostenendo che “la lotta per vittoria o perdita è sacra per se stessa”, essendo per lui “la forma ludica” la “qualità primaria sia della “sfera giuridica” che della “sfera della fede”, distinte a seconda che la lotta sia “animata da concetti formulati di giustizia e di ingiustizia”, oppure sia “dominata da concetti positivi d‟una forza divina”.270 In realtà, a noi pare che Ehremberg abbia colto l‟essenza della questione per cui la “lotta” sia considerata “sacra”: quando ha per esito il giudizio divino. Non è dunque ogni lotta “sacra”, sicché l‟affermazione di Huizinga che 270
Huizinga, Op. cit., pag. 96.
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“la lotta per vittoria o perdita è sacra per se stessa”, è priva di ogni fondamento di senso metafisico. Infatti tre sono gli elementi imprescindibili della sacertà; il primo è la regolamentazione, ossia il rito formale che ne consente la validità. E il rito è “sacro” perché garantisce della validità dell‟esito. Tale validità dev‟essere presupposta per fede, cioè dev‟essere “creduta”. E‟ dunque la credenza a rendere sacra la lotta. E‟ la credenza il secondo elemento della sacertà, che preesiste alla lotta, rendendo che questa sia considerata sacra, facendo sì che la giustezza del “giudizio di Dio” consista nella fede nella sua identità con la “giustizia terrena”, cioè nella fede che la Giustizia sia in Dio. Il terzo elemento consiste nella rappresentatività dei ruoli liturgici, derivata da uno status simbolico originario. Senza la derivazione rappresentativa la “lotta” sarebbe priva di ogni valore sacrale, cioè di ogni esito di giustizia. L‟esito è “giusto” quando investito di significato “sacro”, tale che il suo valore sacrale gli derivi in quanto rappresentativo della stessa Giustizia. Senza fede in Dio non c‟è neppure credenza nella Giustizia, in qual caso la lotta diventa puro esercizio ludico, tensione estetica, divertissement, e appunto “gioco”.Il gioco è la forma agonale astratta dal suo valore sacro. Una regolamentazione priva di significato simbolico, un esito agonale privo di valore sacrale e una formale rappresentanza senza rappresentatività esistenziale, costituiscono gli elementi astratti del “gioco” culturale. “Il combattere, essendo funzione culturale,” – e quindi non ha valore in se stesso – “presuppone sempre delle regole limitanti,” – cioè un orizzonte di senso formale – “esige fino a un certo punto il riconoscimento di una qualità ludica”,271 ossia non esaurisce la sua significatività nel solo aspetto agonistico, ma lo trascende nel senso del valore di cui palio è il cimento aleatorio. “La guerra può essere considerata funzione culturale finché si conduca nell‟ambito di un gruppo i cui membri si riconoscano pari nel valore o almeno pari nel diritto”.272 Ciò significa che l‟agone ludico regolamentato deve presupporre una fede comune ai contendenti: gli stessi valori unificanti che uniscono le parti a una comune credenza sacra (), che li rende uguali nel diritto () anche se opposti nella 271 272
J. Huizinga, Op. cit., pag. 104. Ivi, pag. 105.
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tensione ludica. Qui il “riconoscimento” dei rispettivi ruoli è preceduto dalla comune fede negli stessi valori di Giustizia, di cui è in gioco la rappresentanza: chi vince l‟agone li rappresenta. Solo questa comune fede, questa unità di credenza negli stessi valori, consente al perdente di riconoscere la sconfitta propria e l‟altrui vittoria. In tal senso, il diritto internazionale poteva “contenere la guerra nella sfera della civiltà”, in quanto questa esprimeva l‟appartenenza ai comuni valori di fede, trascendenti e superiori alle specifiche e momentanee contese profane. Avvenne con la perdita dell‟universo di senso sacro che le parti, costituendosi contraddittoriamente come totalità parziali, sacralizzarono il conflitto profano trasformandolo in una “guerra totale”, cioè in un “gioco” bellico non regolato sulla base dei sacri vincoli di comune civiltà, e quindi non più limitato entro le regole dei valori di riferimento, la cui agonalità, non definita entro un comune quadro normativo di carattere etico superiore alle parti, divenne “religiosa”, avendo per palio gli stessi eterni valori, non più comuni alle parti. La scissione del diritto () dalla sua fonte etica di giustizia (), destina alla dimensione privata la fede assiologia, lasciando alla sfera pubblica la struttura normativa di controllo giuridico dell‟ordine formale, per cui “bene comune” diventa lo stesso ordine normativo positivo, inteso come “organizzazione razionale della convivenza umana”, il cui criterio universale di dominio diventa il fondamento razionale del sistema coercitivo del Potere.273 La guerra totale indica il conflitto assoluto, il cui palio non è la rappresentanza del comune valore, e quindi privo di ogni rappresentatività simbolica, ma la contesa tra valori supposti universali solo perché asseriti validi entro la sfera semantica della ideale parzialità, in conflitto contro altri omologhi pseudo-valori, da negare. Quando a negarsi non è più il simbolo rappresentativo del valore, ma il valore stesso, allora il conflitto perde il suo carattere rappresentativo del valore comune, cioè dell‟unità di senso sacrale, per diventare polemos totalitario, guerra politica di annientamento dell‟altro, che da avversario concorrente diventa nemico infedele. Il signore hegeliano diventa padrone che, non più riconosciuto, non asservisce il servo riconoscente ma lo uccide, poiché “quando si stacca
273
Ved. Z. Bauman, Postmodern Ethics (1993), tr. it., Milano, 2010, pag. 15.
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dalla legge e dalla giustizia, l‟uomo è il peggiore di tutte le creature”.274 Solo il riconoscimento dei ruoli del “gioco” può regolamentare la competizione ludica, assicurando che la sua dimensione sacrale non invada l‟ordine pacificato del cosmo profano. Tale riconoscimento presuppone la co-appartenenza a una unità comprensiva delle differenze dei ruoli ludici, che non è l‟unità settoriale di una o altra parte in contesa, ma l‟unità del Tutto in cui ogni parte si ritrova nella sua determinazione finita. E‟ allorquando tale finita determinazione viene rappresentata come criterio di valore universale, sostitutivo ideale dell‟unità sacra originaria, che il conflitto ludico perde il suo carattere agonale, cioè il suo valore simbolico e rappresentativo, e assurge a lotta assoluta di potere: il Potere del vincitore di affermare la propria unità di valore parziale come fosse di valore ideale comune, cioè il Tutto. In tal caso, la finzione ludica diventa pretesa fideistica di trasformare il costrutto logico in realtà ontologica, non più per la mediazione della sacra fede ma per mezzo della forza politica. Questa riduzione ontologica del Tutto alla parte vittoriosa, non ha valore ludico, non è cioè una finzione simbolicamente rappresentativa del gioco sacro, ma ha un carattere precipuamente polemico, avendo per posta non la rappresentanza del valore comune alle parti, ma la sua statuizione del valore proprio come valore universale, ossia anche dell‟altra parte che non l‟accetta e che per non riconoscerlo come proprio si batte. Il riconoscimento reciproco delle parti in contesa ludica, suppone che prima di esso, ciascuna parte credesse in proprio, coltivando una propria credenza. Tale credenza di parte giustificava la contesa con l‟altra credenza partigiana, mettendo in mora la teoria aristotelica per la quale “lo Stato è [per natura] anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto dev‟essere necessariamente anteriore alla parte”.275 Infatti, essendo la comunità politica, cioè appunto lo Stato, il telos naturale dell‟uomo, il quale fuori di essa sarebbe “o bestia o dio”,276 la costituzione dell‟ente sociale coincide per Aristotile con l‟identità stessa dell‟uomo . Ma la comunità politica, non è lo Stato giuridico (), bensì il “possesso comune dei valori” di giustizia (), sicché la condizione naturale della convivenza non è sufficiente a 274
Aristotile, Politica, I (A), 2, 1253 a 30, tr. it. di R. Laurenti, in Opere, vol. IV, Roma-Bari, 1973, pag. 7. 275 Aristotile, Politica, I (A), 2, 1253 a 15, tr. it. cit., pag. 7. 276 Aristotile, Ibidem, 1253 a 25.
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qualificare l‟entità statuale, che per sussistere deve comprendere come suo elemento costitutivo imprescindibile la condizione culturale del giudizio razionale circa il Bene, e cioè il Giusto. In questo senso, la natura umana è razionale. E politicamente razionale è appunto il giudizio circa lo Stato giusto, cioè il principio etico di socialità, senza il quale non si dà costituzione statuale, comunità politica. L‟idea di riconoscere il nemico politico e farne un elemento dialettico del proprio ruolo sociale, nacque non già dalla credenza socialitaria, ma dal dubbio che essa non fosse l‟unica possibile, ossia la più giusta, e perciò aveva senso accettare, con la sfida, anche l‟esito aleatorio che avrebbe disciolto quel dubbio. Vi un passo di Senofonte significativo a riguardo dove, narrando della guerra civile ateniese, riporta che il democratico Trasibulo, parlando all‟Assemblea cittadina dopo la partenza degli Spartani guidati da Pausania, invitava gli ateniesi a conoscere bene se stessi, esaminando su quale base gli oligarchi fondassero l‟ambizione di dominare la parte avversa chiedendo loro se per caso si ritenessero “più giusti” dei loro avversari.277 La giustizia come fonte di legittimazione della guerra costituiva un movente ritenuto eticamente razionale dalla coscienza greca, la quale per l‟appunto ne stabiliva il criterio sulla base di un giudizio etico. La riserva dubitativa sulla propria fede preludeva, in caso di sconfitta bellica, alla conversione alla fede della parte avversa vittoriosa. Non a caso Crizia, l‟allievo di Socrate ricordato in diversi dialoghi platonici, che era uno degli oligarchi, avversario dichiarato del collega Teramene che si era dissociato dall‟estremismo dei Trenta di cui pure lui faceva parte, patrocinava l‟adozione da parte di Atene della costituzione di Sparta, che riteneva quella “migliore”, in cui si prevedeva che chi criticasse e si opponesse perciò alle deliberazioni della maggioranza venisse messo a morte.278 Se gli Ateniesi filo-spartani come Crizia avessero vinto, avrebbero introdotto con la forza il proprio criterio di giustizia politica, imponendolo alla fazione cittadina dissenziente. Ma, sentite le parti avverse, non si può concludere che il loro rispettivo principio politica fosse equiparabile entro uno stesso criterio di giustizia. Infatti, mentre l‟atteggiamento politicamente ondivago di Teramene supponeva la costanza di un fondamento di giustizia il cui valore rimanesse persistente attraverso il variare della lotta politica, la coerenza 277
Senofonte, Elleniche, II, lib. II, 40, tr. it. a cura di M. Ceva, Milano, 1996, pag. 613. 278 Senofonte, Loc. cit., II, 34, pagg. 585-587.
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politica di Crizia implicava, al contrario, l‟attribuzione al Potere dominante dello stesso fondamento di giustizia, per cui la condanna politica di Teramene fu da lui sollecitata a dispetto di ogni criterio di giustizia superiore alla forza delle armi. In questo caso, la dissociazione tra valori etici e ragione politica fu manifestamente assunta da Crizia come non decisiva ai fini dell‟affermazione delle proprie posizioni politiche, offrendo così il senso implicito della guerra civile come lotta ideologica non più infra-comunitaria ma inter-comunitaria, cioè tra elementi coabitativi di fatto che si combattono per opposti fondamenti eticamente costitutivi della rispettiva socialità politica. l‟asse ideologico si sposta dal campo del “gioco” politico, che suppone il comune orizzonte etico, a quello dello scontro tra ideologie politiche non più espressive ma inclusive di valori etici. La crisi ateniese del sec. V a. C. disegna in anteprima lo scenario fenomenologico dello scontro ideologico che sconvolgerà l‟Europa cristiana dopo la Riforma protestante, la quale inaugura la pluri-secolare guerra civile europea, contrassegnata da un progressivo processo di neutralizzazione degli originari motivi eticoreligiosi in termini di rimozione dei suoi fondamenti teologico-politici. La originaria etica viene progressivamente razionalizzata in una neutra condizione politica, il cui , cioè il principio di giustizia, coincide con il mero diritto () dello Stato, che diviene, appunto, “di diritto”, organo di amministrazione dei beni comuni, ossia una , una comunità economica quale per Aristotile era la famiglia, intesa come sottogruppo privato incluso funzionalmente in quello etico-politico della . La strumentistica dell‟amministratore economico, però, è l‟uomo stesso che, per quanto servo subordinato, “appartiene a se stesso”, e perciò è legato al suo padrone da un rapporto parziale e determinato, l‟interesse. Diversamente dal rapporto etico, quello d‟interesse è condizionato dalla sua sussistenza, per cui, in mancanza d‟interesse, il vincolo economico si scioglierebbe. Perché ciò non avvenisse, si procedeva alla riduzione in schiavitù del subordinato, riducendolo a “oggetto di proprietà”, sia pure destinato “all‟azione” anziché, come gli oggetti, “alla produzione”.279 Ma tale “riduzione in schiavitù” è un atto politico, il quale richiede la trasformazione del rapporto economico meramente privato e legato quindi al solo interesse, in un rapporto pubblico, tale che esso si conservi 279
Aristotile, Politica, I (A), 4, 1254 a 10-15, tr. it. cit., pagg. 9-10.
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anche in mancanza dell‟altrimenti labile interesse economico. Tale nuovo rapporto economico politicamente pubblicizzato è la “sicurezza” del più debole sotto il più forte, la quale, perché abbia un valore non contingente e reversibile come ogni interesse economico, viene garantita dallo Stato. Ne consegue che, qualunque sia la natura del rapporto privato fra gli uomini socializzati, il loro carattere pubblico li trasvaluta politicamente, rendendoli da transeunti a necessari. In questa transvalutazione consiste il “passaggio” dal naturale al razionale, per cui “politicamente razionale” è ogni rapporto umano reso necessario dalla logica politica, che è ragione di dominio, ossia Potere. Il Potere politico è dunque l‟esercizio del dominio finalizzato alla statuizione e conservazione dell‟ordine sociale razionalizzato, cioè reso permanente. La stabilizzazione politica dei rapporti economici fra i gruppi umani, familiari o altrimenti d‟interesse, fa di essi, attraverso l‟esercizio razionale del Potere, una comunità statuale. Ma cosa rende stabili i rapporti politici? Ossia, che cosa legittima l‟esercizio razionale del Potere? Le risposte possibili sono fondamentalmente due: una di ordine economico, la efficienza del Potere, che consiste nel commisurare i mezzi agli scopi razionali; l‟altra di ordine etico, la giustizia del Potere, che consiste nel subordine agli scopi utili i fini morali. Nel primo caso, il Potere è di natura politica, tale che la sua ragionevolezza coincida con la stessa possibilità di esercizio. Nel secondo caso, il Potere è di natura etica, tale che la sua legittimazione dipenda dal suo servizio giusto. Nell‟un caso abbiamo una forma di esercizio di Dominio sociale, nell‟altro caso una forma di esercizio del Governo della società. Il Dominio è politico, il Governo è etico. La teoria che vorrebbe che lo Stato fosse “etico”, ovvero che propugna la sua costituzione, è fondamentalmente errata, in quanto la natura dello Stato, in quanto comunità di interessi razionalmente stabilizzati, è di per sé “politica”, in quanto la sua struttura giuridico-istituzionale è funzionale al solo mantenimento dell‟ordine sociale, materia eminentemente pratica, e non già alla determinazione ideale dei fini, che è disciplina squisitamente teoretica. Il moderno Stato di diritto è la forma razionalmente più elaborata di comunità politica, la cui affermazione di efficacia universale suppone l‟eliminazione della funzione del Governo etico, legata al principio di Giustizia. Il diritto universale () è il Dominio politico astratto dal suo principio ideale () di Governo etico. Questo non nasce dal “patto” societario, cioè da 226
un‟alleanza economica in vista di un interesse di comune utilità, ma si costituisce nel riconoscimento della sua rappresentatività dei fondamentali valori morali, i quali, per la loro natura ontologica e non ideologica, non sono opinabili e soggetti alla labilità del consenso ma identitari, e cioè costitutivi della stessa socialità. Solo la rappresentatività etica dei motivi identitari socialitari può legittimare il Governo alla guida della comunità statuale, il cui simbolo tradizionale dell‟unità morale è il Re, in nome del quale si esercitano le funzioni di Governo. Solo il Cristianesimo, nel momento in cui affermò, con l‟unicità di Dio, anche la Sua rappresentanza in Cristo e nel suo corpo mistico ecclesiale, ammise la relatività dei valori socialitari rispetto a quelli divini eterni, operando una dissociazione tra la fede personale dei cittadini-credenti e la costituzione politica dello Stato, facendo di questa una realtà di fatto, e non più originariamente naturale in senso aristotelico. La comunità politica, emancipata dai fondamenti socialitari della convivenza, diventa il luogo dell‟esistenza economica nata dal pactum societatis, e quindi da una condizione reversibile e non naturaliter immutabile. Il regno di Cesare, delegittimato sul piano dei valori morali, diventa la struttura formale della mera , della stanzialità razionalizzata a sistema giuridico-politico, qualitativamente non diversa dalla condizione familiare, dalla quale si emancipano gli apostoli per seguire il Messia e, sul loro esempio, tutti i membri della ecclesia mistica. Rispetto alla rielaborazione del Mito operata dalla filosofia idealistica, il fideismo cristiano interrompe la corrispondenza speculare tra ideale societario e organizzazione istituzionale dello Stato, facendo di questo una variabile storica transeunte e destinando la Chiesa al ruolo simbolico di comunità spirituale, idealmente eterna. La frattura aperta dal Cristianesimo tra comunità spirituale e comunità politica poteva sanarsi solo identificando Stato e Chiesa (cesaropapismo), ovvero neutralizzando l‟autorità dell‟altra istituzione universalizzando la propria (integralismo religioso e totalitarismo politico). La cristianizzazione dell‟Impero romano, strumentale alla cristianizzazione delle comunità sociali in esso comprese, consolidò la funzione di Dominio della struttura politico-giuridica, originariamente predisposta a servire il Governo etico della Città, destinandola a servire il Governo religioso della Chiesa, la quale pertanto credette di servire Dio con gli strumenti del Diavolo. Questo connubio politico-religioso è stato il riflesso sociologico del sincretismo teologico-filosofico per il quale la 227
Verità di fede venne giustificata per via di ragione, ossia con gli strumenti di quella logica dialettica che era servita ai filosofi per scacciare gli dèi dell‟Olimpo dalla . L‟intera storia culturale e civile della cristianità si è sviluppata entro un universo di senso teo-logico attraversato da una immanente tensione metafisica polarizzata dialetticamente tra le opposte istanze di emancipazione della fede dalla ragione politica, e di questa da quella. Una tensione tale da rendere strutturalmente instabile sia il fondamento veritativo di una fede giustificata razionalmente, e sia la costituzione politica di uno Stato che, privato di propri originari fondamenti etici, doveva mutuarli da quelli religiosi, di cui si serviva la Chiesa per minare la sua autorità politica, oppure assumere in proprio nuovi valori, di natura ideologica. Quale peso abbia avuto la (malposta) questione religiosa nella storia dell‟Occidente, non è qui il caso di richiamare se non per i necessari cenni sommari, ma quello che merita considerare in questa sede è la stretta aderenza tra l‟impostazione che di essa ebbe il cattolicesimo e l‟intero processo civile e politico europeo, e quindi del mondo culturalmente colonizzato dall‟Europa. I cristiani che si immolavano in nome del proprio Dio, semplicemente negavano la necessità di convertirsi nel dio che li avesse in proprio potere, facendo del Dominio politico una forza di controllo fisico che però, in presenza della fede, non riusciva ad implicare quello spirituale. Circoscrivendo l‟agone politico alla sfera dei rapporti economici, l‟impostazione cristiana implicitamente escludeva dal rapporto tra l‟esistenza personale e il Potere la tradizionale mediazione religiosa, propria della civiltà politica pagana e della stessa esperienza dell‟ebraismo ai tempi di Gesù, a favore di una condizione comunitaria alternativa alla socialità politica, nella quale la religione non svolgesse una funzione agglutinante ma viceversa liberatoria. La “Verità” che rende “liberi” era appunto quella della fede in un regno trascendente la comunità politica, quello di una ecclesia in cui vigente era l‟ordo amoris, anziché l‟ordine politico del diritto. La “guerra totale”, come affermazione del proprio valore come assoluto, è la conseguenza pratica del rifiuto della conversione forzata alla divinità del nemico, ossia è il risvolto polemico del concetto cristiano del martirio, rovesciato nel senso del vincitore, la cui “gloria” è opposta a quella passiva della “santità” del martire cristiano, la cui unica “gloria” era di farsi uccidere per non rinnegare la sua fede. Nel momento in cui il 228
credente non ammette altro dio, cioè nessun dio altrui, il proprio Dio diventa universale, il Dio di tutti, facendo coincidere la parte con il tutto. Tale reductio ad unum universalis è l‟atto della razionalizzazione della realtà del mondo-della-vita, della sua complessità, nel senso omologo al valore razionale astrattamente unitario, affermato e de-finito come il valore unico, unificante universalmente ogni alterità, astratto cioè da ogni concreta differenza singolare. Compresa la differenza personale, in nome della quale Gesù aveva affermato il limite normativo del Potere politico, la cui indistinta vigenza erga omnes violava la sacertà delle disposizioni divine, superiori in valore a quelle umane. Con l‟universalizzazione razionalistica della fede cristiana attraverso la strumentazione teoretica greca, il Dio personale di ognuno diventa il dio razionale di tutti, l‟idolum tribus dell‟Impero cristianizzato. E‟ chiaro che uno Stato cristiano vale quanto una politica cristiana, cioè per quanto dura il Potere che lo afferma. Appena esso allenta il suo Dominio, l‟universo teologicopolitico implode liberando le sue contraddizioni sistemiche. La destrutturazione dell‟universo cristiano classico coincide con il processo storico della civiltà liberale moderna. Il monismo teologico richiama logicamente il monismo ontologico, ma anche il conseguente monismo sociologico. Non c‟è ratio universale che non richiami una fides monista e una societas cattolica. I tre aspetti, ontologico, teo-logico e socio-logico, sono intimamente congiunti, sicché senza il monismo teologico non ci sarebbe il razionalismo e lo scientismo, ma neppure il totalitarismo politico e l‟universalismo economico. Tout se tiens, per cui non si fuoriesce dalla modernità, ossia dalla dissoluzione del cosmo cristiano, senza ripensare i fondamenti ontologici del suo sistema di valori religiosi, filosofici e politici. Tutt‟al più si passa da una dimensione complessa a una semplificata, e così dalla teologia alla ideologia, dalla filosofia alla scienza, senza smettere di utilizzare il metodo razionalistico di conoscenza. All‟inverso, la vera filosofia non può essere razionalista ma spiritualista, perché la ratio è il pensiero della fides, mentre il logos è fondamentalmente dialettico, ossia dualista. Il pensiero filosofico suppone il dualismo ontologico, di cui la filosofia è la mediazione critica del logos. La ratio, invece, suppone la fides, ossia il monismo ontologico, per cui essa non serve la verità della parola, cioè il significato del discorso (), che è un mistero che deve essere scoperto con la ricerca (), ma la verità di Dio che è Parola, cioè de-finizione del mistero. Solo Dio come Mistero può essere a 229
fondamento del , in quanto la dialettica finito-infinito include sempre un elemento indeterminato, trascendente, opposto a quello determinato della certezza dell‟esperienza mondana. E infatti quando anche l‟elemento trascendente è racchiuso nella definizione della certezza della sua immanente forma espressiva mondana, il pensiero diventa tautologico, essendo l‟esito della ricerca già pre-stabilito dalla fede fondamentale nell‟Essere unitario che è il principio ontologico () di ogni dualismo logico e conseguente inizio (Anfang) dialettico. Nell‟universo di fede monistica, il lascia il posto alla ratio definitoria, che è volontà spirituale di potenza teoretica, dogma che scioglie ogni aporia logica. Come ha ricordato bene Fabro, la tensione in cui si muove ogni problema dell‟esistenza cristiana, è il movente segreto nella storia della Chiesa, dello sviluppo delle formule dogmatiche e quindi delle definizioni conciliari, delle dichiarazioni del magistero ecclesiastico e quindi del progresso stesso nell‟espressione e formulazione del dogma; è il dogma quindi che regge e caratterizza la vita della Chiesa così che le varie epoche della storia della cristianità prendono la fisionomia della tensione che si presenta come predominante e dà l‟allarme. […] L‟urgenza di tale tensione non ammette sotterfugi e soluzioni apparenti: la legge per la soluzione di ogni tensione è di trovare un punto di consistenza superiore alla tensione stessa, perché la tensione non precipiti in balia della contingenza e faccia prevalere a caso l‟uno o l‟altro dei termini in lizza.280
Ma la sintesi delle opposte tensioni dialettiche, in cui dovrebbe consistere quel superiore “punto di consistenza”, non può che essere una rinnovata definizione razionale della Parola, una sosta dogmatica in attesa di una novella rielaborazione filosofica, che la natura stessa di quella tensione inconciliabile rigenera incessantemente in un irresolubile processo storico nichilistico durante il quale il mistero de-finito diventa forma, espressione reale, ente. L‟ente che s‟identifica con la verità, la riduce da Mistero indeterminato e infinitamente trascendente ogni definizione, a definizione dogmatica, dandole i caratteri della finitezza e facendole quindi, anche in buona fede, cambiare natura ontologica. E‟ in questa riduzione ontologica l‟origine metafisica della violenza, quando il pensiero, ridotto a ratio servile, a tecnica esegetica, trasforma la ricerca della Verità in chiosa della Parola definita. La filosofia nasce dal dubbio teoretico che 280
C. Fabro, Dall’essere all’esistente, Brescia, 1965, pag. 73.
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accompagna ogni certezza fideistica, come esigenza ermeneutica di rielaborare il dato positivo attraverso la critica del dogma, ponendosi come il suo opposto negativo. La filosofia, in quanto critica antidogmatica, è essenzialmente un pensiero negativo dell‟Essere, che prelude a una sua più razionale definizione positiva, una scepsi che rinvia ad altra fede. Non a caso, ogni sistema filosofico che intenda risolvere filosoficamente la scepsi, per l‟occultamento della sua insolubile contraddizione diventa aporetico, sfociando infine nel suo opposto dialettico, in irrazionalismo dogmatico. Dal dubbio, cioè, che ogni certezza non sia la Verità, alla asserzione dogmatica che in ciò risieda la verità, lasciando impregiudicata la ricerca di ulteriori certezze. A questa sorte contraddittoria non sfugge neppure la dogmatica teologica, costretta a ricorrere a una norma legale per scongiurare la “balia della contingenza”, ossia quella casualità che esattamente l‟ordine provvidenziale per definizione dovrebbe sottomettere ai suoi fini escatologici, segno ulteriore della impraticabilità di ogni tentativo di conciliazione metafisica dello Spirito infinito di Dio nella finitezza dell‟umana ragione. La scienza razionalistica non nega dialetticamente il Mistero, ma tende a risolverlo in un assunto definitorio unitario, che assimila il negativo alla posizione della definizione della “legge” razionale. Se l‟unità trascendente non è più un Mistero, ma una certezza definitiva, anche la ratio diventa una certezza definitoria, cioè la custode del valore già svelato, e il pensiero si definisce in dogma. Il dogma è appunto la definizione che assegna alla certezza razionale un valore sacro, di fede, trascendente. Tale certezza dogmatica è l‟articolazione rappresentativa della verità, il rito sacro del “passaggio” ontologico dal regno profano la cosmo unitario sacro. Senza fede, la regola definitoria perde il suo valore dogmatico e acquisisce il solo aspetto formale di rappresentazione estetica, di “gioco” di regole stabilite. La sacra dialettica si muta in ludus, in tensione agonistica, il cui palio non è (più) la verità (meglio) rappresentata, ma la vittoria sull‟avversario. La vittoria desacralizzata è vuoto cimento ludico, tecnica sportiva, game. Asserire come fa Huizinga che “la lotta nella sua essenza più propria [sia un] agone sacrale”,281 deve includere le premesse che il valore della contesa sia anch‟esso sacro, essendo il valore della lotta a renderla sacra, così come è la fede a rendere recta la ratio che esprime la verità rivelata. 281
J. Huizinga, Op. cit., pag. 108.
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La rettitudine della regola tende a conformare la volontà umana alla ratio del sistema di (interpretazione della) verità, ossia a riportare l‟esperienza molteplice, caratterizzata dalla singolarità negativa, all‟astratta uniformità razionale dell‟uguale. Razionalizzare la volontà significa ricondurla a sistema, cioè omologarla all‟unità del modello ideale. razionale equivale a de-finire, a con-finare i termini di realtà ideale entro il sistema, eliminando l‟indeterminatezza di ciò che non-è de-finito, cioè portato a sistema e istituzionalizzato. La con-formità è lo scopo della regolamentazione razionalizzatrice. Il “gioco”, come tensione agonistica, mette a confronto la libera volontà umana con la regola del sistema. Se vince la volontà, la libertà ha la meglio sulla costrizione sociale, sul potere omologante del sistema razionale. Ogni vittoria della volontà sposta in avanti il processo di razionalizzazione sistemica, cioè perfeziona il metodo di omologazione del diverso all‟uguale. Scopo del sistema è il controllo delle volontà indeterminate. L‟uomo, privo di pre-determinazione istintuale, è antropologicamente aperto a ogni possibilità di definizione della sua libertà, del suo non-essere definito naturalmente. E pertanto la libertà, rispetto alla determinazione razionale, è una condizione negativa che il potere definitorio delle istituzioni tende a superare con la conversione in termini positivi, iscrivendola dunque entro i limiti del sistema di regole predisposto a limitare l‟indeterminazione della volontà umana entro schemi di condotta prevedibile, regolata normativamente, cioè costrittivamente. Ogni sistema d‟ordine è predisposto per opporsi alla libertà umana, ossia alla volontà non regolata e perciò non razionalizzata. Definire l‟uomo “animale razionale” equivale a indicarlo come “soggetto normativo”. Ora, che la normativa razionale sia esclusivamente quella di tipo politico è un assunto culturale che il pensiero greco considerava una condizione ontologica, tale che la politica fosse pensata come l‟unica arte di vivere umana. La predicazione evangelica, di contro, ha criticato questa credenza teoretica, assumendola come un Mito, verso il quale il pensiero cristiano si poneva in termini filosoficamente rielaborativi, offrendo un altro modo di concepire la comunità umana rispetto al modo politico, indicando nella libertà umana, non più il termine negativo contro cui opporsi normativamente con la costrizione politica, ma la condizione stessa della sua natura spirituale. Nella nuova prospettiva comunitaria, non è più la costrizione legale a determinare il valore socialmente positivo ma la responsabilità morale della persona, le cui azioni vanno 232
considerate entro un ordine assiologico che non è quello dell‟ordinamento giuridico ma della coscienza del foro interiore, di cui è giudice Dio, e non l‟uomo delle istituzioni sociali. La differenza essenziale tra l‟ordinamento sociale e quello morale risiede nella circostanza che quello sociale è storicamente accertabile e definibile in relazione alla forza politica, mentre quello morale presuppone per la sua vigenza la fede nel suo valore eterno. I rispettivi referenti normativi sono nei due casi del tutto diversi, incentrandosi l‟uno sulla convenienza politica a salvaguardare la vita, del singolo come della Città; l‟altro, sulla considerazione del giudizio divino ai fini della salvezza dell’anima dopo la vita terrena. La legge d‟ordine del sistema politico è la volontà giuridica del Potere, laddove la legge d‟ordine del sistema spirituale è la volontà morale, il cui legislatore è Dio. L‟ingiudicabilità istituzionale della condotta morale è la condizione stessa della fede nella giustizia di Dio e dell‟ossequio alla Sua legislazione, per cui volerla anticipare o sostituire in termini giudiziali, equivale a spostare dal foro interiore a quello giuridico il contesto normativo, e con questo la natura stessa dell‟azione umana, che da liberamente spirituale diventa costrittivamente legale, cioè razionale secondo il sistema. La plausibilità di questa trasposizione del concreto e libero atto morale in una astratta e prevedibile fattispecie legale, è legata alla possibilità di de-finire in termini razionali la Verità, offrendo di essa una compiuta rappresentazione formale. Tale possibilità teoretica costituisce la fede propria alla filosofia, la quale pensa la Verità come un‟Idea, e quindi lo stesso Dio come un Ente ideale. Solo l‟ammissione di questa possibilità della ragione umana di de-finire Dio, consente ai Suoi interpreti di giudicare circa la verità delle azioni umane, assimilando la moralità alla razionalità, e in tal modo universalizzando astrattamente in senso ideale quel comportamento morale che Gesù destinava alla concreta libertà personale di ognuno. Ma la razionalizzazione della libertà, cioè appunto la sua astratta universalizzazione ideale, la converte nel suo opposto dialettico, la costrizione, mutandone l‟essenza, sicché l‟originario atto di fede spirituale diventa dovere legale, di cui rispondere al tribunale umano anziché divino. Ed è stata proprio l‟assunzione delle premesse idealistiche greche da parte del Cristianesimo storico ad aver tradotto in legislazione morale della Chiesa istituzionale, la vita spirituale del fedele, eliminando da essa il suo concreto orizzonte esistenziale, all‟interno del quale Gesù
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ha allocato il senso divino dell‟eterno, emancipandolo dal “gioco” politico degli astratti ruoli sociali. La tensione agonistica del politico, intrinseca e costitutiva del cimento ludico in genere, consiste nella sfida tra libertà e costrizione, tra potenza del Negativo e forza del Positivo, tra indeterminatezza irrazionale e determinazione razionale. Il “gioco” esprime in forma simbolicamente rappresentativa la dinamica stessa del processo dialettico della socializzazione o razionalizzazione della libertà dei Molti al potere dell‟Uno. La dialettica del gioco è la dinamica stessa del Potere. E‟ il momento politico di ogni religione, di ogni credenza socializzata. Ogni manifestazione ludica rappresenta simbolicamente la lotta tra la libertà spirituale e la costrizione sociale normativizzata. “Spirituale” è l‟antitesi di “sociale”, ciò che lo trascende infinitamente. Rispetto alla determinazione razionale, la libertà spirituale rappresenta la incontenibile potenza del Negativo che si oppone a ogni formalizzazione sistemica, a ogni sua de-finizione razionale. La logica immanente a ogni ratio è di trasferire nel sistema la potenza negativa dello spirito per tradurlo nella forza del Potere; la potenza femminile nella determinazione del potere maschile. Solo all‟interno dell‟orizzonte razionale la libertà spirituale acquisisce uno statuto normativamente omologato e quindi simbolicamente significativo, tale per cui la volontà razionalizzata esprima un senso simbolico comune, ossia appunto socialmente significativo. La razionalizzazione delle volontà molteplici per mezzo del potere unificante del sistema è il fine di ogni controllo sociale della libertà spirituale degli uomini. L‟aspirazione d‟ogni sistema di Potere è di alimentarsi della potenza del Negativo convertendola in forza positiva. Il principio della conservazione dell‟energia è anzitutto relativo al campo spirituale. Il sistema di potere ha infatti la funzione di con-vertire l‟energia negativa in forza controllata dal sistema, e quindi positivizzata. Ogni istituzione sociale è un convertitore d‟energia spirituale in forza razionalizzata, in potere sistemico, in ratio sociale. Ma, ci chiediamo, è questo il fine della predicazione evangelica? Se così fosse, non si spiegherebbe la morte di Gesù, cioè la testimonianza della Sua libertà spirituale di fronte alla religione, alla credenza socializzata, al Mito. E non si spiegherebbe neppure l‟esplicito riferimento alla Verità trascendente ogni forza politica del Potere, alla sua incommensurabile potenza spirituale soverchiante ogni formale determinazione politica.
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La violenza di ogni sforzo razionalizzatore nasce dal tentativo (logicamente impossibile, ma reso possibile dalla fede) di sostituire il valore positivo, cioè la potenza definitoria, il “dogma”, alla potenza del Negativo, che è in sé indeterminata e trascendente ogni determinazione formale, trasformando così un ente finito – il Potere razionalizzante – in un valore infinito, in potenza della Ragione, che è un‟Idea, e pertanto una realtà storica in una realtà ideale. Ed è esattamente questa idolatria del feticcio ipostatico idealistico l‟oggetto della critica cristiana alla rappresentazione mitica sia dello Stato politico che della religione politicizzata, che venerano la creatura formale anziché il Creatore spirituale. L‟identificazione dell‟Idea con un ente storico, è il motivo teoretico e la conseguenza pratica caratteristici non solo nella cultura politica greca, ma anche della religione cristiana romanizzata e secolarizzata in Chiesa istituzionale, in Potere spirituale. Un potere “spirituale” è una contraddizione politica pari a quella di una forma indefinita, poiché quella spirituale è una potenza carismatica indefinibile da parte di ogni Potere formale, e quindi incontenibile entro un qualunque sistema istituzionale. La ricerca della forma ideale di Stato, dal punto di vista spiritualistico, non ha senso, poiché la forma ideale è l‟opposto dialettico della forma reale, e l‟una non sarebbe appunto ideale se l‟altra forma non fosse imperfetta, e cioè finita nella sua imperfetta determinazione reale. La fede idealistica consiste nella credenza che l‟identità degli opposti sia razionalmente conseguibile, e quindi che l‟ente ideale possa diventare ente reale. Lo spiritualismo, di contro all‟idealismo, pensa invece che l‟ente ideale sia astratto rispetto alla concretezza della realtà esistenziale, per cui credere nella sua realtà sia idolatrare un feticcio mitico. La “vanità” di ogni potere profano è in questo eterno sforzo di contenere l‟incontenibile sacro. Profana per antonomasia è la civiltà “pagana”, incentrata sul “popolo”, ente politico radicato nel gruppo nazionale particolare, costituito da territorio, lingua e cultura propri. Nei confronti della mitologia etnicosociologica pagana, la posizione cristiana muove una critica che parte dal politeismo delle religioni particolari giunge alla stessa identità politica dell‟uomo spirituale, il quale, in virtù della sua appartenenza spirituale, si costituisce come apolide rispetto a quella sociale. Solo che l‟originario patto con Dio stipulato da Israele, viene ora dal cristianesimo esteso all‟intera umanità, per cui la nuova visione conserva, dell‟ebraismo, 235
“l‟animo sostanzialmente anarchico di Israele [in cui] si manifesta il desiderio dell‟uomo di essere libero da ogni legame umano e terreno”,282 e dall‟ellenismo acquisisce la visione universalistica, che nella dimensione romanistica dell‟Imperium trova un correttivo storicistico alla tendenza apocalittica all‟auto-estraneazione (Selbstentfremdung), propria delle visioni gnostiche incentrate sulla “chiamata” divina del “totalmente Altro”, la quale presuppone a sua volta la “estraneazione” (Entfremdung) di Dio dal mondo.283 La figura storica di Gesù e quella mistica della sua Chiesa riconciliano il mondo a Dio per mezzo dell‟uomo, la cui polarità naturale-divina lo pone nella posizione privilegiata dell‟ “ascolto”. L‟uomo naturale ha infatti bisogno di Dio per superare la sua finitezza e aspirare alla totalità del rapporto spirituale, inibito appunto dai suoi limiti fisiologici, tra cui rientra la socialità politica. A sua volta l‟uomo spirituale interviene sulla natura per umanizzarla emancipandosi così dalla necessità in cui è coinvolto il suo corpo. Se l‟uomo fosse totalmente spirituale o totalmente naturale cesserebbe ogni dialettica storica, e con essa il dramma della vita, sospesa tra le due polarità, una positiva, miticorazionalistica, l‟altra negativa, filosofico-dialettica. Ma questa stessa coscienza alimenta la tensione del “gioco” mondano della potenza che sfida il potere, i quali reciprocamente cercano di affermarsi sull‟altro, senza posa e senza requie, essendo le regole agonali dettate dalla medesima natura umana. Infatti, anche lo sforzo razionalizzatore dell‟energia dello Spirito è a sua volta potenza spirituale, nasce dallo Spirito stesso che è nell‟uomo, il quale dunque custodisce una duplice natura ontologica: quella infinita e trascendente che l‟accomuna a Dio, e quella finita e naturale della volontà biologica, comune a tutti gli esseri viventi. La ratio è l‟instrumentum regni della Volontà, lo strumento teoretico del Potere. Il movente razionale di ogni Potere è di trasformare la Volontà politica in una Idea di valore uni-versale identico alla potenza infinita del Negativo. L‟aspirazione di definire positivamente l‟indeterminato Negativo, cioè di imbrigliare razionalmente la libertà dello Spirito in un sistema formale, è il motivo che sostiene ogni sforzo teoretico della Ragione e ogni sforzo pratico della Volontà politica, cioè del Potere. La volontà di potenza è dunque la cifra metafisica di ogni
282 283
J. Taubes, Escatologia occidentale, tr. it. cit., pag. 41. Ivi, pag. 49.
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tensione razionalizzatrice, il movente ideale di ogni metafisica razionalistica, laica o religiosa che sia. Il “gioco” è la rappresentazione drammatica di questa tensione metafisica. La sua ripetitività, con la sua congiunta perfettibilità, è insita nello spirito agonistico del gioco, che definisce i confini delle regole in rapporto al loro superamento da parte dell‟abilità che con esse si misura. Chi mai vincerà la gara? La domanda è tanto essenziale all‟esito contingente quanto inutile ai fini del gioco, dando a esso quel tipico carattere affascinante, proprio di ogni virtù inutile quale la gloria, “l‟impulso a mostrare la propria superiorità sugli altri”.284 Ciò che rende fascinoso e accattivante il gioco è proprio l‟aleatorietà di ogni prova, che in realtà non prova niente fuori del contesto ludico, che non può risolversi in un verdetto definitivo, ma sempre in un esito incerto, che poteva anche essere diverso. Questo è il senso “umano” del gioco, differenziandolo dal responso divino, inappellabile, imponderabile. Il gioco, regolamentandosi in termini razionali, tende a calcolare la possibilità, trasformandola in probabilità, in previsione razionale. Il gioco nasce dall‟ignoranza del futuro. Se esso fosse pre-vedibile non avrebbe senso. Gli dèi greci non giocano fra loro ma solo con l‟imprevedibilità dei comportamenti umani. “All‟origine di ogni competizione c‟è il gioco”, poiché ogni umana sorte è incerta, e il cimento ludico si manifesta nello spazio aperto da tale incertezza, dalla imprevedibilità della sorte. Dell‟umano destino. La condizione umana dalla quale nasce il gioco è perciò fondamentalmente tragica. Il divertimento ludico consiste proprio nella possibilità di smentirla avendo il meglio sulla sorte. L‟idea del Fato, al quale erano sottoposti anche gli dèi, accomunava questi alla stessa sorte umana, sicché scoprire un principio universale che accomunasse immortali e mortali, costituiva un esercizio teoretico sublime, il sapere per eccellenza. E proprio l‟aleatorietà del Fato comune permetteva ai Greci di credere che il mondo cosmico fosse Uno.285 Eliminare con la regola universale l‟incertezza della vita, significava conoscere il segreto del Fato e quindi superare con la sapienza la stessa coscienza degli dèi. In tal senso la filosofia costituiva il metodo di ricerca funzionale a soppiantare con la ragione la rappresentazione religiosa del mondo, che si avvaleva di un linguaggio simbolico e non logicamente univoco, quello 284 285
J. Huizinga, Op. cit., pag. 124. C.M. Bowra, L’esperienza greca, tr. it. cit., pag. 196.
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del Mito, la cui semantica aperta rendeva incerto l‟ordine della vita. Infatti, l‟ignoranza del futuro genera incertezza, paura, smarrimento esistenziale. il dramma dell‟esistenza umana è contrassegnata dalla sua incertezza, dalla distanza che separa la previsione della sua coscienza immaginativa, dalla certezza della sua esperienza storica. La sfida ludica trova nel, che è lo spazio sacro di tale dramma, la sua fenomenologia, le sue forme rappresentative. L‟uomo gioca con le sue paure, sfidandone la forza con la volontà. Riuscire nel cimento lo tranquillizza temporaneamente, il tempo della sfida, appunto. Dalla sfida contro la natura avversa, alla sfida contro il nemico artificiale è lo stesso passaggio che dalla lotta conduce alla gara. Le forze naturali si possono rappresentare, in quanto l‟uomo socializzato ritrova nel suo mondo artificiale la stessa resistenza alla sua volontà, la stessa sfida alla sua libertà, la stessa opposizione al suo spirito. La natura ha le sue eterne leggi, così come il gioco della sfida umanizzata ha le sue regole stabilite ne varietur. Come l‟uomo può sfidare (almeno in parte) la natura, così il giocatore può avere la meglio (almeno nel perimetro dell‟agone) sulle regole del potere stabilito. All‟origine di ogni competizione c‟è il gioco, che è una convenzione: quella cioè di compiere entro un limite di tempo e di spazio, secondo date regole, in una data forma, qualche cosa che sciolga una tensione e che esorbiti dal corso normale della vita […]. Una straordinaria omogeneità distingue in tutte le civiltà le costumanze competitive e il significato ascrittovi. Quell‟unità quasi perfetta dimostra da sola come tutta l‟attività ludico-agonale sia ancorata profondamente nell‟anima e nel vivere sociale degli uomini. 286
Ciò che Huizinga non coglie è che il gioco nasce come sfida alla stessa socializzazione, e che quindi le modalità competitive dello spirito agonistico non sono variabili del tutto indipendenti dalla condizione umana, ma anzi la rappresentano simbolicamente, per cui la tensione agonistica solo per il risvolto ludico è gratuita e fortuita, mentre, dal lato esistenziale, manifesta il dramma che la sfida contro il Potere (dapprima naturale e quindi sociale) rappresenta il forme plastiche. La necessità della sfida, è la stessa necessità delle regole. Perché le regole se il palio è la vittoria su di esse? Perché le regole rappresentano la forza delle leggi – di natura e giuridiche – la cui necessità non disponibile all‟uomo si 286
J. Huizinga, Op. cit., pag. 124.
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trasferisce nel regolamento di gioco. E perché la forza avversa della natura e della società si oppone alla volontà dell‟uomo? Non c‟è risposta a tale mistero, e la stessa gratuità avvolge il regolamento di gioco. Se c‟è una ratio nella Natura, vi è anche nella potenza regolatrice del ludus. All‟inizio di tutto il creato si intravvede la potenza direttiva di Dio; all‟inizio del gioco si intravvede l‟uomo socializzato, la forza del potere politico. Nei due casi, l‟uomo difende la sua libertà dal Potere, la sua ratio essendi dalla opposta voluntas dominandi. La ragione umana contro la forza magica del Potere, naturale, divino o sociale. Per l‟uomo primitivo […] ogni conoscenza non comune è in fondo una scienza sacra, un segreto e magico sapere. Infatti per lui veramente ogni conoscenza è in immediata relazione con l‟ordine cosmico stesso .287
La sacertà del sapere verte sull‟identità dell‟ordine umano con quello divino. La religione postula questo rapporto identitario, di cui si fa garante. L‟unità cosmico-religiosa è una unità totale, senza alcuno spazio per la volontà eslege dell‟uomo. La forza divina è onnipotente perché abbraccia l‟ordine di ogni cosa. Il corso regolare delle cose, disposto e stabilito dagli dèi, custodito dal culto, a mantenimento della vita e a beneficio dell‟uomo […], più che da ogni altra cosa è continuato e protetto dalla conoscenza degli uomini intorno alle cose sacre e ai loro nomi segreti, insomma intorno all‟origine del mondo.288
Chi stabilisce le regole, del gioco cosmico o ludico, le conosce. ne conosce il senso recondito, la ratio che sorregge la loro coerenza strutturale. Penetrare le regole del mondo – ovvero del gioco – significa svelare le ragioni del Potere, rapportarsi ad esso, congiungersi in simbiosi col mistero. E‟ questo il mestiere sacer-dotale, non di ogni uomo che soffre la costrizione del gioco della vita nell‟ignoranza delle regole, o almeno del loro senso recondito. Rispondere alla domanda: “Perché le regole?” equivale a penetrare la mente di Dio e del Potere; conoscerne la volontà, e quindi prevederne le mosse, in qualche misura difendersene e quindi ridimensionarlo. 287 288
J. Huizinga, Op. cit., pag. 125. Ibidem.
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Rendere prevedibile il futuro è farlo presente alla coscienza: è questo lo scopo teoretico di ogni razionalizzazione. Le regole – della natura o divine, giuridiche o ludiche – formalizzando il percorso della volontà la rendono pre-vedibile, ideale, e perciò controllabile e perfettibile. Le regole arginano il Mistero e lo trasformano in conoscenza razionale, lo de-finiscono formalmente. Gli danno cioè un confine, un limite, distinguendolo dal campo profano. Lo limitano nella sua potenza altrimenti indeterminabile e imprevedibile e incontrollabile. Dare nome alle cose è appunto de-finirle nella loro specifica possibilità d‟essere, chiuderle nel loro spazio di senso vitale. La parola è infatti il terreno d‟elezione dell‟essenza umana, il luogo celestiale in cui l‟uomo incontra Dio. La magia della conoscenza è in questa correlazione mistica tra la definizione ideale e la neutralizzazione potenziale. In virtù della stessa funzionalità della parola a unire cielo e terra, spirito e materia, libertà e potenza, è nella sua ratio che il cosmo sia unitario, che cioè il mondo e la vita costituiscano un uni-verso, una struttura armonica, costituita di elementi corrispondenti, la cui molteplicità singolare è rapportabile a un‟unità ideale, essenziale, ontologica. la ratio del kosmos è necessariamente unitaria, perché ogni fenomeno singolare deve potersi rapportare al Potere della stessa volontà unificante, onnipotente nella sua regolamentazione di controllo totale. L‟ordine cosmico è un ordine razionale. Razionalità, cioè struttura di pensiero, e ordine, cioè ordinamento della volontà, sono sinonimi. Non c‟è ordine senza ragione, senza “metodo”, ossia regole di comportamento. Le regole razionalizzano il comportamento nel senso di rapportarlo in direzione dell‟effetto sperimentato: economizzano le energie vitali. La regola elimina le prove già tentate e stabilizza i comportamenti efficaci, imponendoli come “normali”. I comportamenti normati, cioè soggetti a norme, diventano così normali, cioè regolari e ripetibili efficacemente. La filosofia nasce da “un sacro giocare” in cui “si esercita la sapienza come un sacro cimento d‟abilità […] in forma ludica”. Infatti, “è incontestabile che la domanda cosmogonica, come sia avvenuto tutto ciò che è nel mondo, costituisca una delle occupazioni primarie dello spirito umano”. Svelare il mistero cosmogonico è penetrare la volontà di Dio, de-finire la sua potenza e in qualche misura controllarla rendendola prevedibile. “La funzione dell‟enigma sacro è di indurre gli dèi ad
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effettuare i desideri degli uomini”.289 In che modo? Dimostrando che il loro potere non è avvolto del tutto nel mistero, e che l‟enigma si può svelare rivelando la segreta volontà divina. Il mistero è potere, perché sospende la rivelazione dell‟enigma della volontà. Induce al silenzio, che è l‟opposto della parola definitoria, imitatrice del Potere. la domanda senza risposta, avvolgendo nel silenzio i nostri pensieri, blocca l‟azione umana nel mistero, e crea paura. La paura della balìa, della dipendenza della propria volontà a quella altrui, più potente. La paura si vince sfidando il mistero e trovando la parola giusta, la “soluzione” che scioglie “il legame col quale l‟interlocutore vi tiene unito a sé. ecco perché la soluzione giusta rende di colpo impotente l‟interrogatore. A ogni domanda esiste per norma una sola risposta, la quale può essere trovata perché si conoscono le regole del gioco”.290 Le regole conosciute aboliscono la distanza tra interrogante e interrogato. Sapere è conoscere il senso del volere, la sua ratio. Conoscere la ratio della volontà significa scoprire il mistero del suo sistema. Il sistema è il collegamento razionale delle parti al tutto. Collegamento = unione funzionale, unità formale. Conoscere è dunque riportare il Molteplice all‟Unità. Conoscere e dominare il sistema è idealmente equivalente. Vi presiede la stessa operazione ideale. Ma perché ciò sia possibile effettualmente, la realtà deve riflettere l‟unità ideale del cosmo sacro. La vita, cioè, deve rispecchiarsi nel suo modello teorico. Da qui la necessità deontologica di condurre la vita, la molteplicità dei suoi fenomeni, all‟unità razionale, al loro controllo regolamentato, al dominio del Potere. All‟esercizio efficace del Potere è imprescindibile il presupposto dell‟unità ontologica, il monismo cosmico. Uno è il mondo, unica la volontà di potenza, esclusivo il Potere di controllo. L‟Uno è dove converge la molteplicità dei fenomeni. Ma l‟unità è ideale, e perciò va riprodotta nel reale, che deve perciò esserne il riflesso speculare. A tal fine la Molteplicità va negata per essere assimilata alla sua unità ideale, e quindi “razionalizzata” per corrispondere al modello unitario. In altri termini, la realtà va idealizzata perché sia dominabile con lo stesso potere definitorio della parola. La gloria è il riflesso umano del valore trascendente, che si realizza come consenso alla propria aristeia. Il con-senso è il riconoscimento che il 289 290
Ivi , pagg. 127-128. Ivi, pag. 130.
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valore comune esiste, ed è rappresentato dall‟eroe. Il riconoscimento convalida l‟unità di senso dei molteplici partecipanti, accredita la loro appartenenza ideale allo stesso valore. e ciò procura, con la gloria, la rassicurazione antropologica che l‟unità del mondo si può conseguire, che essa non è andata perduta definitivamente con la coscienza dialettica che l‟Io e il mondo siano due, e non Uno, come impone la fede e come ispira la speranza. In questo senso, “la risposta all‟enigma non si trova con la riflessione o col ragionamento logico”,291 poiché l‟anelito unitario non nasce dalla coscienza critica, che anzi distingue logicamente il mondo dal proprio sé, e perciò non è programma filosofico, in quanto la filosofia si costituisce come la mediazione tra l‟elemento ideale e quello reale; l‟unità è progetto etico della fede religiosa, è missione razionalizzatrice e programma d‟azione. Tale missione presuppone la fede nella Verità, e non la ricerca della Verità. nell‟orizzonte di senso religioso, la Verità è un dato originario della coscienza, non il fine della ricerca. E poiché il dato originario è oggetto dell‟intuizione del mondo, il dato intuitivo è consustanziale, omologo, al valore, e identico dunque alla Verità. L‟ente, nella prospettiva religiosa, è un fenomeno simbolicamente rappresentativo del valore ideale, non dunque una mera parvenza accidentale. Questa identità ente e valore costituisce il cosmo religioso della fede, la credenza nell‟Uno. L‟osservatore laicamente disincantato non coglie nella parvenza che l‟aspetto ludico e mimetico, non già il suo valore simbolico, per cui di quella dinamica rappresentativa acquisisce solo la tecnica del “gioco” agonistico, la ratio della sua struttura formale, ma non lo spirito della dialettica che animava in origine il dramenon. Il “gioco sacro”, non è gioco quando è sacro, ma rito, liturgia, rappresentazione simbolica del valore di fede. Huizinga ne è in qualche modo consapevole quando asserisce che “l‟enigma si dirama tanto verso il dominio del divertimento quanto verso quello della sacra dottrina, [per cui] non dobbiamo parlare né di serietà che si perde in scherzo, né di gioco che si sublima in serietà”. E adombra i termini della questione della differenza logica rispetto all‟intuizione religiosa allorquando aggiunge che “è la vita culturale che produce via via una certa separazione fra i due domini che noi distinguiamo oggi come serietà e gioco, ma che in una fase primitiva formavano un indiviso medium spirituale in grazia del
291
J. Huizinga, Op. cit., pag. 130.
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quale sorse la cultura”. 292 In altri e più chiari termini, il progresso culturale dell‟uomo, della sua coscienza, si muove nella direzione della distinzione di ciò che l‟intuizione religiosa pone come dato originario unitario. il momento logico-dialettico della distinzione sfata l‟unità di fede religiosa tra Io e Mondo, ponendo questi elementi in rapporto conflittuale, infrangendo così l‟armonia religiosa nell‟unità cosmica. Ciò significa che il percorso logico, la ricerca filosofica, confuta la tesi monistica della razionalità universale, e pertanto dismaga la credenza nell‟unità ontologica del cosmo razionalizzato. Ne consegue che è il momento filosofico, del pensiero logico-dialettico, quello che irrompe nell‟armonia costituita dalla ratio unitaria per rendere problematico ciò che la fede crede verità costituita, dogma. Se ciò è chiaro, si comprende anche la funzione della filosofia nella decostruzione della fede cosmologica e nel potenziale trapasso della credenza fideistica verso un razionalismo ateo, che del cosmo religioso conserva la metafisica monistica ma, avendo perduto la fede nel rapporto simbolica col valore, si costituisce come puro pensiero metodico, come sistema razionalistico di unificazione del molteplice, come scientismo. La realtà “indivisa” è quella del cosmo religioso, intuito come Uno. Ma è anche il mondo della scienza, che unifica i molteplici fenomeni nella legge razionale che li sussume astrattamente senza veramente conoscerli. Lo scientismo razionalistico moderno è la forma secolarizzata del sistema teologico cristiano, il suo “gioco” formale senza più il valore simbolico cui serviva in origine, quando il mondo era ancora uno.
10. La logica critica la costruzione cosmologica del razionalismo fideistico, distinguendo Cesare da Dio, il Mito dalla Verità, le due nature ontologiche dell‟Essere come Uno e Molteplice, come Idea universale e come esistenza finita. La distinzione filosofica è preludio all‟unità, o non sarebbe critica, sicché il momento scettico si sviluppa verso una nuova definizione positiva del rapporto, in direzione cioè di una nuova fede cosmologica unitaria. Il mondo non può vivere in crisi. La civiltà si costruisce come equilibrio metafisico tra il caos del Molteplice e il Potere razionalizzante dell‟Uno. Il sistema di vita razionalizzata è psicologicamente rassicurante per la coscienza religiosa, ma mortifero per 292
J. Huizinga, Op. cit., pag. 131.
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la libertà spirituale del pensiero teoretico, che si dispiega storicamente come potenza del Negativo, come critica filosofica dirompente la stabilità razionale del Mito, e perciò come opposizione irrazionale alla ratio del sistema unitario, garante della coerenza cosmologica della religio. Le “aporie” della coscienza sono un intermezzo critico che va “normalizzato”. Le domande irrisolvibili sono quelle razionalmente mal poste. Il sistema va adattato al problema, adattando il problema al sistema. La filosofia è l‟arte metafisica del pontiere, getta ponti tra ciò che religiosamente è e ciò che logicamente dev’essere ai fini della civiltà umana: l‟equilibrio ontologico. senza equi-librio non c‟è Giustizia, non c‟è diritto, non c‟è appagamento spirituale: la “consolazione” della filosofia è il riposo della ragione. Ma l‟equilibrio presume la divisione, cioè la logica del pensiero dialettico, la critica filosofica. Appena raggiunto, lo spirito razionale si impigrisce e s‟acquieta nella credenza che ciò che è – l‟ente sia tutto - ciò che può essere. Subentra la tranquillità del dogma di fede, la certezza problematica dell‟unità religiosa del cosmo razionalizzato. E allora i custodi della fede, le classi dirigenti, ritenendo che la loro sia una funzione naturale e non un ruolo storicamente conquistato con la fatica della lotta vittoriosa, la assumono come privilegio, come “diritto” di natura e non funzione di cultura. E pertanto decadono, illanguidiscono nel “gioco” della vita come rappresentazione ludica, tensione puramente agonistica: il polemos diventa ludus; il lavoro spirituale, mera produzione; l‟arte, tecnica estetica; il diritto, regola formale. La tragedia eroica del diventa gioco, convenzione scenica, e la vita razionalizzata in civiltà la commedia umana. Ciò che Huizinga indica come “gioco” è insieme la rappresentazione simbolica e la tecnica rappresentativa, sicché con lo sviluppo della coscienza critica, che costituisce un processo culturale immanente a ogni forma di civiltà, il valore simbolico viene distinto dalla rappresentazione tecnica, per cui il “gioco sacro” diventa spettacolo estetico. Mentre infatti religione, scienza, diritto, guerra e politica, in forme più finemente organizzate di vita sociale, sembrano perdere via via i loro contatti col gioco che furono così vivi e pieni in stadi primitivi di cultura, il poetare invece, nato nella sfera ludica, non se ne allontanerà mai definitivamente. Poiesis è una funzione ludica.293 293
J. Huizinga, Op. cit., pag. 140.
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Le ragioni di tale intimità le conosciamo. Infatti l‟intuizione del mondo, come cosmo unitario e unica realtà immediata della coscienza poietica, è comune sia alla poesia che alla religione e alla scienza. Solo il pensiero logico distingue gli elementi intuitivamente unitari del modo, separando la coscienza come spirito creatore, appunto poietico, dai suoi prodotti pratici, dalla tecnica rappresentativa, ossia dal “gioco”. Attribuire valore simbolico al gioco è fare poesia, coniugando indissolubilmente tecnica rappresentativa a immaginazione creativa. [La poesia] ha luogo in un orto chiuso e fiorito dello spirito, in un mondo tutto proprio che lo spirito stesso si crea, in cui le cose hanno un altro volto che nella “vita consueta” e sono connesse in altro modo che dal legame logico. [Ed essendo questo “legame” ideale quello proprio della coscienza matura, adulta,] per intendere la poesia bisogna sapersi vestire dell‟anima del bambino come di un camice magico e accettare la saggezza del bimbo piuttosto che quella dell‟uomo. E‟ quell‟essenza primordiale della poesia […] che più d‟ogni altra cosa s‟accosta al concetto vero e proprio di gioco.294
Va da sé che la “saggezza del bimbo” è quella che assume le cose per ciò che sembrano essere, identificando la loro essenza con la stessa rappresentazione formale. Poiché questo senso unitario del mondo è proprio di ogni rappresentazione razionalizzata della realtà, dovremmo dire che è bambinesca l‟intera mentalità civilizzata? La differenza tra la stilizzazione formale degli istituti culturali del mondo civile, e la rappresentazione estetica della realtà, risiede nella consapevolezza o mano che ogni forma rappresentativa sia funzionale al valore simbolicamente rappresentato, ovvero che il “gioco” abbia un senso. Assumere il senso del gioco in sé come un valore, significa eliminare da esso ogni valenza simbolica trascendente l‟agòn, e considerarlo nel puro aspetto estetico. Ed è ciò che fa il bambino, che vede il gioco come realtà in sé. ed è, invece, ciò che non fa l‟adulto, che vede il gioco come realtà simbolica. Il mito, la fiaba, ogni rappresentazione intuitiva del mondo, esprimono un valore simbolico che la coscienza critica trae dalla rappresentazione, astraendolo dalla sua mera forma. Ma lo stesso valore simbolico può non essere considerato e restare celato alla coscienza, per cui il drama può essere visto con l‟occhio dei sensi anziché con quello 294
J. Huizinga, Ibidem.
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della mente., e considerato perciò nel suo puro valore estetico, ludico, drammatico, giocoso, recitativo e mimetico. Abbinare la mentalità infantile alla coscienza arcaica del mondo può avere senso solo se non dimentichiamo che il valore rappresentativo del “gioco” è andato perduto in seguito alla sviluppo critico dell‟originaria civiltà che l‟esprimeva, ma che tale valore era invece ben presente ai contemporanei. Che essi “credessero” a quei valori e alla connessione con le rappresentazioni ludiche, è quanto li distingue dalla coscienza disincantata dell‟estraneo (die Fremde) a quel mondo simbolico, che li assimila alla “credulità” della coscienza infantile dei bimbi, i quali appunto “credono” che la rappresentazione sia reale. La credenza è il fondamento di coscienza di ogni fede ontologica, da quella religiosa a quella scientifica. Lo scienziato crede che il suo esperimento rifletta il comportamento della natura come il bimbo crede che i suoi doni vengano dalla Befana. I doni sono reali, la Befana immaginaria. Così gli antichi dèi: esistevano finché si credeva in loro. Le preghiere, senza fede, restano poesie; le cosmologie, diventano saghe e racconti mitici. Ma chi credeva in esse, non era un bambino! La fede è bambina rispetto alla critica della coscienza adulta, ma entrambi sono stati di coscienza proprii dell‟uomo come essere pensante. Ogni stato riflette la sua condizione di coscienza storica, ma tutte sono umane. Nelle rappresentazioni mitiche dei popoli primitivi, riferentisi alle cause dell‟esistenza, sta racchiuso come in germe quel concetto che più tardi cercherà riflessione ed espressione in forme e termini logici. […] Per giungere a questa nuova comprensione è necessario anzitutto sapersi liberare dal‟idea che la poesia debba avere soltanto una funzione estetica, oppure sia spiegabile o comprensibile su basi estetiche. La poesia in ogni civiltà fiorente e viva, e soprattutto in uno stato arcaico di cultura, è una funzione vitale, una funzione sociale e liturgica. Ogni poesia antica è contemporaneamente culto, sollazzo, gioco di società, abilità, saggio o indovinello, grave insegnamento, persuasione, incantamento, divinizzazione, profezia, contesa. 295
Bisogna intendersi. Il “concetto” che è “in germe” nelle “rappresentazioni mitiche” sembra scomparso e verrà ricuperato più tardi alla comprensione, proprio in quanto la coscienza attuale vede quelle stesse rappresentazioni come “mitiche”, ossia esclusivamente estetiche. Il 295
J. Huizinga, Op. cit., pag. 141.
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pensiero postero, insieme alla sua mera rappresentazione, coglierà anche quel “concetto” che era immanente a essa e che la scomparsa della fede nel suo valore di verità aveva perduto. Per cui, è lo stesso pensiero che si esprime “in termini logici” a ricuperare, insieme al valore estetico della rappresentazione, l‟annesso valore simbolico, smarrito. Ed è il pensiero logico, cioè la critica, a giudicare, cioè a distinguere la poeticità della “poesia” dalla razionalità del suo valore simbolico. Ma nessun pensiero, né contemporaneo né postero, potrà unificare tutto ciò che “contemporaneamente” la “poesia” esprime senza un previo atto di fede, senza cioè la credenza nel suo valore espressivo. Perduta questa fede, la poesia non potrà che essere espressione estetica, “forma” in senso crociano, e perciò mito, il cui valore rappresentativo sarà sempre sogguardato per l‟aspetto tecnico, e non per il suo contenuto sostanziale, ossia come “gioco” privo del suo antico valore sacro. La critica interviene a corpo morto, come un‟autopsia spirituale, che disseziona il corpo un tempo unitariamente vivo. La logica distingue ciò che in vita era organicamente unito, e come la hegeliana nottola di Minerva il pensiero critico s‟erge quando il mondo-della-vita trova riposo dalla sua stessa vitalità, che è la sua fede che unisce in necessaria composizione le sue opposte dinamiche. Ma la coscienza critica è ugualmente distante dalla fede, non necessariamente postuma. La storicizzazione delle categorie, o meglio delle forme di coscienza, confonde il movimento ideale con le strutture di pensiero dominanti, ossia ciò che interviene logicamente dopo, con la successione temporale, ma in realtà il passaggio da uno ad altro stato di coscienza può anche non intervenire storicamente, così che l‟azione critica sia mancante fin quando si mantiene viva la fede ontologica nell‟unità dell‟Essere, ovvero fin quando la poesia resta “gioco consacrato, e non mero “gioco di suoni in cui il senso può andar perso completamente”.296. Il “mito” e la “poesia” sono rispettivamente il contenuto e la forma di ciò che originariamente era tenuto insieme in unità inscindibile dalla fede. la loro distinzione è una conseguenza logica dell‟estinzione o della astrazione da quella fede. Per mantenersi come elemento sacro della cultura, il mito dovrà dunque o venire interpretato misticamente, oppure interessare solo come forma
296
J. Huizinga, Op. cit., pagg. 143-144.
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letteraria. A seconda che l‟elemento fede sparisce dal mito, in quest‟ultimo traspare ancora una volta il tono ludico che gli era proprio sin dall‟inizio. 297
La rappresentazione è “mitica” solo in conseguenza della critica che la distingue dal suo valore simbolico, ma essa è testo di fede per i credenti. Già Omero non è più un credente. Nondimeno il mito come espressione poetica del fatto divino continua ad avere una funzione importante oltre a quella meramente estetica, anche dopo aver perduto il proprio valore come adeguato riflesso della cosa compresa. Tanto Aristotile quanto Platone dànno ancora forma mitica alla quintessenza del loro pensiero filosofico: in Platone è il mito dell‟anima, in Aristotile l‟idea dell‟amore delle cose verso l‟immobile Motore dell‟universo.298
Il “mito come espressione poetica” è già mito in quanto “poesia” e non più verità di fede. e come tecnica rappresentativa può prestarsi esteticamente a esprimere un‟altra fede, altre verità. Il “mito” è narrazione estetica per la coscienza critica, ma è narrazione “sacra” per la coscienza religiosa. In sé la narrazione è e non-è mito ovvero verità, per cui la forza della parola è nella sua stessa possibilità d’essere ciò-che-è. Come parola mitica, essa è tecnica affabulatoria; come verità, è la parola di Dio. All‟atto critico, il pensiero logico distingue il senso dalla rappresentazione, il creduto dal vero, e così facendo dis-unisce l‟essere dalla sua possibilità infrangendo l‟unità cosmica del récit. La ragione della profonda identità dell‟espressione poetica, in tutti i periodi della convivenza umana a noi noti, va cercata in massima parte nel fatto che questa forma espressiva della parola creatrice è radicata in una funzione più vecchia e più originale di ogni altra attività di cultura
che Huizinga identifica col “gioco”, inteso come un‟azione che si svolge entro certi limiti di luogo, tempo e senso, in un ordine visibile, secondo regole liberamente accettate, e fuori della sfera dell‟utilità o della necessità materiali [il cui] stato d‟animo comporta astrazione dal
297 298
Ivi, pag. 153. Ibidem.
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“consueto” ed estasi [essendo] accompagnato da sentimenti di elevazione e tensione, e comporta letizia e distensione. 299
Huizinga rimuove l‟aspetto drammatico del gioco, privilegiando di esso l‟aspetto ludico e liturgico. In realtà la rappresentazione, come sappiamo, ha per contenuto simbolico la sofferta condizione umana che si misura cl suo destino. Ogni cimento è sul destino, e ogni vincitore lo supera assumendo su di sé la gloria del valore che è la ratio immanente alla rappresentazione ludica. Ogni fede è elevazione mistica quanto tremore metafisico, laetitia e insieme tremendum. La poesia è il “gioco con parole e lingua” legate coerentemente al loro senso simbolico unitario della realtà, al kosmos uni-versale e armonico. Nel testo si entra come nell‟agone ludico, conoscendone le regole, e interpretandolo come un giocatore che le accetta. L‟interprete partecipa del senso del testo, e lo rivive in sé facendolo suo. In questa mistica fusione di senso si realizza la comprensione, la penetrazione della scrittura nel suo significato simbolico. Oltre il gioco estetico, c‟è il valore, la sua ratio. Oltre il testo formale c‟è il suo significato. Entrambi sono immanenti alla passione ermeneutica del ludus e trascendenti alla critica del logos. La poesia come “gioco” ludico è manierismo de-sacralizzato, privato dello “spirito del gioco”, che è immedesimazione con la sua ratio, tanto più vissuta quanto più creduta vera. Partecipare al gioco significa viverne lo spirito, cioè uniformarsi al suo valore rappresentativo. entrare in gioco significa partecipare delle regole del suo universo di senso. Per chi della poesia colga il solo aspetto estetico come “espressione”, avente un valore distinto dal contenuto rappresentativo, considera la sua sola struttura formale, il lato armonico della tecnica espressiva, astratto dal suo contesto significativo meta-testuale. Ma senza il fondamento di fede che sostiene il dato formale, l‟espressione estetica diventa un corpo senz‟anima né storia, avendo della prima solo la forma, e dell‟altra solo lo stile. La lettura estetica del dato formale, astraendo dal suo contenuto di valore meta-formale, e tale in quanto trascendente ogni possibile rappresentazione compiuta del Bello, che è un‟Idea, è la finzione propria della conoscenza scientifica, la quale appunto è un‟astratta rappresentazione dell‟universo simbolico, considerato un valore in sé il cui criterio di verità è auto-referenziale e quindi assoluto. Esattamente 299
Ivi, pag. 155.
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come un testo “sacro”, la cui “fede” è la Bellezza come valore formale, come stile. Lo stile è la forma assurta a valore estetico. Un valore che, essendo ideale, non è di questo mondo, del mondo-della-vita che diviene. Il concetto vincolato a parole necessariamente sarà sempre inadeguato al fluire della corrente vitale. […] Mentre tuttavia la lingua della vita quotidiana, come strumento pratico e generalmente accettato, consuma di continuo l‟indole immaginativa di ogni espressione in parola, ed acquista una indipendenza strettamente logica in apparenza, la poesia invece continua a coltivare intenzionalmente l‟indole figurativa della lingua. 300
La lingua “poetica” ha uno stile figurato che non significa qualcosa ma esprime l‟Essere, L‟essere del mondo non è il mondo, ma la sua cifra simbolica, ossia ciò che il mondo è all‟interno del cosmo poetico, dell‟orizzonte della lingua che lo de-signa. “Dire il mondo” equivale a crearlo, assumendolo per come il suo essere è detto. L‟universo simbolico della lingua de-signa i confini significativi del cosmo rappresentato, l‟orizzonte di coscienza. Ogni orizzonte di coscienza ha la sua lingua simbolica. L‟arte poetica è poietica, creatrice di senso. Ciò che dà forma al mondo è la parola, sicché il mondo stesso è nell‟atto della sua forma espressiva, il cui senso creativo è poetico. A partire dalla creazione del mondo, dal suo stabilirsi come realtà de-nominata, ogni ulteriore dire del mondo deve presupporlo, assumendolo come pre-esistente alla sua rielaborazione. La lingua poetica è un dire che non diviene, perché designa un mondo quale è quello da essa creato. In questo senso la lingua poetica è la stessa lingua dell‟Essere, mentre ogni altro è linguaggio del divenire, lingua storica. Ciò che la poesia dice del mondo è che esso è. Per questa sua funzionalità ontologica, essa si presta alla rappresentazione religiosa del mondo come cosmo unitario di senso. Prima di diventare la grande mediatrice di senso, la parola è il senso del mondo. E lo diviene ogni volta che il suo dire di credenza è creduto, diventando così linguaggio di fede nella verità di quanto detto. Ed è allora che la parola diventa “culto”, e la sua lingua espressione religiosa, parola di verità. La rappresentazione poetica non è ancora ordine cosmico, che solo la ragione può dare. Designare non è ordinare, ma chiamare gli enti alla loro funzione elettiva entro l‟orizzonte di senso verbale. E‟ la ratio a fare di questo orizzonte un cosmo significativo, ordinandolo secondo un significato simbolico costante, portandolo gli enti molteplici al loro essere 300
J. Huizinga, Op. cit., pag. 157.
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di senso unitario. Ciò che la ragione unisce, la logica divide, distinguendo gli enti nominali dalla loro verità di ragione. La logica introduce nel kosmos il kaos, destabilizzando l‟ordine armonico delle parole garantito dalla ragione. La ragione delle cose è il loro ordine cosmico, quello che assicura con la stabilità dell‟esperienza anche la sua leggibilità. L‟atto creativo, attraverso l‟ordine razionale, si tramuta in regola, in forma canonizzata, in metodo razionale, in dogma religioso. Ma l‟incompiutezza dell‟opera umana, legata alla sua condizione finita e diveniente, lascia sempre uno spiraglio alla filosofia, al pensiero critico, che ritrova il suo potere negativo per insidiare il dogma, la stabilità armonica dell‟unità cosmica, e riaprire il “gioco” metafisico, coi suoi travagli spirituali ed esistenziali, fino al nuovo equilibrio, alla quiete riconquistata da parole più comprensive di senso veritativo, e così per sempre, fino alla fine della Storia e al suo compimento. A proposito del “linguaggio figurato” Huizinga afferma che la personificazione dell‟immateriale o dell‟inanimato è „essenza di ogni mito e di quasi ogni ispirazione poetica. [Infatti, egli aggiunge,] la figurazione come essere vivente è il primo modo espressivo della cosa percepita. Tale figurazione si attua non appena diventa valido il bisogno di comunicare la 301 cosa percepita. La concezione nasce come figurazione.
In realtà, la “figurazione” è essa stessa un‟immagine poetica (ut pictura poesis) che rappresenta un mondo. La “concezione” di quel mondo coincide, è, la sua “figurazione”. Ed è tale coincidenza dell‟ente con l‟essere che la filosofia ricerca dopo la frattura metafisica, aspirando di pervenire all‟origine della verità, ossia all‟unità ontologica, all‟intuizione poetica dell‟Essere e alla fede perduta in seguito alla dissociazione logica. La concezione distinta dalla raffigurazione interessa un processo della coscienza logica successivo alla validità dell‟intuizione poetica, ossia alla fede nella verità del Mito. Ne consegue che non si può accogliere l‟affermazione di Huizinga per cui sarebbe “lecito dubitare che gli Indiani o gli antichi Germani abbiano mai creduto realmente, consci e convinti, a una storia come quella della creazione del mondo da membra umane”, sicché a suo dire “tale fede convinta non sarebbe comprovabile”, tanto che si può dire che essa “è inverosimile”.302 301 302
Ivi, pag. 160. Ivi, pag. 161.
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Ma ogni verità di fede è “inverosimile” fuori della coscienza religiosa che la coltiva. E‟ la “fede convinta” ciò che rende la rappresentazione cosmogonica una storia vera, e perciò sacra. La fede sorregge la verità. E la fede è la ragione stessa dell‟Unità cosmica del Molteplice. La ragione è la forma della fede, la sua struttura simbolica, la sua estetica. La perdita della fede coincide invece col momento scettico del pensiero critico, che ri-elabora la verità creduta rendendola logicamente “inverosimile”. Distinta dalla sua verità di fede, la “personificazione di astrazioni” – cioè l‟unità simbolica dell‟ordine razionale - , diventa una “allegoria poetica”, la quale appunto “non fa più parte di un‟azione sacrale” in quanto “il contenuto religioso delle sue personificazioni” è andato perduto. La perdita di fede segna il passaggio prodromico a un diverso orizzonte di coscienza, quello critico della filosofia, che assume la rappresentazione poetica della verità come un Mito religioso, la cui unità razionale non è logicamente giustificata, per cui la rappresentazione gi “sacra” e già “vera”, appare alla nuova coscienza un‟opera di fantasia, una forma immaginativa. Il nome indica una cosa. Ma l‟unità del Molteplice è costituito da un racconto che è legame razionale di parole, ognuna delle quali richiama simbolicamente un nome e un atteggiamento umano. L‟unità garantita dalla ragione è sempre un‟unità di fede, senza la quale l‟unità entra in crisi. La fede nella sua verità unitaria. La logica non incide direttamente sulla fede, ma sulla forma razionale dell‟unità, sul sistema religioso. La fede religiosa nella verità intuitiva della poesia, diventa fede filosofica nella verità logica dei concetti. Ma la dialettica religionefilosofia è il dramenon metafisico con cui il pensiero si contende la comune fede ontologica nell‟Essere, assegnandola competitivamente al proprio livello di coscienza. Senza il comune fondamento ontologico, nessun Mito potrebbe poeticamente essere, e neppure alcuna rielaborazione logica della sua razionale giustificazione unitaria. Non c‟è logos senza ratio, ossia non c‟è invalidazione critica senza previa rappresentazione mitica, e insomma non c‟è filosofia senza poesia. E al fondamento di ogni distinto livello di coscienza c‟è la fede ontologica nell‟Essere, l‟episteme su cui poggia ogni pensiero. Se deve indicare un fenomeno animato, cioè un processo complesso di eventi, allora il nome rappresenta una “persona”. La personificazione indica azioni, fenomeni attivi, cioè un‟attività fisica o mentale imputabile a un soggetto volitivo. L‟imputabilità di un fenomeno è una sua razionalizzazione, per cui collegandolo a una volontà, lo rende 252
intelligibile, e quindi collegabile ai processi (razionali) della vita naturale e umana coi quali l‟uomo si imbatte vivendo. Se il tuono ha un volto, e così la guerra o il vento, allora i fenomeni relativi coi quali ha a che fare l‟uomo vivendo non sono più inspiegabilmente casuali e imprevedibili, cioè incontrollabili. Infatti un fenomeno voluto da un soggetto divinizzato, può anche essere noluto, cioè può anche non manifestarsi. Da qui il rito propiziatorio degli eventi desiderabili, ovvero quello apotropaico per i fenomeni ritenuti pericolosi. Presentare le personificazioni come “un gioco dello spirito”, mettendone in dubbio la “fede sincera”,303 significa isolare il ludus dal sacer ponendosi a un livello di coscienza che non poteva essere quello della mentalità originaria, che rappresentava sotto forme ludiche la fede nel “sacro”, la verità. La Povertà per S. Francesco aveva la stessa valenza simbolica della Misericordia, della Giustizia e della Pace di cui ci parla il Vecchio Testamento, e di quella Sapienza di cui il Liber Sapientiae. Egli non vi credeva come a una realtà personale, commettendo idolatria, ma come a una verità di valore trascendente richiamata dal nome, che per la coscienza logica indicava un concetto, e non una persona. La rappresentazione personale ne indica l‟unità intuitiva di senso, che la coscienza logica supera astraendo dalla forma estetica il suo contenuto di fede, trascrivendolo in termini razionali, sui quali applica la sua critica. Al pari della coscienza filosofica antica, la coscienza moderna ha inteso superare l‟uni-versalismo teologico tradizionale, incentrato su verità di fede alle quali ogni aspetto fenomenico veniva riportato, con la parcellizzazione specialistica dei punti di vista scientifici, in base ai quali ogni prospettiva conoscitiva, muovendo da presupposti autonomi, cioè auto-fondati, costituisce una unità cognitiva razionale del mondo. Apparentemente, il pluralismo cognitivo dei distinti saperi scientifici, conseguente alla deflagrazione teoretica dell‟unità cosmologica di senso teologico, ha introdotto una libertà gnoseologica prima inibita e impossibile. In realtà, però, la prospettiva di ogni singola disciplina scientifica, in virtù del suo autonomo fondamento epistemologico, ha soltanto moltiplicato i punti di vista conoscitivi, ma non l‟impostazione metafisica della conoscenza come reductio ad unum della molteplicità dei fenomeni. Infatti, ogni scienza particolare riduce al mondo alla sua visuale, oltre la quale la realtà non è conoscibile. Il pluralismo dei mondi 303
J. Huizinga, Op. cit., pag. 163.
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delle scienze moltiplica l‟unità metafisica della visione teologica in altrettante relative unità, ognuna delle quali uni-versale secondo il proprio principio costitutivo. Tante scienze, altrettanti uni-versi cognitivi, anche se non (più) collegati a un Tutto che li comprenda. Ma esattamente questa molteplicità di saperi regionali rappresenta la modalità astratta della concreta teoresi di ogni coscienza soggettiva, la quale informa il mondo all‟unità de-finita dal proprio livello di coscienza. La scienza pertanto è la proiezione della coscienza personale, oggettivata come metodo razionale astratto dal suo soggettivo fondamento di fede. Una proiezione ideale creduta vera, e perciò mitica. La personificazione di un concetto, che per Huizinga “è un‟abitudine dello spirito a cui non ci siamo sottratti minimamente”, intende coniugare a uno stesso riferimento nominale comune a molti fenomeni congeneri anche l‟ida di movimento. Personificare è attribuire vita animata, movimento, a un‟idea altrimenti statica quanto una cosa. Diventando processo razionale, relazione causale, il movimento diventa racconto, rappresentazione narrativa, mythos. Sicché, ciò che Huizinga chiama “contegno ludico”, è in realtà più che un gioco: è il bisogno di rappresentare drammaticamente i contenuti di pensiero della coscienza mitica, di cui la personificazione divina o totemica esprime lo stesso concetto scientifico di unità ideale come appartenenza dinamica del molteplice. Tale idea viene rappresentata in forme simboliche che all‟osservatore disincantato appaiono ludiche, attribuendo al rituale estetico un valore extra-simbolico che in origine non aveva. Ma le forme simboliche non sono un “gioco”, bensì un linguaggio ieratico che esprime nel rito una sua struttura semantica significativa di senso mitico. Il segno mimetico infantile è anch‟esso rappresentativo, ma non di un valore socializzato, di una credenza religiosa, ma della sua fenomenologia empirica. Diversamente, la rappresentazione rituale simboleggia l‟opposto della mimesi infantile, ossia quella realtà ideale che non appartiene alla vita comune, ma è l‟altro del sacro. Il gioco infantile, invece, imita la vita comune, la rappresenta come un gioco mimetico, ma non simboleggia un rito di comunicazione con l’altro mondo. La tecnica mimetica (l‟allegoria, il travestimento, l‟allusione scenica), isolata dal suo valore rappresentativo, si presta a molteplici fruizioni espressive. Ma, in quanto forme del sacro, il loro valore metaforico non è mai dissociabile dalla loro destinazione di senso simbolico. Solo fuori della loro unità di senso simbolico la rappresentazione diventa “gioco”. 254
Huizinga, confondendo forma e contenuto simbolico della rappresentazione, confonde tecnica espressiva con valore poetico. La poesia, come realtà di coscienza, non è “la parola metrica”, ovvero il “gioco della collettività”,304 ma l‟universo rappresentativo inscritto nella sua rappresentazione estetica, che potrebbe anche essere diversa culturalmente da quella contestualmente espressa. La diversità culturale non inficia il valore simbolico rappresentato. Ma questa distinzione logica non interviene all‟interno dell‟universo coscienziale poetico, dove perciò non può darsi un momento ludico assolutizzato; se non a condizione di considerare il suo valore simbolico come sovrastrutturale, ossia come un “gioco” ideologico “in cui la società, non funzionando e non essendo più armonicamente strutturata, si riconosce in strutture simboliche che fingono la funzionalità”.305 Ma questa malignità o ambiguità semiotica è un portato della crisi del dubbio filosofico che interviene sulla tenuta delle credenze comuni, ma non può essere ascritto a motivo intenzionale intrinseco al fine rappresentativo, quasi fosse un “mascheramento simbolico” allusivo in senso mistificatorio a una realtà meta-estetica, deliberatamente sottaciuta. Le “funzioni ludiche” della poesia, e cioè “gli elementi e i mezzi” espressivi, non sono la “poesia”, ma le sue forme estetiche culturalmente storiche. Mano a mano che la tecnica espressiva affina i suoi strumenti semiotici, rendendoli più astratti e rappresentativi, soprattutto attraverso la polisemia della parola, anche la poesia si emancipa progressivamente dalle forme simboliche arcaiche di tipo rituale, le quali perciò tendono a rientrare “dentro il dominio del gioco”, per cui, ad esempio, l‟epopea perde l‟associazione col gioco dal momento che non viene più recitata in festosa comitiva, ma serve ad essere letta. Anche la lirica viene intesa ormai a malapena come funzione ludica, da quando ha abbandonato l‟intima unione con la musica.306
Huizinga, per non aver inteso lo stretto rapporto ideale intercorrente tra “gioco” e rappresentazione estetica, giunge ad affermare che “la lingua greca non abbia concepito una parola universale per l‟intero dominio del gioco”, Ibidem. mentre è universalmente noto quanto il concetto di 304 305 306
J. Huizinga, Op. cit., pag. 167. U. Eco, Introduzione a J. Huizinga, Op. cit., pag. XXV. J. Huizinga, Op. cit., pag. 169.
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“estetica” abbia pesato nella definizione dello spirito creativo dell‟uomo come . Lo stesso Huizinga ricorda a conferma che Anche la tragedia alla sua origine non è l‟intenzionale riproduzione letteraria di un brano di vita umana, ma un gioco sacro, non letteratura da teatro ma religione recitata, giocata. Dall‟actus di un tema mitico si svolge via via, in dialogo e azione mimetica, la rappresentazione di una serie di avvenimenti, la riproduzione di un racconto.307
All‟interno dell‟universo rappresentativo, “la distinzione fra serio e nonserio è eliminata completamente per la sfera spirituale in cui nasce il dramma greco”. La sua sacralità è nella sua verità di momento assoluto, altro da quello ordinario, nel quale la dimensione dell‟Essere-presente è dominante ed esclusiva, astratta cioè di ogni negazione. Chi propone all‟attenzione del pubblico me meraviglie della tecnica è il sofista, nella cui epideixis (esibizione) “offre di parlare di qualunque soggetto, preparato appositamente per esibirlo, e di rispondere a qualunque domanda gli si voglia fare”.308 in cambio di onorari. “Il sofista appartiene per natura più o meno alla casta dei raminghi; egli è un po‟ vagabondo e parassita per diritto di nascita”. La sua libertà da ogni impegno professionale gli consentiva una educazione e una sapienza che presero da allora a svilupparsi come frutto del tempo libero (), ricavato da ogni disimpegno statale, bellico od onorario. La sapienza e la scienza greche nacquero come prodotti del tempo libero dedicato alla “vita riflessiva e critica”.309 Ma cos‟è il sofisma? Il sofisma sfiora il comune indovinello inteso come divertimento, ma allo stesso tempo anche il sacro enigma cosmogonico […] e gnoseologico. Le più profonde sentenze dei primi filosofi greci sono sorte nella forma d‟un gioco di domande e riposte.310
Il “gioco” sofistico consiste nell‟offrire la tecnica oratoria ai fini molteplici dell‟utilizzo retorico: come strumento di conoscenza, ovvero meramente ludico. Tale tecnica è al servizio di sé stessa, emancipata da ogni vincolo ermeneutico e rituale. Il dialogo stesso “è una forma d‟arte”, 307 308 309 310
Ivi, pag 170. Ivi, pag 172. Ivi, pag 174. Ivi, pag 175.
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ossia una “finzione”,311 simile alla “orazione fatta per celia”.312 La natura ludica della parola de-sacralizzata e ridotta a tecnica retorica coincide con l‟idea della retorica come esercizio di una ratio astratta dall‟attività pratica, anzitutto da quella pubblica per antonomasia, la politica. La forma agonale conservata dai dialoghi platonici testimoniava la natura pubblica del discorso dialettico, sia pure in luogo e contesto, parallelo a quello antonomasticamente pubblico, come quello scolastico. Il dialogo e l‟arte dialettica sono forme di coralità originariamente riferite alla logica e alla retorica, anziché alla politica. Ma la disponibilità eristica della parola era desumibile dalla stessa versatilità dello strumento tecnico, sicché il significato dell‟antilogia, ossia doppio ragionamento, tanto amato dai sofisti, non sta del resto unicamente nel valore ludico di quella forma. La quale ha inoltre lo scopo di esprimere in modo pregnante l‟eterna ambiguità del‟opinione umana: si può dirlo in questo modo, ma anche in quell‟altro. Ciò che mantiene sincera fino a un certo grado l‟arte di vincere colla parola, è il carattere ludico della parola.313
Tale ambigua modalità ludica della parola, o neutralità tecnica, consegue alla dissoluzione critica della formula rituale canonizzata, la cui univocità di senso tipizzava la funzionalità strettamente sacra dello strumento retorico. Il senso “aperto” delle parole costituiva però, non già il superamento critico dell‟originario loro senso “chiuso” della loro univocità semantica consacrata dal rito mistico-formale, ma la persistenza in chiave eristica del loro valore simbolico, che la ermeneutica filosofica cercava di de-finire in senso logico uni-versale. Tanto che in certo senso già il fine agonale in sé ha qualcosa di falso, in quanto si realizza a scapito del gusto della verità. Per chiunque sia sofista o retore è norma non l‟amore della verità ma il personalissimo ed individuale “aver 314 ragione”.
Definire la “ragione” sulla base della volontà, significa manipolare la verità, tradurla in forma strumentale. Questo uso improprio – ma 311 312 313 314
Ivi, pag 176. Ivi, pag 177. Ivi, pag 179. Ivi, pag 180.
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possibile – della ragione è il fondamento di ogni pragmatismo razionalistico, di cui la sofistica è l‟esercizio tecnico relativo all‟uso retorico del linguaggio dialettico, che Huizinga accomuna al “gioco”, la cui “validità sta al di là della norma di ragione, dovere e verità”.315 La polemica socratico-platonica verso la sofistica come arte mercantile, intende ristabilire l‟originaria destinazione teoretica della tecnica dialettica, riferendola non più all‟universo di senso mitico-religioso, ma a quello scientifico-filosofico, attribuendo al concetto di verità un senso non più simbolico ma univoco, e tale da non prestare più l‟adito ad alcuna polisemica ambivalenza, ad alcuna “antilogia”. Come l‟idealismo antico, anche quello moderno contesta il valore veritativo di ogni gnoseologia razionalistica, assegnando alla ratio un mero uso strumentale e tecnico. Ma come quello antico, anche l‟idealismo moderno fallisce nel tentativo di sostituire alla fede intuitiva dell‟ontologica mitica, la fede filosofica della logica concettuale, poiché, come ormai sappiamo, ogni discorso filosofico è una rielaborazione logica del Mito, di cui la critica dialettica contesta la validità scientifica della sua giustificazione razionale, ma non il suo fondamento ontologico. Per cui la filosofia nel suo complesso è tanto idealistica quanto fideistica, costituendosi come una variante religiosa dell‟universo di senso mito-logico, il cui linguaggio è inteso non più come poetica divina () ma come logica concettuale () di una Verità non più olimpica ma ideale. La topica iperuranea vede l‟Idea al posto che fu di Zeus. Lo strumento della parola, infatti, “è in grado di trasportare parzialmente la poesia dalla sfera puramente ludica in quella del concetto e del giudizio”, lasciando alla musica di muoversi ancora nella sfera ludica.316 La logica del gioco è ricreativa, come “pausa alle afflizioni” umane, ma, come sappiamo, esso è connesso anche a “forme superiori” legate alla coltivazione dello spirito durante il tempo libero. Ma, considerato l‟uso strumentale che esso aveva rispetto al fine cui era preposto, la sua funzione veniva a coincidere idealmente allo scopo di cui era strumento, per cui, scrive Huizinga, “alla mente greca sfuggì il riconoscimento che tutti questi concetti sono riuniti in un unico concetto comune come 315
Ivi, pag 186. Come ricorda Huizinga, per i Greci il termine “musica” era più comprensivo di quello attuale, riferendosi “a tutte le arti e le abilità sulle quali regnavano Apollo e le Muse. Queste sono chiamate arti musiche in opposizione a quelle plastiche e meccaniche, situate fuori del dominio delle Muse”: Ivi, pag 187. 316
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avviene nella precisa parola latina ludus e nelle lingue europee moderne”. Nello stesso luogo, nondimeno,si fa notare che “l‟evoluzione di tale idea nello spirito ellenico è impedita tuttavia dal fatto semantico che in greco, alla parola indicante gioco - - si connette troppo, a causa della sua origine etimologica, il significato di gioco infantile, frivolezza”.317 Abbiamo già sopra chiosato che questa presunta riduzione semantica non può essere imputata alla lingua greca, se non nel senso che l‟accezione neutra di ludus sia stata distribuita tra il gioco infantile () e le singole applicazioni tecniche nei più svariati campi, sicché la sua concettualizzazione è più avanzata rispetto al generico riferimento semantico dell‟uso moderno di gioco. Infatti nelle Leggi Platone descrive il gioco () come “una cosa che non contiene né utilità, né verità, né un valore come paragone, e non ha neanche facoltà dannose [e che pertanto] va giudicato nel miglior modo secondo la grazia () che ha e il piacere che dà”, il quale derivava dalla “comunanza festiva con gli dèi”, il cui esercizio era stabilito allo scopo che fosse “ristabilito fra gli uomini l‟ordine delle cose”.318 Tale “ordine” non poteva che essere la disposizione razionale degli enti mondani entro il contesto simbolico rappresentativo del cosmo ideale. Huizinga non si sofferma su questo aspetto performativo, ma noi sappiamo che nel concetto di ordine razionale si racchiude il senso del contesto rappresentativo, il suo . E proprio questo fine razionale, che riporta all‟unità (religiosa o filosofica) i vari elementi cosmici, è assente dal gioco infantile e presente invece nella formazione spirituale dell‟uomo libero, la cui occupazione intellettuale ( ) tende alla perfezione della , finalità impossibile da raggiungere per i bambini. La perfezione come di cui parla Aristotile nella Politica è il fine trascendente alla rappresentazione, del quale questa è strumento tecnico-estetico. Non a caso la musica ha un valore che aderisce “sentimenti etici di natura positiva o negativa” di cui essa è “qualità” relativa. Ogni melodia, tonalità o attitudine di danza rappresenta, esibisce, raffigura qualche cosa, e a seconda che questa cosa è buona o cattiva, bella o brutta, ne viene anche alla musica stessa la qualità di buona o cattiva. Ivi sta il suo alto valore etico ed educativo. Udire l‟imitazione suscita nell‟uditorio i sentimenti 317 318
Ivi, pag 188. Ibidem.
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imitati stessi. [Da ciò deriva che] nella melodia […] abbiamo l‟espressione di un ethos.319
Ma da ciò anche la natura indeterminata e neutra della imitazione - come tecnica rappresentativa aperta ai fini più diversi. Non crediamo che tale concetto descriva l‟attività artistica in termini “sprezzanti”, come vorrebbe Huizinga, ma soltanto definisce l‟ambito di validità tecnica di ogni rappresentazione estetica, che esprime un valore che la trascende, e perciò imitatio, cioè riflesso in termini analogicosimbolici. La rappresentazione “imita” il valore perché non è quel valore, che la trascende proprio in quanto non si identificava. Se la rappresentazione fosse il valore, allora essa rappresenterebbe solo se stessa. Ma questa idea di un‟arte auto-referente manca alla visione greca, per cui ci sembra fuorviante la tesi di Huizinga per il quale “che la musica serva al sollazzo alla gioia, o che voglia esprimere profonda bellezza, o che abbia una sacra destinazione liturgica, in fondo rimane pur sempre gioco”,320 perché il gioco in sé era per l‟appunto inteso come sollazzo infantile, e non come tecnica seria finalizzata all‟educazione spirituale dell‟uomo. Lo stesso carattere “sociale” lo comproverebbe chiaramente. Solo allorquando le arti acquisirono un carattere “privato” la loro considerazione poté concentrarsi sul loro puro valore tecnico, cioè sulla loro “virtuosità” estetica. Questo avvenne col Romanticismo, che esaltò il valore estetico dell‟arte, mentre “nella cultura arcaica” L‟opera d‟arte materiale trova il suo posto e la sua destinazione in massima parte nel culto, il che vale indistintamente per un edificio, una statua, un abito, o per un‟arma decorata. Quasi sempre l‟opera d‟arte partecipa della sfera sacrale, è anzi carica delle sue facoltà potenziali: forza magica, significato sacrale, identità rappresentativa colle cose cosmiche, valore simbolico, consacrazione insomma.321
La parola che tutto comprende è “arte”. “Arte e tecnica, abilità e forza formatrice, stanno nella cultura arcaica ancora in separate”.322 Il che vuol dire che c‟è dell‟arte in ogni manifestazione umana, la quale si esprime 319 320 321 322
Ivi, pagg. 190-191. Ivi, pag 191. Ivi, pag 197. Ivi, pag 200.
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esprimendosi: dalle forme religiose a quelle del tutto secolarizzate come le forme politiche moderne. “Tutto quel che è esame o dibattito pubblico deriva in fondo dalle forme arcaiche di un saggio di bravura, non importa in quale materia”, e dunque tanto l‟artigiano che lo studioso competono in un cimento agonale, di origine sacrale. Si ricordi che le origini delle corporazioni operaie stanno piuttosto sul terreno sacrale che sull‟economico. Solo col fiorire delle città, a partire dal dodicesimo secolo, la corporazione di artigianato o commercio come tale acquista primaria importanza. Anche in quella veste conserva ancora molti dei suoi tratti ludici nelle forme esteriori: scudi, banchetti, processioni, ecc. solo coll‟avanzar del tempo l‟interesse economico fa deviare quei tratti. 323
In realtà l‟interesse economico viene in risalto proprio a seguito del venir meno del motivo sacrale, le cui forme permangono spogliate della loro funzione simbolica originaria, del loro senso meta-estetico. Lo scopo economico soppianta la funzione religiosa venuta meno come il lato artistico assorbe le capacità tecniche dell‟artigiano secolarizzato. Ancora una volta, l‟elemento ludico risalta nel suo valore espressivo in relazione al valore cui è connesso. Al valore assente o sottaciuto, corrisponde l‟arte tecnica in sé, la pura capacità espressiva neutralmente considerata. Spesso ciò che non si riesce a vedere lo si considera inesistente: il fenomeno è in sé evidente, mentre l‟essere di cui è fenomeno resta celato sullo sfondo. Un “fattore ludico” è stato da Huizinga riscontrato in “tutte le forme importanti della vita sociale”, e identificato nella “rivalità”.324 Il culto, la poesia, la musica, la danza, il sapere, il diritto, la lotta d‟armi “erano basati su forme di gioco. Si ricavò la logica conclusione che la cultura, nelle sue fasi originarie, viene giocata”, pertanto essa “non nasce dal gioco come frutto vivo che si svincoli dal corpo materno, ma si sviluppa nel gioco e come gioco”.325 Noi sappiamo che “gioco” è ciò che si allontana dal vissuto quotidiano, dalle contraddizioni della realtà che passa; “gioco” è la dimensione altra da quella solita, per cui esso costituisce una via di fuga dal mondo profano. La cultura, come 323
Ivi, pag 202. “La rivalità sotto forma di gioco, come fautore di vita sociale più antica di qualsiasi cultura stessa, dominò il vivere umano sin dai primordi e maturò come un fermento le forme della cultura arcaica”: J. Huizinga, Op. cit., pag. 204. 325 Ibidem. 324
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elaborazione del culto religioso, era un momento parallelo a quello comune, sicché il suo legame col gioco, ossia con la rappresentazione straordinaria, è consustanziale. La successiva emancipazione dell‟aspetto ludico-artistico dal suo fine rappresentativo, conserva all‟arte scenica una sua valenza simbolica allusiva relativa al mondo irreale o della fantasia. L‟arte come forma fantastica di rappresentazione ha qui le sue origini ideali, che la dispongono non solo come tecnica estetica ma come luogo di evasione. Il “senso realistico” della “antica romanità” è dovuto alla stilizzazione delle rappresentazioni rispetto alla cultura greca o “ellenica”, per cui le sue figure allegoriche Non rappresentano i puri concetti conclusivi di un pensiero politico altamente sviluppato, bensì gli ideali materiali di una società primitiva che vuol assicurare la propria salute mediante un commercio familiare con le forze superiori. [Non a caso le feste canoniche in uso] continuassero a portare il nome di giochi: ludi. In realtà non erano altro. Nel carattere prevalentemente sacrale della società romana più antica sta racchiusa la sua qualità fortemente ludica.326
Più propriamente, il carattere sacrale rendeva simboliche le forme ludiche, che perciò erano ben altro e più che meri esercizi spettacolari. Soprattutto la forte valenza sociale dei ludi dava loro una connotazione simbolica meta-estetica, sacrale appunto. Giungendo a costituire un impero mondiale, “nondimeno, le basi di quel congegno politico rimasero arcaiche. In fondo fu sempre il nesso sacrale che motivò l‟esistenza dell‟Impero”.327 Infatti quel nesso esprimeva in forma sacra il concetto unitario cui rapportare ogni particolarità locale e ogni diversità culturale. Il confine del sacro coincideva con l‟unità dell‟Impero e con chi lo rappresentava politicamente. Uno Stato non è mai un‟istituzione puramente utilitaria e interessata. […] Un impulso tendente a cultura, favorito da forze disparate di varia origine, si concretizza in un accumulo di autorità chiamato Stato, che poi cerca la sua motivazione nella superiorità di una stirpe o nell‟eminenza di un popolo. Nel modo di manifestare la sua dottrina lo Stato tradisce la sua natura fantastica in tante maniere […]. L‟Impero romano ha avuto al massimo grado tale 326 327
Ivi, pag. 205. Ivi, pag. 206.
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carattere irrazionale che si maschera con la pretesa a un dominio sacro e legittimo.328
L‟aspetto simbolico doveva essere tanto più rilevante quanto più riferibile a una tradizione certa e intelligibile, mentre, al contrario, l‟aspetto ludico riusciva tanto più manifesto quanto meno evocativo di dirette reminiscenze sacrali. E‟ ovvio che per popoli di varia e lontana cultura, i simboli religiosi più direttamente coinvolti nell‟immaginario pubblico erano quelli politici. Da qui la promiscuità di sacro e profano. “Le rappresentazioni del sacro e del profano si confondono completamente nell‟arte romana”, che perciò si trascende in forme idilliache in cui “il suo elemento ludico risalta sensibilmente, ma non ha più nessuna funzione organica nell‟ordinamento e nei fatti della società”.329 Tende cioè a un simbolismo astratto, ricco di riferimenti culturali ma anche sensibile ai fini della rappresentazione fantastica, gustabile anche da spettatori ignari del loro valore documentale non a caso L‟elemento ludico dello Stato romano si rivela meglio che ovunque nel panem et circenses, pane e giochi, formula per ciò che il popolo esigeva dallo Stato. […] La loro funzione originaria comportava non solo la festosa celebrazione della già acquistata salute della comunità, ma anche il rafforzamento e il consolidamento della salute futura mediante azioni consacrate. Il fattore ludico aveva qui mantenuto la sua forma arcaica anche se a mano a mano si era svuotato delle sue facoltà potenziali. […] La consacrazione religiosa che in fondo non mancava mai completamente ai ludi, probabilmente era sentita ormai a malapena dalle grandi masse. 330
In questi casi, le celebrazioni ludiche assumevano valore politico immediato, ma indirettamente conservavano significato religioso poiché la politica univa in sé il potere civile e quello sacro. Nell‟ultima fase della sua civiltà, la vita è diventata un gioco di cultura in cui il fattore religioso si mantiene come forma, ma da cui è scomparsa ogni consacrazione. I più profondi impulsi spirituali si ritirano da questa cultura superficiale, e mettono nuove 328 329 330
Ivi, pagg. 206-207 Ivi, pag 208. Ivi, pag 209.
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radici nelle pratiche religiose dei misteri. Quando poi il cristianesimo recide affatto la cultura romana della sua base sacra, essa appassisce presto.331
Non dobbiamo dimenticare in ogni caso che la comunicazione pubblica, destinata a un destinatario giuridico, doveva servirsi di mezzi rappresentativi di tipo spettacolare che colpissero l‟attenzione, l‟immaginazione e la memoria degli astanti. Infatti, in assenza di altri strumenti – quali la stampa, che “pubblica” la scrittura -, il messaggio destinato al pubblico doveva sortire il suo effetto pubblicamente, con tutto ciò che le manifestazioni collettive comportavano sul piano delle reazioni emotive indotte. L‟enfasi, la spettacolarità, l‟allusività a volte banalizzata, erano ingredienti scenici funzionali alla trasmissione del messaggio, per cui era inevitabile la rilevanza dell‟aspetto ludico. La cultura cristiana assorbe il valore simbolico della sacertà originaria pagana, trasferendolo nel campo dei suoi nuovi valori religiosi e cosmologici, per cui istituzioni già collaudate a servire determinati fini, vengono reinterpretate alla luce di una uova semantica teologica.332 Soprattutto nel Medioevo, come ricorda Huizinga, la vita è piena di gioco, di vivace, brioso gioco popolare, pieno di elementi pagani che hanno perduto il loro senso sacrale e si sono convertiti in puro scherzo. [Le varie forme di gioco] non hanno però quasi più una vera e propria funzione di creare della cultura. Perché quell‟epoca ha già ereditato dal suo antico passato le grandi forme di cultura […]. Quelle forme erano fissate. La cultura medievale non era più arcaica. Aveva da rielaborare in gran parte materiale tramandato, di contenuto sia cristiano sia classico. Solo là, ove non si basava sulla radice antica, né si nutriva di ispirazione ecclesiastica e grecoromana, il fattore ludico poteva ancora aver effetto creativo. 333
La “cultura fatta per gioco” non è tanto il prodotto di una vocazione ludica quanto la necessità di spettacolarizzare le forme di comunicazione del sapere, per cui ciò che Huizinga registra come “gioco” è soltanto l‟attitudine a perfezionare le tecniche di comunicazione, i “metodi” e le “regole” che ne fissano il senso cogliendone la regolarità. Erano tutti 331
Ivi, pag 210. Vd. quanto ne ha scritto A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, tr. it. Milano, 1994. 333 J. Huizinga, Op. cit., pag. 211. 332
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modi per stabilizzare in termini sistemici razionali e comprensibili un mondo pervaso dal caos del dubbio religioso, in via di destrutturazione. In campo strettamente letterario, la poesia cosmica dell‟Ariosto rappresenta uno dei più riusciti tentativi di ridefinizione cosmologica della vita in forma esteticamente armonica, “quasi musicale”, rappresentando un mondo parallelo a quello comune, “tutto sottratto alla realtà eppure popolato dalle più visibili figure”. Ma la tendenza a definire in termini strutturalmente coerenti la vitalità interessa l‟intiero orizzonte culturale degli umanisti, i quali furono in grado di coltivare “un ideale di vita e di spirito rigorosamente formulato”.334 Il periodo in cui l‟esuberanza tecnica ripiega in forme sempre più elaborate di stili virtuosistici è il Barocco, dove lo “impulso creativo” esorbita rispetto al simbolismo religioso, sicché il suo “bisogno di passare i limiti” testimonia, secondo Huizinga, il suo intrinseco “valore intensamente ludico” di quell‟impulso.335 Ma ormai il motivo ludico sappiamo attribuirlo alla ricerca stessa di una armonia razionale del mondo, che si manifesta in ogni ambito della vita e dello spirito, dalla poesia al diritto alla moda. Si pensi all‟ “abito da parata maschile” e all‟uso così vistoso della parrucca, che contrasta con la sobrietà intellettuale del razionalismo dominante all‟epoca. Nata come “surrogato per una mancante abbondanza di chiome, cioè come imitazione della natura”, diventò a partire dalla metà del sec. XVII “una moda generale, che perde subito ogni pretesa di ingannevole imitazione di vera chioma, e allora diventa elemento stilistico” che serve “ad isolare, a nobilitare, ad innalzare”, diventando “arte applicata”, e non già “mero capriccio di moda”.336 Questo elemento stilizzato della natura vuole in realtà, anziché imitarla, perfezionarla, rassicurando artificialmente delle sue volubili determinazioni per mezzo dell‟opera umana, che così si emancipa da essa. La distinzione che la parrucca simbolizza è anzitutto l‟emancipazione dalle comuni dipendenze dalla natura, che il gentiluomo può consentirsi. La sua distanza stilizzata “da una capigliatura naturale” segna il bisogno implicito di ordine estetico artificiale, ossia una sicurezza contro le accidentalità della natura. L‟ordine artificiale è anche il contrassegno della libertà umana, che incide sulla natura riplasmandola 334 335 336
Ivi, pag. 213. Ivi, pag. 214. Ivi, pagg. 216-217.
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esteticamente secondo i gusti della sua sensibilità culturale. Ma anche la stilizzazione diventa costume, regola, convenzione, suscitando la reazione della sregolatezza anti-conformistica giovanile e intellettuale, che “si oppone al cerimonioso e al ricercato”.337 Sviluppa però anche un simbolismo incontrollato e una esuberanza stilistica tendente al meraviglioso: è il periodo del rococò, col suo indisgiungibile elemento ludico, dove “stile e moda, e con loro gioco e arte, di rado si sono avvicinati tanto”, coinvolgendo anche gli stili diplomatici della politica “di gabinetto, d‟intrighi e di avventure”, i cui esponenti “con un sorriso grazioso e in termini cortesi espongono in prove mortali la forza e il benessere dei loro paesi, come se rischiassero un alfiere o un cavallo sulla scacchiera” mettendo “in opera abili macchinazioni con i coefficienti relativamente ancora stabili del loro potere”.338 Huizinga chiama “atteggiamento di gioco” quello “slancio” e quella “dedizione non temperata da dubbi” che furono “particolarmente fertili per la cultura”, ma che in realtà tradiscono una volontà di sfuggire dal dubbio metafisico che corrodeva psicologicamente la consapevolezza della edacità di ogni ente mondano. Come infatti sappiamo, la superfetazione ludica segna in proporzione inversa il basso tasso di simbolicità che le forme più astrattamente elaborate di comunicazione del pensiero hanno nei confronti di verità di fede. meno sono legate alla fede di cui sono espressive, più esondano da ogni argine semantico e si manifestano nella loro nuda tecnicità estetica, stigmatizzata dall‟Ottocento, che intraprende una ridefinizione filosofica dei grandi sistemi cosmologici. È pur vero, come scrive Huizinga, che “il romanticismo ha avuto tanti aspetti quanti modi di manifestarsi”, 339 ma la varietà relativa non è attinente agli stessi ambiti espressivi. Infatti i sistemi razionali, modellando le forme logiche del mondo, dovevano inevitabilmente escludere dai suoi confini formali universali temi e tendenze emotive esposte al gioco dell‟immaginazione estetizzante. La stessa proiezione nel passato ne rimarcava l‟inattualità rispetto alle definizioni interessanti la contemporanea visione razionale del mondo. Questa, d‟altronde, tendendo a comprendere ogni elemento esperienziale, obbligava 337 338 339
Ivi, pag. 217. Ivi, pagg. 218-219. Ivi, pag 222.
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l‟immaginazione a esercitazioni virtuose che non configgessero con le credenze più mature della cultura coeva, piegando pertanto verso un realismo storico che si combinava con un nostalgico vagheggiamento di sentimento passatistico. E dunque il predominio del sentimentalismo [gotici stico] è perfettamente paragonabile al predominio dell‟ideale di amore cortese nel dodicesimo e tredicesimo secolo. Tutta una società eletta si adatta allora a un ideale fittizio e ricercato di vita e d‟amore [in cui] tutte le emozioni della vita personale, dalla culla alla tomba, vengono coltivate a forma d‟arte.340
Cioè appunto ispirate dal sentimentalismo, che è la pietà che l‟uomo di ogni tempo avverte come richiamo partecipe alle sorti tragiche dell‟umanità. Da questa radice pietosa si svilupperà l‟umanitarismo, che di quel sentimento sarà la teoria razionale. Con l‟umanitarismo il razionalismo occuperà un altro avamposto del suo controllo metodico, per cui non è così strano che uomini illuminati come Diderot, o uomini d‟armi come Napoleone, indulgino sul sentimentalismo.341 Il sentimento è l‟intuizione dell‟unità indivisibile del cosmo considerata da parte della coscienza individuale come una unità di dolore e di sofferenza, dove la lotta infinita della libertà del “cuore” si scontra con la forza soverchiante della fatale necessità della “natura”. Il sentimento è pertanto l‟opposto dialettico della ragione e delle sue leggi, nella cui tensione si sviluppa e si affronta l‟esistenza umana, dalla più alta alla più umile. Il sentimento diventato teoria è il campo di coltura dell‟umanitarismo e dell‟esistenzialismo. È chiaro che il razionalismo ottocentesco “sembra lasciar poco posto alla funzione ludica come fattore nel processo culturale”, poiché ogni manifestazione umana tende a rientrare a sistema, a razionalizzarsi, per cui il gioco, come esercizio tecnico alternativo a quello “serio”, perde il suo valore funzionale all‟economia del discorso teorico, la cui struttura acquista e assorbe la forma regolare del gioco. Il luogo formale si sposta dal pubblico al privato mano a mano che le forme della comunicazione sono fruibili al di fuori delle occasioni canoniche, divenendo, con la diffusione della stampa, oggetto di riflessione privata. Anche le cerimonie ludiche tradizionali, dalla musica al teatro alla danza, si manifestano col 340 341
Ivi, pag. 223. Ivi, pag. 224.
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passar del tempo dall‟aperto al chiuso, dalle piazze e dagli anfiteatri ai teatri chiusi. E il progresso tecnico riduce progressivamente lo spazio immaginativo delle personali interpretazioni testuali e soprattutto rappresentative, per cui il senso del sacro si sposta dal mistero religioso al‟arcano della potenza tecnologica, domatrice della stessa natura. Quanto più progredisce l‟enorme processo industriale e tecnico, dalla macchina a vapore all‟elettricità, tanto più tale processo crea l‟illusione che proprio in lui consiste il progresso della civiltà. Il che rende possibile l‟umiliante equivoco secondo il quale le forze economiche e l‟interesse economico determinerebbero e dominerebbero il corso del mondo. La sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito umano era in certo senso il frutto naturale del razionalismo e dell‟utilitarismo, i quali avevano ucciso il mistero e dichiarato l‟uomo assolto da colpa e da peccato.342
Ormai pareva inutile immaginare un altro mondo, tanto sembrava possibile rifare questo con la potenza tecnica, per cui l‟Ottocento era dominato da un generale “tono serio” in campo culturale.343 La razionalità era legata al potere tecnico, e poiché la storia ha per protagonista l‟uomo, l‟universo femminile rimane meno esposto ai cambiamenti storici e più soggetto alle trame immaginative e fantasiose. Col romanticismo il mondo femminile prende il suo posto centrale nel sentimento, e da quel momento l‟attenzione non verrà più meno. L‟espansione del razionalismo invaderà anche quel mondo riportandolo a ragione, cioè a sistema. [I suoi interpreti] avevano ormai un‟eccessiva consapevolezza dei loro interessi e delle loro aspirazioni. Essi credevano di aver già superato l‟età dell‟infanzia, e si applicavano con studio scientifico al proprio benessere terrestre. Gli ideali di lavoro, di educazione e di democrazia lasciavano a malapena posto all‟eterno principio del gioco.344
Servirebbe ribadire che anche codesti “ideali” hanno un loro “gioco”, legato alle diverse dinamiche rappresentative? L‟aspetto ludico342 343 344
Ivi, pag. 225. Ivi, pag. 226. Ivi, pag. 228.
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scenografico, che un tempo comprendeva anche quello agonistico, in seguito se ne distacca, e solo in determinate e circoscritte occasioni, appositamente predisposte, i due aspetti si ricongiungono, come nelle gare sportive. Normalmente, però, l‟agonismo abbandona il profilo prettamente fisico e si trasferisce in quello intellettuale, per così dire privatizzandosi, facendo risaltare con la scrittura privata anche la riflessione intimistica e le virtù coscienziali. Paradossalmente, la privatezza della riflessione rende impersonale il messaggio pubblico, sicché l‟opinione pubblica impersonale, non più controllata dalle manifestazioni collettive politicamente guidate, diventa un potere concorrente a quello politico ufficiale; un potere coperto a fronte di uno scoperto. Se le manifestazioni pubbliche promosse dal Potere stemperavano le tensioni private, ora le tensioni coltivate privatamente diventano pubbliche contro il potere politico, e la piazza, da luogo ludico, diventa luogo di protesta, di contestazione sociale. Il “gioco” represso dalle nuove consegne morali, si trasforma in manifestazione ideologica, e da torneo a corteo. Oltre allo sport, viene pertanto organizzato anche il gioco politico, dedito tutt‟altro che a scopi di svago. Non solo quella politica, ma anche lo sport diventa attività professionale, non più solo amatoriale, così che “l‟atteggiamento del giocatore per professione non è più un vero e proprio atteggiamento ludico, la spontaneità e l‟idea di passatempo non valgono più per lui”.345 Perduto il “nesso col culto”, lo spettacolo sportivo decisamente non consacrato, non ha neppure un rapporto organico con la struttura della società, neppure se un‟autorità statale ne prescrive la pratica. Lo sport è assai più una manifestazione indipendente d‟istinti agonali che un fattore di fertile coscienza sociale [e] pur essendo importantissimo per partecipanti e spettatori, esso rimane una funzione sterile in cui è morto in gran parte il tradizionale fattore ludico.346
In questa solenne e transciante affermazione, Huizinga esplicita la sua visione del gioco come distrazione dal serio, come attività ludica, che però ogni gioco socializzato conteneva solo relativamente alla necessità di essere strumento di comunicazione. In realtà, un gioco fine a se stesso, che non fosse espressione simbolica di un qualche valore, non è mai 345 346
Ivi, pag. 231. Ivi, pag. 232.
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esistito. Infatti, la professionalizzazione ha eluso l‟aspetto ludico solo nel senso che ha dedicato ai risvolti economici del gioco un‟attenzione prima non preminente. Ciò che un tempo era la gloria dell‟eroe del ludus modernamente è diventato il successo, ossia le diverse modalità di riconoscimento pubblico del suo valore. Se l‟orizzonte produttivistico moderno non fosse inclusivo anche dello sport, il gioco non potrebbe rimanervi collegato, ma sarebbe espressivo di altri valori. Che lo sport professionale non abbia moventi agonistici di tipo ludico è contraddetto dalla tipizzazione della tifoseria, partecipe alle sorti delle parti in contesa senza alcuna motivazione economica diretta, conservando a suo modo del gioco l‟entusiasmo mistico perduto. A Huizinga sfugge che al gioco bisogna credere perché esso riesca. Questa condizione psicologica sorregge la validità, e cioè l‟applicabilità, delle regole che lo costituiscono, assumendo pertanto un aspetto etico. La “invariante culturale” del gioco era appunto la fede nella sua funzione, di cui l‟aspetto ludico e agonistico costituiva soltanto il lato estetico della struttura normativa. Credere nel gioco, nelle sue regole e nella sua funzione, significa ritenere possibile il suo valore simbolico, comunicativo o confermativo di una verità che attraverso il gioco emerga come inequivocabile verdetto sulle sorti dell‟uomo. La verità è quella della finitezza della condizione umana e la sua fragilità rispetto alla potenza divina e naturale, e nello stesso tempo della sua possibilità di superarla attraverso una prova di bravura. Il gioco è ciò che si interpone tra l‟uomo e il destino, rivelando le sue doti di abilità e di coraggio. Chi è sicuro della sua posizione cosmica, ovvero chi possiede altre prove di essa, trascura il gioco, e non crede in esso, nelle sue possibilità scaramantiche, rivelatrici di status. Il gioco stabilizzato negli esiti è il rito, la liturgia socializzata, da cui discende la normativa istituzionalizzata del “passaggio” dal mondo profano a quello sacro; ovvero, in un contesto secolarizzato, dal mondo del caos al mondo regolato della vita civile, dalle azioni omologate, dove il caso è eliminato – ovvero è ridotto al minimo, fino a prova contraria dalla efficacia comprovata della reiterazione formalizzata. La fede nella sua efficacia, nelle sue virtù diagnostiche o profetiche, accomuna il gioco non solo alla credenza ingenua del bambino,347 ma alla 347
“Per giocare veramente l‟uomo, quando gioca, deve ritornare bambino”: J. Huizinga, Op. cit., pag. 233.
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fede religiosa e scientifica nell‟azione taumaturgica del rito, apotropaico o gnoseologico che sia. Mettere a confronto, come fa Huizinga, le diverse condizioni d‟animo che sottostanno al gioco come stati meramente psicologici ci appare fortemente riduttivo del significato culturale del gioco, che varia in ragione delle sue possibilità e funzionalità espressive, comunicative e simboliche relative al tipo di fede che il suo valore rappresentativo presuppone. Segnare infatti le differenze tecniche o psicologiche del gioco, senza riferirle alle relative condizioni culturali in cui le singole determinazioni formali assumono il loro precipuo significato simbolico, equivale a de-storicizzare un modello ipostatico e riferirne i suoi sviluppi temporali in termini di decadenza o alterazione. Che poi è un modo idealistico per eludere l‟aspetto della condizionatezza storico-culturale dei dati formali del gioco, e affermarne di contro una sua supposta valenza meta-simbolica assoluta, ritenuta “la vera sfera del gioco”,348 che Huizinga chiama “qualità ludica”.349 Il “processo culturale” di privatizzazione dello strumento espressivo non rilevato nella stampa, è stato invece notato nell‟arte pittorica, allorquando “il quadro dentro cornice cacciò in secondo piano la pittura murale, e quando l‟immagine isolata soppiantò l‟illustrazione dei libri. […] L‟arte si fece più intima, ma anche più isolata: un affare di pochi”. Lo storico ricorda opportunamente che il processo culturale, che a mano a mano ha staccato l‟arte dalla sua base di funzione essenziale della vita sociale e che ne ha fatto sempre più una libera attività indipendente dell‟individuo, è un processo di secoli e secoli, [e che] un simile trapasso dall‟elemento sociale a quello individuale è visibile nel fatto che il centro di gravità dell‟architettura si sposta dopo il Rinascimento [poiché] all‟architettura non si richiedevano più, come compito essenziale, chiese e palazzi ma abitazioni, non più gallerie da cerimonia ma camere abitabili. [Nel contempo l‟arte] veniva sempre più riconosciuta come valore culturale assolutamente indipendente e particolarmente importante, [anziché il] nobile ornamento [di una] elevazione religiosa [o di una] curiosità raffinata che serviva per divertire o per distrarre [la] vita dei privilegiati. 350
348 349 350
Ivi, pag. 233. Ivi, pag. 235. Ivi, pag. 236.
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A partire dalla metà del Settecento la scienza estetica diventa un valore teoretico in sé, ricercato sottoforma di originalità e di gusto eccezionale in cui “l‟elemento ludico manca quasi completamente”.351 Ma cos‟è il gioco, infine? Può dirsi che esso “finisce e non ha meta all‟infuori di se stesso” e che sia “sorretto dalla coscienza di essere un piacevole svago fuori delle esigenze della vita ordinaria”? dopo tanta digressione, insistere sui soli caratteri psicologici parrebbe riduttivo. Ma soprattutto l‟opposizione alla serietà della scienza a noi pare fuorviante. La scienza infatti, secondo Huizinga, cercherebbe un contatto con la realtà generale per cui vuole essere valida. Le sue regole non sono, come per il gioco, irremovibili per sempre. La scienza viene continuamente smentita dall‟esperienza, e si corregge poi. Le regole di un gioco non possono invece essere smentite. Il gioco può variare ma non modificarsi.352
Niente di più lontano dal vero. Basti pensare alla reiterazione del gioco attraverso l‟interpretazione dei vari giocatori nel tempo, ella sua funzionalità alla coscienza critica degli spettatori, per avere consapevolezza della sua storicità. Ma soprattutto l‟aspetto fideistico, già messo in evidenza, è ciò che unisce il gioco alla scienza. Anche il gioco ha la pretesa di assegnare validità alle sue regole formali, astraendole dal divenire universale e costituendole come formule assolute, valide nel loro contesto rappresentativo. La fede in quella validità sorregge le regole del gioco e l‟intera struttura ludica, tanto più evidente quanto meno consapevole. E “fede” equivale a credenza nella loro validità eterna, ma di una eternità che è circoscritta all‟orizzonte di gioco, che è a termine, e vincolante solo nell‟ambito di quella convenzionale vigenza. Il gioco non si modifica finché è gioco, al suo interno, per cui ogni gioco è un altro gioco. La durata del gioco è la stessa durata della fede nel suo valore simbolico. Ci si stanca del gioco quando la sua rappresentazione non è creduta più rappresentativa.353 Anche la ricerca scientifica, quando collegata all‟esigenza politica di offrire vantaggi alle potenze nazionali, 351
Ivi, pag. 237. Ivi, pag. 238. 353 La distanza dal gioco viene da Huizinga rimarcata quando afferma che il gioco infantile “non è puerile”, ma lo diventa “solo quando gli viene a noia o quando non sa a cosa giocare”: Ivi, pag. 242. 352
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viene investita di un carattere agonistico che realizza “il trionfo su un avversario” che Huizinga vorrebbe escluso dall‟ “impulso autentico a conoscere la verità mediante l‟esame scientifico”.354 Quanto alla “esattezza” della scienza moderna, essa è solo relativa alla scienza passata, superata dalla maggiore conoscenza conseguente. D‟altronde, “la vita quotidiana della società odierna viene dominata sempre più da una qualità che ha alcuni tratti in comune col senso ludico” e che Huizinga chiama “puerilismo” o “infantilismo”, che egli distingue dallo spirito del gioco. Tale fenomeno moderno consiste nel “bisogno facilmente contentato ma non mai saziato di svago banale, la tendenza alla sensazione volgare, all‟esibizione di massa”, 355 nonché altre caratteristiche psicologiche legate all‟immaturità dei caratteri esibizionistici. In ogni caso, Huizinga ritiene che se l‟atteggiamento puerile delle masse dovesse tramutarsi in un “autentico gioco”, questo provocherebbe un ritorno della società “verso le forme arcaiche di cultura, nelle quali il gioco era un vivissimo fattore creativo”. Ma il coinvolgimento delle masse ai fenomeni sociali e culturali non pare allo storico un segno di ritorno al‟antico spirito del gioco,del quale mancano,nonostante alcuni caratteri puerili, “le caratteristiche essenziali”. Infatti, egli afferma, “in tutti i fenomeni di un atteggiamento spirituale che abbandona volontariamente la propria maschia responsabilità, non posso vedere altro che i segni di un‟imminente dissoluzione” 356 morale. La “maschia responsabilità” è forse l‟auto-controllo psicologico e morale? Ovvero è la consapevolezza che le masse senza un‟identificazione in un potere carismatico non potrebbero realizzare di fatto le pretese emancipative reclamate in diritto? Non è, in altri termini, la responsabilità l‟atteggiamento di chi riconosce i propri limiti culturali e sociali? Se così fosse, l‟esuberanza ludica delle moderne forme di coinvolgimento di massa attesterebbero proprio la ritualità formalizzata di tale transfert nel capo spirituale, il nuovo eroe del nostro tempo 354
Ivi, pag. 239. Ivi, pag. 240. Quanto ai “fattori che vi hanno influito, rientrano, in ogni modo, la partecipazione delle masse semicolte allo scambio spirituale, l‟infiacchimento delle norme morali e il fatto che tecnica e organizzazione hanno conferito al vivere sociale una conducibilità elettrica senza paragone. L‟atteggiamento adolescente, non frenato da educazione, né da forme, né da tradizione, cerca di predominare in ogni campo, e vi riesce anche troppo bene”: Ivi, pag. 241. 356 Ivi, pag. 242. 355
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massificato. Arriviamo così al senso profondo del gioco come tecnica comunicativa. La disamina storica giunge a convincere Huizinga che “la cultura è fondata sulla nobiltà del gioco”, quale imprescindibile “fattore ludico”, senza il quale non si potrebbe “arrivare alla sua più alta qualità di stile e dignità”, riscontrabile anzitutto nelle regole di “scambio fra popoli e Stati”, trasgredite le quali “la collettività decade nella barbarie e nel caos”.357 L‟accento si sposta dal senso ludico a quello regolamentare del gioco, che finisce di essere una mera tecnica performativa per acquisire valore simbolico, rappresentativo di un valore trascendente la stessa rappresentazione. Tanto che “nel criterio del valore etico si decide l‟eterno dubbio di gioco o serietà”, per cui “chi nega il valore oggettivo di diritto e di norme morali, non [ne] troverà mai il limite”. La dialettica del “gioco” è la manifestazione seria. Ma in realtà lo stesso gioco è serissimo per chi crede nelle sue regole e nella sua funzione simbolica, sicché è questa “fede” che lo costituisce come una rappresentazione che non riveste un mero carattere ludico-agonistico, di parata esteticamente più o meno elaborata. Al fondo del gioco, dunque, vi è la Fede, che è il senso finale della sua rappresentazione simbolica, quel “valore oggettivo” che consente la traduzione delle regole in statuti formali di carattere etico. Da qui la conclusione che cultura vera non può esistere senza una certa qualità ludica, perché cultura suppone autolimitazione e auto dominio, una certa facoltà a non vedere nelle proprie tendenze la mira ultima e più alta, ma a vedersi racchiusa entro limiti che essa stessa liberamente si è imposti. 358
una conclusione che in verità sfiora il problema della validità delle regole, le quali hanno funzione limitatrice della volontà di parte solo in quanto ispirate a una fede comune ai contendenti, che li ponga su uno stesso piano di possibilità simbolica. Ma se il gioco non riconosce l‟avversario come antagonista, come rivale simbolico della stessa verità, la posta in gioco è la reciproca esclusione, l‟annientamento dell‟altro. La vittoria allora segna il trionfo di un sistema normativo su un altro incompatibile, ossia la condizione di irreversibilità del ruolo acquisito dopo il cimento. Il 357 358
Ivi, pag. 247. Ivi, pag. 248.
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gioco, invece, proprio perché insiste sugli stessi valori simbolici, presuppone la possibilità che lo sconfitto possa sempre rivendicare la rivincita, dal momento che le regole sono comunemente condivise, e comune la Fede che le sostiene. Lo spettacolo ludico è pertanto complementare all‟essenza fideistica del gioco, al suo valore rappresentativo. Il rischio di disgiungere i due aspetti – ludico e simbolico – del gioco, facendo propendere il suo valore immanente su uno di essi a scapito dell‟altro, è equivalente al rischio di considerare la sua “serietà” nel rispetto formale delle regole, ossia nella legalità dell‟esito, a scapito di ogni contenuto normativo, ponendo sullo stesso piano strutturale neutralmente etico la competizione sportiva, che assegna un trofeo, e quella elettorale, che assegna un governo. Questa reversibilità del piano etico in piano estetico è legata all‟astrazione del senso formale del gioco dal senso simbolico, il quale per definizione rimanda, non al sistema strutturale, a cui invece tende il diritto, ma al sistema valoriale sul quale si fonda la “serietà” del gioco, ossia la sua “fede”, la credenza nella sua idoneità rappresentativa. Ma anche l‟occhio estetizzante, aduso a cogliere l‟aspetto rappresentativo emancipato da ogni valore simbolico trascendente, si rende infine conto che il gioco non è solo ludus o agonismo sportivo, ma una forma regolata da norme di “ragione, umanità e fede”, il cui “pervertimento” o “abbandono” provoca una “falsificazione dello spirito ludico”, tendendo anziché a una “lieta esaltazione” degli animi, a una “eccitazione isterica”.359 Codesto giudizio, suggerito dalla paurosa scenografia delle parate militaresche dei coevi partiti totalitari, abbandona però il distacco proprio dello storico disincantato, e il wertfreiheit lascia il posto al pathos partecipe e sofferto del colto umanista europeo testimone dell‟imbarbarimento della cultura e della civiltà cristiano-liberale. Le nuove esperienze ideologiche, con le sue alcinesche mistificazioni illusionistiche, non dovevano essere poi tanto diverse dalle antiche. Salvo che nella totale palingenesi nel frattempo intervenuta dello spirito religioso, ossia della fede nella verità trascendente la realtà mondana e le sue forme istituzionali. Infatti la dimensione storicistica tardo-moderna, con la sua critica corrosiva di ogni dimensione ultronea all‟esperienza vissuta, aveva in qualche modo – cruento e crudele – riabilitato forme e 359
Ivi, pag. 249.
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costumi pagani già antichi e ora ripristinati a suggello della assoluta attualità del potere di Cesare tornato agli onori del mondo dimentico di Dio, il Quale, come si espresse Platone nelle Leggi, “è per forza di cose degno di ogni benedetta serietà”. Da qui la constatazione che “del cerchio magico del gioco l‟intelletto umano può liberarsi soltanto drizzando lo sguardo al Sommo Bene”,360 realizzando dunque quanto da noi più volte osservato, ossia che il gioco in sé è situato fuori della sfera delle norme morali. In sé il gioco non è né buono né cattivo. Quando tuttavia l‟uomo deve decidere se un‟azione, a cui la volontà lo guida, gli è prescritta come serietà oppure gli è permessa come gioco, allora la sua coscienza morale gli offrirà subito la pietra di paragone.361
La verità, insomma, sta oltre il gioco, ed è essa, la sua fede nei giocatori, a conferire al gioco la sua “serietà”. I due momenti strutturali del gioco, quello ludico e quello simbolico, sono idealmente reversibili a seguito del superamento della loro diversità ontologica da parte della universalità logica del loro fondamento di ragione. L‟universalità è un prodotto del naturalismo greco, il quale poneva la Natura come modello ontologico della realtà anche umana. Le leggi fisiche sono “universali”, ossia immutabili e generali, alle quali l‟uomo deve conformarsi secondo ragione naturale, per cui esse sono il fondamento di ogni deontologia. L‟estensione al mondo sociale delle leggi naturali era possibile in virtù del legame che attraverso la ragione univa tutta la realtà cosmica. Il era dunque l‟essenza stessa del reale. La scissione del cosmo naturalistico operata dallo spiritualismo cristiano emancipa l‟uomo dalla necessità naturale, destinandolo a un fine escatologico di eternità: nasce la Storia quale processo irenico verso l‟eskaton finale preconizzato dalla rivelazione divina. La Storia in senso cristiano costituisce la realtà parallela a quella della vita naturalistica, caratterizzata dalla dimensione spirituale della fede escatologica. La fede nell‟eskaton diventa il fondamento della realtà della Storia. Senza quel fondamento ontologico di fede, l‟esistenza umana è solo una realtà sociologica, determinata da leggi naturali universali. Di fronte alla varietà 360 361
Ivi, pag. 250. Ivi, pag. 251.
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delle rappresentazioni culturali delle particolarità sociali umane, l‟aspetto formale diventa il tema storiografico della singolarità dei fenomeni spirituali, mentre il sostrato naturalistico costituisce l‟elemento comune a ognuno di essi, , che ne sono il rivestimento simbolico- culturale. Il Cristianesimo opera un trasferimento di senso dell‟antico naturalismo greco, facendo del logos pagano un legame mistico di tipo spirituale. Esso cristianamente non designa più la stessa appartenenza dell‟uomo alla Natura, ma a Dio, la cui paternità consiste nell‟imprimere alle sue creature la destinazione finale che manca alla vita pagana, paga di risolversi nella materna ripetizione delle scansioni biologiche dell‟esistenza naturale. La vita naturale si ripete, mentre la vita spirituale continua oltre la morte, non già come fama della memoria sociale, ma nell‟eternità dell‟essenza divina. Vivere per la fama e vivere per l‟eternità, sono le diverse dimensioni del senso dell‟esistenza, rispettivamente, pagana e cristiana. La meta spiritualistica tra svaluta tutta l‟esperienza umana in chiave escatologica, facendo della Storia ben più che lo scenario temporale della ragione sociale dei rapporti economici e politici. È chiaro che il “gioco”, con la sua ripetitività simbolica, appartiene originariamente alla cultura pagana, la quale lo impiega per rappresentare i suoi eterni valori sociologici in termini contingenti, secondo un procedimento fantastico che è opposto a quello logico. Infatti, il giudizio logico trasforma il contingente in necessario, affermando che la realtà esistentiva, partecipando della realtà essenziale, realizza l‟Idea, ossia ciò che è necessario perché immutabile ed eterno. nel giudizio logico, l‟essenza e l‟esistenza vengono a coincidere, per cui il contingente e il necessario si immedesimano come il tempo e l‟eterno. La Storia è dunque il luogo di tale manifestazione ontologica, la quale, costituendosi come realtà assoluta e universale, coincide con l‟Essere stesso in divenire. L‟Essere come Storia, e nient‟altro che Storia, è sintesi di se stesso come Tutto. È qui, in questo totalismo universalistico, l‟origine di ogni panteismo umanistico, di ogni storicismo assoluto, di ogni positivismo immanentistico. L‟universalismo storicistico procede negando la contingenza dell‟esistenza, giudicando il contingente come necessario. E necessario è ciò che ha in sé la propria ragion d‟essere. Ma l‟essere necessario è inteso in senso logico, non ontologico, per cui l‟elemento contingente viene trasferito nell‟esistenza, il regno pratico della libertà di essere-esistere oppure non. Qualcosa può esistere o non, 277
ma se esiste è ciò che dev‟essere secondo la necessità ideale dei rapporti eterni. Una volta pervenuti all‟esistenza, gli enti storici restano impigliati nella necessità del loro processo ideale, nel regno della necessità della Storia. Nella Storia, infatti, non c‟è libertà ma solo necessità, come necessaria è la sequenza del giudizio logico, il sillogismo. La storia della libertà è il regno dei rapporti pratici, dell‟esistenza, non quello teoretico del concetto logico, dove ogni ente-oggetto di giudizio diventa elemento sistemico necessario. Essa è dunque il regno del Mito, in cui il racconto dell‟esperienza umana viene narrato dal punto di vista dell‟eroe che sfida la necessità del destino. Il “gioco” non è altro che la rappresentazione di questa sfida eroica. Il giudizio storico, elaborando a posteriori la fenomenologia mitica, deve presupporre la libertà di cui è storia logica, la quale si costituisce eliminando dalla rappresentazione del Mito il contingente, ossia quella libertà-possibilità sulla quale si fonda la sfida ludico-metafisica del “gioco”, assumendo come “vero” il solo elemento logico-universale, quello appunto necessario e quindi eterno, abbandonando al “gioco” della fantasia l‟elemento contingente e non veramente significativo. Avendo in sé la ragione della propria esistenza, gli enti storici diventano storicamente necessari, e quindi necessariamente esistenti, e cioè logici, ossia non-contingenti, “seri”. Ma provenendo dal regno della libertà, essi possono o non essere logici, ossia distinti secondo la loro essenziale necessità. Il giudizio di realtà storica, che è il giudizio logico che sfata il racconto mitico della sua contingente libertà, è tributario dell‟essenza e della necessità, perché attraverso il giudizio logico-storico il contingente diventa necessario. Ciò vuol dire che la necessità essenziale è sì immanente alla realtà della libertà, ma lo è non meno della possibilità della sua esistenza contingente, per cui la dialettica del “gioco” è la rappresentazione a parte subjecti della stessa dialettica della vita umana, che la Storia considera a parte objecti. La dimensione ludica è quella in cui l‟universo di coscienza della realtà non è pervenuto al giudizio storico-logico dell‟unità ideale degli enti entro una categoria universale. L‟unità ideale degli enti è priva di quelle determinazioni concrete dell‟esistenza contingente, senza le quali è possibile giungere alla loro astratta uguaglianza. Unità ed uguaglianza sono concetti correlativi. Entro la coscienza ludica, cioè entro l‟universo del gioco, i ruoli sono omologati dalla comunanza delle regole, ma restano antagonistici, ossia non pervengono a una sintesi di reciproco 278
riconoscimento politico. Nel gioco si può vincere o perdere, e ogni eventuale pareggio rinvia ad altro cimento risolutivo. Quando il Gioco rifletteva la coscienza mitica, la sua eccezionalità liberava la contingenza dalla necessità del Fato, per cui l‟attività ludica alludeva simbolicamente alla possibilità di sfuggirgli superando la prova agonistica. Nell‟ambito della coscienza storica, il gioco continua a riflettere la stessa aura magica che in origine gli faceva da sfondo, ossia l‟incantesimo del cimento eroico, ma senza più costituirne la chiave di accesso simbolica, poiché il nuovo ordine cosmico storicizzato non consente che eccezioni logicamente prevedibili, e quindi i soli esiti che siano inscritti nella possibilità concessa dal giudizio razionale, tale che l‟eccezione contingente sia la contro-prova della necessaria regolarità del sistema normativo universale. In altri termini, nell‟ambito agonistico storicizzato il gioco costituisce la parentesi eccezionale confermativa della regola normale universale. La conseguenza del nuovo status cosmologico è che l‟elemento ludico del gioco venga progressivamente a perdere il suo carattere simbolico trascendente e, divenuto criterio puramente strutturale ed estetico, si presti a indeterminate attribuzioni di senso, relativo alle direttive ideali della rappresentazione. Poiché, come abbiamo detto, sulla base dell‟unità ideale degli enti è possibile pervenire alla loro uguaglianza formale, il nuovo campo di applicazione dell‟universalismo razionalistico è quello politico, nel cui ambito si aprono al “gioco” molteplici possibilità rappresentative. La struttura formale dell‟unità ideale degli enti politici è la democrazia. Se l‟unità ideale degli enti politici è l‟ideale democratico, la democrazia è il regime politico giustificato dall‟unità ideale realizzata. Poiché “nel simbolo è l‟idea stessa che si dà esistenza”,362 una società politica idealmente egalitaria, in cui ogni ente è simbolicamente sovrano in quanto politicamente dirigente, è il rispecchiamento dell‟unità ideale, per cui l‟Uno ideale coincide con l‟unità simbolica degli enti eguali molteplici. E infatti tale coincidenza tra fenomeno sensibile e significato sovra-sensibile è intrinseca al senso originario del concetto di symbolon, prestandosi a rappresentare non soltanto ”un termine fondamentale generale dell‟arte”,363 ma anche della politica. Nel caso dell‟arte, il 362 363
H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pag. 106. Ibidem.
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“gioco” simbolico diventa “rappresentazione” dell‟Idea; nel caso della politica, “rappresentanza” del popolo. Caratteristica della rappresentazione è di “sopprimere se stessa” una volta conseguita la sua funzione estetico-simbolica,364 mentre la rappresentanza politica riveste un carattere esistenziale che non può essre eluso dalla funzione ludica, pena il suo snaturamento ontologico. In questo caso, il “gioco” politicamnete rappresentativo dell‟unità sociale non può essere astratto dalla concretezza esistenziale del modello rappresntato, il quale non è una Idea ma una realtà diversa dalla finzioen rappresentativa. E‟ allorquando la rappresentanza del “gioco” politico intende costituirsi come rappresentanza esistenziale del popolo, usurpando la funzione etica di Governo, che la “serietà” lascia il posto alla farsa, ossia al simbolismo tragico del ludus denunciato accoratamente da Huizinga.
364
Ivi, pag.173. 280
II MORALITA’ E SOCIALITA’
1. Il concetto di società implica il concetto di spirito, come il concetto di forma implica quello della sua idea. La società, infatti, è l‟elemento impersonale della vita umana, ciò che trascende il dato empirico dell‟esistenza materiale, che non coincide con questa stessa esistenza particolare e finita ma la trascende e le sopravvive come il persistente tutto rispetto alla parte caduca. Il concetto di società è dunque legato a quello di persistenza, di continuità, di durata. Quello sociale è il tempo della “lunga durata”, e durevole è ciò che permane nel cambiamento, che si evolve o si involve senza per ciò perdere la sua identità ideale. Caratteristica del concetto di società è pertanto l‟idea di unità morale distinta dalla molteplicità delle manifestazioni particolari della vita collettiva. I contenuti di questa moralità costituiscono i criteri della convivenza sociale, dei quali le istituzioni rappresentano le forme ideali di socialità. La socialità è la realtà impersonale condivisa dal gruppo umano organizzato come identità collettiva. La socialità è l‟anima della società, che è il suo corpo sociale. Secondo Durkheim, Così come non esiste una società a noi nota senza una sua religione, non se ne trova una che, per quanto approssimativamente organizzata, non abbia un sistema di rappresentazione collettiva che non si rapporti all‟anima, alla sua origine e alla sua destinazione. Per quanto ci è possibile giudicare dai dati etnografici in nostro possesso, l‟idea dell‟anima compare insieme a quella stessa di umanità […] 365
L‟elemento più importante nel caso è che l‟idea dell‟anima – comunque concepita – implica la distinzione e la relativa differenza tra essa e il corpo in cui l‟anima opera, cioè la forma esterna e materiale delle cose. La sua sopravvivenza al corpo che la ospita e la trasmigrazione in altri corpi, indica la sua natura immateriale e 365
E. Durkheim, Le formes élémentaires de la vie religieuse (1912), Paris, 1979, pag. 343.
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unitaria rispetto a quella varia e molteplice delle cose finite. Tra l‟anima e il corpo, afferma Durkheim, “non vi è soltanto stretta solidarietà, ma parziale confusione, per cui qualcosa del corpo passa nell‟anima e, dal momento che essa ne riprende la forma, parte dell‟anima è presente nel corpo”.366 Lo stesso rapporto vi è tra le istituzioni storiche e l‟idea di socialità che le ispira e le legittima, tanto che le prime sono logicamente un prodotto della seconda, secondo un rapporto ideale-funzionale improntato a un principio di coerenza. Essendo la coerenza un rapporto ideale, implica che l‟idea di socialità può essere espressa da forme storiche determinate ma non può coincidere del tutto con esse, così come l‟anima non può coincidere col corpo che la ospita, per cui il concetto di coerenza non va confuso con quello di corrispondenza, che implica una confusione e immedesimazione della forma storica di società con il suo contenuto ideale di socialità. Ed è esattamente questa confusione all‟origine di ogni visione immanentistica della socialità, che conduce, al di là delle intenzioni, verso una visione totalitaria della società. Il concetto di società di Durkheim è uno di questi casi. Durkheim si chiede “che cosa abbia potuto condurre l‟uomo a pensare di avere in sé due esseri”,367 uno spirituale e uno materiale. La originaria relazione simbiotica dell‟uomo con gli altri esseri naturali è comprovata proprio dalla natura sempiterna dell‟anima, che non può non essere della stessa sostanza delle cose naturali, concetto che sta all‟origine del principio totemico il quale “ha come sua precisa caratteristica di presentare il duplice aspetto, di sintetizzare e di confondere in sé i due regni”.368 Il principio totemico è lo stesso principio unitario del consorzio sociale, nei termini in cui la sua unità venga sentita dai singoli membri come il valore accomunante la loro distinta particolarità empirica. Da qui il rapporto sintetico stabilitosi tra l‟unità totemica e la pluralità dei membri. In una parola, allo stesso modo che la società non esiste che grazie all‟esistenza degli 366
Ivi, pag. 347. Ivi, pag. 352. 368 Ivi, pag. 355. 367
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individui e in essi, il principio totemico non vive che negli individui e nelle loro coscienze, la cui associazione forma il clan. Se non sentissero in loro quel principio, neppure il clan esisterebbe, essendo le coscienze individuali che lo fanno vivere nelle cose. E‟ dunque necessario che lo spirito totemico si frantumi e si renda partecipe di ognuna di esse, tale che ogni suo frammento costituisca un‟anima. 369
Ma da qui anche l‟origine della confusione tra il Tutto, che è un un‟idea, ossia un valore socializzante, e le parti che lo incarnano e lo fanno proprio storicamente. Se infatti il Tutto viene fatto coincidere con l‟insieme delle parti, anche l‟idea, ossia l‟anima, viene a consistere con esse, perdendo la sua natura altra da quella finita, cioè il suo carattere ideale, trascendente i corpi o le forme materiali. Se dunque il principio totemico è una unità ideale dei membri sociali del clan, esso non può, propriamente, “frantumarsi” fra questi, ma semmai parteciparsi o comunicarsi, senza perdere la sua natura ideale e la sua essenza unitaria, distinta da quella particolare dei singoli membri. Durkheim è un convinto assertore della differenza tra la società e gli individui che la compongono, ma la sua idea di società è appunto immanentistica, non trascendentale, come vedremo, per cui non scorge nel “principio mistico che costituisce l‟essenza di ogni individuo” altro che l‟omogeneità di “sostanza” e di “materia”,370 ma non la loro reciproca e irriducibile differenza, che fa della sostanza e della materia due realtà, non solo simboliche ma ontologiche. Il sangue può essere un “luogo dell‟anima”, per cui “quando il sangue decorre, la vita fugge e, con essa, anche l‟anima s‟invola”. Ma asserire per ciò che “l‟anima si confonde col principio sacro che è immanente al sangue”,371 significa non cogliere la pur asserita differenza tra quel principio e il suo luogo di presenza fisica, tra l‟entità ideale e i fenomeno reale. Infatti, il sangue deperisce e l‟anima sopravvive per incarnarsi in altri luoghi fisici.372 Durkheim ammette l‟esistenza di vincoli immateriali quando afferma che le categorie del pensiero “esprimono i rapporti più generali che
369
Ivi, pag. 356. Ivi, pag. 364. 371 Ivi, pag. 371. 372 Ivi, pag. 374. 370
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esistano tra le cose”,373 indispensabili alla società per sopravvivere, per cui essa “non può abbandonare le categorie al libero arbitrio delle [determinazioni] particolari senza trascurare se stessa, [sicché] per poter vivere essa non ha bisogno soltanto d‟un sufficiente conformismo morale ma anche di un minimo di conformismo logico, di cui non può fare a meno. Ed è questa la ragione della pressione che la sua autorità esercita sui membri sociali al fine di prevenirne la dissidenza”, impedendo che essi allontanino dalle “nozioni fondamentali” che sono alla base della sua visione della vita, dando l‟impressione che qualcosa “fuori e dentro di noi” ci trattenga dall‟essere “del tutto liberi” di affrancarci. E‟ la stessa autorità della società che si trasmette nei modi di pensare adatti all‟esercizio di ogni azione comune, e la necessità con la quale le categorie si impongono al nostro pensare non è legata all‟effetto di semplici abitudini di cui potremmo fare a meno con un minimo di sforzo; non si tratta cioè di una imposizione fisica o metafisica, dal momento che le categorie variano per tempi e luoghi. Si tratta invece qui di una sorta di necessità morale del tutto particolare, che vincola la vita intellettuale allo stesso modo in cui il dovere morale vincola la volontà.374
Questi “rapporti”, per quanto adatti ad esprimere condizioni di vita sociale, non sono però mere “convenzioni” artificiali, il cui valore simbolico sia circoscritto all‟utilità umana ma “senza rapporti con la realtà”. Infatti “se la società è una realtà specifica, non per questo è un regno entro un altro regno, ma fa parte della natura, di cui è la manifestazione più alta”. In altri termini, “il campo sociale è anch‟esso naturale, non distinguendosi dagli altri campi che per la sua maggiore complessità, per cui è impossibile che la natura, nei suoi aspetti più essenziali, sia radicalmente diversa a seconda dei suoi campi”.375 Ora, ciò che andava chiarita non era l‟appartenenza dell‟esperienza umana allo stesso mondo naturale, ma la sua specificità antropologica, ossia la stessa “realtà specifica” della società. Questa specificità è la dimensione religiosa della vita, che è propria dell‟uomo e non di altre 373
Ivi, pag. 23. Ivi, pagg. 24-25. 375 Ivi, pag. 25. 374
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specie naturali. Ma cos‟è la religione? Il concetto di religione è una particolare versione dell‟idea di ordine cosmico, legato a una potenza che, rispetto a quella impersonale della natura, è volitiva, nel duplice senso di essere espressione di una volontà soggettiva e di essere soggetta a determinazioni non prevedibili. In questo senso “la nozione di religione coincide con quella di straordinarietà e di imprevisto”.376 Ma tra tutte le possibili determinazioni concettuali, una sola è comune a tutte le forme di religiosità, costituendo il “tratto distintivo del pensiero religioso”, ossia quello che prevede “la divisione del mondo in due sfere, una comprendente tutto ciò che è sacro, e l‟altra tutto ciò che è profano”.377 Questa distinzione nell‟ambito di una comune realtà, naturale ed esistenziale, di due campi d‟essere, riporta a sua volta a un concetto che li accomuna e nel contempo li separa, quello di “eterogeneità”, il quale, rispetto a ogni altro concetto oppositivo, quale bene/male, salute/malattia, etc., ha un carattere non opinabile e perciò “assoluto” e “universale”, tale che “il sacro e il profano sono sempre e ovunque concepiti dallo spirito umano come generi separati, ovvero come due mondi tra i quali non vi è niente in comune”.378 Ma è in questa assolutizzazione dei due campi, presentati come irrelati, che si annida l‟errore logico e gnoseologico della teoria sociologica di Durkheim. Infatti, il concetto di “eterogeneità assoluta” nasconde una contradictio in adiecto, poiché ogni appartenenza a generi diversi presume una comparazione, ossia una possibilità d‟essere che è relativa alla sua diversità, e giammai “assoluta”. L‟eterogeneità, rispetto all‟essere in comparazione, è il non-essere, mentre l‟eterogeneità “assoluta” rispetto all‟essere determinato non si oppone come essere-diverso ma come Niente. E noi invece sappiamo che la parte sacra del mondo convive con quella profana allo stesso modo in cui l‟eterea anima immortale è presente nel corpo fisico mortale. Le conseguenze logiche di questa incongruità teorica sono rilevanti 376
Ivi, pag. 39. Ivi, pagg. 50-51. 378 Ivi, pag. 53. 377
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anche in senso sociologico, poiché la relazione che si va a stabilire da i due campi assolutamente eterogenei non è dialettica, ossia logica, ma esclusiva, e pertanto pratica. Ciò vuol dire che non vi è mai compresenza dei due stati ontologici nella stessa realtà fenomenica, ma quando si è in presenza del sacro manca il profano, e viceversa, per cui non c‟è una vera relazione tra le due condizioni ma un essenziale rapporto conflittuale. Infatti, essa relazione si presenta come “passaggio da un mondo all‟altro”, in modo tale che “quando si verifica, porta in evidenza il dualismo essenziale dei due regni, di fatto implicando una metamorfosi”,379 cioè un cambiamento d‟essere. La contraddizione risiede nel fatto che il “dualismo essenziale” in realtà non può essere mai “evidente”, dal omento che i due “regni” non sono mai compresenti, ma quando si è nel dominio dell‟uno l‟altro è escluso, per cui la coscienza è sempre nell‟uno o nell‟altro campo, in modo appunto “assoluto”, senza possibilità di mediazione tra l‟uno e l‟altro. Perciò, quando si è nel regno del sacro, tutto è sacro, e dove tutto è sacro niente può essere profano, in qual caso, come si può distinguere l‟uno dall‟altro campo? Tra essi può avvenire solo un “passaggio”, ossia un cambiamento di stato che implica una trasformazione: o nel senso della sacertà, ovvero nel senso della profanità, ma dove sussiste l‟uno non esiste l‟altro. E questa, come ognun vede, è la logica assolutistica, che, in campo teoreticamente è assimilatoria dell‟altro al sé, ed è manipolativa nella sfera propria dell‟agire pratico. La stessa definizione che Durkheim ci offre di religione è la premessa della sua teoria della società. Una religione è un sistema coerente (solidaire) di credenze e di pratiche relative al campo delle cose sacre, ossia di quelle separate e vietate, costitutivo di credenze e pratiche che uniscono in una stessa comunità morale, chiamata Chiesa, tutti coloro che vi aderiscono.380
Da questa definizione discende che la realtà solidale concretamente reale non è l‟unità mistica degli aderenti, ma la realtà sociologica, ossia l‟istituzione. E come la Chiesa è la realtà dell‟unità religiosa, la società diventa l‟unità concreta dei membri civili. Inutile aggiungere 379 380
Ivi, pag. 54. Ivi, pag. 65.
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che la forza coercitiva che esercita la società sui suoi membri è l‟azione stessa dello Stato, la cui confusione con il concetto di società conferma le conseguenze totalitarie della teoria sociologica di Durkheim. L‟idea di “passaggio” da uno ad altro stato, da una ad altra condizione, implica l‟esistenza di una fondamentale unità dei distinti stati, per cui questi non sarebbero che posizioni relative e quindi modificabili. La modificazione è la proprietà di ciò che è disponibile, ossia della realtà pratica, per cui, in questa prospettiva pratica, la capacità di modificazione dell‟essere diventa il valore discriminante. Il termine che indica generalmente il valore della modificabilità dell‟essere è il lavoro. Lavoro è ogni attività umana idonea a modificare l‟essere, portandolo da uno stato a un altro. In questo senso, il “passaggio” dalla condizione sacra a quella profana è, nel suo campo, un lavoro, anzi l‟espressione primaria e più saliente dell‟attività trasformatrice dell‟uomo. Ora, la cultura religiosa, come abbiamo visto, asserisce la distinzione di status tra cose sacre e profane, ritenendo che la loro eterogeneità sia “assoluta”, e in virtù di questa assolutezza è costretta a concepire il sacro come una sfera separata dalla realtà profana, mettendo come sua mediazione il rito magico e come mediatore lo sciamano. Essendo la realtà sacra ciò che non si vede, che è nascosto dalla realtà visibile e profana, la religione coincide con la fede nell‟esistenza di quella realtà invisibile e non intuibile coi sensi, per cui il pensiero religioso può definirsi un pensiero del “negativo”, cioè di ciò che nonè reale in senso naturale, ma lo è solo in senso spirituale. Sacro è dunque il regno distinto da quello naturale, intuibile coi sensi. Ma poiché anche l‟altro regno, invisibile, del sacro ha una sua realtà, altra ma reale per chi la sappia cogliere, occorre che chi ne partecipi abbia una particolare facoltà diversa e aggiuntiva rispetto a quella comune sensibile. Ciò vuol dire che il legame che si può istituire tra la condizione umana e quella sacra non si stabilisce per le vie sensibili e materiali, ma per altre vie, che sono appunto quelle dello spirito, il quale, per quanto invisibile, è sia nel regno del sacro che all‟interno dell‟uomo che vi faccia occasionale o duratura incursione. Ciò che comunque rileva è l‟esistenza di due realtà, nessuna delle quali è 287
precipuamente umana, dal momento che sia la dimensione profana che quella sacra sono dimensioni “assolute”, coinvolgenti ogni essere vivente, animato o inanimato che sia. Il pensiero filosofico nasce allorquando nell‟uomo si ravvede la capacità, che altre specie viventi non hanno, di avere coscienza di questa alterità ontologica dell‟essere, per cui se al mondo profano e al mondo sacro appartengono tutte le specie, solo quella umana ha la facoltà di rendersene conto e conseguentemente di regolare la sua esistenza sulla base di questa consapevolezza. Ciò significa che la differenza tra il pensiero religioso e quello filosofico riposa nella differenza, aggiuntiva a quella tra mondo sacro e profano, tra mondo cosciente e mondo incosciente. Dal che deriva che, nella dimensione filosofica, ossia della coscienza della differenza ontologica, il “lavoro” diventa anch‟esso un processo razionale, da magico che è in ambito religioso, e tale che l‟intrapresa del “passaggio” tra i due mondi, sacro e profano, divenga una attività consapevole, e non occasionale e rituale, che abbia come esito la trasformazione universale, e come oggetto la creazione di un terzo genere tra i due iniziali, quello appunto del mondo precipuamente umano, nato dalla trasformazione consapevole, cioè dal lavoro razionalmente organizzato. Questa nuova realtà, affatto umana, ma nel contempo anche naturale e anche sacra, è la società, il mondo artificiale creato dall‟uomo per mezzo del lavoro. La questione relativa alla teoria sociologica di Durkheim riguarda la domanda se la società sia un astratto nomen di qualcosa che invece raccoglie concretamente le singole attività umane di un determinato contesto di gruppo, ovvero sia una realtà distinta da quella delle singole attività lavorative e non meno concreta di queste. Ciò sembra riportarci al punto di partenza, ma non è così, poiché il lavoro “sociale” è già un prodotto sintetico e terzo, per cui la vertenza è stabilire se esso sia originato dalla società, ovvero dai singoli lavoratori. Prima di dare una risposta, dobbiamo chiarire un punto fondamentale, accennato ma lasciato in sospeso. Infatti, noi abbiamo affermato che i lavoro sia un rito di passaggio razionalmente formalizzato, mutuato dal modello originario di rito religioso a sfondo magico e a scansione occasionale. Da ciò ne consegue che il prodotto del passaggio è terzo rispetto a ciò che è solo 288
sacro e solo profano. Ed è terzo in quanto ciò che è sacro si distingue da ciò che è profano non per la sua veste esteriore, per la sua forma sensibile, ma per il suo valore aggiuntivo, per cui la cosa profana, attraverso il rito religioso, viene consacrata e diventa a sua volta sacra, pur rimanendo fisicamente la stessa cosa. Ciò vuol dire che il “sacro”, come regno ideale, indica un mondo di sole cose sacre, un mondo “assoluto”, ma come realtà fenomenica, “sacro” può essere solo un oggetto, un rito, un atto determinato, e quindi reale in senso sensibile, appartenente quindi al mondo profano. In altri termini, il “sacro” e il “profano” sono regni ideali di uno stesso regno comune fisico, uno invisibile e l‟altro visibile. Dal punto di vista naturalistico, della sensibilità, l‟altro mondo, è sopra-naturale, è meta-fisico; così come lo stesso mondo naturale, dal punto di vista meta-fisico è puramente accidentale, destinato a finire, rispetto all‟eternità delle idee. Tornando alla nostra questione, la trasformazione operata dal lavoro non si limita a sacralizzare le cose profane, come il rito religioso, il quale rende sacro lo stesso oggetto o comportamento profano, senza alterarne la realtà fisica. Il lavoro, invece, opera un mutamento della cosa naturale in una cosa diversa da quella originaria, ad es. trasforma una pietra in punta di lancia, ovvero il ferro liquido in una spada. La pietra e il ferro rimangono pietra e ferro, ma ne viene mutata la destinazione naturale dall‟uso umano. Ed è questo uso umano e non naturale il valore aggiunto alle cose naturali, che non essendo nelle cose e nella natura è ideale, spirituale. Ciò vuol dire che il finalismo, ossia la volontà orientante le cose naturali, non è né una cosa e neppure naturale, ma umana. Da qui la questione se i prodotti siffatti siano attribuibili ai suoi autori empirici, ovvero alla società quale natura artificiale. I prodotti in quanto tali, sono e restano prodotti umani, cioè artificiali, per cui anche il disuso non li riporta allo stato naturale. ma cosa li rende funzionali al valore? L‟uso empirico, o l‟uso convenzionale? Nel primo caso, valore ha soltanto la cosa utilizzata come tale, per cui la spada è tale e non mero ferro battuto perché usata dal guerriero. Nel secondo caso, il valore di una cosa è attribuito non dalla volontà di chi la usi ma dalla sua considerazione comune, sociale, ideale, per cui anche il valore di quella cosa è sociale, ideale. In questo caso, il valore ideale trascende il valore 289
d‟uso, e non inerisce la considerazione che della cosa ha il suo creatore. Insomma, anche la società, così come il regno del sacro, è una realtà “ideale”, astratta fuori dalle singole determinazioni empirico-reali, ma che le trascende perché di natura diversa e non identica a quella dele singole cose reali. Se ciò è vero, sociale, così come sacro, è quel mondo che “è” oltre ogni sua manifestazione reale; quel mondo la cui realtà trascende la realtà empirica delle sue forme determinate. A questo punto, sorge la questione se il mondo artificiale prodotto dall‟uomo e che noi indichiamo come “società” sia lo stesso mondo assoluto considerato dalla religione come dimensione del sacro. Se noi diamo una risposta positiva a questa domanda, concepiamo il lavoro umano, l‟attività sociale, come l‟operazione speculare ed opposta a quella intentata dallo sciamano nell‟atto di sacralizzare le cose profane, ossia come un‟opera di profanazione del mondo naturale, che viene liberato della sua essenza spirituale e ridotto alla sola dimensione naturale. pertanto, come l‟officiante del rito religioso, trasforma l‟unione dei sessi in vincolo matrimoniale consacrato alle leggi divine, così il lavoratore sociale trasforma il mondo della natura eliminando da esso ogni traccia di valore religioso, umanizzandolo nel senso del proprio criterio di valore, che è appunto sociale e profano, derivato dall‟uomo e non originario e di derivazione divina. La differenza tra le due operazioni, di sacralizzazione e di profanazione del mondo, consiste nel fatto che l‟opera di sacralizzazione trasforma la destinazione delle cose naturali secondo un ordine soprannaturale intangibile e non disponibile all‟uomo se non nei limiti di ciò che è originariamente dato, laddove l‟opera di profanazione sostituisce all‟ordine originario un altro ordine, un ordine nuovo, non più assegnato dalla natura o dagli dei, ma dall‟artefice stesso della trasformazione, cioè dall‟uomo. E torniamo così al punto. Se infatti ogni uomo del gruppo ha una parte del totem, non vuol dire che ogni uomo è un distinto totem. Parimenti, se ogni lavoratore sociale apporta la sua parte di socialità attraverso il suo lavoro, non vuol dire che ogni lavoratore sia una società, o la stessa società parcellizzata. Il totem resta totem distinto dai membri del clan, e la 290
società resta distinta dai suoi membri sociali. La distinzione è ciò che consente al totem e alla società di essere ciò che i loro rispettivi membri non sono, ossia uno e non tanti: una idea e non realtà empiriche determinate. Il dato rilevante, quindi, è se l‟insieme (regno sacro, società, clan tribale, etc.) sia altro dalla somma delle parti (riti sacri, lavoratori, membri tribali, etc.). la risposta non può che essere affermativa, dal momento che l‟insieme è un‟idea d‟essere insieme, e non lo stare concretamente insieme tra individui e gruppi reali. Se infatti l‟idea dell‟insieme sociale e la società sono la stessa cosa, i modi dello stare insieme sono anch‟essi identici, e cioè indistinti, mentre noi sappiamo che la distinzione è all‟origine della religione e della filosofia, quali riti di passaggio. La conclusione dunque è che senza la distinzione non può esserci religione, perché ove tutto fosse sacro, niente sarebbe profano, neppure il mondo abitato sarebbe più il mondo ma il paradiso e gli uomini e gli altri esseri viventi sarebbero spiriti e non esseri naturali. Ma ciò vale anche per la dimensione sociale, poiché, ove tutto fosse opera dell‟uomo, non esisterebbe che l‟uomo, e finirebbe anche il lavoro stesso di trasformazione e umanizzazione, cioè la stessa società. Per cui, l‟esistenza della distinzione (tra sacro e profano, tra sociale e individuale) è la condizione della esistenza stessa dell‟uomo come essere umano, ossia essere religioso e sociale. In questo senso, l‟essere umano ha come dati antropologici originari e universali, la sua natura religiosa e la sua natura sociale, ossia la sua facoltà di distinguere l‟idea del mondo dal mondo. Questa facoltà è la capacità di trascendere il finito e di avere il sentimento dell‟infinito, ed è questa la dimensione spirituale precipua all‟uomo, in virtù della quale egli è un essere da noi indicato come “privativo”, ossia in grado di distinguere sé dal mondo e di ritirarsi dal mondo così come di uscire dal proprio sé e mondanizzarsi o socializzarsi. Da ciò consegue dunque che l‟idea di società e l‟idea di spiritualità hanno la stessa fonte religiosa. 2. La sociologia di Durkheim ammette la distinzione tra società e membri sociali, ma nega la trascendenza dei valori sociali, facendo della società una struttura organizzativa fondata sulla divisione del lavoro. Ma l‟insostenibilità di questa teoria emerge evidentemente 291
dalla sua concezione della morale come ideologia sociale. Nei corsi tenuti alla Sorbona nel 1902-1903 su L’educazione morale, Durkheim avanza esplicitamente la necessità di emancipare la morale dalla sfera religiosa e di affidarla allo “spirito scientifico”, il quale implica che “sia possibile una educazione morale interamente razionale”, e nel contempo che sia destinata non a “l‟uomo in genere” ma agli “uomini del nostro tempo e paese”.381 Ossia alla Francia della III Repubblica, intenta a formare una coscienza civile nazionale, e quindi un ordine e una educazione comune conforme alle esigenze di ristrutturazione morale dello Stato dopo la disfatta contro la Prussia del 1870, il ridimensionamento della Francia in Europa a seguito dell‟unificazione tedesca e la nuova realtà dell‟industrialismo. Già da queste premesse emerge il compito intellettuale assegnato al sociologo di ridefinire in termini laici, ossia scientifici e razionali, un problema che sino ad allora aveva interessato il regno delle coscienze governato dalla fede religiosa. L‟ebreo Durkheim, nato da una famiglia di tradizioni rabbiniche, è consapevole del peso che la religione ha avuto nel definire la coscienza morale dell‟uomo, e altresì del fatto che il processo di razionalizzazione della sfera morale non possa risolversi in un esercizio di sottrazione dell‟elemento religioso senza sostituendovi niente, poiché questo provocherebbe un vuoto ideale.382 Così col nome di morale razionale si avrebbe soltanto una morale scialba e impoverita. Per ovviare al pericolo, non basta contentarsi di effettuare una separazione esterna, ma si deve andare a cercare, in seno alle stesse concezioni religiose, quelle realtà morali che vi sono disseminate e dissimulate e liberarle, capire in cosa consistano, determinarne la natura propria ed esprimerla in un linguaggio razionale. Occorre, in una parola, scoprire i sostituti razionai di quelle nozioni religiose che tanto a lungo hanno servito da veicolo alle più essenziali idee morali. 383
Qui tocchiamo, per così dire, con mano ciò che voglia dire il “passaggio” dal mondo sacro a quello profano, molto simile a un processo di demitizzazione della sfera religiosa, ma non a scopo di intersezione della razionalità nell‟ambito della fede tradizionale, ma 381
E. Durkheim, L’educazione morale, tr. it., Torino, 1969, pag. 467. Ivi, pag. 471. 383 Ivi, pag. 472. 382
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all‟opposto di privare alla morale religiosa quel fondamento fideistico che l‟aveva sostenuta, liberando “il campo della morale” da quella “misteriosa barriera che ne tiene lontano i profanatori allo stesso modo che il campo religioso è sottratto all‟eccedere del profano”, e cioè liberando quel “settore sacro” dalla sua “realtà trascendente”. [Ibidem.] La razionalizzazione della sfera morale coincide dunque con un ripensamento in chiave immanentistica dei suoi tradizionali fondamenti trascendenti. Ma nella concezione di Durkheim gioca un ruolo importante anche il legalismo della tradizione ebraica, il suo formalismo, che porta a credere che il cambiamento del fondamento religioso con uno razionale possa lasciare intatta la struttura formale dei precetti e delle regole morali, sostituendo ad un referente abitudinario nuovi referenti di ordine razionale. Se l‟eminente dignità attribuita alle regole morali è stata espressa finora soltanto in forma di concezione religiosa, da ciò non deriva che non possa esprimersi altrimenti e si deve perciò stare attenti che essa non sprofondi con quelle stesse idee cui un‟abitudine inveterata l‟ha troppo strettamente legata. Se i popoli, per spiegarsela, l‟hanno identificata in un irradiamento, in un riflesso della divinità, ciò non vieta che essa possa riallacciarsi a qualche altra realtà, a una realtà puramente empirica, in cui trovi una spiegazione e di cui l‟idea di Dio non è forse che l‟espressione simbolica.384
Il carattere asserito come “assoluto” della sfera del sacro viene ora presentato come relativo a storiche credenze mitologiche, variabili e quindi relative ai loro contesti fideistici. “Assoluta” non è dunque la sfera religiosa in quanto divina e separata da quella umana e profana, ma nel senso che entro il suo campo la sua antica assolutezza possa riproporsi nei termini razionalistici di una rinnovata vigenza, che, come nel sistema legale di Kelsen, veda mutata solo la Grundnorm, lasciando intatta la struttura normativa. Dio, pertanto, diventa un concetto, una fonte razionale, le cui necessità di modernizzazione della vita sociale e lavorativa impongono un rinnovamento ideale. Le stesse cause che hanno reso necessaria l‟istituzione di una morale e di una educazione laica sono troppo connesse a quanto vi è di più fondamentale nella nostra organizzazione sociale perché non ne vengano influenzati la materia stessa della 384
Ivi, pag. 473.
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morale e il contenuto dei nostri doveri. Infatti, se con più forza dei nostri padri abbiamo sentito la necessità di una educazione morale interamente razionale, è chiaro che siamo diventati più razionalisti. Ora, il razionalismo non è che un aspetto del‟individualismo: l‟aspetto intellettuale. Non è che vi siano due stati mentali diversi, bensì l‟uno non è che l‟inverso dell‟altro e viceversa. Quando si avverte la necessità di liberare il pensiero individuale, è che in linea generale si sente il bisogno di liberare l‟individuo. La servitù intellettuale non è che una delle servitù che l‟individualismo combatte. Ogni sviluppo dell‟individualismo produce l‟effetto di aprire la coscienza orale a idee nuove e di renderla più esigente.385
La teoria presenta due chiavi di lettura, o meglio due moventi intellettuali. Il primo, è relativo alla stretta connessione tra condizione morale e condizione individuale, per cui l‟individualismo, essendo un portato del razionalismo, diventa esso stesso un‟esigenza morale da soddisfare inderogabilmente, se non si vuole contravvenire alla stessa realtà del tempo. Il secondo movente, è relativo alla universalizzazione della condizione morale all‟interno del suo contesto socio-culturale, per cui l‟assolutezza dei princìpi, non essendo più eludibile la storicizzazione dei fondamenti morali, viene circoscritta al suo contesto di riferimento, con la conseguenza paradossale che la razionalizzazione dei fondamenti morali coincide con la loro relativizzazione. Questa incongruenza è propria dei costrutti ideologici, i quali assumono come fondamento teorico dei postulati assoluti e non verificabili, i tal senso “religiosi”, che sorreggono la struttura logica del discorso ideologico fino, appunto, alle loro conclusioni aporetiche e paradossali, per evitare le quali l‟argomento sofistico è costretto a fermarsi, per sedicente “spirito realistico”, alle conclusioni penultime, dichiarandole le uniche umanamente accertabili. E‟ in questo modo che l‟astratto razionalismo, nell‟atto di liberare la coscienza dai miti, crea il mito della ragionevolezza della razionalità, che è un‟altra fede religiosa, a suo modo “sacra” e “assoluta”, perché ha come contr‟altare dialettico l‟abisso dell‟ignoranza e della superstizione, al quale destina ogni riserva di pensiero circa la sua validità. Nel caso, i postulati che sono alla base della teoria sociologica della morale di Durkheim sono l‟individualismo, quale dimensione 385
Ivi, pag. 474.
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moderna della vita umana, e il razionalismo quale forma di pensiero adeguata alla sua comprensione. Da questi assunti dogmatici, discende l‟avversione verso tutte le espressioni culturali difformi dal modello antropologico proposto, rispetto al quale ogni prospettiva storica passata diventa inesplicabile e opera di superstizione. La morale compresa, che viene intesa come “ideale” [Ivi, pag. 475.] e non già come il fondamento di quell‟ordine sociale che, relativamente al passato, viene dichiarato superato, e che è da fondare in riferimento al futuro. Potendo la morale essere fondata, essa può anche essere rifondata. Ciò vuol dire che la sacertà dei fondamenti morali non è una qualità propria della dimensione religiosa, ma diventa essa stessa una modalità di considerazione di quei fondamenti, la quale, liberata dalla sua tradizionale connessione religiosa, può essere reimpiantata in un contesto originariamente profano quale quello dei rapporti sociali. Ora, è facile scorgere nella nuova prospettiva d‟ordine razionalistica che la funzione di salvaguardia che la religione svolgeva nella sfera morale, nell‟ordine sociale rinnovato la svolge la politica, il luogo antonomastico di mediazione tra il campo già religiosamente sacro del socialmente ammissibile e del già profano campo dell‟inammissibile. Il vero “passaggio” dal sacro al profano si realizza, nella prospettiva razionalistica di Durkheim, nei termini di una ristrutturazione religiosa del mondo profano che si determina come forza di coesione politica del mondo sociale. Sacro è diventato l‟orizzonte sociale, mentre politica è la forza che sostiene l‟ordine morale. In questo senso, la morale sociale non è che la volontà politica di mantenimento dell‟ordine stabilito. Prima di procedere all‟analisi dei fondamentali “elementi della morale” durkheimiana, occorre insistere brevemente sui postulati che vorrebbero legittimarla: l‟individualismo e il razionalismo. Se la morale individualistica viene presentata come un “ideale” condendo, è segno che essa deve corrispondere a una rappresentazione sociale non tradizionale, non affermatasi nel tempo, ma da costituire in futuro. Ma la morale non è un‟esigenza fondata su un progetto sociale, viceversa, è il senso ideale di quel progetto. Ciò vuol dire che viene logicamente prima di ogni costruzione sociale, e questa priorità logica ne denota il carattere idealmente indipendente dalla sua forma 295
storica. Se la morale non fosse un modello ideale, non sarebbe neppure contravvenire alle sue statuizioni, ai suoi comandamenti, ma seguirebbe pedissequamente il corso degli eventi. Gli eventi sono “sociali” nel senso che si svolgono entro la cornice della convivenza sociale, delle sue regole stabilite e da rispettare, ma sono, entro tale cornice, eventi individuali, ossia tali da essere comparabili al modello di riferimento. Questo modello, perciò, non può che essere generale, ossia “sociale” nel senso della sua valenza erga omnes, e perciò astratto rispetto a ogni comportamento singolare. La stessa possibilità di infrangere le regole comuni, lascia intendere che è possibile ipotizzare comportamenti difformi da quelli generali. Ma la difformità rispetto al modello non significa assenza di modelli altri da quello generale, ma solo di comportamenti irregolari secondo la regola generale. Ciò vuol dire che condendo non è il modello morale particolare, al quale è rapportabile il comportamento eslege, ma solo quello generale, in nome del quale quel comportamento viene stigmatizzato. In altri termini, se la morale sociale è il canone di una realtà condenda, essa è il modello ideale di una società anch‟essa ideale, che non esiste ma che deve esistere. Ed è in questo dovere che consiste la morale “sociale”. L‟affermazione della società ideale, che storicamente non esiste ma che è solo una proiezione ideale di società, dipende dalla negazione delle società reali, così come la morale generale dipende dalla sua affermazione sulle morali particolari, ossia dalla negazione dei corpi sociali intermedii e delle loro rispettive regole morali. L‟individualismo, dunque, è la condizione della razionalizzazione del potere sociale sulla premessa della negazione dei poteri e delle morali intermedie, quelle storicamente reali e che divengono, nella nuova prospettiva sociale generale, i termini di paragone negativi con la nuova morale generale. Solo rispetto a questa, le condotte particolari difformi sono immorali. A questo punto prende rilievo quanto detto all‟inizio circa l‟assimilazione della critica al concetto di società alla negazione dello spirito; nel senso che la critica alla “società” è da intendere come società storica o naturale, l‟unica che ha una morale che spiritualmente la informi. La società di cui parla Durkheim, invece, non è una società 296
reale, storica, ma un modello sociale informato da una sua fede religiosa garantita dal potere politico, il quale è nella misura in cui gli altri poteri intermedii e tradizionali, con le loro morali particolari, non-sono. Da qui si può ben comprendere che la “razionalità” di questa struttura individualistico-centralistica è solo relativa allo scopo da conseguire, ossia alla costruzione dell‟ordine nuovo, della società ideale moderna. Su queste basi si andava edificando lo Stato nazionale che sortiva dalla progressiva eversione dell‟ordine feudale nel corso di due secoli, e che nella Rivoluzione del 1789 ha trovato il suo metodo catalizzatore, e il cui processo veniva ora graziosamente chiamato di razionalizzazione politica. Storicamente, la società naturale, cioè la fonte della moralità sociale, era la famiglia genealogica, che nel ceto trovava la sua realtà sociologica e culturale. Era in base alle appartenenze che si stabilivano i rapporti sociali, secondo una logica particolaristica fondata sulla differenza dei ceti, che costituivano gli “stati” tradizionali della civiltà occidentale: quello popolare, quello militare e quello sacerdotale, sopra i quali tutti si poneva quello regale, comunque di origine militare. La società dei nobili non aveva in comune con gli altri ordini spesso neppure la contiguità fisica, ma solo la religione, che consacrava quell‟ordinamento sociale in quanto fondata anch‟essa su una cosmologia gerarchica, in cui Dio, il re e il padre erano i simboli del comando supremo. Era logico che l‟esigenza di ristrutturare l‟ordine tradizionale nei tempi ristretti imposti dalla realtà politica del tempo, soprattutto internazionale, spingeva a trovare nuovi modelli legittimativi, una nuova “morale”, disancorata da quella religiosa tradizionale, comune a tutti i popoli europei, e fondata sulle esigenze del rinnovamento politico. Nell‟atto di fondare la convivenza sociale sulla nazione, e non più sui ceti o sugli stati, si introduceva un vincolo associativo non tradizionale che doveva presumere la dissoluzione dell‟antico ordine su ragioni che non potendo appellarsi alla tradizione, cioè alla storia, facevano appello agli ideali, all‟utopia, dove l‟esperienza e la saggezza dei popoli e delle sue classi dirigenti venivano estromesse dalla loro autorità al cospetto di una superiore istanza universale, quella della ragione, che divenne il parametro di 297
legittimazione della realtà. Aver stabilito che la ragione fosse il modello di realtà, mentre la realtà storica non fosse che la forma adattiva, equivaleva a riproporre la dicotomia cosmica di “sacro” e di “profano” in termini riveduti e corretti secondo la modernizzante logica “laica” e “razionalistica” informativa della nuova società razionalizzata, definendo il “passaggio” da una ad altra dimensione in termini di spuria contaminazione assimilatoria. Ed è proprio in questa contaminazione indistintiva dei due originarii campi ontologici dell‟essere cosmico, in questo “passaggio” manipolativo dell‟ideale nel reale e viceversa, a costituire l‟essenza dello spirito rivoluzionario che contraddistingue la cultura moderna, teoretica e pratica, segnando con essa la fine della cultura religiosa. Il dominio della cultura pratica consiste appunto nella credenza, opposta a quella distintiva, religiosa e filosofica, che all‟interno dell‟unità cosmica le differenze non sono essenziali ma legate alla volontà, e quindi al dominio, dell‟uomo, il quale può, con adeguate metodiche, convertirle nel loro opposto, ossia uniformare ogni diversità apparente all‟unità sostanziale della volontà più forte, al potere. La “rivoluzione” segna il passaggio consapevole delle differenze all‟omogeneità sostanziale dell‟essere naturale, che è la materia, il dominio del mondo profano, oggetto della considerazione della scienza, ovvero del sapere delle cose sensibili. Tra gli “elementi della moralità”, intesi come “le disposizioni fondamentali, gli stati mentali che stanno alla radice della vita morale”,386 Durkheim, oltre allo “spirito di disciplina”, inteso come “la regolarità della nostra condotta” in relazione alla “regolarità delle varie condizioni in cui ci troviamo posti”,387 e alla “autonomia della volontà”, intesa come “l‟unità stessa dell‟essere reale [che è il cittadino] di cui [l‟idea di dovere e quella di bene] esprimono modi di azione diversi”,388 prende in considerazione “l‟attaccamento ai gruppi sociali”, sul quale merita soffermarci più distesamente. Durkheim parte dal presupposto che “l‟uomo è fatto per vivere in un determinato ambiente, limitato, ma vasto quanto basta alla sua 386
Ivi, pag. 482. Ivi, pag. 506. 388 Ivi, pag. 549. 387
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esistenza”, per cui “l‟insieme degli atti che costituiscono la sua vita ha lo scopo di adattarlo a quell‟ambiente o viceversa”, in modo tale che “vivere significa metterci in armonia col mondo fisico che ci circonda, col mondo sociale di cui siamo membri”. La società umana appartiene al mondo fisico, per cui non c‟è modo che non sia patologico di evadervi, essendo lo scopo della vita l‟adattamento alle condizioni ambientali, limitate e definite dalla società in cui si vive. Per questa ragione, “i fini che dobbiamo normalmente perseguire sono parimenti definiti né possiamo liberarci da tale limite senza porci subito in uno stato di contro natura”.389 Non si può ragionevolmente evadere dalle condizioni sociali, dai limiti imposti dalla situazione esistenziale, che è naturale, ossia è un dato in trascendibile della nostra esistenza e perciò deve diventarlo anche della nostra coscienza. Per il sociologo ebreo, la società ha reso il posto della volontà di Dio, conservandone tutti i caratteri di discrezionalità e di inoppugnabilità. In questa morale del branco, “la disciplina è utile non soltanto nell‟interesse della società, o come mezzo indispensabile senza il quale non può aversi una regolare cooperazione, ma nell‟interesse stesso dell‟individuo”, poiché “è grazie ad essa che impariamo quella moderazione dei desideri senza la quale l‟uomo sarebbe infelice”; ed è questa moderazione, ossia tale “facoltà di frenare i nostri impulsi, di resistere a noi stessi, che acquistiamo alla scuola della disciplina morale, e [che] condizione indispensabile al sorgere della volontà riflessiva, […] a formare quanto vi è di più essenziale in ognuno di noi: la nostra 390 personalità”.
Il mondo uscito dalla grande Rivoluzione, che in nome della ragione e delle sue utopistiche parole d‟ordine nuovo, ha sconvolto l‟ordine antico, con le sue secolari o millenarie regole di condotta, dirompendo quella stabilità di costumi e di mentalità che sottostavano alle sue istituzioni storiche, a questo punto, preso il controllo della società, si prende il compito di ristabilire l‟ordine già infranto, dichiarando “naturali” quei limiti e quei confini assegnatogli dalla nuova volontà 389 390
Ivi, pag. 507. Ibidem.
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regolatrice, indicando nella “disciplina” il senso della misura già violata dalla libertà dello spirito rivoluzionario, e nella “moderazione” il criterio di equilibrio della convivenza comune, già ignorato nell‟atto di insubordinazione all‟antica morale consolidata. Essendo la società il nuovo regno della natura umanizzata attraverso il lavoro, esso diventa in trascendibile, la ragione stessa incarnata nel sistema socio-politico, il quale, in quanto dimensione “assoluta”, diventa “sacro”, e come tale va considerato dai suoi membri. Il nuovo regno non è il termine di un processo in divenire; come tale soggetto a ogni limitazione propria dei prodotti umani. No, esso segna la fuoriuscita dalla condizione pre-razionale e il dato insopprimibile, se non per prava determinazione patologica, che va salvaguardato come l‟unità totemica veniva salvaguardata dal clan relativo, che in essa identificava la stressa struttura cosmologica della vita. Lo spirito dell‟utopia razionalistico si converte in spirito di conservazione, e la fede nella modificabilità razionale del mondo tradizionale, si converte in superstiziosa cura della realtà esistente. E‟ in questa “dialettica” che va rintracciato il limite aporetico del razionalismo astratto, la cui mezza-misura è la democrazia della III Repubblica, ma il cui esito logicamente coerente e finale è il totalitarismo nazionalistico e populistico. In questa logica socialitaria, il “dovere” dell‟uomo non è la dedizione “a coltivare la propria intelligenza, a affinare le sue facoltà estetiche, ad esempio, al solo scopo di riuscire o per la gioia di sentirsi più completo, più ricco di conoscenze e di emozioni, per godere il solitario piacere dello spettacolo che offre a se stesso”, non avendo “né la scienza, né l‟arte una virtù morale intrinseca suscettibile di comunicarsi ipso facto al soggetto che la possiede”, ma “tutto [il loro valore] sta nell‟uso che se ne fa o che se ne vuol fare”, 391 ossia nella destinazione sociale di quei valori. Il sociale diventa il solo luogo dell‟omologazione valoriale, l‟unica dimensione in cui l‟attività umana, anche quella teoretica e spirituale, ha un senso. La eliminazione del valore in sé degli atti spirituali costituisce il risultato, o forse la premessa, di quel “passaggio” dal sacro al profano che si realizza attraverso l‟affermazione “assoluta” della socialità quale 391
Ivi, pag. 514.
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esclusivo luogo pubblico della ragione. La ragione pubblicizzata, cioè socializzata, diventa strumento di potere, attività manipolatoria dell‟altro e conservativa del sé, privata di ogni altra funzionalità che non sia appunto quella dettata dalla ragion pubblica. Ed è così che intelligenza del mondo diventa il cane da guardia ammaestrato a servire il potere politico. Lo spirito, che poteva vagare di corpo in corpo essendo imperituro, viene addomesticato e rinchiuso nelle forme storiche della società desacralizzata, e trasformato anch‟esso in genio profano, in utile funzione di potere. Perdute le sue funzioni assolutamente distinte da quelle profane, lo spirito si disincarna dalle personalità morali individuali per diventare la virtù comune della “personalità collettiva”, la quale, diventando un feticcio ipostatico come l‟arcaico totem tribale, “sopravvive a quella dei suoi membri”, smentendo l‟ipotesi identitaria sopra commentata, sicché “fra la Francia attuale e quella del Medio Evo esiste una identità personale che nessuno si sognerebbe di negare. E mentre le generazioni di individui succedevano ad altre generazioni, al di sopra del flusso perpetuo delle personalità singole, persisteva qualcosa, la società con la propria coscienza, il proprio temperamento”, a conferma non solo che “è l‟atto proprio de gruppo che impone le somiglianze agli individui che ne fanno parte”, ma quale “prova migliore che il gruppo è altra cosa dall‟individuo”.392 Viene ripristinata la differenza religiosa tra il mondo “sacro”, ora sociale, e quello “profano”, dei singoli membri, ma secondo una modalità e una visuale che ha eliminato, in virtù della sintesi umanizzatrice del lavoro, le distanze originarie, a favore di una simbiosi per la quale i valori sacri hanno abbandonato l‟aldilà e si sono definitivamente incarnati in forme profane, sacralizzandole nell‟atto stesso in cui essi, i valori, si sono profanati. Questo è potuto avvenire grazie alla eliminazione di ogni tradizionale mediazione simbolica tra i due regni del fisico e del meta-fisico, cioè attraverso la negazione di ogni fonte privilegiata di comunicazione rituale tra le due sfere ontologiche. Da qui il necessario processo di laicizzazione della società tradizionale, consistente nella rimozione di ogni traccia di mediazione ecclesiastica e dalla giustapposizione delle 392
Ivi, pagg. 518-519.
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nuove forme di mediazione sociale, politicamente e non più religiosamente ispirate. La fine della Chiesa è la premessa della potenza assoluta dello Stato, il nuovo custode della fede civile della società razionalizzata. Comprendiamo meglio, a questo punto, la funzione mediatrice della ragione in questo “passaggio” trasformativo da una dimensione unitaria del mondo a una in cui il mondo diventa “le cose” molteplici. Il senso profondo della razionalità “strumentale” è riposto proprio nella funzione che essa ricopre nell‟opera trasformatrice del mondo, quale dimensione unitaria e naturale in cosmo umanizzato attraverso il lavoro quale opera razionalizzatrice e socializzatrice. Il mondo “ideale” è il cosmo umanizzato, pervaso dall‟attività operativa della ragione e trasformato in mondo sociale. Questo mondo umanizzato non è quello unitario della natura-madre, ma soltanto quello creato dall‟uomo, è cioè un cosmo meta-fisico, anche se realizzato. Anzi, proprio perché opera dell‟uomo e non della natura, la società umana è altra rispetto a quella comune a tutte le specie animali e viventi. Questa particolarità non è legata a una deliberazione astratta e preventiva, a un progetto sociologico di ingegneria costituzionale e ideologia politica, ma è consustanziale all‟essere stesso dell‟uomo come essere razionale e immaginativo, cioè riproduttivo di idee. Il carattere precipuamente strumentale della ragione, tale da differenziarla dalla ragione teoretica, non riposa sulla sua attitudine a rendere un servizio pratico, quanto nella considerazione che la sua funzione essenziale sia quella di commisurare i mezzi ai fini da conseguire. Mentre invece la funzione teoretica della ragione è di distinguere l‟unità del mondo ideale, che è “sacro” in quanto inviolabilmente comune a tutti gli esseri viventi, dalla molteplicità delle realtà particolari, queste sole disponibili a fini pratici, a cominciare dai bisogni biologici. Soltanto il mondo molteplice è disponibile ai viventi, e perciò “profano”, ma giammai il mondo nella sua unitaria consistenza. Violare questa significa profanare, cioè considerare fruibile a scopi particolari, l‟intangibile ordine cosmico “sacro”, tale in quanto non disponibile. Da qui il carattere sacro della natura, degli spiriti, delle divinità e delle stesse idee, i quali tutti hanno la caratteristica di non dipendere dalla volontà umana, di non essere 302
frutto della sua attività creatrice. Il fuoco potrà essere riprodotto dall‟uomo, ma non creato da lui, ma dal fulmine, il quale a sua volta è il prodotto di qualcuno o qualcosa più potente dell‟uomo, che non riesce a crearlo. La differenza tra quel “qualcuno” e l‟uomo, è opera della ragione, che attribuisce ai fenomeni una causa. Fino a quando i fenomeni restano naturali essi sono anche sacri, proprio perché non prodotti dall‟uomo. La sacralità è il principale attributo della natura quale unitario ordine cosmico. Per “natura” non dobbiamo scambiare i singoli fenomeni e le singole manifestazioni di vita: la pioggia, il vento, il sole, gli alberi, l‟acqua, etc., ma l‟unità di essi come realtà non dipendente dall‟uomo, e perciò “sacra”. La meraviglia filosofica dell‟uomo è la scoperta della alterità, e quindi della differenza. Riportare le differenze empiriche all‟unità di ciò che è diverso dall‟uomo, e quindi distinto dalla sua realtà particolare, è pensare, ossia ragionare; e pensare, ossia ragionare, equivale a distinguere il “sacro” dal “profano”, ossia essere nella religione. La fine della dimensione religiosa inizia allorquando si perde la cognizione della differenza ontologica, per cui l‟uomo non copia più l‟ordine terno e indisponibile, ma ritiene che quell‟ordine sia un suo stesso prodotto, per cui non sono gli dèi a volere ciò che è naturale, ma è l‟uomo a creare gli dèi e di conseguenza anche tutto ciò che a essi pertiene, compreso l‟ordine cosmico. Così, la ragione da ancella della religione, cioè da pensiero della distinzione, diventa strumento della creazione, di cui si misura non la corrispondenza con la volontà divina, ma l‟efficacia appunto strumentale. L‟uomo, pertanto, diventa da mediatore consapevole tra l‟essenza unitaria del mondo e le sue molteplici manifestazioni sensibili, l‟usurpatore dell‟ordine cosmico, ed egli stesso creator mundi. Tutto ciò che “è” diventa dunque “creato”, cioè voluto dall‟uomo, e valido non in quanto stabilito indipendentemente da lui, ma proprio in quanto da lui voluto. La volontà, cioè la potenza del fare, è la dimensione umanizzata del mondo, che acquista una sua ragion d‟essere etsi Deus non daretur. Il dominio del pensiero pratico è parallelo alla perdita della dimensione religiosa del pensiero, che non più distingue e tutela l‟inviolabilità del sacro, ma crea e produce il mondo umanizzato dal lavoro, e perciò 303
razionalizzato e socializzato. Il mondo razionalizzato e umanizzato è quello della “società”, ossia della socialità deprivata della sua naturalità e destinata a una convivenza consapevolmente distinta da quella di altri gruppi naturali. Ogni gruppo umano è “il” gruppo antonomasticamente umano, cioè l‟unico che possa riprodurre legittimamente i caratteri del sacro. Che l‟umanitarismo moderno abbia esteso a tutti gli uomini questa legittimità, un tempo circoscritta al clan tribale o alle singole nazioni politiche o religiose, non inficia il principio per cui l‟uomo può fare da sé, nel tempo, e altrimenti ciò che la natura o Dio ha disposto da sempre. E poiché ciò che l‟uomo fa, col suo lavoro e col suo ingegno, sono “cose”, l‟intero suo mondo è una realtà molteplice e relativa al suo lavoro creativo. Essendo ogni cosa umanamente esistente un prodotto dell‟opera umana, essa ha un inizio e una fine, ha cioè una storia, qualità che manca al mondo che è da sempre lo stesso. Il mondo che diviene, il mondo umanizzato, è dunque il mondo storico, fatto di prodotti umani di cui si può seguire il processo formativo, di cui si può conoscere l‟inizio e la fine, la nascita, lo sviluppo e la morte. In questo senso, il mondo umanizzato è segnato da un destino di morte, mortale, del quale è invece privo il mondo eterno degli dèi immortali e della natura, che sono privi di storia. La primitiva meraviglia dell‟uomo è nell costatazione che il mondo è anche senza di lui, e in questo suo essere ciò che è senza che sia fatto, riposa la sua bellezza. La bellezza è dunque un attributo dell‟eternità, della sacralità e della unità del mondo, cioè della sua bontà. Il mondo “è” nello stesso tempo, cioè eternamente e unitariamente, “sacro”, “bello” e “buono”. Qualità che non appartengono ai prodotti umani se non singolarmente e temporalmente. Niente umanamente “è”, ma ogni cosa umanamente “diviene”, cioè si crea e perisce nel tempo. Il regno umano, la realtà umanizzata, è segnata dalla sua finitezza ontologica, cioè dalla sua molteplicità produttiva. La differenza essenziale tra la produzione naturale o divina e quella umana è contrassegnata dalla presenza o assenza di disegno unitario della produzione. L‟uomo, in qunto essere finito, e perciò prodotto dell‟eterno, non può che produrre cose finite e mortali come lui, ossia cose particolari prove di quel disegno unitario che è consentito 304
soltanto a un creatore unico ed eterno. L‟uomo, producendo il suo mondo col suo lavoro e la sua intelligenza, non può andare oltre la riproduzione di sé, per cui il mondo umanizzato è una realtà che non può trascendere la finitezza umana. E poiché il creatore del mondo artificiale, l‟uomo appunto, non può che ri-creare se stesso in modi infinitamente diversi ma simili, la coscienza di questa finitezza coincide con la coscienza della sua diversità, e quindi contraddittorietà della sua presunzione totalizzante, ossia la sua stessa volontà coincide con la coscienza religiosa, ossia la sua libertà di ragione coincide con la necessità dell‟Essere. E poiché libertà e necessità sono concetti opposti nell‟uomo ma uniti in Dio, solo nel pensiero religioso, ossia della distinzione ontologica, possono trovare la loro coincidentia oppositorum. L‟uomo, il figlio di Dio, emancipatosi dalla volontà del Padre, alla fine del suo tempo torna necessariamente alla sua casa paterna, ossia la sua ragione che guida la sua volontà lo spinge progressivamente a riconoscere la sua dipendenza da quella volontà unitaria dalla quale ha creduto per tempo di emanciparsi ricreandone i fenomeni singoli. Ma la sommatoria di queste creazioni singolari e molteplici non potrà mai coincidere con l‟unità del disegno ideale del mondo, che è “ideale” proprio in quanto distinto dal mondo fenomenico. Alla fine, la questione essenziale è se tale alterità sia quella della natura o divina rispetto all‟uomo, o se sia il prodotto dell‟uomo. Nel primo caso, valore ideale ha ciò che “è” indipendentemente dall‟uomo; nell‟altro caso, valore ha soltanto ciò che è prodotto umano. Nel primo caso, soltanto la natura o Dio hanno leggi che legano i varii fenomeni cosmici, mentre nell‟altro caso, è la natura a essere fuori dell‟ordine razionale umano, e perciò caos e mistero. Se l‟unità è nella natura, l‟uomo deve tendere alla armonia naturale, facendo di questa tendenza la forza della sua ragione. Se, invece, è il mondo umanizzato l‟unica realtà che ha un senso razionale, ossia una destinazione unitaria dei molteplici fenomeni storici, allora l‟uomo è tanto più vero e libero quanto più distante dal caos e dalla insensatezza della natura. Il pensiero della mediazione, distinguendo ciò che è sacro e unitario ed eterno, da ciò che è molteplice e transeunte, fa dell‟esperienza 305
umana la ricerca dell‟equilibrio degli opposti, e della facoltà razionale il pensiero della sintesi. Il pensiero del “passaggio” non ammette mediazioni, ma concepisce la sintesi degli opposti immanente al prodotto umano stesso, facendo della produzione, ossia del lavoro socializzato, il surrogato della mediazione, per cui il prodotto finito, storico, diventa in sé e per sé un valore anche eterno, oltre che praticamente umano. E in questa sacralizzazione del lavoro quale opera trasformatrice dell‟uomo, ripone tutto il senso dell‟essere, ogni valore. ma, poiché del mondo sacro, non essendo creato dall‟uomo, e non essendo da lui disponibile e tangibile, non ne risponde l‟uomo, egli non ha alcun merito di ciò che i mondo è, ma neppure colpa alcuna del volere degli dèi, ossia di come il mondo è. Viceversa, del mondo umanizzato, ne risponde solo l‟uomo. E poiché il suo mondo è una realtà destinata a finire, la colpa dell‟uomo è proporzionata alla sua stessa capacità creativa, per cui tanto maggiore è la sua potenza mondana, tanto più si accresce il suo senso di impotenza morale a scongiurare la fine di ciò che non può non avere fine, ossia del suo stesso mondo umanizzato. E‟ qui da vedersi lo scacco della ragione emancipata dalla fede, dell‟umanesimo liberatosi della natura, della scienza umana priva di ogni fine. Ciò che “ha” fine va distinta da ciò che “è” eterno. E ciò che è eterno, non essendo prodotto umano, non è disponibile dall‟uomo, e perciò è “sacro”. Dire sacro è dire Uno, poiché solo il molteplice può trasformarsi, mentre l‟unità dell‟essere semplicemente è, non diviene altro da sé. Ciò che diviene può divenire in quanto molteplice realtà di una tessa essenza unitaria, che Spinoza chiamava “materia”. Ciò che invece non diviene ma semplicemente “è”, non appartiene al regno della materia, ma è appunto di una essenza diversa, ideale. Ciò vuol dire che il regno ideale e quello dell‟unità coincidono, e da qui sorge l‟idea di Dio come Essere unitario e la religione monoteistica. Ma da qui anche la differenza tra il rito religioso, come partecipazione del finito alla realtà dell‟infinito, e il lavoro come opera di trasformazione infinita del finito. Non ci può essere alcuna coincidenza logica tra le due operazioni mediatrici. Il rito, infatti, non intacca l‟essenza del sacro, ma la rende comunicabile simbolicamente al mondo profano. Viceversa, il lavoro, trasformando la forma della materia, non intacca 306
la materia ma resta confinato allo stesso mondo finito, senza assurgere all‟infinito, perché l‟infinito è un‟idea e non la ripetizione indeterminata del processo del lavoro umano. All‟idea non si giunge attraverso la materia, ma passando alla dimensione meta-fisica. Questo “passaggio” al meta-fisico avviene attraverso una rinuncia alla materia, ossia alla dimensione del molteplice mondo dell‟opera umana, e una immedesimazione del distinto all‟Uno. L‟uomo assurge all‟unità ideale dell‟Essere attraverso un‟opera di rinuncia del mondo fisico, che è appunto caratterizzato dalla trasformazione della materia attraverso il lavoro. E poiché questa attività operativa avviene attraverso la ragione, l‟uomo non può assurgere all‟idea unitaria dell‟Essere attraverso un processo razionale, bensì attraverso la rimozione della realtà finita e razionalizzata dal lavoro umano, che Husserl chiamava stoicamente “époché”, la quale rimozione consente l‟intuizione ideale. Intuire vuol dire dunque abbandonare la realtà del molteplice per uniformare la coscienza all‟essere unitario, alla realtà ideale. Confondere la mediazione intuitiva con il processo razionale del lavoro, equivale a perdere il senso della differenza ontologica, che religiosamente separa i “sacro” dal “profano”, e filosoficamente l‟Uno dal Molteplice, ovvero l‟idea del mondo dal mondo reale, l‟eternità intangibile dalla realtà finita e trasformabile. 3. L‟attaccamento al gruppo sociale di cui l‟individuo è membro è la condizione psicologica della sfera morale quale vita collettiva. Come dice Durkheim, “il campo della vita veramente morale incomincia là dove inizia il campo della vita collettiva, o, in altri termini, che siamo esseri morali soltanto nella misura in cui siamo esseri sociali”.393 Si noti il sillogismo per cui la “vita morale”, che interessa il comportamento pratico, viene a identificarsi con la stessa “morale” come concetto, cioè con la moralità, attraverso il medio comune della collettività, fuori della quale non c‟è vita per l‟individuo e quindi neppure vita morale. La riduzione di un ideale a prassi è la condizione della considerazione della società come luogo esclusivo dei rapporti umani, pratici e ideali. 393
E. Durkheim, L’educazione morale, tr. it. cit., pag. 520.
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A questo punto, il problema sociologico primario è quello di definire l‟uomo fuori del contesto sociale. Infatti, fino a quando persisterà la possibilità di una definizione autonoma d‟uomo a-sociale, il concetto di socialità viene a perdere la sua valenza totalizzante, a favore di un rapporto biunivoco e dialettico che riabiliterebbe il pensiero religioso che la sociologia vuole rimpiazzare con la sua visione del mondo profana. Per giungere a questa negazione dell‟individualità, Durkheim deve offrire un modello negativo di “interesse personale” quale condizione antitetica dell‟autentica e universale moralità. Per cui, “se l‟interesse individuale è in me privo di valore, è evidente che non può averne nemmeno in altri. […] Dal che si deduce che se esiste una morale, essa deve necessariamente interessare l‟uomo a fini che superino la sfera degli interessi individuali.”394 Piegata sul piano della prassi, l‟azione individuale non può avere un senso razionale circoscritto alla soggettività empirica, ma deve appunto averne uno nel contesto della collettività quale logica comportamentale condivisa. La fallacia di questa considerazione non risiede nella attribuzione del valore sociale dell‟azione, ma nel presumere che l‟azione stessa sia l‟unica espressione della moralità; di una moralità intesa come morale pubblica. E‟ interessante notare che, rispetto all‟impostazione neo-empiristica e individualistica della morale, che si definisce in antitesi alla posizione razionalistica e collettivistica di Durkheim, nel nostro caso la morale è ciò che per la posizione anti-razionalistica è la scienza, ossia l‟opinione pubblica, mentre l‟atteggiamento morale viene dal neoempirismo attribuito all‟azione economica, cioè a quella utile all‟individuo, che per Durkheim costtuisce l‟atteggiamento immorale per definizione. Questo ci consente di confermare che la sfera della morale, portata sul piano della vita profana, si identifica con il valore di riferimento ideologico proprio dell‟ente empirico che se ne fa portatore, per cui, se l‟ente identitario è la società, morale diventa la vita sociale; viceversa, se l‟ente col quale identifichiamo il valore è l‟individuo, morale diviene l‟azione individuale in sé considerata. Entrambe le prospettive per affermarsi esclusivamente devono rimuovere il rispettivo opposto dialettico, sicché l‟individualismo deve 394
Ivi, pag. 521.
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definire astratta la società, mentre la posizione collettivistica definisce viceversa astratto ogni comportamento individuale che non sia assunto nella dimensione sociale. Ma questa astrazione è all‟origine dell‟idea di “passaggio” da una ad altra sfera ontologica, tale che quella del sacro possa sussistere a prescindere da quella profana, e viceversa l‟affermazione dell‟unica realtà del profano viene delineata come distacco e separazione dalla dimensione del sacro. Finché si rimane nell‟idea della alter natività ed esclusività dell‟opposto, il pensiero rimane astratto dal Tutto, che comprende anche l‟opposto. Ciò significa che astratto non è solo il razionalismo e l‟empirismo, ma lo stesso pensiero religioso nei termini in cui non ammette la mediazione razionale tra i due regni, ossia non divenga pensiero filosofico. Il “solo essere morale empiricamente osservabile” è per Durkheim la “società”.395 Ma poiché questa è composta pur sempre da individui, la sua realtà rilevante è quella “psichica”, ossia relativa a “una personalità distinta da quella dei suoi membri”, cioè una personalità appunto “morale”, tale che interessi “l‟organismo” come realtà unitaria, e non la “somma di cellule” che lo compongono. La realtà di questo organismo sociale viene indicata da Durkheim dal “carattere specifico della società”, consiste nel “modo con cui la personalità collettiva si conserva e persiste identica a se stessa a dispetto dei continui cambiamenti che si verificano nella massa delle personalità individuali”, tale che “la fisionomia collettiva della società sussiste simile a se stessa […] nonostante l‟incessante rinnovamento delle generazioni”.396 E‟ facile confutare questo semplicistico nominalismo osservando solo che, se ciò fosse vero, la realtà sociale non avrebbe storia, ossia cambiamenti e mutazioni, e la sociologia stessa verrebbe a identificarsi con la definizione della morale. Infatti, ciò che non muta non è la realtà empirica la realtà ideale, la sola che “è” e non “diviene”. Le contraddizioni di questa impostazione, come già accennato, non risiedono nella teoria di una società distinta dagli individui, ma nella 395 396
Ivi, pag. 521. Ibidem.
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definizione di questa società come una realtà astratta dalla vita degli individui, nella quale la loro vita si risolve come la parola nel concetto. Questa dicotomia astratta si costruisce sul presupposto che esistano gli individui fuori della società, fuori della moralità, secondo un modello di riferimento mutuato appunto dal pensiero religioso, che separava la realtà sacra (nel nostro caso divenuta sociale) da quella profana (nel nostro caso, degli individui), laddove la realtà distinta va compresa nell‟unica realtà del Tutto, comprensiva degli opposti. In altri termini, se è vero che esista una società, questa non è quella delineata da Durkheim nata dalla divisione del lavoro, ma l‟unica società veramente organica nata dall‟unità dei sessi e dalla sintesi procreativa, cioè la famiglia, nella cui società originaria il singolo esprime il suo ruolo primario di creatore di vita. La società di cui parla Durkheim, non è una società reale, naturale, originaria, ma un modello identitario giustapposto a quello naturale e originario, fondato su legami formali, su appartenenze giuridiche, che non sono il riconoscimento di quelle reale ma ne presuppongono l‟estinzione fisica o la rimozione logica. Solo rimuovendo l‟unità primaria e sintetica della famiglia, l‟uomo perde la sua socialità naturae e, come individuo, è pronto alla socialità razionale, alla cittadinanza. L‟uomo di Dulkheim, dunque, non è l‟uomo culturale, ma l‟individuo giuridico, il cittadino, che è una fictio juris, un ente astratto, e astratto dalla realtà sociale orginaria di appartenenza, ossia la famiglia. Inotre, è pur vero che il legame sociale è un legame morale, ma nel senso che il collante unitario delle realtà familiari primarie avviene attraverso l‟affinità delle visioni del mondo caratteristiche dei ceti che da sociali diventano culturali, e cioè morali. Tale affinità nasce dalla comunanza di esperienze e di abitudini tradizionali, che modellano una comune Weltanschauung che costituisce la forma orale della relazione umana. Non nasce da un modello di socialità esterno ai gruppi originarii, cioè da un foedus o da un patto sociale. L‟idea contrattualistica è conseguente alla rimozione della socialità primaria delle famiglie e morale dei ceti, e si definisce a posteriori come una realtà condenda, non storicamente reale, e perciò astratta. La prospettiva di Durkheim è speculare a quella individualistica, ma ugualmente astratta, poiché anch‟egli vede l‟uomo come un essere 310
separato dalla sua realtà familiare e cetuale e destinato a incorporarsi in un organismo che, non essendo quello naturale, è quello razionale del modello sociale della sua teoria. Va sottolineato che spesso, quanto asserito da Durkheim, è vero nella dimensione storico-culturale ma diventa falso se rapportato alla sua dimensione sociologica razionalistica. E‟ il caso in cui dice che Indubbiamente l‟individuo e la società sono esseri di natura diversa, ma lungi dall‟esserci antagonismo tra loro, lungi dal non poter esservi un attaccamento dell‟uomo per la società senza una abdicazione totale o parziale della sua natura, l‟uomo è veramente stesso, realizza a pieno la sua natura soltanto mediante quell‟attaccamento.397
Ora, ciò è vero nei limiti di una diversità intesa in senso empirico, per cui il figlio non è il padre e l‟allievo non è il maestro, ma è falso nei termini in cui la “natura” dell‟individuo possa concepirsi come altra rispetto alla natura sociale, poiché la natura sociale è diversa da quella dell‟individuo solo se intesa come legame formale, giuridico, mentre fa parte della stessa natura dell‟individuo la sua identità sociale. Un “attaccamento” ha valore identitario se fondato su un presupposto morale, cioè su vincoli non formali ma di fede interiore, senza i quali neppure l‟individuo potrebbe definire la sua personalità distinta. Proprio questa natura morale consente all‟uomo di non identificarsi con ogni realtà sociale, ma solo con quella che gli pare degna del vincolo collettivo. Non definire il singolo sulla base di questa identità, significa porre il vincolo stesso come il valore morale, mentre esso è subordinato al giudizio di merito circa l‟appartenenza al gruppo. Il che non significa che il gruppo sociale sia il prodotto di una scelta esistenziale tra opzioni diverse offerte dal mercato della storia, ma che la sua appartenenza è relativa al collante socialitario, cioè a un dato di cultura, che è spirituale e tradizionale, non giuridico. Il momento giuridico interviene a regolare i rapporti tra individui e gruppi giuridicamente, e non moralmente, definiti, e per ciò essi possono rescindersi o perfezionarsi sulla base di rapporti di natura politica, laddove i vincoli morali, in quanto ideali, non sono soggetti a rescissione arbitraria o ad accomodamenti parziali, ma di valore 397
Ivi, pag. 523.
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assoluto. Ora, dichiarare i vincoli sociali di natura giuridico-formale come legami assoluti, significa caricarli impropriaente di una valenza morale che essi non hanno né possono avere. Ed è questa la presunzione fallace della teoria di Durkheim, la quale assimila il rapporto sociale di tipo pattizio (la Gesellschaft) alla relazione spirituale di tipo morale (alla Gemeinschaft), attribuendo alla prima le qualità ideali della seconda. La società pattizia, fondata su rapporti formali, viene meno con l‟estinzione dell‟interesse a mantenerla in vita, cioè con la fine del suo movente economico. Invece, la società morale, fondata su rapporti spirituali, non viene meno con la variazione delle parti che giuocano i ruoli del rapporto, poiché sia le parti che i ruoli sono assunti sulla base di una adesione moralmente obbligatoria, non formale, e quindi rescindibile a discrezione delle parti e non giuridicamente vincolante. Ma proprio questa libertà è il contenuto della moralità del vincolo spirituale, laddove nel vincolo giuridico l‟obbligazione è del tutto indifferente alla intima adesione delle parti, perché di natura formale e non morale. Il vincolo morale è assoluto perché liberamente accettato, mentre il vincolo giuridico è obbligatorio perché la volontà di osservarlo non dipende dalla costanza morale delle parti obbligate. Ciò che si deve giuridicamente, prescinde dalla volontà di volerlo, per cui il vincolo giuridico è sempre eteronomo, compulsivo, esterno alla coscienza attuale, laddove il vincolo orale è sempre autonomo, poiché il suo adempimento non è formale ma legato al vincolo di fede, alla coscienza dell‟attore. Da qui la necessità che il vincolo morale sia stabilito da personalità simili, simili nella considerazione del suo valore vincolante; mentre il vincolo giuridico nasce sul presupposto del conflitto delle interpretazioni dei vincoli e della discrezionalità del loro adempimento tra personalità non vincolate moralmente, e perciò diverse. Nell‟atto di affermare che individuo e società appartengono a nature diverse, si ammette la necessità del vincolo giuridico e non di quello morale, che suppone una comune natura ideale tra le parti. Per cui una società con vincoli morali è una comunità di uguali, che non esiste nei termini dell‟artificio sociologico, e perciò da costruire, a partire dalla realizzazione dell‟uguaglianza universale. Su questi 312
progetti costruttivistici nasce l‟ideologia e la società democratica, fondata sul pensiero profano o dell‟indifferenza, che fa del vincolo sociale un valore in sé indipendente dai suoi contenuti socialitari, ossia dalla volontà dei suoi membri, costretti ad essere liberi entro e solo entro quel rapporto socializzato. Distinguere il vincolo morale, che è ideale, dal vincolo giuridico, che è politico, equivale a distinguere il principio dal comportamento pratico. La confusione tra i due momenti è possibile grazie alla concentrazione dell‟attenzione sull‟ elemento obbligatorio: obbligo nell‟ uno come nell‟altro caso. Ed è questo il formalismo, sia religioso che giuridico, che prescinde dalla qualità della volontà che mette in atto l‟obbligo. Ora, questa differenza qualitativa è essenziale per comprendere le ragioni dell‟inottemperanza all‟obbligo stabilito. La violazione giuridica, infatti, diventa anche morale se i due obblighi vengono idealmente a coincidere, per cui l‟esito dell‟obbligo è in ogni caso – ossia anche in caso di manifesta ingiustizia e illogicità - vincolante all‟ubbidienza; se invece la natura delle due obbligazioni, quella morale e quella civile o politica, vengono distinte, allora anche i rispettivi comportamenti obbligatori dovranno tener conto della possibilità di un loro conflitto. Sicché, l‟inottemperanza civile, se riferita alla cogenza di un‟istanza morale superiore – e superiore perché ideale e universale -, pur avendo le conseguenze previste dai codici storici per l‟infrazione dell‟obbligo giuridico, è comprensibile nella sua prospettiva morale. Laddove, in mancanza di tale istanza superiore, ogni infrazione alle norme stabilite dalla legge civile398 sarà considerata, in quanto socialmente deviante, un comportamento anche psichicamente patologico, dando luogo a quella casistica criminologica così in voga nella cultura positivistica d’antan. La conseguenza pratica della differenza ideale tra valori morali e obblighi giuridici è soprattutto quella di contemplare la possibilità dell‟errore da parte dei custodi sia dei valori ideali che delle leggi civili. La possibilità, cioè, di distinguere l‟ordine giusto dall‟arbitrio 398
“Civile” qui viene usato nel senso di “politica”, relativa allo Stato, comprensiva di ogni ramo della nomenclatura giuridica, e quindi non solo le leggi civilistiche ma anche penalistiche, amministrative, etc.
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del custode; e questa possibilità può conseguire soltanto prevedendo la libertà dell‟interprete. Questa istanza di libertà ermeneutica è ben più importante ed essenziale della libertà di opinione e di stampa, poiché queste possono anche non avere una qualche incidenza sugli assetti di potere pubblico, pur avendone una grandissima sul piano dell‟opinione privata. Quella ermeneutica di cui si tratta è una libertà che inerisce invece anche il comportamento pratico dell‟interprete, per cui ha una valenza pubblica relativa che, se prevista dall‟ordinamento liberale, incide sulla struttura stessa dell‟organizzazione legale della società. In altri termini, se il comportamento umano, individuale e di gruppo, viene inscritto in un ordine normativo coerente ai suoi presupposti ideali, esso costituisce l‟espressione storica di una cultura della legalità la quale sociologicamente ha la stessa pregnanza e consistenza delle altre forme culturali di obbligazione. Ciò comporta un pluralismo di valori e di comportamenti che convivono nello stesso contesto socio-politico secondo un principio gerarchico, ovvero un principio di equivalenza, preferenziale o tradizionale, delle fonti normative. Lo Stato nazionale moderno si è costruito secondo il principio gerarchico delle fonti, per cui quella decisiva è la fonte di legge statuale, alla quale tutte le altre sono state subordinate. Da qui l‟importanza attribuita ai singoli soggetti normativi passivi, i cittadini, che sono stati ritenuti “uguali” di fronte alla legge nella stessa misura in cui sono stati privati di ogni riferimento alle loro fonti normative tradizionali. L‟uguaglianza politica degli Stati democratici nasce dall‟uguaglianza sociologica, tale che ogni intermediazione culturale tra il potere e i singoli destinatari venga abolita o considerata irrilevante. E poiché ogni convivenza umana è stabilita su forme storiche di socialità, ossia su una realtà normativa tradizionale, la loro irrilevanza giuridica va di pari passo con la dottrina della uniformità normativa, ossia della indistinzione dell‟obbligo morale da quello civile, la quale dottrina è il portato della confusione di “sacro” e “profano”, che rende sacro il potere profano sul mondo. Lo scioglimento ope legis degli ordini sociali storici operato dal governo rivoluzionario francese, razionalizza quel‟assestamento dello Stato feudale in direzione del potere centralizzato, che si concepisce 314
come fonte di ultima istanza politica che superiorem non recognoscens. Una fonte storicizzata, ossia demitizzata, fa coincidere la sua assolutezza con il potere che ha di farla valere, insinuando l‟idea che, essendo un prodotto umano, può essere riformato. L‟idea di rivoluzione nasce dal presupposto che niente di umano sia da considerare sacro, per cui l‟unica dimensione precipuamente umana è quella della storia profana, nella quale tutto ha un inizio e una fine, ossia dove ogni cosa può trasformarsi a opera dell‟uomo. Ma poiché anche gli ordini sociali tradizionali erano un portato della storia, ossia dell‟opera umana, la loro riforma rientrava idealmente nel potere umano di trasformazione dell‟essere universale. Da qui il rilievo, non solo teorico, che va dato al fondamento della tradizione. Se, infatti, il principio di socialità ha un fondamento religioso, questo non è disponibile all‟uomo, per cui il suo potere sociologico è relativo agli assetti strutturali dell‟ordine sociale coerenti alla interpretazione di quel fondamento. La libertà ermeneutica presuppone la verità da interpretare, cioè l‟esistenza di quella pietra sulla quale costruire la casa comune. Se, invece, viene rimosso ogni fondamento religioso in favore del solo ordine mondano profano, il potere umano ha in disponibilità non soltanto le forme della verità, ma la loro stessa fondatezza ideale, così che diventa arbitraria la stessa dimensione della fede, che si suppone assoluta, la quale viene intesa profanamente come qualità del potere mondano. L‟assolutezza della legge umana è perciò relativa alla sua trasformazione in normativa sacra. Una sacralità laica e umana, ma non meno assoluta di quella religiosa e divina. Lo Stato totalitario è una sacralizzazione della politica, essendo quella forma di organizzazione della società che attribuisce più coerentemente, ossia in forma più razionalizzata, alla volontà del potere umano attribuzioni divine. Ma la sua premessa ideale nasce, non dalla teoria hegeliana dello Stato, come per tanto tempo si è andato propalando, spesso senza cognizione di causa, ma dalla teoria sociologica positivistica della morale, intesa, non come fondamento dello Stato politico, ma bensì come assolutezza del fondamento politico dello Stato. la moralità riposa dunque nell‟ossequio al patto, non al principio ispiratore di esso, per cui, concepito il contratto sociale come il patto fondativo della socialità, la solidarietà dei 315
membri aderenti diventa il prius da cui discende ogni dovere civile, a prescindere dai contenuti del giuramento collettivo. Sicché la doverosità sociale si sposta dalla conformità del patto ai princìpi morali che lo legittimano, alla conformità dei comportamenti sociali alle norme che li stabiliscono. Ed è questa neutralità dei contenuti normativi a creare il presupposto logico sia dell‟equivalenza dell‟obbligo sociale al potere che lo impone, e sia, d‟altro canto, della conformità dei membri sociali per ragioni utilitaristiche, ossia per non incorrere nelle sanzioni previste in caso di infrazione. Infatti, anche la moralizzazione dell‟obbligo civile avanzata da Durkheim si fonda pur sempre sull‟identificazione del valore dell‟ossequio normativo al valore della volontà sociale in quanto tale, per cui è questa a dare valore alle norme e al comportamento prescritto, riportando la concezione della vita sociale alla coscienza politica pre-socratica e pre-cristiana. L‟uomo “è” in quanto prodotto sociale, per cui la matrice non è la creazione divina o la condizione naturae, ma la società, “perché l‟uomo è in massima parte il prodotto della società, da essa proviene quanto vi è di migliore in noi, tutte le forme superiori della nostra attività”, comprese le “idee religiose” e “la scienza”, che “sono tutte di origine sociale” e “opera della società”,399 per cui si può dire che extra societatem nulla salus. Lungi dall‟esistere tra individuo e società quell‟antagonismo che tanti teorici hanno tanto facilmente ammesso, vi sono al contrario in noi una miriade di stati esprimenti qualcosa di diverso da noi stesso, cioè la società, i quali sono la società stessa che vive e agisce in noi. Certo essa ci supera e trascende perché [si noti!] è infinitamente più vasta del nostro essere individuale, ma, al contempo, ci penetra da ogni parte, sta fuori di noi e ci avvolge, ma è pure in noi e ci confondiamo in essa per tutta una parte della nostra natura. Come il nostro organismo fisico si nutre di alimenti presi dal fuori, così il nostro organismo mentale si alimenta con idee, sentimenti, usi che ci vengono dalla società.400
La società è più forte degli individui, più complessa di ognuno di essi, ma nello stesso tempo la sua forza pervade l‟essere di ognuno, penetrandolo della sua volontà e confondendosi con quella personale. 399 400
Ivi, pag. 524. Ivi, pagg. 525-526.
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Gli elementi sono pur tuttavia due: i singoli membri sociali, da una parte, e la società dall‟altra. Perché dovrebbero confondersi? La risposta di Durkheim è in quanto la stessa personalità individuale è un derivato sociale, ovvero della “disciplina morale” di cui si fa interprete e fonte la società, che fa dell‟uomo una “coscienza” e un “sistema di idee”. E infatti la “morale”, intesa come “contenuto” dei precetti sociali, “facendoci uscire da noi stessi e ordinandoci di immergerci in questo ambiente ricco d‟alimento qual è la società, ci pone precisamente in condizione di nutrire la nostra personalità”. Ed è per tale via magistrale che “la società supera l‟individuo”, avendo “una natura propria e distinta dalla natura individuale, mediante la quale risponde alla prima delle condizioni necessarie, quella cioè di servire da scopo all‟attività morale”.401 E‟ dunque la società il fine della morale, e non lo strumento di edificazione morale. Una volta stabilita la identità tra interesse individuale con interesse sociale, la stessa dicotomia tra individuo e società, sempre ribadita da Durkheim, appare piuttosto un‟astrazione che una realtà empirica, poiché ogni gruppo umano solidale col fine sociale non può che risolversi e identificarsi con quel fine, e perciò anch‟esso astratto rispetto ad esso, che costituisce l‟unica e comune realtà sociologica. Con un progressivo processo di identificazione del fine del gruppo minore col fine collettivo e maggiore, Durkheim sostiene che “famiglia, patria, umanità rappresentano fasi diverse della nostra evoluzione sociale”, ossia ordini di grandezza empirici che non hanno una consistenza etica e culturale distinta, ma che sono soltanto forme di socialità progressive tendenti alla forma sociale maggiore e più evoluta, per cui, “preparati l‟uno per l‟altro, i gruppi corrispondenti possono sovrapporsi senza escludersi”,402 dal momento che la loro molteplicità storica coincide comunque con l‟intero sociale, che da unità ideale diventa unità statuale. I diversi e distinti organismo sociali considerati da Durkheim, non sono altro a suo dire che proiezioni dell‟individuo, o meglio degli “interessi individuali”, per cui è l‟elemento politico a costituire 401 402
Ivi, pagg. 527-528. Ivi, pag. 528.
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l‟essenza dell‟unità del gruppo; e tanto il gruppo è maggiore, cioè politicamente più forte, tanto più forte è l‟appartenenza individuale nel senso della sua maggiore subordinazione alla forma dominante. Infatti, è l‟ampiezza e potenza della struttura istituzionale a determinare il relativo rapporto sociale, per cui non vale l‟obiezione che l‟umanità sia la grandezza sociale più comprensiva di ogni forma storica esistita di organizzazione umana, poiché “l‟umanità rispetto alla patria ha lo svantaggio di non presentarsi come una società costituita”, non essendo essa “un organismo sociale avente una propria coscienza, una propria individualità, una propria organizzazione”.403 Ora dunque comprendiamo la ragione per la quale la “morale” debba identificarsi con la società storica, in quanto il valore che essa esprime, fuori della sua espressione formale, resta astratto e indeterminato “essere diragione”. Quest‟ultimo assunto realistico potrebbe anche essere vero, se per “espressione formale” e “condotta morale” non s‟intendesse che il comportamento civile, che per sineddoche possiamo indicare come “il lavoro” quale razionale opera di trasformazione del valore ideale in prodotto umano. Infatti, è il lavoro umano la categoria sociologica più generale e comprensiva nella quale sussumere ogni comportamento moralmente razionale secondo la morale sociale. Assunto che sia solo il lavoro socializzato l‟espressione dell‟attività morale dell‟uomo, ogni altra “espressione formale” viene ritenuto invalido a rappresentare razionalmente il valore morale. Con la conseguenza che l‟identità razionale dell‟uomo coincide esclusivamente con la fisionomia sociale nata dalla divisione del lavoro definita nell‟ambito della società alla quale appartiene. Asserita la possibilità del “passaggio” dalla sfera sacra a quella profana per assimilazione della prima a opera del lavoro di trasformazione razionalizzata del cosmo magico-naturale in cosmo sociale da parte dell‟uomo, e quindi ridotta la essenza morale del sacro alla dimensione della legalità sociale, ne consegue che ogni antropologia che voglia essere razionalmente fondata non possa che essere economicistica, ossia identifica a una sociologia dei rapporti politici, che costituisce l‟espressione scientificamente più realistica e 403
Ivi, pag. 530.
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coerente di rappresentazione razionale della storia profana dell‟uomo. Questa rappresentazione razionalistico-profana della storia umana è caratterizzata dalla tendenza a sostituire la varietà dei fenomeni empiricamente rilevabili nell‟esperienza della vita con una immagine logicamente coerente dell‟essere, tale che fornisca dell‟uomo un profilo costitutivamente unitario. Il senso della rappresentazione razionale dell‟esperienza umana viene riposto nella sua capacità di superare la molteplicità delle rappresentazioni empiriche del mondodella-vita, ritenute essenzialmente irrazionali, a favore di una immagine formalmente unitaria. La razionalità viene a coincidere dunque coll‟unità della forma rappresentativa. Fino a quando questa esigenza di coerenza formale della rappresentazione del molteplice viene fatta valere in sede teoretica, essa costituisce senza dubbio la qualità di ogni costrutto che voglia avere una sua plausibilità razionale. Ma quando la stessa esigenza rappresentativa vuole essere trasferita nella realtà della vita pratica, allora l‟omogeneizzazione degli elementi della rappresentazione razionale, ottenuta logicamente attraverso l‟astrazione delle loro differenti qualità specifiche, diventa un processo di depurazione dei contenuti storici della diversità del molteplice attraverso l‟opera di semplificazione della complessità reale ottenuta con una forzosa assimilazione delle differenze al modello unitario ideale. Anche questo è un “passaggio”, dal molteplice all‟unità, che è opera della trasformazione razionale del mondo da parte dell‟uomo, ottenuta a seguito della sua credenza che la realtà “vera” (e cioè la realtà “sacra”) sia quella ideale, unitaria e coerente, mentre la realtà “falsa” (e cioè “profana”) sia quella empirica, molteplice e incoerente. L‟esigenza di coerenza logica, che è di ogni rappresentazione razionale del mondo, diventa “idealismo”, che si converte nel suo opposto “prassismo”, allorquando intende far valere le qualità proprie del pensiero nella sfera della realtà pratica, nel mondo fenomenico, ottenendo la sua unitarietà eliminando da esso ogni aspetto incoerente al modello ideale della sua prescelta rappresentazione, per cui, ciò che è opera di astrazione intellettuale nel campo della rappresentazione teoretica, diventa opera di eliminazione pratica degli aspetti della realtà molteplice non coerenti al modello ideale di realtà. Ed questa 319
assimilazione del diverso all‟uguale la radice della violenza morale e fisica operata dal razionalismo pratico, cioè dall‟idealismo prassistico. La premessa metafisica, ovvero il postulato, che fonda ogni rappresentazione razionalistica della realtà consiste nella credenza che la realtà fenomenica, quella che appare al‟esperienza dei sensi, sia l‟unica realtà, e che oltre essa non esista niente. Questo immanentismo è anch‟esso una “fede”, non diversa da quella che crede che la realtà fenomenica non sia che la traccia che rimanda a una realtà ultronea e invisibile, non esperibile coi sensi. Religiosa è l‟una e l‟altra credenza. Ma con una essenziale differenza. Infatti, la fede immanentistica crede che il valore dei fenomeni sia nei fenomeni stessi, e poiché il valore è idealmente uno e i fenomeni molteplici, secondo quella fede immanentistica si deve agire sulla molteplicità, ossia sulle differenze, per eliminare l‟incoerenza della realtà fenomenica. Da qui l‟opera di trasformazione tesa al perfezionamento, o razionalizzazione, della realtà. Nel caso, invece, della fede nella trascendenza del valore, la sua natura ideale e distinta da quella reale dei fenomeni fa sì che il valore sia ritenuto assoluto, e cioè inviolabile e non manipolabile alla stregua dei fenomeni stessi, i quali sono le sue tracce simboliche ma non sono i frammenti del valore. e poiché la differenza tra il valore e i suoi simboli non è una distanza formale ma sostanziale, è cioè una differenza ontologica, nessun intervento umano può correggere o annientare la natura trascendente del valore. Entro la logica della differenza, il “passaggio” è mistico, non tecnico, per cui non si realizza attraverso “il lavoro” umano, cioè un‟opera di trasformazione dei fenomeni, ma in virtù di una particolare e singolare qualità dell‟iniziato, il quale, per le sue doti eccezionali, non può essere paragonato a ogni altro uomo, né fungere da modello emulativo. Il razionalismo immanentistico è essenzialmente monistico, e quindi un pensiero egalitario, dell‟uguaglianza universale dei fenomeni, la quale, se non esiste in natura, la si può costruire attraverso un processo di assimilazione, di cui si è detto. La logica trascendentale è essenzialmente dualistico, e quindi un pensiero gerarchico o dell‟inuguaglianza degli esseri viventi, compresi gli uomini, le cui distinte qualità specifiche vanno coltivate e 320
preservate come l‟essenza stessa della realtà metafisica, al fine di poterne distinguere la loro parte di bene e quella di male. Combattere il male, non significa trasformarlo in bene, ma riconoscerlo ed evitarlo. Se esso esiste, è anch‟esso opera di Dio, e a l‟uomo non è dato trasformare ciò che Dio ha previsto. La virtù del riconoscimento del male ne presuppone l‟esistenza. Ora, proprio questa esistenza viene negata dal razionalismo immanentistico, che concepisce la virtù come l‟opera di annientamento del male al fine di assicurare al solo bene lo spazio del mondo. In questo senso si è detto, a proposito dell‟uomo di Rousseau, che egli volesse “sostituirsi alla Provvidenza” nel costruire un mondo privo di male, facendo della vita terrena la copia conforme del modello paradisiaco. In Durkheim vediamo riproposta la logica immanentistica già quando afferma l‟identità dell‟idea con la sua realtà fenomenica. “la moralità – egli dice – ha inizio semplicemente con l‟appartenenza ad un gruppo umano, qualunque esso sia”. [Ivi, pag. 533.] La morale – che è un‟idea – viene assimilata a un ente reale, il gruppo sociale. Ma poiché empiricamente esistono più gruppi umani, se ognuno di essi costituisce una rispettiva realtà morale, se ne deduce la molteplicità delle morali, pari al numero dei gruppi. Ma proprio qui interviene l‟aspetto religioso del razionalismo immanentistico, il quale stabilisce che una sola sia tra le tante la vera morale. E dunque, siccome l‟uomo è completo unicamente se appartiene a molteplici società, la oralità stessa è completa soltanto nella misura in cui ci sentiamo solidali con le varie società di cui facciamo parte (famiglia, corporazione, associazione politica, patria, umanità). Non avendo, però, una pari dignità morale, perché non svolgono tutte una funzione egualmente importante nel complesso della vita collettiva, le varie società non possono tenere un posto eguale nelle nostre preoccupazioni. Una di esse, però, gode sopra a tutte di vera e propria preminenza e costituisce il fine per eccellenza della condotta morale ed è la società politica o patria, concepita però come una parziale incarnazione dell‟idea di umanità.404
Si noti come la costruzione sintattica segua il procedimento logico di assimilazione del diverso all‟uno attraverso un procedimento che pone come risultato del ragionamento logico la stessa premessa che 404
Ibidemi.
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dovrebbe essere motivata e che invece si assume per fede, come un postulato. Cosa motiva, infatti, la preferenza umana verso una anziché altra morale di gruppo se non la scelta stessa di quella “preminenza”? ed è questa preminenza che stabilisce la priorità della sua morale sulle altre, non già le sue intrinseche ragioni morali. Questo fa assumere alla morale della patria una preminenza che è del tutto extra-morale, di natura politica, essendo il gruppo nazionale quello più forte, e pin questo senso preminente sugli altri minori, mentre una preminenza morale dev‟essere commisurata alla sua capacità di includere idealmente altre espressioni morali, ossia dalla sua universalizzazione. Ora, proprio la morale del gruppo nazionale non può essere universalizzata senza perdere la sua natura politica, come abbiamo visto ammettere dalle stesse parole di Durkheim, per cui l‟universalismo della morale umanitaria si è ispirato alla morale familiare, gerarchicamente inferiore nella visione politicistica, ma superiore idealmente per la sua attitudine a diventare religione umanitaria, ossia “comandamento della fratellanza”, la cui realizzazione presuppone proprio “l‟emancipazione dall‟associazione politica”,405 che per Durkheim costituiva il contenitore morale inclusivo di ogni altra morale particolare. Sul fondamento stesso dell‟antropologia razionalistica, il criterio di inclusività della morale è rapportabile alla sua sostenibilità razionale rispetto a credenze razionalmente più imperfette, e poiché la fede del gruppo è la sua cultura, la cultura inclusiva di altre culture è quella portatrice di una fede più razionale delle altre fedi. Dunque il discrimine è nella ragione, ossia nella maggiore o minore ragionevolezza delle credenze culturali. Se invece il parametro viene rapportato alla potenza politica dei gruppi culturali, allora l‟inclusività dei suoi valori morali viene separata dalla sua potenza razionale e rapportata alla sola incidenza politica. A questo punto dalle due credenze originano due diverse interpretazioni della storia e della morale umana. La fede nella potenza razionale della morale, ritiene che la sua incidenza sia indipendente dalla potenza politica del gruppo portatore, per cui i 405
M. Weber, cit. da A. Gehlen, Religione ed etica, un nuovo stile, tr. it. in Morale e ipermorale, Verona, 2001, pag. 137.
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Greci conquistati affermano la loro cultura sui Romani conquistatori, e lo stesso vale per la minoranza cristiana sui popoli pagani. La fede nella potenza politica della morale, ritiene invece che la sua incidenza sia proporzionale a quella dell‟influenza politica, come accade nel nostro tempo di dominio della cultura anglo-sassone in conseguenza della potenza politica, prima della Gran Bretagna e poi degli Stati Uniti, nel mondo moderno. Apparentemente, entrambe le posizioni hanno un fondamento di verità, in quanto effettivamente le cose sono andate così nella storia dell‟umanità. Il problema, a ben vedere, però, essendo mal posto, è irresolubile. Infatti, la differenza di una cultura sulle altre riposa sulla preminenza che in essa si dà dei delle diverse espressioni e forme dello spirito umano, ossia sulla diversa gerarchia dei valori. Una cultura che si identifica con la potenza politica, ritiene che il valore morale superiore del gruppo sia quello politico. Ed è il caso della teoria di Durkheim, il cui olismo non va ritenuto decisivo ai fini della distinzione di principio di cui parliamo, poiché, in questa prospettiva di principio rientra anche l‟individualismo empiristico, perché entrambe le prospettive riportano al successo politico il criterio di validità delle morali dei rispettivi gruppi, per altri versi distinte e opposte. Ma proprio per questi altri versi, le diverse e distinte morali di gruppo sono valutate non già in virtù della loro potenza di espansione politica, ma per l‟incidenza del loro intrinseco valore rappresentativo, per cui si può pensare a una incidenza universale della morale di un gruppo politicamente debole. Ciò vuol dire che la differenza tra le due prospettive di principio dev‟essere riferita a un criterio più originario di quello che distingue l‟ordine gerarchico dei valori morali, e riferito alla struttura ontologica stessa dell‟essere, ossia riferita alla preferenza accordata al senso unitario del mondo, ovvero alla sua realtà molteplice. La vera differenza, quella veramente discriminate tra le diverse prospettive culturali e morali, è dunque nella preminenza dell‟elemento monistico rispetto a quello pluralistico, o viceversa, per cui, sulla base di questa preferenza culturale, tutta la realtà viene considerata più o meno morale relativamente alla prossimità della sua coerenza col principio valido. 323
Rispetto a questa distinzione essenziale, le differenze culturali interne alle civiltà omogenee per principio metafisico, passano in secondo piano rispetto alla tendenza di fondo che ne anima la vita spirituale e storica. La grande svolta della cultura occidentale, che è all‟origine delle sue anche distinte articolazioni interne, risiede nel passaggio da una visione dualistica dell‟essere, affermata dalla teologia cristiana, a una visione monistica, asserita dalle culture secolaristiche del moderno razionalismo. Se la teologia cristiana aveva sviluppato una antropologia fondata sulla natura sintetica dell‟uomo quale essere spirituale e naturale, a partire dalla metafisica di Cartesio le due nature dell‟uomo vengono pensate come distinte e irrelate, e tali che si ponesse il problema della preminenza di una sull‟altra ai fini di soddisfare la necessità della coerenza richiesta dal discorso razionale. Da quel momento ideale in poi, ogni discorso metafisico sull‟uomo si costruisce sulla base del metodo che più soddisfa l‟esigenza di coerenza razionale, ossia quello più idoneo a rappresentare, per la sua astrazione dalla molteplicità fenomenica, l‟essere unitario del mondo: quello geometrico e matematico. Rispetto a questa fondamentale esigenza rappresentativa, che collega le varie determinazioni fenomeniche particolari all‟unità del fondamento razionale che le sussume, le differenze tra la visione olistica e storicistica e quella individualistica ed empiristica dell‟uomo, sono secondarie, perché tutte rapportabili a una comune matrice metafisica monistica, fondata sulla credenza che la realtà vera sia quella che appare. Questa credenza è ciò che in questa cultura si indica come “scienza”, che è il nome dato alla sua religione. Come abbiamo visto, la maggiore preoccupazione di questa Weltanschauung immanentistica è di armonizzare nell‟unità quale valore di principio (razionale o scientifico) la molteplicità dei fenomeni reali, la cui razionalità o scientificità è commisurata alla loro attitudine a essere sussunte nell‟Uno. Opposto è il caso delle culture non razionalistiche, metafisicamente dualistiche, le quali, distinguendo la dimensione ideale da quella reale, attribuiscono alla realtà mondana un valore non univoco, ma relativo alla sua considerazione ideale ovvero mondana. La loro visione del 324
mondo è totalistica, perché comprende sia la realtà sacra che quella profana, ma non è totalitaria, in quanto non prevede l‟uniformazione dell‟una all‟altra dimensione della vita totale, pur prediligendo quella sacra a quella profana, ma scorgendo nella profana le tracce della realtà sacra, e in questa i simboli della verità con cui interpretare l‟altra. Se le culture monistiche e razionalistiche sono essenzialmente illiberali e totalitarie, le culture dualistiche e maoistiche sono essenzialmente liberali e pluralistiche, perché credono, non nella relatività dei valori, ma nella sacralità dei molteplici simboli dell‟unico valore. Infatti, le culture monistiche pensano l‟Essere come il Tutto, e non considerano che la realtà dell‟essere apparente è solo la realtà attuale del Tutto, ma non è il Tutto. Viceversa, le culture dualistiche hanno consapevolezza che ciò che appare è solo un‟immagine del Tutto, e che l‟Essere, come infinita manifestazione di ciò che appare, non è l‟essere del Tutto ma solo la sua attualità, la cui “verità” non è la verità, cioè la realtà, del Tutto. Rispetto alla verità del Tutto, la verità della realtà apparente, è superstizione, così come viene giudicata superstiziosa la credenza nella realtà non attuale, non visibile. Riposta la fede nella verità, a seconda dei casi, nell‟Essere ovvero nel Tutto, la credenza opposta è un disvalore, ossia un valore negativo. Ma poiché la fede nel Tutto è inclusiva della fede nel solo Essere, la prima è più universale dell‟altra, la quale ultima, credendo nella realtà di ciò che appare e non-è il Tutto, è una religione negativa, la quale crede nella unica realtà dell‟Essere-non. In questo senso, il razionalismo è l‟espressione metafisica del nichilismo, come fede nell‟Essere che non-è il Tutto. Senza questa fede nel potenziale trasformativo dell‟opera umana non si sarebbe avuta la rivoluzione industriale del sec. XVII, e neppure il nazionalismo delle società moderne, né lo stesso totalitarismo del sec. XX. Sia l‟individualismo, il quale pone la coscienza quale ultima istanza cognitiva e morale, che l‟olismo, il quale sostituisce alla coscienza individuale quella collettiva, sono rami della stessa radice metafisica, in base alla quale ogni cosa del mondo ha senso se viene rapportata alla sua unità razionale, senza la quale la stessa vita non ha più senso. Per questa logica, infatti, il senso della vita non è in sé, poiché ciò che è, è il 325
frutto della trasformazione dell‟uomo, per cui l‟essere delle cose umanizzate risiede nel senso della sua stessa umanizzazione universale. La crisi della coscienza europea moderna inizia con la Riforma protestante, che segna la contraddizione dell‟unità cristiana. Se lo scisma d‟Oriente poté essere assorbito da una cultura religiosa dualistica, che avendo ammesso la divisione dell‟Impero romano aveva già sperimentato la possibilità dell‟unità mistica nella pluralità delle espressioni particolari, lo scisma d‟Occidente, invece, infranse l‟unità cristiana nel suo concetto sintetico universale di potere sacro e insieme profano (quale erede dell‟unità imperiale romana), ma questa volta posteriore a quella che era stata la divisione pagana dell‟Impero non imputabile a ragioni religiose. Anzi, il cristianesimo si era proposto e affermato come spirito unitario superiore a ogni divisione etnica e politica, che ricercava il superamento della frattura imperiale in nome dei suoi principi veramente universalistici. La Riforma confutò questa pretesa universalistica, rimettendo in discussione, attraverso la lettura protestante della tradizione cristiana, proprio il principio di cattolicità avanzato dalla Chiesa erede della tradizione imperiale romana, contestando la legittimità di quella sintesi teologico-politica che era stata la forza morale del cristianesimo occidentale e il punto di debolezza di quello orientale. La Riforma patrocinava un ritorno alla purezza delle origini religiose, ossia alla riaffermazione di quel dualismo ontologico che il cattolicesimo aveva a suo modo compromesso a favore delle ragioni del mondo e di Cesare. Ritorno alle origini voleva significare l‟incomparabilità del valore eterno del sacro ai valori temporali del mondo profano. La distanza di Dio dal mondo doveva cioè segnare la fine di quell‟unitarismo cattolico che aveva saldato in un equilibrio instabile e sempre più precario le esigenze assolute della fede con quelle relative dell‟esistenza storica. L‟evento dirompente non fu tanto la protesta teologica in se stessa, del tutto legittima di fronte alle degenerazioni secolaristiche della Chiesa, quanto la circostanza che quella protesta avvenne fuori dell‟unità ecclesiastica, vulnerando con ciò non la molteplicità storica del corpo mistico dei fedeli ma l‟idea stessa di unità morale del cristianesimo. Da quel momento, la cristianità divenne un‟espressione culturale, da 326
realtà universale che era, e come tale relativa a tempi e luoghi ed esperienze particolari, soggetta, al pari di ogni cultura storica, al travaglio ermeneutico della definizione razionale della sua fondazione. Il razionalismo fu dunque un portato della Riforma, legato all‟esigenza di creare una nuova tradizione teologica, storicamente databile, in esplicita rottura con quella cattolica, che si fondava sulla perpetuità dogmatica della versione mitico-teologica stabilita dal concilio di Nicea. Con la Riforma, l‟opera dell‟uomo interveniva all‟interno del mito per confutarne la legittimità razionale, facendo della ragione uno strumento non più di convalida ma di destrutturazione teologica, e così aprendo la strada al razionalismo (ossia all‟uso assoluto della ragione senza più sostegno di fede) e allo storicismo (ossia alla visione profana dello homo faber che può con la ragione trasformare e de-finire anche il mondo sacro facendone appunto un mondo intieramente umano, unificando nel segno della stessa universale razionalizzazione). Questo progetto umanistico si è conservato per tutta la modernità, la quale può interpretarsi metafisicamente come l‟epoca del passaggio dal dualismo cristianocattolico al monismo razionalistico cristiano-protestante, il primo informato all‟idea di sintesi teologico-politica, l‟altro all‟idea di assoluta diversità dei due elementi. E proprio il principio sintetico dei due opposti momenti del sacro e del profano, ha potuto identificare il cattolicesimo come pensiero monistico e totalitario, e, viceversa, il protestantesimo come pensiero dualistico e liberale. In realtà, il cattolicesimo, concependo la Chiesa come il luogo della mediazione teologica (in quanto custode della tradizione) e politica (in quanto realtà istituzionale mondana), ha inglobato nel suo ordine gerarchico la sfera mondana, senza però negarla o risolverla nella sfera del sacro. In questo senso, la civiltà liberale è il frutto della teologica coesistenza delle due nature dell‟uomo anche nell‟ordine mondano, la cui riconosciuta realtà giustificava per antitesi la stessa necessità della presenza del sacro quale missione evangelizzatrice della Chiesa. Negata la necessità della Chiesa come mediazione tra le due nature metafisiche dell‟uomo, l‟unica mediazione divenne nella prospettiva protestante quella della coscienza individuale, facendo di ogni persona una istituzione, il cui ruolo surrgatrio di quello tradizionalmente 327
ecclesiastico era resa possibile dalla presunzione di una sua universale auto-cefalia molto simile a quella identità antropologica avanzata dal razionalismo classico, sul quale si era innestata la tradizione spiritualistica cristiana dando vita al paradigma paolino, e sulla quale bisognava tornare criticamente per affermare questa volta non già l‟incontro conciliatore ma la radicale e insuperabile diversità e opposizione, pur compresenti nella stessa esperienza spirituale e storica dell‟uomo. Da questa compresenza di opposte istanze contraddittorie e irresolubili, prive di una mediazione istituzionale che fosse derimente di quelle laceranti tensioni di coscienza, nasce lo spirito di responsabilità dell‟uomo solo con la sua coscienza, costretto a decidere della sua sorte senza altro conforto che quello della sua intelligenza del mondo e della sua anima. Così, lo scavo spirituale teso allo scandaglio interiore del proprio vero essere, si abbinava nell‟animo protestante alla ricerca intelligente della realtà mondana razionalmente interpretata, pertanto la profondità spirituale veniva a combinarsi, in forme non sempre coerenti e lineari, con la visione razionalistica del mondo, e il misticismo dell‟interiorità all‟efficacia dell‟azione, in un crogiuolo di pessimismo morale, legato al sentimento del mistero dell‟animo umano, e di ottimismo pratico, dovuto alla fiducia del potere della ragione, che è tipico della cultura moderna, costitutivamente caratterizzata da queste opposte tensioni coscienzialistiche e razionalistiche, le quali, in guise e forme diverse, a seconda dei tempi, attraversano l‟intero processo della modernità fino a Hegel, nel cui pensiero convergono e trovano una nuova sintesi metafisica, che cerca di conciliare il mondo sacro e quello profano grazie a un nuovo pensiero della razionalità che abbia del cattolicesimo la vocazione realistica alla mediazione dei due regni, e del protestantesimo la sensibilità mistica al travaglio della coscienza infelice, chiamata senza alcun conforto ausiliario che non sia la propria ragione a rendere conto di sé a Dio, oltre che agli uomini. Aver rifiutato questa prospettiva, insieme teologica e filosofica, di rinnovamento della tradizione spirituale cristiana nel contesto di una realtà storico-culturale già secolarizzata, è stato fatale per la civiltà cristiana, perché ha segnato, con la fine della riconciliazione tra teologia e filosofia, anche la fine di ogni ricomposizione dell‟unità 328
spirituale delle culture post-moderne nel segno dell‟unità religiosa cristiana. L‟incomprensione di Hegel ha lasciato incustodite le porte del potere trasformatore dell‟uomo faustiano, lasciando alla politica il ruolo che era stato della religione, e alla scienza il posto che era appartenuto alla filosofia. Dall‟incontro del razionalismo ateo e della mistica della volontà si è generato il mostro ideologico e tecnologico del totalitarismo contemporaneo, non a caso sorto nelle culture più segnate dall‟esperienza cristiana nelle tre diverse professioni religiose, cattolica, protestante e ortodossa. I paesi che avevano per tempo sperimentato i processi democratici, anticipando le rivoluzioni politiche interne alla cristianità, parvero immunizzati dalla deriva totalitaria, ma solo apparentemente. Infatti, come possiamo osservare anche dalla lettura di Durkheim, il pensiero democratico in sé è intriso essenzialmente di motivi totalitarii, perché anch‟esso monistico e razionalistico. La versione capitalistica della democrazia è riuscita a stemperare l‟impatto dilacerante delle due dimensioni del sacro e del profano in quanto ne ha neutralizzato l‟urto sociale dividendone la portata eversiva tra i singoli individui o nei ridotti gruppi sociali quali i partiti politici, anziché tra popoli e nazioni. L‟individualismo, infatti, ha consentito alle democrazie industriali di dirottare la forza trasformatrice del lavoro umano dai luoghi della concentrazione politica del potere sociale ai luoghi della formazione della ricchezza economica e del consenso sociale, cioè sul mercato, la cui mediazione anonima delle tensioni spirituali degli individui atomizzati ne stempera l‟impeto unitario e il movente rivoluzionario intrinseco a ogni opera di trasformazione del lavoro razionalizzato, sacralizzando la funzione stessa del lavoro e della produzione, anziché il fine escatologico che era all‟origine della stessa attività socializzata. Senza più un fine morale, il lavoro stesso viene compiuto in nome della concreta produzione economica, non già in nome di astratti enti collettivi come la nazione, lo Stato, la classe o il partito, o la stessa umanità. Cosa c‟è di più reale del lavoro e di più concreto dei suoi prodotti, nei quali si concentra la tensione politica e si realizza la mediazione esistenziale tra le opposte istanze spirituali? Il lavoro individuale e il mercato universale sono i due termini opposti dell‟antitesi spirituale, la cui sintesi universalmente unificante è il 329
denaro, al cui valore tutto è rapportabile come il molteplice all‟unità. Unità non più ideale e metafisica, ma reale e storica. Il pensiero moderno cerca di superare l‟antinomia ontologica cartesiana con una visione che Kant chiama “critica” della realtà. Il criticismo nasce dall‟esigenza di superare le antitesi ideali del moderno quali empirismo e razionalismo, scetticismo e dogmatismo, idealismo e realismo, intellettualismo e volontarismo, che sono derivati del dualismo ontologico fondamentale. Il fondamento del criticismo è il giudizio trascendentale, nel quale l‟esperienza viene negata nella sua assolutezza per affermarsi come contenuto storico dell‟idea formale con la quale si interpreta. Trascendentale è quel giudizio che, unificando i due astratti elementi dell‟essere, quello ideale e quello empirico, nel contempo li distingue stabilendone la relazione logica. Le relazioni fra i fenomeni sono “oggettive”, nel senso che si stabiliscono sul fondamento non volontaristico di una forma che costituisce l‟orizzonte valoriale nel cui fondamentale ambito di senso si costituiscono le premesse di ogni svolgimento causale dei fenomeni. Questo ambito è “oggettivo” perché costituisce un valore trascendente, cioè una forma a priori della coscienza critica. D‟altro canto, i fenomeni empirici sono “soggettivi”, nel senso del loro movente psicologico, mentre sono “oggettivi” dal lato della loro effettualità, il cui senso razionale va commisurato non all‟intenzione soggettiva dell‟attore ma all‟interpretazione legata al contesto valoriale, che è appunto oggettivo. Da qui la polisemicità dell‟esperienza, sempre relativa alle forme valutative dell‟interprete, che sono forme oggettive ma alla cui valenza si accede per soggettiva aderenza di chi li adotti come forme di giudizio, cioè appunto di interpretazione della realtà. Il nucleo dunque dell‟attività critica, come giudizio di realtà, è l‟interpretazione, parola che sta a indicare il “passaggio” di un ente non qualificato al suo essere qualificativo. In questo senso, il giudizio trascendentale, ovvero l‟interpretazione dei fenomeni storici, è una attività teoretica che trasforma il fatto in valore, attribuendogli il suo essere. Questa attività è speculare a quella pratica del fare, in cui il posto del 330
giudizio è preso dall‟azione, la cui interpretazione si realizza col lavoro, il quale trasforma il valore in fatto. Sia il giudizio che l‟azione, ossia tanto l‟interpretazione che il lavoro, hanno in comune lo stesso principio trasformativo, consistente nel “passaggio” dall‟essere al nonessere. E poiché è in tale “passaggio” che sia la forma che il fenomeno sono compresenti alla loro realtà, è nella trasformazione come attività spirituale che consiste la sintesi trascendentale, ossia l‟unità del teoretico e del pratico. E da qui la conversione dell‟attualismo in prassismo e viceversa, basata sulla comunanza dell‟attività trasformatrice dell‟essere. L‟idea di una sintesi di spirito e materia è di origine teologica, e risale alla dogmatica (nel nostro caso) cristiana dell‟incarnazione, come compresenza del sacro nel profano, il cui concetto è tratto dal modello similare dell‟idea filosofica di sinolo, inteso da Aristotile come realtà concreta di forma e materia. Rispetto alla realtà dell‟idea, ovvero del fenomeno od oggetto, il soggettivismo moderno ambienta il luogo della sintesi reale-ideale nella coscienza trascendentale, rappresentativa della soggettività universale, nella cui attività consiste appunto il giudizio. Ma poiché l‟attività sintetica del giudizio stesso consiste nella realizzazione attuale di un ente, la cui realtà presente è in quanto prima non-era, tale realizzazione è pur sempre un “fare”, cioè un‟azione, sia pure verbale. Attraverso la sostituzione della prassi, per così dire, verbale, propria della sintesi del giudizio teoretico, con una prassi materiale, propria della sintesi dell‟opera pratica, noi otteniamo l‟azione del lavoro, il quale, rispetto alla sintesi verbale, ha in più la realtà dell‟evidenza sensibile. Se dunque la trasformazione della realtà ideale avviene nell‟ambito dell‟astratta idealità, cioè interessa sempre e solo concetti astratti dal mondo sensibile dei fenomeni, la trasformazione reale del mondo attuata dal lavoro interessa la concreta determinazione sensibile dei fenomeni, la cui realtà sintetica sembra molto più totale di quella meramente verbale-ideale. Ma la maggiore concretezza dell‟azione pratica è solo apparente, poiché anche l‟espressione verbale è a suo modo sensibile, per cui non può essere indicata nella materialità l‟essenza discriminante tra le due sintesi spirituali, ma in una differenza ontologica che l‟assunto 331
soggettivistico occulta e misconosce. Infatti, il capovolgimento prassistico del principio sintetico idealistico è viziato dal soggettivismo originario dell‟idealismo, per cui la teoria del lavoro come trasformazione concreta del non-essere in essere attuale, non considera che il prodotto pratico è una realtà sociale, non individuale. E sociale vuol dire che la sua determinazione, diversamente da quella ideale, non è ma diviene. La qualità propria, cioè, del mondo sociale è la indeterminazione dei prodotti pratici, soggetti a infinite trasformazioni legate all‟uso e al consumo degli oggetti reali, i quali perciò sono, al contrario dei prodotti ideali, indeterminati. La loro indeterminazione è la qualità della loro infinita trasformazione e fruibilità, qualità che è assente nei prodotti ideali. A questo punto è dunque facile vedere che la differenza ontologica, occultata dal soggettivismo moderno, tra la sintesi ideale e quella pratica, ossia tra il giudizio e il lavoro, consiste nella diversa e opposta attinenza dell‟uno e dell‟altro ai due fondamentali elementi dell‟Essere, che sono l‟unità della sua essenza indeterminata, e la molteplicità delle sue determinazioni reali, per cui, mentre la sintesi ideale, o giudizio interpretativo della realtà, tende a riportare la molteplicità dei fenomeni alla sua unità logica, stabilendone la loro relazione razionale attraverso una trasformazione per astrazione delle loro determinazioni empiriche in determinazioni ideali, riportando ad unità il molteplice, la sintesi reale, invece, tende a trasformare indefinitamente l‟indeterminato elemento ideale del prodotto finito in altro prodotto determinato, nel tentativo di colmare la distanza, che però è irriducibile, tra l‟idea della cosa e la cosa reale. In quella distanza, che è ontologica, tra l‟infinitezza dell‟idea e la pratica determinazione, si sviluppa il divenire del mondo reale prodotto dall‟uomo, ossia quel mondo umanizzato e spiritualizzato che costituisce la sua natura artificiale da egli creata e sempre trasformata. Ma la persistenza di una insopprimibile distanza tra l‟idea della cosa e la cosa, se spiega il divenire del mondo, ci consente anche di stabilire che un compiuto “passaggio” da una ad altra sfera dell‟Essere non è perseguibile, rendendo vano ogni tentativo di Verkehrung rivoluzionaria. Tale “distanza” ontologica è il persistente elemento di negatività, e 332
cioè di indeterminatezza, che ha ogni prodotto finito, la cui realtà distingue l‟uno dall‟altro elemento reale e fa sì che ogni prodotto mondano sia un unicum individuale. Nel mondo proprio della vita umana, l‟individualità negativa che distingue ogni uomo dagli altri uomini e che perciò li rende unici nella loro particolarità è la libertà, che coincide con la facoltà umana di disporre la propria volontà nel senso prescelto dalla sua disposizione interiore che si dice coscienza, non soggetta ad alcuna necessaria predeterminazione naturalistica di tipo istintuale. Ed è la libertà di coscienza a rendere le azioni umane responsabili e perciò soggette a considerazione morale. D‟altro canto, l‟esistenza insopprimibile del Negativo come terzo elemento del Tutto accanto all‟Essere e al Molteplice ci fa comprendere come ogni pensiero, così come ogni azione, non potranno mai né coincidere tra loro e neppure, per quanto somme e profonde, fare le veci del Tutto, e perciò sono destinati a essere compresi nel suo infinito vortice in cui scompaiono, si trasformano e ricompaiono incessantemente fino alla fine dei tempi. E proprio nell‟immane sforzo di difendersi dal terrore del mutamento di ogni cosa a opera della potenza naturale e divina, l‟uomo si raccoglie nella realtà dei suoi simili, la società, nella quale la fatica coordinata riesce meglio ad arginare la potenza del Negativo dandogli un più rassicurante volto umano. L‟ebreo Durkheim tenta di definire la patria politica come la condizione esistenziale preminente o propria del popolo quale entità morale, cioè religiosa, ma non spiega le ragioni della socialità, il perché gli individui si aggregano e vivano nel rapporto sociale. Così come non dà ragione della vita politica, legata alla necessità di salvaguardare con apposite istituzioni il coordinamento delle tendenzialmente eversive volontà individuali verso il fine comune. Questo fine è ciò che Durkheim indica come “morale”, facendolo coincidere con le ragioni della socialità, che sono appunto quelle della convivenza. Questa assimilazione delle azioni morali individuali alla condizione sociale in quanto tale, elude la questione del conflitto (politico) tra diverse interpretazioni dei valori sociali e la conseguente e relativa lotta dei gruppi tendenti al potere facendo valere come generali le proprie ragioni particolari. Paradossalmente, la società 333
durkheimiana è una comunità morale e non una società politica. Attaccamento alla società significa attaccamento all‟ideale sociale un po‟ del quale si trova in ognuno di noi. Ognuno di noi partecipa al tipo collettivo che fa dell‟unità del gruppo la cosa sacra per eccellenza e ognuno di noi, perciò, partecipa del rispetto religioso che quel tipo ispira. L‟attaccamento al gruppo implica indirettamente l‟attaccamento agli individui e quando l‟ideale del gruppo è soltanto una forma particolare dell‟ideale umano, quando il tipo del cittadino si confonde in gran parte col tipo generico dell‟uomo, è all‟uomo come uomo che ci troviamo legati pur sentendoci più strettamente solidali con coloro che realizzano in special modo la particolare concezione che la nostra società si fa dell‟umanità. […] Quando si ama la patria, quando si ama l‟umanità in genere, [si noti la analogia che rasenta la coincidenza!] non si possono vedere le sofferenze dei compagni o più generalmente di ogni essere umano senza soffrirne noi stessi e provare il bisogno di portarvi rimedio. Viceversa, quando riusciamo così bene a non sentire alcuna pietà è segno che si è poco capaci di attaccamento ad altro che a se stessi, e a fortiori, di attaccamento al gruppo cui apparteniamo.406
Eppure, è esattamente ciò che avviene nei gruppi nazionali, il cui “attaccamento” è pur sempre circoscritto rispetto al gruppo umano più vasto. Se “morale” è la solidarietà con la condizione del gruppo maggiore, allora l‟appartenenza al gruppo minore è di natura politica o economica; ma se “morale” è l‟identificazione non con il gruppo maggiore ma col gruppo prescelto, allora non c‟è più distinzione tra valore politico e valore morale dell‟appartenenza. In questo caso, la dimensione morale dell‟appartenenza è relativa al sentimento di partecipazione individuale al gruppo di riferimento, non relativa ai contenuti di valore di quella partecipazione. Soltanto se la moralità viene intesa come valore ideale, e quindi astratta dalla condizione dell‟appartenenza sociale, si potrà evitare l‟identificazione del valore con la situazione di fatto del gruppo empiricamente reale. Durkheim tende infatti a identificare il vincolo morale col legame psicologico degli uomini al loro mondo. Chiunque si distacchi troppo facilmente dagli oggetti che furono legati alla sua vita denota con questo una capacità moralmente inquietante a spezzare i vincoli che lo legano ad altro che a se stesso, insomma denota una scarsa capacità
406
Loc. cit., pag. 535.
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all‟attaccamento.407
La relazione al valore viene sostituita con il sentimento di “attaccamento”, che viene presentato come una “capacità” distintiva di attitudini morali. E poiché lo “attaccamento” moralmente rilevante è quello alla società quale gruppo privilegiato, il vincolo al gruppo sociale diventa sacro, non in quanto relativo al valore di cui esso si fa portatore e interprete, ma in quanto gruppo stesso, cioè la oralità è riferita alla fedeltà all‟ente politico, fuori del quale nulla salus. L‟individuo a sé stante, ridotto alle sue sole forze, è incapace di modificare lo stato sociale. Si può agire con efficacia sulla società unicamente raggruppando le forze individuali in modo da opporre forze collettive a forze collettive. 408
E‟ inevitabile che l‟azione politica, in quanto relativa alla vita del gruppo di appartenenza, abbia un intrinseco valore morale, la cui assolutezza è direttamente dipendente dalla circostanza che esista un solo ed unico gruppo “sociale”, dal momento che una società pluralistica, dove cioè esistessero più “forze collettive” in competizione, dovrebbe comprendere più morali sociali tutte legittime. Ma se questo pluralismo esiste, come nelle società liberali, e con esso la lotta politica delle “forze collettive”, ecco che “l‟atto morale” diventa quello che “assume un più alto carattere” relativo al suo servizio di “fini più generali e impersonali”,409 ristabilendo perciò la distinzione tra atto politico e atto morale in riferimento al valore e non all‟appartenenza. Insomma un guazzabuglio logico che tradisce la povertà teorica di un‟idea di società che facilmente si prestava alle confutazioni di più raffinate filosofie politiche e ad essere il facile bersaglio polemico delle sociologie individualistiche di matrice neoempiristica, allarmate dalle conseguenze totalitarie di consimili ipotesi razionalistiche “continentali”. Allarme legittimo, se consideriamo che l‟idea di poter identificare la norma morale con la istituzione che la incarna, porta di conseguenza 407 408 409
Ivi, pag. 536. Ibidem. Ibidem.
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all‟idea che in quanto “la morale è fatta per la società […] essa sia anche fatta dalla società”, [Ivi, pag. 537.] intendendo per società il potere che storicamente la dirige, e al quale risale l‟ “autorità” delle norme morali stesse.410 Se la società è il fine della morale, essa ne è anche l‟artefice. L‟individuo non reca in sé precetti orali previamente tracciati magari in forma schematica, che egli debba poi precisare e sviluppare, ma questi possono sprigionarsi solamente dalle relazioni che si stabiliscano tra gli individui associati, così come rispecchiano la vita del gruppo o dei gruppi che concernono. Questa ragione logica viene ad essere confermata da una ragione storica decisiva. A dimostrare che la morale è opera della società sta il fatto che essa varia con il variare delle società. Quella delle città greche e romane non è la nostra, come quella delle tribù primitive non era quella della città. […] Se vi è un fatto che la storia ha reso indubitabile è che la morale di ogni popolo è in rapporto diretto con la struttura del popolo che la pratica.411
Ma qual è la ragione storica che spieghi la relatività delle morali alle diverse epoche e società umane? Identificati i valori con i “fatti”, questi non possono che essere spiegati con fattori naturalistici. L‟idea che i Romani avrebbero potuto mettere in pratica una morale diversa dalla loro è un‟assurdità storica. Non solo non avrebbero potuto, ma non divevano averla diversa. […] La morale è opera di vita non di morte, in una parola, ogni tipo sociale ha la morale che gli è necessaria, come ogni tipo biologico ha il sistema nervoso capace di sostenerlo. E‟ segno, dunque, che la morale è elaborata dalla società stessa e ne rispecchia fedelmente la struttura. Lo stesso dicasi per ciò che chiamiamo morale individuale: è sempre la società a prescriverci anche i doveri verso noi stessi, a costringerci a realizzare in noi un tipo ideale, e ci costringe perché ha un interesse vitale. Non può vivere, infatti, se non alla condizione che fra tutti i suoi membri vi sia sufficiente somiglianza, alla condizione cioè che essi riproducano tutti, anche se in diverso grado, i tratti essenziali di uno stesso ideale: quello collettivo. Ecco perché questa parte della morale varia quanto le altre a seconda dei tipi e dei paesi. 412
Nella sua rozzezza logica, questa teoria sociologica costituisce la documentazione per il suo tempo probabilmente più autorevole del consapevole supporto che la scienza sociale intendeva offrire alla ideologia democratica, confermando quel nesso tra scienza e politica 410
Ivi, pag. 539. Ivi, pagg. 538-539. 412 Ivi, pag. 539. 411
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così tipico del positivismo, contro il quale reagirà ogni più dirozzata coscienza filosofica e ogni forma di individualismo. Infatti, l‟impostazione della scienza sociale come scienza del collettivo, non soltanto serbava un fondo inequivocabilmente irrazionalistico, in cui sono ravvisabili sia le fonti del pragmatismo che quelle del volontarismo, ma altresì propugnava quell‟esigenza di egalitarismo sociale che costituisce la premessa e insieme il fine di ogni teoria dello Stato rappresentativo come potere legittimo della società democratica. Infatti, il potere statuale può aspirare a una legittimità morale solo se rappresentativo della volontà sociale, e questa volontà sociale può conservare la sua natura generale e non particolare, anche se espressa maggioritariamente e non unanimemente, a condizione che esprima comunque una condizione paritetica dei cittadini, tale che, essendo essi uguali, ogni maggioranza possa essere rappresentativa anche delle minoranze. Sulla base di questa premessa egalitaria si può giustificare sia una politica democratica di stampo plebiscitario che un regime di alternanza delle maggioranze variabili, avendo in comune l‟assunto collettivistico che le ragioni sociali siano la fonte immanente di quelle ideali, per cui non è consentito ai singoli di derogarvi in appello a princìpi trascendenti quelli politici. A questa impostazione sociologica, di matrice razionalistica e illuministica, dev‟esser fatta risalire la concezione politica totalitaria, e non già allo Stato etico hegeliano. Ma lo stesso pregiudizio ideologico democratici stico che ha guidato la critica di Popper ha giustificato l‟esclusione di Durkheim dalla trattazione sulla “distruzione della ragione” in Europa nell‟età moderna di Lukàcs, che non cita mai il sociologo francese. E‟ però Durkheim a trasferire il vigile controllo dell‟occhio di Dio nella “pressione che la società esercita in ogni momento su noi”,413 sostenendo che sia stata la “fantasia dei popoli” ad attribuire a “personalità trascendenti, superiori all‟uomo, divenute poi oggetto di culto” quella “autorità che era ad esse riconosciuta”, per cui sta a noi spogliare questa concezione dalle forme mistiche in cui si è avvolta nel corso della storia e, al di là del simbolo, raggiungere la realtà. Questa realtà è la società. La società che, formandoci moralmente, ha posto in noi quei sentimenti che ci dettano tanto imperativamente la nostra condotta o che reagiscono con quella energia quando 413
Ivi, pag. 540.
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ci rifiutiamo di aderire alle loro ingiunzioni. La nostra coscienza morale è opera sua e la esprime; quando la coscienza parla, è la società che parla in noi. Il tono col quale ci parla è la prova migliore dell‟eccezionale autorità di cui è investita. 414
In altri termini, l‟uomo, che ha potuto privare Dio della sua mitica autorevolezza, deve inchinarsi agli imperativi morali della volontà sociale, non potendo eludere il nuovo culto sociale nato dalla demitizzazione degli imperativi divini. Da ciò risulta implicitamente che solo la realtà democratica sia la “vera” realtà esistenziale dell‟uomo, che prima del risveglio dal sonno dogmatico viveva in una sorta di pre-istoria, simile alla caverna platonica. Ora, invece, la sua esistenza, liberata la coscienza dalle mitologie che ne offuscavano la luce che solo la ragione gli può trarre, può finalmente condursi nella piena consapevolezza dei suoi poteri terreni, rivestendoli a sua volta di quella sacertà primieramente riservata al mondo trascendente. Ecco dunque realizzato il “passaggio” dal mondo sacro delle mitologie religiose alla profana società democratica, fondata sulla ragione. La ragione della democrazia non è la ragione socratica, la ragione privata del filosofo che mette in discussione l‟assetto ordina mentale della città, ma la ragion pubblica, la “opinione”, chiamata a riconoscere “un valore morale alla scienza”.415 La società democratica è quella che riconosce la funzione del sapere perché lo ha assunto come strumento della sua finalità morale, consistente nella stessa sussistenza sociale. Il sapere, la scienza, diventa, nella società democratica, un valore sociale se funzionale al fine morale della stessa società. La scienza, dunque, in questa prospettiva sociale, viene concepita come l‟ideologia del regime politico, la cui validità non è intrinseca ai valori di cui il sapere si fa interprete e portatore ma alla utilità della sua funzione conservatrice della società. Ha, cioè, un valore essenzialmente “religioso”, in quanto fondato sul discrimine tra ciò che è “buono” e ciò che è “malvagio” alla società. In questo preciso senso, la moralità pubblica prende il posto che era tradizionalmente assegnato alla religione intesa come instrumentum regni. Questo vuol dire che i valori socialitarii, 414 415
Ivi, pag. 541. Ibidem.
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fondativi della convivenza sociale, devono costituire il tessuto morale che lega i distinti elementi strutturali della società nella loro ideale unità sociale. Il carattere totalitario di questa prospettiva risiede nella prescritta corrispondenza dell‟unità sociale all‟unità ideale della società, per cui la società stessa è tanto più solidale quanto più conforme all‟unità del suo ideale fondamento. La conseguenza di questa premessa è che l‟unità sociale sia prevista non come una realtà storica ma soprattutto come una prospettiva morale da conseguire storicamente attraverso gli strumenti politici offerti dal potere sociale. Il potere ha pertanto la funzione di costringere i membri sociali a uniformarsi al modello ideale unitario, eliminando quella parte di libertà che, agli occhi di quel potere sociale, appare eversiva, ovvero ignorarla se incongrua rispetto ad essi. E questo richiama un principio costitutivo di ogni legittima forza sociale, quello del contenimento della libertà umana entro il modello sociale prestabilito, positivo. Non esiste norma sociale, né morale né religiosa né legale, che non sia fondata sul discrimine tra ciò che si debba e ciò che non si debba compiere lecitamente. Nel senso che qualunque norma si pone come discriminante tra l‟essere e il nonessere un valore. E poiché questo discrimine riguarda ciò che è valore da ciò che non lo è, la norma di riferimento indica la differenza tra l‟ideale e il reale. Infatti, la discriminazione tra l‟essere e il non-essere non riguarda l‟esistenza rispetto all‟inesistenza di alcunché, ma la differenza tra l‟esistenza espressiva del valore affermato e l‟esistenza mera, priva di quella presenza. Per cui, senza la discriminante normativa, l‟essere non sarebbe distinguibile dal non-essere ideale, e tutto sarebbe uno. Posto dunque che ogni cosa esistente possa esistere allo stesso modo sia se appartenente al regno del valore, ovvero al regno del disvalore; in altri termini, sia che sia sacra che profana, la sua qualità ideale viene distinta per il suo essere, non già per il suo esistere. Tutto esiste, ma non tutto l‟esistente è sacro. Questo carattere sacro, tradotto in termini sociologici, è il carattere proprio della socialità, ossia del valore aggregativo che sta alla base, al fondamento, della convivenza del gruppo sociale. Ed è questo fondamento di socialità che Durkheim chiama la “morale” della 339
società quale forma secolare della moderna religione dell‟epoca razionalistica. La “religione civile”, rispetto a quella tradizionale, indica il suo luogo di realtà nella società, anziché nel valore trascendente, per cui la socialità viene concepita non più come il riflesso storico-finito e imperfetto della costituzione ideale della convivenza umana, ma bensì come lo stesso ideale realizzato nella sua in trascendibile immanenza. Abolito il dualismo tra mondo ideale e mondo reale, tra regno sacro trascendente e regno profano immanente, e conservata però la distinzione tra la reciproca appartenenza, la società razionalistica ha realizzato il “passaggio” dal mondo sacro a quello profano attraverso la definizione degli elementi del valore sacro in altrettanti corrispondenti elementi profani che strutturano il mondo sociale. Tenuto conto che ogni definizione d‟essere esclude ciò che non definisce, come ogni positivo esclude il suo negativo, il resto dell‟essere, il suo niente, viene escluso come valore e, a seconda dei casi, tollerato come indifferente al valore ovvero radicalmente negato in quanto considerato pericoloso. Ma poiché il negativo dell‟essere è a suo modo esistente, in questa sua esistenza negativa consiste la sua condizione profana., per cui profano è tutto ciò che non appartiene al regno del sacro. Se, in termini razionalistici, per “sacro” intendiamo il mondo “sociale”, allora per “profana” dobbiamo intendere la realtà esclusa dalla socialità come un valore riconosciuto. Ed essendo la realtà esclusa quella che abbiamo indicato come la negatività dell‟essere sociale, la dimensione del mondo sociale esclude come non-valore (ossia, a seconda dei casi, come indifferente al valore o come disvalore) la realtà negativa, che abbiamo indicato di sopra come l‟individualità umana, ossia la libertà come dimensione asociale dell‟uomo, già indicato da Freud come pulsione eversiva della civilizzazione. 4. Il più radicale fenomeno eversivo dell‟ordine costituito è la consapevole negazione fisica dell‟uomo da parte di se stesso, l‟autoomocidio o “suicidio”,416 indicato da Durkheim come il segno più
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“Dicesi suicidio ogni caso di morte direttamente o indirettamente risultante da un atto positivo o negativo compiuto dalla stessa vittima pienamente consapevole di
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eclatante di crisi della società. Una crisi che, in quanto fenomeno sociale, va spiegata sociologicamente, nel cotesto cioè delle relazioni e dei fattori sociali insufficientemente aggregatori, poiché nel gruppo e da esso il singolo trae i suoi valori di aggregazione. In tal senso, il suicidio è rapportabile, genericamente, a una prevalenza dell‟elemento egoistico su quello dell‟interazione sociale, generalmente considerato nella famiglia, nella comunità religiosa o nella società politica. Come meglio vedremo in seguito, la visione di Durkheim, proprio in quanto strettamente sociologica, non riesce a offrire una spiegazione del fenomeno del suicidio che non sia relativa alla potenza aggregativa dei gruppi sociali, commisurata alla inversa resistenza degli individui, secondo un criterio preferenziale accordato per principio alla esistenza sociale rispetto a quella individuale, considerata costitutivamente anomala. Durkheim, cioè, assumendo il valore della socialità dominante come un valore in sé positivo, non considera il suicidio come extrema ratio di un contesto valoriale alternativo a quello sociale storico ma non per ciò anti-sociale per principio. Non considera, in altri termini, una dialettica tra gruppi e valori sociali in competizione, entro la quae va considerata la polarità individuosocietà. Ma proprio l‟esclusione di una mediazione sociale competitiva a quella offerta dal gruppo politico, induce il sociologo a considerare ogni gruppo intermedio (famiglia, comunità religiosa. Etc.) come un sottogruppo variante del gruppo politico maggiore. L‟ottica politicistica giudica virtuosa l‟impresa militare che porta alla morte “eroica”, e patologico invece il suicidio non socializzato e perciò ignobile. Anche in questo caso, il valore d‟essere è solo quello relativo all‟essere sociale politicamente definito. La prospettiva sociologica, non solo privilegia la realtà sociale nel senso di inquadrare ogni fenomeno di senso rilevante all‟interno del suo contesto normativo, ma attribuisce alla società, quale struttura istituzionale, il valore ideale tributario di senso proprio della socialità, per cui ogni espressione sussistente nella vita sociale diventa un prodotto della socializzazione, intesa come razionale divisione del produrre questo risultato”: E. Durkheim, Le Suicide (1897), tr. it., Torino, 1969, pag. 63.
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lavoro. Da queste premesse consegue che ogni dato, così come ogni rapporto, sociale per essere rilevante deve assumere una connotazione “oggettiva”, ossia deve esprimere una forma materiale. In altri termini, deve consistere in un prodotto della trasformazione del lavoro umano. Comprendiamo bene che tale “prodotto” è il risultato dell‟opera umana finalizzata al valore sociale che la qualifica moralmente. In questo ambito produttivo, di produttività sociale, il suicidio è una forma reale di a-socialità, una forma di realtà anti-sociale. Il suicidio ha, in un cotesto produttivistico socialmente qualificato, la stessa rilevanza negativa dell‟eresia nei confronti delle verità dogmatiche in un contesto religiosamente sacralizzato. Entro la civiltà del lavoro, è il suicidio lo scandalo eversivo che è la parola entro la civiltà letteraria. Esso è un fatto anti-sociale che, spiegato socialmente, viene quindi inevitabilmente qualificato negativamente come realtà anomica, ossia come realtà non compiutamente oggettivata in senso sociale. Va da sé, da quanto detto, che l‟opera di socializzazione consiste nella assimilazione delle individualità all‟unità ideale del sistema sociale. E poiché tale sistema unitario viene necessariamente a distinguersi dalle individualità molteplici, ecco che la società diventa una personalità allo stesso tempo reale (nelle sue articolazioni strutturali) e ideale (nella sua unità), che rappresenta nei suoi membri se stessa: una sorta di realtà mistica e di corpo istituzionale che Durkheim indica come “coscienza collettiva”. Durkheim ritiene che la “coscienza collettiva” arcaica, propria delle società primitive, si caratterizzi per una “solidarietà meccanica”, per la quale le relazioni sono improntate a un criterio di simiglianza al modello comune, che viene a perdersi progressivamente nelle società più evolute, nelle quali prevarrebbe una “solidarietà organica”, fondata su una maggiore rilevanza accordata alla personalità individuale. Sulla base di tale progressione tendenziale del‟individualismo, si dovrebbe arguire che le società sono tanto più evolute quanto meno sviluppato è il senso di socialità, ma, poiché la socialità non è che il legame ideologico della condizione sociale, ritenuta imprescindibile per l‟uomo perché fondativa della sua stessa identità morale, il 342
processo moderno di individualizzazione dev‟essere interpretato per Durkheim come un fenomeno relativo alla diversa strutturazione della società rispetto a quella arcaica, che abbia come fondamento costante appunto la costituzione sociale della vita umana, ma come ideale socialitario un modello organizzativo del lavoro basato questa volta su princìpi organici di solidarietà, e non, come in passato, meccanici. Essendo dunque il lavoro, come attività trasformatrice del mondo naturale in realtà provvista di valore sociale, è sui criteri della sua organizzazione sociale che occorre fare riferimento al fine di stabilire la differenza tra il modello meccanico e quello organico di società, in maniera tale da definire la costituzione ideale e strutturale della società attraverso le dinamiche del lavoro, la cui razionalizzazione è a fondamento della razionalità della stessa vita sociale. Ciò comporta che ogni “rito di passaggio” dal modello ideale alla forma concreta di socialità si delinea come una modalità di lavoro, poiché è il lavoro la modalità fondamentale di umanizzazione del mondo, intesa appunto come processo di trasformazione secondo un modello di assimilazione della realtà naturale (profana) in realtà idealizzata o razionalizzata (sacra). L‟aspetto più significativo della modalità moderna, non chiarito da Durkheim, è che, a differenza della modalità arcaica, la direzione della trasformazione umanizzante moderna non è quella che va dal profano al sacro, la quale, mettendo in risalto la mediazione di iniziatici operatori religiosi, selezionati sulla base della loro vocazione a stabilire esclusivi rapporti con l‟Essere valoriale, produce forme sacre di realtà; ma, viceversa, la nuova direzione parte dalla profana realtà empirica delle coscienze particolari per risalire a un surrogato storico del valore sacro universale, costituito appunto dalla società, intesa come struttura razionalizzata di lavoro collettivo. Questa modalità secolarizzata, eliminando il fine trascendente per lo scopo produttivistico immanente, elimina anche la mediazione iniziatica a favore di una parcellizzazione metodica del lavoro razionalizzato, tale da assegnare a ciascun operatore sociale la sua relativa parte di razionalità, secondo un criterio che però è arcaico, in quanto del tutto analogo alla partecipazione mistica del clan totemico, di cui si è detto sopra. 343
Questo significa che rilevante, ai fini della declinazione sociologica delle forme di società, non è tanto l‟organizzazione del lavoro, legato alla struttura economica della forma sociale, quanto piuttosto alla modalità o direzione del “passaggio” metafisico dall‟essere all‟esistente o, viceversa, dall‟esistente all‟essere. Nel primo caso, quello cioè del “passaggio” dall‟essere all‟esistente, la reiterazione rituale avviene secondo un criterio di analogia, per cui ogni membro, attraverso il rito di passaggio, partecipa della realtà sacra senza pregiudicare la sua trascendenza. Nell‟altro caso, di contro, il “passaggio” viene istituzionalizzato secondo modalità non iniziatiche ma razionali, per cui l‟accesso un tempo esclusivo viene garantito dai nuovi custodi del sacro, i detentori del potere politico, che stabiliscono i nuovi criteri di accesso, basati su oggettivi e verificabili riscontri effettuali di dignità meritocratica, che sono quelli della produzione dei beni e della soddisfazione dei bisogni. I concetti relativi di “bene” e di “bisogno” vengono, per così dire, socializzati, e pertanto il rapporto tra il valore trascendente e la realtà mondana si declina come processo di razionale trasformazione del mondo nel senso del valore sociale affermato come “sacro” al gruppo. Da qui sorge la declinazione tutta moderna della religione sociale come valore civile, e dei contenuti economici di questa moderna forma di religione. Il valore di una religione è pari alla sua capacità di farsi ubbidire, di suggerire, cioè, dei modelli di interpretazione della realtà ai quali va congiunto un comportamento conforme, coerente. Questo atto non imita semplicemente un altro, attribuito al soggetto idealmente virtuoso, ma lo assume come modello emulativo, in quanto e nella misura in cui lo ritenga conforme al dettato normativo. Rispetto alla mera imitazione, l‟emulazione non è un gesto puramente mimetico, che avviene perché tende semplicemente a riprodurre un atto altrui, ma “perché appare obbligatorio”, in quanto, cioè, “reca il marchio sociale” della doverosità. 417 Vuol dire che il legame tra il modello e il fenomeno emulativo non è mimetico, psicologico, ma ideale, ossia caricato di una obbligazione morale derivata dalla sua conformità ai princìpi sociali affermati dall‟autorità della tradizione o della opinione 417
E. Durkheim, Loc. cit., pag. 160.
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pubblica. La conseguenza logica che ne deriva è che il comportamento socializzato, cioè conforme a criteri omologanti di carattere pubblico, è solo fenomenicamente soggettivo, nella parte inerente la modalità individuale di effettuazione, ma è, per il verso della sua significazione razionale, un comportamento tipico, prescritto da un modello astratto di azione virtuosa. Da qui la rilevanza delle ragioni sociali che hanno indotto al “consenso” o “adesione alle regole comuni o tradizionali di condotta”, per cui “quando seguiamo una usanza, quando ci conformiamo a una pratica morale, è nella natura di questa pratica, nei caratteri propri di quella usanza, nei sentimenti che ci ispirano che si trovano le ragioni della nostra docilità”.418 Queste ragioni sociali, in quanto pubbliche, non sono legate al valore intrinseco dei precetti morali, ma il loro carattere di doverosità è legato al ruolo pubblico dei suoi interpreti, ossia alla autorevolezza sociale dei suoi patrocinatori. Non ogni precetto che abbia un contenuto sociale diventa perciò di valore pubblico, ha, cioè, una efficacia paradigmatica di modello comportamentale, ma il suo valore assiologico è relativo alla qualità di chi se ne fa portatore. Questa qualità, nella vita dei gruppi umani, è di tipo sociale, in quanto cioè ha un valore pubblicamente riconosciuto. Da questa premessa ne discende che i valori socialmente dominanti nel gruppo non lo sono perché del gruppo, ma in quanto sono fatti valere come modelli per il gruppo. La differenza non risiede nel comportamento pratico, ma nelle sue ragioni razionali, che nel gruppo non si prevede siano coscienti, per cui basta l‟ossequio alle norme stabilite per legittimare un comportamento sociale. Ma chi fa valere le regole sociali? La risposta non ci riporta a mitici fondatori della comunità, o addirittura del consorzio umano, ma coinvolge una questione di grande rilevanza sociologica che è quella relativa alle classi dirigenti, le quali sono tali perché razionalmente consapevoli delle ragioni che giustificano il comportamento prescritto come socialmente legittimo e quindi “morale” nel senso di Durkheim. Sono infatti le élites sociali quelle che, avendo consapevolezza delle ragioni fondative della socialità, ne divengono custodi e garanti, mettendo il loro prestigio, 418
Ivi, pag. 163.
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potere e autorevolezza al servizio della ragion pubblica da essi incarnata. Ed è questo universo di valori elitari che diventa il codice normativo pubblico, anche se dominante nel solo senso della sua esclusiva rilevanza formale, poiché ciò che socialmente conta non è la sua concreta diffusione sociale quanto appunto la sua rilevanza pubblica, ossia politica. In altri termini, la rilevanza pubblica non inerisce la diffusione del modello assiologico in senso socialmente maggioritario rispetto ad altri modelli minoritari, ma riguarda invece in modo decisivo la sua valenza di modello pubblico per tutti i membri della società, ossia anche per coloro che non lo adottano di fatto in quanto seguaci di altri modelli, anche sostanzialmente difformi da quello politicamente dominante. L‟identificazione del modello praticamente sociale con quello idealmente pubblico, tipico delle ideologie socialitarie democratiche ed egalitarie, presume l‟omogeneità morale dei membri sociali, che storicamente non esiste mai e che quindi diventa, da valore fondativo, un valore deontologico, da perseguire al fine di confermare sociologicamente la sua legittimità teorica. Tutte le teorie sociologiche di stampo democratico tendono a eliminare la dicotomia sociale tra classe dirigente e classe diretta attribuendo al gruppo una originaria omogeneità ritenuta la premessa del patto civile, la quale costituisce il fondamento ideale della costituzione democratica e nello stesso tempo la consegna morale di ogni azione pubblica che voglia affermarlo confermandone la legittimità. Di fronte alla realtà pluralistica della costituzione storica dei gruppi sociali, che smentisce di fatto la premessa ideologica dei regimi democratici, la vita sociale viene rappresentata dai teorici della democrazia come una infinita ricerca dell‟uguaglianza originaria, costitutiva del patto civile, contro la quale complottano forze reazionarie e disfattiste, assertrici di valori anti-democratici propugnanti l‟egemonia di ristretti gruppi oligarchici privilegiati, nemici dell‟eguaglianza sociale e politica. Questa eguaglianza, postulata per legittimare la costituzione democratica del regime politico, viene posta miticamente all‟inizio dei tempi sociali, dopo i quali, per insipienza e malvagità umana, si perviene a una decadenza che le forze positive della società sono 346
chiamate ad arginare per scongiurare la dissoluzione dell‟ottimo stato sociale fondato dai padri costituenti a godimento dei posteri. Questo modello sociale, monocratico ed egalitario, che risale modernamente a Rousseau, è fatto proprio anche da Durkheim, ma con lui da tutti gli assertori del potere monocratico del popolo, identificato con l‟ente collettivo unico, depositario dei valori pubblici, e quindi con la stessa società. La democrazia è essenzialmente totalitaria anche quando ammette il pluralismo dei partiti politici, poiché in tal caso lo riferisce alle rappresentanze politiche dell‟unico astratto ente pubblico, il popolo, e non già al pluralismo dei concreti gruppi sociali, la cui esistenza sola smentisce l‟asserita realtà monocratica dell‟ideologia identitaria democratica, che, come è noto, postula l‟identità dei rappresentati coi rappresentanti. Anche i regimi politici delle realtà sociali pluralistiche sono di tipo monocratico, fondati, come abbiamo visto, sulla rappresentazione dei valori delle classi dirigenti come valori pubblici; ma, diversamente dalle classi dirigenti dei regimi democratici, le élites dei regimi aristocratici erano politiche in quanto sociali, e non, come quelle democratiche, sociali in quanto politiche. In altri termini, la ascendenza sociale delle classi dirigenti democratiche, posta l‟eguaglianza di principio dei membri sociali, può derivare soltanto dal merito politico, ossia dalla attitudine a costituire gruppi sociali dominanti determinati attraverso la loro comune volontà politica di arrivare al potere. in tal caso, anziché gruppi sociali storicamente costituiti, i ceti, abbiamo dei nuovi gruppi sociali politicamente costituiti, e quindi aperti all‟adesione di quanti ne condividono gli scopi costitutivi. Questi gruppi sono i partiti politici, che nelle società democratiche hanno preso il posto degli antichi gruppi sociali storici. I gruppi sociali dominanti si erano storicamente costituiti come modelli morali della società in virtù, non di una presunta omogeneità antropologica o politica dei suoi membri, ma di un fondamentale rapporto di riconoscimento etico delle loro attitudini alla guida sociale da parte dei gruppi sociali dominati. Il riconoscimento della fondamentale diseguaglianza sociale era all‟origine della diseguaglianza anche politica tra i ceti, per cui esso 347
rivestiva un carattere essenzialmente morale che ne legittimava ogni privilegio e disparità. Tale riconoscimento morale, storicamente costitutivo della struttura sociale gerarchica e della socialità, era un dato storico che è stato confutato dalle ideologie egalitarie, ma che, essendo costitutivo di ogni socialità, si è dovuto ripristinare attraverso un impegno pedagogico del potere democratico che è entrato in diretta concorrenza con la dottrina sociale tradizionale della Chiesa, assumendo i caratteri della pervasività universale tipica di una religione, ma declinata in senso “civile”, assumendo come orizzonte operativo non il generico essere umano ma il concreto contesto sociale politicamente definito, ossia lo Stato nazionale. La sociologia di Durkheim ha tutte le caratteristiche di una teoria sociale dello Stato democratico, ovvero, se preferiamo, di una ideologia nazionalitaria a determinazione variabile, valida per un regime costituzionale come per uno di tipo carismatico. 5. A confronto della costituzione di lungo periodo dei ceti sociali tradizionali, i nuovi gruppi politici di recente e artificiale costituzione, risentono di una minore sedimentazione dei valori aggregativi, e di conseguenza sono più soggetti a defezioni e critiche ideologiche che accentuano la tendenza privativa dei membri, resa più drammatica nel nuovo contesto politicizzato a seguito della stessa pervasività universale della logica politica di appartenenza, un tempo circoscritta al solo momento pubblico che era molto ristretto rispetto a quello privato dei rapporti sociali quotidiani ordinari. Il nuovo Stato nazionale, infatti, dalla coscrizione militare alla uniformità legislativa, interveniva in molti più campi della vita sociale di quanto non avvenisse in passato, allorquando la vita politica e civile escludeva il maggior numero dei sudditi, i quali, divenuti cittadini, erano ora chiamati a partecipare, soprattutto in modo passivo, alla novella religione civile dell‟eguaglianza partecipata. Nel nuovo contesto civile universale, l‟uomo viene emancipato dalla sua storia sociale, e con essa dalla sua morale tradizionale, e immesso come singolo a testimoniare la parte convenuta di elemento particolare della grande unità nazionale, con effetti culturali divisivi tra identità profonda e identità civile di superficie, non sempre psicologicamente 348
compensati da reali vantaggi sociali, provocandone a volte il collasso psichico del suicidio, interpretabile anche come fenomeno sociale di insufficiente tenuta aggregativa dei gruppi particolari, a cominciare da quello familiare e religioso, la cui natura privata assolve indirettamente le insufficienze del gruppo politico maggiore, la società appunto. Curiosa, infatti, in Durkheim la contraddittoria rilevanza dei gruppi privati nella responsabilità del fenomeno di cui viene nel contempo affermata la precipua natura sociale. Rilevato che “i protestanti forniscono assi più suicidi che non i fedeli degli altri culti”,419 Durkheim giunge al “risultato che la tendenza del protestantesimo per il suicidio deve essere in rapporto con lo spirito di libero esame di cui questa religione è animata”, quand‟anche lo stesso libero esame “è di per sé effetto di un‟altra causa”. 420 Infatti, egli spiega, Quando esso appare, quando cioè gli uomini, dopo aver accettato per lunghi anni la tradizione costituta, invocano il diritto a farsela da soli, ciò non è tanto per le attrattive intrinseche del libero esame, che arreca più dolori che gioie, bensì perché hanno ormai bisogno di questa libertà. E questo bisogno può avere una sola origine: il crollo delle credenze tradizionali. Se esse si imponessero sempre con la stessa forza, nemmeno si penserebbe a farne la critica.421
Si tratta, cioè, di una esigenza nata dalla crisi di autorità della “fonte” da cui essa promanava. L‟autorevolezza della fonte è relativa al grado di accettabilità sociale della sua autorità in campo morale. Questa autorità morale consiste nel riconoscimento da parte del gruppo di riferimento della validità pubblica della Weltanschauung della minoranza dominante sulla maggioranza. E‟ allorquando viene meno questo riconoscimento che insorge il bisogno di una autonoma razionalizzazione del mondo da parte dei tradizionali fruitori del sistema di spiegazione razionale del mondo elaborato dalle loro élites che ora non li appaga più. La critica, inappagata dalle tradizionali versioni, tende dunque a sopperire al deficit di razionalità con una propria visione razionalizzante. 419
Ivi, pag. 195. Ivi, pag. 199. 421 Ibidem. 420
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Il ragionamento si sviluppa solo se necessitato a svilupparsi, cioè quando un certo numero di idee e di sentimenti non ragionati, sufficienti, fino a quael momento, a dirigere la condotta, si trovano ad avere perduto la loro efficacia. Allora esso interviene a colmare il vuoto che si è creato ma che non ha creato. Così come esso si spegne mano a mano che il pensiero e l‟azione sono presi come abitudini automatiche, esso nn si sveglia che col progressivo disorganizzarsi delle abitudini prestabilite. E rivendica i suoi diritti contro l‟opinione comune solo quando essa non ha più la sua forza, cioè quando non è più comune allo stesso grado.422
Con parole molto povere, Durkheim individua un principio molto importante relativo al rapporto tra credenze invalse e nuove forme di razionalizzazione del mondo che sfata l‟antico luogo comune secondo il quale i processi di razionalizzazione del mondo sono il portato spontaneo della natura razionale dell‟uomo, mentre invece essi sono soltanto il risultato, storicamente più o meno precario, di uno sforzo culturale prodigato dalle minoranze dirigenti intente ad accreditarsi presso le maggioranze dirette. Gli esiti intellettuali di questo sforzo, vengono assunti come un prodotto culturale di valore morale, quando condivisi o accettati dal gruppo dominato, che li adotta fiduciariamente come proprii; essi, invece, sono considerati un prodotto meramente ideologico, quando rigettati e non più condivisi dai suoi tradizionali fruitori sociali. Questa legge sociologica conferma quanto da noi ritenuto e più volte asserito circa l‟insorgenza delle nuove visioni razionalistiche del mondo in età moderna, in concomitanza con la crisi epocale della tradizionale Weltanschauung cristiana, intervenuta progressivamente a partire appunto dalla Riforma protestante attraverso le istanze individualistiche e autonomistiche in materia religiosa, fino ad allora riservate all‟esclusivo esercizio dell‟ermeneutica ecclesiastica canonizzata dalla tradizione cattolica. Ne consegue che, mano a mano che il retaggio dogmatico tradizionale veniva a perdere la sua forza morale sulle coscienze individuali e di gruppo, aumentava in proporzione lo spazio culturale riservato a nuovi elaborati intellettuali, propiziati da una gnoseologia che si proponeva come “scientifica” rispetto a quella tradizionale “dogmatica”, volendo quella qualifica indicare il movente critico che ne era all‟origine, delle forme già 422
Ivi, pag. 200.
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consolidate ora in discussione. In realtà, come si è detto, l‟aspetto “dogmatico” di una interpretazione razionale del mondo consegue a ogni forma riconosciuta di razionalizzazione, e ne indica il grado di incidenza pubblica della relativa visione del mondo. Sicché, ogni visione del mondo è “scientifica” nella fase costitutiva, e diventa “dogmatica” nella fase acquisitiva. Compresa la visione del mondo cristiana, la quale si è imposta a suo tempo e a lungo come la più razionale e organica visione del mondo e della storia umana, inclusiva delle più raffinate cosmologie e filosofie classiche. La modernità va dunque interpretata come l‟età di crisi della egemonia della visione del mondo cristiana, e il relativo processo di ridefinizione di una nuova sintesi razionalizzatrice della natura cosmica e dell‟esperienza umana. Questo processo è tutt‟ora in corso, e la nuova sintesi è ancora di là da venire, per cui la nostra epoca di mezzo viene a caratterizzarsi per la sua molteplice e varia profferta di mediazioni sintetiche più o meno razionali, velocemente elaborate e ancor più velocemente ripudiate dalla incessante critica confutatrice, ingenerando in settori sempre più diffusi della vita sociale e intellettuale la pigra credenza che la ricerca sia in se stessa la condizione fisiologica della cultura umana criticamente emancipata dai dogmi delle tradizionali credenze dogmaticamente religiose, anziché il travaglio penoso di una civiltà in dissoluzione che ha smarrito, con le antiche certezze fideistiche, la sua stessa ragion d‟essere la forma storicamente più avanzata di cultura umana. In questo quadro epocale critico, il razionalismo scientificofilosofico e l‟ideologia socio-politica democratica vanno intese come espressioni culturali della decadenza della civiltà europea, surrogatorie nel tentativo non ancora riuscito di fondare sulle macerie del mondo tradizionale un nuovo ordine sociale, basato su un rinnovato sostrato religioso, senza il quale ogni edificio storico poggia sulla sabbia delle illusioni umane. L‟illusione del razionalismo moderno è appunto quella di poter tradurre in valori positivi e stabili – cioè in acquisizioni a loro volta dogmatiche – i processi puramente negativi della sua ragion critica demitizzante, facendo del metodo decostruttivo della sua analisi storico-sociologica il nuovo registro teoretico della moderna coscienza disincantata. Lo stesso dicasi della teoria politica razionalistca, che fondandosi sul consenso popolare dei governati, 351
trasforma lo strumento del riconoscimento sociale dell‟autorità eticopolitico, nel fine stesso del potere sociale, in perfetta similitudine con la pretesa della filosofia critica di sostituire la religione anziché servirla in funzione strumentale.423 Correlata alla precedente osservazione di Durkheim sui processi di razionalizzazione del mondo umano, è l‟altra, relativa al rapporto tra libertà individuale e le forme tradizionali di verità, per cui maggiore è l‟incidenza del tradizionalismo, minore è il campo di analisi “lasciato al libero esame individuale”.424 D‟altronde, la persistenza delle tradizionali forme di razionalizzazione del mondo, sono direttamente collegate all‟autorità morale dei loro interpreti, il cui prestigio a loro volta le accredita, in un mutuo rapporta tra funzione e organi tale che “più dogmi e precetti sono sottratti all‟interpretazione delle coscienze singole, più necessarie sono le autorità competenti a spiegarne il significato”.425 Ma questo movimento transitorio da uno ad altro paradigma gnoseologico, da una ad altra Weltanschauung, viene determinato da una correlativa varietà di metodi teorici e di approcci ermeneutici che sviluppano una ricerca di nuove forme di razionalizzazione della realtà, provocando un rinnovamento più o meno radicale di espressioni culturali, tanto più “libere” e originali quanto più distanti dalle forme consuetudinarie e accreditate dai vecchi paradigmi culturali. Nel contesto transitorio dalla visione religiosa del mondo cristianizzato, alla nuova visione razionalistica della storia e della società, la scienza si presenta come il nuovo metodo teoretico per una rinnovata gnoseologia razionalistica, che soppianta i sistemi metafisici legati alla dogmatica teologica, e pertanto essa diventa per 423
Paradigmatica di questa tendenza razionalistica è la corrente dello storicismo, che intende fondare la sua oggettività scientifica sul dato negativo della individualità, giungendo a sostenere con Croce la definizione di una “storia della libertà”, ossia del negativo concepito come realtà spirituale. Ma essendo la libertà la qualità precipua dell‟individualità umana, ed essendo l‟individualità l‟elemento negativo dell‟essere reale, una storia della libertà è una contradictio in adjecto, essendo storico il prodotto reale della volizione umana, cioè l‟opera, e non l‟indeterminata volontà ideale. Una volta prodotta, ossia posta in essere, l‟opera è una realtà sintetica, soggettiva quanto oggettiva, e per il lato oggettivo, essa è, in quanto prodotto pratico, un‟opera sociale, avente una forma storica determinata dalla tradizione e dalle istituzioni storiche. 424 Ivi, pag. 202. 425 Ivi, pag. 203.
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intellettualità secolarizzata “l‟unico mezzo perché il pensiero libero possa raggiungere i suoi fini”.426 Quando le credenze o le pratiche non ragionate hanno perduto autorità, per trovarne altre si deve fare appello ala coscienza illuminata di cui la scienza è la forma più alta. In sostanza le due tendenze si fondono e risultano dalla medesima causa. Gli uomini, in genere, aspirano a istruirsi in proporzione alla loro libertà dal giogo della tradizione. Finché questa domina le intelligenze, a tutto provvede e non tollera facilmente potenze rivali. Viceversa, si cerca la luce appena la consuetudine, fattasi oscura, non risponde più alle necessità nuove. Ecco perché la filosofia, questa forma prima e sintetica della scienza, appare non appena la religione perde piede, e soltanto in quel momento, per vederla poi dare vita progressivamente a una miriade di singole scienze, mano a mano che la necessità che le genera si va anch‟essa sviluppando. 427
L‟analisi è viziata dal pregiudizio razionalistico, che esclude ogni incidenza della interiorizzazione delle norme morali sulla tenuta “religiosa” della società, intendendo l‟affermazione tradizionale dei valori sociali (cioè di accreditata razionalizzazione del mondo) come un “giogo”, e non invece, come è in realtà, l‟orizzonte di sicurezza ontologica dell‟uomo, la cui perdita sta appunto all‟origine della moderna crisi della civiltà. La sua impostazione razionalistica rovescia i termini della questione, stabilendo un rapporto di causa-effetto determinato dalla posizione dello scienziato razionalista che è esterna all‟orizzonte di fede del credente tradizionale, rispetto alla cui visione “oscura” quella emancipata diventa “luce”. Durkheim non si avvede che ogni processo di razionalizzazione del mondo, in quanto prodotto rappresentativo della coscienza ideale, determina una realtà di significato ideale, un cosmo idealizzato. In tal senso, la vita “umana” è sinonimo di vita “ideale”, cioè è il prodotto dell‟opera di umanizzazione del mondo. E così, la realtà “umana” è il prodotto del processo di umanizzazione del mondo. L‟opera “umana”, comunque realizzata, è fondamentalmente un‟attività di tra svalutazione del mondo in realtà significante, ossia n un cosmo simbolico, tributario di significato ideale. Umanizzare il mondo, equivale a idealizzarlo, a renderlo significante. Significazione e idealizzazione sono sinonimi di umanizzazione. Sul 426 427
Ibidem. Ibidem.
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fondamento dell‟ideale antropologico che le diverse visioni storiche hanno dell‟uomo, l‟umanizzazione assume storicamente un valore determinato che informa tutte le sue espressioni reali. In senso generale, col termine di umanizzazione possiamo intendere il processo di razionalizzazione della realtà naturale in cosmo umanizzato. Razionale, infatti, è il mondo provvisto di senso ideale, di valore umano. 428 Ora, per “senso ideale”, o “valore umano”, si intende il significato di un fenomeno, basato sulla distinzione tra ciò che è valido secondo il valore umano o razionale, da ciò che non lo è. Razionalizzare e distinguere sono dunque lo stesso procedimento di umanizzazione del mondo, e razionalizzare significa quindi distinguere in base al valore. Durkheim stesso ha confermato che la distinzione essenziale e originaria del mondo è tra realtà “sacra” e realtà “profana”, e in questa essenziale e radicale distinzione razionale consiste la “religione”, cioè il fondamento ontologico di ogni visione del mondo da parte dell‟uomo, di ogni razionalizzazione della realtà. “Sacro” è dunque il mondo razionale, il mondo ideale, che è “mondo” in quanto è Uno. “Profano”, di contro, è il mondo naturale, non sacralizzato, che è naturale proprio in quanto non compreso nell‟unità ideale, nel cosmo razionale, e perciò è Molteplice. Il mondo sacro è quello compreso nell‟unità razionale dell‟idea, mentre il mondo profano è quello che persiste nella sua individuale particolarità insignificante, cioè non partecipe dell‟unità simbolica ideale di ciò che è. In tal senso, il mondo profano, molteplice e irrazionale, è la condizione del non-essere. E noi sappiamo che tale condizione, nel‟uomo, si dice “libertà”, la quale è dunque quell‟elemento della realtà umana non razionalizzato secondo il valore, non riportato all‟unità valoriale dell‟Essere. Da ciò deriva che la condizione “libera” è quella che è propria dell‟uomo “senza 428
E‟ appena il caso di dire qui che il weberiano “politeismo dei valori” riflette lo stadio contemporaneo del processo scientifico di razionalizzazione del mondo postcristiano, ossia quella fase della ricerca gnoseologica di una fondamentale visione totalizzante del mondo, che non può però provenire dalla scienza fenomenistica, ma solo da una credenza religiosa che si ponga come l‟unità metafisica di ogni particolare discorso razionale sull‟Essere ovvero filosofico.
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qualità”, mancante cioè di determinazione essenziale. E‟ una condizione ontologicamente negativa, per cui non soltanto la “vita”, ma la stessa ricerca teoretica inscritta nell‟orizzonte di tale condizione di libertà, è, in quanto “pensiero libero”, un prodotto negativo rispetto al valore assente. Senza l‟affermazione di tale valore ontologico, il pensiero negativo rimane “scienza”, cioè metodologia del sapere, ma non diviene “filosofia”, e cioè forma razionale della fondamentale intuizione del mondo, l‟intuizione religiosa, l‟unica che dà coerenza razionale al mondo, collegando armonicamente il pensiero teoretico alla prassi in quella conciliazione cosmica che si dice “sapienza”. Il pensiero scientifico “conosce” per causas ma non “sa”, perché appunto non distingue l‟essere dal non-essere, il vero dal falso, ossia il “sacro” dal “profano”. Infatti, nell‟orizzonte del sapere scientifico ogni teoria del mondo è “falsa”, perché soggetta (prima o poi) a confutazione empirica, e resiste finché dura la credenza della sua validità; credenza che appartiene al mondo dell‟opinione (la doxa), e non a quello della verità (l‟epistéme). La scienza, pertanto, è un sapere “senza fondamenti” proprio perché prescinde da un fondamento religioso, da una intuizione ontologica del mondo, e quando si afferma che la filosofia moderna sia un “sapere senza fondamenti”, si allude, magari inconsapevolmente, alla circostanza epocale che il pensiero moderno manca di riferimento a un‟intuizione religiosa del mondo, e perciò non può dirsi filosofico ma solo scientifico, ossia pensiero sperimentale o “libero” o “negativo”. Esso può risolvere la sua negatività solo legandosi religiosamente alla positività di una fondazione ontologica dell‟Essere, a una intuizione religiosa del mondo, che distingua il sacro (l‟Essere) dal profano (non-essere), e perciò il vero dal falso entro un cosmo idealmente unitario. Nondimeno, anche la definizione della religione di Durkheim, come logica della distinzione, è lacunosa, perché considera propriamente religiosa l‟attività di giudizio che invece è propria del pensiero razionale, che, nel suo contesto di credenza è logico e filosofico al pari di ogni teoria razionale del mondo. Diventa “religiosa” la credenza che viene superata da un‟altra ritenuta più razionalmente fondata, ma, finché la credenza “vale”, essa è fede di verità. In realtà, il carattere precipuo del sapere religioso è piuttosto un altro, e cioè la sua 355
vocazione totalitaria, inclusiva dell‟esperienza umana come di quella divina e naturale. Per la sua “totalità”, il pensiero religioso tende a inscrivere l‟esperienza umana entro le vicende di una complessiva cosmologia nell‟orizzonte della quale coesiste sia il “sacro” che il “profano”. La distinzione è già atto di pensiero, è già filosofia. La condizione della fede, quella religiosa, è il momento della credenza dell‟esistenza di entrambi gli elementi. Nel momento in cui si finisce di credere nel diavolo, si è già smesso di credere in Dio, poiché il sacro e il profano sono aspetti opposti della stessa realtà totale. Il razionalismo è il processo della ragione che ha perduto la fede nella totalità, e, distinto il sacro dal profano, prende a occuparsi di un solo aspetto del Tutto, ritenendolo l‟unico degno di fede, cioè “vero”. La verità del razionalismo moderno è la fede nella sola realtà profana del mondo, ma poiché tale credenza non considera la verità del Tutto, essa è una forma di superstizione, non diversa da chi crede che l‟emicrania sia opera di un maleficio o un terremoto una vendetta degli dèi. Le forme religiose tradizionali sono state sopravanzate dal pensiero razionale perché la loro visione del mondo coinvolgeva indistintamente la realtà del sacro con quella profana, così da offrire una rappresentazione confusa del mondo. Solo il cristianesimo, distinguendo la realtà di Cesare da quella di Dio, poté inserire nella totalità della fede il principio della distinzione, proprio del pensiero razionale, facendo della filosofia lo strumento logico e dialettico della fede. Prima della distinzione razionale, che discerne dal mito il pensiero logico, “tutti i filosofi”, senza la distinzione socratica tra “filosofi veri”, “sofisti” e “politici”, sono “uomini divini”, come asserisce Teodoro nel Sofista.429 Naturalmente, il pensiero razionale, offrendo delle risposte a problemi storici, si evolve in ragione della sensibilità della coscienza dei tempi, e perciò richiede rinnovati collegamenti con la fede antica, la quale è chiamata a sua vota a riformulare in termini aggiornati allo spirito razionale del tempo le sue formule di verità, i suoi dogmi. Rifiutarsi a farlo, equivale a rinunciare alla sintesi totalitaria del pensiero, dissociando la fede dalla ragione. Ed è esattamente quanto avvenuta nel cristianesimo moderno, il quale, fissando le sue sintesi dogmatiche nei termini definiti dalla filosofia 429
Platone,Il Sofista, tr. it. di A. Zadro, in Opere, Roma-Bari, 1974, vol. I, pag. 368.
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medievale tomistica, ha provocato lo scisma tra ragione di fede e ragione filosofica, aprendo il processo riformatore sia della fede che del pensiero filosofico, ognuno andante per la sua propria strada. Il momento ideale della rottura protestante non è il 1517 con l‟affissione delle tesi di Wittenberg, poiché le posizioni di Lutero erano interne non solo all‟ecumene cristiana ma all‟istituzione ecclesiastica. Fu la decisione di inammissibilità della Chiesa ad espellere quelle tesi dal corpo mistico cristiano perché urtanti le direttive ecclesiologiche sostenute dalla Chiesa storica, che si arrogò il diritto tremendo di identificarle con la fede e con il pensiero, trasformando una sintesi di verità in una normativa politica. Il dogma, non più sorretto dalla legittimazione razionale, diventa decisione politica. Fu questa tremenda arroganza politica della Chiesa istituzionale a inaugurare lo scisma del pensiero razionale dalla fede religiosa, ossia la modernità. Il pensiero “moderno” intraprende ciò che lo Straniero del Sofista chiama “l‟arte del separare”, ovvero di “distaccare il peggiore dal migliore” quale atto di “purificazione”430 del pensiero da ogni contaminazione mitico-religiosa, applicandosi sulla fede cristiana analogamente a quanto la filosofia antica fece sulla mitologia arcaica. Quest‟opera di demitizzazione, all‟interno della cosmologia cristiana, produsse la peculiare esperienza del criticismo e dell‟idealismo di matrice protestante, tendente a ritrovare la sintesi perduta su un piano meta-filosofico o spiritualistico, inclusivo della dimensione religiosa. Proprio la consapevolezza dell‟innesto dello spirito cristiano nella tradizione filosofica classica, indusse a concepire la nuova spiritualità cristiana riformata fuori della sintesi tomista e della giustificazione razionalista pagana, alla quale si preferì la giustificazione della “sola fede” e il recupero esegetico delle fonti bibliche come processo di anamnesi teologicamente purificatrice dalle contaminazioni della filosofia pagana. Ed è sul tracciato teoretico di questo percorso spirituale che va compreso il carattere peculiare del pensiero moderno di retaggio protestante. All‟interno, invece, della tradizione cattolica, di fronte alla opposizione dogmatica a ogni dialogo filosofico, il pensiero moderno si dispiega come razionalismo ateo, come fede nella ragione 430
Platone, Il Sofista, tr. it. cit., pag. 382.
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emancipata dalla teologia, ossia come metafisica della dissociazione ontologica dell‟Uno sacro dal Molteplice profano, ricercando l‟unità all‟interno della realtà molteplice mondata di ogni retaggio religioso. Da qui la sacralizzazione della storia umana emendata di ogni teodicea, e della società come storia empiricamente reale, scientificamente emendata di ogni astratta rappresentazione idealistica, fino all‟ulteriore riduzione soggettivistica della più concreta realtà sociale e all‟estremo idealismo storicistico dell‟opera come la “vera” realtà spirituale della Storia. Ogni razionalismo si presenta come processo di illuminazione sulla strada del ricongiungimento del Molteplice empirico alla sua Unità ideale. Questo “illuminismo” è fondato appunto sulla distinzione tra “verità” e “ignoranza” del vero, in cui consiste la “stoltezza”, il cui rimedio è “l‟educazione” (paidèia), come afferma lo Straniero nel Sofista431. Esattamente in quest‟ottica pedagogica si colloca il razionalismo moderno, sia come “educazione del genere umano”, e sia, come nel caso di Durkheim, come formazione morale di una rinnovata società secolarizzata. Il compito che alla sociologia ha assegnato Durkheim è proprio quello di “scacciare quanto v'è di cattivo lasciando il resto”.432 Il “resto” è il bene della verità, intesa come l‟unità ideale che è alla radice dell‟armonia sociale. E infatti, alle parole di Teetteto, lo Straniero risponde stabilendo una stretta relazione tra la “purificazione dell‟anima” e il lenimento della sua “malattia”, che ha una sua consistenza estetica, la “bruttezza”, che per il corpo, è una “specie di vizio per l‟anima”, e una realtà pratica, la “rivolta”, intesa come “la corruzione che si determina per una qualche discordia di ciò che per natura è unito e congenere”. [Ibidem.] L‟assenza di retto giudizio porta a confondere il vero dal falso, ignorandone appunto la differenza. “Una importante e grave specie di ignoranza, distinta dalle altre”, consiste nella citata “stoltezza”, la condizione mentale di “credere di 431
“Penso, almeno, di vedere una importante e grave specie di ignoranza, distinta dalle altre, [che consiste] nel credere di sapere qualche cosa non sapendola; da ciò, può darsi, dipendono per tutti, tutti gli errori del nostro pensiero [, e si chiama] stoltezza, [il cui rimedio di insegnamento è la] educazione": tr. it. cit., pag. 385. 432 Platone, Il Sofista, tr. it. cit., pag. 383.
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sapere qualche cosa non sapendola”, dalla quale “può darsi, dipendono per tutti, tutti gli errori del nostro pensiero”. [Ivi, tr. it. cit., pag. 385.] Da qui il necessario ruolo della educazione alla ragione, ossia alla distinzione del vero dal falso, quale rimedio all‟insorgenza delle false opinioni che ingenerano confusione e immotivate rivolte; l‟esercizio della ragione si attua nella “confutazione”, con cui si nega “la falsa opinione di sapienza”, la quale arte costituisce socraticamente “la più grande”, e “fondamentale purificazione”, che è quella di giungere a ritenere di sapere solo ciò che si sa, e niente più. Da quanto detto, si può dunque stabilire che chi è “impuro” sia anche “privo di educazione”.433 L‟ignoranza, per Platone, è il mancato congiungimento dell‟ “anima” (noi diremmo, della coscienza) alla “verità”.434 Ed in questo interstizio, in questo vuoto di verità, o di ideale unità, si esercita l‟arte della scienza propria dei sofisti, i quali “appaiono dotati di scienza in relazione a ciò di cui discutono in contraddittorio [...] quindi appaiono ai loro discepoli sapienti su tutto e di tutto”, ossia di ogni branca dello scibile, riguardante ogni disciplina del Molteplice. “[...] Senza esserlo però; infatti abbiamo visto che è impossibile” conseguire l‟unità ideale attraverso la somma dottrinaria delle scienze molteplici. Se ciò fosse possibile, i sofisti non sarebbero (falsi) filosofi ma somiglierebbero agli dèi. “Allora il sofista ci è ormai apparso come un uomo che possiede una scienza apparente su tutto, ma è privo della verità”.435 La scienza sta alla verità come il Molteplice sta all‟Uno, e il filosofo deve saper distinguere la scienza sofistica dalla vera sapienza. Ora, per quanto sia difficile determinare “il falso”, poiché “quel discorso osa fondarsi sull'ipotesi che è ciò che non è”, l‟arte di confutare, cioè di giudicare rettamente, consiste proprio nel distinguere il discorso fondato sull‟Essere da quello che assume come essere ciò che in verità non-è, poiché “non altrimenti che su questa base infatti sarebbe il falso, se fosse”. [Ivi, tr. it. cit., pag. 394.] A questo punto “è chiaro” ciò che intendiamo per distinzione: ossia il giudizio per cui “ciò che non è non si può riferire a qualche cosa che sia compreso fra le cose che sono [...]”. Ma se ciò è vero, 433
Ivi , tr. it. cit., pag. 387. Ivi, pag. 384. 435 Ivi , tr. it. cit., pag. 390. 434
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“allora non dobbiamo nemmeno ammettere questo: che uno dica qualche cosa e non dica niente”, dal momento che il suo dire rivela pur sempre l‟essere di ciò che dice.436 Ciò significa che colui che dice può affermare, nel suo dire, tanto la verità dell‟Essere che il falso nonessere, senza discernerli. E quindi la verità non consiste nel dire, poiché anche la scienza sofistica discetta sull‟Essere, ma nel riconoscere e distinguere il falso discorso, che parla del non-essere come se fosse l‟Essere. E perciò “[...] il discorso sarà da ritenersi falso quando dirà che le cose che sono non sono e quando dirà che sono invece quelle che non sono”.437 Il razionalismo moderno, dunque, non dice sostanzialmente nulla di nuovo rispetto alla tesi platonica della conoscenza, la quale anzi chiarisce inverandolo il senso della teoria di Durkhim sul pensiero religioso. 6. A questo punto possiamo comprendere il senso profondo della “libertà” del pensiero di “raggiungere i suoi fini”, di cui parla Durkheim.438 La “libertà” consiste per l‟appunto nella indipendenza del giudizio da ogni criterio di distinzione razionale di ciò che “è” da ciò che “non-è”; libertà e indipendenza propria della “scienza” o arte sofistica della confusione del vero col falso, e non già della filosofia, la quale deve, per poter distinguere il vero dal falso, presumere l‟unità del Tutto, in cui è compreso non soltanto l‟Essere (della verità) ma anche il Non-essere (della falsa realtà), i quali entrambi sono presenti nel dire, confondendosi nella coscienza ingenua dell‟ignorante, di chi, cioè, non è educato alla distinzione e al giudizio razionale. L‟aspetto più rilevante di questa moderna “libertà” di pensiero è la perdita di consapevolezza dell‟origine della crisi metafisica epocale e la conseguente credenza nella fisiologicità della condizione di dissociazione del pensiero della verità dal pensiero della certezza, tale che la ricerca stessa del senso perduto dell‟Essere si realizzi attraverso l‟esclusivo discorso sofistico della scienza, quello cioè che dice del falso come se fosse il vero. E all‟interno della realtà delle certezze sensibili, il discorso scientifico ricerca l‟unità di senso ideale, 436
Ivi, tr. it. cit., pagg. 395-396. Ivi, tr. it. cit., pag. 400. 438 Loc. cit., pag. 203. 437
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comportandosi alla stregua di un sapere divino, ossia entro un orizzonte di fede alternativa a quella tradizionale. Durkheim, riflettendo sul constatato stretto rapporto tra suicidio e scienza, giudica questa “innocente”, per cui “sarebbe ingiusto incolparla”, ribadendo che “l‟uomo cerca di istruirsi e si uccide non già perché si istruisce ma perché la società religiosa, di cui fa parte, ha perduto la coesione”, per cui si stabilisce un processo correlativo per cui “l‟istruzione che [l‟uomo] acquista può disorganizzare la religione, ma la stessa religione si disorganizza perché si sveglia il bisogno dell‟istruzione”.439 Questa [l‟istruzione, cioè] non viene invocata come mezzo per distruggere le opinioni ricevute, ma perché la distruzione è già iniziata. Certo, una volta acquisita, la scienza può combattere a suo nome e per suo conto e porsi come antagonista dei sentimenti tradizionali. Ma se questi sentimenti fossero ancora vivi gli attacchi sarebbero vani e addirittura nemmeno si verificherebbero. Non si sradica la fede con dimostrazioni dialettiche; bisogna che essa sia ben scossa da altre cause perché non resista all‟urto delle argomentazioni.440
L‟argomento è capzioso. Infatti, la fede “tradizionale” è trattata come un “sentimento” sradicato dalla sua originaria verità di ragione, ossia dalla sua credibilità razionale, per cui non c‟è dialogo possibile con la scienza, la cui veridicità presuppone la fine di quei sentimenti. Ma ciò detto, non si spiega l‟antagonismo della scienza verso i sentimenti residui se non a motivo del suo porsi come alternativa religiosa e perciò “l‟unico rimedio di cui disponiamo” di fronte alla crisi delle “credenze stabilite”, le quali “non si possono restaurare artificialmente, e non v‟è altro che la riflessione che possa aiutarci a comportarci nella vita”.441 L‟aspetto religioso della nuova “riflessione” è appunto la credenza che essa sia “l‟unico rimedio” che “possa aiutarci a comportarci nella vita”, a esclusione di ogni altro; ossia che la scienza sia un sapere totale: una religione appunto. Questa religione scientifica esercita la sua forza dirompente le antiche credenze muovendosi su un piano desacralizzato, nel quale le rappresentazioni della realtà sono tradotte in termini di concretezza 439
E. Durkheim, Il suicidio, tr. it. cit., pag. 211. Ibidem. 441 Ibidem. 440
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sensibile, di entità empiricamente verificabili. L‟orizzonte di senso religioso tradotto nella nuova rappresentazione razionalistica è la “società”, entro la quale la antica fede religiosa diventa “istinto sociale” e la astratta scienza diventa “intelligenza”, per cui, in termini sociologici, viene detto che “una volta fiaccato l‟istinto sociale, l‟intelligenza rimane l‟unica guida ed è per suo tramite che dobbiamo rifarci un coscienza”.442 Durkheim non specifica quale, né potrebbe, dal momento che il carattere della scienza è la sua negatività, cioè opposizione ontologica a ogni forma unitaria dell‟Essere, ma lascia sottintendere che, come più volte ribadito, l‟unica “coscienza morale” che abbia i requisiti della verità sia quella sociale. E‟ la società che realizza quella coesione religiosa moderna che la scienza non potrebbe da sola ottenere, e la ottiene ponendo la scienza al suo servizio civile, quale metodo della nuova educazione laica dello Stato secolarizzato. Essa viene dunque trasformata da arma di dissuasione a rimedio della dissoluzione religiosa, pertanto, tutti coloro che assistono con inquietudine e dolore al crollo delle vecchie credenze, che avvertono la grande difficoltà di questi periodi critici, non se la debbono prendere con la scienza per un male che non ha causato e che, invece, cerca di guarire! Stiamo attenti a non trattarla da nemica! Essa non ha l‟influenza corrosiva che le si attribuisce, ma è l‟unica arma che ci consente di combattere quella dissoluzione di cui essa stessa è vittima. […] Dobbiamo vietarci con altrettanta cura di vedere nell‟istruzione uno scopo fine a se stesso, quand‟essa è soltanto un mezzo. Come non riusciremmo a far perdere il gusto dell‟indipendenza incatenando artificiosamente gli spirito, così non sarebbe sufficiente liberarli per restituir loro l‟equilibrio. Ma essi debbono saper usare come si conviene questa libertà.443
Curioso paralogismo, per cui diventa “artificioso” il legame religioso tradizionale, e “conveniente” invece quello nuovo da realizzare attraverso lo strumento dell‟educazione, il cui fine è di conseguire appunto quello “equilibrio” perduto insieme all‟unità religiosa pregressa. Tale unità religiosa è quella propria della “società”. “Ciò che costituisce questa società è l‟esistenza di un certo numero di credenze e di pratiche comuni ad ogni fedele, tradizionali e quindi 442 443
Ivi, pagg. 211-212. Ivi, pag. 212.
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obbligatorie. Più numerosi e forti sono questi stati collettivi, più la comunità religiosa è fortemente integrata e maggiore è la sua virtù preservatrice”.444 La novità è che il nuovo legame deve avere i caratteri espliciti della nuova società secolarizzata. Ma problematico è anche l‟uso del concetto di “società” riferito promiscuamente al gruppo religioso, familiare e politico. Il gruppo familiare viene distinto in due sotto-gruppi, quello della società coniugale, “organizzata in epoca relativamente tarda”, che deriva “da un contratto o da affinità elettive” e “lega tra loro due membri di una stessa generazione”, e quello “familiare propriamente detto”, il quale “lega una generazione all‟altra” e deriva “da un fenomeno naturale, la consanguineità”, il quale costituisce una società “vecchia quanto il mondo”.445 Circa “l‟immunità dei coniugati” al suicidio, Durkheim perviene, dopo numerosi calcoli statistici, alla conclusione che essa sia dovuta “all‟azione non già della società coniugale ma della società familiare”,446 la quale, venendo meno, consente di stabilire il principio generale per cui “in una medesima società, la tendenza al suicidio nello stato di vedovanza, per ogni sesso, è in funzione della tendenza al suicidio che il medesimo possiede nello stato matrimoniale”. [Ivi, pag. 239.] Dal confronto di tutti i prospetti analitici, consegue che “il matrimonio ha sul suicidio un‟azione preservatrice”, anche se “limitata a vantaggio di un solo sesso”, quello femminile, per cui “la famiglia, cioè il gruppo completo formato da genitori e figli, rimane il fattore essenziale dell‟immunità dei coniugi” e dunque, al pari di quella religiosa, “un potente preservativo contro il suicidio”.447 Inoltre, la limitazione del nucleo familiare è “fonte di malessere, perché diminuisce nell‟uomo il desiderio di vivere”, sicché, “lungi dall‟essere un lusso di cui si possa fare a meno e che solo il ricco possa permettersi, la famiglia densa è invece il pane quotidiano senza il quale non si sopravvive”, e sarebbe “il peggiore investimento possibile quello di trasformare in capitale una parte della propria
444
Ivi, pag. 213. Ivi, pag. 230. 446 Ivi, pag. 234. 447 Ivi, pag. 244. 445
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discendenza”,448 ossia rapportare al numero minore dei membri familiare una relativa maggior quota di beneficio pro capite. Notazione quanto mai interessante, che confuta la astratta pretesa economicistica di origine maltusiana di considerare il tasso di benessere un coefficiente indipendente dalle condizioni sociali di realizzazione, giungendo così alla conclusione paradossale, che interessa gran parte delle società industriali attuali, di dover importare per il loro funzionamento corrente, a seguito della scarsa natalità locale, un gran numero di manodopera straniera, che di fatto beneficia dei vantaggi del benessere generale che si volevano destinare in maggior quota al minor numero di figli procreati dalle famiglie autoctone. Ma l‟ideologia economicistica, nell‟ignoranza di queste considerazioni sociologiche fondamentali, dove ha prevalso su una più realistica e razionale valutazione della realtà sociale, ha avviato o alimentato un pericoloso processo di destrutturazione dei contesti sociali storici dalle conseguenze che, col passare del tempo, risulteranno sempre più devastanti per la complessiva qualità della vita umana. Infatti, la considerazione dei processi economici come “fatti” astratti dalla loro contestualità sociale, è l‟esito esistenziale consequenziale dell‟ontologia negativa della libertà come tendenza eversiva dall‟ordine religioso totale. E proprio l‟economia, come attività in sé della produzione concreta della razionalizzazionetrasformazione universale dello homo faber, ha assunto nell‟epoca moderna il valore espressivo della sintesi non solo simbolica ma reale della socialità, e, in quanto creazione umana destoricizzata, di valore assoluto, astratto cioè da ogni rapporto con la totalità dell‟Essere. Ed è questa l‟essenza della moderna libertà come liberismo economicistico, l‟espressione storica della logica sofistica, che, come sappiamo, assume il negativo non-essere come essere reale, ossia la libertà, come ricerca dell‟essere reale, in realtà d‟essere. La scienza – di cui l‟economia è la forma più totalizzante – da ricerca del sapere, a sapere. Come afferma nello stesso luogo Durkheim, il valore sociale del gruppo è relativo alla sua densità, per cui 448
Ivi, pag. 249.
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la densità di un gruppo non può diminuire senza che diminuisca la sua validità. Se i sentimenti collettivi hanno una particolare energia è perché la forza con cui ogni coscienza singola li prova si ripercuote reciprocamente in tutte le altre. L‟intensità raggiunta dipende dal numero delle coscienze che li prova in comune. Ecco perché più grande è la folla più le passioni che vi si scatenano sono suscettibili di essere violente. Ne consegue che i sentimenti, i ricordi comuni, in seno a famiglie poco numerose, non possono essere molto intensi, perché non vi sono abbastanza coscienze per rappresentarli e rafforzarli condividendoli. Né vi si potrebbero formare quelle forti tradizioni che servono da vincolo tra i membri di uno stesso gruppo e che sopravvivono ad essi e riallacciano a sé e tra loro le generazioni successive. D‟altronde le piccole famiglie sono necessariamente effimere e senza durata non v‟è società che possa essere consistente.449
Non a caso l‟incidenza di rilevanti forze esterne a un contesto sociale storicamente costituito, provoca fenomeni disgregativi che si ripercuotono sugli interi assetti strutturali della società, che per riassestarsi in forme nuove di equilibrio istituzionale, impiega il tempo di molteplici generazioni, non sempre riuscendo al suo scopo. Si prenda il caso del Mezzogiorno d‟Italia, dove invasioni straniere, riforme economiche e riassetti politici, hanno determinato una situazione di perenne e progressiva instabilità istituzionale che è divenuta ormai strutturale, andando a costituire quella “questione meridionale”, a lungo dibattuta quanto invano affrontata in termini economicistici. Tornando a Durkheim, la sua teoria del rapporto sociologico tra densità e validità, non solo pone le basi del discorso parsonsiano sulla interiorizzazione della norma morale come fondamento dell‟ordine sociale, ma confuta l‟altra sua teoria della pretesa stabilità morale della società nel tempo, indipendentemente dal ciclo delle generazioni o degli eventi. E ciò in ragione del fatto che Durkheim, come abbiamo visto, tende a confondere il concetto di “società”, come realtà storica di vita di un gruppo umano stabilmente, ossia normativamente, organizzato, con il concetto di “socialità”, intesa come fondamento di valori costitutivi dell‟unità morale del gruppo sociale. Sicché i varii sotto-gruppi sociali, come la comunità religiosa, la famiglia, etc., vengono considerati come elementi integrati nel gruppo contenente, 449
Ivi, pagg. 249-250.
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quello politico, e non come gruppi antagonisti perché portatori di una loro socialità particolare concorrente a quella politica. Come pure abbiamo visto, l‟idea di una unità sociale come valore socializzante di tutti i gruppi intermedii, è un‟ipotesi ideologica della teoria democratica della società, che riporta all‟unità ideale della società politica ogni realtà molteplice infra-sociale che voglia definirsi moralmente, per cui Durkheim indica genericamente come “società” non solo il gruppo politico, ma ogni gruppo sociale particolare, ravvisando nell‟elemento politico quello comune costitutivo della loro unità morale. In realtà, fuori di quella specifica unità politica, ogni gruppo, in quanto sociale, è fondato su un suo relativo principio di unità , cioè è portatore di un suo valore di socialità, la cui concorrenza reciproca e col valore politico, non è considerata, nella tacita ammissione preventiva che il valore politico sia prevalente su ogni altro possibile e su tutti. Non a caso, la sua analisi dei gruppi sociali che hanno una funzione immunitaria verso il suicidio non comprende i gruppi politici per antonomasia: i partiti politici e l‟esercito. Infatti entro queste forme di socialità, il suicidio non avrebbe un valore privatistico ma pubblico, ossia una destinazione morale che ne sublimerebbe il senso e la destinazione, negli altri casi puramente fattuale di fenomeni moralmente neutri. La generalizzazione di un valore, nel contesto della razionalità scientifica, avviene attraverso la sua neutralizzazione, cioè come determinazione negativa. Nel nostro caso, il valore politico della società “è” quello che “non-è” valore d‟altro genere sociale, ossia è un valore tautologicamente coincidente con la società stessa. Il valore sociale “è” la società stessa. Da valore ideale, trascendente, “sacro”, diventa ente reale, empirico, “profano”, la cui potenza di affermazione storica coincide con la negazione politica delle sue opposizioni. L‟opposto ideale della realtà sociale è l‟individualismo. La società non può disgregarsi senza che l‟individuo in egual misura esca dalla vita sociale, senza che i suoi fini personali diventino preponderanti su quelli comuni, e la sua personalità – in una parola – tenda a porsi al disopra di quella collettiva. [Ivi, pag. 258.]
Noi dobbiamo intendere per individualismo il carattere proprio di una 366
personalità (individuale o di gruppo) che si ponga di fronte alla moralità del politico come realtà autonoma, avente fini proprii, la cui autonomia viene sentita dall‟unità sociale come l‟ossequio a una normativa concorrente a quella politica comune. La privatezza della condizione individualistica deriva infatti dalla sua autonomia dalla dimensione pubblica, politica, della morale. In questa logica esclusivistica prende fisionomia lo Stato democratico totalitario, il quale non riconosce alcun valore pubblico a una morale appartenente ad altra realtà sociale che non sia il gruppo politico. E poiché il valore politico si definisce per negazione degli altri valori infra-sociali, considerati concorrenti particolari di quello generale e comune, il gruppo sociale politicamente inteso “è” in relazione inversa alla sua capacità di negazione dei valori degli altri gruppi sociali. In questo senso, il suo essere – l‟essere, cioè della realtà politica – è un essere che non-è, un essere-non: una realtà empirica idealmente astratta. Nello stesso senso va intesa la sua affermazione etico-polica come potenza di neutralizzazione morale di ogni morale. Ed è ciò che costituisce l‟essenza nichilistica del moderno potere politico fondato sulla socialità economicistica. Economica “è” la morale negativistica della società scientificamente (e non più religiosamente) concepita come unità politica dell‟interesse collettivo inteso come interesse pubblico. Ed è questo carattere pubblico dell‟interesse sociale del gruppo politico a determinarlo come (l‟unico) interesse veramente “morale”. Identificata la morale con la politica, il gruppo politico diventa esso stesso custode dei valori morali, gruppo etico. E‟ questa la premessa teorica del nazionalismo. Nondimeno, lo ribadiamo, non va confuso, come spesso avviene, l‟individualismo della coscienza con l‟individualità personale nel senso dell‟uomo singolo, poiché il concetto dell‟individualità è inteso nell‟opposizione al pubblico, ossia alla dimensione morale della vita, che è quella del gruppo sociale politico. L‟accezione di morale come bene comune, definisce in negativo ogni altra istanza, individuale o di gruppo, come opposta al valore pubblico della società politica. Individuale, in questa accezione polemica, è dunque la morale privata, che è “individualistica” anche se riferita a un gruppo sociale, definito per la sua socialità non-politica. E poiché tradizionalmente 367
l‟individualismo a- o anti-politico è il pensiero filosofico, quello privato della ragione universale, e non politica, la coscienza impolitica è quella dell‟individuo universale, non determinato dal gruppo politico. Ed è esattamente questa indeterminazione politica a costituire il suo “individualismo”, la sua logica impolitica, e non già il fatto che la sua posizione teorica sia il frutto di una elaborazione individuale. La logica politica definisce, pertanto, “individualistica” ogni coscienza che non sia omologata dalla morale pubblica, la quale, riconoscendo il valore pubblico delle posizioni già individualistiche o private, le trasforma in posizioni pubbliche, di valore politico. Ed è questa ragione che motiva socialmente (moralmente) la persecuzione politica dell‟opinione eretica, il suo mancato riconoscimento del suo valore pubblico, legato alla sua natura appunto impolitica o universale, non funzionale pertanto, e asservibile, alla ragione del gruppo politico. Il collettivismo democraticistico, dichiarando di valore morale soltanto l‟etica del gruppo politicamente definito e riconosciuto, perseguendo i valori “individualistici”, combatte in pari tempo la sua battaglia razionalistica anti-tradizionalistica, essendo proprio della religione tradizionale, quella cristiana, l‟identità morale con l‟esperienza coscienziale di ogni anima religiosamente definita. Pertanto, la definizione della morale come valore della società politica può facilmente intrecciarsi empiricamente con la posizione olistica, poiché è il collettivo che viene assunto come la realtà morale, alla quale viene contrapposto per antitesi ogni realtà che collettivistica non è, ed è perciò “individualistica”. Qui l‟individualismo sta al collettivismo come la morale privata sta alla pubblica. La posizione collettivistica non può ammettere che la morale di ultima istanza sia altra da quella pubblica, e cioè dalla morale della società politica, per cui, di contro, la morale individualistica è quella che invece propugna codesta istanza superiore. E poiché la visione romantica fondava la sua rivendicazione di legittimità morale sulla tradizione storica, che era quella appunto della religione cristiana, ecco che il pensiero libero, che da quella tradizione si era emancipato, si è visto costretto a rifondare una nuova tradizione a partire da quella libertà, nazionalizzandola, ossia trasformandola in libertà a sua volta 368
collettiva, a morale sociale. Da qui il carattere costruttivistico del razionalismo moderno secolarizzato, e da qui anche la reazione romantica alla sua pretesa ultra-nazionalitaria. Ma anche il nazionalismo romantico, in quanto nazionalitario, propugnava pur‟esso una orale sociale, che opponeva a quella di altre società nazionali, ciascuna delle quali era “individualistica” rispetto alla propria, l‟unica ritenuta legittimamente morale, e verso la quale le altre tutte erano “astratte”, in quanto storicamente altre dalla propria tradizione collettiva. Il nazionalismo, infatti, in quanto tale si pone in polemica diretta coi gruppi sociali (interni o esteri) diversi a quello politicamente definito come “nazionale”. La società politica è il gruppo polemico per definizione. Ma anche le democrazie ccdd. “pluralistiche” o liberali, sono fondate sullo stesso principio, poiché anch‟esse ammettono la sola rilevanza pubblica del gruppo politicamente definito. Il loro pluralismo consiste nella frammentazione interna del gruppo politico nazionali n molteplici sotto-gruppi politici chiamati “partiti”, la cui dinamica competitiva legalmente regolata in vista del potere, non altera la sostanziale natura totalitaria della politicità come l‟unica ragione pubblica della unità sociale. E la socialità politica, quale unica morale per definizione pubblica, costituisce l‟orizzonte ideologico della socialità antica e pagana, non solo pre-cristiana ma pre-socratica. Ed è rispetto a questa tradizione socialitaria arcaica che il razionalismo antico, segnatamente quello platonico, di più diretta derivazione socratica, sviluppandosi come pensiero della crisi della morale antica, antonomasticamente politica, si propone di rifondare su basi più razionali una nuova socialità, legandola a basi morali non più strettamente sociali, come quelle antiche tradizionali, ma “ideali”, ossia universali e razionalmente ultra-rappresentative. Di fatto, è il modello platonico il paradigma socialitario del razionalismo moderno secolarizzato, il quale, liberandosi della socialità nata dalla tradizione religiosa, cerca di rifondare una nuova società secolarizzata e di definirla stoicamente attraverso la costituzione dello Stato politico. Ma se il razionalismo antico si muoveva verso l‟emancipazione dalla socialità politica, il razionalismo moderno, invece, si muove in senso opposto del ricupero della socialità politica antica e pagana, muovendosi nel senso della 369
emancipazione dalla Weltanschauung cristiana, superatrice della concezione politica antica di socialità. In considerazione di questo ritorno all‟antico universo sociologico pagano da parte del moderno razionalismo politicistico, è del tutto fuorviante collegarlo alla filosofia dello Stato di Hegel, che intendeva invece restaurare, in polemica col razionalismo secolarizzato e paganeggiante, un ordine sociale cristiano, fondato su una logica dialettica inclusiva, e non esclusiva, del momento religioso tradizionale. Nella sua prospettiva teologica riformata, la filosofia dialettica inverava la tradizione cristiana inserendola come momento di una più alta sintesi spirituale, in cui confluiva lo stesso pensiero antico, anch‟esso elemento della finale coscienza assoluta, che coincideva con quella dello Stato etico. Questo, in quanto forma storica, non poteva essere la medievale società cristiana pre-riformata, ma doveva necessariamente realizzarsi come struttura istituzionale della società riformata. Non più, insomma, il sacro romano Impero della cristianità medievale, ma il postmoderno Stato neo-cristiano di spiritualità germanica. Con la crisi della società liberale e la fine del II Reich germanico, la spiritualità tedesca prese un corso ideologico palesemente politicistico e paganeggiante, del tutto alieno dalla prospettiva teologico-politico hegeliana. Con la sconfitta anche del III Reich neo-pagano, e il percorso anti-hegeliano del pensiero tedesco contemporaneo, la spiritualità neo-cristiana superstite è quella interpretata in chiave universalistica e anti-nazionalistica dal capitalismo di matrice anglosassone, il cui economicismo costituisce però la versione despiritualizzata del razionalismo moderno, dal cui ceppo si dirama anche ogni forma di socialità democratica. L‟inserzione dell‟universalismo neo-cristiano come “spirito” individualistico del capitalismo, nella forma razionalistica di socialità democratica, fondamentalmente neo-pagana, ha ingenerato un ibrido connubio di libertà negativa tendenzialmente a-sociale, e di socialità politica tendenzialmente totalitaria, il cui sincretismo istituzionale media tra la polarità individualistica e anarchica, di retaggio protestanico, e quella maggioritaria e livellatrice, già notata da Tocqueville, di retaggio razionalistico. La prevalenza del primo sul secondo elemento, ossia dello spiritualismo individualistico sulla tendenza politicistica 370
totalitaria, è legata alla tenuta e relativa incidenza della cultura neocristiana, ma essendo questa la sopravvivenza del movimento centrifugo anti-cattolico della Riforma moderna, anche la sua religiosità è astratta nel senso negativo sopra chiarito da ogni forma istituzionale, alla quale lo spirito protestante sostituisce la sintesi del lavoro come segno di grazia nel rapporto diretto con Dio, per cui, a livello di convivenza sociale, quell‟astratta religiosità asociale è suscettibile di definizione positiva con qualunque regime politico storico che ne accolga l‟istanza universalistica. E poiché ogni universo di coscienza è in rapporto diretto con Dio, che è il suo valore trascendente, la convivenza viene concepita come patto interpersonale di non belligeranza, come contratto sociale tra eguali, e non come inserzione dell‟individuo storico nell‟unità a se stante del preesistente insieme sociale, che per quella concezione è un posterius rispetto alla primigenia e unica realtà individuale, che è il vero prius. La sintesi positiva del lavoro, che manifesta lo stato di grazia reale del credente, fin quando è circoscritta nei termini pratici della realtà produttivistica del lavoro realizzato, può conciliare pro tempore (da qui l‟idea del “contratto sociale” come stipula rescindibile) la sua essenziale vocazione moralmente autarchica, definita dall‟etica kantiana, con l‟esigenza socialitaria del gruppo politico; ma, fuori della logica trasformativa del razionalismo moderno, che pratica il passaggio del sacro al profano individualmente e senza alcuna mediazione istituzionale che non sia la coscienza fedele, e quindi senza Chiesa né Stato, quella sintesi è fondamentalmente instabile al pari di ogni istanza ideale realizzata in termini mondani. Inoltre, al di fuori dell‟orizzonte valoriale teologicamente fondato, il suo principio d‟immanenza morale, universalizzandosi in termini di neutra tecnica produttivistica (il mercato capitalistico mondiale), dove adottato, diviene conseguentemente fonte di perenne instabilità socio-politica. Infatti, la sua autentica e originaria vocazione religiosa non potrà risolvere la sua protesta in una empirica definizione socio-politica, più o meno dittatoriale o democratica o liberale, ma soltanto in una nuova sintesi spirituale, ossia in una novella intuizione religiosa del mondo, che si ponga a fondamento di un nuovo pensiero filosofico definitivamente post-moderno, e cioè post-protestantico e post371
razionalistico. Un nuovo universalismo cattolico di stampo spiritualistico, e non più, come quello laburistico del capitalismo tardo-moderno, di stampo economicistico. La logica olistica della sociologia di Durkhaim prescinde infatti da ogni considerazione valoriale della morale individuale, socialmente soggettiva, per cui il suicidio acquista, in quella prospettiva, il significato esclusivo di un “fatto” patologico,dovuto alla mancata integrazione del singolo nel gruppo. “Più deboli sono i gruppi cui appartiene, meno egli ne dipende per far capo solo a se stesso e riconoscere come regole di condotta soltanto quelle che si basano sul suo interesse privato”.450 Se “morale” è soltanto il valore sociale, ogni altro valore “individuale” è perciò valutato come un “interesse privato”, un movente amorale. Il suicidio è dunque l‟esperienza estrema della estraneazione dal gruppo sociale, e quasi la sua fatale nemesi esistenziale. Ma, sottesa alla apparente trama psicologica, il suicidio nasconde una implicita valenza anti-politica, dal momento che il gruppo sociale antonomastico è quello appunto politico. Ed è questa la ragione profonda della necessaria secolarizzazione dei valori sociali, la quale, eliminando l‟orizzonte religioso dal campo morale, renda questo assoluto e unico referente valoriale delle azioni socializzate, privando pertanto alla volontà dei cittadini ogni connotazione morale che non fosse quella ascrittivamente definita in termini socio-politici. La società laica e secolarizzata è fondata dunque sul preventivo vuoto religioso, ideologicamente colmato dalla religione civile dello Stato nazionale. Ne deriva un‟antropologia politicistica di tipo neo-pagano fondata sulla ragion pratica. Se abbiamo lavorato a coltivare la nostra intelligenza lo si è fatto per poter svolgere il nostro ruolo sociale ed è sempre la Società che, trasmettendoci la scienza di cui è depositaria, ci fornisce gli strumenti di questo sviluppo. Proprio perché sono di origine collettiva, queste forme superiori dell‟attività umana hanno un fine di natura collettiva. Derivando dalla società, ad essa riconducono o, meglio, sono la società stessa incarnata e individualizzata in ognuno di noi.451
450 451
Loc. cit., pag. 258. Loc. cit., pag. 261.
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Si noti l‟analogia con il linguaggio vetero-religioso calato nella nuova logica secolaristica, dove è palese e consapevole la simmetria tra Chiesa e Società, tra valori incarnati e individualità socializzata. E dunque, similmente all‟aforisma teologico, extra societatem, nulla salus. Non possono, cioè, esistere azioni e comportamenti moralmente indifferenti, fuori cioè della valutazione morale della società, il moderno “occhio di Dio”, al cui giudizio tutto va rapportato e sottomesso, fino all‟identificazione della nostra volontà con la sua. Infatti, perché le attività umane superiori abbiano una ragion d‟essere ai nostri occhi, occorre che l‟oggetto cui mirano non ci sia indifferente. E noi possiamo tenere alle une solo nella misura che teniamo all‟altra, cioè alla società. Viceversa, più ci sentiamo distaccati da questa, più ci allontaniamo dalla vita di cui essa è ad un tempo fonte e scopo. Perché mai esisterebbero queste regole morali, questi precetti di diritto che ci costringono ad ogni genere di sacrifici, questi dogmi che ci disturbano se non ci fosse al di fuori di noi qualche essere cui servono e col quale ci sentiamo solidali?
La società viene divinizzata e diventa un corpo mistico istituzionalizzato, la realtà profana sacralizzata per mezzo della trasformazione dell‟intelligenza umana, guidata dalla scienza, la nuova religione. Perché la scienza stessa? Se non avesse altra utilità che quella di accrescere le nostre probabilità di sopravvivenza, non meriterebbe la fatica che ci costa. Gli animali ci dimostrano che l‟istinto assolve meglio a questa funzione. Che bisogno c‟era di sostituirgli una riflessione così esitante e soggetta all‟errore?
La declinazione pragmatistica del sapere umano è coerente col fine eudemonistico della società, il luogo della moderna e laica beatitudine, la nuova comunità di ragione alla quale vanno dedicati con abnegazione gli sforzi e i sacrifici umani, che in essa, nella sua conservazione, acquistano senso razionale e valore morale. Ma poi perché soprattutto la sofferenza? Male positivo per l‟individuo, qualora il valore delle cose dovesse valutarsi soltanto in rapporto a lui, essa sarebbe senza compenso e incomprensibile.[…] Anche nel dolore, [gli uomini fedeli al gruppo] vedono soltanto il mezzo di servire alla gloria del gruppo cui appartengono e gliene
373
fanno omaggio.452
L‟individuo razionale, la persona morale, il soggetto coscienziale della tradizione teologica cristiana, principio metafisico e fine della sua identità religiosa, non esiste più, sostituito dall‟elemento sociale, inghiottito dal Leviatano moderno, signore terribile ed esigente non meno del Dio biblico della tradizione ebraica. E difatti la società, come nazione politica, è la versione secolarizzata della nazione religiosa della tradizione israelita. Se l‟uomo, come si suol dire, è doppio, è segno che all‟uomo fisico si sovrappone l‟uomo sociale e che quest‟ultimo presuppone necessariamente una società da esprimere e da servire. Basta che essa si disgreghi, che non si faccia più sentire viva e attiva attorno e sopra di noi perché quanto vi è in noi di sociale si trovi sprovvisto di fondamento obiettivo […]. Ciò nonostante quest‟uomo sociale è tutto l‟uomo civile, è lui il prezzo della vita.453
La figura teandrica dello homo religiosus viene soppiantata da quella tutta mondana del moderno homo faber, le cui “nature”, individuale e sociale, seguono deontologicamente un ordine gerarchico ribaltato rispetto a quello religioso tradizionale e tutto interno alla sfera del mondo-della-vita. La società secolarizzata è la realtà del mondo risultato dalla dissociazione del pensiero razionale dal suo fondamento teologico. Questo fondamento, sostituito con i valori profani della città, con la morale politica, viene del tutto rimosso in interiore homine come affare privato, mancante di rilevanza pubblica, cioè di riconoscimento sociale. E‟ questa prospettiva ateistica e neo-pagana a costituire il modello teorico dei totalitarismi del sec. XX, e che sia stato un sociologo ebreo ad elaborarla è una circostanza che evoca il divino contrappasso a una blasfema idolatria mondana. Durkheim, una volta circoscritto l‟ambito socio-antropologico alla realtà mondana, stabilisce un criterio di equilibrio morale tra gli opposti eccessi dell‟individualismo e dell‟integrazione sociale, in base al quale “se una eccessiva individualizzazione porta al suicidio, anche una scarsa individualizzazione produce gli stessi effetti”, per cui la legge che “l‟uomo avulso dalla società si uccide facilmente quanto 452 453
Ibidem. Loc. cit., pag. 262.
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quello che vi è troppo integrato”. [Loc. cit., pag. 266.] Ma l‟ingenua simmetria in realtà cerca di nascondere le conseguenze estreme della stessa teoria sociologica olistica, la quale tradisce malamente il suo carattere ideologico che assegna il primato morale alla società ma vuole evitarne di giustificarne le estreme conseguenze, dettate dalla stessa moralizzazione della vita totalmente socializzata, per una sorta di pudore democratico anti-eroico. Eppure, i casi arcaici di suicidio eroico evocati nel testo, sono tutti espressivi di una genuina mentalità olistica, propria delle civiltà pre-cristiane, la cui comprensione culturale è interdetta al sociologo positivista che crede nella propria superiorità intellettuale a cagione della sua fede razionalistica che ha stabilito il definitivo “passaggio” della dimensione sacra in quella profana, e per il cui immanentismo non riesce a comprendere che la fedeltà dei coniugi o dei famoli al loro coniuge o signore è solo apparentemente una assurda “usanza barbara”,454 mentre invece è da intendere come la volontà di rimanere legati alla vita del gruppo cui si appartiene anche nell‟altro mondo, della vita eterna libera dagli affanni della finitudine mondana, ripercorrendo perciò, attraverso la procurata morte, il “passaggio” opposto a quello che li aveva condotti nella vita profana, quella che appunto ha un inizio e una fine. Per chi, come Durkheim, il suicidio è un neutro evento fattuale, destinato dalla sua insussumibilità nella cornice della asserita razionalità sociale a essere giudicato irrazionale, anziché razionale secondo il suo valore. Anche quando sembra cogliere l‟istanza conservativa del gruppo sociale, egli ne trae la conclusione che “perché la società possa costringere in tal modo certi suoi membri a uccidersi bisogna che la personalità individuale conti ben poco”,455 come se il valore della persona, sul quale solo è possibile fondare un “diritto alla vita”, non fosse un portato della morale che si opponeva all‟assolutismo sociale, proprio invece delle culture olistiche, il cui modello ideale il sociologo andava patrocinando nel suo tempo (post) cristiano. E dopo averci parlato dell‟ “omaggio” sacrificale delle ragioni individuali a quelle
454 455
Loc. cit., pag. 268. Loc. cit., pag. 269.
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sociali,456 Durkheim parla di “imposizione” e di “costrizione” della società sui loro membri, non sospettando che questo suo sommario giudizio è antistorico e del tutto anacronistico, ma soprattutto tradisce l‟astrattezza del suo concetto di società come ente sociologico avulso dalla stessa realtà comunitaria empiricamente costituita. Di contro, nelle culture arcaiche dominate dal principio comunitario, la società non era un prodotto artificiale da costituire sulla base di un progetto ideologico, ma una realtà concreta, quella appunto del gruppo identitario di appartenenza, al di fuori del quale essi non sarebbero stati uomini spirituali. Proprio perché la realtà di gruppo costituiva una dimensione religiosamente fondata, il vissuto idealmente ed esistenzialmente significativo per ogni membro era quello sociale, non quello personale, di cui non avevano contezza teorica. Il senso della vita era un senso sociale, non perché collettivo – come vorrebbe Durkheim -, ma perché identitario di una comune matrice religiosa, la quale contrassegnava il particolare “rito di passaggio” dal sacro al profano praticato dal gruppo. In siffatte culture sociali, i vincolo che “tiene [l‟uomo] troppo strettamente in sua dipendenza […], in cui l‟io non si appartiene ma si confonde con cosa diversa da sé e dove il polo della condotta vene a trovarsi al di fuori, cioè in un gruppo di cui l‟individuo è parte”,457 non è di uno stato “altruistico”, intendendo per esso lo stato opposto a quello “egoistico”, che è “lo stato in cui si trova l‟io che vive la sua vita personale e obbedisce solo a se stesso”,458 poiché l‟uno e l‟altro stato sono condizioni considerate astratte dal rapporto sociale, e perciò patologiche. Si tratta invece di un vincolo morale, religiosamente sentito come quello che attribuisce valore sacro alla vita umana, che in esso si può sublimare e distinguere da una dimensione meramente profana e biologica, naturalistica e non autenticamente umana. Il vincolo religioso è dunque il segno dell‟appartenenza della condizione umana alla dimensione sacra, l‟unica che attribuisce un senso razionale alla vita. Umanità, sacralità e razionalità sono sinonimi che indicano le qualità precipue della vita umana. 456
Loc. cit., pag. 261. Loc. cit., pagg. 270-271. 458 Loc. cit., pag. 270. 457
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Lo stupore, non certo etiologicamente disincantato, con cui Durkheim commenta i casi di facile suicido presso le “società inferiori” extraeuropee, finge di non intendere il carattere fortemente animistico delle culture religiose arcaiche, le quali, diversamente da quelle secolarizzate moderne, consideravano la vita sacra (immortale e spirituale post mortem) più importante di quella profana destinata a finire e carica di sofferenze legate a quella finitezza esistenziale, per cui l‟idea di raggiungerla, e quindi di morire in questa vita terrena, non costituiva un pensiero così tremendo come appare a una mentalità segnata da una morale utilitaristica e da una logica edonistica, che privilegiano il fare all‟essere, l‟attività trasformatrice a quella informatrice, e per le quali la morte coincide con la fine della vita, cioè col niente, e non già con l‟estremo atto di purificazione dalle scorie della profana finitezza. La cultura del fare deve soddisfare le sue istanze creatrici attraverso le opere mondane, le quali testimoniano oggettivamente, ossia agli altri, lo stato di grazia del faber. Sono le opere sensibili a costituire quel “vincolo” morale con la società che nel contesto comunitario arcaico si manifesta attraverso il rito mistico identitario. In questo contesto, gli altri non esistono come entità separata dall‟Io, e poiché in esso la dimensione sacra incombe in quella profana senza risolversi, al gruppo comunitario appartengono propriamente anche i defunti, e non solo i vivi, i quali perciò non si curano troppo di lasciare questa dimensione per l‟altra, anch‟essa comune. Da qui la scarsa rilevanza psicologica della morte nelle culture religiose arcaiche, che invece è scandalosa nelle culture secolarizzate moderne, anche quando non provocata volontariamente. Ovviamente per la mentalità positivistica e pragmatica del borghese razionalista e benpensante, il suicidio d‟onore ha la stessa incomprensibilità di una vita ascetica dedicata al mistero dell‟Essere, che egli crede di aver definitivamente risolto pensando l‟Essere nella esclusiva dimensione sensibile della sua empirica fatticità, ossia scientificamente, a esclusione di ogni altro sapere, sapienziale o religioso. Ed è noto che per la scienza il sapere coincide con la relazione causale dei fatti, non col significato del loro processo fenomenologico. E poiché la conoscenza per causas si restringe al principio di imputabilità degli eventi al loro autore, ecco 377
che la figura originaria a cui va riportata ogni causazione particolare è quella della Società, attributaria di ogni effetto sociale. Durkheim ribalta la questione morale delle società arcaiche, che lui chiama “inferiori”, asserendo che essa “si può reggere soltanto quando gli individui non hanno interessi propri, ed è giocoforza che essi siano allenati alla rinuncia e all‟abnegazione totale”.459 In realtà, la cultura degli “interessi propri” nasce a seguito dell‟allentamento dei vincoli sociali originarii, ossia attraverso l‟affermazione pubblica di quei legami, anche naturali, che in tempi pregressi non avevano valore sociale riconosciuto. Ma non è certo causale l‟intreccio tra totalità sociale e causazione unica, e, di converso, tra molteplicità di interessi socialmente riconosciuti e pluralismo dei valori. Infatti, il riconoscimento del valore pubblico di originari “interessi privati”, comporta l‟acquisizione del relativo valore come valore di rilevanza comune, se non proprio comune a tutta la società. L‟origine del pluralismo dei valori è di natura socio-politica, relativa cioè alla possibilità che istanze di valore particolari siano riconosciute da tutta la società, divenendo “pubbliche”. E proprio nell‟adozione di valori già privati nella considerazione valoriale pubblica, consiste l‟attività di riconoscimento sociale propria del politico, la cui distinzione tra amico e nemico è, sul piano dei rapporti di forza sociali, ciò che è la distinzione tra sacro e profano sul piano dei valori. Ossia è l‟atto del giudizio razionale. Che questo giudizio possa rappresentare l‟uno il riflesso dell‟altro, tale che al giudizio di valore religioso corrisponda il giudizio di valore politico, costituisce il carattere proprio della “società chiusa”, quella cioè in cui all‟unità di valore corrisponda l‟unità politica, conseguite per mezzo della esclusione dell’altro, cioè del negativo, dal campo dell‟essere (metafisico o, rispettivamente, sociale). Questa esclusione presuppone che l‟essere (che vale e che dunque è amico) sia solamente ciò che viene stabilito che sia, a seguito appunto di un giudizio cui corrisponde una decisione politica. Il monismo sociologico è dunque il riflesso empirico del monismo culturale, legato come si è detto a un giudizio di esclusività dell‟altroda-sé, del diverso, e con esso del molteplice. Il gruppo sociale, costituendosi in unità religiosa e politica, afferma il suo essere come 459
Ivi, pag. 272.
378
l‟Essere stesso, sulla base di un rapporto mistico ritenuto privilegiato col proprio valore assoluto, quello caratterizzante il clan totemico. L‟unità sociale è una unità sia religiosa che politica. E, assunto che l‟essere sociale sia l‟Essere, il valore sacro in cui il gruppo sociale si riconosce, gli altri esseri sono profani e conseguentemente nemici, perché la loro diversità attenta all‟unità sacra del gruppo sociale elettivo, quello cioè proprio. La distinzione religiosa diventa politica nel campo sociale, perché questo costituisce la realtà identitaria del gruppo. Le realtà altre, che il giudizio politico-religioso aveva escluso dal valore affermato come unico, cioè le realtà profane e nemiche, sono quelle che hanno una propria identità, però diversa da quella riconosciuta come l‟unica valevole per il gruppo di riferimento. Una diversità di valori non riconosciuta come appartenente all‟Essere proprio, e che quindi viene giudicata come un non-essere, ossia un valore negativo. Tale valore negativo, rispetto all‟Essere prescelto come sacro, è, idealmente, il Molteplice, ossia ogni diversità che non rientri nell‟unità sacra propria, del proprio gruppo. Ne consegue che la possibilità che vengano riconosciuti dal gruppo sociale i diversi e particolari “interessi propri”, dipende strettamente dalla perdita di valore sociale del criterio di sacralità del valore unico, cioè dalla ridefinizione della socialità in termini di pluralismo dei valori, gli unici che possano garantire una convivenza pacifica tra gruppi moralmente diversi. Questa garanzia, è politica sul piano dei rapporti sociali, ma primieramente è religiosa, attinente cioè alla sfera dei rapporti metafisici, dove si giudica del sacro e del profano. Senza la legittimazione di questo giudizio, viene a mancare il senso religioso della vita di gruppo, ossia la stessa unità di senso sociale. Senso religioso e senso sociale sono il medesimo, e indicano il criterio di appartenenza del Molteplice all‟Uno sacro. In altri termini, il criterio di socialità, religioso e insieme politico, del gruppo è essenzialmente un criterio ermeneutico, legato alla definizione-scelta dell‟Essere e del non-essere delle cose. Ed è in questa attività che consiste il potere, cioè il governo della società. Chi ha questo potere di giudizio, “decide”. 379
Entro il gruppo di cultura arcaica, il momento dell‟unità mistica e quello della socialità coincidono, per cui qualunque atto o situazione che everga da quella unità ideale, costituisce agli occhi del gruppo una infrazione alle regole dell‟esserci, in base alle quali ogni membro è nel gruppo. L‟essere nel gruppo coincide dunque con l‟esserci di ogni membro, con la propria identità d‟uomo, per cui l‟infrazione sociale, alle regole per cui si è nel gruppo, coincide con il porsi in una condizione di non-essere. Ed è questa condizione che bisogna intendere quando si parla della “morte”, rispetto alla quale il suicidio d‟onore è un succedaneo fisico. Non ci si procura la morte volontaria se non si è già morti socialmente, ossia religiosamente, per cui giudicare il suicidio arcaico coi parametri religiosi e valoriali delle società moderne, secolarizzate e pluralistiche, è un assoluto nonsenso, perpetrabile solo a seguito della ben nota scarsa qualità teoretica dei costrutti positivistici. Dukheim, nondimeno, è consapevole che “le società cristiane lascino all‟individuo un posto ben più grande che non le società anteriori”,460 ed è altrettanto ben consapevole che “i sistemi metafisici e religiosi, come logico quadro elle pratiche morali, finiscono di dimostrare che quella ne è la vera origine e il vero significato”,461 ma la sua tesi rimane quella per cui non sono le idee astratte a condurre gli uomini: la storia non si spiegherebbe col semplice gioco dei concetti metafisici. Tra i popoli come tra gli individui, le rappresentazioni hanno il precipuo scopo di esprimere una realtà che non creano, ma da cui derivano. E se talvolta, in un secondo tempo, possono modificarla, lo possono solo in maniera limitata. Le concezioni religiose non producono l‟ambiente sociale ma ne sono prodotte e se una volta costituite, esse reagiscono alle cause che le hanno generate, la reazione non può essere molto profonda. […] Gli uomini, infatti, possono rappresentarsi il mondo unicamente a immagine del piccolo mondo sociale in cui vivono.462
Egli chiama “astratte” le idee perché trascendono la realtà sociale, ma nel contempo definisce reale la “società” che quelle idee crea. Queste definizioni presumono che “la realtà” sia un prodotto derivato, cioè 460
Loc. cit., pag. 275. Ivi, pag. 276. 462 Ibidem. 461
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un‟opera del lavoro umano, mentre invece “le rappresentazioni [ideali]” siano proiezioni immaginifiche di quanto non sia opera dell‟uomo e perciò è all‟origine della loro stessa creazione: la causa prima. In tal senso, la società è la fonte di ogni creazione umana, l‟origine di ogni prodotto della storia. E per questa ragione, la società “è” la realtà originaria dell‟uomo, la fonte increata produttrice di ogni opera umana. Un‟ipostasi che assume il ruolo che aveva la divinità. “La società”, afferma Durkheim, “non è soltanto una cosa che attrae a sé con ineguale intensità i sentimenti e l‟attività degli individui, ma è anche un potere che li regola”,463 per cui, “ogni rottura di equilibrio anche generatrice di grande agiatezza e di un rialzo della vitalità generale, spinge alla morte volontaria”.464 Vi è, afferma il sociologo, un equilibrio necessario tra mezzi e bisogni umani, la cui relazione, a seconda delle proporzioni, genera felicità ovvero dolore. Ora, un movimento che non possa verificarsi senza dolore tende a non verificarsi, e le tendenze che non si soddisfano si atrofizzano. La tendenza a vivere, come risultato di tutte le altre, non può non indebolirsi quando le altre si affievoliscono. Nell‟animale […] quest‟equilibrio si stabilisce con una spontaneità automatica perché dipende da condizioni puramente materiali. […] Non è così per l‟uomo, perché la maggior parte dei suoi bisogni non sono dipendenti dal corpo, o non lo sono nello stesso grado. 465
La differenza tra “istinto” animale e “riflessione” umana è la stessa che tra desideri determinati e illimitati. Il funzionamento della vita individuale non esige che si fermino in un punto piuttosto che in un altro, e lo dimostra il fatto che non hanno cessato di svilupparsi dall‟inizio della storia. […] Non v‟è società in cui siano ugualmente soddisfatti nei vari gradi della gerarchia sociale. Benché nei suoi tratti essenziali, sia sensibilmente la stessa in tutti i cittadini, non è la natura umana ad assegnare ai bisogni quel limite variabile che sarebbe necessario. Essi sono dunque illimitati in quanto dipendono dall‟individuo solo. Di per sé, fatta astrazione da ogni potere estrinseco che la regoli, la nostra sensibilità è un abisso senza fondo che nulla può colmare. 466
463
Loc. cit., pag. 293. Ivi, pag. 299. 465 Ivi, pag. 300. 466 Ivi, pag. 301. 464
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Per “saziare” questi “desideri illimitati [che] sono per definizione insaziabili”, occorre che “si limitino le passioni”. Infatti, soltanto limitandole esse potranno armonizzarsi con le facoltà e, quindi, essere soddisfatte. Nulla essendoci nell‟individuo che possa fissar loro un limite, esso dovrà venirgli necessariamente da qualche forza estrinseca, perché è indispensabile che una potenza regolatrice abbia sui bisogni morali la funzione che l‟organismo svolge su quelli fisici. Occorre cioè una potenza morale. 467
abbiamo qui una ribaltamento della teoria kantiana della morale come legge autonoma. Infatti, è l‟eteronomia il carattere proprio della forza morale, la quale si definisce per il fatto che provenga fuori dell‟uomo, ritenuto costitutivamente incapace di porre un limite ai suoi desideri. E da qui il concetto di “autorità” come potere esterno che limita gli impulsi umani, altrimenti incontrollabili. Inutile dire, questa autorità morale è la società. Soltanto la società, sia direttamente e nel suo insieme, sia mediante uno dei suoi organi è capace di svolgere questa funzione moderatrice, soltanto essa è quel potere morale superiore di cui l‟individuo accetta l‟autorità. Soltanto essa ha l‟autorità necessaria a conferire il diritto e a segnare alle passioni il limite oltre i quale non devono andare. E soltanto essa può valutare quale prospettiva di premio vada offerta ad ogni ordine di funzioni per il maggior interesse comune. Infatti, in ogni momento della storia, si ha nella coscienza morale delle società un oscuro senso di ciò che valgono rispettivamente i vari servizi sociali […].468
Una “regolamentazione” morale, dunque, che non ha “sempre forma giuridica”, ma che pur tuttavia presiede a stabilire i princìpi sociali di equità e di adeguatezza necessari a costituire per ognuno il suo legittimo alveo sociale, acché “possa rendersi conto del punto estremo cui possano giungere le aspirazioni” quindi a “non aspirare a nulla che lo oltrepassi”, e, divenendo “rispettoso della regola e docile all‟autorità collettiva”, l‟uomo socializzato interiorizza “una sana costituzione morale [e] sente che è bene non esigere di più, segnando così un termine e uno scopo alle passioni”.469 467
Ivi, pag. 302. Ivi, pag. 303. 469 Ivi, pag. 304. 468
382
A parte ogni considerazione sulla nebulosità del concetto di “coscienza morale” e “autorità collettiva”, che diventa un “oscuro senso” dispensatore di equità non meglio precisato, l‟elemento più significativo di questa teoria della morale come regolamentazione sociale è costituito dal riferimento, sotterraneo, che Durkheim fa al contemporaneo homme-massé della società industrializzata, il quale, sradicato da ogni vincolo tradizionale, necessita di un nuovo argine collettivo, variabile per modo e circostanza, ma comunque indispensabile alla sua integrazione sociale. L‟uomo sociale di Durkheim è una figura fisiologicamente instabile, e quindi moralmente indefinita, per la quale il senso della vita non può darsi attraverso una ricerca autonoma, sul fondamento della individuale coscienza morale, ma solamente grazie all‟intervento imperativo di una forza esterna, collettiva, e perciò “morale”. La moralità, dunque, viene confermata essere la qualità della pubblicità, della legislazione collettiva, della conformità di massa. E così la figura dell‟uomo morale rappresenta l‟individuo socializzato, il neutro conformista ossequioso dell‟ordine costituito, che consideri la “disciplina” cui è soggetto come “giusta”. Ma non è questa la morale da caserma che Durkheim stesso aveva definito qualche pagina prima, a proposito dell‟ “altruismo” militaresco, “una sopravvivenza della morale primitiva”?470 Ma egli intende altro. Se infatti questa disciplina sociale dovesse mantenersi unicamente per abitudine e per forza, la pace e l‟armonia regnerebbero solo in apparenza, lo spirito d‟inquietudine e lo scontento sarebbero latenti, e gli appetiti, trattenuti solo superficialmente, non tarderebbero a scatenarsi. […] Normalmente, l‟ordine collettivo è riconosciuto equo dalla maggior parte dei sudditi. Quando diciamo, perciò, che è necessaria una autorità che lo imponga ai singoli, non intendiamo affatto che l‟unico mezzo di stabilirla sua la violenza. Proprio perché questa regolamentazione destinata a contenere le passioni individuali, è d‟uopo che emani da un potere che domini, sì, l‟individuo, ma che sia obbedito per rispetto e non per paura. […] E‟ caratteristica dell‟uomo essere soggetto a un freno non fisico, ma morale, cioè sociale. Egli non riceve la sua legge da un ambiente materiale che s‟impone brutalmente, ma da una coscienza superiore alla sua e di cui sent la
470
Ivi, pag. 290.
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superiorità. Proprio perché la maggiore e migliore parte della sua vita trascende il corpo, egli sfugge al giogo del corpo per subire quello della società. 471
In altri termini, la coscienza collettiva, storicamente distrutta dalle riforme religiose e politiche della società tradizionale, necessita di una ricostruzione al fine di ricostituire l‟unità perduta della società, cioè la stessa civiltà. Quella prospettata da Durkheim è appunto la morale dell‟età della ricostruzione civile subentrata a quella rivoluzionaria, che provoca il “suicidio” dell‟uomo civile, sicché “quando la società è scossa, sia per una crisi dolorosa sia per improvvise,sebbene felici, trasformazioni, essa è provvisoriamente incapace di esercitare questa azione” di regolamentazione morale, di autorità collettiva, determinando “repentine ascese della curva dei suicidi”. [Ivi, pag. 307.] L‟ordine sociale, in quanto ordinamento morale, è costrittivamente benefico nella misura in cui la sua costrizione non è imputabile a un gratuito arbitrio derivato da una mera volontà di potenza, ma bensì a una imprescindibile necessità di garantire la esistenza della società stessa, identificando l‟ordine morale con l‟ordine politico. L‟intellighentzja razionalista, volendo soppiantare l‟autorità religiosa con il prestigio sociale della cultura, ha finito per sostituire il pensiero con la politica, aprendo, dopo quindici secoli di cultura cristiana, la questione della legittimità morale del potere e delegando la politica alla sua soluzione., facendo dell‟unità sociale, anziché il riflesso dell‟unità trascendentale, il riflesso dell‟unità politica. Per Durkheim la società, quale performatrice della coscienza morale, agisce su tabulae rasae. In realtà i modelli sociali non sono solo quelli stabiliti dal potere pubblico, ma soprattutto quelli sedimentatisi nei secoli tradizionalmente. La “generale inquietudine delle società contemporanee” origina proprio dalla sovrapposizione del reticolo normativo-istituzionale ai rapporti tradizionali di tipo religioso e simpatetico.472 Quelli che Simmel chiamava “ i due livelli 471
Ivi, pag. 306. La più grande opera di sradicamento delle radici culturali e sociali dello homo religiosus è stata realizzata dalle rivoluzioni industriali, le quali, più della politica e della cultura critica, hanno distrutto gli equilibri storici sui quali si basava la civiltà cristiana. L‟opera di ricostruzione morale operata dalle ideologie politiche aveva nel disfacimento culturale perpetrato dall‟industrialismo le sue premesse sociologiche. 472
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dell‟anima”, quello più profondo, portatore del senso reale della vita, e quello più superficiale, esposto alla contingenza degli impulsi occasionali, anche in Durkheim si contendono la supremazia spirituale della personalità umana, ma secondo una prospettiva che, come in Freud, che assegna il primato all‟anima irrazionale, che può essere socializzata, ossia condotta a un comportamento ragionevole, soltanto a seguito di una superiore autorità che esercita una legittima coazione, insieme giuridica e pedagogica, ossia di natura politica e morale. In realtà, storicamente è con lo Stato legislatore, che Durkheim stabilisce a presidio della socialità - che inizia il processo di disintegrazione della società tradizionale. Lo stesso Stato, che ha svolto una oggettiva funzione rivoluzionaria, viene concepito in funzione restauratrice dell‟ordine nuovo. Infranto e dissolto l‟equilibrio metafisico stabilito secondo il modello organico dell‟antropologia classico-cristiana, ogni segmento razionalmente definito secondo i parametri scientifici, costruisce la sua immagine dell‟uomo, secondo la sua particolare prospettiva gnoseologica. Disintegrato il Tutto della tradizionale coscienza ontologica sorretta dalla fede e dalla ragione, ogni elemento parziale dell‟essere cerca di definirsi secondo un modello logico ed esistenziale paradigmatico. La modernità si dispiega come processo di affrancamento delle parti dal Tutto originario, e della ridefinizione di ogni parte come Tutto. Questo tentativo era destinato al fallimento, in quanto il Tutto aveva il suo carattere proprio nella intrascendibilità e inclusività nella sua realtà di ogni parte empiricamente determinabile. Mentre le esperienze finite potevano essere conosciute nelle loro relazioni fattuali, il Tutto non poteva essere oggettivabile, e, in quanto realtà non conoscibile oggettivamente, restava trascendente ogni determinazione finita. Questo modello ontologico segnava inevitabilmente il percorso teoretico della conoscenza dell‟Essere, la quale tornava ogni volta a pensare il Tutto senza mai compiutamente definirlo, ma ogni volta cogliendo la sua realtà nelle storiche condizioni della sua attualità. Da qui la molteplicità dei sistemi filosofici, ma anche l‟infinita pluralità delle esperienze della conoscenza soggettiva di ogni umana coscienza. Rimossa la coscienza della totalità, il pensiero si concentra sui frammenti irrelati della deflagrazione ontologica, ed eliminata la fede 385
che legava il Tutto in una relazione coerente, costitutiva dello spirito religioso della conoscenza e della esistenza, l‟unica relazione tra gli enti mondani diventa di tipo oggettivo e razionalistico. Il successivo tentativo della ratio moderna è di ricostruire, su basi oggettive, cioè scientifiche, l‟unità del Tutto perduta con l‟adozione del metodo razionalistico della conoscenza, il quale si è dimostrato adatto alla conoscenza distintva, ma incongruo alla conoscenza del Tutto, che perciò rimane scientificamente inconoscibile, e perciò rimosso dallo scientismo come un falso problema. L‟unica unità totale scientificamente conoscibile è quella della natura, di cui la società è il prodotto umano più elaborato. La società, divenuta natura umanizzata, è il campo di ricerca delle scienze umane o dello Spirito, le quali, col metodo naturalistico della ragione universale, imprendono a conoscere la realtà umana. La società come moderno Tutto diventa quindi l‟orizzonte totale della scienza sociologica. Il problema capitale di fronte al quale si è trovata la sociologia del sec. XIX è stato quello di ricostituire le identità sociali dopo il processo di sgretolamento che il razionalismo e la politica rivoluzionaria avevano intrapreso delle identità sociali medievali. Questa opera di ricostruzione dei valori di socialità avveniva con lo stesso strumentario filosofico e politico che era servito a destrutturare il mondo tradizionale, per cui, nel mentre la coscienza moderna avvertiva l‟impraticabilità di una restaurazione dell‟antico regime dopo la frattura rivoluzionaria, la stessa coscienza pretendeva di ricostruire il mondo con le medesime categorie che l‟avevano distrutto. Da qui discendono le contraddizioni dialettiche del razionalismo moderno, e le ragioni per le quali l‟originario “illuminismo” liberatore si è convertito nelle tenebre dell‟oscurantismo totalitario. Se non si comprende questa eterogenesi dei fini non si comprende la realtà del nostro tempo. Ora, l‟idea che si potesse ricostruire con gli stessi strumenti usati per demolire, ha costituito la rande illusione della modernità, la vera ideologia della nostra epoca, alla quale non si è sottratto Durkheim. Anzi, la sua sociologia è, per questi versi, un modello teorico di double-face razionalistico, dove il verso che mostra l‟immagine della nuova società liberata dal mistero religioso, nasconde il retro oscuro 386
della società totalitaria. Il totalitarismo sociale è il riflesso fenomenico di una ragione negativa intesa a definire nei suoi astratti termini razionali la realtà umana, riuscendo sempre e comunque a un modello negativo, che rimanda a una positività che ontologicamente lo risolva, e di cui quella astratta ragione persiste a negarne l‟essenza, che appunto è religiosa, e non razionalistica o scientifica. La ragione, che aveva negato la necessità di contenersi nei limiti tradizionali del sapere e della vita sociale, ora s‟ingegna a dimostrare il bisogno della continenza dei “desideri” facendo l‟elogio della “moderazione” nell‟uso dei beni mondani, la cui “disciplina […] ci allena ad accettare docilmente la disciplina collettiva, mentre la ricchezza, esaltando l‟individuo, rischia sempre di risvegliare quello spirito di ribellione che è la fonte stessa della immoralità”473 Meno si possiede, meno si è portati ad allargare senza limiti la cerchia dei bisogni. L‟impotenza, costringendoci alla moderazione, ci abitua ad essa senza contare che nulla può suscitare il desiderio dove la mediocrità è generale. Invece la ricchezza coi poteri che conferisce ci dà l‟illusione di far capo esclusivamente a noi stessi e diminuendo la resistenza che le cose ci oppongono, ci induce a pensare che possono essere conquistate all‟infinito. Meno ci si sente limitati, più insopportabile ci appare ogni limitazione. Non è senza ragione che tante religioni hanno celebrato i benefici e il valore morale della povertà, che è, infatti, la migliore scuola per insegnare all‟uomo a contenersi.474
La moderazione, cioè il contenimento della volontà entro le regole stabilite, è l‟antidoto pedagogico allo “spirito di ribellione”, che ora viene visto come patologica fonte di anomia, di asocialità. Ma, cosa oltremodo significativa della mentalità razionalistica postrivoluzionaria, viene vista nella religione la modalità all‟uopo più funzionale alla sua diffusione, accreditandola non solo quale “filosofia dei poveri”, ma come collante unitario influente “sugli operai quanto sui padroni, sui poveri come sui ricchi”.475 L‟idea di fare della religione un instrumentum regni, è coerente a quella di concepirla come propedeutica mitologica alla vera scienza, secondo un‟ipotesi, condivisa sia dai razionalisti positivisti che dagli 473
Loc. cit., pagg. 308-309. Ivi, pag. 308. 475 Ivi, pag. 309. 474
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idealisti, che relegava l‟istanza della totalità, che la religione appunto esprimeva, in un ambito meramente pratico, essendo quello teoretico riservato alla vera scienza, purificata di ogni incanto superstizioso. In altri termini, il sapere oggettivo, la scienza modernamente intesa, non potendo contenere il Tutto in un pensiero determinato, lo “trasformava” in ente reale, la società, operando così quel “passaggio” metafisico del “sacro” al “profano” che costituisce il tratto caratteristico del pensiero secolaristico moderno, consentendo in tal modo che la sua persistente trascendenza rispetto ai particolari fenomeni sociali, acquistasse, con la trasformazione ontologica, una connotazione razionalmente determinabile. Con la risoluzione della teodicea in sociologia, la ragione moderna crede di realizzare col nuovo sapere scientifico, anche la più grande rivoluzione sociopolitica della storia, quella consistente nella metabasi della essenza teoretica del mondo in natura pratica, riscrivendo la formula universale della vita in termini non più religiosi e neppure filosofici, ma economici. La religione, infatti, ha perduto la maggior parte del suo imperio. Il potere governativo anziché regolatore della vita economica ne è divenuto strumento e servo. Le più opposte scuole, economisti ortodossi e socialisti estremi, sono d‟accordo nel ridurlo al ruolo di intermediario più o meno passivo delle varie funzioni sociali. Gli uni vogliono farne un mero guardiano dei contratti individuali, gli altri gli lasciano per compito la cura della contabilità collettiva […]. Ma tanto gli uni che gli altri gli negano ogni qualità a subordinarsi i rimanenti organi sociali e a farli convergere verso un fine che li domini. Da ambo le parti si dichiara che le nazioni debbono avere per unico o principale obiettivo la prosperità industriale; lo implica il dogma del materialismo economico che pure serve da base a questi sistemi apparentemente opposti.476
Con la religione ridotta a ideologia di contenimento delle spinte eversive, e la filosofia ridotta a oziosa lettura privata dell‟Essere, declassato a mito dal più consapevole sapere disincantato, la scienza moderna giunge alla sua apoteosi teoretica, che coincide però con la sua stessa definitiva dissoluzione nichilistica. Infatti il sapere teorico, da scienza normativa, è diventato “opinione”, che veicola “l‟industria”, la quale “anziché essere considerata un mezzo per 476
Ivi, pag. 310.
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arrivare a uno scopo, è diventato il fine supremo degli individui e delle società”. E‟ per questo, osserva Durkheim, che “gli aspetti da essa messi in gioco si sono affrancati da ogni autorità limitatrice”, provocando una “apoteosi del benessere”. La stessa “effervescenza” del settore economico, indotta dallo “allargamento illimitato del mercato”, si estende per emulazione “anche ai rimanenti settori” della società, provocando così “uno stato di crisi e di anomia” che è non solo “costante”, ma appare quasi “normale”.477 La fine del controllo corporativo dell‟economia è legato per Durkheim alla crisi della politica quale strumento della morale sociale, per cui, nella logica della febbrile immaginazione del possibile, “il reale appare senza valore”, e anche quando il possibile diviene una realtà, ci si distacca da esso per perenne insoddisfazione di “cose nuove”. In questo stato d‟animo di perenne instabilità, “al minimo rovescio che sopravvenga non si ha la forza di sopportarlo”. Contrariamente al “saggio che sa godere dei risultati ottenuti senza sentire continuamente il bisogno di sostituirli con altri”, l‟uomo comune “che ha atteso sempre tutto dall‟avvenire e ha vissuto con gli occhi fissi al futuro, nulla trova nel suo passato che lo conforti delle amarezze presenti”, per cui è da chiedersi “se non sia proprio questo stato morale a rendere, oggi, le catastrofi economiche così feconde di suicidi”.478 L‟attività economica, de-eticizzata, priva cioè di finalità morali, è una pulsione irrazionale che deve essere riportata a ragione, ossia alla sua funzione socializzata. “Questa stessa mancanza di organizzazione, caratteristica del nostro stato economico, apre la porta a tutte le avventure”.479 Durkheim sembra rendersi conto della ricaduta irrazionalistica della cultura della dissoluzione e cerca di arginare la deriva anti-sociale delle “coscienze sregolate”, le quali, vittime della “passione dell‟infinito […] erigono a norma la sregolatezza di cui soffrono”. Ma cosa intende Durkheim per tale “passione”, la nuova fede, che si è impadronita delle coscienze contemporanee secolarizzate, imponendosi come “un articolo di fede”? Lo scrive a un di presso: essa è la “dottrina del progresso”, la quale “seduce l‟uomo 477
Ibidem. Ivi, pag. 311. 479 Ibidem. 478
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solo con attrattive illusorie”, appunto di carattere economico, poiché “siccome l‟apogeo di questo disordine sta nel mondo economico, è lì che esso miete più vittime”.480 La dimensione economica della realtà, alla quale il mondo moderno ha ridotto l‟intera esperienza umana, mostra dunque il suo lato perverso, traducendo in malessere lo stesso benessere, che diventa apparente, denunciando con ciò l‟illusorietà di un mondo rappresentato totalisticamente nella sua realtà fenomenica, condensato nella sua esclusiva attualità. La denuncia di Durkheim coinvolge addirittura la “costituzione generale dell‟ordine economico” industriale, al quale viene preferito quello agricolo, in cui “gli antichi poteri regolatori fanno ancora sentire una certa influenza e la febbre degli affari vi è meno penetrata”, giungendo a sentenziare con cipiglio quasi profetico che “le classi inferiori hanno per lo meno l‟orizzonte limitato da quelle superiori e hanno perciò desideri più definiti. Ma coloro che non hanno nulla se non il vuoto al disopra di sé, sono quasi condannati a perdersi qualora nessuna forza valga a trattenerli”. Da qui, dunque, la legge sociologica per cui “l‟anomia è nelle società moderne un fattore regolare e specifico di suicidio, la fonte precipua cui si alimenta il contingente annuo”.481 La natura particolare del “suicidio anomico” non è legata all‟egoismo individualistico, e neppure all‟altruismo morboso, ma a un fattore legato alla stessa costituzione ideologica della società moderna, al “modo”, cioè, “con cui essa disciplina […] l‟attività degli uomini”. La maniera “sregolata” per cui “essi ne soffrono”.482 Ciò vuol dire che non ogni costituzione sociale è razionale, ma soltanto quella che ha per fine la società stessa, e non un qualche criterio particolaristico, sia pure di tipo eudemonistico. La morale sociale viene indica nello scopo dell‟interesse collettivo in quanto tale, e non nell‟interesse individuale, sia pure maggioritario, poiché senza un fine trascendente l‟individualismo anomico, regna il caos asociale. Questa impostazione olistica ci fa intendere quale sia il vero bersaglio polemico delle teorie sociali individualistiche, fautrice della logica 480
Ivi, pag. 312. Ivi, pag. 313. 482 Ibidem. 481
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sinallagmatica e catallattica, fidenti nell‟autoregolamentazione degli interessi privati e di quelli generali del mercato. Come pure ci è ormai chiaro, al di là della declinazione dei diversi tipi di anomia, qual è la testa di moro implicita del discorso di Durkheim, ossia l‟individualismo asociale, che attribuisce preminenza morale alle ragioni singolari anziché generali.483 Le opposte prospettive sociologiche, delineano delle rispettive visioni della struttura sociale che sono le diverse ipotesi di ridefinizione dei loro assetti istituzionali. Infatti, la visione olistica, supponendo la priorità dell‟insieme su quella di ogni sua parte, include questa in un ordine gerarchico ascendente che rende funzionale ogni singola espressione particolare al tutto sociale, inteso come il valore fondamentale di riferimento, la Grundnorm della struttura normativa kelseniana. Ma, rispetto alla asettica neutralità del sistema legale formale, il sistema sociale durkheimiano è informato a un principio, che non è solo fondamentale in senso deontologico, ma generale di tipo teleologico, indicativo cioè di una finalità ideologica sottostante a ogni singola manifestazione sociale di rilievo pubblico. Perciò Durkheim l‟ha indicata come valore “morale”, nel senso esattamente speculare al valore religioso delle società pre-moderne. Si comprende bene a questo punto come, nella prospettiva di Durkheim, la secolarizzazione dei valori in chiave razionalistica non coincide con la nietzscheiana “morte di Dio”, ma con quella particolare “transvalutazione” dei valori religiosi tradizionali in valori razionali, unitivi del genere umano non già in quanto popolo religioso, ma in quanto popolo nazionale, cioè gruppo politico. E‟ su questa traccia che si svilupperà il nazionalismo emancipato da ogni finalità 483
Questo individualismo “anomico” non è necessariamente “egoistico”, anche se “ambo i tipi soffrono del cosiddetto male dell‟infinito”. Infatti, specifica Durkheim, nel caso dell‟egoismo, “è colpita l‟intelligenza riflessiva che si ipertrofizza senza misura”, mentre nel caso anomico “si sovreccita e sregola la sensibilità. Nell‟uno il pensiero, a forza di ripiegarsi su se stesso, non ha più oggetto; nell‟altro, la passione, rifiutando ogni limite, non ha più scopo. Il primo si perde nell‟infinito del sogno; il secondo nell‟infinito del desiderio”: Id., Loc. cit., pag. 345. Ma sono distinzioni empiriche, psicologiche, che non alterano il senso sostanziale del discorso in difesa della morale sociale, che la logica individualistica, nelle sue varie forme, compromette radicalmente.
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idealistica e dell‟universalismo morale illuministico, e concentrato sul solo aspetto volontaristico e statalistico. 7. L‟idea di società propugnata da Durkheim, tendendo ad assorbire l‟individualità nella collettività e le ragioni private nelle ragioni pubbliche, rappresenta un modello antagonistico a quello carismatico in senso weberiano, speculare, cioè, a quello dove preminente è la vita civile su quella politica, l‟aspetto dinamico su quello strutturale. Allorquando si afferma una “natura della società”, per cui “il tasso sociale dei suicidi si spiega soltanto sociologicamente” a seguito della “costituzione morale della società” intesa come “forza” o “tendenza collettiva […] da cui derivano le tendenze individuali e non essa da queste”, [Loc. cit., pag. 359.] si vuole rappresentare, sia pure in termini semplificati e deterministici, una teoria che ha una sua logica interna, dettata dal grado e qualità di compatibilità dei valori della società con le diverse prospettive “private” dei suoi membri. Rispetto alla critica verso il sociologismo de-responsabilizzante le coscienze personali, la teoria sociologica del suicidio presenta la sua forza razionale nella presupposta umanizzazione delle responsabilità collettive, un tempo attribuite alla Provvidenza. Se infatti le cause sociali sono umane, esse hanno una rilevanza razionalmente determinabile. La determinazione delle cause sociali di un fenomeno, la sua imputabilità, equivale alla sua attribuzione a fattori umani. Ed è la società il soggetto collettivo imputabile di una causa umana. Il limite di questa teoria, semmai, è il suo determinismo, ossia la considerazione del soggetto collettivo come ente personale, ma privo della libertà di determinazione propria della persona morale, che sceglie e decide per un‟azione. L‟assenza di scelta, fa della persona sociale come “coscienza collettiva” un ente naturale, anziché umano, e quindi fondamentalmente a-morale. Ciò vuol dire che la società stabilisce dei termini impersonali, oggettivi, di appartenenza al suo essere collettivo, tali da non lasciare ai suoi membri altra possibilità che quella di riconoscervisi e aderirvi, ovvero di non farlo e uscire dal gruppo. In questa logica ottativa, non viene considerato il caso della volontà priva di possibilità di adesione. Ora, il suicidio è proprio il caso in cui 392
alla volontà di adesione al gruppo sociale non corrisponde la possibilità di farlo. Coso molto diverso dalla volontaria astensione dalla condivisione dei valori comuni. Per cui si suicida chi è rifiutato dalla società, pur volendo egli aderirvi. Chi non tollera l‟onta del rifiuto sociale, del discredito pubblico, si estranea volontariamente. Rientra nel suicidio d‟onore, nato dal contrasto tra la morale privata (l‟onore, appunto) e quella pubblica. Ciò vuol dire che la struttura societaria a cui pensa Durkheim non contempla l‟esistenza di morali private, ma di un privato a-morale e di una morale esclusivamente pubblica. Ma questo presupposto sta inoltre alla base del concetto di “tipo medio”, quale ideal-tipo dell‟uomo-massa prodotto dalla impersonale “società”, nata a sua volta dallo Stato legislatore. Vi è in ogni società un determinato tipo che la generalità degli individui riproduce più o meno esattamente e da cui tende ad allontanarsi soltanto una minoranza, influenzata da cause perturbatrici. D‟altra parte, pur non essendo assolutamente immutabile, quel tipo generale varia con molta più lentezza del tipo individuale, poiché è assai più difficile un mutamento in massa per una società che non per uno o più individui singoli. […] L‟invariabilità è la regola, il mutamento l‟eccezione.484
Il “tipo generale”, è quello a cui Quételet diede il nome di “tipo medio”, prodotto della società legalizzata e non di tradizioni locali condivise, nate dal rapporto creativo-emulativo tra classi dirigenti (aristocrazie) e masse dirette (popoli). Nelle società legalizzate, al rapporto personale viene sostituito un rapporto impersonale, necessariamente “oggettivo” e “universale”, rapportabile a un soggetto responsabile di tutti i varii fenomeni sociali. Lo Stato accentratore post-rivoluzionario non si assegna la sola esclusività degli affari generali,cioè il monopolio politico, come avveniva nell‟assolutismo dell‟antico regime. Infatti il nuovo regime, dovendo ricostituire la stessa unità sociale distrutta dalla Rivoluzione, è potatore di una nuova socialità, di un nuovo collante sociale, alternativo all‟antico, per cui il suo monopolio non è solo “politico” ma anche socio-culturale, ossia “morale”: da qui il carattere religioso della sua tendenza totalizzante. Ed è questa la ragione per la quale i suoi princìpi
484
Ivi, pagg. 360-361.
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ideologici entrano in conflitto con la socialità originaria che sottostava tradizionalmente a ogni diversità locale, quella religiosa. Lo Stato legislatore è per essenza uno Stato etico totalizzante, e tanto più totalitario quanto più usurpatore dei valori tradizionali di socialità, assumendo in proprio il compito di dettare le “ragioni” della convivenza, che da intuizioni della vita condivise diventano princìpi razionali. E‟ chiaro che alla base di questa pretesa c‟è un modello antropologico di uomo socializzato, imposto al gruppo di appartenenza, alla “nazione”. Dal punto di vista sociologico, il “tipo medio” può esistere solo eliminando il pluralismo delle società locali dei gruppi storici, cioè dei ceti tradizionali e delle relative aristocrazie locali. Queste minoranze non massificate sono state sempre il modello tipologico tendenziale delle società tradizionali, e che nel nuovo Stato sono state di principio criminalizzate a seguito della loro non-conformità o eccentricità, a partire dalla loro condizione di ceti abbienti che vivevano di rendita e non di lavoro produttivo, destinato ai ceti servili. Alla loro conversione “culturale”, richiesta dall‟intellettualità illuminista a partire da Rousseau, fece seguito la richiesta politica di una loro conversione sociale attraverso l‟inserimento nei processi produttivi, pena la loro estinzione. Ora, proprio il tipo aristocratico, fortemente radicato nel suo ambiente tradizionale, costituiva il modello storico del potere nella società naturale, la “comunità” non burocratizzata e legalizzata, diretta da figure carismatiche munite di una autorevolezza non istituzionale, fondata su una propria legittimità, di status ma non statale, e su una morale che Bergson chiama “umana” perché costituita dalla “imitazione di un modello”.485 Rispetto alla nuova classe dirigente politicizzata, le antiche aristocrazie non erano il prodotto delle leggi dello Stato, ma erano le produttrici delle regole sociali, le quali perciò potevano cambiare indipendentemente dai rapporti sociali fondamentali. Invece, nel nuovo regime, essendo le élites di elezione politica, sono il prodotto della legislazione, anziché la loro fonte, come vorrebbe l‟ideologia parlamentare, per cui, così come l‟omogeneità della cittadinanza è la condizione dell‟uniformità legislativa statuale, anche l‟uguaglianza sociale è la condizione della 485
Ved. C. Marco, L’ordine pigro, vol. II, pagg. 856 sgg.
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coincidenza politica tra corpo legislativo e corpo elettivo. Solo il principio egalitario poteva infatti legittimare razionalmente il sofisma della sovranità del popolo, la cui “volontà generale” è il modello della “coscienza collettiva” di Durkheim. Il rapporto sociale, se nell‟antico regime, era di tipo morale, fondato sul carisma religioso che vedeva in Gesù il suo modello personale, nel nuovo regime è di tipo giuridico, impersonale, per cui ora è la struttura guridico-politica il fondamento della nuova socialità, e non il rapporto morale extra-giuridico e impolitico, sicché la morale stessa viene ad essere compresa nella struttura giuridica come criterio di appartenenza politica, e non propriamente morale. Divenendo orale il rapporto politico, il fine sociale non è più morale ma appunto politico, e lo Stato diventa fine a se stesso, indipendente dal fine morale. L‟autarchia politica, divenuta ragion di Stato e morale pubblica, senza più alcuna mediazione autorevole che potesse delimitarla, diventa principio totalitario, criterio religioso, neo-paganesimo pampoliticistico. Ed è questo l‟esito storico-sociologico del “passaggio” dalla sfera del sacro a quella del profano come secolarizzazione del religioso nel politico. Il neo-paganesimo non consiste nel ripudiare Dio, come credeva Nietzsche e come ritengono i varii becchini della Chiesa, ma nel considerare le leggi umane alla stregua di leggi divine. Assimilare Dio all‟uomo equivale a sacralizzare i prodotti umani in virtù del “passaggio” definitivo del valore del sacro al mondo profano, “passaggio” che annulla ogni differenza e ogni distinzione tra l‟essere e il non-essere; in distinzione che è all‟origine dell‟egalitarismo democratico e della sovranità popolare. L‟omogeneità religiosa diventa uguaglianza socio-politica, per cui, desacralizzata la società tradizionale e annullata la differenza tra aristocratici e popolani, tutti i cittadini diventano prodotti della legge nata dalla volontà collettiva sovrana, cioè “uomini sociali”. E poiché chi è membro della società per definizione vi fa parte, si suicida l‟esterno, il disintegrato, non già l‟interno, l‟integrato. E dal momento che il principio di integrazione è lo stesso di quello di socialità, cioè economico, esso equivale al “successo” nella produzione di beni.
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Il zoòn politikòn è l‟uomo pagano, non l‟essere spirituale cristiano. L‟uomo cristiano è l‟essere distinto; l‟uomo pagano è l‟essere unico, e perciò assoluto. Se l‟unica dimensione esistenziale è la socialità, la società diventa il suo dio e le regole sociali la sua religione. Come avveniva prima di Socrate. L‟ambiente sociale è fatto essenzialmente di idee, di credenze, di abitudini, di tendenze comuni. Perché possano tanto impregnare di sé gli individui, occorre che esse esistano in qualche maniera indipendentemente da quelli. 486
Così come la “società” diventa l‟astratto ente collettivo imputabile di ogni azione sociale (ma pur sempre “reale” rispetto al fattore divino), anche la vita morale diventa generico e neutro “ambiente sociale”, astratto dai concreti rapporti umani, e i valori condivisi diventano, da vita vissuta secondo quei valori, mere espressioni ideologiche di fattispecie normativamente vigenti. Non a caso, dall‟ “ambiente” si esclude ogni riferimento alle classi dirigenti, cioè ai creatori, fautori e custodi di quelle “idee e credenze” che diventano poi “abitudini e tendenze comuni”. Proprio la eliminazione, fisica o per decreto, delle aristocrazie storiche ha comportato la fine di quei valori che esse incarnavano, e la conseguente dissoluzione della società, ossia la crisi della stesa civiltà che li aveva creati. Quando Durkheim parla di “costituzione morale dei gruppi”, nella sua stessa logica, non si riferisce alle culture storiche dei diversi gruppi umani, ma delle loro costituzioni legali, essendo nello Stato legislatore post-rivoluzionario moralità, socialità e legalità sinonimi. “L‟umore delle nazioni”487 è dunque la volontà dei suoi legislatori, equiparata alla “volontà generale”. Da qui le giuste riserve dei liberali empiristi verso le teorie razionalistiche della “società” come astratto ente collettivo. Essi, nondimeno, opponendosi però all‟astrazione, negano anche il fenomeno storico della socializzazione, assumendo come unica realtà di ragione l‟individuo singolo, isolato e asociale, che non si sa più per quale ragione viva insieme agli altri, facendosi perversamente solo del male. L‟empiristico luogo della socialità 486 487
E. Durkheim, Loc. cit., pag. 362. Ivi, pag. 366.
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diventa il “mercato”, realtà non meno astratta della “società” di Durkheim, dalla quale differisce nel senso della sua spontanea regolamentazione, mutuata dalla condizione sociale tradizionale. Ma le due astratte entità si somigliano intimamente più di quanto vorrebbero, poiché entrambe fondano il loro principio di socialità sull‟economia, e non sulla morale, il cui fondamento non può essere utilitaristico o politico, ma solo religioso, poiché solo la religione distingue e unifica nello stesso atto razionale, ed è perciò concreto e positivo quando nega. Solo una logica inclusiva può chiarire razionalmente e fondare socialmente l‟esperienza umana. Per la logica del sociologismo, essendo reale solo la struttura normativa, la sola “società” è il referente di ogni fenomeno sociale. Parimenti, per „empirismo, essendo reale il solo individuo, il singolo è l‟unico soggetto razionale della vita sociale. Le rispettive teorie sociali affermano come reale ciò che l‟altra concepisce come suo opposto, per cui ogni teoria razionalistica del mondo vede della realtà solo il suo referente razionale, negando valore positivo a ogni altro. Così, per Durkheim, l‟unica realtà è quella delle “tendenze collettive” le quali “hanno un‟esistenza propria, sono forze altrettanto reali quanto le forze cosmiche [e come queste] usando altre vie agiscono sull‟individuo”.488 Ma essendo tali forze soltanto morali e non essendoci al mondo al‟infuori dell‟uomo singolo altra entità morale che la società, debbono per forza essere sociali. I fatti sociali [sono] il principio base del metodo sociologico [e la scienza sociologica] implica che le tendenze come i pensieri collettivi siano di natura diversa dalle tendenze e dai pensieri individuali, che i primi abbiano dei caratteri che non hanno i secondi. Ora, come può essere possibile questo, se nella società non vi sono che individui?489
Il mondo sociale, egli afferma, è “un sistema di realtà”,490 ovvero una unità razionale assimilata a un “essere psichico di una specie nuova che ha perciò un proprio modo di pensare e di sentire”, dove trovano
488
Ivi, pag. 370. Ivi, pag. 371. 490 Ivi, pag. 371. 489
397
sintesi “le proprietà elementari contenute in germe nei singoli spiriti”. Dal che egli evince che Il fatto sociale ne scaturisce soltanto quando siano state trasformate dal‟associazione, soltanto allora esso appare [sicché] quando le coscienze anziché rimanere isolate tra loro, si raggruppano e si combinano, qualcosa cambia nel mondo [e così] appaiono dei fenomeni con proprietà caratteristiche non riscontrabili negli elementi che li compongono.491
La sintesi ideale da cui scaturisce il “fatto sociale” viene indicata da Durkheim come una “trasformazione” delle “proprietà singolari”, in un altro genere di realtà, quello appunto sociale, che egli assimila al “passaggio” religioso, considerando il pensiero religioso il modello di “tutte le forme della vita collettiva”.492 Pensiero collettivo e pensiero religioso sono lo stesso, per Durkheim, e cioè “rappresentazioni sociali”. Infatti, egli dice, “soltanto gli uomini, in gruppo, pensano religiosamente”.493 Questo pensiero rappresenta le soverchianti “forze naturali con cui è in rapporto [l‟uomo]” in “forma ipostatica” di divinità, ma in realtà la “potenza che si è imposta al suo rispetto [divenendo] oggetto di adorazione è la società”, per cui “la religione è, in definitiva, il sistema di simboli mediante i quali la società prende consapevolezza di sé [ossia] è la maniera di pensare propriamente collettiva”.494 .Il “passaggio” dal religioso al sociale si realizza dunque mediante la “trasformazione” dell‟individuale al collettivo. Se, però, collettivo è religioso, cioè “sociale”, in cosa consiste propriamente il “passaggio”? in altri termini, donde nasce la sua necessità? In una nota al testo, Durkheim riconosce che “la contrapposizione tra bene e male non ha il carattere radicale che le attribuisce la coscienza volgare. Si passa sempre dall‟uno all‟altro attraverso una insensibile graduazione e spesso i confini sono assai imprecisi”.495 Il che vuol dire che esiste pur sempre una differenza irriducibile. Per coglierla dobbiamo distinguere tra le “mere combinazioni verbali prive di efficacia”, 491
Ivi, pag. 372. Ivi, pag. 374. 493 Ibidem. 494 Ibidem. 495 Ivi, pag. 438. 492
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proprie delle formule religiose, dalle “realtà efficienti” prodotte dalle “forme materiali” proprie di un “codice costituito”, produttivo di “effetti che non si sarebbero avuti se non ci fossero state” quelle specifiche “forme […] esteriori alle coscienze individuali”.496 Esteriorità, come “carattere specifico” della socialità, vuol dire che quelle forme non sono prodotte dai singoli uomini, e perciò non sono disponibili al suo uso, ossia sono “sacre”. Sacra è dunque la forma rappresentativa della realtà non disponibile dalla volontà dei singoli. Il prodotto “collettivo” è quello non individuale, ma creato dalla società e come tale entrato nella tradizione comune. Questa teoria romantica, se intuisce la natura religiosa dell‟unità del gruppo sociale, urta però contro la sua riduzione del collettivo al sociale. Infatti, la “società”, così come la intende Durkheim, cioè la nazione politica, non è l‟unico modello di convivenza che possa fungere da paradigma socio-antropologico, per cui la sua preferenza teorica opera una proiezione meta-storica di un modello storico molto caratterizzato. La differenza rispetto ai modelli arcaici è capitale, poiché nella “società” (Gesellschaft) l‟unità sociale non è un prius ma il posterius rispetto al potere politico, la cui forza, nella forma arcaica (Gemeinschaft) viene legittimata dalla religione, che dunque è il legame originario. Viceversa, nella forma moderna, è il potere politico a legittimare la vigenza religioso-ideologica dei princìpi di socialità, che sono sue creature costituite. Il potere politico è quello che “decide”, ossia distingue ciò che ha valore collettivo (pubblico o sacro) da ciò che non lo ha. Se la scelta decisiva del “sacro” è una funzione del politico, essa diventa la prerogativa del governo della città secolare. Se, invece, tale scelta rimane una prerogativa religiosa, il governo diventa una funzione distinta da quella precipuamente politica, consistente nella attività di trasformazione del valore privato in pubblico che è propria come sappiamo del lavoro economico-sociale. L‟assunzione secolaristica della originaria decisione religiosa, ha riprodotto la distinzione dei due momenti della trasformazione e della decisione all‟interno del potere statuale, che nel momento propriamente decisionale afferma le sue prerogative di governo, mentre nella trasformazione delle forme 496
Ivi, pag. 376.
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individuali in forme collettive fa consistere il momento specificatamente politico. La “trasformazione” delle istanze individuali in istanze sociali, operata attraverso una razionalizzazione o socializzazione degli interessi privati, dal punto di vista politico si chiama “rappresentanza”. Se, come abbiamo detto, tale trasformazione, nella società secolarizzata, è propria dell‟attività economica, questa progressivamente soppianta le formule retoriche dei riti parlamentari (eredi delle religiose “combinazioni verbali prive di efficacia”) con le “forme materiali” della concreta produzione di beni, per cui la decisione di governo tesa a stabilire ciò che dell‟economico ha valore pubblico, tende anch‟essa a essere soppiantata dal potere economico emancipato dalle regole verbali della politica, funzionali alle forme secolari di decisione. In questo senso, la funzione religiosa della distinzione, se può coincidere con l‟attività etico-politica o di governo, non può coincidere con l‟attività economico-politica, ossia con quanto è semplicemente collettivo o sociale, senza distinzione qualitativa. Per cui, nell‟ambito di una definizione formale della società secolarizzata, non tutto ciò che è collettivo può essere pubblico, ossia non ogni opera umana “privata” può essere riconosciuta di valore sociale. Ma questo slittamento omogeneizzante è immanente al principio politico egalitario delle moderne democrazie, che tendendo verso la loro conformità di massa, tendono parallelamente alla riduzione della logica politica a quella economica, cioè alla tendenziale scomparsa dello Stato a favore di una società di mercato diretta da potentati produttivi. O per meglio dire finanziarii, poiché, in un mondo sociale del tutto artificiale, l‟originaria “trasformazione” della natura in prodotto umano ha lasciato il posto alla sua sintesi sociale più astratta e neutra, il denaro, il cui valore omologante ed egalitario è superiore allo stesso suffragio universale, ancora in parte gravato da limitazioni di età o di altro genere socialmente discriminante. La differenza tra collettivo e pubblico viene dallo stesso Durlheim riconosciuta allorquando afferma che “vi è tutta una vita collettiva in libertà”, interpretata come vita di “emozioni” e di “sentimenti”, che, pur rivestendo carattere collettivo, “non ha un grado di consistenza sufficiente per fissarsi” in una forma razionale, e quindi rimane 400
lontana dal poter costituire “il tutto della realtà morale”, essendo tutt‟al più il “segno” della “cosa”, ma non la cosa stessa.497 Questa distinzione ne comporta l‟altra, ancor più importante, della definizione sociologica della classe dirigente. Infatti, egli sostiene, “se la coscienza comune altro non è che la coscienza più generale, non può elevarsi al di sopra del livello volgare”.498 Durkheim, che pure, come abbiamo visto, è lontano da ogni tentazione di accreditamento della tradizione sociale, e pur sforzandosi di rappresentare l‟unità sociale come “coscienza collettiva”, per la necessità di indicare una fonte creatrice di valori morali, è costretto a distinguere il tipo sociale “medio”, di carattere psicologico, dal tipo “collettivo”, di carattere sociologico.499 Qual è, egli si chiede, l‟origine di quei precetti elevati e imperativi che la società si sforza di inculcare nei suoi figli e di cui impone il rispetto ai suoi membri? […] Ecco perché l‟immaginazione popolare, col suo solito semplicismo, la realizza in Dio. [Ora, a noi non ] rimane altra alternativa se non lasciare la morale campata in aria, non spiegata, oppure di farne un sistema di stati collettivi. […] Essa può esistere solo nella coscienza, e se non è quella dell‟individuo, sarà quella del gruppo.500
Da notare la difficoltà del sociologo di conciliare l‟esigenza gnoseologica di attribuire ai fenomeni sociali una derivazione determinata attraverso un rapporto causale che consenta la sua rappresentazione scientifica, con la definizione sociologica degli enti del rapporto razionale, per cui, da un canto, si parla di astratti precetti di coscienza, e dall‟altro della loro necessaria attribuibilità a enti collettivi. Questi non sono intesi come strutture istituzionali, ma come forze morali, per cui la loro proiezione sociologica avviene attraverso il concetto di “coscienza di gruppo” o “collettiva”, la cui attività si definisce attraverso l‟opposizione alla attività contraria della “coscienza individuale”. Come egli afferma, nella vita sociale
497
Ivi, pag. 377. Ivi, pag. 380. 499 Ivi, pag. 379. 500 Ivi, pag. 380. 498
401
due forze antagonistiche si trovano di fronte: una proveniente dalla collettività che cerca di impadronirsi dell‟individuo, l‟altra proveniente dall‟individuo che respinge la precedente.501
Ma questa polarità è chiaramente in contrasto col presupposto di origine animistica della società come corpo mistico, come unità religiosamente fusa nella sua collettività, e, di contro, presuppone la pre-esistenza di una identità individuale non socializzata. Cioè di due universi morali: uno di tipo anti-sociale, di natura impulsiva, l‟altro propriamente sociale, di natura compulsiva, che trova in Freud una ben nota sistemazione teorica. Lo sforzo di Durkheim è di confermare il presupposto sociologico che “una credenza, una pratica sociale, è suscettibile di esistenza indipendentemente dalle sue espressioni individuali”,502 al fine di attribuire, secondo il metodo, ai soli fatti sociali rilevanza scientifica, ma l‟ammissione stessa di una realtà socialmente incompiuta o indipendente dall‟ente collettivo confuta l‟ipotesi che tutti e ogni evento sociale sia di tipo appunto collettivo. Infatti, l‟individualità, per quanto esorcizzata come forza eslege e negativa, torna alla considerazione di ogni concreta determinazione di ciò che è sociale. Ribadire che “1) il gruppo formato dagli individui associati è una realtà specifica diversa da quella dell‟individuo preso a sé; 2) gli stati collettivi esistono nel gruppo con la natura stessa da cui derivano, prima ancora di toccare l‟individuo come tale e di organizzare in lui, in forma nuova, un‟esistenza puramente interiore”,503 non elimina l‟insopprimibile presenza della individualità come elemento antropologico di base della trasformazione sociale dell‟uomo, senza la cui coscienza non si spiegherebbe neppure la necessità del “passaggio” dalla antica forma religiosa alla nuova, politica. La distinzione della politica dalla religione nella funzione socializzante nasce infatti parallelamente alla coscienza della differenza tra universo coscienziale, individuale, e mondo collettivo, sociale. Nella nuova prospettiva di moderna socialità, la società non “è” l‟individuo che l‟esprime per la sua frazione, ma “fa” l‟individuo, 501
Ivi, pag. 381. Ivi, pag. 382. 503 Ibidem. I corsivi sono nostri e non nel testo originale. 502
402
e “lo fa in egual misura a sua somiglianza”, essendo egli “la materia” che essa “prepara con le proprie mani”.504 La società opera sull‟individuo la stessa trasformazione che l‟individuo ha operato sulla natura. Così, se l‟individuo umanizza il mondo naturale, la società razionalizza l‟universo morale dandogli un carattere unitario, una forma collettiva, andando oltre la libertà del Creatore concessa all‟uomo di autodeterminarsi responsabilmente. La politica, diversamente dalla religione, non chiede ma ordina, non fa appello alla coscienza ma la plasma. La somiglianza sociale non è al modello carismatico ma a quello normativo, inderogabile questo quanto libero l‟altra. Ora si comprende perché la coscienza morale, ossia sociale, non possa corrispondere a quella media individuale; ciò è dovuto alla circostanza che la coscienza media sia un prodotto della normativa morale, la quale è costituita da decisioni relative al bene e al male, al sacro e al profano, all‟essere, insomma,e al non-essere. Una decisione che ha valore morale in quanto è libera e non necessaria, non compulsata dal potere politico. Le decisioni religiose venivano acquisite dal potere civile e quindi socializzate come norme pubbliche aventi una sanzione penale, e cioè politicamente garantite. Esempio di questa procedura viene fornito dallo stesso Durkheim a proposito del suicidio, il cui delitto viene “deciso” dal concilio di Praga nel 1563 come canone ecclesiastico e quindi esteso alla legislazione civile, con sanzioni aggiuntive a quelle penali.505 Ed è proprio la descrizione della sua tipologia sociologica a far implodere la teoria olistica di Durkheim della moralità come socialità politica. Il suicidio è dunque riprovato perché deroga [al] culto della personalità umana su cui poggia tutta la nostra morale. A confermare questa spiegazione sta il fatto che lo consideriamo be diversamente da quanto lo facevano le nazioni antiche. Allora non vi si scorgeva che un torto arrecato allo Stato, e la religione, più o meno se ne disinteressava. Viceversa, ora, è diventato un atto essenzialmente religioso e furono i Concilii a condannarlo mentre i poteri laici, punendolo, non fecero che seguire e imitare l‟autorità ecclesiastica. E‟ perché abbiamo in noi un‟anima immortale, minima
504 505
Ivi, pag. 386. Ivi, pag. 390.
403
frazione della divinità, che dobbiamo essere sacri a noi stessi. E perché siamo una cosa di Dio, non apparteniamo a nessun essere temporale. 506
L‟appartenenza a Dio è la qualità del “sacro”, che, non essendo “cosa” umana, non è disponibile agli uomini. In tal senso la vita è “sacra” e non può essere soppressa. La secolarizzazione del principi odi appartenenza, sostituendo a Dio la società, non può conservare lo stesso valore trascendente, poiché la società stessa è un prodotto umano, storico. Per tentare di superare questa aporia, Durkheim fa della società un ente ipostatico, pre-istorico, una realtà in sé, oggettiva e trascendente i singoli membri, avente una coscienza propria e una sua volontà. Ma la dicotomia coscienza collettiva – coscienza individuale è possibile solo sostituendo alla società naturale una società politica, eliminando dalla realtà sociale i corpi intermedii, gli enti collettivi spontanei, non creati artificialmente dal potere politico ma aventi una loro politica sociale. Questa rimozione dalle relazioni politiche la vita della società civile, ossia la storia stessa degli uomini e delle loro formazioni sociali, opera attraverso la negazione delle identità morali e religiose, per affermare al loro posto la storia e la moralità politiche. Al processo della coscienza umana, si sostituisce modernamente la storia etico-politica, che non tratta dell‟uomo morale, del personaggio spirituale, del soggetto universale, ma del cittadino e dell‟eroe nazionale; non più, insomma, dell‟uomo di Dio ma dell‟uomo di Stato. non più di ciò che l‟uomo sente ed elabora nella sintesi del pensiero, ma di ciò che l‟uomo fa nella produzione dell‟azione. Ed è per questa strada che la cultura del pensiero trapassa nella civiltà del fare, e al pensiero razionale si sostituisce la prassi razionalizzatrice. Ma poiché la ragione teoretica è diversa dalla ragione strumentale, il “passaggio” ontologico risulterà sempre imperfetto e problematico, contraddittorio e finalmente vano, alimentando di continuo il miraggio del perfetto rispecchiamento, l‟utopia della rivoluzione e della universale trasfigurazione del reale in immagine dell‟ideale. Ma vivere come si pensa, è possibile solo alle singole coscienze, non ai gruppi, i quali perciò sono indotti a riconoscersi in una coscienza 506
Ivi, pag. 398.
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comune con cui identificarsi, un ente collettivo e trascendente, una coscienza divina, che viene rappresentata oggettivamente nei simboli della socialità: dal totem alle istituzioni culturali. L‟unità è possibile solo nel pensiero, nella coscienza ideale, non in quella collettiva, esterna al foro interiore. Come aveva ben visto Durkheim, l‟esteriorità è il carattere della socialità. Esteriorità non è oggettività, ossia ente ideale, ma formalità, ossia ente reale. Gli enti reali, diversamente da quelli ideali, sono prodotti sociali, non individuali. Il carattere sociale, o pratico, di questi prodotti reali fa che la loro realtà sia di natura collettiva, nel senso che il loro essere sia di valore sociale. Il pensiero relativo a questa socialità è, tradizionalmente, quello religioso, e modernamente quello scientifico. Infatti, sia la religione che la scienza sono pensieri pubblici, la cui validità cioè è relativa al loro grado di condivisione sociale. Il pensiero sociale è appunto il pensiero condiviso dalla comunità dei credenti. Ed è codesta condivisione a fare dei credenti una comunità di fede o scientifica. Diverso è il caso del pensiero teoretico, nel quale l‟unità è conseguita nella coscienza soggettiva e la sua condivisione avviene per partecipazione. Prendere parte a un‟idea non è con-dividerla tra i singoli partecipanti, ma con-fondersi nella sua unità, la quale rimane tale anche se non partecipata collettivamente. E‟ questo carattere originariamente unitario e sussistente a fare del pensiero teoretico un pensiero privato, la cui validità essenziale, cioè, non dipende dal grado della sua condivisione sociale. Non aver tenuto conto di questa differenza ontologica, ha determinato la credenza nella possibilità di trasferire l‟unità ideale dell‟ente coscienziale nell‟unità empirica dell‟ente sociale, volendo fare della società un riflesso o un “rispecchiamento” dell‟idea. Questo “passaggio” ontologico è all‟origine della secolarizzazione della cultura moderna, la quale ha creduto di poter trasferire il valore sacro del mondo ideale nella realtà profana. In questa conversione ontologica consiste l‟idea della rivoluzione, intesa come ritorno della realtà molteplice alla coerenza della sua unità ideale. Lo spirito è l‟idea in cui le coscienze soggettive si identificano. E l‟unità nello spirito è una realtà mistica, non empirica, e non può essere identificata con la società storicamente strutturata, che è una 405
realtà istituzionale. Il carattere della coscienza, e quindi dell‟unità ideale o mistica, è la libertà, laddove il carattere proprio della istituzione è l‟obbligazione. Confondere la società come unità morale, con lo Stato, unità politica, è lo stesso che confondere il corpo mistico cristiano con la Chiesa, istituzione secolare. Ed è questa confusione, che risale alla Chiesa tridentina contro-riformistica, all‟origine al riflesso secolare dello Stato laico moderno, la cui deriva totalitaria è un portato del totalitarismo ecclesiastico. L‟unità mistica è volontaria, basata sul libero convincimento delle coscienze; l‟unità sociale è obbligatoria, basata sulla conformità di comportamenti relativi allo status personale dei membri. Il sentimento della comunità ideale è l‟appartenenza, la vocazione e la convinzione, mentre i sentimento dell‟appartenenza al gruppo sociale è l‟uniformità, il dovere d‟ubbidienza e l‟obbligatorietà delle regole comuni. L‟appartenenza a un gruppo sociale comporta il dovere della conformità alle regole identitarie. L‟appartenenza a un‟essenza ideale è adesione a qualcosa che ci trascende e che non chiede di far parte di esso, né intima una punizione ai disobbedienti. L‟unità ideale non chiede l‟adesione sociale per sussistere, ma essa è in sé a priori. Per cui l‟unità mistica è fusione nella libertà, mentre l‟unità sociale è regolamentazione di conformità. La “storia della libertà” è quella ideale della coscienza, non già quella sociale e politica dello Stato. volerla trasferire nella storia collettiva è proprio dello spirito rivoluzionario, che ricerca nel mondo profano la coerente purezza delle idee sacre. E‟ questa pura coerenza ciò che i razionalisti moderni chiamano “ragione”. La condizione di libertà è solo della coscienza, che è una realtà ideale, non istituzionale, e rispetto alla quale ogni obbligo sociale è una costrizione, più o meno necessaria. Per questa ragione il vincolo sociale deve potersi fondare sulla legittimità morale, che rende necessarie le sue costrizioni. Da qui la tendenza ideologica a confondere la legittimità con la legalità, l‟ordine morale con l‟ordine pubblico. La legittimità è la coereza dei princìpi legali con quelli morali. Ma i princìpi legali, senza la legittimazione morale, sono meramente impositivi, e non imperativi. Impositivo è l‟obbligo sociale non munito di autorevolezza morale, solo giuridico. La società politica 406
è infatti un consorzio giuridico. La natura etica del vincolo sociale non viene dalla struttura giuridico-politica ma dall‟adesione morale dei membri agli stessi princìpi ideali. Ciò suppone che alla base dell‟unità politica e dell‟unione sociale c‟è l‟unità mistica; a fondamento della società politica, la comunità religiosa che la legittima moralmente. La volontà collettiva è dunque lo spirito religioso che anima l‟unità mistica del gruppo. L‟imperativo morale nasce da questa appartenenza mistica, sentita come volontà di partecipazione all‟unità mistica da parte delle singole coscienze. Tale unità non è la società, come ritiene Durkheim. [Loc. cit., pag. 400.] Non è costituita dalla struttura istituzionale. Codesta unità è religiosa. La religione è l‟unione ideale dei soggetti spirituali, che è ontologicamente diversa dall‟unità sociale dei corpi fisici. Conseguentemente, l‟obbligo morale è un “comando” molto diverso dall‟ordine giuridico politicamente garantito. Violando l‟obbligo morale, ci si estranea dall‟unità mistica, sanzionata dalla rottura dell‟appartenenza spirituale. In questo caso, il rapporto non è negoziabile, essendo l‟adesione libera, né riparabile con un atto di espiazione cui subentra il reintegro, come nel caso dell‟infrazione penale o civile. La violazione religiosa pone il fedifrago semplicemente fuori dell‟unità mistica, privandolo della sua identità spirituale. Aver identificato il rapporto con Dio con il rapporto con la Chiesa, ossia aver giuridicizzato l‟obbligo morale, è alla radice del legalismo moderno, che, secolarizzato sulla base del modello ecclesiastico, si trasferisce nello Stato legislatore. La società civile è una proiezione profana della comunità religiosa, così come il gruppo societario, la società di Durkheim, è una comunità economica risultante dal “passaggio” al mondo profano dei valori sacri, dove la forza politica e la produzione economica hanno sostituito la preghiera religiosa, e il rapporto legale ha sostituito la relazione mistica. Durkheim cerca di trasporre la razionalisticamente la comunità religiosa nella società civile ed economica, attribuendo al suo concetto sociologico un valore scientificamente neutro. Ma il concetto di società come unità puramente razionale, è un‟astrazione empirica, così come il concetto di Gemeinschaft di Toennies è fenomenistico senza il 407
fondamento del suo collante religioso. Il concetto “scientifico” di gruppo sociale si ottiene astraendo i rapporti sociali dall‟unità mistica, irrappresentabile oggettivamente in quanto non determinabile come “fatto sociale”, e procedendo alla descrizione puramente fenomenica dei rapporti sociali. Così, quando Durkheim scrive che “in origine la società è tutto e l‟individuo è niente. Con ciò i sentimenti sociali più intensi sono quelli che vincolano l‟individuo alla società: è essa stessa il suo vero fine”,507 lascia in ombra la qualità del legame sociale, assumendolo come un “fatto”, che non spiega perché “l‟uomo è considerato semplice strumento nelle sue mani, [né perché]da essa sembra trarre tutti i diritti né [perché] vi è prerogativa che egli possa invocare contro di essa [né] perché essa è al di sopra di tutto”. [Ibidem.] La trasformazione dalla comunità primitiva alla più complessa e composita società, viene anch‟essa registrata come un fenomeno, riportato a una causa puramente organizzativa, legata alla produzione del lavoro. Ma un poco alla volta le cose cambiano. Col loro svilupparsi in volume e intensità le società diventano più complesse, il lavoro si suddivide, le differenze individuali si moltiplicano e vediamo approssimarsi il momento in cui non vi sarà più niente in comune tra i membri di uno stesso gruppo umano se non il fatto di essere tutti uomini.508
Ma essere “uomini” ed esserlo “tutti” allo stesso modo, implica una unità trascendente, ossia un valore qualificante l‟essere umano, che non è quello paragonabile al concorrente nella produzione e trasformazione dei beni, per cui non c‟è rapporto logico tra divisione del lavoro e identità antropologica. Perché la divisione del lavoro incida su quell‟identità, occorre che il lavoro sia diventato un valore socializzante, ossia un criterio di appartenenza sostitutivo di quello mistico-religioso. E questa “sostituzione” va spiegata, e non solo registrata come un “dato”. Dato che la persona umana è l‟unica cosa che preme unanimemente a tutti, dato che la sua glorificazione è l‟unico scopo che possa essere collettivamente perseguito, esso 507 508
Loc. cit., pag. 400. Ivi, pagg. 400-401.
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non può non rivestire agli occhi di tutti una eccezionale importanza, elevandosi così ben oltre ogni fine umano e assumendo un carattere religioso. […] In queste condizioni è inevitabile che la sensibilità collettiva aderisca con tutte le forze a quest‟unico oggetto rimastole e gli attribuisca perciò un valore incomparabile. 509
La “sensibilità collettiva”, definita sopra come un labile sentimento, instabile e occasionale, ora diventa tributario di un “valore incomparabile”. Ma che significa attribuire un valore? e cosa significa privarsene? A proposito del suicidio egoistico, Durkheim afferma che L‟individuo non tiene più all‟esistenza perché non tiene più all‟unico intermediario che lo leghi alla realtà: la società. Egli ha di sé stesso e del proprio valore una opinione tanto viva che vuole essere l‟unico suo fine.510
La società, da fine, è diventata “intermediaria”, e la smodata considerazione narcisistica, anziché proporsi come la vera “realtà” dell‟uomo, ne diventa la ragione dell‟auto-distruzione! Sono illazioni e congetture che non provano niente, così come l‟asserzione per cui “là dove è molto viva, la fede religiosa è ispiratrice di uccisioni quanto la fede politica” [Ibidem.] non chiarisce alcunché. Per voler spiegare tutto, la società diventa una ragione senza fondamenti; e non poteva che essere così, date le premesse della sua astratta determinazione empirica. La realtà storica, non riuscendo a essere contenuta entro le astratte categorie sociologiche del pensiero razionalistico, appare un irrazionale processo dissolutorio, in cui il singolo resta disancorato dai valori tradizionali, discreditati ed esiliati dalla vita pubblica, e i valori surrogatorii, affermati in virtù di credenze che si vorrebbero collettive e nello stesso tempo di cui si ammette la provenienza esterna alla coscienza comune. La “società” ricostruita dall’alto, politicamente, sul fondamento di una sovranità dal basso, è un monstrum ideologico che il razionalismo, costola eversiva della teologia cattolica, aveva creato e che ora denunciava come un evento inspiegabile e irrazionale, solo perché da esso non compreso. L‟esito, questo sì, 509 510
Loc. cit., pag. 401. Il corsivo è nostro, non nel testo originario. Ivi., pag. 421.
409
inevitabile del pensiero della dissoluzione morale, è il rimpianto dell‟ideale incompreso, cioè il moralismo. Dopo aver asserito che “non v‟è delusione nella vita, per insignificante che sia, di cui si possa dire anticipatamente che in nessun caso potrebbe rendere la vita intollerabile”,511 Durkheim si lamenta che o sviluppo della nostra civiltà si sta compiendo in mezzo ad una effervescenza patologica di cui ognuno di noi risente i dolorosi contraccolpi. E‟ perciò assai possibile e probabile che il movimento ascensionale dei suicidi abbia come origine uno stato patologico che accompagna attualmente il progredire della civiltà senza però esserne la condizione necessaria. […] L‟umore dei popoli, come quello degli individui, rispecchia lo stato dell‟organismo in ciò che ha di più fondamentale. La nostra organizzazione sociale deve essersi perciò molto profondamente alterata se nel corso del secolo [XIX] ha potuto determinare un simile accrescimento del tasso dei suicidi. Ora, è impossibile che una alterazione così rapida e grave non sia patologica, poiché una società non può mutare di struttura così improvvisamente, bensì con un lento e quasi insensibile susseguirsi di modificazioni essa giunge ad assumere caratteri diversi. Non solo, ma le possibili trasformazioni sono anche limitate. Una volta fissato, il tipo sociale cessa di essere indefinitamente plastico e si raggiunge presto un limite invalicabile. […] Non si sostituisce in pochi anni un lavoro fatto per secoli. […] Ad attestare il flusso crescente delle morti volontarie non è già lo splendore progressivo della nostra civiltà, ma uno stato di crisi e di turbamento che non può prolungarsi senza pericoli.512
La formula dubitativa circa l‟alterazione frettolosa dell‟organismo sociale tradisce l‟imbarazzo ideologico di indicare apertamente nella tipologia moderna di “società” la “causa” della crisi della civiltà. Ma questa reticenza ideologica, non mostra solamente i limiti di una teoria sociologica costruita sulla razionalità dello sviluppo politicamente regolato della vita di gruppo, senza originarii fondamenti morali, ma l‟esito di un processo storico-sociale concepito razionalisticamente come uno sviluppo evolutivo dalla dimensione religiosa di cui la società economico-industriale costituiva il relativo “progresso” dell‟emancipazione. In altri tempi la società domestica non era soltanto la somma di individui uniti tra loro da vincoli di reciproco affetto, ma era anche un gruppo a sé con una unità astratta e 511 512
Loc. cit., pag. 358. Ivi, pagg. 435-436.
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impersonale. Era il nome ereditato con tutti i ricorsi che rievocava, la casa di famiglia, la terra degli avi, la situazione e reputazione tradizionale ecc…. tutto questo sta scomparendo. Una società che si dissolve ogni momento per riformarsi su altri punti e in condizioni del tutto nuove, con tutt‟altri elementi, non ha sufficiente continuità per rifarsi una fisionomia personale, una storia propria, cui possono ricollegarsi i membri. Se perciò gli uomini non sostituiscono questo antico oggetto d‟attività mano a mano che esso sfugge, è impossibile che non venga a crearsi un gran vuoto nell‟esistenza. 513
Durkheim pare avvedersi, o almeno presentire, che, se il lavoro è l‟attività sostitutiva della preghiera, la vera società del lavoro è la fabbrica, il luogo della produzione, che ha preso il posto della famiglia, luogo della procreazione. Di converso, l‟unità sociale non potrà più costituirsi sul fondamento morale della co-appartenenza mistica, ma sull‟interesse che si offre allo scambio con altri interessi, e cioè sul mercato, il luogo della socialità razionalizzata. Ma Durkheim non potrebbe ammettere, senza smentirsi, uno sviluppo spontaneo di forme intermedie di socialità, che non siano cioè il prodotto istituzionale di forme legalizzate, per cui, coerentemente ai suoi presupposti teorici, vorrebbe sostituire le antiche e tradizionali unità sociali con una nuova realtà comunitaria del mondo produttivo, la corporazione, la quale, composta di individui dediti agli stessi lavori, e con interessi solidali e persino confusi, essa è il terreno più propizio alla formazione di idee e di sentimenti sociali, [per cui, “dato che la vita professionale è quasi tutta la vita”,] la corporazione perciò ha quanto occorre a inquadrare l‟individuo, attrarlo fuori dall‟isolamento morale e – data l‟attuale insufficienza degli altri gruppi – è l‟unica a poter adempiere a questo ufficio indispensabile.514
Anche la corporazione sarebbe da costituire, in quanto corpo non tradizionale, sicché anch‟essa sarebbe un prodotto politico della decisione legislativa. Un modo diverso di organizzarsi dello stesso potere statale. Ma se le antiche corporazioni si estinsero perché superate dai tempi e dalle nuove esigenze, perché restaurarle al posto di altre vetuste istituzioni entrate in crisi se non per decisione politica? La società teorizzata da Durkheim è fondata sull‟unità politica e 513 514
Ivi, pag. 445. Ivi, pagg. 446 e 447.
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produttiva, per cui ogni istituzione tollerata deve presentare quei caratteri di fondo, razionalmente compatibili coi princìpi di socialità. Il “progresso” della società politica è nel senso della progressiva razionalizzazione delle esperienze molteplici verso l‟unità del modello ideale. Razionalismo è sinonimo di economisco515, cioè di logica capitalistica, dell‟individualismo materialistico. “Ogni razionalismo è economismo” e nel senso più rigoroso è individualismo, la cui tendenza è di dissolvere fatalmente ogni società infatti un individualismo rigoroso e conseguente non pensa che a se estesso, non interprete che le sue esigenze ed è privi di alcun interesse per il retso del genere umano. E‟ persino di senso morale, se è vero che l‟essenza della moralità è la socialità. Infatti la conseguenza logica e di buon senso del suo interesse è il disprezzo di tutto ciò che esula da tale interesse 516.
La logica economica rigorosa porta alla dissoluzione di ogni legame sociale, poichè ogni ostacolo all‟interesse che la motiva va considerato perciò che è, un ostacolo appunto, compresa la società. L‟intelligenza della ragione economica è dunque una forza anti-sociale. La società, come ribadito da Bergson, nasce dallo spirito gregario dell‟uomo, che è alla base degli organismi sociali anche particolari, dai partiti po,.itici alle confessioni religiose. Tle spirito gregario origina a sua volta dall apura della morte: “la società crea le leggi, le più comuni delle quali puniscono l‟omicidio”, per cui la società si pone a difesa contro i pericoli provenie nti dai nostri simili.517 La religione si pone a difesa della società, poichè scoraggia l‟intelligenza a perseguire scopi impossibili “il tipo sociale di una civiltà suppone una rinuncia, una desistenza dell‟individuo [dall‟interesse privato] a favore di un fine più alto, in cui egli si riconosce e di cui fa parte. Le valutazioni e i calcoli individuali, o sono soppressi ovvero sono assorbiti” da quel fine superiore518 Ovviamente, l‟elemneto razionale non viene abolito, ma messo a 515
“Le azioni economiche sono logiche”: V. Pareto, Manuale di Economia politica, Milano, 1906 pag.112. 516 A. Labriola Op. cit. Pag. 113. 517 ivi pag. 114. 518 Ivi, pag.115.
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servizio del Tutto che è il gruppo sociale. Per Bergson, la funzione essenziale della religione è di mantenere lavita sociale.519 Il razionalsimo economicistico invece la dissolve conseguendo di fatto l‟opposto esito di quanto la razionalizzazione sociale si proponeva, ossia di rafforzare l‟ordine socio-politico. L‟eterogensesi dei fini: il mondo moderno razionalizzato che ha rimosso la sfera religiosa in nome della sua umanistica autodeterminazione si avvede che senza la religione, ossia un principio trascendente di unutà, come collante morale xella società, questa si dissolve, diventa “liquida” rendendo impossibile l‟ordine politico stesso.
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H. Bergson, Les deux sources de la Morale et de la Religion, Paris, 1932, pag. 220-230.
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