Coscienza Storica N. 11

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Coscienza storica Rivista di studi per una nuova tradizione

diretta da

Costantino Marco

MARCO EDITORE


Segretario di redazione: Federico Marco Ogni proposta di pubblicazione va inviata presso coscienzastorica@outlook.it.

In copertina: Caravaggio, Cena in Emmaus 1601-1602 (The National Gallery, London) Copyright by Costantino Marco, 2021


Coscienza Storica Nuova Serie 11

Cristo e la sua Chiesa

pag. 5

di Costantino Marco

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Cristo e la sua Chiesa di Costantino Marco

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Chiesa e Cristo-logia “Desideravi intellectu videre quod credidi.” (Agostino) “La parola del Messia era inscindibile dalla sua persona; la parola del regno predicata da Gesù non era una astratta verità teoretica, ma un principio vivente d‟azione.” (A. Omodeo) “L‟essenza della visione cristiana dell‟uomo consiste nel fatto che essa concepisce la realtà dell‟uomo,qualunque cosa essa sia, a partire dalla fede. (...) Avere fede non significa accettare una dottrina conclusa e un ordine fisso ma, esistendo, osare un nuovo inizio. La fede, come dice Paolo, è un „radicarsi‟ nel Cristo che vive e agisce. È partecipazione alla Sua esistenza.” (R. Guardini)

1. Secondo E. Buonaiuti, “il cristianesimo non è una filosofia: è una consegna religiosa”.1 Se per “cristianesimo” intendiamo la predicazione di Gesù di Nazareth, ciò è senza dubbio vero, essendo la filosofia il pensiero idealistico del naturalismo greco. Se, però, intendiamo per cristianesimo la forma teoretica della rivelazione e della predicazione di Cristo razionalmente giustificata come “patrimonio conoscitivo”, e quindi una dottrina dogmatica, è innegabile che “un movimento, sostanzialmente mistico ed apocalittico, si trasformò adagio adagio in

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E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I, Evo antico, Milano, 19414, pag. 85.

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un raffinato sistema di speculazione filosofico-teologica, destinato a disciplinare per secoli il pensiero e le attitudini della società europea.2 Se, d‟altronde, per “religione” intendiamo una cosmologia ispiratrice di una condotta morale socializzata in senso etico collettivo e tale da costituire l‟amalgama spirituale di una comunità politica, la predicazione di Gesù non lo è mai stata, essendo essa, la contrario, una fede personale, dialetticamente contrapposta allo spirito propriamente religioso della tradizione ebraica, e a maggior ragione di ogni tradizione religiosa pagana, accomunate tutte per un principio di appartenenza etnico-nazionale rifuggita dallo spiritualismo antropologico cristiano, la cui dimensione sacrale è intrinsecamente meta-politica perché metafisica, fautore di un legame carismatico fra gli uomini. Il cristianesimo storico, quello appunto della “tradizione” teologica ed ecclesiastica costitutiva dell‟orizzonte culturale della Cristianità, è divenuto “religione” della Chiesa visibile, corpo istituzionale di una forza sociale operante nel mondo “destinata ad alimentare col suo dogma e la sua apologia la vita spirituale della civiltà mediterranea, nel periodo culminante della sua storia”.3 Ma, ci chiediamo, era davvero un “destino” inevitabile che il messaggio del Cristo, e quindi lo spiritualismo cristiano, prendesse la forma storica di Chiesa quale noi la conosciamo? Ovvero quel risultato empirico è nato soltanto dalla “necessità di armonizzare le esigenze e le attitudini etico-religiose, che sono alla radice [ebraica] della esperienza cristiana, al mondo della cultura circostante e quindi di creare un‟apologia razionale adatta agli aspetti mutevoli dei cicli culturali”, e tale da trasformare “il messaggio apocalittico cristiano in un‟organica visione teoretica del mondo”? Era insomma, come ritiene Buonaiuti, “una necessità che accompagnava ineluttabilmente lo sviluppo della società cristiana del tempo”, ovvero, come noi riteniamo, soltanto un esito

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Ibidem .“Alla fine del secolo IV, il cristianesimo non era più una semplice credenza individuale, era divenuto una istituzione, si era costituito [...]. Insomma, in tale epoca, il cristianesimo non era solo una religione, era una chiesa [...]. Se il cristianesimo fosse stato, come nei primi tempi, soltanto una credenza, un sentimento, una convinzione individuale, esso avrebbe finito col soccompere in mezzo alla dissoluzione dell‟Impero e all‟invasione dei Barbari”: F. Guizzot, Histoire de la cilisation en Europe (1829-1832), trad. it., Torino, 1956, pag.36. 3 Ibidem.

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possibile del sincretismo culturale ellenistico, ma non necessario? La stessa apparizione, al “saturarsi del messaggio cristiano di elementi intellettuali e metafisici” di “due movimenti intellettuali e metafisici paralleli, lo gnostico e l‟apologetico”, 4 indicherebbe che la possibilità effettuale non era necessariamente la sola storicamente perseguibile. E lo indica sul presupposto stesso cristiano, per cui la Storia umana è processo di salvezza spirituale, e non di necessità naturale, per cui all‟uomo è sempre possibile la scelta per il personale “amore di Dio”, anziché a favore del politico “amore di sé ”. Che la coscienza spirituale dei cristiani delle origini fosse alquanto offuscata da elementi culturali naturalistici, lo attesta se non altro il carattere fisico dell‟aspettativa escatologica, che assegnava alla resurrezione sincronica e collettiva dei corpi la prevalenza semantica sulla metanoia personale, inevitabilmente legata ai tempi non ponderabili della fede individuale. E proprio il sostrato culturale di retaggio ellenistico ha fatto da sfondo all‟innesto nel messianismo ebraico della metafisica idealistica, facendo di questa la ratio della fides soteriologica cristiana. In questo senso sincretistico, tanto “lo gnosticismo appare, storicamente, nella sua essenza e nel suo programma, come il tentativo grandioso di tradurre l‟annuncio della salvezza cristiana in termini di metafisica, e di diluire l‟entusiasmo rivoluzionario suscitato dalla speranza della parusia, nella visione astratta di un lentissimo processo di reintegrazione, attraverso i quale si compie l‟elezione degli elementi spirituali dispersi nel mondo, in vista di un loro completo riassorbimento nel Pleroma”, quanto l‟apologetica appare come “la giustificazione razionale della fede cristiana con elementi mutuati dalla cultura profana del tempo”, anche se “gli intenti pratici delle perorazioni [degli apologisti], dirette costantemente alla difesa delle comunità cristiane dalle cause etico-politiche da cui erano colte, conferivano al loro insegnamento caratteri peculiari, che lo differenziavano sostanzialmente dalle costruzioni ideologiche della gnosi”.5 Ed è nello stesso senso che Buonaiuti può asserire che l‟autore del IV Vangelo fosse il prodotto di “due mondi, il giudaico e il greco”, ovvero che stesse “alla confluenza delle due più insigni tradizioni

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Ivi, pag. 87. Ivi, pagg. 87-88.

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spirituali e intellettuali della nostra civiltà mediterranea”, e che perciò “in lui si incontrano e si fondono in una sintesi, che si direbbe era stata l‟aspirazione dei secoli, Platone e Isaia”. 6 Ciò vuol dire che la gnosi, prima di diventare forza non preponderante all‟interno della cultura cristiana e quindi essere stigmatizzata come un movimento ereticale, costituiva una interpretazione possibile del messaggio di Cristo, anche se storicamente non attuale, lasciando il passo storico a coevi movimenti teologici ermeneuticamente preponderanti. 7 Le ragioni dell‟attualità storica variano da contesto a contesto situazionale, ma è comunque certo che ha ragione Jonas quando afferma che “l‟assoggettamento militare e politico soltanto non è sufficiente a spiegare il corso degli eventi”, cioè “l‟indiscusso ascendente della parte greca”, che, nell‟ambito dell‟ellenismo, “determinò se non altro la forma di ogni futura espressione culturale”, tenendo conto che, come messo in luce a suo tempo da Droysen, la complessità dei processi sincretistici intervenuti a seguito dell‟unificazione imperiale di Alessandro Magno può offrire delle linee tendenziali generali di comune sviluppo culturale ma “in realtà fiorirono tanti generi diversi di

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Ivi, pag. 89. E di seguito: “La sua visione del Cristo verbo di Dio incarnato, se sembra riassumere il travaglio secolare della spiritualità mediterranea cercate la logica morale e metafisica dell‟universo, rappresenta in pari tempo una trasformazione ideale del messaggio apocalittico cristiano, in perfetta armonia con le esigenze speculative della cultura ellenistica. […] Egli è indubbiamente innanzi tutto un ebreo. Come Paolo egli trasporta il mondo delle esperienze semitiche sul terreno della spiritualità ellenistica [e] tutto riscaldato dalla coscienza della originalità del messaggio di Cristo, specialmente in confronto con quello del Battista, porta a compimento la sintesi di profetismo e di speculazione storicoplatonica a cui si direbbe che da un millennio tendesse la tradizione spirituale del mondo mediterraneo”: Ivi, pagg. 89-90. 7 Per E. Hoffmann, “la gnosi è quell‟indirizzo del Cristianesimo che concepisce il mondo come radicalmente cattivo, intimamente maligno e avverso a Dio. Pertanto insegna che la gnosi di Dio comincia dal momento in cui noi odiamo il mondo, disprezziamo per lo più il nostro corpo, ci vergogniamo di lui e rinunziamo alla vita”: Platonismus und christliche Philosophie (1960), tr. it., Bologna, 1967, pag. 161. Sull‟argomento, ved. K. Rudolph, Die Gnosis, Wesen und Geschichte einer spaetantiken Religion, Goettingen, 1977; H.-Ch. Puech, Enquete de la gnose, 2 voll., Paris, 1978, tr. it., Milano, 1985; A. Orbe, Introducciòn a la teologìa de los siglos II y III, Roma, 1987, tr. it., Casale Monferrato, 2 voll., 1995; A. Magris, La logica del pensiero gnostico (1997), Brescia, 2011 2.

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ellenismo quante furono le individualità nazionali differenti”. 8 Quanto alla “apatia politica” dell‟Oriente, fu dovuta, come ricorda anche Jonas, ai “metodi di conquista e di governo” degli “imperi dispotici” che si susseguirono nei secoli precedenti la conquista di Alessandro (334-323 a. C.), che “avevano spezzato la resistenza politica delle popolazioni locali e le avevano abituate ad accettare passivamente ogni nuovo padrone che saliva al potere nell‟alternarsi degli imperi”. 9 Ad essa si accompagnò un “ristagno culturale”, in parte imputabile alla millenaria maturazione di alcune civiltà locali, per altra parte dovuta al trasferimento di intere classi dirigenti di popolazioni conquistate, provocando la distruzione delle “energia di crescita culturale” delle “forze vitali nazionali e regionali”, le quali non poterono fornire il potere centrale di “quelle influenze rigeneratrici che possono provenire dal basso”. In ogni caso, non fu tanto la mancanza di una “resistenza cosciente” a facilitare l‟assimilazione delle culture locali da parte della civiltà greca, quanto la rimozione di quegli ostacoli che localmente “avrebbero potuto opporsi alla formazione di una sintesi più ampia”, e che, se da un canto “favorì il distacco dei contenuti culturali [delle civiltà indigene] dal loro terreno nativo [e quindi] la loro astrazione in forme trasmissibili di dottrina e la conseguente possibilità di essere usati come elementi di uno scambio di idee su scala mondiale, appunto come ne poteva far uso l‟ellenismo”, dall‟altro canto “favorì un sincretismo” religioso su scala mondiale che costituì “una caratteristica decisiva dell‟ellenismo”.10 Con la conquista di Babilonia da parte dei Persiani, la religione perse la sua antica funzione politica di culto di Stato, obbligandola “a poggiare da allora in poi soltanto sui propri valori spirituali”, cioè “soltanto sulle sue intrinseche qualità teologiche”, in gradi di competere con “altri sistemi religiosi” per il controllo dello spirito umano, sicché “la perdita di uno stabile regime politico portò alla liberazione del contenuto spirituale”, sviluppando “le sue implicazioni astratte”, che si fissarono nel “sistema razionale dell‟astrologia”, la cui “forma greca” di pensiero “divenne una grande

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H. Jonas, The gnostic religion (1953), tr. it., Torino, 1973, pag. 31-32. Ivi, pag. 33. 10 Ivi, pagg. 34-35. 9

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forza nel mondo di idee ellenistico”. 11

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Ivi, pag. 36. La sapienza greca, indicando nel Lògos la trama della libertà, intese questa come conciliazione con la necessità, ossia come rassegnazione metafisica alla condizione naturale della finitezza anche umana, spostando pertanto nella consapevolezza, ossia nella coscienza teoretica, l‟elemento differenziale rispetto alla mera esistenza di ogni altro essere vivente. Attraverso la distinzione, interna alla parola mitica, dell‟elemento cosciente, il filosofo greco riteneva di pervenire alla vista dell‟Essere per ciò che è, facendo del fenomeno il suo oggetto di coscienza. La “oggettività” del mondo era dunque nient‟altro che il prodotto umano fuori della sua forma cosciente, la quale andava riconquistata attraverso il processo anamnestico che risaliva all‟atto che lo pose in essere. L‟atto creatore del Dio giudaico era già implicito in questo itinerario teoretico, anche se rimosso, per cui bastava porlo all‟arché di ogni dato naturale per giustificarlo moralmente. Lo sforzo del cristianesimo fu quello di liberare l‟atto divino dalla potenza della necessità, ossia dalle condizioni contingenti dell‟esistenza materiale in cui si manifestava. L‟idealismo greco adombrò il problema della finitezza concependo dietro di ogni realtà fenomenica una immagine ideale in cui poteva riflettersi come a un modello eterno, ma non riuscì a pensarla che come forma astratta priva delle imperfezioni contingenti, e non pervenne all‟idea di una assoluta alterità da ciò che è. Le analisi materialistiche della religione hanno buon gioco a mettere in evidenza l‟aspetto proiettivo che si cela in ogni rappresentazione antropomorfica della divinità, legato appunto alla insuperabile concezione immanentistica del naturalismo antico. Si trattava di trascenderlo, pervenendo a una visione spirituale della realtà, aperta al mysterion e non circoscritta alla sola fenomenicità dell‟Essere in cui la restringeva l‟ontologia classica. La cultura religiosa ellenistica, com‟è noto, era pregna di sentimento misterico, ma soltanto il cristianesimo pose il Mistero della Croce a fondamento della fede spiritualistica, liberando attraverso di esso l‟animo umano dai confini della finitezza, dominabili ma non valicabili dalla saggezza della diànoia ma superabili solo dal sentimento agapico, alternativo a quello politico nell‟oltrepassamento della soglia polemica della convivenza, di cui la politeia costituiva la forma razionalizzata. L‟amore cristiano andava oltre la dialettica del polemos e della pax, ovvero dell‟antitesi amicus-hostis della fenomenologia politica, e quindi oltre anche la rielaborazione logica del mito operata dalla filosofia greca classica. Ma nel contempo, superando l‟orizzonte ontologico del naturalismo antico, incentrato religiosamente sulla tradizione culturale etnica, il cristianesimo trascendeva lo stesso legalismo giudaico, e con esso la rappresentazione economica di Dio come Dominus della famiglia ebraica, come Zeus lo era di quella greca. Il Dio cristiano non era semplicemente cosmopolita, così come la sua potestà sugli uomini non era imperiale, ma la chiesa doveva essere cattolica, in quanto il Suo era un regno spirituale universale. Come farLo nascere entro una esperienza statuale e nazionale? In tal senso uno storico fine come A. Momigliano coglie nel segno allorquando nota

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Un‟altra religione, iranica, del sincretismo ideologico ellenistico, fu quella persiana del mazdeismo dualistico. Una terza essenziale componente dello spiritualismo dell‟ellenismo, “la prima civiltà cosmopolita nota alla storia”, fu quella semitica del monoteismo ebraico. Ma processi di “trasformazione della religione tradizionale in un sistema teologico le cui caratteristiche possono essere avvicinate a quelle di una dottrina razionale” in grado di diventare elemento “di uno scambio internazionale di idee”, si ebbero in tutto l‟Oriente. L‟orientamento generale di tali processi era volto ad una dogmatizzazione, nel senso che un principio veniva astratto dall‟insieme della tradizione e sistemato in una dottrina coerente. L‟influenza greca fornì sia l‟impulso che gli strumenti logici e portò a maturità tale processo dappertutto. 12

Si può dire pertanto che la vita intellettuale era ovunque “greca”, essendo greci i canoni di pensiero e letterari per “chiunque desiderasse partecipare alla vita intellettuale di quel periodo”, e pertanto “il silenzio dell‟Oriente non può essere interpretato come una mancanza di vitalità intellettuale da parte degli individui, ma piuttosto come un non voler parlare per sé, in nome proprio”, mentre le “creazioni della mente orientale, una volta che queste avevano assunto la forma greca”, 13 trovavano ospitalità nel contesto culturale ellenistico, producendo “una specie di mimetismo” anonimo, che Jonas chiama “pseudonimia”. Fu appunto la costatazione della differenza tra ciò che veniva chiamato “greco” prima e dopo Alessandro che spinse Droysen ad introdurre il termine “ellenistico” in contrapposizione ad classico “ellenico”. “Ellenistico” voleva significare non soltanto l‟allargamento della civiltà della polis in una civiltà cosmopolita e le trasformazioni inerenti a questo processo, ma anche il cambiamento di carattere derivato dall‟accoglienza

che era “più facile trovare nell‟Ellenismo pagano che non nel Giudaismo i presupposti del mistero della Resurrezione”: Id., Introduzione all’Ellenismo (196970), in Storia e storiografia antica, Bologna, 1987, pag. 96. 12 Ivi, pag. 37. 13 Ivi, pag. 38.

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delle influenze orientali in questa totalità ampliata”. 14

La civiltà ellenistica può essere definita generalmente, per la sua eterogeneità, come un “sincretismo” culturale, ma più precisamente il termine “denota un fenomeno religioso che l‟antico termine teocràsi, ossia mescolanza degli dèi, esprime in modo più adeguato”. Essa “si espresse sia nel mito che nel culto ed uno dei suoi strumenti logici più importanti fu l‟allegoria”. 15 Lo sviluppo di questo processo segnò il passaggio dalla prima fase “greca” dell‟ellenismo, caratterizzata dalla cultura secolare, che va da Alessandro a Cesare e durata fino al tempo di Cristo, alla seconda fase, dominata dallo spirito religioso orientale. Il “monopolio greco” della cultura, per lo spirito orientale, fu per certi aspetti di “soppressione”, costringendolo a informare i suoi contenuti nelle forme intellettuali greche, e per altri di “liberazione” intellettuale, “perché la forma concettuale greca offrì alla mente orientale una possibilità completamente nuova di portare alla luce la sua eredità

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Ivi, pag. 39. H. Jonas, Op. cit., pag. 40. “Con il nome di Ellenismo si intende oggi di solito il periodo storico che va dalla morte di Alessandro il Macedone (323 a.C.) alla sparizione con la morte di Cleopatra della monarchia dei Lagidi in Egitto (30 a.C.), alla sparizione, cioè, dell‟ultimo fra i grandi stati formatisi sui frantumi dell‟impero persiano. Pochi storici estendono il nome di E. alla storia di tutto l‟Oriente mediterraneo di lingua greca sotto il dominio romano, fino allafondazione d i Costantinopoli nel 330 d.C., quando comincerebbe il periodo bizantino. Più incerti sono i limiti geografici. […] L‟uso più comune è di includere tutti gli stati sorti sull‟impero persiano e inoltre la Macedonia e la Grecia: la Partia è dunque inclusa […]. Questa nozione di E. è una tipica creazione del pensiero storico tedesco del secolo XIX. In secoli precedenti, almeno dalla fine del sec. XVI, si era usato il termine ellenistico per indicare il greco del Nuovo Testamento, che si considerava un greco modificatoda influenze dell‟ebraico. Da Herder in poi si trovano esempi del termine E., che pur conservando il significato linguistico fondamentale, tendono a farne un concetto culturale, quasi una mistione di cultura greca ed ebraica. J.D. Droysen nel 1833 formulò per primo la nozione oggi prevalente di un periodo storico caratterizzato da mistione di greco e di orientale, soprattutto nel campo religioso. Droysen tendevaa estendere la denominazione fino al periodo romanobizantino della cultura greca. […] Per Droysen la mistione di elementi greci e orientali nell‟E. rappresentava la situazione culturale entro cui si sviluppò il Cristianesimo”: A. Momigliano, Introduzione all’Ellenismo, cit., pagg. 73 e 74. 15

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propria”.16 Il pensiero orientale originariamente era stato di tipo “non concettuale”, esprimendosi in miti e riti, anziché logicamente. Solo superando, con l‟ellenismo, il retaggio delle tradizioni popolari attraverso il mutuo dello strumento greco del logos, del concetto astratto, gli antichi simboli religiosi poterono esprimersi secondo il metodo di espressione teorica, cioè il sistema razionale, “una delle maggiori scoperte nella storia del pensiero umano”, che costituiva uno “strumento formale applicabile a qualsiasi contenuto”. In fondo il pensiero orientale rimase mitologico, come apparve chiaramente

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H. Jonas, Op. cit., pag. 41. A noi pare che il significato culturalmente più rilevante dell‟Ellenismo fu propriamente la costituzione della “forma concettuale greca”, e dunque delle sue categorie filosofiche, come paradigma teoretico della teologia cristiana quale si affermò tradizionalmente a partire dai primi secoli come corpus dottrinale fondamentalmente razionalistico della Chiesa cattolico-romana, la quale, se poté fruire della struttura imperiale romana ai fini di una sua capillare presenza istituzionale, anche in funzione suppletiva e surrogatoria, poté altresì contare sulla “uniformità culturale” di retaggio ellenistico, che era stata appunto la caratteristica, al di là della “disparità istituzionale, sociale ed economica”, proprio della “civiltà dell‟Ellenismo”, che vede in Alessandria, sede dei Tolomei, “una delle città greche più prospere del mondo antico”, il suo principale centro intellettuale, dove si istituisce la famosa biblioteca, più preziosa di quella di Pergamo. La ricchezza della cultura ellenistica, com‟è noto, proseguirà in lingua latina quando scemerà la forza della greca, e poeti dell‟età repubblicana e augustesa, così come eruditi dell‟età cesarea quale Varrone, ne continueranno lo spirito cosmopolitico. Nelle scuole ellenistiche di eloquenza, di storia e soprattutto filosofiche, infatti, “si pensava in greco, e ciò che contava era l‟appello universale degli argomenti”, e non certo l‟origine etnica degli adepti. Senza contare che “nella diaspora [degli Ebrei], di cui Alessandria fu il centro principale, il Giudaismo fu interpretato in termini filosofici, fu messo in qualche modo al livello della filosofia”, aprendo la strada alla “reinterpretazione in greco del messaggio di Gesù compiuta da S. Paolo e dagli Evangelisti”, e “continuato e rielaborato in Alessandria da pensatori della forza di Clemente e Origene”, le cui dottrine riuscirono a “offrire una base di collaborazione tra pensiero filosofico e religione popolare, come nessuna filosofia greca era riuscita prima a proporre”. Pertanto si può concludere che “in questo senso il Cristianesimo è fenomeno ellenistico, in quanto risulta da una prima fase di isolamento dal Giudaismo e da una seconda fase in cui il messaggio messianico di Gesù è interpretato in greco per Ebrei e non Ebrei”: A. Momigliano, Introduzione all’Ellenismo, cit., pagg. 85, 92-93 e 95-96.

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quando si presentò di nuovo al mondo; ma aveva imparato nel frattempo a manifestare le sue idee sotto forma di teorie e ad usare concetti razionali, anziché impiegare per esprimerle soltanto immagini sensibili. In tal modo con l‟aiuto della concettualizzazione greca si ebbe la definitiva formulazione dei sistemi del dualismo, del fatalismo astrologico e del monoteismo trascendente. Avendo acquistato la condizione di dottrine metafisiche essi acquistarono corso generale e il loro messaggio poté essere rivolto a tutti. Perciò lo spirito greco liberò il pensiero orientale dalla schiavitù del suo stesso simbolismo e lo mise in grado di scoprire se stesso nella riflessione del logos [anche se] ogni generalizzazione o 17 razionalizzazione la si sconta con la perdita di specificità.

A fronte di questo, occorre ricordare che “i più eminenti gnostici manifestarono un individualismo intellettuale molto pronunciato” insieme a un “immaginativa mitologica di tutto il movimento” molto “fertile”, caratterizzata da un “non-conformismo [che] fu quasi un principio della mentalità gnostica” di attingere alla “sorgente di conoscenza diretta” dello “spirito”. 18 La doppia movenza culturale, una formalmente accreditata e di superficie, l‟altra criptica e di sottofondo, costrinse lo spirito orientale a coltivare “una corrente nascosta antagonistica” a quella ufficiale e letteraria di spirito greco, la cui “vita segreta” si svolse “al di sotto della superficie della pubblica civiltà ellenistica” e che esplose agli inizi del Cristianesimo, allorquando “le sue forze ruppero la crosta ellenistica e inondarono il mondo antico, scorrendo nelle forme greche già stabilite, riempiendole del loro contenuto, e creando inoltre letti loro propri”, iniziando “la metamorfosi dell‟ellenismo in una cultura religiosa orientale”, 19 che rappresentò il polo dialettico della precedente razionalizzazione greca dello spiritualismo orientale, in cui antichi contenuti e forme nuove trovarono un nuovo focus unitario, la cui “totalità che in tal modo prende origine deve essere intesa, nonostante il suo carattere manifestamente sincretistico, non come prodotto di un qualunque eclettismo, ma come un sistema di idee originale e distinto”, 20 che si riassume in un motivo

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H. Jonas, Op. cit., pagg. 41-42. Ivi, pag. 62. 19 Ivi, pag. 43. 20 Ivi, pag. 44. 18

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spirituale non presente nei singoli movimenti, e che Jonas indica come “principio gnostico”. 21 I motivi generali dello spirito dell‟epoca tardo-ellenistica sono a) di tipo religioso, b) soteriologici (religioni di salvezza), c) fautori di una concezione trascendente della divinità e d) ontologicamente dualistica, per cui esso si può indicare complessivamente come “religione dualistica trascendente di salvezza”.22 La conoscenza gnostica differisce radicalmente da quella ideale del theorein greco, che è conoscenza analogica, nel senso che la relazione visuale con l‟oggetto conosciuto consiste in un vedere una forma oggettiva distinta dal soggetto te oretico, e che perciò “rimane inalterata nonostante la relazione”. Diversamente, la conoscenza gnostica implica una relazione con l‟oggetto che trasforma il soggetto in senso spirituale, rendendolo parte attiva, e perciò compartecipe della realtà ontologica dello stesso Soggetto conosciuto, oggetto di conoscenza, che è Dio, fine della conoscenza e strumento di salvezza, e perciò “perfezione ultima”. 23 Secondo la tesi di Harnack,24 condivisa come abbiamo visto anche da Buonaiuti, lo gnosticismo fu un fenomeno interno al cristianesimo quale sua forma di “acuta ellenizzazione”, che lo stesso Buonaiuti indica come una forma di “platonismo mistico”, mentre esso per Jonas, dietro la “apparenza ellenica della concettualizzazione […] maschera solo superficialmente una sostanza spirituale eterogenea”, 25 sicché esso fu,

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Ivi, pag. 47. Ivi, pagg. 51-52. 23 Ivi, pag. 55. 24 A. Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte (1886-1890), tr. it. vol. I, 1912, rist. Brescia, 2012, pagg. 251-299; ved. anche vol. IV, 1913, rist. Brescia, 2012, pagg. 393-420. 25 H. Jonas, Op. cit., pag. 56. “La combinazione del concetto pratico, salvifico di conoscenza con la sua rappresentazione teoretica in sistemi di pensiero quasirazionali – la razionalizzazione del soprannaturale – fu tipica della forma più alta di gnosticismo e fece nascere un genere di speculazione precedentemente sconosciuto, ma che non sarebbe mai più scomparso dal pensiero religioso”: Ivi, pagg. 56-57. La definizione del Buonaiuti dello gnosticismo è in Storia del Cristianesimo, vol I cit., pag. 170. Sulla eterogeneità della letteratura del II secolo, “punto d‟avvio della grande dogmatica”, concorda anche A. Orbe, il quale ricorda che gli stessi teologi avversari nel “duello dogmaticamente più duro della storia della chiesa”, quello della “gnosi liberissima, intellettuale, che pretende di adattarsi all‟ellenismo, a 22

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mutuando una formula di Spengler tratta dalla mineralogia, un caso di “pseudomorfismo”, ossia un nuovo pensiero entro una preesistente forma antica, quella greca, il cui razionalismo di tipo filosofico funse da contenitore del nuovo contenuto spirituale di tipo religioso. Tipico della gnosi è il dualismo antropologico e di Dio - essere trascendente nascosto a tutte le creature che abita il perfetto regno divino della luce e non può essere conosciuto con concetti naturali e comunque solo in forma negativa - e mondo, cosmo imperfetto delle tenebre, “opera di potenze inferiori le quali, seppure possono provenire mediatamente da Lui, non conoscono il vero Dio e impediscono la conoscenza di Lui nel cosmo sul quale esse governano”. 26] L‟uomo, costituito di corpo, anima e spirito, ha una duplice origine, mondana e sovra-mondana. All‟elemento mondano, soggetto all‟heimarmène, appartengono il corpo e l‟anima, mentre elemento divino è lo spirito (pneuma), “scintilla” celeste prigioniera dell‟anima. “Il fine dello sforzo gnostico è la liberazione dell‟uomo interiore dai legami del mondo e il suo ritorno al regno nativo della luce” attraverso la conoscenza (gnosis) di Dio e di sé, della propria natura divina, impedita dalla “ignoranza”, che è “l‟essenza dell‟esistenza mondana”, e perciò abbisognevole di una rivelazione della “conoscenza di Dio”, che inizia il processo della salvezza, consistente nel viaggio post mortem dell‟anima, la quale, abbandonando il suo involucro psichico, raggiunge come spirito Dio, restaurando la sua divina sostanza ultra-mondana.27 Questo disegno, che coinvolge Dio nella storia cosmica attraverso l‟invio di un Suo messaggero, una volta raggiunto il suo fine, troverà il suo compimento. Durante la loro vita i “pneumatici” gnostici “stanno appartati dalla gran

beneficio reciproco della fede cristiana e della filosofia”, contro “la tradizione pubblica apostolica della chiesa, che sacrifica individuali tendenze alla conservazione della fede e si muove con mirabile disinvoltura nel campo immenso della rivelazione”, accoglievano “senza discussione la grammatica comune, di timbro stoico, per l‟uso delle proposizioni”, sicché anche le “teologie antagoniste” degli ecclesiastici e degli eretici, “entrambe difficili e oscure, si chiariscono meglio attraverso un‟analisi reciproca”. Infatti, “dall‟errore derivò la prima grande teologia sistematica”: Introducciòn a la teologìa de los siglos II y III, Roma, 1987; tr. it. cit., vol. I, Temi veterotestamentari, pagg. 15-18. 26 H. Jonas, Op. cit., pag. 63. 27 Ivi, pag. 65.

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massa dell‟umanità”, secondo un atteggiamento morale di “ostilità verso il mondo e [di] disprezzo di tutti i legami mondani” che sviluppa due direttive opposte di libertà dall‟heimarmène: “l‟ascetica e la libertina”, l‟una tendente al distacco, l‟altra al possesso. Soprattutto “il libertinismo antinomico rivela più potentemente della versione ascetica l‟elemento nichilistico contenuto nell‟acosmismo gnostico”. 28 Quelle gnostiche sono “religioni della chiamata”, intendendo per essa la “forma in cui l‟oltremondano fa la sua apparizione nel mondo”. 29 L‟esito della chiamata è il “risveglio” dal sonno o dall‟ebrezza dell‟ignoranza, che si determina come “ricordo dell‟origine celeste e della storia; promessa della redenzione” e “istruzione pratica sul come vivere in conformità della „conoscenza‟ e in preparazione dell‟eventuale ascesa” verso la “liberazione dalla schiavitù del mondo”. 30 La formula del risveglio la ritroviamo nel Nuovo Testamento (Eph.5, 14). Il Mito, secondo il punto di vista razionalistico di Jonas, era l‟espressione simbolica di idee astratte, in cui il sapere tradizionale della fede popolare veniva concettualizzato e reso razionalmente comunicabile, e le idee nuove rivestite di un prestigio antico. In realtà, come sappiamo a partire da Platone, il Mito come visione speculativa del mondo rappresentata in forma allegorica, è un prodotto della filosofia idealistica greca, mentre esso in origine costituiva l‟universo di senso entro il quale si dava il fondamento ontologico di ogni consequenziale mito-logia. La trascrizione dei miti in forme simboliche conformi a un pensiero “illuminato” avveniva attraverso l‟uso di allegorie, le quali costituivano “lo strumento di adattamento del mito alla filosofia”. Ma nel I sec. d. C., quando lo gnosticismo prese a diffondersi, Filone di Alessandria (20 a. C.- ) mise l‟allegoria “al servizio della religione nello sforzo di mettere d‟accordo la sua fede giudaica con la filosofia platonizzante”. Il modello sintetico e di integrazione culturale fu ereditato anche dai primi Padri della Chiesa. 31

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Ivi, pag. 66. Ivi, pag. 92. 30 Ivi, pag. 98. 31 H. Jonas, Op. cit., pagg. 107-108. Filone, “alessandrino ed ebreo, legge la Scrittura secondo moduli ellenistici e incorpora vocabolario e inquietudini di tipo platonico con ripercussioni sul mondo e l‟uomo, estranee alla tradizione giudaica”. 29

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La tendenza fu perciò quella di mettere tutto in armonia [in modo tale che] nonostante l‟arditezza della interpretazione, essa rimase nei casi individuali conservatrice ed essenzialmente rispettosa della tradizione, [per cui] un‟eredità omogenea di conoscenza circa le realtà più alte veniva a comprendere il vecchio e il nuovo e a dare gli stessi insegnamenti sotto forme diverse. Di conseguenza il mito, per quanto liberamente elaborato, 32 non veniva contraddetto, né i suoi giudizi erano messi in discussione.

L‟allegoria in senso gnostico, “è di natura del tutto diversa” da quella religiosa, ricercando, alla maniera idealistica, il paradosso e lo scandalo anziché la coerenza e il consenso, esprimendo pertanto una posizione essenzialmente “rivoluzionaria”, che, similmente al razionalismo socratico-platonico, “tenta di scuotere il significato degli elementi della tradizione più saldamente stabiliti e di preferenza maggiormente venerati”, 33 con la “inconfessata pretesa” di portare in luce gli elementi di verità del Mito, “sovvertendone completamente il senso” 34 a favore di “una visione da ribelli della storia”,35 e quindi sostanzialmente filosofica. “Filosofo”, infatti, è l‟equivalente gnostico di “pneumatico”, ossia colui che è “sopra l‟heimarméne”, emancipato dalla fatalità delle leggi di natura cosmiche garantite dagli dèi. 36 Ma la condizione presente del mondo, “ciò che è”, è pervenuta al suo essere attraverso una “storia che spiega la sua condizione innaturale”, per cui il compito della speculazione quindi è di rendere ragione del presente stato delle cose in una esposizione storica, di farlo derivare dai primi inizi e così di spiegarne l‟enigma: in altre parole, di sollevare la visione della realtà nella luce della gnosi. La maniera in cui tale compito è portato a termine è

Egli infatti “segue una traiettoria platonizzante e incorpora nell‟esegesi della Scrittura gli elementi più puri dell‟ellenismo”: A. Orbe, La teologia dei secoli II e III, cit., vol. I, pagg. 29 e 33. Ved. M. Pohlenz, La stoa (1948), tr. it. (Firenze, 1967) Milano, 2012 2, pag. 772. 32 H. Jonas, Op. cit., pag. 107. 33 Ivi, pag. 108. 34 Ivi, pag. 111. 35 Ivi, pag. 112. 36 Ivi, pag. 113.

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invariabilmente mitologica […] in molti casi opera di libera invenzione dei 37 singoli autori.

La concezione gnostica di salvezza è diversa da quella cristiana della remissione del “peccato”, al cui posto la gnosi pone “l‟ignoranza”. 38 La salvezza gnostica è dal potere dei demiurghi che tengono l‟anima in prigionia, per cui “la valutazione negativa del cosmo è fondamentale”. 39 Infatti, “l‟origine divina degli agenti cosmici, e perciò la concezione di tutta la storia come un fallimento divino, è un punto integrante [della] speculazione [gnostica], addirittura il principio esplicativo”. 40 Le potenze del mondo sono quelle di “usurpatori ignoranti che, non considerando il loro rango subalterno nella gerarchia dell‟essere, si arrogano la direzione del mondo e, scarsi di mezzi, con l‟invidia e la bramosia di potere, possono solamente rappresentare una caricatura della vera divinità”. 41 Sono posizioni che sembrano tratte dal Timeo platonico, che costituisce l‟antecedente idealistico di ogni posizione filosoficamente gnostica, in cui a temi teoretici si abbinano a visioni immaginifiche di tipo cosmologico e simbolismi allegorici a dettami etici, tutti in funzione religioso-escatologica., per cui il “viaggio celeste dell‟anima che ritorna” ha valore di fede per gli gnostici, non soltanto in senso teorico, ma soprattutto pratico immediato, in quanto “il senso ella gnosi è quello di preparare per l‟evento finale, e tutta la sua istruzione etica, rituale, tecnica, è intesa ad assicurare il suo adempimento completo”. 42 È pur vero che dopo Costantino e l‟affermazione del Cristianesimo sul paganesimo lo gnosticismo “aveva già perduto nella memoria letteraria del cristianesimo colto i suoi precisi e autentici connotati”, 43 ma è certo altresì che l‟istanza dualistica gnostica, implicita nello stesso retaggio idealistico della teoresi cristiana, torna di attualità ideologica ogni

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Ivi, pag. 119. Ivi, pag. 145. 39 Ivi, pag. 148. 40 Ivi, pag. 147. 41 Ivi, pag. 150. 42 Ivi, pag. 181. 43 E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I, cit., pag. 91. 38

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qualvolta le condizioni storiche mettono in contraddizione morale le ragioni spirituali della fede con le ragioni politiche, comprese quelle della Chiesa istituzionale. In questi frangenti, l‟accentuazione spiritualistica di segno gnostico della carica messianica entro la prospettiva escatologica cristiana, che denota uno spostamento in senso personalistico della sua visione sociologica e lo rende “radicalmente e irriducibilmente difforme da quella visione realistica del regno di Dio, motivo centrale del messaggio cristiano”, 44.] non rappresenta un motivo allotrio al suo orizzonte escatologico, ma bensì un‟istanza ideologica latente che emerge occasionalmente nei tempi di crisi, allorquando le forme culturali tradizionali non riescono più a comprendere la novità dei movimenti storici da esse non previste e perciò non interpretabili dai suoi schemi ermeneutici. Non a caso, come ci ricorda il Buonaiuti, “nel decorso della civiltà romano-mediterranea, il cristianesimo costituisse una forza di ascensione e di progresso, destinata infallibilmente a scardinare la vecchia struttura sociale del mondo romano per trapiantarla su altre basi e su altri sostegni”. 45 Possiamo dunque anche

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Ivi, pag. 99. Ivi, pag. 103. Come ricorda M. Scheler, “da quando la Chiesa romana soverchiò il neoplatonismo e le sètte gnostiche, la preponderanza delle religioni rivelate sullo spirito metafisico autonomo è divenuta, in Occidente, incredibilmente imponente. Ed è più che sorprendente vedere quanto sia stata infima l‟influenza sociale e storica che da allora il pensiero metafisico autonomo ha in genere posseduto!”: Probleme einer Soziologie des Wissens (1924), tr. it., Sociologia del sapere, Roma (1966), 19772, pag. 134. Ma ciò fu dovuto non solo per la ricercata egemonia culturale del cristianesimo nel variegato contesto intellettuale ellenistico dei primi secoli cristiani, ma soprattutto a seguito dell‟acquisizione da parte dei dotti cristiani dell‟idea greca dell‟unità del sapere, che nel Logos trovava la sua cifra gnoseologica. Tale presupposto, che durò fino al sec. XVIII, implicava la necessità di confermare razionalmente la fede nell‟unica ed eterna verità, con la conseguenza che ogni pensiero dell‟Essere cui si applicava per statuto la filosofia inerendo il senso teologico di quel pensiero non potesse vertere che sull‟unico e vero Essere di Dio testimoniato dalla predicazione evangelica, e dunque su un sapere fondato sulla fede. L‟equivoco che si celava in questa posizione teoretica era appunto l‟identità dell‟Essere filosofico con l‟Essere teologico, che equiparò il Dio della fede a una entità ideale con cui i Greci rappresentavano ontologicamente l‟unità della natura, per cui la “fede” cristiana nella verità divenne la stessa fede nella Ragion e filosofica, di cui Dio era il postulato. Bastò al pensiero moderno rimuovere il 45

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noi convenire con lo storico cristiano che tanto “la visione sociale e umanitaria della salvezza cristiana”, retaggio della “concezione profetica e apocalittica della tradizione giudaica”, quanto “la visione di una perfezione spirituale e individuale conseguita mercé il raggiungimento di una luce spirituale comunicata dalla parola immanente di Dio”, mutuata da una “visione ellenico-speculativa, in cui veniva i qualche modo a confluire, trasfigurato, il miglior viatico della filosofia greca”, costituiscono “le due correnti antitetiche [che] si sarebbero perpetuate nello sviluppo della tradizione e della società cristiana, costituendo il fermento drammatico permanente del fatto cristiano, fino all‟esaurimento della sua capacità normativa”. 46 Secondo gli gnostici, “l‟Antico Testamento è dominato dall‟ignoranza del vero Dio”, per cui “si dovette attendere la venuta del Salvatore, Figlio del Dio sconosciuto, che rese manifesta” la verità, rivelando “i misteri annunciati inconsapevolmente da Mosé e dai profeti” 47 Ciò vuol dire che la verità divina non si evince dalle Scritture ma dalla dottrina esoterica di Gesù rivelata agli apostoli. Esiste dunque una doppia chiave di lettura delle Scritture, quella letterale e ingenua di chi è privo della gnosi, e quella invece allegorica ed esoterica di chi, possedendo la gnosi, è in grado di avere la chiave dell‟allegoria.48 La cristologia nasce con la diffusione stessa del Nuovo Testamento. I vari “titoli messianici” che nei diversi vangeli riguardano Gesù come “Figlio di Dio” o “figlio dell‟uomo”, “vengono interpretati alla luce di esperienze storiche diverse”, relative ognuna alla antropologia di riferimento dell‟interprete. La dispersione esegetica viene però superata “dalla comparsa, nella seconda metà del II secolo, di diverse tradizioni esegetiche, parallele e autonome, che abbracciano l‟intera vita di Gesù”, le quali “si raggruppano intorno a tre concezioni antropologiche fondamentali: quella gnostica dell‟homo-spiritus, che si interessa alla salvezza dei soli uomini spirituali; quella filoniana dell‟homointellectus, attratta dalla salvezza dell‟anima; e quella asiatica

fondamento di fede per conservare alla Natura la sola unità di ragione universale, quella della scienza. 46 E. Buonaiuti, Loc. cit., pagg. 104-105. 47 A. Orbe, Introduzione a Il Cristo, vol. I, Testi teologici e spirituali dal I al IV secolo, Milano, 2000 5, pag. XXIII. 48 Ivi, pag. XXIV.

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dell‟homo-caro, in cui primeggia la salus carnis”. Da quel momento la cristologia si viene strutturando “in funzione dell‟antropologia”, e questa “alla luce delle Scritture e della tradizione apostolica”, che diventa “la norma di lettura di entrambi i Testamenti”. Alla forma canonica “pubblica” della predicazione apostolica, le interpretazioni ereticali si basavano su una paradosis “segreta”, arricchita di nozioni di origine pagana. 49 Come già nel quarto secolo avanti Cristo la mistica asiatica e l‟illuminismo greco si erano trovati in conflitto nella filosofia di Platone, ora il profetismo biblico e l‟illuminismo ellenistico si trovano a conflitto sul terreno dell‟esperienza cristiana. E‟ il millenario conflitto spirituale della civiltà mediterranea e le sorti ne oscillano ancora tra le due posizioni antitetiche. 50

Le cristologie possibili sono due: quella del “Cristo Gesù, Figlio di Dio Padre in quanto Spiritus salutaris, che è venuto nella somiglianza della carne (non secundum carnem)”, e quella del “messia futuro, figlio di Iahvé, consustanziale a lui, ma anche agli uomini secundum animam [che] vivrà nella carne tra gli uomini come era stato profetizzato dall‟Antico Testamento. Marcione adotta la prima cristologia”. 51 Esponente tipico della corrente soteriologico-spiritualistica del cristianesimo del II sec., Marcione Pontico, originario di Sinope, visse sotto Adriano e giunse a Roma verso il 136-140 e fu autore delle Antitheseis, andate perdute, in cui, “scavando abissalmente nelle latebre più riposte di questo paradosso vivente che è la psicologia umana, mirava ad individuare il conflitto tragico che la natura umana porta in se stessa tra le cupidigie della sua sensualità inappagabile e le aspirazioni risorgenti della sua spiritualità conculcata”.52 Marcione pertanto, ispirandosi alla filosofia medioplatonica, teorizzava il dualismo antropologico, rappresentando il “composto umano come la commistione eterogenea di due princìpi di azione nettamente antitetici, che lottano nella personalità umana e che si riportano ciascuno a una

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A. Orbe, Introduzione a Il Cristo, vol. I, cit., pag. XIII. E. Buonaiuti, Op. cit., pag. 171. 51 Ivi, pag. XVII. 52 H. Jonas, Op. cit., pagg. 110-111. 50

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sua peculiare e specifica fonte di operazione”. 53 L‟antesignano, più consapevole e raffinato, della critica francescana del tralignamento dallo spirito genuino del Vangelo, Marcione era “profondamente persuaso che il messaggio del Cristo […] avesse subito immediatamente nello stesso gruppo dei suoi primi seguaci una deformazione sostanziale”, e perciò si pose “come compito preliminare la restituzione dell‟originaria essenza cristiana”, 54 attraverso “l‟unico mezzo” disponibile a chi volesse seguire “l‟annuncio mirabile del perdono, della dolcezza e dell‟universale carità”, quello della “separazione assoluta del messaggio cristiano da qualsiasi continuità con l‟economia del Vecchio Testamento, l‟economia del merito umano, della giustizia calcolabile, dei codici tariffati, delle discipline canoniche, dei regimi gerarchici”.55 Un programma di restituito in integrum dello spirito lucano e paolino contro quello pietrino che invece si affermò storicamente, rappresentabile anche come la tensione oppositiva tra spirito greco e spirito ebraico entro la cultura cristiana, in un periodo storico in cui il “rinnegamento spietato di tutta la tradizione giudaica, col suo disconoscimento radicale di ogni qualsiasi apporto israelitico alla rivelazione” si incontrava con “la terribile repressione antigiudaica” condotta da Adriano. 56 A questo programma si oppose Ireneo, vescovo di Lione vissuto sotto l‟impero di Commodo, “imbevuto di idee bibliche che predominano nettamente sopra ogni attitudine mistico-platonica, Ireneo ripudia energicamente quella concezione gnostica della formazione del mondo, che in fondo era ancora dell‟emanazionismo platonico, con una leggera patina cristiana” 57 scrivendo Contro la falsa gnosi, opera in 5 libri.58 Per Ireneo la redenzione non è, come gli gnostici, “un puro processo di 53

Ivi, pag. 112. Ivi, pag. 111. 55 Ivi, pag. 114. 56 Ivi, pag. 115. 57 E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pagg. 167-168. 58 Secondo Buonaiuti, “le idee teologiche di Ireneo appaiono ancora in quello stato embrionale di formazione, in cui è tutta la scienza cristiana del secondo secolo”, mentre “meglio sistemate appaiono le concezioni antropologiche e soteriologiche”. Sostiene lo storico che si può dire che “la soteriologia patristica, come soluzione del problema del male […] comincia con lui”: Ivi, pagg. 168 e 169. 54

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chiarificazione intellettuale, che dischiude alle nostre menti, finora obnubilate, la visione dei misteri del mondo trascendente”, ma “è precisamente e innanzitutto il riscatto dalla colpa di Adamo”, di cui il martirio di Cristo è “il prezzo” pagato da Dio a Satana per l‟emancipazione dell‟umanità dalla sua schiavitù. “La redenzione è così un ponte gettato tra la divinità e l‟umanità, colmante l‟abisso che è stato spalancato dalla disubbidienza del premo genitore. Valicando questo ponte, noi riacquistiamo l‟incorruttibilità perduta e diveniamo capaci dell‟adozione di Dio”.59 Non è difficile vedere in Ireneo, per la sua visione sentimentale della redenzione, l‟antesignano di Pascal. Ma, al di là della contingente risposta storica elaborata dall‟ortodossia, il motivo dualistico marcionita di un‟antropologia dipolare sospesa tra natura e spirito, costituisce il paradigma di ogni posizione morale che non accetta come fatale l‟esigenza di giustificare razionalmente sempre e comunque la condizione esistenziale presente dell‟uomo socializzato. Ed è in questa istanza liberatoria che va rintracciata la presenza in ambito ellenistico dell‟idealismo platonico, a sua volta espressivo in ambito culturale greco dell‟eterna posizione gnostica intrinseca a ogni dualismo metafisico, il cui “carattere rivoluzionario” si manifesta in situazioni di crisi culturale e di significative tensioni spirituali proprie a strutture sociali in dissoluzione e delle quali la “sfida gnostica” diventa espressiva.60 Questo avvenne in riferimento all‟universo culturale greco e all‟universo etico-politico romano, entrambi a loro rispettivo modo espressivi di un similare processo di implosiva universalizzazione dei propri fondamenti intuitivi del mondo, i quali, validi e coerenti all‟interno del cosmo storico-culturale originario, perdono la loro significatività ontologica quando ne vengono razionalisticamente astratti per divenire paradigmi assiologici universali e princìpi suppostamente comuni a ogni forma di civiltà particolare. Ma la dialettica propria di ogni astratta universalizzazione di una tesi ideale, che si rovescia nel suo opposto logico reale, ha interessato anche la civiltà cristiana, la cui cultura spiritualistica si era originariamente contrapposta al cosmo etico-politico romano quale suo polo dialettico

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Ivi, pag. 169. H. Jonas, Op. cit., pag. 257.

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antagonistico, per poi diventare a sua volta l‟universo istituzionalizzato a cui contrapporsi in nome di istanze morali ispirate a valori spirituali trascendenti, che magari sono gli stessi che ne ispirarono originariamente l‟ascesa. Il più delle volte, infatti, i motivi oppositivi sono interni al sistema di valori cui si contrappongono dialetticamente, ma conculcati dalla loro inattualità storica, ma che in condizioni mutate a seguito di situazioni di crisi, tornano in auge confermando la loro possibilità, già anti-storica in un cosmo che li escludeva e ora storicamente reale in un cosmo in dissoluzione. 61

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L‟universalizzazione dottrinaria di una posizione di pensiero, consistendo nella astrazione razionale dei suoi dati empirici, aveva come conseguenza storica la proliferazione di tesi particolari, relative alla determinazione razionale di aspetti concreti dell‟esperienza umana, che inevitabilmente apparivano eccentriche rispetto al modello universale originariamente postulato come vero e unico dall‟istituzione che lo riconosceva per tale, sicché è la definizione di una ortodossia a derivare le relative eresie. Autori alessandrini come Clemente ed Eusebio fecero risalire “l‟inizio dei fenomeni di scostamento dalla retta via apostolica” all‟ “avvento al potere dell‟imperatore Adriano e la comparsa delle prime scuole gnostiche, identificate tout court con l‟eresia, principio di frantumazione dell‟unità. […] In realtà, l‟acquisizione decisiva della storiografia contemporanea sulle origini cristiane consiste proprio nel superamento del paradigma unitario di matrice ireneana-eusebiana, a favore di una visione che assume la pluralità e la differenza già alla scaturigine dell‟esperienza di quello che si definisce „cristianesimo‟ negli stessi scritti divenuti poi canonici; anzi, lo stesso stabilimento di un canone testuale e di una regula fidei si può comprendere solo all‟interno di una dinamica che vede gli attori storici impegnati in un processo di scambio, a volte anche aspramente conflittuale […] tra idee e tradizioni che venivano ricollegate a una precisa figura storica, quella di Gesù di Nazareth, e alla predicazione che da lui era stata avviata”: M. Rizzi, Giudeocristianesimo, apologetica e alessandrinismo, in Il Cristianesimo. Grande atlante, a cura di Alberigo-Ruggieri-Rusconi, vol. III Le dottrine, Torino, 2006, pag. 1000. Bisogna nondimeno tenere distinta la “genesi” sociologica del fenomeno cristiano dalla sua istituzionalizzazione dottrinale, le cui determinazioni razionali dipesero certamente, come sostenuto da von Harnack, dal processo di ellenizzazione, ossia di inculturazione ellenistica, della predicazione cristiana, la cui formulazione dottrinale, al di là della determinazione degli statuti relativi alla figura e quindi alla autorità di Gesù, avvenne in fruizione delle categorie teoretiche del pensiero filosofico di matrice greca. “Gli apologisti greci” del II secolo “si trovarono a misurarsi con obiezioni formulate a partire da una tradizione e da un codice culturale a cui il cristianesimo era in parte o del tutto estraneo, in maniera tale,

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I termini della dissoluzione sono relativi ai confini dell‟universo di senso cosmologico cui si riferiscono, sicché proporzionalmente quanto più sono razionalmente in-definiti quei termini, tanto più sono inclusivi i confini, e quindi quanto più aperte le forme di pensiero, tanto più plurali i luoghi dell‟ordine sociale. Correlativamente, allorquando le forme cosmologiche vengono astrette entro rigidi confini definitori, la logica che ne presiede il sistema si proietta in una tendenzialmente coerente struttura istituzionale che risulterà nell‟immediatezza storica economicamente efficace, ma la cui astratta applicazione tecnica provocherà contraccolpi spirituali di insofferenza morale culturalmente, e a volte anche socialmente, eversivi. Nella distanza tra forme istituzionali e condizioni socio-culturali si insinuano i motivi critici dei disegni ideali alternativi all‟attualità, che auspicano un futuro migliore attraverso un ritorno all‟antico, al Mito fondativo da cui è nato il processo storico attuale. L‟opposizione spirituale all‟essere attuale si manifesta sempre come lotta morale contro l‟ingiusta legge, che si traduce in istanza razionale contro le contraddizioni logiche del Potere, garante nominale della giustizia universale e dispensatore di ingiustizia pratica singolare. Questa infinita dinamica ciclica che caratterizza i processi socioculturali delle civiltà umane, trova soluzione morale nel Cristianesimo, la cui predicazione caritatevole e anti-polemica segna il discrimine storico tra le culture politiciste e le culture spiritualiste; le une

però, che la risposta risultasse anzitutto comprensibile e anche convincente per chi in quella tradizione si riconosceva appieno”, sicché essi accettarono “l‟impegnativa sfida di giustificare e riformulare il messaggio cristiano in un discorso categorialmente e concettualmente adeguato e comprensibile all‟alterità, assumendone anzitutto il linguaggio […] sottoponendolo però a un processo di torsione e di trasformazione semantica che conduceva a un meccanismo di doppia significazione”, tradizionale per il lettore non cristiano e cristiana per il credente. A partire dalla “duplicità semantica propria del termine greco logos (ratio e verbum in latino), era possibile conciliare il dato biblico del Dio creatore con il principio filosofico del logos ordinatore”, giungendo alla “coincidenza nella figura del Logos cristiano il Rivelatore-ordinatore del cosmo, da un lato, e, dall‟altro, Gesù salvatore e Cristo. […] Si legittimava così anche la pretesa totalizzante del cristianesimo, per cui Dio inconoscibile poteva essere attinto solo grazie a chi, come il Logos, partecipava della sua stessa natura, risultando però al tempo stesso in comunicazione con la realtà umana”: Ivi, pagg. 1006 e 1007.

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contrassegnate dalla offerta della morte individuale occasionale per la vita sociale necessaria, le altre dalla dedizione della vita spirituale eterna per la morte del transeunte uomo sociale. Vivere per la morte, significa dedicarsi ai valori eterni, somigliare agli dèi nel Governo spirituale della propria natura finita. Morire per vivere, significa invece dedicarsi alla causa economica della sopravvivenza sociale, ossia al Potere politico. La predicazione cristiana non ha scelto Dio contro l‟uomo, non ha parteggiato per il cielo contro la terra, ma ha posto Dio nell’uomo, la verità nell’esistenza storica, facendo della vicenda spirituale in interiore homine il luogo morale del conflitto storico, distraendolo dal luogo politico del conflitto sociale. In altri termini, ha trascritto la storia politica dell‟umanità universale in termini di Storia spirituale dell‟Uomo eterno, di cui Cristo è simbolo morale e compendio esistenziale. L‟universalismo politico, l‟Imperium ecumenico sui popoli, è la proiezione idealistica di un ente fattuale astratto dalla sua contingenza storica, che nella dimensione universale mantiene la sua essenza ideale ma non la sua realtà esistenziale, che è morale e non logica. Da qui la contraddizione tra la realtà spirituale che caratterizza l‟esistenza morale, e la realtà sociale che caratterizza la condizione politica dei gruppi; contraddizione che fa implodere i sistemi culturali, rendendo obsolete le loro forme istituzionali. Certamente i percorsi inerziali delle civiltà e delle relative società sono più o meno lunghi, ma la loro crisi non è un evento attuale, bensì un processo morale, per cui la crisi politica di una società è solo la manifestazione fenomenica della decadenza morale della sua civiltà, cioè della sua cultura spirituale. Da qui la giustezza del surriferito giudizio di Jonas circa l‟insufficienza delle vicende politiche a spiegare il corso degli eventi storici, i cui processi possono certo essere alterati dalle rivoluzioni politiche, ossia trasformati in qualcosa d‟ altro da ciò che originariamente erano, ma non veramente mutati da fenomeni che erano in essenze diverse, poiché la diversità è una qualità ontologica, e non logica, e perciò non disponibile all‟arbitrio umano, ma soltanto alla volontà degli dèi, la cui sacertà quindi non è dato all‟uomo profanare. L‟inviolabilità umana del divino ordine cosmico comporta che ogni sua indebita e arbitraria adulterazione, non soltanto è profanatrice ma anche inutile, poiché quanto stabilito ab aeterno non può essere mutato, ma solo imitato. Se dunque gli istituti umani, credendo di imitare la volontà

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divina, non conoscendola veramente, ne falsificano lo spirito, costruiscono sistemi artificiali che non superano l‟edacità del tempo e ogni verifica storica, diffondendo nella vita umana il male, anziché partecipare del bene eterno degli dèi. La prima condizione quindi per godere, per quanto all‟uomo è consentito, dei beni divini è quello di conoscere la vera natura delle cose, ossia i princìpi eterni che regolano la vita cosmica. Stabilito per intuizione il principio essenziale di realtà, tutto ne consegue, e all‟uomo è richiesto di conseguenza di conformar visi. Per i Greci tale principio era il Lògos, per cui la verità era riposta nella ricerca della saggezza filosofica. Per i Cristiani era invece l‟Agapé, per cui la vita virtuosa è quella che tendeva alla spirituale santità. Se il Lògos costituiva il fondamento razionale della vita cosmica naturale, vivere logicamente equivale a secondare la vera natura umana, quella appunto che lo univa organicamente alla Natura. Se tale fondamento era invece lo Spirito santo, vivere in santità equivaleva a emanciparsi dalla dipendenza dalla condizione naturale. Con felice espressione, Cicerone indicava tale fondamento cosmico intelligente universale come “principio di Governo”, che egli identificava con Dio stesso, il platonico “governatore dell‟universo”, presso cui risiede la “ragione assoluta”.62 È questo principio di Governo cosmico che verrà trasfigurato in senso negativo dallo gnosticismo come potenza demiurgica terrena dell‟heimarméne, versione demoniaca di ciò che gli Stoici indicavano come  e i cristiani providentia, intesa come “perpetuum et immutabile rerum universarum regnum et administratio”. 63 La conseguenza di tale trasfigurazione gnostica dell‟organico cosmo classico in struttura mondana oppressiva ed estranea all‟uomo, è la sostituzione del Governo cosmico del lògos con il Potere sistematico di una volontà legislatrice, fatale quanto contingente, opponibile solo grazie a un altro potere anti-sistemico, antagonista ma comunque interno alla logica polemica della cultura pagana classica, che perciò trova il suo momento di inveramento anche in ambito culturale

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Cicerone, De natura deorum, lib. II, cit. anche da H. Jonas, Op. cit., pagg. 261262. L‟espressione “governatore dell‟universo” è in Platone, Le leggi, X, 897 c, 903 b; ved. anche Timeo, 34 b segg., 472 b-c, 90 c-d. 63 La definizione è di Zwinglio, De providentia, su cui W. Dilthey, L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, vol. I, tr. it., Firenze, 1927, pagg. 199 sgg.

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cristiano. Il tralignamento gnostico dal principio di Governo nel principio di Potere riabilita surrettiziamente, insieme alla prospettiva teoretica idealistica, anche la sua intrascendibile dimensione politica, che dell‟escatologia trascendentale cristiana rappresenta il momento di insuperabile diversità ontologica. Quello di Cicerone era il dio stoico, immanente alla natura, e perciò naturalmente razionale, non ideale come quello platonico, e neppure trascendente come quello ebraico-cristiano, ma non “nascosto” e misterioso come quello gnostico, per cui in ogni caso lo sfondo teologico della cosmologia sapienziale classica comportava il suo legame con l‟etica, senza la quale non si dà alcun fondamento normativo, tale che dalla contemplazione della verità derivi tanto l‟imitazione morale che il Governo sociale. Rispetto al paradigma filosofico celeste, quello spiritualistico cristiano introduce nella condotta dell‟uomo un principio di libertà indipendente da ogni criterio di funzionalità organica al cosmo naturalistico, e caratteristico della condizione umana, la cui partecipazione alla vita eterna divina acquista valore di scelta, anziché di necessaria conformità. Principio di libertà non indipendente, però, dalla funzione di Governo, di cui invece è elemento costitutivo in senso anti-politico, trascendente cioè ogni logica di Potere contingente. L‟atto di Governo esprime la “decisione” che stabilisce i termini inattuali di relazione possibile tra il passato oggettivato dalla coscienza collettiva, e il futuro sperato dalla coscienza soggettiva, e appartiene alla dimensione della libertà della coscienza morale. Diversamente dalla statuizione legale, che giudica il passato e il divenire sul fondamento di un presente normativamente attualizzato e reso astrattamente indipendente da ogni concreta situazione esistenziale, e quindi arbitrariamente assunto come fattispecie paradigmatica di comportamenti esistenzialmente neutri, ossia moralmente neutralizzati dalla volontà politica del Potere, la decisione di Governo è una funzione esistenziale che riguarda la possibilità d‟essere del valore assiologico che storicamente è ni-ente, e quindi la sua meta-storica inattualità, anziché la necessità deontologica dell‟ente, ossia la sua attualità storica normativamente pre-vista come un presente eternizzato mercé l‟astrazione universale da ogni concretezza esistenziale. L‟ordine cosmico divino, sostituito dall‟ordinamento legale degli uomini, costituisce il mondo artificiale della pòlis, la condizione politica priva di eternità e della annessa immobilità, e perciò a un presente

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continuamente instabile e in divenire verso il futuro, secondo le modalità proprie di ciò che è mortale e destinato alla morte. Il riconoscimento sapienziale della comune appartenenza cosmica dell‟uomo comporta la cosciente partecipazione alla sua totalità organica, laddove la scelta a favore di Dio è per il cristiano rapporto della sua finitezza terrena di uomo con la trascendente perfezione divina, comunque diversa dalla condizione umana. Senza dunque un cosmo dualistico, la stessa diversità degli eventi mondani si muove all‟interno di una stessa intrascendibile dimensione ontologica, quella naturalistica, dove ogni ente si trasforma in altro da sé rimanendo nel Tutto, sempre identico, e quindi anche l‟uomo, che ne fa parte, permane in ogni caso e in qualunque situazione, anche la più eroica e virtuosa, entro il suo inesorabile destino. Soltanto il Cristianesimo libera l‟uomo dalla fatalità naturale della sua finitezza, facendo del Verbum caro il paradigma antropologico della libertà spirituale e della connessa possibilità ontologica di trascendere la necessità legata alla sua naturalità. Staccata la venerazione di Dio dalla venerazione del Cosmo, questo diventa Suo prodotto, e come tale meno perfetto dell‟uomo cosciente della sua libertà divina. Diversamente dall‟uomo platonico, “creato per il Tutto”,64 cioè in funzione della Natura, e quindi anche della società politica, l‟uomo cristiano è stato creato per governare spiritualmente il Tutto naturale, privo di Spirito, trascendendo quindi la sua finita molteplicità, spogliandola di ogni arcaica sacralità pagana, che rendeva “il mondo svuotato di contenuto divino […] un ordine vuoto di divinità”.65 Stabilita la differenza ontologia tra il Tutto naturale e l‟Unico vero, l‟uomo può muoversi entro un universo morale di libertà spirituale che lo rende veramente diverso da ogni altra creatura terrena, e pertanto moralmente superiore alla stessa società politica, a quella polis che costituiva il fine prioritario della vita etica dei suoi cittadini. Lo spiritualismo cristiano, stabilendo la sua diversità ontologica rispetto a ogni pregressa prospettiva mito-logica panteistica, supera perciò l‟universalismo cosmo-politico pagano, riponendo nella coscienza morale della persona il locus amoenus dove incontrare

64 65

Platone, Le leggi, X, 903 b-d, cit. in H. Jonas, Op. cit., pag. 264. Ved. H. Jonas, Op. cit., pag. 268.

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l‟incommensurabile infinitezza di Dio, il cui Bene trascende ogni ratio finita, compresa quella della giustizia politica, che è l‟etica della polis, cittadina o universale che sia. È comprensibile come, su queste premesse, la prospettiva soteriologica gnostica abbia potuto avere una sua parte significativa entro l‟universo morale cristiano. Infatti, l‟unità sublime del cosmo e di Dio è spezzata, i due vengono separati e si apre tra di essi un abisso che non sarà mai completamente colmato: Dio e il mondo, Dio e la natura, fanno divorzio, estranei l‟uno all‟altro, persino contrari. Ma se questi due sono estranei l‟uno all‟altro, allora anche l‟uomo e il mondo sono estranei l‟uno all‟altro, e questo in termini di sentimento è molto probabilmente il fatto primario. C‟è una fondamentale esperienza di una frattura assoluta tra l‟uomo e ciò in cui si trova situato, il mondo. Il pensiero greco era stato una grande espressione dell‟appartenenza dell‟uomo al mondo (se non senza riserve alla vita terrestre) e per mezzo della conoscenza che genera l‟amore aveva cercato di accrescere l‟intimità con la sostanza affine di tutta la natura: il pensiero gnostico è ispirato dalla scoperta angosciosa della solitudine cosmica dell‟uomo, della totale alterità [ossia diversità] del suo essere rispetto a quello dell‟universo in genere. Codesta impostazione dualistica è alla base di tutto l‟atteggiamento gnostico e unifica le espressioni grandemente diverse, più o meno sistemiche, che quell‟atteggiamento assunse nel rituale e nella fede gnostica. Ed è su questo primo fondamento umano di atteggiamento dualistico, un‟esperienza appassionatamente sentita dell‟uomo, che poggiano le dottrine gnostiche. [La cui antropologia] afferma che l‟io interiore dell‟uomo non è parte del mondo, creazione e dominio del demiurgo, ma sta in quel mondo come totalmente trascendente e incommensurabile a tutti i modi cosmici di essere perché è il loro corrispondente trans mondano, il Dio sconosciuto che è al di fuori. 66

Diversamente dalla prospettiva fisicalistica moderna, che considera il cosmo de-sacralizzato come un universo assiologicamente neutro, e perciò manipolabile dall‟uomo a suo uso e consumo, la prospettiva gnostica considera il cosmo divinizzato come una “potenza separatistica” che, essendo lontana da Dio, lo è anche dalle sue qualità benigne, e perciò intrinsecamente negativa, e perciò “forza alienante da

66

H. Jonas, Op. cit., pagg. 268-269.

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Dio”, il quale, “in quanto negazione del mondo, ha una funzione nichilistica rispetto ad ogni attaccamento e valore intramondano”. 67 Siamo agli antipodi della riconciliazione stoica dell‟uomo col cosmo benigno e razionale naturalistico il cui lògos unificante è sostituito con l‟opprimente fatalità dell‟heimarméne, che soffoca la libertà spirituale dell‟uomo e perciò non degno di contemplazione ma di disprezzo morale e di odio metafisico. Il destino dell‟uomo consapevole è dunque di emanciparsi da quel cosmo naturale che l‟insipienza pagana riteneva fosse il suo ambiente omogeneo. La “qualità religiosa” della cosmologia gnostica risiede tutta in questa “tensione escatologica” tra mondo e Dio, mitologicamente personificata in poteri cosmici, rappresentativi di valori negativi già contrassegnati positivamente nei loro contesti mitici originari ora rielaborati.68 Al di là della terminologia simbolica, e delle stesse ipostatizzazioni mitologiche e religiose, ciò che le analisi gnostiche e marcionite mettono in luce è l‟impossibilità di ricostituire una unità cosmica che, volendo includere uomo, natura e Dio, possa superare la polarità tra spirito e materia che la più matura coscienza morale, dalla stoica alla cristiana, ha scoperto essere l‟autentica dinamica di ogni processo universale. Se la forza del pensiero greco era nella sua capacità di inserire l‟originalità dell‟esperienza umana nel cosmo organico della Natura attraverso l‟unità razionale del Lògos universale, riconciliando la coscienza intelligente al destino cosmico comune, la potenza morale del Cristianesimo risiede invece nella consapevolezza antropologica che non sia possibile addivenire a un qualche unilaterale superamento di tipo teoretico senza compromettere la comprensione della stessa essenza ontologica dell‟uomo, impasto divino quanto naturale. Questa consapevolezza, se incanala la tensione escatologica gnostica69

67

Ivi, pag. 270. Ivi, pag. 279. 69 Nella visione gnostica, “l‟interesse scambievole della fratellanza escatologica non può consistere nel promuovere l‟integrazione dell‟uomo nel tutto cosmico, per quanto riguarda il sentimento, e neppure nel fargli „compiere la propria parte‟, per quanto riguarda l‟azione. L‟uomo non è più parte del tutto, a meno di violare la sua reale essenza. Invece, l‟interesse mutuo della fratellanza degli uomini, riuniti dalla comune solitudine cosmica, è di approfondire tale alienazione e promuovere la 68

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nei termini sublimati di un conflitto interiore alla coscienza spirituale personale, d‟altro canto, inevitabilmente restringe l‟orizzonte già cosmico al contesto umanistico dell‟esperienza precipuamente storica, esponendo in primo piano, come mai fino ad allora, la vicenda dell‟homo spiritualis, inteso come unità personale avente in sé le ragioni universali della vita prima ricercate nelle rappresentazioni cosmogoniche, per cui, quanto nella cultura pagana era oggetto di riflessione principale, la costituzione naturale del mondo visibile, venne progressivamente a passare in secondo piano rispetto alla riflessione concernente l‟incognito sottofondo spirituale della realtà invisibile della coscienza, che divenne quindi il luogo della verità al posto di quello sociologicamente antonomastico della società politica. Non più, pertanto, l‟epopea dei popoli politici costituiva il paradigma assiologico della civiltà umana, ma la vicenda esistenziale del nuovo Adamo, che nella Sua storia personale compendiava simbolicamente l‟intera Storia spirituale dell‟Uomo di ogni tempo a venire, inaugurando il nuovo eone umanistico del Figlio-dell‟Uomo. Con la rivelazione del Cristo, cambia la tradizionale concezione greca del “divino” quale predicato ontologico impersonale, prendendo le spoglie di una figura storica, partecipe delle vicende umane dell‟esistenza terrena. È non di meno evidente che, allorquando la personale metànoia si carica di valori irenici collettivi, funzionali a un riscatto sociale, locale o universale, l‟atteggiamento gnostico emerge in seno alla sensibilità morale cristiana come movente etico di una sua traduzione ideologica, e “lo gnosticismo diviene visibile per ciò che realmente è: un fattore nella svolta storica della mentalità collettiva”, ossia assume il valore deontologico di una modalità ideale di porsi al cospetto di concezioni antropologiche stabilite in forme istituzionalizzate non più rispondenti al livello di coscienza morale e filosofica, la cui critica radicale – di tipo asceticoesoterico o, all‟opposto, essoterico-libertino - ritiene di scrivere l‟epitaffio del vecchio mondo e di essere “al tempo stesso il sorgere di una nuova forma dell‟uomo”. 70 Questa credenza gnostica di indubbia natura religiosa, pur derivata da

redenzione degli altri, che diviene per ciascun essere veicolo della propria”: H. Jonas, Op. cit., pag. 281. 70 Ivi, pag. 282.

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una generosa e nobile tensione escatologica, trasvaluta però in senso ideologicamente deformante l‟autentica fede soteriologica cristiana, che è universale in quanto interessa ogni persona, e non astratte collettività sociali, e perciò cattolica e non ecumenica. La trascrizione gnostica, d‟altro canto, del genuino motivo escatologico cristiano, è essa stessa il portato ellenistico del retaggio filosofico greco, e segnatamente dell‟idealismo platonico, che ascrive naturalisticamente alla dimensione sociologica quel primato antropologico negato invece dallo spiritualismo cristiano, e che costituisce il motivo politico dell‟eschaton rivoluzionario di ogni razionalismo etico che attende, volgendosi in istituzione, di affermare una propria tradizione soteriologica, la cui stessa possibilità storica di costituirsi in vece di ogni provvidente necessità teleologica ne segna l‟umana sua natura contingente. In ambito strettamente cristiano, segnatamente spiritualistico, la trascrizione idealistica del fondamento ontologico spirituale comune a ogni uomo in quanto persona, ingenera la credenza che lo status antropologico possa esimere l‟uomo storico da ricercare l‟equivalente di ciò che era la areté nel cosmo greco, ossia la santità, che è la perfezione propria alla natura spirituale dell‟uomo, la quale assume la carità come suo valore costitutivo, al posto che è della ragione per la paideia greca, e la salvezza dell‟anima al posto del Potere politico. Tra le due dimensioni virtuose c‟è coesistenza, ma non equivalenza, dal momento che la virtù politica mira all‟integrazione virtuosa nel regno di Cesare, nella realtà immanente, laddove la virtù spirituale tende alla dignità divina, trascendente. L‟antinomia si ripresenta anche in campo esegetico ogni qualvolta si tratti della portata del Potere e dei suoi limiti, ossia del suo riconoscimento da parte del cristiano. Soprattutto allorquando la questione del Potere si ammanta di una sua viva attualità, come nel periodo tra le due Guerre mondiali, passi come quello di Paolo, Rm., 13, 1 sgg., provocano discussioni ermeneutiche di grande portata teorica, etica e teologica.71 La questione della interpretazione da dare al termine paolino indicante sia le potenze terrene, cioè l‟autorità politica, che le angeliche (in senso sia positivo di celestiale, che negativo di diaboliche). Ma, in verità, l‟accezione cristiana non si può

71

Vederne il resoconto in O. Cullmann, Op. cit., pagg. 79 sgg.

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semplicemente giustapporre a quella greco-profana, poiché le due dimensioni della potenza, politica (di Cesare) e spirituale (di Dio), agiscono su piani diversi di realtà, anche se congiunti storicamente nella stessa esistenza umana. Pertanto, se nella cultura religiosa tradizionale, compresa quella ebraica, i due piani di realtà potevano armonizzarsi all‟interno di una comune entità nazionale o statuale, nella nuova dimensione cristiana della vita la questione del reciproco riconoscimento dei due diversi poteri diventa più complesso. E non solo in quanto lo Stato di riferimento fosse allora quello pagano, ma a conseguenza della tipologia propria di ogni costituzione sociale fondata sulla logica polemica, ossia sulla politica, il cui criterio razionale è la esclusività, l‟esclusione dell‟altro-da-sé. Logica opposta a quella della carità, il cui criterio razionale è la inclusività entro la stessa comunità dell‟amore spirituale. La prerogativa dello Stato è la sua sovranità, che superiorem non recognoscens. Ora, è esattamente questa autocrazia che il Cristianesimo mette in discussione affermando l‟origine divina del Potere. Il Potere, non essendo per il cristianesimo autocratico ma derivato, quando si manifesta in termini assolutistici non va riconosciuto. Ma un Potere che si affermi sovrano e che accetti la possibilità di non essere riconosciuto in determinate circostanze, ammette implicitamente la sua limitatezza, ossia l‟esistenza di istanze sovrane superiori. Questa ammissione di limitatezza, però, non è giuridica – come invece nel caso dei concordati tra Chiesa e Stati secolari -, ma è teologica, e quindi afferisce a un ambito di razionalità non-politica, che coinvolge la stessa identità etica dello Stato, le ragioni della sua esistenza storica, le quali ragioni, rispetto alla esistenza visibile, possiamo indicare come invisibili. Tali ragioni, quando si oppongono al riconoscimento del primato spirituale, e quindi della potenza divina, su quello politico del Potere cesareo, affermando di contro l‟assoluta sovranità dello Stato, sono perciò di carattere diabolico. Uno Stato che non voglia riconoscere altro dio che quello del proprio Potere politico, e che quindi si “auto divinizza, è considerato come la personificazione per eccellenza dell‟Anticristo”, e proprio perché, come Stato totalitario, “supera i propri limiti è considerato” – sia dalla tradizione apocalittica giudaica che da quella cristiana – “l‟incarnazione più manifesta della potenza satanica” e “la

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manifestazione classica del Diavolo sulla terra”. 72 Ma qual è l‟atteggiamento del Diavolo nei confronti di Dio? Esattamente lo stesso di Pilato di fronte a Gesù: il misconoscimento della Sua natura divina, che consiste appunto nel primato delle ragioni spirituali su quelle politiche. Tale primato spirituale è divino, e pertanto non commisurabile ad alcun grado di potenza umana. Per cui, il misconoscimento della natura divina del primato spirituale equivale ad affermare la realtà dell‟unica dimensione profana del mondo, quella appunto commensurabile sul piano della potenza umana, del Potere politico. Piano immanente alla storia umana, emancipato da ogni aspetto escatologico trascendente. Ma questo “misconoscimento” non è forse la “ignoranza” ( ) di cui parlavano gli gnostici? A noi pare di sì. Con una radicale differenza ontologica: che la virtù cristiana della temperanza, facendo riferimento imprescindibile alla duplice natura antropologica dell‟uomo redento, intende il punto di crisi delle due dimensioni esistenziali differenti – la spirituale e la politica – come situazione eccezionale, che interviene in caso di esorbita mento del Potere politico dai limiti della sua natura mondana, laddove l‟ideologia gnostica assume la frattura come condizione ontologica e non derimibile. La posizione gnostica, nel radicalismo della sua affermazione di diversità ontologica tra i due piani di realtà, è speculare a quella idealistico-platonica, poiché come questa afferma l‟unico rimedio della uniformità del diverso al sé. Il mutamento di stato, dal diverso al simile, intervenendo sul piano ontologico di ciò che non può essere cambiato, è reso possibile attraverso una finzione metafisica, che equipara al piano ontologico il piano logico, e consistente nella trascrizione di ogni possibile rapporto tra enti ontologicamente diversi nell‟unico rapporto universale di tipo logico, tale che l‟originariamente diverso venga uniformato al simile espungendo dalla sua natura ontologica l‟elemento della diversità. In questa trasformazione del diverso Molteplice nell‟universale Uno, consiste la riduzione idealistica dell‟Essere, concepito come la speculare forma categoriale dell‟ente. Orbene, la visione gnostica, assumendo a sua volta le diversità ontologiche come opposizioni logiche, pretende di ridurre l‟una all‟altra, ammettendo, con

72

Ivi, pagg. 105 e 106.

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il piano del conflitto, anche la loro commensurabilità, ponendo Dio alla stregua di Satana. La questione, dunque, non riguarda la potenza maggiore di Dio su quella di Cesare, ma la loro diversità non commensurabile e perciò non risolvibile l‟una nell‟altra. Ed è questa la ragione essenziale perché Cristo non ha convertito Pilato e non ha redento l‟Impero romano: perché Pilato non era una persona davanti ad un‟altra persona, ma una funzione che esercitava il suo astratto potere politico verso il suo più debole opposto dialettico. Per convertire una funzione politica occorreva cambiare la destinazione del Potere imperiale, ossia aderire all‟ideologia zelotica e al messianesimo gnostico, assumendo il ruolo di Messia. Ciò che Gesù non era venuto in terra per fare. Lui, come Figlio dell‟uomo, per salvare la verità della natura umana, doveva patire l‟irriducibilità della diversità ontologica che coesiste nell‟uomo come segno del Mistero divino ( , 1 Cor., 4, 1) e morire al mondo per rinascere all‟eternità.  Chi è, dunque, la Bestia dell‟Apocalisse? Quella della giovannea è l‟Impero di Roma. Ma esso è solo l‟occasione storica, l‟attualità visibile del fenomeno politico a essere presa di mira. L‟Apocalisse in senso lato cristiana è il Potere politico in sé, la sua vocazione universalistica, tendente a informare ogni realtà diversa entro ciò che Paolo chiama lo “schema del mondo presente” (1 Cor., 7, 31). L‟omogeneizzazione universale nella forma politica costituisce l‟istanza pratica, deontologica, dell‟universalismo logico della teoresi idealistica, che pone la categoria ideale a paradigma di ciò che lo Stato è per la convivenza umana: il luogo della universale confluenza nell‟Uno, conseguita attraverso la violenza metafisica della trans-formazione dell‟ontologicamente diverso allo stesso principio logico. Contro tale falsa reductio ad unum politica insorge la predicazione cristiana, affermando che la vera unità mistica è quella spirituale in Dio, ottenuta attraverso la metànoia personale, e non per induzione giuridica e forzature istituzionali, oppressive sul corpo quanto libera è la conversione del cuore. Non già la fede spirituale in luogo della forza politica, essendo le due realtà ontologicamente diverse; ma la forza della fede è ciò che rende libero il cristiano dalla  politica. Nei tempi moderni, la originaria pertinenza a Cesare, l‟unità monetaria, ha esteso il suo Potere universalizzante anche agli uomini, creature politiche dello Stato sovrano, che le comprende nella sua esclusiva e

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visibile unità totalitaria, lasciando, nel migliore dei casi, alla sfera privata della coscienza ogni personale diversità, giuridicamente neutralizzata nella sussunzione omologante entro la mistica categoria del politico. Con lo Stato totalitario moderno, ciò che era universale uguaglianza logica diventa realtà egalitaria politica, sicché lo Stato sovranamente assoluto diventa la forma ipostatica visibile dell‟unità politica mistica, derivando la sua sovranità da se stesso come molteplice, ossia dal popolo. Diventando Stato democratico, esso realizza l‟ideale politico nella storia, attualizzando nel tempo presente la parousìa dell‟unità spirituale del politeuma meta-storica. Cesare, secondo Tommaso mero gerens multitudinis, diventa , usurpando il titolo che spetta solo a Cristo, il vero “Figlio dell‟uomo” rispetto al a quello falso della cittadinanza politica. Tale blasfema usurpazione susciterà la “santa indignazione contro l‟attitudine sacrilega dello Stato”, provocando la “resistenza cristiana” al suo totalitarismo. 73 Assumendo in senso dell‟universalità ecumenica il valore soteriologico proprio alla persona individua, si costituisce in ambito spiritualistico cristiano, analogicamente allo status politico degli aggregati sociali, l‟esigenza di razionalizzare in senso normativamente astratto e universale (erga omnes) la proposta escatologica, istituendo all‟uopo delle forme istituzionali storiche predisposte a una loro fruizione religiosa promiscuamente universale, sia in senso spiritualmente cattolico che in senso politicamente ecumenico. Dalla commistione di queste due istanze diversamente universali nasce storicamente la civitas cristiana, la Chiesa romana, versione sacrale speculare all‟urbe profana, le cui secolari vicende imperiali sono segnate dalla dinamica intestina provocata da quella originaria commistione ontologica, il cui prodotto storico è un normativismo istituzionalistico analogo a quello imperiale romano, e un sincretismo culturale analogo a quello ellenistico, anch‟esso travagliato da interni moti gnostico-rivoluzionari più o meno ereticali e da opposte rivalse dogmatico-ortodosse a essi oppugnate dalla Chiesa di Roma in nome del suo mitico primato ecclesiale. 2. Eusebio di Cesarea (Cesarea, 260-339), evocando tre secoli di storia evangelica, la considera come “una permanente rivelazione del Logos in

73

O. Cullmann, Op. cit., pag. 115.

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mezzo agli uomini […] incarnata nella realtà degli istituti e delle tradizioni”, di cui il cristianesimo è stato la “culminante manifestazione” e di cui “la comunità cristiana porta ininterrottamente la traccia della sua azione misteriosa”. 74 La sua ricostruzione storica segna una “difformità abissale” rispetto alla primeva tradizione cristiana, costituendo il nuovo paradigma mitologico della successione apostolica (Diadoké) che “ha preso il posto della Didaché, cioè della dottrina”, segnando il passaggio dal “cristianesimo carismatico” delle origini alla visione istituzionalistica della , con al centro la sua “gerarchia burocratica”.75 La filosofia eusebiana della Storia, che “vede nella storia la manifestazione ininterrotta di un immanente Verbo divino” costituisce la forma più saliente di neutralizzazione ideologica di quella “atmosfera messianico-apocalittica nella quale erano vissute le prime generazioni cristiane”, e con essa la chiave di lettura teologicamente ortodossa alternativa a quella escatologica gnostica, cara agli ambienti più colti e raffinati, e marcionita, una sorta di “paolinismo portato alle sue ultime conseguenze”, 76 che la insidiavano. Ma l‟affermazione dottrinale, per quanto veicolata da una ponderata teoria razionale, necessitava, più che di “una valutazione comparativa dei differenti atteggiamenti concettuali e dogmatici […], aveva bisogno di un magistero infallibile e di una gerarchia canonizzata” che riuscissero a dare una direzione “ai bisogni concreti della massa associata”,77 ossia a dare una forma mitica alla fede

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“Se da una parte si era incamminata verso una sistemazione puramente razionalistica ed illuministica dell‟universo così sensibile come umano, dall‟altra si era spinta verso una concezione sempre più mistica dell‟azione provvidenziale del Logos eterno nel tempo. Eusebio, agli inizi del quarto secolo, è piuttosto il rappresentante di questa seconda tendenza”: E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 145. 75 Ibidem. 76 Ivi, pag. 150. Il successo dell‟evangelizzazione apostolica fu dovuto al “calore destato dalla prospettiva dell‟imminente palingenesi”. Ma dopo “l‟entusiasmo delle prime generazioni cristiane, […] lo sforzo di tradurre in concetti cosmogonici e in teorie antropologiche la semplicità rudimentale del messaggio originario aveva ormai, a mezzo il secondo secolo, fatto passare in seconda linea il patrimonio caratteristico del cristianesimo, che era per essenza un patrimonio messianico ed escatologico”: Ivi, pag. 159. 77 Ivi, pag. 147.

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sentimentale della promiscua “classe media cristiana”, costituita da quella massa impersonale e amorfa dei credenti che abitavano la Roma imperiale dei primi due secoli, facendo “ricorso ad un sacerdozio organizzato e ad un pontificato legittimamente legiferante e amministrante le realtà sacre”.78 E a questo fine si presta la Storia Ecclesiastica di Eusebio, il quale, attraverso la successione apostolica, traccia un percorso storico che non è meramente cronologico ma precipuamente ecclesiale, tale che ogni avvenimento saliente, positivo o negativo che lo si giudichi, viene visto alla luce riflessa della vita comunitaria cristiana, ricostruita secondo dinamiche oppositive e difensive del tutto corrispondenti a quelle della tradizione ebraica, di cui “la Chiesa cristiana e l‟episcopato monarchico rappresentano la successione e la continuazione sostanzialmente inalterate”. La teoria della trasmissione apostolica nella successione vescovile (Diadoché), nasce dunque come “metodo per la conservazione e la tutela fedele della trasmissione cristiana” (Didaché), ritenuto “infallibile” da Egesippo, autore di un libro di Memorie perduto ma rievocato da Eusebio (Storia Ecclesiastica, IV, 22).79 Se Marcione aveva adottato l‟apostolo Paolo come ispiratore della più veridica interpretazione della predicazione di Gesù, l‟ebreo convertito Egesippo aveva eletto Pietro a mentore della Chiesa critiana, ponendolo “al vertice della gerarchia e immaginandolo investito da Gesù di un imperituro potere primaziale”.80 La questione del primato della Chiesa di Roma nasce pertanto con la dottrina cattolica del primato di Pietro. I vari sistemi di pensiero ecclesiologico “possono tutti essere ricondotti a due tipi fondamentali di ecclesiologia”: quello “universale”, che “predomina soprattutto della chiesa cattolica”, e quello “eucaristico”. Per l‟ecclesiologia universale, la Chiesa, quale Corpo mistico di Cristo, “è un organismo unico”, le cui unità ecclesiali, chiese episcopali o diocesi, hanno a capo un vescovo.81

78

Ivi, pag. 154. Ivi, pag. 155. 80 Ivi, pag. 158. 81 N. Afanasieff, La chiesa che presiede nell’amore (1960), tr. it., in Cullmann e altri, Il primato di Pietro nel pensiero cristiano contemporaneo, Bologna, 1965, pagg. 488-489. 79

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La teoria ecclesiologica universale ebbe come primo e principale esponente storico il vescovo Cipriano di Cartagine, il quale abbinò all‟idea di Chiesa ecumenica come unità di tutte le chiese locali unite “nella concordia e nell‟amore”, la visione di “un‟altra unità”, di tipo organico, ispirata, per un verso, alla dottrina organicistica di S. Paolo, e per l‟altro “all‟idea dell‟impero romano”, la cui “anima” era l‟imperatore, per cui “come nella Chiesa, Corpo di Cristo, le diverse membra sono distinte, così la Chiesa, una ed unica nel suo aspetto empirico, si compone di diverse chiese locali, che sono le sue membra”. Secondo questa dottrina, “la pienezza e l‟unità” vanno riferite alla “Chiesa sparsa per totum mundum, e non alle chiese locali isolate, che essendo membra della Chiesa possiedono soltanto una parte della sua pienezza”, sicché la Chiesa “cattolica” e la Chiesa “ecumenica” idealmente coincidono. 82 L‟organismo ecclesiale unico, cattolico ed ecumenico, si manifesta empiricamente come una molteplicità di chiese locali, la cui unità è garantita dalla cattedra di Pietro, “occupata dall‟episcopato intero, per cui ogni vescovo è successore di Pietro, ma soltanto nella misura in cui egli è parte dell‟episcopato”. Ciò vuol dire che “ogni vescovo presiede separatamente la sua chiesa ma i vescovi nel loro insieme, in quanto possiedono la cattedra di Pietro, formano una molteplicità unita nella concordia (concors numerositas)”.83 La “concordia” dei vescovi deriva dalla loro solidale “unità” della comune cattedra di Pietro, ma essendo ogni vescovo capo della sua chiesa locale, il loro rapporto gerarchico verso le proprie unità ecclesiali particolari è contrassegnato dal loro potere di rappresentarle e di guidarle, per cui “non è possibile costruire l‟unità universale della Chiesa sul modello di quella dell‟impero romano, facendo a meno del principio fondamentale di tale unità: il diritto”. 84 In tal senso, la “concordia” cessa di essere il collante dell‟unità ecclesiale, lasciando il posto al “primato” del capo, ovvero al suo Potere decisionale. Al “capo invisibile”, Cristo, corrisponde dunque un “capo visibile”, detentore del primato universale su tutte le chiese locali.

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Ivi, pag. 500 Ivi, pag. 494. 84 Ivi, pag. 497. 83

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La teoria conciliaristica, per cui la Chiesa universale dev‟essere diretta dai concili ecumenici, non elude la questione essenziale del valore da accordare alle sue decisioni, ossia al loro carattere vincolante, rimandando quindi all‟imprescindibile vincolo giuridico. Di fatto, “la dottrina di Cipriano sui concili è stata completata senza di lui e in una forma che egli non poteva prevedere: è la chiesa dell‟impero che l‟ha portata a compimento, e il concilio dei vescovi è divenuto il concilio dell‟impero”, tant‟è che, pur essendo “l‟espressione più alta della Chiesa, [e] anche se rispettabile per il numero dei suoi partecipanti, un concilio non era considerato ecumenico se non era stato convocato dall‟imperatore”.85 Quale che sia la giusta definizione della posizione dell‟imperatore romano o bizantino nella Chiesa, è indiscutibile che egli era, in un certo senso, il capo della chiesa dell‟impero. Nn si trattava certo di un primato di spettanza dell‟imperatore, perché il primato è un fenomeno puramente ecclesiale e può appartenere soltanto a un vescovo; ma dal momento che la Chiesa ecumenica abitava nei confini dell‟impero, se non avesse avuto come capo l‟imperatore, i concili ecumenici non avrebbero potuto aver luogo né in linea di fatto né in linea di principio. Quando il concilio ecumenico è diventato, per la forza delle cose, una istituzione puramente ecclesiastica, ha potuto essere convocato soltanto dove il primato esisteva di fatto: è così che i concili continuarono ad aver luogo in Occidente anche dopo la separazione delle chiese, dato che il primato del vescovo di Roma vi era fermamente stabilito. In Oriente non vi sono più stati concili ecumenici. 86

Dopo il concilio di Trento, si formalizza la supremazia del vescovo di Roma sul concilio, stabilizzando “un altro tipo di ecclesiologia universale, che potrebbe definirsi pontificale”, in base alla quale il concilio, perdendo la sua antica funzione, diventa organo consultivo del vescovo di Roma, il Papa, che “non è legato giuridicamente alle decisioni del concilio”, essendo egli “superiore a tutti gli altri vescovi”. 87 ] In ogni caso, qualunque sia il ruolo di fatto assegnato al vescovo di

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Ivi, pag. 500. Ivi, pag. 501. 87 Ivi, pagg. 502-503. 86

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Roma, il principio universalistico implica logicamente l‟idea di primato nella Chiesa universale, che diviene una “categoria ecclesiologica senza la quale, in linea generale, la Chiesa non è pensabile”. 88 Eppure esiste un‟altra e più antica ecclesiologia, oltre a quella universalistica, che Afanassieff chiama “eucaristica”, consistente nella originaria “autonomia” e “indipendenza” delle chiese locali, che dall‟epoca apostolica si protrasse fino a tutto il sec. III. Tali caratteristiche storiche originarie non possono spiegarsi a partire dalla ecclesiologia universale, in quanto “per questo sistema ecclesiologico una parte della Chiesa – la chiesa locale – non può essere né autonoma né indipendente, perché autonomia e indipendenza sono gli attributi di un tutto. Le chiese primitive perciò erano autonome e indipendenti in virtù del fatto che ogni chiesa locale era Chiesa di Dio in tutta la sua pienezza”. 89 Ciò vuol dire, in altri termini, che il concetto di Chiesa universale rappresenta un‟Idea ecclesiologica che trasfigura le singole chiese storiche in espressioni simboliche della sua astratta unità organica, facendo della loro particolare realtà esistenziale la parte strutturale di un organismo ecclesiastico di tipo burocratico simile all‟ordinamento giuridico-istituzionale di un organismo politico, il cui modello ideale è lo Stato. Ma la similitudine di Chiesa – corpo mistico - a Stato – corpo politico –, entrambi sovrani universali nel proprio rispettivo ambito comunitario, è ontologicamente equivoca, in quanto stabilita su un‟equazione logica tra forme strutturalmente analoghe ma essenzialmente diverse. Infatti, il corpo mistico di Cristo non è il della struttura giuridica, così come la Chiesa “cattolica” () è universale nel senso dell‟empirico , ma non è la realtà trascendente della natura divina di Cristo. Solo stabilendo una astratta equazione idealistica tra Corpo di Cristo e Chiesa ecumenica possiamo rappresentare il corpus ecclesiale con la struttura ecclesiastica episcopale. Ma questa rappresentazione idealistica della Chiesa non ha fondamenti ontologici, avendo la stessa plausibilità dell‟identità di Cristo con Pietro. Cristo, infatti, è la realtà divino-umana che non rappresenta Dio ma Lo incarna (Verbum caro), laddove Pietro rappresenta Cristo nella Sua umanità,

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Ivi, pag. 507. Ivi, pag. 508.

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non certamente nella Sua divinità, che resta trascendente ogni umana finitezza. Confondere l‟Idea di Cristo, cui unicamente può far riferimento la Chiesa umana, con Cristo, cui fa riferimento la fede nella Sua divinità, è atto non di fede ma di idolatria. La Chiesa mistica, ossia l‟unità spirituale dei fedeli, è invisibile e si manifesta simbolicamente nell‟eucaristia. Il “corpo reale di Cristo” ( ) sono i Suoi fedeli, “membra del suo Corpo”. L‟assemblea eucaristica costituisce la chiesa locale, la quale pertanto “è autonoma e indipendente perché la Chiesa di Dio in Cristo abita in lei in tutta la sua pienezza”. L‟unità spirituale della Chiesa una ed unica, non è né l‟ente empirico, cioè la singola chiesa locale, e neppure la totalità delle singole chiese locali, cioè l‟ente ideale. A questo punto occorre fare qualche precisazione circa la definizione che Afanasieff offre di “indipendenza” e di “autonomia” della chiesa locale. Infatti, egli afferma che essa “è indipendente perché qualsiasi potere esercitato su di lei sarebbe un potere esercitato su Cristo e sul suo Corpo”, 90 lasciando intendere che Cristo e il suo Corpo siano lo stesso Uno anche oltre la Sua figura, mentre l‟unità spirituale dei fedeli con Cristo si costituisce simbolicamente soltanto nell‟occasione eucaristica, fuori della quale la chiesa locale rimane un corpus empirico, la cui unità ideale è come quella della Chiesa universale. Proprio perché “in ecclesiologia uno più uno fanno uno”, non è il numero degli addendi a cambiare la natura spirituale dell‟unità mistica, per cui “la pluralità delle chiese locali non distrugge l‟unità della Chiesa di Dio, come la pluralità delle assemblee eucaristiche non distrugge l‟unità dell‟Eucarestia nel tempo e nello spazio”. Ma questo non comporta che “nella Chiesa, l‟unità e la pluralità non soltanto sono superate, ma, anche, una contiene l‟altra”, 91 poiché la totalità rimane di natura spirituale, e non può estendersi alla chiesa empirica, al corpus storico locale. Il teologo ortodosso confonde dunque l‟unità ideale con quella spirituale quando afferma che “nella vita empirica l‟unità della Chiesa si manifesta nella pluralità delle chiese locali, e la pluralità delle chiese locali conserva l‟unità della Chiesa di Dio in Cristo”. Infatti, è vero che “l‟aumento o la diminuzione del numero delle chiese locali

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Ivi, pag. 510. Ivi, pag. 511.

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non cambia nulla all‟unità e alla pienezza della Chiesa”, ma questa va intesa appunto in senso spirituale, cioè inerente alla unità trascendente, e non in senso empirico, per cui è la Chiesa ideale, la cui “universalità” è “esteriore”, che può “variare il numero delle sue manifestazioni nella vita empirica”, mentre la Chiesa mistica dell‟unità spirituale, che “sempre e in ogni circostanza resta uguale a se stessa”, non è quella ideale che il teologo chiama erroneamente dell‟ “universalità interiore”, ma appunto quella della comunione eucaristica, la comunità che si costituisce attraverso la partecipazione divina nell‟Eucarestia. Non esiste infatti alcuna “universalità interiore”, ma soltanto l‟astratta unità ecclesiale di tipo ideale che raccoglie una molteplicità variabile di chiese locali. Ciò che invece esiste realmente è la personalità spirituale, l‟unica la quale realizza in interiore la comunione spirituale con Cristo anche fuori dell’occasione eucaristica. Ed essa – e non la Chiesa - è perciò “autonoma”, in quanto soltanto la personalità spirituale in comunione con Cristo “possiede la pienezza dell‟esistenza, al di fuori della quale nulla esiste, perché nulla può esistere fuori di Cristo”.92 Fuori dell‟unità spirituale personale, esiste il nulla, ossia l‟essere ideale del regno di Cesare, e ogni prodotto empirico della finitezza umana che lo rispecchi. Intendendosi con ciò a) che solo l‟esistenza spirituale è concretamente unitaria, mentre ogni altra unità è astratta e quindi anche la chiesa, idealmente universale o empiricamente locale che sia, fuori della comunione eucaristica è anch‟essa un‟unità ideale o empirica e non concreta, e b) che la realtà spirituale della concreta persona in comunione divina con Cristo si costituisce ontologicamente come diversa dalla realtà ideale propria della logica pagana, di cui la comunità politica è il rispecchiamento stoico-empirico. Se dunque il modello ideale della Chiesa cristiana è quello della città ideale, la sua natura politica, costitutiva dell‟istituzione giuridica, smentisce la diversa realtà ontologica della comunità spirituale (corpus Christi) costitutiva dell‟ordo amoris. L‟espressione paolina, “voi siete il Corpo di Cristo” (I Cor. 12-27) sta a indicare l‟appartenenza della comunità ecclesiale a un corpus diverso da quello sociale, retto dal principio politico proprio alla socialità economica, e cioè al modo naturalistico di convivenza a ragione del

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Ivi, pag. 510.

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sangue e della stirpe. Il , che è la comunità politica tradizionale, diventa la cristiana , la comunità spirituale escatologica. 93 Stabilire una simmetria tra il popolo di Cesare e il popolo di Cristo, significa non considerare la radicale diversità del principio socialitario spiritualistico da quello di tipo politico, la quale non consente alcun rapporto polemico né alcuna opposizione dialettica tra l‟ordo civilis e l‟ordo amoris, ossia tra Cesare e Dio, essendo le due dimensioni socialitarie del tutto irrelate nella loro reciproca diversità ontologica. Ciò che univa le due diverse e irrelate dimensioni socialitarie era la loro sussistenza nella stessa figura singolare dell‟uomo, insieme individuo sociale e persona spirituale. E proprio a seconda della rispettiva prospettiva antropologica era possibile stabilire il modo della relativa convivenza come  o come . In tal senso, la comunità eucaristica può costituirsi anche all‟interno della comunità politica come corpus Christi appartenente a una determinata , la quale, però, semplicemente rappresenta la comunità spirituale, ma non la costituisce, poiché a costituirla è soltanto la fede in Cristo, e non già l‟appartenenza simbolica a una forma istituzionale quale l‟eparchia o la chiesa. Ogni chiesa locale è pertanto una comunità spirituale che non si costituisce come comunità eucaristica, ma la presuppone, così come l‟ethnos presuppone la koinonìa topou, sicché senza fede non c‟è

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“Di fronte all‟antico concetto giudaico di „popolo di Dio‟ la novità portata da Gesù sta nel fatto che questa ekklesia, questo popolo di Dio viene ricostituito nella prospettiva della fine, sul fondamento della sua particolare opera messianica: la sofferenza del Servo di Dio. la sua opera sulla terra consiste proprio nella creazione di questo nuovo popolo di Dio, edificato su questo fondamento. […] In relazione con la concezione particolare che Gesù aveva della propria messianicità” – in contrasto con la versione “diabolica” che aveva creduto Pietro (Matt. 16, 17) – “sta di fatto che il popolo di Dio non si identifica più semplicemente con la nazione giudaica. […] La via salvifica del costituirsi del popolo di Dio passa, sì, per Israele, ma proprio la riduzione a questa comunità all‟interno di Israele crea il presupposto per il realizzarsi del popolo di Dio, che deve abbracciare l‟umanità intera. Il „nuovo Patto‟ che Gesù annuncia e al tempo stesso stabilisce, alla vigilia della sua morte, nell’ultima Cena, tende appunto alla ricostituzione messianica del popolo di Dio: Patto e popolo di Dio sono inscindibili”. E in questo senso “la sua [di Gesù] morte è il vero punto di partenza del nuvo popolo di Dio”: O. Cullmann, San Pietro discepolo, apostolo, martire (19602), tr. it. in Cullmann e altri, Il primato di Pietro, cit., pagg. 268-269 e 279.

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comunità eucaristica, e senza questa non c‟è chiesa e non c‟è vescovo. Il rapporto stabilito da Cipriano tra vescovo e chiesa, per cui “scire debes episcopum in ecclesia esse et ecclesiam in episcopo et si qui cum episcopo non sit in ecclesia non esse”,94 va corretto nel senso che qui l‟ cui appartiene il vescovo è da intendere come la comunità eucaristica, mentre la chiesa che è compresa nel vescovo è la koinonia spirituale che egli rappresenta simbolicamente, ma non costituisce. La pretesa di identificare l‟appartenenza alla comunità spirituale (in ecclesia esse) con l‟appartenenza simbolica alla chiesa locale (cum episcopo esse), è all‟origine della visione idealistica del cristianesimo storico istituzionalizzato in Chiesa cattolica, incubatrice di tensioni scismatiche e di ideologie totalitarie. Infatti, l‟identificazione dell‟universalità spirituale interessante ogni singolo uomo di ogni tempo e luogo, con l‟universalità logica dell‟Idea che si riflette nell‟universalismo ecumenico dell‟Imperium, genera la tipica dialettica degli opposti logici che si mutano in contrari reali, per cui la fede personalmente liberatrice dalla necessità naturale della socialità politica, astrattamente universalizzata in libertà comune, diventa oppressione comunitaria universale, Chiesa politica unificata non dalla libera carità da un cogente diritto secolare. In questa struttura ecclesiale ecumenicamente secolarizzata, la fede personale diventa un‟opzione giuridicamente non derimente, tale che la stessa prospettiva soteriologica diventa una proiezione meta-storica inafferente la qualità spirituale dei concreti rapporti sociali dell‟esistenza temporale, la cui distanza escatologica richiama una esigenza rivoluzionaria che per contrappasso riconfermi la pregnanza attuale della fede, il suo carattere esistenzialmente visibile. La visibilità della fede escatologica, ossia la sua attualità infra-temporale, è il portato dialettico del cristianesimo storico che trova la sua contraddittoria realtà rispetto ai suoi principi nello sbocco politicamente rivoluzionario ed economicamente capitalistico, che costituiscono le due possibilità ideologiche di una teologia che volendo assorbire la ratio nella fides ha ridotto la fides

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“Si deve sapere che il vescovo è nella chiesa e che la chiesa è nel vescovo, e c he chi non è col vescovo non è nella chiesa” : Cipriano, Epist., LXVI, VIII, 3; rip. da N. Afanassieff, loc. cit., pag. 495.

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nella ratio, cioè la fede trascendente in religione secolare, ritornando al punto di partenza da cui Gesù aveva preso le mosse per liberare il giudaismo talmudico dalla sua farisaica religiosità etnico-politica. E infatti la parabola di un cattolicesimo dapprima imperiale e poi nazionale e infine settario riflette l‟esito sociologico della sua teo-logia politica. La stessa millenaria diatriba teologica sul primato di Pietro, che ha irretito dapprima la Chiesa d‟Oriente e modernamente quella d‟Occidente, nasce sul terreno dell‟universalismo greco-romano, religiosamente ormai inaridito, che ha tralignato dall‟alveo ecclesiale per destinarsi a un fideismo tutto immanentistico, votato alla vita del mondo, anziché, come insegnava Gesù, alla morte, rendendo pressoché vano il Suo divino sacrificio. La teo-logia della vita non poteva che avere un contraddittorio esito idolatrico, e quindi superstizioso, ignorante del senso autentico della Morte simbolica dell‟umanità del Cristo, che ha liberato l‟uomo Gesù dalla sua finitezza storicotemporale per affermare la spiritualità della Sua natura divina. La ecclesia spiritualis non andava confusa con il corpus Christi, poiché se “corpo” è, non può essere “mistico” ma solo “fisico”, naturale e quindi sociale, ossia politico. La chiesa storica è dunque il corpo simbolico di Gesù, della sua umana predicazione, che può smembrarsi e riunirsi in empiriche entità locali e universali a seconda dei tempi e delle opportunità politiche, secondando appunto le movenze temporali delle condizioni secolari. Ed è appunto nella considerazione sociale dell‟unità cristiana che la comunità ecclesiale viene a perdere il suo carattere inter-personale per assumerne uno collettivo di tipo giurisdizionale, fondato sul rapporto istituzionale col Potere politico, diventato il suo polo dialettico mondano, inducendola ad assumere una fisionomia politica. L‟unità mistica è invece quella dell‟  spirituale, che è Una e non divisibile perché trascendente, come uno è il Dio spirituale predicato da Gesù, nel cui nome si ritrova la comunità eucaristica costituita da singole persone, ognuna delle quali è in rapporto mistico con Cristo, nella cui fede apostolica si ritrova l‟unità. La  è l‟unità di fede che si manifesta storicamente come comunità di persone, ognuna delle quali è testimone vivente della fede comune. In questo senso la essa è “comunione vivente” del popolo di Dio, che “possiede in

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se stessa la pienezza”, testimoniata da “l‟unità del vescovo e del popolo”.95 Quando Afanassieff afferma che “è nell‟Eucarestia che abita la pienezza del Corpo di Cristo”, non bisogna confondere la esistenziale comunità eucaristica con la ideale comunità ecclesiale, la chiesa vivente con la Chiesa istituzionale. Sicché, affermare che “là dove è l‟Eucarestia quivi è la pienezza del Corpo di Cristo”, 96 non significa idolatrare la forma liturgica espressiva della comunità ecclesiale, destinata a rendere culto al suo simbolo divino, facendo di essa l‟equivalente dell‟unità e della pienezza della chiesa che spetta invece alla fede. Venuta meno la fede nella pratica sacramentale, il simbolo liturgico del tutto umanizzato diventa feticcio sacrilego, emblema ecclesiologico di un‟estetica religiosa dimentica della presenza di Cristo: cristianesimo, appunto, quale tradizione ecclesiale della rappresentazione umana di Dio, distinta da altre rappresentazioni tradizionali. Come ha ribadito Florenskij a proposito del carattere simbolico della liturgia, “l‟eucaristia non è ricordo in senso protestante ma sacrificio autentico”, per cui generalmente “il gesto liturgico non è una semplice imitazione e non è nemmeno immagine in sé [ma] è qualcosa di più reale”, ossia “è il rispecchiarsi di un evento, che [come nel caso della nascita di Gesù] anche se in un certo momento del tempo è passato, […] è un avvenimento che si colloca al di là del tempo, e insieme appartiene a un determinato momento storico”. In tal senso, l‟eucaristia “la si deve considerare come possibilità che ci è data di ricongiungerci a quell‟evento che è in eterno”.97 Tale “possibilità” di congiungere il tempo all‟eterno offerta da Dio all‟uomo grazie alla sua  è possibile coglierla attraverso la fede in Cristo, in colui che “è lo stesso ieri, oggi e in eterno” (Ebrei 13, 8), senza la quale fede il “prossimo” della comunità ecclesiale diventa il riflesso speculare dell‟ “amico” della comunità politica, e l‟ “estraneo” alla comunità religiosa s‟identifica con il “nemico” della comunità sociale.

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A. Schmemann, La nozione di Primato nell’ecclesiologia ortodossa (1960), in Cullmann e altri, Il primato di Pietro, cit., pag. 635. 96 N. Afanassieff, Loc. cit., pag. 512. 97 P. A. Florenskij, La concezione religiosa del mondo (1921), in Id., La concezione cristiana del mondo, tr. it. cit., pagg. 43-44. Corsivo nostro.

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La verità della fede abita solo in interiore homine, nel luogo cioè dove la promessa escatologica del Regno di Dio “non ancora” conseguito dal popolo di Dio, e l‟adempimento “già” individualmente conseguito attraverso il sacrificio divino, si fondono nella concretezza dell‟esperienza esistenziale del fedele che si riconosce come essere personale nella comunità ecclesiale. È l‟astratta distinzione razionalistica tra Regno di Dio e popolo di Dio a dissociare le due dimensioni temporali ponendo nel presente la coscienza messianica individuale, e il fine escatologico universale nella temporalità del futuro, storicizzato nella societas condenda. Solo nella  spirituale del popolo di Dio si traduce “il concetto più ampio, comprensivo di entrambi gli aspetti [del] futuro e [del] presente”, dove “la distinzione di questi due significati perde praticamente ogni importanza nella misura in cui si ha la convinzione che la fine è già stata anticipata, anche se la piena attuazione rimane ancora futura”. Ciò che, nondimeno, rimane problematica è l‟affermazione per cui la “fondazione” del popolo di Dio sarebbe avvenuta “già durante l‟esistenza dell‟Incarnato, anche se esso viene „costituito‟ soltanto dopo la sua morte”, nel senso che “la base per questo suo popolo, Gesù l‟avrebbe già creata durante la sua vita”98 Se per “base” del popolo di Dio intendiamo la cerchia apostolica (oltre ai Dodici, i Settanta di Luca 10, 1 segg. e di I Cor. 15, 5 segg.) e le donne che ne gravitano intorno, possiamo senz‟altro convenire che la sua “fondazione” sia stata già avviata durante la vita di Gesù. Ma se come “costituzione” intendiamo la sua auto-rappresentazione, ovvero la sua istituzione formale, allora il popolo di Dio rimane – al di là dell‟aspetto più o meno inclusivo di molteplici esperienze particolari un progetto storicamente indeterminato. E ciò per l‟essenziale ragione che la presenza di Dio non è più indipendente dalla fede degli accoliti, ma dalla fede essa è rappresentata. Nel senso che la presenza di Dio nella storia era nel suo Cristo, che non Lo rappresentava ma la costituiva. Con la morte di Gesù, la presenza di Dio diventa un atto di fede, testimoniata dalla comunità ecclesiale, ma non rappresentata. L‟ non può rappresentare Dio ma soltanto la fede in Lui, e di conseguenza la rappresentanza ecclesiastica rappresenta l‟ , e

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O. Cullmann, Op. cit., pag. 275.

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non già Dio. In vita Gesù, la comunità apostolica era costituita nella sua fede dalla presenza del Cristo, ma con la morte di Gesù è la fede nel Cristo che testimonia la presenza divina nell‟ , per cui, senza la fede in Cristo, l‟orizzonte divino è assente dall‟ , la quale perde nel caso la sua connotazione spirituale e si costituisce come semplice gruppo sociale. Ciò vuol dire che è la fede a costituire il gruppo come  spirituale, e non la sua formazione istituzionale, cioè la sua organizzazione giuridica. E conseguentemente, è la fede a costituire l‟appartenenza alla comunità ecclesiale, e non una qualche attività formale o professionale. In tal senso, con la morte di Gesù, la tradizione apostolica può riguardare soltanto l‟investitura alla rappresentanza dell‟ missionaria costituita nella fede e non certamente inerire in alcun modo alla rappresentanza divina, per cui non va confuso il vicario della comunità episcopale con il vicario di Cristo, poiché Cristo non ha rappresentanti terreni, essendo Lui stesso, nella natura terrena di Gesù, il rappresentante dell‟Uomo e il solo erede di Dio. Da Cristo la .eredita la fede, ossia la Sua missione escatologica, che essa rappresenta. Il corpo vivo di Cristo è appunto la Sua chiesa, che testimonia con la sua missione la fede in Lui, nella sua redenzione. La fede in Cristo rappresentata dalla Sua chiesa, costituisce la Sua resurrezione, la vittoria sulla morte, ossia sulla natura fisica e finita dell‟uomo storico, cioè spiritualmente redento. In questo senso, “agli apostoli segue l‟intera comunità dei credenti”, e dunque “il compito che durante la vita di Gesù viene affidato ai discepoli, [quali “testimoni della resurrezione” (Atti 1, 22),] come funzione messianica”, con la Sua morte “viene promesso a tutta l‟ekklesia”, la quale pertanto “assume la funzione di Gesù, che consiste nel vincere la morte mediante la sua morte e la sua resurrezione”. 99 Nella funzione messianica, ogni credente succede agli apostoli nella loro parola di fede in Cristo, ma se ogni

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Ivi, pagg. 308 e 286. Va ricordato che la vittoria sulla morte consiste nella coincidenza di “ciò che è permanente […] in ciò che è temporalmente unico e irripetibile”, costituendolo come evento fondamentale. Ed è proprio “questo paradosso, per cui un particolare evento storico costituisce un evento essenziale nella storia della salvezza, cioè non può essere ripetuto ma fonda una situazione permanente che continua a vivere di esso, questo paradosso sta alla base dei discorsi profetici di Gesù”: Ivi, pag. 297.

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fedele succede alla missione apostolica, non può succedere alla originaria funzione di fondazione della . Ogni membro della comunità ecclesiale è pertanto testimone della fede apostolica, ma non rappresentante dell‟ extra eucaristica, empiricamente formata in un corpo istituzionale, provvisto di un apparato burocratico, ecclesiale ma rappresentativo della sola chiesa ideale, astratta rispetto alla concreta comunità eucaristica intesa come “organismo sacramentale”. La burocrazia ecclesiastica, disponendo dell‟ufficio episcopale per proclamare dogmi, e cioè nei termini di un monopolio ermeneutico dell‟esegesi scritturale, ha ereditato, con la funzione messianica apostolica, anche quella di governo della , spostandolo dal piano carismatico e sacramentale di sorveglianti a quello amministrativo di gestori della fede, trasformando la Chiesa di Cristo in un corpo politico secondo il modello di Cesare, e facendo del luogo roccioso della libertà spirituale della Parola, una istituzione di Potere mondano. L‟esito politico era inevitabile a seguito della identificazione del plèroma divino di Cristo, Verbum caro (Giov. 1, 14-16), con il Suo corpo ecclesiale (Col. 1, 24), ritenuto “omogeneo”, ma che tale non può umanamente essere in quanto ha bisogno dello Spirito Santo, cioè della fede interiore, per vivificarsi (Rom. 8, 11), senza la quale la chiesa non è che una costruzione di “mano umana”, e come tale peritura e dilacerata da intestine tensioni politiche, che Gesù ha già stigmatizzato polemizzando con gli “scribi e farisei ipocriti”, i quali, proprio perché privi di fede e quindi fuori del Regno dei cieli, brigano impedendo ad altri di entrarvi (Matt.23, 13). La pratica farisaica è l‟attività di discernimento del nemico dall‟amico che sostanzia la pratica politica del Potere religioso. La fede non va intesa soltanto come disposizione d‟animo soggettiva, ma anzitutto come pre-requisito ontologico del rapporto comunitario, sul fondamento del quale la comunità si costituisce come unità spirituale. Senza tale fondamento di fede, la autorità etica di Governo, ontologicamente trascendente, diventa potestà giurisdizionale del Potere, priva di ogni carisma e politicamente revocabile. Non si dà Governo che non sia fondato sulla fede, ma solo occasionale comando potestativo. Il nucleo eticamente forte dell‟autorità papale risiede nella sua autorevolezza morale, fondata sul riconoscimento fideistico della sua origine divina. La legittimazione sacrale dell‟autorità imperiale, che

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lo costituiva come Governo civile collaterale a quello religioso, e perciò concorrente in autorevolezza, era il fondamento trascendente che venne a mancare alla legittimazione politica di tipo nazionalitario del Potere degli Stati moderni, appunto nazionali, fondato su una giurisdizione puramente territoriale e perciò intrinsecamente conflittuale. Dalla loro precipua condizione politica scaturisce la perenne conflittualità degli Stati europei, razionalisticamente costituitisi sul fondamento del loro stesso Potere legale ma deprivati di un superiore Governo etico di tipo sacrale, che rimase invece alla Chiesa, che lo esercitò pertanto anche in veste terrena, quale unica erede dell‟antico Imperium romano.100 La chiesa come “tempio di Dio” è quella dove “abita” lo Spirito (I Cor. 3, 16), cioè la concreta comunità eucaristica del Corpo di Cristo (sòma pneumatikòn), mentre la “Sposa” che è “conforme a Cristo e rende conformi a Cristo” (Rom. 8, 29), è la chiesa ideale, creduta miticamente il “plèroma di Cristo”, ma istituzionalmente astratta dalla comunità eucaristica dei fedeli. La confusione, tipicamente idealistica, della concezione logica dell‟Essere con la sua realtà ontologica, ha ingenerato la tradizione teologica del Cristianesimo storico, 101 la quale ha provocato a sua volta la elaborazione razionalistica del suo Mito ellenistico a opera del pensiero moderno, la cui demitizzazione ha schiuso dialetticamente la strada alla scristianizzazione culturale della società umanistica, espressione cattolico-universale di fariseismo secolarizzato in religione della Legge civile, con il Mercato al posto

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Con la Rivoluzione francese si consuma la tradizione culturale del Governo etico di origine divina, e l‟universalismo razionalistico si riflette politicamente come assolutismo statalistico e imperialismo nazionalistico, e culturalmente come sociologismo neo-pagano e irenismo messianico di origine gnostica. La legge fu per lo Stato di diritto ciò che il canone scritturistico fu per la Chiesa post-apostolica: la norma, surrogatoria del comando di Governo carismatico, di un Potere spazializzato. E fu grazie alla legge che il Potere assunse un valore politicosoteriolgico analogo in campo secolare a quello spirituale della Chiesa, espunta dall‟orizzonte assolutistico dello Stato. Col marxismo l‟intero processo del messianismo politico diventa col movimento socialista una “storia della salvezza” mondana tendente al Regno della Libertà, che ha nella rivoluzione l‟epicentro insieme di destinazione e di irradiazione, analogo all‟  cristiano. 101 Ved. Ch. Journet, Il primato di Pietro nella prospettiva protestante e nella prospettiva cattolica (1953), in Cullmann e altri, Il primato di Pietro, cit., pagg. 365-370.

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della Provvidenza e il denaro come segno mediatore dello stato di grazia. Quanto al potere giurisdizionale del “vicario di Cristo” ricevuta in privilegio dall‟Incarnato a Pietro “in persona propria, non solum pro seipso, sed pro omnibus successoribus suis”, secondo le parole del Caietano, consiste nel privilegio ermeneutico di definire “in virtù della sua suprema autorità apostolica, la dottrina in materia di fede e di costumi che deve essere accolta dalla Chiesa universale”, secondo quanto stabilito dal Concilio Vaticano I. 102 Ma esso costituisce il privilegio stesso di ogni Governo di decidere in merito ai conflitti interpretativi - ovvero politici – sorti all‟interno della Chiesa universale – ovvero dello Stato -. La qualità propria della decisione pontificia è di non essere, come quella apostolica originaria, carismatica ma appunto giurisdizionale, astratta dunque da ogni concreta autorevolezza pastorale, e in ciò punto diversa dall‟atto di Governo di ogni auctoritas. Ed è questo paradigma giurisdizionalistico politico a fare dei rappresentanti della Chiesa episcopale dei funzionari di governo, organi di una nomenclatura politica. La contaminazione concettuale delle due giurisdizioni, quella episcopale con quella politica, ha prodotto la perdita, con l‟aspetto carismatico, anche della natura inclusiva del Governo ecclesiale (), basato sulla autorità carismatica del primate (  ) espressa dalla intuizione caritativa () ricavata dalla predicazione evangelica (), a favore della natura esclusiva del Potere ordinamentale (), basato sulla potestà giurisdizionale (potestas) dell‟esarca, di valore coercitivo e relativa alla logica del sistema normativo di riferimento, quello canonico. Storicamente la pratica ecclesiastica del Potere ordinamentale ha comportato, più che un‟opera missionaria di evangelizzazione, la selezione dei motivi ereticali e la conseguente espulsione dei loro interpreti dalla comunità eucaristica quali nemici della Chiesa, intesa questa come il luogo politico di una ortodossia teologica pre-definita da dogmi stabiliti ne varietur, che vorrebbero definire in formule giuridiche la  divina.

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Caietano, De comparazione auctoritatis papae et concilii seu ecclesiae universalis (1511); Denzinger-Bauwart, nn. 1832 segg., ripp. in Ch. Journet, loc. cit., pagg. 411-412 e 419.

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Nella  delle origini, il ministero di Governo, come tutti i carismi, aveva la sua origine “là dove si compie: nell‟unità organica della Chiesa-Corpo di Cristo”. Esso era esercitato dal vescovo, il cui potere gli derivava dal fatto di presiedere l‟assemblea eucaristica “da cui prendono origine tutte le funzioni”, per cui “la funzione e la natura del potere sono determinati dalla unità indissolubile della Chiesa, dell‟Eucarestia e del vescovo. Il potere nella Chiesa non può avere altro fondamento né altra origine che quelli della Chiesa stessa: la presenza del Cristo nel sacramento che unisce in lui tutti i fedeli” quale “realtà vivente e vivificante”.103 In questo senso il primato ecclesiale è un potere carismatico di governo, ma non giuridico di comando, perché si esercita su un‟unità che è teandrica () e non istituzionale (societas), da parte di governatori ( ) e non di patriarchi (). La “degenerazione del concetto di potere nella Chiesa” avviene allorquando “il potere sacramentale è stato separato da potere di giurisdizione”, e consiste nella “penetrazione progressiva” in essa “di una nozione del potere politico-giuridico e, correlativamente, [ne] l‟indebolimento della nozione del potere secondo la grazia, come carisma: cioè il ministero del potere nel Corpo di Cristo”. 104 Vi è da aggiungere che questa “deformazione dell‟idea stessa di potere” che è all‟origine della “tragica deviazione” dell‟ecclesiologia ortodossa, e che la costituisce come la “variante bizantina” della “ecclesiologia universale”, è inscritta all‟interno dell‟universo di senso religioso dell‟esperienza di fede cristiana, che consente quel “parallelismo dei due „poteri supremi‟: il potere imperiale e il potere ecclesiale”,105 che è tipico non della sola teocrazia bizantina, ma che si produce anche in Occidente come disputatio inter clericum et militem. Lo stesso fenomeno del “nazionalismo religioso” non è un‟intrusione spuria “nella dottrina ortodossa della Chiesa di elementi dell‟ecclesiologia universale” romana che le sarebbero “estranei”, 106 ma è registrabile in

103

A. Schmemann, loc. cit., pag. 629. Ivi, pag. 648. 105 Ivi, pagg. 650-651. 106 Ivi, pag. 652. La “assenza della comunione vivente” trasforma le diocesi in “banali unità amministrative che vivono sotto il controllo di „centri‟ governa mentali”, con la conseguenza che “la separazione del „potere‟ del Corpo di Cristo” 104

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entrambe le tradizioni cristiane come opposto dialettico al comune concetto di “cattolicità” intesa come empirica unità ecumenica (Imperium) e non come comunità eucaristica (), secondo una trasfigurazione naturalistica della Chiesa mutuata dal concetto pagano di società politica greca regolata dal giuridicismo romano. Aver fondato sul Potere politico, ossia sulla stabilità del nomos, la decisione ontologica di costituire la storia religiosa dell‟umanità, anziché sulla fede spirituale la storia della salvezza dell‟Uomo, nello sforzo di contenere () la dissoluzione sociale ( ) invece di favorirla per consentire con l‟emersione dello  anche l‟avvento della  rappresenta la grande  della Chiesa cattolica romana, la quale, idolatrando il ha edificato sul il potere della Chiesa di Cristo, insediando un idolo pagano nel tempio di Dio, secondo quanto profetato da Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi. L‟eucaristia, a sua volta, è l‟incontro del credente con Gesù crocifisso e risorto, e consiste nella partecipazione del momento storico personale con il centro della Storia della salvezza, in cui la fede in Cristo si manifesta come riconoscimento della sovranità di Dio sul tempo. La temporalità cristiana, rispetto a quella della concezione greca, non pone l‟eternità come il negativo del tempo, l‟assenza che si oppone alla sua presente determinazione cronologica, ma come la pienezza del tempo, che in Cristo trova il suo compimento, la sua centralità storica, a partire dalla quale è possibile scandire un prima profetico e un dopo escatologico. Questa pienezza lineare del tempo storico, che è l‟ della salvezza neo-testamentaria, costituisce una successione di eventi salvifici ( ) che rappresentano un superamento sia del ciclo naturalistico greco che della sua metafisica idealistica, che, col suo dualismo di tempo ed eternità, poneva il sacro fuori del tempo, come il Dio gnostico. Nella prospettiva soteriologica

provoca “per reazione il sollevamento della „massa‟ [e] la penetrazione nella Chiesa di elementi che le sono estranei, come l‟idea di „rappresentanza‟, gli „interessi‟ di un ordine o dell‟altro […] e infine la separazione del clero, concepito come „classe dirigente‟, dal popolo della Chiesa, divenuto „laico‟ ” (Ivi, pagg. 653-654), che sono aspetti del mondo religioso corrispondenti a quelli politici del mondo secolarizzato delle moderne democrazie.

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cristiana, l‟eone storico, che va dalla creazione alla fine del mondo, costituisce esso stesso un periodo dell‟economia di salvezza divina, il cui disegno resta il Mistero della verità di Dio fino alla fine dei tempi. Proprio in quanto disegno escatologico che non può essere dimostrato ma solo creduto, il Mistero è verità di fede. Ma proprio in quanto verità di fede storica, posto attraverso il Cristo nel tempo, il Mistero della Storia non è il racconto fantastico di un Mito razionalmente revisionabile con gli strumenti del pensiero filosofico, ma è il senso stesso dell‟esperienza umana interpretata profeticamente ed escatologicamente alla luce dell‟evento cristico ( ) che le dà senso spirituale. Anche rispetto all‟attesa messianica ebraica, proiettata nell‟avvenire, la storia cristiana si costituisce come il punto di approdo, in cui si attualizza una tantum e per sempre () il  dell‟esistenza del Cristo, che nella Pasqua di resurrezione anticipa il compimento della Storia, ponendosi come il centro dove s‟incontrano l‟inizio della creazione e l‟ finale. 3. L‟appartenenza della “falsa gnosi”, ossia dello gnosticismo, al novero delle eresie cristiane del II sec., era opinio communis nella cultura cristiana antica, così come i suoi legami con la filosofia greca. La stessa distinzione gnostica tra una predicazione pubblica di Gesù e una riservata a pochi iniziati tra i suoi apostoli nel periodo tra la sua resurrezione e l‟ascensione, si rifaceva in qualche modo alle “dottrine non scritte” di Platone riferite nel finale del Fedro e nella Lettera VII, che da Wilamowitz alla Scuola di Tubinga fino a quella di Milano hanno tanto impegnato gli esegeti contemporanei della sua filosofia. 107 Tale rivelazione gnostica della dottrina di Gesù, sostenuta negli ambienti più colti della società cristiana, tendeva, sia pure nella varietà e difformità delle singole predicazioni settarie, 108 a evidenziare la distanza tra la condizione finita dell‟uomo mondano, prigioniero del suo corpo materiale, e “l‟uomo depositario del germe divino”, in grado di affrancarsi attraverso la redenzione spirituale “dalla schiavitù in cui era

107

Ved. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non scritte”, Milano (1984), 2010 20. 108 Ved. R.M. Grant, Gnosticismo e cristianesimo primitivo, Bologna, 1959; M. Tardieu-D. Dubois, Introduction à la littérature gnostique, Paris, 1986.

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tenuto nel mondo materiale”.109 La differenza tra la condizione materiale e la condizione spirituale dell‟uomo dispone la sua doppia origine, una mondana, a derivata dal Demiurgo, identificato col Dio dell‟Antico Testamento, e l‟altra spirituale, propria del Dio supremo, Padre del Cristo Redentore. L‟estraneazione dalla vita mondana, che caratterizzerà la prospettiva gnostica, a favore della salvezza esclusivamente spirituale, costituiva il maggiore ostacolo per la costituzione religiosa della Chiesa cattolica nel contesto imperiale romano, provocandone una energica reazione intellettuale antiereticale tra il II (con Ireneo e Giustino), il III (con Ippolito e Clemente) e il IV sec. (con Epifanio), non privi di contatti teorici e mutui dottrinali “soprattutto in ambito trinitario e cristologico”. 110

Ciò che oppone la Chiesa alla prospettiva gnostica, infatti, non è “la diversità di qualificazione religiosa degli uomini”, la quale costituisce “il dato fondamentale di ogni religiosità riposante sulla metodica della salvezza”, si prenda in ambito ebraico la setta dei , o nel cristianesimo primitivo quella “categoria speciale all‟interno della comunità” di “uomini virtuosi” che diede poi origine agli ordini monastici,111 ma l‟indirizzo ascetico ovvero infra-mondano assegnato alla redenzione soteriologica, che determina conseguentemente l‟atteggiamento pratico del credente nella vita storica. 112 In altri

109

M. Simonetti, Introduzione a Testi gnostici in lingua greca e latina, Milano, 1993, pag. XIII. 110 M. Simonetti, Loc. cit., pag. XIV. 111 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft (1922), tr. it., Milano, 1968 2, vol. I, pagg. 534-435. 112 “La speranza di redenzione ha le sue conseguenze più importanti nella condotta della vita allorché la redenzione è intesa come un processo che getta già le sue ombre al di qua, o addirittura come un processo interiore che cade interamente al di qua – cioè quando essa vale di per se stessa come “santificazione”, o la produce, o la presuppone come sua condizione preliminare. Il processo di santificazione può allora presentarsi come una purificazione progressiva o come un improvviso capovolgimento dell‟animo ( ), cioè come una rinascita”: M. Weber, Loc. cit., pag. 525. Ma “non bisogna mai dimenticare che il cristianesimo è entrato nell‟Impero non solo come sforzo operoso di redenzione individuale, bensì anche come una fattiva e organica energia sociale”. Infatti, “se la predicazione cristiana si fosse unicamente rivolta all‟individuo imponendo al singolo un compito nuovo

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termini, la questione derimente tra coloro (gli gnostici) che screditavano la vita mondana al punto da assegnare alla sola salvezza spirituale il senso dell‟impegno iniziatico, e coloro (gli ortodossi) che invece professavano una redenzione integrale dell‟uomo, coinvolgente anche la sarx, cioè la sua esistenza storica. Il tema delle origini della  , quale eresia cristiana 113 ovvero tendenza pre-cristiana,114 non tiene conto che la similitudine o la differenza con la dottrina cristiana appare decisamente in considerazione del rispettivo fondamento ontologico, per cui la esclusiva rilevanza assegnata dallo gnosticismo alla salvezza spirituale non deve mascherare l‟assunto dualistico della metafisica gnostica, così come la teoria cristiana del Verbo incarnato non va confusa con un monismo di tipo idealistico che, con la differenza ontologica escluderebbe anche la funzione della mediazione del Cristo.115 Una soteriologia di tipo monistico, di ispirazione dichiaratamente gnostica ovvero sedicente cristiana, sfocia infatti inevitabilmente in una visione messianica che, conferendo all‟  un senso storicamente immanente e astrattamente temporalizzabile, contraddice l‟originario assunto dualistico. Per cui è il dualismo

nella esplicazione della sua vita interiore,lo sdegno e l‟ostilità del pubblico pagano non avrebbe avuto ragione di esplodere così minacciosamente”: E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 212. 113 A. Orbe, Cristologìa gnòstica, 2 voll., Madrid, 1976; Id., Introducciòn a la teologìa de los siglos II y III, tr. it. cit.; S. Pétrement, Le Dieu séparé. Les origines du gnosticisme, Paris, 1984. 114 E. Yamauchi, Prechristian Gnosticism, London, 1973. 115 Secondo S. Weil, la Grecia fu “ossessionata” dalla “distanza infinita tra Dio e l‟uomo”, sicché “i migliori tra i Greci sono stati posseduti dall‟idea di mediazione tra Dio e l‟uomo, di mediazione nel movimento discendente per il quale Dio va in cerca dell‟uomo”. La cultura greca “aveva appena cominciato a realizzare la sua vocazione di costruttrice di ponti [quando] Roma distrusse ogni traccia di vita spirituale in Grecia, come in tutti i paesi da lei sottomessi e ridotti alla condizione di provincie. Tutti salvo uno”, difeso dalla sua rivelazione collettiva. E così, “dopo tre secoli deserti” tornò a scaturire “la sogente perfettamente pura” della fede cristiana, e “l‟idea di mediazione ricevette la pienezza della realtà e apparve il ponte perfetto; la Saggezza divina, come Platone aveva sperato, divenne visibile agli occhi. La vocazione greca trovò così la sua perfezione diventando la vocazione cristiana”, che dello spirito greco è la sua “forma di verità”: L’ispirazione occitana (1942), tr. it. in Id., I Catari e la civiltà mediterranea,Genova-Milano, 2010, pagg. 29-30.

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ontologico la nota caratterizzante sia lo gnosticismo che il cristianesimo, e pertanto il loro tratto teoreticamente unificante. In questo senso possiamo convenire tanto con chi allarga la forma gnostica comprendendovi ogni teoria dualistica, quanto con chi ne sostiene la parentela cristiana. 116 Proprio in considerazione del comune dualismo ontologico tra gnosticismo e cristianesimo, non sarebbe peregrino affermare in sintesi che, complessivamente, la gnosi, eretica o ortodossa che sia giudicata da parte cristiana, si costituisce come la prima organica rielaborazione in chiave cristo-logica (cioè cristico-razionalistica) del Mito cosmogonico rappresentato dall‟Antico Testamento, verso il quale, non a caso, in nome del Figlio-Logos si manifestarono da entrambe le parti decise prese di distanza o aperte versioni esegetiche che, come la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, distinguevano fra ebrei e giudei, ossia tra i patriarchi della fede e depositari della Rivelazione, e i fautori della Legge, che della divina rivelazione costituiva la corruzione. Contro la radicalizzazione dualistica dei Valentiniani e dei Marcioniti, che giungeva per antinomia polemica a una metafisica monistica, insorse l‟esegesi ortodossa degli apologisti, i quali si assunsero il compito, da un lato, di preservare il cristianesimo alla tradizione ebraica, conciliando la fede tradizionale nell‟unico Dio con la nuova predicazione evangelica delle due città, una terrena e l‟altra celeste, che presagiva l‟avversione cristiana (e gnostica) verso quella terrena governata dal Diavolo, e dall‟altro di conciliare il sentimento della comune origine divina con l‟evento originale della redenzione a opera del Salvatore, scongiurando il rischio sia di farne un mero episodio interno all‟ebraismo, sia di contrapporlo a questo come una nuova religione messianica (come invece avverrà in seguito all‟accentuato monofisismo del cristianesimo orientale con la versione islamica). Il

116

Per la prima tesi, ved. H. Jonas, Gnosis und spaetantiker Geist, I (1934), II (1954). Per i fautori della seconda, “tutto il complesso delle testimonianze antiche sullo gnosticismo converge univocamente nel presentare questo fenomeno religioso come totalmente, o almeno in massima parte, interno alla religione cristiana”: M. Simonetti, Loc. cit., pag. XXV. In ogni caso, è dalla scuola del capostipite degli eretici e degli gnostici, Simon Mago, che deriva, con Saturnino, “la sostanziale coincidenza dei processi di progressiva gnosticizzazione e cristianizzazione della dottrina ereditata dai maestri”: M. Simonetti, in Testi gnostici cit., pag. 7.

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rischio era latente, poiché “alle sue origini il cristianesimo nasceva come visuale di una collettività organizzata sulle leggi dello spirito, la quale si contrappone risolutamente alla collettività basata sulle semplici norme della disciplina politica”. 117 Contro l‟astratto dualismo gnostico e marcionita, che si tramutava in monismo pratico, l‟ortodossia cristiana afferma la continuità gerarchica tra la sfera divina e quella umana, tra le quali dunque, mediatore il Cristo, si stabilirebbe un continuum ontologico – una “catena dell‟Essere” – che garantirebbe sia l‟unità cosmica che l‟unità antropologica. Sicché, quando Ireneo, vescovo di Lione, scrive: Il Signore congiunse e unì … l‟uomo a Dio. […] D‟altra parte, se non fosse stato Dio a donarci la salvezza, non l‟avremmo ricevuta stabilmente. E se l‟uomo non fosse stato unito a Dio, non avrebbe potuto divenire partecipe della incorruttibilità. […] Infatti, come avremmo potuto divenire partecipi dell‟adozione filiale, se mediante il Figlio non avessimo ricevuto da lui la

117

E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 215. Le implicazioni pratiche di uno o altro atteggiamento teorico sono notevoli e intuibilmente diverse. Infatti, la teoria dualistica si rifletteva sul piano politico come una netta presa di distanza dalla proskynesis al Potere, di matrice orientale ma che anche gli imperatori romani fino a Costantino hanno in qualche misura coltivato verso l‟autorità imperiale, determinando molto l‟atteggiamento verso i cristiani, sui quali si infieriva proprio in considerazione della loro posizione restia al culto del Potere, molto simile a quella manifestata tradizionalmente dalle comunità ebraiche. Non a caso l‟editto del 202 di Settimio Severo comprende tanto il proselitismo dei cristiani quanto quello giudaico. Va subito aggiunto che la posizione comune verso il Potere di Roma non si estende sulla concezione che il cristianesimo delle origini aveva sulla funzione della fede religiosa, molto diversa dalla concezione ebraica. Pertanto, in questo senso, “sul terreno sociale si potrebbe dire che la grande novità e la grande scoperta del cristianesimo è la separazione netta dei valori politici dai valori religiosi. Di fronte ad una concezione dura, assoluta, della vita politica e del suo organo direttamente rappresentativo, lo Stato, il cristianesimo ha praticato nel mondo una super-politica, anch‟essa assoluta, la quale implicava la svalutazione completa, dal punto di vista morale e religioso, della organizzazione statale. E un Impero romano che per logica fatale di cose tendeva automaticamente a rivestirsi, al modo delle monarchie orientali, di forme ieratiche e di pretese divine, era automaticamente tratto a scorgere nel cristianesimo il suo irriducibile avversario e ad assumere quindi un atteggiamento di difesa che si riversava immediatamente in una pratica persecutrice”: E. Buonaiuti, Loc. cit., pag. 204.

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comunione con lui; se non fosse entrato in comunione con noi il suo Verbo facendosi carne?

E più oltre: senza il Figlio nessuno può conoscere Dio. Perché il Figlio è la conoscenza del Padre e la conoscenza del Figlio è rivelata dal Padre attraverso il Figlio. […] La parola “rivelerà” non si riferisce solo al futuro, come se il Verbo avesse cominciato a rivelare il Padre quando nacque da Maria, ma si riferisce generalmente a tutto il tempo. Infatti il Figlio, essendo accanto alla sua creatura fin dall‟inizio, rivela il Padre a tutti: a quelli a cui il Padre vuole, quando vuole e come vuole. Per questo in tutte le cose e attraverso tutte le cose c‟è un solo Dio Padre, un solo Verbo, un solo Spirito e una sola salvezza per tutti coloro che credono in lui. 118

egli traccia in compendio le linee di lettura esegetica sia della cristologia del Nuovo Testamento che della soteriologia che ad essa è sottesa come patrimonio missionario dei custodi della fede cristiana. Ma per le implicazioni ermeneutiche che tale chiave di lettura comporta, la sua stessa affermazione assume la difesa di quella ritenuta ortodossa sulle altre giudicate spurie o ereticali, aprendo all‟interno della cultura cristologica un conflitto delle interpretazioni che, in virtù dell‟adozione strumentale della tradizione teoretica greca ai nuovi fini esegetici, ricalca alquanto le diatribe ontologiche della filosofia pre-socratica, anteriori alla sistemazione della metafisica classica, e che troveranno in Agostino il loro Platone e in Tommaso il loro Aristotile. 119 La cristologia ortodossa professa la generazione eterna del Figlio, dichiarando con Origene che “non per adozione dello spirito Cristo diviene figlio dall‟esterno, ma è figlio per natura”.120 L‟adozione di

118

Ireneo, Adversus hereres III, 18, 7 e IV, 6, 7; tr. it. in Il Cristo, vol. I cit., pag. 161 e 167. 119 già i Philosophoumena del III sec. attribuiti a Ippolito descriveva le eresie cristiane come derivazioni dell‟influsso filosofico e scientifico greco. Ved. di Ippolito anche l‟esplicito riferimento nelle Confutazioni (VI 9) ai referenti filosofici greci di Simon Mago (Eraclito, Aristotile, Platone): in Testi gnostici cit., pagg. 1921. Cfr. M. Simonetti, Introduzione a Testi gnostici cit., pag. XV. 120 Origene, De principiis I, 2, 4; tr. it. in Il Cristo, vol. I, cit., pag. 291.

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Gesù come figlio di Dio viene concepita dal cristianesimo eterodosso ellenizzante nei termini di una “cristologia dell‟intelletto” (Nouschristologie), ovvero di una “cristologia del Logos” (Logoschristologie), entrambe di tipo adozionista e basate su di una antropologia razionalistica che “annovera la natura intellettiva dell‟uomo e del mondo fra le sue premesse fondamentali”. 121 Ma se l‟essenza di Dio, come della Trinità, è spirituale, la generazione del Logos filiale è duplicem: “secondo lo Spirito”, in quanto generazione divina, e “secondo la carne”, in quanto generazione umana. L‟omogeneità o coessenza del Logos con la sua formazione (plasis) fa sì che lo status personae del Cristo, ossia “quod quid est, la sua situazione, il suo modo di essere”, sia duplex. Il duplicem statum di “Figlio di Dio”, in quanto Sapienza personale, e “Figlio dell‟uomo”, in quanto concepito per la salus carnis, rende la figura del Cristo soggetta alle due nature, quella dello spiritus e quella del caro. Infatti, come afferma Tertulliano, “la proprietà delle due condizioni, divina e umana, si è verificata con pari realtà in entrambe le nature, nello spirito e nella carne”.122 Ma nella commixtio o crasis delle due nature dell‟homo Deo

121

A. Orbe, Introduzione, cit., pag. L. “Si parla di adozione quando si postula un atto „positivo‟ di Dio che riguarda un puro uomo secondo la carne”, inteso sia come figlio di Giuseppe che di Maria vergine, e sia come “semplice Cristo”, ossia come messia, che come “Cristo-angelo”. L‟adozione poteva avvenire “in tre occasioni: in sinu Mariae […] in quanto figlio di Giuseppe o di Maria; in Iordane”, secondo il Vangelo di Matteo (3, 17); “in resurrectione, quando Gesù viene resuscitato dai morti” (Act. Ap. 13, 33): Ivi, pag. LI. 122 De carne Christi, 5,7, tr. it. in Il Cristo, vol. I cit., pag. 229. Per Tertulliano, “Dio è spirito”, e sostanza propria dello spirito è la parola, la ragione e la potenza “per mezzo delle quali Dio ha fabbricato ogni cosa”, per cui “ciò che è uscito da Dio è Dio, e figlio del Dio, e tutti e due un solo Dio”. Lo spirito di Dio, come un “raggio”, “discese in una vergine e, configurato (figuratus) carne nel suo utero, nasce uomo misto a Dio. La carne fatta dallo spirito si nutre, cresce in età, parla, insegna, opera ed ecco il Cristo”: Apologeticum, 21, 11, tr. it. cit., pag. 211. Lo Spirito di Dio, che “è lo stesso Verbo” (Adversus Praxean, 26, 4, tr. it. cit., pag. 245), vivifica e perciò Dio, assegnando allo Spirito “la condizione salvifica” (De Resurrectione, 37, 1, tr. it. cit., pag. 237), mandò il Figlio “nella somiglianza della carne di peccato per redimere la carne di peccato con una sostanza simile, cioè con la carne, che fosse simile alla carne peccatrice, pur non essendo peccatrice essa stessa. Infatti, anche questa sarà la potenza di Dio: il compiere la salvezza in una sostanza uguale. Perché non sarebbe per niente eccezionale se fosse lo Spirito di

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mixtus, la substantia spiritualis, nella cristologia canonica, prevale come il divino prevale sull‟umano, distinguendosi per ciò stesso dalla condicio dello status umano, che non è spirituale, ma carnale. Fautore dell‟indirizzo apologetico, Tertulliano fu autore di un trattato Adversus Marcionem che tende a screditare sul piano teoretico le antinomie morali rilevate da Marcione tra l‟etica della legge stabilita dal Vecchio Testamento, e l‟etica della carità introdotta dal Nuovo, presentando in toni forti e a tratti sprezzanti la ricostruzione esegetica del Pontico come del tutto ereticale e falsa. 123 Africano di Cartagine, è anch‟egli, come Ireneo e Montano, millenarista e scrive una apologia escatologica Adversus Praxean dove sviluppa una teologia prammatistica molto critica verso il lassismo morale dei cristiani e il formalismo acquiescente di una astratta teologia “pencolante verso un rinnegamento di quel che doveva essere il dato centrale del messaggio

Dio a guarire la carne; al contrario, il fatto sorprendente è se la guarisce una carne simile alla carne peccatrice, in quanto è carne ma non carne di peccato”: Adversus Marcionem V, 14, 1-2, tr. it. cit., pag. 221. Ricordando la immagine paolina della chiesa come “corpo di Cristo” (Col., 1, 24), sostiene che “non per questo motivo” l‟Apostolo, “accennando al corpo, vi trasferisce tutte le caratteristiche della sostanza della carne”, ma volendo intendere che “siamo riconciliati nel corpo di Cristo per mezzo della morte, evidentemente si tratta di quel corpo in cui poté morire, essendo morto per mezzo della carne e non per mezzo della chiesa, proprio in favore della chiesa mutando corpo con corpo, quello spirituale con quello carnale” (Ivi, 19, 5, pag. 223). Sicché, quando l‟Apostolo dice che “il Figlio di Dio morì (Cor. 15, 3)”, s‟intende che “siccome in Cristo vi sono due sostanze, una divina e una umana, e si sa che quella divina è immortale, mentre è mortale quella umana, è evidente in quale senso egli dice che mrì, cioè in quanto carne e uomo e figlio dell‟uomo, non in quanto Spirito, Verbo e Figlio di Dio”, per cui “noi infatti non diciamo che egli morì nella sua sostanza divina ma in quella umana” (Adversus Praxean, 29, 1-3; tr. it. cit., pagg. 249-251). Ved. A. Orbe, Introduzione, cit., pagg. LXXXVI-LXXXVIII. 123

Tertulliano era nato a Cartagine circa la seconda metà del II sec. Convertitosi al cristianesimo, divenne sacerdote e aderì alle teorie di Montano. Posizioni simili a quelle di Tertuliano furono perorate da Giustino Martire (II sec.), da Origene (III sec.) e da altri eresiologi fino al V sec., quando in Oriente ancora era viva la scuola marcionita. Ved. H. Jonas, Op. cit., pagg. 153-163. Per maggiori ragguagli, ved. R. Cantalamessa, La cristologia di Tertulliano, Friburgo, 1962. Una tr. it. di sue Opere scelte è stata curata da C. Moreschini, Torino, 1974.

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cristiano: l‟annuncio profetico del Regno di Dio”. 124 Sostenendo la “costante permanenza del carisma profetico nella Chiesa”, Tertulliano viene allontanato dalla comunità ortodossa e posto all‟ostracismo dalle autorità ecclesiali del tempo, mentre la sua teologia “sarà adottata dalla comunità del suo complesso e diventerà la teologia normativa della Chiesa”. 125 Ma il “caposaldo” della sua dottrina trinitaria è il concetto monarchico di Dio. Egli sostiene infatti che “l‟amministrazione, vale a dire la molteplicità [trinitaria] delle mansioni nello spiegamento progressivo del divino nel mondo, non vulnera in alcuna maniera la nozione monarchica di Dio”, per cui “la trinità non è una negazione dell‟unità”, ma rappresentano le figure con cui Dio si manifesta nella storia, “a ciascuna delle quali corrisponde un momento tipico della evoluzione spirituale della vita associata, in vista del provvidenziale reggimento del mondo e della storia”. In questo modo indiretto, “Tertulliano introduce nella concezione del divino la sua filosofia religiosa della storia e la sua aspettativa millenaristica”, sicché “la teologia trinitaria [della Chiesa latina] nasceva dalla esperienza e dall‟aspettativa apocalittiche” di un “eretico montanista”.126

124

E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 172. Ivi, pag. 174. 126 Ivi, pagg. 176-177. “Il connotato specifico della professione cristiana di Montano era costituito dalla sua esperienza irresistibile della ispirazione carismatica”, mentre il “principio fondamentale” del suo messaggio “era basato sulla persuasione profonda che la religiosità in genere e la religiosità cristiana in particolare dovessero vivere unicamente e permanentemente di rivelazioni profetiche e di entusiasmo carismatico”. Se Marcione aveva cercato di “spogliare l‟esperienza cristiana da ogni elemento utilitario ed eudemonistico [e] di strappare recisamente il messaggio evangelico dalla tradizione del messianismo giudaico e quindi dall‟economia religiosa del Vecchio Testamento”, Montano, sospinto dalle stesse esigenze apocalittiche, “saldava la rivelazione del Figlio e del Paracleto ai presagi del profetismo e del Dio biblico”. La corrente del montanismo, che dalle originarie comunità dell‟Asia si propagò fino al mondo occidentale, rappresentò “la rivincita del messianismo evangelico di fronte all‟insidia delle incipienti speculazioni teologali. E come sempre nella storia della religiosità collettiva, il cammino ulteriore dell‟esperienza cristiana fu segnato da una risultante in cui vennero in qualche modo a confluire le esigenze del misticismo profetico e quelle della cultura razionale. E‟ proprio del massimo fervore delle polemiche ecclesiastiche, fra il tramonto dl secondo secolo e gli inizi del terzo, che si 125

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La cristologia di Tertulliano non pensa a un di Cristo distinto da quello trinitario, ma l‟idea della crasis del divino e dell‟umano “in una persona” (Agostino) diventerà canonica, per cui nella cristologia posteriore la concretio, ossia la condizione concreta di Cristo, funse da modello antropologico per l‟uomo, tanto che “i grandi gnostici la consideravano ovvia, senza sentire il bisogno di giustificarla esplicitamente”127 Gli alessandrini Clemente e Origene accentuano la “correlazione tra l‟antropologia e la cristologia”, dando rilievo alla salus animae sulla salus sarxis.128 La conseguenza di tale rilevanza unilaterale è la “tendenza a trascurare la storia e ad accontentarsi degli aspetti „essenziali‟ dei misteri di Gesù”. 129 Nell‟ambiente culturalmente raffinato dell‟Egitto, la tradizione messianica ebraica aveva ceduto il posto all‟interpretazione platonica della cosmogonia biblica, per cui “il cristianesimo non poteva insistere sui suoi caratteri apocalittici […] ma avrebbe cercato anch‟esso, sulla scorta della filosofia filoniana, di gravitare verso una raffigurazione metafisico-cosmica del messaggio evangelico”, di tipo gnostico. “Sono infatti alessandrini i primi grandi maestri della gnosi che vengono a fare propaganda a Roma del loro sincretismo ammodernato”. 130 Clemente. La conversione di Clemente al cristianesimo fu probabilmente dovuto a uno “sbocco logico” dei vari indirizzi filosofici che si incrociavano nel colto mondo alessandrino, “e una volta entrato nell‟ambito della società cristiana e assunta la direzione della scuola catechetica, Clemente pone mano ad un programma grandioso, che è quello di educare la cultura ellenistico-platonica al riconoscimento della bontà e verità assolute della professione cristiana”, in opere quali la Esortazione ai greci, Il pedagogo, gli Stromati e il vasto resoconto della filosofia ellenistica Tappeti, in cui vengono raccolti “dati e spunti in

delineano all‟orizzonte della vita ecclesiastica le prime sintesi scolastiche e le prime sistemazioni teologiche. Le une e le altre sono strettamente associate alle polemiche cosiddette ereticali”: Ivi, pagg. 163-167. 127

A. Orbe, Introduzione, cit., pag. LXXXVIII. Ivi, pag. LXXXIX. 129 Ivi, pag. XC. 130 E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pagg. 177-178. 128

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favore dell‟insegnamento evangelico”131 Rispetto alle precedenti apologie, l‟opera di Clemente si distingue per dottrina e stile letterario, Infatti, “valendosi della propria personale conoscenza del mondo greco in tutte le sue multiformi manifestazioni, dai culti misterici alle speculazioni delle scuole filosofiche, Clemente può fare uno sfoggio di erudizione neppure tentato dai precedenti apologisti per assicurare la superiorità della rivelazione cristiana”.132 “Si può perfettamente individuare in lui il rinnovarsi del tentativo già compiuto da Filone di armonizzare e di abbinare la speculazione platonica e la rivelazione biblica”. 133 La forte tempra teoretica Clemente la dimostra con la consapevolezza, profonda ma forse non del tutto consapevole delle conseguenze spirituali, che “ogni apologia speculativa del cristianesimo è condannata fatalmente ad incorrere nelle contraddizioni inevitabili arrecate dal proposito intrinsecamente contrastante di tradurre in speculazioni razionali e in discipline etiche codificabili quel che era stato per essenza l‟entusiasmo fiammante della primitiva esperienza cristiana”.134 Con la quale, il pensatore alessandrino presagisce in qualche modo la necessità di utilizzare nuovi e più opportuni strumenti teoretici per pensare la realtà spirituale annunciata dal messaggio evangelico, ma che pur

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E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pagg. 178-179. Originario di Atene, Clemente si convertì al cristianesimo e viaggiò molto fino a stabilirsi ad Alessandria succedendo a Panteno nel 200 ca. Morì in Cappadocia intorno al 215, dove si rifugiò per sfuggire alle persecuzioni di Settimio Severo dei cristiani in Egitto. 132 Ivi, pag. 179. 133 Ivi, pag. 182. “Al polo opposto di Tertulliano che, tutto imbevuto di stoicismo, non riusciva a raffigurarsi il Divino spogliato completamente di qualità sensibili e di struttura corporea, Clemente iperplatonicamente vede il trascendente in una così assoluta assenza di qualità sensibili che la sua definizione della divinità può apparire affina a quella che sarà la tipica definizione neo-platonica: Dio negazione dell‟ente in quanto l‟ente è sinonimo di circoscritto e di spaziale”, sicché “nella seconda persona della Trinità, Clemente, date le sue predilezioni filosofiche, vede molto più il Logos e il Maestro, che non il Cristo Redentore”. Infatti, per lui , è il Logos, che, pur essendo una “entità nettamente distinta da quella del Padre”, “conduce gli uomini a Dio”, educandoli alla “virtù” ed istruendoli alla “scienza divina” : Ibidem. 134 E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 185.

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tuttavia non lo distoglie dal continuare (pigramente) a pensare la figura di Gesù Cristo nelle forme della tradizione platonica. Non a caso Fozio lo accusò di “docetismo”.135 Ma in realtà era la sua sensibilità ellenistica a fargli rappresentare la sostanza spirituale del Nuovo Adamo come quella stessa dell‟Essere cosmico pensato come Logos, e quindi in termini speculativamente iniziatici e religiosamente esoterici. In tal senso per Clemente “il tipo ideale del fedele è il cristiano gnostico” (Stromateis, VI 9, 71, 1-2), distinto sia dall‟eretico seguace della falsa  (gnosticismo) che dal cristiano comune, di “fede grezza e irriflessa”, perché chiamato “alla perfezione attraverso l‟esercizio consumato delle virtù percettive e intuitive”, quali l‟impassibilità (apatheia) stoica alle passioni, compresa la virtù, e l‟amore evangelico (agape). 136 In un passo degli Stromateis, Clemente stabilisce la differenza tra la “immagine” () e il “volto vivente” ( ), asserendo che nella immagine “non c‟è la vera forma” (  ). Se il “volto vivente” è inequivocabilmente quello del Cristo, cos‟altro è codesta “immagine inferiore” se non quella del Demiurgo, ossia del depositario del Potere sul mondo ( ) inferiore rispetto all‟Eone vivente (  )?137 E‟ infatti il Potere demiurgico a regnare dando ordine al caos, facendone un cosmo. E che altro è tale Potere se non quello appunto di ordinare la vita animale dell‟uomo in termini razionali, ossia politici? La vita inferiore dell‟uomo consiste pertanto nella socialità politica, che è l‟esistenza priva della verità della superiore vita spirituale.  Il messaggio kerygmatico degli apologisti del primi secoli è “di conversione, il che vuol dire innanzitutto che è una denuncia del paganesimo”, sia per la sua religione mitologica che per le dottrine filosofiche, considerate ferme alla ricerca ( ) senza vera scoperta

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L‟opinione per cui “la natura corporea e sensibile del Cristo fosse puramente apparente e che, come l‟anima del Cristo era completamente esente da ogni passione, così il suo appariscente involucro corporeo fosse completamente immune da tutte quelle che sono le esigenze della carne”: Ivi, pagg. 182-183. 136 Ivi, pag. 184. 137 Clemente, Stromateis IV 89, 90. Sulla nostra ipotesi, ved. M. Simonetti, Commento ai Testi gnostici in lingua greca e latina, Milano, 1993, pag. 454 n. 7.

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() di Dio.138 Le apologie, rivolgendosi a pagani, cercano di rendere accettabile la verità cristiana conformemente a quanto la sapienza filosofica ha già indicato come ciò che vi è di più valido nell‟anima umana, e che con l‟idolatria del paganesimo invece contrasta, per cui “il cristianesimo, come dottrina del Verbo, è nella continuità con tutto ciò che nel mondo pagano è vissuto secondo il ”.139 Ciò presuppone che nella sapienza pagana ci sia una premonizione della verità divina che Clemente chiama , concessa da Dio a tutti e accessibile per natura, dalla quale peraltro va distinta l‟ispirazione filosofica ( ), che Dio consente attraverso la cultura () ad alcuni illuminati greci per il bene degli uomini.140 Nondimeno, la sapienza filosofica concessa originariamente ai cultori barbari e quindi pervenuta ai Greci è comunque “inferiore non soltanto al Vangelo, ma alla Legge”, affidata al popolo ebraico. 141 La filosofia delle origini era di carattere religioso, mentre quella greca ed ellenistica di carattere scientifico, sicché per Clemente “il contenuto della filosofia greca non è originale”, ma è un adattamento dei “briganti e dei ladri” greci alla verità professata da Mosè e dai profeti ebrei. 142 La teoria genetica di Clemente, presentata negli Stromateis, della sapienza filosofica come appropiazione impefetta ed elementare della antica verità divina, deformata da interpretazioni arbitrarie e parziali, la cui corretta rielaborazione teologica rappresenta la versione integrale e autentica, costituisce la prima definizione sistematica del sapere razionale come rielaborazione e inveramento ( ) del Mito, consistente nel “discernere ciò che è buono e ciò che è cattivo”. 143 Infatti, è vero che la fede è un dono della grazia divina, ma per Clemente “una delle superiorità della Bibbia sulle sapienze barbare non giudaiche è precisamente il grado di elaborazione della verità […] in modo che è ad essa che alla fine risale la maggior parte delle verità

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G. Daniélou, Message évangelique et Culture hellénistique aux II e et IIIe siècle (1961), tr. it. Bologna, 1975, pagg. 23-25. 139 Ivi, pagg. 42 e 44. 140 Ivi, pagg. 64 e 65. 141 Ivi, pag. 67. 142 Ivi, pag. 81. Per i presunti adattamenti omerici, ved. pagg. 107-119. 143 Ivi, pag. 90.

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esposte”. 144 La rielaborazione esegetica consiste nel portare a sistema il discorso e le rappresentazioni oggetto di analisi testuale, a partire da alcuni postulati di fede, che costituiscono le premesse a cui va riportato il senso complessivo del discorso razionale. Oggetto della rielaborazione cristiano-ellenistica dei primi secoli è soprattutto il pensiero greco, le cui esegesi “eserciteranno un‟influenza permanente sulla formulazione teologica e mistica”. 145 L‟uso etimologico del linguaggio teologico può mutuare dal  greco non solo le categorie interpretative del fenomeno religioso cristiano, ma anche la correlazione semantica in cui i concetti teologici vengono trascritti. L‟uso simbolico del linguaggio teologico ellenistico, a partire da Filone ma che diventa più consapevole in Clemente, 146 il quale, pur tendendo a conservare l‟impianto teoretico della metafisica greca, cerca di fruirne ai fini di una rappresentazione comprensiva del senso trascendente dell‟evento soteriologico (), assente come tale dall‟orizzonte teorico e semantico della filosofia pagana, e pertanto la qualche indeterminatezza () dell‟espressione () intende assegnare al concetto () teologico una apertura di significati ( che consenta la surrettizia integrazione () ermeneutica in senso, a seconda dei casi (), escatologico, cosmologico ovvero soteriologico. Questo uso amfibologico della terminologia teologica venne adottato soprattutto con intento sincretistico da pensatori di cultura greca convertiti come Clemente, il quale “sentiva l‟esigenza di arrivare ad una conchiusa concezione del mondo, ad un‟intima fusione dei diversi patrimoni di pensiero”, che assegnasse alla filosofia “la parte d‟ancella”, convinto ch‟essa “avesse soltanto un valore

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Ivi, pag. 87. Ivi, pag. 130. 146 Si ricordino i ripetuti avvertimenti contenuti negli Stromateis circa la sua incuria per l‟ordine ( ) e per lo stile () del discorso; ved. C. Micailli, La cristianizzazione dell’ellenismo, cit., pagg. 13-62. nondimeno, W. Jaeger nota che la lingua di Clemente “ha un carattere più pretenzioso ed elaborato che non quella di Origene”, a “imitazione della moda letteraria di quella seconda Sofistica che ebbe inizio nel secondo secolo”: Id., Early Christianity and Greek Paideia (1961), tr. it., Milano, 2013, pag. 95. 145

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propedeutico”.147 Con questo spirito egli “interpreta Platone in funzione della rivelazione biblica”, stabilendo per singoli argomenti, quali ad esempio l‟incomprensibilità di Dio, “una equivalenza tra l‟espressione biblica e l‟espressione platonica”.148 Ciò che interessa agli scrittori cristiani “è di mostrare che Platone è l‟eco di una tradizione anteriore che egli deforma e di cui Mosè presenta la forma autentica”, per cui “si tratta meno di un platonismo o di un latonismomedio cristiano che di una teologia biblica che utilizza, correggendole, espressioni platoniche”.149 L‟assioma fideistico di partenza per Clemente è che “esiste un‟unica verità, rivelata all‟origine, conservata nel giudaismo, profondamente offuscata altrove, pienamente manifestata in Cristo”, autorizzandolo “ad appellarsi ai sapienti della Grecia e ai filosofi loro eredi per le particelle di verità che essi hanno conservato”. 150 La definizione () è il significato della cosa, la dimostrazione () verte sull‟esistenza di qualcosa, sicché possono darsi anche definizioni di cose inesistenti ( ). Allorquando la fede interviene ad annullare tale distinzione, ed essa consiste nella definizione dell‟astratto logos stoico o filoniano nella persona del Cristo incarnato, redentore dell‟umanità, viene operata una riduzione dell‟universalità, eternità e onnipotenza divine nei termini di una concreta figura umana, 151 la quale, investita del carisma della sostanza divina, rappresentava la possibilità di una tale riduzione, che, senza il supporto della fede e delle qualità trascendenti, costituiva il prototipo della potenza (kyrios) umana svincolata da ogni limite naturale. Ma per dare universale possanza all‟energia ( ) divina, superiore a quella naturale perché di essa creatrice, era essenziale stabilire una similitudine () tra l‟essenza spirituale di Dio e quella di ogni uomo che rendesse più saldo il reciproco legame () e rendesse la natura umana inconsutilmente partecipe di una

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M. Pohlenz, La Stoa, tr. it. cit., pag. 866. G. Daniélou, Loc. cit., pag. 132. 149 Ivi, pag. 137. 150 Ivi, pag. 161. 151 M. Pohlenz, Loc. cit., pag. 845. Citando Clemente, “l‟immagine del Logos è l‟uomo, l‟uomo autentico, lo spirito che è nell‟uomo, quello che è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio”: Protrept., X, 98, 4, cit. da G. Daniélou, Loc. cit., pag. 157. 148

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dimensione trascendente originaria e consustanziale, ben più radicale della relazione () stoica o platonica perché ineludibilmente compresente alla stessa realtà composita (  ) dell‟uomo. il distacco dal naturalismo greco avvenne con la definizione giovannea dell‟essenza pneumatica di Dio (Gv, 4, 24) e della sua partecipazione universale a tutta la comunità, non solo dei credenti ma umana, annunciata da Paolo ai Corinzi. 152 Ora il Logos poteva essere presente anche in uomini vissuti prima della Rivelazione, come Socrate, che secondo Giustino “meritava il nome di cristiano, perché era vissuto secondo i comandamenti del logos”.153 Nondimeno, “questo logos fuori del tempo” non era, come pure ritiene Pohlenz, “la ragione universale stoica in vesti cristiane”, 154 poiché con l‟Incarnazione esso perde il carattere noematico del concetto greco per assumerne uno onto-antropologico, consustanziale a ogni uomo in quanto uomo, e non in quanto cultore del . Non si trattava, pertanto, di “una concezione schiettamente religiosa” quella professata da apologisti come Giovanni e Ireneo, 155 ma bensì ontologica e sorretta da un fondameto di fede che era intimamente collegato alla relativa ontologia come nessuna credenza religiosa mai lo era stata in passato, e paragonabile soltanto alla posizione metafisica della filosofia. E da qui il connubio tecnico tra teologia e filosofia di cui si è detto. La teoria platonica sulla distinzione del mondo intelligibile da quello sensibile, offre a Clemente lo strumento teoretico per affermare, per un verso, la natura spirituale e incorporea di Dio, e per l‟altro di assegnare all‟uomo un primato pneumatico (  ) sulla natura, non beneficata dal logos divino che si era umanamente incarnato, tale da giungere alla conclusione che il mondo fu creato da Dio per l‟uomo in vista della salvezza della sua anima. 156 Da qui nasce la teoria, di origine stoica, che la correlazione ( ) tra Dio e il mondo includa in uno stesso ordinamento armonico sia l‟ordine naturale che l‟ordine morale, per cui “la legge di natura, il nomos, è la retta

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Ved. M. Pohlenz, Loc. cit., pag. 857. Ivi, pag. 861; G. Daniélou, Message évangelique, tr. it. cit., pagg. 42-43. 154 M. Pohlenz, Loc. cit., pag. 862. 155 Ivi, pag. 864. 156 Ivi, pag. 872. 153

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ragione che prescrive all‟uomo ciò che deve e ciò che non deve fare”. 157 In virtù della sua libertà, l‟uomo decide di seguire le indicazioni divine, e la sua decisione morale (  ) convoglia finalisticamente tutte le forze del logos nella auto-determinata volontà ().152 [152. Ivi, pag. 876.] La conseguenza gnoseologica di tale primato della volontà morale è che la conoscenza razionale che ne consegue debba servire a confermarla, e non già, come nel caso della filosofia verso il Mito, a confutarla, poiché la synkathatesis non è altro che la forma universale dell‟atto originario della pìstis, la cui forza totalitaria “compenetra tutto l‟uomo e si manifesta in ogni particolare del suo pensare e del suo agire”. 158 Non può sfuggire la constatazione che questa rappresentazione della verità come adequatio della conoscenza alla fede stabilisca il modello teoretico di ogni ideologia totalitaria, e si costituisca come la legittimazione morale di ogni volontà di potenza fondata sulla fede. Nel caso cristiano, l‟antica fede giudaica nella oggettiva legge divina raccolta da Mosè, si trasferisce nella soggettività della coscienza individuale, la quale, partecipando misticamente dello spirito divino, ne incarna a suo modo, nel modo cioè della finitezza umana, anche la potenza, la cui principale prerogativa pneumatica è la libertà dalla necessità naturale. Se nella concezione giudaica l‟emancipazione della volontà () dalle leggi della natura veniva compensata dal vincolo trascendente alla legge divina, la duplice emancipazione cristiana della volontà umana, sia dalla natura che dalla tradizione ebraica, affida alla guida carismatica di Gesù la funzione ordinamentale originariamente assegnata al nomos naturalistico, per i pagani, o divino, per gli Ebrei. Non solo il Logos diventa personale con la figura di Cristo, ma lo stesso nomos, che viene a perdere nella concezione cristiana la funzione regolativa del potere umano e di limite intrascendibile della sua volontà di potenza che aveva nella concezione greca. La funzione surrogatoria del Logos cristiano, per il suo carattere contingente e imprevedibile, presuppone la sua presenza (), senza la quale non è possibile pervenire ad alcuna decisione libera dalla

157 158

Ivi, pag. 874. Ivi, pag. 877.

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necessità del nomos naturale o legale. Con la morte di Gesù tale presenza o viene trasferita () nei Suoi rappresentanti e vicarii, e quindi oggettivata in una forma istituzionale che li nomini, ovvero viene assegnata alla interiorità di ogni singolo fedele, che ne dispone secondo coscienza, ed eventualmente la affida a un suo fiduciario spirituale. La opzione istituzionalistica e totalitaria è quella prescelta storicamente dalla Chiesa cattolica romana e dalla Chiesa bizantina, che indichiamo come paradigma ellenistico, mentre quella individualistica e carismatica è invece l‟opzione della moderna Chiesa riformata, che indichiamo come paradigma carismatico. I due principii, quello totalitario e quello carismatico, sono intrinseci alle diverse confessioni cristiane, ma diversa è la rilevanza delle rispettive funzioni nei due contesti ecclesiali. La tradizione () delle fonti è riservata, attivamente, “esclusivamente agli apostoli”, e passivamente, alla Chiesa, per cui si stabilisce un unico percorso tradizionale che stabilisce che “se la tradizione viene dagli apostoli, è la Chiesa che la riceve”: ab apostolis ad ecclesiam.159 Si stabilisce, con il sistema istituzionale, anche il circolo ermeneutico della verità, per cui la fides, posta a principio di ogni dissertazione, viene confermata dalla ratio resa recta dalla voluntas fidei. “L‟assenso fideistico”, chiarirà Tommaso, “non è determinato dalla cogitazione”, cioè non è il parto di un travaglio teoretico che ponga socraticamente l‟ignoranza come terminus a quo, “ma è determinato dalla volontà”, che impone ex estrinseco che l‟esito del discorso, il terminatus, pervenga a coerenza, cioè ad unum.160 La tesi della successione () apostolica su cui si fonda la tradizione ecclesiale, sostituisce alla veridicità del personale carisma degli apostoli la credibilità dei depositari dell‟istituzione ecclesiastica, spogliata di ogni carisma personale, trasferito nell‟ipostasi formale, la Chiesa, nel cui ambito istituzionale si perviene de iure alla salus corrispondente all‟unità ermeneutica della verità de fide stabilita ex voluntate dall‟esegesi ortodossa. Ciò che la Chiesa propriamente custodisce quale deposito della fede (depositum fidei) non può essere “la Verità”, che

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G. Daniélou, Loc. cit., pagg. 171-172. Tommaso d‟Aquino, Quaestiones disputatae, Quaestio 14, De fide, art. 1, cit. da U. Galimberti, Cristianesimo, cit., pag. 212. 160

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consiste in un rapporto personale della coscienza con Dio, ma il monopolio esegetico (auctoritas interpretandi) della sua elaborazione razionale (). Questo in seguito a un transfert del carisma spirituale di Cristo ( ) dalla persona divino-umana alla sua proiezione rappresentativa idealizzata, la Chiesa, che diventa così da empirica comunità di fedeli ( ) che era in origine, a  della salvezza dove si custodisce l‟autorità infallibile ( ) del Logos e di cui si tramanda la verità oggettivizzata in una conoscenza canonizzata ( ) che Ireneo oppone alle interpretazioni ereticali.161 In Clemente “la nozione di tradizione occupa un posto essenziale” e ha il significato di “trasmissione di un insegnamento”, che non è, come per Ireneo, quello “della testimonianza degli apostoli sugli avvenimenti della salvezza”, ma “del mistero del disegno di Dio svelato da Cristo agli apostoli”.162 Ma, poiché gli stessi testi evangelici necessitano di una interpretazione (), questa fa parte integrante della tradizione come  ecclesiastica non scritta ( ).163 L‟importanza della ermeneutica di Clemente risiede nella sua teoria della “superiorità della gnosi sulla semplice fede”, compresa quella custodita dai vescovi, costituita da un livello di superiore “intelligenza” dei contenuti della fede (  ) che è propria di una “vera filosofia”. Questa gnosi Clemente la identifica con il carisma spirituale degli apostoli, trasmesso ai loro successori, per cui la tradizione canonica “dipende dalla comunicazione di un‟autorità di insegnamento e non da un‟ispirazione privata”, e coincide dunque con “la dottrina ecclesiastica” che viene custodita da uomini aventi una autorità entro la Chiesa.164 Si definisce così l‟idolum tribus christianorum proprio del paradigma ellenistico, il  che è l‟ di Cristo. Quanto all‟esito del  è per Clemente il conseguimento dell‟unità di scienza () e sapere () molto prossima alla vera

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Come scrive Ireneo, è “nella Chiesa che bisogna cercare la verità, perché gli apostoli hanno deposto in essa ogni verità di pienezza come in una ricca cantina”: Adv. Haer.III, 4, 1; cit. da G. Daniélou, Loc. cit., pag. 179. 162 G. Daniélou, Loc. cit., pagg. 181-182. 163 Ivi, pag. 185. 164 Ivi, pag. 187.

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conoscenza di Plotino, che sostituisce all‟immagine (  ) della cosa, la cosa stessa ().165Questa “cosa” è la rivelazione () della verità che si cela sotto il simbolismo scritturistico e profetico, adottato fino a Giovanni per preparare l‟avvento salvifico del Cristo, che infine “ha realmente sciolto l‟estremità delle parole dell‟economia, svelando l‟idea ( ) contenuta nei simboli” ( Strom., V, 8, 55, 3). Dopo l‟avvento salvifico, che segna il passaggio dal paganesimo alla fede, interviene un altro mutamento salvifico, “dalla fede alla gnosi” (Strom., VII, 10, 57, 4), la quale diventa per Clemente conoscenza delle cose celesti, ossia esegesi apocalittica, che si manifesta nel mondo futuro e si compie nella Chiesa, che rappresenta dunque il terminus ad quem dell‟intera civiltà umana.166 La possibilità che la rivelazione divina giunga a tutti gli uomini presuppone l‟esistenza di una facoltà universale elargita da Dio, che Clemente indica col nome di , il “senno”, che è una “potenza dell‟anima” utile a distinguere il dissimile e riunire il simile, allo scopo di “dare ordini, proibire e fare previsioni per il futuro”. Ma ciò che è più rilevante, questa facoltà, per quanto destinata orignariamente agli operatori tecnici, agli artigiani, non è riservata alle sole attività artistiche (), ma si estende alla stessa attività filosofica, investendo tutte le attività umane e cambiando nome a seconda di ognuna di esse. Questa universale facoltà umana non è altro che la presenza dello Spirito che investe ogni attività dell‟uomo, sia pratica che teoretica. 167. Esiste dunque una universale e molteplice ( ) sapienza () che da Dio è stata comunicata agli uomini a loro beneficio, ossia per la loro salvezza. Al di là della destinazione soteriologica della , che la riguarda sotto il profilo della fede escatologica, e della stessa riscontrata molteplicità delle fonti attinte dal teologo

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Plotino, Enneadi, 6, 6, 6. Ved. C. Micaelli, La cristianizzazione, cit., pagg. 6162. 166 G. Daniélou, Loc. cit., pagg. 301-303. 167 Clemente Al., Strom., VI, 17, 154-156; ved. C. Micaelli, La cristianizzazione, cit., pagg. 64-65.

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alessandrino,168 la definizione teo-logica della  consente di stabilire l‟elemento essenziale della teoresi clementina, ossia la trascrizione del fondamento spirituale della antropologia cristiana nei termini della gnoseologia razionalistica greca, la quale, già accusata di “furto” o di “plagio” delle verità veterotestamentarie, costituisce l‟orizzonte metafisico entro i quale si dipiega la sapienza della Weltanschauung cristiana, che pertanto assume i caratteri sempre più marcati di una teo-logia, ossia di una rappresentazione razionalistica della verità di Dio, cioè della fede, come “scienza del vero”, che “si manifesta attraverso il discorso”. Viene infatti precisato il senso teoretico della , la quale da tecnica () della conoscenza particolare (ovvero la “scienza del contingente”, nel senso aristotelico dell‟Etica Nicomachea) viene elevata a strumento di conoscenza universale dell‟Idea, a eidetica ( ),169 operando una identificazione dell‟Essere spirituale cristiano con l‟Essere della metafisica naturalistica greca che sarà decisivo e capitale per la cultura dell‟evo cristiano. Con Clemente, “fondatore della teologia”, 170 nasce “una vera scienza cristiana”, la quale “difficilmente avrebbe potuto svilupparsi prima che fede cristiana e tradizione filosofica greca si incarnassero in un solo e medesimo individuo”, e fu infatti “questa unione di due mondi in una persona che produsse una sintesi altamente complessa di pensiero greco e cristiano”. 171 Quello che il pensiero razionalistico greco ricercava, e che la fede cristiana fu in grado di offrire, era una  totale, pensabile per concetti, ossia filosoficamente conseguibile, tale cioè da ri-conciliare la conoscenza del Logos con quella sapienza originaria dalla quale la  si era allontanata nel divenire autonoma , e che possiamo indicare come nostalgia del sacro, evocata dalla religione dei misteri e che la stessa filosofia richiamava in funzione surrogatoria

168

“Chiamo filosofia non lo stoicismo o il platonismo o l‟epicureismo, ma tutto ciò che è detto di buono da ciascuna scuola: è questa scelta ( ) che io chiamo filosofia”: Strom., I, 6, 37, 6; ved G. Daniélou, Loc. cit., pag. 366. 169 Clemente Al., Strom., II, 17, 77; ved. C. Micaelli, La cristianizzazione, cit., pagg. 72-75. 170 G. Daniélou, Loc. cit., pag. 365. 171 W. Jaeger, W. Jaeger, Early Christianity, cit., pag. 63.

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della confutata religione arcaica. 172 D‟altro canto, a sua volta il  cristiano doveva trovare un linguaggio universale che potesse pervenire con autorevolezza culturale all‟ecumene ellenistica, già pregna di sapienza antica, e dunque ricettiva di un messaggio elaborato che fosse prepedeutico alla stessa convinzione per fede, che pure avrebbe dovuto precedere ogni teoresi razionale. La  cristiana si trovò dunque all‟intersezione conica della esperienza pagana, che nella fede cristiana doveva trovare il suo acme, e nello stesso tempo il vertice di base dello sviluppo di ogni possibile scienza, consentendo così la storia dello sviluppo della coscienza dell‟uomo di fede come la storia spirituale della stessa umanità. La base della clessidra della sapienza greca era Omero e col vertice in Platone, che “era stato il primo a rendere visibile all‟occhio interiore dell‟uomo il mondo dell‟anima”, cambiando radicalmente la vita umana. 173 L‟accesso individuale alla verità tramite la pistis era il modo proprio delle anime ingenue dei simpliciores o , che doveva essere trasceso dalla intelligenza della , intenta a cogliere della sacre scritture il loro significato riposto. 174 E a questo fine si servirono della filosofia greca, quale speculazione (,) approfondita della tradizione catechetica. Dall‟incontro e adattamento reciproco del cristianesimo con la cultura ellenistica nasce infatti “l‟aspirazione dei Cristiani a realizzare una civiltà cristiana”, superiore a quella greca e di ogni altra “barbara” del passato nella “missione formativa del genere umano”.175 Prendendo come base la “civiltà internazionale” che a partire dal IV sec. era divenuta realtà storica con la conquista dell‟Oriente da parte di Alessandro, “il cristiansimo diveniva ora la nuova paideia che aveva come fonte lo stesso logos divino, il Verbo che aveva creato il mondo”, e di cui “greci e barbari erano lo strumento”. 176 L‟equivoco di fondo di tale concezione consisteva nello stesso sincretismo teo-logico con il quale si intendeva convertire alla fede cristiana attraverso la gnosi filosofica, assumendo in funzione di

172

Ivi, pagg. 89 e 69. W. Jaeger, Early Christianity, cit., pag. 75. 174 Ivi, pag. 87. 175 Ivi, pag. 97. 176 Ivi, pag. 101. 173

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elaborazione del dogma misterico la  che era nata per confutare ogni mistero.177 Il prodotto intellettuale di tale concezione fu una ricostruzione in chiave fideistica della storia spirituale dell‟umanità, pensata come lo sviluppo della coscienza collettiva dell‟uomo, nella quale si trasferiva la rappresentazione unitaria propria della teoria filosofica. All‟unità ricercata dalla filosofia attraverso la coerenza concettuale, il teologo oppone la compiutezza della fede in Cristo, che è l‟unica verità, che però è un prius che rende inutile, oltre che vana, ogni ricerca ().178 Infatti l‟ausilio tecnico della filosofia, quale “disciplina annessa alla fede” che consente la conoscenza scientifica del mondo, ha un puro scopo deterrente contro gli assalti della miscredenza e dell‟eresia, quale “strumento potente per precisare il contenuto della rivelazione, che mette questa al riparo dagli attacchi dall‟esterno e dagli errori dall‟interno”. 179 Per conseguire questo scopo a un tempo teo-sofico e pedagogico, la concezione teologica deve rinunciare alla prospettiva escatologica a favore di una prospettiva gnoseologica per la quale “l‟, diventa l‟”,180 passaggio che consentirà quello successivo alla dimensione religiosa e teologico-politica. Infatti, la conoscenza certa () perseguita dalla gnoseologia razionalistica può ottenersi solo attraverso una dimostrazione scientifica () che elimini ogni specificità dagli enti di ragione, ossia, trattandosi degli uomini, ogni singolarità spirituale, che dall‟astratto punto di vista epistemologico è una “opinione” (), ma dal concreto punto di vista esistenziale è lo stesso percorso personale della fede, la cui certezza interiore viene sostituita dalla dimostrazione del

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G. Daniélou, Loc. cit., pag. 359. Ivi, pag. 363. 179 G. Daniélou, Loc. cit., pag. 364. In realtà, tale utilizzazione funzionale del sapere razionale era fondato sulla fede in una verità trascendente la stessa gnosi filosofica, alle cui aspirazioni totalistiche poteva rinunciare una epistemologia paga del suo sapere metodico, settoriale ma autonomo da ogni estranea sophia teologica o divino. Fu questo l‟intento revisionista del razionalismo aristotelico sull‟idealismo platonico, e bastò recuperare il senso aristotelico dell‟autonomia del pensiero razionale dall‟uni-verso teologico cristiano perché si pervenisse nel medioevo alla riabilitazione umanistica della antica sapienza pagana. 180 Ivi, pag. 365. 178

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sillogismo aristotelico.181 Le conseguenze di questa traslazione del senso della  da quello spirituale al senso logico-razionale sono decisive per la  cristiana, poiché anche la  teologica edifica la sua Verità nei termini di una dimostrazione logica, riservata originariamente alla determinazione della realtà molteplice degli enti di natura. L‟equiparazione razionalistica degli enti spirituali a quelli naturali svuota la differenza della fede cristiana dalla convinzione razionale di ogni rapporto con la verità trascendente, equiparandola ai principi primi () della metafisica aristotelica.182 La differeza essenziale tra la  cristiana e la  pagana è che questa poggia su un fondamento () che la ragione consdera mitico, e dal quale il  razionale si allontana fino a rinnegarlo come una falsa credenza, commettendo un parricidio metafisico che renderà orfana la ragione della sua origine sacra. La dialettica, intesa come tecnica filosofica, consiste appunto nel distinguere la parola fondata sull‟opinione () dalla parola fondata sulla scienza (). Dal punto di vista filosofico, che è quello adottato anche da Clemente, la stessa  cristiana è una , che abbisogna di diventare con lo studio () una  scientifica.183 Diversamente, il fondamento di fede cristiano coincide con la stessa Verità come un Tutto intuitivo, colto dalla singolare coscienza interiore, e non come un inizio da svolgere in una oggettiva trama teoretica. Il carattere onnicomprensivo della fede singolare non consiste in una sorta di onniscienza, cioè in un compendio enciclopedico delle distinte conoscenze scientifiche, ma la sua totalità è riferita al carattere unitariamente singolare della sua esperienza spirituale, unica e irripetibile in ogni singola coscienza umana. Solo all‟interno della dimensione spirituale della coscienza è possibie trovare quella unità intuitiva della Verità, che nessuna conoscenza razionale può conseguire, proprio in quanto scienza del molteplice. Equiparare la intuizione di Dio

181

Ved. G. Daniélou, Loc. cit., pag. 367. “Lo sforzo di Clemente consisterà nel provare che, nella dimostrazine cristiana, è la Scrittura che sta al posto di questi principi primi, e per questo egli mostrerà che la filosofia stessa ritiene che la fede possa costituire il fondamento della dimostrazione sotto le sue forme più alte”: G. Daniélou, Loc. cit., pag. 375. 183 Strom., II, 2, 8, 4; ved. G. Daniélou, Loc. cit., pag. 376. 182

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alla conoscenza scientifica, significa fare di Dio un ente di pensiero, per quanto eccelso, e non la fonte della Verità, come indicato da Cristo. Con Clemente, la Verità di fede diventa , intesa come “la scienza () dell‟essere stesso”. 184 L a gnosi cristiana, pertanto, non è diversa da ogni dimostrazione scientifica, se non per l‟oggetto sacro della sua rappresentazione, ed è proprio questo accreditamente del metodo scientifico pagano come lo strumento universale della conoscenza a riabilitare alla coscienza del cristiano la cultura classica, a prescindere dalla sua  teologica, per cui basterà adottarlo privo di ogni vincolo di mandato fideistico per riabilitarne la connessa civiltà pagana, come è appunto avvenuto nell‟età neo-pagana moderna. Ma un‟altra differenza distingue la prospettiva cristiana da quella razionalistica antica. Mentre infatti il fondamento mitico viene ricevuto dalla coscienza filosofica come un dato tradizionale dal quale quindi il  teoretico si emancipa assumendolo come un dato della sua stessa coscienza, la fede cristiana poggia su un fondamento di credenza che non è ricevuto per tradizione (quello veterotestamentario) se non dagli ebrei, mentre per i credenti provenienti da ogni altra cultura religiosa o filosofica, quel fondamento è stato assunto liberamente a seguito della conversione (), e pertanto il convincimento () di fede non può essere confutato né provato da alcuna gnosi razionale, in quanto esso costituisce l‟orizzonte stesso della conoscenza e dunque sostituisce l‟orizzonte della conoscenza filosofica. Clemente trasforma la synkatathesis da “giudizio dell‟intelletto” ad “atto della volontà”, per cui “le forze del logos sono destinate dalla natura a servire la volontà”. 185 Se la gnosi razionale fosse unica, e dunque la stessa per la fede cristiana e per quella pagana, non ci sarebbe alcuna conversione del senso della realtà, ma continuità del processo della coscienza dalla minore alla maggiore consapevolezza della verità in senso razionalistico, e dunque anche la mitologia pagana sarebbe, come la fede cristiana, una “anticipazione volontaria” () della verità razionale. 186 Ma è proprio la fede nell‟esistenza di un Regno trascendente a rendere la gnosi razionalistica una , ossia un pregiudizio intellettuale

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Strom., III, 16, 76, 3; ved. G. Daniélou, Loc. cit., pag. 372. Strom., II, 77, 5; ved. M. Pohlenz, La Stoa, tr. it. cit., pag. 875. 186 Ved. C. Micaelli, La cristianizzazione, cit., pag. 77. 185

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legato a una determinata credenza culturale, quella dell‟identità dell‟Essere col pensiero. Stabilita la realtà trascendente dell‟Essere della fede, cade anche la verità di quella identità onto-logica, e con essa l‟universalità presuntiva della sua teoresi. Tradotta la conversione, originariamente spirituale, in adesione intellettuale al logos ideologicamente postulato come universale, rende necessario il consenso e non più libera l‟adesione alla verità, sicché chi la rifiuta è senza fede () e lo fa per ignoranza (), la quale viene da Clemente equiparata a una colpa grave, di amare la menzogna.187 Parimenti, posta la verità della fede ebraica all‟ di ogni derivazione gnostica pagana, la nuova gnosi cristiana la si fa consistere in una surrettizia riabilitazione dei contenuti veritativi veterotestamentari attraverso la loro rilettura allegorica, la quale dunque rappresenta nient‟altro che una rielaborazione ortodossa della stessa flosofia pagana che li aveva travisati. La concezione di una teologia cristiana come inveramento della filosofia non è certamente la Verità alla quale alludeva Gesù come percorso di salvezza. La fede cristiana nel Verbo divino viene trasformata dalla teologia di Clemente in fede nella verità della scienza, per cui si rendeva assolutamente necessario per la gnosi cristiana che la verità del Verbo coincidesse con la scienza, poiché era questa a conferire al Verbo il suo crisma di verità. La convertibilità della  in  è il preludio alla deduzione razionale dell‟esistenza di Dio, la cui prova ontologica rende superflua la fede stessa, assegnando quel primato alla ragione come  che costituirà il proprium della civiltà occidentale. E‟ appena il caso di aggiungere che “il principio universale” () che la scienza può attingere “col ragionamento” () è l‟Essere stesso, che, diversamente da quanto ritenesse Clemente, non era affatto “ignorato dai Greci”. 188 Ciò che la concezione clementina aveva aggiunto rispetto alla nozione greca era che tale Essere unitario fosse Dio, e che il Logos fosse il Cristo, Figlio di Dio. Ma questo elemento fideistico poteva assumere un valore puramente nomenclatorio a chi non condividesse la trasvalutazione cristiana della relazione teologica, rendendo l‟idea della portata gnoseologica dell‟eclettismo filosofico di Clemente, che andava ben oltre una pretesa “incuria stilistica

187 188

Strom., II, 4, 18, cit. da C. Micaelli, La cristianizzazione, cit., pag. 78. Strom., II, 4, 14, in C. Micaelli, Loc. cit., pag. 82.

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per l‟ordine del discorso”, ed era ben più di “una latente discrepanza tra il piano ontologico e quello gnoseologico”.189 Infatti l‟ineffabilità di Dio () professata dalla fede cristiana non era rivolta alla ignoranza dell‟esito della ricerca filosofica, ma alla impraticabilità del discorso logico a conseguire la conoscenza razionale di Dio, in quanto la realtà divina era trascendente rispetto alla realtà finita oggetto della scienza. L‟obiettivo del sapere profano era quello di conseguire l’unità delle scienze, ossia quel principio a partire dal quale i logoi delle scienze particolari potessero congiuntamente rifarsi. Questo principio primo era considerato dai filosofi greci, in primis da Aristotile, indimostrabile a seguito della rimozione dell‟origine mitica di ogni sapere razionale, la quale aveva lasciato la gnosi razionalistica senza fondamenti, e abbarbicata alla solidità del metodo discorsivo. Nel caso della gnosi cristiana, l‟ineffabilità di Dio () non era l‟ignoranza () della Sua essenza () spirituale, ma bensì la fede nella realtà trascendente di quella essenza irrapresentabile (), che era Mistero () per il pensiero razionale. E una realtà che si intuisce in interiore homine e che è Mistero per il pensiero razionale, non può essere conosciuta razionalmente (). A meno che non si ponga la realtà divina al posto del principio primo ricercato dalla ragione, sostituendo il Mistero cristiano del Dio biblico al Mito arcaico confutato dal Logos, consentendo “sulla capacità del  purificato di contemplare il ”.190 Ma questa giustapposizione della Verità trascendente della fede al Negativo dialettico rispetto all‟essere ontologico, riduce il Tutto divino nel Niente da cui proviene dialetticamente l‟essere determinato dal logos. Questo esito paradossale della teologia negativa alessandrina 191 è conseguente all‟adozione del vocabolario tecnico della metafisica greca per determinare la conoscenza di Dio, che la fede aveva postulato come il fondamento stesso di ogni realtà spirituale. Distinguere la conoscenza

189

C. Micaelli, Loc. cit., pag. 84. G. Daniélou, Loc. cit., pag. 393. 191 Diciamo “ellenistica” in quanto “parlare di teologia negativa non significa la stessa cosa per un giudeo, per un platonico, per uno gnostico”, e tenendo conto che “il vocabolario degli apologisti attinge alle tre fonti”: G. Daniélou, Loc. cit., pag. 396. 190

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spirituale () dalla conoscenza razionale () di Dio, significava distinguere l‟intuizione dell‟Unità divina trascendente () dalla gnosi particolare dei prodotti della Sua opera. Questa dicotomia, assegnando il dominio del mondo al logos, avrebbe inficiato la sua incontrovertibile universalità normativa, presunta come verità dalla filosofia, che per la fede era una falsa credenza. Ma tale posizione poteva sussistere solo in una prospettiva escatologica propria della fede apocalittica giudeo-cristiana, del visionario che, come Isaia, ascende in alto a contemplare il mondo, non già in una prospettiva teologica conciliatoristica verso il mondo profano e la sua sapienza, e verso il regno di Cesare e il suo Potere. L‟opzione conciliatoristica, propria del paradigma ellenistico, puntò invece a una rappresentazione unitaria della cultura umana, che nella civiltà greca trovava il suo fuoco teoretico e in quella romana la sua potenza politica, e che nella rivelazione cristiana il suo apice sintetico di inveramento. In questo senso è corretto parlare di una culturale “ellenizzazione del cristianesimo” che aveva per obiettivo religioso la “cristianizzazione dell‟ellenismo”. Clemente, partendo dal metodo di Albino per pervenire alla conoscenza di Dio, elabora una gnoseologia più raffinata che, partendo dall‟astrazione dei dati sensibili, ritiene di giungere alla conoscenza () non di ciò che Dio “è”, ma di ciò che Egli “non è”, in quanto il Primo Principio “è conoscibile soltanto dalla sua Potenza () […] mediante la grazia divina e per mezzo dell‟unico Verbo che procede da Lui”, 192 ossia attraverso la Rivelazione che Dio fa di sé stesso attraverso il Cristo, che diventa l‟unico accesso al biblico Deus absconditus.193 Questa gnoseologia, se supera il dualismo gnostico e svaluta l‟intuizione noetica del divino dei medio-platonici come Filone assegnando al Logos cristico l‟accesso privilegiato a Dio, non di meno accredita il metodo filosofico come l‟unico strumento teoretico in grado di costituire il linguaggio della gnosi di Dio, inserendo dunque la sapienza greca entro la prospettiva soteriologica cristiana, teorizzando quella conciliazione con la civiltà pagana propria del paradigma ellenistico. Sulla scorta di Filone, anche Clemente assegna al Logos alla maniera stoica una centralità teoretica assoluta, accependolo sia come cristiana

192 193

Strom., V, 11, 71, 3 – 12, 82, 3. G. Daniélou, Loc. cit., pag. 404.

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“ragione immanente di Dio”, sia come platonico “mondo delle idee” e sia come quell‟ “anima del mondo” che secondo il Timeo si estende () universalmente, armonizzando il cosmo.194 La prospettiva cristiana acquisisce la platonica anima del mondo come logos, e questo come Verbo di Dio, che per Filone è il sostegno () e il legame () dell‟universo. In Clemente il Logos diventa la “ragione attiva” di Dio e la Sua “immagine” () visibile, distinta per “delimitazione” () ma non per “essenza” ().195Il Verbo di Dio, come è scritto in Gv. 1, 18, si è fatto carne per manifestarsi facendosi conoscere. La novità rispetto al testo evangelico è che la conoscenza di Dio per mezzo del Logos è una conoscenza razionale, per cui si stabilisce l‟equazione tra Verità divina e ragione umana, e pertanto il Mistero di Dio diventa un enigma che la Rivelazione svela filosoficamente. L‟identificazione del Verbo cristiano con l‟Idea platonica consente a Clemente di stabilire la relazione essenziale tra l‟elemento inconoscibile di Dio e la conoscibilità della Sua potenza attraverso la manfestazione cristica, e “cercando di dare una giustificazione metafisica del fatto che il Padre è inconoscibile ed il Figlio manifestato, egli spiega che ciò accade perché il Padre è assolutamente uno, mentre il Figlio comporta una certa molteplicità”, in quanto “il Figlio è Sapienza, Scienza, Verità e tutto ciò che è simile. Egli è suscettibile di dimostrazione e di discorso. Tutte le potenze dello Spirito, raccolte in una sola realtà, convergono in un solo essere, il Figlio. Egli è infinito nell‟enmerazione delle sue potenze”, anche se “non è completamente uno, in quanto uno, né completamente molteplice, in quanto parti, ma in qualche odo l‟Uno-tutto ()”196 Si noti che l‟identità dell‟unità trascendente con l‟unità idealistica del molteplice, e la definizione del Verbo divino sotto forma di potenza () che si esplica nella Sua mediazione tra l‟Unità paterna e la Molteplicità della realtà mondana, è ben più di una “contaminazione filosofica”, come vorrebbe Daniélou, ma segna l‟identificazione della essenza () del Cristo con la sua forma ideale () e cioè la sua determinazione razionale, equiparata alla Sua “potenza”, per cui il Padre

194

Ved. G. Daniélou, Loc. cit., pag. 429. Excerpta ex Theod., 19, 1-4; cit. da G. Daniélou, Loc. cit., pag. 431. 196 Strom., IV, 25, 156, 1-2; in G. Daniélou, Loc. cit., pag. 435. 195

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generatore del Logos è causa prima onnipotente della subordinata potenza razionale del Figlio. Infatti, come perspicuamente notato dallo stesso esegeta, “è questa visione delle cose che Origene prenderà in prestito da Clemente e che sboccherà nel suo subordinazionismo”. 197 Inoltre, stabilendo una relazione transitiva tra l‟ di Dio, che è il Logos, e tra questi e il  umano (Strom., X, 98, 4), Clemente fa dell‟uomo razionale “un‟immagine della immagine” (), stabilendo che è lo spirito a conferirgli la sua dignità antropologica.198 E poiché è l‟anima ragionevole che lo fa immagine di Dio, la sua “giustificazione”, ossia perfezione, gli deriva dall‟intelligenza, intesa come esercizio della virtù, ovvero come libera obbedienza alle disposizioni divine. Dio infatti ha dato all‟uomo la possibilità di salvarsi da se medesimo attraverso la libertà, che non è connaturata all‟uomo in quanto essere naturale, ma donatagli, con la Rivelazione, in quanto essere spirituale (). Ciò significa che lo spazio temporale tra la caduta di Adamo e l‟Incarnazione del Cristo è una permanenza nella condizione originaria di imperfezione naturale dell‟uomo quale essere irrazionale (), non ancora padrone delle passioni che derivano dalla sua natura animale. Solo l‟egemonia del rende l‟uomo un essere spirituale ().199 La somiglianza dell‟uomo razionale al Logos divino, fa della gnosi logica () lo strumento di una conoscenza che, per essere quella stessa del Figlio di Dio, è illimitata. 200 Ma soltanto l‟amore (), che è “la più santa e potente di tutte le scienze”, può consentire di giungere alla perfezione spirituale dell‟uomo e dunque a conoscere l‟Uno, diventando amico di Dio onnipotente alla stregua di un figlio. 201 Ciò vuol dire che la conoscenza attraverso l‟ntelligenza () consente di ottenere l‟immagine della potenza divina ( ) ma solo l‟affinità spirituale () con l‟essenza divina consente di giungere, attraverso uno stadio di consapevolezza superiore, o nobiltà (), rispetto a quella conseguibile dalle singole scienze, alla riconciliazione () con l‟essenza divina, per cui “è impossibile ottenere la

197

G. Daniélou, Loc. cit., pagg. 436-437. G. Daniélou, Loc. cit., pagg. 478-481. 199 Strom., V, 8, 53, 1; G. Daniélou, Loc. cit., pag. 484. 200 Strom., VI, 8, 70, cit. da C. Micaelli, La cristianizzazione, cit., pag. 89. 201 Strom., VII, 11, 60; cit. da C. Micaelli, Loc. cit., pag. 98. 198

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conoscenza di Dio per coloro che sono ancora soggiogati dalle passioni ( ). Ed è questa perfezione spirituale a stabilire “la stretta connessione tra piano etico e piano gnoseologico-ontologico” che rappresenta “l‟elemento fondamentale del pensierodi Clemente”.202 Facendo del Figlio, in quanto Uno-Tutto, la sintesi di unità e molteplicità, Clemente, in virtù della omologia antropologica (), rendendo anche l‟uomo , non delinea semplicemente “l‟itinerario del ritorno dell‟anima a Dio”, 203 ma stabilisce la possibilità di pervenire, attraverso il Logos che appunto “opera l‟unificazione della molteplicità”, alla realizzazione dell‟unità del molteplice in senso formale, stabilendo che sia la ragione a determinare da sé stessa le proprie possibilità conoscitive e a fissare i propri limiti. 204 3. A seguito delle persecuzioni perpetrate da Settimio Severo, Clemente lasciò Alessandria per la Palestina nel 203, e il suo posto fu preso dal giovane Origene (185-253 d.C.), che da allora divenne “il maestro prodigioso che incanta con la sua parola e trascina colla forza del suo pensiero”. Alessandrino di padre cristiano, Origene nacque intorno al 185 e fu chiamato dal vescovo Demetrio a istruire i catecumeni. Ad Alessandria scrisse il De Principiis, opera in quattro volumi che espone sistematicamente per la prima volta il dogma cristiano. Metodicamente egli distingue una esegesi per gli “incipienti”, che intendono il solo senso letterale delle Scritture, da una per i “progredenti”, in grado di intenderne il senso morale, e da quella per i “perfetti”, in grado di comprenderne il senso spirituale. La sua “produzione esegetica e teologica fu immensa” e tutta protesa a “travasare nell‟ambito dell‟esperienza cristiana il frutto migliore della secolare speculazione platonico-ellenistica”, impersonando tutto il travaglio teoretico sia della tradizione gnostica che di quella alessandrina, tanto che “si può dir senza esagerazione che le elevazioni teologiche di Origene rappresentano l‟espressione più alta a cui potesse mai giungere l‟istinto

202

Strom., III, 5, 42-3; ved. C. Micaelli, Loc. cit., pag. 103. G. Daniélou, Loc. cit., pag. 435. 204 C. Micaelli, La cristianizzazione, cit., pag. 118. 203

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del divino, celebrato da Platone e dai neo-platonici”.205 Per fronteggiare la critica dei pensatori pagani muovevano alla dottrina cristiana circa il suo presunto carattere mitologico, Origene cercò di trascrivere il senso letterale della Bibbia nel senso spirituale, salvando così la “paideia cristiana” dai suoi fondamenti veterotestamentari, sulla stregua di quanto gli stoici avevano fatto con la teologia di Omero. 206 Dio, monade assoluta, per avere contatto col Molteplice, si serve dell‟organo del Logos (o della Sophia), che “designa in maniera perfetta la partecipazione del Figlio alla creazione e la sua presenza nei rapporti dell‟uno col molteplice”, ossia “con la possibile disseminazione dei molti fuori di Lui”. 207 La creazione per Origene è stabilita su due livelli, quello del Logos (kosmos noetos), cui appartengono gli esseri razionali e gli uomini “essenziali”, e quello della storia, abitato dagli uomini senzienti, dotati di corpo ed anima. La figura mediatrice di Gesù, pontifex e Logos incarnato, Verbum e Sapientia che è “immagine dell‟invisibile Dio Padre” (Col. 1, 15), appartiene a entrambi i mondi ed è necessaria in quanto “l‟economia dei due mondi non è parallela”, ma proprio perciò “è inutile tentare di dedurre la cristologia dell‟universo noetico dalla storia di Cristo”, per cui Origene ritiene che, pur nelle diverse modalità accordate al libero arbitrio dalla infinita bontà e giustizia di Dio, la conoscenza della verità sia il miglior viatico verso la salvezza divina. 208 Questo criterio ermeneutico, che influenzerà anche l‟ambiente latino grazie alle traduzioni di Rufino e di Girolamo, era inevitabile date le premesse con le quali la sistemazione dottrinale cristiana ha inteso confermare razionalmente la fede, attribuendo al Verbum un‟accezione chiaramente razionalistica, mutuata dal Logos filosofico.

205

E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 186. Per la distinzione origeniana di quanti “aderiscono al Logos”, ved. Commento a Giovanni II 3, 33, tr. it. in Il Cristo, vol. I cit., pag. 311. 206 W. Jaeger, Early Christianity, cit., pag. 79. 207 E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 187. 208 Origene, De Principiis I 2, 6 e II 6, 3; tr. it. in Il Cristo, vol. I, cit., pagg. 293 e 295. Id., in Canticum Canticorum I 2; tr. it. in Il Cristo, vol. I, cit., pag. 325. Ved. A. Orbe, Introduzione, cit., pag. XCII; E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 193.

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Quanto alla esegesi spiritualistica delle Scritture, preposta a quella letterale, non si tratta di “esoterismo”, ma di consapevolezza che la rappresentazione simbolica sia l‟unica in grado di comunicare i significati reconditi della parola di verità. In conseguenza della sua impostazione idealistica, “Origene è stato nell‟antichità cristiana quegli che ha fatto giustizia del miraggio millenarista”, legato alla visione materialistica di quanti leggendo in modo letterale le Scritture attendevano la resurrezione sensibile dei corpi invece della loro trasfigurazione spirituale “al momento della reintegrazione finale, che importerà il completo annullamento di ogni qualità materiale” in senso spiritualistico. 209 Al di là delle specifiche determinazioni mitologiche della crasi del Verbo con l‟uomo o con l‟angelo, l‟aspetto teoricamente più rilevante è nella modalità logica della “discesa”, sostanziale (synchysis) o per “effusione” qualitativa (parathesis), dello Spirito in Gesù, ossia la forma razionale dell‟innesto del sacro nell‟elemento mondano che origina la commixtio divino-umana e che stabilisce l‟essenza stessa dell‟economia della salvezza insieme alle sue possibilità processuali. Infatti, la immedesimazione dello Spirito con il Logos implica le forme della “mediazione” tra Dio e gli uomini, che, comunque concettualmente determinate come fisiche o pneumatiche, 210 sono tutte ideali. Questo è il punto teologicamente decisivo: che la filiazione divina (horisthéntos) di Gesù nella forma Dei sia logica, e pertanto logicamente rappresentabile. Da questa premessa cristologica consegue l‟indirizzo razionalistico della mito-logia del cristianesimo canonizzato, che definì l‟orizzonte di senso in cui sviluppare la critica filosofica moderna al Mito della “cristologia dello Spirito”, che nei primordi alessandrini assunse la sua originaria forma concettuale. La “cristologia dello Spirito” (Geistchristologie) si occupa della “comunione fra lo Spirito e l‟uomo nel Cristo”. Distinguendo l‟elemento umano di Cristo, composto di carne (Logos-sarx) e di anima (Logos-psyche), dall‟elemento divino o pneumatico, a sua volta “pneuma-psyche” e “pneuma-sarx”, riflette “l‟ambiguità della nozione

209 210

E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 194. Ved. in sunto i diversi tipi in A. Orbe, Introduzione, cit., pagg. LVI-LVII.

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di Spirito” anche nelle relative cristologie. 211 Secondo Orbe, la immedesimazione della Geistchristologie con la “cristologia del Verbo” è riduttiva, essendo il Logos “solo una delle innumerevoli applicazioni sostanziali dello Spirito”, per cui sarebbe indebito il passaggio “dall‟elemento divino generico a quello specifico personale”, in quanto “l‟identità materiale non consente di dedurre quella formale”.212 Infatti è il contrario: è l‟elemento formale che costituisce la fonte di quello materiale, per cui la forma del Logos divino sta all‟origine di ogni determinazione oggettiva, e quindi anche di quella idealmente personale. Ma la trascrizione idealistica delle due nature del Cristo come “carne” (sarx) e come “forma” (plàsis) comporta che il passaggio dal Logos asarkos, cioè non incarnato, al Logos ensarkos o incarnato, ponga l‟uomo, l‟archetipo umano di Gesù, come termine di mediazione, 213 e non lo Spirito, facendo sì che il tema della rigenerazione (anàplasis) spirituale sia una conseguenza eventuale legata alla fede, un Mito ideologico, e non già una condizione ontologica costitutiva della stessa storicità, ossia dell‟unità teleologica del processo storico come escatologia spirituale. In altri termini, il problema non è l‟unità ideale delle possibili determinazioni nominali del Logos, da cui promani ogni possibile passaggio determinativo, ma la costituzione monistica e non dialettica dell‟Essere spirituale. Infatti, l‟unità metafisica, all‟origine di ogni specificazione storico-esistenziale, è l‟da cui deriva ogni determinazione concreta dell‟Essere, che non può essere categoriale in senso aristotelico, ovvero ideale in senso platonico, all‟interno cioè del falso monismo idealistico, ma può essere unitaria solo in senso ontologico-spiritualistico. Nella giustapposizione dei due astratti elementi dialetizzati è immanente la potenziale rielaborazione razionalistica della fabula in senso riduttivamente umanistico, astraendo la sua ratio dal dato accidentale della fides. La cristologia dei primi secoli, sia gnostica che ortodossa, distingueva “la persona del Salvatore” dalla sua “natura divina”, e così la figura del Padre dalla Sofia o Spirito personale, ma lo Spirito in ogni caso designa

211

Ivi, pag. LIX. Ivi, pag. LX. 213 Ivi, pag. LXXIII. 212

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“la persona del Logos”, 214 e cioè una realtà ipostatica, senza la quale non sarebbe possibile la distinzione tra Dio e Cristo all‟interno dell‟unità trinitaria. E invece l‟ipostasi spirituale consente il rapporto di unità-distinzione che impedisce sia la risoluzione immanentistica della persona di Gesù in Dio (docetismo), che l‟opposta risoluzione fisicalistica del divino nell‟umano (monofisismo). Proprio la essenza ontologica originaria, infatti, se nella sua indeterminazione come “spirito invisibile” ( ) rende impossibile qualunque riduzione concettuale () di Dio, nella sua funzione mediatrice rende pure possibile la visibilità della Sua determinazione umano-divina del Verbum caro, ossia la storicità del Cristo, a un tempo spiritus Dei e “uomo sottomesso alla sofferenza”. 215 In altri termini, la dinamica mediatrice dello Spirito rappresenta simbolicamente la indeterminata e libera Possibilità insita nell‟Essere originario divino di determinarsi storicamente, sotto forma umana, come libertà spirituale, ossia come realtà storica, avente in sé non solo la necessità ontica dell‟essere-ciò-che-è, che è l‟essenza razionale del Logos, ma anche la possibilità deontologica del dover-essere ciò-chenon-è, che è l‟essenza spirituale della libertà morale. In tal senso, come è detto negli Atti degli Apostoli (16, 17), “lo Spirito è di Dio, ma anche di Cristo”. E nello stesso senso, “la storia e l‟efficacia dello Spirito santo sono legate alla storia e all‟efficacia di Gesù”. 216 I due momenti simbolici della Storia divino-umana di Gesù Cristo sono compresi nella vicenda esistenziale della Sua vita, che rappresenta la realtà della Sua incarnazione (“cristologia discendente” o del Logos), e della Sua morte, che rappresenta il momento della Sua ascensione al Padre (“cristologia ascendente” o del Pneuma). Ma proprio perché “simbolici” i due momenti si richiamano vicendevolmente come identità divina in Dio e come possibilità spirituale nell‟uomo, e quindi “costituito Figlio di Dio in potenza (en dynamei) secondo lo Spirito di santità, grazie alla sua resurrezione dai morti” (Rom., 1, 3-4), ovvero in seguito alla Sua trascendenza () dalla realtà finita. Acquisire pertanto il solo momento della Vita di Gesù, relativo alla necessità della

214

Ivi, pag. LXII. Ivi, pag. LXIII. 216 A. Orbe, Introduzione, cit., pag. LXVI. 215

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finitezza inscritta nella Sua costituzione umana, pensandolo alla maniera greca come Logos, significa obliare l‟altro elemento della dynamis spirituale, quello della possibilità, relativo alla libertà umana della scelta morale, che consente alla personalità del Nuovo Adamo di trascendere la dimensione del presente storico, costituita dalla condizione politica della socialità umana. La affermazione esclusiva del Cristo come Logos equivale appunto ad assumere della Sua duplice personalità divino-umana il solo elemento della rappresentazione logica di essa, determinata attraverso la negazione di ogni altra temporalità che non sia quella presentemente attuale. E l‟attualità storica si determina appunto per negazione di ciò che non-è presente, ossia nella negazione della possibilità, che è l‟essenza della libertà spirituale, a favore della necessità, che è l‟essenza del Logos, la cui dinamica è il polemos. Ma la necessità legata alla attualità storica è appunto quella della condizione socio-politica, l‟agone polemico in cui domina la forza del Potere, e non quella della comunione fraterna in Cristo nel segno della carità. La “filiazione” di Dio, senza la mediazione dello Spirito, astrae la esperienza della Vita da quella della Morte, focalizzando l‟esperienza composita del Cristo alla sola dimensione dell‟immanenza storica, in cui regna la necessità stabilita dall‟ordine di Cesare. 217 L‟ordinamento canonico della Chiesa appartiene appunto a questa dimensione negativa della cristologia del Logos, per la quale Gesù non è Dio e non è lo Spirito santo, ma è soltanto Sé stesso, la Tesi che si afferma negando, l‟esito normativo attuale del polemos. Questa visione negativa che identifica il Logos col Nomos, ha per conseguenza la esautorazione istituzionale di ogni dinamismo soteriologico, che destina il momento escatologico a forme di messianismo inevitabilmente eterodosse, e perciò ereticamente eversive dell‟ordine canonizzato costituito, mercé una esegesi scritturale polemica verso il monopolio esegetico esclusivo, ovvero oppositiva alla mitizzazione dell‟evento salvifico, in narrazione apologetica della Vita di Gesù oggetto della dossografia ortodossa. In questo contesto ermeneutico va inquadrata, ad es., l‟esegesi eterodossa

217

Nella coscienza di questo limite insuperabile della logica antica rispetto alla spiritualità cristiana va interpretato il tentativo di Hegel di riformare la dialettica filosofica in senso spiritualistico. Egli può definirsi il Clemente del pensiero spiritualistico moderno.

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di Marcione del rifiuto dell‟umanità di Gesù e della sua designazione di Logos, opposta alla cristologia gnostica, concentrata sulla persona umana di Gesù, Logos e Figlio di Dio. 218 Né è casuale la posizione marginale dei “due più grandi rappresentanti dell‟ascesi cristiana nell‟età precostantiniana, Origene e Metodio” dalla “società ecclesiastica” del loro tempo “precisamente per non avere trovato ancora il modo di armonizzare in una forma di delicatissimo equilibrio instabile le esigenze in contrasto dell‟ascesi cristiana associata, l‟una basata tutta su presupposti antropologici platonici, l‟altra su sconfinanti visuali millenaristiche”. 219 Infatti, la lettura logico-polemica dell‟evento cristico dell‟incarnazione operata dagli apologisti dei primi secoli postapostolici, pur conservandone la simbologia trinitaria, lo deprivava teoreticamente della sua possibilità inclusiva, premessa assiomatica della fede nell‟Uno. Servendosi dei sistemi filosofici disponibili, stoicismo e medio platonismo, i teologi del tempo si rifecero “alla dottrina del Logos, ambientata nel cristianesimo dal quarto evangelista e la cui matrice filosofica era stata incorporata, in Alessandria, all‟esegesi dell‟Antico Testamento” da parte di Filone, la cui speculazione “è la premessa alla fusione tra il Logos e la Legge”. 220 La trascrizione allegorica del senso della Rivelazione, operata dagli apologisti con argomenti analogici, presentando Cristo come , “mediatore fra i due Testamenti”, fa della Sua vicenda il perno del “nuovo ordine del mondo” storico, che “gira intorno a lui”, ossia fa del Logos “il mediatore della storia”. 221 Ma la cristologia che deriva dall‟innesto dei concetti greci del Logos e del Nomos nel contesto scritturale non segna punto “la fine della mitologia e dell‟universo poetico dei pagani”, come pure autorevolmente sostenuto,222 bensì costituisce soltanto la “pseudomorfosi” dei nuovi contenuti evangelici nelle antiche forme narrative del Mito aggiornate alla maniera estetica platonica, dove la compiutezza della “immagine” simbolica () del  diventa “segno” allegorico ( ) che

218

A. Orbe, Introduzione, cit., pagg. LXX e LXXII. E. Buonaiuti, Op. cit., pag. 438. 220 A. Orbe, Introduzione, cit., pag. LXXV. 221 A. Orbe, Introduzione, cit., pag. LXXVII. 222 Cfr. A. Orbe, Ibidem. 219

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rimanda “ad altro da sé” (Dio, Spirito, uomo, etc.), al “ricordo” del modello divino originario. Diversamente dal segno, “l‟immagine adempie alla sua funzione di rimando solo attraverso il suo proprio contenuto” simbolico, per cui “quanto più ci si immerge in essa, tanto più si è in rapporto con il rappresentato”, poiché “l‟immagine rimanda in quanto trattiene. La sua portata ontologica è proprio costituita dal fatto che essa non è separata da ciò che rappresenta, ma partecipa del suo essere”. Diversamente dalla compiutezza ontologica assicurata dalla rappresentazione simbolica, in cui “l‟immagine non scompare adempiendo alla sua funzione di rimando, ma partecipa nel suo essere proprio di ciò di cui è immagine”, la “differenziazione estetica” operata dalla rappresentazione razionalistica del modello, fa “astrazione” dalla presenza “dell‟originale dell‟immagine”, distinguendo il rappresentato dalla sua immagine.223 Nello jato che si stabilisce tra il modello veritativo e la sua immagine scritturale, il divino diventa simbolo allegorico del  antropologico, e di conseguenza la Storia della salvezza escatologica si può trascrivere come la rappresentazione mito-logica del processo di mondanizzazione del Logos. 224 A partire dal rescritto di Milano emanato da Costantino e da Licinio nel 313, l‟affermarsi del Cristianesimo nell‟Orbis Romanus non segna solamente il trapasso dalla religiosità pagana a una religione monoteistica, ma anzitutto il passaggio da una concezione come “dovere civico” a una distinta visione teologica in cui “la sfera dei valori religiosi è bruscamente scissa da quella dei valori politici”, con la conseguenza di addivenire a uno “sdoppiamento” della appartenenza del singolo, contemporaneamente alla “collettività dei rapporti sensibili” e a

223

H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. cit., pagg. 188-189. E‟ appena il caso di aggiungere che su questa premessa razionalistica si basa la concezione memoriale della moderna decrittazione scritturale protestantica, per la quale “il cristianesimo è culto del segno e del ricordo”: Ch. Journet, La prospettiva di Cullmann, tr. it. cit., pag. 433. 224 Scrive Ireneo: “Senza il Figlio nessuno può conoscere Dio” (Adversus hereres IV); e più oltre: “non avremmo potuto conoscere altrimenti ciò che è di Dio, se il nostro maestro, che è il Verbo, non si fosse fatto uomo; né un altro era capace di rivelare ciò che è del Padre, tranne il suo proprio Verbo […] che ci riscatta con il suo sangue in modo razionale” (Ivi, V): in Il Cristo, vol. I cit., pagg. 167 e 169.

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quella “dei rapporti spirituali”. 225 La conseguenza essenziale di tale dissociazione etica tra la dimensione privata, assegnata alla religione, e quella pubblica gestita dal Potere fu la progressiva ma inevitabile perdita di carisma religioso da parte del Governo imperiale, il quale, privato dell‟antica sacertà religiosa, assunse viepiù un carattere precipuamente politico, inteso a garantire la predominanza di determinate fazioni sociali e familiari su altre concorrenti. E fu proprio questa perdita di carisma da parte del Governo a creare le premesse culturali della decadenza civile e infine della caduta militare dell‟Impero romano. Infatti, la coscienza religiosa emancipata dal Potere, faceva sentire come moralmente iniqua la sua pretesa etica totalitaria, esigendo da esso una legittimità morale che la religione tradizionale non poteva più offrire e la nuova non voleva senza condizioni e resistenze delle frange più oltranziste. Soprattutto nell‟Africa proconsolare, la politica di allineamento della Chiesa incontrò per tutto il IV secolo un fiero ostacolo nel partito tradizionalista capeggiato originariamente dal diacono Maggiorino, eletto vescovo col nome di Donato, e che perciò si chiamò “donatista”, il quale “continuò contro lo Stato romano, per quanto passato al

225

E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pagg. 216-217. Vi è da ricordare, nondimeno, che la stessa coscienza religiosa ebraica ha sviluppato una sua originaria rielaborazione del mito di Jahvè, che da dio nazionale legato alle sorti del suo popolo si sublima in dio profetico, il cui lirismo etico, a partire dall‟episodio di Elia sul monte Oreb, spezza “l‟unione tra la religione e la coscienza nazionale” in nome di un principio morale superiore. Dopo di che “il vincolo di necessità tra la divinità e il popolo si è infranto: il dio trascende la patria e il nome di Jahvè si perpetuerà sulle rovine della nazione”, sostituito dal patto d‟alleanza tra Israele e Jahvè, che è un vincolo di amore, a seguito del quale Dio veniva sottratto alle sorti storiche della sua nazione, e “nella religione [ebraica] si riversò il desiderio d‟una più mite ed equa umanità: essa divenne la molla per il trapasso, per dirla col Vico, dall‟età eroica a quella umana”. In conseguenza del rinnovamento spirituale avutosi con la “riforma profetica”, la coscienza religiosa ebraica sopravanza quella di ogni altra cultura religiosa. Infatti, “presso le altre nazioni le divinità erano soltanto il palladio delle civitates; il fine era la prosperità dello stato: in Israele per opera dei profeti il fine, la meta suprema divenne la gloria di Dio; la pace, la gioia, la felicità del popolo saranno solo un profondo atto d‟amore di Jahvè per Giacobbe il figliuol suo; la chiesa è il punto d‟arrivo del giudaismo”: A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. I, Gesù, Messina, 1923 2, pagg. 3-5 e 11. Da questa tradizione profetica rampollerà la escatologia cristiana.

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cristianesimo, il medesimo contegno di resistenza e di opposizione che aveva caratterizzato la teoria e la prassi politica prevalente della Chiesa africana precostantiniana”, giungendo per avversione all‟episcopato conciliarista, guidato dal vescovo ortodosso di Cartagine Ceciliano, alla secessione scismatica.226 Ma tutta la vertenza era priva di agonismo dottrinario, non essendo teologica ma politica. infatti essa si risolse, dopo gli inutili tentativi di chiarificazione ecclesiastica nei due sinodi di Roma (313) e di Arles (314), con un rescritto imperiale che nel 317 imponeva ai donatisti di liberare tutti i loro luoghi di culto, inaugurando un significativo precedente di ingerenza del Potere negli affari della Chiesa, 227 che, dopo il tempo delle persecuzioni, appare divisa intorno al “tormentoso problema dei rapporti possibili tra una società nata dalla visione del Regno trascendente, e quella società politica, che ha soprattutto il programma dell‟organizzazione terrena e della disciplina burocratica della comunità umana”. 228 La soluzione ebraica era stata la teocrazia, dove il sommo sacerdote svolge le funzioni di re e il profetismo può codificarsi e “tradursi in istituzioni e in costumi”.229 Certo, la tradizione profetica non scompare con la codificazione sacerdotale, ma questa la disloca in ambito extrasacerdotale, allargando in qualche modo l‟ambito religioso e confermando con la sua fede la stessa identità nazionale del popolo ebraico attraverso “il dominio pesante e rigoroso di Dio sul popolo”. 230 La Legge diviene non soltanto il suggello di un patto umano-divino

226

E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pagg. 251-252. “La legge di tolleranza emanata a Milano subiva così, sotto la pressione delle stesse discordie ecclesiastiche, la sua prima eccezione. Per la prima volta si aveva un partito religioso cristiano perseguitato dallo Stato come partito sovversivo, in contrasto con la protezione e il favore accordati generosamente al partito che è chiamato ortodosso e che in pratica è semplicemente il partito riconosciuto e favorito dalla Stato”: E. Buonaiuti, Storia del Cristian., vol. I cit., pagg. 261-262. 228 Ivi, pag. 262. 229 “Il riassorbimento della vita del popolo nella religione, il predominio esclusivo dell‟idea di Dio in tutto, nella regolamentazione della vita agricola, nei rapporti sociali, nell‟amministrazione della giustizia, nelle feste popolari, nella famiglia, ha la sua piena delineazione nella codificazione sacerdotale”: A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. I, Gesù, cit., pagg. 14 e 15. 230 Ivi, pag. 16. 227

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testimoniato dalla circoncisione, che costituiva il legame unitario di un popolo, ma anche lo strumento etico della giustizia alla portata di ognuno, per il cui tramite si sviluppa una religiosità individuale che in seguito, col cristianesimo, riuscirà a “sopraffare completamente la religione nazionale”. 231 La religione nazionale israelita, ovvero il nazionalismo religioso ebraico, costituiva, rispetto all‟ecumenismo etico-politico imperiale, ciò che l‟elemento culturalmente situato rappresentava rispetto all‟atopicità dell‟universalismo ellenistico: un segmento allotrio, tanto più irrazionale quanto più irriducibile all‟orbe greco-romano. Le guerre livellatrici della pax romana, condotte con accanimento da Vespasiano, Traiano e Adriano, giungono con Pompeo a interessare anche la Galilea, coinvolgendo non soltanto gli assetti politici locali, ma soprattutto le credenze religiose, che, dissolvendo Dio “entro la coscienza del credente” ovvero “in un mondo celeste”, mettevano in discussione “tutta una teodicea”, per cui con Roma non era solo, per il giudeo, un‟altra nazione più fortunata che trionfava, ma era il male, la volontà ribelle a Dio, sprezzante la Legge sacra, la violenza brutale che infrange il giusto, il pio, l‟individuo e la 232 gente che s‟eran consacrati al Signore .

La predicazione apocalittica trasferiva in una dimensione trascendente l‟unità e l‟armonia che erano andate perdute nella storia attuale, costituendo presso Dio quella realtà vera che l‟umanità storica aveva perduto. Con una proiezione molto simile a quella idealistica platonica, la fede ebraica proiettava nell‟altrove la ricomposizione morale inibita in terra dalle forze del male resistenti alla volontà divina, secondo una prefigurazione temporale che, dislocando nel futuro la perfezione assente nel presente, resterà caratteristica di ogni tendenza messianica, 233 in cui il modello ipostatico di Uomo campeggia in coerenza felice

231

Ivi, pag. 19. Ivi, pag. 66. 233 E non solo dell‟ideologia progressista o dello statalismo moderni, come tendono a credere A. Finkielkraut e Baumann. Ritenendo quest‟ultimo che il contrasto stia nella dicotomia politica tra astratto “uomo universale” e concreto “uomo individuale” membro delle particolari comunità etiche, riduce la questione 232

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con la sua universale rappresentazione razionale. Ciò che distingue l‟anelito apocalittico di tipo religioso dall‟ “oggetto d‟intensissimo, spasmodico desiderio”, 234 è la credenza che sia compito dell‟uomo realizzare la volontà di Dio, “sostituendosi alla Provvidenza”, secondo l‟espressione di Cassirer riferita all‟ideologia politicistica di Rousseau. Questa visione immanentistica dell‟escatologia ebraica fu, come sappiamo, coltivata dagli zeloti, ma fortemente avversata da Gesù, la cui predicazione tese esattamente a separare l‟ trascendente da ogni prospettiva finalistica sociopolitica. Da qui la diversa declinazione esegetica della  messianica da parte cristiana, di tipo personale, e delle diverse prospettive rivoluzionarie gnostico-manichee, di tipo sociologico, sicché mentre la visione trascendentalistica va sempre congiunta a quella personalistico-spiritualistica, la visione immanentistica si abbina sempre con una prospettiva politico-sociale, che nell‟ebraismo era di tipo religioso-nazionalitario e tendente a coniugare giustizia collettiva a salvezza individuale, implicando quindi a fortiori il piano politico nella sua soteriologia universale, la quale, nella dimensione storica, assumeva le dimensioni reali di una apocatastasi interna allo spazio del potere normativo dello Stato, ossia del regno di Cesare. E‟ del tutto evidente che la universale pervasività dell‟impari Potere imperiale spingesse la fede religiosa, e la sua congiunta identità nazionale, verso una sublimata intimità in cui era possibile coltivarla nella libertà da ogni arrogante imposizione blasfema, e ove appunto trascendere la stessa condizione storico-politica. In questa intima dimensione di libertà, l‟identità della fede si liberava dei suoi contingenti e tradizionali connotati nazionali, per assumerne di soli spirituali, proprii a una identità essenziale, prelusiva a ciò che sarà quella della  cristiana. Ma persiste nella coscienza apocalittica ebraica, nonostante ogni ascetico o legalistico rigore di fede, una distanza incolmabile tra la finitezza umana e l‟infinita essenza divina, per cui “si poteva ascendere su per le varie gerarchie angeliche delle potenze dei troni, degli

metafisica a quella delle pretese sovrane del Potere, facendone una “credenza tipica della mentalità moderna”: Z. Baumann Postmodern Ethics (1993), tr. it., Milano (1996), 2010, pagg. 45-49. 234 A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. I, Gesù, cit., pag. 70.

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arcangeli, delle ipostasi, senza mai raggiungere i solido nocciolo della divinità” del Signore, che sarebbe restato inaccessibile a ogni desiderio, anche al più puro e al più mistico, senza un Suo “atto d‟amore verso il fedele”, col quale “la divinità investe di sé e di sé compenetra l‟Eletto, il Messia eterno, preesistente presso Dio, altissima potenza angelica mediatrice e il Messia eleva a ipostasi divina: a Figlio dell‟uomo”. 235 Ed è appunto questa attesa messianica che, annunciata dapprima dall‟Evangelista che  e celebrata poi dalla  paolina, verrà storicizzata dal cristianesimo col suo “grande poema della redenzione”. 236 Il Cristo evangelico, mediatore tra Dio e l‟uomo, è diverso dal Messia delle antiche teofanie ebraiche, in quanto ha rinunciato a fronteggiare le schiere di Satana e vincerle una tantum sul loro terreno mondano, quello stesso in cui si destreggia e agisce il Cesare romano. Sarebbe infatti ben misera impresa prendere il posto di Erode, in una versione divinamente potenziata e ribelle al giogo romano. La reazione indignata e decisa di Gesù all‟equivoco di Pietro va dunque inscritta in questo sedimentato clima religioso di attesa del ruolo messianico di Gesù, quando l‟effetto morale della Legge va stemperandosi nel popolo succube, suscitando perciò negli animi più consapevoli un anelito di efficace riscatto, trasfigurato in reazione politica. Tale trasfigurazione dell‟evento messianico in evento politico implicava già la remissione al male nell‟atto di accettarne il locus mondano della sfera politica, che è i regno del peccato che non riconosce la sovranità di Dio. Entro il suo orizzonte pragmatico, la stessa sudditanza a Cesare acquistava il valore di una disfatta morale, l‟equivalente di un peccato nel regno spirituale. E questa deriva rimarrà latente nello stesso Cristianesimo storico, emergendo ogni qualvolta si vorrà misurare la grandezza di Dio sul parametro delle umane vicende politiche, stabilendo equivocamente un‟equazione tra stato di grazia e condizione di potere, come se la volontà divina non trovasse altre trascrizioni semantiche dell‟esegesi dell’efficacia, che la del razionalismo teologicamente emancipato suole adottare come metodo scientifico della sua ermeneutica storicistica.

235 236

Ivi, pag. 78. Ivi, pag. 79.

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Ma proprio l‟universalismo scientifico, liberando il dato di coscienza dalla sua fonte trascendente, lo priva del suo referente soggettivo trascendentale, spersonalizzandolo in un astratto “noi” collettivo di tipo etico-politico o religioso in cui annega la personalità individuale e con essa la sua libera responsabilità morale, che sta a fondamento della Storia spirituale. Infatti, il formalismo della Legge criticato da Gesù in nome della libertà morale, sottolineava esattamente l‟incompatibilità etica tra l‟indistinta generalizzazione del precetto normativo che, valevole erga omnes, impone mera obbedienza formale, e la scelta soggettiva di ottemperare a un dovere sulla sola base del libero convincimento morale. Nel primo caso, il comportamento doveroso è legato alla condizione indotta dalla convivenza sociale, che impone regole di reciprocità non eludibili perché sanzionate le inottemperanze. In tal caso, l‟insieme sociale, per il fatto solo che sussiste, impone una convivenza (Mitsein) che è essa stessa ragione normativa (zusammensein). Nel secondo caso, l‟Altro non è un astratto non-Io la cui estraneità sia da ricondurre a norma comune, ossia all‟Io collettivo comunitario, ma il Soggetto verso il quale la coscienza morale tende come se fosse il proprio Io. In questo caso, l‟als ob non è una fictio juris, prevista come criterio di valore formale, ma una relazione di fede stabilita dalla libera posizione morale dell‟agente, alla quale egli non era tenuto per dovere ma per convincimento. Il libero convincimento morale segna appunto la distanza dall‟ineludibile dovere legale. L‟atto morale è libero in quanto trascende la condizione sociale, e cioè la necessità del dovere legalmente stabilito, affermandosi come scelta, ossia come possibilità non-comune ma personale. Diversamente che nella sfera legale, in quella morale l‟universalità, cioè la reciprocità dell’azione, è un‟ipotesi la cui mancanza non è invalidante, ossia è una condizione non necessaria al valore dell‟atto morale. L‟azione morale, per la sua natura non convenzionale e non prescrittiva, non esegue un comando e quindi non persegue un dovere, ma manifesta il libero convincimento nella bontà delle conseguenze di quel gesto. In tal senso, l‟azione morale è rivolta sempre a un Prossimo, e non a un generico Altro, proprio perché il suo valore si misura dalle conseguenze, che diventano pertanto la misura morale dell‟azione che le ha originate. Questa caratteristica dell‟atteggiamento morale, che sposta sull‟effetto la misura valoriale dell‟azione, ponendo il Prossimo al centro della considerazione

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rilevante, comporta che la natura dell‟azione morale sia effettualmente asimmetrica, ossia unidirezionalmente protesa a conseguire un effetto non (auspicato per essere) reversibile, e perciò singolare e non universale. Ogni azione morale è pertanto unica e non generalizzabile in una astratta regola normativa di condotta legalizzata, tale cioè da dover prevedere la sua formale reciprocità. L‟azione morale, non potendo essere legalizzata, non può essere neppure sanzionata come un qualunque dovere, e pertanto è del tutto libera e gratuita, ossia intrinsecamente impari rispetto all‟azione doverosa normativamente prevista, e pertanto la sua manifestazione è razionalmente imprevedibile, e perciò essenzialmente misteriosa. Misterioso è ciò che non è pre-vedibile, ossia non appartiene al novero delle cose manifestamente note, già viste in questo mondo, e pertanto non di questo mondo terreno: di questo  La radice (terra, opposta a cielo) di  nella forma dorica èda cui la forma oppositiva del termine , l‟amore cristiano opposto ad odio, rancore, invidia, rottura che dunque significa etimologicamente non di questo mondo terreno. Lo stesso concetto è espresso dalla radice latina di amor (che esprime il contrario di mosmoris = costume), cioè in-usuale, non convenzionale, insolito, e quindi per esteso ciò che non segue le regole di questo mondo. Ciò che non segue le regole del mondo terreno è appunto l‟azione morale, che sarebbe più corretto indicare però con il termine etimologicamente più corretto di a-morale, ossia non-convenzionale, stabilito che la convenzione sia la prassi divenuta costume sociale normativizzato dall‟uso ed eventualmente confermato dal codice legale. L‟agape cristiano è dunque l‟atteggiamento più eslege e distante dalle regole normative che si potesse pensare in questo mondo, perché stabiliva il valore dell‟azione sull‟effetto benefico al prossimo, e non, come di regola, all‟attore. (Ma  è il termine greco usato da Paolo (1 Cor., 1, 18) per indicare la “follia”, per cui l‟  potrebbe indicare la mancanza di follia, la saggezza della vita cristiana all‟insegna dell‟amore.) Questo atteggiamento sconvolgeva la stessa ratio dei rapporti sociali, informati sull‟etica della necessità dei vantaggi reciproci posta a giustificazione legittimante delle relazioni politicosociali, intrinsecamente egoistiche in quanto utilitaristicamente buone per il bene (ossia per la sopravvivenza) della società. Rimosso tale bene comune a favore del bene personale della singola anima, anche le azioni 99


da sociali diventano amorali, ossia finalizzate al Bene di chi ne riceve le conseguenze, il Prossimo, che è il Volto (di Dio) di Jankélevic. Ciò non vuol dire che nella sfera morale non si sviluppino rapporti morali, ma che essi sono di altro genere rispetto ai rapporti legali. Questi, infatti, assumono l‟evento morale non come la condizione di validità dell‟azione prescrittiva ma come il referente implicito (Grundnorm), la cui cosciente eventualità non è derimente ai fini dell‟esito formale, cioè della sua effettività. Invece, nei rapporti morali, l‟evento non sussiste senza la sua cosciente moralità, ossia intenzionalità, e quindi libera e personale responsabilità. In tal senso, soltanto le regole possono essere universali. Si possono creare doveri imposti da regole universali, ma la responsabilità morale esiste solo in quanto richiesta all‟individuo e assunta dall‟individuo, [sicché] i doveri tendono a rendere gli uomini simili; la responsabilità è ciò che li trasforma in individui. L‟umanità non è prigioniera di denominatori comuni: ne sarebbe sommersa e sparirebbe. La morale dei soggetti morali, perciò, ha il carattere di regola. Si può affermare che la morale è ciò che resiste alla codificazione, alla formalizzazione, alla socializzazione e all‟universalizzazione. La morale è ciò che rimane quando il compito dell‟etica, il compito della Gleichschaltung è stato svolto.237

Questo discorso prende le mosse dalla teoria dell‟incontro con l‟Altro come Volto di Lévinas, per il quale “nella relazione con il Volto ciò che si afferma è l‟asimmetria: inizialmente mi importa poco ciò che Altri rappresenta nei miei confronti, è affar suo”. 238 Qui la moralità viene identificata con la soggettività, la cui non-universabilità è legata al dato psicologico dell‟atteggiamento dell‟attore, alla gratuita intenzionalità della sua sfera emotiva, ossia alla sua non razionalizzabilità. Ma la sua condizione negativa, non essendo implicata da un giudizio formale, codificato, è ontologica, e come tale non oggettivabile in un dato che non sia puramente intenzionale, astrattamente desiderativo, e perciò amorale: nella sfera dell‟indifferenza, ciò che si direbbe del santo si

237

Z. Baumann, Op. cit., pagg. 59-60. E. Lévinas, Philosophie, justice et amour, in Entre nous: essais sur le penser-àl’autre, Paris, 1991, pagg. 122-123, cit. da Z. Baumann, Op. cit., pag. 54. 238

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potrebbe dire dell‟omicida. Si prenda il caso, evocato, dei rapporti fraterni. “Essere una persona morale significa che io sono il custode di mio fratello”, a prescindere dalla consapevolezza che lui abbia dei suoi doveri, e quindi indipendentemente da ogni reciprocità. Infatti, “è questa unicità (non “generalizzabilità”!), questa non-reversibilità della mia responsabilità a mettermi nella relazione morale. Questo è ciò che conta, sia che tutti i fratelli del mondo facciano o no per i rispettivi fratelli quello che io mi accingo a fare”.239 Il parametro con cui io posso misurare la mia condizione elettiva è quello che Lévinas chiama “criterio della santità”, 240 il quale si definisce entro un orizzonte di senso già normativizzato (la “fraternità”, che è concetto universale) verso il quale l‟azione morale si pone come evento non necessario, come opzione possibile. Ma la possibilità di un evento, perché assume valore di scelta morale, non deve essere previsto come azione negativa rispetto al precetto legale, ossia come atto delinquenziale, ma deve potersi definire come comportamento altro da quello normativo, ossia ossequiente un codice comportamentale diverso. Ed è pertanto la condizione di diversità a rendere un‟azione morale anziché semplicemente illegale, ossia meramente opposta alla fattispecie canonica positiva. Non è, dunque, l‟alterità logica ma la diversità ontologica a costituire il “criterio della santità”. Ed è questa diversità ontologica a rendere l‟evento cristico e le sue manifestazioni fenomeniche come azioni sante, non giudicabili in veritate dalla logica legalistica del codice romano o religioso rabbinico, ma solo alterandole secundum o praeter legem. La possibilità dell‟evento morale è dunque sempre legata alla sua manifestazione attuale, alla sua storicità, così come la Rivelazione di Cristo è legata indissolubilmente all‟evento storico della sua incarnazione. Gli apostoli, infatti, non narrano “la storia psicologica di Gesù, ma un miracolo obbiettivamente successo”. 241 Non è ciò che si oppone alla Legge ad essere “santo”, cioè il mero non-essere rispetto all‟ente giuridico, ma ciò che, legale o non secondo il codice, è ontologicamente diverso, e perciò non giudicabile alla stregua di una

239

Z. Baumann, Op. cit., pag. 57. E. Lévinas, Philosophie, justice et amour, in Entre nous, cit. 241 A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. I, Gesù, cit., pag. 102. 240

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fattispecie legale. Per questa fondamentale ragione Gesù osteggiava tanto i Sadducei quanto i Farisei, respingendo tanto la logica di Cesare che quella opposta degli zeloti, interne entrambe alla dimensione politica e non a quella della salvezza spirituale. Diversamente dalla sensibilità post-cristiana, il sentimento religioso pre-cristiano, quello giudaico, “era, nelle sue svariate forme, zelo di Dio”, (), secondo l‟espressione paolina (Rom., 10, 2),242 che nella figura del Battista trova il suo punto di svolta fideistico. Non in senso teoretico e teologico, ma esistenziale, la cui conseguenza “sarà un umanismo religioso in cui Iddio s‟andrà riplasmando per meglio rispondere alla passione di chi l‟ama e l‟invoca, e per esaltarlo fuori dal peccato sopra il dolore”.243 Giovanni annunciò in modo nuovo il Dio antico, stabilendo tra la tradizione nazionale e l‟intima speranza soteriologica un legame sottile ma profondo che nel giudizio divino ritrovava il senso stesso del percorso esistenziale dell‟uomo, ossia quella realtà della fede che l‟evento messianico avrebbe solo confermato. In tal senso, “il suo quadro apocalittico non era inerte immaginazione, ma vivo senso reale”.244 Nello stesso senso, la rinnovata coscienza religiosa passava attraverso un lavacro spirituale che il battesimo simbolizza ma non passivamente, in quanto “implicitamente si rivelava come il principio di una giustizia, d‟una rettitudine al cospetto di Dio, diversa da quella dei dottori della legge e dei farisei”,245 presumendo una profonda conversione nella verità, che è appello a Dio non come generica preghiera di esaudizione, ma come Sua presenza nel mondo. Non a caso i farisei, custodi del sogno di rivalsa, disertarono l‟appello del Profeta, ma non le masse derelitte, che invece accorsero al Giordano. Queste infatti, nude di ogni nozione di Legge, di cui erano invece profondi conoscitori i farisei, erano le più esposte al peccato, dalla quale la casta privilegiata dei legulei si credeva

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Ivi, pag. 90. Ivi, pag. 91. 244 Ivi, pag. 94. 245 Ivi, pag. 96. Come ha ben precisato l‟Omodeo, “nel Nuovo Testamento come in tutto il linguaggio biblico giustizia ha un senso che approssimativamente indica la pienezza delle virtù e della pietà religiosa: è attributo non del giudice ma di colui che trionfa nella prova del giudizio, e dal giudice è proclamato puro”: pag. 97 n. 1. 243

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immune. Ma “la giustizia che il Battista esigeva non era la giustizia dei farisei, ma era una giustizia attuabile da ogni anima, e le turbe degli umili irrompevano col battesimo verso i giusto regno di Dio, il refrigerio d‟Israele”.246 Da quell‟appello, che costò la vita al Profeta, nacque la figura messianica di Gesù. Rispetto al tempo dell‟attesa, la Sua rivelazione giunge come l‟accreditamento dell‟epifania apocalittica, ossia come l‟evento confermativo della fede che fugava ogni dubbio in certezza. Ed è appunto questo fondamento di fede, scaturito da un “mutamento d‟atteggiamento interiore” per cui “muta la visione del mondo”, a costituire il presupposto ontologico di ogni svolgimento storico, non solo dell‟esperienza attuale di Gesù, ma dell‟intero processo escatologico dilatato nelle tre dimensioni temporali. Il pessimismo apocalittico lasciava il posto alla speranza attivata dalla rivelazione di Dio, da cui “erompeva la possibilità e la capacità d‟un‟azione religiosa [con cui] si sperimentava la responsabilità e la necessità d‟un‟azione coerente alla rivelazione divina […] accettando, con un senso quasi realistico, pur nell‟entusiasmo profetico, le condizioni storiche ineliminabili come provvidenzialmente predisposte”. 247 Questo ci aiuta a comprendere come il nuovo orizzonte della fede escatologica si costituisca per il cristiano non come un‟appendice psicologica ma come l‟ambito categoriale entro il quale l‟intuizione del mondo che lo presume è la condizione di senso di ogni evento storico, altrimenti incomprensibile fuori del suo ontologico fondamento fideistico. Una Storia senza fede nella salvezza escatologica, in cui il riscatto si manifesta con le condizioni problematiche stesse da cui scaturisce, non è più un itinerario spirituale ma una catena di eventi collegati da una causalità rintracciabile come la trama riposta di un racconto mitico di cui sia possibile decrittarne l‟espressività simbolica. La narrazione storica del processo escatologico comportava quella “conversione del fatto in valore” che è tipica dell‟ermeneutica religiosa, di cui “il racconto mitico-simbolico è la rappresentazione concreta del ritmo

246 247

Ivi, pag. 98. Ivi, pagg. 103-105.

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vitale della fede”.248 Di contro, l‟aspetto soteriologico del racconto storico, spaiato dal suo fondamento di fede, diventa un orpello mitico del quale la trascrizione razionalistica intende eludere ogni simbolismo deviante, lasciando alle sole vicende umane il senso unico, cioè unicamente ragionevole, della loro universale significazione. Ma proprio l‟ipostasi dell‟homme raisonable, non abitando il mondo della Storia, né sacra né profana, si rivela l‟immagine più miticamente astratta di ogni antropologia religiosa, in quanto costruita sul presupposto, quanti mai falso e malsano, dell‟accidentalità del Male, la cui rimuovibile eventualità implicava la conseguente inutilità dell‟intervento correttivo divino, e quindi di Dio stesso. Ma Gesù rifugge da questa satanica tentazione scandalosa in cui soggiacevano gli zeloti, propugnatori del Messia eroe taumaturgo, in quanto la sua concreta realtà escatologica era ben più comprensiva della sola speranzosa possibilità futura, almeno quanto lo era nei confronti della passata sapienza rabbinica sigillata nei codici della Legge, entrambe rifuse dinamicamente nella Sua organica predicazione, in cui “la fede diveniva il principio riordinatore della speranza e della credenza”.249 Il riconoscimento di Dio nella fede dell‟uomo coincideva con l‟affermazione della Sua volontà, costituendo il luogo della verità nella parola. Il Verbo incarnato era dunque la “parola” che “procedeva dalla bocca di Dio” e irrompeva nel mondo come Storia del Suo disegno escatologico, messianico ma trascendente. La missione redentrice di Gesù si poteva riassumere in questo compito originale di fondare la speranza escatologica della fede in una Storia che, per quanto innestata nell‟esperienza temporale dell‟uomo, la trascendeva nel senso dell‟eternità. E poiché la condizione umana dell‟uomo nel tempo era inscritta nell‟orizzonte del senso politico dell‟esistenza, trascendere il tempo equivaleva a trascendere l‟esistenza politica stessa affermando la  di una soteriologia umana ma diversa da quella rivoluzionaria, di segno divino. La predicazione profetica di un regno di Dio diverso da

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“Affermando la realtà escatologica come imminente, anzi, più che imminente, quasi presente, Gesù s‟assume il compito ardito della conversione del fatto in valore[…] giustificando gli eventi nel volere di Dio che converge nel regno. Ed è qui appunto la grandezza storica dell‟opera di Gesù.”: Ivi, pag. 108. 249 Ivi, pag. 112.

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quello di Cesare, coniugando la fede paterna alla speranza filiale, reagiva alla astratta remissione farisaica e alla utopica speranza rivoluzionaria con la positiva azione morale del nuovo Adamo, Verbo di Dio incarnato. Caratteristica saliente della predicazione di Gesù era la diretta ispirazione divina, non mediata dalla tradizione rabbinica e dalla Thora, 250 questo, a un tempo, era condizione e conseguenza del Suo messaggio, che nel rivelare la realtà di Dio intendeva anteporla a quella umana presente. Così, da un canto, Gesù predicava l‟avvento inevitabile del Regno di Dio come un evento futuro, e dall‟altro lo condizionava alla fede attuale degli uomini. Questo duplice passo consentiva alla Sua predicazione di assumere a volte tratti apocalittici e di “spada”, altre volte tratti consolatori e di “pace”. In entrambi caso, al centro di ogni prospettiva messianica c‟era la realtà della fede, la cui esistenza era indispensabile allo sviluppo di una rinnovata coscienza evangelica, e gli stessi accenti apocalittici più terribili erano preposti allo scopo di evocarla. In questo senso, l‟attualità della fede nei cuori era la presenza del Regno di Dio ().251

250

A. Omodeo, Loc. cit., pagg. 122-123. “La fede anticipava su Dio. il regno in gloria e potenza l‟avrebbe instaurato Dio; ma […] l‟annunzio del regno, se non ne metteva in atto la gloria, era l‟anticipazione reale, sperimentata della vita interiore dei figli di Dio”: A. Omodeo, Loc. cit., pag. 133. Come opportunamente avverte l‟Omodeo, “per regno di Dio o dei cieli bisogna costantemente intendere governo di Dio, eliminando ogni significato locale”: Loc. cit., pag. 121 n. 5. Vi è da aggiungere che il “governo di Dio” si distingueva dal Potere di Cesare proprio per la sua natura impolitica, non dipendente cioè dai condizionamenti economici dell‟amministrazione della polis. E da questa natura dipendeva anche il carattere della fede, l‟atteggiamento mentale, di chi doveva seguire Gesù, spoglio appunto di ogni condizionatezza e subordinazione alle regole del mondo, compresi i valori familiari (Mc., 10, 28). Il concetto di Governo come amministrazione divina delle vicende spirituali dell‟uomo, dopo il diretto esercizio attraverso Gesù, nella Storia dell‟uomo non può che esercitarsi mediatamente, attraverso personalità e istituzioni anch‟esse impolitiche. E poiché i due aspetti del Potere cesareo e del Governo divino insistono sulla stessa compagine sociale, sia pure idealmente distinta per la sua funzione referenziale, anche nella promiscua convivenza umana va ravvisato l‟elemento comunitario di natura spirituale ed ecclesiale, distinto dall‟elemento politico di natura economica e societaria. Questi elementi, astratti dalla loro concreta realtà storica, hanno caratterizzato rispettivamente la Chiesa e lo Stato, la cui separata realtà istituzionale ha diviso il 251

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L‟amore cristiano come atto di volontà morale supera la concezione legalistica farisaica della mera conoscenza del bene astratta da ogni impegno operoso, distinguendosi anche dall‟idealistica contemplazione. Infatti, l‟afflato benigno, così come quello maligno, proviene dal cuore dell‟uomo, non da dottrine e convincimenti, per cui la sede di ogni riscatto, come di ogni perdizione, è nell‟uomo stesso, nella sua coscienza, che Gesù dunque pone a presidio del bene. L‟uomo come governatore del suo cuore e testimone volenteroso della fede filiale in Dio, “questa è l‟immensa scoperta del Nazareno”. 252 Da questa fede in Dio congiunta alla promessa della testimonianza umana, deriva l‟atto d‟amore verso l‟Uomo, che costituisce il lato storicamente operante dell‟amore verso Dio. Fede ( ) e amore ( ) sono dunque aspetti complementari di una stessa testimonianza di devozione a Dio che superava per intensità messianica ogni precetto di Legge, ogni canone tradizionale, alla cui lettera si affastellava l‟esegesi farisaica priva di intima partecipazione spirituale. Il rispetto estrinseco e formale della Legge non valeva quanto l‟adesione spontanea e sincera al suo spirito. Questa partecipazione intima del fedele al precetto eterno divino trasformava la religione tradizionale in “imitazione di Dio”, cioè del Suo amore, che, pago di sé, eliminava ogni ricompensa prevista dall‟

corpo mistico di Cristo in popolo di Dio e popolo di Cesare, e quindi la comunità di fede, in due entità sociologiche, quella dei chierici e quella dei cives, facendo della Chiesa un organismo parallelo e spesso conflittuale a quello dello Stato e portando il dissidio logico dei principi all‟esterno della coscienza dei credenti, pensando l‟uomo morale una specie diversa dall‟uomo politico, laddove è lo stesso uomo che ha in sé i due possibili orientamenti esistenziali della sua condotta storica. Da aggiungere che, concentrando il principio del Governo nella sola vita della Chiesa, e il principio politico nella sola vita dello Stato, non ha giovato alla vita dei cristiani, né come comunità spirituale né come società politica, esautorati dalla responsabilità della scelta morale non più libera ma affidata monopolisticamente alle due istituzioni di riferimento, le quali l‟hanno storicamente gestita confond endo il più delle volte ciò che è di Cesare (l‟opportunità mondana) con ciò che è di Dio (la verità personale). E‟ appena il caso qui di ricordare che l‟entificazione dei due organismi istituzionali non è altro che la proiezione sociologica delle loro risp ettive astratte forme ideali, concepite similmente alle ipostasi divine, che sono anch‟esse astratte fuori dell‟Unità divina come lo sono la Chiesa e lo Stato fuori della concreta vita sociale. 252 A. Omodeo, Loc. cit., pag. 138.

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“utilitarismo giudaico che Gesù aveva ereditato dalla tradizione legalistica”.253 Il Dio della Legge si fa Spirito (), la cui presenza vince il peccato () che è nell‟uomo naturale. Il rapporto d‟amore cambia anche la natura delle relazioni tra gli uomini, fortemente personalizzate e concrete, non mediate da astratte prescrizioni impersonali, aggirabili per mancanza di intima partecipazione sentimentale. Amarsi costituisce l‟altro modo di stare insieme, fondato sulla gerarchia che unisce Dio all‟uomo, sul mutuo riconoscimento della signoria e del servizio che l‟avvalora. Nel rapporto d‟amore non c‟è dunque schiavitù ma servizio, senza il quale i “servi” diventano “inutili” (Lc., 17, 7-10), poiché il loro non è doverosa obbedienza al comando ma libera dedizione al Bene. Se tale Bene ha un nome divino, è quello di Dio, e se il “Volto” umano di Jankélevic ha un nome, è ancora quello di Dio. L‟affermazione assoluta del Bene fa sì che “in Gesù il messaggio del regno è volontà di salute per i fratelli, non egoismo di sapute individuale, ascesi di monaco. A differenza del Battista, egli corre incontro al peccatore, il suo evangelio diviene una pratica affermazione della divina bontà”. 254 L‟amore attivo predicato da Gesù rompeva gli schemi consolidati della tradizione, scontrandosi con la lettera della Legge, e quindi coi suoi custodi, i farisei, gli ipocriti e vanitosi dottori della Legge, che, mancando affatto di fede sincera, avrebbero seguito nel regno dei cieli i pubblicani e le meretrici (Mt., 21, 31-32). Senza fede, non c‟è atto d‟amore, cioè azione morale e perdono. E la fede cristiana pertanto diventava l‟immenso  a fronte della tradizionale coscienza giudaica, poiché “la parola del Messia era inscindibile dalla sua persona; la parola del regno predicata da Gesù non era un‟astratta verità teoretica, ma un principio vivente d‟azione”, 181 [181. Ivi, pag. 179.] valore unitivo della futura comunità ecclesiale. Il carattere attivo, “vivente” appunto, dell‟azione di Gesù comportava, da un lato, la risoluzione nella propria testimonianza della tradizione ebraica, e dall‟altro, l‟attualità dello spirito della Legge intesa come custodia dei fondamenti precettivi. La convergenza delle due tendenze nella predicazione messianica dava a questa una parvenza di apocalissi

253 254

Ivi, pag. 145. A. Omodeo, Loc. cit., pagg. 147-148.

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in atto, di apocatastasi, propria di un tempo di attesa della imminente . La stessa figura del Figlio che incarna il Padre, va considerata alla stregua di una storicizzazione dello Spirito divino che nella sua vivente manifestazione umana si realizza, e realizzandosi esaurisce la sua funzione promotrice di bene. In tal senso, il cristianesimo si risolve nella sua testimonianza finita: esso è vivo nello stesso senso in cui muore con la sua attività. E‟ questa situazione emergenziale che darebbe per Schweitzer ai comandamenti di Gesù un valore interinale (Interims-Ethik). E perché la testimonianza cristiana sia tanto vivente quanto mortale, in sé auto-referente, occorreva che non solo Dio Padre si incarnasse nel Figlio, ma che il popolo di Dio fosse investito dallo Spirito divino, ossia che la comunità dei credenti aderisse totalmente all‟essenza trascendente della spiritualità divina, smettendo di essere “popolo” in senso politico e nazionale, e trasfigurandosi spiritualmente in . Se l‟unità politica prevede un rapporto gerarchico tra dirigente e diretto, l‟unità spirituale ne prevede un altro tra carismatico e fedeli, ma in ogni caso i termini del rapporto sono pur sempre due, e perciò ineguali. Senza Cesare, non c‟è Stato; senza Dio, non c‟è chiesa. Ora, finché la figura divina era univoca a quella del Cristo, la presenza di Dio era nella comunità, quantomeno in quella apostolica. Con la morte di Gesù finisce la presenza carismatica e il popolo di Dio resta sia orfano del Padre che orbato del proprio Fratello che Lo rappresentava come Figlio. La comunità cristiana resta, cioè, senza Dio vissuto e senza Dio vivente, in balia di se stessa e alle prese con la storia umana, non restandole altro che di trasfigurarla spiritualmente nella prospettiva cattolica, ossia in una dimensione universalistica che, rendendo ogni uomo una persona in rapporto diretto con Dio, avrebbe abolito la solitudine di tutti facendo di ognuno un rappresentante divino, una imago Dei microcosmica. La deriva atea dell‟umanesimo protestantico era già inscritta in questa premessa orfana e solipsistica, che, abolendo in sé la Legge di Dio poneva inevitabilmente il fedele di fronte al Potere della legge politica di Cesare, l‟unica realtà sociale compiuta che era sopravvissuta alla fine, con la morte di Cristo, della comunità cristiana. E a quella bisognava riferirsi per ripristinare un assetto comunitario strutturato per la sopravvivenza storica. Con la morte di Gesù, o tornava in vita il Padre, e cioè la realtà dell‟esperienza di fede ebraica che era di sfondo alla missione soteriologica del Figlio, ovvero bisognava sostituirlo con

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un suo simulacro che lo impersonasse in una Chiesa ipostatizzata in corpus Christi, così come il Cristo era stato il Verbum caro Dei. Il Dio misterioso delle origini ebraiche, ineffabile e perciò absconditus, diventa, con la morte umana del Figlio (  ), conosciuto e invocato, il Deus comploratus, rimpianto. La Chiesa, come imago Dei () è la comunità del rimpianto, il luogo mistico dove si elabora il lutto collettivo della morte di Gesù il Cristo, ucciso dal Potere romano e dalla vendetta del Tempio ebraico, che si era vendicato del parricidio del Figlio. Dopo l‟esito modernistico del Cristianesimo e l‟epilogo ateo della sua secolarizzazione, alla Chiesa plorante non rimane che tornare implorante, come il figliol prodigo della parabola evangelica, alla casa del Padre, a quel Dio ebraico la cui riconfermata potenza paterna può consentire, come già l‟emancipazione pro tempore, anche la gloria eterna del Figlio, dopo la consumazione della sua gloria terrena. Riconoscendo che senza Padre non c‟è alcun Figlio, il Cristianesimo post-cristiano cessa di costituire una eresia ebraica, per acquisire il significato paradigmatico della possibilità concessa all‟uomo di operare nel mondo senza la guida paterna di Dio, nella libertà dalla sua Legge e nella responsabilità dell‟ammissione della sua necessità per evitare le allettive sataniche di un‟esistenza atea. Solo tale libero riconoscimento della Chiesa cristiana può affermare, con la sua responsabilità storica, la natura morale della sua emendazione teologica. La visita del papa Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma, è più che un omaggio simbolico alla imprescindibile presenza del Padre per la sussistenza del Figlio: è la condizione stessa della esistenza storica della Chiesa come comunità universale del Figlio. Dio, lasciando morire Gesù, abbandona il Figlio alle sue sorti terrene, indicando che la morte è l‟esito dell‟emancipazione filiale, la sorte stessa che attende la sua Chiesa, la cui vita storica è legata all‟eco di quell‟evento umanistico, nobilissimo nella sua graziosa generosità divina, ma scandalosamente inconsulto per la natura insuperabilmente finita dell‟umanità. Dio, per amore dell‟Uomo, si è fatto Egli stesso uomo nel Figlio, lasciando alla sua libertà di sperimentare con la morte la distanza ontologica che separava le creature dal loro creatore. Gesù ha creduto nell‟Uomo, amandolo come Dio ama suo Figlio. Ma l‟Uomo non può superare la sua finita umanità se non facendola morire nella  per liberarsi nello Spirito, cessando così di essere sé stesso, uomo

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naturale, per resuscitare come uomo spirituale (  ), come afferma S. Paolo (1 Cor., 15, 44). L‟attualità di Dio è la Storia di Gesù che, nel farsi Uomo, muore a opera dell‟ignara umanità. La  di Dio è la partecipazione al suo Spirito divino, e non già, come ha inteso il Cristianesimo, al Lògos umano. Tornare al Padre vuol dire dunque tornare allo Spirito originario di Dio, ri-negando il Lògos che ha a sua volta negato la  di Dio rielaborandone l‟originaria verità intuitiva. Il nuovo eone post-cristiano della riconciliazione del Figlio col Padre è segnato da questo  dei cristiani alla casa comune (, nel senso di Mt., 16, 18) di Dio né più ebreo né più celeste né più umano, ma intuitivamente sacro, ossia ontologicamente diverso dalla Sua immagine storica (Dòkema),255 e perciò non disponibile dall‟Uomo secondo la sua libertà. Infatti, credere in Dio equivale a servirLo; e servire Dio significa negare ogni rapporto di uguaglianza con l‟Uomo, ossia pensare l‟Essere divino come diverso dall‟ente storico, e perciò come entità possibile, vale a dire non necessariamente eterno, come il Dio dei filosofi, né liberamente attuale, come il Dio storico. L‟Essere che è Possibilità, diverso dall‟Essere della Necessità (Lògos divino) e della Libertà (Ratio umana), è il luogo simbolico del Mito, la realtà totale e unica da cui poter derivare sia la necessità della forma che la libertà dei contenuti, ossia la molteplicità degli approcci ermeneutici. Se c‟è un tratto caratterizzante il contenuto del Mito cristiano (ossia della sua Storia) è la sua in-finita rappresentabilità, ossia la sua trascendenza rispetto a ogni riduzione razionale, per cui ogni sua oggettivazione storica, potendo dei suoi contenuti trascrivere i soli aspetti logicamente attualizzabili, ne rimanda sempre ad altri possibili, suscettivi di altre definizioni teoretiche, sicché ogni esegesi dell‟evento cristico si costituisce come una rielaborazione della Storia della salvezza narrata nel Nuovo Testamento. La coscienza post-istorica è la coscienza escatologica che ricupera la dimensione soteriologica del Mito, espresso dal pensiero simbolico, dove il tempo convive con l‟eterno e, appunto, Dio Padre con l‟Uomo

255

Il Dòkema di Cristo, ossia la sua immagine visibile, è storicamente la Sua Chiesa, il Suo corpo mistico ( ), in cui si rende visibile lo stesso Regno di Cristo. Ved. O. Kullmann, Koenigsherrschaft Christi und Kirche im Neuen Testament, Zollikon, 1941, pag. 28.

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Figlio, la  con il . Questo il senso simbolico della morte dell‟Uomo storico e della Resurrezione come ritorno al Padre dell‟Uomo spirituale ( ): la possibile trasfigurazione pneumatica di ogni storia attuale nella Storia eterna del viaggio dello Spirito, che parte da Dio per tornare a Dio attraverso la sua Rivelazione storica. Senza la Resurrezione spirituale, “vano è dunque il messaggio nostro, vana anche la fede vostra, e ci ritroviamo falsi testimoni di Dio per aver affermato contro Iddio ch‟egli ridestò da morte il Cristo” (1 Cor., 15, 14-15). Senza l‟opera di Dio, pertanto, non c‟è Storia spirituale dell‟Uomo, ma solo infinite vicende individuali e collettive. 4. La lettura teologica dell‟esperienza cristiana rappresenta il versante che ha l‟eterno rispetto alla temporalità storica, sicché la prima è altrettanto possibile della esegesi scritturale ai fini della comprensione dell‟evento, costituendo “due aspetti di una stessa ed unica esegesi”, che Cullmann definisce “oggettiva”, cioè non contingente e tale da cogliere la Sache del discorso senza cadere nelle insidie del soggettivismo aprioristico. Questa  (vigilanza) del testo scritturale consente all‟esegeta di discernere dalla lettura storicamente attualizzante “l‟oggetto meta-storico” (la Sache appunto) che permane al fondo della interpretazione e “dietro ogni forma storica”.256 La cristologia non è una dottrina relativa alle nature di Cristo, ma una dottrina che concerne un “avvenimento”, che si sviluppa in un Geschehen che parte dalla nascita di Gesù (Giov., I, 1) e termina con “l‟essere tutto in tutti” (1 Cor, 15, 28), e che dunque consiste in una “storia ella salvezza”.257 Ora, l‟evento cristico, pur segnando la “fine della Legge” non segna la “fine della storia”, ma la costituisce assegnandole un senso escatologico unitario, quello appunto soteriologico che va dall‟evento già compiuto all‟attesa del compimento non ancora avvenuto dei tempi nella parusìa. Pur avvertiti che “nel Nuovo Testamento, anche ciò che si riferisce a quanto precede, segue e si trova oltre l‟agire di Dio nel tempo, non è

256

O. Cullmann, Les problèmes posés par la méthode exégetique de Karl Barth, 1928. 257 B. Ulianich, Linee di sviluppo del pensiero di O. Cullmann, Intr. a O. Cullmann, Christus und die Zeit (1946), tr. it., Bologna, 1965, pag. LXVIII.

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mai rappresentato dal punto di vista dell‟Essere di Dio, ma sempre e soltanto partendo dall’agire di Dio nel tempo, a noi rivelato”, per cui essendo “ogni riflessione circa l‟Essere eterno di Dio, e la sua eternità, assente dal Nuovo Testamento”, gli esegeti, volendosi mantenere “nel quadro [di pensiero] presupposto dagli autori del Nuovo Testamento”, dovrebbero “sforzarsi di farlo nel modo più afilosofico possibile”, 258 non possiamo non rilevare che l‟affermazione di Cullmann per cui l‟evento cristico costituisce “il senso ultimo e il criterio di tutta la storia anteriore e posteriore”,259 per avere un senso significativo non circoscritto all‟universo di senso teologico, ma aperto a una significatività non simbolicamente predeterminata dall‟esegesi neotestamentaria, deve completarsi con una preventiva affermazione esplicativa che sostanzialmente ne corregge la forma razionale, senza però inficiare, ma anzi supportando, il suo fondamento di fede. L‟affermazione correttiva consiste nel dire che non esiste una storia umana prima dell’avvento di Cristo, ma soltanto indagini locali o racconti epici nazionali. La Storia unitaria, che vede appunto in Cristo il suo Herzpunkt. Nella forma del Cullmann, parrebbe che l‟evento cristico si inserisca soltanto nei termini di una semantica del sacro in un processo avvenimenziale profano già costituito, mentre invece è quell‟evento a costituirlo. Questa precisazione preventiva è fondamentale, a noi pare, sia nel dare al  cristiano il suo essenziale valore soteriologico, e sia per valutare nei giusti termini storici il fallimento teoretico di ogni prospettiva storicistica che quel valore abbia inteso rimuovere dal suo orizzonte di senso. Senza il mantenimento del senso escatologico di tale prospettiva soteriologica della (e non nella) Storia, non riusciremmo a comprendere il processo stesso dell‟emancipazione razionalistica moderna dal suo fondamento teologico, né tampoco il senso precipuo del suo fallimento culturale. Infatti, propriamente il presupposto razionalistico che la Storia fosse un processo indipendente dalla sua costituzione a opera della Rivelazione cristiana, poteva indurre a credere di demitizzarla attraverso la rimozione della superfetazione teologica della fede, quasi che l‟evento cristico fosse temporalmente

258 259

O. Cullmann, Christus und die Zeit, tr. it. cit., pag. 28. Ivi, pag. 42.

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contingente e non fondativo dell‟ontologia storica, alla cui luce ogni avvenimento viene giudicato, appunto, storicamente, cioè nella sua concretezza esistenziale. Per questa fondamentale ragione, lo storico non può, come vorrebbe Cullmann, coerentemente alla sua premessa teorica, “assumere nei riguardi di un fatto del genere”, ossia “nei confronti del giudizio neotestamentario sulla storia”, “un atteggiamento neutrale, come di fronte ad una qualsiasi filosofia della storia, che pronunci anch‟essa, da un punto di vista filosofico o religiosofilosofico, un giudizio senza appello sugli avvenimenti storici oggetto della sua ricerca”. 260 Al contrario, il giudizio storico può essere formulato solo storicamente, ossia in conformità razionale al presupposto di senso escatologico che lo fonda. L‟assunto neutralistico della prospettiva scientifica della storia rimuovendo esattamente quel fondamento di senso, lo consegna all‟ermeneutica delle opinioni filosofiche, ossia a quel riduzionismo logico contro cui si è levato lo scandalo della fede escatologica, il quale, se confermato, conduce a quel positivismo storicistico lucidamente analizzato da Husserl in Philosophie als strenge Wissenschaft. 261 “Storico” in senso proprio, e cioè in senso cristologico, è “relativo”, non nel senso dell‟accidentalità contingente, ma alla “Rivelazione assoluta di Dio” rispetto a cui esso ha senso propriamente non contingente. In questo evento “assoluto”, dice giustamente il Cullmann, “si manifesta la stretta connessione esistente tra rivelazione cristiana e storia”. 262  Ma proprio perché la Storia coincide con la Rivelazione cristiana di Dio, essa è una cristo-logia, ossia una teo-logia cristiana, dove “cristiana” sta per “storica”, e perciò stesso non può coincidere, come vorrebbe il Cullmann, con la “storia biblica”, 263 dal momento che non c‟è “storia” che non sia cristiana. Una storia “biblica” sarebbe una cristologia biblica, cioè una speculazione teologica pre-istorica sulla storia escatologica. In quanto “cristocentrica”, la Storia è percorso umano che dalla Rivelazione giunge alla Salvezza; percorso che, rivelando Dio, lo presuppone come suo fondamento ontologico.

260

O. Cullmann, Christus und die Zeit, tr. it. cit., pagg. 43-44. Ved. supra Cap. III. 262 O. Cullmann, Christus und die Zeit, tr. it. cit., pag. 45. 263 O. Cullmann, Op. cit, pag. 46. 261

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Infatti, è pur vero che Dio si rivela all‟uomo nel tempo, cioè nella condizione della finitezza dell‟esistenza umana, ma il tempo, ossia la temporalità della finitezza esistenziale, non è la Storia, la quale è disegno escatologico, e non già mera sequenza avvenimenziale. Il senso (significato) della Rivelazione cristiana è lo stesso senso (direzione) della Storia quale momento del piano soteriologico divino.. Dio si è rivelato all‟uomo più volte nel tempo, ma sempre come Dio, nella Sua misteriosa alterità ontologica; soltanto con la Rivelazione cristiana Dio si è rivelato all‟uomo come Uomo. Se la caratteristica della condizione umana è la finitezza, ossia la temporalità, ciò che caratterizza Dio rispetto all‟uomo è la Sua alterità rispetto alla condizione finita, cioè la Sua in-temporalità o eternità. La Sua rivelazione umana, in cui l‟eterno appare nel tempo, costituisce il Mistero della Storia, la sua verità immanente (alla Storia) e trascendente (in Dio), in cui la Parola spirituale s‟intreccia col Logos razionale. Questo , in cui l‟eternità (di Dio) coincide con (ma non è) il tempo (dell‟Uomo), si manifesta come Storia, il tempo cristiano nel divino disegno soteriologico, il cui  è la riconciliazione (Versoehnung) dell‟Uomo con Dio, del Figlio col Padre, del Tempo con l‟Eterno, dopo la estraneazione (Entausserung) storica cristiana, che costituisce l‟eone di Cristo e della sua Chiesa, il tempo cioè in cui Dio diventa Figlio dell‟Uomo della Storia. Dio non si rivela nella storia, ma come Storia, così come non si rivela nell‟uomo Gesù ma come Gesù Cristo. Durante la Storia, Dio diventa Uomo, ossia è Cristo, e in questa Sua riduzione () si manifesta come tempo escatologico, ovvero come Storia della Sua Immagine ().La Storia, pertanto, costituisce, nell‟ambito della complessiva  della salvezza, la possibilità di Dio di esistere storicamente come Uomo pneumatico; non come qualunque uomo, non nella generica e astratta temporalità, ma come Cristo, che rappresenta la possibilità di Dio (la sua Potenza) di manifestarsi come Storia escatologica. Nella manifestazione della Potenza divina come Storia umana consiste l‟amore di Dio per l‟Uomo. L‟amore di Dio verso l‟Uomo (= uomo spirituale) si manifesta storicamente come Parola, la quale “è Dio nell’atto della sua rivelazione”. 264  264

O. Cullmann, Op. cit, pag. 46.

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Che la Parola di Dio sia stata intesa come Logos, rientra nella stessa credenza per cui Dio si sarebbe manifestato nella storia. Ma così come la immagine di Dio () si manifesta come Storia di Cristo (), parimenti la sua Parola si manifesta come Verità, che è Spirito (), e non Ragione (). L‟atto spirituale è la carità ( ) verso il prossimo, che unisce, laddove l‟atto logico () è il dialogo razionale, la disputa (), che distingue, dividendo ciò che è originariamente unito (nel ). L‟esito del “calcolo” () del Logos è la scelta politica, che caratterizza l‟orizzonte esistenziale della vita sociale razionale della polis, dello Stato (= la forma di convivenza sociale improntata a princìpi di ragione). La socialità politica, dominata dal , segna il periodo spiritualmente pre-istorico dell‟Uomo, cioè il tempo anteriore all‟avvento dello Spirito nelle vicende umane, predisponendole alla sua destinazione escatologica (la Storia). La Rivelazione cristiana della Parola di Dio consiste nell‟annuncio che il vero tempo del vero Uomo, quello spirituale, è contrassegnato dall‟avvento del rapporto caritativo ( ), in cui si manifesta l‟avvento del Governo di Dio, alternativo all‟amministrazione politica (), dove regna il Potere di Cesare. Ciò significa che l‟atto di benevolenza (), che può sussistere anche fuori dell‟orizzonte di senso cristiano, “non acquista il suo significato specificamente cristiano e il suo senso profondo, se non quando sia ancorato nella storia della rivelazione e della salvezza”. 265 Rispetto allo Spirito, il  rappresenta il simulacro di un‟immagine astratta della realtà umana, un  non diverso da quello che il  era per il pensiero filosofico. A questo punto dello sviluppo della coscienza eideitica dell‟uomo, il nuovo orizzonte di coscienza cristiano poteva assumere come suo fondamento ontologico oggetto della sua rielaborazione o la rappresentazione del mondo formulata dal , e cioè il récit filosofico, di cui il pensiero spiritualistico si sarebbe costituito come il suo inveramento teoretico, ovvero la rappresentazione del mondo formulata dalla teologia ebraica sulla base del racconto biblico, che fungeva dunque da Mito rispetto al pensiero elaborato dalla cristo-logia. In altri termini, bisognava stabilire se Gesù

265

O. Cullmann, Op. cit, pag. 50.

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fosse il Messia annunciato dai profeti custodi del verbo di Jahvè, il Cristo Figlio del  biblico, ovvero se Gesù fosse il Figlio del , e come tale Filio-dell‟Uomo. Su questa essenziale destinazione antropologica va stabilita la distinta teologia cristiana della tradizione occidentale rispetto a quella del cristianesimo orientale, e alla rispettiva importanza assegnata alla verità intesa come rivelazione dell‟Essere, ovvero come celebrazione del Mistero. Le due possibili interpretazioni dell‟esperienza di Cristo, fanno di essa il centro della Storia spirituale dell‟uomo, e del Cristianesimo l‟orizzonte di coscienza spirituale dell‟intero svolgimento storico. Da qui l‟importanza nelle due tradizioni del rispettivo concetto di Chiesa, rispetto al quale va commisurato lo stesso giudizio teologico sulla realtà storica della società politica, ossia della forma di socialità pre-cristiana dialettica a quella ecclesiale, e delle potenze () (Rm., 13, 1) che operano dietro lo Stato visibile. Infatti, come nell‟uomo storico convive l‟elemento naturale insieme a quello spirituale, così nella Storia dell‟Uomo convive la vita eterna divina, rappresentata dalla Chiesa, con la finitezza della condizione mortale dell‟uomo, rappresentata dallo Stato. Con la morte di Gesù a opera dello Stato, la dimensione spirituale dell‟umanità redenta dal Cristo persiste come Chiesa, il cui corpo mistico di Cristo è già nel Regno di Dio, ma non ancora alla fine della Storia, che si concluderà con l‟avvento di Dio () al Governo spirituale del mondo. Nel contesto imperiale, il polo dialettico alla sfera individuale del cristiano non era la comunità dei credenti, ma la comunità politica, la quale, contrariamente a quella religiosa d‟Israele, preesisteva a quella ecclesiale, per cui il movimento della fede soggettiva per affermare la sua individualità religiosa doveva prima passare attraverso la mediazione comunitaria, solo all‟interno della quale poteva distinguersi. Ciò implicava che la relazione con la società politica coincidesse per il cristiano con la lotta religiosa che la sua chiesa conduceva contro il politeismo e l‟idolatria. Ciò suggellava il senso di appartenenza comunitaria dei fedeli, dando della loro testimonianza di fede un carattere quasi eroico e certamente epico, che in campo profano avevano le gesta militari e politiche. Una fede militante come quella cristiana non si affermava soltanto in interiore homine ma nella lotta contro il modello di vita romano, sicché l‟aspetto demoniaco del Potere non proveniva dalla fabula di una rappresentazione mitica, ma

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costituiva l‟esperienza diretta del quotidiano martirio della fede. Da qui la necessità di preservare la comunità religiosa per coltivare la fede, ossia di fronteggiare le minacce del Potere politico alla religione cristiana come fossero minacce religiose alla propria fede. Se si comprende questo, si potranno intendere le ragioni del trapasso del Cristianesimo storico dalla dimensione della fede escatologica a quella di una religione tradizionale, intimamente innestata alla realtà politica del suo tempo; trapasso contrassegnato dalla evoluzione della concezione del Potere che da ostacolo alla fede ne diventa custode, con la conseguente determinazione politica della sua funzionalità ancillare, originariamente assegnata alla filosofia. Lo spostamento dei contenuti della ratio religiosa dalla sfera teoretica a quella politica caratterizzerà il processo evolutivo del Cristianesimo storico e della sua civiltà fino alla cinica estenuazione morale, che troverà l‟acme della sua parabola, da un lato, nella emancipazione razionalistica della cultura umanistica dall‟orizzonte religioso, e dall‟altro nella reazione fideistica del Protestantesimo al politicismo del cattolicesimo. Se la nazione ebraica era rassicurata nella fede dalla diretta assistenza divina, la chiesa cristiana lo era dalla benevolenza del Potere, che era la manifestazione storica del volere provvidenziale. Ma rappresentare la volontà di Dio attraverso le vicende della vita profana, significava inevitabilmente connotare la vita politica di significati escatologici prima assegnati esclusivamente alla vita religiosa, facendo pertanto della salus Romae il fine immanente dell‟operato della stessa Chiesa, concepita da Gesù come comunità caritativa dei convertiti di cuore dalla metanoia e ora dedita invece alla conversione religiosa dei popoli per azione politica sotto l‟egida di Roma. La caratterizzazione romana della Chiesa cattolica è più di un contrassegno topografico: costituisce il senso proprio della sua storica peregrinatio. Lo schema di rappresentazione generale della salvezza cristiana che si è sviluppato storicamente nella cultura ecclesiale si può cogliere seguendo due tracce di percorso: la prima dominante (Logos = pensiero esclusivo = polemos = dialettica = politica = giudizio = necessità = Nomos), la seconda ereticale (Spirito = pensiero inclusivo = charitas = comprensione = perdono = assoluzione = possibilità = Libertà). Il primo percorso conduce alla Giustizia, quale criterio di corrispondenza razionale del valore universale con la sua applicazione concreta in ogni caso simile. Il secondo porta invece alla Responsabilità morale della

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scelta soteriologica nel caso particolare. L‟esegesi scritturale secondo il primo percorso, liberando da ogni afflato empatico la partecipazione simbolica alla verità divina attraverso la condizione personale della fede, acquista valore puramente testimoniale, in quanto le cifre convenzionali che ne custodiscono i contenuti razionali sono garantite non più dalla interiore coscienza, il luogo mistico dell‟unità partecipativa, ma dalla forma legale custodita dall‟istituzione ecclesiastica, la empirica Stiftung da cui ha origine la funzione significante dei segni scritturali e, in virtù della loro esegesi canonica, anche di ogni esperienza simbolica della vita storica della  intesa razionalisticamente quale entità sociologica e non più, come in origine, carismatica. L‟istanza sistematica della fede cristiana avviata con la canonizzazione esegetica a diventare religione, induce gli apologisti dei primi secoli a utilizzare le fonti del pensiero pagano a sostegno filosofico del messaggio evangelico, recuperando così entro il suo precipuo universo messianico ed escatologico la tradizione naturalistica e idealistica contro cui si era anteposto il cristianesimo delle origini. Il risultato teologico canonico, per quanto in fieri, non può non risentire del conseguente sincretismo teorico, il quale, se per certi versi sviluppa un incessante processo di raffinamento teoretico dei dogmi teologici, per altri versi custodisce un insopprimibile potenziale ereticale, la cui tensione ha rappresentato tanto la storia dinamica della Chiesa profetica quanto il carattere mondano della Chiesa istituzionale. Ma, a fronte delle conseguenze storiche di tale assimilazione culturale, l‟acquisizione del Logos come Spirito della vita universale trasforma il senso originale dell‟agape cristiana, che è carità e bontà, che sono le qualità della virtù morale dell‟uomo spirituale, nel senso mediato di ragione e giustizia, che sono gli attributi ideali funzionali al concetto d‟ordine sociale e proprii dell‟uomo politico. E‟ difficile non vedere qui un tipico caso di “pseudomorfismo”, ossia, in termini evangelici, di “vino nuovo in otre vecchio”. Le implicazione ideologiche di tale travisamento teoretico furono tali da costituire la filosofia come viatico metodologico per ogni giustificazione teologica dei contenuti veritativi del Vangelo, il cui messaggio di caritatevole inclusività venne trascritto nei termini razionali della logica dialettica, ovvero della esclusività, per cui il concetto di fratellanza universale delle concrete persone spiritualmente unite in Cristo, fu interpretato logicamente come

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uguaglianza universale degli enti razionalizzati cioè omologati secondo ragione, e la  carismatica riunita dalla Chiesa cattolica come l‟umanità socializzata sotto una “pace perpetua” politicamente garantita da uno Stato universale. In questo modo, il processo di evangelizzazione cristiana si tradusse in fenomeno di razionalizzazione culturale delle società cristianizzate. Storicamente, finquando la spinta propulsiva della fede escatologica riuscì a contenere entro l‟universo di senso teologico le spinte messianiche del messaggio di libertà insito nello spiritualismo evangelico, tale da riservare alla filosofia una sua funzione ancillare, l‟evangelizzazione riuscì a conseguire i suoi scopi ecclesiali vincendo ogni resistenza interna (ereticale) ed esterna (pagana); ma allorquando l‟assestamento canonico stabilì i confini dell‟ortodossia del pensiero cristiano, le tensioni razionalizzatrici intrinseche allo stesso pensiero filosoficamente guidato provocarono un incessante movimento teoreticamente eversivo dell‟ordine canonico, al fine di emancipare il pensiero filosofico dai limiti teoretici e morali entro i quali era stato costretto dalla ortodossia della fede. E poiché nel concetto di “fede” andava a convogliarsi ogni riferimento alla realtà trascendente dello spirito umano, di contrappasso nel concetto di “ragione” filosofica andò a concentrarsi tutto intero il senso immanente del pensiero umano emancipato da ogni vincolo religioso, con la conseguenza che l‟evangelizzazione universale nel segno dello spirito divino, prodottasi con gli strumenti della ragione filosofica, si convertì in universalismo razionalistico di segno umanistico opposto a quello teologico delle origini, secondo una modalità di rielaborazione ( ) del Mito cristologico già sperimentata dall‟illuminismo socratico verso la mitologia greca arcaica, e quindi dal tentativo dell‟idealismo platonico di riassorbire il Mito entro l‟universo di senso filosofico a scopo pedagogico, insieme didascalico e parenetico. Non a caso, in età cristiana, all‟umanesimo naturalistico moderno seguì l‟illuminismo cartesiano e poi l‟idealismo tedesco, che in Hegel trovò il novello Platone riformatore della dialettica, che ebbero come rispettivi critici il naturalista Aristotile e lo storicista Marx, secondando una corrispondenza molto significativa con la sequenza classica che rimane paradigmatica. La trascrizione politica moderna del fenomeno dell‟universalismo religioso cristiano in termini secolarizzati è il Liberalismo, il quale,

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operando una separazione razionalistica della fede escatologica che sostiene la libertà personale dell‟uomo cristiano, dalla libertà stessa, intesa come condizione della coscienza individuale, afferma la rilevanza spirituale del solo elemento visibile della condizione storica dell‟uomo, la sua esistenza sociale, giuridicamente garantita dal Potere. Il Liberalismo, rispetto al paradigma antropologico cristiano, si può concepire come una sorta di eresia monofisita, la quale poggiando sul solo elemento visibile dell‟esperienza umana, privilegia di questa la dimensione sociale, di cui la politica è il terreno elettivo delle virtù individuali di carattere pubblico, poste a garanzia del patrimonio economico in cui si sostanzia il bene reale della libertà personale. In questa prospettiva liberale, i contenuti pre-politici della libertà personale, quelli che sostanziano storicamente, sono di natura economica, e non spirituale, secondo uno schema che è rovesciato rispetto a quello cristiano originario, e dove predomina il dovere verso Cesare, cui appartengono originariamente i beni terreni detenuti dai singoli sudditi. La migliore garanzia della correttezza di Cesare nella salvaguardia dei beni economici individuali, consiste nell‟identificazione del suo Potere con quello della Legge, la cui formazione formale lo priva di ogni arbitrio nell‟esercizio concreto, il passo successivo è l‟identificazione dello stesso Cesare con il popolo comandato, tale che alla garanzia legale si saldi la garanzia politica della sovranità distribuita universalmente in ogni cittadino. Questa è l‟essenza teorica della Democrazia, versione secolarizzata dell‟esercizio universale della fede personale, sottratto a ogni mediazione ecclesiastica e a ogni normativa canonica diversa da quella delle Scritture e della coscienza. L‟universalismo liberale è individuale, come personale è la fede di ogni credente, laddove l‟universalismo democratico è collettivo, come comunitaria è la  carismatica. La differenza tra i due universalismi deriva dalla rispettiva concezione del Potere, ossia dalla loro origine. Quella che promana dal Logos, sviluppa il polemos, che ne costituisce l‟essenza esclusiva dell‟altro: la politica; quella che invece deriva dal Mistero, ispira la charitas, la sua essenza inclusiva dell‟altro: il governo. Affermando l‟origine politica del Potere, lo Stato, ossia la società razionale, si costituisce in conseguenza del pactum societatis in base al quale si determina il Potere appunto politico, prima del quale non esiste

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la civitas. Ciò significa che la sovranità è nei costituenti, e quindi il loro Potere costituente ne è la forma iniziale di esercizio dalla quale discende ogni altra attività politica. La teoria dell‟origine politica del Potere, identifica il Potere con la funzione di Governo, essendo la sua sovranità nient‟altro che l‟esercizio pratico del Potere politico da cui deriva, secondo lo schema idealistico per il quale l‟Idea sia la proiezione astratta dello stesso Molteplice. Dalla concezione pan-politicistica nasce la democrazia come universalismo politico, ovvero come Potere esclusivamente politico, tale cioè che esclude dalla sovranità ogni altra realtà sociale e metasociale dell‟uomo che non sia appunto quella politica. la Democrazia politica segna il trionfo del modello antropologico greco dello zoòn politikòn, che costituisce il nucleo razionalistico della dissolta sintesi cristologica. La concezione pan-politicistica a sua volta è l‟idealizzazione del modello politico greco originario, riservato all‟uomo razionalmente virtuoso (lo  aristotelico), ossia la sua proiezione universale. In tal senso, la democrazia moderna nasce dallo spiritualismo cristiano secolarizzato e dall‟universalismo idealistico greco del quale la teologia cristiana si serviva per giustificare razionalmente la sua fede, trascritta in sistema di pensiero. La traducibilità del sacro Mistero della fede in termini razionalistici profani è dunque iniziata dalla stessa apologetica cristiana, la quale man mano che si andava a definire come Chiesa universale, canonizzando la versione ortodossa della fede, escludeva logicamente dalla sua ortodossia ogni altra esegesi, ritenendola eretica. Universalismo razionalistico ed esclusivismo logico sono dunque correlativi ideali. Il razionalismo moderno, a partire dal Rinascimento, riprende in chiave antropologica la chiave di lettura gnostica del dualismo metafisico, sostenendo, con Marsilio Ficino, la corrispondenza tra la duplice natura dell‟anima, sospesa tra tempo ed eternità, e il dualismo sociale tra la minoranza intellettualmente libera e in grado di una propria auto-nomia, e la maggioranza degli uomini in preda alle passioni e perciò in condizioni solo di servire e di essere guidati dagli eletti sulla strada della civiltà. L‟élite illuminata moderna era quella dei philosophes, la cui missione redentrice era appunto di guidare moralmente e politicamente le nazioni umane.

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Rimosso il principio gerarchico cristiano all‟interno dell‟unità morale del genere umano, la confermazione di questa unità in nome dell‟universalità della ragione doveva conciliarsi col dualismo antropologico delle “due nazioni” sociali. Se la visione “cattolica” dell‟etica evangelica rimaneva pur sempre circoscritta all‟orizzonte religioso del Cristianesimo storico, l‟universalismo filosofico dell‟etica razionalistica investiva la comune natura antropologica dell‟uomo di ogni tempo, cultura e religione, per cui “la morale di una società propriamente umana doveva avere fondamenta tali da impegnare ogni essere umano in quanto umano e non contare su autorità sovra-umane o extra-umane, sempre costrette a portare il fardello, per così dire, di un peccato aggiuntivo: aver avuto voce senza rappresentare che una piccola porzione di umanità”.266 La negazione della Rivelazione cristiana, delegittimando l‟autorità morale della Chiesa, apriva la questione della successione alla sua funzione di guida resa vacante, sicché “i filosofi dovettero prendere il posto del clero come governanti spirituali e custodi delle nazioni”, 267 sostituendo l‟etica razionale a quella evangelica. Ma quale fu il senso autentico di tale sostituzione? Infatti, anche quella cristiana fu una morale tesa a screditare l‟etica dello Stato pagano in nome di una ragione superiore a quella terrena, e anche quella evangelica era una dottrina universale, i cui “seguaci hanno posseduto fin dall‟inizio la salda coerenza di gruppo, hanno espresso la coscienza di un popolo e di una razza nuovi, ricchi di una fede, di una speranza e di un programma che si son proposti di instaurare nel mondo circostante per superarlo e soppiantarlo”,268 ma, con la decisiva e duplice differenza a) che l‟opposizione cristiana era del tutto impolitica, e cioè di carattere morale e spirituale, e non politicamente sovversiva; b) che l‟universalismo cristiano era diretto a ogni persona, ma non a tutti indiscriminatamente, ossia a ognuno che si fosse convertito alla fede attraverso una metànoia spirituale, e non a prescindere da tale conversione. L‟universalismo razionalistico, invece, intendeva esplicitamente comprendere tutti gli esseri umani e di imporre

266

Z. Bauman, Postmothern Ethics (1993), tr. it., Milano (1996) 2010, pag. 31. Ibidem. 268 E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 212. 267

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politicamente il suo codice etico, in nome di una generica “natura umana” la cui astratta determinazione ideale ripiombava lo status antropologico dell‟uomo nell‟antico naturalismo cosmologico precristiano, dal quale il Cristianesimo si era emancipato predicando la differenza spirituale dell‟uomo redento da quello naturale. L‟egalitarismo razionalistico del moderno umanesimo ateo contraddiceva il suo naturalismo con la teoria neo-gnostica della differenza cognitiva tra quanti, i più, che ignoravano quale fosse la “vera” natura umana, cioè quella appunto ideale, e quanti, i pochi eletti filosofi, ne fossero a conoscenza e quindi erano chiamati a indicarla e a imporla alle masse ignare. La dislocazione della  dal piano spirituale a quello politico costituisce la differenza radicale tra la versione antica e quella del moderno gnosticismo, il quale ultimo afferma regressivamente quella centralità della sfera politica che era stata superata dallo spiritualismo cristiano, e che era stata tenuta presente dall‟eresia vetero-gnostica. Il moderno razionalismo, ponendo in primo piano la conversione etica universale attraverso l‟opera demiurgica del Potere politico, esalta la sua funzione legislatrice, in cui fa convergere storicamente la stessa azione politica, identificando il codice etico (razionale) con la Legge dello Stato (razionale). Il Bene personale dell‟etica cristiana diventa ora l‟Interesse individuale, il cui amour-propre sostituisce la charitas evangelica, con la conseguenza che tale individualistica “virtù”, essendo “universale” per statuto etico, contraddirebbe universalmente il bisogno di fondersi nella socialità degli altri interessi, spingendo anzi ad affermarsi contro ogni istanza collettivistica, se non intervenisse appunto la necessità dell‟illuminazione a opera del voltaireiano “homme raisonable”, dedito per missione ad aggiustare il kantiano “ramo storto” dell‟ignorante umanità con l‟autorità politica / morale che gli deriva dal suo ruolo morale / politico. Da questa istanza soteriologica nasce l‟esigenza di costituire lo Stato quale istituzione dell‟interesse comune, che è tanto politico che etico, data l‟intercambiabilità dell‟autorità con il ruolo. E‟ appena il caso di ricordare che è la confusione della necessità inscritta nel Potere politico con la libertà di convincimento propria all‟autorità morale a generare il moderno totalitarismo statolatrico, esecutore della consegna etica per cui “agli uomini bisogna dire quali sono i loro veri interessi; se non ascoltano o sembrano essere duri d‟orecchi, devono essere costretti a comportarsi come i loro reali interessi richiedono: se

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necessario, contro la loro volontà”. 269 La conversione, operata dall‟azione illuminante del Potere, dell‟interesse individuale in interesse comune costituisce il moderno miracolo eudemonistico della umana Ragione, ben più universalmente efficace dell‟antica divina Provvidenza, misteriosa e imponderabile quanto la prima illuminata e prevedibile. Questa profana credenza segna il ritorno della cultura cristiana al Mito umanistico sotto forma di eresia monofisita, prodotto dialettico della critica razionalistica a una cristologia religiosa che per la simbiosi del clero col Potere politico aveva perduto nei secoli ogni tensione escatologica, divenendo la Chiesa perloppiù un instrumentum regni dello Stato. Questo esito storico è tanto più paradossale se pensiamo al contrasto che sussiste tra il Mistero, che connota l‟azione divina nel mondo, in cui s‟infrange nella coscienza di Giobbe la giustizia della Legge, la quale non è solo “codificazione del culto religioso” ma soprattutto del “divino volere”,270 rendendo aleatoria per la salvezza la sua stessa osservanza, e le necessarie certezze che invece connotano l‟azione del Potere, il cui successo offre la misura, umanissima, della sua giustezza operativa, oggettivamente, oltre ogni verifica di coscienza. A fronte del dubbio morale se l‟uomo possa congiungersi al Dio misterioso e ineffabile attraverso il suo umano e finito criterio di giustizia, si para la certezza del criterio politico della giustizia del Potere, basato sulla effettualità della sua forza, che è la legge di Cesare. La distanza, religiosamente insuperabile, tra il Dio onnisciente e l‟uomo ignaro, viene colmata politicamente dall‟etica della forza dello Stato, la quale, diversamente che nel pensiero greco, non è vincolata dalla conoscenza del Bene, non chiede consenso ma solo esaudizione. Ubbidire a Cesare hic et nunc, e servire Dio ad aeternitatem diventano atteggiamenti scoordinati, finalizzati rispettivamente al bene del corpo e al distinto bene dell‟anima, l‟uno legato alle certezze empiriche della vita politica, che è sapienza del mondo, l‟altro ai percorsi imperscrutabili della misteriosa sapienza divina. Distinti anche i loci dei rispettivi scenari esistenziali: da una parte la società con le sue regole costrittive, dall‟altra la coscienza con le sue istanze morali.

269 270

Zygmunt Bauman, Postmothern Ethics, tr. it. cit., pag. 33. A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. I, Gesù, cit., pag. 39.

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La trasformazione della fede cristiana nella libertà di coscienza in una religione dell‟obbedienza a Cesare, anziché a Dio, non poteva avvenire senza significative ripercussioni, come abbiamo visto supra a proposito delle dispute teologico-politiche. Se nel tardo giudaismo, soprattutto apocalittico, la tensione tra l‟ossequio alla sapienza carismatica di Dio e la giustizia perseguibile attraverso l‟ossequio alla Legge rimane latente e non consapevole, per cui legalismo e apocalittica “nella concretezza storica s‟intrecciano” strettamente, tanto che “la religione sentita come bramosia dell‟anima è inviluppata entro l‟involucro d‟una tradizione morta”, i due elementi antitetici “si disvilupperanno l‟un dall‟altro se non nella coscienza di Paolo di Tarso”. 271 5. L‟età della Chiesa segna la transizione storica dell‟umanità verso la progressiva perdita del carattere politico della sua esistenza sociale, ovvero il tempo in cui il Logos, cioè la logica umana del , resiste alla verità della Parola del divino. L‟eone storico, ovvero l‟età ecclesiale, è dominato dalla glossolalia che intreccia il senso spiritualistico della Storia sacra con il suo profano senso umanistico. E come dalla morte di Socrate sorse la risposta filosofica di Platone sotto forma di Mito idealistico dell‟Essere ontico, rielaborato dal pensiero logico, così dalla morte di Gesù sorse la risposta teologica di Paolo sotto forma di Mito cristologico dell‟Essere spirituale, rielaborato dal pensiero teologico. Ma entrambe furono, nella loro distinta specificità teoretica, risposte mito-logiche, ossia elaborazioni di un racconto mitico, aventi in comune l‟assunzione del logos come strumento di universalizzazione del fondamento di verità, il quale, stabilito da

271

A. Omodeo, Loc. cit., pagg. 44-45. La crisi religiosa del giudaismo che attraversa i primi secoli a. C. divenne acuta durante il predominio ellenistico dell‟età dei Seleucidi, quando il culto di Jahvè rischiò di sparire con l‟anacronismo della legislazione mosaica e l‟esigenza di confrontarsi culturalmente col dominante razionalismo nella nuova realtà geo-politica. Essa si risolse a favore della tradizione sotto la nuova dinastia degli Asmonei, che regnò sino all‟ingresso di Pompeo in Siria nel 63 a. C., e “con Daniele la tenace fede giudaica intraprende inconsciamente, e inconsciamente prosegue con tutti gli apocalittici sino a Gesù, la rinnovazione dell‟intuizione di Dio”, consistente nell‟adeguare gli astratti attributi divini alla concreta realtà dell‟esperienza umana: “bisogno cui soddisferà solo Gesù”, esaudendo il bisogno apocalittico della rivelazione divina: Ivi, pagg. 49-50.

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entrambe fuori del mondo, la tradizione platonica collocava nella dimensione ideale, e la professione di fede cristiana ubicava in interiore homine. Sia l‟idealismo platonico che la teologia cristiana, universalizzando la Verità con lo strumento della logica, finivano per collocarla comunque fuori della Storia, per cui, volendo conservare l‟assunto universalistico della verità e con esso lo strumento teoretico della logica che lo permetteva, ogni recupero della dimensione storica della verità passava attraverso la rielaborazione del significato di quella universalità, ossia consisteva in un continuo processo ermeneutico. Ma poiché il significato della verità dipendeva dal suo grado logico di universalizzazione, la ricerca della verità finì col coincidere con la stessa ricerca di una miglior logica, cioè di una più coerente metodica del discorso razionale, la cui tecnica scientifica ha finito per esautorare i contenuti stessi della verità, logicamente extra-scientifici e, in quanto fideistici, extra-metodici. La filosofia, come tecnica del discorso logico, divenuta metodo scientifico, ha sostituito, confondendole, l‟universalità con la verità, intendendo questa come un metodo del discorso razionale (la dialettica), prescisso da ogni contenuto di fede, ossia da ogni fondamento ontologico, e cioè da ogni concretezza esistenziale, che per l‟uomo è l‟orizzonte della Storia.272 L‟esito anti-storico del pensiero filosofico, si manifesta come nichilismo dei valori, il quale, nel campo religioso del pensiero teologico, si manifesta come scristianizzazione e conseguente miscredenza ateistica. L‟ateismo è l‟esito della creduta identità della Parola di Dio con il Logos filosofico, e quindi della coincidenza della Verità con l‟universalità razionalistica. Questa credenza costituisce il Mito della tradizione filosofica, trasfuso nella tradizione teologica cristiana come cristo-logia del Verbum caro, intesa come esegesi del Logos storico. La storia di questo guazzabuglio teoretico è la vita stessa della Chiesa

272

La traduzione in termini pratici dell‟esigenza nata dall‟universalità razionalistica di uniformare il molteplice diverso all‟unico uno del modello ideale è il lavoro, ossia l‟opera di trasformazione della realtà naturale in mondo storico, da cui discende l‟idea di politica in senso greco, che sostituisce al Governo, inteso come gestione del vivente l‟idea del Potere come trans-formazione dell‟esistente economico-naturale in realtà etico-ideale.

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cristiana, delle sue vicende spirituali trascritte in chiave politica, e viceversa, delle sue vicende politiche trascritte in chiave spirituale, dove gli atti di santità si frammettono ad azioni efferate, e la pietà fraterna si alterna all‟odio politico. Una storia che è già Storia della salvezza, ma di una salvezza che non è ancora compiuta. L‟incompiutezza della Storia, che lascia sussistere la possibilità della salvezza entro il percorso che giunge alla  fa dell‟esperienza umana un‟esperienza di libertà, in virtù della quale la condizione storica si protende alla sua Verità come Mistero, e non come processo necessario del Logos alienato che torna al suo Sé. La trascrizione logicistica della Storia della salvezza compiuta da Hegel, è ricalcata sull‟identità della Parola pneumatica col Logos filosofico, e il suo esito ateistico mostra chiaramente l‟impercorribilità di quella lettura ermeneutica del Nuovo Testamento, la quale, nonostante la riforma della logica dialettica, si espone, come già il Mito idealistico platonico (da parte di Aristotile), a una rielaborazione naturalistica (da parte di Marx), che ne confuta la pretesa necessità. La lettura più “filosofica” del Nuovo Testamento che sia stata tentata dopo quella di Hegel è quella approntata dallo storico Adolfo Omodeo, la quale costituisce, anche per le sue esplicite ascendenze neohegeliane, costituisce il pendant esegetico alla cristologia del Cullmann, che, con quelle di Bultmann e di Rahner, rappresenta l‟orizzonte teologico teoreticamente più avanzato in ambito non solo protestantico. Omodeo ritiene che la pur cospicua produzione letteraria protestantica, soprattutto tedesca, sia viziata metodologicamente dai presupposti dogmatici stessi della “teologia biblica”, che consistono nella “precisazione del contenuto di fede” delle sacre Scritture, sicché “l‟immenso lavorio storico teologico del protestantesimo n genere e della Germania in ispecie […] sulle origini cristiane […] fu dato dal programma stesso della riforma, la quale insieme poneva i limiti e le barriere entro cui questa indagine doveva circoscriversi”. 273 La “teologia storica” del N. T. dunque, sia pure contrapponendosi alla “teologia dogmatica”, si serve delle stesse “categorie storiche della disciplina tradizionale”, il cui presupposto è “l‟esistenza d‟una dottrina, d‟una teologia di Gesù e degli apostoli”, di cui l‟analisi storica “deve

273

A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. I, cit., pag. XVI.

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limitarsi a riprodurre esattamente i concetti”. 274 La riduzione della sedicente “reine geschichtliche Wissenschaft in scienza meramente descrittiva e classificatrice” costituiva il prodotto conseguente dell‟ “arrestarsi dell‟impulso veramente storico, della esigenza conoscitiva della storia” del cristianesimo, ossia “la conoscenza del [suo] processo genetico”, per cui la storia “abbassata a mero filologismo” utile “per la costruzione teologica”, “viene decapitata della sua finalità autonoma per servire di strumento a meglio intendere una pericope evangelica o un passo oscuro d‟epistola apostolica”. 275 Ma, stabilita l‟equivalenza di “concetto storico” con “processo genetico”, l‟A. contesta la stessa nozione di “pura scienza storica” come una disciplina che “vuol essere qualcosa di distinto dalla storia”, e quindi intimamente contraddittoria. Il protestantesimo, come diramazione del cristianesimo, non ha ancora superato quella contraddizione interna di tutto il cristianesimo, in cui la storia è simultaneamente affermata e negata; perché, come processo dello spirito, in cui il Logos s‟innesta incarnandosi, la storia deve divenire la vita del Logos [sic!], ma la chiave di questa storia si perde nel mare senza fondo della sapienza di Dio, poiché il Logos è il Logos di Dio, e Dio solo, e non l‟uomo, può conoscer ciò che ha fatto: sì che la storia diviene divino 276 mistero.

Concreta, in senso gentiliano, per Omodeo è “la vita del Logos”, cioè la sua fenomenologia, mentre astratta è la “dottrina” religiosa, costruita intellettualisticamente ancora secondo un costrutto sistematico di retaggio aristotelico fondato sulla distinzione di contenuto da forma, sostanza da attributo.277 E pertanto la materia staccata dalla sua forma, poiché assolutamente informe non può rimanere, sgretolata e riplasmata, viene ad assumere una forma che è quella del teologo rielaboratore, che con i teologumeni astratti compone un

274

Ivi, pag. XVIII. Ivi, pag. XIX. 276 Ivi, pagg. XX-XXI. 277 Ivi, pag. XXI. 275

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mosaico. Così, ad esempio, l‟amore cristiano […], trasformata in un precetto di dottrina, diviene un precetto umanitario di filosofia del secolo XVIII; il regno di Dio, come articolo di dottrina, diviene un brano di filosofia kantiana […]. Gesù si trasforma […] in un elaboratore a freddo di religione, assai simile ai perfetti legislatori sognati dagli storici illuministi; e Paolo […] diviene un teologo bizantino, [ridotti entrambi a] personaggi 278 [che] non hanno vita.

Da qui l‟inutile “affannarsi della teologia storica a ricercare l‟originalità di Gesù in questo o in quell‟astratto concetto”, ovvero “l‟affannarsi a distinguere ciò che è nuovo nella predicazione di Gesù da ciò che si può considerare come un tributo pagato ai tempi, e a giustificarlo per questi rispetti”, creando un quadro di “pensiero gelatinoso” in cui la teologia di Gesù e degli apostoli “assume complessivamente un colorito miracoloso, come abrupta manifestazione della dottrina della vera religiosità: senza che l‟autore s‟accorga che tale miracolosità non è in re, ma nel proprio modo di concepire la storia”. 279 La autentica “esigenza storica”, cercando di “spezzare l‟angusta cornice della teologia protestante […] ha cercato di rendersi autonoma dai bisogni ecclesiastici particolari del protestantesimo”, rifiutandosi “alla consueta tra svalutazione idealizzante, che di esse compie la teologia storica” e cercando “di limitarle entro l‟ambito spirituale in cui si svolsero, d‟illuminarle con le credenze popolari pagane o giudaiche e con le innumeri superstizioni del sincretismo greco romano”, facendo per tali versi “di far rientrare il cristianesimo nella storia generale delle religioni”, ovvero “d‟innestare la storia di Gesù alla storia religiosa d‟Israele”, fino ad arrivare “alle recentissime interpretazioni del cristianesimo come mito fantastico scaturito fuori dal sincretismo religioso ellenico-orientale”, oppure “dalle condizioni sociali dello Impero romano”.280 Ma, nonostante “tutto questo movimento di reazione contro la teologia storica”, il tentativo di “comprendere il cristianesimo nel suo nesso con tutta la storia”, rimane insoddisfatto perché privo di “fulcro per cui si

278

Ivi, pag. XXII. Ivi, pag. XXIII. 280 Ivi, pagg. XXV, XXVI e XXVIII. 279

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concepisca l‟accrescersi della storia, il suo movimento in avanti”, costituito da quel “concetto organico della storia, senza il quale noi non potremo giammai cogliere quella connessione del cristianesimo con la storia del mondo”, “l‟interna necessità per cui le cause si alterano negli effetti”, la quale sola risolve “il processo naturalistico […] in processo dialettico dello spirito”.281 Così come non è sufficiente risalire alle fonti per comprendere il pensiero di Paolo, parimenti “con l‟aggregazione atomistica delle credenze non si può ricostruire la storia”, cioè “la vita stessa”, perché “rimarrebbe il problema insolubile d‟intender come Paolo poté credere a questa sua religione, viverla, farne la passione e l‟amore dell‟anima sua, e affrontar per essa il martirio perpetuo dell‟apostolo e il supplizio: cioè come questa religione possibile sia divenuta vera religione”. 282 E perciò se io voglio intender Paolo, bisogna che le sue credenze le intenda nel loro nesso organico: nulla mi consente di fare a pezzi ciò che è vivo. E nel suo vivente organismo la fonte mi apparirà tra svalutata, con una funzione sua originale nel nuovo sistema. La fonte nella sua concretezza ci appare sempre rivissuta trasfigurata; è l‟intellezione e la valutazione che Paolo fa di quella fonte riducendola nel suo spirito e assimilandola. La fonte astratta, per sé, non è prima, ma dopo la concreta assimilazione spirituale, [essendo vivamente reali e storici] l‟interpretazione sempre nuova di chi intende tale fonte, e tale realtà estrinseca interiorizza e ricrea, riferendola ad un mondo spirituale assolutamente nuovo e suggellandola d‟un valore senza il quale non è realtà, [per cui] il senso d‟ogni fonte è dato dal concreto conoscerla, prima del quale [esso] non è. [In tal senso,] la fonte non è materiale bruto, ma è l‟organismo della concreta coscienza, è categoria spirituale.283

E dal momento che “la visone di ogni uomo, sia pure il più umile, è simultaneamente la creazione del mondo, del suo mondo, della sua realtà, in cui il mondo d‟altri rivive in un nuovo nesso vitale”, 284 ne consegue che tale “nesso” soggettivo sia lo stesso criterio di verità della

281

Ivi, pagg. XXIX e XXX. Ivi, pag. XXXI. 283 Ivi, pag. XXXII. 284 Ivi, pagg. XXXII-XXXIII. 282

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“visione” dell‟interprete. Infatti, fuori di quel nesso vitale l‟interprete non si può elevare senza indebitamente astrarsi dal processo ermeneutico, per cui ogni interprete interpreta veridicamente il suo Paolo, facendo dell‟arbitrio individuale il criterio della concretezza storica, e della assoluta soggettività lo stesso dell‟assoluta oggettività. Questa conclusione paradossale era inscritta nelle stesse premesse dell‟idealismo attualistico di Omodeo, che annulla la storia del Cristianesimo nella esperienza vivente di ogni cristiano, ossia nella sua coscienza attuale, la quale, essendo del tutto storica, non distingue più l‟immagine vera da quella semplicemente pensata, e dunque si adagia nella rappresentazione mitica dell‟Essere, quella appunto in cui è assente dal giudizio di realtà la distinzione logica. Ma l‟identificazione della Storia col Mito fa della storiografia una mito-logia, all‟interno del cui orizzonte di senso ogni critica filo-logica costituisce una rielaborazione mitica: esattamente quanto Omodeo contestava alla teologia storica protestantica. Infatti, ciò che l‟A. non scorge, e che anzi imputa come limite metodologico dello storico aristotelico, è che il processo genetico è esso stesso un contenuto formato, ossia il prodotto di una visione razionalmente unitaria del divenire per causas che è fondata dogmaticamente da una posizione ontologica, la cui fede consiste nella credenza che l‟Essere è. Senza tale fede ontologica, non sussisterebbe alcun “processo” storico, mancando di esso la “forma” del suo divenire ciò-che-è originariamente. E poiché è logicamente contraddittorio che ciò-che-è possa divenire, il processo storico non può essere logico, ma se vuole pensarsi come processo, cioè realtà in divenire, deve potersi pensare come Mito. Sicché, il Logos creduto essere (divino) è altro dalla Sua forma incarnata, la quale, nella sua alterità da Dio, non-è appunto l‟Essere di Dio, ma il Suo divenire ciò-che-non-è Dio, ma la Storia del Figlio, il Suo Mito. Il pensiero che perda questa distinzione tra Dio e Figlio, perde anche la nozione della differenza ontologica tra Essere eterno e Divenire storico, e con essa il senso di ciò che è divino da ciò che è umano, riducendo il Tutto a una delle due possibili parti: ossia, attribuendo la sola realtà a Dio (panteismo), ovvero solo al Figlio dell‟uomo (monofisismo), concependo l‟ “eterno” Essere di Dio senza storia, ovvero un “processo storico” senza alcun fondamento ontologico: un essere necessariamente statico (idealismo) o un libero divenire (storicismo). Essendo i due pensieri opposti ugualmente

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astratti, è possibile identificarli convertendoli reciprocamente come “eterno processo della realtà che si conosce” 285 (idealismo storicistico o storicismo idealistico). Ma la “integra totalità” dello “organismo spirituale” da cos‟altro è dato se non dalla corrispondenza di senso del significato razionale col suo significante simbolico? Se non esistesse alcun fondamento ontologico, niente avrebbe più un significato possibile, perché non sarebbe possibile stabilire alcun processo razionale, essendo ogni processo possibile, e quindi nessuno vero, ossia corrispondente necessariamente al suo fondamento. Il quale, essendo una verità di fede, anche la necessità insita nella sua corrispondenza razionale è fideistica, ossia valida per quanto vigente la credenza a essa relativa. Venuta meno la fede nel fondamento, vien meno anche la credenza nella necessità delle sue conseguenze razionali, cioè nella possibilità razionale del suo “processo storico”. Una possibilità che non sia legata a una necessità razionale, sarebbe del tutto astratta da ogni concretezza reale, e quindi una mera ipotesi priva di certezza, priva del tutto di verificazione fattuale. Ma poiché la posizione per fede è affermazione di realtà, l‟oggetto della fede coincide con la realtà stessa, per cui negata la fede viene negata con essa la stessa realtà nel suo fondamento ontologico. Il fondamento della fede cristiana è che Gesù sia il Cristo figlio di Dio e dell‟uomo. Senza tale fede, cioè senza tale affermazione di realtà, non sarebbe possibile stabilire alcun processo escatologico come “valore” immanente al Suo insegnamento, che è razionale in quanto possibile valore di fede; ove “possibile” vuol dire appunto “storicamente razionale”, e perciò concreto. Ed è la concretezza della fede a fare di essa non già una mera credenza fra tante, una “casualità”, ma il fondamento del razionale processo unitario. Fede e ragione sono dunque intimamente legate quanto l‟Essere e il suo possibile divenire, sicché “cristianesimo”, “giudaismo”, “ellenismo”, non sono mera nomina ma intuizioni del mondo la cui fede segna l‟orizzonte di senso dei processi storici che vengono definiti attraverso la loro forma rappresentativa, la cui razionalità è legata indissolubilmente alla fede nella loro concreta possibilità, e, viceversa, la cui concretezza è legata alla fede nella loro

285

Ivi, pag. XXXIII.

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razionale possibilità. Ciò che consente alla potenza-possibilità di divenire atto-attualità è la fede nel loro legame razionale, ossia la credenza nella loro attuale necessità. La necessità è dunque l‟attualità della razionale possibilità; non di una possibilità astratta e indeterminabile, ma di una concreta possibilità, che è solo della possibilità storica. In tal senso, possibilità razionale e storicità sono sinonimi, segnando l‟orizzonte di senso entro il quale ha valore di fede, ossia è credibile, il processo storico legato al suo fondamento ontologico. Tutti gli storiografi diventano, perduta la fede nel fondamento dell‟Essere, dei “romanzieri mitici”, perché mitico è ogni racconto storico che ha perduto il suo “contenuto di credenza”, 286 cioè la credibilità del suo processo razionale. La Rivelazione cristiana è il fondamento, che per la fede è razionale, del senso escatologico della Storia, per cui la fede in Cristo costituisce il senso razionale stesso del processo storico: “non come principio astratto” (), come ipotetica credenza, ma come , ossia come il fondamento della “vita stessa della storia”. 287 La temporalità costitutiva del tempo logico, ossia il fondamento temporale del Logos, è il presente, che è il tempo in cui si manifesta l‟Essere come ente di pensiero. La temporalità costitutiva del tempo spirituale, ossia il fondamento temporale della fede nello Spirito, è il futuro, che è il tempo dell‟avvento in cui si manifesterà la gloria di Dio (). Poiché, però, la fede in “ciò che non si vede” e che costituisce “il fondamento di ciò che si spera” (Ebr., 11, 1) è presente, il rapporto che si stabilisce nella coscienza spirituale tra l‟oggetto della fede (fides qua creditur) e il suo contenuto spirituale (fides quae creditur) non è mai sincronico nel senso dell‟attualità del concetto logico, ma è contemporaneo nel senso della con-presenza della fede presente e della futura speranza nello stesso atto coscienziale, il quale in questo senso è con-prensivo rispetto all‟atto logico (che è) esclusivo dell‟inattuale. Il movimento proprio della coscienza fidente, che si muove tra il già e il non ancora, è paradossale per il pensiero logico, che lo assume come

286 287

Ivi, pag. XL. Ivi, pag. XLI

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una insidiosa molestia ( ). I due termini, che “chiariscono con maggiore evidenza la concezione neo-testamentaria del tempo”, sono  e .288 Il primo termine (evento) indica il “tempo stabilito”, “propizio” (Gv., 7, 6) ma non determinabile, e quindi ignoto, affidato a uno sviluppo avvenimenziale non dominato dall‟uomo, e reso “opportuno” ( ) dal volere salvifico di Dio. Il è pertanto l‟evento non ponderabile, e perciò di cui non si può stabilire a priori alcun “calcolo” razionale (), ma di cui solo si può attendere l‟attualità. In tal senso, l‟attesa del  costituisce il contenuto stesso della fede escatologica propria della coscienza cristiana, che concepisce in termini di certezza presente l‟evento non-attuale e dunque possibile. L‟evento che non-è attuale e che è possibile costituisce l‟oggetto proprio della fede: il , che è ontologicamente diverso dunque dall‟ente ( ciò-cheè), oggetto del pensiero logico. Poiché il tempo dell‟evento è stabilito da Dio, il  non può nonessere, ossia essere altro da ciò che dev‟essere, per cui la sua realtà ontologica non è dialettizzabile alla maniera dell‟ente logico, distinto dall‟errore, rispetto al quale esso è vero. La verità del  non deriva dalla sua distinzione logica operata dalla , ma è originaria, ossia arcaica (), stabilita sin dall‟inizio perché inscritta alla necessità divina del suo essere. E pertanto la verità dell‟evento non è razionalmente sostenibile né quindi logicamente confutabile. Esso è un evento fondamentale, posto dalla fede, e non auto-fondato dalla ragione, ossia astratto dalla sua verità fondamentale, dalla sua fede. E perciò il  è un evento essenzialmente concreto ontologicalmente diverso dall‟astratto ente di ragione. La sua imprescindibile opportunità ( ) non è da confondere con l‟opportunità propria del calcolo di convenienza ( ) inerente all‟economia politica, per cui la attualità del  è relativa alla coscienza della fede, ma la sua verità sussiste a prescindere da essa, la quale deve quindi solo riconoscerlo nel suo significato soteriologico. Infatti, solo all‟interno dell‟orizzonte di fede il  acquista significato e valore di evento di salvezza. E poiché l‟orizzonte di fede

288

O. Cullmann, Cristo e il tempo, tr. it. cit., pag. 61.

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cristiano è costituito dall‟evento della Rivelazione di Cristo, l‟orizzonte della fede cristiana coincide con la Storia di Gesù, solo all‟interno della quale gli eventi diventano storici, ossia significativi rispetto all‟economia di salvezza divina: , appunto. Quando Paolo invita i suoi lettori ad “approfittare” del  (Col., 4, 5; Ef., 5, 16), mettendosi al suo servizio (Rom., 12, 11), egli intende indicare non solo, per riprendere le parole di Cullmann, “ciascuna delle essenziali tappe temporali della storia” che “Dio ha scelto per attuare il suo piano salvifico in modo tale che il loro collegamento rappresenta, alla luce di esso, una linea temporale ricca di significato”, 289 ma anche gli eventi decisivi offerti dalla Parola divina intorno ai quali e a partire dai quali acquista significato la libera attività umana, il cui senso spirituale ne dipende come l‟  dipende dal . Ciò implica che, all‟interno di un percorso salvifico predeterminato dalla Provvidenza divina e non disponibile dall‟uomo, si attua un processo storico di libertà lasciato alla responsabilità dell‟uomo, tale che la sua fenomenologia manifesti la possibilità della volontà umana di aderire al piano di salvezza divino, oppure di adoperarsi, pur senza successo duraturo, di contrastarlo. Lo scacco di questi tentativi inani di opporsi al disegno divino si desume dalla precarietà di ogni successo del Male sul Bene, ossia sul carattere provvisorio delle decisioni umane di costruire una storia profana difforme da quella della salvezza divina. Si può ben scorgere, dietro la nuova simbologia cristiana, il senso greco della lotta della libertà umana contro la necessità del Fato, ma nel nuovo orizzonte di senso spirituale, la libertà dell‟uomo non è concepita come eccezione eroica a quella divina, ma come possibilità di aderenza o meno al piano salvifico provvidenziale; aderenza che il naturalismo pagano riferiva alla Fysis e che contrassegnava come atteggiamento coerente al Logos cosmico, ossia alle ragioni delle cose del mondo. Il secondo termine ( ) della concezione neo-testamentaria del tempo, indica invece la “durata”, che di per sé non è commisurabile ad alcuna estensione temporale, per cui, soprattutto nell‟uso plurale () neo- testamentale significa anche il senso dell‟eternità, ma pur sempre come “procedere infinito del tempo”, senza voler indicare, alla maniera platonica o moderna, alcuna “contrapposizione fra tempo ed

289

O. Cullmann, Cristo e il tempo, tr. it. cit., pag. 67.

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eternità, ma [solo] fra tempo limitato e tempo illimitato” 290 Ciò vuol dire che il singolo  ha un‟estensione temporale variabile e non determinabile fuori del suo significato escatologico, non fissato da una sequenza di avvenimenti collegati da uno o più rapporti di causalità, ma desumibile dal senso che riveste entro l‟  divina della salvezza. Sicché l‟eone può essere “cattivo” (Gal., 1, 4) in quanto è quello della Caduta, “passato”, in quanto limitato dalla creazione, ma può essere anche “presente”, se “limitato nelle due direzioni”, o “futuro”, se “limitato in una sola direzione, illimitato nell‟altra”. 291 L‟aspetto più rilevate è che il tempo eonico non soltanto non è scandito sugli avvenimenti profani, tale da poter essere costituito semplicemente da un certo numero di avvenimenti mondani, alla stregua di un‟era, ma non è neppure tempo precipuamente storico, stabilito cioè sul fondamento del piano di salvezza dell‟uomo, assimilabile quindi a un‟epoca. Esso, infatti, è tempo spirituale, essendo “il mezzo di cui Dio si serve per rivelare l‟azione della sua grazia”, 292 la cui durata in-finita è variabile per qualità di ciò che lo costituisce distinguendolo, e non per astratta e qualitativamente neutra scansione cronologica, per cui il suo significato è anch‟esso spirituale, e in tal senso con-legato agli altri per mezzo del  cristico nel processo lineare della salvezza divina, in cui Cristo appare a Giovanni come “il primo e l‟ultimo, l‟inizio e la fine”. 293 A differenza del tempo greco, “circolare”, quello proto-cristiano, secondo Cullmann, è “lineare”, attribuendoglisi un “inizio” () e una “fine” ().294 Dalla perpetua ciclicità naturalistica, l‟uomo greco può emanciparsi solo attraverso l‟evento eroico memorabile, col quale l‟eroe supera l‟alveo del ripetitivo processo cosmico del tempo che condanna le azioni umane all‟oblio. La memoria era pertanto il modo di uscire dal tempo, o quantomeno a resistere alla sua fatale edacità. La forma spazializzata del tempo secondo il pensiero greco rappresenta l‟eterno come un altrove migliore rispetto alla condizione

290

O. Cullmann, Cristo e il tempo, tr. it. cit., pag. 69. Ivi, pag. 70. 292 Ivi, pag. 74. 293 Ivi, pag. 73. 294 Ivi, pag. 74. 291

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mortale del qui, per cui “la liberazione [dalla condizione temporale finita] può consistere soltanto nel passare dall‟esistenza di quaggiù legata al ciclo del tempo, ad un aldilà, sottratto al tempo e sempre accessibile”.295 La compattezza del ciclo cosmico naturalistico, fa del tempo una scansione fasica, per cui ogni fase costituisce una frazione del processo naturale di sviluppo del ciclo, che potenzialmente è già completo al suo inizio, che dunque è antecedente al suo compimento in quanto ne è l‟attesa.296 Percorrere il tempo equivale dunque per i Greci attraversare le fasi del processo naturale delle cose, entro il quale il percorso fasico è lineare come lo è il segmento rispetto alla curva della circonferenza. Tale processo appare circolare in quanto visto idealmente nel suo insieme, come processo finito, che alla fine ricomincia daccapo. Ed è in questo ricominciamento eterno, in cui ogni inizio coincide con la fine, che si rappresenta il processo fasico come un ciclo. Ma se è possibile stabilire un inizio e una fine di un ciclo, ciò vuol dire che si pensa al suo sviluppo, per cui l‟ente vien fuori dal niente e torna al niente. Questo eterno ritorno dell‟uguale è quello del processo compiuto, non delle singole fasi del suo distinto sviluppo, le quali pertanto hanno anch‟esse un “inizio” e una “fine”. Ma proprio perché tali inizio e fine sono intrinseci al concreto processo totale dell‟essere del‟ente, la loro distinzione è data dalla astrazione da esso, per cui le fasi costituiscono delle proiezioni ideali, la cui realtà è solo quella interna alla conoscenza che le pone in essere come oggetti eidetici, mentre la loro realtà concreta è solo nel processo nella sua interezza. In questo senso, l‟essere ideale e l‟essere reale non coincidono nel pensiero greco, che distingue perciò la conoscenza dell‟essere (come ente) dall‟Essere in sé (come totalità cosmica). Il tempo di durata (  ) non può che riferirsi al processo ciclico nella sua interezza, mentre alla fase è riservato il tempo della conoscenza, che è sempre presente. In questa infinita attualità ideale consiste l‟eternità come eterno presente di ciò che è. E‟ il tempo della coscienza, che ferma il moto della natura,

295

Ivi, pag. 75. In questo senso Bergson ha inteso la durata. Si ricordi l‟immagine del discioglimento dello zucchero in L’évolution créatrice (1907), trad. it., Milano 2012 , pag.19. 296

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astraendo una sua fase del ciclo per ipostatizzarla idealmente come l‟immagine ( ) del Tutto. Nel ciclo vitale naturalistico dell‟uomo, che per i Greci era quello della società politica, le singole esperienze individuali costituiscono i frammenti della vita collettiva, ognuno dei quali rappresenta una vicenda esistenziale che la cultura antica non considerava in sé, ma solo all‟interno del suo significato sociale. Su questo frammento d‟esistenza, il Cristianesimo ha fondato la presenza spirituale di Dio, il quale ha preso il posto di ciò che era la natura nella rappresentazione antropologica dell‟uomo. All‟interno del disegno provvidenziale divino, l‟esistenza spirituale dell‟uomo è un frammento personale in cui Dio si è manifestato come Storia di Cristo, compendiando in essa il processo spirituale stesso della salvezza del singolo e dell‟intera umanità. La caratteristica dunque del processo spirituale, che lo differenzia dal ciclo naturalistico antico, è la coincidenza del senso spirituale dell‟esistenza nella singola persona e nell‟intera umanità. La salvezza personale, dipende dal libero rapporto che l‟uomo stabilisce con Dio, ossia dalla sua storia spirituale, mentre la salvezza dell‟umanità dipende dall‟economia del piano divino, sul quale l‟uomo non può intervenire. Dal punto di vista spirituale, pertanto, la salvezza individuale e non già la salvezza collettiva, è il paradigma del piano della Storia, essendo la collettività un‟unità empirica di singole esperienze esistenziali, che nello spirito costituiscono la , nella carne costituiscono la . La grande innovazione culturale della predicazione cristiana consiste appunto nell‟aver riposto nell‟esperienza umana personale il senso della vita spirituale dell‟intera umanità; senso spirituale dell‟esistenza umana che viene indicato col termine neo-testamentale di “salvezza” (). E‟ questa Storia spirituale della salvezza che, costituendo il modello della vita umana secondo la fede in Cristo, viene rappresentata, secondo la rappresentazione della Bibbia, come Storia della umanità in senso naturalistico, per cui si addiviene a una sovrapposizione tra salvezza umana in senso personale e salvezza spirituale dell‟umanità. Ma la centralità storica di Cristo, Verbo incarnato, sta a indicare esattamente che l‟unico piano di realtà della salvezza spirituale è quello personale, che appartiene a Dio, ed è quindi sacro e non disponibile dall‟uomo, laddove ogni altro piano di realtà della vita umana è segnata dalla dimensione politica, e perciò appartiene a Cesare.

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I due piani di realtà non sono antropologicamente equivalenti poiché il piano personale è quello concreto dell‟esistenza, l‟unico in cui converge il  e la , mentre il piano sociale è informato al solo principio della sopravvivenza naturalistica della specie, che è un‟entità collettiva astratta rispetto alla concreta esistenza dei singoli uomini, il cui nucleo originario di vita sociale è quello familiare, del quale lo Stato antico è la forma razionale generalizzata, ossia resa astrattamente universale, priva di determinazioni umanamente concrete. Ed è questa astratta immagine della condizione umana a essere contestata dalla fede spiritualistica cristiana come un falso . Ma parimenti idolatrica è ogni concezione universalistica della salvezza, attribuita a una collettività astratta dall‟esistenza concreta della fede, e cioè dall‟esistenza personale. E infatti, come si è visto, è la concretezza esistenziale a caratterizzare la Storia della salvezza dell‟uomo, per cui ogni astratta proiezione universalistica di essa snatura ontologicamente il suo fondamento soteriologico, poiché lo piega verso l‟antica concezione naturalistica, per la quale la vita umana si inscrive imprescindibilmente nel ciclo vitale della natura. Con un‟immagine geometrica possiamo dire che l‟universalizzazione allunga il frammento dell‟esistenza umana curvandolo in un anonimo circolo vitale, privo di redenzione personale, in cui la coscienza personale annega. Questo cambiamento di natura, in cui la coscienza personale viene assunta come neutro ente di natura fisica, è l‟esito di ogni astrazione universale del dato di coscienza concreto, che assolutizzando la forma ideale di quel dato come “vera” rispetto alla accidentalità della sua forma concreta, lo converte in astratto ente di coscienza, equivalente a ogni altro astratto ente di natura, privo di coscienza. Universalizzare, dunque, significa naturalizzare, ossia trasformare ogni ente esistenziale in ente naturale privo di coscienza, cioè di individualità concreta. Riferito all‟uomo, il processo di astratta universalizzazione della sua esistenza personale, equivale a dis-umanizzarlo, ossia a ridurlo a puro ente di ragione ovvero di natura. Universalizzare, significa ricondurre ogni ente molteplice all‟unità di natura, essendo la Natura l‟Uno da cui ogni cosa derivava e tornava. La trascrizione ellenistica della logica universale del pensiero naturalistico greco in ambito cristiano costituisce una indebita trasfigurazione metafisica del suo messaggio di salvezza personale, che supera la dicotomia filosofica tra singolare-accidentale e universale-ideale con

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l‟evento dell‟Incarnazione, che sostituisce nella coscienza spirituale il  al , la presenza dell‟eterno all‟ente di pensiero logico. Il tempo dei  è “lineare” in quanto l‟esistenza personale ha un inizio e una fine non figurata, come le fasi naturali, ma concreta, coincidente con l‟esistenza della singola e ineguagliabile persona, la cui Storia spirituale è stata rivelata una tantum da Gesù per ogni esistenza storica di ogni uomo, che però la vive secondo la sua personale fede, il suo personale rapporto con Dio. Solo la personale Storia spirituale ha un inizio e una fine, mentre le vicende naturali sono sempre immanenti al ciclo della , al quale il pensiero greco credeva di sfuggire attraverso il pertugio teoretico della coscienza eidetica, il piano ideale in cui l‟ente veniva sottratto al suo divenire, al suo divenire semplicemente essere di natura. L‟ente appare dal suo Essere naturale e scompare nel suo Essere naturale, e solo la sua Idea si sottrae all‟edacità del tempo della sua trasformazione naturale. Tempo del divenire e divenire dunque coincidono nella coscienza naturalistica greca, sicché si può dire che l‟Idea fosse la memoria eterna dell‟ente. Eternizzare, idealizzare, universalizzare rappresentano la stessa modalità greca di sfuggire al tempo, ovvero al divenire dell‟ente altro da ciò che è, cioè Natura. Per i cristiani, l‟Essere non è la Natura, ma lo Spirito di Dio, cioè una Persona divina, alla quale ogni singolo ente personale, cioè ogni uomo, torna come alla sua origine spirituale. Non cambia solo il referente nominale della divinità, per cui da Zeus si passa a Giove, ma la natura ontologica dell‟Essere, che non è più, col cristianesimo naturale, ma spirituale. Cambiato il modo di pensare l‟Essere, cioè l‟unità degli enti fenomenici, cambia anche l‟essenza del Molteplice, per cui l‟ente umano, fornito di spirito divino, viene emancipato dall‟antico crogiuolo naturalistico, e la sua coscienza chiamata a costituire il luogo della verità, dove Dio si manifesta a ognuno. Ma come può la coscienza umana, una coscienza ancora naturalistica, pensare al Dio spirituale senza sentirLo? Ed ecco che Dio, fino ad allora soltanto obbedito, si manifesta come  vivente, come Ente, sotto le spoglie umane di Gesù, e come Messia spirituale, come Cristo, che annuncia la lieta novella del nuovo fondamento ontologico dell‟Essere, lo Spirito, la Verità invano ricercata dalla sapienza naturalistica pagana, che non riuscì ad andare oltre la dimensione del , cioè oltre l‟orizzonte della . Se l‟unità del tempo naturale è la fase, l‟unità del tempo spirituale è il

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il cui senso non va rapportato alla fase precedente e conseguente, che annuncia e che risolve il tempo naturale, ma ad altri  che sono ognuno una rivelazione di Dio entro la Storia della salvezza, e che quindi si pongono sullo stesso piano valoriale e temporale, cioè spirituale. In tal senso ogni singolo  rappresenta lo stesso annuncio di salvezza riferito alla stessa unica Storia compendiata dalla esperienza umana del Cristo, che è l‟Uomo stesso. La salvezza neo-testamentaria non è la fine di un percorso temporale, ma è  di un percorso spirituale, non cronometrabile, perché non costituito da fasi naturali, che sono astratte condizioni naturali, ma da concrete situazioni esistenziali, in cui la persona spirituale è responsabile delle sue scelte, cioè libera. Il  spirituale traccia l‟ambito esistenziale della libertà umana, che è l‟orizzonte in cui agisce lo Spirito nell‟uomo. Così, quando Cullmann afferma che per i Greci “il campo d‟azione della Provvidenza ( ) non può essere costituito dalla storia come tale, ma è circoscritto al destino dei singoli individui [poiché] la storia non è dominata da un ”, per cui “l‟uomo per soddisfare il suo bisogno di rivelazione e liberazione non può che ricorrere ad una mistica atemporale che pensa in categorie spaziali”, 297 bisogna intendersi. Infatti, il “destino” individuale è quello di ogni altro essere naturale, cioè quello di portare all‟atto ciò che era in potenza nella sua costituzione fisica, chiudendo così il ciclo naturale fatale. La “storia come tale”, però, non esiste perché è un concetto derivato dalla Storia spirituale cristiana, applicato alle vicende profane, le quali non hanno un t che non sia quello stesso della Natura, cui è ragionevole conformarsi. In altri termini, il  dei Greci è lo stesso  cosmico, la ragione universale delle cose. Ai Greci mancava invece la Storia, in quanto disegno (  ) spirituale, che non si dispiega in senso cronologico, secondo “categorie spaziali”, ma per eventi o rivelazioni divine. Sicché quando Cullmann aggiunge che “se il contrasto radicale che esiste tra la metafisica ellenistica e la rivelazione cristiana è oggi completamente svanito”, e che ciò sarebbe a suo dire “dovuto al fatto che, assai presto, la concezione greca del tempo si è sostituita a quella biblica”, provocando “un grave malinteso che porta a

297

O. Cullmann, Cristo e il tempo, tr. it. cit., pag. 77.

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ritenere „cristiano‟ ciò che in realtà è greco”, 298 egli scambia la causa con l‟effetto, poiché la concezione greca dell‟Essere si è affermata sul cristianesimo nel momento in cui lo Spirito ( ) di Dio è stato pensato come  universale, e di conseguenza la Storia di Cristo, Verbum caro, come la storia ideale dell‟Uomo. In realtà, la storia ideale dell‟Uomo, cioè dell‟uomo universale, ossia dell‟umanità, è la sua vicenda naturale di  , che non è “la” Storia della salvezza spirituale dell‟uomo, ma la storia dei rapporti dell‟uomo con la Natura. E l‟economia della Natura non è quella di salvare l‟uomo, ma di assimilarlo alla sua necessità, che l‟uomo chiama Fato. Il Fato è la legge universale della Natura, il percorso necessario della condizione di vita di ogni ente naturale. Non si può stabilire alcun rapporto con la Natura che non sia di obbedienza alle sue leggi eterne. Ma non è stato forse pensato così anche il Dio ebraico? E non è forse la “salvezza” divina la completa sottomissione alle Sue leggi? Il  dell‟uomo biblico non è forse tornare alla casa di Dio, cioè al Suo regno, esattamente come ogni ente di natura torna all‟Essere da cui è stato generato? Senza la reintegrazione del cristianesimo nella tradizione religiosa ebraica non sarebbe stata possibile alcuna sua ellenizzazione, la quale a sua volta ha operato sul naturalismo teologico dell‟Antico Testamento per trascrivere la soteriologia del Nuovo in chiave non più nazionale ma universale, cattolica e cosmo-politica. Rispetto a questa prospettiva, la visione neo-testamentaria supera con la Rivelazione l‟eone della religione della Legge, ossia il  religioso del legalismo ebraico e della commistione dell‟obbedienza sacra a Jahvè con quella profana a Cesare, e inaugura l‟eone umanistico dell‟Incarnazione, in cui la salvezza non è più rivelata come missione collettiva e nazionale ma come responsabilità individuale della fede personale di ogni uomo spirituale. La trascrizione ellenistica della soteriologia neo-testamentaria ha trasformato la comunità spirituale unita in Cristo in Chiesa universale, la cui cattolicità è l‟equivalente religioso dell‟Imperium come  universale. Ma la cristologia ellenistica trova nelle stesse fonti evangeliche la sua possibilità esegetica, segnatamente nella trascrizione di Matteo, dove la trasfigurazione temporale del Regno in Chiesa, che si realizza nella

298

Ibidem.

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concordia dei fedeli nel nome di Gesù (Mt., 18, 20), è rappresentata, nella sua alterità di ordo amoris rispetto alla pagana società politica, come il luogo di realtà della volontà di Dio che non riesca a penetrare il cuore refrattario degli uomini (Mt., 18, 17 ), sancendo la sua giustificazione relativa alla condizione stessa dell‟uomo. Infatti, mentre “nel regno il volere di Dio sarà attuato perfettamente, nella Chiesa si va attuando”, in ragione e nei limiti delle umane possibilità. Da qui lo “sdoppiamento del concetto del regno” nella teologia cristiana, formulato “in un modo analogo, ma inverso che nel giudaismo”. Il quale, “partendo dal concetto della sovranità attuale di Dio nel mondo, finiva a non trovarla attuata, e concepiva il regno come futuro, in un lontano avvenire”, le cui tracce di realtà immanente potevano rinvenirsi solo nella “perfetta attuazione della Legge”. Il cristianesimo, invece, limitando il concetto escatologico del Regno, concepisce “nella propria realtà spirituale una realizzazione immanentistica del divino volere”, facendo appunto della Chiesa, a partire dal vangelo di Matteo, dove il termine di  appare per la prima volta (18, 17), il luogo storico della “attuazione concreta del volere di Dio”, sicché nella versione neotestamentaria “il processo storico della Chiesa diviene il processo del regno”, in modo che “quasi senza violenza, il Messia del regno diviene il Cristo e lo Spirito vivente della comunità, che la stringe in uno speciale rapporto con Dio”.299 Nella prospettiva cattolica, il “compimento” dei tempi ( ) equivale all‟affermazione dell‟universalismo religioso, che sposta in chiave ecumenica la prospettiva nazionale ebraica. Lo sviluppo universalistico della visione ebraica operata dall‟ellenismo attraverso la trascrizione del  cristiano in  idealistico, costituisce la versione cattolica e romana del Cristianesimo, identificato con la vita della Chiesa latina di impronta istituzionale, le cui vicende storiche seguono di pari passo quelle dell‟organizzazione profana della società politica, della quale la ecclesiastica rappresenta il polo dialettico sacro. La strutturazione ecclesiastica della Chiesa non sorse, evidentemente, da una gratuita omologazione culturale alle correnti ellenistiche, ma dall‟esigenza di salvaguardare da ogni dispersione assimilatrice nelle diverse espressioni religiose locali l‟archetipo cristiano, fortemente

299

A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. I, cit., pagg. 342-343.

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minacciato dalle eresie gnostiche, che, pur nelle loro molteplici espressioni, convergevano tutte nel “tentativo di liquidare la tradizione [cristiana]”, la quale, “nella lotta ecclesiastica, veniva quindi ad essere il criterio discriminante tra le eresie e la parte della Chiesa che s‟affermò come ortodossa”300 contro la paventata e che prese pertanto a concepire il proprio itinerario apostolico come la Storia rappresentante nel tempo sia dell‟esperienza unica e universale del Cristo, che della professione del vangelo tra le genti del mondo, con l‟inevitabile quanto fatale identificazione del  con l‟istituzione episcopale monarchica, del corpo mistico con l‟apparato burocratico detentore del monopolio esegetico del Verbo. Così nasce la cristo-logia del , il Mito religioso ellenistico che, canonizzando la  dei  neo-testamentali, istituisce anche la connessa forma mentis cattolica. L‟universalismo del messaggio ecumenico romano, operando un “rovesciamento teleologico della storia di Gesù” nella prospettiva paolina, intende rivolgersi a tutti i  , imitando lo stile leggendario biblico ma superando la occlusa traditio della religiosità giudaica, senza redenzione (), ché misconosce platonicamente il suo profeta negandogli la gloria e minacciandolo di morte (Lc., 4, 16-30).301 Nella prospettiva della Chiesa come ente mondano collettivo strutturato in forma istituzionale parallela a quella dello Stato, “il compimento futuro è un futuro reale”, cioè cronologico, “così come l‟atto redentore di Gesù Cristo” […] è un fatto realmente passato”. Ma se così fosse, secondo il parere di Cullmann, come potrebbe Gesù porsi “al centro di tutti i tempi dando senso a ciascuno di essi” ? 302 Ciò è possibile solo all‟interno della Storia della salvezza dell‟Uomo, facendo della storia spirituale il senso stesso dell‟esistenza umana, intendendo per essa la storia di ogni uomo come persona spirituale, e non l‟astratta unità delle vicende di un popolo o dell‟umanità misurate in periodi cronologici, che rappresentano la proiezione idealistica delle fasi naturali trascritte in

300

A. Omodeo, Loc. cit., pagg. 344-345. A. Omodeo, Loc. cit., pagg. 387-398. 302 O. Cullmann, Loc. cit., pag. 76. 301

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corpi sociali, o enti socio-politici.303 L‟umanesimo cattolico si costituisce appunto con la trascrizione canonica della Storia spirituale personale di Cristo in senso universale, nota come “ellenizzazione del cristianesimo”, che fa del messaggio neotestamentario il percorso di salvezza ( ) dell‟intera umanità. Senza questa trascrizione, l‟evento cristico non avrebbe mai potuto porsi al centro della storia della salvezza, ossia costituire una polarità a partire dalla quale veniva a dividersi l‟eone della creazione dall‟eone della . D‟altra parte, come abbiamo visto, la stessa universalizzazione del percorso di salvezza, rendendolo astratto, richiama il bisogno di una sua reintegratio ad integrum sotto forma di  ad Patrem (1Cor., 15, 28) equivalente al ritorno del Molteplice all‟Uno ideale. Non a caso Cullman parla di “opposizione fra cristianesimo ed ellenismo”, e di “ellenizzazione dell‟intero schema storico-salvifico della Bibbia”,304 sottintendendo l‟omogeneità ontologica del piano dialettico delle due forme ideali. Infatti, solo l‟opposto può convertirsi nella sua antitesi, mentre i contrari non potrebbero, sicché la “cristianizzazione dell‟ellenismo” e la “ellenizzazione del cristianesimo” sono processi possibili solo all‟interno di un‟ontologia naturalistica che non è quella dello spiritualismo predicato da Gesù, fondato sulla libera fede personale, e non sulla statuizione dogmatica universale, con cui si è inteso fissare un‟intuizione spirituale in una dottrina universale, corrispondente a ciò che è la legge per la volontà: una volontà dogmaticamente universalizzata acché valesse erga omnes. Una diversa chiave di lettura ermeneutica del Nuovo Testamento, che volesse emanciparsi da ogni prestito filosofico greco, e da ogni prospettiva imperialistica romana, dovrebbe partire dallo  della morte di Gesù, interpretandola come la morte dell‟uomo naturale, e con lui del pensiero naturalistico, non soltanto pagano e filosofico ma anche religioso, attraverso il quale Jahvè dell‟Antico Testamento, “Dieu

303

Condivisibile pertanto è l‟interpretazione di Bultmann, ricordata da Cullmann (Loc. cit., pag. 76 n. 5), per cui “l‟attesa della fine del mondo, imminente nel tempo”, appartiene alla “mitologia”: R. Bultmann, Jesus, 1926, pag. 53; Offenbarung und Heilgeschehen, 1941, pagg. 29 sgg,, 104 sgg. 304 O. Cullmann, Op. cit., pagg. 81 e 82.

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d‟Abraham, d‟Isaac et de Jacob”, si sia potuto leggere come lo stesso Dio Padre del Nuovo Testamento e quello stesso “des philosophes et des savants”. Ma il Dio del libro di Mosè è quello che nel Vangelo di Marco è indicato da Gesù come il Dio “dei viventi” e non “dei morti” (Mr., 12, 26), sottolineando una continuità teologica con la tradizione vetero-testamentale che appartiene alla futura coscienza della Chiesa cristiana, ma non allo spirito della professione di Cristo, e che proprio nella rappresentazione di Marco trova il suo tòpos scritturale, dove si realizza quella “trasformazione simbolica della tradizione” 305 attuata attraverso la incoerente sovrapposizione di due diversi concetti escatologici, propria del apocalittica cristiana che si riscontra anche nelle due lettere ai Tessalonicesi e nell‟apocalisse giovannea: l‟escatologia comune del giudaismo, del computo dei tempi e degli eventi precursori, e l‟escatologia di sorpresa, in cui il giudizio sopravviene imprevisto come ladro. Sono appunto queste aggiunte evidentemente cristiane che trasfigurano [simbolicamente] il sustrato giudaico dell‟apocalisse del cap. 13 [del vangelo di Marco] e fanno coincider gli eletti, comuni a quasi tutte le apocalissi giudaiche, con i fedeli di Gesù Cristo, e l‟indeterminato Figlio dell‟Uomo con il Cristo dei fedeli reduce sulle nubi del cielo. 306

E che consentiranno al Cristianesimo ellenizzato di rappresentare l‟esperienza di Gesù in termini mitico-religiosi positivi, come una Weltanschauung religiosa, ovvero una  ecclesiastica constituente l‟orizzonte di pensiero del , ossia della trasfigurazione ellenistico-latina dell‟Essenza divina del Cristo e della congiunta esistenza temporale di Gesù in Herzpunkt della Storia universale dell‟umanità intesa come Chiesa. Il ricorso al Mito collegava la nuova fede cristiana al suo fondamento religioso vetero-testamentale, che a sua volta costituiva il sostrato ontologico sul quale impostare la rielaborazione logico-spiritualistica della tradizione. Più che negli altri Evangelisti, è nella rappresentazione di Marco che gli eventi ( ) assumono un loro preciso valore simbolico attraverso l‟esigenza

305 306

A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. I, cit., pag. 281. Ivi, pag. 305.

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realistica trasceglierli e di collegarli in una sequenza narrativa di secondo grado, derivata da una fonte originaria rielaborata in funzione esplicativa di un senso storicamente compiuto, dove le singole vicende sono cioè pensate funzionalmente al loro senso teleologico, ma le cui incongruenze estemporanee mettono così in luce “l‟artificiosità del racconto” fattuale () preminente rispetto alle stesse parole di Gesù ().307 Probabile ricostruzione apologetico-simbolica di Marco sarebbe lo sdoppiamento della figura caricaturale del messia giudaico tra Barabba (= figlio di papà, invece che figlio di Davide), capo zelota e del moto insurrezionale, preferito dal popolo a Gesù, al vero re dei Giudei.308 Un altro passo significativo del Vangelo di Marco è la giustapposizione della confessione di Pietro (8, 29), l‟ingresso trionfale a Gerusalemme (11, 1-11), il tradimento di Giuda (14, 10-11) la comparsa al Sinedrio (14, 53-65) e il ruolo di Pilato (15, 1-15), la cui vicenda si sviluppa

307

Ivi, pag. 312 passim. “L‟interesse per i fatti rispondeva all‟esigenza apologetica della dimostrazione della messianicità di Gesù (e un maggiore interesse a questa dimostrazione può renderci, tra gli altri motivi, chiaro il perché Mc faccia un uso relativamente scarso dei discorsi di Gesù); quello per i discorsi a dimostrare la sapienza di Gesù e anche a servire come norma della Chiesa che, almeno nel giudeo-cristianesimo, doveva essere più osservante della parola tradizionale del maestro che non la Chiesa paolina”. Ivi, pag. 314. Proprio la rilevanza simbolica dei facta sui , rappresenta la traccia testuale più saliente della trascrizione della Storia sacra nel Mito cristologico, ossia nella elaborazione in termini di pensiero naturalistico di eventi spirituali il cui intrinseco senso trascendente viene astratto dalla concretezza ontologica di ogni  e trasferito a una significatività ultronea simbolicamente collegata a una non meno astratta fattualità, che diventa contenuto oggettivo della letteratura esegetica neo-testamentaria, la cui metodica, separata dall‟originario fondamento di fede nella Parola, costituisce il paradigma della moderna storiografia scientifica della fatticità. Ciò comporta, nel campo religioso, che la fede nel fondamento ontologico dell‟Essere divino venga trasferito nel testo scritturale, che diventa perciò oggetto, prima che di analisi esegetica, di credenza. E‟ chiaro che la Parola di Dio, divenuta testo scritturale, fa dei custodi della Scrittura, testimoni del dogma esegetico, i sostituti ecclesiastici dei santi, testimoni del Verbo divino, per cui la ragione sociale dell‟istituzione storica custode del monopolio esegetico del Nuovo Testamento si confonde con l‟esistenza stessa della Chiesa episcopale, così come la persona spirituale di Gesù Cristo con il Dòkema della rappresentazione ellenistica. 308 Ivi, pag. 310.

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attraverso la “fase apocalittica del messia ancora occulto”, durante la quale si descrive il “tentativo [di Gesù] di tener nascosto il pericoloso segreto” circa il suo ruolo messianico, e il dialogo serrato di Gesù con Pietro, il quale, “conscio dei rischi”, cerca “di distogliere Gesù dalla via di Gerusalemme”, provocando la “risolutezza imperiosa di Gesù a compiere la sua predicazione nella città santa sino a trascinarsi dietro stupiti e timorosi i dodici [apostoli]”. Ed è qui che interviene la tra svalutazione del ruolo messianico nel martirio della croce, con l‟annessa “necessità di perdere l‟anima per acquistarla, proclamata da Gesù dinanzi al popolo e ai discepoli”, che, “nell‟ordine di Mc, significano l‟esplicita sostituzione del programma del Cristo sofferente al concetto corrente del Messia giudaico”, per cui “il programma del Messia nell‟imitazione del fedele deve diventare programma di martirio e di sofferenza”, secondando a posteriori “l‟ordine d‟idee d‟un cristianesimo già sviluppato, d‟una Chiesa che ha già sofferto le sue persecuzioni, che fa propria legge il martirio e la ritrova espressa nel martirio e nel sangue del suo Signore”. 309 E‟ evidente che la rappresentazione dell‟Evangelista precede ogni possibile esegesi del senso del racconto, la quale, postulando la fede nella sua veridicità testuale, è indotta a muoversi entro l‟orizzonte ermeneutico tracciato dalla versione canonica, le cui possibilità interpretative sono dunque pre-stabilite dogmaticamente, con una interpolazione del senso storico con il senso veridico interno all‟orizzonte fideistico. La conseguenza inevitabile di tale giustapposizione di senso è che una rielaborazione ermeneutica del contesto narrativo inficiasse gli stessi suoi contenuti veritativi, provocando la dissociazione della fides dalla ratio la cui relazione simbolica costituiva il presupposto teoretico di ogni possibile esegesi scritturale. Il nocumento che il monopolio esegetico episcopale ha comportato per la fede cristiana, non è qui il caso di rievocare senza rinnovellare il “disperato dolor” dantesco, ma è appena il caso di aggiungere che, per fare un solo significativo esempio, l‟attesa della  si è rivelata infondata non perché sia venuta meno la promessa messianica di Gesù, ma proprio perché essa è stata erroneamente intesa come evento cronologico e naturalistico, riferito all‟astratta umanità, anziché correttamente come evento spirituale e

309

A. Omodeo, Loc. cit., pagg. 289-290.

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personale, riferito a ogni coscienza individuale che avesse trovato nella comunione con Cristo la sua personale salvezza. Ma l„uso stesso più accreditato di un termine implica il suo fondamento di senso. Dire “salvezza” (), infatti, equivale a dire mancanza di Essere, privazione d‟essere, così come dire “fede” ( ) equivale a dire dover-essere, ossia affermare qualcosa di diverso dall‟Essere attuale, da ciò-che-è, dall‟ente. La salvezza umana, prima di essere una riconciliazione in Dio, implica una distanza da Dio, da ciò che Dio era secondo la tradizione, il traditum vetero-testamentale della religione ebraica: l‟Essere divino come Legge. La “distanza” dal Dio ebraico era la condizione della fede cristiana come decisione ontologica per l‟Essere come Spirito. Infatti, “fintanto che ciò che è, è considerato esclusivamente nel suo essere, la coscienza è rinviata continuamente dall‟essere all‟essere e non saprebbe trovare nell‟essere un motivo per scoprire il non-essere”.310 L‟Essere della Rivelazione è che Dio è Spirito, e il non-Essere è Jahvè, per cui lo Spirito rivelato dal Nuovo Testamento è il Dio spirituale, ossia “negativo”. Sicché la fede in Cristo è la fede nel Dio spirituale, che solo nominalmente è il Dio dell‟Antico Testamento, il Dio di Abramo, d‟Isacco e di Giacobbe. All‟interno del nuovo orizzonte di fede neo-testamentario il Dio del Figlio non è il Dio-Padre; ovvero, è lo stesso Dio, in Dio, ma non è lo stesso per l‟uomo, dal punto di vista del Figlio, cioè della creatura divina. Il Dio spirituale rivelato da Gesù, è lo stesso Dio dell‟Antico Testamento, ma non è allo stesso modo conosciuto dagli Ebrei e dai cristiani. Gli Ebrei conoscono Dio nella persona del Padre, cioè come Legislatore del mondo dell‟Essere naturale, mentre i cristiani lo conoscono nella persona del Figlio, cioè come Libertà dell‟Essere spirituale. Il modo nuovo di intuire l‟Essere di Dio, fonda ontologicamente il relativo modo nuovo di pensare il mondo della creazione divina, e segnatamente di pensare l‟uomo. L‟uomo cristiano è l‟uomo spirituale, che si emancipa dalla Legge per affermare la fede in Cristo, ossia che Dio è Spirito. Emanciparsi dalla Legge, ossia dalla tradizione vetero-testamentaria, significa oggettivarla ed elaborarla alla luce della nuova intuizione spiritualistica, ossia equivale a superare

310

J.-P. Sartre, L’etre et le néant (1943), tr. it., Milano, 1997, pag. 489.

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l‟antica fede in Dio come religione, cioè come legame sociale degli uomini attraverso la coincidenza (o almeno conciliazione) della legislazione politica con la legislazione divina. La religione è il legame della Legge, di Dio e dello Stato, che conferma lo status societatis. All‟interno della situazione religiosa tradizionale, la predicazione negativa cristiana si pone in termini oggettivamente rivoluzionari, cioè come atteggiamento volto a ridefinire gli assetti presenti in vista di un novus ordo, che non è più civilis, in considerazione del quale opera la religio, ma è ordo amoris, il cui principio di valore inter-personale è la chiarita, l‟amore fraterno, non il foedus amicale della relazione politica. Fintanto che l‟uomo è immerso nella situazione storica, gli capita di non cogliere i difetti e le mancanze di una organizzazione politica o economica determinata, non come si dice scioccamente perché egli “ne ha l‟abitudine”, ma perché egli la coglie nella sua interezza d‟essere e non può al tempo stesso immaginare che possa essere diversamente. […] Non è la durezza della situazione o le sofferenze che essa impone a dar luogo alla concezione di un altro stato di cose nel quale tutto il mondo migliorerebbe; invece è appunto dal giorno in cui si può concepire un altro stato di cose che una luce nuova cade sulle nostre pene e sulle nostre sofferenze, e allora noi decidiamo che esse sono intollerabili. 311

Questo vale a maggior ragione per la situazione religiosa, soprattutto nel contesto ebraico, che vedeva la fede in Jahvè in relazione con quella statalistica pagana dell‟imperialismo romano. Ciò non significa affatto che Gesù fosse il Messia atteso dagli zeloti, ma solo che la figura religiosa di Gesù poteva essere intesa, dal punto di vista interno alla situazione in cui si muoveva, come quella di un rivoluzionario. La credenza nella Sua figura rivoluzionaria, e la fede nella Sua figura divina costituiscono i diversi possibili modi di concepire uno stesso stato d‟animo oggettivo, soggettivamente considerati, ognuno dei quali è vero per la parte che lo condivida dall‟interno, e falso per la parte esterna. Ciò vuol dire che le due concezioni sono equivalente, cioè entrambe vere? No, vuol dire che la polarità dialettica tra vero / falso è

311

J.-P. Sartre, Op. cit., pag. 490.

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possibile all‟interno di uno stesso orizzonte di coscienza, che Sartre chiama “situazione”, ma non è possibile tra orizzonti di coscienza diversi, quale appunto nel nostro caso, quello politico-religioso e quello spirituale-trascendente. La differenza d‟orizzonti è stabilita non dalla posizione verso ciò che è rispetto a ciò che non-è logicamente vero rispetto all‟Essere dialettico, ma dalla comprensione di ciò che la posizione della verità secondo il suo Essere. Il quale è stabilito nel suo fondamento dalla decisione per l‟Essere, in cui consiste la volontà della fede ontologica, da non confondere, idealisticamente, con la decisione logica che l‟ente sia anziché non razionale secondo natura. All‟interno dell‟orizzonte di senso naturalistico, cioè in ambito teoretico idealistico, la figura di Cristo poteva o non convalidarsi secondo la tradizione messianica vetero-testamentaria, ed è infatti all‟interno di questa coscienza religiosa che Gesù è stato giudicato e condannato dal Potere. Ma questa decisione politica era del tutto fuorviante e incongrua rispetto alla Verità del Cristo, cioè ai contenuti spirituali della Sua predicazione. Ciò che è mancato perché tale Verità venisse intuita e riconosciuta fu la fede decisiva per l‟Essere di Gesù, che presupponeva una dislocazione di senso ontologico, propedeutica alla decisione deontologica per la salvezza. Tale dislocazione si manifestava con la fede nel Dio spirituale professata da Gesù. Senza la fede rivelata nel Dio spirituale, la coscienza religiosa non poteva trascendere l‟orizzonte dell‟Essere vetero-testamentale, ma solo rimanerne “investita”. 312

312

“Ciò che è non può affatto determinare da solo ciò che non è”, per cui “nessuno stato di fatto può determinare la coscienza a coglierlo come negatività o come manchevolezza. […] Fintantoché, veramente, la coscienza è „investita‟ dall‟essere, finché sopporta semplicemente ciò che è, deve essere inglobata nell‟essere: è la forma organizzata […] che deve essere superata e negata perché possa essere oggetto di una contemplazione rivelante. Ciò significa che è per puro distacco da se stesso, e dal mondo, che [l‟uomo in situazione] può porre la sua sofferenza come sofferenza insopportabile e, di conseguenza, farne il movente della sua azione rivoluzionaria. Ciò implica dunque per la coscienza la possibilità permanente di fare un taglio netto col proprio passato, di staccarsi per poterlo considerare alla luce di un non-essere e per potergli conferire un significato che ha partendo dal progetto di un senso che non ha. In nessun caso e in nessuna maniera, il passato può produrre un‟azione da solo, cioè la posizione di un fine che si riversa su di lui per rischiararlo. Questo è ciò che aveva intravisto Hegel quando scriveva che „lo spirito è il negativo‟ ”: J.-P. Sartre, L’etre et le néant, tr. it. cit., pag. 491.

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Occorre subito precisare che Gesù, pur raccogliendo la simpatia degli zeloti, e fors‟anche intorno a sé alcuni di loro, e nonostante la forte polemica anti-legalistica verso una tradizione inariditasi nella esecuzione formale dei precetti religiosi, non scelse la via rivoluzionaria da essi attesa, in quanto il desideratum conseguente alla Sua posizione spirituale non preludeva alla mera azione fattuale, cioè non doveva produrre facta, ma costituirsi come evento salvifico, ossia come , la cui avvenimenzialità custodiva un senso escatologico intuibile per fede messianica, ma non immediatamente coglibile dagli stessi spettatori apostolici. In tal senso, il non rappresentava, rispetto al datum fideistico tradizionale, alcuna posizione dialetticamente negativa e tale da potersi rappresentare come un prodotto religioso alternativo. La Rivelazione di Gesù, infatti, non concerneva alcuna tesi cui opporsi come antitesi, ma costituiva una posizione di fede diversa dal paradigma tradizionale ebraico, rappresentato antonomasticamente dai farisei dottori della Legge. I Vangeli non furono, insomma, intesi come un legato testamentale, ma come un Nuovo Testamento, un nuovo modo di concepire la fede in Dio quale Essere spirituale.313 La 313

La spiritualità “nel primitivo cristianesimo non era l‟assoluta negazione della corporeità, ma una corporeità più elevata, più eterea, evanescente quasi”, come quella rappresentata da Paolo in 1 Cor. (15, 35-58): A. Omodeo, Loc. cit., pag. 419. Non possiamo seguire a proposito l‟interpretazione dell‟Omodeo, per il quale “se il programma degli evangelisti era di concepire il passato come opera salutare della divinità, la correzione della fonte che a tale ricostruzione ostasse, non doveva parere meno necessaria e meno giustificata di quel che possa parere a uno storico moderno la negazione d‟un fatto assurdo, o mal documentato. E tale correzione ed integrazione da parte loro non poteva farsi se non per deduzione dalla loro concezione di Dio e dalla loro teodicea”, per cui “l‟argomento ex analogia assurgeva a un valore indiscusso”: Op. cit., pag. 400. Infatti, il senso spirituale dei evangelici non poteva stabilirsi che sul fondamento della fede, cioè sul suo valore escatologico ex ante, e non già sulla coerenza razionale del costrutto narrativo, cioè ex post.ed è questa la ragione per cui “Lc, non diversamente da Mc, si preoccupa ben poco di darci ordine storico, nel senso [razionalistico moderno] in cui l‟intendiamo noi” (Ivi, pag. 407). Infatti, la logica intestina che anima e dirige il senso del  evangelico è quella escatologica precipuamente cristiana, alla luce della quale diventa “assurdo” l‟evento fattuale che ne è privo, cioè la pura cronaca astratta dal valore di fede che tra svaluta il divino. Proprio l‟aver voluto rielaborare in forma mitica di “storia” il senso escatologico del cristiano attraverso la trasformazione simbolica della “parola del Signore

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trascrizione canonica della , invece, soprattutto nella versione di Luca, evidenzia, col suo “rovesciamento teleologico” di cui abbiamo detto, l‟esigenza teorica di un “perfetto accordo fra cristianesimo e autorità politiche”, 314 che pone i  neo-testamentali come fonti teologiche primigenie (anche se non propriamente dirette) della nuova religione cattolica, che nel Vangelo di Luca ha la sua più completa narrazione storica coerente col simbolismo dossologico della cristologia universalistica di matrice ecclesiastica ellenistico-romana, lontana ormai da ogni fede escatologica nell‟imminenza della . 6. L‟Universalismo cattolico non è soltanto “la risoluzione favorevole ai gentili del problema che si pose dinanzi all‟età apostolica circa la compartecipazione delle genti alla Chiesa e circa il valore della Legge mosaica”,315] ma anzitutto l‟acquisizione della concezione greca del tempo come proiezione idealistica del presente attuale in un luogo eterno, cioè di eterna attualità presente, in cui ciò-che-è (l‟ente), è sempre. Tale concezione, propria all‟ontologia greca e pertanto comune tanto all‟ellenismo che allo gnosticismo, che ne costituisce solo la versione razionalistica più conseguente, è stata acquisita dal cristianesimo in conseguenza della sua istanza universalistica, per la quale esso ha adottato ai propri fini teologici le categorie del pensiero filosofico, originariamente destinate a rappresentare idealisticamente l‟Essere dell‟ente, ossia l‟Idea della Natura. Il passaggio dal concetto di  come convegno di “due o tre” fedeli (Mt., 18, 20) a quello di unità ecumenica del corpo mistico cristiano, è stato reso possibile teoricamente grazie al servizio della filosofia greca prestato alla

in azione” (Ivi, pag. 408), la  evangelica si è esposta al vaglio storico della rielaborazione razionalistica, legittimata dalla stessa possibilità di stabilirla attraverso una versione canonica episcopale, il misconoscimento della cui autorità religiosa preludeva, non tanto a una riforma religiosa, possibile solo all‟interno di uno stesso orizzonte di fede cristiana, quanto alla  tipica dell‟età moderna post-cristiana. Sorte che significativamente non toccò all‟ebraismo, sempre più riconosciuta dalla superstite Chiesa come la vera fonte del cristianesimo sottratto alla demitizzazione della sua versione leggendaria. 314 A. Omodeo, Loc. cit., pag. 416. 315 A. Omodeo, Loc. cit., pag. 426.

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religione (religio) come suo strumento razionale (ratio). Il passaggio dunque del cristianesimo attraverso la filosofia greca consiste nella trasformazione della originaria fides escatologica, in mondana religio priva di ogni finalismo teleologico dell‟avvento del Regno, cioè del Governo di Dio sul mondo. All‟attesa di questo Governo divino, la religione cristiana ha sostituito l‟amministrazione episcopale della Chiesa universale, facendo dell‟intermezzo temporale tra la resurrezione e la la realtà terrena dell‟ideale Gerusalemme celeste, ossia l‟Immagine () storicamente attuale della eterna (ossia, appunto, ideale) Città di Dio, la prima intesa come realtà dell‟ aldiqua, e l‟altra come realtà dell‟aldilà, secondo la classica dicotomia greca ricordata dal Cullmann. 316 Lo stesso Autore ci avverte che “l‟eternità non è per Platone un tempo prolungato all‟infinito, ma qualcosa di completamente diverso: assenza di tempo”,317 non avvedendosi che “tempo prolungato” e “assenza di tempo” sono espressioni diverse per definire la stessa realtà ideale, sogguardata rispettivamente dal punto di vista dell‟ente temporale e dell‟Idea atemporale. Per comprenderlo basta intendere “temporale” per divenire, e “atemporale” per ideale. l‟Idea, infatti, nel pensiero platonico indica l‟ente (  = ciò-che-è) privo di divenire, ossia privo di dimensione temporale, e perciò atemporale ovvero “eterno”. Ciò che non diviene, e perciò è sempre ciò che è, non è tangibile e mutabile, e dunque è sacro. Il trasferimento della sacertà dall‟Essere di natura all‟Essere di pensiero (Logòs) indica già un percorso gnoseologico dell‟ontologia greca che nella prospettiva cristiana troverà il suo momento di inveramento spirituale nella assunzione del  filosofico greco come essenza ideale del  vetero-testamentale. La nuova teologia cristiana, ossia la cristologia ellenistica, indicando nella fonte scritturale del Nuovo Testamento il luogo della Rivelazione della Parola di Dio, fa della vita di Cristo la storia stessa del Logos divino, la sua fenomenologia temporale; ed essendo quella fonte una espressione mano-messa dall‟uomo, in quanto redatta dagli apostoli che assistettero al  della Rivelazione, essa rappresenta paradigmaticamente la possibilità umana di disporre logicamente dello

316 317

O. Cullmann, Loc. cit., pag. 75. O. Cullmann, Loc. cit., pag. 85.

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Spirito. “Disporre logicamente dello Spirito” significa interpretarLo in termini di ragione umana, e quindi di tradurne il valore eterno in senso storico mondano. Questa storicizzazione del Lògos divino in prodotto ermeneutico, riassume il mondo ellenistico-cristiano di pensare Dio come Spirito razionale, cioè come Verbo incarnato, come Cristo, e quindi come pensiero su Cristo, come cristo-logia. Nell‟orizzonte di pensiero cristiano, la fede consiste nel credere che il pensiero su Cristo, la cristologia, coincida con lo stesso pensiero di Cristo, con la Sua rivelazione. La fede cristiana che pone la  neo-testamentale si fonda sull‟identità dell‟Essere creatore del mondo (il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe della tradizione ebraica) con il Verbo incarnato del Suo figlio Gesù, la cui rivelazione temporale all‟uomo viene rappresentata dalla Storia evangelica redatta dagli Apostoli, per cui un prodotto umano – sia pure divinamente ispirato – diventa la Storia di Dio, ossia il Mito di Cristo figlio del Dio ebraico (Jahvè). Il punto di congiunzione che unisce Dio a (la Storia di) Cristo è la fede nella loro identità logica, ossia che tale identità logica sia anche ontologica. Ma questa credenza costituisce appunto il fondamento ontologico della filosofia greca, per la quale l‟Idea è l‟Essere dell‟ente, la sua attualità privata del divenire temporale, della sua finitezza. La finitezza temporale, cioè l‟avvenimento storico, concepito in termini ideali, ossia come evento eterno, diventa  della Storia ideale eterna. A questo punto, avendo la Storia di Cristo un‟  e un , il suo evento storicamente compiuto, universalizzato in senso ideale, viene rappresentato come la stessa Storia della salvezza, astratta dalla sua originaria tensione escatologica vetero-testamentaria, perdendo di vista il senso del processo ad quem in cui la Rivelazione di Cristo era originariamente inserita nel messianismo ebraico, ossia nell‟economia della salvezza divina. La idealizzazione cristiana del periodo che va dalla vita alla morte di Gesù, riponendo nel “frammento” della Sua condizione finita “il Tutto” della condizione infinita di Dio, che è già nel Figlio quale sarà “in tutte le cose” alla fine dei tempi (1Cr., 15, 28), traduce la Sua essenza divina in Storia umana, in esistenza simbolicamente rappresentabile, in nel cui fondamento di fede ontologica si costituisce la Chiesa quale corpus historicum Christi. Rigettare uno dei tre elementi della rappresentazione simbolica cristiana di Dio (), la  umana, la fabula narrativa, il  divino, può rielaborare il Mito cristologico in maniera più o meno eretica

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rispetto alla forma ortodossa canonizzata, ma in ogni caso non risolve di per sé la questione fondamentale di tale rappresentazione, cioè del , che è la sua trascrizione religiosa della fede cristiana in Dio come Spirito, attraverso lo strumento filosofico della logica platonica. In altri termini, ogni riforma religiosa del Cristianesimo, non intaccando il suo fondamento veritativo, ossia la fede che la Storia di Cristo sia la storia stessa della salvezza divina, non elimina dal suo orizzonte teologico il modo greco di concepire la verità come  universale, e perciò non supera la dimensione platonica dell‟Essere, di cui il Cristianesimo storico assume la forma di religione ecumenica, di religione del . Il Cristianesimo è la Storia del Verbo incarnato che narra come il Creatore si sia identificato temporalmente nella sua creatura. Il racconto evangelico, oggetto di fede dei cristiani, è altresì oggetto di rielaborazione razionale della moderna filosofia, per cui la doppia valenza simbolica del suo contenuto fa della Storia di Cristo un tipico , il cui tempo, all‟interno dell‟orizzonte di fede, è creduto essere la tappa epocale () del disegno soteriologico divino, mentre, nella rielaborazione razionalistica, esso costituisce un momento dell‟anaciclosi dell‟Essere greco, una fase di ciò che Nietzsche ha chiamato “l‟eterno ritorno dell‟uguale”. Il Tutto che è Dio include il tempo, ossia la realtà finita e determinabile, per cui anche il tempo del Figlio è originariamente presso di Lui “prima della creazione del mondo” (Giov., 17, 24), di cui pure sarà il Salvatore. “Di conseguenza, là dove Cristo opera, l‟avvenire è già deciso” , anche se solo in futuro se ne rivelerà l‟effetto. 318 A partire dalla Sua stessa Rivelazione, che sarà decisiva per l‟intera storia della salvezza, ossia del finale Regno spirituale di Dio sul mondo. si compre dunque il senso del Mistero che è Dio come Totalità del piano di salvezza, cui a tratti può partecipare l‟uomo in stato di grazia, ma di cui non può avere una visione globale, imperscrutabile all‟intelletto umano (Rom., 11, 33), anche a quello di Gesù in quanto uomo (Mar, 13, 32). 319 Pur conservando la concezione lineare del tempo del giudaismo, secondo la quale il centro della linea del tempo è costituito dalla salvezza, il cristianesimo vi apporta una novità “semplicemente

318 319

O. Cullmann, Loc. cit., pag. 96. Ved. O. Cullmann, Loc. cit., pagg. 102-103.

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rivoluzionaria”, per cui “dopo la Pasqua, il centro non si trova più, per il credente, nell‟avvenire”, ma “il centro della storia è già raggiunto”, in quanto “il centro del tempo non è più costituito dalla futura venuta del Messia, ma da un fatto storico, già realizzatosi nel passato: la vita e l‟opera di Gesù”. 320 La tesi di Cullmann, apparentemente veridica se sogguardata all‟interno dell‟orizzonte di fede neo-testamentale, diventa erronea se considerata dal punto di vista non-cristologico. Infatti il teologo confonde il tempo con la storia, assegnando alla temporalità della concezione veterotestamentale lo stesso valore storico che essa ha nel Nuovo Testamento. Sicuramente “la vita e l‟opera di Gesù” sono centrali nella Storia della salvezza dell‟uomo, ma lo sono in quanto quel centro si costituisce insieme alla stessa Storia, la quale si costituisce a partire dalla Rivelazione. La Storia, cioè, nasce con Cristo. prima del Suo avvento, esisteva soltanto il Tempo della salvezza, ma non la Storia della salvezza. Proprio in quanto la presenza di Dio nel Tempo lo trasforma in Storia, il Testamento biblico diventa Antico, ossia anteriore al Nuovo, che inaugura un nuovo eone, caratterizzato dalla realtà storica di Dio, dalla Sua incarnazione umana. La questione essenziale è perciò se la fede in Cristo sia il modo nuovo di adorare lo stesso Dio diventato Uomo, rispetto al quale modo l‟antico riguarda una coscienza religiosa vera ma arcaica e superata dalla nuova, ovvero se la fede in Cristo inaugura una nuova fede rispetto alla antica, quella del Figlio terreno emancipato dalla tutela del Padre celeste. La differenza tra le due posizioni determina la relativa diversità di concezioni del tempo nel Cristianesimo e nell‟ebraismo (come pure nelle altre religioni). La concezione cristiana del tempo, infatti, proprio n quanto incentrata su Cristo, è una concezione storica, legata cioè all‟esistenza spirituale dell‟uomo, non in quanto specie zoologica o entità sociologica, ma in quanto persona, che vuol dire appunto uomo spirituale. L‟uomo dell‟Antico Testamento è investito dallo Spirito di Dio in quanto partecipa del suo disegno salvifico: è uno strumento della sua economia di salvezza; è testimone della fede ma non è custode dello Spirito divino, proprio perché non l‟ha in sé. Solo il nuovo Adamo,

320

O. Cullmann, Loc. cit., pagg. 106-107.

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redento da Cristo ( ), può essere un Suo rappresentante, in quanto la sua unità divina non è sopraggiunta dall‟esterno, attraverso una associazione convenzionale e pattizia come quella intercorsa tra Jahvè e il popolo d‟Israele, ma è legame originario di nature inscindibilmente connesse. In questa inalienabile e irreversibile incarnazione divina nell‟uomo consiste la centralità storica di Cristo, che inaugura l‟eone della Storia, il cui tempo inizia con Lui. L‟immagine nei Vasngeli sinottici del Battista che vede lo Spirito discendere dal cielo e posarsi in Gesù come una colomba (Mt., 3, 16; Mc., 1, 10; Lc., 3, 22; Gv., 1, 32) lascerebbe supporre che il battesimo sul Giordano perfezionasse l‟essenza divina di Gesù, che invece era originaria, mentre in realtà rappresenta soltanto il riconoscimento profetico della Sua natura, e quindi l‟unzione della tradizione alla novella predicazione. La storicità cristiana non è dunque una mera “sovrapposizione” di una divisione temporale sulla concezione ebraica del tempo, e neppure una “intersecazione” su un continuum cronologico, ma costituisce un eone che coincide con il  cristico. Se la vita e l’opera di Gesù fossero solo un avvenimento temporale da inscrivere entro la linearità del tempo salvifico ebraico, Egli sarebbe solo una figura profetica, la maggiore forse, ma inevitabilmente ereticale rispetto all‟ortodossia ebraica legata all‟attesa del Messia. Ma se Gesù di Nazareth non è creduto essere un eresiarca, ma il Cristo, allora la sua esistenza storica non è solamente una rappresentazione della volontà di Dio, ma bensì la Sua rappresentanza storica. In tal senso, Egli non seca il tempo come un evento simbolico nel senso che la sua espressione sensibile richiami un cripticosignificato ultroneo, ma il suo  si manifesta come , ossia una realtà composita ( ) gettata () nel tempo come un‟esistenziale di cui è possibile raccontarne le vicende alla stregua della Storia stessa dell‟Uomo, di ogni tempo, compreso quello della fede alla maniera ebraica. In questo orizzonte cristianocentrico, non c‟è propriamente Storia prima di Cristo, ma lo stesso tempo escatologico pre-cristiano è assorbito dalla Storia cristiana, come il suo antecedente pre-istorico. E in tal senso, è la antica fede ebraica che deve con-vertirsi nella fede cristiana, e non già la fede in Cristo con-vergere nella fede ebraica. Nello stesso senso, la resistenza di Israele alla Storia cristiana, dal punto di vista evangelico, indica la sopravvivenza di una concezione naturalistico-religiosa della fede in

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Dio che è superata dalla concezione storica del credo cristiano. Ma proprio l‟ellenizzazione della fede in Cristo, trasformandola in religione ecumenica, in Mito cattolico, per un verso, ha reso ambiguo il rapporto con l‟ebraismo quale culto del Padre, e per l‟altro ha inteso neutralizzare la portata escatologica della nuova fede storica in Dio come Figlio, intendendo inverare la sapienza classica assorbendo la sua cultura filosofica entro l‟orizzonte cristo-logico della nuova fede convertendola in religione cattolica, nella Weltanschauung dello spiritualismo universale e dell‟umanesimo storicistico, e insomma in una ideo-logia, destinata a finire come l‟espressione transeunte di una delle tante civiltà umane. Affermare, come fa Cullmann, che l‟evento cristico sia un “fatto storico” che si è “già verificato”, e che “il centro è raggiunto, ma la fine deve ancora venire”,321 significa destinare il  a una dimensione finita da cui la Rivelazione ha inteso emancipare l‟uomo pre-istorico, lo  pagano, neutralizzando per l‟appunto la carica escatologica dell‟Evangelo in termini di messaggio predicativo, in formulario protrettico di una eteronoma sapienza morale, e la fede cristiana in un estrinseco culto scritturale e in una ermeneutica liturgica, che lascia al tempo a venire la sua  che di essa è invece il presupposto. Da qui l‟origine della dissociazione tra fede e vita, che Gesù imputava ai Farisei e che la Sua predicazione intendeva precipuamente superare.322 Infatti, asserire la storicità dell‟evento cristico, ossia la realtà esistenziale di Gesù, non equivale a storicizzarne il messaggio salvifico, la cui destinazione meta-storica, eterna, è legata alla infinita possibilità della salvezza in ogni uomo di ogni tempo. ed è tale infinita possibilità a consegnare la validità del messaggio evangelico a una dimensione trascendente l‟esistenza storica dell‟uomo finito. Solo dando a Dio (e non a Cesare) la possibilità della salvezza dello spirito umano, e a Cesare (e non a Dio) la possibilità della

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O. Cullmann, Loc. cit., pag. 109. “Il messaggio cristiano non era stato al suo primo sbocciare nel mondo né una teologia né una filosofia né una espressione culturale qualsiasi. […] Era un messaggio di salvezza, una consegna di conversione, un precetto di trasmutazione di valori. Implicava un profondo rivolgimento delle coscienze, tutta una trasposizione del piano di vita dalla zona dei valori empirici a quella dei valori trascendenti”: E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, cit., vol. I, pag. 348. 322

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salvezza della carne dell‟uomo si potrà evitare di servire due padroni, e meglio intuire l‟elemento trascendente nella forma immanente, attribuendo alla persona il compito di stabilire il rapporto responsabile che ha verso di sé in quanto testimone della vita storica e custode della fede eterna. Se la Morte di Gesù è un evento storico, la Risurrezione non lo è, essendo essa consegnata alla possibilità spirituale dell‟uomo. Ogni uomo storico muore come Gesù alla croce della sua esistenza terrena, lottando contro il Potere che gli contende il  infierendo sulla , sicché ogni vita terrena, compresa quella di Gesù, ha la sua fine. Altresì, ogni uomo spirituale può risorgere come Gesù, affidando la sua storia temporale al significato soteriologico custodito dalla Storia cristiana, di cui egli può responsabilmente farsi simbolo testimoniale elettivo. Affidare pertanto la risurrezione dalla morte della carne a un tempo futuro, significa restare ancora entro la concezione pre-istorica della coscienza fideistica ebraica, dalla cui prospettiva l‟evento cristiano era a venire, cioè “non ancora” compiuto. Ma i tempi della fede nell‟unico Dio, non sono due, come le forme religiose della sua manifestazione. Tant‟è che il protestante Cullmann ne professa una terza, a partire dalla Riforma, e il fedele ortodosso ne professa una quarta, così come ogni setta se non ogni fedele ne può professare con la stessa pretesa di autenticità la sua, a segno che l‟esperienza storica essendo consegnata alla finitezza è ontologicamente molteplice e non unica, come pretenderebbe erroneamente ogni ortodossia universalistica. E perciò il tempo-della-fede è lo stesso tempo di Dio, unico anch‟esso perché in-finito, e rientrante nella stessa dimensione assoluta dell‟evento risorgimentale divino, della resurrezione dell‟ spirituale della salvezza. Un tempo unico che volendolo trascrivere in tempo storico si dipana come un racconto esistenziale, una “storia”, appunto, che è la Storia paradigmatica di Cristo, il Quale dell‟unità di Dio è la rappresentanza personale (Stellvertretung). Ma, ciò detto, confondere la narrazione della “vita e della morte” di Gesù con il valore soteriologico della Sua esperienza storico-esistenziale, equivale a confondere il Mito con la Verità, la narrazione storica della vicenda di Gesù con la ineffabile realtà spirituale di Dio, che solo la Sua grazia può farci incontrare come Parola, la cui esistenza carnale è stata testimoniata dagli Apostoli. La Verità di Dio non è il Mito, la narrazione profetica o scritturale, ma il Mistero della Sua unità trascendente la finitezza molteplice. L‟accusa di Gesù ai Farisei è

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appunto di confondere la Legge con la volontà di Dio, la fede con l‟ossequio alla Thorà, la partecipazione all‟unità spirituale con l‟appartenenza nazionale. Ma sostituire alla Bibbia il Nuovo Testamento, alla Thorà la Tradizione episcopale, e Israele alla Chiesa cattolica, non coglie il senso della differenza tra il culto all‟idolum tribus e la fede nel  , la fedeltà al  con la fede in Cristo, di Cui ogni persona è il . Cullmann, nelle pagine dedicate al rapporto tra Storia e Mito, afferma che “il cristianesimo primitivo non conosce, a questo proposito, distinzione alcuna”, essendo “gli autori dei primi scritti cristiani completamente sprovvisti di senso storico, [per cui] ogni distinzione quindi fra storia e mito è loro estranea a priori”. 323 Mancanza di senso storico e assenza di distinzione esprimono dunque una medesima condizione intellettuale, che assume, “sulla stessa linea della salvezza”, “una visione globale teologica e positiva che si pone al di là dell‟opposizione fra storia e mito” e che consiste nella “profezia”, intesa appunto come “la storia della salvezza nel suo insieme”. 324 La questione non è puramente nominalistica, ma teologicamente essenziale, se appena spostiamo l‟attenzione da ciò che è historisch, riconosciuto cioè come oggetto della scienza storica, e l‟evento che è geschichtlich, ossia appartenente al racconto storico delle vicende di fede, l‟unico teologicamente rilevante. 325 Se essenziale teologicamente è solo l‟evento storico-profetico (geschichtlich), costitutivo del contenuto della visione profetica, questa visione è più comprensiva della realtà storico-scientifica (historisch), e coincide dunque con ciò che noi indichiamo come Mito, racconto logicamente indistinto la cui realtà è fondata sulla fede ontologica nella sua esistenza. L‟originalità teologica del Mito cristiano è la sua destinazione salvifica, il finalismo escatologico della sua soteriologia, e perciò la sua natura di visione profetica, di cui la singola profezia è il datum contenutistico della fede quae creditur. Ora, tale dato non è un factum in senso historisch, ma è un evento in senso geschichtlich, ossia è un , il quale, proprio

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O. Cullmann, Loc. cit., pag. 120. Ivi., pagg. 122-123. 325 Ivi., pag. 126. 324

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perché fondato ontologicamente sulla fede nella sua realtà escatologica, non può coincidere con il mero fenomeno fattuale, cioè con l‟oggetto del giudizio logico-distinguente o scientifico. In questo senso, distinguere semplicemente ciò che è storico da ciò che è mitico, alla maniera socratico-platonica, significa prescindere da ciò che costituisce il valore proprio dell‟evento profetico, dall‟essenza precipua del , che non è di natura logica, tale da potersi evincere a seguito di una emendazione della sua presunta scoria affabulatrice, ma di natura ontologica, non trasformabile dal pensiero e dall‟azione umani, e perciò “sacra”. Al fine di eliminare dalla visione profetica la contaminazione del giudizio logico, e quindi ogni riduzione del datum fideistico al factum storico, sarebbe opportuno denominare lo stesso fondamento di fede in modo distinto dal senso esclusivamente logico assegnatogli dalla filosofia greca, indicandolo anziché come onto-logico, ossia fondamento d‟essere del Lògos, come onto-pneumico, ossia fondamento d‟essere del Pneuma. A questo punto, sarebbe necessario altresì rivedere la vulgata latina di Gv., 1, 14, in cui  , che indica la generazione umana dello Spirito divino, viene reso con “Verbum caro factum est”, ove il “factum” sta a indicare il prodotto fattuale, l‟ , l‟ente oggetto del pensiero, e non il , che è fonte e non oggetto di significato. Un “evento” non può essere propriamente “storico” se non inscritto in un senso teleologico che appartiene alla narrazione del suo significato simbolico, ossia all‟unità delle vicende cui è collegato a partire dal suo fondamento di fede. Tale fondamento di senso, è ciò che caratterizza l‟evento storico dal mero oggetto del pensiero, ossia dal semplice datum della coscienza, il quale si determina all‟atto del pensiero e che non esiste fuori di quel pensiero che lo pensa come ente attuale, come ciò che “è”. E pertanto il dato di coscienza attuale è anch‟esso attuale, cioè presente alla coscienza che lo pone, e che ponendolo lo definisce come una sua creazione, un factum appunto. Il factum è dunque l‟oggetto della coscienza astratto dal pensiero che lo pone in essere, e senza il quale il factum non sarebbe. Poco importa se esso venga in seguito assunto come un‟ipostasi idealistica, che eternamente è ciò che una volta è stato in senso attuale, ossia come un datum esterno alla coscienza. Ciò che qui rileva è la natura idealistica dell‟essere dell‟ente, che fa della religione il culto di un ente ipostatizzato, come Gentile

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platonicamente l‟ha concepita. Un evento che sia veramente storico deve essere inscritto nell‟orizzonte di senso della sua verità, la quale fa di esso la manifestazione della storia stessa nel suo senso complessivo, che, nel nostro caso, è il senso profetico di una storia escatologica. La manifestazione profetica della Storia escatologica dell‟Uomo è il  dell‟avvento del Cristo, ossia l‟evento che parte dalla nascita di Gesù e finisce con la Sua morte. Un evento che è temporale in quanto narrativo, ossia costituito di sequenze temporali interne alla sua Storia. Se tale storia viene considerata come una vicenda conclusa con la sua attualità, essa può essere vagliata come fenomeno historisch e distinto dal mero racconto geschichtlich, ossia può essere “de-mitizzata”, e magari assunta dalla coscienza religiosa ogni volta come un prodotto presente alla sua attualità, ma irreale fuori di essa. Se invece la Storia di Cristo viene assunta nel suo valore profetico, essa non può costituirsi idealisticamente come un factum realizzato una volta nel tempo passato, e il cui significato religioso può essere solo richiamabile alla coscienza presente del fedele, non esistendo fuori di quella presente e attualizzante coscienza,, ma deve essere pensata come un  eternamente inclusivo di senso escatologico, al quale il fedele può solo partecipare onto-pneumasicamente attraverso la fede nella sua realtà di salvezza. In questo caso, la fede soteriologica non si giustappone a una realtà in sé aprioristicamente costituita dal pensiero che la pone, tale per cui, ad es., la Storia di Cristo, priva della sua escatologia, rimarrebbe comunque la storia umana di Gesù di Nazareth. La fede, infatti, non è una superfetazione mitica che può logicamente distinguersi ed estrarsi dal racconto religioso senza alterarne la verità storico-fattuale (historisch), ma è il fondamento stesso della storicità di quel racconto, il fondamento della sua destinazione di senso, e quindi fondamento creativo di senso (). Senza quel fondamento di fede, non c‟è (la realtà della) Storia. Destinazione di senso che non è razionale in senso del Lògos, ossia logicamente conseguenziale, ma significativo in senso profetico, e cioè simbolico-spirituale. La “storia profetica” di cui parla Cullmann, è nient‟altro che la Storia in senso spirituale, ossia il processo stesso della salvezza dell‟uomo, che è avvenuto in Cristo perché avvenisse sempre in ogni uomo di ogni tempo. Eliminare il fondamento mitico della Storia, significa eliminare da essa il senso stesso della sua realtà, e pertanto, voler applicare alla

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Storia della salvezza il discernimento logico tra il fatto historisch e l‟evento geschichtlich equivale a fare della “filosofia” anziché della teologia. E poiché la stessa teo-logia è imbevuta di onto-logia greca, ossia risente della confusione del fondamento naturalistico del Mito greco col fondamento veritativo cristiano, anche quest‟ultima sarebbe più che opportuno ripensarla sotto forma di onto-pmeumasia, delogicizzando il Mito profetico cristiano, la cristo-logia, di ogni indebita trasvalutazione di senso idealistico operata dall‟ermeneutica ellenistica, in seno alla quale poté nascere in passato ogni forma di docetismo, ossia tanto l‟eresia gnostica che quella ariana, e tanto l‟illuminismo che il materialismo nell‟età moderna, derivati tutti della stessa matrice filosofica platonica,326 per liberarsi della quale occorre uscire dall‟ontologia greca, sostituendo la filosofia, che è pensiero logicoconcettuale, con la pneumasia, che è pensiero spiritualistico-intuitivo. Muovendo l‟esperienza storica di Cristo lungo una cronologia progressiva e regressiva a partire dal centro, Cullmann sostiene che “non si può parlare di Cristo, soltanto a partire da un determinato punto della linea, come se prima si potesse parlare unicamente di Dio, prescindendo da Cristo”.327 Eppure la “linea” cronologica sta a indicare esattamente tale possibilità, che è propria della successione fattuale degli eventi, ma non della rappresentazione profetica, che è intuitiva. Si prenda il caso della predizione del tradimento di Pietro da parte di Gesù (Lc., 22, 34), che probabilmente rappresenta il momento più struggente della solitudine del Figlio di Dio tra gli uomini, in cui la verità non condivisa appare in tutta la sua impotenza mondana. Gesù prosegue nella sua esperienza storica seguendo il volere di Dio, ma nella consapevolezza che lo svolgimento cronologico degli eventi non coincide con la pre-scienza del loro senso complessivo, sicché il dolore da Lui patito non è disteso lungo una sequenza di momenti in successione, in cui il successivo accresce il senso del precedente fino all‟esito finale, ma è tutto in ogni momento, per cui Gesù è già morto quando è in vita, ed è già tradito quando è amato. E affermare che Egli fosse già morto in vita ma non ancora morto, equivale a negare in altri

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Come si è più volte ribadito in questo saggio, lo stesso fisicalismo aristotelico non è che la trascrizione demitizzata della filosofia platonica. 327 O. Cullmann, Loc. cit., pag. 135.

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termini che la linearità della successione avvenimenziale sia il tempo proprio del , che invece è tempo profetico. Entro l‟universo di senso profetico, il “prima” e il “dopo” non hanno lo stesso senso della scansione cronologica della trama fattuale astratta dal suo fine escatologico, per cui la visione ispirata dal  non è quella rappresentata dalla linea cronologica, ma dall‟intuizione mistica del Tutto in ogni momento. Nello stesso senso, anche la  va intesa come l‟evento finale già presente nel suo inizio, che solo alla coscienza dell‟uomo empirico può apparire nuovo rispetto a quanto già compreso nel suo fondamento iniziale, mentre in realtà esso è antico quanto la fede ontologica che lo sostiene, ossia è eterno quanto Dio stesso, che è il fondamento di tutto ciò che è creato. Il Mistero, dunque, non è l‟evento futuro rispetto a quello passato e conosciuto; non è, cioè, il dato incognito non ancora svelato, ma è Dio stesso, cioè la Verità del fondamento non posto e perciò non rimuovibile, “sacro”. Ogni cosa può rivelarsi nel tempo così come appare, ma soltanto la Verità di Dio coincide solo con se stessa, ed è perciò non un fatto possibilmente significativo in relazione al suo essere ideale, ma è un evento assoluto () che ha in sé quel fondamento di senso che può anche non essere manifesto a chi non lo colga, a chi non vi creda, e che in tal senso si rivela alla coscienza, ma non è creazione della coscienza umana. E, parimenti, poiché Cristo è già risorto ancor prima della morte di Gesù, la Sua figura è nel tempo (Lc., 16, 16), ma non è del tempo, ed Egli è nella sua Storia in quanto inserito nell‟orizzonte della salvezza eterna di Dio.328 Cristo coincidendo con la verità di Dio, è Dio. E d‟altra parte, Dio è già Cristo nella sua verità eterna, ma non è ancora Storia prima della rivelazione cristiana. Il torto della concezione di Ario non è di aver distinto Cristo da Dio, il dopo dal prima, ma bensì di aver considerato vera quella sequenza cronologica “lineare” affermata anche da Cullmann, il quale pare non rendersi conto che essa è sostenibile solo in riferimento all‟esperienza finita dell‟uomo empirico, ma non in

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Se dunque è vero che “il Padre e il Figlio appartengono all‟unica e identica linea della storia divina, in tutta la sua estensione”, come afferma il Cullmann (Loc. cit., pag. 142), allora occorre chiarire che “l‟impostazione cristocentrica” non può significare che il “centro” in senso spirituale sia anche quello temporale, cosa facilmente confondibile entro la concezione lineare nel senso del Nostro.

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considerazione della condizione di salvezza, la cui storicità è intrinseca solo a partire dalla Storia eterna, sicché la Storia della salvezza non va intesa in senso historisch di evento irripetibile ma in senso geschichtlich di evento eternamente possibile all‟uomo perché già avvenuto nell‟esperienza temporale di Gesù. E quando la salvezza in Dio si realizza in interiore homine, entro cioè la coscienza di un determinato uomo, ancora una volta la presenza di Dio si rivela all‟uomo come già compiutamente in Cristo, nella Sua storia, anch‟essa perciò eterna. Non è corretto dunque affermare che Egli “ritorna per portare a compimento tutte le cose create”,329 poiché Cristo è già risorto nella storia umana come possibilità nel tempo per chi ha fede nell‟Eterno. La Sua risurrezione è differita nel tempo solo per chi non ha subito la  della coscienza spirituale, cioè per chi continua a vivere secondo l‟immagine antropologica dello  , anziché secondo l‟imago Dei della spiritualità cristiana. Non a caso, “lo scopo a cui mira la predicazione nel cristianesimo primitivo è quello di mostrare che ogni avvenimento concreto che si verifica nella Chiesa”, cioè nella comunità dei fedeli, “si inserisce nell‟insieme della storia della salvezza”.330 La storia della salvezza procede per successive “riduzioni” della rappresentanza (Stellvertretung) divina, che dall‟umanità si concentra in Gesù, l‟Unico, il Cristo. “A partire da questo punto”, scrive Cullmann, l‟elezione divina di chi è chiamato alla redenzione dell‟umanità “non avviene più procedendo dalla pluralità all‟unità, ma, inversamente, passando progressivamente dall’unità alla pluralità, in modo tale che è la pluralità a dover rappresentare l‟Unico”. La “via” dunque che conduceva al Cristo, che caratterizzava il “movimento” della antica Alleanza, con la Sua rivelazione si diparte “dal Cristo a quelli che credono in lui e si sanno salvati attraverso la fede nella sua morte”, ossia il “popolo dei santi”, sicché la nuova Alleanza viene caratterizzata dal “passaggio dall‟Unico alla pluralità”, 331 in cui “tutti sono uno” () in Cristo (Gal., 3, 28). Tuttavia, la simmetria di questo “doppio movimento” soteriologico,

329

O. Cullmann, Loc. cit., pag. 136. Ivi, pag. 137. 331 Ivi, pagg. 144-145. 330

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stabilendo una corrispondenza tra l‟unità del Cristo e la molteplicità del Suo corpo mistico, riflette la tipica rappresentazione idealistica dell‟Essere unitario nei molteplici fenomeni che costituisce la forma categoriale. In realtà, la Stellvertretung, ossia la rappresentanza divina nell‟uomo si realizza compiutamente solo in Cristo, il quale incarna Dio nel tempo, mentre nell‟uomo si manifesta solo in senso analogico e simbolico, in quanto la presenza dello Spirito, che è consustanziale a Dio e a Cristo ma non all‟uomo, interviene dall‟esterno, cioè da Dio, per grazia divina. Lo Spirito è immanente in Dio e in Cristo, ma rimane trascendente per l‟uomo, che può riceverlo per grazia, ossia è nella possibilità di salvarsi. Se infatti sussistesse una corrispondenza tra Cristo e l‟umanità redenta, la stessa umanità verrebbe divinizzata, come appunto avvenuta nelle ideologie umanistiche di tipo immanentistico. Ma il popolo di Dio non può costituirsi in unità senza la presenza del Cristo, che rappresenta il Regno di Dio, cioè appunto quel Governo degli uomini che questi non potrebbero avere su se stessi. Una congregazione d‟uomini, infatti, si tratti di una società familiare, di una società politica o della stessa comunità ecclesiastica, senza il Governo di Dio, cioè senza la presenza spirituale di Cristo, non costituisce una . Neppure gli Apostoli riuscirono a mantenerla appena Gesù fu catturato al Getsemani, come rivela la cruda cronaca del Vangelo di Marco, allorquando descrive la loro dispersione repentina (14, 50) di fronte al sopruso del Potere. Lo stesso tradimento di Pietro s‟incrive in questa insuperabile lapseità della condizione umana, abhisognevole di assistenza divina per attivare le sue spirituali potenzialità salvifiche. Gesù è solo di fronte alla Morte così come la sua alterità di essere unico lo è di fronte alla molteplicità degli uomini. L‟ipotesi idealistica di Paolo che Cristo possa essere rappresentato dagli uomini, ossia dai fedeli costituitisi in Chiesa, fa di questa la rappresentante di Cristo, e del Papa il Suo vicario in terra, creando le premesse di quella esautorazione dello Spirito caratteristica della modernità, che è il frutto attempato del lascito passivo più cospicuo dell‟ellenismo al Cristianesimo. L‟unicità della Chiesa può assumersi solo in riferimento all‟immagine che essa rappresenta, ossia a Cristo, ma esistenzialmente la Chiesa è una realtà temporale molteplice, la cui unità può concepirsi solo in termini formali, cioè idealmente, quale unità astratta dalla concretezza del rapporto che l‟, per costituirsi tale, non può non avere con

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Cristo che spiritualmente la governa come suo . La Chiesa formale è l‟istituzione episcopale astratta dalla sua dimensione spirituale, la quale è personale ma non collettiva alla stregua di una persona giuridica. La unicità del  non va confusa con la temporalità attuale dell‟oggetto storiografico, il cui unicum consiste nella sua irripetibilità estetica. “Una volta” (), in riferimento al , “significa una volta per tutte”, ossia “per sempre”.332 La sua valenza, dunque, non è storica in senso storicistico (historisch) ma in quanto evento del percorso spirituale della salvezza. Ogni persona ha un suo percorso, e quindi una storia, la storia della sua salvezza, puntellata da eventi teleologicamente più o meno significativi, ma il cui significato trascende sempre la propria esperienza, non restando legato al proprio contesto di senso immanente, che può essere variamente interpretato a seconda della prospettiva ermeneutica. Diversamente, la storia della salvezza spirituale è sempre lo svolgimento della stessa storia, che nella Storia del Cristo ha il suo paradigma fenomenologico. 333 La storia della salvezza dell‟uomo è la Storia di Gesù Cristo, la quale si è svolta una volta per tutte, cioè in un lasso di tempo cronologicamente determinato ma significativo per ogni tempo. Diversamente dal fenomeno historisch, che diventa presente alla coscienza attuale che lo pensa quale suo oggetto, l‟evento della storia spirituale (geschichtlich) riporta ogni coscienza che lo intuisce al luogo proprio del, dove non regna la ragione di Cesare, la logica economica delle connessioni fattuali propria del mondo-della-vita, ma la ragione dello Spirito, finalizzata non già alla vita dell‟uomo, ma alla sua salvezza, intesa dunque come liberazione dai rapporti vitali e dalla stessa patria. A partire dai rapporti di socialità. Ciò che conta per la vita spirituale, non conta per il mondo, che ha altri fini, tutti legati alle incombenze della sopravvivenza biologica, in cui confluiscono anche i valori mondani quali l‟onore, il potere, la ricchezza, la fama, il successo, che sono i fini particolari dell‟unico scopo eudemonistico generale dell‟uomo : il

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O. Cullmann, Op. cit., pag. 151. “All‟atto unico e decisivo di Cristo succedono ancora altri atti unici e decisivi; ma tale carattere non compete loro che nella misura in cui essi sono fondati nell‟atto unico di Cristo”: O. Cullmann, Op. cit., pag. 152. 333

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benessere. Anche la salvezza è, a suo modo, una ricerca di “benessere”, ma spirituale, ossia relativo al  e non alla . La differenza tra le due istanze risiede nella diversa rappresentabilità del rispettivo desideratum in termini veramente uni-versali. Infatti, mentre il benessere della carne nasce da una mancanza logica di ciò che si vorrebbe ma il cui ottenimento non muterebbe comunque la condizione ontologica dell‟uomo, cambiando soltanto la negatività da cui scaturisce il desiderio nella positività della sua relativa soddisfazione; il benessere dello spirito sorge da una mancanza ontologica, la persistenza della quale impedisce all‟uomo di conseguire la salvezza, confermandolo nella sua condizione politica. Uscire dal bisogno materiale, vuol dire quindi cambiare forma all‟Essere ideale, suscitando il dinamismo interno alla condizione fisica dell‟uomo, razionalizzando, ossia portando a ragione, tutti gli elementi disponibili alla bisogna, senza trascendere la condizione ontologica originaria. Uscire dal bisogno spirituale, vuol dire invece conseguire quella condizione d‟essere che consente all‟uomo di trascendere la sua condizione finita, non attraverso scelte progressivamente più razionali rispetto allo scopo immanente, ma grazie al superamento della prova () che pone alla condotta umana la scelta di costituirsi come evento di storia della salvezza eterna, e perciò veramente universale, ovvero come mero fenomeno sociale, dal senso inevitabilmente circoscritto alla sua condizione contestuale. Quando Natanaele si chiede se “possa mai uscire qualcosa di buono da Nazareth” (Giov., 1, 46), si pone nella prospettiva transeunte della condizione sociale dell‟uomo, che come membro della patria politica non può essere “profeta”, cioè non può trascendere la sua naturale finitezza ontologica. la pro-fezia non è anticipazione di un evento futuro, bensì è un‟anticipazione di senso di quanto non è attuale ma il cui significato trascendente la sua attualità è presente, in virtù della fede, alla coscienza profetica, e perciò è immanente a quanto ancora è inattuale e solo possibile. L‟intera vicenda di Gesù è pregna di questa consapevolezza profetica, la quale destina ogni singolo evento presentemente vissuto al suo senso escatologico complessivo, laddove la coscienza degli apostoli si determina nei singoli momenti storici (geschichtlich) dell‟accedere temporale, sicché mentre la coscienza degli Apostoli è in fieri, la

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coscienza di Gesù è originariamente ( ) nella fine () della Storia santa. In questo senso “la morte e la risurrezione di Cristo permettono al cristiano di vedere nella storia di Adamo e nella storia d‟Israele la preparazione della crocefissione e della resurrezione di Gesù […] in rapporto al piano divino della salvezza”, 334 poiché solo la coscienza profetica nel frammento temporale intuisce il tutto, mentre nella partecipazione progressiva all‟evento salvifico, che è il Mistero del piano di Dio,335 si afferma la tensione della fede escatologica nel Regno condendo, che in Cristo è già realtà compiuta. La prospettiva escatologica, con la venuta di Cristo, si sposta dall‟attesa messianica, propria del giudaismo, alla conversione universale, per cui “la norma non è più costituita da ciò che verrà, ma da Colui che è già venuto”.336 Ciò significa che l‟evento compiuto col  divino, eliminando l‟attesa messianica, elimina anche l‟attesa temporale, il futuro, dalla salvezza dell‟uomo. Infatti, la salvezza consiste non più nella fede dell‟avvento del Messia, ma nel rapportarsi all‟evento cristiano già avvenuto, non per ricordarlo come accadimento passato, ma bensì per assumerlo come paradigma eterno. L‟eternità dell‟evento cristico consiste nel suo infinito ritorno di validità (“la via, la verità e la vita”) per ogni esistenza umana di ogni tempo. Il che vuol dire che l‟avvento di Cristo si costituisce in una dimensione meta-temporale diversa dalla temporalità dell‟Essere naturalistico, ossia del Molteplice, di cui quell‟Essere è proiezione ideale. L‟Essere spirituale, dunque, ha un proprio tempo, diverso da quello naturale cronologico, e che è il tempo profetico dei , inaugurato con l‟avvento di Cristo. Anche il tempo spirituale è circolare come quello naturalistico, ma a differenza di questo il cui ciclo è progressivo, tale che la fase finale preluda a quella iniziale, il ciclo spirituale si svolge a contrario, partendo da ciò che è compiuto per risalire ai suoi momenti costitutivi, che sono significativi solo in relazione al loro  escatologico, che coincide con il compimento della profezia. Da qui l‟indagine dei segni dell‟avvento (). Il compimento della profezia del Cristo è il  del Suo avvento. L‟avvento di Cristo nel tempo si dispiega

334

O. Cullmann, Op. cit., pag. 167. Il mysterion di cui parla la anonima lettera Ad Diognetum della fine del II secolo. 336 Ivi, pag. 170. 335

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come una storia avvenimenziale scandita entro un periodo di 33 anni e che si compie con la Sua morte. La Morte di Gesù coincide con il  sia della Storia della Sua vita, che della profezia biblica. La Morte è dunque l‟approdo terminale che costituisce il senso sia dell‟attesa messianica di ciò che in futuro sarebbe avvenuto, che di ciò che potrà sempre avvenire. In tal senso, la Morte di Gesù chiude un eone, quello appunto dell‟attesa messianica, e inaugura uno nuovo, che si compirà con la . E in questo senso essa è un evento “centrale”. A questo punto, la questione è interpretare il nuovo evento finale della  come compimento della conversione universale di tutti gli uomini alla fine dei tempi (universalità molteplice), ovvero come  personale di ogni uomo di ogni tempo (universalità singolare). Nel primo caso, l‟attesa della  universale è una prosecuzione dell‟apocalittica giudaica vetero-testamentale nell‟eone cristiano, che conferma la processualità lineare della temporalità biblica, che assume l‟evento cristico come una fase del suo processo di salvezza. Nel secondo caso, la speranza di una possibile  spirituale di ogni persona nella fede in Cristo, rappresenta un rapporto con Dio non più mediato dalla Legge, ma da Cristo, che “è il  della Legge” (Rom., 10, 4), per cui “mentre prima [di Cristo] il télos era soltanto un‟attesa, ora si riconosce in esso un compimento”. 337 Ma poiché è tale “compimento” a rendere possibile la coincidenza del tempo naturale della carne con il tempo profetico dello spirito (coincidenza in cui avviene nel tempo l‟evento eterno, in cui l‟ora materiale si fonde con il sempre spirituale nell‟, e il  diventa  ), l‟evento di quando lo Spirito “prenderà possesso anche dei nostri corpi mortali” (Rom., 8, 11) non è più legato alla fede della attesa escatologica in un tempo futuro, ma inerisce alla possibilità che la salvezza avvenga ancora per ogni uomo di buona volontà. Non è dunque vero quanto afferma Cullmann sostenendo che “l‟unica dialettica e l‟unico dualismo che si trovi nel Nuovo Testamento, non è una dialettica fra quaggiù e aldilà, e neppure fra tempo ed eternità, ma tra presente e avvenire”,338 poiché la distanza tra Gesù il Cristo e gli 337 338

O. Cullmann, Op. cit., pag. 171. Ivi, pag. 177.

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uomini rimane insuperabile durante l‟esistenza umana, per cui tali “presente” e “futuro” non sono scansioni cronologiche ma condizioni ontologiche, relative allo status spirituale o non della persona, mentre la scansione temporale interessa solo la rappresentazione ( ) interna alla Storia paradigmatica di Gesù Cristo, dove alla Morte è seguita la Resurrezione e nella quale pertanto ogni singolo evento geschichtlich è da assumere nella sua compiutezza escatologica. Essa è un exemplum spirituale per ogni possibile storia personale, ma ciò che è profeticamente presente a Cristo sarò solo una possibilità per l‟uomo. La condizione finita dell‟uomo, legato naturalmente alla , impedisce che la sua resurrezione spirituale possa avvenire anche fisicamente, come invece è occorsa a Gesù, il quale è stato generato divinamente nell‟unità originaria dei due elementi che nell‟uomo sono separati. La speranza cristiana consiste infatti nella possibilità che la condizione naturalmente lapsa dell‟uomo venga superata dalla condizione spirituale, ma senza poter essere annullata finché egli è in vita, durante la quale essa può essere solo occasionalmente negata con atti dettati dalla fede, ma solo la morte potrà liberarlo dalla sua finitezza e riconciliarlo spiritualmente con la sua matrice divina. La finitezza della condizione umana si riscontra anche nella incompiutezza della comprensione della Parola divina, ossia nella distanza tra il significato simbolico dell‟evento soteriologico e la sua ricezione umana, come è evidenziato più volte anche nel rapporto semiotico tra le azioni e le parole Gesù e la loro comprensione da parte gli Apostoli, che ripetutamente ne richiedono lumi. Questa apertura di senso è ancora più lata in riferimento al , che non è un factum umano, e perciò è ontologicamente misterioso, il cui senso in-definito consente quella incessante de-finizione in cui consiste la tradizione ermeneutica. Ora, la circostanza per cui la Chiesa cattolica abbia canonizzato il paradigma ermeneutico all‟interno del cui orizzonte sia possibile svolgere l‟attività di rilettura esegetica delle Sacre Scritture, e soprattutto del Nuovo Testamento, è legata strettamente alla “immagine ideale precostituita del Salvatore” che opera non tanto “una scelta fra gli avvenimenti riferiti dai Vangeli”, come il docetismo di Basilide riferito da Ireneo,339 o quello che nega la risurrezione della carne,

339

Ireneo, Adversus hereres, I, 24, 4. Ved. O. Cullmann, Op. cit., pag. 157 passim.

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riferito da Ignazio,340 ma una selezione degli stessi testi canonici, in base alla quale viene stabilito ciò che sarebbe rilevante per la salvezza da ciò che non lo sarebbe. Ed è esattamente questa canonizzazione delle forme di salvezza il portato della idealizzazione dell‟evento cristico, ossia della trascrizione in termini idealistici del suo  in cui consiste la  cristo-logica, che, in virtù del suo monopolio esegetico, stabilisce un rapporto logicamente esclusivo con la salvezza, distinguente alla maniera dialettica ciò che è esegeticamente ortodosso () all‟Idea giusta (retta, in linea con la tradizione) di Cristo () da ciò che non lo è (), ma è ereticamente diverso () dall‟opinione () canonizzata, sul cui criterio si costituisce quella che Cullmann chiama “l‟assolutizzazione cattolica del tempo della Chiesa”,341 con cui, conseguentemente all‟universalizzazione in senso molteplice della storia della salvezza, si trasferisce sincretisticamente nel tempo finito naturale il tempo escatologico della  spirituale, concependo la  alla maniera farisaica e conformemente al tempo messianico vetero-testamentale. Ma nel Vangelo di Luca Gesù dice chiaramente in risposta al quesito dei sadducei che “quelli che saranno ritenuti degni di aver parte al mondo avvenire e alla risurrezione dai morti […] sono simili agli angeli” (Lc., 20, 35-36). Di conseguenza, anche la “sovranità di Cristo” non coincide con il Suo “regno”,342 in quanto la prima è una condizione spirituale che interessa la personalità del singolo cristiano, mentre il secondo stabilisce una situazione oggettiva relativa al compimento del piano di salvezza del mondo da parte di Dio, quando Cristo si sarà sottomesso a Dio (1 Cor., 15, 28) sedendo alla Sua destra (1 Pt., 3, 22). Nell‟economia divina della salvezza, il Regno di Cristo è già sorto con il Suo avvento (Col., 1, 13), ma non tutti gli uomini si sono sottoposti alla regalità di Cristo, come ad es. i Giudei che ne rigettano la sovranità. Ma anche all‟interno della storia personale della salvezza il singolo cristiano può trovarsi per tempo fuori della sovranità di Cristo, come ad es. Paolo prima della conversione di Damasco, Pietro durante il suo triplice rinnegamento, Giuda Iscariota durante il suo sacrilego

340

Ignazio di Antiochia, Ad Smyrnaeos, 2 e 7, 1. O. Cullmann, Op. cit., pag. 178. 342 Diversamente O. Cullmann, Op. cit., pagg. 182 sgg. 341

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rinnegamento, etc. E questo vale a maggior ragione per la Chiesa, che Cullmann identifica idealisticamente con il   di Cristo, e che per lui “corrisponde esattamente alla sovranità di Cristo”.343] E‟ ovvio che per chi viveva sotto l‟effetto del carisma di Gesù, il Suo regno coincideva con la Sua sovranità e la fede era verso il  di cui Rom., 10, 9, ma questa condizione personale non è universalizzabile senza cadere nel travisamento idealistico dell‟ipostasi dell‟universalità molteplice del . L‟equivoco idealistico, dal quale nasce il moto protestante della Riforma, si annida nelle considerazioni che Cullmann fa della Chiesa in quanto “comunità” che è “il centro della sovranità di Cristo”, la quale, per un verso è considerata il luogo elettivo in cui lo Spirito Santo “opera miracoli”, sicché essa è considerata “il supremo dono salvifico di Dio in questo periodo intermedio” tra la Risurrezione e la , e per altro verso viene considerata solo “oggetto di fede”, in quanto, al pari della “storia intera della salvezza […] non può essere dimostrata ma soltanto creduta”.344 L‟equivoco idealistico risiede nell‟assumere la concreta assemblea eucaristica (), costituita empiricamente da una molteplicità di persone, come una persona giuridica istituzionale, rappresentativa della comunità di fede. Ma restringere lo spazio teologale al contesto ecclesiale significa assumere la realtà della Chiesa come originaria rispetto alla realtà dei fedeli, che solo in essa troverebbero la salvezza (extra ecclesiam nulla salus), ma equivale anche a capovolgere il senso proprio e originario di comunità eucaristica, la cui condizione di esistenza non è la forma istituzionale, bensì esattamente la sovranità spirituale di Cristo. Sostituire la forma ideale alla realtà concreta della , ossia “la creatura al posto del Creatore” (Rom., 1, 21), ha per conseguenza l‟interpretazione della sovranità di Cristo in termini politici, funzionai al Governo della realtà istituzionale. Un travisamento che sembra paradossale riferito a un teologo protestante, ma che è originario alla costituzione stessa della Chiesa come corpo che è nel contempo mistico e politico, inerente cioè tanto alla  che al . Ma questa composizione, che è perfetta in Cristo, è imperfetta nell‟uomo, e di conseguenza nei suoi prodotti. Se

343 344

Ivi, pag. 186. Ivi, pag. 187.

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dunque la Chiesa fosse per ipotesi una comunità di santi già spiritualmente compiuta, cioè perfetta, essa non sarebbe in cammino verso il tempo della salvezza, poiché il divenire di ogni ente mondano è legato proprio alla sua imperfezione. Ma la Chiesa è, appunto, una realtà umana, e perciò imperfetta, in preda sin dall‟inizio alle “controversie” tra gli Apostoli e alle “mormorazioni” tra i credenti, per cui, ben lungi dall‟essere il   , essa non è altro che il riflesso ontico dell‟Idea di Cristo, il Suo . E in quanto molteplice realtà umana, in essa coesistono esperienze spirituali con esperienze politiche, atti di verace santità e autentiche malefatte, che non potrebbero mai essere attribuite a un corpo spirituale. La stessa concezione canonica del Bene come privazione del Male, attesta che ove ci sia santità non possa esserci maleficio, sicché o l‟  è il “corpo mistico” che si costituisce in virtù della comunione eucaristica, ovvero è una persona giuridica, astratta da ogni contingente costituzione sacramentale, la cui costituzione prescinde dalla stessa santità eventuale dei suoi membri. A noi pare che i due concetti di Chiesa non siano equiparabili né che possano coesistere in uno stesso luogo elettivo. Infatti, se la Chiesa fosse effettivamente quella realtà composita che vorrebbero sia i suoi apologisti che i suoi detrattori protestanti, essa non di distinguerebbe dalla stessa realtà sociale dell‟uomo, ossia dalla stessa storia umana, che nel suo insieme variegato comprende ogni sorta di qualità antropologica. E proprio questa versione idealistica della Chiesa ha consentito la secolarizzazione del processo di salvezza spirituale in termini di teleologia storicistica profana. Infatti la Storia sacra è storia in quanto percorso di salvezza, fuori del quale avremmo solo avvenimenti, “fatti” e “atti” in sé assoluti e messi in relazione o dal nesso consequenziale di tipo naturalistico, secondo il necessario svolgimento della potenza nel suo compiuto atto, oppure da un nesso di causalità razionale, stabilito sulla scorta di un processo ideale di cui quello fenomenico sarebbe il riflesso reale. Una storia che non sia quella soteriologica stabilita divinamente e creduta per fede e per testimonianza, non ha né un inizio ( ) né una fine ( ), ma è sospesa alla credenza di chi ne costituisce il percorso razionale, il quale, diversamente dalla fede soteriologica, è privo di testimonianza, in quanto la sua credibilità epistemologica è legata alla verifica fattuale di senso confutativo, che ne accredita la sostenibilità razionale all‟atto

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stesso della sua refutazione. Sostenere quindi, come fa Cullmann, che la Chiesa sia una sola realtà di fede, e non anche di testimonianza, elimina inspiegabilmente dalla sua realtà teologale la stessa testimonianza evangelica della Storia di Cristo. ma questa paradossale omissione si comprende alla luce della equivoca considerazione della Chiesa come riflesso temporale della Storia della salvezza, la quale è già avvenuta entro i termini dell‟esistenza geschichtlich di Gesù, e non può perciò avvenire in futuro, essendo il tempo profetico del  un evento eterno, . Una storia che non sia di salvezza, ma dichiaratamente profana, sostituisce alla teleologia divina una di tipo razionale, la quale, diversamente da quella sacra, è esclusivamente fideistica, legata com‟è alla credenza che l‟ipotesi del processo storico razionale sia quello delineato dall‟interprete e non un altro, sconosciuto. Diversamente dalla Storia sacra, che inizia con la Rivelazione e termina con la Morte di Cristo, che sono eventi entrambi legati al loro divino fondamento ontologico, la storia razionalistica degli eventi profani, mondani e fisici, ha un cominciamento arbitrario e un finale aperto, ossia è indeterminata, e perciò variamente componibile cronologicamente e ricomponibile ermeneuticamente, tale che il suo presunto  razionale sia inseparabilmente dipendente dalla credenza nella validità logica della sua . Di conseguenza, e in senso proprio alla verità, il passaggio idealistico dal modello sacro di Storia geschichtlich a quello profano di senso historisch segna una perdita del senso totale dell‟Essere a favore dell‟immagine ideale, la cui mancanza viene surrogata con apparenze fantasmatiche () di tipo dossologico, tese a convincere anziché al sapere. Questa condizione di vacuità ontologica () è propria del tempo escatologico dell‟attesa, che si delinea appunto come processo tendenziale in corso di definizione, in cui ogni evento si rivela un‟apparenza (Erscheinung) d‟Essere, al quale l‟ente fenomenico rimanda indefinitamente. Il tempo dell‟attesa è caratterizzato dalla sospensione scettica di ogni validità di fede fondamentale, che non indica una condizione emozionale transeunte (, Befindlichkeit) ma costituisce una situazione esistenziale (Existenziell), dovuta alla rimozione idealistica dell‟Essere. In questa situazione si manifesta il  dell‟avvento di Cristo, al Quale i Giudei del tempo dell‟attesa non hanno creduto, persistendo, oltre ogni , nel diniego di ogni segno 176


confermativo delle profezie vetero-testamentali, nella tipica credenza farisaica della insuperabilità del tempo messianico, che è per l‟appunto il “tempo lineare” di cui parla Cullmann, aperto ad quem. Il tempo dell‟attesa, o “lineare”, è il periodo segnato dalla malafede ( ), durante il quale si riempie il vuoto ontologico () con false immagini () dell‟Essere, stabilite per proiezione idealistica dell‟ente religioso. L‟  è l‟uomo stesso divinizzato, del Legislatore terreno che prende il posto del Demiurgo divino. Il tempo dell‟attesa messianica è dominato dalla casta clericale, dagli esegeti esclusivi della Legge con la servile burocrazia degli scribi, contro i quali non a caso e significativamente si scaglia Gesù, in nome della Verità, che rende “liberi” dai vincoli angusti della Legge umanamente interpretata. Contro il legalismo farisaico istituito sul modello religioso, Gesù afferma la Verità dell‟Essere originario, del Quale Egli è  personale,che opera tra gli uomini in Sua rappresentanza divina (Stellvertretung). Il  cristico colma il vuoto ontologico, confutando i falsi  del giudaismo, rispetto al quale la Sua storia stabilisce i fondamenti di un nuovo Testamento di fede, oltre la tradizione giudaica. Una nuova tradizione, incentrata sulla Sua esistenza storica, in cui l‟evento carnale (historisch) si connette inconsutilmente con l‟evento spirituale (geschichtlich). Gesù è Figlio di Dio quanto Figlio dell‟Uomo, sicché con il Suo avvento, la trascendente salvezza paterna, propria della dimensione apocalittica, diventa immanente salvezza filiale eterna, e appunto Storia della salvezza, e non più Attesa della salvezza. Con il compimento dell‟evento messianico, cessa la linearità del tempo profetico, la cui temporanea eternità () supera l‟avvenimenzialità contingente del tempo cronologico a-storico, sostituendo il referente fisico del ciclo naturalistico, la Storia sacra ed eterna della salvezza, che ha per referente lo Spirito. La Storia eterna rappresentata dalla vita e morte di Gesù il Cristo, diventa paradigma di ogni storia personale di ogni uomo spirituale che vive nel tempo, il cui svolgimento è “lineare” in direzione del suo  umanamente misterioso ma, con la Rivelazione, non più ignoto. La attesa della salvezza del periodo pre-cristiano, in quanto personalmente non conseguita e tramandata di generazione in generazione da ogni ebreo ad altro ebreo, pareva destinata entro il popolo israelita quale evento nazionale custodito dalla Legge mosaica e 177


della Thorà. Ma con l‟avvento di Cristo, l‟attesa si è liberata della sua antica apocalissi, la quale ha perduto con il  di Gesù la sua tradizionale dimensione escatologica futura e collettiva per diventare  spirituale storica e personale. Storico in senso spirituale non è l‟evento historisch unico e irripetibile della realtà profana, che come l‟ente idealistico nasce dal nulla e finisce nel nulla, ma è l‟evento geschichtlich della Storia sacra, che parte da Cristo e finisce in Cristo, la quale, per quanto singolare, è sempre ripetibile conformemente al suo modello eterno (). Il “tempo del compimento”, cristianamente, è già nella Storia eterna di Cristo, ma non in un  futuro. Il futuro infatti è solo nel tempo finito di ogni storia personale, ma non ha il senso escatologico di un  avvenire finale. Ciò che è già avvenuto nella Storia di Cristo non può più essere atteso né ignorato dagli uomini; ciò che essi possono ancora attendere è quando la salvezza si ripeterà nell‟esistenza dell‟uomo singolo. La storia della salvezza, non comincia propriamente con Abramo, in quanto storico è solo ciò che si ricollega all‟evento cristico, per cui l‟esperienza di Abramo è storica nella misura in cui partecipa della Storia di Gesù, cioè in quanto da questa Storia la sua figura prende significato escatologico.345 Fuori della Storia compiuta non c‟è neppure un inizio di salvezza, ma la salvezza è nella Storia stessa di Cristo, che inizia il suo corso eterno quando finisce il corso umano-temporale, quando cioè è compiuto il  escatologico con la Morte e Risurrezione di Gesù, con la Pasqua, che segna il compimento anche della Legge e con essa l‟universalità singolare del messaggio di salvezza. Un messaggio che prima di Cristo era “invisibile”, escatologico e fideisticamente legato alla Legge, a che con il  di Cristo diventa invece “visibile a tutti”, e quindi la stessa fede diventa esistenzialmente confermata e storicamente giustificata. Nella prospettiva di Cullmann delle “due storie” parallele della storia sacra e di quella profana, la Chiesa, chiamata a “adempiere la missione di condurre lo svolgimento a quel termine in cui la sovranità di Cristo, attualmente invisibile, diventerà visibile a tutti”, sembra aver preso il posto che era stato del Popolo eletto di Israele, sia pure in scala

345

Ivi, pag. 214.

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universale.346 Sicché quando egli afferma che “a partire dall‟ascensione, […] la storia universale si inserisce in maniera decisiva nella storia della salvezza”, sembra che la storia profana si inserisca in quella sacra, e da questa debba venirne assimilata in senso escatologico. Infatti, egli aggiunge significativamente, “la differenza che sussiste fra storia della salvezza propriamente detta, [corsivo nostro] quale si svolge nella Chiesa, e storia universale, non scompare […], ma, poiché la vittoria decisiva è stata già riportata anche per il mondo intero [corsivo nostro], l‟interesse che il Nuovo Testamento ha per la storia universale si concentra sul presente, che ha inizio proprio con questa vittoria”. 347 In realtà, una storia che sia “universale” in senso molteplice riferito a tutte le genti, e nello stesso tempo anche “parziale”, riferita alla Chiesa, è costituita da due storie: una sacra, in cui il regno è presente, e una‟altra, dove in regno è venturo. E questo ci rapporta subito a quella dicotomia tipica della visione idealistica tra mondo reale e mondo apparente, il quale ultimo necessita di essere condotto a sistema, ossia di essere razionalizzato conformemente ai dettami della recta ratio, rappresentati dalla Chiesa, rappresentante del Lògos. Ma la Storia, che sia veramente universale ed , non può essere che Una, quella spirituale del Cristo, mentre le altre sono solo vicende contingenti legate a scopi mondani di carattere politico-economico. Il passaggio non può avvenire da una ad altra dimensione ontologica senza una previa trasformazione della loro rispettiva condizione in termini logicamente dialettici, tali da poter pervenire quindi a una sintesi risolutiva. Questa trasfigurazione morfologica delle diverse realtà ontologiche è resa concepibile a seguito della assimilazione idealistica del Verbum cristico in Lògos metafisico, che riporta alla dimensione temporale finita – il “presente” in cui si realizza il giudizio di realtà dell‟ente logicamente pensato – il tempo profetico del . Attraverso la cristo-logia di stampo ellenistico, consolidatasi nella tradizione teologica della Chiesa, è avvenuto in realtà l‟assimilazione della “storia della salvezza”, identificata con la storia ecclesiale, nella “storia universale”, conducendo alla progressiva de-mitizzazione della Storia sacra ridotta a Mito ecclesiastico, ossia alla secolarizzazione razionalistica della

346 347

O. Kullmann, Loc. cit., pag. 218. Ivi, pag. 219.

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cultura cristiana ridotta a ideologia religiosa, e infine alla scristianizzazione dell‟episteme cristianizzata, che a partire da Costantino intese il  come  politica, il regnum Christi come sostituzione agli  di Cor2,8. Proprio il rapporto equivoco tra Storia della salvezza, che comprende gli avvenimenti interni alla salvezza spirituale, e storia della Chiesa, che è cronaca delle vicende della sua vita politica, ha creato i presupposti della “rivalità fra Impero e cristianesimo che avrebbe accompagnato da presso lo sviluppo della società cristiana”, essendo inscritta nell‟essenza del  “il conflitto” () tra l‟ente-che-è, e l‟ente che-non-è nell‟Essere ideale, e che nel nostro caso si manifesta come conflitto “fra politica e religione”, il quale darà “in permanenza, carattere di aspra e combattuta drammaticità alla storia del fatto cristiano”. 348 La rappresentazione che ne deriva, di una Chiesa assediata entro il cerchio più ampio della storia universale e in conflitto con le potenze mondane che la contrasterebbero,349 non rende assolutamente il senso della spirituale che costituisce la condizione personale dell‟avvento del regno di Cristo nella esistenza umana. La  degli Apostoli, infatti, anche quando interessa una pluralità di soggetti, inerisce sempre alla conversione spirituale, e non al mero riconoscimento formale della potenza di Cristo, ossia ha a che fare con la  di ogni uomo, e non già con il solo  che prelude a un atteggiamento opportunistico di ragionevole considerazione. Da qui la differenza insuperabile tra la conversione perseverante nella fede, e il riconoscimento occasionale, che differenzia l‟atteggiamento di Paolo e quello di Nicodemo. Nel Vangelo di Giovanni è stabilita inequivocabilmente la differenza tra chi “è nato dalla carne” e chi “è nato dallo Spirito” (Gv., 3, 6), ossia tra chi ha fede e chi non crede. “Infatti Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo”, cioè per distinguere la ragione dal torto secondo la misura umana, che è quella appunto del lògos, “ma [lo ha mandato] perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv., 3, 17). Di fronte all‟evento cristico, l‟atteggiamento di fede che nasce dalla conversione è di subordinarsi alla volontà divina, di accogliere il Regno facendone parte.

348 349

E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 244. Ved. il grafico di Cullmann in Op. cit., pag. 222.

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Il Regno di Cristo opera sulla comunità eucaristica, che costituisce la Sua chiesa (). Diversamente, l‟atteggiamento conseguente al , è quello filosofico distinguente logicamente tra ciò che è razionalmente possibile e ciò che non lo è. Ed è l‟atteggiamento di Pilato, il quale si chiede cosa sia la verità. Ma l‟atteggiamento razionalistico o filosofico, non è assimilabile in alcun modo a quello spiritualistico del credente, il quale, avendo fede in Cristo, accoglie il Mistero divino come la Verità, che diventa la sua verità. Solo il mondo profano può essere in cammino verso la Verità non ancora trovata, ma non certo la Chiesa, che è il luogo simbolico in cui la Verità è già costitutiva dell‟esistenza cristiana e testimoniata dalla fede vissuta. Nel tempo profetico della Chiesa, il  ha già raggiunto la sua , ha già conseguito il suo compimento escatologico. Con la Rivelazione del nuovo Adamo il percorso soteriologico della salvezza personale si definisce con la conversione, che è ri-nascita spirituale, nella quale la reintegrazione nella condizione di purezza pre-adamitica () e il tempo del Regno di Dio coincidono con la presenza di Cristo (). Il tempo profetico è sempre rivoluzionario, tornando ogni evento al senso originario. La Storia della salvezza è già compiuta, o non sarebbe storia, mentre ciò che Cullmann indica come “storia universale”, in realtà è la cronaca degli avvenimenti profani non ancora convertiti nel senso del loro significato soteriologico. Egli, inoltre, si arrovella molto nella questione delle  di cui parla Paolo (Rom., 13, 1), attribuendole alle “potenze angeliche invisibili che agiscono dietro la potenza dello Stato”. 350 Ma la potenza che agisce dietro lo Stato è la  del , a cui i cristiani, per la nota coincidenza col Verbum, devono sottomettersi “poiché lo Stato è al servizio di Dio”, e pertanto, inserito nell‟ordine divino, “concorda, di conseguenza, con la comunità cristiana nel giudizio del bene e del male”, diventando “strumento della vendetta divina”. 351 Esegesi aberrante, che porterebbe a ritenere che non solo la Morte di Gesù si inscrivesse nella  divina, ma che ogni atto profano, anche il più cruento e abietto, perpetrato dagli 

350 351

Op. cit., pag. 230 passim. Ivi, pagg. 236-237.

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avrebbe comunque un valore soteriologico, anche se criptico. Come potrebbe infatti il  sbagliare? Sta in questo presupposto panlogista sia il fondamento cristologico dello Stato che l‟origine di ogni filosofia della storia come interpretazione del processo logico universale. E‟ ovvio che, su questo presupposto, il Nuovo Testamento paia non fornirci “un criterio tale da permetterci di riconoscere in ogni circostanza se uno Stato rimane o meno, all‟interno dei suoi limiti, nella  divina”,352 in quanto il “criterio” evangelico è diverso da quello politico dello Stato, e il compito assegnato ai cristiani è appunto quello di convertirlo in sentimento agapico, non di sottometterlo nel senso della maggior potenza interna a una stessa scala valoriale. Il “dare a Cesare” è, nello spirito evangelico, infatti, non accogliere la ratio della logica del Potere, che per sua natura maligna non ha limiti finquando la coscienza che vi si ispira agisce all‟interno del suo essere, che appunto è logico-ideale. Ed è esattamente la parificazione del  cristologico a quello che presiede alla ragion politica degli Stati a creare il conflitto tipico della civiltà cristiano-liberale tra i due poteri spirituale della Chiesa e temporale dello Stato, essendo appunto il Lògos la matrice ideale di ogni pòlemos. Il cristiano non può servire due padroni, in quanto Cristo non regna sullo Stato, ma sulla Sua chiesa. Prima dell‟avvento di Cristo il pagano poteva riconoscersi nel suo pagus, nella società politica, mentre dopo egli può convertirsi e riconoscere un altro Regno, quello spirituale cristiano. Se è così, la Chiesa non “deve sottomettersi allo Stato, anche se pagano, [si noti: come se lo Stato potesse essere cristiano] quando esso si mantenga nei suoi limiti”. 353 Pilato si è mantenuto nei suoi limiti istituzionali, ma proprio in quanto era un “inconsapevole strumento della storia della salvezza”, 354 egli non era l‟interlocutore di Cristo, non muovendosi sullo stesso piano ontologico della verità e neppure dunque sullo stesso piano profetico.  Profetico è il tempo della durata, ossia della maturazione dell‟evento nel proprio essere spirituale. I tempi profetici dell‟evento spirituale sono legati alla natura finita e carnale dell‟uomo,destinatario della Parola

352

Op. cit., pag. 238. O. Cullmann, Op. cit., pag. 244. 354 Ivi, pag. 245. 353

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divina. L‟attesa del compimento fa parte del tempo profetico, e consiste nella distanza che separa la realtà spirituale dalla realtà materiale; distanza che l‟esperienza finita dell‟uomo misura in tempo cronologico o naturale. Ma la stessa distanza che separa l‟essere spirituale da quello materiale indica che la Parola divina, da sola, non basta a colmare il divario ontologico tra Dio e l‟uomo. Da qui il bisogno di superare la Legge, custode della Parola di Dio, con la Presenza divina nel mondo. L‟Incarnazione del Verbo rappresenta pertanto il superamento della Parola con la Presenza, ossia il tempo dell‟Avvento. L‟Avvento è interno al tempo profetico, che contiene il  della Rivelazione come l‟economia della salvezza di Dio contiene la Presenza di Cristo nel mondo. La distanza tra la Parola divina e la realtà naturale dell‟uomo separa anche la condizione spirituale dalla condizione sociale. La prima, costituita sul principio solidale della fratellanza fra gli umani espressa dall‟, l‟altra costituita sul principio conflittuale della lotta fra gli uomini espressa dal . La comunità solidale ( ) di tipo spirituale è il modello antropologico di convivenza umana che la Rivelazione del Verbo Incarnato propone all‟Uomo, in alternativa alla socialità politica fondata sul conflitto naturale, che è il principio universale della , di cui fa parte la , il regno di Cesare. L‟antropologia politica è quella naturalistica che sta all‟origine della convivenza conflittuale, che caratterizza sia l‟uomo (  ) che ogni altro essere naturale, dal quale l‟uomo si distingue solo per l‟uso della ragione. Il  rappresenta dunque la distanza naturale tra l‟uomo e gli altri esseri animali. Una distanza che dunque è interna alla natura, e perciò non ontologica ma logica, basata cioè sulla capacità dell‟uomo di padroneggiare la realtà col mezzo della ragione. In tal senso, la distanza tra la condotta naturale non-razionale, istintuale o tradizionale, e la condotta razionale, guidata dal metodo logico, è soltanto di tipo evolutivo, legata al tempo, ossia è una distanza cronologica. La vita umana associata, anche se politica, non è dunque di per sé razionale, ma lo diviene assumendo come fondamento metodico della condotta politica il principio della ragione, di cui la logica è la sua elaborazione tecnica. La società veramente razionale è quella guidata dalla logica, dai politici filosofi. E poiché il  è il principio cosmico universale, la società razionale è la stessa condizione ideale

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della vera umanità. Ma questa condizione ideale, di compiuta socialità razionale, non è la condizione di vera umanità predicata dal Vangelo, fondata sull‟amore spirituale, e non certo sul conflitto naturale, sicché l‟adozione del principio di ragion logica all‟interno del sistema di valori cristiani, è semplicemente il portato sincretistico della interpretazione ellenistica del cristianesimo, che ha dato origine a una “pseudomorfosi storica”, nel senso di Spengler.355 In realtà, la tensione costrittiva dell‟animus cristiano all‟interno dell‟involucro istituzionale romano, si è nel tempo neutralizzata attraverso procedure di sistemazione razionalizzatrice degli originari moventi spirituali, che ne hanno diluito la potenzialità eversiva in funzione naturalmente politica. Sul piano antropologico, “non si dà in alcun modo una natura umana afferrabile prima dell‟avvento della cultura”, per cui, a seguito del condizionamento culturale, “il mondo fattuale esterno si impone come naturale”, ossia come “ovvio”, anche se è “celato alla nostra coscienza”. Ora, la concezione naturale dell‟uomo “si sviluppa sempre indirettamente, attraverso ciò che si trova al di fuori di lui”, per cui “egli concepisce la propria unicità nel confronto con un‟alterità su cui stagliarsi”. Il che vuol dire che “ogni cultura interpreta ciò che è naturale o divino interpretando se stessa” come un intero che sta di fronte al diverso.356 Nel caso del cristianesimo primitivo, le forme culturali che lo videro nascere sono, per un verso, quella giudaica, all‟interno della quale si sviluppa la Storia di Cristo come della Presenza divina nel mondo, e quella romana, nei cui confronti la religiosità giudaica si

355

“Chiamo pseudomorfosi storiche i casi nei quali una vecchia civiltà straniera grava talmente su di un paese che una civiltà nuova, congenita a questo paese, ne resta soffocata e non solo non giunge a forme sue proprie e pure di espressione ma nemmeno alla perfetta coscienza di sé stessa. Tutto ciò che emerge dalle pr ofondità di una giovane animità va a fluire nelle forme vuote di una vita straniera; una giovane sensibilità si fissa in opere annose e invece dell‟adergersi in una libera forza creatrice nasce soltanto un odio sempre più vivo per la costrizione che ancora subisce da parte di una realtà lontana nel tempo”: O. Spengler, Untergang des Abendlandes (1918), tr. it. di J. Evola (1957) riv., Milano 1978 3, vol. II, pag. 926. 356 A. Gehlen, Urmensch und Spatkultur (1956), tr. it., Milano, 1994, pagg. 112113.

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modella in senso politicamente funzionale alla pax romana. La tensione eversiva interna all‟ebraismo, nei confronti della tradizione giudaica, è la predicazione cristiana, mentre, nei confronti del Potere romano quella tensione è rappresentata dallo zelotismo, rinnegato dalla prospettiva escatologica di Gesù. Pertanto, se nei confronti della tradizione giudaica la predicazione evangelica appariva, pur senza alcuna intenzione di Gesù, come eversiva, nei confronti del Potere di Roma, il cristianesimo rappresenterà, a partire simbolicamente da Costantino, la nuova forma di religiosità funzionale alla conservazione della civiltà politica. In tal senso, il martirio di Gesù perpetrato all‟interno della forma religiosa giudaica e per mano del Potere di Roma, ebbe un esito salvifico solo in riferimento al contesto politico romano, ma non a quello religioso ebraico, nella cui tradizione esso pure intendeva porsi come avvera mento della profetico. L‟aspetto paradossale di tale situazione consiste nell‟adozione da parte del cristianesimo della forma romana, ecumenica, di religiosità sociale, e nel ripudio cristo-logico della tradizione giudaica, che perseverò nella sua posizione arcaica di custodia della Legge mosaica. Questa pseudomorfosi religiosa cristianoromana potette avvenire a seguito della scelta teologica strategica di rinunciare a convertire la religiosità giudaica in fede cristiana, che avrebbe interessato comunque la sola nazione esraelita, e di dedicarsi alla predicazione universale, dando così alla teologia del Verbo, cioè alla tradizione giudaica, una connotazione nazionalitaria, e quindi naturalistica, che l‟Incarnazione di Cristo superava sia nel senso profetico dell‟ avvento della Presenza di Dio nel mondo, e sia nel senso della dimensione ecumenica della nuova predicazione. L‟esito di questo duplice mimetismo morfologico fu la sostituzione religiosa del cristianesimo all‟ebraismo in funzione politica romana, che tradusse il senso teologico del nuovo eone cristiano nel mero senso dell‟universalismo politico imperiale. Il cattolicesimo ellenisticoromano, dunque, fu nei confronti del Potere politico la versione universale di ciò che l‟ebraismo era stato in scala ridotta locale, con la fatale conseguenza di doverne inevitabilmente dipendere, adattandosi alle sue estrinseche mutazioni morfologiche nel tempo storico in senso profano, anche se religiosamente adottato come il tempo stesso della salvezza spirituale. Da qui l‟estensione della “linearità” del percorso spirituale personale all‟intero percorso temporale dell‟umanità cristianamente interpretato in senso universalistico, per cui il tempo

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dell‟Avvento è diventato il “presente” del tempo cronologico profano, e il tempo profetico sacro della risurrezione spirituale di ogni uomo che si riconosca come immagine di Cristo è diventato quello “futuro” della  universale, dislocando il già compiuto del  della Presenza nel non ancora pienamente realizzato nel tempo profano, e quindi inserendo la Storia della salvezza paradigmatica di Gesù nella storia universale del mondo, facendo della storia profana il contenitore formale della Storia sacra.357 Non può dunque meravigliarci come la diversità ontologica della rappresentazione antropologica dell‟uomo spirituale cristiano sia progressivamente andata concependosi come una mera alterità dialettica da ridurre a sistema attraverso continue razionalizzazioni dell‟originario senso escatologico della predicazione evangelica, fino alla sua totale esautorazione di senso ed eventuale sostituzione con più duttili “animità” religiose. Cullmann è perfettamente consapevole del “valore immenso” che il singolo uomo riveste nel Nuovo Testamento, la cui “etica individuale”, rispetto alla visione sociale ed etnica vetero-testamentaria, costituisce lo “scandalo” per cui “la rivelazione dello svolgimento del piano grandioso e divino della salvezza è rivolta a ciascuno personalmente e determina la sua vita”.358 Ma la sua tesi circa il “carattere temporale della storia della salvezza” lo induce a ritenere che “la fede del cristianesimo primitivo nella storia della salvezza presuppone [la] coscienza del peccato e della colpa”, senza la quale quella storia non sarebbe “comprensibile”.359 Ora, il passaggio dall‟etica religiosa socialitaria del giudaismo nazionale, all‟etica cristiana della colpa, non può essere un “presupposto” della fede soteriologica, ma bensì l‟esito, in quanto il motivo etnico del fideismo vetero-testamentario era intrecciato inseparabilmente al carattere olistico della shame-culture tradizionale, che costituiva il paradigma formale di ogni società arcaica. La “fede” neo-testamentaria deve pertanto essere considerata il “presupposto della coscienza della colpa”; coscienza che non sempre accompagna la fede degli stessi Apostoli, proprio perché coinvolge una condizione culturale nella quale era immersa la stessa tradizione

357

Ved. a prop. l‟impaccio esegetico del Cullmann alle pagg. 247-250 dell‟Op. cit. O. Cullmann, Op. cit., pag. 253. 359 Ivi, pag. 355. 358

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religiosa giudaica. Il differimento della compiuta salvezza personale in termini cronologici di storia profana, anziché nella soggettiva durata profetica, produce un parallelo esito sociologico individualistico relativo al rapporto religione-società che rapporta la condizione di “salvezza” dalla dimensione spirituale a quella sociale della fede, per cui diventa “cristiana” la religione propria della “cultura di colpa”. Questo fa sì che il personalismo cristiano venga interpretato come contingente connotato religioso dell‟individualismo sociale, anziché come il contenuto di coscienza della stessa fede neo-testamentale. Cullmann cade in pieno nell‟equivoco teoretico allorché pone “esattamente sulla stessa linea della salvezza” il  di Paolo (Rm., 1, 1) e “l‟elezione di Israele”,360 giustapponendo il  personale “in rapporto alla Chiesa” di Cristo, con la fede messianica impersonale del popolo della Legge. Sono due contesti escatologici del tutto incommensurabili, se è vero che la Rivelazione è il “compimento della Legge”.361 Proprio il carattere personale della salvezza di Cristo fa sì che essa possa costituire il paradigma della salvezza di ogni cristiano, la quale, rispetto all‟evento compiuto , ha la possibilità di compiersi “se crede” non già “che questo passato lo riguarda in modo tutto personale”, 362 ma, poiché “l‟individuo muore e risorge con Cristo”, “se crede” che quel  non sia punto “passato” ma eternamente possibile, e perciò fuori della “linea” del tempo finito. L‟idea, invece, della “partecipazione all‟avvenimento del passato” è la trascrizione teologica del concetto trascendentale dell‟Einfuehlung storicistica di Dilthey. 363 Infatti, Cullmann intende il  di 1 Cor. (4, 1) come “storia della salvezza o storia della rivelazione”, anziché come la Verità stessa della salvezza e della rivelazione, che a noi pare il modo giusto di rapportarsi al 

360

O. Cullmann, Op. cit., pag. 256. O. Cullmann, Op. cit., pag. 171. 362 O. Cullmann, Op. cit., pag. 257. 363 Se per Cullmann il battesimo conferisce lo Spirito Santo, “vale a dire il dono del presente e del futuro della storia della salvezza” (Loc. cit., pag. 259), esso è già realizzato in Cristo, che perciò non può essere un “passato”, ma un sempre in cui consiste infine la trascendenza della vita spirituale. Ved. quanto riportato da Gadamer a proposito della Lebenschauung di Simmel, in Wahreit und Methode, tr. it. cit., pag. 288 n. 1. 361

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profetico dell‟evento cristico, travisando il rapporto ontologico tra il fondamento di fede e il comportamento etico come rapporto deontologico tra l‟ “imperativo” del dovere e l‟ “indicativo” dogmatico, chiamando “complessità etica” ciò che in realtà è pura confusione aporetica tra contenuto di fede ed “esortazione” al “mandato missionario”.364 Il Nuovo Testamento, osserva Cullmann, “non stabilisce un nuovo comandamento, ma esige che il vecchio da tanto tempo conosciuto, venga attuato partendo da quell‟indicativo”, e cioè che “Cristo regna, ora”, e quindi che esso “venga radicalmente osservato”. In tal senso, il “compimento della Legge” non significa superamento della letteralità e adempimento del precetto caritativo in “ogni situazione concreta”, quanto che, trattandosi di “una situazione completamente diversa” da quella del Vecchio Testamento, la sua lettera non sarebbe “adatta alla situazione concreta” che si è venuta a creare col Nuovo. 365 Qui è evidente che la trasposizione del precetto astratto e generale vetero-testamentale nella concretezza della situazione esistenziale del “presente” non colga il suo senso autentico finché resta confinato alla dimensione “etica” della Legge, relativa al piano della socialità politica, a cui il “giudizio etico del credente” dovrebbe rapportarsi in senso del costante impegno attuativo. La novità scandalosa dell‟insegnamento di Gesù consiste invece nel trasferimento del valore cogente del comandamento dal piano della vigenza per conformità alla Legge a quello interiore dell‟adesione per convincimento di fede. Lo spostamento in interiore homine della fonte normativa comporta l‟adesione morale, e non più solo formale, al precetto divino, il quale pertanto diventa per ogni fedele da oggettivo ossequio alla normativa a convinta condotta di vita. Come abbiamo visto a proposito della differenza tra dovere etico (sociale) e libero convincimento morale (personale), il piano eticosociale del dovere, quello appunto in cui si muove Cullmann, riguarda 364

O. Cullmann, Op. cit., pagg. 261-262. Anche qui vediamo quanto la trascrizione teologica di contenuti di pensiero filosofici (l‟allusione a Kant ci pare manifesta) siano il portato a sua volta di un mutuo teologico del razionalismo moderno, in quell‟andirivieni dialettico degli opposti logici che si convertono in contrari reali. 365 O. Cullmann, Op. cit., pag. 263.

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la dialettica tra eventualità ed effettività della vigenza normativa, per cui la “concretezza” del precetto viene intesa nel senso della sua “attualità” temporale. Diversamente, sul piano morale della personale responsabilità, non può sussistere alcuna realizzazione del precetto senza la cosciente intenzionalità del soggetto agente. La differenza è bensì “radicale”, ma non nel senso della continuità ed attualità della vigenza dei comandamenti divini, ma nel senso della dislocazione del referente giudiziario dal foro istituzionale, rappresentato dal consesso sacerdotale, al piano della coscienza personale dell‟agente, che è quella stessa della fede del credente. Cristo “regna” (attualità e continuità dell‟indicativo) in quanto è presente alla coscienza del credente, anche quando lui non agisce, ma ad es. prega o si astiene dal commettere peccato. Il “regno” di Cristo è in questa “presenza”, con la quale si stabilisce un rapporto diverso da quello socio-politico, di natura trascendente e finalizzato alla salvezza spirituale. Rispetto alla salvezza sociale, finalizzata alla conservazione del gruppo, nel nostro caso della nazione israelita, la salvezza spirituale inerisce il rapporto che la persona ha con Cristo, e non più con la comunità politica, di cui quella religiosa è una variante o un sottogruppo. Per cui, è la Presenza divina che costituisce il Regno spirituale e fonda la comunità di fede (), così come, in campo profano, è il Governo sovrano a istituire lo Stato politico e a fondare la società civile ( ). Senza la Presenza divina, il Regno spirituale non sussiste, e la Chiesa diventa istituzione ecclesiastica, organismo di potere ecclesiale. Parimenti, senza Governo sovrano, lo Stato non sussiste come comunità etica e la società civile diventa consorzio di gruppi economici in conflitto, coesistenza conflittuale di gruppi economici in competizione. Ciò che fa di una comunità religiosa una  è l‟unità spirituale della fede comune in Cristo, mentre ciò che fa di una società civile uno Stato è l‟unità etica, ossia il Governo. Non c‟è Governo sociale senza fondamento etico della sovranità. La sovranità di Cristo, però, non è etica come quella del Governo civile, fondato sulle leggi dello Stato, ma spirituale e fondata sulla fede. Parimenti, se la virtù civica è l‟obbedienza alle leggi dello Stato, che reggono il consorzio civile e costituiscono la comunità etica, la virtù propria della fede è la carità, che stabilisce le relazioni inter-personali di carattere morale. Parlare pertanto di “etica cristiana”, equivale a fare del Cristianesimo una religione politica, che esige doveri di obbedienza, anziché una fede

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spirituale che ispira comportamenti morali. Se i doveri etici si possono esigere politicamente attraverso l‟attività di istituzioni giuridiche, i comportamenti morali sono liberi, in quanto dettati dalla sola coscienza personale, verso la quale si è solamente responsabili. Il trasferimento del foro giuridico al foro interiore costituisce lo  politico e religioso della predicazione cristiana, che stabilisce una modalità di convivenza umana a-politica. La “maledizione” del lavoro sabbatico (Lc., 6, 5) deriva dalla finalità estrinseca dell‟ossequio alla Legge, anziché al convincimento interiore. Ma la “coscienza” del dovere morale è conseguenza della fede in Cristo, senza la quale l‟ottemperanza alla norma diventa mera obbedienza formale, atteggiamento farisaico. E qui sorge la questione relativa al senso del  paolino di Rm., 6, in cui la rinascita spirituale dell‟uomo viene assunta, sul modello della resurrezione di Cristo, come stato di grazia, alternativo allo stato di legge (6, 15), in cui “liberati dal peccato”, si diventa “servi della giustizia” divina (6, 18), “per la santificazione” (6, 19), ossia per conseguire “la vita eterna” (6, 22). Il  qui non è il comportamento etico di ossequiare la norma di legge, foss‟anche quella divina, ossia la conformità, la quale, dal punto di vista morale appare mero conformismo, ma l‟atteggiamento morale, dettato dal libero convincimento interiore di ispirarsi alla Verità, ossia allo Spirito Santo, la cui azione viene intesa da Cullmann come relativa alla “capacità di prendere in ogni e qualsivoglia momento la decisione etica conforme al Vangelo, coerentemente alla conoscenza dell‟avvenimento della salvezza, in cui lo Spirito Santo rappresenta un elemento decisivo”.366 Si noti la correlazione logica tra “capacità”, “decisione” e “conoscenza”, che sono le tipiche condizioni giuridiche della dinamica del soggetto imputabile di ogni fattispecie legale, e che attribuiscono esattamente quel “valore generale” (erga omnes) ai comandamenti agli “imperativi etici”, rispetto alle quali le “applicazioni concrete” del  farebbero per Cullmann la differenza. Ma la “concretezza” morale della predicazione paolina non è la relativa alla continuità temporale e alla tempestività occasionale dell‟azione ispirata dallo Spirito Santo, ma consiste bensì nell‟atteggiamento che non è conforme 366

O. Cullmann, Op. cit., pag. 265.

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a ragione giuridica, di vigenza universale collettiva, ma coerente alla storia della salvezza, di valore universale personale. Il rapporto tra conformità e coerenza è lo stesso che tra legalismo e convincimento. La conformità legale è la manifestazione del comportamento etico, ispirato alla responsabilità giuridica, che è indipendente dal convincimento personale dell‟attore, mentre la coerenza morale è il segno del convincimento di fede, indipendentemente da ogni coscienza giuridica, ossia dal rapporto logico tra azione e conseguenze legali. Inoltre, la differenza tra la prescrizione di amarsi l‟un l‟altro dell‟etica giovannea (1 Gv. 4, 10-12), “catechismo dell‟etica neotestamentaria”, 367 e la consegna morale di amare il prossimo espressa da Gesù è desumibile inoltre dall‟istanza di reciprocità che implica il rapporto sociale, e che invece manca, come abbiamo visto con Jankélevic, nella discrezionalità unilaterale dell‟azione morale. Il , in quanto “capacità di discernere” (Cullmann) 368 “per esperienza quale sia la volontà di Dio” (Rm., 12, 2), o è coscienza giuridica, cioè dottrina teologica, ovvero è intuizione spirituale, come quella di Platonov, il personaggio di Dostevskij di Guerra e pace, la cui assoluta ignoranza culturale si abbina alla assoluta conoscenza intuitiva della “buona, gradita e perfetta volontà” di Dio riferita nell‟Epistola da Paolo, stigmatizzata come irrazionale dal Socrate dell‟Eutifrone platonico. Il  è la “decisione” conseguente al “giudizio”, ossia al discernimento spirituale inteso però in senso dello SpiritoLògos, e quindi logico, che presume dunque la conoscenza del Vero, ossia quella  che per il giudaismo era la Legge, il culto della Parola, e che per il razionalismo greco era l‟espressione del Logos, il  filosofico. I due elementi delle rispettive tradizioni culturali, combinati dal sincretismo ellenistico con la predicazione evangelica, produssero il canone legale dell‟etica ecclesiale, le cui regole di fede furono identificate con la volontà stessa di Cristo, rappresentata dalle Scritture neo-testamentali e tramandata dalla Chiesa, la Sua immagine cristo-logica ().369 367 368

O. Cullmann, Op. cit., pag. 267. Ivi, pag. 266.

369

L‟esordio di tale identificazione della volontà episcopale con la stessa volontà di Dio risale al Concilio di Nicea, dove fu fissato il fondamento dogmatico trinitario

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Dalla custodia delle regole teo-logiche espressive del  nasce il  dell‟ortodossia interna alla , ossia il Potere religioso della istituzione ecclesiastica di decidere ciò che è  da ciò che non lo è rispetto al catechismo della Chiesa, in contrasto con il percorso personale della salvezza cristiana. Volerne prescindere con una semplice esegesi protestantica del Nuovo Testamento, nel quale ci sarebbero, secondo Cullmann, “soltanto regole di fede e non catechismi”, e neppure “regole etiche generali”, non risolve, perché non l‟affronta nei giusti termini ermeneutici, la questione a nostro avviso fondamentale della trascrizione dell‟evento spirituale del  di Gesù in termini di storia soteriologica del , in fenomenologia dello Spirito incarnato nel tempo profano. E‟ chiaro anche a Cullmann che, fuori del suo orizzonte di fede, la storia ideale dell‟uomo, privata del suo fondamento ontologico, rimane priva anche del suo  escatologico, così che “la risurrezione individuale, staccata dall‟avvenimento della salvezza” spirituale dell‟uomo, trasforma “la speranza cristiana” in anelito umanitario, di un umanesimo eudemonistico o soggettivamente edonistico, ossia nella “aspirazione egocentrica dell‟uomo alla felicità” terrena, 370 che esalta il tempo finito al di qua della morte, anziché la dimensione eterna conseguibile con la morte della realtà fisica e la conseguente

della Chiesa cattolica, sotto l‟egida politica di Costantino, che lo convocò per risolvere la questione ariana. L‟imperatore, in una lettera alla comunità di Alessandria, dove era nata la versione di Ario sulla creazione di Cristo, scrive significativamente che “Ciò che han deciso trecento vescovi non è altro che la decisione di Dio, in quanto lo Spirito Santo presente in questi uomini ha loro manifestato il volere di Dio stesso”: G.H. Opitz, Urkunden n. 25, 8. Ved. K. Baus, La controversia ariana dagli inizi alla morte di Costantino, in H. Jedin (dir.), Storia della Chiesa, vol. II, L’epoca dei concili, tr. it. Milano, (1977), 2001, pag. 30. Resta sottinteso che la volontà imperiale, influente, se non sulle decisioni dogmatiche, sicuramente sulla loro costituzione, ha a suo modo rappresentato la stessa volontà dello Spirito Santo. occorreva infatti al Potere imperiale “una costituzione di fede che potesse unificare intellettualmente in una visione razionalistica dell‟universo il mondo che Costantino aveva già unificato nelle sue mani vittoriose”, la quale rappresentasse, sul terreno spirituale, “la tutela teoretica dei suoi poteri primaziali di governo sulle grandi realtà dello spirito”: E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I cit., pag. 291. 370 Ivi, pagg. 268 e 269.

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risurrezione pneumatica. Ma questo rovesciamento dialettico, che ha coinvolto l‟intera civiltà cristiana, deriva appunto dall‟estraneazione ontologica, che pensa l‟Essere come Idea e l‟ente concreto come sua immagine fenomenica, per cui la Storia della salvezza spirituale è diventata storicismo, e la Redenzione dalla carne è stata interpretata nel senso profano di processo della Libertà dalla necessità naturale, ossia di ogni forma di costrizione legale, della Natura come della Società e della stessa Legge divina, ovvero, contraddittoriamente, della Storia stessa dell‟uomo. Storicismo della libertà, ossia Liberalismo, il quale, dal punto di visto teologico, è la forma secolarizzata del Cristianesimo idealistico, del pensato razionalisticamente come immagine (o “corpo”) ideale della  universale, astratta dalle sue radici di fede ebraiche, ossia dal fondamento ontologico della fede in Dio, dove la compiutezza personale della Legge generale, astratta dal suo orizzonte di salvezza spirituale, diventa negazione del precetto divino, e la responsabilità morale della libertà personale, arbitrio della volontà individuale. L‟ universale, astratta dal suo orizzonte di fede trascendente, è l‟umanità, l‟ecumene sociale abitata da persone. Il processo di continua emancipazione spirituale pensata come purificazione del , fuori dell‟orizzonte della salvezza cristiana, si determina nella storia profana come affermazione umanistica della Libertà intesa come essenza positiva universale in eterna tensione metafisica con l‟opposta negatività che dialetticamente la contrasta. Per affermare l‟etica della Libertà, ritenuta essere la forza stessa della ragione universale a cui sarebbe stolto e vano opporre resistenza, le istituzioni sociali, dalla famiglia allo Stato, devono adoperarsi per neutralizzare ogni resistenza irrazionale stratificatasi nella tradizione culturale delle civiltà umane, per questo verso tutte fallacemente prone all‟incantamento diabolico del Negativo, sì che la condizione ideale sarebbe la loro stessa esautorazione, che lascerebbe finalmente posto all‟Uomo nuovo, totalmente libero. Questo motivo ideologico ricorrente per tutto l‟evo moderno è facilmente risalibile alla tensione escatologica cristiana, dalla quale ha mutuato gli essenziali elementi strutturali, quali: a) l’emancipazione dalla tradizione, b) la lotta contro il Potere, c) il soggettivismo della coscienza,

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d) la predicazione di massa, e) il finalismo messianico, f) il movente soteriologico, g) la lotta contro le  malvagie, h) il superamento dell’eone pre-istorico e l’avvento dell’eone storico, i) l’avvento del Regno della libertà da ogni necessità, l) la convivenza meta-fisica.

Senza l‟avvento della Rivelazione cristiana, non ci sarebbe stata alcuna rielaborazione razionalistica del suo Mito. Ma l‟insuperabilità dialettica del suo fondamento ontologico, fa sì che il processo rielaborativo si sviluppi nel senso del suo svelamento logico, che lo rivela come Negativo non-essere rispetto alla positività dell‟Essere del Lògos. Da qui l‟a-teismo del razionalismo moderno, il quale, liberando il Lògos dalla sua opposizione negativa, ne rivela il suo Essere, identificato appunto col Lògos Ma che l‟Essere sia il , fa parte della fede razionalistica che “al principio era il Verbo, che il Verbo era Dio e che Dio era il Verbo”. La verità di tale sillogismo si basa tutta sulla fede che Verbo e Dio coincidano, siano cioè Uno. Ora, noi sappiamo che  non c‟è il  ma il , di cui il  è il derivato astratto e positivizzato: il Figlio della teologia cristiana. Il Mito di cui la cristologia è figlia, è il racconto biblico di Dio, che si è manifestato al suo popolo, che è la Sua immagine terrena, come Legge. Dio in senso biblico è la Sua parola come volontà: la Legge, appunto. La volontà legalizzata a sostegno dell‟unità sociale è l‟etica. L‟etica biblica non sarebbe senza il popolo israelita. Legge e popolo sono indisgiungibili, e l‟una rimanda all‟altro e viceversa. Superare la Legge in senso cristiano, significa liberare la Parola di Dio dal vincolo comunitario e destinarla all‟ascolto personale nell‟interna coscienza. Il passaggio dalla dimensione del popolo a quella della coscienza descrive la transizione dal Mito biblico alla sua rielaborazione cristiana. La fede neo-testamentale che Cristo sia Dio è diversa dalla teoria logica che Dio si sia manifestato nel tempo come Cristo. Nel primo caso, l‟affermazione è ontologica ed esprime il monismo dell‟Essere come Verità. Nel secondo caso, l‟affermazione è logica ed esprime il dualismo tipico dell‟idealismo dialettico, per il quale l‟Essere è diverso

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dall‟ente fenomenico. La cristologia della Chiesa romana, affermando che Cristo sia Dio, lo rappresenta razionalmente come la Sua immagine umana, facendo del fenomeno Gesù l‟Essere stesso, idealizzando perciò l‟Ente che viene affermato come l‟Essere, per cui la fede vetero-testamentaria in Dio diventa la fede neo-testamentaria in Cristo. Se credere in Dio significa credere in ciò-che-non-è ente ma Essere (fede ontologica), credere in Cristo significa credere che l‟Ente sia l‟Essere (fede logica), al modo idealistico. La fede cristiana, non solo ha rimosso l‟Essere religioso (Jahvè) della Bibbia, ma ha liberato l‟Ente dal suo fondamento ontologico, cioè dal suo Essere, assumendolo al suo posto divino. L‟esito di questa rielaborazione cristo-logica del Mito veterotestamentario è il  ecclesiastico oggetto della fede cristiana universale. Poiché di “fede” si tratta, il razionalismo moderno, procedendo sul percorso di purificazione dell‟Essere logicamente pensato, ha creduto di rielaborare a sua volta il costrutto cristologico dalle sue parti mitiche, ossia di quanto era sopravvissuto della originaria credenza ontologica vetero-testamentaria, pervenendo a una rappresentazione residuale in termini logicamente coerenti, che in fine ha trovato anziché l‟Essere, l‟Ente, ossia il fenomeno in divenire. E poiché non ha potuto non riconoscerlo come ente fenomenico, e quindi transeunte come ogni ente diveniente, la de-mitizzazione della cristo-logia romana ha liberato dopo l‟Essere anche l‟Ente da ogni rapporto vincolante con il suo metodo critico, che perciò rimane l‟unica verità trascendentale rispetto a ogni suo oggetto di analisi. Il pensiero del , la  logica, con cui si è pensato anche il  di Cristo, ridotta a , è l‟esito scientistico della de-mitizzazione della cristo-logia cattolica operata dal razionalismo teologico-liberale protestanico, il cui prodotto ideologico secolarizzato è il Liberalismo, nomen juris del moderno nichilismo idealistico di matrice greca platonica. 7. Il tentativo di storicizzare le figure ipostatiche della Trinità idealizzandole fu già in Ireneo, che aveva suddiviso il tempo dello Spirito profetico dell‟Antico Testamento dal tempo dell‟Incarnazione del Figlio e dal finale regno dei cieli, per essere ripreso da Agostino e

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quindi da Gioacchino da Fiore, 371 ma il risvolto mondano della prospettiva soteriologica cristiana assunse una determinazione secolaristica allorquando il disegno provvidenziale fu attribuito all‟opera missionaria di volenterosi testimoni della fede, in grado di convertire il disegno escatologico divino in una forma di socialità piegata attraverso la politica al modello teologico. Questo riassestamento dell‟ordine cosmico spontaneo a un progetto idealizzato di  socio-politica costituisce il retaggio più antico e insidioso dell‟idealismo platonico, e quindi della tradizione ellenistica, il cui razionalismo, intrecciandosi con l‟escatologia del fideismo ebraico, trova nella prospettiva evangelizzatrice cristiana il terreno idoneo a una forma religiosa sincretistica che inaugurerà il nuovo paradigma cristologico che legittimerà la civiltà liberale europea. Chi riassunse la propria posizione intellettuale e morale nella priorità della fede divina sul pensiero umano, quale condizione di questo, fu, primo fra tutti i cristiani, Paolo di Tarso, in cui “i termini della teologia giudaica e di quella ellenistica concorrono ad esplicare un‟individuale esperienza di salute che culmina e s‟interpreta nel mito di Cristo redentore”,372 che costituisce “il nodo che ricongiunge la individualissima fede di Paolo a tutta la storia ulteriore della Chiesa; e come religione del Cristo redentore noi ritroviamo il cristianesimo postpaolino”. All‟insegna di Paolo si dispiega l‟intero percorso della “civiltà della Chiesa” subentrata alla “civiltà della polis”. 373 La vocazione di Paolo, analogamente a quella degli altri apostoli, era finalizzata “a continuare l‟opera di Gesù di Nazareth e a preparare la chiesa per la fine

371

Ireneo, Adeversus Haereres; Agostino, De Trinitate e De civitate Dei; Gioacchino, Expositio in Apocalypsim. Ved. H. de Lubac, La posterité spirituelle de Joachim de Flore, tr. it. cit., pagg. 27 sgg. 372 A. Omodeo, Storia delle origini cristiane, vol. III, Paolo di Tarso apostolo delle genti, Messina, 1922, pag. VII. 373 La sua marcia evangelica […] è una delle più grandi rivoluzioni storiche. Una coscienza nuova entra in azione e trasforma il mondo e i rapporti umani: la civiltà della chiesa subentra alla civiltà della polis; la disintegrazione della civiltà greco romana, che è iniziata assai prima di Paolo, con Paolo cessa di essere dissoluzione anarchica nel caos, raggiunge coscienza e fine e diviene edificazione in un nuovo senso: costituzione d‟un‟umanità più vasta, che si rappresenta a se stessa idealmente come Cristo. […] Egli era il punctum saliens, la sintesi originale della forza di Cristo: A. Omodeo, Paolo di Tarso apostolo delle genti, cit., pagg. V-VI.

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dei tempi”.374 La caratteristica essenziale della “civiltà della Chiesa” è nel suo fondamento di fede escatologica, in virtù del quale l‟esistenza umana nel tempo libera e sviluppa una coscienza spirituale trascendente il destino mondano costituito dalla condizione socio-politica, e nella fede in questa trascendente liberazione spirituale l‟uomo ritrova la sua mistica appartenenza divina originaria. Il superamento della condizione socio-politica dell‟uomo, a favore di un primato della dimensione coscienziale, definisce anche i termini della dialettica interna alla duplice natura umana tra e , che simbolizzano gli elementi metafisici di riferimento della stessa libertà di condotta morale dell‟uomo. Nella tensione a trascendere la condizione naturalistica dell‟esistenza umana consiste dunque la libertà spirituale dell‟uomo come “corpo pneumatico”, mentre nel tentativo di costituire una forma di realtà conseguente a tale livello di coscienza consiste l‟esperienza culturale della Chiesa quale corpo mistico di Cristo, le cui vicende storiche segnano l‟intero processo della universale civiltà liberale europea, entro il cui orizzonte teologico-politico va inscritto la stessa secolarizzazione razionalistica dell‟originaria escatologia ecclesiale, con la sua finale conversione dialettica di segno ateistico e anti-cristiano nell‟idolatrico e immanentistico totalitarismo statalistico. Le forme istituzionali tradizionali di tale tensione dialettica sono storicamente rappresentate dalla Chiesa e dall‟Impero, nelle sue varie articolazioni internazionali e nazionali, la cui polarità ideale ha contrassegnato i movimenti spirituali e politici della bimillenaria civiltà cristiano-liberale. E proprio in considerazione di tale polarizzazione istituzionale e ideale, il tentativo di addivenire a una sintesi compositiva ha ispirato il disegno di una superiore costituzione comunitaria della civiltà cristiana in senso risolutore di ogni interno conflitto religioso e politico dei popoli cristiani, secondo una forma monarchica imperiale e pacificatrice, in grado di contenere la latente tensione escatologica dell‟ispirazione paolina nell‟ambito della sua costituzione universale.

374

K. Baus, L’opera dell’apostolo Paolo, in Storia della Chiesa dir. da H. Jedin, vol. I Le origini (1962), tr. it., Milano, 1992 2, cap. V, pag. 134.

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La cura verso gli affari del mondo era connaturata nella confessione cristiana alla critica al legalismo giudaico, la cui unica aspirazione era di piacere a Dio, a scapito della stessa elevazione morale dell‟uomo, preda dei rigorismi superstiziosi delle pratiche rituali tradizionali, prive di una intima adesione degli officianti. L‟istanza d‟amore cristiana per il prossimo, caricato di pathos civile, facilmente si convertiva in petizione politica,sicché la salvezza pneumatica trovava spontaneo riferimento esistenziale nella libertà di determinazione dei credenti impegnati alla costruzione del regno di Cristo, comprensivo di tutte le genti sotto un governo comune. Il trapasso dal nazionalismo all‟universalismo religioso operato dal cristianesimo paolino “in base ad argomentazioni puramente razionalistiche non poteva aver luogo”, ma per quanto sia pur vero che “l‟universalismo cristiano scaturirà dall‟ideale messianico escatologico”,375 nondimeno la testimonianza di una fede fondata sulla coscienza interna presumeva la pedagogia socratico-platonica, ereditata dalla civiltà ellenistica, della ricerca del Bene come unità ideale delle molteplici aretài, quale fine della conoscenza e dello stesso reggimento politico.376 Non è casuale che l‟esperienza cristiana, pur nata all‟interno della tradizione giudaica, si sia affermata come vangelo universale soprattutto in ambito pagano ed ellenistico, mentre le più grandi resistenze al riconoscimento del Messia provenissero proprio da quella radicata tradizione nomistica, in cui gli spunti universalistici erano indissolubilmente legati a una ispirazione nazionalitaria del privilegio giudaico che ripugnava al cosmopolitismo ellenistico, 377 restando

375

A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pagg. 18 e 19. Ved. W. Jaeger, Paideia (1944-45), tr. it., Milano, 2011, pagg. 1798 sgg. 377 A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pag. 23. Lo stesso A. ricorda che “quando Paolo estende l‟evangelio alle genti, i cristiani giudaizzanti cercano di risollevare le barriere della teocrazia giudaica” (Ivi, pag. 24), registrando l‟aspirazione del giudaismo ellenizzante “ad esprimere da sé un valore novo nella storia” ma insieme “un‟incapacità a definirlo astrattamente in formule e dogmi secondo la tradizione filosofica ellenistica”, cadendo così in una “ambiguità di cultura [che] soggiaceva a quella civiltà pagana che avrebbe dovuto investire e travolgere”. E pertanto la stessa “speculazione religiosa di Filone” non giungerà oltre che a creare “gli schemi e i metodi di cui si avvarrà in seguito la teologia cristiana”, senza riuscire allo scopo di “piegare il mondo ribelle al riconoscimento di Dio”: Ivi, pag. 25. 376

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storicamente all‟apostolato paolino il “grande merito” di aver superato ogni particolarismo ecclesiale, impedendo che “i credenti in Cristo si scindessero in due chiese separate, una dei giudei e l‟altra dei gentili”.378 L‟ossequio formale alla legge non poteva contenere il momento divino, l‟aspirazione a colmare di segni tangibili l‟onnipotenza di Dio, la cui fede contrastava incresciosamente con una evidente minorità nazionale.379 Agli israeliti mancava insomma lo Stato, la costituzione politica, che rappresentasse quella forza insuperabile che invece dominava loro e tutto il mondo pagano. L‟inconciiabilità delle loro aspettative con la realtà del mondo, spinge la coscienza ebraica “a gravitare verso la grande speranza messianico-escatologica”, ossia verso “il sogno del compimento della teocrazia con la rivelazione di Dio”, fantasticamendo di una forma nuova e più perfetta, corrispondente “pienamente alla fedeltà religiosa del popolo e dei singoli”. 380 Questa aspirazione sposta i termini dal piano politico, oggettivamente impraticabile, al piano cosmologico, implicante una trasfigurazione antropologica dell‟uomo reale in una figura pneumatica angelicata, compensativa delle storiche tribolazioni che ne preparavano l‟avvento apocalittico.381 In questo clima, l‟attesa del Messia esorbita i compiti di un liberatore nazionale e del costituente politico, per assumere la fisionomia di una potenza soprannaturale che riesca a trionfare sulle forze maligne che la ostacolano. Lo stesso concetto di Dio si decompone in una sostanza superiore e sublime distinta dai suoi attributi, e il ferreo monoteismo viene confermato nell‟ordine gerarchico del dominio di Iahvè sulle altre minori potenze, mentre il 378

K. Baus, L’opera dell’apostolo Paolo, cit., pag. 135. “La teocrazia logicamente richiede la concreta manifestazione d‟un ordine provvidenziale connesso all‟osservanza religiosa. La vita sotto la legge assume tutta quanta l‟aspetto d‟un rito sacro a cui dovrebbe corrispondere come un segno dall‟alto la prova tangibile dell‟esistenza di Dio. israele aveva tutto impegnato nel far credito al suo Dio, e intanto questo supremo coronamento della teocrazia, questa rivelazione di Dio nell‟ordine politico e nell‟ordine cosmico mancava”: A. Omodeo, Paolo di Tarso apostolo delle genti, cit., pag. 27. 380 Ivi, pag. 28. 381 “Il sogno messianico da aspirazione politica e nazionale che ambisce ai trionfi di questo mondo va diventando sempre più trascendente per la ferrea logica del concetto teocratico che mira a rendere più stretto il rapporto fra Dio e uomo, e tende a ridurre l‟uomo alla condizione di angelo”: Ivi, pag. 29. 379

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Messia veniva rappresentato come l‟immagine ipostatica dello stesso popolo ebraico che la vince sugli altri popoli come il santo Figlio di Dio sulle altre potenze angeliche, dando vita a una “mitologia entro il monoteismo”.382 Ma l‟aspetto più rilevante della escatologia ebraica è che, accanto alla trascendenza orizzontale provocata da una attesa messianica non più circoscritta all‟esperienza nazionale ma inerente ogni singola persona che aspirasse alla vita eterna, essa sviluppasse anche la coscienza del ruolo divino del mediatore soprannaturale, vedendo nel Messia la figura esoterica di un rigeneratore dell‟umanità adamitica rosa dal peccato. In questa nuova prospettiva cosmogonica, l‟uomo rigenerato, da essere peccaminoso, diventa nella trasfigurazione escatologica il termine finale della Genesi, ipostasi di Dio e sintesi della Sua sapienza celeste, che costituisce la premessa messianica della elaborazione alessandrina del Logos quale Figlio dell‟Uomo. Dall‟incubazione messianica giudaica sorge la “rivoluzione cristiana” interpretata da Paolo, sicché “non è Paolo che si spiega con Filone, ma Filone con Paolo”. 383 Per Paolo, l‟avvento di Cristo chiude il ciclo della legge e inaugura l‟età messianica, sostituendosi alla legge quale “sorgente di vita religiosa” e “mente e sapienza di Dio”. L‟osservanza della legge non basta più alla causa della redenzione, e proprio la ricerca di “un nuovo principio dinamico che potenzi l‟anima religiosa […] finirà a proiettar Paolo fuori dall‟orbita del giudaismo” e della prassi mosaica, conducendolo al “mito della redenzione”. Infatti, con la predicazione e il martirio di Gesù “la realtà vivente della fede dà vita e moto alla speranza: finalmente si sente Iddio che si rivela ed opera nella storia: il messianismo entra in azione, il compimento è già iniziato”. In Gesù di Nazareth prende cirpo “il fantasticato Messia, il Cristo del suo sogno escatologico, iniziatore e principio attivo d‟un‟umanità nuova e celeste”, così che, col Suo avvento, “il dramma apocalittico cala dal cielo in terra per risollevare al cielo i santi eletti di Dio”.384 Lo spirito incarnato nel Figlio dell‟Uomo rende, più che la mera osservanza della legge, immanente la presenza di Dio nella storia,

382

A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pag. 31. Ivi, pag. 36. 384 A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pagg. 41-44. 383

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trasponendo nella esperienza totale dell‟uomo rinato nella fede quel lavacro spirituale che non riusciva conseguirsi attraverso la astratta prescrizione canonica, per cui ciò che allontanava nel sogno apocalittico la trasfigurazione dello spirito la fede traduceva in personale rivoluzione, molto più concreta e vitale di ogni progetto teocratico nazionale, perché universale, così che in Paolo “Iddio trascendeva la patria e la stirpe, e solo trionfava in Cristo figliuol suo”. 385 Nella figura del Cristo paolino l‟unità della fede monoteistica e quella ecclesiale del corpo mistico si costituiscono a paradigma universale di una rinascita spirituale che, proprio in quanto indirizzata a tutti gli uomini, non è più solo religiosa ma esistenziale e dunque potenzialmente dirompente verso ogni equilibrio socio-politico stabilito. La forza spirituale della penetrazione cristiana era riposta proprio nella sua pretesa totalitaria e radicale, non addomesticabile a una funzione di contenimento di equilibri istituzionali, in grado perciò di tradurre l‟intima fede in esperienza vivente che assorbe ogni opera sotto il decreto divino, sacralizzandola e riportandola per una via personale e singolare a un ordine provvidenziale. Il novus ordo scaturito dalla resurrezione pneumatica consiste dunque in una trasvalutazione dell‟esistenza umana che si rifrange sull‟intero mondo delle relazioni tra gli uomini e che trova nella resurrezione di Gesù il suo paradigma mistico che coniuga l‟evento storico alla fede messianica nel suo significato categoriale di “principio cosmico animatore di un nuovo eone”,386 all‟interno del quale il simbolo apocalittico del Messia incrocia la figura escatologica giudaica con quella ellenistica del demiurgo politico. La riluttanza giudaica ad accreditare Gesù come il Messia è della stessa natura religiosa del

385

Ivi, pag. 47. “La nuova religione si proclamava in pari tempo sovranazionale e universale. Il primo carattere la spingeva sulle vie del mondo al fine di evangelizzare le nazioni; il secondo la induceva a rivolgersi a tutti gli uomini e a ogni uomo. anche in questo si differenziava dalle religioni pagane del tempo che costituivano un conglomerato di culti locali e regionali. […] Al carattere di universalità e di sovranazionalità, essa aggiunge il rifiuto d‟ogni forma sincretistica, a motivo dell‟intransigenza con cui ritiene necessario far conoscere agli uomini il messaggio di cui si fa portatrice”: P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, Roma-Bari, 2009, pagg. 44 e 45-46. 386 A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pag. 66.

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rigetto della figura divina dell‟imperatore, ma questa riserva monoteistica non sussiste entro l‟arcipelago teologico ellenistico, dove è più agevole la espansione evangelizzatrice, per cui all‟interno della tradizione cristologica le due figure giustapposte del celeste e di quello terreno vengono emergendo a tratti alterni a seconda della contestuale rilevanza prospettica, ponendsi all‟origine della dialettica dei due poteri, spirituale e politico, che restavano separati come cielo e terra nella fase pre-cristologica. Solo, infatti, il passaggio dalla fede di Gesù alla fede in Gesù consente alla distinzione, entro il comune referente nominale; di determinarsi nei termini di una esclusiva autorità potestativa che non ammette mediazioni nel suo rapporto originario con Dio. Ogni elemento autoritativo, richiamandosi al comune denominatore si richiama a una completezza escatologica che è all‟inizio e alla fine del processo storico, ossia dell‟eone stesso messianico, caratterizzato dalla scissione delle due nature umane che, ricomposte in Cristo, tornano a distinguersi alla Sua morte, che dunque si costituisce come l‟evento escatologico centrale della storia, la quale “è il campo in cui la sostanza del tempo e quella dell‟eternità, morte e vita si incrociano”. 387 La storia in cui avviene l‟evento cristico è pertanto tempo dell‟incompiutezza, della scissione e della tragedia della libertà come decisione morale per la verità, ossia per il trascendimento della finitezza naturale intrinseca alla stessa esperienza dell‟uomo. In questo senso, la libertà come decisione dell‟uomo pneumatico è essenzialmente decisione contro l‟uomo politico dell‟antropologia pagana. Ed è in questa libera esclusione del naturale che si dispiega la storia spirituale dell‟uomo, sicché “soltanto l‟uomo che è nella libertà è storico”. 388 Nel contempo, la morte stessa di Gesù rivela, più e prima della Sua resurrezione, l‟appartenenza del nuovo Adamo alla sua natura terranea, cioè alla necessità, stabilita dall‟incarnazione, di poter essere trascesa solo per mezzo della mediazione divina. Ciò vuol dire che la libertà stessa dell‟uomo spirituale non può stabilirsi che nel rapporto dialettico con la sua natura carnale e quindi entro la storia della sua intrascendibile incompiutezza. Questo fa sì che la esperienza dell‟uomo, per uanto

387 388

J. Taubes, Abendlaendische Eschatologie (1947), tr. it., Milano, 1997, pag. 24. Ivi, pag. 25.

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santificata dall‟esempio divino, non può mai conseguire quella pienezza dei tempi alla cui attualità è chiamata la storia dell‟umanità, per cui la stessa esistenza paradigmatica del Cristo rimanda escatologicamente alla libertà della storia e alla imprescindibile responsabilità dell‟uomo, e dunque all‟attesa del compimento dei tempi come liberazione finale dalla storia. In questo senso, la esperienza dell‟uomo nel tempo è storia della morte, così come il compimento del tempo della libertà è libertà dalla morte. E dunque, la storia della libertà non è altro che storia della morte, narrazione di come l‟uomo spirituale pervenga al trascendimento della sua esistenza infra-temporale come evento di libertà dalla morte. In questo “dove” in cui il tempo finale (Endzeit) e il tempo originario (Urzeit) si incrociano nel kairòs,389 egli incontra il suo mediatore divino che già gli si è una volta rivelato come uomo. Se all‟evento di libertà si voglia sostituire un processo di liberazione dell‟uomo, realizziamo una conversione spirituale (metànoia) che stabilisce il primato dell‟elemento pneumatico su quello fisico. Nondimeno, se vogliamo estendere in senso unversale tale conversione singolare, allora siamo nell‟ambito ell‟apocalittica rivoluzionaria, la quale contrappone alla “totalità del mondo”, come realtà negativa da rigettare, “un‟altra totalità”, quella della realtà nuova da accogliere. 390 Questa volontà rivoluzionaria di liberazione universale dell‟umanità, sia per le implicazioni gnostiche che per i riflessi socio-politici, è sostanzialmente estranea alla predicazione evangelica, in quanto la conversione cristiana non affida all‟uomo l‟apocatastasi finale spettante alla sapienza di Dio, ma soltanto la responsabilità morale della sua libera scelta di trascendere la finitezza della sua natura materiale e conseguire la libertà spirituale. Essa dunque riguarda i singoli uomini di buona volontà, non l‟astratta generalità di masse impersonali, legando la possibilità della conversione alla eterna esistenza di Dio e alla immanente assistenza mediatrice di Cristo, come parimenti alla compresenza del male come termine dialettico del bene trascendente. Diversamente, l‟apocalittica prefigura l‟avvento di un “Dio che-non-è” che “stringe e annichilisce il mondo, mettendone in discussione

389 390

J. Taubes, Loc. cit., pag. 29. J. Taubes, Loc. cit., pag. 30.

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l‟essenza e confutando qualsiasi validità e definitività di ciò che è”. 391 Entro la visione apocalittica, non c‟è mediazione dialettica tra opposte polarità della stessa realtà, ma solo superamento rivoluzionario del male attraverso il bene conseguito dalla esclusione della dimensione negativa a opera di quella positiva. E proprio il carattere assoluto e difforme delle due dimensioni in conflitto presuppone due diversi ordini cosmici, uno dei quali esclude l‟altro. Ciò comporta, con l‟affermazione di un elemento elettivo incommensurabile con l‟avverso elemento nocivo, anche l‟ammissione del pluriteismo e conseguente superamento del rigido monoteismo ebraico. Ma questo non è il caso del cristianesimo. Il principio apocalittico, in quanto “contiene in sé un potere che distrugge le forme” positive del mondo presente, e un potere “che le crea”, affidando a se stesso l‟opera di ricostruzione del mondo annichilito, è intrinsecamente contraddittorio, in quanto la sua rivoluzione, “tendendo a un télos assoluto, essa deve superare qualsiasi forma”.392 Ma questa irrequietezza delle forme è legata al carattere astratto dei rispettivi modelli ideali in conflitto, la cui proiezione ipostatica dell‟evento liberatore isola il senso assiologico iniziale (la creazione) da quello teleologico finale (la redenzione), provocandone con la scissione dall‟opposto anche la sua conversione dialettica. Infatti “un evento non è mai solo assiologico o solo teleologico rispetto al suo éschaton, ma è l‟indissolubile unione di entrambi”, il cui rapporto dialettico “è sempre minacciato dall‟autonomizzarsi dei poli”, che sono i due “fuochi dell‟ellisse escatologica”. 393 Orbene, se “l‟ontologia apocalittica è possibile solo nella dialettica tra assiologia e teleologia”, allora la storia dell‟uomo non può essere “il centro tra creazione e redenzione”,394 poiché solo nella scissione bipolare è possibile individuare un “centro” come elemento terzo tra l‟inizio e la fine, mentre invece la “storia della salvezza” è in realtà “il procedere” di quella stessa salvezza che è già contenuta nella totalità dell‟esperienza umana come inscindibile esistenza singolare. In tal senso, non si può dare alcuna storia che non sia storia della salvezza singolare, poiché

391

J. Taubes, Loc. cit., pag. 31. Ibidem. 393 J. Taubes, Loc. cit., pag. 34. 394 Ibidem. 392

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solo nell‟esistenza concreta del singolo uomo coesistono e agiscono i due poli del processo escatologico. In questa concretezza esistenziale è la forza dinamica insuperabile, e superiore a ogni altra dottrina soteriologica, del cristianesimo. E solo nella dimensione totalitaria della esperienza singolare la redenzione finale conseguente alla morte del Cristo si costituisce come redenzione dalla morte stessa, come risurrezione, e dunque come paradigma soteriologico del Figlio dell‟uomo, nella cui storia si compendia la storia spirituale di ogni figlio di Dio. Fuori di questa storia spirituale, in cui la coscienza dell‟uomo incontra o misconosce la verità di Dio, non vi è che manifestazione di volontà in rapporto solidale o conflittuale rispetto ai fini della coesistenza naturale. La vita naturale è per ogni uomo lo stesso processo di assorbimento verso la necessità dell‟ordine della natura che caratterizza la sopravvivenza di ogni specie vivente, e dunque verso la indistinta naturalizzazione della esistenza singolare, dalla quale questa emerge come progetto identitario di carattere spirituale. Il mondo umano, rispetto all‟ordine naturale, si costituisce come il progetto differente rispetto allo stesso del processo biologico comune. Il Differente sta allo Stesso come la soggettività dell‟uomo sta alla impersonalità della natura. In tal senso, la narrazione dei processi naturali è sempre inerente a realtà oggettive impersonali, il cui significato non è legato alla storia spirituale di chi li pone in essere ma ai valori contestuali al loro universo di senso simbolico. E pertanto la morte in croce di Gesù, come evento simbolico della fede cristiana, acquista il suo significato paradigmatico in conseguenza della fede in Cristo, la quale costituisce la condizione originaria di ogni ermeneutica della salvezza spirituale. La fede in Cristo, quale fondamento di una rappresentazione della realtà fondata su una credenza di veridicità, implicava dunque una Weltanschauung, ossia un orizzonte di verità diverso dagli orizzonti di sapere tradizionali, rispetto ai quali esso si poneva come definitivo, e pertanto apocalittico. L‟apocalissi propria alla verità cristiana è la metanoia spirituale dei singoli, e pertanto la sua assunzione nei termini oggettivi di una rivoluzione socio-culturale trasfiguratrice dei paradigmi intellettuali del sapere tradizionale è dovuta a una successiva elaborazione teoretica di formalizzazione razionalistica, dalla quale si è sviluppata la tradizione teologica della Chiesa cattolica e delle altre confessioni cristiane.

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Il rapporto tra l‟evento della conversione singolare alla fede in Cristo e il processo di espansione culturale della Weltanschauung cristiana è inerente al rilievo sociale che l‟esperienza spirituale individuale viena ad assumere nel contesto del mondo effettuale come significato per la vita collettiva. Tale rilievo, in quanto appunto sociale, non è legato al parametro della verità della fede singolare, ma al significato che le istituzioni pubbliche conferiscono a quell‟evento spirituale, sicché il rapporto tra l‟esperienza singolare della fede e il suo significato sociale è relativo alla forza politica che la Weltanschauung cristiana ha di imporsi come forma istituzionale di valore collettivo. Ed è nella ricerca di questa forza politica atta a confermare il valore sociale della fede in Cristo che la Chiesa cristiana sviluppa la sua teologia come organico sistema di sapere, e la sua relativa politica di affermazione contro le contrarie potenze mondane operanti per confutarlo e contrastarne l‟espansione legislativa. In questa tensione teologico-politica si sviluppa il processo del cristianesimo come vicenda profana della Chiesa cristiana, indipendente dal rapporto che i singoli stabiliscono con la verità di fede in Cristo. La materia oggetto della trasformazione spirituale, il corpo fisico dell‟uomo con le sue necessità biologiche, sul quale la coscienzamorale incide per trascenderle, si presenta all‟azione evangelizzatrice come una struttura istituzionale che incide sulla vita umana come la forza che plasma le sue idee e indirizza i suoi comportamenti. Questa struttura era la civiltà greco-romana. Essa era stata caratterizzata dalla fiducia metafisica nella razionalità dell‟ordine cosmico, che si rifrangeva nella potenza dell‟ntelligenza umana a controllare i movimenti eversivi delle forza della natura e dei fermenti sociali meno coltivati e spontanei, da quelli plebei ai moti dei popoli barbarici. L‟azione del razionalismo pareva avesse domato il destino segnato dal volere capriccioso degli dèi, che la solidità dell‟Impero garantiva a segno della grandezza demiurgica dei Cesari, e il controllo religioso manteneva entro la tradizione. Un nuovo culto poteva legittimare nuove istanze politiche contro l‟ordine stabilito e perciò andava represso con l‟accusa di lesa maestà. Ma ciò che pareva un‟infrazione se considerata dalla prospettiva del Potere, era una speranza se sogguardata dalla posizione del popolo escluso dai privilegi del rango e dalle fortune dei successi militari. “Questa massa innumere come un mare immenso flagellava e disgregava l‟ultima città vincitrice e s‟imponeva con la costituzione

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dell‟impero. […] Roma s‟andava disciogliendo fra i popoli e le nazioni che aveva frantumato [e] il libero perde il pieno rilievo che aveva nelle precedenti età, sisommerge nella massa grigia. La quale, anche nelle migliorate condizioni dell‟età imperiale, anche nel continuo livellamento fra popoli italici e province non assurge mai a piena vita civile e politica, ma rimane supinamente passiva”, che ha perso la speranza nel mondo reale e che fa della religione “la sua vera vita. […] Nell‟età ellenistica le religioni nazionali dell‟Oriente partoriscono nuove religioni universalistiche”, finché “nel terzo secolo le religioni orientali raggiungono il pieno trionfo” compenetrando la filosofia e lo stesso ordine politico, concepito come corrispondente a un ordine soprannaturale trascendente la forza umana e predisposto provvidenzialmente dagli dèi. 395 Il collante religioso dell‟unità politica supera le difformità culturali e le divergenze degli interessi nazionali, assumendo una funzione di collegamento tra singoli e il Potere imperiale che la sola efficacia delle istituzioni statali non potrebbe garantire, con la conseguenza però di renderlo più astratto e distante. Infatti, “la coscienza imperiale dello stato, esprimendosi in forma religiosa, rappresenta la sommissione assoluta, la passività che sopporta ma non opera” e che distrugge pertanto la classe politica custode delle prische tradizioni nazionali. 396 La massificazione del Potere imperiale corrode il ruolo dell‟aristocrazia romana esautorando i valori della stessa cultura tradizionale sulla quale si fondava l‟Impero romano, in quanto l‟universalità della sua espansione elefantiaca non assicura più il protagonismo di una élite senatoria che si faccia carico della rappresentanza di quei valori che avevano fatto grande la civiltà di Roma ma che rimanevano appannaggio di elementi comunque eccezionali e ormai troppo distanti dalle istanze del comune sentire di masse assimilate nella cittadinanza ma culturalmente sradicate397 e prive di autentico spirito civico, sicché “nazionalismo aristocratico

395

A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pagg. 275-278. A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pag. 282. 397 La constitutio antoniniana che estende la cittadinanza romana universale è del 212. Le masse sradicate dagli agri e inurbate in cerca di una vita migliore erano abbisognevoli di identità e quindi più esposte al proselitismo religioso. Ved. E.R. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, tr. it., Firenze, 1970, pag. 135. 396

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romano e impero universale si trovano in due piani storici diversi”. 398 La distanza tra i valori di socialità e l‟esercizio del Potere contrassegna il dramma della decadenza di una civiltà. La regressione del senso civico annichilisce le forze spirituali della società, esaltando il particolarismo filisteo delle classi popolari, intente a coltivare le sole attività redditizie, garantite da un formale riconoscimento del Potere, e il tarlo della dissoluzione diffonde vieppiù la sua azione corrosiva. L‟equilibrio tradizionale tra autorità senatoria e Potere del principe s‟infrange nella Roma imperiale in quanto la forma stessa dell‟Impero mancava di una legittimazione morale che trascendesse lo stesso Potere dell‟imperatore, pure indicato già nel III secolo come “dominus” e come “deus”.399 Il vuoto di cultura politica comportava il vuoto dei valori razionalistici interpretati dall‟aristocrazia tradizionale, sicché, “scomparso il controllo critico della razionalità, sottratta la gnosi al processo dell‟umano conoscere, si schiudevano le porte a tutte le religioni e a tutte le teurgie”,400 di cui la coscienza elementare delle masse dell‟Impero divenne facile preda. Da queste premesse sorge il terreno di coltura del proselitismo cristiano. Il collante politico, in una società gerarchizzata, poteva trovare il suo fuoco di coagulo solo nella figura carismatica dell‟imperatore, il quale, comunque, in quanto egli stesso interprete di forze sociali antagonistiche ad altre concorrenti al Potere, non poteva garantire la equanime soddisfazione delle istanze elementari di riconoscimento alla vita che avanzavano le masse popolari incluse nell‟Impero. All‟uopo la speranza riposta in un appello a un potere superno anche più alto di quello imperiale e paternamente benevolo come quello divino 401 sortiva maggiori possibilità di fascinazione presso una umanità disgregata ma cosmopolita, eterogenea ma accomunata dalle stesse fondamentali aspirazioni di ogni singolo a “superare nella religione il senso pauroso e sconcertante della propria particolarità nel tutto, l‟inconsistenza del suo essere annichilito”.402 La religione come riscatto dal vuoto di un

398

A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pag. 285. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pag. 53. 400 A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pag. 289. 401 J. Taubes, Escatologia occidentale, tr. it. cit., pag. 87. 402 A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pag. 292. 399

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pessimismo pauroso e superstizioso e appello di salvezza diventa un nuovo criterio identitario di appartenenza alla divinità e che fa del devoto il modello d‟uomo universale, liberato di ogni accidentale particolarità e portatore di valori non transeunti ed effimeri. Colui che riusciva a interpretare gli elementi più salienti del culto e incarnare i tratti più tipici della fisionomia mistica del dio universale, poteva aspirare a rappresentare le speranze comuni di una gnosi salvifica a cui il cristianesimo saprà dare forma sintetica nuova e originale nel suo sentimento della fede nel Cristo storico, e che troverà nel suo individualismo universalistico il suo fulcro propulsivo, che il rigido legalismo ebraico non aveva potuto contenere. 403 La dimesione storica della fede cristiana consegna alla sua realistica rappresentazione del dramma esistenziale dell‟uomo-dio il valore paradigmatico di una esperienza universale, esperibile da ogni uomo. E proprio in questo realismo il dramma religioso acquista un pregnante valore morale di redenzione interna alla vita, in cui la speranza apocalittica diventa infra-mondana e legata alla esistenza terrena. L‟escatologia paolina, germinata nella tradizione giudaica, nel campo abbondantemente arato della religiosità ellenistica troverà il suo propizio terreno di coltura, recandovi però “una vitalità assai più vasta, una profondità d‟ispirazione, un‟austerità di vita etica infinitamente superiore alla reviviscenza dei culti naturistici nei misteri orientali”. 404 La superiorità del cristianesimo sulla gnosi ellenistica consiste, come giustamente notato dall‟Omodeo, nella posizione della fede (pistis)

403

J. Taubes, Loc. cit., pag. 88. Infatti, il cristianesimo paolino, seppure “include concetti ed aspirazioni che sono comuni alla religiosità ellenistica, non li include per un processo sincretistico, d‟intarsio di diversi miti e di disparate credenze, secondo un momento di pura riflessione teologica, come le speculazioni dei dottori gnostici; ma tali concetti sono come il vocabolario religioso del I secolo di Cristo, le forme in cui solamente quella civiltà poteva concepire il rapporto con la divinità e hanno una concretezza nuova di significato nella nuova sintesi. Abbiamo una fusione di getto; non una speculazione teologica sovrapposta estrinsecamente al rito, ma un nesso organico di mito e di rito. La religiosità ellenistica è risolvibile nel cristianesimo, e non viceversa, anche nella fase germinale dell‟evangelio paolino: A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pag. 317. 404

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come antecedente alla gnosis.405 Ma tale fede non va intesa, come appare allo storico, solo in termini di intimo entusiasmo e “irradiazione d‟amore in una sfera sociale che coincide con Cristo”, che pure esistono e alimentano “la costruttività sociale, ecclesiastica del cristianesimo, che sviluppa e determina quelle aspirazioni a nuove forme sociali” che anticipano la Chiesa; ma va intesa anzitutto come fondamento di verità che “si chiarisce a se stesso nel mito” come sua elaborazione teologica, e “opera nel mondo con le due storie concatenate del dogma e della chiesa”, andando a costituire “una sfera di carisma, a intendere il quale sorgeranno tutte le difficoltà che rivelerà la storia del dogma, e che andranno erodendo i presupposti statici del pensiero e della filosofia antichi che poggiano sul concetto dell‟essere”, e la cui forza di irradiazione, andrà a superarere, “nella sua perfetta coerenza di mito e teologia, il punto morto dell‟ellenismo”.406 Ossia il naturalismo antico, legato a filo doppio con la dimensione politica dell‟antropologia classica. Il cristianesimo, di contro, propugna un netto superamento della dimensione di vita quotidiana, in vista di una rinascenza spirituale che, “sprofondando nella religione tutta la cività antica”, dalla ispirazione religiosa traeva “una nuova forma mentis, una nuova coscienza sociale, una nuova cultura, in una parola una nuova civiltà”.407 La civiltà cristiana si fonda sul presupposto della fede in Cristo come il redentore del mondo, ossia sulla possibilità della libertà dell‟uomo che percorre il suo viaggio di salvezza spirituale, la sua storia. Cristo, quale unità spirituale del mondo, sostituisce l‟Essere del pensiero antico e la sua ontologia naturalistica. In Cristo si compone la lacerazione dell‟uomo sospeso tra Dio e mondo, segnando l‟esistenza umana di un télos salvifico che si dispiega come un dramma escatologico interno ad essa che s‟incentra sulla conversione (metanoia) del cuore, che produce conseguenze nei rapporti con gli altri, assunti come prossimo e non più come amici o nemici. In questa Umkehr che produce una Umkehrung si compendia l‟annuncio evangelico del Regno da parte degli apostoli di Gesù, che diventa il simbolo dell‟auto-coscienza dell‟uomo e della

405

A. Omodeo, Paolo di Tarso, cit., pag. 319. Ibidem. 407 A. Omodeo, Loc. cit., pag. 320. 406

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storia universale spiritualizzata. La storia della conversione dell‟uomo dalla sua vita naturale a quella spirituale, fa rivivere alla sua coscienza, sul modello della morte e resurrezione di Cristo, il suo personale kairòs. Questo neutralizza la carica eversiva dell‟éskaton cristiano, consentendo, con l‟attesa finale, la costruzione di un mondo migliore, cioè improntato ai valori spirituali cristiani. L‟essenza dell‟apocalisse cristiana è la Rivelazione storica del Messia, la quale dunque è un terminus a quo anziché ad quem, poiché è a partire dalla storicità dell‟evento messianico che ha inizio la storia della salvezza. La storia della salvezza è lo scenario fenomenologico in cui si svolge l‟evento salvifico, che riguarda il tèlos escatologico del processo storico, oggetto di fede. La fede escatologica inerisce dunque al fine soteriologico del processo fenomenologico, ma non riguarda la storicità dell‟evento, oggetto di fede, ma la sua interpretazione finale. Ciò vuol dire che il contenuto di fede dell’evento storico non riguarda la sua esistenza reale nel tempo ma solo il suo significato simbolico, contenuto della rappresentazione fideistica, che pertanto trascende la realtà esistenziale del fenomeno originario (Urbild). La distinzione tra fenomeno e sua rappresentazione è possibile solo in quanto si mantenga come ontologicamente reale il fondamento della rappresentazione, cioè si postuli la realtà unitaria del fenomeno originario che rimane lo stesso fondamento per ogni possibile interpretazione, e si sposti sulla sua rappresentazione la moltiplicità dei suoi significati simblici. In tal senso, la unità del fenomeno, essendo ritenuta la stessa per ogni possibile interpretazione, costituisce il suo fondamento di verità. Il metodo dialettico della filosofia greca ha distinto tra le molteplici interpretazioni quella logica da quelle di fede. Ma questo ritenimento è esso stesso un postulato di fede, senza il quale non potrebbe derivare alcuna possibile fede interpretativa, ossia alcuna distinzione tra l‟interpretazione vera da quelle false, poiché l‟interpretazione vera non è altro che l‟interpretazione logicamente coerente al fondamento di fede che l‟ha posta come vera, e quindi l‟unica a preferenza delle altre logicamente incoerenti, cioè irrazionali. Se il cristianesimo fosse una interpretazione di fede dell‟evento cristico, e dunque fosse una delle possibili rappresentazioni della sua realtà storica, esso potrebbe essere oggetto di confutazione logica alla stregua di ogni altra dottrina religiosa o filosofica o ipotesi scientifica. Ma il

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cristianesimo non è riducibile a una dottrina religiosa o a una intepretazione filosofica, in quanto la sua fede non riguarda la sola interpretazione dell‟evento messianico, ma il suo stesso fondamento di realtà, per cui esso non è un mero evento naturale, e come tale logicamente pensabile alla stregua di ogni altro ente di ragione da parte della logica filosofica, ma è un evento spirituale, che non può essere oggetto di pensiero della tradizionale ontologia naturalistica del logos della tradizionale metafisica greca. In questo senso spiritualistico, la storicità dell‟evento cristico non ha lo stesso significato ontologico che riveste nella metafisica greca, per cui il suo nuovo fondamento spiritualistico cristiano, confutando la credenza nella incontrovertibile verità dell‟unicità dell‟Essere della ontologia naturalistica della metafisica greca, rende puramente postulatoria la verità in senso greco e la rappresenta a sua volta, rispetto al proprio fondamento di verità spirituale, come una rappresentazione di fede tra le tante possibili. In questa sostituzione del fondamento veritativo consiste la rivoluzione culturale della coscienza cristiana, che pone l‟evento cristico come il nuovo fondamento della realtà spirituale, al posto dell‟Essere naturalistico della metafisica greca. Ma la nuova posizione cristiana non ha sostituito il fondamento della metafisica greca per una posizione di fede astrattamente equivalente a ogni altra e solo più forte per garanzia politica o per dimotrazione razionale. Niente di tutto questo. Gli stessi apostoli erano semplici, umili e ignoranti, e soprattutto socialmente deboli. Il loro punto di forza, capace di scardinare il sistema raffinato del sapere tradizionale antico, era nella capacità che la loro fede escatologica aveva nel dare una ragione escatologica all‟evento cristico, non in quanto fenomeno naturale, simile a quello di ogni altro nascimento, vita e morte di un essere umano, ma in quanto esistenza unica e insieme universale, temporale ed eterna; ossia un significato della apparizione di quell’uomo di nome Gesù che il discorso razionale dell‟ontologia greca non riusciva a offrire concettualmente fuori della generica attribuzione di casualità o astratta generalità funzionale alla genesi e sopravvivenza della specie umana, ossia alla sua necessità. Allorquando l‟eskaton viene concepito come libero dalla necessità che lega ogni ente naturale alla comune catena dell‟essere, ossia come atto gratuito d‟amore di Dio all‟umanità, anche la coscienza umana viene liberata dal thauma che è all‟origine di ogni discorso razionale, e che proprio nella impossibilità

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di cogliere concettualmente la ragione dell‟esistenza singolare trova il suo “choc filosofico”, lo stesso in cui si è arenato il sapere razionalistico moderno.408 La pistis cristiana si afferma negando il principio di realtà dell‟ontologia antica, ossia il fondamento ontologico del suo naturalismo, ma non la realtà in quanto creazione divina, in cui è compreso il mondo umano; ed è perciò che i cristiani danno “a Cesare ciò che è di Cesare”. Il passaggio rivoluzionario alla negazione del mondo antico interviene quando la nuova fede escatologica, liberando l‟uomo dalla condizione di necessità, emancipa la sua esistenza singolare dai vincoli strutturali della convivenza sociale pagana, informata appunto alla logica del rapporto di vita naturalistico dello zoòn politikon. Da qui la costituzione di una comunità spirituale (ekklesìa) informata ai principi di relazione agapica, dove vige il rapporto tra creature divine, interpreti di una storia spirituale dell‟uomo, diversa da quella etico-politica dell‟antropologia pagana. Quando il Potere politico tende ad affermare la sua necessità di dominio sulla libertà della coscienza, allora la forza di Cesare vuole sostituirsi al volere di Dio, e il cristiano reagisce negando la legittimità morale di quel Potere, senza la quale esso è solo forza legale. Con la dissociazione della legittimità dalla legalità del Potere politico, il sistema eticopolitico dell‟Imperium entra in crisi, in quanto struttura senza fondamento, rimanendo di esso ancora in vita il solo impianto giuridicoistituzionale, la cui credibilità razionale è di valore pari alla sua efficacia, e la cui espressione di forza consiste nella schmittiana decisione. Rispetto alla situazione-limite in cui si esercita il Potere per affermare la sua forza alla fine della verifica di ogni altra possibilità, la decisione di fede è una situazione iniziale inerente al principio di realtà, a partire dal quale procede ogni determinazione di senso della realtà, ossia ogni sua rappresentazione finale. Soltanto nella decisione di fede il senso finale è già contenuto nel suo principio. Con la desacralizzazione del Potere, la civiltà pagana perde il suo nomos e si dispiega come un mero processo profano di mutamenti istituzionali, la cui “storia” è la narrazione della

408

Ved. H. Arendt, What Is Existenz Philosophiy? (1946), tr. it., Milano, 2002 2, pagg. 49-50.

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loro neutra sequenza temporale di passati legati dalla loro esclusiva necessità: una storia dunque di necessità. Solo la decisione di fede in Cristo, essendo il principio di ogni futura storia spirituale singolare, è storia di possibilità, ossia di libertà. 409 La centralità della storia spirituale cristiana coincide dunque col suo stesso inizio di fede in Cristo, il ritorno alla quale consente, contro ogni svalutazione razionalistica conseguente all‟identità dello Spirito col Logos, una riabilitazione della originaria escatologia, impedendo con l‟estinzione della speranza anche la stessa fede. Infatti, se la fede in Cristo viene assunta nei termini razionalistici di una possibile rappresentazione della sua realtà storica, comunque fondata sulla verità

409

La civiltà liberale alla quale ha dato vita il cristianesimo trovava nella fede in Cristo il principio teologico-politico unitario dell‟intero processo storico che da allora ha inizio, a partire dalla data simbolica dell‟editto di Milano (forse) emanato da Costantino e da Licinio nel 313, anticipato da quello di Nicomedia del 311 emanato da Galerio, e che terminerà dopo circa 1600 anni, con la prima Guerra mondiale del 1914-„18 e la conseguente perdita universale di quel principio cosmico-politico. All‟interno dell‟evo cristiano possiamo distinguere due età: quella moderna, che ha inizio con la Riforma protestante del sec. XV, caratterizzata dalla scissione teologica tra Chiesa e fede, e quella post-moderna, che inizia con la Rivoluzione francese del 1789, caratterizzata dall‟apoteosi del Potere politico e dello Stato demiurgico, la cui crisi segna, con le rivoluzioni del 1848, il declino della forma istituzionale tipica dell‟età moderna. A partire dal 1848, ha inizio l‟epoca democratica, caratterizzata dalla massificazione politica con la socializzazione del principio identitario, già religioso, in cui la volontà razionale fornisce allo Stato di diritto il principio di legittimazione del tutto formale e convenzionale del Potere, per cui omnis potestas a populo, in funzione surrogatoria della perduta legittimazione sacrale ed esistenziale, espressa dal fondamento potestativo divino, per il quale omnis potestas a Deo. Con la democratizzazione universale del consenso politico, conseguita alla fine della secolare guerra civile europea (1848-1948), si perfeziona l‟istanza egalitaria propria del razionalismo moderno, segnando la fine della sua civiltà liberale. Rispetto alla costituzione di Caracalla (212), la cittadinanza universale degli Stati democratici.si differenzia per la dissoluzione del fondamento unitario del Potere, che dallo Stato passa in partibus al corpo mistico secolare del popolo, che diviene pertanto l‟idolum tribus della civitas secolarizzata, i cui responsi giungono dalle piazze o dalle urne elettorali, interpretate da sacerdotali leaders politici. La pretesa del principio democratico è di definire la civiltà cristiana come un evo storicamente concluso, e di aver inaugurato, attraverso l‟universale razionalizzazione della cultura umana, una nuova civiltà, del tutto atea e scientistica, di sapere immanentistico e post-religiosa.

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della sua esistenza naturale, essa può interessare la relazione dell‟evento messianico col suo fine escatologico, ma non può essere inerente all‟evento in sé, a partire dal quale e intorno al quale si dispiega ogni discorso sulla fede, ogni teo-logia nei termini di una rappresentazione mito-logica, e come tale confutabile logicamente dal discorso filosofico-scientifico. Se per un verso ogni riforma cristiana consente di stornare dall‟evento cristico ingombranti superfetazioni metafisiche e annesse teologie politiche, per altro verso rende ogni volta possibile rappresentare dell‟evento una aggiornata versione mito-logica attraverso aggiornati strumenti teoretici ed euristici, con indirette funzioni apologetiche, che consente di attualizzare il messaggio evangelico e lo predispongono a una varia pluralità di canoni esegetici rispetto alla quale varietà la pretesa ecclesiastica di un monopolio esegetico delle Scritture assume una funzione analoga a quella della legge farisaica rispetto alla predicazione cristiana. Ma un tale sforzo di aggiornamento esegetico, non intaccando il fondamento di verità ontologico della conoscenza del Logos, destina inevitabilmente ogni rappresentazione teo-logica a una variante mito-logica, la cui credibilità viene garantita non dalla potenza della fede nella sua verità, ma dalla forza dal Potere che la assume come il proprio fondamento razionale di legittimità. Ma proprio la potenza della fede, sapendo rinnovare la tensione escatologica, consentì alle comunità cristiane dei primi secoli di resistere all‟offensiva di quelle pagane unificate dal Potere imperiale, facendo apparire l‟aspetto caduco della forza politica e militare dell‟Imperatore, che si accaniva contro i cristiani senza poterne sconfiggere la fede, che essi opponevano al suo Potere. A fronte della predicazione universale del messaggio evangelico, superatore in senso escatologico di ogni contingente discriminazione mondana, l‟identificazione della fede pagana con l‟appartenenza allo Stato romano,410 finiva per indebolire l‟identità politica, anziché rafforzarla, per cui l‟espansione della fede in Cristo finiva per assumere un indiretto rilievo apocalittico di enorme portata eversiva.411 Di fronte alla trasversale ricomposizione in una autonoma

410

J. Taubes, Loc. cit., pag. 108. Se appena consideriamo il senso della “aspettativa di una palingenesi cosmico sociale, noi comprendiamo perfettamente come nel decorso dela civiltà romano411

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unità religiosa di settori sociali eterogenei per cultura nazione e ceto, indipendente dallo Stato, il Potere si sente minaccato nelle sue prerogative identitarie da un‟altra forma istituzionale di costituzione unitaria dei molteplici corpi sociali rispetto a quella politica stabilita dal diritto, scorgendo in essa una forza rivale e nella sua dottrina escatologica “in azione” un principio di dissoluzione contro il quale reagisce. Il cristianesimo, infatti, rigettava i fondamenti culturali e morali sui quali si ergeva la Weltanschauung romana, ossia il logos e il nomos. La filosofia, il sapere del Logos, aveva agito sulla fede per determinarne la parte vera da quella semplicemente creduta, consegnata al Mito. Col cristianesimo il processo s‟inverte: è la fede ( ) a opporsi al sapere razionale (loghismòs), rigettando l‟  della  classica, come denunciato da Celso. 412 Inoltre, il monoteismo scardina la antica morale custodita dai veterum instituta, rinnegando il mos maiorum con l‟introduzione di una “verità” novella che non si appoggia ad alcuna tradizione riconosciuta, e perciò stesso in contrasto radicale con la mentalità romana, che legava la credibilità di una dottrina alla sua vetustà, essendo la verità immutabile. 413 Con il kerygma cristiano operato dagli apostoli s‟inaugura un cambiamento di paradigma entro l‟orizzonte di cultura pagano, tendente a riassestare su nuovi cardini la civiltà antica, operando così il “più grande mutamento interiore ed esteriore nella storia ella nostra civiltà”.414 In realtà, se il processo di erosione cristiana del mos maiorum minaccia le fondamenta ideali dell‟ordine imperiale, facendo idealmente convergere il crimen religionis con il crimen maiestatis, è anche vero che l‟impatto che la nuova predicazione escatologica ebbe sulle masse dell‟Impero fu tanto più devastante quanto più fragile la resistenza che seppe opporle la

mediterranea, il cristianesimo costituisse una forza di ascensione e di progresso, destinata infallibilmente a scardinare la vecchia struttura sociale del mondo romano per trapiantarla su altre basi e su altri sostegni”: E. Buonaiuti, I frammenti gnostici, Roma, 1923, pag. 114. 412 Ved. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pagg. 65, 110. 413 Ivi, pagg. 66 e 96. 414 E. Auerbach, Studi su Dante, cit. da P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pag. 6.

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tradizionale cultura romana nella presa su quelle stesse masse incolte. 415 In altri termini, la possibilità dell‟espansione della dottrina cristiana fu legata alla sua modalità di accesso dal basso, ossia attraverso il coinvolgimento di quelle masse sulle quali non aveva alcuna presa diretta la aristocratica tradizione intellettuale greco-romana, che giungeva loro solo attraverso il collante religioso e la loro sottomissione al Potere imperiale. La predicazione cristiana, agendo prevalentemente sul motivo religioso pagano, mise in evidenza quanto il depositum fidei fosse fondamentale per la sussistenza dell‟intera civiltà, poiché su di esso poggiava l‟elaborazione teoretica della stessa tradizione letteraria colta, il cui processo di sviluppo poteva anche obliarne le radici fideistiche, ma queste comunque costituivano il bagaglio del sapere elementare delle masse incolte. In quest senso, la predicazione cristiana agì sulla coscienza delle masse del mondo antico alla stregua di una ideologia democratica moderna, operando cioè una cesura sociologica tra il sapere elementare popolare e il sapere elaborato elitario, portandoli ad essere reciprocamente indipendenti e autoreferenziali, e dunque incomunicanti. Ciò non significa che i nuovi contenuti non possano essere ospitati dalle antiche forme culturali, né che le nuove rappresentazioni non siano interpretate da una relativa classe di nuovi oligarchi, di natura civile politica o religiosa poco importa; quello che invece primariamente rileva è che la costituzione di nuovi paradigmi culturali determina l‟origine della loro successiva elaborazione teoretica, sviluppando di conseguenza una classe intellettuale di interpreti, che si costituisce a sua volta come una nuova aristocrazia, custode sociale dei suoi valori. Questa dinamica di formazione delle élites socio-culturali, dopo un periodo di competizione per l‟egemonia politica,416 induce le classi sociali conservatrici o apertamente

415

Minucio Felice ricorda nel suo Octavius la bassa condizione dei cristiani, illetterati e superstiziosi, dediti a pratiche turpi, accusandoli di essere gente ignorante che“disprezza il presente ed è infatuata dell‟immagine di una vita futura fantastica, che crede in assurde dottrine concernenti la fine del mondo e la resurrezione e quindi rinuncia a ogni piacere ed è pronta a subire ogni tormento”, cit. da P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pagg. 74, 110. 416 La resistenza del Potere romano alla egemonia della religione cristiana emergente nell‟Impero è durata oltre 250 anni. Ved. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pag. 75.

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reazionarie a un più o meno progressivo ma inevitabile conformismo culturale, che è la condizione del loro mimetismo sociale e della loro aspirata integrazione nella nuova classe dirigente. 417 Nel nostro caso, ciò ha significato, a partire dal tempo di Commodo (180-192) e ancor più di Gallieno (260-268), la progressiva conversione religiosa delle élites romane418 più esposte alla assimilazione, prodromica della successiva partecipazione organica della Chiesa alla direzione dell‟Impero in dissoluzione. 8. La accusa di essere cristiano implicava, per quanto detto, uno status mentis irrecuperarabile al mos Romanorum, e cioè a quella organicità di condizione civile e religiosa che la fede in Cristo dissolveva nel senso del loro rapporto dialettico, ovvero di quella laicità che l‟ideologia olistica della civitas romana, diversamente da quella greca, non concepiva.419 Roma aveva l‟Impero ma non un‟idea imperiale che non fosse di carattere giuridico. Atene non aveva un impero ma aveva un‟idea universale del Potere. La natura empirica del concetto romano di Impero, legato alle formule giuridiche di funzionamento delle strutture istituzionali, se per un verso consentiva un ampio eclettismo religioso entro l‟esigenza funzionale del riconoscimento comune 417

La logica del Gattopardo e dei Vicerè non ha dunque niente di torbido né di immorale, ma riflette iuxta propria principia politica le condizioni fisiologiche di sopravvivenza sociale delle classi dirigenti storiche, il loro grado di adattabilità culturale, che è tanto maggiore ai nuovi paradigmi quanto minore il grado di elaborazione dei vecchi. La promiscuità delle nuove classi dirigenti in ascesa con le antiche classi dirigenti decadenti provoca una complessiva regressione dai prcedenti livelli culturali ottimali delle omogenee classi dirigenti tradizionali, e una generale mediocrità dei nuovi eterogenei ceti dirigenti. E‟ appena il caso di aggiungere che il miglioramento del livello complessivo delle nuove classi dirigenti dipende dalla loro relativa stabilizzazione storica, ossia dalla durata della loro sedimentazione nei nuovi ruoli sociali, per cui tendenzialmente le classi dirigenti dei regimi democratici, per la loro continua e spesso caotica circolazione, sono perloppiù mediocri e tendono alla loro rapida consunzione oclocratica, provocando una conseguente reazione monocratica di riassestamento socio-politico del sistema. 418 Ved. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pagg. 83, 91, 111 sgg. “Fin dal I-II secolo le comunità cristiane presentano una composizione assai variata, che vede gli uni accanto agli altri schiavi, liberti, gente di umile estrazione, notabili d‟alto lignaggio, poveri e benestanti, uomini e donne, intellettuali e incolti”: pag. 113. 419 Ved. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pagg. 107-108.

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dell‟unico Potere imperiale, per altro verso rendeva più vulnerabile il Potere nell‟ambito della sua legittimazione sacrale, in quanto rimetteva a una coscienza religiosa frammentata e non più tradizionalmente controllabile da una fede comune la salvaguardia del patrimonio patriottico. Per tale ragione, l‟innesto dell‟istanza escatologica cristiana nelle forme dell‟idealismo greco420 consentì alla Chiesa di istituzionalizzarsi nel senso della struttura giuridica imperiale, fornendole quel collante religioso unitario che teologicamente le mancava per assicurare la pace e l‟ordine. 421 Ma la condizione per conseguire questo disegno di riassestamento mistico-politico dell‟Impero fu la trasformazione della fede cristiana in una religione di Stato, e dunque in un mito teologico-politico.422 La funzione religiosa del cristianesimo era contenuta nel versetto della lettera ai Galati in cui Paolo scrive che “Non c‟è più giudeo né greco; non c‟è più schiavo né liberto; non c‟è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal, 3, 28), inserendo con ciò un principio di unità fondato sulla fede e non sulla cittadinanza politica o sull‟appartenenza sociale o etnica o naturalistica, più comprensivo di ogni altro e perciò universale.423 Sussumendo entro un modello antropologico universale la molteplice realtà delle genti dell‟Impero romano, le unificava in un senso esistenziale molto più inclusivo del senso giuridico-formale, poiché poneva l‟unità della fede in Cristo come il prius radicale di ogni ulteriore aggregazione comunitaria di tipo socio-politico, nessuna delle quali avrebbe comunque mai raggiunto il livello di coesione dell‟unità ecclesiale di tipo spirituale. Tale fondamento unitario di fede universale costituirà il modello paradigmatico di comparazione per ogni forma storica di coesistenza sociale e/o politica egalitaria, costituendo così, per la sua estensione e radicalità, la realtà esistenziale di quella universalità ideale perseguita

420

Ved. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pag. 116. L‟incomprensione di questo scopo teologico-politico rende misteriosa la politica filocristiana di Costantino e lo stesso “passaggio dall‟Impero pagano a quello cristiano”. Ved. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pagg. 172, 176-177, 190192. 422 Il clero, a partire dal IV secolo entra a far parte, coi vescovi, della classe dirigente dell‟Impero. Ved. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pag. 184. 423 Ved. P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pag. 117. 421

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invano dalla filosofia greca, avente un carattere molto più inclusivo di quella universalità politica conseguita problematicamente dall‟Impero romano. La caratteristica del modello spirituale universalistico cristiano, rispetto a quello idealistico del razionalismo greco, è che l‟unità del primo è conseguita sul piano mistico e trascendente dello spirito, costitutivo dunque di un corpus mysticum che lascia impregiudicate le condizioni dell‟esistenza mondana e pertanto i rapporti socio-economici extra ecclesiali e politici. Il modello razionalistico, di contro, intende conseguire una unità totalitaria424 che annulli le differenze molteplici delle concrete singolarità esistenziali nel senso della loro omologazione all‟astratto modello ideale. Se, dunque, l‟unità spirituale della comunità messianica cristiana lascia coesistere la molteplicità delle esistenze singolari, assumendo ognuna di esse come espressione storica dell‟unità comune in Cristo, l‟unità razionale della comunità politica ideale si costituisce negando la molteplicità esistenziale degli enti di ragione, che vengono sottratti alla loro singolare concretezza e ri-formati come paritari enti di ragione, ognuno dei quali è uguale a ognuno altro in

424

L‟ipotesi dottrinaria di una visione cristiana “totalitaria” è fondamentalmente errata, legata com‟è a una concezione istituzionalistica della verità, e dunque legalistica della fede, dovuta alla circostanza storica del Potere ecclesiastico, detentore del monopolio esegeutico del kerygma evangelico. La pretesa di una rappresentazione totalitaria dell‟Essere è dell‟idealismo greco, propria della credenza dell‟unità ontologica col pensiero che non è quella cristana. Fondamento della realtà in senso cristiano è la fede (pistis), e ogni sua manifestazione è libera e ugualmente possibile se conduce a Dio, e perciò non è predeterminabile sistemicamente in una struttura rappresentativa dottrinariamente ortodossa, analogamente al discorso filosofico. L‟elemento originale del cristianesimo è la natura spiritualistica del suo fondamento di fede, a partire dal quale è possibie avviare ogni forma di rappresentazione della realtà secondo quel fondamento. La deviazione teologico-politica del “discorso sulla fede” cristiana consiste nell‟adozione del loghismos come strumento teoretico di rappresentazione della pistis, snaturando così la portata metafisica della escatologia cristiana, che scardinava le gerarchie sapienziali pagane fondate sulla diversa capacità razionalizzante della coscienza umana. Come affermava infatti l‟Octavius di Minucio Felice, “tutti gli uomini senza distinzione di età, di sesso, di grado sociale, sono stati creati capaci e atti a intendere e sentire, giacché la sapienza non si ottiene per privilegio di fortuna, ma è un dono di natura”: cit. da P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, cit., pag. 136.

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quanto tutti sono uguali all‟Uno ideale. La prima unità è inclusiva quanto l‟altra esclusiva della molteplicità, e tanto la prima foriera di possibile libertà quanto la seconda di riduttiva violenza. Il paradigma universale cristiano, se per la sua forma ideale rappresenta un mutuo culturale della sapienza greca, per il suo contenuto spirituale rappresenta l‟elemento di svolta rispetto al paradigma cosmicoantropologico del naturalismo politico della civiltà antica, costituendo l‟ibrida sutura ellenistica di metafisica greca (ratio) e spiritualità ebraico-cristiana (fides) che la tradizione giuridica romanistica in ambito canonistico cercherà di tradurre in forme istituzionali adeguate tanto alla vita teologico-politica della Chiesa che a quella dello Stato, che rappresenteranno i due punti focali della dialettica culturale che caratterizzerà la civiltà cristiano-liberale europea. Ciò che è essenzialmente in gioco in questa dialettica è il Governo del mondo. Infatti, se la realtà assegnata da Dio a Cesare viene riconosciuta come la sfera mondana non di pertinenza ecclesiale, lo spazio politico statale conformato al modello ideale di costituzione tende ad affermare la sua auto-fondazione razionale, e quindi a rinnegare il ruolo spirituale della Chiesa, proponendosi come realtà umana assoluta, svincolata dal Governo di Dio. L‟olismo socio-politico pagano è tendenzialmente totalitario, in quanto concezione immanentistica, risolvendo la dialettica tra autorità spirituale e potestà legislativa all‟interno del conflitto politico per il Potere, nei termini cioè di una divisione funzionale dei ruoli istituzionali. Anche le costituzioni politiche antiche, rispettando tale divisione funzionale, erano a loro modo poliarchiche. Si pensi alla divisione dei ruoli tra governatore romano, re israelita e Sinedrio religioso al tempo di Gesù. Ma la questione del rapporto tra auctoritas e potestas non è tra opposte “potenze” (omologhe, bensì tra distinti livelli di coscienza: quello spirituale, teologicamente comprensivo del senso politico dell‟esistenza umana in quanto rappresentativo del trascendente, e quello razionale, esclusivamente politico-conflittuale, in cui l‟autorità trascendente non è riconosciuta quale principio costitutivo. L‟orizzonte spirituale comprende quello razionale, mentre quello razionale esclude quello spirituale come extrasistemico e mitico. Se il Governo spirituale è una superfetazione mitica del sistema di Potere politicamente vigente, allora tutto il discorso razionale che lo legittima è una fabula ininfluente sui concreti rapporti di forza sociali, in quanto non rappresentativa di una istanza politica

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reale.425 Ed è appunto in questi termini razionalistici liquidatorii che viene affrontato il discorso scientifico sulla teologia politica, considerata come alveo mitico-categoriale delle forme teoriche delle dottrine politiche moderne. In realtà, la teologia politica è la trascrizione in termini assoluti di quanto già il razionalismo aveva concettualmente ridotto lo spiritualismo cristiano, per neutralizzarne il suo originario escatologismo, facendo dello Spirito incarnato il Logos filiale di Dio, inteso platonicamente come l‟Essere. Ma l‟Essere della metafisica greca è la Natura, cioè il prodotto della creazione divina, l‟ente ideale in cui si rispecchiano tutti gli enti particolari, dunque una Idea. Aver concepito Dio come una Idea platonica (Timeo), e Cristo come la volontà creatrice del Logos (Epinomide; VI Lettera) mediatore tra ideale e reale, ha significato tradurre nei termini metafisici del pensiero pagano l‟intuizione di Dio avvertita per fede, prima di ogni pensiero, facendo del suo essere un prodotto di ragione, un concetto, un posterius, anziché il principio () di tutte le cose.  Questo travisamento ontologico del pensiero di Dio in termini di theologia physica, se ha consentito ai padri teologi cristiani dei primi secoli di confutare alla maniera filosofica la theologia fabulosa delle religioni pagane, ha nel contempo creato le condizioni teoretiche di una theologia civilis conseguente alle premesse idealistiche del razionalismo teologico, in simmetrica analogia con quanto già avvenuto con la filosofia politica nell‟ambito dell‟ontologia greca. 426 Con Origene e Plotino, la metafisica greca, segnatamente quella platonica, viene ripensata in termini teologici, e con Clemente ed Eusebio la “sapienza barbara” viene interpretata come una anticipazione della rivelazione cristiana. Per Eusebio, seguace di Origene, lo stesso concetto trinitario delle tre figure ipostatiche, che verranno stabilite dal dogma niceno, era già prefigurato da Platone nella sua seconda Lettera. E lui stesso,

425

La necessità per i cristiani di costituirsi in partito politico per competere con altri partiti nella determinazione dei rapporti parlamentari finalizzati al potere legislativo e a quello di governo dello Stato poliarchico, è l‟implicito riconoscimento che lo spazio potestativo sia l‟unico spazio pubblico comune a tutti i cittadini quali enti di ragione politica, restando ininfluente l‟identità cristiana se non nei termini di una mera appartenenza politica tra altre in conflitto elettorale. 426 Ved. S.C. Mimouni, Introduction à la théologie politique, in G. Filoramo (ed.), Teologie politiche. Modelli a confronto, Brescia, 2005, pag. 19.

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partendo dall‟identità di Dio ed Essere, fa del Figlio-Logos l‟immagine () formale e sostanziale del Padre, generata non solo in funzione ausiliaria nella creazione e per la rigenerazione dell‟umanità, ma anche per il governo del mondo, cioè in funzione di ordine cosmico universale (pronoia). Ed è dunque il Logos filiale a esercitare la funzione di Governo del mondo, garantendone l‟ordine razionale. La figura paolina del Cristo-Logos quale Kyrios del mondo, dalla realtà nazionale del popolo ebraico si estende universalmente all‟intera umanità, e se per Origene la signoria si esercitava entro la sola dimensione spirituale della ecclesia, per Eusebio essa si estende alla sfera politica, nel senso del progressivo rispecchiamento della realtà storica all‟unità metafisica, per cui all‟unità religiosa dei popoli convertiti al monoteismo corrisponde con la cristianizzazione dell‟Impero la sua unità politica sotto Costantino, che diventa così il fiduciario mimetico di Cristo sulla terra. L‟imperatore cristiano non esprime più l‟ordine cosmico della legalità naturale della concezione greca, né è il sovrano a legibus solutus della concezione romana, ma, in virtù della sua divina ispirazione di fede (eusebeia), rappresenta l‟unità politica dell‟umanità quale corpo mistico cristiano, di cui si fa garante dell‟ordine e della pace. Costantino, concepito come un novello Davide e omologato agli apostoli (isapostolos), diventa con Eusebio l‟immagine secolare del Kyrios divino e l‟Impero romano cristianizzato l‟immagine storico-politica dell‟ordine cosmico (basileia) del Logos cristiano. Accanto all‟Imperatore, in funzione ausiliaria ma non subordinata, stanno i vescovi della Chiesa, rappresentanti della religione cristiana e assistenti spirituali dei fedeli, preposti da Cristo al governo delle molteplici comunità ecclesiali. Questa diarchia ripropone la funzione unitaria del Logos mediatore tra Dio e la molteplice umanità, altrimenti destinata alla dissoluzione caotica, nel cui Governo monarchico entrambe le potenze mondane si riconoscono come sue emanazioni temporali, accomunate dalla stessa fede in Cristo. Con la teologia politica di Eusebio si realizza il passaggio dalla fase escatologica del cristianesimo apostolico alla fase politico-religiosa teorizzata dalla patristica romano-alessandrina dei primi secoli. 427 La originaria istanza governamentale espressa dalla teoria eusebiana del

427

Ved. C. Schmitt, Teologia politica II, tr. it. cit., pagg. 55-75.

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potere imperiale viene a perdersi a partire dalla stessa incongrua rsa termionologica della traduzione della theologia civilis di Varrone428 nella espressione secolarizzata di “teologia politica”, che è all‟origine della incomprensione concettuale tra Peterson e Schmitt, che la usavano in una diversa accezione: governamentale il primo, politicistica il secondo. Il politicismo consiste nella indebita universalizzazione del Potere decisionale considerato assoluto e non dipendente da alcun superiore principio morale di Governo. La piega universalistica del Potere teoricamente è prodotto del razionalismo originato dalla stessa secolarizzazione della teologia politica in filosofia politica, che si è manifestata nei termini sociologici della progressiva estensione universale in senso democratico del principio di sovranità, che dal Governo legittimo di Dio è passata a indicare il consenso del popolo all‟esercizio del Potere dello Stato resosi modernamente assoluto. 429 Il principio governamentale è inerente alla fede nel fondamento spiritualistico dell‟esistenza umana segnata dalla finitezza, dalla cui consapevolezza scaturisce il processo soteriologico indicato dalla rivelazione di Cristo. Esso non può essere confuso col criterio teologico costruttivo dell‟ordine politico terraneo (Ordnung), ossia col nòmos spaziale di Schmitt.430 Quest‟ordine, infatti, è solo una pacificazione forzata, una tregua, e non un vero ordine, il quale, comportando il mutuo riconoscimento dell‟Altro come sé, non può essere politico.431 Il

428

Ved. C. Schmitt, Teologia politica II, tr. it. cit., pag. 39. Ved. C. Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus (1923), tr. it., Lungro di Cosenza, 1999, pagg. 141-161. Ved. M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Brescia, 1990. pagg. 200-215. 430 “La prima misurazione da cui derivano tutti gli altri criteri di misura”: C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Voelkerrecht des Jus Publicum Europaeum (1950), tr. it., Milano, 1991, pagg. 23, 54. 431 Contrariamente a quanto ritiene Schmitt, il quale, secondo M. Maraviglia, “non esalta in nessun luogo l‟ostilità come tale, ma si pone l‟obiettivo di creare una forma di convivenza possibile che ne limiti le conseguenze nella vita dei singoli e dei popoli”: Id., La penultima guerra. Il “katéchon” nella dottrina dell’ordine politico di Carl Schmitt, Milano, 2006, pag. 169. La questione è che la “forma”, in quanto determinazione razionale della distinzione amico-nemico, se può regolamentare il conflitto, non può eliminarlo in quanto la stessa normalizzazione 429

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Governo di Dio non riguarda la conduzione particolare degli affari umani, legati alla libera determinazione della responsabilità degli attori; e neppure la conduzione generale degli affari di Stato, spettante alla direzione politica delle comunità umane. Esso consiste invece nella indicazione del senso finale di ogni esperienza umana, che è di trascendere la sua contingente finitezza in relazione alla verità eterna, e dunque nella posizione del criterio direttivo dello stesso esercizio del Potere politico. Proprio perché la presenza di Dio incombe sul destino umano, il Governo di Dio costituisce la guida fedele nelle relazioni umane di ordine spirituale. Governare, significa con-prendere e dunque includere nella indicazione di guida anche la parte esclusa dalla decisione politica, cioè quella scartata come negativa dal giudizio razionale che ne è alla base, e pertanto l‟attività di Governo trascende l‟attività del Potere, che per l‟appunto opera quel giudizio e fa quella scelta. Per tale ragione trascendente gli scopi particolari delle parti in conflitto politico, il Governo non può essere soggetto agli stessi criteri di valori particolari che caratterizzano le fazioni politiche in competizione, ossia agli interessi di parte che aspiranoa essere riconosciuti, per la loro asserita rilevanza, come interessi comuni. Ebbene tale istanza di riconoscimento delle parti, per ricevere un riconoscimento non occasionale e reversibile, deve essere avanzata a una autorità superiore

deve assumerlo come sussistente. Rimanendo nell‟ambito di quel fondamento polemico, infatti, “nessuna forma nella storia è risultata capace di eliminare l‟inimicizia” (Ibidem). La “unità” politica è solo una diversa declinazione isomorfica della discriminazione fondamentale della dialettica polemica, che sposta il termine oppositivo all‟esterno dell‟Io collettivo che fronteggia un Altro collettivo anch‟esso, ma in realtà è una unità astratta quanto occasionale e provvisoria, più o meno inclusiva o esclusiva, che assume comunque il conflitto come non derimibile ma consustanziale alla stessa relazione naturale fra gli uomini. Solo trascendendo la sfera naturalistica del politico si può giungere alla vera pacificazione e alla vera unità, che è spirituale e non, appunto, politica. ciò non vuol dire “negare” la sfera naturale dell‟esperienza umana, ma non trovare in essa le soluzioni che sono rinvenibili solo nell‟ambito spirituale, nel quale le relazioni non sono regolate da pacta juris ma da con-cordanze solidali a un principio ordinativo, che non è il politico Potere della forza ma lo spirituale Governo morale, che il logos della politeia ha inteso escludere dalla polis razionalizzata. Il Potere è la forza che regna nel Molteplice, mentre la Verità presiede l‟Unità.

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alle stesse parti politiche, che è appunto l‟autorità di Governo, altrimenti il riconoscimento sarà oggetto di contrattazione (bargaining) tra le parti e dunque di ulteriore e idefinito conflitto politico. Esattamente questa situazione conflittuale si è venuta determinando storicamente tra gli Stati moderni che superiorem non reconognoscentes e all‟interno dei regimi politici parlamentari fondati sulla sovranità popolare. La sovranità popolare, prendendo il posto di quella tradizionale divina, per il carattere empirico e convenzionale della sua determinazione politica, può produrre delle scelte occasionali ma, mancando di una sua legittimazione morale garantita dalla fede nella verità eterna, può giovarsi solo di una legittimazione di tipo razionale offerta dal discorso scientificamente sostenibile a partire da opinabili postulati ideologici, e dunque può essere fronteggiata altrettanto legittimamente da altre tesi ideologiche sostenute razionalmente a partire da altri postulati. Essa, per la relatività della sua natura ideologica, non condurrà mai alla pace ma sarà sempre fomite di conflitto politico, sedato temporaneamente da assetti di forza contingenti e perciò sempre reversibili. Soltanto il Governo super partes può legittimare perpetuamente istanze originariamente di parte riconoscendole di valore comune, e tale autorità non può perciò essere a sua volta di parte, per quanto maggioritaria, ma deve essere una autorità superiore alle parti e, trattandosi di Stati, superiore agli stessi Stati, cioè universale. Dire di una autorità che sia superiore alle parti politiche, significa qualificarla di natura morale; mentre dire che è una autorità universale rispetto a quella territoriale degli Stati nazionali, significa indicarla come imperiale. La questione di fatto si traduce nella seguente questione teorica: può la convenzionale legittimità politica della sovranità popolare sostituire culturalmente la tradizionale legittimazione morale della sovranità divina? In altri termini: la sostituzione di fatto della fonte della sovranità divina con quella popolare può determinare un relativo cambiamento di paradigma teorico del Potere politico dal suo antico senso mitico al nuovo senso razionalistico moderno del significato? La cultura moderna ha risposto affermativamente alla legittimità teorica di questo cambiamento di paradigma, ma l‟esito storico di questo passaggio, il totalitarismo politico, ha confutato empiricamente l‟ipotesi della sua

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legittimità razionale, scientificamente sostenta a partire da Machiavelli e da Hobbes. Le ragioni teoretiche della impossibilità della sostituzione della sovranità divino-morale con la sovranità razional-popolare consistono nella diversa natura delle rispettive sovranità. Infatti, quella divina è di natura governamentale, mentre quella popolare è di natura decisionale; la prima riguarda il Governo morale della società umana, il secondo inerisce invece al Potere politico del gruppo più forte sui più deboli. Sono differenze qualitative e non surrogabili, in quanto inerenti alla unità morale-spirituale del genere umano, ovvero alla molteplicità delle possibili identità politico-culturali dei gruppi umani nelle loro varie situazioni storiche. Infatti, soltanto la dimensione spirituale e morale degli uomini può pervenire all‟unità, mentre ogni tentativo di pervenire all‟unità della molteplice realtà esistenziale delle culture storiche dell‟umanità, si rivela moralmente indebito e politicamente impraticabile, perché logicamente contraddittorio e ontologicamente impossibile. L‟elemento spirituale (o, se vogliamo, divino) nell‟uomo consiste nella sua singolarità o concreta totalità del suo essere divinoumano, che promana dall‟unità di Dio. Tale singolarità è irriducibile a ogni esperienza mondana naturale in quanto questa è all‟insegna del Molteplice, ossia della relazione finita tra soggetti finiti in-compiuti. La singolarità di ogni uomo non può relazionarsi alle altre singolarità spirituali se non attraverso il comune riconoscimento della matrice spirituale, e quindi nella comune fede nella creazione dell‟unico Padre. Questa Unità originaria fa sì che ogni relazione spirituale non produca alterità sostanziale ma permanenza nella stessa unità spirituale comune trascendente le singolarità, per cui se il singolo nel rapporto sociale non si trasforma in una ideale unità collettiva eterogenea ma permane nella stessa singolarità spirituale. E‟ nella comunione spirituale che si perviene all‟unità mistica, alla . L‟ecclesia, dunque, è comunità mistica, tale che ogni singolarità resti singolare anche nella relazione comunitaria, così come l‟unità di Dio resta tale anche nella produzione creaturale. Ne consegue che la relazione politica, non potendo conseguire l‟unità concreta, che è solo spirituale, consegue solo la relazione tra esseri naturali, cioè un rapporto economico tra soggettività biologiche, non spirituali. Proprio tale insuperabie limite della relazione politica fa di questa una esperienza imperfetta (perché non consegue l‟unità sperata) e transeunte (perché destinata a scontrarsi col limite 227


ontologico della singolarità spirituale irriducibilea ogni prescrizione normativa.) L‟imperfezione del diritto, e dunque della relazione politica, è la stessa del Logos razionale, ossia nella pretesa di essere “uni-versale”, ossia di poter conseguire l‟unità del molteplice mantenendosi entro la realtà naturale degli enti fenomenici, semplicemente astraendo dalle sue particolarità empiriche. Ciò non è possibile in ambito umano, poiché la particolarità individuale dell‟uomo è la sua singolarità spirituale, e non la sua datità naturale. La confusione tra i due aspetti o il misconoscimento della differenza ontologica, è la radice della violenza. La condizione ontologica della teorica possibilità di una unità politica della molteplice umanità si basa sul postulato naturalistico dell‟unità degli esseri viventi in quanto enti di natura, trasferito in ambito politico, per cui ogni ente naturalmente politico, essendo razionalmente uguale a ogni altro, può riconoscersi in una unità politico-razionale che tutti li comprenda, l‟Impero, e se costituita da se stessi, il moderno Stato democratico. A seguito della Rivelazione cristiana, il postulato naturalistico dell‟ontologia pagana è stato confutato come errato e idolatrico, perché ignorante della natura divina presente nell‟uomo che lo caratterizzava in senso spirituale tra tutti gli esseri meramente naturali. Proprio la coscienza della natura spirituale ed eterna dell‟uomo consentiva di distinguerla da quella politica e transeunte della sua esperienza sociale, e perciò di addivenire a una nuova ridefinizione dell‟antico canone antropologico-naturalistico dell‟uomo come “animale politico” in una nuova concezione dell‟esistenza umana come storia spirituale di ogni singolo uomo. Questo comportò la previa riconsiderazione in termini di fede escatologica nel Dio spirituale della tradizionale religiosità pagana, intesa come collante politico del “patriottismo che si manifesta in forma sacrale” (Th. Mommsen). Dal punto di vsta dello spiritualismo escatologico cristiano, non è possibile, non soltanto alcuna teologia politica, ma neppure una quache teo-logia, in quanto ogni discorso sulla fede condotto con gli strumenti del sapere naturalistico antico è un tralignamento dalla fede spirituale predicata da Gesù in quanto Cristo. Che questo sia di fatto avvenuto, riguarda la storia della Chiesa cattolica e la sua versione del cristianesimo come religione dell‟Impero romano, prima, e quindi delle nazioni politiche della cristianità rimaste fedeli a Roma.

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Rispetto al rapporto tra fisicalismo antico e spiritualismo cristiano, la dialettica della secolarizzazione moderna dei concetti teologici medievali rimane tutta interna all‟orizzonte di senso del razionalismo naturalistico, e dunque intercambiabili sia nel senso della Saekularisierung di Schmitt che nel senso della Theologisierung di Assmann,432 avendo come presupposto la concezione di Dio come l‟Essere della ontologia greca e di Gesù-Cristo come Figlio-Logos. All‟interno di questa concezione naturalistica di Dio e razionalistica di Cristo, era implicita la possibilità di una sua rielaborazione demitologizzante e quindi della traslazione (Uebertragung) di categorie teologiche in concetti di scienza politica secolarizzata. Ma appena ci si ponga all‟interno del paradigma spiritualistico cristiano, la stessa trascrizione razionalistica del Mistero della Verità come Trinità, risulta indebita e incongrua, e parimenti la sua versione teologico-politica del Cristo come Kyrios imperiale, che non si compendia, come credeva Peterson, nella questione della origine pagana e giudaica del monoteismo,433 ma appunto nella differenza tra il Governo morale del cosmo divino, supponente una concezione escatologica del processo storico, e il Potere politico del mondo umano, che presuppone invece una visione immanentistica della convivenza umana. Una differenza qualitativa e gerarchica non riconoscendo la quale il Potere assolutistico moderno si è affermato come ateistico e anti-cristiano. Rispetto all‟ordine cosmico garantito dal Governo divino, la pretesa assolutistica del Potere di non riconoscerne la funzione direttiva e limitante si costituisce come una prospettiva eversiva e dissolutoria, alla quale ci si può opporre katechonticamente solo attraverso un ritorno al principio fideistico originario, ossia a una nuova formulazione del kerygma evangelico, escatologicamente profetica di una nuova tradizione cristiana. Nondimeno, ogni posizione rivoluzionaria, ma interna alla tradizione cristologica, non riuscirà a superare l‟orizzonte di sapere della tradizione teologica romano-

432

Ved. C. Grottanelli, Teologia politica: Bibbia, Egitto, Europa, in G. Filoramo (ed.), Teologie politiche, cit., pagg. 46-47. 433 Ved. E. Peterson, Il monoteismo, tr. it. cit., pag. 72.

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alessandrina.434 custodita ecumenicamente dalla tradizione ecclesiastica di ogni confessione cristiana, mentre è proprio tale superamento che occorre compiere per impedire la dissoluzione idolatrica anti-cristiana. Il problema che si presentò ai cristiani dell‟età costantiniana non fu, come nell‟età di Kierkegaard, di riabilitare le fonti evangeliche di fronte alla secolarizzazione neo-pagana della civiltà cristiana, ma di prendere psizione di fronte alla dissoluzione del‟Impero di Cesare, senza la cui sussistenza difficilmente si credeva potesse avanzare l‟evangelizzazione delle genti pagane. E pertanto, se il cristianesimo doveva costituire un avanzamento sul piano della civiltà umana rispetto alla cultura pagana, ciò sarebbe dovuto avvenire a partire dall‟esistenza di quella civiltà, la cui dissoluzione avrebbe condotto alla barbarie, ossia a uno stadio di vita naturalisticamente inferiore ai livelli raggiunti da quella grecoromana ed ellenistica del tempo. 435 Da qui l‟esigenza di acquisire gli elementi più progressivi dell‟eredità pagana per stabilirli come antecedenti della rivelazione cristiana entro un complessivo disegno provvidenziale. E‟ chiaro che questa posizione storicistica implica, da un lato, la rinuncia alla originaria prospettiva escatologica del kerygma cristiano, e dall‟altro la fusione dell‟orizzonte soteriologico del Regno trascendente con quello politico immanentistico dell‟Impero, facendo di questo il sistema dell‟età dell‟attesa della Parusia. Da qui l‟idea di un Impero cristiano quale rispecchiamento terreno della celeste monarchia divina,436 ma anche l‟inizio di una teologia politica quale

434

“Dopo la morte di Origene, non si potrà propriamente parlare di una scuola teologica alessandrina, se non in senso traslato, per contrassegnare una teologia che presenta le caratteristiche ad essa impresse dai due primi grandi alessandrini Clemente e Origene: l‟utilizzazione della filosofia, la predilezione per il metodo allegorico nella esegesi scritturistica e la forte tendenza, sostenuta da un tratto fondamentale idealistico, all‟indagine speculativa del contenuto soprannaturale delle verità rivelate”: K. Baus, Gli sviluppi della letteratura cristiana in Oriente nel corso del III secolo, in Storia della chiesa dir da H. Jedin, vol. I, tr. it., Milano, 2001, pag. 299. Per quanto riguarda l‟influsso della cristologia alessandrina sul pensiero latino, basti riferirlo all‟influenza di Origene sul suo discepolo milanese Ambrogio, o su Bernardo di Chiaravalle: Ivi, pagg. 304-305. 435 La stessa esigenza si presentò al marxismo rispetto alla civiltà borghese che avrebbe dovuto ereditare ed inverare. 436 Ved. E. Peterson, Il monoteismo, tr. it. cit., pag. 69.

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“legittimazione teologica di una data situazione politica”,437 che era appunto quella in cui l‟Impero di Roma era una realtà universale imprescindibile. A questo proposito, delle tre forme storiche di costituzione monarchica elencate da Gregorio Nazianzeno, sono da escludere la prima, relativa all‟anarchia, e la seconda, relativa alla poliarchia, che “implicano la stessa conseguenza, cioè il disordine, e il disordine comporta la dissoluzione”. L‟unica forma che per il teologo bizantino “merita onore è quella della monarchia, intendendo per monarchia non quella che è delimitata da una sola persona […], ma quella che è formata da un‟uguale dignità di natura, dall‟accordo di opinione, dall‟identità del movimento, dalla convergenza verso un unico punto di ciò che da essa proviene”,438 ossia dalla confluente intesa dei due poteri relativi alla duplice natura umana, la Chiesa e l‟Impero, che si ritrovano congiunti a una stessa destinazione finale dal comune originario principio ( ) divino, che Schmitt intende nel senso della potestas politica439 ma che, se si vuole assegnare un ruolo di Governo morale alla Chiesa, va inteso nel senso della auctoritas spirituale, plurale nelle sue articolazioni funzionali ma unica nella sua costituzione organica. Sulla base dell‟accezione assegnata al principio divino, cambiava anche la partecipazione della Chiesa alla paritetica e unitaria dignità del Potere politico imperiale.440 La questione politica ha origine dalla tesi teologica nicena dello stesso grado di divinità assegnato alle tre persone della Trinità, contro la tesi ariana della divisione ( ). Infatti, per usare le parole di Gregorio, “noi”, cioè i teologi ortodossi, fedeli al credo niceno, “invece

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Ved. M. Nicoletti, Il problema della “teologia politica” nel Novecento, in L. Sartori-M. Nicoletti, Teologia politica, Bologna, 1991, pag. 63. 438 Gregorio di Nazianzo. Tutte le orazioni, a c. di C. Moreschini, Milano, 2000, pag. 695. 439 Ved. C. Schmitt, Teologia politica II, tr. it. cit., pagg. 45 sgg. 440 Sappiamo l‟esito cesaropapista della teologia politica bizantina proprio a partire dal rapporto di Gregorio con Teodosio, per cui la tesi di Peterson sulla incorrispondenza tra l‟unità divina e la natura umana pare impropria perché non riferita come invece dovrebbe alle due autorità istituzionali e al loro rapporto confluente con la fonte divina. Ved. F. Fatti, Tra Peterson e Schmitt, in G. Filoramo (ed.), Teologie politiche, cit., pagg. 83-101.

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riconosciamo come unica gloria del Padre l‟uguale onore all‟Unigenito, e come unica gloria del Figlio l‟uguale onore dello Spirito. Noi pensiamo che se riteniamo inferiore una delle tre nature anche l‟insieme va distrutto, dal momento che riconosciamo e veneriamo tre quanto alle proprietà, uno quanto alla divinità”. 441 Questa tesi, trasferita al piano politico, impedirebbe di assegnare una diversa dignità al potere imperiale rispetto all‟autorità ecclesiale, riferendo quel Potere alla rappresentanza dello stesso Cristo-Dio rappresentato dal Vescovo di Roma. E dunque “a fronte degli esiti politicamente controproducenti” della dottrina di Ario, Gregorio “lasciava intravedere la maggiore efficacia di una fede che insisteva sulla perfetta parità dei soggetti divini detentori della suprema autorità”.442 Ma la traslazione (Uebertragung) del dogma di Nicea al piano politico era teologicamente lecita? E‟ lo stesso Gregorio a rispondere per la negativa in un altro passo, quello ricordato sulla vera monarchia, che diede spunto al Peterson per argomentare la sua tesi. 443 Infatti, laddove Gregorio ritiene “impossibile in una natura generata” la consustanzialità delle tre divine “dignità”, la impossibilità doveva interessare non solo la dignità imperiale, ma anche quella papale, proprio per “garantire ai diversi rappresentanti del potere centrale il riconoscimento di una pari autorità”: unam deitatem sub parili maiestate.444 Il conflitto si genera infatti tra autorità paritetiche insistenti sullo stesso campo, e tra enti finiti e non autonomi, e dunque molteplici. Nel caso delle Persone ipostatiche, la loro condizioni paritaria era insita nella loro unità spirituale originaria, tale che ognuna sia insieme se stessa e l‟Unità mistica divina. Nel caso della Chiesa e dell‟Impero, istituzioni umane e dunque finite, il campo comune non era quello delle rispettive funzioni, già distinte da Mt,22, 21, ma era quello esistenziale della

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Gregorio di Nazianzo, Discorso funebre per Basilio il Grande, cit. da F. Fatti, Op. cit., in G. Filoramo (ed.), Teologie politiche, cit., pagg. 91-92. 442 F. Fatti, Ivi, pag. 92. 443 Singolare suona l‟affermazione del Peterson circa la fine della teologia politica (ved. Il monoteismo, tr. it. cit., pag. 70) se teniamo conto che il simbolo di Nicea fu imposto dall‟imperatore Costantino, come conferma Eusebio nella sua apposita Lettera, in Il Cristo, vol. II, cit., trad. a pagg. 111 e 113. 444 F. Fatti, Ivi, pag. 95.

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società cristiana, costituita da individui, forniti della doppia natura propria all‟uomo e chiamati alla singola rsponsabilità di redimere quell‟intimo conflitto. Il conflitto delle autorità non potrà redimersi, però, finquando esse resteranno paritetiche non solo nella dignità, ma anche idealmente, poiché la pluralità delle loro singole essenze unitarie ne manifesta la rispettiva “cattiva infinitezza”, nessuna delle quali può contenere l‟altra La soluzione del confitto non può d‟altro canto trovarsi attraverso un rapporto di subordinazione gerarchica, conseguito solo dopo aver stabilito un analogo rapporto in ambito ideale, teologicamente escluso, come abbiamo visto. La soluzione viene suggerita dallo stesso Gregorio allorquando prevede la costituzione di una monarchia, entro la quale le distinzioni dei ruoli delle due potenze, legati alla duplice natura umana, trovino la loro paritetica dignità in quanto ispirate a uno stesso principio divino e accomunati dalla loro stessa destinazione escatologica. Questo disegno monarchico di Gregorio, che sarà oggetto della omonima trattazione dantesca, diversamente da quanto creduto da Peterson, costituisce l‟atto fondativo della teologia politica dell‟Occidente cristiano, oltre che il principio di legittimità teologica della politica imperiale della Chiesa di Roma fino alla Riforma e di quella cattolica fino al Concordato del Laterano con lo Stato italiano del 1929. Infatti, ciò che non era possibile a “una natura generata” sarebbe stato possibile a un modello originario, quale quello divino, che pertanto doveva assumersi come il prototipo celeste del suo riflesso terreno. Da qui la legittimazione teologica della politica, che per la sua destinazione trascendente assumeva così nell‟ambito delle relazioni pratiche una funzione ancillare simile a quella della filosofia in campo teoretico. Orbene, questo rispecchiamento dell‟eterno modello celeste nella imperfetta realtà umana non sarebbe stato concepibile senza gli strumenti concettuali del razionalismo ellenistico di matrice soprattutto platonica. A questo scopo, il paradigma cristologico del Figlio-Logos diventava il prototipo della consustanzialità del finito-umano e dell‟infinito-divino nella stessa esperienza esistenziale dell‟uomo storico, che in virtù della propria rinascita in Cristo poteva costruire in forma umana una città ispirata al modello di quella celeste, nella quale i conflitti tra le due nature umane avrebbero trovato finalmente anche in

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campo civile la loro divino-umana composizione. Questo disegno mistico-politico sarà perseguito da Dante nel suo trattato sulla Monarchia. Ciò che viene indicata come “monarchia” da Gregorio di Nazianzio è la Totalità della realtà di Dio che governa il cosmo di cui è principio () dinamico e fine () escatologico. Essa non è l‟unità ideale della metafisica platonica, compatibile con altre omologhe unità categoriali, ma è ciò che trascende ogni molteplicità. Se, infatti, l‟unità può essere in se stessa dialettica, come afferma platonicamente Gregorio, scindendosi in molteplicità, 445 la divina Totalità è in sé autosussistente, ossia è una verà unità originaria armonicamente perfetta e sempre uguale a se stessa. E questa Totalità, per i suoi caratteri di eternità e di perfezione, non può essere generata, avere cioè una natura derivata, ma costituisce essa l‟origine archetipa di ogni generazione. La differenza tra questa totalità originaria e perfetta, e il mondo terreno, legato dalla finitezza e imperfezione della sua natura mortale, rimarrebbe incolmabile senza la mediazione del Cristo, di quella Sapienza divina generata e generatrice, la cui rivelazione come Figlio di Dio consente all‟umanità di acquisire la “conoscenza del Padre”. 446 La sua divina generazione, conservandogli “la sostanza increata e immutabile di Dio”, lo ha sottratto al peccato originale dell‟uomo, la imperfezione, e pertanto lo ha additato come “potenza ( ) e sapienza () del Padre” (1 Cor.,1, 24) e “maestro () di tutti gli uomini”.447 La sostanza () del Cristo “è chiamata Logos e Sapienza di Dio” () grazie alla quale “i re regnano ( ) e i signori esercitano la giustizia, e i tiranni dominano () la terra”.448 Si noti la corripondente coppia nomenclatoria ,  indicante una distinta proprietà e differente attività

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Gregorio di Nazianzo, Sul figlio, cit. da F. Fatti, Op. cit., in G. Filoramo (ed.), Teologie politiche, cit., pag. 94. 446 Eusebio, Storia ecclesiastica, in Il Cristo, a c. di M. Simonetti, vol. II, Milano, 19984, pag. 21. 447 Eusebio, Ibidem. 448 Ivi, pag. 23.

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proprie della finitezza e imperfezione umana, e la cui molteplicità converge nell‟unità della sua mistica fonte divina, nel Cristo. Ciò vuol dire: a) che l‟articolazione terrena di ciò che è misticamente unitario alla fonte non può essere superata se non nel riferimento all‟archetipo divino, b) che ogni rapporto conflittuale tra le distinte articolazioni terrene della divina  sono contrarie alla “scienza e intelligenza” () del Logos, che sono il “consiglio” () della divina “Sapienza” ().449 Alla distinzione tra scienza e intelligenza da una parte, e sapienza dall‟altra, corrisponde la simmetrica distinzione tra il Governo () e il Potere (), il quale ultimo sta al primo come la scienza e intelligenza stanno alla sapienza. Poiché, come si è detto, l‟unità degli elementi molteplici della realtà divino-umana terrena si può ritrovare solo misticamente in Cristo-Dio, che ne è la fonte, la loro coesistenza nella dimensione della temporalità finita, non può sussistere nei termini del rapporto paritetico tra omologhe autorità, le quali, per quanto eguali in dignità in sé considerate, sono tenute a stabilire una relazione che tenga conto delle rispettive funzioni in cui si articola il Logos. E proprio in virtù di tale relazione gli elementi devono trovare il loro ordine pacifico, ottenibile attraverso un rapporto spirituale che elimini il conflitto. In questo senso anti-polemico, la mediazione carismatica di Cristo consiste nell‟instaurare una relazione agapica tra le potenze mondane finalizzata escatologicamente alla salvezza dell‟uomo. Proprio in questa funzione mediatoria consiste il Governo spirituale del Cristo sulle potenze mondane che presiedono alla vita sociale degli uomini, le maggiori delle quali sono la Chiesa e l‟Impero. L‟unità che le comprenda armonicamente è, per Eusebio come per Dante, la Monarchia. Se il modello divino può costituire il riferimento storico alla società perfetta cristiana, la natura agapica della relazione sussistente tra le persone della Trinità ne costituisce il mutuo più significativo e rilevante. Ciò comporta che il tipo di relazione mondana fra le omologhe dignità terrene, rifacendosi al modello divino, non può consistere nella concepita dalla sapienza pagana, e pertanto la società monarchica vagheggiata dai teologi cristiani non può essere

449

Eusebio, Ibidem.

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assimilata all‟Impero delle civiltà antiche, neppure a quello di Roma.  Il rapporto agapico, rispetto al rapporto logico, si caratterizza per la tua totalità, in analogia al rapporto che il fedele ha con Cristo. Come scrive Eusebio, Egli va celebrato “non solo con le voci e il suono delle parole ma con tutte le disposizioni dell‟animo”, così che, noi che lo facciamo, “anteponiamo la testimonianza () resa a lui alla nostra stessa vita”.450 Tale rapporto, che antepone la considerazione dell‟altro a quella del proprio sé, è radicalmente diverso da quello logico-politico basato sulla esclusione dell‟altro a favore del sé. Siamo oltre l‟antropologia logicopolitica aristotelica; oltre la relazione del logos e della politeia, cioè della lex, ed entro la dimensione morale e del nomos propria del Governo cosmico di Cristo, che è “la ragione di Dio” ( ). 451 Questo Logos non è quello “seminale” () degli esseri viventi, né quello “epistemico” degli esseri razionali dotati di parola, ma è il “logos del Dio buono” ( ) che “con la sua provvidenza ha ordinato e illumina questo universo”. 452 Rispetto all‟ordine cosmico della provvidenza divina, le costituzioni umane, infrmate al al mero logos razionale, rappresentano una degenerazione legata al peccato e alla finitezza della natura umana, che la Rivelazione cristiana intende superare per legare gli uomini all‟eterna armonia divina. Questa armonia è dovuta alla unità totale e indissolubile della realtà di “ciò che è” ( ), ossia di Dio, il quale, non essendo “composto” (), neppure è composto il suo Logos unigenito, il Cristo, da cui proviene e di cui è “immagine perfettissima” ( ) non esprimibile in termini umani. 453 Se consideriamo la portata culturale innovativa della morale cristiana rispetto alle istituzioni legislative pagane, ci rendiamo conto dei termini di incompatibilità tra la prospettiva escatologica evangelica e le strutture politiche e religiose delle civiltà tradizionali, compresa quelle israelitica e romana. E tale consapevolezza spinge Eusebio ad affermare che “soltanto presso i cristiani in tutta la terra è praticata quella forma di

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Eusebio, Storia ecclesiastica, in Loc. cit., pag. 37. Atanasio, Contro i pagani, 40, 24, in Il Cristo, vol. II, cit., pag. 46. 452 Atanasio, Ivi, 40, 1-10, trad. pag. 49. 453 Atanasio, Ivi, 41, 26-33, orig. pag. 48. 451

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religione ch‟era stata di Abramo”, in quanto che “la lezione morale () trasmessa a noi per l‟insegnamento di Cristo è la prima, la sola, la vera”.454 Dio non è creato, e dunque non essendo tratto dal nulla come invece le cose create, non è come esse “instabile, debole e mortale”, ma naturalmente “buono e perfettissimo” ( ). Dalla perfezione divina discende l‟assenza di invidia, legata a una qualche manchevolezza, e la naturale bontà e benevolenza verso gli uomini ().455 L‟atteggiamento filantropico di Dio consiste nel Governo provvidenziale del Logos che sostiene l‟universo e impedisce che la sua creazione sia “trascinata e travolta dalla propria natura [finita]”, correndo così “il rischio di tornare nuovamente al non essere”.456 Ora comprendiamo il senso della tensione cosmica tra le forze naturalistiche della dissoluzione cosmica, legate alla imperfezione della natura creata, e quelle katechontiche che, seguendo la bontà del Logos divino, cercano di impedirla. La differenza tra le due forze consiste nella loro diversa origine e destinazione. Le cose create sono gli enti dell‟Essere della ontologia razionalistica greca, che, secondo il Sofista platonico, vengono in essere dal niente attraverso la determinazione del logos apofantico, e tornano al niente. Diversamente, l‟essenza del Logos divino non è creata ma generativamente consustanziale alla natura di Dio, per cui il Suo governo garantisce che “la creazione, illuminata dalla signoria (), dalla provvidenza ( ) e dall‟ordine cosmico () del Logos, possa permanere stabile, i quanto partecipe di quello che è veramente il Logos del Padre, ed è da lui soccorsa perché continui a esistere”.457 La potenza del Logos divino è confermativa, non già dell‟Essere naturalistico dell‟ontologia del razionalismo greco, la cui natura caduca e transeunte lo destina alla finitezza, dalla quale il Logos razionale lo trae momentaneamente; ma della realtà investita dallo Spirito (il Logos del Dio buono), quella che elettivamente prescelta, attraverso la sua

454

Eusebio, Storia ecclesiastica, in Loc. cit., pag. 43. Ivi, 41, 2-6, pag. orig. 50. 456 Ivi, 41, 10-15, trad. pag. 51. 457 Ivi, 41, 15-19, trad. pag. 51. 455

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intercessione, a permanere nel suo sé, a non finire nel nulla, ossia nel ciclo della morte naturale a cui li condanna la “trasgressione dell‟ordine [divino]”.458 Solo ciò che, permanendo nella realtà del Logos divino, si emancipa dal ciclo nichilistico della natura, ha una storia, un percorso spirituale singolare. In questa emancipazione consiste la “salvezza” () del cristiano, che il Logos incarnato ha esperito per tutti gli uomini. Nella fase di assestamento teologico di una dottrina cristiana ortodossa a opera della Chiesa cattolica dei primi secoli, con le vicende legate alle diatribe teologiche che portarono e conseguirono al concilio di Nicea del 325, stabiliscono, al di là degli esiti dogmatici, pure rilevanti, quella che Scheler chiamò la “legge direttiva alla base dello sviluppo dell‟Occidente per quanto riguardo il rapporto tra religione e metafisica”, consistente nel monopolio esegetico dei fondamenti veritativi della realtà che sono alla base della legittimazione del Potere, utilizzato a sua volta per difenderlo, ottenuto attraverso il “soffocamento del desiderio di sapere metafisico e della libera speculazione religiosa ad opera delle chiese depositarie di una rivelazione e sempre più saldamente chiuse”.459 La legge sociologica non fu, pertanto, il “soffocamento del sapere metafisico”, ma il monopolio del sapere teoretico, di cui il soffocamento fu la condizione e la conseguenza. Per meglio dire, la piega politicistica che inevitabilente ha caratterizzato il rapporto tra la Chiesa e il libero pensiero ne ha provocato due di conseguenze: la prima, fu la razionalizzazione del sentimento religioso a scopo di controllo ideologico delle teorie e delle coscienze; la seconda, segnalata anche da Scheler, fu lo sviluppo delle tecniche intellettuali idonee alla vita activa ma non concorrenziali

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Conoscendo il male, gli uomini, creati da Dio per rimanere nella incorruttibilità (Sap. 2, 23), “non rimasero più nella condizione in cui erano stati creati, ma si corruppero come avevano meditato; e la morte prevalse e dominò su di loro. Infatti la trasgressione li volse a ciò che è secondo natura, perché, come erano nati mentre prima non esistevano, così conseguentemente dovessero essere soggetti, col passare del tempo, alla corruzione che li avrebbe riportati al non essere”: Atanasio, L’incarnazione, 4, 6-14, in Loc. cit., trad. pag. 53. 459 M. Scheler, Sociologia del sapere, tr. it., Roma, 1966, pagg. 135.

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teoreticamente con il sistema teologico della Chiesa. 460 Ma questa primordiale specializzazione del lavoro intellettuale in Occidente, conseguente secondo Scheler alle distinte funzioni generali dello spirito, quella primaria di “dirigere” e quella secondaria di “guidare”, sono intimamente legate alla credenza, anche da Scheler adottata, che “dirigere determini la forma del guidare”. Usando le sue parole, dirigere significherebbe “mantenere un‟idea in cui è accentuato il valore”, ossia governare i processi storici in considerazione dei fini ideali, mentre guidare significherebbe “inibire o disinibire gli impulsi istintivi, i cui movimenti coordinati realizzano l‟idea”,461 ovvero stabilire le distinzioni formali tra atteggiamenti sociali amici ed ostili al Potere. Scheler, nondimeno, non chiarisce i termini del rapporto tra le due funzioni spirituali, dando per scontato che siano solidali, mentre invece in realtà sono conflittuali, come nel caso appunto della teologia con la metafisica e della Chiesa con lo Stato. L‟origine del conflitto tra le “religioni rivelate” e lo “spirito metafisico autonomo” viene da Scheler indicata nella circostanza che “la Chiesa romana soverchiò il neoplatonismo e le sètte gnostiche”, ossia al conflitto tra “autorità” dogmatica e “libertà” di pensiero, 462 non sospettando che il carattere dogmatico assunto dalla religione cristiana sia legato alla sua natura di pensiero teo-logico, ossia al suo razionalismo, che costituisce il sostrato teoretico sia del pensiero religioso che del neo-platonismo e dello gnosticismo, rivali alla teologia romano-alessandrina nella costruzione ideologica del cristianesimo. Infatti, il ritenimento che governare equivalga a “determinare la forma” del Potere, significa assumere, per l‟isomorfismo tra sovranità divina e sovranità terrena, l‟orizzonte politico del Potere come il terreno comune anche del pensiero teologico, che è esattamente la prospettiva in cui si

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Secondo M. Scheler, a partire dalla Riforma, “alla rivelazione e alla grazia si concede un‟importanza sempre maggiore per la formazione del sapere religioso, mentre la libertà attiva dell‟uomo di fronte al Divino e alla sua conoscenza razionale (e con ciò anche lo spirito metafisico) viene repressa sempre più, nella stessa misura in cui viene continamente incrementata l‟attività della mente diretta verso la terra nel lavoro, nella tecnica, nella professione, nell‟economia, nella politica di potere”: M. Scheler, Op. cit., pag. 134. 461 M. Scheler, Sociologia del sapere, cit., pag. 110, n. 29. 462 Ivi, pag. 134.

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muove il pensiero razionalistico della metafisica greca. Ed è proprio questo comune orizzonte di pensiero a creare le condizioni del conflitto tra tendenze egemoniche concorrenti; orizzonte che la rivelazione evangelica intendeva superare instaurando un‟altra modalità di rapporto inter-personale, quella ecclesiale, alternativa alla socialità politica pagana. Nel momento in cui governare significa “dirigere” secondo un modello ideale, siamo già all‟interno della prospettiva razionalistica della Repubblica platonica e della Politica aristotelica, ossia entro una dimensione onto-cosmo-logica naturalistica, dove il pensiero dell‟Essere è la realtà stessa degli enti. In questo ambito, la dialettica tra i fondamenti dogmatici unitari della fede teologica e le molteplici rappresentazioni razionali delle varie filosofie storiche assume i toni polemici della lotta della metafisica pensata contro la religione rivelata, che altro non ripropone che il tradizionale antagonismo della Ragione rielaboratrice contro il Mito originario. La dialettica interna al cristianesimo tra la sfera divina e quella politica, così come si è determinata storicamente, non è la distinzione tra gli affari di Dio e quelli di Cesare che risale al logion evangelico (Mt, 22, 21), ma è la convergenza conflittuale di interessi politici e religiosi entro la sfera della vita pubblica ingenerata dalla interpretazione gerarchica della pericope paolina di Rm 13, 1 da cui discende la teoria che omnis potestas a Deo. Il senso dell‟indicazione evangelica non è quello del conflitto, proprio dell‟ordine politico della potestas, ma quello della diversità, relativo all‟ordine morale dell‟auctoritas spirituale. Lo spazio della diversità, a differenza di quello del conflitto, si articola secondo un ordine che non è gerarchico ma carismatico, ossia non si basa su rapporti stabiliti su un obbligo di obbedienza dell‟inferiore al superiore che comanda, tipici del Potere, ma sul riconoscimento dell‟autorevolezza carismatica del pater da parte del filius, tipica del Governo morale. Diversamente dall‟obbligo gerarchico, l‟autorevolezza carismatica non si può imporre, per cui il suo riconoscimento è del tutto libero e volontario, e perciò di carattere morale e non giuridico. Ed è questo carattere di libertà e di non necessità a rendere diverso l‟ambito spirituale da quello politico. Nel caso del rapporto del Potere politico con la sovranità di Dio, la potestas di cui parla Paolo in Rm 13 non è equiparabile al Potere di un princeps, relativo alla sfera politica, ma alla auctoritas di un , che si esercita non imperativamente attraverso obblighi e sanzioni

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giuridiche, ma attraverso il carisma che viene dalla fede. Solo l‟atto libero della fede può sottomettere il Potere secolare all‟autorità divina, dando a quella sottomissione spontanea (), il carattere morale che invece manca all‟obbligo giuridico di osservare la volontà del Potere legale (). Ne consegue che non c‟è contraddizione esegetica tra i due passi se si considera il diverso piano di incidenza delle due potestà. Il conflitto delle interpretazioni nasce all‟interno della questione del primato tra la figura del papa e quella dell‟imperatore, politicamente asserita dalla Chiesa ma teologicamente contraddetta dall‟uguaglianza delle persone trinitarie, secondo il dogma di Nicea. Al pari di Atanasio, anche Eusebio, nella Laus Constantini (5, 2), aveva affermato che il princeps riflette l‟immagine () della monarchia divina, stabilendo un parallelo tra lo statuto dell‟imperatore e quello del vescovo, ma solo la lettura teologico-politica ripresa dall‟Ambrosiaster nel suo Commentarius alla Lettera ai Romani in chiave distintamente egalitaria, facendo del primo il vicarius Christi e del secondo il vicarius Dei, apre la questione del primato istituzionale. 463 Ma tale questione matura a seguito dello “strappo decisivo [che] viene consumato da Agostino sul terreno antropologico rinunciando alla tricotomia origeniana e paolina” di spirito (), anima () e corpo (), “a favore di uno schema duale di anima e corpo, [che] elimina di fatto lo spazio per un esercizio del libero arbitrio, nel campo del politico, che travalichi il mero ambito delle res temporales, in tutto e per tutto ontologicamente e teologicamente subordinate alle spirituales, cui pertiene l‟anima”.464 Tale dualismo, facendo risolvere per avversione alle teogonie pagane 465 il fondamento mitico della verità ( ) all‟interno dell‟orizzonte razionalistico del , ha aperto il conflitto tra il logos pneumaticospirituale, rappresentato dalla teologia, e il logos psico-naturalistico, rappresentato dalla filosofia, quale elemento dialettico della vita fisicosociale (), legata alla politica. Il cristianesimo dei primi secoli, Agostino compreso, contrastando le

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M. Rizzi, Esegesi e teologia politica tra tardo antico e prima età moderna, in Teologie politiche, cit., pagg. 110-111. 464 Ivi, pag. 113. 465 Ved. Agostino, Civiras Dei, lib. VI.

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rappresentazioni iconiche della mitologia pagana, ne confutava anche l‟annessa funzione religiosa di collante sociale, mediatrice com‟era nel rapporto tra divinità e umanità civile, in quanto il rapporto con Dio è di ogni singolo uomo, e l‟unica mediazione è il Cristo. Quanto il sapere antico attribuiva al filosofare, quale intrapresa elitaria per le vie del logos, la fede cristiana attribuiva alla misericordia di Dio, ossia la conoscenza della verità, la quale, però, non aveva lo stesso contenuto nei due casi. Infatti, la conoscenza in senso filosofico-pagano conduceva all‟Essere naturalistico, regolato dalla legge cosmica della necessità, mentre in senso spiritualistico-cristiano portava alla rivelazione dell‟incarnazione di Dio. Se la filosofia poteva ritenere di pervenire alla verità attraverso la sola adozione del metodo dialettico, e quindi per via tecnica,466 la fede cristiana riponeva le sue speranze nella grazia divina, e quindi in un atto di illuminazione celeste a cui l‟uomo poteva predisporsi ma che dipendeva dall‟intervento trascendente di Dio. In questo senso, il Logos pneumatikos, includendo il Mistero divino, non poteva essere rappresentato iconicamente in simboli plastici, alla maniera pagana, ossia per idolas, o attraverso cifre verbali di una arcana crittografia iniziatica. L‟universalità che sconcertava i critici pagani era il punto di forza di una dottrina fideistica che, a differenza del sapere profano, non discriminava tra una condizione umana bio-psichicamente superiore e politicamente garantita, e una condizione socialmente inferiore, perloppiù esclusa dal sapere elitario. Col cristianesimo la conoscenza della verità di Dio poteva giungere a ogni uomo di buona volontà che accogliesse la lieta novella e si convertisse a una mentalità misericordiosa e anti-polemica, sostituendo la realtà nomica della polis gravitante intorno alla forza centripeta del Potere, con la libertà anomica della ekklesia, mediatore spirituale il Cristo, il topos spirituale dell‟unità mistica alternativa all‟unità politica. L‟alterità del topos ecclesiale non si costituiva, da parte cristiana, in termini esclusivi, ma così veniva intesa da parte politica, che accusava il cristianesimo di “ateismo civico, nella misura in cui l‟identità civile, a livello locale come ecumenico, si consumava tutta nel foro esteriore del

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“E‟ da stolto domandare agli dèi la saggezza se la puoi ottenere da te stesso”: Seneca, Epist. XLI, 1, cit. da M. Rizzi, Teologia politica: la rappresentazione del potere e il potere della rappresentazione, in Il Dio mortale, cit., pag. 280.

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visibile e del simbolico […], mentre il foro interiore dell‟anima cristiana restava invisibile alle masse e inconcepibile per i pochi che del culto dell‟anima avevano fatto la propria religione e la propria filosofia”.467 La “rivoluzione cristiana” consisteva dunque nel suo antropocentrismo, il quale, “estendendo a tutti la possibilità di un incontro con il divino nell‟uomo interiore, spazza via, con la necessità del nomos teologico-politico, la distinzione tra i molti e i pochi, tra i veri sapienti e il volgo”.468 In una chiesa di santi, in cui la  avesse comportato una radicale trasvalutazione morale del senso della esistenza, l‟alterità rispetto alla vita socio-politica ne avrebbe sancito il definitivo superamento antropologico, per cui la civitas christianorum, realizzandosi come imago Dei, avrebbe reso superflua l‟unità politicoreligiosa intorno all‟imago principis. Ma la natura lapsa dell‟uomo rendeva necessaria l‟assistenza coercitiva e ausiliaria dell‟anima razionale, e dunque della costituzione politica ispirata al modello razionalistico di Stato, la cui oggettività istituzionale richiamava a sua volta in posizione dialettica l‟oggettivazione della ecclesia visibilis, vocata a governare escatologicamente, in rappresentanza del Logos pneumatikòs, la società cristiana. L‟ammissione della sussistenza del regno di Cesare nella dimensione della vita terrena, sia pure cristianamente concepita in senso escatologico, comportava, con l‟assunzione della sua necessità entro l‟economia della salvezza, anche il problema teologico della sua compatibilità nel rapporto con la chiesa, che diventava così, per poter interagire sul piano dei rapporti mondani con la realtà istituzionale dello Stato, rappresentativo del potere secolare, da corpo mistico di Cristo costituito di esistenze singolari, ente collettivo rappresentativo dello speculare potere spirituale. In altri termini, l‟assunzione della realtà del regno di Cesare come elemento consustanziale della esperienza escatologica del cristiano, perdeva la sua natura impolitica quando si passava dal piano della dialettica coscienziale del rapporto singolare del fedele con lo Stato, a quello della dialettica politica del

467 468

M. Rizzi, Teologia politica, cit., pagg. 283-284. Ivi, pagg. 182-183.

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rapporto istituzionale tra enti collettivi. Lo Stato, pertanto, nel rapporto con singolo, rappresentava simbolicamente la realtà precaria dovuta alla condizione lapsa dell‟uomo, da superare in vista della salvezza attraverso la sua rinascita spirituale, mentre nel rapporto tra enti collettivi, lo Stato rappresentava la condizione stessa dell‟esistenza storica della Chiesa, la quale ne dipendeva logicamente come il suo inveramento dialettico. Questa duplice fisionomia dello Stato, se spingeva la Chiesa mistica a una “super-politica” di “svalutazione completa, dal punto di vista morale e religioso, della organizzazione statale”,469 e il singolo a un atteggiamento di “ateismo civico”, obbligava di contro la Chiesa istituzionale a un rapporto conflittuale col Potere secolare, al fine di piegarlo al riconoscimento della sua superiore autorità spirituale e di includerlo intra ecclesiam come momento funzionale alla destinazione soteriologica della società cristiana. Ed è appunto nella determinazione di tale rapporto, inevitabilmente politico in conseguenza delle resistenze del Potere, che la ecclesia assume l‟immagine del corpus fisico del , che da icona del pneuma divino assume la forma di dòkema sensibile del Logos. La portata della oggettivazione della ecclesia mistica sarà culturalmente enorme nela successiva definzione di tutti gli attributi divini, a partire dalla potenza e finendo con l‟eguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio. Infatti, la secolarizzazione di queste qualità spirituali è la conseguenza della loro oggettivazione razionalistica, ed è all‟origine dei movimenti ideologici moderni fruitori delle categorie formali della scienza politica europea.470 

469

E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I, cit., pag. 223. Al fondo della moderna formalizzazione del sapere scientifico si trovano le originarie motivazioni religiose, le quali costituiscono non soltanto le “radici psicologiche delle emozioni” che condzionano le analisi logiche, ma il loro fondamento ontologico. La formalizzazione dell‟esperienza interiore provocò la sostituzìone le forme tradizionali dell‟esperienza religiosa con gli schemi interpretativi della meccanica (posizione, causa, effetto), e il conseguente spostamento dei termini del problema della conoscenza dal "sapere come la persona divenga consapevole di sé in relazione a certe norme e idealità e come, di fronte a tali principi, acquistino significato le sue azioni e le sue rinunce", al modo in cui "una situazione esterna possa, secondo un grado accessibile di probabilità, determinare meccanicamente una reazione interna". Il rischio insito nel vantaggio di tale astratto accertamento formale era, da un lato, che sfuggisse l'elemento 470

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La tradizione teologico-politica occidentale nasce dalla esigenza di stabilizzare il movimento socio-politico e culturale derivato dalla dissoluzione dell‟ordine imperiale romano tradizionale in un nuovo ordine cosmico garantito da una potente autorità portatrice di valori superiori, e dunque di una intelligentzia che se e fa interprete.471 A questa esigenza di sistematicità, funzionale al controllo dei coevi movimenti sociali, si ispirano le varie tendenze teologiche rivali, ognuna delle quali proponeva una struttura di pensiero che si affermasse come egemone. Il conflitto con il Potere imperiale determina a sua volta i suoi termini ideologici, e pertanto l‟immagine del Cristo , contrapposta al Potere dell‟unità politica dello Stato, diventa il corpus Christi visibilis della Chiesa istituzionale che rivendica proprie istanze mondane giustificate razionalmente da princìpi teologici. Caso paradigmatco il diritto imperiale al pagamento dei tributi, che offre l‟occasione ad Ambrogio di teorizzare, ancor prima di Agostino, la distinzione delle “due sfere di potere visibile”. 472 La trascrizione in termini formali, originariamente teologici e quindi giuridici, della volontà di un corpo sociale oggettivato, la Chiesa, “dotata di poteri propriamente terreni, in uno con i suoi speciali poteri ricevuti dal Cristo, e temporaneamente impegnati nella diffusione del vangelo”, inaugura la “Cristianità”.473 Necessariamente, la prospettiva in cui agisce la “Chiesa di potenza” (Machtkirche), la quale “si serve del suo prestigio, in concorrenza con le forze politiche e le società temporali”, 474 deve alterare in senso riduttivo la portata dogmatica e il significato spirituale dell‟ordinamento della coscienza ecclesiale, la cui rilevanza è

qualitativo delle esperienze umane, trascurando proprio "i concreti contenuti dell'esistenza e i valori", e dall'altro, di considerare tale ricerca scientifica l'unica forma legittima di conoscenza della realtà: K. Mannheim, Ideologia e Utopia (1936), tr. it., Bologna (1957), 1972, pagg. 19-20. 471 La costituzione di una gerarchia sacerdotale (diadoché) in funzione di neutralizzazione delle minacce ereticali, ha prodotto, insieme al contenimento delle spinte messianiche legate alla originaria tensione escatologica, l‟esautorazione progressiva del cristianesimo carismatico (edoché). Ved. E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, vol. I, cit., pagg. 159 sgg.; G. Zamagni, Op. cit., pag. 130. 472 M. Rizzi, Teologia politica, cit., pagg. 293-294. 473 M-D Chenu, La chiesa e il mondo (1964), cit. da G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana, cit., pag. 18 474 Ivi, pag. 19.

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proporzionale al suo riconoscimento da parte dell‟antagonista politico, il quale, per emanciparsi dalle conseguenze del primato ecclesiastico sul piano teologico, ha perciò ogni interesse a portare sul terreno delle neutrali formule giuridiche il contenzioso con la sede apostolica. La rivoluzione dello spirito, allocata in interiore homine, porta a trascendere la dimensione della finitezza terrena, ossia della condizione sociale, dell‟uomo della vita collettiva, per far emergere la sua visione della realtà, il suo progetto esistenziale, finalizzato a conseguire la prospettiva dell‟eternità, dalla quale valutare con misura morale gli accadimenti e le esigenze umani. 475 Oggettivata la rappresentazione spirituale in immagini ideali, viene a perdersi la misura singolare, propria della metanoia interiore, della rivoluzione cristiana a favore di una sua socializzazione comunitaria che trascende le singole esperienze soggettive per dar corpo a forme di liberazione dal mondo adottive di una prassi orientata polemicamente contro la realtà attuale, in vista di un ordo condendo futuro. E proprio l‟adozione della dimensione oggettivata della rivoluzione destina il cambiamento alla sfera sociale e non alla responsabilità dell’uomo, non alla sua determinazione esistenziale ma alla dimensione temporale del futuro, opponendo al divenire la cesura del trapasso all‟immobile eternità della liberazione del mondo, e non dello spirito.476 Questa storicizzazione della conversione cristiana dell‟uomo, prendendo ad

475

L‟idealtipo dell‟homo religiosus è il “santo”, le cui qualità carismatiche non sono nella sua rappresentazione del mondo, ma nel suo particolare rapporto con Dio, riconosciuto dai suoi seguaci. Con la trascrizione teologica della fede, la figura carismatica tende ad avvicinarsi a quella del “prete”, quale “tecnico del culto e funzionario della chiesa”, ovvero a quella del “saggio”, cultore della struttu ra metafisica della realtà. La burocratizzazione della Chiesa produce la figura gregaria del prete, il cui prestigio tecnico è sempre derivato da quello carismatico, ma non sempre compatibile con il ruolo spirituale del saggio, a cui non occorrono emulator i per sussistere. Ved. M. Scheler, Die positivistiche Geschichtsphilosophie del Wissen und die Aufgaben einer Soziologie der Erkenntnis (1921), tr. it. in Id., Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Napoli, 1988, pag. 119. 476 Rispetto alla legittimità tradizionale del Potere, il nuovo paradigma potestativo cristiano assumeva la prospettiva rivoluzionaria di una nuova legittimazione, fondata sulla fede escatologica e non appunto sulla auctoritas della tradizione. La secolarizzazione di tale prospettiva escatologica è alla base della moderna legittimazione democratica del Potere, fondata sulla fede ideologica rivoluzionaria.

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oggetto le condizioni dell‟esistenza socializzata del collettivo umano, ha ribilitato le funzioni della politica, che assumono nella prospettiva rivoluzionaria un senso conservativo, se riferite alle forze di resistenza nel passato, e un senso innovativo, se riferite alle forze di progresso e di superamento del presente. La secolarizzazione delle originarie istanze escatologiche del cristianesimo, è già implicita nell‟adozione della realtà sociale quale orizzonte d‟azione del cambiamento spirituale oggettivato, le cui dinamiche politiche, razionalizzate e idealmente distinte dal fine escatologico, si prestano a molteplici rappresentazioni ideologiche. Ed è tale polivalenza semantica dei fini ideologici a fare di quello precipuamente cristiano uno dei possibili entro l‟agone della storia, facendo perdere così alla tensione escatologica cristiana il suo senso peculiare, misticamente onnivalente per ogni singola esistenza umana, consegnato surrogatoriamente alla universalità del suo astratto significato razionale, opinabile e confutabile alla stregua di ogni altra dottrina di pensiero. E così, finquando l‟ideologia cristiana si è legata come valore religioso al Potere imperiale o statale, essa ha prevalso, non in quanto fonte della verità, ma della legittimazione morale della potenza di Cesare, subendo le sue sorti mondane, e quindi trapassando insieme alle forme istituzionali su cui si reggeva, come ogni teoria metafisica di razionalizzazione del mondo. Il compito assunto dalla Chiesa come Machkirche di “guidare” il processo storico, attribuendo alla sfera politica quella rilevanza preponderante entro l‟economia delle forze sociali, tipica della cultura antropologica pagana, ha favorito, con l‟adozione del metodo scientifico, la secolarizzazione delle rappresentazioni teologiche in forme ideologiche, ispiratrici di programmi d‟azione dalla escatologia anch‟essa secolarizzata. La trascrizione sociologico-politica dell‟uguaglianza spirituale degli uomini ha ispirato l‟ideologia democratica, per cui, come è stato giustamente osservato, “la democrazia metafisico-religiosa è stata in ogni storia il presupposto supremo di ogni altra specie di democrazia e del suo progresso, come di quella politica come di quella sociale ed economica”. 477 E‟ appena il caso di aggiungere che la religione cristiana, costituendosi come collante universale dell‟Impero romano in dissoluzione, ha potuto

477

M. Scheler, Sociologia del sapere, tr. it. cit., pag. 101.

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farlo in quanto l‟originario motivo sociologico del Potere politico, l‟identificazione del destino di Roma con quello della sua aristocrazia, veniva a perdere la sua funzionalità ideologica all‟atto dell‟espansione geo-politica dell‟Impero, al quale occorreva una nuovo motivo etico aggregatore molto più incisivo della cittadinanza, un tempo distintiva dell‟appartenenza privilegiata all‟ambito pubblico ma di cui la diffusione universale aveva offuscato il valore simbolico. In questo ruolo sociologico, il concetto cristiano del Cristo imperator, fuori della sua connotazione teologica, poteva facilmente tradursi in una accezione politicamente militante. Infatti, come notò a suo tempo Peterson in riferimento a Filone, il programma teologico-politico cristiano di riportare all‟ordine politico unitario (“monarchico”) il disordine cosmico era possibile solo fruendo di categorie ellenistiche.478 Nel caso del cristianesimo, l‟oggettivazione dei contenuti della fede nelle forme del sapere naturalistico antico, non soltanto trasponeva quei contenuti nei termini e nei limiti dela koiné metafisica ellenistica, ma ne operava una trasvalutazione omologante che comprometteva l‟essenza del rinnovamento spirituale rappresentato dal messaggio evangelico, ossia l‟interiorizzazione della verità come salvezza individuale dell‟anima, tale che, a differenza del percorso filosofico, non sia riferibile a valori ideali oggettivi ma si manifestasse come esperienza esistenziale personale. La koiné mistica dei fedeli era la figura carismatica del Cristo, e non una Idea. La differenza è che la verità cristiana è un mistero divino, quella ideale è un concetto. Ridurre Dio a un concetto, significa trasformarlo in un ente dell‟ontologia naturalistica, la cui realtà coincide con la sua manifestazione. Ma poiché il fenomeno divino si manifesta nelle sue creature, la sua esistenza è nella manifestazione molteplice delle realtà individuali, sicché Dio si conosce come l‟unità di quel molteplice. 479 Applicando a Dio il circolo

478

Ved. G. Zamagni, Op. cit., pagg. 160-161. L‟unità mistico-spirituale cristiana è diversa dall‟unità di discorso pagana, che si compendia nel detto di Eraclito, per cui “Bisogna seguire ciò che abbiamo in comune (), e comune è il Logos, mentre la maggior parte degli uomini vive come se avesse ognuno una propria mente” (fr. 7, in Id., I frammenti e le testimonianze, a c. di C. Diano e G. Serra, Milano, 1994, pag. 9), pare segni simbolicamente la nascita del razionalismo greco. Il Logos è il “discorso” razionale, e questo si definisce dopo le singole opinioni, ossia eliminando da esse ciò che 479

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ermeneutico per cui si suppone l‟unità del molteplice designandola con una definizione, e quindi si usa la definizione per definire l‟ambito inclusivo ed esclusivo del molteplice. Il “paradosso” di tale procedimento è che “dapprima l‟evidenza ci prescrive qualcosa mediante la persuasione, e che poi noi riordiniamo l‟evidenza in modo normativo”.480 Il dato di evidenza a partire dal quale si perviene alla

rimane incongruo e puramente soggettivo. Ma esiste tuttavia un altro Discorso, che è all‟inizio di ogni opinione e che tutte le comprende perché tutte le genera: il Mito, che per la sua originaria inclusività è ben più “comune” del discorso razionale. E proprio la sua negazione genera forme degradate di superstizione popolare. Infatti, cosa c‟è di più unitivo del discorso religioso, che nella civiltà politica faceva da freno morale alla anarchia della volontà egoistica, che se non genera brutalità la giustifica razionalmente nei periodi di dissoluzione del “conglomerato ereditario” della società, la quale, come ha ricordato J.G. Frazer, “è stata in gran parte costruita e cementata su fondamenta religiose, ed è impossibile sconnettere il cemento e scuotere le fondamenta senza rendere pericolante la sovrastruttura”. Ved. E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, tr. it. cit, pagg. 241 sgg. e 254 n. 82. 480 H. Jonas, La sindrome gnostica: una tipologia del pensiero, dell’immaginazione e dell’atteggiamento spirituale, tr. it. in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Bologna, 1991, pag. 375. Questo “circolo vizioso” è stato notato per primo da E.B. Tylor nel suo Primitive Culture (1871) a proposito dell‟attività onirica, per cui “ciò che il sognatore crede, per ciò stesso lo vede, e ciò che egli vede, per ciò stesso lo crede”, cit. da E.R. Dodds, The Greeks and the Irrational (1951), tr. it., Milano, 2015, pag. 159. Vi è da aggiungere in proposito che la relazione tra sogno e Mito, inteso questo come “il pensiero sognante di un popolo”, va estesa anche alla elaborazione razionale del suo significato simbolico, per cui esiste una sottile relazione tra il Mito, il sogno significativo e la forma moderna di mito-logia, la storiografia. Questa infatti, volendo rapportare a un processo significativo l‟esperienza umana inattuale, cioè fuori delle presenti coordinate di spazio e tempo, deve affidarsi a) alla credenza della realtà della rappresentazione di ciò che, essendo inattuale, è solo visto con l‟occhio della mente, come appunto in un sogno, e b) alla immaginazione per rievocare simbolicamente una trama avvenimenziale inventata e collegata a uno schema interpretativo ritenuto reale al pari di quella prescelta rievocazione di ciò che è stato. Anche in questo caso, la realtà e l‟immaginazione stanno insieme e si sostengono reciprocamente, sicché il principio di realtà degli avvenimenti è legato alla fede nella veridicità del narrato. In questo senso, possiamo dire che l‟ermeneutica storica sia una forma raffinata di oneirokritike, attraverso la quale l‟uomo ricompone gli eventi fattuali in un ordito libero dai condizionamenti contingenti che hanno determinato quegli eventi, compreso quello della sua stessa posizione nel mondo. Come ha intuito Priestley, “nei sogni non soltanto siamo liberi dalle limitazioni abituali di tempo e di spazio,

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conoscenza della realtà attraverso la successiva astrazione, deve essere assunto come il dato originario della coscienza, a partire dal quale muove appunto l‟analisi razionale. La conoscenza razionale, dunque, è insita nella possibilità che il dato originario ha di essere conosciuto secondo quella modalità, la quale si determina attraverso la negazione di altre possibilità, ossia del dato stesso come fondamento di ragione. Questo processo esclusivo de-finisce l‟ambito di realtà del dato eliminando da esso la credenza originaria che è fondamento della conoscenza razionale, assumendo la conoscenza stessa come presupposto di realtà, e dunque il suo metodo razionale come l‟unico orizzonte all‟interno del quale quel dato può venir posto in essere, trasformando così l‟originaria possibilità del dato di credeza in esclusiva necessità del dato di ragione. Nel nostro caso, questo percorso ermeneutico è consentito dalla fatticità storica dell‟evento cristico quale Verbum caro, la cui rappresentazione mitica si presta a una trascrizione meramente avvenimenziale, distinta dal suo significato escatologico, consegnato alla fede religiosa. 481 Attraverso la Rivelazione dell‟evento escatologico la coscienza perviene alla conoscenza della sua possibilità di superare l‟orizzonte di necessità che definisce il dato di ragione, per riportarsi all‟originario

non soltanto torniamo al passato e probabilmente procediamo nell‟avvenire, ma l‟io che in apparenza sperimenta queste avventure strane è un io più essenziale, che non ha nessuna età precisa” (cit. da Dodds, Op. cit., pag. 206). Se al posto delle visioni oniriche poniamo le scene credute reali, lo storico su di esse traccia il percorso della sua lettura “essenziale” del mondo. La differenza tra le rispettive visioni è nella credenza che solo alcune siano “reali”, cioè storiche, ma se noi credessimo, come nelle culture magistiche, alla realtà dei sogni, non ci sarebbe alcuna differenza. Infatti, rievocare i personaggi storici è un po‟ come credere negli spettri. D‟altronde, lo stesso “arredamento dei cieli” in cui noi immaginiamo abitare durante il lungo sonno della morte “non ha subito grandi variazioni nel corso dei secoli: esso rimane una copia idealizzata di quell‟unico mondo che noi conosciamo”: Dodds, Op. cit., pag. 186. 481 In contestazione con la tesi di Barth circa il silenzio umano su Dio, Peterson osserva che in conseguenza del carattere realistico della rivelazione la teologia cristiana differiva dal mito. Senza la considerazione della fattualità dell‟evento del Dio incarnato la stessa teologia sarebbe stata infatti impossibile, così come senza il “dato positivo” della Parola di Dio non sarebbe stato possibile il dogma e l‟insegnamento della chiesa. Ved. G. Zamagni, Op. cit., pagg. 174-175.

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orizzonte di fede, entro il quale l‟evento-dato non si risolve nella sua conoscenza, secondo il principio di realtà proprio dell‟ontologia razionalistica greca, la quale crede di pensare l‟Essere come ente di ragione mentre invece lo pensa come non-ens naturale, come ni-ente. La rivelazione di questa falsa credenza della sapienza pagana fa tutt‟uno col kerygma cristiano, che pone la fede in Cristo a principio della realtà, e la Sua esperienza terrena come epica dello Spirito incarnato, il cui forte carattere simbolico rappresenta la riabilitazione del Mito come orizzonte di verità rispetto alla filosofia. Nominare Cristo come il Logos del Padre significa indicare la ragione del Mito, lo Spirito, e non il logismos dell‟ontologia naturalistica greca. La questione si complica in considerazione del dogma trinitario niceno, per cui la figura ipostatica del Figlio coesiste con quella del Padre, pur nella diversa declinazione esistenziale, che nel Figlio è appunto storica, e come tale apparentemente prestantesi a una sua rappresentazione simbolica di tipo teologico-politico, quale tentata per primo da Eusebio. Ma solo apparentemente. Infatti, la oggettivazione dell‟essenza divina del Cristo in una forma dottrinale legittimativa di una entità istituzionale si imbatteva in una “contraddizione insoluta” ben più poderosa di una incongruenza logica, in quanto la concettualizzazione della fede cristiana in una unità mistico-politica implicava quel rapporto di inclusione-esclusione che la predicazione evangelica della carità come principio costitutivo dell‟esistenza spirituale aveva rinnegato. E pertanto sussisteva, al di là di ogni rapporto giuridico e politico, una differenza non superabile tra la Chiesa e l‟Impero consistente nella diversità dei rispettivi principi di legittimazione: spirituale ed inclusivo quello della Chiesa, razionale ed esclusivo quello dell‟Impero. Ammettendo che la Chiesa fosse stata posta da Dio e non dall‟uomo, essa sola poteva porre la realtà non originaria dello Stato, per cui, per emanciparsi dalla dipendenza dalla Chiesa o si faceva dell‟Imperatore l‟equivalente del Papa, in virtù dell‟attribuzione a Dio della stesa realtà dell‟uomo, oppure si creava una figura monarchica unica comprensiva dei due elementi distinti e confliggenti, ma in ogni caso idolatrando la forma terrena della potenza divina, ossia il Potere e il suo portatore protempore. Per superare la differenza onto-teo-logica tra le due rappresentazioni di Dio, si sarebbe dovuto rivedere il dogma trinitario, riformandolo in senso ariano. Esattamente ciò che il concilio niceno escluse categoricamente per scongiurare il dualismo gnostico di uomo

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spirituale e alienato, e Dio trascendente e ignotus, prendendo una risoluzione che, evitando di fare di Cristo un Demiurgo, 482 salvò la Chiesa cattolica dalla sua deriva cesaropapista bizantina, anche se non dalla sua implosione teologica alla fine della cristianità medioevale, la quale portò alla rimozione moderna del presupposto stesso del conflitto tra Chiesa e Stato, ossia la fede nell‟origine divina del Potere, sollevando il Potere assolutizzato da ogni destinazione trascendente e da ogni responsabilità morale. Nondimeno, proprio la distinzione irriducibile tra Chiesa e Stato, confermata dall‟opzione trinitaria nicena, stabilendo nel mondo dei prodotti umani un ambito di realtà perfettibile, la civiltà, ha consentito la riabilitazione dello scientismo naturalistico, creando i presupposti teoretici della concezione dell‟autonomia dello Stato come il massimo ente di natura, oggettivamente indipendente dalla volontà soggettiva dell‟uomo spirituale e in sé totalitario. D‟altro canto, l‟opera di razionalizzazione del sapere propugnato dalla teologia, incrementata dall‟acquisizione metodologica della metafisica aristotelica, ha rafforzato la credenza tipicamente razionalistica che “l‟oggettivazione e la sistematizzazione dei mezzi tecnici di tutte le attività” umane sia “una generale legge formale della direzione di ogni civiltà, [che] non riguarda l‟economia in modo più originario che la scienza o la chiesa”.483 Nondimeno, la traslazione dei concetti teologici in sede politica è potuta avvenire proprio a seguito del dominio della retorica come strumento

482

Come ha ricordato H. Jonas, lo gnosticismo era “incapace di assimilare autenticamente il significato dell‟incarnazione e della croce”: La sindrome gnostica, cit., pag. 385. 483 M. Scheler, Sociologia del sapere, tr. it. cit., pag. 204. Si potrebbe applicare a riguardo della civiltà l‟obiezione che Scheler riferiva alla “strana idea positivista di giudicare l‟evoluzione del sapere dell‟intera umanità secondo il criterio fornito da un piccolo tratto della curva evolutiva dell‟occidente moderno”: Ivi, pag. 219. La conseguenza di questo pregiudizio è, paradossalmente, la riabilitazione del mito gnostico della salvezza come conoscenza liberatrice e politicamente rivoluzionaria. Vi è da dire, comunque, che la deriva gnostica è sempre latente nella spiritualità cristiana non solo in relazione alla dicotomia tra pistikos e gnostikos della sua rappresentazione dell‟ordine cosmico, ma anche come “stile di speculazione” mitico-teologico concorrente a quello filosofico. Ved. H. Jonas, La sindrome gnostica, cit., pag. 388.

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seduttivo del Potere, tanto stigmatizzato da Socrate nel Gorgia, per cui, in età moderna, la pratica del Potere politico dello Stato secolarizzato costituisce una degenerazione della verità morale custodita dalla Chiesa. Ciò vuol dire di conseguenza che un Governo morale della società è tanto nel vero quanto riesca ad asservire il Potere politico alle ragioni del Bene. Da qui nasce l‟ipotesi di una Monarchia universale cristiana patrocinata, in età ellenistica, da Eusebio di Cesarea per istituire una civiltà cristiana, e negli albori dell‟età moderna da Dante Alighieri per evitare la dissoluzione di quella civiltà. 9. Secondo Dodds “Platone avvertiva meglio di chiunque altro i pericoli insiti nella rovina del conglomerato ereditario”, tanto che “nel suo testamento spirituale formulò interessanti suggerimenti per stabilizzare la situazione mediante una controriforma. 484 Il Gorgia è probabilmente il luogo maggiormente chiarificatore e illuminante della concezione della politica di Platone in relazione alla sua ontologia. Infatti, forse in nessun luogo platonico emerge con maggiore chiarezza la differenza tra la condizione di fatto, ovvero “ciò che sembra”, legata a ragioni indipendenti dalla volontà umana, e la condizione ideale, ovvero il fine razionale o “bene” ricostruito attraverso l‟analisi dialogica. La realtà fattuale è diversa dalla realtà ideale, per ragioni che il Socrate del dialogo non chiarisce ma che pure sono evidenti, ossia perché la realtà fattuale non è il prodotto di un‟azione individuale, come invece l‟attività di pensiero che ne ricostruisce l‟essenza razionale, ma è un evento legato a un processo collettivo e impersonale entro il quale agiscono le singole volontà umane, nessuna delle quali lo determina causalmente, cioè lo “crea”. La creazione è un atto individuale, che sul piano dei fenomeni sociali, non esiste se non come un costrutto di un‟analisi razionale, astratta dal divenire fenomenico. Se si assume il piano ideale come quello “reale”, il piano fenomenico diventa irreale, ossia apparente e irrazionale. Se, viceversa, “reale” è il piano fenomenico, quello ideale diventa meta-reale. Per addivenire al 484

E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale (1951), tr. it., Milano, 2015, pag. 259. Per “conglomerato ereditario” Dodds intende con G. Murray il susseguirsi di credenze anche logicamente incompatibili ma sussistenti contemporaneamente nella stessa area socio-culturale tra persone diverse o anche nella stessa persona: Ivi, pag. 229.

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superamento della differenza, necessita l‟azione di un “demiurgo”, il quale opera o nel senso di un coordinamento dei due piani, ideale e reale, cioè in funzione di mediazione, che lascia invariata la rispettiva realtà dei due piani, ovvero nel senso della identità dei due piani stessi, attraverso la “riduzione della molteplicità sensibile all‟unità della Idea”.485 Nel Gorgia Socrate afferma che “credenza e scienza non sono la stessa cosa”, anche se “tanto coloro che sanno, quanto coloro che credono, sono persuasi”, per cui esistono “due specie di persuasione, l‟una dovuta alla credenza non accompagnata da sapere, l‟altra frutto di scienza”.486 Stabilito che ci sia un corpo e un‟anima, “due ne sono le arti: chiamo politica l‟arte che si riferisce all‟anima, mentre quella che si riferisce al corpo, […] la distinguo in due parti, la ginnastica e la medicina. Nella politica alla ginnastica corrisponde la legislazione, mentre alla medicina fa da antistrofe l‟amministrazione della giustizia”. Ciascuna coppia ha elementi in comune che si riferiscono a uno stesso corrispondente oggetto, ed elementi eterogenei. L‟arte retorica è in realtà un “espediente” () che consiste essenzialmente in una “adulazione” (), con la quale la politica rappresenta la sua “immagine” () spacciandola agli ignoranti come di estremo valore. 487 La retorica, dunque, “sul piano dell‟anima, corrisponde a quello che, sul piano del corpo, corrisponde alla cucina”, essendo appunto la culinaria la espressione simulata del sapere medico, “il saper vestire alla ginnastica, la sofistica alla legislazione e la retorica alla amministrazione della giustizia”. 488 Solo perché è l‟anima () a governare il corpo è possibile distinguere le varie parti tra loro, ma se “fosse il corpo a governarsi da sé, e non fosse l‟anima che esamina e giudica ciò che compete alla cucina e ciò che compete alla medicina, ma cucina e medicina fossero giudicate dal corpo sulla base delle delizie che ne riceve […] tutte le cose, senza distinzione, sarebbero insieme confuse, poiché non vi sarebbe più possibilità di giudicare ciò che

485

Ved. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, cit., pag. 513. Gorgia, IX, 454 d-e. 487 Gorgia, XIX, 464 b-d. 488 Gorgia, XX, 465 c-e. 486

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compete alla medicina, all‟igiene, alla culinaria”. 489 Gli stessi tiranni, non conoscendo ciò che fanno, non hanno vero potere né “possederanno alcun bene, se è vero che il potere è un bene e fare senza intelletto quello che sembra, è un male”. 490 Volere è diverso dal fare ciò che sembra, infatti “chi fa qualcosa con uno scopo, non vuole quello che fa, ma ciò in vista di cui agisce”, e pertanto “chiunque agisce, fa quello che fa in vista del bene”.491 Nel Gorgia emerge chiaramente la differenza tra il Bene morale, che non si manifesta nell‟azione politica, e la condotta dell‟uomo politico, caratterizzata dal “male” di “fare ciò che sembra”. L‟intento socratico è di far governare il “corpo” sociale, che è un ente collettivo, dall‟ “anima razionale”, ovvero, per dirla con l‟Anassagora del Fedone, dalla “Intelligenza che ordina e che causa tutte le cose”, 492 che Platone intende non in senso naturalistico ma nel senso metafisico di un Nus trascendente, che governa al pari della psyche individuale. La “seconda navigazione”493 di cui parla Platone consiste appunto nella ricerca della causa razionale (), che sta dietro i fenomeni apparenti, e che consiste nella realizzazione del Bene. Ora, è proprio tale “realizzazione” l‟aspetto più problematico del discorso platonico, in quanto tale Bene non coincide con la realtà effettuale, ossia con il nesso strumentale tra causa e mezzi, ma con la idealità morale, ossia con la ragione ( ) delle azioni umane, che è la “causa vera” e non apparente delle cose, ossia con la volontà. Nel Timeo queste cause strumentali, “di cui si serve Dio per realizzare l‟idea dell‟ottimo” sono indicate come “concause” o “cause secondarie” ( ), che i più scambiano erroneamente per “vere cause di tutte le cose”. 494 Nel caso della mediazione tra i due piani ontologici, il demiurgo non deve fare altro che “riprodurre le apparenze”, nel modo adeguato all‟essere umano, cioè attraverso il linguaggio, ossia nel modo retorico proprio dei sofisti e dei politicanti di cui si parla nel Gorgia. Nel caso,

489

Gorgia, XX, 465 c-d. Gorgia, XXII, 466e-467 a. 491 Gorgia, XXIII, 467 d e 468 b. 492 Fedone, 97 b 8-c 2. 493 Fedone, 99 d. 494 Timeo, 46 c-d. 490

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invece, della reductio ad unum ideale, il demiurgo deve operare in maniera coerente alla ricerca dialettica della verità, ossia riportando ogni cosa al suo fine razionale, razionalizzando appunto la realtà. E portare la realtà dal piano delle apparenze fenomeniche a quello della verità ideale equivale a portarla “dal non-essere all‟essere” ( ),495 cioè operare nel senso della creazione ().496 La questione che a questo punto sorge è se il “demiurgo” politico della società umana sia paragonabile al “governatore dell‟universo” ( ) di cui tratta il Politico.497 Questa possibilità è legata a una condizione ontologica essenziale e teoreticamente imprescindibile, che l‟essere umano sia equivalente all‟ente naturale. Solo infatti in questo caso è possibile al demiurgo di razionalizzare la realtà sociale riportandola dalla molteplicità naturale alla unità ideale. Se tale  fosse praticabile, portare all‟essere il non-essere significherebbe negare l‟esistente nello stesso momento in cui si affermerebbe con l‟atto di creazione il suo essere, e dunque equivarrebbe a opporsi alla realtà spontanea delle cose, quella stessa realtà nata dai processi naturali. E dunque, negare la realtà naturale come “non-reale”, per affermare la realtà ideale quale “vera realtà” significa contraddittoriamente affermare negando, ossia costituire come realtà positiva una realtà negativa, che non-esiste ovvero che è idealmente, determinandola come assoluta, ossia come realtà esclusiva di ogni altra, cioè del suo divenire altro da sé. L‟atto di razionalizzazione della realtà equivale pertanto all‟atto della negazione del divenire naturale delle cose, cioè del suo processo temporale, per mezzo della affermazione della sua immagine ideale, cioè della sua ipostasi affermata come reale. La non-realtà ideale trasformata in realtà razionale diventa realtà apparente, ossia il suo opposto originariamente negato come non-essere. Questa insuperabile aporia dimostra inequivocabilmente che a) il

495

Simposio, 205 b 8-11; Sofista, 219 b 4-6. Ved. G. Reale, Op. cit., pagg. 528 ss. 497 Platone, Politico, 272 e 3. 496

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percorso della reductio ad unum sia solo razionalmente praticabile all‟interno della coscienza mito-logica, ma pragmaticamente irrealizzabile perché, a seguito della conversione della realtà ideale nel relativo opposto reale, il suo esito è contraddittorio e assurdo, e dunque il supposto Bene diventa affermativo in realtà del “male”; e inoltre che b) i due piani di realtà, quello soggettivo della coscienza razionale e quello oggettivo della realtà fenomenica non sono omologabili, sicché il governo dell‟universo non coincide con il Governo politico, così come l‟opera in-finita di Dio non coincide con l‟agire finito dell‟uomo. ed è questa la ragione essenziale per la quale non si possa stabilire alcuna corrispondenza reale tra le sintetiche ragioni divine e le contraddittorie ragioni umane. Nell‟ambito della finitezza in cui opera l‟agire dell‟uomo, non è dunque possibile addivenire a una sintesi tra la verità della coscienza e le ragioni della vita fisica. L‟identità della ontologia greca tra Essere e pensiero derivava dalla considerazione della esistenza umana come bios naturale, all‟interno della cui unità veniva distinta l‟attività pratica della vita activa da quella teoretica della vita contemplativa, quali specie dello stesso genere. Il problema di Platone fu quello di risolvere l‟una nell‟altra dimensione vitale, attraverso lo strumento filosofico della ricerca dialettica. Ma la fattibilità di tale operazione razionalizzatrice della realtà umana si fondava sulla credenza che la ragione della coscienza ideale dell‟uomo fosse la stessa ragione cosmica del mondo naturale. Sfatando come “mito” questa credenza ontologica, il pensiero cristiano fonda una nuova antropologia e una nuova socialità, non più politica e di potenza ma ecclesiale e agapica. Viceversa, riabilitando il metodo filosofico a giustificazione razionale della fede, la teologia riabilita surrettiziamente anche la tecnica politica, facendo di questa lo strumento dell‟agire razionale, pensato appunto come il fine dello stesso filosofare. Filosofare per idee era il presupposto teoretico del praticare la scienza politica, ossia filosofare per azioni. Il coordinamento di queste connesse attività da parte del demiurgo costituisce l‟ordine ( ), mentre la separazione dal suo benevolo governo costituisce lo stato opposto di disordine () ingenera il pericolo () della dissoluzione

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() del mondo.498 Platone indica come disordine la disorganicità (), ovvero la mancanza di accordo tra le parti, e dunque il conflitto (), conseguente alla loro discordanza () portata al massimo grado ( ).Il disordine, ossia l‟assenza di Governo demiurgico, è dunque generato, e a sua volta genera, discordanza, che è la condizione opposta alla armonia, intesa da Platone non come conformità-difformità di fronte alla legge, cioè legalità ()-illegalità (), ma come disuguaglianza, ossia come diversità di fronte all‟autorità del Governo paterno. In altri termini, soltanto il riconoscimento dell‟attività di governo ( ) produce, con l‟armonia dell‟ordine ( ), il freno alla dissoluzione. Governare significa dunque trattenere dalla dissoluzione, intesa come infinita produzione delle differenze conseguente all‟assenza di governo (). L‟elemento mitico della rappresentazione platonica del “disordine” () della molteplicità consiste nella credenza della sua identità alla “differenza” () rispetto al modello logico, all‟Idea, la quale diventa nella rappresentazione mitica l‟ipostasi della realtà ontologica originaria del Bene, dalla cui perfezione discende per degenerazione progressiva a seguito del tempo il disordine del caos, e dunque il male. Il mito platonico è l‟affermazione che l‟unità ideale sia il Bene, mentre la molteplicità sempre più differente dal modello originario sia il male. Il correttivo alla dissoluzione caotica nel mare infinito della differenza non è per Platone il governo della differenza, ma la uniformizzazione del diverso all‟unità ideale, ossia, sul piano effettuale, la legalizzazione dell‟uguale e la delegittimazione del dissimile, ossia la politica come distinzione dialettica dell‟amico dal nemico. Questa rappresentazione idealistica del Governo, che contrasta palesemente nel Gorgia con l‟opinione comune legata alla evidenza della molteplicità della realtà fenomenica, intende affermare sul piano effettuale l‟unità teleologica, assunta come il criterio direttivo dell‟azione razionale, la quale consiste appunto nell‟affermazione pratica del senso ideale riposto e non evidente delle cose enucleato dal

498

Politico, XVI, 273 c-d.

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metodo dialettico. Ed è proprio questo affermare l’essere di ciò che non è in essere, ma che sussiste come la trama universale di un ordine recondito, costituisce in essenza sia l‟attività del pensiero filosofico che l‟agire politico, il quale, similmente alla verità del logos rispetto all‟opinione comune, si costituisce oggettivamente come atteggiamento rivoluzionaria dello status quo, ossia come violazione dell‟ordine costituito, criticato dal Socrate del Gorgia in quanto fondato sulla apparenza delle cose. Il potere esercitato sulle cose apparenti è un falso potere, perché difetta della cognizione del Bene. Un Potere privo di Bene può essere piacevole ma non utile. Solo i piaceri buoni sono utili.499 Esistono dunque due tipi di Potere, quello esercitato per il piacere del comando, e quello razionale esercitato perché sia utile alla comunità. Ma “bene e piacere non sono identici”, 500 e “tanto per l‟uno quanto per l‟altro, vi è una pratica e un metodo per acquisirli, l‟uno volto a cogliere il piacere, l‟altro il bene”.501 Per Platone, il Bene è l‟ordine stabilito dal governo dell‟anima sul corpo, che egli chiama “legalità e legge”, da cui proviene la “giustizia”.502 Il bene dell‟anima è la condizione di ragionevolezza e di infrenamento delle passioni, 503 e dunque di asservimento del piacere in funzione del bene. 504 E il bene è l‟armonia coerente con l‟ordine universale ( ), così come il male è la dissoluzione del disordine ( ).505 Il male è prodotto dalla ignoranza del Bene, e non dal volerlo fare, 506 per cui il governo deve essere affidato tra “quelle persone la cui intelligenza è volta agli affari dello Stato [a coloro] che sanno come si debba amministrare la cosa pubblica, e che sono non intelligenti solamente, ma anche uomini di coraggio, capaci di portare a termine quello che pensano e che non

499

Gorgia, LIV, 499 d. Gorgia, LII, 497 d. 501 Gorgia, LV, 500 d. 502 Gorgia, LIX, 504 d. 503 Gorgia, LX, 505 b. 504 Gorgia, LXII, 506 a. 505 Gorgia, LXIII, 508 a. 506 Gorgia, XLII, 488 a. 500

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indietreggiano nel loro compito per debolezza d‟animo”. 507 Poiché il male è l‟apparenza priva di verità, “si deve porre ogni cura non a parere, ma ad essere buoni, tanto nella vita privata che in quella pubblica”. 508 La identificazione della vita pubblica con la vita privata crea una analogia strutturale tra il governo delle passioni dell‟anima con il Governo della società, dalla quale analogia nasce l‟ipotesi della sofocrazia politica, la quale assume appunto che il corpo sociale sia del tutto assimilabile al corpo umano, essendo entrambi organismi naturali che necessitano di una guida razionale. Tale bisogno nasce dall‟oblio dell‟ordine cosmico, che dunque non è un ordine necessario fuori del suo ordinamento razionale, ma deve essere conseguito dall‟uomo attraverso la conoscenza razionale del Bene. Conoscere il Bene e conformarsi all‟ordine cosmico è tutt‟uno. Ciò vuol dire che l‟ordine empirico ottenuto dall‟uomo storico sia errato e bisognoso di perfezionamento in senso cosmico. Da qui la funzione politica del sapere filosofico. Abbiamo qui in compendi tutti gli ingredienti fondamentali del razionalismo rivoluzionario, dello gnosticismo e della stessa lettura teologica dell‟escatologia cristiana. Anche se la prospettiva eversiva dell‟idealismo è stata rigettata da Gesù in quanto propria di una visione razionalistica del mondo, basata su di una ontoantropologia naturalistica, diversa da quella spiritualistica cristiana. L‟idea cristiana del Governo, diversamente da quella naturalistica dell‟idealismo greco, afferma l‟ordine della diversità, anziché della omogeneità; ciò che i pitagorici chiamavano “armonia”, intesa come “unità dei contrari in quanto contrari”. 509 La differenza tra le due prospettive ordinamentali è radicale, in quanto l‟ordine razionalistico, presumendo l‟uguaglianza logica delle differenze ontologiche, si afferma attraverso il principio di necessità, consistente nella semplificazione o riduzione logica del molteplice alla identità per esclusione, attraverso la quale si perviene all‟unità dell‟eguale, posto

507

Gorgia, XLV, 490 a-b. Gorgia, LXXXIII, 527 b. 509 Cit. da S. Weil, la quale prosegue affermando che “non c‟è armonia là dove si fa violenza ai contrari per accostarli; neppure là dove li si mescola; bisogna trovare il punto della loro unità”: Id., Loc. cit., pag. 34. S. Weil, L’Iliade ou le poéme de la force (1940-41), in Ouvres, Paris, 1999, pag. 550. 508

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teoreticamente come la logica dell‟identità ideale, e politicamente come la logica del più forte. A questa identità si perviene attraverso l‟emancipazione del logos dalla inidentità del Mito, che nella sua rappresentazione armonica racchiude l‟unità dei contrari perduta dall‟analisi logica dell‟Essere. Diversamente da questo principio d‟ordine, lo spiritualismo cristiano difende le differenze negate dal razionalismo, e le dispone in un ordine libero dalla necessità della distinzione e quindi dalla conformità al modello ideale. Ed è questa libertà a fare dell‟ordinamento cristiano del mondo umano una unità spirituale e morale anziché ideale e politica. L‟unità morale mantiene in essere la molteplicità dell‟essere naturale, assumendola come espressione dell‟ordine governamentale di Dio. Governare significa mantenere l‟unità esistenziale nella differenza del molteplice, comprensa la differenza tra Dio e l‟uomo, senza trasformarla in identità ideale e forza politica. Questa la differenza radicale tra l‟auctoritas morale di Dio e la potestas legale di Cesare, ovvero tra la comunità ecclesiale, guidata dall‟autorità carismatica, e la società politica, retta dal potere della forza materiale, che domina la realtà, poiché “a essa si subordinano tutti i mortali”.510 Il principio di realtà, sul quale si fonda la cognizione razionale del mondo, è dominato dalla forza naturale della materia, cioè dalla necessità che determina la libertà. Ogni determinazione della ragione della forza è una negazione della libertà. Il processo inverso è una purificazione spirituale dalla necessità della forza. In termini esistenziali, equivale a una liberazione della coscienza morale dalla dipendenza dal Potere politico. si perviene a questo affrancamento dalla necessità della forza non attraverso una lotta esclusiva, ma attraverso una rinuncia a compierla, una desistenza morale a rivendicare giustizia. Ciò che non fa né subisce giustizia e non è toccato dalla forza è detto nel Simposio platonico Eros, “fra tutti gli dèi il più bello e il più buono” e “in sommo grado temperante”, nonché “poeta così sapiente da rendere poeti anche gli altri” da esso toccati, 511 perché è “l‟autore dell‟armonia più completa”, unendo “i contrari il più

510

S. Weil, L’Iliade ou le poéme de la force (1940-41), in Ouvres, Paris, 1999, pag. 550. 511 Simposio, 195 a e 196 c-e.

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possibile contrari”.512 L‟Amore sta alla libertà come la forza alla necessità. Il luogo della necessità è lo spazio della realtà in cui si muove la politica, lo Stato, la cui forza relativa è il Potere, che soprassiede la vita sociale nell‟antro umbratile della caverna platonica Mentre l‟autorità carismatica è “pura” in quanto priva di forza sociale, “cioè di tutto ciò che è collettivo”, e di conseguenza la fedeltà personale che essa ispira, in quanto rivolta all‟uomo “considerato semplicemente in quanto uomo, del tutto sprovvisto di forza”, è anch‟essa “perfettamente pura”, il Potere che proviene dalla forza sociale è viceversa è impuro, per ui di conseguenza “quando si eseguono gli ordini di un uomo in quanto depositario di un potere collettivo, lo si faccia con o senza amore, ci si degrada”. 513 Il degrado, dal punto di vista spirituale, è l‟affermazione preminente della necessità naturalistica, ossia la prevaricazione della forza, alla quale ci si sottomette non perché lo si voglia ma per opportuno spirito di sopravvivenza. Lo spirito di sopravvivenza (“conatus, suum esse conservare”) è il movente che ispira l‟azione politica che ambisce il Potere. L‟opportunità, ossia il calcolo delle conseguenze per la vita, è scelta a favore delle ragioni del sé, è il contrario dell‟amore, che è considerazione dell‟altro, scelta morale delle ragioni favorevoli all‟altro. Obbedire per forza, è preferire la sopravvivenza al male maggiore. Essere fedeli all‟altro, significa invece scegliere fiduciariamente il Governo dell‟altro come preminente sulla propria volontà. Nel primo caso, sino due opposte volontà che si scontrano per la sottomissione della più debole. Nell‟altro caso, non c‟è obbedienza conseguente allo scontro, ma preventiva adesione volontaria, ossia fiducia per amore. La fiducia è sempre un rapporto personale, non suffragato da alcuna necessità, e questo suo carattere di gratuità ne fa un valore eccezionale rispetto al motivo universale che caraterizza la condizione mortale, ossia la conservazione della vita. In tal senso, l‟atteggiamento agapico ha come traccia di percorso finale ( ) la morte, come ambito topico dell‟anti-forza universale.

512

S. Weil, L’ Iliade, cit. da R. Esposito, L’origine della politica, Roma, 1996, pag. 109. 513 S. Weil, L’ispirazione occitana, cit., pag. 35.

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Se il carattere universale è proprio del “diritto” (droit), che esprime la sua legittimazione razionale nella vigenza erga omnes, il carattere della relazione ad personam è proprio della “obbligazione” (obligation), che è la condizione di efficacia di ogni diritto. Infatti, se “un‟obbligazione non viene riconosciuta da alcuno, non perciò perde la pienezza del suo essere, laddove un diritto non ricosciuto è praticamente quasi niente”. Infatti, mentre il diritto è “legato a certe condizioni di fatto”, il dovere nato dall‟obbligazione è l‟unico a poter essere “incondizionato”, cioè non convenzionale, e inter-personale, afferente a relazioni tra esseri umani, aventi in quanto tali un destino eterno, e non tra enti collettivi, che non l‟hanno mai.514 L‟importanza dell‟obbligazione risiede nella sua funzione di legittimazione del diritto positivo, e consiste nel “rispetto” verso ogni essere umano e i suoi bisogni, morali e materiali. 515 Diversamente dai desideri, dalle fantasticherie o dai vizi, i bisogni si distinguono per il loro essere “limitati”, al pari del nutrimento che li soddisfa. 516 Tra questi vi è quello primario dell‟ordine, ovvero di “un tessuto di relazioni sociali che non costringa nessuno di violare doveri essenziali in nome di altri doveri”, facendoli entrare in contraddizione tale da far soffrire come mai l‟anima di una “violenza spirituale” a causa di circostanze esterne.517 Chiunque si adoperi pertanto a esasperare tali contraddizioni è un “fautore del disordine”.518 Un altro bisogno umano è la libertà, la quale “consiste nella possibilità reale di una scelta”, attraverso l‟adozione di regole molto semplici e ragionevoli, “emanate da una autorità non considerata estranea o nemica, ma bensì benvoluta in quanto appartenente a coloro stessi cui si rivolge”.519 D‟altro canto, la libertà dev‟essere sempre limitata dalla buona volontà della responsabilità, senza la quale non vi è maturità di comportamento ma atteggiamento infantile, che conduce alla noia e

514

S. Weil, L’enracinement. Prélude à une déclarationdes devoirs envers l’etre humain (1943), in Oeuvres, cit., pagg. 1027-1028. Da ora L’enr. 515 Ivi, pag. 1029. 516 Ivi, pag. 1033. 517 Ivi, pag. 1031. 518 Ivi, pag. 1032. 519 Ivi, pag. 1033.

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all‟insoddisfazione, e finalmente all‟opinione che essa non sia un bene.520 Ma il bisogno “più sacro” è quello di verità, la cui soddisfazione può compiersi in un popolo solo se esistono uomini che amano la verità.521 “Cos‟è la verità?”, chiede Pilato a Gesù, senza darsi una risposta, che la cultura romana non aveva finché idolatrava lo Stato, entro il cui ordine legale essa coincideva con la stessa volontà del Potere. ma non è quella pubblica la verità alla quale allude Gesù. Infatti, la verità di cui parla il Cristo abita in interiore homine, e consiste, come opportunamaente ribadisce Agostino, nell‟accordare alla vita eterna e spirituale, fondata sulla morale, la priortà sulla vita temporale e biologica, fondata sulla paura. La paura riguarda la salvaguardia della vita, sulla quale si basa la legittimità razionale del Potere dello Stato. Se si elegge a maggior valore il male che più incute paura, anziché la verità e i doni eterni, è, secondo Agostino, per una “perversione dell‟amore” (perversitas amoris). Infatti Dio, come già insegnava Platone nel Timeo, ci ha concesso “due vite”: quella eterna e quella temporale. Da quando uno comincia ad amare la vita temporale più di quella eterna, ritiene che si possa fare di tutto per la vita che ama e nessun altro peccato considera più grave di quello che offende questa vita, o perché in maniera ingiusta e illecita gli tolgono qualcuno dei suoi interessi o perché 522 addirittura gliela strappano dandogli la morte .

La verità dunque non è lo stesso del diritto alla vita, l‟habeas corpus che, come si è detto, costituisce il movente utilitaristico dell‟azione politica verso l‟altro, ma è il dovere del riconoscimento della consustanziale natura trascendente dell‟altro, in virtù della quale è da amare come sé stesso. Ed è il “rispetto” di questa istanza veritativa che la Weil pone a fondamento della legittimità della coesistenza umana alternativa a quella politica incentrata sulla forza. Ma il bisogno “più importante e più sconosciuto dell‟animo umano” è

520

Ivi, pag. 1034. Ivi, pag. 1051. 522 Agostino, De mendacio (395), 18.38, tr. it. a c. di M. Bettetini, Milano, 2010, pag. 97. 521

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quello del “radicamento” (enracinement), che è una condizione più comprensiva della socialità. In luogo della socialità, la Weil parla di “radicamento in un contesto naturale” (enracinement dans l’enturage naturel) dell‟essere umano, il quale “ha bisogno di avere molteplici radici”, alle quali attingere per la sua vita morale, intellettuale e spirituale, attraverso “l‟intermediazione dei milieux di cui fa naturalmente parte”.523 Qui il termine “naturale” va accepito in un senso esistenziale, inclusivo della situazione spirituale dell‟uomo. Infatti la Weil parla di “sradicamento morale” a proposito di quei fattori che, come le conquiste militari, le deportazioni o il denaro e l‟istruzione tecnica moderna, determinano una “frattura” (coupure) non solo tra valori comuni e aspirazioni individuali, ma anzitutto tra cultura massificata e verità, l‟indifferenza verso la quale genera un “sistema sociale malato”, il cui morbo “di gran lunga più pericoloso per le società umane” è appunto lo sradicamento, in quanto esso si espande per generazione spontanea.524 Se noi intendiamo lo sradicamento come la dissoluzione dell‟unità morale dell‟ordine sociale naturale in quanto spirituale, comprendiamo ciò che Platone intendesse dire nel Gorgia a proposito dell‟ come mancanza di governo dell‟anima sul corpo sociale. Modernamente abbiamo tre fenomeni di sradicamento sociale: quello operaio, quello contadino e infine quello nazionale. Quanto ali effetti possibili dello sradicamento sociale, essi sono due: o “l‟inerzia dell‟anima prossima alla morte”, come per gli schiavi al tempo dell‟Impero romano, ovvero un‟opera di violenta propagazione dello sradicamento, per cui “chi è sradicato sradica” a sua volta. 525 In tal senso, per scongiurare l‟esito dissolutorio di tali fenomeni occorre rifarsi ai “tesori ereditati dal passato” per farne la forza creazionista dell‟avvenire, essendo “di tutti i bisogni dell‟animo umano nessuno più vitale del passato”.526 E pertanto il radicamento non è altro che la condizione esistenziale di persistenza nei valori della tradizione. Infatti,

523

S. Weil, L’enr., pag. 1052. Ivi, pag. 1054. 525 Ivi, pagg. 1054-5. 526 Ivi, pag. 1057. 524

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“il passato, una volta distrutto, non ritorna mai più. Tanto che la distruzione del passato è probabilmente il crimine peggiore” 527 che l‟uomo possa commettere a danno del suo simile. Ma niente può distruggere il passato più della razionalizzazione della vita umana, ossia dell‟astrazione del sapere dai suoi fondamenti veritativi; che è esattamente quanto la filosofia ha fatto nei confronti del Mito. La filosofia, infatti, ha ricercato e trasmesso la verità attraverso un linguaggio tecnico di per sé esclusivo, pur assegnandogli una valenza universale che, fuori della cerchia iniziatica dei suoi cultori, non poteva che essere appresa per credenza, e non per convincimento. E quando pertanto la Weil sostiene la necessità di “transposer le vérités” in modo “convenable pour transmettre la culture au peuple”, esprime un‟esigenza di divulgazione dei fondamenti della verità che coincide con una socializzazione dei valori culturali quale veniva praticata intuitivamente dal teatro, che fu proprio perciò fortemente criticata dai filosofi come opinione volgare, mera doxa. La conseguenza di tale “sradicamento della cultura” dalla verità è stata che ogni suo aspetto sia “considerato come un fine in sé”, ingenerando “l‟idolatria”,528 ossia quella apparenza priva di verità di cui parlava il Socrate del Gorgia. Ma la contraddizione tra l‟esigenza di una tecnica dialettica riservata a pochi filosofi, e la pretesa universalistica dei suoi risultati, era dovuta proprio alla idolatria del metodo scientifico che assegnava a sé quel valore universale già detenuto dal Mito, le cui verità potevano essere acquisite dai più per intuizione, non sospettando che i contenuti veritativi che esso custodiva fossero gli stessi che la filosofia ricercava attraverso la dialettica. E proprio in tale sdoppiamento dell‟unica verità comune ai due approcci teoretici consisteva quel “disordine del molteplice” denunciato da Platone come il male. L‟unità, per Platone, nasce dal sapere, e cioè dal concetto universale, e non dall‟intuizione e dunque dal sentimento della vita, che si svolge nella caverna, e il concetto è esterno alla coscienza, come il daimon socratico, che abitava in lui e lo possedeva. Il Bene è esterno, dunque. E‟ nell‟alterità: dal mondo, dalla caverna, nei cieli dell‟iperuraneo ma comunque non disponibile dall‟uomo perché increato da lui. Il Bene

527 528

Ivi, pag. 1058. Ivi, pag. 1068.

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increato segna il limite del potere umano, oltre il quale c‟è il regno della hybris, dell‟immoderazione. La moderazione, dunque, è equilibrio, armonia, ordine, unità. Al di qua di quella soglia c‟è il chaos, oltre ci sono gli dèi. Gli uomini abitano una terra mediana, che è saggezza non superare. E saggezza è attenersi ai confini dell‟umano. Tutta la sapienza greca è la perlustrazione di quei confini naturali all‟uomo con gli strumenti della parola. Allontananrsi dalla parola significa restare al di qua dell‟umano; andare oltre la parola comune, comportava entrare nel regno degli dèi, il cui gergo è quello della sapienza. In questo senso, tutto il processo della filosofia greca si svolge entro il dramma della parola, sulla sua portata. Infatti, la parola sapiente escludeva i più, facendo dire a S. Weil che “il problema della cultura spirituale si pone per i contadini come per gli operai, ai quali necessita una traduzione propria al loro peculiare linguaggio”. 529 Il limite dell‟universalismo razionalistico è interno alla stessa dicotomia tra homo faber e homo teoreticus. La parola che univa gli uomini agli dèi, divideva gli uomini tra loro. Portare all‟umanità più semplice e numerosa, quella dei produttori, il linguaggio della sapienza, equivaleva a eleggere la sapienza stessa al governo del mondo. Questo il senso dell‟impegno etico di Socrate, l‟esploratore, e teoretico di Platone, lo stratega. Ma anche il limite di orizzonte culturale di una concezione del mondo che pensava l‟uomo per categorie sociologiche, come corpo collettivo, identificando l‟agognata unità ideale nella empirica realtà dello Stato. Da qui la delega platonica al compito educativo assegnato al Governo illuminato. Ma il sapere, nondimeno, non appartiene a nessuno: né ai filosofi e alle loro scuole private, né allo Stato e all‟educazione pubblica. E neppure alle famiglie. La filosofia, rielabrando il Mito, si pone come pensiero laico, il qule, non corrispondendo alla scala dei valori comuni, se imposto politicamente “condurrebbe di filato al totalitarismo”, contro la cui moderna idolatria “l‟unico ostacolo è rappresentato da una vita spirituale autentica”. Se infatti “ si abitua i giovani a non pensare a Dio, essi diverranno fascisti o comunisti per il bisogno di dedicarsi a un

529

S. Weil, L’enr., pag. 1079.

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qualche valore”.530 Se è vero che “la religione ha avuto in ogni tempo e in ogni paese, salvo che recentemente in qualche angolo d‟Europa, un ruolo dominante nello sviluppo della cultura, del pensiero e della civiltà umana”, escluderla dall‟insegnamento “è un‟assurdità”. 531 Eppure è stata questa assurdità a conquistare gli statuti culturali, se non proprio pedagogici, moderni, contribuendo dunque allo sradicamento di massa. La distanza tra il pensiero comune, mitico-religioso e simbolico, e il pensiero tecnico, analitico e formale, costituisce l‟intero problema sociale, in quanto si ripropone all‟interno della stessa esperienza educativa dell‟homo faber moderno, il cui orizzonte esistenziale coincide con quello del lavoro, per cui “la missione autentica, ossia la vocazione della nostra epoca è di fondare una civiltà sulla spiritualità del lavoro”, la cui prospettiva segna la distanza da quella dei Greci. Ed è per averla mancata, afferma la Weil, che “siamo sprofondati nell‟abisso dei sistemi totalitari”. 532 In altri termini, la pretesa universale del sapere razionalistico, incontrando il limite alla sua espansione nelle masse dedite alla vita activa e più abbisognevoli di governo spirituale, ha abbandonato ai surrogati ideologici quello spazio lasciato vuoto dal sapere antireligioso, che ha ispirato il Potere, legittimandone a suo modo la pretesa assolutistica insita nello stesso universalismo razionalistico, del quale il Potere ideologico si è fatto coerente propugnatore, mirando non “alla trasformazione delle condizioni esterne dell‟esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell‟ordinameno sociale, bensì alla trasformazione della natura umana che, così com‟è, si oppone al processo totalitario”.533 La condizione fisiologica della natura umana importava proprio la distinzione tra la vita contemplativa e la vita activa quali differenti sfere ontologiche, e come tali indisponibili, e non solo di esistenza, e dunque cangiabili dall‟uomo. Ma asserendo il carattere universale del concetto, si asseriva altresì il carattere totalitario del sapere concettuale, e dunque il superamento della originaria differenza ontologica, considerata una credenza mitica, nella sua traduzione in una

530

S. Weil, L’enr., pag. 1082. Ivi, pag. 1083. 532 S. Weil, L’enr., pag. 1085. 533 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism (1948), tr. it., Milano, 1999, pag. 628. 531

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distinzione logica, operata dal pensiero razionale. Ed è solo a seguito di questo riduzionismo teoretico che è stato possibile pervenire al moderno “rovesciamento dell‟ordine gerarchico tra la vita contemplativa e la vita activa” in favore dell‟azione, oggetto della riflessione della Arendt. 534 La contemplazione della verità fu eliminata dalla scienza del fare nell‟atto in cui il metodo universale della filosofia non poté ammettere un fondamento arcaico di pensiero sul quale fondare l‟analisi razionale. Ancora in Socrate questo fondamento era costituito dal mondo-dellavita umana, quello della socialità politica, ma a partire da Platone, il mondo della realtà comune fu soppiantato dal regno invisibile delle Idee, in cui realtà e pensiero si identificano, facendo dell‟Essere l‟orizzonte dello stesso pensiero razionale, la cui struttura formale determina l‟ordine di corrispondenza dei valori ai fatti. “Una volta che Platone riuscì a rendere reversibili questi elementi e concetti strutturali, i capovolgimenti nel corso della storia intelllettuale non richiesero più altro che una esperienza puramente intellettuale, un‟esperienza entro la cornice dello stesso pensiero concettuale”. 535 In realtà, se l‟operazione fosse stata “puramente intellettuale” non ci sarebbe stato alcun fenomeno totalitario entro la sfera politica parallela a quella ecclesiastica. La differenza moderna rispetto alla prospettiva greca consistette appunto nella trascrizione in termini attivi del potere universale del pensiero razionale, paradossalmente pervenendo al compimento storico e all‟inveramento speculativo del sapere eticopolitico greco. La Weil, muovendosi ancora all‟interno delle categorie sociologiche del razionalismo (greco), non si avvede della portata totaliataria della “spiritualizzazione del lavoro” insita nella loro proiezione universalistica, che doveva appunto superare la originaria unità relativa dei saperi sociali particolari. Totalizzare consisteva dunque, non nello spiritualizzare il singolare lavoro quale opera di un individuale artifex mundi, ma nel metterlo a sistema razionalizzando la vita dei lavoratori, identificata col lavoro stesso reificato, col rendere affettuale l‟universalità del concetto razionale superando la molteplicità sia dei linguaggi simbolici particolari che delle relative esperienze

534

H. Arendt, The Human Condition (1958), tr. it. Viita activa, Milano, 2014, pagg. 214 sgg. 535 H. Arendt, Vita activa, cit., pag. 217.

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esistenziali dei loro portatori. Astraendo il lavoro dall‟opera lo si privava di quel telos spirituale soggettivo, sostituendolo con l‟impersonale telos razionale, che, a differenza del proprio concreto, non si poteva amare, perché astratto e del tutto ideale. Infatti, “le disposizioni d‟animo che inclinano ad amare un certo fine sono diverse dalle disposizioni che permettono d‟impiegare i mezzi necessari per realizzarlo; e molto spesso le une sono del tutte incompatibili con le altre”.536 Da qui il moderno “squilibrio” della vita umana, “dovuto allo sviluppo puramente materiale della tecnica”, il quale, però, non potrà essere corretto da un concorrente “sviluppo spirituale interno allo stesso dominio del lavoro”, come suggerisce marxianamente la Weil,537 ma solo radicando la singola esperienza umana di lavoro nel suo contesto esistenziale, dando perciò ad esso il valore che l‟uomo stesso gli attribuisce, in conformità appunto unicamente della sua esperienza. L‟esperienza spiritualizzata, per la sua soggettività imprevedibile e unica, è creativa, e perciò il contrario della legalità, astratta in quanto formale e dunque prevedibilmente comune. Il vero distacco dalla necessità naturalistica non è la necessità legalistica dell‟homo naturalis, che ne è la variante antropologica, ma la libertà spirituale di una psiche istituzionalmente non controllabile e non inquadrabile in una metafisica meccanicistica, il cui motivo di fondo, come ha sottolineato a suo tempo Scheler sulla scorta di Bergson, è di “configurare la psiche in modo tale che risultasse, per mezzo della disciplina, dell‟educazione, dell‟azione dello Stato e della politica, dominabile” al pari della natura, mettendone in evidenza i soli motivi “aggredibili dall‟elaborazione, dalla trasformazione e dalla tecnica”, funzionalmente all‟immagine del mondo da parte del “moderno spirito borghese avido di lavoro”. 538 Un altro aspetto problematico dello sradicamento moderno è quello geografico dalle moltelici collettività territoriali, tutte comprese nella definizione di nazione, intesa come “l‟unità dei territori che riconoscono l‟autorità di uno stesso Stato”. 539 Il nazionalismo, che condivide col

536

S. Weil, Cahiers, III (1941-1942), tr. it. a c. di G. Gaeta, Milano, 1988, pag. 49. S. Weil, L’enr., pag. 1087. 538 M. Scheler, Versuche einer Philosophie des Lebens (1913), tr. it. in La posizione dell’uomo nel cosmo, Roma, 1997, pag. 93. 539 S. Weil, L’enr., pagg. 1087-1088, 1106. 537

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denaro il principio moderno più unitivo, è un fenomeno recente, che nn esisteva nel Medioevo, contrassegnato da rapporti ad personam. 540 Esiste, comunque, non soltantoun patriottismo della continuità col passato ma anche un “patriottismo della rottura”, quale fu il 1789 per la Francia, che “aveva per oggetto soltanto il presente e l‟avvenire”, dove dominava, non il senso dello Stato, che era stato una creazione non rivoluzionaria ma del secolo XVII, bensì “l‟amore per la nazione sovrana, fondato soprattutto sulla fierezza di farne parte”. 541 Lo Stato non ammette che se stesso. E‟ una “entità fredda che non può essere amata”, e proposta come oggetto di pubblica fedeltà per la prima volta in Europa da Richelieu, che distinguendo la cura per le sorti dello Stato da quella dell‟anima, poneva le basi ideologiche dell‟idolatria statalistica o del potere mondano, già respinto da Cristo come tentazione diabolica.542 Lo statalismo, a partire da Richelieu, uccidendo ogni forma di vita spontanea che potesse contrapporsi allo Stato, ha sradicato la Francia, trasformandola in un deserto morale. 543 Lo Stato infatti “divora la sostanza morale di un paese”, fino a lasciarlo esanime,544 privando ogni realtà locale minore di vita e di pensiero, ricacciandola al di là delle sue barriere frontaliere. In vero esiste anche la Chiesa, ma anch‟essa è subordnata alle esigenze della vita nazionale, se è vero che si prega per la vittoria di un esercito su un altro. 545 La religione, infatti, è divenuta affare privato, non nel senso di risiedere nella profondità della coscienza di ognuno, ma in quello di essere oggetto di scelta opinabile, come quella di un partito politico o di un gusto estetico, e perdendo perciò ogni carattere di incontestata fedeltà, passata invece allo Stato, posto come oggetto da idolatrare, pur trattandosi di una “idolatria priva di amore”. 546 Ma la nazione non è che un fatto, e come tale niente di assoluto e di eterno, come ben sapevano

540

Ivi, pag. 1090. Ivi, pag. 1095. 542 Ivi, pag. 1098. In realtà sappiamo che la distinzione dei fini era già implicita nel contenzioso tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII. 543 Ivi, pag. 1099. 544 Ivi, pag. 1101. 545 Ivi, pag. 1103. 546 Ivi, pagg. 1105-1107. 541

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gli antichi. Soltanto i Romani, che però erano atei, e gli Ebrei, credevano in un loro destino soprannaturale, mentre lo stesso latone descrive l‟uscita dalla caverna cime un evento individuale e non collettivo, essendo la moltitudine per lui un carattere d‟animalità che è di impedimento alla salvezza dell‟anima. Né si è mai detto che Cristo sia morto per salvare le nazioni.547 L‟idolatria patriottica è stato un retaggio romano, che nel corso del Rinascimento ha “dissolto il cristianesimo”, dando origine alla moderna forma di patriottismo, equivalente al rapporto di “identità tra il bene assoluto e una collettività ubicata in uno spazio territoriale”, che emerge risolutamente conesiti devastanti nei periodi critici. Infatti, se in tempo di pace le due morali, privata e pubblica, restano separate, in tempo di guerra la priorità tocca a quella pubblica, e dunque al patriottismo, di cui il fascismo è una variante.548 Il limite insuperabile del nazionalismo è lo stesso della politica. Questa infatti è una tecnica, disponibile a ogni fine, e non solo a quello della grandezza nazionale.549 A meno che tale grandezza non sia un Potere al servizio di un fine che lo trascenda, di una obbligazione morale. E quale fine più alto e sublime di quello di servire il Bene? E lo si serve quanto più se ne avverta l‟assenza, la fragilità, la bellezza e la precarietà. Solo una cosa siffatta può essere amata. E l‟amore cristiano, la carità, è impregnato del sentimento di dolore verso il Bene, rappresentato dalla passione di Cristo in croce. La compassione partecipa del dolore della Sua finitezza senza ignorarne la grandezza divina. “La compassione per la fragilità [delle cose belle] è sempre legata all‟amore per la veritiera bontà, poiché noi sentiamo intimamente che le cose veramente belle dovrebbero essere garantite da una esistenza eterna, e non lo sono”. 550 “Solo un tale amore è vero e giusto”, 551 perché spirituale e l‟unico in grado di trasfigurare la misera condizione umana, estendendosi oltre ogni frontiera nazionale, essendo la compassione “universale per

547

Ivi, pag. 1109. Ivi, pagg. 1115-1119. 549 Ivi, pag. 1120. 550 Ivi, pag. 1134. 551 Ivi, pag. 1135. 548

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natura”.552 Il dolore umano è maggiormente sentito dal popolo, il quale “detiene il monopolio di una conoscenza che forse è la più importante di tutte, quella del dolore come una condizione reale”, e dunque in virtù di essa è in grado di sentire il valore delle cose che meritano di essere sostenute e protette. Se si potesse stabilire un collegamento privilegiato tra la patria e il popolo, anziché con lo Stato, ogni sofferenza nazionale acquisterebbe un valore esistenziale collettivo. Solo infatti la compassione per la patria può conferire alla pace civile un carattere di sacertà che invano Montesquieu ha cercato di far rivivere ma che mancò tragicamente agli uomini dell‟89. 553 Fin dai tempi di Carlo VI e fino alla Rivoluzione, la Francia all‟immagine del mondo è stata il paese della tirannide e dell‟assolutismo politico. 554 Lo Stato, per risorgere emendato dai suoi tragici errori moderni, deve superare il tradizinale principio di legittimità, che “non può più avere un carattere storico, ma procedere dalla fonte eterna di ogni legittimità”, inscritta al fondo di ogni anima, rigettando “l‟idolatria dello Stato legata alla concezione patriottica romana”, il male comune che si annida tanto nella forma nazionalista che comunista.555 L‟idea che il popolo sia depositario del senso tragico della vita, costituisce la premessa di quella per la quale il Potere deve trovare un rimedio, e che sta alla base del sillogismo populistico totalitario. Non a caso, sia la Roma imperiale che il III Reich hitleriano riponevano sul popolo, ossia sul consenso delle masse, la legittimazione del Potere, sia pure contemperato a Roma dalla auctoritas senatoria. D‟altro canto era stata la stessa Weil a ricordare il carattere naturalistico delle masse a proposito della loro condizione umbratile rappresentata dal mito della caverna nella Repubblica platonica. E poi si è visto il grado di partecipazione emotiva del popolo verso la sofferenza umana dai tempi del processo a Gesù fino all‟esecuzione della famiglia reale in Francia durante la rivoluzione. Il pregiudizio rousseauiano sulle qualità morali

552

Ivi, pag. 1136. Ivi, pagg. 1137-1139. 554 Ivi, pag. 1148. 555 Ivi, pag. 1141. 553

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del popolo, non soltanto urtava la sensibilità culturale dei Greci, ma riproponeva l‟antagonismo sociologico tutto moderno tra il supposto elemento virtuoso della società civile, rappresentato dai ceti popolari produttivi e meno esposti alla civilizzazione, e i settori dirigenti, corrotti dalla stessa Weltanschauung di cui erano i rappresentanti ideali. Questo antagonismo, che era alla base di ogni teoria democratica moderna, giustificava ideologicamente la rivoluzione delle masse, ma non chiariva la questione essenziale della eticità del Governo rispetto al mero esercizio della forza del Potere, spostandone i termini dalla funzione alla rappresentanza. Infatti, il problema cruciale del moderno non era chi comanda, se il re o il popolo (nei soviet o nel parlamento o nel duce), ma per che cosa. Rimossa la questione essenziale del fine etico, ossia del Governo dello Stato, la politica si riduceva alla titolarità dell‟esercizio del Potere, essendo del tutto contingente il ruolo di chi lo deteneva. Da qui discende sia la lotta di emancipazione dello Stato politico dal controllo morale della Chiesa, che le lotte rivoluzionarie dei movimenti liberali prima e democratici poi, tutti assertori della autonomia della politica dalla morale, ossia del “corpo” sociale dalla “anima” razionale di cui parlava il Socrate del Gorgia platonico. La soluzione propugnata dalla Weil, di collegare il corpo sociale al Potere razionale in vista di uno Stato illuminato, o, come lei si esprime, “spiritualizzato”, ripropone in termini mutati l‟utopia politica razionalistica della identità del modello ideale (di Stato) con gli enti (sociali) molteplici, propugnata originarimente dalla Repubblica. Ma tale identità è la radice teoretica del totalitarismo politico, rappresentando l‟estremo esito moderno del razionalismo naturalistico greco, negatore dell‟origine divina del Governo e assertore della sola forza del Potere. Per sortire dalla dimensione naturale e raggiungere quella spirituale occorre infatti una mediazione, indicata dal termine Logos, che significa, più che parola, relazione. 556 A partire dal Rinascimento, l‟attività pubblica ignora l‟idea di un‟azione pubblica finalizzata all‟educazione nazionale, intendendola solo in quanto strumento di potere finalizzato a conseguire determinati scopi. 557 E‟ tempo che si

556 557

Ivi, pag. 1144. Ivi, pag. 1145.

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affermi, in conseguenza della fede in Dio, il principio del Bene spirituale come un postulato valido in ogni caso e tempo e per ogni aspetto della vita umana, anche di coloro che sono lontani dalla Sua grazia, in quanto assoluto e unico. 558 Infatti, “una delle verità fondamentali del cristianesimo”, aggiunge significativamnte la Weil, “è che il progresso verso una minore imperfezione non nasce dal desiderio di minore imperfezione, ma solo il desiderio di perfezione ha la virtù di distruggere nell‟animo umano la parte di male che la insidia”. Ossia, il presupposto greco della guida del sapere viene superato dalla visione spiritualistica cristiana, che non si affida più alla sola ragione per conseguire i suoi obiettivi di ben-essere politico ma si affida alla verità della fede in Dio, cioè di un valore assoluto non prodotto della sapienza umana. E ciò comporta di conseguenza che “la politica, come l‟arte e la scienza, necessita del supporto dell‟immaginazione creatrice” dell‟uomo, in funzione degli obiettivi di conseguimento del Bene, mentre invece essa “da secoli viene considerata solo o principalmente come la tecnica dell‟acquisizione e della conservazione del potere”. 559 Emerge chiaramente dal discorso della Weil l‟esigenza non più procrastinabile di fronte alla dissoluzione della civiltà europea di porsi su di un piano valoriale meta-politico, andando oltre l‟orizzonte culturale del moderno, incentrato sulla concezione taumaturgica del Potere come tecnica razionale di controllo sociale, in vista di un suo inveramento nell‟opera di Governo, ispirata all‟autorità della verità eterna, che è “un bene soprannaturale”560 e dunque garantito da Dio, e non dalla potenza dello Stato. Questo può cancellare civiltà e popoli sconfitti in guerra, ma non può andare oltre la realtà dei fatti da esso stesso prodotti, senza attingere la verità comune. Da qui l‟impossibilità di eleggere la Storia come il campionario documentale della realtà comune ai vinti e ai vincitori. La Storia infatti “non è altro che un catalogo di deposizioni rese dagli assassini in merito alle loro vittime e a se stessi”,561 sicché volervi entrare significa “accettare l‟influenza

558

Ivi, pag. 1152. Ivi, pag. 1163. 560 Ivi, pag. 1165. 561 Ivi, pag. 1168. 559

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sovrana della forza”.562 La differenza tra la verità e la forza risiede nel valore terno della prima e della opinabilità della seconda. Ciò vuol dire che i termini che separano dalla verità sono una progressione verso o da la menzogna. La stessa idea moderna di progresso”è un sottoprodotto della menzogna che ha fatto del cristianesimo la religione romana ufficiale”, che ha condotto a “una concezione storica e temporale della Redenzione, anziché un‟opera eterna”. Questa concezione secolarizzata, storicizzando gli orrori umani facendone quasi una “moda” del tempo, è oggi diventata “il veleno della nostra epoca”. 563 La Storia è la rappresentazione della realtà del male di questo mondo, è molteplicità di eventi, e dunque chaos, mentre l‟ordine è nel Bene “che è uno”. 564 La mala pianta produce,evangelicamete, cattivi frutti, mentre la buona ne produce buoni. E solo i buoni sono da amare perché derivano dall‟albero della santità, così come i cattivi da quello della scienza, dal quale derivano tutte le “mostruosità attuali” del mondo, in ogni campo, da quello della storia a quello dell‟arte. 565 Le leggi universali della scienza sono quelli della natura, il cui principio direttivo è la forza. Se non si voglia sottomettere anche l‟uomo al principio universale della natura, occorre trovarne un altro, che confuti “la supposta meraviglia del sottile meccanismo in base al quale la forza, entrando in contatto con la sfera delle relazioni umane, produce automaticamente la giustizia”, all‟unica condizione che la forza abbia l‟aspetto del denaro, escludendo anche l‟uso delle armi e del potere politico. La verità è che se la forza fosse veramente sovrana, non potrebbe esserci giustizia, che invece alberga al fondo di ogni cuore umano, la cui “struttura è una realtà tra le altre di questo universo, allo stesso titolo della traiettoria di un astro”, per cui il senso della giustizia non può essere rimosso completamente dall‟azione umana. 566 E se è vero che la giustizia sia una realtà inestirpabile dal cuore dell‟uomo, essa fa parte di questo mondo, e dunque “è la scienza moderna che ha

562

Ivi, pag. 1169. Ivi, pag. 1171. 564 Ivi, pag. 1174. 565 Ivi, pag. 1176. 566 Ivi, pag. 1179. 563

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torto”.567 Essa infatti, per la Weil, ha perduto il senso religioso che aveva presso i Greci, e per l‟avversione che essa suscita nello spirito religioso, ha impedito al cristianesimo di estendere compiutamente “la virtù della probità intellettuale” provocando di converso il fenomeno della irreligiosità popolare, quale conseguenza della incompatibilità con la scienza, sapere emancipato e cittadino. 568 L‟avversione tra religione e scienza spiega anche il ruolo marginale del cristianesimo nella lotta contemporanea contro il male, 569 tanto che”si può affermare senza esagerazione che oggi lo spirito di verità è quasi del tutto assente dalla vita religiosa”. 570 E perciò “sarebbe singolare che fosse presente nella vita profana”, anche se i dotti esigono che si riservi alla scienza una devozione religiosa. Ma “la scienza non è un frutto dello Spirito di verità”. Infatti la ricerca scientifica, a partire dal sec. XVI, non ha come fine “l‟amore della verità”. Esiste un criterio universale e scuro per riconoscere la qualità di una cosa, consistente nell‟individuare il grado di bontà contenuto nell‟intenzione che l‟ha prodotta, che è lo stesso bene contenuto nella cosa. La concezione che domina una attività è infatti compatibile con alcuni fini e non con altri. Il primo articolo di fede per migliorare la condizione umana è di stabilire quali concezioni sono veramente compatibili con i fini autenticamente puri e quali invece intaccate da errori. “Ritenere che vi siano molteplici beni distinti e reciprocamente indipendenti, come la verità, la bellezza, la moralità, è peccare di credenza politeistica, e non permettere alla fantasia di giocare con Apollo e Diana”. 571 La conoscenza di nozioni scientifiche non equivale a sapere la verità. La verità è infatti sempre legata a un oggetto d‟amore, e “l‟oggetto d‟amore non è la verità ma la realtà”, per cui si ama solo ciò che è reale ed esistente a cui di pensi, sicché, più propriamente, “la verità non è un oggetto reale ma il disvelameto (l’éclat) della realtà”. Desiderare la verità significa dunque avere un rapporto diretto con la realtà, e avere un contatto diretto con la realtà significa appunto amarla. “Si desidera la

567

Ivi, pag. 1180. Ivi, pag. 1181-1182. 569 Ivi, pag. 1183. 570 Ivi, pag. 1184. 571 Ivi, pag. 1185. 568

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verità solo per amare nella verità. E si desidera conoscere la verità solo di ciò che si ama, per cui,invece di parlare di amore della verità, sarebbe meglio parlare di spirito di verità nell‟amore. Infatti, l‟amore autentico e puro desidera sempre anzitutto situarsi interamente nella verità, qualunque essa sia, incondizionatamente, laddove ogni altro tipo di amore mira più che altro a conseguire delle soddisfazioni, e perciò stesso è fondato sull‟errore e sulla menzogna. Solo l‟amore reale e puro è in se stesso spirito di verità, ossia Spirito Santo”. Quello “spirito di verità” che i Greci indicavano come “alito di fuoco” ( ) e i moderni designano come “energia”: “l‟energia della verità”. 572 A partire dal Rinascimento, la ricerca scientifica ha prescisso dalla considerazione del bene e del male, interessandosi dei fatti in quanto tali, anche quelli spirituali, senza alcuna relazione al bene, per cui il suo oggetto non aveva niente che il pensiero umano potesse amare. 573 Gli scienziati moderni sono più preoccupati degli effetti mondani e inferiori della loro ricerca, come onori gloria e ricchezze, che non degli scopi benefici, come invece facevano i veri “amanti della sapienza divina” come Pitagora e Platone. Ma “dopo la sparizione della Grecia, non abbiamo avuto più filosofi”, ma solo seguaci dell‟opinione pubblica dominante in un mondo in cui la facilità di comunicazione ha trasformato la comunità scientifica in un villaggio dove tutti si conoscono e dove è la ristretta opinione collettiva interna a dare credibilità alla scienza.574 “Oggi lo spirito di verità è pressocché assente dalla religione come dalla scienza e dal pensiero nel suo insieme”, e tutto il male e le atrocità in cui ci dibattiamo nel nostro tempo provengono da lì. Il rimedio è riconquistare lo spirito della verità, riportandolo tra noi a partire dalla religione e dalla scienza, che andrebbero perciò riconciliate, ponendo come unica materia di studio “l‟amore del suo oggetto”, che è poi “l‟universo in cui noi viviamo”, per cui “la vera definizione della scienza è lo studio della bontà del mondo”.575 Il mondo può essere conosciuto in quanto esso stesso pensiero, e il sapiente ha per fine l‟unità del proprio spirito con la

572

Ivi, pag. 1186. Ivi, pag. 1187. 574 Ivi, pag. 1189. 575 Ivi, pag. 1191. 573

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misteriosa sapienza di cui è costituito ill mondo, sicché non può esserci alcuna separazione od opposizione tra scienza e religione, dal momento che “l‟indagine scientifica non è che una forma di contemplazione religiosa”.576 Questa conclusione del discorso della Weil è già inscritta nelle due possibilità fondamentali dell‟ontologia greca, che pensa l‟Essere oggetto del pensiero come l‟unità della stessa realtà della natura, ossia l‟idea unitaria degli enti moteplici. La spiritualizzazione dell‟Essere non è pertanto che l‟affermazione del primato dell‟unità del pensiero, ossia della forma ideale sugli enti particolari, pensata non come Natura (materialismo) ma come Spirito (idealismo). Ma ciò che non viene considerato qui, come già nella metafisica greca, segnatamente nell‟amato Platone, è l‟in-possibilità del Bene a costituirsi come valore universale e nello stesso tempo con-prensivo della totalità del‟Essere, che la Weil chiama “mondo”. L‟amore filosofico che lei ripropone, infatti, determina una scelta esclusiva a favore dell‟oggetto della conoscenza, laddove l‟amore in senso cristiano, proprio perché non è una conoscenza ma una fede nella verità, è un sentimento inclusivo anche di ciò che non è amato dalla scienza, il negativo, anche del nemico politico. L‟unità del Bene non è dunque la totalità del creato, compreso il regno di Cesare, ma solo l‟unità ideale degli enti; non anche la Storia profana, in cui agiscono gli uomni comuni, ma solo la Storia sacra, in cui operano i santi. La luce cristiana non riflette solo i mistici, ma sia i buoni che i cattivi, e come il sole e la pioggia del Vangelo di Matteo, è “mélangé de mal”. Ma questo non riguarda il presunto carattere “impersonale” e “imparziale” della Provvidenza, come vorrebbe la Weil, secondo la quale la “trasformazione” subita dal cristianesimo diventando religione imperiale romana consisterebbe nella dimensione “personale” acquisita dalla Provvidenza,577 ma bensì la differenza radicale tra la storia come processo collettivo in cui agisce l‟uomo naturale, soggetto alle leggi della  che regolano il cosmo, e la storia della salvezza spirituale del singolo uomo partecipe del  divino. Il senso cristiano della mediazione del Logos divino, interessa il rapporto tra l‟esistenza terrena

576 577

Ivi, pag. 1192. Ivi, pag. 1192.

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nel tempo storico, e la “vita eterna” di cui diceva Agostino, e non già, come per i Greci, il rapporto tra l‟unità ideale e la molteplicità degli enti reali. Infatti, l‟unità del Bene di cui parla la Weil non è il Dio personale delle Scritture, ma il dio dei filosofi, ossia l‟unità metafisica delle scienze di cui parla Aristotele: una Idea teo-logica. Il limite del pensiero greco è nella sua ontologia naturalistica, che proietta nella esperienza umana quelle leggi del cosmo naturale che interessano la specie biologica,578 ma che non sono risolutive dell‟aspetto più problematico dell‟esistenza dell‟uomo, la sua singolarità spirituale, la cui libertà enrando in tensione con la necessità delle leggi cosmiche era l‟oggetto delle tragedie greche. La fede ( ) spiritualistica cristiana non ingaggia un  con il destino, come gli eroi tragici, ma rappresenta un altro piano di realtà rispetto a quello naturalistico comune, un piano nel quale le ragioni comuni e universali lasciano il posto al rapporto unico e personale della coscienza con la verità di Dio. E questa verità, quando è conseguita, a differenza di quella razionalistca e scientifica, non può essere universalizzata, ma solo testimoniata come evento di Grazia, ossia come un miracolo. Questo non va infatti inteso in senso schmittiano come lo “stato d‟eccezione” rispetto alla regola normativa, ma come l‟emersione dell‟eterno nel tempo, ovvero la presenza di Cristo che risorge in ispirito in questi singolari momenti della vita dell‟uomo quale figlio di Dio. Dal punto di vista spirituale, i processi collettivi si possono conoscere solo come fenomeni naturali, e quindi impersonali, ma non come una unitaria verità, alla stregua di una esperienza singolare. Questa proiezione idealistica del modello singolare, ha portato a credere a una “verità” universale, sia pure circoscritta alla storia umana, concepita unitariamente come umanità una e uguale, agente e vivente come fosse appunto un uomo ideale. Definito razionalmente, tale ideale d‟uomo divenne il modello filosofico da realizzare nella sfera sociale come homo politicus. L‟universalizzazione razionalistica di questo ideale

578

“A ogni modo d‟essere dell‟animo umano corrisponde qualcosa di fisico”: Ivi, pag. 1195. Ma tale corrispondenza, se può stabilire un rapporto, anche costante e dunque impersonale e oggettivo, tra fenomeno psichico (tristezza) e la sua manifestazione fisica (lagrime), non costituisce però una risposta circa il suo significato spirituale, relativo alla verità, che è ogni volta diverso e dunque di carattere simbolico e soggettivo.

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programma politico è l‟ideo-logia totalitaria, che trasferisce sul piano secolare l‟istanza teo-logica della conversione spirituale ( ). La differenza tra il concetto greco e razionalistico del sapere, e quello cristiano della sapienza consiste nel fatto che mentre la conoscenza scientifica, interessando fenomeni naturali, è universalizzabile, la verità cristiana, interessando un rapporto singolare, non è universalizzabile e costituisce un mistero. Ed è appunto il mistero l‟oggetto della sapienza spirituale, e non il mondo in cui si vive, che è invece oggetto della scienza. In tal senso la “realtà ” naturale è sempre “conforme alla volontà di Dio”579 in quanto stabilita nelle sue leggi fisiche, ma rispetto alla questione del bene e del male, la difformità dal volere di Dio può sussistere in quanto gli eventi sono di natura spirituale, e perciò relativi alla libertà morale dell‟uomo pneumatico. E proprio la possibilità di tale libertà fa dell‟esperienza singolare dell‟uomo un mistero, cioè un evento in-prevedibile, non soggetto a leggi universali, e dunque neppure a quelle del Potere dello Stato politico razionalizzato. La consapevolezza della originalità della condizione umana rispetto a quella di ogni specie animale determina l‟esigenza imprescindibile di un contemperamento del Potere politico, detentore della forza sociale, da parte del Governo morale, custode dei valori trascendenti della comunità umana. Da questo consapevole punto di vista, il moderno processo di secolarizzazione culturale delle società occidentali rappresenta un fenomeno di imbarbarimento della civiltà, ideologicamente spacciato per un “progresso” civile, che condurrà vieppiù a una progressiva dissoluzione sociale e delle relazioni umane, non oppugnabile da alcuna tecnica del consenso democratico, essendo lo stesso criterio consensuale espressivo dell‟obnubilamento epocale del senso morale della esistenza dell‟uomo. Fuori da questa visuale governamentale, la stessa critica della Weil al regime schiavistico romano580 rappresenta una questione di tecnica del consenso, che non chiarisce i termini del rapporto tra l‟antica e la nuova forma di Potere assoluto, al quale verrebbe a contrapporsi solo un cristianesimo mistico, nel quale, senza un referente di diritto, lo stesso concetto di obbligazione morale avrebbe una accezione intimistica,

579 580

Ivi, pag. 1198. S. Weil, L’enr., pagg. 1200 sgg.

281


priva di conseguenze esistenziali. Infatti, il concetto del diritto è “mélangé de bien et de mal” 581 proprio in quanto riferibile a un‟istanza superiore extra-giuridica e appunto morale, la quale a sua volta è superiore al diritto, che deve presupporre sussistente quale condizione della finitezza umana. Presso gli angeli e i santi non c‟è alcun diritto perché non c‟è società. Ma non c‟è neppure alcuna Chiesa e alcun Governo morale. Tutto ciò che è collettivo è spiritualmente impersonale, imperfetto e finito, in quanto agire economico finalizzato a scopi naturali. E‟ questa la dimensione del politico, in cui regna Cesare, e che il singolo può trascendere, ma non negare. Questo il senso della sottomissione al Potere da parte di Gesù, ma anche di Socrate, consapevoli che la sfera politica non può negarsi che politicamente, e perciò affermando implicitamente il suo primato. Essa può trascendersi non consentendo che invada il campo spirituale trasformandolo in campo politico. non ci si può opporre spiritualmente alla violenza che respingendone la logica violenta, la ratio excludendi propria della metafisica greca che ha dato origine alla filosofia quale logica della politeia, che definisce un ambito separato dai rapporti naturali dominati dalla famiglia tribale. Il problema esistenziale per l‟uomo non è di gareggiare con la forza, del Potere come della Natura, nel tentativo di sottometterla, ma di concepirla come un limite alla libertà dello Spirito, il quale a sua volta, sussistendo nel suo orizzonte di realtà, chiede di fare lo stesso al Potere nel riconoscerlo come un limite alla sua forza. Da qui la necessità di un “equilibrio”, alternativo alla lotta quale costitutivo dell‟ordine, naturale come sociale. E da questa necessità d‟ordine discende il ruolo essenziale del Governo morale per l‟equilibrio del Potere. L‟orientamento infausto del costituzionalismo moderno è stato invece quello di intendere l‟equilibrio del Potere come una questione normativa interna alla sfera politica, ossia come un equilibrio istituzionale tra corpi parimenti informati allo stesso criterio razionale di forza tendente ad affermarsi contro altre forze concorrenti. La conseguente “poliarchia” derivatane, con il suo portato di disordine politico e di ininterrotto conflitto istituzionale tra poteri gelosi del loro orticello di sovranità, è l‟equivalente della disordinata akosmìa di cui rabbrividiva il Socrate del Gorgia e che oggi viene stoltamente

581

Ivi, pag. 1202.

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decantata come “società democratica”, in virtù di quel pregiudizio rousseauiano di cui è vittima anche la Weil, e che invece è l‟incarnazione sociologica della “Bestia sociale”. 582 Il chaos è l‟indeterminato di Anassimandro, “dal quale ha nascimento ogni cosa e a esso ritorna”, 583 cioè il presupposto da cui si origina la determinazione logica, il Mito, presso il quale l‟essere razionale coesiste col suo non-essere. ma sortire dal Mito non si può negandolo e rimuovendo la sua complessità con l‟ordine della sua negazione. E‟ assurdo che l‟accordo si trovi sopprimendo il deuteragonista senza sopprimere lo spirito polemico, che rinasce all‟interno dell‟animo del solitario superstite. Ma questa assurdità è il parricidio all‟origine della filosofia, che nasce appunto uccidendo il Mito da cui è nata, trasformando la sua accogliente indeterminatezza in esclusiva negatività e assegnando alla ragione, non già una consegna d‟ordine avente per fine l‟armonia della differenza, ma un imperativo polemico di affermazione universale della sua esclusività, conseguita attraverso una radicale trasformazione del mondo-della-vita in cosmo razionale, che volendo rinchiudere l‟uomo della moderna società razionalistica nella “gabbia della civiltà” di cui parlava M. Weber, l‟ha invece contraddittoriamente destinato a una dissoluzione radicale di ogni ordine sociale e valoriale. Infatti, contrassegnando come “negativa” ogni differenza dal dato unitario razionale, ha abbandonato a se stesso il molteplice, anziché armonizzarlo riconoscendolo, provocandone quindi l‟anarchia, che è la condizione propria del misconoscimento. Il vero principio d‟ordine, infatti, non è l‟affermazione forzata della universale reductio ad unum per esclusione della molteplice differenza, che il Potere assoluto considera ostile alla sua forza, ma l‟armonia del Governo delle differenze per mezzo del Potere.

582

“Per purificare il male, non c‟è che Dio o la Bestia sociale”, scrive infatti la Weil in un suo quaderno, “L‟Anticristo è l‟incarnazione della Bestia sociale. La purificazione consiste nella licenza illimitata. Tutto è permesso per servire la Bestia. Tutto è permesso anche per servire Dio. ma non si può servire Dio, che è altrove, nei cieli. Noi aspiriamo solo a rigettare l‟intollerabile fardello della coppia dei contrari bene-male, fardello assunto da Adamo ed Eva. Per questo occorre mescolare „l‟essenza del necessario e quella del bene‟, o uscire da questo mondo”: Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 203. 583 Cit. da S. Weil, L’enr., pag. 1208.

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L‟armonia cosmica è il Governo spirituale del mondo naturale da parte di Dio, il quale non può governare allo stesso modo sugli uomini, essendo questi esseri spirituali, aventi in sé una parte divina di eternità che manca agli altri esseri naturali. Una parte che li obbliga moralmente alla responsabilità di governarsi da sé, eleggendo essi stessi un Governo spirituale che, testimoniando della consapevolezza dell‟uomo di quella sua traccia divina, affianchi la forza del Potere naturale indispensabile alla conservazione della specie attraverso le forme istituzionali dell‟organizzazione politica della vita collettiva. Solo attraverso il riconoscimento del Governo spirituale di Dio l‟uomo può amare il suo destino sociale, abbandonando la dissolutoria logica del polemos tra  pervase da libido dominandi,584 e convertendosi invece all‟armonia della carità. L‟amore dell‟ordine sociale è infatti lo stesso amore dell‟ordine cosmico e verso Dio, lo stoico amor fati che onora il creato,585 dal momento che le forze naturali sono dominate dalla necessità, che è la sovranità del pensiero che ne costituisce l‟invisibile reticolo delle sue relazioni immateriali, 586 che ne costituiscono la sua “bontà”,587 per cui “la scienza dell‟anima e la scienza sociale sono entrambe del tutto impossibii se il concetto di soprannaturale non viene rigorosamente definito e introdotto nella scienza a titolo di nozione scientifica, per essere utilizzato con una estrema precisione” 588 ai fini dello sviluppo di una nuova civiltà, del tutto diversa da quella che si è imposta modernamente a seguito dell‟adozione della nozione romana del Potere come asservimento della nuda forza, di cui si è fatta interprete la Chiesa cattolica col suo concetto di ortodossia. 589 Questo, infatti, “separando

584

“I poteri non faranno nulla per diminuire se stessi: anche se lo volessero, non lo potrebbero, a causa della rivalità”: S. Weil, Cahiers, I, tr. it. Milano (1982), 2010 9, pag. 113. 585 S. Weil, L’enr., pag. 1210. 586 Ivi, pag. 1202. 587 Ivi, pag. 1214. 588 Ivi, pag. 1213. 589 “Il totalitarismo moderno è rispetto al totalitarismo cattolico del XIII secolo ciò che lo spirito laico e massonico è rispetto all‟umanesimo del Rinascimento. L‟umanità si degrada a ogni oscillazione. […] Il totalitarismo è un surrogato del cristianesimo. La cristianità è diventata totalitaria, conquistatrice, sterminatrice,

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rigorosamente la sfera dei beni destinati all‟anima, in cui domina il principio di una sottomissione incondizonata del pensiero a una autorità esterna, dalla sfera relativa alle cose dette profane, in cui l‟intelligenza è libera, rende impossibile una reciproca conpenetrazione del religioso e del profano che sarebbe invece l‟essenza della civiltà cristiana”, che stentò a nascere a sud della Loira tra l‟XI e il XIII secolo, ma fu stroncata brutalmente dall‟inquisizione cattolica. 590 Al suo posto ha prevalso la opposta tendenza del Rinascimento, che è all‟origine della nostra moderna civiltà,591] che è in balia del chaos, o come dice la Weil, della “dismisura”.592 Ma perché la dismisura, o smodatezza, sarebbe un male? La stessa Weil lo chiarisce in un appunto a proposito dell‟amore e della conoscenza, allorquando annota che ogni volta che viene superato il limite proprio al loro stato, essi si volgono in altro, cambiano cioè stato, per cui occorre contemplare tale limite per “elevarsi a un‟altra conoscenza”, impendendo all‟amore di convertirsi in odio e alla conoscenza in ignoranza.593 Ciò vuol dire che la considerazione di rapporti tra concetti universali è una conoscenza di enti irreali, puramenti ideali, astratti dalla concretezza della loro finitezza, e pertanto in-esistenti, per cui in ogni caso “il mutamento sarebbe distruzione se non fosse costretto entro i limiti”. 594 Nel caso sociale, il mutamento politico non può sovvertire l‟ordine strutturale dei rapporti umani senza convertire la destinazione finale del sovvertimento in un esito contrario ai suoi presupposti originari. Da qui

perché non ha sviluppato la nozione dell‟assenza e della non-azione di Dio quaggiù. Si è attaccata a Yahweh così come al Cristo, ha concepito la Provvidenza alla maniera dell‟Antico Testamento. Solo Israele poteva resistere a Roma, perché le rassomigliava, e così il cristianesimo nascente portava la maccia romana ancor prima di diventare la religione ufficiale dell‟Impero. Il male fatto da Roma non è mai stato realmente riparato”: Cahiers, III, tr. it. cit., pagg. 204-205. 590 Ivi, pag. 1216. 591 Ivi, pag. 1217. 592 “La vita moderna è in balia della dismisura [che] invade tutto, azione e pensiero, vita pubblica e privata.[…] Non vi è più alcun equilibrio”: S. Weil, Cahiers, I, tr. it. cit., pag. 164. 593 S. Weil, Cahiers, I, tr. it. cit., pag. 314. 594 Ivi, pag. 302.

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l‟impossibilità reale della costituzine di uno Stato assolutamente razionale, ossia ideologicamente totalitario, nel quale fosse rimossa del tutto la negatività logica dell‟agire irrazionale, extra-sistemico, consistendo in esso la libertà propria della volontà umana. La soppressione di questa libertà porterebbe infatti a un cambiamento di status antropologico, tendente ad affermare anche nell‟uomo, e nella sua esistenza sociale, la condizione di necessità naturale propria delle altre specie viventi. Il segno caratteristico della necessità è l‟uniformità, cioè l‟assenza di differenze qualitative. In relazione ai rapporti umani, è una “facile illusione, scambiare l‟espansione per elevazione”, 595 essendo la differenza l‟elemento spirituale della libertà dell‟uomo. Si è liberi dalla necessità, cioè dall‟uniformità naturale, per cui il Bene della libertà si può ritrovare già avendolo in sé, ma non lo si può semplicemente ricevere per atto imperativo. “Perché il bene passi nell‟esistenza, occorre che il bene possa essere causa di ciò che [non essendo libero] è già interamente causato dalla necessità”. 596 Ci si libera dalla necessità, ossia dall‟uniformità indistinta della condizione di natura, limitando il desiderio in volontà, dal momento che “il desiderio è illimitato per natura”.597 E illimitato è l‟universale, che desidera comprendere tutti gli enti reali senza conoscerne concretamente alcuno. Per tale ragione “il desiderio”, gettando il pensiero nell‟illimitato, “è cattivo e menzognero”.598 D‟altro canto, come l‟estrema costrizione sociale porta all‟anarchia, che è il contrario della regolamentazione ordinata della società, così l‟estrema libertà, il libertinaggio, conduce al dispotismo autocratico, che è il contrario della autonomia della volontà da ogni costrizione esterna. Da qui la necessità, spesso ribadita dalla Weil, della “obbedienza” quale spontaneo riconoscimento dell‟autorità esterna che ponga un limite alla nostra volontà, limite in cui consiste la stessa libertà. 599 Essendo la civiltà moderna “fondata sulla quantità”, mancandovi una limitazione qualitativa alla libertà, in essa “la nozione di misura è ovunque

595

Cahiers, I, tr. it. cit., pag. 316. Ivi, pag. 337. 597 Ivi, pag. 322. 598 Ivi, pag. 338. 599 Cahiers, I, tr. it. cit., pag. 136. 596

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perduta”, sicché una libertà meramente quantitativa, ossia estesa indiscriminatamente a tutti allo stesso grado, si perverte in dissoluzione sociale, dove “tutto ne viene corrotto”, [Ivi, pag. 140.] poiché dove tutti comandano, nessuno è comandato, producendosi l‟  di cui trattava il Giorgia. Occorre dunque “proporzionare la distruzione alla conservazione, tenendo conto nel rapporto non solo di ciò che rispettivamente è distrutto e conservato, ma del rischio. Si può distruggere per conservare qualcosa un poco superiore a ciò che si distrugge e che, senza questa distruzione, perirebbe inevitabilmente”. 600 La contesa politica che abbia in palio il mutamento sociale, proprio perché inerente a interessi in conflitto, ognuno dei quali è portatore la parte che propugna o viceversa che resiste al cambiamento, non può essere valutata secondo il rispettivo parametro di giudizio parziale, nel quale caso si affiderebbe infatti alla ordalia della forza la soluzione della contesa, sottraendola alla legittimità di un criterio superiore di giustizia. E pertanto, come giustamente affermato dalla Weil, “la comparazione dei valori non è legittima se non la si fa a un tempo dal punto di vista di ciò che va conservato, dal punto di vista di ciò che va distrutto, e da un terzo punto di vista”,601 necessariamente esterno e superiore alle parti in conflitto, ossia oggettivo, in quanto realmente riconoscibile alle parti, ed eterno, non esposto a capricciose considerazioni di opportunità. E in questa terzietà oggettiva ed eterna consiste la differenza del Bene rispetto alla contingenza e reformabilità e parzialità del male. Infatti, solo “le condizioni di esistenza del bene permettono di concepire una gerarchia nella natura”, 602 altrimenti impossibile fuori del rapporto di forza. Gli estremi dell‟atteggiamento naturale sono il desiderio (piacere) e la paura (dolore), entrambi esposti all‟illimitato, ossia il falso assoluto. “Il desiderio racchiude un‟illusione di onnipotenza; la paura, di impotenza radicale”. Atteggiamenti estremi che al limite si convertono in contrari, per cui “quando il desiderio incontra il suo limite, la paura appare”. 603 Ciò significa che i dati della natura sono costitutivamente instabili,

600

Ivi, pag. 315. Ibidem. 602 Cahiers, I, tr. it. cit., pag. 332. 603 Ivi, pag. 339. 601

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mentre le qualità morali e le certezze esistenziali devono potersi parametrare a elementi eterni e stabili, e per ciò stesso extra-naturali, metafisici, quali non sono né la guerra né , che sono invece “le due fonti d‟illusione e di menzogna tra gli uomini”. 604 La menzogna deriva dalla circostanza che il loro rispettivo termine polemico non ne differenzia la qualità ma solo la posizione contingentemente egemone, per cui la dialettica degli opposti può solo convertire un termine nell‟altro in quanto entrambi astratti equivalenti. In essi il bene e il male possono equipararsi indifferentemente e attribuirsi a una o altra parte, convertendosi nel segno del vincitore. 605 Da qui la necessità di conoscere il Bene, che è pienezza concreta, totalità, e non il male, che invece è astratta negazione d‟essere, pura opposizione avente “carattere d‟irrealtà”.606 Ciò non vuol dire che il male non sia esistente ma solo che non può essere pensato ma solo immaginato. Immaginare il male come reale significa pensare il molteplice (male) come uno (bene), ossia affermare la realtà dell‟astratto negativo come concretezza esistenziale. E porre in essere ciò che essere non-è, significa affermare la possibilità come effettualità, provocandone l‟instabilità verso il suo omologo opposto. Ed è proprio questo movimento la ragione del molteplice e la fonte del disordine denunciata dal Gorgia, che impedisce quel radicamento nell‟essere che origina l‟equilibrio virtuoso nell‟uomo, cioè appunto l‟ordine. Ma perché l‟illimitato è il male? Perché esso tende a superare il limite,607 e dunque a creare il movimento disordinato della instabilità dell‟essere col cambiamento di qualità (metabasis eis allo genos). Ne consegue che solo la limitazione consapevole è virtuosa stabilità e frutto di costante saggezza, ossia costituisce un principio d‟ordine unitario. E l‟ordine è l‟unità delle condizioni di esistenza rispetto alle parti; unità che non appartiene al solo equilibrio delle forze naturali, e cioè non coincide con le parti, legate in vicendevole rapporto causale, ma che, in quanto stabilita su un principio superiore ad esse, “è qualcosa di

604

Ivi, pag. 342. Cahiers, I, tr. it. cit., pag. 350. 606 Ivi, pag. 352. 607 Cahiers, I, tr. it. cit., pag. 361. 605

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puramente umano” che non esiste in natura. 608 Ciò che non esiste in natura, e che dunque non si può avere, in quanto solo il molteplice si ha, ma appartiene solo all‟uomo, cioè l‟unità, è l‟Essere dell‟uomo, trascendente l‟equilibrio puramente naturale e perciò soprannaturale. 609 Dal momento che l‟intelligenza umana, cioè la razionalità secondo la concezione greca, può pensare la realtà naturale del molteplice dell‟ontologia greca, ma non l‟unità trascendente, di conseguenza “lo spirito umano è per natura incapace di pensare quel tutto di cui esso è una parte”.610 Ma se il pensiero naturalistico, il Logos filosofico, è idoneo a pensare l‟Essere di natura, la Physis, esso non può pensare l‟unità trascendente senza degradarla in realtà molteplice, in ente di ragione. E questa indebita trasformazione costituisce il male ontologico, il quale non intacca il Bene in quanto tale, non potendo incidere sulla sua essenza concreta, diversa da quella astratta del male, ma soltanto la sua realtà degradata.611 La realtà degradata del Bene è la sua pensabilità come parte, ossia come ente finito e determinato tra altri enti. Se pensiamo il Bene come Dio, la sua entità naturalizzata non è l‟umanità del Cristo, uomo divino tra uomini, ma un idolo irreale e immaginario spacciato per la verità. Questa è la realtà rappresentata dall‟opinione, quale falsa verità creduta vera. In tal senso, la verità singolare non è l‟opinione gratuita di chi la creda vera, ossia la credenza soggettiva, che ha per risvolto idolatrico la soggettività, ma la verità che, come tale, abita in interiore homine ma non è prodotta ma riconosciuta dall‟uomo, rispetto al quale è altro. Il riconoscimento dell‟alterità è la fonte del dovere, ossia dell‟obbedienza, che libera dalla “necessità vissuta come costrizione”,612 ossia libera dal Potere e dalle relazioni di forza. La non-potenza che ne deriva equivale al superamento del limite della finitezza naturale dell‟uomo e quindi della condizione politica, determinata dall‟orizzonte della paura: del Potere, per chi lo subisca, e di perderlo, per chi lo detenga. Tale “circolo vizioso” fa del Potere quel negativo instabile di cui parlava il Socrate

608

Cahiers, I, tr. it. cit., pag. 365. Ivi, pag. 374. 610 Cahiers, I, tr. it. cit., pag. 379. Corsivo nostro. 611 Ivi, pag. 373. 612 Ved. R. Esposito, Categorie dell’impolitico, Bologna, 1988, pag. 206. 609

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del Gorgia, afferente per la Weil al mondo dell‟imaginatio quale volontà d‟essere di ciò che non-è, quelle “parole d‟ordine” che sono dei “veri e propri „mostri‟ immaginari che popolano il nostro universo politico”,613 i quali traducono in forma ideologica il destino di necessità che grava sulla condizione socio-politica dell‟uomo. Spacciare tale necessità contingente per l‟eternità del Bene, facendo scaturire la infinitezza dal male della finitezza materiale, è per la Weil il contenuto dell‟illusoria idolatria moderna, che “situa l‟illimitato in un ambito essenzialmente limitato”.614 Questa è l‟essenza del Potere, che, rimuovendo attraverso la logica esclusivista del politico il senso della concretezza della vita morale, usurpa la funzione di legittimazione soprannaturale propria del Governo, presentando il male (società, Storia) nelle vesti del Bene trascendente, “incorporato dal sociale allorché questo è inteso come l‟unico livello, vale a dire il livello fuori dal quale non è possibile stabilire relazioni”.615. L‟esclusione di ogni relazione esterna al rapporto paradigmatico stabilito dalla logica del Potere (la  evangelica equiparata alla ) costituisce “l‟atteggiamento tipico del Moderno come portato della secolarizzazione: e cioè la tendenza, condotta a pieno compimento dal totalitarismo, a separare il profano dal sacro e nello stesso tempo a confondere il religioso con il politico”. 616 Da questa confusione ha origine la teologia politica, che pone il successo della forza come sinonimo di virtù divina, 617 risolvendo nel diritto (legalità) la giustizia (legittimità). Il diritto è di parte, e quindi personale e contingente, mentre la giustizia è del tutto, e dunque impersonale e incondizionato. Essendo il dato oggettivo l‟unico reale nella dimensione finita del diritto, la giustizia è la qualità dell‟irreale, ossia, rispetto alla attualità della vita, della inattualità della morte.618 “Noi viviamo in un‟epoca privata di avvenire”, scriveva la Weil nel

613

R. Esposito, Op. cit., pag. 227. S. Weil, Attente de Dieu, cit. da R. Esposito, Op. cit., pag. 230. 615 R. Esposito, Op. cit., pag. 231. 616 Ivi, pag. 232. 617 Ivi, pag. 234. 618 Ivi, pag. 242. 614

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1934,619 consapevole della grave crisi che aveva investito la civiltà europea e lo stesso creduto rimedio ad essa per mezzo della rivoluzione, una di quelle “parole d‟ordine” che avevano incantato la cultura politica moderna, e che aveva dimostrano dolorosamente, dove si era affermata, come in Russia, quanto l‟attesa liberazione dall‟oppressione si era mutata in maggiore oppressione per i lavoratori. 620 La logica del Potere è supportata dalla scienza sociale, la quale, non diversamente dalla complessiva cultura scientifica moderna, ha procurato “la funesta abitudine di generalizzare, estrapolare arbitrariamente, anziché studiare le condizioni di un fenomeno e i limiti che esso implica”.621 Ma spesso l‟esito di tali idee folli e utopiche producono versamenti di sangue, mandando intere masse a morire, pur non avendo, come appunto il caso della parola rivoluzione, alcun contenuto. 622 Per contribuire alla fine dell‟oppressione sociale, bisogna anzitutto distinguerla dalla dipendenza della volontà capricciosa individuale all‟ordine sociale. Infatti, “fin quando esisterà una società, essa incanalerà la vita degli individui entro limiti molto stretti imponendo loro delle regole; ma questa inevitabile costrizione non merita di essere chiamata oppressione che nella misura in cui, a seguito del fatto di provocare una separazione tra chi l‟esercita e coloro che la subiscono, ella metta i secondi alla discrezione dei primi, facendo pesare fino allo schiacciamento fisico e morale la pressione di coloro che comandano su coloro che eseguono. Ma persino in conseguenza di questa distinzione sarebbe possibile in prima istanza supporre, o solamente concepire la soppressione della soppressione alla stregua di un limite”. La questione dunque, non è di eliminare l‟oppressione sociale ma di limitarla a salvaguardia della salute dello spirito e del corpo. 623 A questo fine occorre conoscere “il meccanismo” dell‟oppressione, giungendo a “comprendere in virtù di che cosa essa nasce, sussiste, si trasforma, e per quale rimedio essa forse potrebbe teoricamente sparire”. Secondo

619

S. Weil, Ré flexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale, in Ouvres, cit., pag. 276. Da ora Réflexions. 620 S. Weil, Réflexions, cit., pag. 278. 621 Ivi, pag. 284. 622 Ivi, pagg. 290-291. 623 S. Weil, Réflexions, cit., pag. 291.

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Marx, le cause dell‟oppressione sono oggettive e di origine materiale, dovute alla organizzazione sociale delle forze produttive.624 Ma le sue analisi, per quanto costituiscano un progresso rispetto allamera indignazione sull‟uso smodato della forza sui deboli, non chiariscono la genesi dell‟oppressione, ossia le ragioni per cui la divisione del lavoro debba necessariamente convertirsi in oppressione, perché sussista anche in caso di regressione economica e perché alla sua fine storica lasci il posto ad altre forme. Questa teoria si è fermata alla indicazione di una corrispondenza tra la funzione degli organi naturali nella lotta per la vita, ipotizzata da Lamarck, e la funzione similare degli organi sociali. Ma il principio per cui “la funzione crea l‟organo” non è scientifico, come lo è invece la nozione di “condizioni d‟esistenza” introdotta da Darwin. “Il progresso consiste nel fatto che la funzione non è più considerata come la causa, ma come l‟effetto dell‟organo, rendendone così intelligibile il rapporto, attribuendo il ruolo di causa al meccnismo primigenio (aveugle) dell‟ereditarietà combinata alle variazioni accidentali”, in base al quale “l‟adattamento dell‟organo alla funzione entra in gioco, non più come tendenza misteriosa, ma per limitare la casualità eliminando le strutture non congrue alle condizioni di esistenza, definite dal rapporto che nell‟organismo vivente si stabilisce tra la sua parte inerte e la sua parte attiva che lo circonda, a partire dagli altri organismi simili e concorrenti”.625 Il marxismo dovrebbe rivendicare in materia sociale un progresso scientifico pari a quello ottenuto da Darwin rispetto a Lamarck, ricercando negli sforzi quotidiani dei singoi uomini le cause dello sviluppo sociale, in rapporto alla loro cultura e ai loro bisogni, ma anzitutto in considerazione della stessa “natura umana”, la quale tra le altre caratteristiche annovera “il potere di innovare, di creare, di andare oltre se stessa”, trovando il suo limite nelle condizioni di esistenza alle quali ogni società deve sottostare per non estinguersi. Tali condizioi sono il più delle volte ignorate da parte di coloro stessi che vi sottostanno, col risultato non già di imporre una direzione determinata, ma di vanificare gli sforzi verso quella che esse non consentono, sicché

624 625

Ivi, pag. 292. S. Weil, Réflexions, cit., pagg. 293-294.

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“la buona volontà dei singoli attori sociali illuminata dalla consapevolezza è l‟unico principio possibile del progresso sociale”.626 Questa definizione, in realtà, è non meno aporetica di quella marxiana, lasciando del tutto inespresso il concetto stesso di “progresso sociale”, che qui pare venga inteso come miglioramento delle possibiità dei singoli di fronteggiare le minacce naturali (sociali) che si oppongano alla loro sopravvivenza sociale (naturale). Infatti, tale rappresentazione del progresso e della stessa esistenza umana presuppone uno scenario naturalistico del tutto emendato di ogni prospettiva trascendente, in assenza della quale non si compnde come possa valere la determinazione antropologica individuale rispetto a quella della specie, o quantomeno del gruppo sociale, che soffre gli stessi problemi dei singoli membri. E‟ l‟ipotesi stessa di “condizioni di esistenza” che rimanda a un contesto umano analogamente del tutto equiparato per estensione razionalistica a quello animale, sul presupposto del quale si dispone come soluzione del dramma della vita la stessa premessa pregiudiziale di partenza, ossia che l‟uomo sia nient‟altro che un animale politico dotato di intelligenza pratica. La stessa premessa antropologica aristotelica costituisce l‟agire politico come l‟orizzonte intrascendibile della vita umana, all‟interno del quale il progresso si misura, platonicamente, dal passaggio dalla fase “magica” a quella “scientifica”, accepita nel senso weberiano di un lavoro specializzato. 627 “Sorprendente”, afferma la Weil, “non è il fatto che l‟oppressione vien fuori soltanto a partire dalle forme più elaborate di produzione ecnomic, ma la circostanza che essa sempre le accompagna”, il che dimostra che “tra una economia molto primitiva e le forme più sviluppate, non c‟è soltanto una differenza di livello ma anche di natura”, cioè una trasformazione di “essenza”. 628 Al livello più basso della produzione, i rapporti con la natura sono diretti, senza l‟interposizione umana. A un livello più elevato la pressione della natura si allenta e l‟uomo guadagna una maggiore relativa libertà di iniziativa e di decisione, tale da assicurare un possibile progressivo coordinamento sistematico tra tempo e spazio, passando dalla schiavitù della natura al suo dominio. In questo

626

S. Weil, Réflexions, cit., pag. 294. Ivi, pag. 295. 628 Ivi, pag. 296. 627

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passaggio la natura perde il suo carattere divino e la divinità vieppiù si umanizza. La soggezione si sposta dalla natura all‟uomo, ma rimane comunque un‟oppressione legata, sia pure indirettamente, alla natura, perché subita per mezzo comunque della forza, “e in fn dei conti, ogni forza ha la sua fonte nella natura”. A determinare il grado di oppressione di una forza non è il suo modo d‟uso ma la sua stessa natura, e pertanto il suo carattere oggettivo, che è lo stesso chiunque la eserciti. In tal senso l‟oppressione presenta delle condizioni oggettive, la prima dellequali “è l‟esistenza di privilegi”, i quali non sono stabiliti da leggi o decreti umani o dai titoli di proprietà, ma è “la natura stesse delle cose” a determinarli a seguito della divisione del lavoro, ossia della crescita di rapporti di monopolio settoriali, che pongono fine all‟uguaglianza fra gli uomini.629 Ma i privilegi da soli non bastano a creare oppressione, che la resistenza dei deboli e lo spirito di giustizia dei forti possono ancora addolcire. Più incisivo degli stessi bisogni naturali a determinare l‟oppressione è infatti un altro fattore: “la lotta per la potenza (puissance)”, la quae, come già sapeva Marx, agisce come un destino fatale tanto sui suoi detentori che su chi la subisce. Rispetto alla lotta con la natura, sorda ma definibile entro le sue regole immutabili, la tensione fra gli uomini si articola sia in relazione al rapporto verticale tra forze superiori e inferiori, che al rapporto orizzontale tra pari potenze rivali, determinando un reticolo inestricabile che si alimenta vicendevolmente. Si può sortire da tale circolo vizioso in due modi: “o sopprimendo l‟ineguaglianza fra gli uomini, oppure stabilendo un potere stabile, che ponga in equilibrio i rapporti tra chi comanda e chi obbedisca”. 630 Ma anche questo secondo rimedio, propugnato dai fautori dell‟ordine, da Dante ai reazionari di ogni tempo e financo da onesti pensatori di destra, “a ben vedere si rivela non meno chimerico dell‟utopia anarchica”. Infatti, l‟equilibrio fra l‟uomo e la natura, comunque ottenuto, non può essere interrotto che da un intervento esterno, essendo inerte la materia, mentre gli uomini, essendo “esseri essenzialmente attivi”, determinano anche non volendo un movimento interno a ogni equilibrio, che prelude a uno squilibrio, in modo che lo stesso potere

629 630

S. Weil, Réflexions, cit., pagg. 297-298. S. Weil, Réflexions, cit., pag. 299.

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che determina l‟equilibrio contiene al suo interno una “contraddizione fondamentale” che non lo fa sussistere, rendendolo di fatto impossibile.631 La instabilità del Potere deriva dunque dalla esteriorità della forza che lo determina rispetto a chi lo detiene, il quale può sempre perdere i suoi strumenti di dominio, siano oro, armi, tecnologia o formule magiche. Ma lo stesso ricorso agli strumenti esterni è dovuto a una condizione prioritaria rispetto ai rapporti di forza tra gli uomini, determinandone l‟instabilità, e consistente nel fatto che il dominio dell‟uomo sull‟uomo non sarà mai pienamente accettato dalla coscienza umana, facendo del Potere una fatale follia che lo spinge a rincorrerlo senza mai veramente poterlo ottenere.632 Un elemento spirituale s‟interpone nei rapporti di forza tra gli uomini, trasvalutandoli in una prospettiva estranea al processo naturale che li ha determinati e superiore alla stessa loro oggettività ed evidenza. Una prospettiva trascendente dalla quale essi appaiono sospesi a un giudizio di legittimazione, formulato sulla base di un criterio razionale, di origine divina o umana, che non ha niente a che vedere con la forza, oggetto della sua giustificazione. Il giudizio di legittimità consacra la forza del Potere, la quale in sé è insufficiente a stabilire le proprie ragioni di esistenza, che non siano la sua stessa sussistenza, la sua stessa efficacia concreta e naturale. Ma questa sussistenza non legittimata può determinanrsi nel suo stato solo a condizione di rapportare la forza del Potere a ogni altra forza naturale, ossia come se essa non fosse inerente a soggetti umani, in grado di valutarla. Solo, cioè, trattando l‟uomo come materia non pensante è possibile al Potere fare a meno di esercitare la sua forza contingente fuori da ogni criterio di legittimità trascendente. Solo riducendo i rapporti sociali a rapporti naturali, il Potere può esercitare la sua forza assoluta. Ma poiché tale esercizio si basa su una finzione, che l‟uomo sia un essere meramente naturale e privo di cognizione morale, ecco che il Potere è minato in se stesso da una radicale incongruenza: di voler dominare sugli uomini degrandandone la condizione che li rende preziosi rispetto alla materia e che rendono il Potere a sua volta più appetibile di ogni mero possesso

631 632

Ivi, pag. 300. Ibidem.

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materiale, quella di dirigerne la volontà, di cui la materia è sprovvista. Un Potere senza Governo è l‟esercizio di una forza umanamente degradante, e come tale inaccettabile dall‟uomo, pur abbisognevole di guida. Se dirigere la volontà degli uomini subordinati significa governarli per mezzo di una riconosciuta volontà superiore, invece annichilirla con la forza materiale significa esercitare un Potere meramente naturale su uomini degradati a enti di natura, quale gli uomini non sono. Da qui l‟instabilita di ogni Potere meramente autoreferenziale. La “sostituzione dei mezzi ai fini”, non è altro che la realtà del Potere non consacrato dalla legittimazione morale, dal suo esercizio secondo Giustizia. Un Potere legittimo può essere ingiusto nell‟esercizio della forza non motivato da un principio di legittimità morale. Questo principio, che il costituzionalismo moderno ha inteso identificare con la carta costituzionale, con le tavole della legge suprema, in realtà non è una legge, ma una credenza, cioè un sistema di valori pre-giuridici che coincidono con i fondamenti ontologici della realtà, in base ai quai chi li asseveri crede che essa sia questa e così e non altrimenti. Questo è il senso della raccomandazione di Hegel di non costituire una legislazione che contrasti la tradizione religiosa dello Stato, e che meglio si comprende considerando quanto affermato dalla Weil circa la differenza tra i rapporti di forza sociali e la considerazione che la coscienza umana ne ha. Perché la coscienza sia un valore non di gruppo, cioè una ideologia legata a un interesse politico di parte, ma trascendente, occorre che sia svincolata dal rapporto di monopolio sociale che interessa invece ogni altra attività lavorativa, e che, come abbiamo visto, crea le premesse del potere oppressivo dell‟uomo sull‟uomo. L‟ambito di questa dimensione trascendente, in cui ogni uomo è uguale nella fede a ogni altro membro del gruppo coesistente, il razionalismo greco lo ha identificato con quello della politeia, costituito dai cittadini, che avevano strappato agli dèi il significato della vita al fine di autodeterminarlo e non assumerlo fideisticamente, così come la filosofia (logos) l‟aveva strappato al Mito. Nell‟ambito politico in senso originario greco, non c‟è traslazione di valori teologici ma auto-fondazione razionale dei valori sociali e loro costtuzine ex nihilo. Ed è in tale presupposto che si origine la natura legale di un Potere privo di legittimazione trascendente, sostituita dalla convenzione razionale stabilita dai cttadini (il contratto sociale). La

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costituzione razionale della società politica si fondava pertanto sul presupposto che i tradizionali valori religiosi trascendenti della comunità sociale fossero (potessero essere) sostituiti da valori universali, svincolati dal tempo e dal luogo particolari ai quali invece erano legate le credenze tradizionali. Ma proprio perché il Potere politico veniva emancipato dalla sua origine divina, esso perdeva di conseguenza anche il suo limite trascendente la sua forza, la quale, senza quel limite, si traduceva in puro esercizio di efficacia. Ed è questa situazione di fatto che la coscienza morale non può accettare intimamente, cioè per adesione morale, per convincimento. Un Potere, magariefficace, ma privo di convincimento morale, è instabile e non dura. E la sua precarietà diventa simbolo della sua illegittimità, cioè, romanamente, della sua assenza di auctoritas. Da ciò ne consegue che il Potere, se non voglia essere preda della Nemesi, deve essere limitato, non nel suo esercizio, ossia nella sua efficacia, ma nella sua funzione, cioè nella sua destinazione. A questo riguardo, l‟ipotesi della divisione del Potere in tanti organi di mutuo contrasto che si auto-limitino, è un éscamotage privo di ogni intrinseca ragionevolezza, perché stabilisce un limite interno all‟orizzonte di Potere e quindi sempre superabile. La Giustizia invece è esattamente quanto non può essere modificata dall‟azione umana, e perciò divina e trascendente, eterna e imparziale, costitutiva del contenuto dell‟attività di Governo. In tal senso, pensare che la Giustizia possa essere esercitata da un organo costituzionale distinto dal legislativo e dall‟esecutivo, come quello magistraturale, è una pia illusione, non dissimile da quella che vuole limitare il Potere politico frantumandolo e ostacolandolo nel suo esercizio da altri poteri minori o distinti. La lotta ideale tra l‟Impero (e quindi lo Stato nazionale) e la Chiesa non è tra poteri politici concorrenti, ma tra l‟idea del Governo morale della società e l‟idea dell‟auto-determinazione razionale del Potere assoluto che superiorem non recognoscens. Ed è proprio questo Potere che la coscienza morale a sua volta non riconosce. “I capi possono sogare di moderare il Potere, ma questa virtù è loro preclusa dal rischio stesso del fallimento. […] Quanto agli oppressi, la loro rivolta permanente, che freme costantemente anche se esplode di rado, può risolversi nell‟incerto esito di allentare l‟oppressione ovvero di aumentarla a seguito della paura dei capi di perdere il loro Potere”. Si può giungere a mutare la detenzione del Potere, cioè una “équipe di

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oppressori”, ma non di eliminare l‟oppressione, finendo perciò solo a sostituirla con altra. 633 La logica astratta e perversa del Potere sposterà dalla natura alla vita sociale la lotta per la conquista della sicurezza sottoforma di conquista dei priviegi, per cui, afferma la Weil, “finquando la società resterà divisa tra uomini che ordinano e uomini che eseguono, tutta la vita sociale è destinata alla lotta per il Potere, di cui quella per la sussistenza, per quanto sia un fattore indispensabile, non è che una variante”.634 Questa impostazione, però, concependo l‟equazione tra Potere e forza oppressiva, e tra oppressione ed esercizio privilegiato, è fondamentalmente sbagliata, in quanto non spiega la fisiologia del privilegio ma lo rappresenta solo come elemento patologico del Potere. In realtà, il privilegio esiste perché il Potere è necessario alla vita sociale, e come tale non sopprimibile se non sopprimendo la vita sociale stessa. La patologia nsorge allorquando identifichiamo il Potere con la forza politica, declinandolo come Potere appunto politico. poiché, però, il suo esercizio si esplica verso gli uomini, e non verso enti materiali o membri di altre specie naturali, esso deve tener conto della qualità dell‟essere umano, ossia della sua libera determinazione morale, la quale non è assimilabile al comportamento sociale razionalizzato, cioè legislativamente predeterminato in senso normativo coerente al sistema di Potere, ma deve essere considerato quell‟elemento misterioso che è la singolarità di ogni uomo, che fa di lui un essere avente una coscienza sovrannaturale, e perciò libero. La follia del Potere è la ricerca della negazione di tale libertà umana. Tale tentativo si determina con l‟abolizione del limite alla forza del Potere, rappresentato dall‟autorità del Governo morale, che rappresenta e interpreta la coscienza libera dell‟uomo in quanto essere morale e non in quanto membro politico del gruppo. La duplice fisionomia umana, politica e morale, implica la necessità di entrambe le fonti della sovranità, ossia del Potere e del Governo, le quali assumono aspetto degenerativo solo se operanti fuori del rapporto complementare dell‟una con l‟altra. Solo in quanto il Potere politico sia privo di argine morale, e quindi di Governo etico della società, esso degenera in dispotismo 633 634

S. Weil, Réflexions, cit., pag. 302. Ivi, pag. 303.

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oppressivo e illegittimo, cioè in forza ingiusta. Viceversa, un Governo non supportato dalla forza del Potere esercita il suo carisma sui singoli ma non può proteggerli dalla forza del male, che si anida nella stessa indeterminata molteplicità di opinioni che è la libertà di pensiero, la cui gratuita volontà può essere anche rivolta, per imponderabili motivi, contro il magistero carismatico, come nel caso paradigmatico di Giuda Iscariota verso Gesù. L‟autorità morale non può impedire la libertà che essa difende, e che può esercitarsi anche contro di essa. Ma perciò, per la sua coerentemente libera costituzione, essa rimane autorevole, e moralmente più forte dello stesso Potere che la nega, perché a esso trascendente. Nessuna opera di mero Potere, anche la più longeva ed efficace, può paragonarsi alla memoria dell‟azione riconosciuta come morale, e nessun Impero e nessun Potere legittimo potranno durare nel cuore degli uomini quanto gli esempi eterni di cittadini deboli quali Gesù e Socrate, il cui regno non è del mondo presente ma dell‟altro, quello assente perché inattuale, che non può difendere la vita ma sa vincere la morte. I rapporti di Potere sono rapporti naturali, e come tali insopprimibili, anche se per l‟uomo sono trascendibili. La forza del Potere viene trascesa dalla decisione morale, per cui la sua determinazione non inerisce l‟elemento soggettivo o collettivo dell‟organo decisorio, né se la sua forza sia misurabile sulla base di fattori oggettivi, 635 ma la natura del giudizio. Infatti, una decisione può rimanere puramente politica, ingiusta e oppressiva anche se presa da un organo legale e collegiale, per cui la questione del Potere non è chi decida, poiché anche l‟ordine legittimo di minare Parigi può essere disattesa da chi è tenuto a obbedirvi, a seguito di una decisione diversa e illecita, ma se chi esegue obbedisce solo a un imperativo legale o anche morale. Nel caso della decisione meramente politica, l‟aspetto morale si trasferisce sul destinatario, individuale o collettivo, che si pone la questione della legittimità dell‟ordine legale. La disubbidienza individuale è renitenza, collettiva è la rivoluzione. Quando invece la decisione del Potere è inclusiva della sua legittimazione morale, ossia dell‟autorità del Governo, essa ha il crisma della indefettibilità dell‟obbligo, e non può essere disattesa se non arbitrariamente e senza giustificazione morale. In

635

S. Weil, Réflexions, cit., pagg. 304 e 305.

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tal senso, il “dispotismo illuminato” appare dispotico a chi non lo considera per il verso morale, e invece illuminato a chi ne trascura l‟aspetto legale. Non a caso il carattere puramente politico e secolare assunto dal Potere moderno ha sviluppato per contrappasso l‟ideologia democratica e la tendenza rivoluzionaria, rimettendo al popolo il giudizio di moralità della forza pubblica deprivata di legittimazione morale. Vox populi, vox Dei. Insistere, trattando del Potere, sul suo esclusivo carattere naturalistico di forza politica in equilibrio o in collisione con altre forze sociali, non si andrà oltre la rappresentazione sistemica dell‟idealismo platonico, ma non si renderà la ragione della “opposizione tra il carattere limitato delle basi necessariamente materiali del Potere e il carattere necessariamente illimitato della corsa al potere quali rapporto di relazione tra gli uomini”.636 Infatti, se tale opposizione fosse veramente “necessaria” sarebbe fisiologica, come quella che si determina nelle altre specie viventi, e non problematica come tra gli uomini, che mirano a sopprimerla o a giustificarla. La questione del “limite” al Potere è quella della sua differenza dal Governo. Più ci si avvicina a quel limite e più il Potere diventa illegittimo preludendo alla sua trasformazione nel suo opposto disordine, nella rivoluzione, che è il regime caotico della moltitudine. Viceversa, più si restringe la forza del Potere, e più agisce la responsabilità morale dei subalterni, chiamati a prendere maggiori decisioni per la vita. Non a caso, lo Stato moderno di diritto, in virtù della sua assolutezza morale, minaccia sempre una maggiore instabilità politica rispetto alle più stabili costituzioni sociali tradizionali, più pregne di coesivi valori morali. Parimenti, l‟organismo familiare è diventato più debole man mano che lo Stato ha sostituito le regole della vita religiosa che tradizionalmente lo sostenevano con le regole di diritto, che hanno deresponsabilizzato moralmente i suoi membri, considerati non più partecipanti a una comunità etica vincolata ai doveri della solidarietà affettiva, ma alla stregua di socii di un consorzio economico sorretto dal precario motivo utilitario. L‟espansione del Potere in senso spaziale interno alla società, andando a sostituire i rapporti tradizionali, non diffonde soltanto la sua incidenza ma anche crea le premesse della politicizzazione di settori prima esclusi

636

S. Weil, Réflexions, cit., pag. 307.

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dai rapporti di forza, e quindi potenzialmente concorrenti a indebolirlo. Le forze politiche latenti nella società in realtà erano indirizzate verso altri imegni prima di essere coinvolte nel gioco del Potere, che, una volta appreso, diventa strumentale alla formazione di resistenze all‟ordine costituito e di movimenti centrifughi da esso. Se il segreto della durata al Potere era proporzionale alla capacità delle aristocrazie sociali di limitarlo, da una parte condividendolo con le aristocrazie religiose, e dall‟altro lasciando fuori di esso le masse sociali amorfe, l‟espansione moderna del Potere in senso universale ne ha intensificato la forza di incidenza ma l‟ha anche concentrato in senso temporale, perdendo in durata ciò che ha guardagnato in efficacia. In tal senso, il rapporto tra masse e Potere non è inversamente proporzionale ai due rispettivi termini, per cui non c‟è propriamente, in caso di rivoluzione, un “ribaltamento” di forze attraverso “un fenomeno sconosciuto nella storia” e “inconcepibile”,637 ma va posto in relazione all‟espansione della logica politica a quei contesti sociali in cui non vigeva. E solo a seguito di questa espansione orizzontale le masse coinvolte – direttamente o, più spesso, indirettamente attraverso i loro rappresentanti – diventano dialettiche alla forza del Potere. ma perché ciò avvenga, è necessario e concomitante che i destinatari del Potere ne avvertano la debolezza morale, e ciò avviene quando le aristocrazie sociali perdono la loro ascendenza carismatica quali rappresentanti dei valori e mediatori sociali tra essi e le masse. Paradossalmente, il Potere dello Stato secolarizzato è entrato in crisi allorquando si è arrogato il compito di educare il popolo provvedendo a formarne la coscienza civile in luogo della tradizionale pedagogia religiosa. In questo modo, infatti, ha soltanto fornito alla libertà dell‟uomo il supporto di una coscienza politica, offrendo a quella libertà morale gli strumenti polemici della lotta per il Potere, concorrente a quello costituito. L‟unico modo per controllare il Potere è di limitarlo a favore della coesione sociale, e cioè verso l‟alto e verso il basso, facendo di esso il mediatore tra cielo e terra. Politicizzare il corpo sociale equivale invece a rendere tendenzialmente superflua quella mediazione, privandola di autorità carismatica, inducendo all‟illusione

637

S. Weil, Réflexions, cit., pag. 309.

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dell‟auto-determinazione del corpo sociale che è il movente ideologico dello sradicamento sociale moderno. L‟equilibrio politico si stabilisce sui rapporti di forza antagonistici, cioè sulla efficacia Potere, mentre l‟autorità carismatica sul riconoscimento delle masse del ruolo mediatore delle aristocrazie sociali, cioè sul loro valore moralemente simbolico. E‟ sulla portata di questo valoremorale che incide in senso distruttivo l‟espansione della logica politica, che proprio in quel valore implicitamente si sostiene, sicché si può dire che anche il Potere assoluto, come già la filosofia verso il Mito, si costituisce commettendo un parricidio, sopprimendo il suo archetipo. Ciò che nella società arcaica e pre-politica in senso razionalistico era il bisogno di protezione dalla forza della natura, nella società civilizzata viene sostituito da un altro bisogno, quello dell‟ordine sociale, 638 informato a valori gerarchici relativi al ruolo delle aristocrazie interne, depositarie di quei valori creduti eterni. La politicizzazione della società civile, speculare alla socializzazione della politica, ha sostituito la legittimità trascendente con la legittimità immanente al Potere stesso, ossia la legittimità soprannaturale 639 con la legalità della forza, lasciando esposto il Potere moralmente dall‟alto e sociologicamente dal basso, rendendo strutturalmente debole la sua accresciuta potenza contingente. Al capriccio divino il Potere assoluto ha sostituito l‟arbitrio del principe,640 illudendosi di poter surrogare al carisma trascendente l‟efficacia tecnologica.641 Ma a fronte della esistenza eterna degli dèi, l‟arroganza della memoria politica di Pericle è davvero poca cosa, come la durata delle religioni civili dei totalitarismi ideologici rispetto ai tempi della fede della Chiesa. 638

S. Weil, Réflexions, cit., pag. 311. “Quel che c‟è di soprannaturale nella società è la legittimità”, e “non può esserci legittimità senza religione”: S. Weil, Cahiers, III, tr. it. Milano, 1988, pag. 267. 640 “L‟obbedienza a uomini la cui autorità non è illuminata dalla legittimità, è un incubo. […] L‟esistenza di un‟autorità legittima stabilisce una finalità negli atti della vita sociale, nel lavoro: una finalità diversa dalla sete di accrescersi (unico motivo riconosciuto dal liberalismo). […] La legittimità è la continuità nel tempo; la permanenza; un invariante. Essa dà come finalità alla vita sociale qualcosa che esiste e che è concepito come esistito da sempre e che sempre deve essere. essa obbliga gli uomini, in tutti gli atti della vita sociale, a volere esattamente ciò che è”: S. Weil, Cahiers, III, tr. it. cit., pag. 270. 641 S. Weil, Réflexions, cit., pag. 310. 639

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